Petrarca in Barocco. Cantieri petrarcheschi. Due seminari romani
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Amedeo Quondam INTRODUZIONE

Questo volume raccoglie gli atti di due seminari romani che si sono svolti nell’autunno del 2001 e in quello del 2002; e precisamente: «Edizioni di lirici petrarchisti del Quattrocento e del Cinquecento» (30 ottobre 2001), «Petrarca in Barocco» (23-25 ottobre 2002). Entrambi sono stati programmati come tappe di un percorso di studio triennale – ormai concluso – sulla tradizione della poesia lirica di Francesco Petrarca nella cultura letteraria italiana dal Quattrocento al Novecento, che si è articolato in diverse altre occasioni seminariali: «I territori del Petrarchismo: frontiere e sconfinamenti», «Petrarca nel Settecento e nell’Ottocento», «Petrarca nel Novecento italiano». La progettazione e la realizzazione di questo ampio programma di seminari è stato possibile grazie alla costante collaborazione di Floriana Calitti e Roberto Gigliucci all’intero progetto, e all’apporto specifico, nelle varie occasioni, di diversi colleghi, che ringrazio: Stefano Carrai, Andrea Cortellessa, Roberto Fedi, Sandro Gentili, Alessandro Martini, Cristina Montagnani, Luigi Trenti. Con il loro aiuto, posso assumere l’impegno a pubblicare al più presto, dopo questo primo volume, anche gli altri. Il programma complessivo è stato progettato mirando a un obiettivo finale che vorremmo di alto profilo, cioè all’organizzazione di un convegno internazionale dedicato ad analizzare l’esperienza del Petrarchismo europeo nei suoi costitutivi rapporti con la poesia in musica («Petrarca, Petrarchismi: modelli di poesia per l’Europa»), che si svolgerà a Bologna nell’autunno del 2004, in collaborazione con il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna e con il Comitato Nazionale per il settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca istituito dal Ministero per i beni e le attività culturali, che ha sostenuto e cofinanziato l’intero programma dei seminari romani e del convegno bolognese: colgo ben volentieri l’occasione per ringraziare sentita-

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mente il Comitato nazionale, nella persona del suo Presidente, il collega e amico Michele Feo. Sono lieto che gli atti dei due primi seminari romani siano pubblicati proprio all’inizio dell’anno dedicato alle celebrazioni petrarchesche, che si prospetta fittissimo di eventi, e, in particolare, sono lieto che la pubblicazione avvenga a ridosso di quel convegno conclusivo del programma triennale di studi e confronti tra studiosi: come dimostra (me lo auguro) il denso volume che qui presento, ritengo che sia proprio questo il modo più produttivo per affrontare il calendario delle scadenze celebrative. Un modo non effimero, per più aspetti “petrarchesco” e “petrarchistico”: in forma di libro. Senza entrare nel dettaglio dei contributi qui raccolti, che non hanno certo bisogno delle mie chiose, mi limito a una sola considerazione generale: penso che possano tutti confermare, singolarmente e nel loro insieme, quanto sia positiva l’attuale congiuntura degli studi sulla tradizione lirica (e, più in generale, sulla poesia) nell’età moderna. Non sono solo agguerriti negli strumenti filologici e critici, sono anche consapevoli del problema che sovrasta lo studioso dei generi e delle forme, dei modelli e delle pratiche, della poesia d’Antico regime, e che riguarda la loro collocazione e valutazione nella più complessiva storia (e idea) della nostra letteratura moderna: il consolidato, e per tanti aspetti irriducibile, paradigma storiografico, classicistico prima e storicistico poi (con la sua borsa valori e conseguente canone), ha infatti assunto proprio la poesia (e in particolare la lirica) come il vettore primario della “crisi” e della “decadenza” delle patrie lettere nella lunga durata che ha connotato in negativo l’esperienza di poeti cortigiani, poeti petrarchisti, poeti marinisti, poeti arcadi; da Bembo a Metastasio, da Tebaldeo a Monti, insomma. Sin troppo facile ricordare: poeti di vuote forme, poeti dell’orecchio, poeti poco seri e troppo effimeri, per di più piatti imitatori (anzi, scimmie), poeti senza poesia, e via dicendo. Da questo punto di vista, mi pare subito rilevante l’impatto della sezione di studi della prima parte del volume, raccolti sotto il titolo di «Petrarca in Barocco» (l’impianto del seminario deve molto alla disponibile competenza di Alessandro Martini): l’accurata ricognizione di alcune significative esperienze testuali e l’acuta analisi di specifiche situazioni comunicative assumono di fatto una funzione dirompente nei confronti dell’ancora pervasivo disvalore (etico ed estetico) che continua a marcare la poesia barocca e rafforzano quei nuovi approcci, se si vuole anche necessariamente e intelligentemente “revisionisti”, che da alcuni anni si sono avviati a ragionare con acume critico e sapere storico e senza falsi idoli sulla poesia del Seicento. L’ampiezza, poi, dei sondaggi prodotti nella seconda parte del volume, intito-

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Introduzione

lata «Cantieri petrarchistici» (il seminario si avvalse del sapiente coordinamento di Stefano Carrai) conforta anch’essa nell’auspicata, e ormai ineludibile, revisione del canone stesso di questa straordinaria stagione della poesia italiana (ed europea: nella sua articolatissima geografia e storia in formidabile esplosione): questa revisione è da tempo in atto e ha prodotto una folta selva di nuove, e spesso notevoli, agnizioni testuali che hanno ampliato moltissimo le paradigmatiche proporzioni di quella Biblioteca lirica (e poetica) cinquecentesca cui eravamo tutti, più o meno, abituati; e soprattutto sta recuperando il senso stesso della sua economia comunicativa, polarizzata tra modelli classicistici e pratiche introspettive, come grammatica primaria del moderno gentiluomo, luogo della sua nuova identità culturale, per acquisita seconda natura. Anche se talvolta persistono gli indugi su una ristrettissima manciata di microlibri di rime (Galeazzo di Tarsia e più ancora, oggi, Giovanni Della Casa), i saggi della seconda parte del volume dimostrano come il nuovo sguardo sulla lirica (e sulla poesia) del Cinquecento sia intensamente impegnato, soprattutto grazie al lavoro di tanti giovani competenti e appassionati, a costruire la propria percezione e proiezione prospettica attraverso il confronto diretto con il variabilissimo insieme delle esperienze poetiche, anche con le più impegnative (e tanto più “petrarchistiche”), sotto il profilo sia dell’ampiezza testuale che della complessità comunicativa, oltre che della situazione filologica. Il compito di introdurre questo volume di studi potrebbe risolversi così (anche perché, notoriamente, siffatte pagine proemiali sono di solito destinate a cursorie letture, se non a essere ignorate), ma vorrei approfittare dell’occasione per sviluppare alcune mie argomentazioni sin qui proposte in termini certo troppo scorciati e allusivi. Per farlo, ritengo utile individuare un termine post quem, che mi consenta di perimetrare con precisione il loro ambito di riferimento. Nell’introdurre la raccolta degli atti di un seminario che si svolse, tra il 29 e il 31 maggio 1987, a Ferrara, presso quell’Istituto di studi rinascimentali che tanto era allora impegnato per promuovere gli studi della tradizione poetica italiana (la raccolta fu pubblicata con il titolo Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura mia e di Marco Santagata, nel 1989), proposi alcune considerazioni che ritengo opportuno oggi recuperare: non tanto per ragioni di marcatura temporale (il quindicennio tra quell’allora e questo ora, tra il seminario ferrarese e quello romano), quanto per ragioni che mettono in gioco procedure di metodo e istanze critiche e documentarie tuttora validissime, ampiamente utilizzate nei saggi raccolti in questo volume. Intendo riferirmi a una sola considerazione, tra le tante possibili, che a me pare la più importante: se allora, a Ferrara, al centro di tante pregevoli e

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innovative indagini fu il “libro di poesia”, manoscritto e a stampa, miscellaneo e d’autore, il libro di poesia è rimasto, e resta, a mio avviso, e non solo nel seminario romano, il campo d’indagine che ha caratterizzato tutto il quindicennio e che continua a rivelarsi proficuo di risultati conoscitivi. Se gli studi (a esempio, quello di Nadia Cannata, Il canzoniere a stampa (14701530. Tradizione e fortuna di un genere fra storia del libro e letteratura, del 1996) hanno approfondito la classificazione delle sue tipologie propriamente merceologiche, manoscritte e a stampa, nelle diverse modalità di allestimento e di circolazione (libro d’autore e raccolta, libro postumo e instant book, libro antologia e libro per occasione), hanno anche compiuto accurate ricognizioni delle sue diverse, ma integrate, funzioni comunicative, nel più generale sistema delle pratiche culturali e socializzanti dell’età moderna (scrittura, lettura, memoria, citazione, riuso, conversazione, galateo, accademia e salotto, eccetera). Da questo punto di vista è diventato essenziale il rapporto, difficile e conflittuale, con il modello archetipico, con il Libro petrarchesco, su cui hanno scritto pagine memorabili Guglielmo Gorni e Marco Santagata: la forma “canzoniere”, dunque, il libro di rime come “libro” progettato e costruito dall’autore sul modello petrarchesco (in quanto storia introspettiva di sé, dei propri errori e della necessaria conversione). Se la ricerca agonistica di questa forma ha una fenomenologia contraddittoria (e affascinante), il libro di poesia approda alla tipologia d’impianto che risolve ogni aporia: per organici blocchi tematici in sequenza, celebrando il suo trionfo con Giambattista Marino (via Torquato Tasso), in quanto forma dei Moderni in querelle agonistica con gli Antichi. Ma vorrei segnalare un’altra immediata, e positiva, conseguenza negli studi sulla poesia moderna: la centralità del “libro”, nelle sue tipologie produttive e di uso, ha fatto prepotentemente emergere la funzione del lettore, la sua competenza attiva nel circuito comunicativo, perché si tratta di un lettore che sa fare poesia, ne è (come diceva l’ottimo Girolamo Ruscelli) “intendente”. E questa correlazione, strutturalmente biunivoca, per reciproca interferenza e contaminazione, tra la funzione lettore e la funzione autore è il segno più forte della modernità strutturale dell’esperienza di questa poesia, che si diede subito, allora, il nome iperconnotativo di Petrarchismo, ma che altro non è se non la forma propria e costitutiva, per modello e pratiche, della poesia lirica (e non solo) del Classicismo volgare. Non credo che ci sia bisogno di illustrare, almeno in questa sede, come e quanto l’ormai acquisita centralità del “libro di poesia” (di contro, tanto per schematizzare, alla paradigmatica centralità, quasi ontologica, dell’“autore”, che in molti casi ha portato a inventare il suo inesistente “libro” o a riplasma-

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Introduzione

re il “libro” originariamente prodotto) sia stata feconda di positivi risultati negli ultimi quindici anni, rinnovando in modo profondo (seppure con i limiti che poi cercherò di mettere in evidenza) il quadro complessivo dell’economia poetica moderna, e proprio nelle sue complesse dinamiche tra l’istanza omologante del modello (Petrarca, appunto) e la serie infinita delle pratiche di lettura e scrittura (con i Rerum vulgarium fragmenta come patrimonio universale di memoria). Ma qualche riferimento dovrò, e vorrò, pure farlo, prendendo atto, intanto, di un dato lapalissiano: che il fervore degli studi sulla poesia dell’età moderna si sia concentrato sul Quattrocento e sul Cinquecento (ma con ragioni diverse), cioè sul segmento tra Petrarca e Marino, lasciando persistere la condizione difficile, editoriale e critica, della poesia del Seicento e del Settecento, è la riprova ulteriore della conclamata, ormai, anomalia del paradigma critico e storiografico (con relativo canone) che ha fissato il racconto e ha celebrato i protagonisti (nel bene e nel male) dell’identità letteraria della nazione Italia lungo i secoli dell’Antico regime classicistico. Vorrei a questo punto dare qualche ragguaglio più circostanziato sugli esiti filologici e critici di questo quindicennio, ricordando subito due informatissime e dettagliatissime rassegne di studi: quella di Paola Vecchi Galli sulla poesia “cortigiana” del Quattrocento (pubblicata su «Lettere italiane», in tre puntate: 1982, 1986, 1991) e quella di Giorgio Forni sulla poesia del Cinquecento (sulla stessa rivista, in due puntate: nell'annata 2000 e in quella successiva). Nel rinviare senza indugi a questi validi e completi strumenti d’informazione, vorrei ritagliarmi un sobrio spazio per qualche saggio di questioni ancora aperte, se non inevase, partendo (e non solo per ragioni sentimentali) dalla citazione di alcuni contributi di quella fervida officina ferrarese degli anni ottanta, che pur sempre è stata al centro della mia personale esperienza di ricerca sul libro di poesia. Ricorderò, dunque, l’avvio dell’edizione delle Rime di Giambattista Marino a cura dell’équipe di Ottavio Besomi (non ancora completata, purtroppo: è pervenuta alla sezione delle Eroiche), delle Rime di Matteo Bandello a cura di Massimo Danzi, delle Rime d’amore di Torquato Tasso tràdite dal codice Chigiano L VIII 302, curata dall’équipe di Franco Gavazzeni, e soprattutto l’imponente corpus delle Rime di Antonio Tebaldeo a cura di Tania Basile e Jean-Jacques Marchand; senza tralasciare la pubblicazione dei testi del primo certame coronario curata da Lucia Bertolini. Strategicamente decisivo, tanto più in prospettiva, mi sembra poi l’allestimento di due repertori di base: l’incipitario unificato della poesia italiana (IUPI in acronimo) a cura di Marco Santagata (in due tomoni editi nel 1988, seguiti poi nel 1990 dall’incipitario delle edizioni di lirica antica, cura-

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to da Bruno Bentivogli e Paola Vecchi Galli, e nel 1996 dalla bibliografia della lirica italiana nei periodici, curata da Silvia Bigi e Maria Giovanna Miggiani) e la bibliografia dei libri di poesia a cura di Italo Pantani (edita nel 1996; è il solo volume giunto alle stampe dell’ambizioso progetto di BIBLIA, cioè della Biblioteca del libro italiano antico: ma habent sua fata libelli e libroni); e se mi è permessa una più diretta autocitazione, ritengo rappresentativo di questo fervore di studi anche il cd-rom di duecento testi della tradizione lirica da Petrarca a Marino, uscito nel 1997, ma il cui nucleo originario risale ai fervidi anni di Ferrara, alla sin troppo precoce scoperta dell’informatica umanistica, come già allora si autodefiniva. Ho voluto ricordare questi scarni dati bibliografici non solo perché fanno tutti riferimento, anche se con approcci molto differenziati, alla centralità del “libro di poesia”, ma anche perché la loro sequenza fa emergere il segno che più di altri mi sembra connotare complessivamente questa nuova stagione di studi critici e filologici: la diffusione di “archivi”. A Ferrara l’Archivio della tradizione lirica (ATL), a Zurigo l’Archivio tematico della lirica italiana di Besomi & allievi (ATLI, con diversi volumi al suo attivo), a Padova l’Archivio metrico italiano (AMI: consultabile in rete), prima per cura di Pier Vincenzo Mengaldo, ora di Marco Praloran. Senza forzarne le pur diverse impostazioni, ritengo che questi archivi segnalino tutti, comunque, una radicale mutazione di approccio all’esperienza della poesia italiana moderna, o, meglio, un condiviso atteggiamento tattico: lo sguardo del critico e del filologo sembra esprimere l’esigenza preliminare di riconoscere e descrivere analiticamente, testo dopo testo, la sterminata serie di eventi comunicativi in forma di libro che definisce la fenomenologia poetica, invece o prima di avventurarsi in discorsi interpretativi generali e, quindi, di impegnarsi nella revisione del canone della Biblioteca poetica. In questo sguardo operoso e al tempo stesso scettico è possibile, però, cogliere sia le ragioni che rendono tanto produttiva e forte l’attuale congiuntura di studi, sia il luogo genetico della sua strutturale debolezza (su cui poi tornerò). Anche nel grande edificio della tradizione poetica italiana, dunque, emergono i fattori di quella perdurante crisi degli studi di italianistica su cui da tempo è aperta la riflessione e il confronto: per la semplice ragione, a mio avviso, che la formidabile crescita (quantitativa e qualitativa) dei suoi prodotti di ricerca non riesce ancora ad assumere una prospettiva e una strategia, cioè a misurarsi apertamente con il paradigma antico e consolidato del suo Canone e della sua Biblioteca e, quindi, con il modello interpretativo della sua stessa storia. A esempio, per quanto concerne in particolare la poesia moderna, non ha ancora riversato il senso complessivo di questa stagione di studi in una nuova antologia: che è statutariamente il passaggio necessario e

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Introduzione

obbligato con cui, da sempre, l’esperienza della poesia ha modellato l’universo delle sue pratiche e ha plasmato la memoria della sua stessa identità di genere. Col tempo, ovviamente. Anche perché non è possibile antologizzare senza un’idea forte dell’insieme da selezionare, senza una strategia coerente per organizzare la sua economia distributiva. Nel produrre queste considerazioni non posso non dichiarare un debito personale ancora inevaso: quello che cercai di descrivere in Petrarchismo mediato nell’ormai lontano 1974. Intanto converrà restare alle risultanze di questa fervida stagione di studi, al suo imponente lavoro per raccogliere in un archivio ordinato e completo i tanto diversi (per mole e per destino) oggetti-libro di poesia, restaurandone non solo le proporzioni originarie, ma anche le tipologie e le modalità comunicative, per dare, insomma, senso proprio a ciascuno delle 5270 unità bibliografiche repertoriate da Italo Pantani nel 1996, che esibiscono subito le proprie macrovarianti strutturali e merceologiche: libri d’autore, libri miscellanei, libri di occasione, libri su commissione, raccolte, antologie, libroni e libretti, persino fogli volanti. In questo contesto operativo, rispetto alla tradizione degli studi sulla poesia moderna (e in particolar modo sulla lirica del Petrarchismo) e alle sue antologie, il rovesciamento di impostazione non poteva essere più radicale: non più la ricerca di quanto assume valore perché non ordinario (cioè, non petrarchistico: secondo un criterio valutativo che ha funzionato paradigmaticamente sulla base dell’assioma secondo cui il valore di un poeta è inversamente proporzionale al tasso di imitazione di Petrarca), bensì la descrizione e l’analisi di ciò che è pratica ordinaria, codice condiviso, tipologia culturale, cioè di quanto concorre a costituire e connotare la sua economia comunicativa come luogo comune universale, in primo luogo in termini di lingua letteraria (eminentemente referenziale e socializzante), e quindi in termini di sistema di senso. Ancor più profonde sono state le conseguenze di un’altra scoperta (più o meno lapalissiana: bastava sfogliare, allora, i tomoni dell’Iter italicum di Paul Oskar Kristeller): l’esistenza di un circuito parallelo di libri manoscritti di rime. A questo proposito, basta ricorrere al denso saggio di Simone Albonico sulla tradizione (in senso proprio) della poesia del Cinquecento (nel decimo volume della Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato, edito nel 2001: un saggio che fa tesoro della grande esperienza della scuola pavese di Cesare Bozzetti) per rendersi conto di cosa ciò comporti sul piano della ricostruzione e comprensione dell’intera economia comunicativa cinquecentesca (e non solo). Questa poesia che pure celebra con oltranza il suo trionfo nella tipografia contemporanea (ripeto: con le 5270 unità bibliografi-

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che descritte da Pantani), continua ad avere una cospicua tradizione manoscritta: libri più o meno ampi di rime spesso miscellanei, propriamente codici descripti per il filologo e i suoi stemmata, ma che chiedono di essere considerati per quello che sono, cioè tracce di fortissimo significato, tutt’altro che residuali, non foss’altro perché sono “testimoni” di rilevanti pratiche comunicative, cioè di altre forme storiche della funzione autore e della funzione lettore: quella, a esempio, propria di tanti lettori che allestiscono con ogni cura antologie personali, zibaldoni privati di rime, brogliacci e scartafacci domestici, copiando autori e testi che leggono con diletto e profitto; polyantheae settoriali per il riuso produttivo, per comporre altre rime, tra memoria e imitazione, citazione e plagio. Se il buon filologo non può che buttarli via, lo studioso delle pratiche comunicative (e dei loro modelli culturali) non può non assumerli come documenti preziosi, anche se poi, pur sempre, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: il mare magnum dei libri manoscritti di poesia, che, quando si mescola con l’oceanica mappa di Pantani, può riservare il rischio, e la sorpresa, di ritrovarsi impantanati. Come mi capitò tanti anni fa, quando lavoravo all’edizione delle rime di Giovan Giorgio Trissino, e ne inseguivo con il debito zelo i tanti parziali testimoni manoscritti, fino a mettere insieme un quaderno di tavole incipitarie che non andava da nessuna parte, almeno ai fini dell’edizione, perché documentava una imprevista (per me neofita di poesia cinquecentesca) modalità di circolazione e una insospettata tipologia del libro di rime (manoscritta, appunto); e infatti ho finito per pubblicare il testo della princeps d’autore del 1529, senza apparati. Ora che finalmente si è riaperto il dossier delle procedure operative proprie di una specifica filologia dei testi con esclusiva o prevalente tradizione a stampa (grazie anche e soprattutto agli studi di Pasquale Stoppelli, Paolo Trovato, Antonio Sorella, Francisco Rico, e tanti altri: i colleghi di Bologna, a esempio, che stanno realizzando una rivista su questi temi), credo che la questione di dare senso proprio alla serie, nonché a ciascuno, di questi libri manoscritti, indipendentemente dalla loro pertinenze e convenienze filologiche, possa finalmente diventare un passaggio obbligato degli studi sulle pratiche letterarie moderne: assumendoli intanto come testimoni autonomi e autorevoli di quella sociabilità comunicativa, e delle sue forme tra modelli e pratiche, che (come ci insegnano gli storici della cultura) connota geneticamente l’Antico regime, in quanto società della conversazione. Che è poi, come più avanti dirò, la forma genetica profonda dello stesso Petrarchismo e di tutto il Classicismo. Archivi, dunque: con una non del tutto inconsapevole, forse, ripresa del manifesto programmatico del primissimo «Giornale storico della letteratura

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Introduzione

italiana», steso da Arturo Graf, Francesco Novati e Rodolfo Renier nel 1883, con il suo appello a una «nuova storia della letteratura italiana» che dovrà necessariamente fondarsi, per nascere, «sullo studio diretto dei monumenti» (in senso esplicitamente tiraboschiano e prima ancora muratoriano), affrontando intanto quello «sterminato materiale da vagliare e da ordinare prima che altri possa, in modo degno della scienza, accingersi all’ingente fatica di scrivere una storia generale della letteratura italiana». Archivi, cioè insieme ordinati e vagliati. E questi archivi hanno lavorato bene, dissodando e restaurando, negli ultimi quindici anni, come illustrano molto bene le già ricordate rassegne di Paola Vecchi Galli e di Giorgio Forni, soprattutto pubblicando testi (sia in edizione critica che in anastatica) e strumenti: Monumenta Italiae historica, insomma (per quanto litteraria), per una storia a venire delle pratiche letterarie d’Antico regime, della sua poesia lirica. Anche se è ancora lontana dalla mappa a grande scala di Francesco Saverio Quadrio, per non parlare di quella a scala 1: 1 del repertorio di Pantani, la Biblioteca lirica e poetica si è allargata in misura certamente significativa, riaprendo la questione del suo Canone e più ancora del metodo della sua più conveniente (in senso antico) costituzione. Mi limito a ricordare (in ordine di pubblicazione) queste altre edizioni di rime d’autore, che si affiancano a quelle ferraresi: Bernardo Tasso (per cura di Domenico Chiodo e Vercingetorige Martignone, Torino: 1995), Dragonetto Bonifacio (curante Raffaele Girardi: 1995), Veronica Gambara (Alan Bullock: 1995), Veronica Franco (Stefano Bianchi: 1995), Ascanio Pignatelli (Maurizio Slawinski: 1996), Diego Sandoval di Castro (Tobia R. Toscano: 1997), Remigio Nannini (Domenico Chiodo: 1997), Giacomo Zane (Giovanna Rabitti: 1997), Orsatto Giustinian (Ranieri Mercatanti: 1998), Berardino Rota (Luca Milite: 2000), Isabella di Morra (Maria Antonietta Grignani: 2000), Laura Battiferri Ammannati (Enrico Maria Guidi: 2000), Benvenuto Cellini (Vittorio Gatto: 2001), Serafino Aquilano (Rime in musica, a cura di Giuseppina La Face Bianconi e Antonio Rossi: 1999; Strambotti, a cura di Antonio Rossi: 2002), Lodovico Domenichi (Roberto Gigliucci: 2004); e la miscellanea (in anastatica) di Versi et regole della nuova poesia toscana (a cura di Massimiliano Mancini: 1996). E se su Giovanni Della Casa sembra continuare una sorta di accanimento terapeutico attorno a fantasmatici problemi filologici, che, dopo aver coinvolto il Galateo, si è ora spostato sull’esile volumetto delle sue rime (con l’onore di ben due edizioni critiche e commentate in breve volgere di tempo, dopo l’impresa di Roberto Fedi nel 1978: allestite da Giuliano Tanturli nel 2001 e da Stefano Carrai nel 2003), l’attenzione alla specificità di ogni singolo tratto della tradizione (cioè, proprio alle diverse forme di “libro di poesia”) ha por-

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tato a risultati tanto più gratificanti: a esempio, nell’edizione dei Sonetti in morte di Francesco Ferrante d’Avalos Marchese di Pescara di Vittoria Colonna, eseguita sulla base di un manoscritto napoletano da Tobia R. Toscano, nel 1998, o nella riproposta in anastatica, per opera dello stesso studioso (nel 1996), della memorabile edizione del Canzoniere edito e inedito di Luigi Tansillo, curata da Erasmo Pèrcopo nel 1926. Sempre in questa prospettiva di una nuova ricognizione del territorio della lirica cinquecentesca, ancor più preziose sono le riedizioni di alcuni monumenta del libro non d’autore, sia nella tipologia della raccolta editoriale: le archetipiche Rime diverse edite da Gabriele Giolito nel 1545, esemplarmente curate da Franco Tomasi e Paolo Zaja (2001; ma ricordo anche gli studi sulla serie giolitina di Maria Luisa Cerrón Puga, e soprattutto il volume «I più vaghi e soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, curato da Monica Bianco ed Elena Strada nel 2001, che raccoglie lavori anche di Beatrice Bartolomeo, Franco Tomasi, Paolo Zaja); sia nella tipologia del libro accademico: le importantissime Rime de gli Academici Eterei, curate da Ginetta Auzzas, Manlio Pastore Stocchi, Antonio Daniele (1995). Il quadro di queste nuove agnizioni testuali, per quanto disorganico e persino casuale mi sembra di tutto rispetto, considerando (e non si può non farlo) le gravi difficoltà dell’editoria scientifica nel settore dell’italianistica, che resta l’handicap quasi sempre insuperabile per dare corso a un piano organico di edizioni critiche, soprattutto di testi impegnativi per mole (a esempio, in ordine alfabetico: Luigi Alamanni, Bernardo Cappello, Ferrante Carafa, Celio Magno, Francesco Maria Molza, Ludovico Paterno, Luigi Tansillo, Benedetto Varchi, eccetera), per i quali, ancora oggi, soccorrono solo in parte le benemerite edizioni di riferimento prodotte tra Ottocento e Novecento (se non addirittura prima), mentre è per lo più d’obbligo il ricorso alle edizioni antiche (questa obbligata mescidanza di fonti è la connotazione di affidabilità del lavoro quotidiano di tutti gli operatori, di cui è ben consapevole anche il repertorio dei duecento testi in cd-rom dell’Archivio della tradizione lirica). Pur con tutte queste difficoltà e contraddizioni il quadro complessivo della poesia moderna si presenta oggi fluido e dinamico anche per quanto riguarda gli studi critici: non posso, ovviamente, fare riferimento alla vasta bibliografia relativa a singoli poeti (soccorrono ancora, a questo scopo, le rassegne di Paola Vecchi Galli e di Giorgio Forni aggiornabili, volendo, con le annate della BIGLLI), anche se mi sembra opportuno riconoscere almeno che, tendenzialmente, prospettano un canone molto diverso rispetto a quello veicolato dalle antologie di qualche decennio fa: nei suoi soggetti (non solo

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Introduzione

gli “autori”, ma anche le istituzioni, come le accademie), nelle sue tipologie comunicative (la forte crescita di attenzione verso la linea del petrarchismo “spirituale” o verso le funzioni relazionali del testo: il sonetto di corrispondenza, a esempio), nella sua geografia (l’emergere di una decisiva componente napoletana), nella sua cultura di riferimento (il Classicismo), oltre che nel riconoscimento (troppo tardivo, in realtà) degli strumenti che rendono possibile l’acquisto e l’esercizio ordinario della competenza poetica (il saper fare poesia) nell’età classicistica, cioè i rimari, i lessici specializzati, i commenti, le polyantheae settoriali, eccetera; e in primo luogo, l’industria editoriale. Di tutte queste nuove tensioni metodologiche sono in parte ricettivi alcuni studi complessivi della poesia moderna, in particolare di quella cinquecentesca, con uno sguardo nuovo soprattutto sul Petrarchismo, apparsi in complessive storie letterarie (in più tomi e a più mani): a esempio, nelle pagine di Rinaldo Rinaldi nella Storia della civiltà letteraria italiana dell’Utet (1993), o in quelle di Francesco Erspamer nel Manuale di letteratura italiana di Bollati Boringhieri (1994), di Giorgio Masi nel quarto tomo della Storia della letteratura italiana di Salerno Editrice (1996; in questa stessa serie editoriale, nel suo tomo undicesimo, ricordo i saggi di Paola Vecchi Galli su Petrarca tra Trecento e Cinquecento, editi nel 2003), di Riccardo Scrivano nella Storia generale della letteratura italiana dell’editore Motta (1999: approdo di decenni di intensa attività sulla poesia moderna, a partire dalla zanichelliana antologia del Cinquecento minore, che risale al 1966). Ben più solida e perspicua è però l’impostazione interpretativa di alcuni recenti libri di saggi: quelli, a esempio, di Roberto Fedi (La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, del 1990), di Simone Albonico (Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, del 1990), di Stefano Carrai (I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, del 1999), di Andrea Afribo (Teoria e prassi della “gravitas” nel Cinquecento, del 2001), di Roberto Gigliucci (Contraposti. Petrarchismo e ossimoro d’amore nel Rinascimento, del 2004). Ma vorrei ancora ricordare due fruttuose riprese del magistero dionisottiano (l’accoppiamento giudizioso tra storia e geografia della letteratura): il catalogo a più mani di una mostra a Pavia nel 2002 sulla tradizione poetica lombarda (Sul Tesin piantaro i tuoi laureti. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola), e i volumi di Domenico Chiodo e Tobia R. Toscano sulla tradizione poetica napoletana (rispettivamente: Suaviter Parthenope canit. Per ripensare la geografia e storia della letteratura italiana, del 1999; Letterati, corti, accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, del 2000).

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Mi sembra che sia stato particolarmente fecondo, sempre in questo stesso volgere di anni, il recupero di intere tradizioni di generi settoriali della poesia non lirica: come la satira (con gli importanti studi di Piero Floriani nel volume Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento del 1988), la pastorale (cui è stata dedicata una miscellanea di saggi a cura di Stefano Carrai: La poesia pastorale nel Rinascimento, del 1998), la poesia burlesca (che deve moltissimo agli studi di Silvia Longhi, a partire da Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, del 1983), anche se sono in ritardo le edizioni dei rispettivi corpora di riferimento, essenziali per ogni indagine critica (linguistica, topica, comunicativa, eccetera) su insiemi settoriali ad alto indice di autonomia, se non di autoreferenzialità. Ma è stato il lavoro sul Classicismo a produrre gli effetti più ricchi e ormai stabilmente acquisiti. La nascita e la costituzione del Classicismo volgare, in quanto tipologia culturale fondata sull’imitazione (e del Petrarchismo, che ne è il braccio esecutivo elementare, basic, in quanto sistema linguistico della ripetizione, come scrissi molti anni fa) ha definitivamente acquisito la centralità di Pietro Bembo, riconosciuto, sulla scia del magistero dionisottiano, come il fondatore della moderna letteratura volgare e in particolare come il padre del Petrarchismo italiano ed europeo: con i saggi, a esempio, di Giancarlo Mazzacurati, Piero Floriani, Giorgio Dilemmi, Guglielmo Gorni, Claudio Vela, Claudia Berra. E dopo Bembo è stata avviata con profitto l’analisi delle metamorfosi del Classicismo, nel conflittuale, talvolta drammatico, spesso malinconico, saggio dei suoi limiti costitutivi, delle sue contraddizioni strutturali: come dimostra il fervere dei lavori nell’officina degli studi su Torquato Tasso, con la ripresa anche dell’edizione nazionale delle sue opere, decisivamente rilanciata dal centenario del 1995. In particolare, si intravvede la felice conclusione proprio delle edizioni critiche delle sue rime, o meglio dei suoi “libri di rime” (a cura di Franco Gavazzeni & sodali: sul modello dell’edizione ferrarese del 1993), che consentirà la dismissione della peraltro benemerita impresa di Angelo Solerti (che risale al 1898-1902), che necessariamente ha fatto e fa ancora testo. Le indagini sul Classicismo rinascimentale sono state corroborate anche da altre sollecitazioni emerse in questi ultimi anni: soprattutto dall’esplodere dei gender studies, che hanno riproposto, seppur con qualche squilibrio, specialmente negli studi nordamericani, la rilevanza dell’esperienza di scrittura poetica, e quindi di formazione culturale, delle donne italiane del Cinquecento (riproposte in sobria antologia da Stefano Bianchi nel 2003). Di più immediata pertinenza all’officina classicistica è la tipologia libraria del commento, tra ermeneutica e intertestualità, accessus didattico e mediazione verso il lettore: quelli dedicati all’architesto petrarchesco sono stati studiati con grande

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Introduzione

perizia da Gino Belloni (Laura tra Petrarca e Bembo. Studi sul commento umanistico-rinascimentale, del 1992). In questo quindicennio non sono mancate le nuove antologie, da sempre veicolo primario di ogni approccio al mare magnum della poesia italiana, anzi sua tipologia libraria costituiva e propria (ma non esclusiva: rinvio al fascicolo della rivista «Critica del testo» del 1999, che pubblica gli atti di un convegno sulle tipologie e storie dell’antologia poetica; e per quelle cinquecentesche al già citato volume «I più vaghi e soavi fiori», curato da Monica Bianco ed Elena Strada). Senza neppure tentare improponibili (in questa sede) aggiornamenti dell’analisi che in Petrarchismo mediato dedicai a sette antologie pubblicate tra Settecento e metà Novecento, mi limito a rilevare il singolare ritmo ventennale che scandisce le pubblicazioni di quelle successive. Infatti, ben quattro furono edite tra il 1941 e il 1959 (e addirittura tre nel volgere di soli tre anni): rispettivamente, a cura di Carlo Bo nel 1941, di Luigi Baldacci nel 1957, di Daniele Ponchiroli nel 1958, di Carlo Muscetta e Daniele Ponchiroli nel 1959 (ma non vorrei tralasciare il ricordo del volumetto di Giacinto Spagnoletti, Il petrarchismo, che uscì negli stessi anni, precisamente nel 1959, e che accompagnò le mie prime curiosità). Non tutte queste antologie sono però immediatamente assimilabili: se le prime tre sono volumi unici, l’ultima è parte di una serie editoriale in undici tomi, editi da Einaudi tra il 1956 e il 1969, dedicata alla poesia lungo i secoli, intitolata Parnaso italiano. Dopo questa fortunata stagione, bisogna attendere quasi un ventennio per avere una nuova proposta di antologia: quella curata da Giulio Ferroni per i “grandi libri” di Garzanti. E dovranno poi passare altri venti anni per una nuova antologia: quella della Lirica rinascimentale curata da Roberto Gigliucci nel 2000. Finalmente tutt’altro che sola, bensì in buona compagnia: ma del primo tomo ricciardiano curato da Guglielmo Gorni (nel 2001) e della sezione cinquecentesca (edita nel 1997) della serie einaudiana dell’Antologia della poesia italiana, a cura di Cesare Segre e Carlo Ossola, che ha rifatto, vent’anni dopo, il Parnaso italiano dello stesso editore, dirò più avanti. Sembrerebbe, insomma, aprirsi una nuova stagione fervida di antologie (altre sono,infatti, in preparazione), come alla fine degli anni cinquanta del Novecento: indizio di per sé eloquente di quanto possano essere fruttuosi gli studi sulla tradizione poetica italiana realizzati in questi ultimi anni, anche se occorre necessariamente tenere conto che il loro riversamento nell’impianto di queste recenti nuove antologie non è, né può essere automatico, e che, più ancora, il rapporto tra selezione antologica e dinamiche della ricerca richiederebbe comunque analitiche ricognizioni. Mi limito pertanto a qualche rapido rilievo generale limitato ai lavori di Ferroni e Gigliucci.

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Il dato di partenza è immediato: se quella allestita da Ferroni è un’antologia della “poesia del Cinquecento” (edita in una serie di volumi antologici dei secoli della poesia italiana), quella di Gigliucci è progettualmente dedicata alla sola “lirica rinascimentale”. Tra le due antologie, insomma, si può cogliere la differenza tra il prima (già vigile e dinamico in Ferroni, che veniva dalla recente esperienza della Locuzione artificiosa, del 1973) e il dopo, proprio rispetto alla fervida stagione di studi sulla tradizione poetica dell’età moderna e allo spartiacque che il suo nuovo sguardo ha prodotto, nei termini che ho cercato di caratterizzare: molti dei suoi elementi costitutivi e propri sono infatti subito riconoscibili nel lavoro di Gigliucci (che ha il vantaggio di venire dopo, e più ancora di essere partecipe delle nuove esigenze di ricerca e di interpretazione della poesia cinquecentesca). Ma – ripeto – per dare adeguato riscontro a questa sin troppo generica valutazione, che certo fa torto al lavoro dei due antologizzatori, dovrei sottoporre i loro due volumi a minuta anatomia (alla stregua, cioè, delle altre antologie sottoposte a rilevazione nel Petrarchismo mediato), per monitorarne i diversi comportamenti rispetto alle dinamiche che hanno riguardato il campo degli studi sulla poesia (e sulla lirica) moderna e che hanno terremotato il paradigma sin troppo statico delle antologie degli anni cinquanta. Ma questo esula dall’ufficio del sobrio prefatore, o, se si vuole, dalla sua deontologia. Debbo però ricordare, proprio per procedere oltre, che i venti anni che corrono tra l’antologia di Ferroni e quella di Gigliucci sono stati segnati dalla presenza di un fantasma di antologia, anzi dall’attesa dell’Antologia: quella che avrebbe risolto tutto o quasi tutto, dando a ciascuno (tra i poeti) il suo. Il tono scherzoso riguarda il singolarissimo destino della silloge ricciardiana curata da Guglielmo Gorni, ed è autorizzato dai vincoli sentimentali che hanno scandito la sua attesa ventennale oltre che da quanto Gorni stesso ha voluto raccontare scrivendo l’introduzione al primo tomo, finalmente apparso nel 2001. Sta di fatto che la progettazione di questa impresa, l’avvio della sua preparazione, e quindi le notizie sulle sue difficoltà editoriali hanno scandito per tanto tempo gli incontri dell’Archivio della tradizione lirica nell’Istituto ferrarese, e più in generale il lavoro nella solidale comunità degli studiosi (tanto più ristretta, allora), costituendo una sorta di parametro virtuale, ma pur sempre obbligato, di riferimento per quella sua fervida stagione. Se la pubblicazione, finalmente, del suo primo volume è stata salutata con giubilo dalla comunità (intanto cresciuta a dismisura, ma pur sempre a misura d’uomo) degli addetti ai lavori, immediatamente peraltro attoniti dal precipitare improvviso del glorioso editore Ricciardi in una situazione di incertezza del proprio destino, è stata anche accompagnata dalla franca espressione di qual-

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Introduzione

che perplessità, che ha riguardato non solo il suo impianto complessivo (previsto in tre tomi: pertanto difficilmente valutabile, al momento), nei termini, a esempio, proposti da Stefano Carrai (in una importante recensione pubblicata sulla «Nuova rivista di letteratura italiana» nel 2001). Personalmente sono rimasto molto colpito dall’atipica introduzione che Guglielmo Gorni ha voluto scrivere per il primo tomo (ma come premessa a tutta l’opera): atipica non solo rispetto agli usi editoriali di quella prestigiosa collana, ma soprattutto rispetto a quanto la silloge (e il lungo lavoro del suo curatore principe) sembrava richiedere, anzi sollecitare, proprio nei confronti di un quadro generale di riferimento critico, filologico e storico, tanto mutato attraverso i tre decenni delle sfortunate vicende editoriali che hanno segnato l’impresa. Non intendo dire che fosse superfluo raccontare tante difficoltà (pure in chiave scopertamente autobiografica e briosa: comunque molto godibile), ma che l’uscita del primo tomo poteva essere occasione anche, se non soprattutto, di un bilancio critico e interpretativo sulla poesia del Cinquecento e sul suo Petrarchismo, da parte, poi, di uno studioso che ne ha solcato a più riprese, e sempre con esiti intensamente innovativi, il mare magnum delle forme, comprese quelle molteplici del “libro di rime” e del suo costitutivo confronto con il Canzoniere; e che ha persino promosso una rivista interamente dedicata alla poesia italiana del Rinascimento (Italique, edita a Ginevra, in corso dal 1998). Non vorrei sfruttarla strumentalmente, ma la rinuncia di Gorni mi sembra emblematica di una debolezza costitutiva delle patrie lettere di fronte all’immagine complessiva di sé, cioè alla proiezione della propria storia in un idea generale (insomma, ancora una volta le “epoche” di Foscolo), in una identità, in un patrimonio. E questa debolezza diventa patologica quanto più i dettagli dell’immagine risultano mutati, più o meno tutti: frammenti di un puzzle che non sa come ricomporsi perché privo di un’idea generale, disiecta membra di un corpo che non sa ritrovare la propria anima. Senza metaforeggiare oltre, vorrei dire che se i risultati della ricerca degli ultimi anni hanno radicalmente modificato la percezione della fenomenologia letteraria (poetica e lirica, in particolare) d’Antico regime e le proporzioni stesse della sua economia comunicativa, decostruendo il paradigma vigente per quasi due secoli, ancora non soccorre un nuovo paradigma, cioè una nuova struttura interpretativa di riferimento generale, o meglio una nuova idea complessiva del senso della nostra tradizione letteraria moderna (e del suo genere primario e fondante: la poesia lirica), in grado di dare senso, tanto per restare sul terreno della poesia, a ciascuna delle 5270 unità bibliografiche del repertorio di Pantani e quindi al loro insieme, nella diacronia e nella diatopia.

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Se non sbaglio, l’ultima opera che ha saputo raccontare la storia lunga della poesia italiana è quella classica e non del tutto invecchiata, di Hugo Friedrich (la prima edizione originale risale al 1964), che già nel titolo riecheggia lo sguardo fondativo delle “epoche” foscoliane. Ed era sempre Foscolo, con la preziosa microantologia dei Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno 1200 al 1800 (ripubblicati da Maria Antonietta Terzoli nel 1993), a porsi come punto di riferimento della tanto più ampia silloge allestita da Giovanni Getto ed Edoardo Sanguineti nel 1957: Il sonetto. Cinquecento sonetti dal Duecento al Novecento, che fu, per me studente liceale vocato alla poesia, il testo di accesso alla tradizione lirica. E quando mi riferisco alla funzione di Foscolo come demiurgo del processo di costituzione del paradigma ottocentesco (che troverà il suo grandioso monumento nella Storia di Francesco De Sanctis), negli espliciti suoi recuperi della critica e dell’erudizione settecentesca (Gravina, Muratori, Quadrio, Tiraboschi), intendo anche e soprattutto chiamare in causa i suoi saggi su Dante e Petrarca, responsabili primi del sofferto, persino doloroso (per Foscolo come per De Sanctis), rovesciamento del canone che per tre secoli aveva connotato e orientato la nostra letteratura: Dante ora, non più Petrarca. Non intendo in questa sede riaprire una quaestio che negli ultimi tempi risulta opportunamente sempre più vexata, anche se non ancora in termini risolutivi: cioè, l’analisi del processo di costruzione dell’identità nazionale della nuova Italia attraverso i suoi primari e costitutivi documenti che sono soprattutto, se non esclusivamente, letterari (come ha riconosciuto uno storico capace di leggere il testo letterario con grande sensibilità: mi riferisco al libro di Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, del 2000; e come ha ribadito il recente saggio di Erminia Irace, Itale glorie, del 2003). Vorrei limitarmi a mettere in evidenza che ogni nuova idea delle “epoche” (per dirla sempre con Foscolo) della poesia, e della letteratura italiana tutta intera, deve fare i conti con il fantasma di Francesco Petrarca. Il “ribaltone” ottocentesco che lo ha detronizzato e rimpiazzato con Dante Alighieri nella funzione di padre della letteratura e della patria, come valore stesso dell’identità nazionale, non ha saputo né potuto risolvere tutti i problemi conseguenti dalla sua derubricazione nel canone: in termini, cioè, di una nuova interpretazione della plurisecolare funzione della sua poesia nel Pantheon italico. Se per oltre un secolo il nostro rapporto con Petrarca ha scontato questo disagio archetipico e strutturale, che si è soprattutto riverberato nelle modalità di approccio alla poesia moderna che da lui prese direttamente il nome (Petrarchismo, appunto), l’attuale intensissimo revival degli studi su Petrarca volgare e latino (che nell’anno centenario troverà certo il modo di raggiunge-

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Introduzione

re lo zenit) e sulla tradizione lirica e poetica moderna lascia intravvedere che qui si gioca la partita decisiva non solo per una nuova storia della poesia italiana almeno fino a Foscolo e a Leopardi, ma soprattutto per una nuova idea generale della nostra stessa tradizione letteraria: non foss’altro perché i secoli della sua lunga durata classicistica hanno scandito, attraverso le sue molteplici metamorfosi e le querelles tra Antichi e Moderni, il magistero canonico di Francesco Petrarca e della sua lingua poetica. Basta del resto ripercorrere le densissime analisi che, due secoli dopo le Epoche foscoliane, da impareggiabile specialista e coinvolgente affabulatore, Luca Serianni ha dedicato alla lingua della poesia italiana nella sua intera durata, per cogliere quanto sia mutata in profondità la percezione del suo quadro complessivo, in termini sia di funzione comunicativa (la lingua della poesia) che di forma estetica, nonché di canone di riferimento (mi riferisco alla sua Introduzione alla lingua poetica italiana, del 2001). A fronte di queste considerazioni non posso non dichiarare la mia personale delusione di fronte all’impianto macrodistributivo dei tre tomi dell’Antologia della poesia italiana a cura di Cesare Segre e Carlo Ossola, edita tra il 1997 e il 1999. Certo, le singole sezioni del nuovo Parnaso italiano, tutte affidate a esperti specialisti, sono eseguite con ogni cura e rispecchiano fedelmente l’innovativa congiuntura degli studi sulla poesia italiana moderna, ma l’apporto di tante mani e più ancora la sobrietà quasi laconica dei due curatori generali nell’esporre la trama generale che pure dovrebbe fondare e dare senso alle singole partizioni, finiscono per produrre un effetto di sfarinamento, in cui autori (maggiori e minori: questa è la doppia partita di ogni segmento antologico) e testi, note e premesse, bibliografie e quant’altro, sfumano in nebulosa destrutturata che affascina e abbaglia, ma lascia solo il lettore, senza bussola e senza idea generale di riferimento. Che è poi l’assetto più o meno normale, cioè costitutivo, di tante antologie della letteratura italiana degli ultimi anni (prodotte quasi esclusivamente per il circuito scolastico: ma nessuno ne studia l’impianto e l’articolazione come vettori paradigmatici e canonizzanti, come modelli ricostruttivi e interpretativi, di fatto, della tradizione letteraria nazionale), costruito sull’istanza della neutralità documentaria e quindi di una giustizia distributiva oggi attenta anche al politically correct: montaggi di disiecta membra sommersi spesso da prevaricanti apparati peritestuali a scopo didattico, casuali lacerti di corpi testuali talvolta ridotti a poche unità; senza anima, senza fuoco di prospettiva, senza idea progettante; routine consortile di geometri, liberati dalla necessità dell’architetto. Non intendo in alcun modo riaprire, in questa sede liminare, l’astratta questione sull’utilità delle antologie e sul loro modello ideale, perché ritengo

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che la questione sia di per sé inconcludente prima ancora che platonica, e che soprattutto sia del tutto impertinente rispetto all’impresa editoriale che ha suscitato queste mie considerazioni. Vorrei però svilupparne almeno una, ed è la seguente: non c’è dubbio che il secondo tomo dell’antologia einaudiana (dedicato alla poesia italiana tra Quattrocento e Settecento) sia stato il più scomodo, anzi il più difficile da realizzare. Riguarda, infatti, la fase della nostra tradizione letteraria che il paradigma ottocentesco ha canonizzato come complessivo disvalore e perimetra una terra incognita popolata da scimmie più che da leoni. Il terzo (dedicato all’Ottocento e al Novecento) e il primo (Duecento e Trecento) sono invece tanto più collaudati e tra loro solidali, persino domestici: a noi contiguo ancora il terzo, malgrado le profonde trasformazioni e le tante lacerazioni, perché descrive i nostri immediati dintorni, il nostro essere e sentirci contemporanei; mentre il primo celebra la fondazione della nostra identità e raccoglie l’album di famiglia degli antenati, la loro mitica età dell’oro. Anche questa impegnativa antologia, complessivamente di grande qualità nelle sue tante partizioni, mi sembra rimettere, insomma, in gioco la debolezza di sistema nel nostro approccio retrospettivo alla tradizione letteraria, che è al tempo causa ed effetto della diffusa ormai rinuncia alla scrittura di storie generali (e alla produzione delle relative antologie) a cura di un solo studioso, che intenda consapevolmente procedere alla elaborazione di un nuovo paradigma d’interpretazione complessiva del percorso della nostra letteratura e del suo stesso senso, sulla base di un’idea forte (ma quale?), di un’ipotesi globale (di nuovo: ma quale?). Le ragioni di questa debolezza sono tante, e non c’è dubbio che l’approfondirsi delle specializzazioni abbia reso obsoleta, persino paradossale, la figura del narratore di storie lunghe e globali (o dell’antologizzatore onnisciente), inventore di trame e di intrecci complessi, ma è altrettanto indubbio che questo stia comportando la polverizzazione della nostra storia letteraria, in quanto tradizione e tipologia culturale, titolare di forme e di lingua, di Canone e di Biblioteca, cioè la perdita del suo stesso senso identitario. Ed è problema che riguarda in modo particolare, nella sempre più ampia officina degli addetti ai lavori sulla letteratura italiana, proprio i “modernisti”, stretti tra l’orgoglio dei medievisti (al traino della grande stagione della storiografia sul Medioevo) e l’istanza autonomistica dei contemporaneisti, assediati persino dai comparatisti. È un disagio che affligge solo noi italianisti, però: per renderci conto di quanto sia residuale questa minorità tormentata, basterebbe dare un’occhiata ai territori lussureggianti dei nostri vicini modernisti, cioè dei colleghi storici dell’arte e storici della musica, storici delle società e storici delle istituzioni d’Antico regime.

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Introduzione

Propongo un’ultima, rapida, considerazione sul secondo tomo dell’antologia einaudiana, per evidenziare come il disagio e le aporie del nostro sguardo retrospettivo sulla letteratura (e soprattutto sulla poesia) dell’età moderna non riesca a scrollarsi definitivamente il peso di quel paradigma negativo (la decadenza, la crisi, la controriforma, con il corteo dei fantasmi correlati e conseguenti), per puntare risolutamente a una descrizione analitica del sistema letterario nei secoli del Classicismo di Antico regime (tutto qui è, infatti, il problema) e delle sue pratiche comunicative, compreso il Petrarchismo e più ancora il Barocco marinista. Questo disagio e queste aporie risultano immediatamente visibili nell’antologia einaudiana: basta mettere uno a fianco all’altro i singoli volumi sciolti della sua ristampa (articolati secondo la classica scansione secolare). In questo modo si vede subito, già nelle dimensioni volumetriche di ciascun volume, che il Quattrocento (pur comprensivo di una ampia sezione dedicata alla poesia latina: che poi però scompare nei secoli successivi) è tanto più ampio del Cinquecento (pur comprensivo di una autonoma sezione dedicata, finalmente, alla poesia religiosa) e ancora di più del Seicento e del Settecento (ma questo sorprende di meno, ovviamente). Ora, siccome sappiamo che nell’economia propria della forma Antologia le misure quantitative e di proporzione sono di per sé un fattore interpretativo e canonizzante, cioè di riconoscimento di specifica gerarchia di qualità ai singoli testi, autori, secoli antologizzati, diventa legittimo chiedersi: perché, sulla base, cioè, di quali argomentazioni critiche e interpretative, di quale idea e ragione della nostra poesia, questo improvviso primato del Quattrocento? La rivalutazione (documentaria, intanto: per quantità e proporzione) del «secolo senza poesia» (come recitava un antico e fortissimo assioma, disintegrato dagli studi degli ultimi decenni) non funziona come conferma, anzi rafforzamento, di quella pregiudiziale anticlassicista che è il senso profondo del paradigma ottocentesco, il necessario respiro ternario del suo spirito della storia? I saggi contenuti in questo volume e il più generale quadro degli studi, al di là dei suoi stessi limiti, delle sue difficoltà e delle sue contraddizioni, che ho forse sin troppo marcato, trovano il loro punto obbligato di riferimento nel centenario petrarchesco del 2004. Quanto è già in calendario e quant’altro conseguirà, per diretta sollecitazione o anche perché indotto, porterà certamente a quella auspicata, e da troppo tempo attesa, nuova ricognizione analitica della funzione Petrarca nella tradizione letteraria italiana: per restituire, insomma, il senso reale delle cose, cioè quanto la forma e la lingua del Canzoniere abbia insegnato agli italiani colti lungo i secoli del Classicismo di Antico regime, che proprio sul modello archetipico della sua poesia elabora il modello della comunicazione letteraria moderna.

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Amedeo Quondam

Non per giocare d’anticipo, ma per mettere sul tavolo le carte, vorrei concludere questa introduzione dichiarando, in estrema sintesi (e me ne scuso) la mia idea (non sta a me dire quanto nuova o forte) della tradizione poetica moderna, che peraltro da tempo vado proponendo nei miei percorsi attraverso il Classicismo di Antico regime in quanto forma storica della tradizione e dell’identità italiana prima della Nazione. Insomma, dall’aldina delle Cose volgari curata da Pietro Bembo nel 1501 al commento di Giacomo Leopardi del 1826, Petrarca è il modello primario di riferimento della nostra tipologia culturale e quindi della nostra letteratura, ne fonda e orienta sistema e pratiche. Certo, con un’intensità variabile, perché la metamorfosi è nello stesso dna del Classicismo: tutt’altro che monolitica, bensì sempre fluida e disponibile, sempre e comunque governata dalla “convenienza” (categoria estetica ed etica di fondazione classica). La stessa continua dialettica tra sodali degli Antichi e partigiani dei Moderni, tra sperimentalismo al limite di rottura e ricerca di estensione del canone (avanguardia, se si vuole: Marino, a esempio) e restauro della misura e delle proporzioni originarie del canone (l’Arcadia, a esempio), si può comprendere pienamente solo se la si considera come tutta interna al sistema classicistico, tra suoi diversi punti di vista (pur sempre però compatibili), cosicché le partizioni canoniche delle nostre letterarie, che dissolvono il senso di questa lunga durata, diventano un balletto di cartigli (umanesimo, rinascimento, manierismo, barocco, rococò, neoclassicismo, eccetera), una pantomima che camuffa e disperde ogni evidenza. Assumendo invece Petrarca e il Petrarchismo come forma storica primaria e costitutiva della poesia classicistica da Bembo a Leopardi (ma non solo della poesia lirica e non solo della poesia), il senso della sua plurisecolare storia diventa subito più chiaro, persino più semplice e coerente: nelle sua lingua, nella sua metrica, nella sua topica, nelle sue funzioni comunicative generali. E mette risolutamente in gioco il soggetto che ne è il protagonista consapevole, anche se non esclusivo: il gentiluomo moderno, tale perché letterato, proprietario di una specifica competenza culturale (saper scrivere oltre a saper parlare, come pure saper fare musica e saper giudicare un’opera d’arte), per stare nella sua società della conversazione con la dovuta grazia. Petrarca diventa il referente primario della seconda natura del moderno gentiluomo, e prima ancora che imitato è memorizzato. Non abbiamo ancora analizzato a fondo le conseguenze di questo dato strutturale nell’economia produttiva della comunicazione poetica classicistica, ma risulta ormai evidente che non si tratta soltanto di imitazione o riuso, di plagio o citazione nascosta. È qualcosa di più profondo: è la memoria della poesia come fattore dinamico della creazione poetica, suo strutturale cortocircuito genetico, continuo feed-

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Introduzione

back che disperde in un gioco infinito di specularità testuali l’identità dell’autore, almeno nei termini poi modellati e codificati dal sistema romantico (e non rinvio solo al libro di Roberto Fedi, ma all’importante libro di Vincenzo Di Benedetto sullo Scrittoio di Ugo Foscolo, del 1990, che può e deve essere proiettato retrospettivamente lungo i secoli della comunicazione classicistica). Insomma, Petrarca non fornisce al gentiluomo letterato soltanto il modello di una nuova e moderna lingua referenziale: gli fornisce una identità metaidentitaria, che per comunicare deve saper riconoscere se stesso attraverso il corpo testuale di Petrarca, assimilato e fatto proprio. Le dinamiche di questa memoria attiva diventano subito evidenti: rende disponibili gli strumenti più idonei per riflettere su di sé, per dire i propri affetti (e non solo d’amore), per narrare la propria storia interiore, per entrare in relazione (formalizzata) con gli altri. Da questo punto di vista, anzi, il Petrarchismo può essere considerato come l’altra faccia, obbligata e necessaria, del galateo, e funziona esattamente allo stesso modo, con grazia e sprezzatura. Del resto, per cogliere il dispiegarsi della funzione Petrarca nella lunga durata del Classicismo di Antico regime, basterà rilevare che già nella fase della sua elaborazione come modello assoluto (con Bembo & sodali), e più ancora, poi, nelle sue estese e diffuse pratiche ordinarie (il Petrarchismo, appunto: ricordo che come tale è definito dai protagonisti, con un’autoconnotazione che di per sé risulta di piena consapevolezza), è possibile cogliere nella comunicazione poetica (e lirica) il pieno dispiegarsi delle macroinvarianti strutturali proprie e costitutive della tipologia culturale classicistica, a cominciare proprio dal principio di imitazione e dal principio di verisimiglianza, nonché dalla perimetrazione iperselettiva del Canone e della Biblioteca. Ma Petrarca è, in primo luogo, la nuova grammatica, nel senso proprio (di nuovo: classicistico) di sistema linguistico formalizzato e fondato sul canone degli auctores (in questo caso: uno solo e ottimo). Che poi il processo di formazione delle lingue nazionali moderne sia fortemente debitore di questo assetto classicistico della comunicazione è ormai un dato acquisito; mi sembra però indispensabile, per coglierne tutta la dinamicità produttiva, anche drammatica, riferirlo alle implicazioni che ritengo ancor più rilevanti nel processo di nascita (o invenzione) della tradizione moderna: a esempio, al suo strutturarsi come sistema linguistico della ripetizione in una tipologia culturale tradizionale, cioè in quanto tale fondata, convenzionalmente, su pratiche rituali. Dalla posizione centrale e assoluta occupata per secoli, pur con un diagramma movimentato da picchi negativi e positivi, Petrarca è stato messo al margine del nostro album di famiglia proprio per quello che lungo i secoli

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del Classicismo di Antico regime ha rappresentato: il modello supremo della tradizione. E se Petrarca è stato ridimensionato drasticamente, la tradizione che nel suo nome si è costituita (il Petrarchismo) è stata del tutto liquidata: dal furore ideologico che ha reclamato la definitiva rottura con i miti e i riti della tipologia culturale classicistica (e della sua società di riferimento). Nel nuovo ordine della nuova Italia (in ritardo rispetto ai processi europei: e per questo, forse, tanto più permalosa e occhiuta nelle sue epurazioni) non poteva esserci spazio alcuno, neppure per dettagli residuali, per i valori di quel regime che proprio nell’Ottocento inizia a essere definito con la connotazione più radicale di discontinuità: “antico”, appunto. Ma ora che quegli astratti furori ideologici si sono dileguati tra noi postmoderni perché postideologici (così almeno si dice), è possibile finalmente tornare a ragionare, con lo spirito dell’archeologo che scruta civiltà sepolte, di Petrarca e di Petrarchismo, cioè della tipologia culturale classicistica, del suo essere stata per tanti secoli tradizione nazionale e transnazionale prima delle Nazioni?

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Petrarca in Barocco

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Alessandro Martini RILIEVI SUL TESORO DI CONCETTI POETICI DI GIOVANNI CISANO

Questo intervento deve dichiarare anzitutto due debiti: il primo verso un maestro e il secondo verso un allievo. Il primo debito non è fra quelli che si possono saldare, e quindi prende la forma di un omaggio a Giovanni Pozzi, guida fra le più esperte nella cultura secentesca, nonché in altre vitali materie. È lui che a messo in mano a me, come con inesausta fiducia a molti altri, prima e dopo di me, gli strumenti del mestiere, e fra questi strumenti stava, affrontando l’Adone per la prima volta in un seminario, nel lontano ’68, anche il libro di cui intendo dire: il Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano, uscito a Venezia nel 1610. Si tratta del primo e più vasto archivio tematico della poesia italiana, anteriore a quello poi organizzato nel pieno Seicento dal domenicano Giovan Battista Spada nel suo Giardino de gli epiteti, traslati et aggiunti poetici italiani (Venezia 1652, Bologna 1665) e a quello fondato nei nostri anni da Ottavio Besomi: l’Archivio Tematico della Lirica Italiana (ATLI, ora anche in linea), il cui primo volume, contemplante La Lira del Marino, è uscito nel 1991 e il cui più recente e quarto, con le Rime di Vittoria Colonna e Galeazzo di Tarsia, è del 1997. Vi si è accostato nel 1994 anche un Archivio delle Similitudini (ASIM), comprendente i maggiori poemi narrativi, dal Boiardo al Marino. A Pozzi capitò di far cenno a questa continuità nel 1996, in un poscritto al suo fondamentale contributo sui Temi, topoi e stereotopi, steso dieci anni prima per la Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa. Quel poscritto si avviava proprio sulla novità maggiore nell’ambito degli studi tematici italiani intercorsa nel decennio, ossia l’impresa avviata da Besomi, che Pozzi paragona appunto a quella del Cisano e dello Spada, unici precedenti e presupposti dell’archivio zurighese, che ora, non a caso, intende annettersi anche il secondo:

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I due titoli antichi rivelano nella loro diversità i due estremi dell’alternativa cui non si sottrae qualsiasi progetto d’inventariare materiali tematici: «concetti» ed «epiteti». Il secondo mette in luce il fatto che il tema si evidenzia nel vocabolo, il primo che il nucleo semantico legato alla realtà linguistica si trova oltre: non solo oltre il vocabolo, non solo oltre l’unità di senso linguistico che lo racchiude, ma di là della lingua stessa1.

La molteplicità delle voci dello Spada, circa 4600, sotto le quali si distribuiscono gli esempi di oltre 800 poeti, «fanno del Giardino un vero campionario di temi poetici barocchi, molto più rappresentativo del Cisano, anche se costui è prezioso per il taglio più ampio e articolato dei pezzi»2. Più rappresentativo lo Spada, mi pare di dover aggiungere, anzitutto perché d’epoca pienamente barocca (comprendente L’Adone, anche se non mai nominato), ma soprattutto perché meglio consultabile, data la molteplicità delle voci, che fanno del suo repertorio una specie di concordanza selettiva, ma largamente comprensiva, sia di autori che di temi. Come lo Spada dice Al cortese e benigno lettore, l’intento è di «farti trovare con facilità, senza affaticare il pensiero». Cercherò dunque di affrontare il taglio ampio e articolato del Cisano, nelle sue relativamente poche voci (822) e nei suoi relativamente pochi poeti (153 gli indicizzati nella seconda appendice a questo contributo), per quanto l’ampiezza complessiva del repertorio non sia molto inferiore a quella dello Spada: il Tesoro dei concetti conta 2300 pp. in 12° di contro a 832 pp. in 4° del Giardino degli epiteti. Si colloca a metà strada fra i pochi e universali capi enciclopedici della Fabrica del mondo di un Alunno (in dieci libri: da Dio all’Inferno) e la molteplicità ad usum poetae del Gareggiamento madrigalesco, uscito l’anno successivo, con 341 «soggetti» stesi lungo più di 800 pagine. Il suo formato è ancora quello di un petrarchino o di un rimario, e simile doveva esserne anche il maneggevole uso, mentre il Giardino è da porsi sul leggio e riporsi in biblioteca, come il coevo Cannocchiale aristotelico. Il Giardino può comunque contenere il Tesoro, e di fatto senz’altro lo contiene, fittamente parcellizzato. Resta che il Tesoro, a differenza dell’opera successiva che lo incamera, è anche la più ampia antologia di poesia italiana mai pubblicata sino a quel tempo, per il numero di componimenti riportati, spesso integralmente, specie se di tradizione recente. In questo ruolo il Giardino, che riduce i suoi esempi alla frase contenente l’epiteto in questione, non gli può fare concorrenza, e neppure gliela possono fare le raccolte di rime cinquecentesche, alle quali largamente attinge. 1 2

G. Pozzi, Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, p. 502. Ivi, p. 503.

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Rilievi sul Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano

Il secondo debito da dichiarare è verso Paolo Raselli, che si è da poco laureato proprio compilando, con intelligenza non inferiore alla diligenza, gli indici del Tesoro, reso così meglio leggibile 3. Ha individuato le stampe sommariamente citate dallo stesso Cisano e vi ha riscontrato gran parte delle citazioni da lui fatte: lavoro prezioso soprattutto per quel che riguarda le raccolte collettive. I tre indici principali da lui allestiti conservano il titolo che hanno nella stampa, aggiungendo ai meri elenchi nominali della stampa i rinvii ai luoghi opportuni: il primo è di Nomi de’ poeti dall’opere de’ quali si sono scelti i concetti (che qui ripropongo nella seconda appendice, di nuovo ridotto, per ovvie ragioni, ai soli nomi); il secondo è il Riscontro de’ capi sotto i quali sono ridotti i concetti, a sei colonne, che schematizzano la sintassi, per così dire, della voce, nel suo articolarsi in esempi poetici, annotazioni a quelli e imprese relative allo stesso tema, non riportate nelle loro figure ma nella loro descrizione verbale (pitture fatte parola, a rovescio delle parole dipinte); il terzo è la Tavola che contiene tutte l’imprese, i motti e i nomi de gli autori di esse, anche a sei colonne: i motti dettano l’ordine alfabetico della materia; segue una descrizione delle figure, indicando la fonte e il «portatore», per lo più dichiarato dalla fonte, nonché, quando indicato dalla stessa, l’autore. Nell’accostamento di poesia e impresa si ravvisa dunque immediatamente l’originalità dell’opera. Con questi strumenti a disposizione non resta che cominciare a far parlare il repertorio, cercando, data l’occasione, di guardare al tutto dalla parte che vi occupa il Petrarca. Procederò commentando il frontespizio dell’opera: TESORO / DI / CONCETTI POETICI: / SCELTI DA’ PIV ILLVSTRI / Poeti Toscani, / E ridotti sotto capi per ordine d’Alfabeto / DA GIOVANNI CISANO. / PARTE PRIMA. [e PARTE SECONDA.] / Con annotationi in molti luoghi di diuersi, nelle / quali si mostrano i colori, et ornamenti Poetici, / i lumi delle dottrine, e dell’arti sparsi per entro / i detti concetti, & i luoghi tolti da’ Poeti Greci, / & Latini, & felicemente imitati da nostri. / Oltre di ciò sotto i medesimi Capi, sono ridotti / i concetti espressi nelle Imprese raccolte in / diuersi volumi da diuersi Autori, con / le loro dichiarationi, & discorsi. / Con Licentia de’ Superiori, & Priuilegio. / [marca tipografica] / IN VENETIA, MDCX, / – / Appresso Euangelista Deuchino, / e Gio.Battista Pulciani.

La dizione «scelti da’ più illustri Poeti Toscani» è di netto sapore cinquecentesco, ossia richiama il titolo di varie raccolte collettive del pieno Cinque-

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P. Raselli, Il «Tesoro di concetti poetici» di Giovanni Cisano. Memoria di licenza presentata alla Facoltà di lettere dell’Università di Friburgo (Svizzera), 2002.

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cento. La maggior parte dei cinquecentisti qui presenti sono per altro ripresi da quelle che si indicano come Rime scelte, rispondenti alle Rime scelte di diversi autori di nuovo corrette e ristampate, in Venezia, presso Gabriel Giolito de’ Ferrari, nel 1564, in due volumi. Questi «illustri toscani» non sono poeti di sole liriche, ma, per quanto prevalga il genere «rime», anche autori di poemi cavallereschi, eroici, didascalici, di tragedie e di commedie pastorali: si tenga d’occhio nella prima appendice la graduatoria dei primi campioni (per così dire), ordinata per numero di citazioni ottenute da ciascun poeta, dopo aver contato le loro occorrenze nel primo indice di Raselli (escluse quelle che sono segnalate come presenti nelle annotazioni, ossia citazioni magari preziose ma di secondo grado, benché a volte dovute allo stesso Cisano)4. L’Orlando furioso vi è l’opera in assoluto più citata (x 618), più citata della pur presentissima Gerusalemme (x 431), ma vi sono anche i Cinque canti dello stesso Ariosto (x 24), il Rinaldo del Tasso (x 187), il Giron Cortese dell’Alamanni (x 29) e la sua Coltivazione (x 6), vi sono i poemi di Bernardo Tasso (x 10), Le Metamorfosi nel volgarizzamento dell’Anguillara (x 59), il Torrismondo del Tasso (x 30), l’Arcadia del Sannazaro (x 21), il Pastor fido (x 72) molto più dell’Aminta (x 7). Di qui la presenza di voci tipicamente da poema, sotto le quali campeggiano per lo più appaiati Ariosto e Tasso, ma anche il solo Ariosto, come sotto DUELLO, FUGGIRE, IMPUDICIZIA, o il solo Tasso, come sotto EROI, INCANTO, LASCIVIA. Ma soprattutto e su tutto è alta la frequenza di concetti morali e spirituali, ampiamente sviluppati, come ANIMA, CONTEMPLARE, CONVERTIRSI, CORPO, FAMA, TEMPO, ONESTÀ, UMILTÀ. Il taglio spiega la larga presenza dei Trionfi (x 54), oltre che del Canzoniere (x 185), e la grande affermazione del p. Angelo Grillo (x 202) quale maggior poeta lirico della generazione post-tassiana con le sue Rime morali e Pompe di morte del 1595 e con i Pietosi affetti del 1596; spiega in parte persino la costante presenza del Marino (x 126), che subito segue il Grillo; un Marino privilegiato anche nelle sue canzoni morali, d’alto argomento quanto di forma leggera (Bellezza caduca, Il ferro, L’oro), e negli Epitalami, in cui l’erotismo è, per così dire, sacrosanto. Assieme, Grillo e Marino sembrano insomma spartirsi

4 Malgrado la loro precisa entità si intendano queste cifre come soggette a un doppio filtro: quello di chi le ha raccolte e quello di chi le ha contate, quindi soggette a minime variazioni se sottoposte a più minuti controlli. Si affida anche al lettore l’operazione mentale di ridurre lo scarto fra, per esempio, le 431 citazioni dai più di quindicimila versi della Gerusalemme liberata e le 7 dai più di settemila dell’Aminta (scarto che, nell’esempio concreto, rimane tuttavia enorme, e significativo anche in relazione alle 72 ottenute dal Pastor fido).

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Rilievi sul Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano

l’onore e l’onere di rappresentare, meglio di qualunque Paterno (x 8), un possibile nuovo Petrarca. Il Cisano inoltre, sempre per quel che riguarda la varietà di generi convocati, fa persino qualche concessione alla prosa più lirica del Boccaccio, che per altro molto usa nelle proprie annotazioni. Insomma: le paratie dei generi saltano, anche all’interno di una stessa voce, non perché si superino, si capisce, ma perché le preoccupazioni di poetica lasciano il posto o si subordinano alle contaminazioni retoriche. Mi pare questo il solo, per quanto importante, segno barocco dell’impresa, fortemente ancorata al «visibile parlare», alla figuralità non meno cinquecentesca che secentesca: tendenza di per sé transgenerica. L’«ordine alfabetico» per «capi» distingue quest’opera da ogni altra raccolta di rime precedente, mettendo in rilievo non il poeta fra i suoi pari, secondo la logica studiata da Amedeo Quondam nelle raccolte cinquecentesche5, ma il tema, la finalità enciclopedica e retorica del tutto. Applicata alla materia poetica, e non all’universo strettamente retorico, come da parte di un Ravisius Textor nel Thesaurus di sinonimi ed epiteti, o lessicografico, come nell’imminente Vocabolario degli Accademici della Crusca, mi pare la prima operazione del genere, non seguita nel Gareggiamento madrigalesco del 1611 (l’anno successivo), che percorre grosso modo l’ordine discendente della descriptio personae 6 e non seguita dall’Arte dei cenni di Giovanni Bonifacio, del 1616 (tutte vaste imprese di una stessa area veneta e dello stesso giro d’anni). All’ordine alfabetico tornerà invece a ricorrere con maggior minuzia lo Spada. Le «annotazioni […] di diversi» sono anzitutto quelle degli espositori del Petrarca, dal Vellutello, in un paio di casi, al Gesualdo, al più usato Daniello (x 34), alle freschissime Considerazioni del Tassoni, pubblicate nel 1609, dunque nello stesso anno in cui il Tesoro ottiene la licenza di pubblicazione (precisamente il 24 marzo per la prima parte e il 9 ottobre per la seconda). Ad esse il Cisano ricorre dieci volte, di cui tre contestanti o francamente irridenti la rappresentazione petrarchesca. Ma vi sono anche gli espositori dell’Ariosto (Simone Fornari, Alberto Lavezuola, Orazio Toscanella, Girolamo Ruscelli, Francesco Turchi per le rime e le satire) e del Tasso (Scipione Gentili e Giulio Guastavini); fra questi è compreso il Tasso stesso per le sue rime, e con grande larghezza; sono presenti Giuseppe Orologi sull’Anguillara, Rinaldo Corso su Vittoria Colonna, il Landino su Dante, Tomaso Porcac5

A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena-Ferrara, Panini-ISR, 1991, pp. 123-50. 6 Sul Gareggiamento si veda A. Martini, Ritratto del madrigale poetico fra Cinque e Seicento, in «Lettere italiane», XXXIII, 1981, pp. 529-48.

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chi sul Sannazaro, Pietro Colelli sui Pietosi affetti del Grillo (1596). Vi è dunque tutta la grande tradizione esegetica volgare del Cinquecento, sino alla sua più dirompente novità. Fra gli annotatori, beninteso, va posto, mi pare con onore, lo stesso Cisano, cui vanno attribuite tutte le note che non portano altro nome. Le annotazioni, dice sempre il frontespizio, mostrano «colori e ornamenti» che sono ovviamente retorici, ma che, dato il loro abbinamento con le imprese, possono essere intesi come relativi alla figuralità di quel patrimonio poetico; mostrano inoltre i «lumi delle dottrine e dell’arti»: non solo l’ornato parlare ma il «di là della lingua stessa», come si esprime Pozzi. Sono accenti che rendono questa enciclopedia abbastanza simile a quella dell’Arte dei cenni di Giovanni Bonifacio (1616), studiata da Paola Casella7: un’arte volta alla pratica comunicativa, ma sorprendentemente tutta fondata sul patrimonio poetico dei classici latini e volgari; un’arte in cui vengono citati gli stessi più illustri toscani meglio presenti in Cisano, per quanto in una diversa gerarchia. Il terreno comune a Cisano e Bonifacio, e in qualche modo a espositori di poesie e di imprese, è dunque l’interesse per la fisiognomica, gli affetti, la filosofia morale, il teatro del mondo. I «concetti» del titolo sono quindi da intendere non nel senso dell’argutezza sviluppata dal Tesauro, «gran madre d’ogni ingegnoso concetto», ma in modo più tradizionale, poetico-morale; non sono forse tanto lontani dai luoghi dell’arte mnemonica quale fu coltivata da un Giulio Camillo: immagini che aprono (cito Lina Bolzoni in un binomio simile a quello proposto dal Cisano) «i tesori delle belle forme del dire, oltre che i tesori del sapere»8. Giulio Camillo è per altro ben presente nel Tesoro come godibile petrarchista (x 12), ma spunta anche come autore del Teatro, e proprio in una annotazione dovuta al Cisano per la rappresentazione della FORTUNA cieca 9. Vediamo come ci si arrivi, a mostrare concretamente lo svilupparsi di un «concetto». Cisano parte dalla rappresentazione della Fortuna come onda proposta da Boezio nella Consolazione della filosofia, tradotta in volgar fiorentino dal Varchi (in rime per quel che riguarda i metri, e qui si tratta delle «prime rime» del secondo libro); continua con quella della Gerusalemme («Donna giovin di viso, antica d’anni, / ch’ai lunghi crini in su la fronte attorti / fia nota, et al color vario de’ panni»: GL XIV 72), con la relativa annotazione di Giulio Guastavini che a sua volta ricorda Petrarca («di tempo antica e giove7 P. Casella, Un dotto e curioso trattato del primo Seicento: L’“Arte de’ cenni” di Giovanni Bonifaccio, in «Studi secenteschi», XXXIV, 1993, pp. 331-407. 8 Lo spettacolo della memoria, introduzione a G. Camillo, L’idea del theatro, Palermo, Sellerio, 1991, p. 33. 9 Un altro ricorso al Camillo da parte del Cisano commentatore si ha sotto CANTARE.

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ne del viso»: RVF 325, v. 51); segue quella dell’Orlando furioso («Ma quella che di voi fa come il vento / d’arida polve» ecc.: OF XXXIII 50) con l’annotazione di Alberto Lavezuola, che rinvia al primo salmo; segue Scipione Ammirato nelle solite giolitiane Rime scelte, a imitazione dell’Ariosto; segue Petrarca nella canzone Tacer non posso, la più citata di tutte, assieme all’altra che comincia Quell’antico mio dolce empio signore, per il suo valore figurale, l’ethos e il pathos che contiene10 («Detto questo a la sua volubil ruota / si volse, in ch’ella fila il nostro stame»: RVF 325, vv. 106-7, con un dotto rinvio interno, dovuto allo stesso Cisano, a RVF 296, vv. 5-7); segue Pacuvio nella retorica di Cicerone, tradotto in sciolti, probabilmente dallo stesso Cisano, che vede la Fortuna «pazza cieca e bestiale» aggirarsi sopra un sasso, per la quale sempre il Cisano rinvia alla Tavola di Cebete. Di seguito cita appunto Giulio Camillo, che «fa fede haver veduto in mano del Re Francesco la fortuna diligentemente scolpita in questo modo: Una femina senz’occhi in cima d’un albero, la quale con una pertica lunga batteva i suoi frutti, come si fanno le noci […] Lo stesso Autore nel primo luogo del suo teatro, dove parla della camera della fortuna, finge la fortuna una femina priva di luce, ma con gli occhi bellissimi da ingannar ciascuno, e la pone a sedere sopra uno struzzo il quale abbia l’ali d’Aquila.» Ricorda poi Artemidoro, che l’ha posta a sedere sopra una colonna distesa, ora bella e ornata, ora sozza e malvestita, con un timone in mano, e oltre le cinque qui sintetizzate prosegue per altre dodici pagine, in cui riprende tre volte Tasso, tre volte Petrarca (nella canzone vista e in altri luoghi), due volte Ariosto, un’altra volta Boezio e convoca ancora Lorenzo de’ Medici, Dante, Alamanni, Grillo, Ruscelli nel discorso sulle imprese, Vittoria Colonna e il suo annotatore Rinaldo Corso, con il quale il Cisano gareggia in erudizione, aggiungendo Seneca a Lucilio, che trascina Guittone («Huomo non de’ sperar troppo in altura») e la chiosa fina-

10 Di Tacer non posso (RVF 325; x 7) si ricorda l’attacco sotto SOSPIRI, la «colonna cristallina» di Laura sotto FRONTE in cui si vede scritto il pensiero, il primo innamoramento sotto le voci CONTEMPLARE ed ESTASI AMOROSA, la rappresentazione della FORTUNA, all’inizio e alla fine del suo discorso e il suo narrare la NATIVITÀ di Laura. Di Quell’antico mio dolce empio signore (360; x 6), che è l’ampia rappresentazione del tribunale della Ragione, con le accuse del poeta e le difese di Amore, si privilegia appunto la raffigurazione iniziale della RAGIONE e della PALLIDEZZA COLORE DEGLI AMANTI, e nella difesa di Amore i tratti in cui si ravvisa l’INGRATITUDINE, la FAMA CHE VIVE DOPO LA MORTE, l’ascesa che per la BELLEZZA DELLA DONNA porta alla contemplazione del sommo bene. Penso che i due brevi esempi possano bastare a mostrare come l’impiego del Petrarca obbedisca agli stessi principi che reggono la costituzione di tutto il repertorio: la fisiologia amorosa, specie nei suoi risvolti sublimi; il discorso, più ancora che la raffigurazione, dei vizi e delle virtù: di nuovo in due parole: pathos ed ethos.

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le: «Di cotali autorità son piene tutte le carte». Non si può negare che la serie sia varia ed icastica, e il circolo di poesia e impresa continuo e più volte ripreso. I concetti sono dunque anzitutto e soprattutto, come dice ancora il frontespizio, gli stessi che sono espressi dalle imprese, «ridotti sotto i medesimi capi»; non sempre: a volte poesie e imprese stanno sotto voci distinte, ma il Cisano cerca comunque questa connessione (come nell’esempio appena visto) e, quando si fa annotatore (come appunto nel caso), legge la poesia con occhio attento ai suoi valori di «parola dipinta», privilegiando le allegorie, le prosopopee, le etopee, le cronografie e le topografie. Alcuni espositori da lui chiamati in causa sono attivi sui due fronti, della poesia e delle imprese, come il Ruscelli, e alcuni impresisti sono poeti, come quel Camillo Camilli che nelle sue Imprese illustri (Venezia 1586) prepone alla spiegazione di ogni figura un suo madrigale sullo stesso tema. Se le imprese trovano a volte il loro motto anche nella poesia volgare, rovesciando il rapporto, con il Cisano si comincia a vedere come la poesia possa essere letta a lume di impresa. Del resto dal Petrarca non si traggono solo motti11 ma anche figure: sotto la voce AMANTE TIMIDO «ardo in absenza, e ’n sua presenza agghiaccio» accompagna il disegno petrarchesco della fontana del sole, che bolle di notte ed è fredda di giorno (can. Qual più diversa e nova, RVF 135, vv. 46-60); sotto la voce DUREZZA DELL’AMATA CONTRA L’AMANTE il disegno di una fiamma che arde in mezzo a uno stagno è tratto, secondo il Camilli qui convocato, dal sonetto D’un bel chiaro, polito e vivo ghiaccio (RVF 202), mentre il motto è preso dall’Ariosto: «con che miracolo lo fai» (OF XXIII 127). Ancora sotto la voce CRISTO, partendo da Petrarca, attraverso Dante e il Molza si arriva al p. Grillo nei Pietosi affetti, con un pellicano che si apre il petto, che il Cisano spiega ricorrendo alla relativa impresa, quale esposta dal Ruscelli. È insomma un’opera che appartiene pienamente all’intento del «visibile parlare», anche se non comporta la riproduzione di nessuna figura, se non quella del Parnaso nella sua marca tipografica. Le singole voci non sembrano avere un ordine interno particolare, come si è visto per la FORTUNA, né cronologico né qualitativo. Petrarca, il più

11 «E so ben ch’i’ vo dietro a quel che m’arde» (RVF 19, v.14) serve di motto all’impresa della farfalla intorno al lume di candela (Ruscelli), sotto AMOR ALTO E NOBILE; «non per elettion ma per destino» (RVF 247, v. 14) è «torto» in «e per elettion e per destino» per un cane incatenato a una colonna (Ruscelli), sotto la stessa voce; il motto della candida cerva «nessun mi tocchi» (RVF 190) per l’impresa di Lucrezia Gonzaga portante la stessa figura sta sotto CASTITÀ; «il mio sperar» (RVF 23, vv. 52-53) per un pino spezzato dal fulmine (Ruscelli) sotto SPERANZA.

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citato degli antichi toscani, quando lo è, non è sempre in prima posizione. Bisogna dunque pensare che Cisano registrasse sotto un tema la materia quale via via gli si offriva, sul filo della memoria e nella trafila dei libri che aveva sotto mano: il che spiegherebbe bene la collocazione a fine voce di certi pezzi pienamente contemporanei come le Considerazioni del Tassoni, e l’aggiunta nel Riscontro de’ capi della seconda parte, nelle prime pagine non numerate, sotto le voci adeguate, di vasti brani della Salmace del Preti (1608), nonché di alcuni madrigali di Alessandro Gatti. Ci sono comunque tre piani: quello seguito dal Cisano, quello aperto dagli espositori riportati, che a loro volta moltiplicano le attestazioni di un tema in prospettiva imitativa, e quello dei raccoglitori di emblemi, anch’essi citati con grande larghezza. A volte, se non si ha l’opportunità di confrontare i commenti riportati con la loro fonte, i piani si distinguono male e sorgono dubbi di attribuzione di certe chiose, non si sa se del Cisano o se prosecuzione del precedente annotatore, non senza conseguenze sulle cifre avanzate in questi rilievi per caratterizzare quantitativamente la presenza dei singoli poeti: problemi che sarebbero senz’altro da risolvere se si intendesse proporre una nuova edizione del Tesoro, e che per ora si sono sciolti a lume di buon senso storico e contestuale. I «poeti greci e latini» vantati dal frontespizio sono citati in greco e in latino soltanto nelle annotazioni, a mostrare come sono stati «felicemente imitati da nostri». Al primo livello, quello degli esempi incatenati dal Cisano, sono semmai presenti in quanto volgarizzati, e volgarizzati molto presumibilmente dallo stesso Cisano (come nel caso appena visto di Pacuvio), quando non vi sia l’indicazione esplicita dei volgarizzatori, quali in primis l’Anguillara per le Metamorfosi di Ovidio (x 59), seguito dal Varchi per la Consolazione della filosofia di Boezio (x 23), dal Caro per l’Eneide (x 6), da Erasmo di Valvasone per la Tebaide (x 4). Resta il mistero che avvolge l’ordinatore di tanta materia: un Giovanni Cisano non altrimenti noto, di cui nessuno parla e che nessuno cita (neppure i repertori e gli studi sulle imprese vi fanno ricorso) e la cui fatica il Quadrio ha da parte sua messo in dubbio, attribuendola, perentoriamente ma senza motivazioni, ad altri: «il raccoglitore fu Alessandro Zilioli, Cittadino Veneziano, Istorico e Poeta»12. Il Cisano comunque rivendica a sé l’intera impresa nella dedica dell’opera al «canonico secolare della Congregazione di San Giorgio in Alga di Venezia» Massimiano Bruni, alla quale segue in numero cospicuo la schiera dei suoi elogiatori poetici, per lo più veneziani:

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F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1741, II p. 371; torna a citare questo Zilioli a II p. 479.

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Francesco Contarini, il giovane Baldassar Bonifacio, l’immancabile Pietro Petracci, Alessandro Gatti che sgomita per far figurare i suoi madrigali almeno nell’indice, Maurizio Moro confratello del dedicatario e altri ancora. Sempre nella dedica Cisano dice di aver ordinatamente raccolto questo Tesoro «affinché gli studiosi della poesia possano, secondo la varietà delle materie, aver l’essempio per imitarlo: e con virtuosa emulazione eccitar se medesimi a superarlo»: l’ottica parrebbe la stessa del Gareggiamento madrigalesco del Confuso Accademico Ordito uscito anche a Venezia lungo l’anno seguente presso Barezzo Barezzi (in cui gli appena visti Petracci, Contarini e Moro sono per altro tra i poeti più presenti). Eppure le differenze al riguardo sono anche notevoli: il Tesoro contiene esempi da imitare, non effettivi «gareggiamenti», per quel tanto che i due atteggiamenti possono essere distinti. Qui non campeggiano poeti viventi rivali, se non nelle frange del testo, contese dai più giovani, ma i tre supremi: Tasso, Ariosto e Petrarca (il quarto, Dante, non è comunque da loro troppo discosto), la cui poesia prosegue nella scrittura altrettanto premiata dei viventi Grillo, Marino e Guarini. Nel coevo Gareggiamento vale un principio quasi opposto, come dice il titolo: non l’imitazione ma la gara, attorno alla materia manieristica del solo madrigale, quale è praticato a partire dal pieno Cinquecento, e, dentro questi limiti, le preminenze non sono affatto le stesse, salvo la conferma della sovranità madrigalesca del Marino, anche in questo contesto anteposto al Guarini. All’estrema leggerezza del Gareggiamento si oppone nel Tesoro la mossa gravità di una tradizione vivente, tanto che il Cisano nel mare dei sonetti distingue bene le isole delle canzoni: da quelle che privilegia nel Canzoniere a quelle del Marino che largamente riporta. Due parole meritano anche gli stampatori Evangelista Deuchino e G.B. Pulciani, che assieme avevano già prodotto nel 1608 l’antologia di Muse sacre compilata da Pietro Petracci, dove già il Marino predominava13, La creazione del Mondo del Murtola14, e nel 1609 un’edizione delle enciclopediche Imagini de gli dei de gl’antichi di Vincenzo Cartari15. Il Deuchino da solo aveva già dato nel 1608 le Rime in sei parti, il Torrismondo e il Rinaldo del Tasso16, e oltre il

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F. Giambonini, Bibliografia delle opere a stampa di Giambattista Marino, Firenze, Olschki, 2000, n° 280. 14 Autori italiani del ’600. Catalogo bibliografico, a c. di S. Piantanida e altri, Roma, Multigrafica Editrice, 1986, n° 2820. 15 Catalogue of Seventeenth Century Italian Books in the British Library, London, The British Library, 1986, p. 194. 16 Le Rime di Torquato Tasso. Edizione critica, a c. di A. Solerti, vol. I: Bibliografia, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1898, n° 141.

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Rilievi sul Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano

Tesoro continuò nella linea antologica e poetica con la Celeste lira (ancora una scelta sacra del Petracci del 1612), il Sacro museo poetico di Celso Rosini (1621), l’Antologia in morte di Tiziano Vecellio (1621 con ristampa nel 1622), nonché, tra molto altro, la terza impressione de Lo stato rustico di Gian Vincenzo Imperiale (1613)17, poema tuttavia non ancora antologizzato nel 1610. Mi si consenta di tornare infine sulla lista dei campioni di questo maturo classicismo volgare di primo Seicento, non più nella prospettiva della pluralità dei generi, ma proprio della graduatoria dei singoli, chiedendo venia per la spiccia terminologia sportiva che adotto per semplificare il discorso. Nella graduatoria della prima appendice Petrarca si lascia largamente superare da Tasso e Ariosto, e Dante, all’undicesimo posto, per altro all’epoca non irrilevante, è preceduto da Grillo, Marino, Bembo, Guarini, Bernardo Tasso e Alamanni. Se Tasso occupa il primissimo posto, si noterà che ciò avviene soprattutto grazie alle sue Rime (anche se nessun canto della Gerusalemme manca all’appello), e sono anzitutto le rime da lui ordinate e annotate, ossia le Rime amorose uscite dalla stampa Osanna nel 1591: il suo dominio nella lirica a cavallo dei due secoli è assoluto. La Gerusalemme cede qui all’Orlando, con il quale va per altro spesso accoppiata sotto una stessa voce. La stessa leggera supremazia narrativa ariostesca si ha, molto più accentuata, nell’Arte de’ cenni del Bonifacio, per cui a maggior ragione la possiamo spiegare in termini di maggior gestualità e figuralità. Che il terzo posto sia del Petrarca, a questo punto, è quel che ci si aspetta (semmai più stupisce la sua posizione altrettanto e più rilevante nell’Arte de’ cenni, arte finalizzata al comportamento reale, non alla produzione poetica in sé)18. Le 185 citazioni tratte dal Canzoniere, al quale mi limiterò, si riconducono a 128 componimenti, distribuiti in 134 concetti (che non sembrano moltissimi, su 822): si tratta di 21 canzoni su 29 (ho già detto quali su tutte privilegiate), 7 sestine su 9, 99 sonetti su 317, di cui solo 14 riportati interamente, una sola delle sette ballate (Di tempo in tempo mi si fa men dura: RVF 149), neppure uno dei quattro madrigali, non essendo ormai più del tipo praticato nel secondo Cinquecento. I componimenti del Petrarca sono poi per lo più accennati da pochi versi, quasi si trattasse appunto di cosa ben nota, contrariamente a quel che avviene soprattutto per i poeti viventi. È anzitutto un Canzoniere selezionato diversa17

Giambonini, Bibliografia, cit., rispettivamente ni 290, 304, 305 e 308, 292. Pozzi, Alternatim, p. 511: «Con la sua scelta, apparentemente inadeguata, avverte però che di fronte al mutare dei comportamenti, visibile nei trattati di buona creanza o di oratoria, c’è una recursività dell’apparato gestuale riflessa meglio che altrove nelle ricorrenze in poesia». 18

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mente da quanto si faccia oggi: mancano, tra altri, i componimenti a noi più noti come Voi ch’ascoltate (RVF 1), Movesi il vecchierel (16), Solo e pensoso (35), Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (90), Chiare fresche e dolci acque (126): una canzone che per troppo pochi ornamenti non può uscire dal bosco, nonostante sia anche per il Bembo delle Prose della volgar lingua l’esempio supremo di «piacevolezza». Petrarca è poi citato nei temi più comuni, dove è in più larga compagnia. Colpisce, fra i poeti contemporanei la presenza del Grillo e del Marino, subito dopo il Petrarca. Il Grillo non di rado è anche solo sotto un data voce, indice esterno della novità poetica dei suoi temi, come ad esempio sotto COMPUNZIONE, DUREZZA DEL PECCATORE, HUOMO DA BENE, MEDITAZIONE SULLA PASSIONE, RESISTERE ALLE TENTAZIONI. Il Marino, ripeto, si impone nettamente in un quadro di non severa ma sicura classicità. Più raramente occupa da solo una voce (come sotto ANELLO, SECRETI OCCULTI DI DIO, con due sonetti interi), e anche questo si può capire: non la novità assoluta dei temi, ma il suo ottimo gareggiare lo pone in quella posizione. Inoltre la metà dei suoi componimenti (57) è riportata integralmente, tra i quali, per accennarne gli ambiti estremi, la canzone dei Baci e quella morale sulla Bellezza caduca; alcuni si presentano anche in serie, nelle quali, si sa, Marino è sommo maestro: tre sonetti sul CANE, quattro componimenti sulle DUREZZE DELL’AMATA, tre sonetti sulla GELOSIA, i due madrigali sulla bella mungitrice, sotto MUNGERE: un trattamento di favore senza pari. Scendendo nella lista, mi piace segnalare, della generazione intermedia fra Tasso e Marino, la notevole presenza del dimenticato, discreto quanto eccellente poeta perugino Filippo Alberti (x 25). I rivali del Marino sono ben piazzati, ma già a insuperabile distanza: Gasparo Murtola, con dieci testi, tra canzoni e madrigali, e tutto solo con brani di sue canzoni sotto DONNA BELLA E POVERA e DONNA BELLA E SCIOCCA; Tommaso Stigliani, con otto testi, torna due volte con il suo sonetto sull’OROLOGIO DA POLVERE. Il caso più curioso è quello del giovane Preti, presente con la novità del suo idillio, la sua fresca Salmace (1609), sotto sei voci nella seconda parte dell’opera, tra cui una SPELONCA tutta e solo sua, e inoltre aggiunto sotto le voci anche topografiche di MONTE, PRATO e RIO, si direbbe all’ultimo momento, ma in bella mostra, nel Riscontro de’ capi della seconda parte, che occupa le prime pagine non numerate. Una presenza meno intensa, con sei testi, è anche quella del concettosissimo Cesare Rinaldi, dominatore del Gareggiamento e già ben diffuso per le stampe. Guido Casoni compare solo tre volte, ma con sue due odi sacre riportate per intero sotto le voci IDDIO e MARIA VERGINE. Il Chiabrera emerge una volta sola con alcune strofe di una canzonetta morale sotto la

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Rilievi sul Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano

voce FABRICHE ANTICHE RUINATE. Il Rinuccini manca del tutto, a conferma della sua fortuna, dapprima solo musicale e poi postuma. Merita una segnalazione, come sola straniera, la presenza della Divina settimana del Du Bartas, sotto la voce STELLE, la cui traduzione italiana era stata diffusa dal Ciotti veneziano. Prima di Dante e dei suoi tempi non vi è quasi nulla: un paio di volte Guittone (in un caso si è visto) e una volta Dante da Maiano. Del Quattrocento emergono Giusto de’ Conti (x 3), Lorenzo de’ Medici (x 8) e Giovanni Pico della Mirandola (x 1), perché veicolati dalle Rime scelte, di cui il Cisano soprattutto si serve, ma comunque convenienti al carattere alquanto platonico e ficinano del Tesoro, e sparse in ben quattordici luoghi stanno le Stanze per la giostra del Poliziano. «L’energica potatura degli antichi» operata dallo Spada con il suo Giardino degli epiteti, oltre la metà del secolo, secondo la preziosa indicazione di Serianni19, qui è già operante. Lo Spada, dando spazio a pressoché tutti i poeti raccolti dal Cisano, non farà che aggiungere i nuovi campioni del mezzo secolo intercorso, successivi ai più giovani ma già stabilmente affermati del Tesoro di concetti.

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L. Serianni, La lingua del Seicento, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. V: La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, p. 587.

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APPENDICE I I poeti scelti in ordine decrescente di citazioni ottenute nel Tesoro di concetti

Sigle adottate per le principali raccolte collettive indicate nel Tesoro: Fiori = I fiori delle rime de’ poeti illustri nuovamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli, Venezia, Sessa, 1588. Rime dell’Atanagi = Rime di diversi nobili poeti toscani raccolte da M. Dionigi Atanagi, Venezia, Avanzo, 1565 RS = Il primo volume delle Rime scelte da diversi autori, di nuovo corrette e ristampate con privilegio, Venezia, Gabriel Giolito, 1564; Il secondo volume delle Rime scelte da diversi eccellenti autori, nuovamente mandati in luce, ivi, 1564. Stanze = Stanze di diversi illustri poeti raccolte da M. Lodovico Dolce […] nuovamente ristampate, Venezia, Gioliti, 1580. Tempio = Il Tempio alla Divina S. Donna Giovanna d’Aragona, Venezia, Francesco Rocca, 1563

1155 Tasso Torquato: Rime 482; Gerusalemme liberata 431; Rinaldo 187; Torrismondo 30; Ecloghe 15; Aminta 7; Dialoghi 2; Prologhi 1. 669 Ariosto Ludovico: Orlando furioso 618; Cinque canti 24; Rime (da RS) 23; Satire 4. 239 Petrarca Francesco: Rerum vulgarium fragmenta 185 (in vita 124, in morte 61); Trionfi 54. 202 Grillo Angelo: Rime morali 162; Pompe di morte 22; Pietosi affetti 16; Risposte a’ diversi 2. 126 Marino Gio. Battista: Rime. Parte prima 90 (Amorose 22; Marittime 15; Boscherecce 18; Eroiche 11; Lugubri 6; Morali 4; Sacre 5; Varie 7; Proposte 2); Rime. Parte seconda 26 (madrigali 11; canzoni 14; stanze 1); Epitalami 10. 106 Bembo Pietro: Rime 89; rime da Asolani 17. 101 Guarini Battista: Pastor fido 72; Rime 29 (8 son, 21 mad). 98 Tasso Bernardo: Rime 88 (da RS); Floridante 7; Amadigi 3. 93 Alamanni Luigi: Rime 58 (da RS, Stanze, Fiori); 29; Della coltivazione 6. 83 Varchi Benedetto: Rime 60 (da RS); versioni poetiche da Della consolazione della filosofia di Boezio 23. 79 Dante: Inf. 31; Purg. 28; Par. 18; Rime 2. 60 Anguillara Gio. Andrea dell’: Le metamorfosi d’Ovidio 59; Il primo libro dell’Eneida 1. 53 Terminio Antonio: da RS. 51 Pignatelli Ascanio: Rime.

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46 Guidiccioni Giovanni: Rime da RS. 42 Camilli Camillo: rime dalle sue Imprese illustri (Venezia, Ziletti, 1586) 41; Aggiunta al Goffredo 1. 38 Molza Francesco Maria: da RS. 37 Corso Antongiacomo: Rime, in parte da RS. 32 Casa Giovanni della: Rime, in parte da RS. 28 Raineri Antonfrancesco: da RS. 27 Muzio Girolamo: da RS. 27 Gonzaga Curzio: Rime 19; Il Fidamante 8. 25 Alberti Filippo: Rime. 24 Sannazaro Iacopo: Arcadia con le annotazioni di Tomaso Porcacchi (Venezia, Giolito, 1567) 21; Canzoni e sonetti 3. 24 Colonna Vittoria: Rime con l’esposizione di Rinaldo Corso (Venezia, Sessa, 1558). 20 Arnigo Bartolomeo: da RS 15; dal Tempio 5. 18 Tansillo Luigi: da RS e Fiori. 17 Domenichi Lodovico: da RS. 17 Piccolomini Bartolomeo Carlo: da RS. 14 Poliziano Angelo: Stanze per la giostra. 13 Cappello Bernardo: da RS e Fiori. 13 Erasmo di Valvasone: La caccia 9, La Tebaide 4. 12 Camillo Giulio: da RS. 12 Giraldi Cinzio Gio. Battista: da RS 11; dall’Ercole 1. 12 Minturno Antonio: da RS. 11 Caro Annibal: Eneide 6; Rime 5 (da RS). 11 Gatti Alessandro: madrigali solo nella Parte seconda e aggiunti nel Riscontro de’ capi. 11 Parabosco Girolamo: da RS. 10 Montenero Matteo: da RS. 10 Murtola Gasparo: Rime. 9 Carafa Ferrante: Carafè 6; da RS 3. 9 Medici Lorenzo de’: da RS e Stanze. 9 Paterno Lodovico: Le fiamme. 9 Preti Girolamo: La Salmace, solo nella Parte seconda e aggiunta nel Riscontro de’ capi. 8 Corfini Lodovico. 8 Nannini Remigio: da RS. 8 Nigrisoli Antonio Mario: da RS e Tempio. 8 Venier Domenico: da RS. 7 Arena Giovan Tomaso d’: da RS. 7 Ferrari Cristoforo: solo nella Parte seconda. 7 Magno Celio. 7 Stigliani Tomaso. 7 Vendramin Cavalier: da Stanze.

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6 Coppetta Francesco: da RS. 6 Gradenigo Pietro: da RS. 6 Porrini Gandolfo: da RS. 6 Rinaldi Cesare. 5 Amalteo Gio. Battista: da RS. 5 Egidio Cardinale: da RS. 5 Menni Vincenzo: da RS. 5 Moles Gabriel. 5 Petracci Pietro. 5 Porto Luigi da. 4 Alciato Andrea: Emblemi volgarizzati. 4 Ammirato Scipione: da RS. 4 Amomo: da RS. 4 Besalio Camillo: da RS. 4 Boccaccio Giovanni: Ameto 1; Decameron 1; Elegia di Madonna Fiammetta 1; Filocolo 1. 4 Costanzo Angelo di: da RS. 4 Lionardi Alessandro: da RS. 4 Moro Maurizio. 4 Spira Fortunio: da RS. 3 Beaziano Agostino: da RS. 3 Belli Valerio: Madrigali, solo nella Parte seconda. 3 Bonfadio Giacomo: da RS. 3 Casoni Guido. 3 Contile Luca: da RS. 3 Epicuro Marcantonio: La Cecaria. 3 Ferretti Giovanni: da RS. 3 Giusto de’ Conti: da RS. 3 Guidi Benedetto: da Rime dell’Atanagi. 3 Marinelli Lucrezia: solo nella Parte seconda. 3 Pellegrini Camillo: solo nella Parte seconda. 3 Quirini Vicenzo: da RS. 3 Ringhieri Innocenzo: da Stanze. 2 Armenini, Gio. Evangelista: da RS. 2 Asiani Gasparo. 2 Azia Gio. Battista d’: da RS. 2 Bentivoglio Ercole: da RS. 2 Caracciolo Giulio Cesare: da RS. 2 Cardanetto Orazio: da RS. 2 Castiglione Baldassar. 2 Cavalcabò Desiderio: da RS. 2 Coccio Francesco: da RS. 2 Dolce Lodovico: da RS.

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2 Fabri Gio. Francesco: da RS. 2 Ferrari Ogniben de’. 2 Fracastoro Girolamo: dal Tempio. 2 Gradenigo Giorgio: da RS. 2 Guglia Francesco Maria: da RS. 2 Guittone d’Arezzo. 2 Lavezuola Alberto. 2 Leoni Gio. Battista: Madrigali, solo nella Parte seconda. 2 Maganza Gio. Battista: dal Tempio. 2 Manzano Scipione di: Il Dandolo. 2 Martelli Vincenzo: da RS. 2 Ragnina Dominico: da RS. 2 Rota Berardino: dal Tempio. 2 Santini Stefano: in Rime degli Accademici Eterei. 1 Amanio Gio. Paolo: da RS. 1 Anselmi Antonio: da Tempio. 1 Barbaro Daniello. 1 Belprato Gio. Vincenzo: da Tempio. 1 Benivieni Girolamo. 1 Britonio Gironimo: da RS. 1 Brocardo Antonio: da RS. 1 Buona Giacomo: da Tempio. 1 Buonarroti Michelangelo. 1 Capilupi Lelio: da Rime dell’Atanagi. 1 Caporali Cesare. 1 Cencio Giacomo: da RS. 1 Cesarina Girolamo: da RS. 1 Chiabrera Gabriello. 1 Cittadini Celso. 1 Comanini Domenico. 1 Cresci Pietro: Tullia feroce. 1 Dante da Maiano. 1 Du Bartas Guillaume Saluste: La divina settimana. 1 Fenaruolo Girolamo. 1 Ferrini Bartolomeo: da RS. 1 Galeota Fabio: da RS. 1 Gambara Veronica. 1 Gandolfo Cavalier: da RS. 1 Ghelfucci Capoleone: Rosario della Madonna. 1 Giustinian Orsatto. 1 Groto Luigi, il Cieco d’Adria. 1 Intronato Fisico: Trionfo di Pudicizia. 1 Intronato Scacciato: da RS.

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1 Muzzarello Giovanni: da RS. 1 Nevizzano Francesco: dal Tempio. 1 Ongaro Antonio: Alceo. 1 Percivalle Gabriel. 1 Pico della Mirandola, Giovanni: da RS. 1 Pona Giovan Battista: Tirreno pastorale. 1 Rocco Bernardin. 1 Stecchini Marco: nelle Rime del Grillo. 1 Tebaldeo Antonio. 1 Torelli Pomponio: Rime amorose. 1 Trissino Gio. Giorgio: L’Italia liberata. 1 Udine Ercole: Psiche. 1 Varoli Francesco. 1 Veneroso Ippolito: nelle Rime del Grillo. 1 Venier Maffio.

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APPENDICE II Indice dei poeti scelti

I numeri indicano le citazioni ottenute da un poeta o da un’opera. Le ultime cifre apposte alle voci (il totale per ciascun poeta) ordinano l’appendice I.

Alamanni Luigi: Rime 58 (da RS, Stanze, Fiori); 29; Della coltivazione 6. 93 Alberti Filippo: Rime. 25 Alciato Andrea: Emblemi volgarizzati. 4 Amalteo Gio. Battista: da RS. 5 Amanio Gio. Paolo: da RS. 1 Ammirato Scipione: da RS. 4 Amomo: da RS. 4 Anguillara Gio. Andrea dell’: Le metamorfosi d’Ovidio 59; Il primo libro dell’Eneida 1. 60 Anselmi Antonio: da Tempio. 1 Arena Giovan Tomaso d’: da RS. 7 Ariosto Ludovico: Orlando furioso 618; Cinque canti 24; Rime (da RS) 23; Satire 4. 669 Armenini, Gio. Evangelista: da RS. 2 Arnigo Bartolomeo: da RS 15; dal Tempio 5. 20 Asiani Gasparo. 2 Azia Gio. Battista d’: da RS. 2 Barbaro Daniello. 1 Beaziano Agostino: da RS. 4 Belli Valerio: Madrigali, solo nella Parte seconda. 3 Belprato Gio. Vincenzo: da Tempio. 1 Bembo Pietro: Rime 89; rime da Asolani 17. 106 Benivieni Girolamo. 1 Bentivoglio Ercole: da RS. 2 Besalio Camillo: da RS. 4 Boccaccio Giovanni: Ameto 1; Decameron 1; Elegia di Madonna Fiammetta 1; Filocolo 1. 4 Bonfadio Giacomo: da RS. 3 Britonio Gironimo: da RS. 1 Brocardo Antonio: da RS. 1 Buona Giacomo: da Tempio. 1 Buonarroti Michelangelo. 1 Camilli Camillo: rime dalle sue Imprese illustri (Venezia, Ziletti, 1586) 41; Aggiunta al Goffredo 1. 42

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Camillo Giulio: da RS. 12 Capilupi Lelio: da Rime dell’Atanagi. 1 Caporali Cesare. 1 Cappello Bernardo: da RS e Fiori. 13 Caracciolo Giulio Cesare: da RS. 2 Carafa Ferrante: Carafè 6; da RS 3. 9 Cardanetto Orazio: da RS. 2 Caro Annibal: Eneide 6; Rime 5 (da RS). 11 Casa Giovanni della: Rime, in parte da RS. 32 Casoni Guido. 3 Castiglione Baldassar. 2 Cavalcabò Desiderio: da RS. 2 Cencio Giacomo: da RS. 1 Cesarina Girolamo: da RS. 1 Chiabrera Gabriello. 1 Cittadini Celso. 1 Coccio Francesco: da RS. 2 Colonna Vittoria: Rime con l’esposizione di Rinaldo Corso (Venezia, Sessa, 1558). 24 Comanini Domenico. 1 Contile Luca: da RS. 3 Coppetta Francesco: da RS. 6 Corfini Lodovico. 8 Corso Antongiacomo: Rime, in parte da RS. 37 Costanzo Angelo di: da RS. 4 Cresci Pietro: Tullia feroce. 1 Dante da Maiano. 1 Dante: Inf. 31; Purg. 28; Par. 18; Rime 2. 79 Dolce Lodovico: da RS. 2 Domenichi Lodovico: da RS. 17 Du Bartas Guillaume Saluste: La divina settimana. 1 Egidio Cardinale: da RS. 5 Epicuro Marcantonio: La Cecaria. 3 Erasmo di Valvasone: La caccia 9, La Tebaide 4. 13 Fabri Gio. Francesco: da RS. 2 Fenaruolo Girolamo. 1 Ferrari Cristoforo: solo nella Parte seconda. 7 Ferrari Ogniben de’. 2 Ferretti Giovanni: da RS. 3 Ferrini Bartolomeo: da RS. 1 Fracastoro Girolamo: dal Tempio. 2 Galeota Fabio: da RS. 1 Gambara Veronica. 1 Gandolfo Cavalier: da RS. 1

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Gatti Alessandro: madrigali solo nella Parte seconda e aggiunti nel Riscontro de’capi. 11 Ghelfucci Capoleone: Rosario della Madonna. 1 Giraldi Cinzio Gio. Battista: da RS 11; dall’Ercole 1. 12 Giustinian Orsatto. 1 Giusto de’ Conti: da RS. 3 Gonzaga Curzio: Rime 19; Il Fidamante 8. 27 Gradenigo Giorgio: da RS. 2 Gradenigo Pietro: da RS. 6 Grillo Angelo: Rime morali 162; Pompe di morte 22; Pietosi affetti 16; Risposte a’ diversi 2. 202 Groto Luigi, il Cieco d’Adria. 1 Guarini Battista: Pastor fido 72; Rime 29 (8 son, 21 mad). 101 Guglia Francesco Maria: da RS. 2 Guidi Benedetto: da Rime dell’Atanagi. 3 Guidiccioni Giovanni: Rime da RS. 46 Guittone d’Arezzo. 2 Intronato Fisico: Trionfo di Pudicizia. 1 Intronato Scacciato: da RS. 1 Lavezuola Alberto. 2 Leoni Gio. Battista: Madrigali, solo nella Parte seconda. 2 Lionardi Alessandro: da RS. 4 Maganza Gio. Battista: dal Tempio. 2 Magno Celio. 7 Manzano Scipione di: Il Dandolo. 2 Marinelli Lucrezia: solo nella Parte seconda. 3 Marino Gio. Battista: Rime. Parte prima 90 (Amorose 22; Marittime 15; Boscherecce 18; Eroiche 11; Lugubri 6; Morali 4; Sacre 5; Varie 7; Proposte 2); Rime. Parte seconda 26 (madrigali 11; canzoni 14; stanze 1); Epitalami 10. 126 Martelli Vincenzo: da RS. 2 Medici Lorenzo de’: da RS e Stanze. 9 Menni Vincenzo: da RS. 5 Minturno Antonio: da RS. 12 Moles Gabriel. 5 Molza Francesco Maria: da RS. 38 Montenero Matteo: da RS. 10 Moro Maurizio. 4 Murtola Gasparo: Rime. 10 Muzio Girolamo: da RS. 27 Muzzarello Giovanni: da RS. 1 Nannini Remigio: da RS. 8 Nevizzano Francesco: dal Tempio. 1 Nigrisoli Antonio Mario: da RS e Tempio. 8 Ongaro Antonio: Alceo. 1

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Parabosco Girolamo: da RS. 11 Paterno Lodovico: Le fiamme. 9 Pellegrini Camillo: solo nella Parte seconda. 3 Percivalle Gabriel. 1 Petracci Pietro. 5 Petrarca Francesco: Rerum vulgarium fragmenta 185 (in vita 124, in morte 61); Trionfi 54. 239 Piccolomini Bartolomeo Carlo: da RS. 17 Pico della Mirandola, Giovanni: da RS. 1 Pignatelli Ascanio: Rime. 51 Poliziano Angelo: Stanze per la giostra. 14 Pona Giovan Battista: Tirreno pastorale. 1 Porrini Gandolfo: da RS. 6 Porto Luigi da. 5 Preti Girolamo: La Salmace, solo nella Parte seconda e aggiunta nel Riscontro de’capi. 9 Quirini Vicenzo: da RS. 3 Ragnina Dominico: da RS. 2 Raineri Antonfrancesco: da RS. 28 Rinaldi Cesare. 6 Ringhieri Innocenzo: da Stanze. 3 Rocco Bernardin. 1 Rota Berardino: dal Tempio. 2 Sannazaro Iacopo: Arcadia con le annotazioni di Tomaso Porcacchi (Venezia, Giolito, 1567) 21; Canzoni e sonetti 3. 24 Santini Stefano: in Rime degli Accademici Eterei. 2 Spira Fortunio: da RS. 4 Stecchini Marco: nelle Rime del Grillo. 1 Stigliani Tomaso. 7 Tansillo Luigi: da RS e Fiori. 18 Tasso Bernardo: Rime 88 (da RS); Floridante 7; Amadigi 3. 98 Tasso Torquato: Rime 482; Gerusalemme liberata 431; Rinaldo 187; Torrismondo 30; Ecloghe 15; Aminta 7; Dialoghi 2; Prologhi 1. 1155 Tebaldeo Antonio. 1 Terminio Antonio: da RS. 53 Torelli Pomponio: Rime amorose. 1 Trissino Gio. Giorgio: L’Italia liberata. 1 Udine Ercole: Psiche. 1 Varchi Benedetto: Rime 60 (da RS); versioni poetiche da Della consolazione della filosofia di Boezio 23. 93 Varoli Francesco. 1 Vendramin Cavalier: da Stanze. 7 Veneroso Ippolito: nelle Rime del Grillo. 1 Venier Domenico: da RS. 8 Venier Maffio. 1

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Alessandro Martini RILIEVI SUL TESORO DI CONCETTI POETICI DI GIOVANNI CISANO

Questo intervento deve dichiarare anzitutto due debiti: il primo verso un maestro e il secondo verso un allievo. Il primo debito non è fra quelli che si possono saldare, e quindi prende la forma di un omaggio a Giovanni Pozzi, guida fra le più esperte nella cultura secentesca, nonché in altre vitali materie. È lui che a messo in mano a me, come con inesausta fiducia a molti altri, prima e dopo di me, gli strumenti del mestiere, e fra questi strumenti stava, affrontando l’Adone per la prima volta in un seminario, nel lontano ’68, anche il libro di cui intendo dire: il Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano, uscito a Venezia nel 1610. Si tratta del primo e più vasto archivio tematico della poesia italiana, anteriore a quello poi organizzato nel pieno Seicento dal domenicano Giovan Battista Spada nel suo Giardino de gli epiteti, traslati et aggiunti poetici italiani (Venezia 1652, Bologna 1665) e a quello fondato nei nostri anni da Ottavio Besomi: l’Archivio Tematico della Lirica Italiana (ATLI, ora anche in linea), il cui primo volume, contemplante La Lira del Marino, è uscito nel 1991 e il cui più recente e quarto, con le Rime di Vittoria Colonna e Galeazzo di Tarsia, è del 1997. Vi si è accostato nel 1994 anche un Archivio delle Similitudini (ASIM), comprendente i maggiori poemi narrativi, dal Boiardo al Marino. A Pozzi capitò di far cenno a questa continuità nel 1996, in un poscritto al suo fondamentale contributo sui Temi, topoi e stereotopi, steso dieci anni prima per la Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa. Quel poscritto si avviava proprio sulla novità maggiore nell’ambito degli studi tematici italiani intercorsa nel decennio, ossia l’impresa avviata da Besomi, che Pozzi paragona appunto a quella del Cisano e dello Spada, unici precedenti e presupposti dell’archivio zurighese, che ora, non a caso, intende annettersi anche il secondo:

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Alessandro Martini

I due titoli antichi rivelano nella loro diversità i due estremi dell’alternativa cui non si sottrae qualsiasi progetto d’inventariare materiali tematici: «concetti» ed «epiteti». Il secondo mette in luce il fatto che il tema si evidenzia nel vocabolo, il primo che il nucleo semantico legato alla realtà linguistica si trova oltre: non solo oltre il vocabolo, non solo oltre l’unità di senso linguistico che lo racchiude, ma di là della lingua stessa1.

La molteplicità delle voci dello Spada, circa 4600, sotto le quali si distribuiscono gli esempi di oltre 800 poeti, «fanno del Giardino un vero campionario di temi poetici barocchi, molto più rappresentativo del Cisano, anche se costui è prezioso per il taglio più ampio e articolato dei pezzi»2. Più rappresentativo lo Spada, mi pare di dover aggiungere, anzitutto perché d’epoca pienamente barocca (comprendente L’Adone, anche se non mai nominato), ma soprattutto perché meglio consultabile, data la molteplicità delle voci, che fanno del suo repertorio una specie di concordanza selettiva, ma largamente comprensiva, sia di autori che di temi. Come lo Spada dice Al cortese e benigno lettore, l’intento è di «farti trovare con facilità, senza affaticare il pensiero». Cercherò dunque di affrontare il taglio ampio e articolato del Cisano, nelle sue relativamente poche voci (822) e nei suoi relativamente pochi poeti (153 gli indicizzati nella seconda appendice a questo contributo), per quanto l’ampiezza complessiva del repertorio non sia molto inferiore a quella dello Spada: il Tesoro dei concetti conta 2300 pp. in 12° di contro a 832 pp. in 4° del Giardino degli epiteti. Si colloca a metà strada fra i pochi e universali capi enciclopedici della Fabrica del mondo di un Alunno (in dieci libri: da Dio all’Inferno) e la molteplicità ad usum poetae del Gareggiamento madrigalesco, uscito l’anno successivo, con 341 «soggetti» stesi lungo più di 800 pagine. Il suo formato è ancora quello di un petrarchino o di un rimario, e simile doveva esserne anche il maneggevole uso, mentre il Giardino è da porsi sul leggio e riporsi in biblioteca, come il coevo Cannocchiale aristotelico. Il Giardino può comunque contenere il Tesoro, e di fatto senz’altro lo contiene, fittamente parcellizzato. Resta che il Tesoro, a differenza dell’opera successiva che lo incamera, è anche la più ampia antologia di poesia italiana mai pubblicata sino a quel tempo, per il numero di componimenti riportati, spesso integralmente, specie se di tradizione recente. In questo ruolo il Giardino, che riduce i suoi esempi alla frase contenente l’epiteto in questione, non gli può fare concorrenza, e neppure gliela possono fare le raccolte di rime cinquecentesche, alle quali largamente attinge. 1 2

G. Pozzi, Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, p. 502. Ivi, p. 503.

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Rilievi sul Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano

Il secondo debito da dichiarare è verso Paolo Raselli, che si è da poco laureato proprio compilando, con intelligenza non inferiore alla diligenza, gli indici del Tesoro, reso così meglio leggibile 3. Ha individuato le stampe sommariamente citate dallo stesso Cisano e vi ha riscontrato gran parte delle citazioni da lui fatte: lavoro prezioso soprattutto per quel che riguarda le raccolte collettive. I tre indici principali da lui allestiti conservano il titolo che hanno nella stampa, aggiungendo ai meri elenchi nominali della stampa i rinvii ai luoghi opportuni: il primo è di Nomi de’ poeti dall’opere de’ quali si sono scelti i concetti (che qui ripropongo nella seconda appendice, di nuovo ridotto, per ovvie ragioni, ai soli nomi); il secondo è il Riscontro de’ capi sotto i quali sono ridotti i concetti, a sei colonne, che schematizzano la sintassi, per così dire, della voce, nel suo articolarsi in esempi poetici, annotazioni a quelli e imprese relative allo stesso tema, non riportate nelle loro figure ma nella loro descrizione verbale (pitture fatte parola, a rovescio delle parole dipinte); il terzo è la Tavola che contiene tutte l’imprese, i motti e i nomi de gli autori di esse, anche a sei colonne: i motti dettano l’ordine alfabetico della materia; segue una descrizione delle figure, indicando la fonte e il «portatore», per lo più dichiarato dalla fonte, nonché, quando indicato dalla stessa, l’autore. Nell’accostamento di poesia e impresa si ravvisa dunque immediatamente l’originalità dell’opera. Con questi strumenti a disposizione non resta che cominciare a far parlare il repertorio, cercando, data l’occasione, di guardare al tutto dalla parte che vi occupa il Petrarca. Procederò commentando il frontespizio dell’opera: TESORO / DI / CONCETTI POETICI: / SCELTI DA’ PIV ILLVSTRI / Poeti Toscani, / E ridotti sotto capi per ordine d’Alfabeto / DA GIOVANNI CISANO. / PARTE PRIMA. [e PARTE SECONDA.] / Con annotationi in molti luoghi di diuersi, nelle / quali si mostrano i colori, et ornamenti Poetici, / i lumi delle dottrine, e dell’arti sparsi per entro / i detti concetti, & i luoghi tolti da’ Poeti Greci, / & Latini, & felicemente imitati da nostri. / Oltre di ciò sotto i medesimi Capi, sono ridotti / i concetti espressi nelle Imprese raccolte in / diuersi volumi da diuersi Autori, con / le loro dichiarationi, & discorsi. / Con Licentia de’ Superiori, & Priuilegio. / [marca tipografica] / IN VENETIA, MDCX, / – / Appresso Euangelista Deuchino, / e Gio.Battista Pulciani.

La dizione «scelti da’ più illustri Poeti Toscani» è di netto sapore cinquecentesco, ossia richiama il titolo di varie raccolte collettive del pieno Cinque-

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P. Raselli, Il «Tesoro di concetti poetici» di Giovanni Cisano. Memoria di licenza presentata alla Facoltà di lettere dell’Università di Friburgo (Svizzera), 2002.

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cento. La maggior parte dei cinquecentisti qui presenti sono per altro ripresi da quelle che si indicano come Rime scelte, rispondenti alle Rime scelte di diversi autori di nuovo corrette e ristampate, in Venezia, presso Gabriel Giolito de’ Ferrari, nel 1564, in due volumi. Questi «illustri toscani» non sono poeti di sole liriche, ma, per quanto prevalga il genere «rime», anche autori di poemi cavallereschi, eroici, didascalici, di tragedie e di commedie pastorali: si tenga d’occhio nella prima appendice la graduatoria dei primi campioni (per così dire), ordinata per numero di citazioni ottenute da ciascun poeta, dopo aver contato le loro occorrenze nel primo indice di Raselli (escluse quelle che sono segnalate come presenti nelle annotazioni, ossia citazioni magari preziose ma di secondo grado, benché a volte dovute allo stesso Cisano)4. L’Orlando furioso vi è l’opera in assoluto più citata (x 618), più citata della pur presentissima Gerusalemme (x 431), ma vi sono anche i Cinque canti dello stesso Ariosto (x 24), il Rinaldo del Tasso (x 187), il Giron Cortese dell’Alamanni (x 29) e la sua Coltivazione (x 6), vi sono i poemi di Bernardo Tasso (x 10), Le Metamorfosi nel volgarizzamento dell’Anguillara (x 59), il Torrismondo del Tasso (x 30), l’Arcadia del Sannazaro (x 21), il Pastor fido (x 72) molto più dell’Aminta (x 7). Di qui la presenza di voci tipicamente da poema, sotto le quali campeggiano per lo più appaiati Ariosto e Tasso, ma anche il solo Ariosto, come sotto DUELLO, FUGGIRE, IMPUDICIZIA, o il solo Tasso, come sotto EROI, INCANTO, LASCIVIA. Ma soprattutto e su tutto è alta la frequenza di concetti morali e spirituali, ampiamente sviluppati, come ANIMA, CONTEMPLARE, CONVERTIRSI, CORPO, FAMA, TEMPO, ONESTÀ, UMILTÀ. Il taglio spiega la larga presenza dei Trionfi (x 54), oltre che del Canzoniere (x 185), e la grande affermazione del p. Angelo Grillo (x 202) quale maggior poeta lirico della generazione post-tassiana con le sue Rime morali e Pompe di morte del 1595 e con i Pietosi affetti del 1596; spiega in parte persino la costante presenza del Marino (x 126), che subito segue il Grillo; un Marino privilegiato anche nelle sue canzoni morali, d’alto argomento quanto di forma leggera (Bellezza caduca, Il ferro, L’oro), e negli Epitalami, in cui l’erotismo è, per così dire, sacrosanto. Assieme, Grillo e Marino sembrano insomma spartirsi

4 Malgrado la loro precisa entità si intendano queste cifre come soggette a un doppio filtro: quello di chi le ha raccolte e quello di chi le ha contate, quindi soggette a minime variazioni se sottoposte a più minuti controlli. Si affida anche al lettore l’operazione mentale di ridurre lo scarto fra, per esempio, le 431 citazioni dai più di quindicimila versi della Gerusalemme liberata e le 7 dai più di settemila dell’Aminta (scarto che, nell’esempio concreto, rimane tuttavia enorme, e significativo anche in relazione alle 72 ottenute dal Pastor fido).

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Rilievi sul Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano

l’onore e l’onere di rappresentare, meglio di qualunque Paterno (x 8), un possibile nuovo Petrarca. Il Cisano inoltre, sempre per quel che riguarda la varietà di generi convocati, fa persino qualche concessione alla prosa più lirica del Boccaccio, che per altro molto usa nelle proprie annotazioni. Insomma: le paratie dei generi saltano, anche all’interno di una stessa voce, non perché si superino, si capisce, ma perché le preoccupazioni di poetica lasciano il posto o si subordinano alle contaminazioni retoriche. Mi pare questo il solo, per quanto importante, segno barocco dell’impresa, fortemente ancorata al «visibile parlare», alla figuralità non meno cinquecentesca che secentesca: tendenza di per sé transgenerica. L’«ordine alfabetico» per «capi» distingue quest’opera da ogni altra raccolta di rime precedente, mettendo in rilievo non il poeta fra i suoi pari, secondo la logica studiata da Amedeo Quondam nelle raccolte cinquecentesche5, ma il tema, la finalità enciclopedica e retorica del tutto. Applicata alla materia poetica, e non all’universo strettamente retorico, come da parte di un Ravisius Textor nel Thesaurus di sinonimi ed epiteti, o lessicografico, come nell’imminente Vocabolario degli Accademici della Crusca, mi pare la prima operazione del genere, non seguita nel Gareggiamento madrigalesco del 1611 (l’anno successivo), che percorre grosso modo l’ordine discendente della descriptio personae 6 e non seguita dall’Arte dei cenni di Giovanni Bonifacio, del 1616 (tutte vaste imprese di una stessa area veneta e dello stesso giro d’anni). All’ordine alfabetico tornerà invece a ricorrere con maggior minuzia lo Spada. Le «annotazioni […] di diversi» sono anzitutto quelle degli espositori del Petrarca, dal Vellutello, in un paio di casi, al Gesualdo, al più usato Daniello (x 34), alle freschissime Considerazioni del Tassoni, pubblicate nel 1609, dunque nello stesso anno in cui il Tesoro ottiene la licenza di pubblicazione (precisamente il 24 marzo per la prima parte e il 9 ottobre per la seconda). Ad esse il Cisano ricorre dieci volte, di cui tre contestanti o francamente irridenti la rappresentazione petrarchesca. Ma vi sono anche gli espositori dell’Ariosto (Simone Fornari, Alberto Lavezuola, Orazio Toscanella, Girolamo Ruscelli, Francesco Turchi per le rime e le satire) e del Tasso (Scipione Gentili e Giulio Guastavini); fra questi è compreso il Tasso stesso per le sue rime, e con grande larghezza; sono presenti Giuseppe Orologi sull’Anguillara, Rinaldo Corso su Vittoria Colonna, il Landino su Dante, Tomaso Porcac5

A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena-Ferrara, Panini-ISR, 1991, pp. 123-50. 6 Sul Gareggiamento si veda A. Martini, Ritratto del madrigale poetico fra Cinque e Seicento, in «Lettere italiane», XXXIII, 1981, pp. 529-48.

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chi sul Sannazaro, Pietro Colelli sui Pietosi affetti del Grillo (1596). Vi è dunque tutta la grande tradizione esegetica volgare del Cinquecento, sino alla sua più dirompente novità. Fra gli annotatori, beninteso, va posto, mi pare con onore, lo stesso Cisano, cui vanno attribuite tutte le note che non portano altro nome. Le annotazioni, dice sempre il frontespizio, mostrano «colori e ornamenti» che sono ovviamente retorici, ma che, dato il loro abbinamento con le imprese, possono essere intesi come relativi alla figuralità di quel patrimonio poetico; mostrano inoltre i «lumi delle dottrine e dell’arti»: non solo l’ornato parlare ma il «di là della lingua stessa», come si esprime Pozzi. Sono accenti che rendono questa enciclopedia abbastanza simile a quella dell’Arte dei cenni di Giovanni Bonifacio (1616), studiata da Paola Casella7: un’arte volta alla pratica comunicativa, ma sorprendentemente tutta fondata sul patrimonio poetico dei classici latini e volgari; un’arte in cui vengono citati gli stessi più illustri toscani meglio presenti in Cisano, per quanto in una diversa gerarchia. Il terreno comune a Cisano e Bonifacio, e in qualche modo a espositori di poesie e di imprese, è dunque l’interesse per la fisiognomica, gli affetti, la filosofia morale, il teatro del mondo. I «concetti» del titolo sono quindi da intendere non nel senso dell’argutezza sviluppata dal Tesauro, «gran madre d’ogni ingegnoso concetto», ma in modo più tradizionale, poetico-morale; non sono forse tanto lontani dai luoghi dell’arte mnemonica quale fu coltivata da un Giulio Camillo: immagini che aprono (cito Lina Bolzoni in un binomio simile a quello proposto dal Cisano) «i tesori delle belle forme del dire, oltre che i tesori del sapere»8. Giulio Camillo è per altro ben presente nel Tesoro come godibile petrarchista (x 12), ma spunta anche come autore del Teatro, e proprio in una annotazione dovuta al Cisano per la rappresentazione della FORTUNA cieca 9. Vediamo come ci si arrivi, a mostrare concretamente lo svilupparsi di un «concetto». Cisano parte dalla rappresentazione della Fortuna come onda proposta da Boezio nella Consolazione della filosofia, tradotta in volgar fiorentino dal Varchi (in rime per quel che riguarda i metri, e qui si tratta delle «prime rime» del secondo libro); continua con quella della Gerusalemme («Donna giovin di viso, antica d’anni, / ch’ai lunghi crini in su la fronte attorti / fia nota, et al color vario de’ panni»: GL XIV 72), con la relativa annotazione di Giulio Guastavini che a sua volta ricorda Petrarca («di tempo antica e giove7 P. Casella, Un dotto e curioso trattato del primo Seicento: L’“Arte de’ cenni” di Giovanni Bonifaccio, in «Studi secenteschi», XXXIV, 1993, pp. 331-407. 8 Lo spettacolo della memoria, introduzione a G. Camillo, L’idea del theatro, Palermo, Sellerio, 1991, p. 33. 9 Un altro ricorso al Camillo da parte del Cisano commentatore si ha sotto CANTARE.

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ne del viso»: RVF 325, v. 51); segue quella dell’Orlando furioso («Ma quella che di voi fa come il vento / d’arida polve» ecc.: OF XXXIII 50) con l’annotazione di Alberto Lavezuola, che rinvia al primo salmo; segue Scipione Ammirato nelle solite giolitiane Rime scelte, a imitazione dell’Ariosto; segue Petrarca nella canzone Tacer non posso, la più citata di tutte, assieme all’altra che comincia Quell’antico mio dolce empio signore, per il suo valore figurale, l’ethos e il pathos che contiene10 («Detto questo a la sua volubil ruota / si volse, in ch’ella fila il nostro stame»: RVF 325, vv. 106-7, con un dotto rinvio interno, dovuto allo stesso Cisano, a RVF 296, vv. 5-7); segue Pacuvio nella retorica di Cicerone, tradotto in sciolti, probabilmente dallo stesso Cisano, che vede la Fortuna «pazza cieca e bestiale» aggirarsi sopra un sasso, per la quale sempre il Cisano rinvia alla Tavola di Cebete. Di seguito cita appunto Giulio Camillo, che «fa fede haver veduto in mano del Re Francesco la fortuna diligentemente scolpita in questo modo: Una femina senz’occhi in cima d’un albero, la quale con una pertica lunga batteva i suoi frutti, come si fanno le noci […] Lo stesso Autore nel primo luogo del suo teatro, dove parla della camera della fortuna, finge la fortuna una femina priva di luce, ma con gli occhi bellissimi da ingannar ciascuno, e la pone a sedere sopra uno struzzo il quale abbia l’ali d’Aquila.» Ricorda poi Artemidoro, che l’ha posta a sedere sopra una colonna distesa, ora bella e ornata, ora sozza e malvestita, con un timone in mano, e oltre le cinque qui sintetizzate prosegue per altre dodici pagine, in cui riprende tre volte Tasso, tre volte Petrarca (nella canzone vista e in altri luoghi), due volte Ariosto, un’altra volta Boezio e convoca ancora Lorenzo de’ Medici, Dante, Alamanni, Grillo, Ruscelli nel discorso sulle imprese, Vittoria Colonna e il suo annotatore Rinaldo Corso, con il quale il Cisano gareggia in erudizione, aggiungendo Seneca a Lucilio, che trascina Guittone («Huomo non de’ sperar troppo in altura») e la chiosa fina-

10 Di Tacer non posso (RVF 325; x 7) si ricorda l’attacco sotto SOSPIRI, la «colonna cristallina» di Laura sotto FRONTE in cui si vede scritto il pensiero, il primo innamoramento sotto le voci CONTEMPLARE ed ESTASI AMOROSA, la rappresentazione della FORTUNA, all’inizio e alla fine del suo discorso e il suo narrare la NATIVITÀ di Laura. Di Quell’antico mio dolce empio signore (360; x 6), che è l’ampia rappresentazione del tribunale della Ragione, con le accuse del poeta e le difese di Amore, si privilegia appunto la raffigurazione iniziale della RAGIONE e della PALLIDEZZA COLORE DEGLI AMANTI, e nella difesa di Amore i tratti in cui si ravvisa l’INGRATITUDINE, la FAMA CHE VIVE DOPO LA MORTE, l’ascesa che per la BELLEZZA DELLA DONNA porta alla contemplazione del sommo bene. Penso che i due brevi esempi possano bastare a mostrare come l’impiego del Petrarca obbedisca agli stessi principi che reggono la costituzione di tutto il repertorio: la fisiologia amorosa, specie nei suoi risvolti sublimi; il discorso, più ancora che la raffigurazione, dei vizi e delle virtù: di nuovo in due parole: pathos ed ethos.

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le: «Di cotali autorità son piene tutte le carte». Non si può negare che la serie sia varia ed icastica, e il circolo di poesia e impresa continuo e più volte ripreso. I concetti sono dunque anzitutto e soprattutto, come dice ancora il frontespizio, gli stessi che sono espressi dalle imprese, «ridotti sotto i medesimi capi»; non sempre: a volte poesie e imprese stanno sotto voci distinte, ma il Cisano cerca comunque questa connessione (come nell’esempio appena visto) e, quando si fa annotatore (come appunto nel caso), legge la poesia con occhio attento ai suoi valori di «parola dipinta», privilegiando le allegorie, le prosopopee, le etopee, le cronografie e le topografie. Alcuni espositori da lui chiamati in causa sono attivi sui due fronti, della poesia e delle imprese, come il Ruscelli, e alcuni impresisti sono poeti, come quel Camillo Camilli che nelle sue Imprese illustri (Venezia 1586) prepone alla spiegazione di ogni figura un suo madrigale sullo stesso tema. Se le imprese trovano a volte il loro motto anche nella poesia volgare, rovesciando il rapporto, con il Cisano si comincia a vedere come la poesia possa essere letta a lume di impresa. Del resto dal Petrarca non si traggono solo motti11 ma anche figure: sotto la voce AMANTE TIMIDO «ardo in absenza, e ’n sua presenza agghiaccio» accompagna il disegno petrarchesco della fontana del sole, che bolle di notte ed è fredda di giorno (can. Qual più diversa e nova, RVF 135, vv. 46-60); sotto la voce DUREZZA DELL’AMATA CONTRA L’AMANTE il disegno di una fiamma che arde in mezzo a uno stagno è tratto, secondo il Camilli qui convocato, dal sonetto D’un bel chiaro, polito e vivo ghiaccio (RVF 202), mentre il motto è preso dall’Ariosto: «con che miracolo lo fai» (OF XXIII 127). Ancora sotto la voce CRISTO, partendo da Petrarca, attraverso Dante e il Molza si arriva al p. Grillo nei Pietosi affetti, con un pellicano che si apre il petto, che il Cisano spiega ricorrendo alla relativa impresa, quale esposta dal Ruscelli. È insomma un’opera che appartiene pienamente all’intento del «visibile parlare», anche se non comporta la riproduzione di nessuna figura, se non quella del Parnaso nella sua marca tipografica. Le singole voci non sembrano avere un ordine interno particolare, come si è visto per la FORTUNA, né cronologico né qualitativo. Petrarca, il più

11 «E so ben ch’i’ vo dietro a quel che m’arde» (RVF 19, v.14) serve di motto all’impresa della farfalla intorno al lume di candela (Ruscelli), sotto AMOR ALTO E NOBILE; «non per elettion ma per destino» (RVF 247, v. 14) è «torto» in «e per elettion e per destino» per un cane incatenato a una colonna (Ruscelli), sotto la stessa voce; il motto della candida cerva «nessun mi tocchi» (RVF 190) per l’impresa di Lucrezia Gonzaga portante la stessa figura sta sotto CASTITÀ; «il mio sperar» (RVF 23, vv. 52-53) per un pino spezzato dal fulmine (Ruscelli) sotto SPERANZA.

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citato degli antichi toscani, quando lo è, non è sempre in prima posizione. Bisogna dunque pensare che Cisano registrasse sotto un tema la materia quale via via gli si offriva, sul filo della memoria e nella trafila dei libri che aveva sotto mano: il che spiegherebbe bene la collocazione a fine voce di certi pezzi pienamente contemporanei come le Considerazioni del Tassoni, e l’aggiunta nel Riscontro de’ capi della seconda parte, nelle prime pagine non numerate, sotto le voci adeguate, di vasti brani della Salmace del Preti (1608), nonché di alcuni madrigali di Alessandro Gatti. Ci sono comunque tre piani: quello seguito dal Cisano, quello aperto dagli espositori riportati, che a loro volta moltiplicano le attestazioni di un tema in prospettiva imitativa, e quello dei raccoglitori di emblemi, anch’essi citati con grande larghezza. A volte, se non si ha l’opportunità di confrontare i commenti riportati con la loro fonte, i piani si distinguono male e sorgono dubbi di attribuzione di certe chiose, non si sa se del Cisano o se prosecuzione del precedente annotatore, non senza conseguenze sulle cifre avanzate in questi rilievi per caratterizzare quantitativamente la presenza dei singoli poeti: problemi che sarebbero senz’altro da risolvere se si intendesse proporre una nuova edizione del Tesoro, e che per ora si sono sciolti a lume di buon senso storico e contestuale. I «poeti greci e latini» vantati dal frontespizio sono citati in greco e in latino soltanto nelle annotazioni, a mostrare come sono stati «felicemente imitati da nostri». Al primo livello, quello degli esempi incatenati dal Cisano, sono semmai presenti in quanto volgarizzati, e volgarizzati molto presumibilmente dallo stesso Cisano (come nel caso appena visto di Pacuvio), quando non vi sia l’indicazione esplicita dei volgarizzatori, quali in primis l’Anguillara per le Metamorfosi di Ovidio (x 59), seguito dal Varchi per la Consolazione della filosofia di Boezio (x 23), dal Caro per l’Eneide (x 6), da Erasmo di Valvasone per la Tebaide (x 4). Resta il mistero che avvolge l’ordinatore di tanta materia: un Giovanni Cisano non altrimenti noto, di cui nessuno parla e che nessuno cita (neppure i repertori e gli studi sulle imprese vi fanno ricorso) e la cui fatica il Quadrio ha da parte sua messo in dubbio, attribuendola, perentoriamente ma senza motivazioni, ad altri: «il raccoglitore fu Alessandro Zilioli, Cittadino Veneziano, Istorico e Poeta»12. Il Cisano comunque rivendica a sé l’intera impresa nella dedica dell’opera al «canonico secolare della Congregazione di San Giorgio in Alga di Venezia» Massimiano Bruni, alla quale segue in numero cospicuo la schiera dei suoi elogiatori poetici, per lo più veneziani:

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F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1741, II p. 371; torna a citare questo Zilioli a II p. 479.

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Francesco Contarini, il giovane Baldassar Bonifacio, l’immancabile Pietro Petracci, Alessandro Gatti che sgomita per far figurare i suoi madrigali almeno nell’indice, Maurizio Moro confratello del dedicatario e altri ancora. Sempre nella dedica Cisano dice di aver ordinatamente raccolto questo Tesoro «affinché gli studiosi della poesia possano, secondo la varietà delle materie, aver l’essempio per imitarlo: e con virtuosa emulazione eccitar se medesimi a superarlo»: l’ottica parrebbe la stessa del Gareggiamento madrigalesco del Confuso Accademico Ordito uscito anche a Venezia lungo l’anno seguente presso Barezzo Barezzi (in cui gli appena visti Petracci, Contarini e Moro sono per altro tra i poeti più presenti). Eppure le differenze al riguardo sono anche notevoli: il Tesoro contiene esempi da imitare, non effettivi «gareggiamenti», per quel tanto che i due atteggiamenti possono essere distinti. Qui non campeggiano poeti viventi rivali, se non nelle frange del testo, contese dai più giovani, ma i tre supremi: Tasso, Ariosto e Petrarca (il quarto, Dante, non è comunque da loro troppo discosto), la cui poesia prosegue nella scrittura altrettanto premiata dei viventi Grillo, Marino e Guarini. Nel coevo Gareggiamento vale un principio quasi opposto, come dice il titolo: non l’imitazione ma la gara, attorno alla materia manieristica del solo madrigale, quale è praticato a partire dal pieno Cinquecento, e, dentro questi limiti, le preminenze non sono affatto le stesse, salvo la conferma della sovranità madrigalesca del Marino, anche in questo contesto anteposto al Guarini. All’estrema leggerezza del Gareggiamento si oppone nel Tesoro la mossa gravità di una tradizione vivente, tanto che il Cisano nel mare dei sonetti distingue bene le isole delle canzoni: da quelle che privilegia nel Canzoniere a quelle del Marino che largamente riporta. Due parole meritano anche gli stampatori Evangelista Deuchino e G.B. Pulciani, che assieme avevano già prodotto nel 1608 l’antologia di Muse sacre compilata da Pietro Petracci, dove già il Marino predominava13, La creazione del Mondo del Murtola14, e nel 1609 un’edizione delle enciclopediche Imagini de gli dei de gl’antichi di Vincenzo Cartari15. Il Deuchino da solo aveva già dato nel 1608 le Rime in sei parti, il Torrismondo e il Rinaldo del Tasso16, e oltre il

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F. Giambonini, Bibliografia delle opere a stampa di Giambattista Marino, Firenze, Olschki, 2000, n° 280. 14 Autori italiani del ’600. Catalogo bibliografico, a c. di S. Piantanida e altri, Roma, Multigrafica Editrice, 1986, n° 2820. 15 Catalogue of Seventeenth Century Italian Books in the British Library, London, The British Library, 1986, p. 194. 16 Le Rime di Torquato Tasso. Edizione critica, a c. di A. Solerti, vol. I: Bibliografia, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1898, n° 141.

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Rilievi sul Tesoro di concetti poetici di Giovanni Cisano

Tesoro continuò nella linea antologica e poetica con la Celeste lira (ancora una scelta sacra del Petracci del 1612), il Sacro museo poetico di Celso Rosini (1621), l’Antologia in morte di Tiziano Vecellio (1621 con ristampa nel 1622), nonché, tra molto altro, la terza impressione de Lo stato rustico di Gian Vincenzo Imperiale (1613)17, poema tuttavia non ancora antologizzato nel 1610. Mi si consenta di tornare infine sulla lista dei campioni di questo maturo classicismo volgare di primo Seicento, non più nella prospettiva della pluralità dei generi, ma proprio della graduatoria dei singoli, chiedendo venia per la spiccia terminologia sportiva che adotto per semplificare il discorso. Nella graduatoria della prima appendice Petrarca si lascia largamente superare da Tasso e Ariosto, e Dante, all’undicesimo posto, per altro all’epoca non irrilevante, è preceduto da Grillo, Marino, Bembo, Guarini, Bernardo Tasso e Alamanni. Se Tasso occupa il primissimo posto, si noterà che ciò avviene soprattutto grazie alle sue Rime (anche se nessun canto della Gerusalemme manca all’appello), e sono anzitutto le rime da lui ordinate e annotate, ossia le Rime amorose uscite dalla stampa Osanna nel 1591: il suo dominio nella lirica a cavallo dei due secoli è assoluto. La Gerusalemme cede qui all’Orlando, con il quale va per altro spesso accoppiata sotto una stessa voce. La stessa leggera supremazia narrativa ariostesca si ha, molto più accentuata, nell’Arte de’ cenni del Bonifacio, per cui a maggior ragione la possiamo spiegare in termini di maggior gestualità e figuralità. Che il terzo posto sia del Petrarca, a questo punto, è quel che ci si aspetta (semmai più stupisce la sua posizione altrettanto e più rilevante nell’Arte de’ cenni, arte finalizzata al comportamento reale, non alla produzione poetica in sé)18. Le 185 citazioni tratte dal Canzoniere, al quale mi limiterò, si riconducono a 128 componimenti, distribuiti in 134 concetti (che non sembrano moltissimi, su 822): si tratta di 21 canzoni su 29 (ho già detto quali su tutte privilegiate), 7 sestine su 9, 99 sonetti su 317, di cui solo 14 riportati interamente, una sola delle sette ballate (Di tempo in tempo mi si fa men dura: RVF 149), neppure uno dei quattro madrigali, non essendo ormai più del tipo praticato nel secondo Cinquecento. I componimenti del Petrarca sono poi per lo più accennati da pochi versi, quasi si trattasse appunto di cosa ben nota, contrariamente a quel che avviene soprattutto per i poeti viventi. È anzitutto un Canzoniere selezionato diversa17

Giambonini, Bibliografia, cit., rispettivamente ni 290, 304, 305 e 308, 292. Pozzi, Alternatim, p. 511: «Con la sua scelta, apparentemente inadeguata, avverte però che di fronte al mutare dei comportamenti, visibile nei trattati di buona creanza o di oratoria, c’è una recursività dell’apparato gestuale riflessa meglio che altrove nelle ricorrenze in poesia». 18

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mente da quanto si faccia oggi: mancano, tra altri, i componimenti a noi più noti come Voi ch’ascoltate (RVF 1), Movesi il vecchierel (16), Solo e pensoso (35), Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (90), Chiare fresche e dolci acque (126): una canzone che per troppo pochi ornamenti non può uscire dal bosco, nonostante sia anche per il Bembo delle Prose della volgar lingua l’esempio supremo di «piacevolezza». Petrarca è poi citato nei temi più comuni, dove è in più larga compagnia. Colpisce, fra i poeti contemporanei la presenza del Grillo e del Marino, subito dopo il Petrarca. Il Grillo non di rado è anche solo sotto un data voce, indice esterno della novità poetica dei suoi temi, come ad esempio sotto COMPUNZIONE, DUREZZA DEL PECCATORE, HUOMO DA BENE, MEDITAZIONE SULLA PASSIONE, RESISTERE ALLE TENTAZIONI. Il Marino, ripeto, si impone nettamente in un quadro di non severa ma sicura classicità. Più raramente occupa da solo una voce (come sotto ANELLO, SECRETI OCCULTI DI DIO, con due sonetti interi), e anche questo si può capire: non la novità assoluta dei temi, ma il suo ottimo gareggiare lo pone in quella posizione. Inoltre la metà dei suoi componimenti (57) è riportata integralmente, tra i quali, per accennarne gli ambiti estremi, la canzone dei Baci e quella morale sulla Bellezza caduca; alcuni si presentano anche in serie, nelle quali, si sa, Marino è sommo maestro: tre sonetti sul CANE, quattro componimenti sulle DUREZZE DELL’AMATA, tre sonetti sulla GELOSIA, i due madrigali sulla bella mungitrice, sotto MUNGERE: un trattamento di favore senza pari. Scendendo nella lista, mi piace segnalare, della generazione intermedia fra Tasso e Marino, la notevole presenza del dimenticato, discreto quanto eccellente poeta perugino Filippo Alberti (x 25). I rivali del Marino sono ben piazzati, ma già a insuperabile distanza: Gasparo Murtola, con dieci testi, tra canzoni e madrigali, e tutto solo con brani di sue canzoni sotto DONNA BELLA E POVERA e DONNA BELLA E SCIOCCA; Tommaso Stigliani, con otto testi, torna due volte con il suo sonetto sull’OROLOGIO DA POLVERE. Il caso più curioso è quello del giovane Preti, presente con la novità del suo idillio, la sua fresca Salmace (1609), sotto sei voci nella seconda parte dell’opera, tra cui una SPELONCA tutta e solo sua, e inoltre aggiunto sotto le voci anche topografiche di MONTE, PRATO e RIO, si direbbe all’ultimo momento, ma in bella mostra, nel Riscontro de’ capi della seconda parte, che occupa le prime pagine non numerate. Una presenza meno intensa, con sei testi, è anche quella del concettosissimo Cesare Rinaldi, dominatore del Gareggiamento e già ben diffuso per le stampe. Guido Casoni compare solo tre volte, ma con sue due odi sacre riportate per intero sotto le voci IDDIO e MARIA VERGINE. Il Chiabrera emerge una volta sola con alcune strofe di una canzonetta morale sotto la

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voce FABRICHE ANTICHE RUINATE. Il Rinuccini manca del tutto, a conferma della sua fortuna, dapprima solo musicale e poi postuma. Merita una segnalazione, come sola straniera, la presenza della Divina settimana del Du Bartas, sotto la voce STELLE, la cui traduzione italiana era stata diffusa dal Ciotti veneziano. Prima di Dante e dei suoi tempi non vi è quasi nulla: un paio di volte Guittone (in un caso si è visto) e una volta Dante da Maiano. Del Quattrocento emergono Giusto de’ Conti (x 3), Lorenzo de’ Medici (x 8) e Giovanni Pico della Mirandola (x 1), perché veicolati dalle Rime scelte, di cui il Cisano soprattutto si serve, ma comunque convenienti al carattere alquanto platonico e ficinano del Tesoro, e sparse in ben quattordici luoghi stanno le Stanze per la giostra del Poliziano. «L’energica potatura degli antichi» operata dallo Spada con il suo Giardino degli epiteti, oltre la metà del secolo, secondo la preziosa indicazione di Serianni19, qui è già operante. Lo Spada, dando spazio a pressoché tutti i poeti raccolti dal Cisano, non farà che aggiungere i nuovi campioni del mezzo secolo intercorso, successivi ai più giovani ma già stabilmente affermati del Tesoro di concetti.

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L. Serianni, La lingua del Seicento, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. V: La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, p. 587.

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APPENDICE I I poeti scelti in ordine decrescente di citazioni ottenute nel Tesoro di concetti

Sigle adottate per le principali raccolte collettive indicate nel Tesoro: Fiori = I fiori delle rime de’ poeti illustri nuovamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli, Venezia, Sessa, 1588. Rime dell’Atanagi = Rime di diversi nobili poeti toscani raccolte da M. Dionigi Atanagi, Venezia, Avanzo, 1565 RS = Il primo volume delle Rime scelte da diversi autori, di nuovo corrette e ristampate con privilegio, Venezia, Gabriel Giolito, 1564; Il secondo volume delle Rime scelte da diversi eccellenti autori, nuovamente mandati in luce, ivi, 1564. Stanze = Stanze di diversi illustri poeti raccolte da M. Lodovico Dolce […] nuovamente ristampate, Venezia, Gioliti, 1580. Tempio = Il Tempio alla Divina S. Donna Giovanna d’Aragona, Venezia, Francesco Rocca, 1563

1155 Tasso Torquato: Rime 482; Gerusalemme liberata 431; Rinaldo 187; Torrismondo 30; Ecloghe 15; Aminta 7; Dialoghi 2; Prologhi 1. 669 Ariosto Ludovico: Orlando furioso 618; Cinque canti 24; Rime (da RS) 23; Satire 4. 239 Petrarca Francesco: Rerum vulgarium fragmenta 185 (in vita 124, in morte 61); Trionfi 54. 202 Grillo Angelo: Rime morali 162; Pompe di morte 22; Pietosi affetti 16; Risposte a’ diversi 2. 126 Marino Gio. Battista: Rime. Parte prima 90 (Amorose 22; Marittime 15; Boscherecce 18; Eroiche 11; Lugubri 6; Morali 4; Sacre 5; Varie 7; Proposte 2); Rime. Parte seconda 26 (madrigali 11; canzoni 14; stanze 1); Epitalami 10. 106 Bembo Pietro: Rime 89; rime da Asolani 17. 101 Guarini Battista: Pastor fido 72; Rime 29 (8 son, 21 mad). 98 Tasso Bernardo: Rime 88 (da RS); Floridante 7; Amadigi 3. 93 Alamanni Luigi: Rime 58 (da RS, Stanze, Fiori); 29; Della coltivazione 6. 83 Varchi Benedetto: Rime 60 (da RS); versioni poetiche da Della consolazione della filosofia di Boezio 23. 79 Dante: Inf. 31; Purg. 28; Par. 18; Rime 2. 60 Anguillara Gio. Andrea dell’: Le metamorfosi d’Ovidio 59; Il primo libro dell’Eneida 1. 53 Terminio Antonio: da RS. 51 Pignatelli Ascanio: Rime.

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46 Guidiccioni Giovanni: Rime da RS. 42 Camilli Camillo: rime dalle sue Imprese illustri (Venezia, Ziletti, 1586) 41; Aggiunta al Goffredo 1. 38 Molza Francesco Maria: da RS. 37 Corso Antongiacomo: Rime, in parte da RS. 32 Casa Giovanni della: Rime, in parte da RS. 28 Raineri Antonfrancesco: da RS. 27 Muzio Girolamo: da RS. 27 Gonzaga Curzio: Rime 19; Il Fidamante 8. 25 Alberti Filippo: Rime. 24 Sannazaro Iacopo: Arcadia con le annotazioni di Tomaso Porcacchi (Venezia, Giolito, 1567) 21; Canzoni e sonetti 3. 24 Colonna Vittoria: Rime con l’esposizione di Rinaldo Corso (Venezia, Sessa, 1558). 20 Arnigo Bartolomeo: da RS 15; dal Tempio 5. 18 Tansillo Luigi: da RS e Fiori. 17 Domenichi Lodovico: da RS. 17 Piccolomini Bartolomeo Carlo: da RS. 14 Poliziano Angelo: Stanze per la giostra. 13 Cappello Bernardo: da RS e Fiori. 13 Erasmo di Valvasone: La caccia 9, La Tebaide 4. 12 Camillo Giulio: da RS. 12 Giraldi Cinzio Gio. Battista: da RS 11; dall’Ercole 1. 12 Minturno Antonio: da RS. 11 Caro Annibal: Eneide 6; Rime 5 (da RS). 11 Gatti Alessandro: madrigali solo nella Parte seconda e aggiunti nel Riscontro de’ capi. 11 Parabosco Girolamo: da RS. 10 Montenero Matteo: da RS. 10 Murtola Gasparo: Rime. 9 Carafa Ferrante: Carafè 6; da RS 3. 9 Medici Lorenzo de’: da RS e Stanze. 9 Paterno Lodovico: Le fiamme. 9 Preti Girolamo: La Salmace, solo nella Parte seconda e aggiunta nel Riscontro de’ capi. 8 Corfini Lodovico. 8 Nannini Remigio: da RS. 8 Nigrisoli Antonio Mario: da RS e Tempio. 8 Venier Domenico: da RS. 7 Arena Giovan Tomaso d’: da RS. 7 Ferrari Cristoforo: solo nella Parte seconda. 7 Magno Celio. 7 Stigliani Tomaso. 7 Vendramin Cavalier: da Stanze.

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6 Coppetta Francesco: da RS. 6 Gradenigo Pietro: da RS. 6 Porrini Gandolfo: da RS. 6 Rinaldi Cesare. 5 Amalteo Gio. Battista: da RS. 5 Egidio Cardinale: da RS. 5 Menni Vincenzo: da RS. 5 Moles Gabriel. 5 Petracci Pietro. 5 Porto Luigi da. 4 Alciato Andrea: Emblemi volgarizzati. 4 Ammirato Scipione: da RS. 4 Amomo: da RS. 4 Besalio Camillo: da RS. 4 Boccaccio Giovanni: Ameto 1; Decameron 1; Elegia di Madonna Fiammetta 1; Filocolo 1. 4 Costanzo Angelo di: da RS. 4 Lionardi Alessandro: da RS. 4 Moro Maurizio. 4 Spira Fortunio: da RS. 3 Beaziano Agostino: da RS. 3 Belli Valerio: Madrigali, solo nella Parte seconda. 3 Bonfadio Giacomo: da RS. 3 Casoni Guido. 3 Contile Luca: da RS. 3 Epicuro Marcantonio: La Cecaria. 3 Ferretti Giovanni: da RS. 3 Giusto de’ Conti: da RS. 3 Guidi Benedetto: da Rime dell’Atanagi. 3 Marinelli Lucrezia: solo nella Parte seconda. 3 Pellegrini Camillo: solo nella Parte seconda. 3 Quirini Vicenzo: da RS. 3 Ringhieri Innocenzo: da Stanze. 2 Armenini, Gio. Evangelista: da RS. 2 Asiani Gasparo. 2 Azia Gio. Battista d’: da RS. 2 Bentivoglio Ercole: da RS. 2 Caracciolo Giulio Cesare: da RS. 2 Cardanetto Orazio: da RS. 2 Castiglione Baldassar. 2 Cavalcabò Desiderio: da RS. 2 Coccio Francesco: da RS. 2 Dolce Lodovico: da RS.

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2 Fabri Gio. Francesco: da RS. 2 Ferrari Ogniben de’. 2 Fracastoro Girolamo: dal Tempio. 2 Gradenigo Giorgio: da RS. 2 Guglia Francesco Maria: da RS. 2 Guittone d’Arezzo. 2 Lavezuola Alberto. 2 Leoni Gio. Battista: Madrigali, solo nella Parte seconda. 2 Maganza Gio. Battista: dal Tempio. 2 Manzano Scipione di: Il Dandolo. 2 Martelli Vincenzo: da RS. 2 Ragnina Dominico: da RS. 2 Rota Berardino: dal Tempio. 2 Santini Stefano: in Rime degli Accademici Eterei. 1 Amanio Gio. Paolo: da RS. 1 Anselmi Antonio: da Tempio. 1 Barbaro Daniello. 1 Belprato Gio. Vincenzo: da Tempio. 1 Benivieni Girolamo. 1 Britonio Gironimo: da RS. 1 Brocardo Antonio: da RS. 1 Buona Giacomo: da Tempio. 1 Buonarroti Michelangelo. 1 Capilupi Lelio: da Rime dell’Atanagi. 1 Caporali Cesare. 1 Cencio Giacomo: da RS. 1 Cesarina Girolamo: da RS. 1 Chiabrera Gabriello. 1 Cittadini Celso. 1 Comanini Domenico. 1 Cresci Pietro: Tullia feroce. 1 Dante da Maiano. 1 Du Bartas Guillaume Saluste: La divina settimana. 1 Fenaruolo Girolamo. 1 Ferrini Bartolomeo: da RS. 1 Galeota Fabio: da RS. 1 Gambara Veronica. 1 Gandolfo Cavalier: da RS. 1 Ghelfucci Capoleone: Rosario della Madonna. 1 Giustinian Orsatto. 1 Groto Luigi, il Cieco d’Adria. 1 Intronato Fisico: Trionfo di Pudicizia. 1 Intronato Scacciato: da RS.

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1 Muzzarello Giovanni: da RS. 1 Nevizzano Francesco: dal Tempio. 1 Ongaro Antonio: Alceo. 1 Percivalle Gabriel. 1 Pico della Mirandola, Giovanni: da RS. 1 Pona Giovan Battista: Tirreno pastorale. 1 Rocco Bernardin. 1 Stecchini Marco: nelle Rime del Grillo. 1 Tebaldeo Antonio. 1 Torelli Pomponio: Rime amorose. 1 Trissino Gio. Giorgio: L’Italia liberata. 1 Udine Ercole: Psiche. 1 Varoli Francesco. 1 Veneroso Ippolito: nelle Rime del Grillo. 1 Venier Maffio.

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APPENDICE II Indice dei poeti scelti

I numeri indicano le citazioni ottenute da un poeta o da un’opera. Le ultime cifre apposte alle voci (il totale per ciascun poeta) ordinano l’appendice I.

Alamanni Luigi: Rime 58 (da RS, Stanze, Fiori); 29; Della coltivazione 6. 93 Alberti Filippo: Rime. 25 Alciato Andrea: Emblemi volgarizzati. 4 Amalteo Gio. Battista: da RS. 5 Amanio Gio. Paolo: da RS. 1 Ammirato Scipione: da RS. 4 Amomo: da RS. 4 Anguillara Gio. Andrea dell’: Le metamorfosi d’Ovidio 59; Il primo libro dell’Eneida 1. 60 Anselmi Antonio: da Tempio. 1 Arena Giovan Tomaso d’: da RS. 7 Ariosto Ludovico: Orlando furioso 618; Cinque canti 24; Rime (da RS) 23; Satire 4. 669 Armenini, Gio. Evangelista: da RS. 2 Arnigo Bartolomeo: da RS 15; dal Tempio 5. 20 Asiani Gasparo. 2 Azia Gio. Battista d’: da RS. 2 Barbaro Daniello. 1 Beaziano Agostino: da RS. 4 Belli Valerio: Madrigali, solo nella Parte seconda. 3 Belprato Gio. Vincenzo: da Tempio. 1 Bembo Pietro: Rime 89; rime da Asolani 17. 106 Benivieni Girolamo. 1 Bentivoglio Ercole: da RS. 2 Besalio Camillo: da RS. 4 Boccaccio Giovanni: Ameto 1; Decameron 1; Elegia di Madonna Fiammetta 1; Filocolo 1. 4 Bonfadio Giacomo: da RS. 3 Britonio Gironimo: da RS. 1 Brocardo Antonio: da RS. 1 Buona Giacomo: da Tempio. 1 Buonarroti Michelangelo. 1 Camilli Camillo: rime dalle sue Imprese illustri (Venezia, Ziletti, 1586) 41; Aggiunta al Goffredo 1. 42

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Camillo Giulio: da RS. 12 Capilupi Lelio: da Rime dell’Atanagi. 1 Caporali Cesare. 1 Cappello Bernardo: da RS e Fiori. 13 Caracciolo Giulio Cesare: da RS. 2 Carafa Ferrante: Carafè 6; da RS 3. 9 Cardanetto Orazio: da RS. 2 Caro Annibal: Eneide 6; Rime 5 (da RS). 11 Casa Giovanni della: Rime, in parte da RS. 32 Casoni Guido. 3 Castiglione Baldassar. 2 Cavalcabò Desiderio: da RS. 2 Cencio Giacomo: da RS. 1 Cesarina Girolamo: da RS. 1 Chiabrera Gabriello. 1 Cittadini Celso. 1 Coccio Francesco: da RS. 2 Colonna Vittoria: Rime con l’esposizione di Rinaldo Corso (Venezia, Sessa, 1558). 24 Comanini Domenico. 1 Contile Luca: da RS. 3 Coppetta Francesco: da RS. 6 Corfini Lodovico. 8 Corso Antongiacomo: Rime, in parte da RS. 37 Costanzo Angelo di: da RS. 4 Cresci Pietro: Tullia feroce. 1 Dante da Maiano. 1 Dante: Inf. 31; Purg. 28; Par. 18; Rime 2. 79 Dolce Lodovico: da RS. 2 Domenichi Lodovico: da RS. 17 Du Bartas Guillaume Saluste: La divina settimana. 1 Egidio Cardinale: da RS. 5 Epicuro Marcantonio: La Cecaria. 3 Erasmo di Valvasone: La caccia 9, La Tebaide 4. 13 Fabri Gio. Francesco: da RS. 2 Fenaruolo Girolamo. 1 Ferrari Cristoforo: solo nella Parte seconda. 7 Ferrari Ogniben de’. 2 Ferretti Giovanni: da RS. 3 Ferrini Bartolomeo: da RS. 1 Fracastoro Girolamo: dal Tempio. 2 Galeota Fabio: da RS. 1 Gambara Veronica. 1 Gandolfo Cavalier: da RS. 1

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Gatti Alessandro: madrigali solo nella Parte seconda e aggiunti nel Riscontro de’capi. 11 Ghelfucci Capoleone: Rosario della Madonna. 1 Giraldi Cinzio Gio. Battista: da RS 11; dall’Ercole 1. 12 Giustinian Orsatto. 1 Giusto de’ Conti: da RS. 3 Gonzaga Curzio: Rime 19; Il Fidamante 8. 27 Gradenigo Giorgio: da RS. 2 Gradenigo Pietro: da RS. 6 Grillo Angelo: Rime morali 162; Pompe di morte 22; Pietosi affetti 16; Risposte a’ diversi 2. 202 Groto Luigi, il Cieco d’Adria. 1 Guarini Battista: Pastor fido 72; Rime 29 (8 son, 21 mad). 101 Guglia Francesco Maria: da RS. 2 Guidi Benedetto: da Rime dell’Atanagi. 3 Guidiccioni Giovanni: Rime da RS. 46 Guittone d’Arezzo. 2 Intronato Fisico: Trionfo di Pudicizia. 1 Intronato Scacciato: da RS. 1 Lavezuola Alberto. 2 Leoni Gio. Battista: Madrigali, solo nella Parte seconda. 2 Lionardi Alessandro: da RS. 4 Maganza Gio. Battista: dal Tempio. 2 Magno Celio. 7 Manzano Scipione di: Il Dandolo. 2 Marinelli Lucrezia: solo nella Parte seconda. 3 Marino Gio. Battista: Rime. Parte prima 90 (Amorose 22; Marittime 15; Boscherecce 18; Eroiche 11; Lugubri 6; Morali 4; Sacre 5; Varie 7; Proposte 2); Rime. Parte seconda 26 (madrigali 11; canzoni 14; stanze 1); Epitalami 10. 126 Martelli Vincenzo: da RS. 2 Medici Lorenzo de’: da RS e Stanze. 9 Menni Vincenzo: da RS. 5 Minturno Antonio: da RS. 12 Moles Gabriel. 5 Molza Francesco Maria: da RS. 38 Montenero Matteo: da RS. 10 Moro Maurizio. 4 Murtola Gasparo: Rime. 10 Muzio Girolamo: da RS. 27 Muzzarello Giovanni: da RS. 1 Nannini Remigio: da RS. 8 Nevizzano Francesco: dal Tempio. 1 Nigrisoli Antonio Mario: da RS e Tempio. 8 Ongaro Antonio: Alceo. 1

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Parabosco Girolamo: da RS. 11 Paterno Lodovico: Le fiamme. 9 Pellegrini Camillo: solo nella Parte seconda. 3 Percivalle Gabriel. 1 Petracci Pietro. 5 Petrarca Francesco: Rerum vulgarium fragmenta 185 (in vita 124, in morte 61); Trionfi 54. 239 Piccolomini Bartolomeo Carlo: da RS. 17 Pico della Mirandola, Giovanni: da RS. 1 Pignatelli Ascanio: Rime. 51 Poliziano Angelo: Stanze per la giostra. 14 Pona Giovan Battista: Tirreno pastorale. 1 Porrini Gandolfo: da RS. 6 Porto Luigi da. 5 Preti Girolamo: La Salmace, solo nella Parte seconda e aggiunta nel Riscontro de’capi. 9 Quirini Vicenzo: da RS. 3 Ragnina Dominico: da RS. 2 Raineri Antonfrancesco: da RS. 28 Rinaldi Cesare. 6 Ringhieri Innocenzo: da Stanze. 3 Rocco Bernardin. 1 Rota Berardino: dal Tempio. 2 Sannazaro Iacopo: Arcadia con le annotazioni di Tomaso Porcacchi (Venezia, Giolito, 1567) 21; Canzoni e sonetti 3. 24 Santini Stefano: in Rime degli Accademici Eterei. 2 Spira Fortunio: da RS. 4 Stecchini Marco: nelle Rime del Grillo. 1 Stigliani Tomaso. 7 Tansillo Luigi: da RS e Fiori. 18 Tasso Bernardo: Rime 88 (da RS); Floridante 7; Amadigi 3. 98 Tasso Torquato: Rime 482; Gerusalemme liberata 431; Rinaldo 187; Torrismondo 30; Ecloghe 15; Aminta 7; Dialoghi 2; Prologhi 1. 1155 Tebaldeo Antonio. 1 Terminio Antonio: da RS. 53 Torelli Pomponio: Rime amorose. 1 Trissino Gio. Giorgio: L’Italia liberata. 1 Udine Ercole: Psiche. 1 Varchi Benedetto: Rime 60 (da RS); versioni poetiche da Della consolazione della filosofia di Boezio 23. 93 Varoli Francesco. 1 Vendramin Cavalier: da Stanze. 7 Veneroso Ippolito: nelle Rime del Grillo. 1 Venier Domenico: da RS. 8 Venier Maffio. 1

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Gabriele Gatti TRA PETRARCA E ARIOSTO. IL LESSICO DELLE RIME. PARTE PRIMA 1 DI LUIGI GROTO CIECO D’ADRIA

1. La licenza del Prencipe di Febo Le ultime familiares petrarchesche, indirizzate ai più grandi fra gli antichi, recano in calce un eloquente luogo di spedizione: apud superos, dal 1

Col titolo La prima parte delle rime di Luigi Groto Cieco d’Adria, il libro esce a Venezia nel 1577 per i tipi dei fratelli Fabio e Agostino Zoppini; presso gli stessi stampatori, un anno prima della morte, nel 1584, Groto lo ripubblica – con titolo leggermente diverso, Delle rime di Luigi Groto Cieco d’Adria. Parte prima – sostanzialmente invariato: “non si è levato, né aggiunto, ma correttavi solo alcuna cosa”, scrive il 23 febbraio di quello stesso anno ad Antonio Beffa Negrini. Per una descrizione della raccolta (328 componimenti: 147 sonetti, 120 madrigali, 52 stanze isolate, 3 capitoli, 2 canzoni, 1 canzonetta, 1 componimento di 9 stanze, 1 sestina doppia caudata, 1 metro barbaro) e della sua complessa organizzazione, mi permetto di rinviare a un mio precedente contributo: G. Gatti, “Alcune cosette a stampa”. Il canzoniere di Luigi Groto Cieco d’Adria, in “Rivista di letteratura italiana”, XIII, 1995, 3, pp. 377-412; si vedano inoltre A. Duranti, Sulle “Rime” di Luigi Groto, in «Filologia e critica», II, 1977, 3, pp. 337-88; A. Togni, La formula dell’equivoco nella poesia di Luigi Groto Cieco d’Adria, Università di Friburgo, memoria di licenza (dattiloscritta), 1982; A. Mott-Petavrakis, Studien zum lyrischen Werk Luigi Grotos. Interpretation und literarhistorische Einordnung seiner Rime, Hamburg, Romanisches Seminar der Universität Hamburg, 1992 e G. Pozzi, Anamorfosi poetiche nelle maniere di Cinque-Seicento, in Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 191-204, in particolare pp. 196197. Più in generale sul Groto lirico cfr.: U. Schulz-Buschhaus, Das Madrigal. Zur Stilgeschichte der italienischen Lyrik zwischen Renaissance un Barock, Bad Homburg v. d. H. – Berlin – Zürich, Gehlen, 1969, pp. 170-182; M. Ariani, Giovan Battista Strozzi, il Manierismo e il Madrigale del ’500: strutture ideologiche e strutture formali, introduzione a G. B. Strozzi, Madrigali inediti, Urbino, Argalia, 1974, pp. XCI-XCVI; E. Taddeo, Il

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Gabriele Gatti

mondo dei vivi. Un analogo del mondo suggella la lettera del 5 dicembre 1570 a Misser Francesco Petrarca che apre le famigliari del Cieco d’Adria2. In una prosa libera e vivacissima Groto vi narra le peripezie di un rocambolesco viaggio a Bologna, compiuto l’anno prima per fare la conoscenza di Alessandra Volta; il racconto desta l’infastidita sorpresa dell’illustre estinto: – Ben, che vuoi tu conchiuder per questo? Che rileva a me il sapere di cotesto tuo viaggio? – dite voi. Adagio, padroncino mio caro, io il vi masticherò in 50 parole. Questo viaggio, che vi ho così alla carlona disignato in prosa di gesso o di carbone, vorrei colorire e dipingere alla grande in verso di oltramarino, di oltramontano. – E chi domine ti tiene? – dite voi – a passo a passo si va lungi. – Sono alcuni pedanti, alcune scimie, alcuni petrarchisti et alcuni poeti salvatichi, i quali hanno introdotto per legge inviolabile e per regola indispensabile che in verso volgare non possono usarsi altre voci di quelle che usaste voi ne’ vostri componimenti, e chi altrimenti fa, secondo costoro, pecca, et è degno d’esser frustato e consegnato alla forca o avuto per eretico marcio; e qual di costoro ne

manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 65-70 e 119-123; L. Baldacci (a cura di), Lirici del Cinquecento, Milano, Longanesi, 19752 (1957), pp. 152-154; G. Pozzi, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981, p. 189; G. Pozzi, Poesia per gioco, Bologna, Il Mulino, 1984 (si faccia riferimento all’indice analitico: Groto compare in più capitoli del manualetto); F. Erspamer, Petrarchismo e manierismo nella lirica del secondo Cinquecento, in Storia della cultura veneta. IV.1 Il Seicento, Vicenza, Pozza, 1983, pp. 190-222 (sul Groto pp. 197-200); nel volume Luigi Groto e il suo tempo. Atti del convegno di studi (Adria, 27-29 aprile 1984), a cura di G. Brunello e A. Lodo, vol. I, Rovigo, Minelliana, 1987 i contributi di F. Erspamer, Luigi Groto rimatore (pp. 205-220) e di F. Bandini, Sui madrigali di Luigi Groto (pp. 221-235); non vanno infine dimenticati i molti riferimenti alle rime del Cieco presenti nei vari studi di Alessandro Martini sul madrigale, a partire da A. Martini, Ritratto del madrigale poetico fra Cinque e Seicento, “Lettere italiane”, 33, 1981, pp. 529-548. 2 Cfr. L. Groto, Lettere famigliari […], In Venetia, presso Matteo Valentini, 1606, cc. 3r-5v. In realtà, la raccolta s’inizia con una lettera consolatoria “al signor Ventura”, datata 5 aprile 1563. Seguono la lettera al Petrarca e quella, lunga quanto spassosa, ad Agostino Poggi, in data 14 dicembre 1570, nella quale Groto cerca di dissuadere dal matrimonio il suo interlocutore, dedicandogli la traduzione dall’indiano di una presunta lettera del filosofo Lyndorach al Re Cultheber delli incommodi dei maritati. In ambedue compaiono le lodi della Cavaliera Alessandra Volta, che, così come già accade nelle Rime, si propone come l’autentico nume tutelare dell’opera. L’epistolario riprende con una lettera del 12 maggio 1563 e continua rispettando scrupolosamente l’ordine cronologico: mi sembra legittimo il sospetto che nelle intenzioni dell’autore le due lettere fittizie del dicembre 1570 dovessero occupare rispettivamente il primo e il secondo posto, mentre la lettera al Ventura il terzo. Il probabile disguido, inaugurato dalla stampa Brugnolo del 1601, si è poi ripetuto nelle edizioni del 1606 e del 1616. Su questa lettera si veda E. Taddeo, Il manierismo letterario, cit., pp. 173-80, sulle cui osservazioni avrò presto modo di tornare (cfr. note 23 e 25).

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

gli scritti altrui scopre alcune di queste parole nuove pare che abbia scoverto un contrabando di diecimila ducati; e così colui che usane va, se non possono averlo nelle mani, accusato, condannato, maladetto, scommunicato, bandito: e con taglia dietro. Par che io vi veggia far risa grasse, ma il fatto sta per apunto come io vi dico. Occhiate voi ancor dove io miro? Or ora udirete lo scoppio. E perché in questo mio viaggio (il qual perciò vi ho descritto di punto in punto) s’abbattono alcune voci che voi non usaste, né pensaste usar giamai: come sarebbe “cavalla”, ché, seben voi usaste “destriero3” e “cavallo4”, la mia però non era né destriero né ubino né palafreno né cavallo né chinea5, ma era una cavalla vecchia e magra, in malora e in mal punto che sia per questi scroppolosi e stitichi del tempo nostro: ell’era pure una cavalla a dispetto loro. Bisogna pur dir le cose come le furono. E così di molte altre, come sarebbe “Fratta, illustrissima, cavalliera, Volta, obligare, monsignor, zio, Loreto, realtà, religione, costumatissima, Aldo, pistolotto, gambe, a rondon, Catai, Moluche, Gogmagog, stivalli, ascensa, ortolana, bigoncio, canestri poetici, testamento, preti, croste, Racano, staffa, smontare, mantello, scarana6, garofolo, armiraglio, cortile, contadini, suore, badessa, villani7, amarciare, ribeccamento, Cerbero, Melampo, Dorceo, Oribaso, compare asino, canicola, budella, catino, palo, spadon8, sfoderare, nastro, padrona, soffiarlo, pezzo, rimescolata, volpi, spago, polizza, paio, bestia, Ferrara, Giambatista mariuolo, frugar, valigia, bisacce, arcione, annasare, popone, Chioggia, noci, contrabando, spezie, sbrigati, intrespoli, linea, Ghirardina, desinare, licenza, magnifico, messere, Marc’Antonio, allignati, eccellente, Felsina, scaramucciando, remava, misericordia, allegare, castagne, scarpe, prospero, sommario, bossolo, Bevilacqua, ranocchi, gonfio, botta, botte, calze, giubbon, stringato, spagnuola, imperiali, oppulente, canceliere, pupilla, maschio9,

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Cfr. Rvf 98.1 e Tr. Am. 1.22. Per i testi petrarcheschi le edizioni di riferimento sono le seguenti: F. Petrarca, Canzoniere, Edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996 e F. Petrarca, Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino. Introduzione di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996. 4 Tr. Mor. 2.99. 5 Ubino è un piccolo cavallo veloce, il palafreno un nobile cavallo da parata e la chinea una “cavalcatura che sa tenere l’ambio, adatta ai viaggi e al passeggio”. (Cfr. GDLI: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1961-2002). 6 Segue la parola azi/mo [sic] che non è dato ritrovare o identificare nel racconto del viaggio. 7 Sostantivo maschile plurale; in Petrarca è attestato solo l’aggettivo villana in Rvf 270.83. 8 Nessuno spadone, ma varie spade nel Petrarca: sette nei Rvf (26.7; 27.14; 28.53; 29.38; 103.10; 105.11; 128.20) e tre nei Trionfi (Tr. Am. 3.52 e 4.57; Tr. Mor. 1.42). 9 Maschio compare una sola volta nel Petrarca, in Tr. Am. 4.105, “nel mezzo è un ombroso e chiuso colle /... / ch’ogni maschio pensier de l’alma tolle”. A testimonianza della sua eccezionale familiarità coi testi petrarcheschi, il Cieco pare non accorgersi d’averne fatto nella sua lettera, parlando delle doti morali e intellettuali di Alessandra Volta, una vera

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mormorazione, paragon, penetrali, scolta” 10. E perché le cose in effetto furono pur così, mi trovo in un grandissimo ginepraio: incorrere nella censura di costoro et averne uno schiamazzo e forse un rifrusto11. Non mi piace mutar le cose dall’esser loro, è una pazzia. Ho pensato dunque di tenere una via di mezo. – E che hai tu pensato? – Ho pensato che voi, messer Francesco Petrarca, presente e contentante per sé e per gli suoi eredi, mi facciate una patente ampia, sottoscritta di vostro pugno e sigillata del vostro segno, la qual dica: “Noi, Francesco Petrarca, fiorentino, prencipe di Febo, gran maestro della poesia toscana, poeta laureato e orator togato, concediamo al Cieco d’Adria di poter usar nel verso volgare tutte le parole che gli occorreranno in descrivere il viaggio di Bologna che fece già un anno e mezo per visitare la illustrissima cavalliera dalla Volta, quantunque né usate, né sognate usare da noi. Non le usammo noi, perché non trattammo cotal soggetto, ché, se lo avessimo trattato, le averessimo12 usate. Né alcuno il possa riprendere, né di dí né di notte, né in casa né fuori, né in voce né in carta, perché noi così vogliamo e così comandiamo.” Di grazia, messer Francesco, per quanto amor portaste alla vostra alta colonna et al vostro verde lauro, non mi negate questo favore. Io ancor, con vostra licenza, ho composto un capitolo, e per chiusa d’ogni terzetto ho preso uno de’ vostri versi13: ma non ve gli ho rubati, come fan molti, anzi ho fatto una grida e posto nella fronte del titolo che son vostri, oltre che nel vostro libro non manca verso niuno. E se la donna vostra vi fu mai cruda, co’ versi vostri e co’ rippezzamenti14 miei ho fatto e di voi e di me, Signor, vendetta. Di novo non ci è altro, se non che ‘l vostro canzoniere è più confuso, più rimescolato, più riversciato15 che le foglie scritte dalla Sibilla ad un lungo soffiar di Borea, di Austro, di levante e di ponente. Voi

e propria citazione: “ella […] uccidendo col guardo ogni pensier maschio, […] allegrava chi la vedeva…” (c. 4v). 10 A rondon (“mi scrisse in istampa d’Aldo un pistolotto, che… io messami la via tra le gambe andassi a rondon a Bologna a casa la signora Cavaliera Volta…”, c. 3v): subito, di fretta; scarana: scranna, sedia di foggia pregevole, e per estensione sedia, panca; amarciare (“et essi: “ammarciatevi pur voi”“, c. 3v): incamminarsi, mettersi in viaggio; ribeccamento: alterco; polizza: breve lettera, biglietto; intrespoli: “impedimento, remora” (Gdli cita il Groto); scolta: sentinella, vedetta. 11 Rifrusto: frustata, percossa o serie di percosse. 12 G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. II. Morfologia, Torino, Einaudi, 1987 (1968), p. 343, § 598: “Forme analogiche (in -ss-) [del condizionale]. La stretta vicinanza di vedreste al congiuntivo imperfetto vedeste ha presto prodotto un vedressimo, analogico a vedessimo, cfr. nello Straparola averessimo, nell’Ariosto anderessimo…”. 13 Si riferisce con ogni probabilità a R 154, Un consiglio che m’ange e che m’attrista, centone petrarchesco misogino e antimatrimoniale. 14 Rippezzamenti: “intervento di revisione di un testo letterario” (GDLI, che cita Groto). 15 Riversciato: “messo a casaccio, in disordine” (GDLI di nuovo cita Groto).

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

medesimo, sel vedeste, nol riconoscereste. Ci è di più che vi fan cinguettare a modo loro, e, dove pensate voi dir pettini, vi fan dir cesoie. A madonna Laura vostra han dato nome chi di anima, chi di poesia, chi di filosofia, e mille altre chimere fantastiche di commentari. Oh, se voi tornaste di qua, avreste pur che fare col notaio del maleficio o del danno dato; quanti ne fareste frustare e impiccar per ladri! Ogniun s’ingrassa del vostro grasso e s’ingrassa del vostro sugo; chi vi pela di qua, chi vi taglia di là, chi vi ruba, chi vi scaca e chi vi assassina; o come un di questi ha fatto un sonettino di ruffola e di raffola16 e, con averne rubbacchiati e stiracchiati i duo terzi, anzi toltigli di peso del vostro canzoniere, va gongolando e fanlosi cantare in bocca, con quelle parole – “rose, uopo, quinci e quindi, unquanco, amorosetto, verde Lauro, rubini, smeraldi” eccetera. Le vostre cose latine sono state tradotte e tradite in volgare. Di grazia, mandatemi questa licenza, ch’io l’aspetto a digiuno17. E rallegratevi d’esser nato innanzi di noi.

Il lettore che, pregustandosi il sapido racconto comico “in verso di oltramarino18”, scorresse incuriosito le Rime. Parte prima e poi la sterminata appendice del 1610 19, non si aspetterebbe certo di restare a bocca asciutta; eppure, ben lungi dal trovare traccia del componimento con licenza del Petrarca, in una raccolta20 che sa offrire solo i tradizionali nitriti di qualche “destriero” (R 151.36 e 38; 284.1 21) e di qualche “cavallo” (R 234.4; 236.1), non avrebbe neppure la soddisfazione di incontrare una sola “cavalla”, tanto-

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Il GDLI cita l’espressione di ruffola raffola, che spiega così: “impadronendosi di ricchezze in modo disonesto”. 17 A digiuno: “subito, prima d’aver fatto alcunché” (GDLI). 18 Cioè colorito con un brillante e prezioso azzurro oltremarino, in antitesi alla bianconera “prosa di gesso o di carbone”. Probabilmente scherzoso l’abbinamento paronomastico con “oltramontano”, che divide con il primo aggettivo solo l’accezione di “estero”, “straniero”. 19 Nel 1610 lo stampatore veneziano Ambrogio Dei pubblica, unitamente alla Parte prima, una ben più corposa seconda parte (che arbitrariamente divide in Parte seconda e terza), basata su alcuni manoscritti giunti per misteriosi canali in suo possesso e composta da 552 madrigali, 360 sonetti (uno dei quali caudato), 31 stanze isolate, 7 capitoli, 6 componimenti di più stanze (per ordine di grandezza crescente, di 2, 9, 50, 92, 100 e 102 ottave), 4 sestine (una doppia), 3 componimenti in distici elegiaci, 2 canzoni, 1 canzonetta, per un totale di 966 componimenti (della paternità dei quali, però, non si può esser sempre del tutto certi). 20 Il dato è sicuro per la Parte prima: non avendone le concordanze, preferisco non pronunciarmi sulla Seconda e sulla Terza. 21 D’ora in poi, il rinvio alle Rime. Parte prima (che chiamerò per comodità semplicemente Rime) avrà la forma “R + numero del componimento”; nel citare i testi grotiani ho provveduto a un cauto ammodernamento della grafia e della punteggiatura.

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mento quella vecchia e magra che doveva guadagnare al Groto il linciaggio dei petrarchisti “scroppolosi e stitichi”. Al primo sconcerto subentrerebbe ben presto il dubbio che il violento pamphlet del Cieco non vada letto come una seria dichiarazione di poetica militante, ma sia piuttosto da prendere come l’omaggio a una certa tradizione (l’attacco epistolare ai petrarchisti è già, per esempio, dell’Aretino e della sua cerchia 22) oppure come l’occasionale sfogo comico (e comico avrebbe dovuto essere il capitolo promesso) e autoironico di un autore lirico costretto a misurare sul metro del petrarchismo ogni propria scelta linguistica23. 22 Ecco qualche passo tolto da P. Aretino, Lettere. Libro I, to. I, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 1997. Lettera 24, Al duca di Mantova, 2 giugno 1531 (p. 78): “Fu pure strano umore il mio, in non aver voluto usare il sermon de la patria; e ciò è stato per le notomie che ogni pedante fa su la favella Toscana. Se l’anima del Petrarca e del Boccaccio, nel mondo suo, è tormentata come son le loro opere nel nostro, debbono rinegare il battesimo”; lettera 155 a Ludovico Dolce, 25 giugno 1537 (pp. 229-32): “E per dirvelo, il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo i loro, e non da chi gli saccheggia non pur de i «quinci», de i «quindi», e de i «soventi», e de gli «snelli», ma de i versi interi. E quando sia che il Diavolo ci aciechi a trafugarne qualc’uno, sforziamoci di somigliarci a Vergilio, che svaligiò Omero, e al Sanazaro, che l’accocò a Vergilio, onde hanno avanzato de l’usura, e saracci perdonato. Ma il caccar sangue de i pendanti che vogliano poetare, rimoreggia de l’imitazione, e mentre ne schiamazzano ne gli scartabelli, la trasfigurano in locuzione, ricamandola con parole tisiche in regola. O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone il cantar Poetico diventa un cimbalo senza sonagli, e un campanil senza campane. […] Sì che attendete a esser scultor di sensi, e non miniator di vocaboli”; oppure ancora, nella sezione di Lettere diverse a l’autore, la lettera XXI di Alessandro Picol’uomini (pp. 486-88): “Ben è vero che quel che da questo disegno mi ha alquanto spaventato, è il veder che molti aborriscan di sorte qual si voglia parola che punto sia nuova, che gli osan di dire di quelle parole che non si trovano o nel Petrarca, o nel Boccaccio, saria più che sacrilegio l’usarne alcuna in alcun modo. E invero, contra di questi tali, mi son trovato molte volte a difender che sia ben fatto di procacciar nuove parole per quei concetti che di vocaboli che esprimer gli possino sono spogliati a i tempi nostri; se non per altro sennò perché al Boccaccio, o al Petrarca, non accade di servirsi di tai concetti…”. E si legga, per concludere, questo stralcio di una lettera di Nicolò Franco a Giovan Iacomo Lionardi, del 3 luglio 1536, riportato da Federigo Meninni nel suo Ritratto del sonetto: “Vi vuol altro che falde di neve, pezze d’ostro e collane di perle, altro che smaltar fioretti, adacquar erbette, frascheggiar ombrelle e nevicare aure soavi, per sonetizzare alla petrarchesca”. Cfr. F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, a cura di Clizia Carminati, vol. I, Lecce, Argo, 2002, p. 60. 23 Secondo Taddeo, Il manierismo letterario, cit., la lettera del Cieco al Petrarca è “una professione di fede antipetrarchista in piena regola” (p. 176), che inserisce il Groto “in quella linea di antipetrarchismo battagliero, che ha come suoi maggiori esponenti l’Aretino, il Franco, il Berni, il Doni, il Grazzini e che sulla comune sazietà per l’eccessiva squisitez-

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

La difficoltà di definire a priori la posizione linguistica del Groto è riassunta in questo suo commento a un curioso episodio avvenuto durante il Carnevale del 1579, nove anni dopo la lettera al Petrarca: …ho inteso il favor notabile indegnamente fattomi così in Vinegia questi giorni di carnesciale da’ comici gelosi nelle comedie loro, sanza vedermi e sanza conoscermi, introducendo l’ombra del Petrarca a ragionar di me con tanta illustrezza quanta scrive Vostra Signoria. Parmi che abbian fatto grandissimo torto a tanti poeti d’Europa, non dirò migliori di me, perché mostrerei di credermi buono, o poeta, dove non sono né l’uno né l’altro; parmi altresì che facessero gravissimo torto al Petrarca, il quale, quando ci rinascesse, vestirebbe più tosto ogni altro manto che ‘l mio e parlarebbe più tosto con ogni altra lingua che con la mia24.

Il Cieco non sembra interpretare la messinscena dei Gelosi, di cui aveva solo conoscenza indiretta, come una canzonatura (né la serietà della lettera e del destinatario sembrano permettere interpretazioni antifrastiche di quel “favor notabile”) e si schermisce risolutamente dall’amorevole trattamento, da pari a pari o tutt’al più da maestro a discepolo fedele e diletto, tributatogli dall’ombra del Petrarca: ma mi par difficile dire se, dietro questi pudori, si za e sublimazione proprie dei petrarchisti impiantava robuste richieste di realismo, ma anche esigenze di capricciosa invenzione fantastica” (p. 177): insomma, conclude Taddeo, “la Lettera al Petrarca è dunque una contestazione al petrarchismo di stretta osservanza, mossa da una posizione di manierismo artificioso” (p. 180), benché non una contestazione radicale: “se la protesta del Groto è relativamente moderata, e prende di mira soprattutto la degenerazione feticistica del culto del Petrarca, ciò si deve al fatto che egli stesso nella sua produzione di poesia lirica è ampiamente tributario, almeno come base di partenza, dell’eredità petrarchesca. Ma quel patrimonio egli finisce per mettere definitivamente in crisi coi suoi funambolismi stilistici, e nelle Lettere tende la mano alla tradizione burlesca del secolo…”. A mio avviso, però, la portata dei “funambolismi stilistici” del Cieco va ridimensionata. Nelle Rime emergono quasi esclusivamente nei sonetti d’occasione e in quelli di cornice: nelle rime occasionali la figura artificiosa portata al suo massimo grado di difficoltà serve evidentemente quale omaggio celebrativo, oltre che quale sfoggio ludico di abilità tecnica; nei componimenti di cornice, godendo di grande visibilità, diventa segnale prezioso degli snodi cruciali del canzoniere e in alcuni casi, al pari di quanto accade negli encomi, narcisistico pezzo di bravura ad uso del lettore, specie se finalizzata all’aemulatio di qualche celebre modello. Ben diverso è invece il Groto dei madrigali (metro prediletto almeno per i temi amorosi), improntati a una sintassi più ariosa e dominati dal gusto epigrammatico per la punta arguta. Ma soprattutto il fatto che, in altri generi letterari, Groto si adegui ad altre esigenze e si confronti con altre tradizioni (è autore che ha precisissima coscienza delle regole del gioco), non deve farci perder di vista ciò che fa quando entra nell’agone della poesia lirica. 24 Groto, Lettere famigliari, cit., cc. 110r-11r, A Padre Pietromartire Locatelli da Bologna, Adria, 9 aprile 1579.

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celi una scontata affettazione di modestia o l’orgogliosa coscienza di un’incommensurabilità sostanziale fra la propria lingua e quella del “prencipe di Febo”25. Concordanze alla mano, vediamo di trovare qualche punto fermo. Le Rime contano 328 componimenti per un totale di 4572 versi e 33811 parole; 2874 – 1050 (il 36%) dei quali hapax – sono i lemmi usati dal Groto. Il Canzoniere, da parte sua, somma 3275 lemmi (gli hapax sono 1198, curiosamente pure il 36% del totale) per complessive 57635 frequenze. Dal punto di vista delle nude cifre, il vocabolario petrarchesco contiene quello grotiano, il che ancora non significa che il Cieco si sia pedissequamente adeguato a quella “legge inviolabile”, a quella “regola indispensabile” nella quale, secondo lui, qualche “poeta salvatico” radicalizza la tesi bembiana: “in verso volgare non possono usarsi altre voci di quelle che usaste voi ne’ vostri componimenti”. Il confronto ravvicinato fra i due paradigmi può cominciare proprio dalla lettera al Petrarca, che, in fatto di voci, offre una campionatura attentamente mirata agli estremi della provocatoria infrazione alla norma nel lungo elenco di parole sconosciute al Canzoniere e ai Trionfi, e della ligia osservanza del principio di imitazione nel vocabolario minimo da aspirante petrarchista abbozzato in chiusura. Delle 114 parole eterodosse, delle quali Groto aveva urgente bisogno per dire le “cose come le furono”, solo dieci sopravvivono alla censura del componimento che avrebbero dovuto caratterizzare. Due di esse compaiono in un capitolo (R 151, Mentre non piace a’ mei fati protervi) postillato da questo argomento: “l’autor fu sforzato da chi potea comandargli andare a Bologna al principio dello studio a farvi l’orazione, la qual si vede stampata, et, andandovi in fretta, non potè chieder licenza alla donna sua; il perché, ritenuto in Bologna oltra il suo credere e ‘l suo volere, si scusa con lei…”. Ecco il viaggio a Bologna (chiamata Felsina a R 151.116) ed ecco la licenza (R 151.53 e 60), da chiedere però all’amata: siamo ricondotti alla consueta realtà delle “amorose”, dove non i pericoli di un viaggio avventuroso, ma la più consueta lontananza da madonna portano il poeta a un passo dalla morte. Alle “amorose” appartengono anche costumatissima (R 7.9), nastri (R 30.9) e paragon (R 27.2, R 171,9 e, nelle “religiose”, R 320.9), parola su cui avremo modo di ritornare. Anche le rime d’occasione, coi loro nomi propri, richiedono qualche ovvia deroga al principio di imitazione: qui Volta (R 16.11, R 20.6 e 8) e Ferrara (R 209.8). Al territorio non petrarchesco

25 È, quest’ultima, la tesi del Taddeo: “fra i poeti viventi il Cieco d’Adria si sente, a ragione, con ogni ossequio per il grande trecentista, il più diverso e lontano da lui”. Taddeo, Il manierismo letterario, cit., pp. 176-77.

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

degli epigrammi26 appartengono infine Cerbero (R 300.12), maschio (come sostantivo a R 288, 2 e 9, R 298.3; e poi ancora a R 318.4, di nuovo nelle “religiose”) e zio (R 271.3). A prima vista, il Cieco sembrerebbe molto parco nell’uso di parole in odor di censura; vediamo allora qual è il suo comportamento sul terreno opposto, quello delle parole che ogni petrarchista alle prime armi, dopo averle rubacchiate “di ruffola o di raffola”, si fa, gongolante, “cantare in bocca”. Per nostra fortuna, il loro numero molto ridotto (benché indeterminatamente prolungato da quell’etc.) ne permette un’agevole schematizzazione27. Guardiamo dapprima alle assenze. Il lauro cresce ben poco nelle Rime

(solo quattro le attestazioni) 28; a segnare in modo ancora più netto il proprio distacco dal termine chiave petrarchesco, Groto lo priva dell’aggettivo che più

26 Da R 222 a R 300 Groto riunisce traduzioni o componimenti alla maniera dell’Anthologia graeca, tutti, fatto unico nel libro, contrassegnati da un breve titolo e separati da un filetto. Cfr. Gatti, “Alcune cosette a stampa”, cit., pp. 380-81 e p. 411. 27 Per i dati esposti in questo capitolo mi sono servito del vecchio K. McKenzie, Concordanza delle rime di Francesco Petrarca, Oxford, Nella stamperia dell’Università – New Haven, Nella stamperia dell’Università Yale, 1912; delle Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca ad opera dell’Ufficio Lessicografico dell’Accademia della Crusca, Firenze 1971 (utilissimo soprattutto per gli indici finali); e dell’archivio elettronico LIZ – Letteratura italiana Zanichelli. CD-ROM della letteratura italiana, a cura di P. Stoppelli e E. Picchi, Zanichelli – Olivetti, Bologna, 1993. 28 La sfortuna di questo capitale tema petrarchesco è anteriore e posteriore al Cieco. Nel secondo sonetto delle Rime della Vulgata (A. Tebaldeo, Rime. II.1 Rime della vulgata, a cura di T. Basile, Modena, Panini, 1992) Antonio Tebaldeo cerca giustificazioni alla propria roza rima nella sofferenza d’amore che l’ha condotto ad aprire bocca non “per fama […], ma per trovare pietate [: v. 1 etate]” (RdV 3.8), non per cercare “di lauro honore” (RdV 3.12), ma per trovare il sollievo dello sfogo: “ché a me basta [– è la sua conclusione –] far noto il mio dolore” (RdV 3.14); in R 1 il Groto gli fa eco quasi alla lettera: vv. 5-8 “…però ch’io scrivo solo, / per far noto il mi’ duolo. / Pregio ottener non cerco in questa etade, / ma in madonna ottener cerco pietade” e 12-14 “Febo […] / non chieggio (perché versi e rime

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di ogni altro lo connota nel Canzoniere, dove il sintagma verde lauro compare nove volte sulle trenta complessive del sostantivo. Meno clamorosa, ma non meno significativa, è la messa al bando di elementi minimi come unquanco 29 e la coppia quinci e quindi (e simili), spia inequivocabile del rifiuto dei vezzi alla Petrarca: ne è riprova il fatto che quinci e quindi sono ben rappresentati singolarmente, il primo dodici volte, una in più che nei Rvf, il secondo quattro. In questo vocabolario essenziale sorprende l’aggettivo amorosette, che ha un’unica attestazione nel Petrarca e che sembra godere di qualche favore solo a partire dal Tasso e poi col Marino 30; in realtà, la sua assenza nelle Rime del Groto è da collegare al destino del positivo amoroso e di altri aggettivi cari al Canzoniere: il vezzeggiativo andrà forse addebitato a una vis polemica desiderosa di colpire una sorta di iperpetrarchismo, se non alla sensibilità di un orecchio che già aveva captato la nuova fortuna della parola. Veniamo alle presenze. Rose e rubini contano tra i figuranti basilari del tópos della descriptio personae 31 e in questo senso la loro iscrizione in una lista-base della lirica si giustifica ampiamente. Quello che non deve sfuggire è la differenza di spessore fra queste parole e quelle precedenti: mentre verde lauro e quinci e quindi sono a livelli diversi evidenti segnali petrarcheschi (il primo appartiene al nucleo più profondo dell’ispirazione del Canzoniere, il secondo ne costituisce una minima costante musicale), rose e rubini si iscriio scriva) / lauro da te, ma dal mio sole oliva”. Nemmeno a Marino piacerà il lauro: si veda l’Introduzione alle “Amorose” in G.B. Marino, Rime amorose, a cura di O. Besomi e A. Martini, Modena, Panini, 1987, pp. 12-13. 29 A titolo di paragone con le battute del Cieco valga quanto ricorda B. Migliorini, Storia della lingua italiana, con un’introduzione di G. Ghinassi, Milano, Bompiani, 1994, p. 376: “Il Citolini, nella sua Lettera in difesa della lingua volgare (Venezia 1540) protesta contro quelli ‘i quali non si stimano poter’essere tenuti buoni scrittori, se le lor carte non puzzano di uopo, testé, hotta, altresì, guari, costinci, sezza, e se non ficcano unquanco in qualche sonettuzzo’”. O si legga ancora l’Aretino, nella lettera a M. Giovanni Pollastra del 28 agosto 1537: “Sterpate da le composizioni vostre i ternali del Petrarca; e poi che non vi piace di caminare per sì fatte strade, non tenete in casa vostra i suoi «unquanchi», i suoi «soventi», e il suo «ancide», stitiche superstizioni de la lingua nostra”. Cfr. Aretino, Lettere, cit., p. 259. 30 Interrogata su un corpus di cento testi (la lirica, la pastorale, i poemi), LIZ indica, oltre a quella petrarchesca, una sola occorrenza di amorosett-e/a/o/i prima delle rime tassiane, nei Sonetti e canzoni del Sannazaro. 31 Il rinvio d’obbligo è naturalmente ai fondamentali contributi di Giovanni Pozzi: G. Pozzi, Temi, Topoi, stereotipi, in Letteratura italiana, vol. III/1. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 391-436; La rosa in mano al professore, Friburgo, SEGES, 1974; Il ritratto della donna nella poesia d’inizio Cinquecento e la pittura di Giorgione, in Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993, pp. 145-171, dov’è seguito da una Nota additiva alla “descriptio puellae”, pp. 172-184.

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vono in un sistema più vasto, quello appunto del tópos della bellezza femminile, che Groto può sí trattare con una certa libertà, ma non stravolgere completamente, pena l’espulsione di certo non voluta dai saldi confini del genere lirico. Allo stesso modo il Cieco non sa rinunciare a un’altra pietra preziosa della tradizione, lo smeraldo, benché il rinvio non sia tanto da fare a quello vinto “di colore” dal verde lauro di Rvf 228.4, ma piuttosto a quello – figurante canonico dell’erba – presente nelle Rime del Bembo (39.4), e già in Dante (Purg. VII, 75). Al Bembo (che lo usa quattro volte), più che al Petrarca, sarà forse da ascrivere anche la presenza di una voce antiquata come uopo 32; il sostantivo non piacerà invece al Tasso, che in tutti i componimenti dell’edizione Maier lo usa in una sola occasione33. Questo primo sondaggio sembrerebbe indicare come nella raccolta grotiana non ci sia traccia dell’antipetrarchismo barricadiero della lettera, ma come nemmeno sia possibile ravvisarvi un convenzionalismo acritico, un’accettazione supina del principio di imitazione. L’agire del Cieco nei confronti della tradizione appare una volta di più complesso e refrattario a comode etichette34; non resta che allargare il campo d’indagine. 2. Rvf e Rime: paradigmi a confronto 35 2.1. Il lessico petrarchesco nelle “Rime” Il confronto globale fra le concordanze del Petrarca volgare e quelle delle Rime dà questo esito: dei 2874 lemmi usati dal Groto, 715, il 25%, sono estranei al paradigma petrarchesco36. Per ben tre quarti del suo lessico il

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Ancora Migliorini, Storia della lingua, cit., 376: “anche un fautore del ’300, mons. Della Casa, che il Salviati loda per essersi fedelmente attenuto ai trecentisti, biasima (Galateo, XX) epa, spaldo, uopo, primaio, sezzaio”. 33 Si tratta dell’edizione archiviata in LIZ: T. Tasso, Rime, in Opere, a cura di B. Maier, I-II, Milano, Rizzoli, 1963. 34 Complesso e difficilmente classificabile è anche l’agire del Groto sul piano dell’organizzazione della raccolta: cfr. Gatti, “Alcune cosette a stampa”, cit., pp. 409-12. 35 Di un simile confronto fra paradigmi sulla scorta delle rispettive concordanze ha segnato la strada Amedeo Quondam nella sua Introduzione alle Rime 1529 del Trissino (Vicenza, Pozza, 1981, pp. 9-41), ora leggibile con il titolo 1529: le “Rime” di Giovan Giorgio Trissino in A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Panini, 1991, pp. 153-179.

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Cieco sembra fedele alla “legge inviolabile” del petrarchismo: ma si tratta di una fedeltà solo numerica, dietro la quale si nascondono molte sorprese. Secondo l’indice delle frequenze decrescenti, tolti verbi ausiliari, aggettivi possessivi37, pronomi, congiunzioni e preposizioni, la forma più ricorrente nel Canzoniere è amor, che Petrarca usa 254 volte; aggiungendo le 54 di amore, saliamo a 308 occorrenze. Il lemma più rapprentato, sommate le sue diverse declinazioni, è invece l’aggettivo bello, che compare 342 volte (pari allo 0,59% dell’insieme delle parole dei Fragmenta), seguito a ruota dal verbo vedere (340 / 0,59%). Logica vuole, si dirà, in un libro che canta l’amore per una bella donna, nato dal fatale incontro di uno sguardo; ma è una logica che il Cieco, pur raccontando la stessa storia, mette in crisi. Nelle Rime grotiane bello resta l’aggettivo più usato, ma subisce un vera e propria decimazione fermandosi a 111 occorrenze, corrispondenti a uno scarso 0,33% del totale38. Non si tratta di un’idiosincrasia puntuale, ma di un rifiuto cosciente e sistematico degli aggettivi più diffusi nel Canzoniere: del pro-

36 “Una primissima rilevazione: circa il 25% del lessico trissiniano non trova un riscontro diretto in quello petrarchesco. Il dato è di per sé rilevante e costituisce un riscontro forte della ricerca di autonomia linguistica da parte del Trissino, ma occorre subito osservare che una parte consistente di queste assenze è in realtà dovuta a quelle scelte fonetico-grafiche che fanno parte integrante della sua posizione teorica…”: Ivi, p. 165. A scanso di equivoci, avverto immediatamente che nel conteggiare quel 25% di lessico grotiano non petrarchesco non ho tenuto conto di eventuali varianti grafiche e fonetiche, e per due ragioni: da una parte, per quanto ne sappiamo, Groto non considera gli aspetti ortografici e morfologici bandiere di nessuna battaglia teorica; dall’altra, non va dimenticato che, in quanto cieco, non poteva averne un controllo assoluto, ragion per cui nella loro valutazione andrà usata molta prudenza. 37 È pur vero che la centralità dell’io nella poesia lirica trova una sua prima conferma nella straordinaria concentrazione del possessivo mio, che ha 840 attestazioni nei Rvf e 421 in R. Il dato si conferma sia nelle Rime del Bembo, dove ricorre 309 volte, sia in quelle del Trissino, dove risuona 218 volte; Ivi, p. 170: “Tra gli aggettivi impiegati nelle Rime trova conferma, rispetto al Petrarca, l’assoluto predominio del possessivo mio (218 a 840), scoperto indizio del protagonismo trissiniano”. 38 Vista la diversa mole delle due raccolte, una maggiore frequenza assoluta di un termine nel Canzoniere rispetto alle Rime non è di per sé significativa. Nel proseguimento dell’analisi, quando lo riterrò opportuno, ai dati assoluti farò seguire i dati percentuali (vale a dire, l’indicazione della proporzione, relativa al totale delle forme, con cui un dato lemma compare nei Fragmenta e nelle Rime). Il procedimento potrà apparire forse eccessivamente meccanico nonché un po’ arido: sono convinto, però, che il confronto delle frequenze, laddove porti alla luce evidenti costanti – nel trattamento di precise aree semantiche o di alcune categorie grammaticali –, possa diventare una sonda affidabile non solo delle scelte lessicali, ma anche delle priorità tematiche di un poeta. Con le parole di Quondam (Ivi, pp. 171-72): “Eppure le parole della poesia – in questi anni di serrati confronti – possono

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grammatico ripudio di uno dei cardini portanti dello stile del Petrarca. Se ne hanno riscontri lampanti proseguendo liberamente a ritroso nell’indice decrescente: dolce 39, Rvf 251 (0,44%) vs R 48 (0,14%); amoroso, Rvf 61 (0,11%) vs R 10 (0,03%); mortal, Rvf 58 (0,10%) vs R 12 (0,03%); soave, Rvf 55 (0,09%) vs R 10 (0,03%); verde, Rvf 54 (0,09%) vs R 5 (0,01%), così come chiaro, Rvf 54 vs R 5; gentile, Rvf 48 (0,08%) vs R 19 (0,05%), e grave, Rvf 47 vs R 19; caro, Rvf 44 (0,08%) vs R 14 (0,04%); leggiadro/-etto, Rvf 40 (0,07%) vs R 6 (0,02%), e si potrebbe continuare40. Non mancano casi, in cui i dati sono sostanzialmente in equilibrio o favorevoli al Groto (si veda, ad esempio, appena qui sotto, freddo), ma si tratta di eccezioni che non infirmano una tendenza inequivocabile. In fatto di sostantivi, ad amor (91, come ciel), personificato o meno nel crudele fanciullo nudo e cieco, Groto preferisce i più tangibili cor (105) e foco (104) 41. Il cuore del poeta è il protagonista principale di molte sequenze delle Rime: fugge di continuo nel petto di madonna, è ritratto pulsante del viso di lei e martoriato bersaglio dei suoi strali42, vive senza tregua nel fuoco del tormento amoroso, ben più ardente del fuoco vero, del sole, del caldo estivo. Sono luoghi ovvi in lirica, ma frequentati con insistenza dal Groto, che v’aggiunge semmai di suo una predilezione particolare per il leitmotiv dei quattro elementi. Coerentemente al peso attribuito al tema del foco, nelle Rime assumono un grande rilievo i termini iscrivibili nell’area semantica del caldo e del freddo, spesso opposti nell’anti-

diventare piccole bandiere da issare o ammainare: per petizione di principio linguistico […] o per effetto di scelte meno vistose…”. 39 Tengo sempre conto di tutte le forme degli aggettivi. 40 L’ordine decrescente degli aggettivi nelle Rime del Cieco è il seguente (segnalo gli aggettivi in doppia cifra): mio 421, due 61, dolce 48, novo 44, vivo 33, rio 25, crudele 21, empio e freddo 20, chiaro 19, grave e cieco 19, eterno 18, aspro 18, crudo e gentile 17, ardente 15, caro 14, vago 13, mortale 12, altero 11, finto 10, soave 10, amoroso 10; nelle Rime del Bembo l’ordine è questo: bello 107, dolce 69, grave 48, grande 45, chiaro 42, lieto 41, duro 36, felice 27, lasso 27, verde 26, caro 25, vago 25, …, leggiadro 18, …, empio eterno gentile 15, …, soave 14, celeste 13… Perfino il Trissino sembra più in linea con il Petrarca: “E poi: bello 95, dolce 38, soave 26, gentile 23, alto amaro solo 22, duro 21, grande lieto 18, ardente 17…” (Ivi, p. 170; si legga poi p. 171 per la valutazione critica dell’aggettivazione del Trissino). 41 Calcolando forme non troncate e plurali, si arriva a questa situazione: cor 160, amor 134, ciel 114, foco 107. Nei Rvf dopo amor troviamo occhi 252, cor 218 e tempo 149; la classifica si rovescia appena tenendo conto di tutte le forme: amor 308, cor 274, occhi 263, ciel 196, tempo 151; foco ha invece solo 61 occorrenze. 42 Strale è quasi termine tecnico nel Groto, vista la sua netta preponderenza (17 attestazioni) su saette (3); così anche nelle Rime del Bembo (strale 14, saetta 4), ma non nel Petrarca, dove le due parole sono equivalenti (saetta ricorre 13 volte e strale 15).

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tesi canonica: sommando aggettivi e sostantivi, caldo ricorre 27 volte (Rvf 21: 15 agg. + 6 sost vs R 27: 6 agg. + 21 sost.43) e freddo 33 (Rvf 23: 20 agg. + 3 sost. vs R 33: 20 agg. + 13 sost.); ben attestato è ardente (con perfetta proporzione, Rvf 25 vs R 15). L’idea è ribadita dai sostantivi fiamma (Rvf 19 vs R 31), ardor (Rvf 5 vs R 21) e ghiaccio (Rvf 25 vs R 28) e dalla coppia state (Rvf 5 vs R 8) – verno (Rvf 10 vs R 15); in sostanziale equilibrio il verbo ardere (Rvf 77/0,13% vs R 52/0,15%). In questo fuoco d’amore le sofferenze degli amanti sembrano essere pari: cosí è per i dati riguardanti dolore e duolo, mentre il drastico abbandono dei petrarcheschi affanni (Rvf 36/0,06% vs R 7/0,02%) viene compensato dal Cieco con un aumento delle pene (Rvf 41 vs R 44). Diversa è però la reazione dei due poeti, con un Groto molto più restio allo sfogo patetico del proprio dramma interiore. Il verbo lagrimare è addirittura sconosciuto alle Rime (compare 24 volte nei Rvf); invece, se scarsa è la fortuna di piangere (Rvf 94/0,16% vs R 41/0,12%), un po’ migliore è quella dei sostantivi lagrime (Rvf 40/0,07% vs R 19/0,06%) e pianto (Rvf 47/0,08% vs R 28/0,08%). Ancor meno il Cieco indugia nei sospiri che risuonano nelle Rime solo in 13 occasioni (0,04%) contro le 72 (0,12%) dei Fragmenta; di pari passo, il verbo sospirare si attesta sulle altrettanto significative 6 occorrenze (0,02%) di R contro le 49 (0,08%) dei Rvf. I motivi di tanta passione vengono abbozzati programmaticamente nei primi due sonetti delle Rime, con R 2 44 a delineare i tratti salienti della storia d’amore e dei suoi protagonisti e R 3 a disegnare la bellezza45 di madonna. Procediamo con ordine. R 2:

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Non d’Augusto, Alessandro, Ettore, Alcide movo a ridur battaglie a le memorie, ma l’aspre pugne e le chiare vittorie di due luci possenti et omicide.

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Non di Prometeo o d’Issïon le infide, ma de’ tormenti mei le vere istorie; non di Roma i trionfi, ma le glorie sol di chi mi conforta e mi conquide.

43 La forte incidenza dei sostantivi dà senz’altro maggior concretezza ai due concetti (cfr. più oltre le osservazioni su cieco); d’altro canto, è pur vero che buona parte di questi sostantivi si trova nella sestina doppia R 64, dove caldo e freddo sono parole rima. 44 R 1 è invece un madrigale, maliziosamente di 14 versi. Cfr. Gatti, “Alcune cosette a stampa”, cit., pp. 381-84. 45 Nei Rvf bellezza (37) è nettamente favorito a beltà /-ade (19); nelle Rime grotiane avviene l’esatto contrario (14 vs 29). Nel Bembo i due termini godono di pari favore (14 vs 15).

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

Non valor d’acque o d’erbe in sanar piaghe, ma in sanar le virtù di due man belle; 11 né influssi d’astri di cantar mi vanto, ma influssi di due ciglia altere e vaghe. Così, di lei cantando, e di me, canto 14 d’arme, istorie, trionfi, acque, erbe e stelle.

Nel Canzoniere Laura è un personaggio dalle molte sfaccettature, nella cui leggiadria s’incontrano opposti irriducibili: il ritratto canonico della donna altera e cruda, specie nella fase iniziale della raccolta, e quello angelico e salvifico di una nuova Beatrice46. R 2 sembra proporre per madonna la medesima dicotomia, emblematicamente riassunta dagli occhi assassini del verso 4 e dalle mani guaritrici del verso 10. In realtà, questa fluttuazione ha ben poco corso nelle Rime, che sono dominate dal lato negativo e oscuro della donna, di cui, ben più dell’alterigia (l’aggettivo altero ricorre in R 11 volte /0,03% contro le 35/0,06% dei Rvf), Groto sottolinea con forza la crudeltà: il sostantivo, sconosciuto al Canzoniere47, la caratterizza 6 volte48, l’aggettivo crudele 10 (sulle 21 complessive), mentre Petrarca lo attribuisce a Laura, in particolare alle sue mani eburne, in una sola occasione (Rvf 234.8) 49 su 15; solo crudo connota le due nemiche in modo identico50: 5 volte sia in Rvf (su 14) e in R (su 17). Ma il Cieco si spinge anche oltre, affibbiando all’amata i duri epiteti di empia (2) e ria (1)51. La fermezza della Laura “petrosa” scatena nel Petrarca l’acuto tormento dell’amore-passione, che lo travolge fino alla lucida consapevolezza della propria totale alienazione: il lancinante dis46 Sulle due facce di Laura nel Canzoniere petrarchesco si veda M. Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere del Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 217-234. 47 È hapax di Tr. Am. III, 69: “… or mira il fero Herode: / Amore e crudeltà gli han posto assedio”. 48 Tre volte appare la forma crudeltate, due crudeltà (più una terza a R 285.5, in contesto non amoroso), una crudeltade. 49 Ma il Ponte, con il Sapegno, ritiene che l’aggettivo abbia un “significato generale”, simile al crudi di 199.6. Cfr. F. Petrarca, Rime sparse, a cura di G. Ponte, Milano, Mursia, 1979, p. 245. Santagata si limita a mettere in relazione i due versi (Petrarca, Canzoniere, cit., p. 959). 50 Come abbiam visto, nella lettera al Petrarca si legge: “E se la donna vostra vi fu mai cruda…”. 51 Gli aggettivi di quest’area semantica (crudele, crudo, empio, rio) sono fra i pochi ad avere, anche in termini assoluti, maggior attestazioni nelle Rime che nei Fragmenta: alla loro fortuna contribuisce anche il gusto per l’orrido e il macabro che pervade la sezione degli epigrammi.

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sidio che ne segue fra il “desiderio” (87/0,15%52 nei Rvf), centuplicato dalla perenne assenza e dall’assoluta irraggiungibilità dell’oggetto amato, e la ragione 53 (12/0,02%), tesa a riunire l’io diviso del soggetto, trova nell’ultimo Canzoniere il suo scioglimento nel cammino di conversione disegnato dal progetto macrostrutturale e la sua guida più fidata nell’azione positiva e beatificante della Laura “stilnovista”. Nonostante sia confrontato con una donna implacabile che gli infligge sofferenze terribili, l’innamorato delle Rime non conosce gli scrupoli morali del Petrarca54; sa, però, di dover loro il giusto tributo letterario, che si concretizza nella sequenza delle sacre finali, nella guerra di Ragione contro Amore di R 115, Su, Ragion, prendi – l’arme, armati in fretta, e nei ferrei ma velleitari propositi di R 116.1 e 14: “Sgombra da me, desio fallace e folle / […] / io, di me donno, a la ragion mi dono”. Nelle Rime questo desio (36 attestazioni, 0,1%) è più carnale, ma meno incalzante che nel Canzoniere, perché l’impossibilità del compimento felice va letta nella prospettiva di un rapporto d’amore fatto di assidua frequentazione, di piccoli episodi della vita quotidiana, di fugaci possibilità di contatto, come una passeggiata, un ballo, un gioco. Dal canto suo, il ricorso alla ragione (2/0,005%) è un fatto sporadico che non trova nessuna conferma; il poeta non sente alcun bisogno di riconciliare il proprio io imponendosi uno stoico autocontrollo, poiché in lui l’alienazione amorosa non crea problemi di ordine morale, semmai difficoltà conoscitive, sconcerto di fronte all’irriducibile contraddittorietà della propria condizione (R 73.12-14: “Questi effetti d’amor sì strano modo / e sì diverso stil tengon, che quanto / vi penso più, tanto gli intendo meno”): sconcerto che però non diventa, cavalcantianamente, sbigottimento, perché il poeta, percorrendo tutte le tortuose vie dell’esperienza, finisce per conformarsi all’ambiguità del reale e respingere l’esigenza razionale di una sua spiegazione unica e logicamente accertabile55. Venendo meno l’anelito alla conversio vitae, scompare anche la necessità di una donna salvifica che sia guida al cielo. Madonna, nelle Rime, è del tutto priva di attributi “stilnovisti”: non è mai angelica (l’aggettivo non compare nemmeno nella raccolta), mai divina o santa, termini delle encomiastiche56 e delle religiose, e solo tre volte 52

Sommo le frequenze di desio, desii, desir, desire, desiri,desiro. Nel senso di “facoltà del pensiero” come in Rvf 211.7 “regnano i sensi, et la ragion è morta”. 54 È il caso di dire che l’amante grotiano non si dà alcun pensiero. Il termine, nelle sue varie forme, costella i Fragmenta (138 occorrenze, 0,24%), ma ha poco spazio (39/0,11%) nel Groto, che inoltre non attesta l’aggettivo pensoso (10 nei Rvf). 55 Cfr. Gatti, “Alcune cosette a stampa“, cit., p. 412. 56 Nelle Rime gli attributi stilnovistici, negati a madonna, competono soprattutto ad Alessandra Volta. 53

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

celeste (R 27.5 “celeste donna”, 99.7 “imagine celeste” e 104.10 “celesti accenti”57) contro le 14 di Laura58. I poteri benefici dell’amata si riducono a quanto letteralmente annunciato da R 2.9-12: in R 215 la donna “guerrera” (v. 2), D’insolita pietate ornata i rai (v. 1), rende visita al poeta malato e lo sana; in R 197, Astrologo notturno, che le luci, gli occhi dell’amata morta si tramutano in due stelle “che influsso han d’onestate e di salute” (v. 9), in una metamorfosi quasi pagana, che ricorda da vicino quella toccata in sorte alla ninfa Calisto al termine della pastorale omonima59. Crudele o angelica che sia, la donna scatena la passione amorosa in virtù della sua straordinaria bellezza; è quanto non tarda a precisare Groto con la descriptio personae di R 3.

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Due trecce d’un bel viso ombra e decoro, trecce, che tra le man Mida si strinse; duo lumi, in cui se stesso Appollo finse, per potersi specchiar talvolta in loro;

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due labra, ov’Amor chiuse il suo tesoro e di minio o cinabro le dipinse; due guance, che ‘n cerussa e ‘n grana tinse l’Alba, a cui elle fur grato lavoro;

due pome, da cui prende Amore il latte, tra cui nido gentil si fé il mio core; 11 due man, dal ciel nel bianco cerchio fatte; due braccia, in cui s’accoglie ogni valore, che Fidia fabricò di nevi intatte, 14 m’insignaro a saper che fosse amore60.

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Celeste ricorre altrimenti per lo più in contesti non amorosi. In quest’ottica non sorprende che il termine paradiso sia molto più usato dal Petrarca (12) che dal Groto (3), che invece insiste sull’inferno come metafora dello stato amoroso (Rvf 2 vs R 16). 59 L. Groto, La Calisto. Nuova favola pastorale […], In Venetia, appresso Fabio et Agostin Zopini fratelli, 1583. Cfr., anche per la relativa bibliografia, Gatti, “Alcune cosette a stampa”, cit., pp. 402-3, nota 74. 60 La scelta strutturante delle parti del corpo numerabili per due (due è il vero coefficiente del prologo del canzoniere grotiano: non per nulla è l’aggettivo più usato dopo bello e ricorre con frequenza maggiore che nel Petrarca, Rvf 57 vs R 61) non porta il Groto lirico al di fuori del canone breve della descriptio personae, se non per la presenza delle braccia. Qualche infrazione e qualche elemento innovativo nel trattamento del topos è invece, come vedremo, nella scelta dei figuranti. 58

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Due trecce. Nel Canzoniere la capigliatura di Laura è caratterizzata soprattutto dalla specificazione d’oro o dall’aggettivo biondo, che accompagnano rispettivamente quattro61 e sei volte capelli, o capei (Rvf 12.5, 29.3, 90.1, 127.84; Rvf 11.9, 52.6, 59.11, 213.3, 270.57, 359.56), quattro e cinque volte chiome (Rvf 30.24, 59.4, 159.6, 292.5; Rvf 30.38, 34.3, 197.9, 227.1, 253.3), una e cinque volte trecce (Rvf 37.81; Rvf 29.3, 67.6, 126.47, 127.77, 220.2); il crine è una volta d’oro 62 e una volta aureo (Rvf 246.1). Nelle Rime Groto opera le sue scelte lessicali con grande acume, in modo da distinguersi inequivocabilmente dal Petrarca senza intaccare la sostanza del tópos. Se il trattamento è simile per il generico chiome (18), largo spazio ha la parola meno sfruttata nei Fragmenta, crine (10), a scapito di capelli, che ha due sole attestazioni, e di trecce, che ne ha tre, due delle quali in iterazione nello stesso madrigale. Il crine di madonna è d’oro a R 25.4 e R 28.9, o aureo a R 81.2, come aurei sono i suoi capelli a R 4.1 e bionde le sue trecce a R 30.2 63. Tolti questi magri ricordi del modello, Groto sfugge alle costanti petrarchesche per variare liberamente sul tema: con un cambio di aggettivo, per esempio, come per le chiome dorate di R 123.1 o con una perifrasi arguta, come al verso 2 del nostro sonetto-guida: “… trecce, che tra le man Mida si strinse”. Due labra. Le labbra di Laura non sono mai nominate esplicitamente, ma sempre, in absentia, tramite il loro figurante fisso, le rose (Rvf 131.9, 157.12 e 200.11, dove affiancano nella sua unica comparsa la bella bocca angelica della donna). Al contrario, Groto si sofferma con una certa frequenza non solo sulla bocca dell’amata (7 volte, sulle 10 del sostantivo), ma anche sulle sue labra (9 volte, inclusa la variante labri). Le cause di questa attenzione vanno cercate a due diversi livelli del testo: da un punto di vista tematico, v’è da registrare la nuova e importante presenza nelle Rime del tema del bacio, al quale sono dedicati, con un certo anticipo sui tempi, ben 12 componimenti; da un punto di vista retorico, va contabilizzata la netta preferenza grotiana per le metafore in praesentia, una costante stilistica fondamentale del Cieco d’Adria, la cui sola eccezione in questo caso è rappre61

Alle quali s’aggiungeranno Rvf 219.5 “quella ch’à neve il volto, oro i capelli” e Rvf 348.2 “facean l’oro e il sole parer men belli”. 62 Rvf 291.2 rappresenta l’unico caso, in questo contesto semantico, in cui l’attributo non designi Laura, bensì all’aurora. Degli altri termini, capelli (15 occorrenze) – tranne che a Rvf 30.11 – e trecce (9) sono sempre riferiti a Laura; chiome (21) è invece usato anche per il poeta e altri personaggi. 63 A R 10.11 è il capo di Alessandra Volta ad essere “dentro canuto e di fuor biondo”, in una variante del tópos del puer-senex che ricorda Rvf 213.3; biondo, infine, è Apollo a R 287.2. Le 17 occorrenze che biondo ha nel Canzoniere (0,03%), dunque, si riducono a 3 (0,009%) nelle Rime

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sentata da R 45.4, “Sí bella è la tua bocca, che cancello / par di perle e rubini”, dove vengono lasciati in absentia i banali perle e rubini perché già ampiamente spiegati dalla similitudine, del tutto fuori dell’ordinario, della bocca come cancello. Non si deve credere, però, che Groto proceda a furia di sintagmi prefabbricati del genere labra di rubini (R 28.12): si ha un esempio della sua abilità in alcune sterminate rapportationes (R 90, R 196), nelle quali il massimo allontanamento di figurante e figurato dà quasi l’illusione di un artificio che realizzi l’impossibile connubio di presenza ed assenza. Nella scelta dei figuranti Groto mischia come suo solito tradizione e innovazione: se della bocca fa un cancello, per le labbra, accanto ai canonici rubini (R 28.12, 45.4, 196.9), reintroduce a sorpresa il petrarchesco rose ripudiato dal Bembo64 (R 90.11), o, ignorando l’emergente ostro, inaugura il suo canzoniere con i poco frequentati, ma ariosteschi 65, minio e cinabro (R 3.6). Due guance. Si ripete per loro il discorso appena fatto sulle labbra. Nei Fragmenta le gote e le guance di Laura vengono menzionate una volta ciascuna, percorse da una lacrima pietosa le prime (Rvf 343.14), colorite d’un dolce foco che le assimila a rose vermiglie le seconde (Rvf 127.71 e 79); la loro presenza si moltiplica poi nei figuranti rose (Rvf 146.5) e neve (Rvf 131.9 e 146.6). Nelle Rime troviamo di nuovo solo metafore in praesentia, e per lo più in perfetta linea con la tradizione: le rose s’accompagnano a guance (R 28.6, ma anche nell’encomiastico R 16.4), la coppia rose-gigli e le amorose faci a gote (R 45.7 e 156.3; nell’epigramma 289 le guance di Adone sono fiamme). Gli unici figuranti non petrarcheschi sono proprio quelli del sonetto R 3: cerussa (se ne veda l’analisi più sotto) e grana, per il quale il rimando è, tra gli altri, ancora all’Orlando Furioso (Of 10.98.6, dove è affiancato ad avorio) e prima al Boccaccio (Teseida, 12.59.3). Due pome. La parte del corpo di madonna che, rispetto alla tradizione, prende nel Groto il maggior risalto è il seno. Nei Fragmenta, dove l’hapax mamella (Rvf 206.34: “Dal dí che la mamella / lasciai...”) sta in una perifrasi a indicare l’infanzia, Petrarca evoca tre volte il bel petto e tre volte il seno di Laura, con questa differenza: il bel petto (Rvf 37.102: “…e i dolci sdegni alteramente umili / e ‘l bel giovenil petto / torre d’alto intellecto”; 66.29: “…che fa nascer… / … nel bel petto l’indurato ghiaccio”; 172.4: “O invidia… per qual sentier cosí tacita intrasti / in quel bel petto…”) è la sede delle qualità e dei sentimenti dell’amata contrari ai desideri dell’amante; il seno – angelico a Rvf 126.9, candido a Rvf 160.11 e bel a Rvf 359.8 – compare in

64 65

Pozzi, Temi, topoi, stereotipi, cit., pp. 425-426. Per minio, cfr. Ariosto, Rime 32.6; per cinabro cfr. Orlando Furioso 7.13.2.

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contesti più positivi, nelle visioni miracolose di una Laura a contatto con la natura. Groto non ha questa raffinatissima precisione lessicale, ma amplia il ventaglio dei sinonimi: alle dodici menzioni del petto (solo una volta bel, a R 125.3) e del seno di madonna, si aggiungono le due di mammelle e, appunto, di pome 66. Per la scelta dei figuranti, più che alla sola bianchezza del latte (che pure compare), Groto sembra rivolgersi alla bianchezza e alla durezza dell’avorio (R 25.4), dell’alabastro (R 45.1 e 90.14) e del marmo (R 51.103), più in sintonia con l’immagine imperante della donna crudele. Di suo il Cieco ci mette anche un’audacia erotica sconosciuta al Petrarca, che si concentra però unicamente sul seno, detto a R 28.11, con un’immagine inusuale per questa parte del corpo, “di calamita”67: una calamita che attira irresistibilmente, ma invano, le mani del poeta. Si legga il madrigale R 125, Fera, da che non vuoi portarmi amore: il poeta vuole riprendersi il proprio cuore, migrato nel petto di madonna, e così conclude (vv. 9-10): lascia ch’io di mia man mel tolga almeno, e, per torlo, una man ti ponga in seno.

Due man. Questa voglia di contatto fisico ha come suo altro importante polo d’attrazione la mano di madonna (26 occorrenze contro le 23 dei Rvf). Nel Canzoniere la bella mano, che Petrarca pone seconda solo al viso (cfr. Rvf 257.4), ha il tocco lieve di un’eterea Laura post mortem nelle consolanti visioni della seconda parte (Rvf 302.5, 342.9); in vita, resta un inafferrabile, e come abbiam visto crudele, oggetto del desiderio. Nelle Rime il meccanismo è simile nel passaggio all’atto, ma non nel compimento: ostinata nel negarsi agli assalti dell’innamorato (R 125.8, 136.5), la mano dell’amata68 si concede solo di propria iniziativa, ma in un contatto reale e non onirico: nel caritatevole soccorso di R 91, Ombra che ’n fasce m’adombrasti gli occhi, dove corre in aiuto del Cieco rimasto solo e senza guida, e nel giro di ballo di R 161, Madonna, se credete, e R 162, Se de la vostra man l’avorio puro, dove però cade vittima della foga del poeta. Due braccia. Nel Petrarca le braccia Laura sono complemento al fascino delle mani – così a Rvf 37.98-99, “le man’ bianche sottili, / et le braccia gentili”; 66

R 3.9 e R 104.6; va segnalato anche R 108.3 e 9, componimento encomiastico. Nel caso di R 3.9 va però detto che pome è figurante normalmente estraneo al canone breve, cfr. Pozzi, Temi, topoi, stereotipi, cit., p. 401: “Perciò vediamo che il seno non è mai definito nel canone breve secondo la forma; lo prova il rifiuto di una metafora così comune come quella del pomo”. 67 “Calamita”, peraltro piuttosto raro, è di solito la donna intera, polo d’attrazione dell’animo del poeta: si vedano ad esempio Rvf 135.30 e Ariosto, Rime 82.11. 68 Bella anch’essa in tre occasioni (R 2.10, 162.8, 167.7); il sintagma non è accantonato dal Groto (cfr. poi occhi) forse perché relativamente poco usato dallo stesso Petrarca (Rvf 37.116, 199.1, 200.1, 208.12). Canonici i figuranti: latte R 45.5 (più il bianco cerchio di R 3.11), avorio R 90.14 e 162.1, e neve R 119.3 e 172.1 (oltre a 92.6, encomiastico).

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292.2, “et le braccia et le mani e i piedi e ‘l viso”; 348.5, “da le man’, da le braccia che conquiso / senza moversi avrian...” – o comunque strumento di seduzione e sofferenza – Rvf 171.1-3, “Giunto m’à Amor fra belle et crude braccia / che m’ancidono a torto...”. Nel Groto esse sembrano decisamente più marginali: alle braccia nivee di R 3.13 – accoppiate alle mani, di cui assumono un normale figurante – rispondono in tutto il canzoniere solo quelle d’alabastro della donna-fera di R 28.9 (dove sono inaspettatamente accoppiate ai crini d’oro). Duo lumi. Sovvertendo la canonica successione dall’alto verso il basso proposta dal sonetto, concludo questa rassegna con gli occhi, sede e arma privilegiate di Amore, perché il caso raro di un poeta cieco fa di essi un nodo particolarmente interessante e curioso. Secondo il più ovvio dei clichés amorosi, la storia del Canzoniere ha origine dall’incontro inesorabile fra gli occhi di Laura e quelli del poeta: “Era il giorno... / quando i’ fui preso... / ché i be’ vostri occhi, donna, mi legaro. /…/ Trovommi Amor del tutto disarmato / et aperta la via per gli occhi al core / che di lagrime son fatti uscio e varco” (Rvf 3.1-4 e 9-10). Così intonato, questo leitmotiv si rincorre in un fittissimo contrappunto per tutto il libro: 133 volte appaiono gli occhi di Laura (0,23%), in gran parte puntualmente accompagnati dall’attributo “belli”69, 13 i suoi lumi 70 e 5 le sue luci 71, mentre due volte brillano le sue stelle 72; dei propri occhi, piangenti o volti vergognosamente verso il basso, Petrarca parla in 98 occasioni, alle quali s’aggiungono le cinque di luci e la sola di lumi. Nelle Rime l’attimo fatale dell’innamoramento per gli occhi è ricordato in zone che svolgono la tradizionale casistica amorosa (si veda, ad esempio, R 50, Da chi, donna crudel, s’usa, o in qual loco, che appartiene a una serie di componimenti incentrata sulla crudeltà di madonna: vv. 4-6 “…Metteste a ferro e foco il nostro petto, / che al primo assalto de gli occhi soavi / v’aprio le porte e v’offerio le chiavi”), ma è assente, e si tratta di un’assenza di peso, nelle liriche cruciali del proemio, dove, appena suggerito nel sonetto R 2 (vv. 3-4 “ma l’aspre pugne e le chiare vittorie / di due luci possenti et omicide”), è però subito contrappesato dalle “virtù” delle mani (v. 10) e dagli “influssi” delle ciglia (v. 12); nel sonetto 3 l’amore è già un fatto acquisito, da addebitarsi equamente alle varie parti che concorrono a formare la bellezza di madonna. La bilancia del Groto è attenta nel rispettare questo equilibrio per tutta la raccolta: gli occhi dell’amata non ricorrono che 29 volte (0,08%), 4 le 69

Si pensi che tutte le 39 occorrenze di begli sono legate a occhi; 23 su 26 quelle di belli; 4 volte compare il sintagma di Rvf 3 be’ vostri occhi, una sola la forma occhi bei. 70 Belli in 7 occasioni. 71 L’aggettivazione di luci – sante (2), divine (1), beate e liete (1) – rinvia invece alla sfera spirituale. 72 Rvf 17.11 e 160.6; a 157.10 compare anche il figurato occhi.

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luci e una sola i lumi 73, dati non molto diversi, insomma, da quelli di petto/seno e di mano. La scelta degli attributi e delle metafore conferma in pieno le tendenze emerse finora: l’aggettivo “bello” quasi scompare (quattro attestazioni con occhi, una con luci 74), mentre il figurante stelle 75, più fortunato, compare quattro volte, una sola delle quali, però, in absentia (R 145.13). Sorte parallela spetta agli occhi del poeta, che perdono consistenza numerica (25 occorrenze, più una ciascuno di lumi e luci), ma non le loro funzioni abituali: sono varco delle lacrime, soprattutto nelle sequenze dello “stato amoroso”, e bersaglio dei dardi e del fuoco scagliati dagli occhi di madonna, sia che l’io poetico si metta la maschera del vedente (ad esempio, a R 121 e 214), sia, paradossalmente, che si dica autobiograficamente cieco (R 210). Allargando il campo d’indagine, scopriamo che è l’intera area semantica della vista a subire una vera e propria decimazione: il verbo vedere compare nei Fragmenta ben 340 volte (0,6%) contro le 75 (0,2%) delle Rime; se prendiamo in considerazione solo la prima persona (veggio, veggia, vidi) il rapporto è altrettanto netto, di 113 vs 8, e nulla cambia con il sostantivo vista (69 vs 13)76. Un discorso più approfondito merita il lemma cieco. Nel Canzoniere petrarchesco compare 23 volte, sempre come aggettivo e quasi sempre con una forte connotazione morale negativa. Per questo, in Rvf 151.9, il poeta può dire di Amore: “Cieco non già, ma faretrato il veggo”. Chiosa Santagata: “se Amore si è collocato negli occhi di Laura, ‘loco d’ogni viltà netto’ per eccellenza, non può essere cieco”77. Lo diventa quando Laura muore, poiché si ritrova privo della propria luce e delle proprie armi: Rvf 338.2 “Lasciato ài, Morte, senza sole il mondo / oscuro et freddo, Amor cieco et inerme” (e la stessa sorte tocca all’io nei componimenti in morte di Laura: Rvf 276.12 e 348.11); o lo è in quanto irrazionale come le passioni, i desideri, le voglie che suscita e che spingono spesso il povero amante verso la morte: si vedano Rvf 211.5-7, 290.9-11, e poi 56.1, 80.13, 135.42, 141.14, 212.9, 224.4, 294.13 78. A 73

Anche il singolare lume ha poca fortuna nel Groto: ricorre in termini assoluti 12 volte contro le 60 dei Fragmenta. 74 Mantengono l’aggettivazione petrarchesca in R 32.1, dove son dette lucenti e liete. 75 Nelle Rime si registra anche la metafora occhi-sole a R 28.2 e R 119.1. 76 Per meglio valutare l’importanza di questa svalutazione degli occhi e della vista operata dal Groto, si vedano i dati e le riflessioni di A. Quondam, Il naso di Laura. Considerazioni sul ritratto poetico e la comunicazione lirica, in Il naso di Laura, cit., pp. 291-328, in particolare pp. 313-314. 77 Petrarca, Canzoniere, cit., p. 715. Dagli occhi, Laura scaglia un’invisibile fiamma d’amore: “s’i’ ‘l dissi, chi con sua cieca facella / dritto a morte m’invia…”. 78 Un po’ diverso è il caso di Rvf 223.8, dove un Petrarca insonne e totalmente alienato si lamenta “et col mondo et con mia cieca fortuna, / con Amor con Madonna et meco”.

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questo disordine morale, che non è solo suo, cerca di rimediare Rvf 366.20 con questa invocazione alla Vergine: “o refrigerio al cieco ardor ch’avampa / qui fra i mortali sciocchi”. E infatti, in questo mondo cieco (Rvf 248.4 e 325.89; in Rvf 28.8 indica invece dantescamente il mondo infernale), la mancanza di virtù alligna fra gli uomini: chi è cieco perché avido (Rvf 128.36), chi perché iracondo (Rvf 232.7), chi perché ingenuamente fiducioso proprio nelle promesse del mondo (Rvf 319.6) e, infine, chi perché ingannato dallo scorrer del tempo (Rvf 355.2). Nelle Rime del Groto, invece, il lemma cieco alterna le 19 occorrenze dell’aggettivo alle 14 del sostantivo, sconosciuto a Petrarca. Assai rara è la connotazione morale. Nel suo senso più pieno la si ritrova, con poca sorpresa, solo in un componimento religioso dedicato alla Madonna (R 325.13, “fa’ che l’anima almen cieca non resti”) e nella fuga da Amore di R 114.6 (“E che scorta sperar possiam da un cieco?”79), mentre latita nella pur nutrita schiera di componimenti dello “stato amoroso”, dove compare negata e affermata dalla natura retrogada di R 84: v. 12, “accorte, non cieche or l’alme si fanno” o fortemente annacquata nel gioco degli effetti paradossali della passione: R 66.8, “ L’altrui a doglia, il mal mio prendo a gioco / […] / miro, odo e grido, cieco, sordo e fioco”. Per il resto, la parola ha sempre il significato di “privo della vista”, o, al limite, della luce. Il mondo resta sì cieco in R 205.14, ma perché – come nei Fragmenta succede ad Amore e al poeta dopo la scomparsa di Laura – la morte di Carlo V l’ha privato della luce del suo sole (cfr., ad es., R 174.9). Amore, dal canto suo, ritrova la propria cecità (termine non petrarchesco), alla quale prova semmai a porre rimedio decretando con altri dei la prematura morte di madonna, in modo da poterle rubare gli occhi (R 196.7-8, “Amor, cui troppo noce e troppo spiace / sì lunga cecità, gli occhi volea”). Con lui è cieca anche madonna, quando ambedue non vedono le sofferenze del poeta: cfr. R 33.5-10, 71.8, 156.10 80; con lui è cieco anche l’amante, almeno nel serrato confronto di R 210:

5

Cieco fui prima, un cieco indi mi prese: così condotto l’un da l’altro venne. Contra un cieco non fei, cieco, difese; lui né diffetto, né pietà ritenne, ma da lungi e d’appresso, ahimè, mi offese: due volte il guardo mio cieco divenne.

79

“Cieca et disleale scorta” è il dio in Rvf 211.6. Ma si riveda anche R 156, in cui a madonna, cieca perché bendata per giocare a moscacieca, “altro non manca, acciò che si conchiuda / che siate Amor, che l’ale e l’esser nuda” (vv. 7-8). 80

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E per pena maggior quel cieco vuole, ch’io tenga sempre volto il volto al Sole.

Ora, il protagonista maschile del libro, che in un solo caso si nomina Cieco d’Adria (R 102.14), è per tutto il canzoniere un po’ cieco e un po’ vedente (ad es., R 214.7-10, “Perché non fui […], come tu, cieco?”) quando si cala nei panni dell’amante. Dichiara invece più apertamente la propria menomazione in quei componimenti che hanno una scoperta occasione autobiografica: così R 151 (v. 185, “chiusamente piangendo, i ciechi lumi / segnando ognor givano l’orme impresse”), che racconta di un viaggio a Bologna, e soprattutto R 154 (vv. 37, 56, 61, 110 – dove però la cecità è intellettuale) nel quale il Groto risponde all’amico Clarignano che lo esorta a prender moglie. In quanto centone petrarchesco, questo capitolo offre anche un salace rovesciamento di Rvf 141.14, “cieca al suo morir l’alma consente”: la morte dell’anima è in questo caso il triste destino cui va incontro l’incauto che decida di sposarsi. Il tema della cecità ricorre due volte negli epigrammi: in R 250, Giovane cieca e sterile (cfr. vv. 2 e 6), e in R 265, con il celebre motivo del Cieco e dello zoppo (cfr. vv. 1, 2, 3, 13), ma curiosamente non in R 266-67 dedicati ad Omero, indicato invece come il “cieco sol [solamente] che pinse il lungo pianto / d’Ilio e del suo contorno” nell’encomio a Lucia Bianchini R 41.43. Alla cerchia bolognese della cognata di Alessandra Volta appartiene anche quell’Isabella Pepoli la bellezza della quale ha in R 36.1011 questi effetti: “che cieco si può dir chi non la vede, / e chi veder la vuol cieco diventa”. Nella terza scena del quarto atto dell’Alteria 81, Volpino, dopo una incredibile serie di equivoci e di colpi di scena, giace con l’ignara Olimpia, moglie di Androfilo suo padrone, nella buia stanza di un’osteria; reduce soddisfatto dall’avventura galante, ripensa con sorpresa all’insospettata generosità delle forme di lei: “Che hanno a far le guance con le natiche? / Queste son certe cose che è impossibile, / senza il senso del tatto, che l’uom n’abbia / notizia…”. Nelle Rime la svalutazione della vista e il rilievo dato a parti del corpo dichiaratamente associate al desiderio di “toccare” – le labbra (attraverso il bacio), il seno e le mani – sono a mio avviso la traduzione lirica di quell’esigenza di sperimentare il mondo a tentoni che Volpino sdrammatizza nella comicità un po’ grossolana della sua battuta, ma che è ovviamente essenziale nella vita di un cieco; d’altro canto, non dobbiamo dimenticare

81

Cfr. L. Groto, La Alteria. Comedia nova di Luigi Groto Cieco d’Hadria […], In Venetia, Appresso Fabio et Agostino Zoppini fratelli, 1587, c. 53r.

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che la storia d’amore narrata nel canzoniere sembra dapprima chiudersi con il desiderio di veder madonna (R 303.1 Mentre tu, la cui vista io bramo ognora) e con l’auspicio del poeta, fattosi cielo, di poterla guardare con molti occhi (R 303.7)82, per poi riaprirsi in extremis con un nuovo innamoramento, non per vista, ma per udito (R 307, vv. 1-4: “Mentre madonna i dolci stami tende / de la cava testugine vocale, / tende Amor lacci, e adesca al suon mortale / mio cor tra quelle fila, e poi ve ’l prende”). È forse in questo oscillare fra apologia del tatto, nostalgia della vista e effetti amorosi dell’udito che si possono cogliere, più che altrove83, gli inevitabili riflessi inconsci di un’esperienza quotidiana che doveva essere dura e difficile84, anche se, a dire il vero, continua a sorprendere come il Cieco d’Adria (per tranquilla accettazione del proprio destino? per obbedienza alle regole di un genere letterario?) sia sempre riuscito, grazie a uno straordinario trasformismo, ad alleggerire la propria poesia del peso ingombrante di una sorte avversa. Veniamo a qualche altro tema tipicamente petrarchesco. Altrove ho cercato di mostrare come la dimensione temporale, che è architrave della macrostruttura del Canzoniere, venga puntualmente rimossa dal Cieco dal disegno della propria raccolta85. Ma nel Petrarca il tempo è soprattutto ossessiva consapevolezza della transitorietà dell’esistenza, insieme monito e incitamento 82 Cfr. Gatti, “Alcune cosette a stampa”, cit., pp. 407-8. Il madrigale R 303 traduce un epigramma erotico attribuito a Platone (Antologia palatina 7.669), ripreso anche dal Tasso nel madrigale Mentre mia stella miri, ma la sua origine tutta letteraria nulla toglie alla suggestività della sua collocazione. 83 Cfr. Erspamer, Petrarchismo e manierismo, cit., p. 197: “In lui [Groto], privo della vista fin dalla nascita, l’allontanamento della realtà, che per il Venier costituiva soltanto una scelta stilistica, era l’inevitabile conseguenza di un destino inclemente: nel buio della sua fertilissima mente gli indecifrabili contorni di tanti oggetti canonici del vocabolario petrarchesco, le chiome d’oro, il dolce lume, l’erba fresca (ma si leggano nelle sue Lettere alcune esplicite dichiarazioni di rifiuto della dittatura del Petrarca), cedevano in importanza alle astratte (e dunque immaginabili anche al di fuori della diretta esperienza) forme della geometria, alle infinite combinazioni della logica”. 84 Fra i passaggi più citati delle Lettere grotiane c’è questo sfogo all’amico Adriano Clarignano (Groto, Lettere famigliari, cit., 51r-v, Adria, 14 luglio 1568): “La morte di me inutile non rincrescerà né a’ miei parenti né a’ miei amici né a’ miei cittadini. Potrebbe rincrescere ad uno solo, a colui nella cui casa io mi morrò, convenendogli per onor suo e per isgombrar la sua casa farmi por nella sepoltura, che io allora racquisterò il lume, rivedrò i miei parenti morti, uscirò de’ travagli di questo mondo, sgombrerò da gli affanni di questa vita: non sarò più astretto a mendicar di porta in porta e di casa in casa chi mi legga, chi mi scriva, chi mi guidi, chi mi accompagni, chi mi vesta, chi mi spogli, chi mi pasca e non pur pasca, ma tagli il pane e ministri il bere, le quali infelicità considerando talvolta meco medesimo, son costretto ad odiar la vita”. 85 Cfr. Gatti, “Alcune cosette a stampa”, cit., pp. 393-94.

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alla conversio vitae, un motivo che lascia Groto insensibile. I dati lessicali provano inequivocabilmente il diverso interesse per il tema: la parola tempo, come abbiamo visto in assoluto fra le più usate dal Petrarca, ricorre 149/0,26% volte nei Fragmenta, ma solo 41 (0,12%) nelle Rime; ma si vedano anche le notevoli differenze nell’uso di anno/anni (Rvf 73/0,13% vs R 15 / 0,04%), giorno/giorni (78/0,13% vs 31/0,9%), notte/notti (64/0,11% vs 27/0,08%). L’allergia grotiana per il colore verde merita qualche postilla. Assieme al verde lauro scompare dalle Rime un intero paesaggio: scompaiono l’erba 86 (Rvf 42/0,07% vs R 12/0,03%), il prato (Rvf 6/0,01% vs R 1/0,002%), il bosco (Rvf 26/ 0,04% vs R 4/0,01%), la selva (Rvf 20/0,03% vs R 6/0,02%), le fronde (Rvf 33/0,06% vs R 9/0,03%), i rami (Rvf 33/0,06% vs R 3/0,01%), il colle (Rvf 19/0,03% vs R 1/0,003%), la riva (Rvf 34/0,06% vs R 9/0,03%), insomma, molti di quegli elementi ai quali Petrarca accompagna in misura variabile l’aggettivo verde 87. Una conferma indiretta del legame esistente fra rifiuto del colore e rifiuto di una certa cornice naturale viene, al di là di suoi possibili usi metaforici, dal sostantivo fiore, impiegato dai due poeti in proporzioni del tutto simili (Rvf 51 / 0,09% vs R 30/0,09%): Petrarca lo lascia il più delle volte senza attributo o gli accosta aggettivi come bello, novo e tenero, mentre in tre occasioni ne designa le tinte (Rvf 46.1 i fior vermigli e i bianchi, 127.81 fior bianchi e gialli; 192.9 fior di color mille); è significativo che per una volta Groto si pieghi all’uso di aggettivi come bello (tre volte come nei Rvf) o leggiadro, ma eviti con cura, eccezion fatta per il sanguigno fior di R 165.1, di caratterizzare il termine attribuendogli un colore. La natura è presente nelle Rime attraverso le sue componenti essenziali che sono al tempo stesso i reagenti fondamentali del conflitto amoroso; tutti e quattro gli elementi base sono proporzionalmente più presenti nel Groto che nel Petrarca: di foco ho già detto; terra compare 89 volte nel Canzoniere (0,15%) contro le 68 delle Rime (0,2%); “aria” 35 contro 31, ma di nuovo con una certa preferenza del Cieco per il termine che Petrarca usa meno: se aer(e) s’attesta su una sostanziale parità (Rvf 28 / 0,05% vs R 15 / 0,04%), netta è la differenza per quanto riguarda aria (Rvf 7 vs R 16)88; con acqua, che vive

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Tutti i dati numerici di questo elenco sommano di un lemma le frequenze del singolare e del plurale. 87 Nel Groto troviamo solo una volta ciascuno verde riva a R 166.1, verdi fronde (quelle dell’alloro poetico nell’epitaffio per il Bembo a R 204.4) e verdi foglie (a R 155 riferite al lauro in un sonetto encomiastico dedicato a Laura Battaglia). 88 Non essendoci la necessità del gioco sul significante, tende a scomparire aura (37

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beninteso anche della rivalità con “foco”, la disparità cresce ancora: le 27 attestazioni dei Fragmenta vengono letteralmente sommerse dalle 65 delle Rime. 2.2. Il lessico non petrarchesco delle “Rime” …E qual di costoro ne gli scritti altrui scopre alcune di queste parole nuove pare che abbia scoverto un contrabando di diecimila ducati; e così colui che usane va, se non possono averlo nelle mani, accusato, condannato, maladetto, scommunicato, bandito: e con taglia dietro.

Non serve la scaltrezza del cacciatore di taglie per cogliere il Groto lirico con le mani nel sacco, dato che nelle Rime un lemma su quattro è “parola nuova”, non petrarchesca, e perciò degna di bando e scomunica. Eppure la condanna del Cieco non sarebbe che l’illecita e frettolosa conseguenza di un’ovvia distorsione polemica. Se preso sul serio, il postulato dei petrarchisti “pedanti”, così come illustrato dal Groto al suo illustre interlocutore, non concederebbe scampo a nessun poeta del Cinquecento, e perfino il Bembo, le cui Rime attestano un abbondante 12% di presunto lessico proibito, si porterebbe addosso il marchio dell’”eretico marcio”. Anche il dato numerico va preso con le dovute cautele. Le 715 parole grotiane estranee al paradigma del Petrarca volgare risultano da un meccanico confronto delle rispettive concordanze, che ha finito per segnalare non solo differenze nell’uso dei nomi propri, alcuni dei quali evidentemente dettati da accidentali circostanze biografiche, ma anche scarti minimi dovuti, ad esempio, al banale impiego di un sostantivo al posto di un verbo o di un verbo invece di un aggettivo89. D’altro canto, il fatto che, tolti questi casi poco significativi, il materiale lessicale non petrarchesco delle Rime resti pur sempre sostanzioso potrebbe far pensare a un Groto impegnato in un’opera di volontario e mirato scarto dalla norma riconosciuta, di infrazione linguistica magari non plateale, ma capillarmente diffusa: la lucidità e la precisione davvero straordinarie dell’elenco contenuto nella lettera del 5 dicembre 1570 non può lasciare dubbi circa la sua consapevolezza e la sua competenza anche dei dettagli più minuti del linguaggio lirico. Se di vera infrazione si tratti, e se del caso di quale portata, può dircelo solo un’analisi sistematica

vs 6); Groto indulge invece nel plurale aure, sfruttato 6 volte contro le 2 dei Rvf.

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della tradizione delle singole parole. Ho proceduto a una verifica in tre tempi: dapprima ho passato i 715 lemmi al vaglio della corposa banca dati proposta da LIZ, che nelle intenzioni vorrebbe corrispondere al “canone tradizionale della letteratura italiana”90, esaminando tutta la produzione in versi anteriore alle Rime grotiane ivi archiviata, cui ho aggiunto i prosimetri danteschi, le opere in prosa del Boccaccio e il trattato del Bembo, per un totale di 66 testi (l’inclusione del Canzoniere e dei Trionfi è servita per una verifica dell’esattezza dei dati)91; nei casi di esito nullo, poi, ho allargato l’interrogazione a tutto il corpus di testi compresi fra il ’200 e il ’500 (si tratta di 205 opere); ho infine consultato per i lemmi meno attestati i vocabolari storici della nostra lingua92. L’indagine rivela il coagularsi di questo materiale in quattro nuclei di consistenza molto diversa: da un ridottissimo numero di parole di cui non ho trovato altre attestazioni – o solo attestazioni anacronistiche –, si passa al ventaglio già più esteso delle voci sconosciute a LIZ (intendo al censimento del corpus in versi), ma presenti nei vocabolari storici, per arrivare alla gran-

89 Così nel Petrarca troviamo annunziare, ma non annunzio; intagliare, ma non intagliatore; intricare, ma non intrico; travagliare, ma non travaglio; querela, ma non querelare; sazio, ma non saziare; scarco, ma non scarcare.

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de maggioranza dei lemmi, che, tutti rintracciabili nei testi dell’archivio elettronico, vi risultano normalmente suggellati, escluse poche decine di voci, dalla somma auctoritas di Dante, Boccaccio, Bembo e Ariosto. Nove parole hanno resistito ad ogni tentativo di identificazione: nove hapax, gli aggettivi ‘ndesiato, augeo, stinfalido, cleoneo ed erimanteo 93, e i verbi disalbare, irrosare, inveprare e inchiomare. I primi (eccezion fatta per ‘ndesiato) si trovano tutti in R 300, Colui che vinse il cleoneo leone, il sonetto che chiude la sezione degli epigrammi, e non sono che la traduzione preziosa degli aggettivi presenti nella probabile fonte, i Monosticha de aerumnis Herculis, ventiquattresimo componimento dell’Eclogarum Liber di Ausonio. Per quanto riguarda i secondi, si tratta verosimilmente di neologismi grotiani, che occhieggiano per opposizione o analogia a modelli illustri. Disalbare ha in R 318.10, “Quest’almo specchio […] / che macchia, che polve non disalba”, il significato di oscurare, in evidente opposizione all’inalbare di Rvf 223.12, “Vien poi l’aurora, et l’aura fosca inalba”, che invece vuol dire “illuminare, rischiarare tenuamente” (GDLI). Inveprare indica la dolorosa e infamante metamorfosi che madonna-sole fa subire al poeta nel momento in cui lo copre di sterpi (vepre è il pruno selvatico), antitetica alla benefica azione che in natura la luce e il calore solari esercitano sulla terra facendola fiorire di rose 94: R 63.13 “ Cortese il sol la terra irrosa e ‘ngiglia: / me invepra il mio crudele...”; raddoppia l’efficacia della contrapposizione la presenza di un denominale di origine alta e nobile come ingigliarsi, che è hapax dantesco, di Paradiso 18.113 95. Inchiomare, infine, a R 41.38 “e quando il Capricorno / di freddo argento i calvi arbori inchioma”, seppur rimante dell’imitazione grotiana di Rvf 29, non sembra avere attestazioni anteriori o coeve alle Rime. Anche nel secondo nucleo di lessico non petrarchesco troviamo parecchi verbi composti: ai parasintetici costruiti con il prefisso in- con valore illativo

90 “I testi inclusi in LIZ corrispondono al canone tradizionale della letteratura italiana. […] Il criterio di scelta delle opere tiene conto fondamentalmente dell’importanza dell’opera e dell’autore, dell’influenza che l’opera ha esercitato sulla successiva tradizione, oppure del suo valore documentario, della sua rappresentatività linguistica.”: LIZ, cit., Manuale di riferimento, p. 5. Si vedano a questo proposito, le osservazioni di Domenico Chiodo nella sua recensione al cd-rom in “Giornale storico della letteratura italiana”, CLXXII, 1995, p. 295. 91 Do qui di seguito, in forma abbreviata, l’elenco delle opere interrogate; per le edizioni di riferimento, rinvio al Manuale che accompagna il cd-rom. Francesco d’Assisi, Laudes creaturarum; Giacomo da Lentini, Poesie; Iacopone, Laude; Guittone, Rime; Guinizzelli, Poesie; Cavalcanti, Poesie; Folgore, Sonetti dei mesi; Cenne, Risposta ai

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o intensivo (immarmare 96, incavare 97, indubbiare 98 e insellare) o con arafforzativo (appartare, assaettare 99), si affiancano i verbi che presentano il prefisso ri-, dallo sceltissimo ridamare 100 al più prosaico raggroppare 101, passando per rimostrare 102. Il Cieco si permette di tanto in tanto anche qualche aggiustamento semantico: è il caso degli appena ricordati insellare 103, che in R 293.5 indica l’azione di “caricarsi, trasportare sulle spalle, mettere in groppa” e non quella ben più comune di “mettere la sella”, appartare, che in R 318.7 ha il significato non altrimenti attestato di “volgere [gli occhi] altrove”104, e di biondeggiare, verbo certo non raro, ma impiegato dal Cieco in un’accezione transitiva, “render biondi [i capelli]” (R 170.7, “il crin, quel giorno biondeggiato invano”), altrove sconosciuta105. Questo secondo gruppo ribadisce il gusto grotiano per voci dotte apparentemente poco sfruttate da altri autori sia sul fronte degli aggettivi – dove incontriamo ansioso (R 138.1), billustre (R 209.10) 106, esperide (R 108.3 e 300.11), fenicio (R 112.27), indomabile (R 64.36), inorpelato (R 154.44)107, mistico (R 321.5),

“Sonetti” di Folgore; Angiolieri, Rime; Alighieri: Detto d’Amore, Fiore, Rime, Vita nuova, Convivio, Commedia; Cino, Poesie; Petrarca: Canzoniere, Trionfi; Boccaccio: Caccia di Diana, Rime, Filocolo, Filostrato, Teseida, Comedia delle ninfe fiorentine, Amorosa visione, Ninfale fiesolano, Elegie di madonna Fiammetta, Decameron, Corbaccio; Sacchetti, Rime; Burchiello: Rime, Sonetti inediti; Pulci, Morgante; De’ Medici: Comento, Rappresentazione di san Giovanni e Paolo, Versi; Poliziano: Orfeo, Rime, Stanze per la giostra; Boiardo: Amorum libri, Orlando innamorato, Pastorale; Sannazaro: Arcadia, Sonetti e canzoni; Ariosto: Cassaria, Suppositi, Rime, Satire, Orlando Furioso, Cinque canti; Bembo: Prose della volgar lingua, Rime; Trissino, Sofonisba; Buonarroti, Rime; V. Colonna, Rime; Berni, Rime; Della Casa, Rime; Stampa, Rime; Scroffa, Cantici di Fidenzio; Tansillo, Poesie; Tasso, Aminta, Rinaldo, Rime. 92 Pur avendo controllato varie edizioni del Vocabolario della Crusca (in particolare quelle stampate in Venezia, presso Iacopo Turrini, 1680 e in Firenze, Nella Tipografia galileiana di M. Cellini e C., 1863) e il Tommaseo-Bellini, tutte le volte che sarà possibile farò riferimento al GDLI.

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penetrabile (R 48.1 e 64.12) –, sia su quello dei sostantivi, dove a sorprendere, perché più evidentemente estranee alla tradizione lirica, sono soprattutto alcune scelte del Cieco in fatto di materiale metaforico: così è per cerussa 108 (R 3.7), che sappiamo accoppiato a grana, a indicare il canonico incarnato bianco-rosso delle guance di madonna; per la “fiamma d’asbesto 109” di R 112.11, che contraddistingue un fuoco amoroso che non si può consumare; e per erario 110 (R 323.5), che è nelle rime religiose figurante della Santa Croce, luogo dove si custodisce “ogni celeste pegno”. I pochi sostantivi di questo segmento di vocabolario grotiano si completano con due tecnicismi, il giuridico costituto e il musicale conserto 111, il latinismo idro 112 e i più banali intagliatore 113 e sciettezza 114. Il terzo nucleo di vocabolario non petrarchesco comprende quelle voci, una quarantina, che LIZ rivela sì impiegate da autori illustri, ma che sono sconosciute alle opere, decisive per la nostra tradizione, di Dante, Boccaccio, Bembo e Ariosto. Più degli scarsi aggettivi – condegno (R 41.45), ferreo (R 35.6 e 190.12), immaturo (R 190.6), latteo (R 196.4 e 12), salutare (R 260.9), traccio (R 92.6) –, sono di qualche interesse, per la loro minima utilizzazione in poesia, alcuni nomi di animali esotici che arricchiscono il repertorio delle immagini grotiane, come cocodrilo (R 51.64), rinocerote (R 51.86), ostrica (R 22.12) e iena (R 28.10): i primi tre s’incontrano nel Morgante 115, il primo e l’ultimo nell’Orlando innamorato 116, ma in nessun caso è possibile stabilire un convincente legame intertestuale con la raccolta grotiana. Ben più domestico, ma altrettanto anomalo, è un figurante come legume (R 59.8, “i mei

93 Questi ultimi due sono rispettivamente attestati solo in G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, Dial. 1, parte 2 §13 e addirittura in Monti (GDLI). 94 Cfr. GDLI, dove il verbo irrosare è presente solo in virtù della citazione grotiana. Il Battaglia registra pure la forma non assimilata inrosarsi, cioè tingere di rosa, attestata nell’Aretino e nelle Famigliari dello stesso Cieco d’Adria, dove è di nuovo accoppiata a ingigliare: “Dipingansi elle il volto col pennello carico di bianco e di rosso, per ingigliarsi e inrosarsi le guance per un dì”. 95 GDLI cita, oltre al passaggio riportato nella nota precedente (“2. Per estens. Imbiancare; incipriare”), anche R 63.13 (“1. Ornare con gigli”), ma nella seguente lezione scorretta: “ Cortese il sol la terra irrosa l’ingiglia”. In Dante il verbo ha un’accezione diversa, “prendere figura di giglio”.

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pensier son di legume prole”), parola che va inseguita, e in contesto del tutto diverso, addirittura fino a Guittone. Fanno pure parte di questo gruppo i sannazariani fratta (R 68.12) e tibia (R 94.6), i quali, a dispetto della roza musa del Groto117, non sono inseriti in componimenti di tema pastorale, e alcuni termini riscontrabili anche nel Tasso del Rinaldo – contorno (R 41.44), notatore (R 153.9) e il già menzionato insellare – e in quello delle Rime – colosso (R 176.9), impiumare (R 317.4)118 –, tutto sommato poco significativi. Di gran lunga il più numeroso con i suoi 625 lemmi, il quarto nucleo lessicale reca l’autorevole sigillo di Dante, Boccaccio, Bembo e Ariosto; si tratta solitamente di parole abbastanza comuni e presenti in più di un modello, benché non manchino termini dai quali la memoria della fonte traspare con maggior evidenza. 295 lemmi sono attestati nelle opere di Dante, in particolare nella Commedia; pochi, però, i dantismi palesi, che vanno ricercati nella grotiana predilezione, ormai più volte confermata, per i parasintetici, sulla scia dell’ingigliare di R 63.13: troviamo così annerare 119, imparadisare 120, inoltrarsi 121, cui vanno ad aggiungersi i composti rimorire 122 e riudire 123. Seppure quantitativamente analoga a quella di Dante, la presenza del Boccaccio, che si fissa a 294 parole, non sembra occupare un posto di primo piano nelle Rime 124, circoscritta com’è a lemmi ampiamente diffusi in tutta la tradizione, anche ben al di là del territorio privilegiato degli auctores. Lo stesso discorso vale sostanzialmente per gli 89 termini che accomunano il Cieco al 12% “eretico” del Bembo, fra i quali, però, andrà almeno segnalato l’aggettivo precipitoso di R 154.136, “di entrar precipitoso e di uscite erte”, verso rubato alle Rime bembiane (35.34 “l’entrar precipitoso e l’uscir erto”) e abilmente intessuto nel centone petrarchesco di satira misogina e antimatrimoniale. 96

R 64.44. Cfr. GDLI (“diventare di marmo o duro come il marmo. Solidificarsi... Figur. Diventare insensibile”) che cita, oltre al Groto, anche il Bandello. 97 R 48.4. Cfr. GDLI, dove sono attestati l’Alamanni (“render cavo, modellare”), il Vasari (“intagliare”) e Groto (“scalfire, bucare, perforare”). 98 R 89.13. Cfr. GDLI che riporta il verso del Groto (“Far dubitare, gettare nel dubbio...”) e, prima di lui, ma con altro significato, il solo Alamanni (“Farsi dubbio, difficile, pericoloso”) 99 R 57.9. GDLI lo dà come voce dialettale nel significato di “colpire, ferire con saette” e non lo attesta prima del Groto. Crusca 1863 recita: “quasi colpire, ferire con saetta, ma non usasi che al figurato come nei modi: egli puzza che assaetta. Neutr. arrabbiare, arrabbiarsi, arrovellarsi”. 100 R 51.12. Cfr. GDLI, “contraccambiare l’amore”, presente nel Cortegiano (redamasse, Lib. II, 94 e redamato Lib. III, 56); è pure citato il verso del Groto. 101 R 143.13. Cfr. GDLI: nel significato denotativo usato dal Groto, “riannodare un filo spezzato”, è attestato dal vocabolario nel solo Bartoli. Il verbo è presente sia nel Boiardo sia nell’Aretino, ma con altri significati.

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Decisivo è per Groto l’attraversamento dell’Ariosto. Di cose ariostesche il Cieco aveva acquisito pubblica fama di studioso fin dal 1565, quando aveva dato il suo contributo all’edizione valgrisina dei Cinque Canti 125; dodici anni dopo, le Rime ribadiscono apertamente l’interesse del Groto per il Furioso, presentando nella galleria di epigrammi di ispirazione ellenistica quattro componimenti dedicati a Ruggiero e alle prime donne del poema, Angelica126, Marfisa e Bradamante 127. Queste esplicite presenze ariostesche non sono meri omaggi a un’opera di immenso successo, ma le spie di una sua memorizzazione minuziosa, di una sua assimilazione tanto profonda da influire fino nell’intimo della lirica grotiana: l’Ariosto emerge nella raccolta del Cieco d’Adria come la vera autorità linguistica alternativa al Petrarca. Non è dunque, con ogni probabilità, un caso, ma la spia di una scelta ben consapevole, che, proprio nella lettera indirizzata al Prencipe di Febo, gli unici due versi citati provengano dall’Orlando Furioso 128: …quella sera alloggiammo col fattore de’ Signori Bevilacqua, persona da bene e cortese, il qual si [ma si dovrà più verosimilmente leggere ci] mise (non prima già che con vivande grate havesse avuto il ventre amplo ristoro) a dormire in un castello…129

Delle 715 parole che non appartengono al paradigma del Canzoniere e dei Trionfi ben 508 – più del 70% – sono attestate nell’Orlando Furioso (468), nelle Satire o nelle Rime; ma, al di là del pur impressionante dato quantitativo, importa la frequente possibilità di rinvenire nella scrittura del Groto la puntuale memoria di luoghi e sintagmi ariosteschi; di questi forti legami intertestuali darò qui una parziale carrellata. R 26 tradisce fin dall’in-

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R 62.14. È segnalato dal GDLI e da LIZ in più di un testo in prosa (Machiavelli, Caro). Il Tommaseo-Bellini lo attesta anche nel Giron cortese dell’Alamanni (25.104). 103 GDLI riporta il verso grotiano. 104 Cfr. GDLI, che per la forma transitiva, “mettere da parte, separare”, cita per primo Galileo (così il Tommaseo-Bellini). 105 Cfr. GDLI: in tutta la tradizione il verbo è usato intransitivamente col valore di “essere, apparire biondo”. 106 È in Ovidio, Amores, III.12.9: “Pergama cum caderent bello superata bilustri”. Petrarca (Rvf 145.14) e il Bembo (Rime 119.1) usano trilustre. 107 Cfr. GDLI: “ricoperto di orpello, similoro, dorato”; sono citati tra gli altri l’Aretino, che usa anche il verbo inrosare, (“Arrivammo ove si vendono le uova di fuora inorpellate e di dentro piene di acqua di fiume inrosata”) e lo stesso Cieco d’Adria.

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cipit, “Se stata fosse la mia dea presente”, il suo debito con il Furioso, e più precisamente con un celebre passaggio della descrizione di Olimpia (Of 11.70), “Se fosse stata ne le valle Idee / vista dal pastor frigio...”, già ripreso anche dal Bembo130; alla nostra specola lessicale interessano soprattutto i due aggettivi non petrarcheschi idee e frigio, che ritroviamo ambedue nel madrigale del Cieco, il primo al verso 2, “a la gran prova de la selva idea”, il secondo al verso 6, “quante l’arbitro frigio ebbe promesse”. Sempre nel ritratto di Olimpia, l’Ariosto ne paragona il candore delle “parti che solea coprir la stola” alle “nievi intatte” (Of 11.68.1) 131; di “nevi intatte”, e fabbricate da Fidia, sono le braccia di madonna nella descriptio di R 3 (v. 13), della quale già avevamo portato alla luce gli ariosteschi minio e cinabro del verso 6 e grana del verso 7 132. In R 215.1 madonna, “d’insolita pietate ornata i rai”, visita l’amante infermo e lo risana in virtù dei suoi “dolci atti” che Amore “quai erbe colse, / e ‘n vital succo al foco suo gli sciolse”; in Of 19.20, Angelica è china su Medoro ferito e vicino alla morte: improvvisamente, sente entrarle “insolita pietade in mezzo al petto” e, memore dell’arte chirurgica appresa in India, si dispone a “operar con succo d’erbe” per salvare il malcapitato giovane. In R 48 la durezza dell’amata, che non si lascia vincere nemmeno dalle continue lacrime del poeta, è contrapposta dal Cieco a quella di una pietra “impenetrabile”, ma poi sconfitta dalla paziente azione dell’ac-

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“Biacca” di piombo “usata anticamente come belletto” (GDLI). Cfr. Crusca 1863: “sostanza minerale di color bianchiccio argentino, e di una tessitura fibrosa, onde se ne staccano facilmente fila lunghe, sottili, flessibili ed elastiche. È dotata della proprietà di rimanere inconsumata in mezzo al fuoco: l’amianto ne è una specie”. 110 Non ne trovo attestazioni in poesia prima del Marino. 111 Cfr. rispettivamente “interrogatorio, deposizione di un imputato davanti al giudice” (GDLI) e “consonanza, armonia di suoni” (per contaminazione di concerto con conserto, facilitata forse dall’influenza del francese concert), presente nelle Dicerie del Caro (GDLI). 112 “Serpe d’acqua, serpente in genere”: GDLI lo attesta nelle Rime del Caro (“con gli incanti / e col tatto ogni serpe addormentava: / de gl’idri, de le vipere e de gli aspi / placava l’ira”). 113 Molto diffuso, per ovvi motivi, nel Vasari e nel Cellini. Petrarca, però, già aveva usato il verbo intagliare (cfr. nota 89) 114 GDLI l’attesta nel Sannazaro e nel Tansillo. 115 Rispettivamente a 14.82.1 (“E ‘l cocodrillo avea l’uom prima morto, / poi lo piangea”), 19.68.3... (il termine ricorre otto volte); 25.312.2; 14.65.4. 116 Rispettivamente a II 10.16.8... (nove attestazioni) e II 10.46.5. 109

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qua, che sorge sulle falde del “silvoso Apennin”; silvoso è un aggettivo che, nei limiti dell’inchiesta svolta su LIZ, è attestato in poesia nel solo Ariosto, dove connota per due volte proprio il sostantivo “Apennin”, l’una in Satire 4.114, l’altra in Of 14.99.4. In R 168 Groto descrive l’uscita notturna di madonna alla rugiada e invoca la notte perché badi a che nessuno ne spii la nudità, sfidandone l’“ira ultrice”; ritrovo questo sintagma unicamente in Of 24.72.5, dove le preghiere di Doralice placano la vindice furia di Zerbino. Alcuni sostantivi non petrarcheschi presenti nelle Rime rinviano, se non esclusivamente al poema ariostesco, di certo a un clima eroico-cavalleresco: è il caso di asta, accoppiato in R 179.4 – sonetto marziale dedicato alla vittoria dei cristiani a Lepanto – a “spada”, come spesso nell’Ariosto (ad esempio, 10.104.1 o 26.5.2); della dittologia piastra e maglia di R 247.1, impiegata dal Groto per una sfida fra Venere e Minerva, e attestata con grande abbondanza nel Furioso e in altri poemi eroici; e di paragone, nel senso di “cimento” “duello”, parola carissima all’Ariosto che la usa una trentina di volte: si vedano in R 27.2 le tre dee che escono “al paragone” davanti agli occhi attenti e giudici di Paride133. Di chiara impronta ariostesca sono alcuni latinismi134, come figmento 135, margo 136 e il verbo emungere 137. In fatto di verbi non poteva mancare qualche prezioso parasintetico, ed ecco abbellare, ingemmare, indorare e irraggiare. Benché già attestati in Dante, i primi due si devono probabilmente all’uso fattone dall’Ariosto: abbellare ha in R 202.9 l’accezione di “abbellire” come in Of 10.103.4 138, e non quella dantesca di “piacere”; ingemmare, già di Par. 15.86, 18.117 e 20.17, è accoppiato dal Groto, in R 41.28, a indorare, così come l’Ariosto lo affianca a inaurare in Of 46.5.6 139;

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Cfr. Cfr. Gatti, “Alcune cosette a stampa”, cit., pp. 382-84. Cfr. GDLI: “2. fornire di ali, rendere atto al volo; Figur. dotare di grande energia morale, disporre all’elevazione spirituale e intellettuale”; il dizionario riporta, oltre a quello del Groto, anche esempi antecedenti del Molza e dell’Alamanni. 119 R 316.12: si vedano Purg. 8.49 e 27.43. GDLI cita, fra gli altri, anche un esempio del Caro nella sua traduzione della Retorica di Aristotele. 120 R 105.11: il verbo è hapax di Par. 28.3; è attestato anche nelle Rime tassiane, a 673.65 e 1012.63. 121 R 151.23: si veda Par. 21.94. 122 R 7.14. A dire il vero, il rimorte di Purg. 24.4 ha valore intensivo, “più che morte”, e non iterativo come nel Groto. 123 R 151.2: si veda Par. 8.30. 124 Il Boccaccio diverrà autore fondamentale degli anni successivi alla pubblicazione delle liriche, quando il Cieco si dedicherà alla sua tormentatissima rassettatura del Decameron. Si veda in proposito J. Tschiesche, Il rifacimento del Decamerone di Luigi Groto, in Luigi Groto e il suo tempo, cit., pp. 237-269. 118

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Gabriele Gatti

irraggiare, “risplendere, sfolgorare” (GDLI)140, ha in R 177.5 un significato figurato non dissimile da quello di Of 46.9.3. Altre scelte verbali possono esser fatte risalire all’Ariosto per coincidenza di un intero sintagma. In R 176.11 l’”orto e l’occaso” innalzano un “gran trofeo” a Carlo V, “con qual suo monte il ciel più presso attinge”; Of 41.13.4 vede Ruggiero alle prese con una terribile tempesta, in cui “il mar si leva, e quasi il cielo attinge”141. R 36 è il secondo sonetto dei “quattro fratelli” dedicati dal Cieco alla bellezza della bolognese Isabella Pepoli, tanto straordinaria “che ogni stil vince, ogni credenza eccede” (v. 7); nel nono canto del Furioso Orlando insegue a piedi il perfido Cimosco che gli ha ammazzato il cavallo con un frettoloso colpo di fucile: nella sua rincorsa il paladino è “sì ratto, ch’ogni stima / di chi nol vide, ogni credenza eccede” (Of 9.80.4). In R 151 un Groto estremamente riluttante è costretto a compiere un viaggio a Bologna che lo separa dall’amata: il poeta si volge continuamente indietro piangendo, tanto che arriva a dire di sé, vv. 107-108 “imito il sole, / che mirandosi a dietro annuncia pioggia”; per l’Ariosto, le gemme portentose di cui sono fatte le mura del castello di Alcina emanano un “chiaro lume […] ch’imita il sole / ...” (Of 10.60.1): nei due casi il sintagma, di cui non trovo altre attestazioni, rima con il verbo “vuole”. 3. Conclusioni Il “prencipe di Febo” può godersi tranquillamente il suo eterno riposo: per le Rime Groto non ha bisogno di importunarlo alla ricerca di speciali licenze poetiche, dal momento che le sue non poche infrazioni alle drastiche regole dei petrarchisti-“scimie” godono già dell’implicito e incontestabile lasciapassare della più grande autorità linguistica del suo secolo, il Bembo. Il lessico non petrarchesco del Cieco d’Adria, attingendo largamente ai maestri riconosciuti della letteratura volgare, rispetta in pieno le direttive arcaizzanti e classicistiche delle Prose della volgar lingua; e anche laddove lo scarto dalla norma sembra più evidente, nelle primizie, nei termini più rari o più lontani dalla tradizione lirica, Groto propone voci dotte, latinismi, o tutt’al 125

Cfr. I Cinque Canti di M. Ludovico Ariosto, i quali seguono la materia del Furioso. Tutti di nuovo rivisti… Con gli argomenti in rima et discorsi di Luigi Grotta d’Adria. Con alcune importanti annotazioni del medesimo, Venezia, Vincenzo Valgrisi, 1565; sulla reale portata della collaborazione grotiana all’impresa, platealmente sbandierata dal frontespizio dell’opera, si veda V. Monforte, L’attività di Luigi Groto in margine ai Cinque Canti dell’Ariosto, in Luigi Groto e il suo tempo, cit., pp. 273-288.

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

più neologismi ricalcati su modelli illustri che non contravvengono alle esigenze di un codice scelto e controllato. Non v’è traccia di plurilinguismo nelle sue rime volgari. Nonostante la sua lungimirante apertura alla poesia dialettale, che arriva a includere nel celebre Trofeo da lui curato in occasione della vittoria cristiana a Lepanto142, il Cieco si riconosce poeta lontano da quell’esperienza, come confessa ancora un anno prima di morire all’amico Giovan Battista Maganza, in arte il Magagnò, ringraziandolo per aver stampato nella propria quarta parte delle rime due suoi sonetti “rustici”: Non so mica se vi ringrazii d’aver commisto nella conserva di tante elette rime vostre et altrui i miei duo sonetti, l’uno mandato già alla serenissima prencipessa Moceniga, l’altro mandato a voi in risposta della bellissima vostra proposta, dignissima di ben starvi, poiché, avendo io sì poca pratica (benché molto gusto) di cotesto linguaio, imagino che le mie composizioni avranno arrecato poco onore a sé stesse, meno a me, e molto meno al libro, percioché egli è pur vero che ciascuno dee attendere al suo essercizio e a quello stile in cui è più consumato143.

Nelle Rime, a segnalare l’origine veneta dell’autore (o del suo segretario, o del tipografo), restano le evidenti incertezze ortografiche nell’uso delle scempie e delle geminate, ma nulla nelle scelte lessicali, se si prescinde da un elemento minimo come il participio passato creto (da CREDITUM) di R 71.7, voce che il Rohlfs designa come “antico veneto”144. Non si tratta solo di “essercizio” e di “consuetudine”, ma anche di lucida consapevolezza dei limiti e delle possibilità dei codici via via affrontati: regionalismi, cadenze del parlato e anche timidi tentativi di plurilinguismo145 (oltre a una buona

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Cfr. R 225 Ruggier poi ch’ebbe liberata Angelica, R 226 Angelica ferita. Cfr. rispettivamente R 238 Marfisa con due briglie in mano e R 239 Bradamante sopra ‘l padre e ‘l marito morti. 128 Di Of 4.55.3-4: Rinaldo capita in una badia, nella quale gode della “bella accoglienza” dei monaci e dell’abate. Tutte le citazioni dal Furioso rinviano all’edizione L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1976. 129 Groto, Lettere famigliari, cit., c. 4r. 127

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Gabriele Gatti

dose di imprecazioni, insulti e doppi sensi), del tutto assenti nelle tragedie e nei componimenti giovanili, infiorano le commedie cui Groto si dedica, con passione e impegno spartiti solo con la tormentata rassettatura del Decameron, a partire dagli anni immediatamente successivi la pubblicazione della raccolta poetica. In campo lirico, invece, la straordinaria capacità del Cieco di fondere nel corpo del proprio canzoniere gli stimoli provenienti dai più diversi generi letterari si realizza sul fronte linguistico soprattutto grazie a un fortunato attraversamento dell’Ariosto, la cui voce finisce per risuonare adamantina, e senza la minima stonatura, nel compatto monolinguismo delle Rime. L’ultima revisione ariostesca del Furioso sulla scorta delle direttive del Bembo è troppo nota a tutti per rievocarla qui nei suoi particolari; ma non mi sembra che si sia mai indagato sulle ricadute linguistiche che l’enorme successo del poema, combinato alla vittoria bembiana nella questione della lingua, potrebbe aver avuto sulla produzione lirica del secondo Cinquecento: quello del Groto, per ampiezza di proporzioni, sarà magari un caso limite, ma forse non isolato. Nel suo complesso l’analisi del lessico grotiano porta alla luce sul versante linguistico un comportamento equivalente a quello messo in atto dal Cieco a livello macrotestuale: nelle Rime Groto cerca la sua voce lontano dagli estremismi, senza rigettare la tradizione lirica, ma fuggendo dai suoi luoghi più frequentati e banali, dai suoi modi più facili. C’è sempre in lui una palpabile tensione, una proficua differenza di potenziale fra l’obbedienza necessaria alle regole di un codice universalmente accettato, che sono anche regole di un mercato cui Groto era attentissimo, e l’insofferenza manifesta per l’esiguo margine d’azione lasciato a chi decida di osservarle; fra la volontà di rendere il proprio prodotto facilmente fruibile per i normali e numerosi cultori di lirica petrarchista e il desiderio di imprimergli un marchio più originale. In ambito lessicale questa tensione si accende fra le scelte sull’asse paradigmatico e quelle sull’asse sintagmatico. Il vocabolario delle Rime si adegua di buon grado ai dettami del Bembo146: anzi, a dispetto della sferzante ironia della lettera del 5 dicembre 1570, lo si potrebbe definire disciplinatamente petrarchesco (e petrarchista). I rari neologismi, i pochi termini privi di tradizione poetica, la coloritura ariostesca ne increspano la 130 Cfr. Rime 133, 1-4, “Se stata foste voi nel colle Ideo, / tra le Dive, che Pari a mirar ebbe /...”, sonetto dedicato dal Bembo alla veneziana Elisabetta Massolo. Il Dionisotti ci informa che “con la lettera all’Anselmi, del 15 luglio 1538 […], il Bembo inviava corretto come ora sta il v. 2 che prima essendo ‘tra lor che pari nude a mirar ebbe’ aveva suscitato nella dedicataria il timore che si credesse averla il Bembo celebrata come dea, e quel che è

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Tra Petrarca e Ariosto. Il lessico delle Rime. Parte Prima di Luigi Groto Cieco D’Adria

superficie, ne rendono cangiante, senza intaccarlo, il tono sostanzialmente uniforme; è un’omogeneità che non si deve solo al ripudio delle tinte forti, ma anche all’uso parco delle sfumature: i due terzi dei 715 lemmi che non appartengono al Petrarca volgare, per l’esattezza 500, hanno un’unica attestazione (e 120 altri due), come dire la metà degli hapax presenti nell’intera raccolta. L’operazione innovativa si coglie nella combinazione di questi elementi: i legami più stabili della poesia petrarchesca – si pensi, in particolare, a certe metafore e a molti nessi aggettivo-sostantivo che contano fra gli stilemi fondanti del Canzoniere – compaiono solo sporadicamente nelle Rime, dove il Cieco di regola li scioglie e li ricompone in unità meno inflazionate quando non assolutamente inedite. È un sottile gioco illusionistico, in cui il poeta fa balenare davanti agli occhi del lettore un mazzo familiare o qualche carta ben nota, che improvvisamente, con abile mossa, scompaiono per riapparire con nuova forma e nuovo colore. Plateale funambolo dell’artificio spericolato e dell’enumerazione sterminata, Groto sa anche operare con l’abilità silenziosa e discreta del prestigiatore consumato.

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Giulia Raboni CHIABRERA, O IL GRADO ZERO DEL PETRARCHISMO

Per definire con una certa esattezza l’atteggiamento del Chiabrera nei confronti del Petrarca e della tradizione petrarchista, e misurare quindi quale sia l’apporto specifico del rimatore savonese agli sviluppi del genere lirico italiano – apporto che credo, vada al di là della sola riproposizione di modelli metrici1, ma che invece determini uno scarto abbastanza ampio nei confronti del passato, che sviluppi avrà poi in tutto il Settecento e l’Ottocento (dall’Arcadia al Manzoni delle odi giovanili, naturalmente con diverso approfondimento linguistico stilistico e soprattutto cambiamento di prospettiva storica nei confronti della tradizione classica) – occorre credo definire una serie di parametri, che consentano nel proprio ambito di valutare quale siano le novità più immediatamente assimilate dalle proposte chiabreresche. Anzitutto, trattandosi del Chiabrera, di ordine metrico-organizzativo, limitandoci qui a prendere in esame le più significative raccolte del nostro (le scelte curate dall’autore del 1599, 1605-6, 1618-19 e 1627-28), ed escludendo quindi le brevi apparizioni di testi messi insieme per particolari occasione (le varie celebrazioni di vittorie, o di ingressi di duchessa, che trovano nella destinazione e spesso anche nell’utilizzo di metri fissi, la propria ragione organizzativa); e a partire soprattutto dalle due raccolte edite nel 1599 col titolo di Maniere e Scherzi e canzonette morali, subito riproposte dallo stesso editore genovese Pavoni in un’unica edizione lo stesso anno insieme ai Poemetti sacri del 1598 e alle Canzoni eroiche del 1591, a segno del loro immediato successo. 1

Si veda ad esempio il recente catalogo della mostra bibliografica tenuta al Castello Visconteo di Pavia, Sul Tesin piantàro i tuoi laureti. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1535-1706), Pavia, Edizioni Cardano, 2002, dove numerosi sono, tra i rimatori censiti, gli imitatori del savonese.

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Giulia Raboni

Attenzione particolare che si giustifica per una serie di elementi: il fatto che questa sia la prima edizione di testi metricamente nuovi, che sia quella che contiene le poesie di maggior diffusione e fortuna del nostro, e infine che questa novità abbia imposto al poeta, conscio della “trasgressione” dei propri testi, uno sforzo di giustificazione teorica che attraverso l’introduzione attribuita al prestanome Lorenzo Fabbri (ma a cui da tempo è stata riconosciuta la paternità del Chiabrera), come nei dialoghi (soprattutto Il Geri, ma anche L’Orzalesi e Il Forzano) ci permette una miglior comprensione del tipo di atteggiamento che Chiabrera ha nei confronti dei modelli. Né del resto mi pare sostanzialmente mutato d’ora innanzi, per quanto riguarda il genere lirico e in particolare per la produzione amorosa, il profilo stilistico del nostro (mentre altre saranno le acquisizioni più tarde, ma destinate all’approfondimento di altri generi, in particolare drammatico e narrativo): come dimostrano tra le altre cose le pochissime varianti a stampa di questi testi. Se partiamo appunto dal livello metrico, è chiaro che è a questo che va subordinata la scansione dei testi nelle raccolte: atteggiamento,come sappiamo, non esclusivo del savonese, ma anzi in buona parte condiviso dalla lirica cinque-seicentesca, e che tuttavia assume qui una connotazione particolare, evidente se si dà uno sguardo più profondo alla organizzazione interna delle rime. Se è facile individuare quali siano le suggestioni esterne, in particolare il modello della lirica della Pléiade e su tutti del Ronsard (suggestioni puntuali che in alcuni casi sono vere e proprie imitazioni), chiaro è anche però lo sforzo di Chiabrera di ricollocare queste esperienze all’interno della tradizione nostrana, quasi a voler condurre per mano la lirica volgare, attraverso progressive infrazioni, a risultati analoghi alla contemporanea poesia francese. In particolare Le maniere constano di 21 testi, tre madrigali e 18 canzonette ordinate secondo una disposizione a blocchi che consente di proporre i nuovi organismi metrici con estrema cautela. Atteggiamento che risulta particolarmente ricercato nella disposizione delle canzonette, quelle più direttamente ispirate a modello ronsardiano, la cui scansione si propone per ogni blocco di garantire e inverare nella nostra tradizione le singole novità proposte: 1. L’utilizzo di versi di diversa entità e di uso non canonico. A una prima canzonetta (Quando vuol sentir mia voce) dislocata, per la capacità di esprimere un valore programmatico, come proemio alla raccolta, e a tre madrigali in settenari a rima baciata, segue infatti un gruppo di testi (V-VIII) cui è affidato il compito di confermare in ordine crescente la liceità di combinare versi di vari metri organizzati in strofe di diversa lunghezza: di otto versi per il n. V (I bei legami) in quinari (con schema ababccdd), esastica per il n. VI (Dolci miei sospiri, con schema aabccb), eptastica per i nn. VII e VIII in novenari (Gia mi dols’io, ch’acerbo orgoglio e A duro stral di ria ventura

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Chiabrera, o il grado zero del petrarchismo

con schema rispettivamente ababccc e abbaccc): schemi che, frequentissimi nella lirica ronsardiana, possono essere rinvenuti nella nostra tradizione in Bernardo Tasso (quello esastico e gli altri come variazioni di quel modello). 2. L’alternanza di versi differenti all’interno della strofa: quaternari e ottonari per la n. IX (Del mio sol son ricciutegli), e quinari e settenari per le numero XVIII-XXI (La violetta; Un dì soletto, Io dir volea; Chi può mirarvi) 3. La possibilità di combinare fra loro rime sdrucciole e piane e tronche. Dapprima saggiata nel tradizionale metro settenario e su strofa già utilizzata nel gruppo precedente (X Girate occhi, girate ab’’b’’ac’’c’’; XI Chi v’insegna d’uccidere, a’’a’’bc’’c’’b), quindi introducendo sempre su strofa esastica e verso settenario l’ipotesi della rima tronca irrelata all’interno di strofa e ripresa in analoga posizione per il resto della canzonetta (XII, Non così tosto io miro); procedimento che poi può estendersi nel testo seguente (O rosetta, che rosetta) a metro parisillabo. È notevole che questa rassegna sia dal Chiabrera condotta parallelamente nei dialoghi (e come si è detto nella Introduzione delle Maniere), attraverso citazioni spesso in parte scorrette e di erronea attribuzione, ma soprattutto del tutto decontestualizzate: paradigmatico il caso del modello per il monometro pieno – ossia i versi quaternari – indicato nel primo emistichio di un verso di Bonagiunta: E l’amanza, tra l’altro erroneamente attribuito a Guittone; ma anche il rinvio al Petrarca attraverso letture che ne alterano la conformazione originale, introducendo accentazioni o dieresi che possano funzionare da auctoritates per gli esperimenti chiabrereschi. Stesso atteggiamento che troviamo nei dialoghi: L’Orzalesi sulla tessitura delle canzoni dove canzoni e sestine vengono smontate senza alcun riguardo alla struttura complessiva del testo, ma con dissezione di singole membra del corpus complessivo che autorizzino le infrazioni di rime irrelate o ribattute care al Chiabrera, o nel Forzano dove la citazione del primo emistichio del dodicesimo verso, Di me non pianger tu, del sonetto CCLXXIX di RVF, Se lamentar augelli o verdi fronde, è ridotta a un eco che si riverbera e scandisce il procedere del testo evidenziando la fruizione soprattutto fonica del petrarchismo chiabreresco. Analogo il principio organizzativo dell’altra raccolta del ’99, Scherzi e Canzonette morali, divisi stavolta in quattro libri, l’ultimo dei quali con le Canzonette morali provvede a sostituire una diversa formulazione metrica e stilistica (di modello oraziano) alla palingenesi finale del canzoniere; mentre i primi tre libri si propongono, come già abbiamo visto nelle Maniere, di introdurre con cautela le novità chiabreresche presentandole in alternanza e interattività coi modelli più classici attraverso scarti progressivi e per così dire guidati. Alternanze che oltre a livello di singolo libro, si propongono qui anche a più alto livello macrotestuale, con un primo e un terzo libro ricchi di

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Giulia Raboni

sperimentazioni diverse, e un secondo rigidamente monotematico (tutto costruito su dodici testi di schema ronsardiano aabccb: già canonizzato, come si è visto, nella precedente raccolta). In particolare il primo libro è devoluto alla tessitura delle canzoni, con alternanza continua tra schemi attestati nella tradizione e nuovi modelli metrici. Alla cauta apertura con una canzoncina di settenari, ispirata a chiari modelli stilnovistici, seguono infatti due rime che costituiscono la maggior novità della raccolta: i due testi bacchici, Poich’al forte cavagliero e Damigella il cui modello è stato con sicurezza additato nelle Folastries e Gayetez ronsardiane, per proseguire poi con le canzoni a strofe divise, anch’esse ordinate secondo la maggiore o minore canonicità: dopo due testi di modello petrarchesco, tre di tutti settenari, per chiudere infine con due canzoni di più tradizionale schema misto di settenari e endecasillabi, stilisticamente appartenenti a un genere più grave (e infatti dedicate a autorevoli destinatari: Flavia Orsina e Maria de’ Medici). Mentre ancora, dopo la pausa monometrica del secondo libro, il terzo è devoluto ad affrontare l’intero repertorio metrico volgare: madrigali (XLVIIILXX), ballate (LXXI-LXXVII), settenari a rima baciata (LXXVIII-LXXIX) e sonetti (LXXX-XCI), dispiegando nell’ambito della raccolta il repertorio più tradizionale, anche come sviluppo tematico e linguistico. Allo stesso principio, seppur mitigato dalla maggior ampiezza dei volumi, e da un minor bisogno di coerenza e giustificazione teorica, si informerà ancora la strutturazione delle raccolte delle Poesie. Si veda ad esempio l’apertura del primo libro del I volume della raccolta di Poesie del 1605, con 5 testi in endecasillabi: i primi due Bel nappo e Lasso pur chiedo con schema rispettivamente ABA BCB CC e ABC ABC DD (schema naturalmente dei madrigali petrarcheschi Non al suo amante e Nova angeletta) cui seguono variazioni di stanze ABBACCCDD ABACBCDEDE ABBACCA. Alternanza tradizione/innovazione subito ribadita dalle ballate, anch’esse disposte in sapiente alternanza tra schemi nuovi e canonici modelli petrarcheschi. La stessa riscrittura e rifusione (caratteristica, perché, come si è detto, rare sono altrimenti le varianti apportate da Chiabrera ai testi delle prime raccolte) di alcuni madrigali degli Scherzi in ballate nelle Poesie è significativa della volontà del poeta di radicare le proprie offerte all’interno della tradizione italiana: non a caso tre di queste ballate L’alma per suoi conforto (schema xYY ABAB bYY) derivata da Su l’ali d’un sospiro; Perché cotanta angoscia (schema xYY aBAb bYY) risultata dalla fusione di due testi (Che vi contrista in sul partir sì forte e O, che sarà vendetta); Volta a farmi felice (xYY aBaB bYY) da Dove misero mai, sono variazioni, con alternanza mutata di endecasillabi e settenari, sugli schemi della ballate petrarchesche Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento e Perché quel che mi trasse ad amar prima.

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Chiabrera, o il grado zero del petrarchismo

Un tale sfruttamento finalizzato sul piano metrico comporta naturalmente un analogo atteggiamento a livello stilistico e linguistico, che porta Chiabrera, come già abbiamo visto a proposito del verso petrarchesco citato nel dialogo Il Forzano, a una totale destrutturazione dell’eredità petrarchesca, usufruita come materiale di montaggio del tutto slegato dalla sua natura originaria. Un esempio significativo può essere fornito da due canzone del I libro degli Scherzi, Tra duri monti alpestri e Come franco augelletto, la seconda esattamente corrispondente nella metrica a RVF CXXVI (Chiare fresche e dolci acque), la prima differente soltanto nel numero delle strofe (ne aggiunge tre alle cinque più congedo del Petrarca); testi coi quali Chiabrera, inframmezzandoli, come si è visto a canzoni di diversa e nuova tessitura, si propone di dar dar prova di una lirica pieghevole nel calco verso ogni direzione e contemporaneamente capace di rileggere e ricreare anche i modelli più canonici, come dimostra l’intarsio di citazioni, e lo sviluppo in particolare del primo testo verso esiti quasi prearcadici (l’incontro con la ninfa sviluppato dalla terza strofa, condotto su exempla ovidiani e polizianeschi), e la costruttività macchinosa della seconda canzone dove alla narrazione intima della canzone petrarchesca si sostituisce un congegnato alternarsi di punti di vista e situazioni, tale per cui tutte le strofe riprendono gli stessi elementi, fronte guance occhi labbra, riletti alla luce delle diverse e mutate prospettive. Se la prima strofa infatti ricorda la libertà prima dell’innamoramento (connotata stilisticamente dai né dei versi 7-9-12), la seconda racconta il momento della nascita d’amore dove gli attributi femminili si fanno strumenti attivi d’amore (vv. 17-20), e la terza la condizione consolidata d’amante dove le bellezze sono immaginate (vv. 3739); mentre la quarta opera un arguto rovesciamento: labbra guance occhi e fronte sono infatti qui quelle dell’amante (vv. 55-60) e come tali qualificate. Evitando qui l’analisi dei testi più famosi – le odicine e i madrigali di versi brevi, dove la stessa forma metrica implica la spezzettatura e la valorizzazione soprattutto dell’impianto fonico del testo, e dove quindi la distanza dal Petrarca si percepisce con più immediatezza – il tipo di rapporto stilistico con la tradizione si può forse misurare meglio nei sonetti, che offrono una maggior distensione sintattica e una maggior complessità di sviluppo narrativo. Nei quattro sonetti che chiudono il terzo libro (e quindi l’intera sezione) degli Scherzi, in particolare è evidente il procedimento omogeneizzante del Chiabrera, che annette alla tradizione petrarchesca, attraverso tessere dei RVF e un procedimento di costruzione analogico, spunti originariamente estranei (in particolare il ricorso a fonti classiche elegiache, evidente in questo testi), come la predilezione per la ricerca di limpidezza e chiarezza delle immagini, che devono in pratica farsi carico della autosufficienza e del signi-

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Giulia Raboni

ficato dei singoli testi, sottratti del tutto alla complessità ideologica del modello canzoniere. Direi insomma che nelle ragioni che abbiamo visto finora, dettate tanto dal rapporto prioritario con la musica, quanto centrate sull’innovazione metrica, si operi la cifra particolare del rapporto del savonese con il petrarchismo. Pur usufruendo di un patrimonio lessicale quasi interamente petrarchesco, e misurandosi spesso anche formalmente col modello, la lirica del Chiabrera si presenta del tutto sottratta all’impianto storico (in senso personale, di storia di un io esistenziale) del Canzoniere, che informa invece il riferimento di molta parte del petrarchismo. Pulita di valori allusivi (parificando tutte le fonti, come materiali inerti di prelievo), la parola chiabreresca acquista valore solo nel corpo del testo e in relazione a valori di immediata fruibilità, fonico-musicali anzitutto: sicché più che concentrarsi sulla parola in sé (e come diceva Contini sul valore neutro della parola petrarchesca), il linguaggio chiabreresco è incernierato sul rapporto tra una parola e l’unità che la affianca; da cui la prevalenza delle ragioni combinatorie: allitterazioni, anafore, poliptoti, costruzioni a refrain; il procedere per locuzioni fisse e stereotipate, la formazione di versi centrati sulla presenza di juncturae fisse che determinano spesso l’andamento paratattico del testo; e insieme quasi a compensazione della perdita di uno sfondo allusivo e più ampio, la lavorazione dell’immagine, il ricorso a un patrimonio figurativo connotato nel senso della chiarezza, del netto contorno, il ricorso al mito. Sostituendo con questa ricerca di essenzialità e autonomia figurativa la distruzione della storia esistenziale, secondo una strada che apre verso una maggiore libertà tanto stilistica quanto tematica nei confronti dei modelli, e che avrà il suo fulcro nel Settecento.

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Matteo Cerutti IL PETRARCHISMO TASSIANO DI SCIPIONE DELLA CELLA

Un esame della produzione lirica raccolta nelle Rime di Scipione della Cella, poeta e giurista nato a S. Stefano d’Àveto, oggi in provincia di Genova, nel 1576 e morto a Cariseto (frazione di Cerignale), in provincia di Piacenza, nel 1608, è proponibile e anzi auspicabile per due ragioni1. La prima è di ordine contingente (o storico), legata alla fortuna del Cella nel secolo barocco; la seconda è invece più sostanziale e direi quasi cogente. Vediamo di esplicitare rapidamente i due aspetti. Benché oggi il nostro poeta sia pressoché ignorato dalle storie letterarie e dalle antologie, il nome di Scipione della Cella era piuttosto noto nel Seicento, tanto ai contemporanei (limito gli esempi, tutti documentabili con lettere o versi di corrispondenza, al Marino, al Chiabrera, al Grillo, all’Imperiale, allo Stigliani e all’Achillini) quanto ai trattatisti che, nel momento in cui il ciclo della poesia barocca stava ormai per concludersi, cercavano di fornire ai coevi e ai posteri un’immagine quanto più possibile nitida, ancorché dettagliata, di ciò che era accaduto alla lirica del XVII secolo2. Fra questi trattati1 Per un rapido ma preciso inquadramento biografico del Cella, ci si può affidare alla voce approntata da A. Lercari per il Dizionario Biografico dei Liguri. Dalle Origini ai nostri giorni, a cura di W. Piastra, vol. IV, Genova, Consulta Ligure, 1998, pp. 565-6. Do però fiducia per il luogo di morte a M. Crescimbeni, Dell’Istoria della volgar poesia, 6 voll., Venezia, Lorenzo Basegio, 1730, vol. IV, p. 150: tra le centinaia di nomi presenti nel registro dei defunti a Milano nell’anno 1608, carte visibili all’Archivio di Stato (fondo Popolazione p. a., cart. 109), non è stato infatti possibile reperire quello del nostro poeta. Ringrazio qui sentitamente il dott. Liva, che ha svolto materialmente questo controllo in vece mia, e la direttrice dell’Archivio, dott.ssa Bertini. 2 Giovanni Niccolò Sauli Carrega, scrivendo al Cella nel 1606, gli ricordò come Torquato Tasso, dopo aver letto alcune sue liriche, avesse lodato sommamente il giovanissi-

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sti il posto d’onore spetta probabilmente al pugliese (ma napoletano d’adozione) Federico Meninni, autore del Ritratto del sonetto e della canzone (Napoli, G. Passaro, 1677) 3. Qui il Cella non solo è ricordato (alle pp. 146-7) tra la “serie d’Autori Italiani più celebri nel secondo tempo che composero sonetti”, cioè nel “tempo” che incomincia con Luigi Tansillo e che comprende, per citare i più noti, Angelo Di Costanzo, Battista Guarini, Gabriello Chiabrera, Torquato Tasso e pure Tomaso Stigliani (quest’ultimo significativamente collocato al di qua del “terzo tempo”, quello “intieramente perfetto nel 1600 di Giovan Battista Marino e d’altri”, p. 111), ma è anche prescelto per l’esemplarità di un sonetto che illustra al meglio il capitolo XXXIX, dedicato all’esclamazione (pp. 270-3)4. La stessa vicenda editoriale delle Rime del Cella è ben eloquente. Il libro appare tre volte nel Seicento, il che di per sé non è un dato trascurabile, e non in un breve giro d’anni. Le date di edizione sono infatti il 1609, il 1623 ed il 1674 ed in entrambe le lettere dedicatorie premesse alle ristampe si sottolinea come si sia desiderato andare incontro alle esigenze degli intenditori che inseguivano da tempo un libro ormai introvabile, con ogni probabilità impresso in un numero piuttosto esiguo di esemplari5. Le Rime del Cella non sono cioè un bestseller, ma piuttosto un longseller, qualifica che, ieri come oggi, dovrebbe dare un minimo di garanzia di qualità. La presenza di una terza edizione a metà degli anni Settanta e a ridosso del trattato del Meninni dà ragione a Marziano Guglielminetti, l’ultimo critico che ha creduto opportuno dedicare, ormai quasi quarant’anni fa, un saggio a Scipione. Il Guglielminetti, benché non conoscesse l’esistenza di questa edizione, sostenne che “i componimenti del Cella, sebbene composti prima dell’affermarsi del nuovo stile del Marino, avevano mo poeta. Non esistono però, a mia conoscenza, altre testimonianze che possano comprovare la lusinghiera affermazione del grande latinista genovese; e, d’altro canto, è noto che le leggende relative al Tasso iniziarono a fioccare ben prima del Romanticismo. Cfr., ad ogni modo, Ioannis Nicolai Saulii Carregae Genuensis epistolarum libri tres posteriores. Ad perillustrem dominum D. Laurentium Centurionem, Ioannis Iacobi filium, Genuae, in aedibus Iosephi Pavonis, 1619, pp. 23-7 (a p. 26). 3 Ora fruibile nell’edizione commentata a cura di C. Carminati, 2 voll., Lecce, Argo Editrice, 2002. Non avendo ancora a disposizione l’opera, leggo e cito il testo secentesco. 4 È il sonetto Vive colonne d’alabastro schietto, da mettere in relazione con quello del Marino Sovra basi d’argento in conca d’oro (La Lira. Parte terza, Venezia, G.B. Ciotti, 1614, p. 23) e con l’omometro di Lope de Vega Yo vi sobre dos piedras plateadas. Cfr. D. Alonso, En torno a Lope. Marino, Cervantes, Benavente, Góngora, los Cardenios, Madrid, Editorial Gredos, 1972, pp. 40-2. 5 Le Rime vedono la luce, rispettivamente, a Milano, stampate da Marco Tullio Malatesta (in 8°), ancora a Milano, presso Giovan Battista Bidelli (in 12°), e a Bologna, per cura di Giovanni Recaldini (in 12°).

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acquistato col passar degli anni il pregio di aver anticipato, o semplicemente favorito, l’attuale lirica barocca”6. La seconda ragione per cui una riesumazione di questo poeta mi pare ammissibile è, come si è accennato, di ordine più generale. Padre Giovanni Pozzi amava dire che le zone più depresse abitate dai così detti minori vanno senz’altro tenute in considerazione nel valutare le sommità raggiunte dai maggiori e, in un libro uscito di recente, Luca Serianni ha riaffermato “la capacità che proprio i minori (i “fantasmi” direbbe Maria Corti) hanno di rappresentare con più tipicità un certo momento culturale”7. Proprio dal “momento culturale” è opportuno muovere per restituire una valenza storica alla struttura e al contenuto di un libro di poesia, cioè per riconoscergli, oltre a quello imprescindibile di individuo, anche lo statuto di documento, soluzione salutare, tra l’altro, per scongiurare una tentazione sempre in agguato, quella degli approcci pregiudizialmente estetizzanti o meccanicamente enumerativi, quali potrebbero essere per il primo punto il ricercare l’insincerità insita nella descrizione di un innamoramento, per il secondo il limitarsi al censimento delle occasioni tematiche che hanno ‘ispirato’ i vari componimenti. Non sarà dunque oziosa una domanda preliminare come la seguente: di quali letture e, più in generale, di quali sollecitazioni culturali poteva approfittare un giovane che abbandonava il natio borgo selvaggio, ubicato sugli aspri monti della Liguria orientale, per recarsi dapprima a Pavia e poi nella vivacissima Bologna, dove ebbe il titolo di dottore all’inizio del nuovo secolo? A Pavia, il declinare del prestigio dell’università era compensato dall’esuberante vitalità della locale Accademia degli Affidati. Questa, fondata all’inizio degli anni Sessanta e manifestatasi al pubblico nel 1565 con un volume di Rime 8, viveva un momento di fervore in un anno in cui il Cella certamente risiedeva in città, cioè nel 1599. Sono infatti stampate allora due antologie degli Affidati, la prima di carattere funebre, in morte di Filippo II (1598), la seconda di genere encomiastico ed epitalamico, dove sono raccolte orazioni e poesie di accoglienza per il passaggio a Pavia di Margherita d’Austria e di festeggiamento per le nozze della stessa, sposatasi da poco per procura a

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M. Guglielminetti, Fra Marino e Chiabrera: Scipione della Cella, nel suo Tecnica e invenzione nell’opera di Giambattista Marino, Messina-Firenze, D’Anna, 1964, pp. 221-38 (citazione a p. 221). 7 L. Serianni, Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, 2002, p. 212. 8 Rime de gli Accademici Affidati di Pavia, Pavia, Girolamo Bartoli, 1565.

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Ferrara con Filippo III (sempre nel 1598) 9. Non è certo un caso che la prima poesia a stampa di Scipione (se si trascuri un epigramma latino)10 veda la luce in quello stesso 1599, in una antologia uscita proprio dai torchi degli eredi dello stampatore storico degli Affidati, Girolamo Bartoli11. Nel 1606 muore il sessantasettenne Giovanni Andrea Doria, principe di Melfi, e il Cella lo ricorda in questo sonetto: In morte del principe Gio. Andrea Doria. Seguì l’ecclisse del sole e l’inondazione del Tevere, come a quella del re don Filippo II N.S. Allor che morte il groppo d’or disciolse e de l’OCCASO il re spinse a l’occaso, povero il mondo e vedovo rimaso, con qual segno di duolo, ah, non si dolse? L’onor del crine in fosca benda avvolse presago il Sol del lagrimabil caso, poi, rotto il Tebro il suo ceruleo vaso, Roma tutta di pianto asperger volse. DORIA, perla de’ duci, onor de’ mari, or che morte da noi pur ti scompagna, ti fa il Sol, ti fa il Tebro esequie pari.

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E dritto è ben che se la tua compagna fu a sua virtute in terra, e ’n ciel di pari, chi per Filippo pianse or per te piagna12. 9 Oratione e poemi de gli Affidati nella morte del catolico Filippo II re di Spagna, Pavia, Eredi di Girolamo Bartoli, 1599, in due parti; Orationi e poemi per la venuta della sereniss. Margherita d’Austria a Pavia et per le nozze di essa con la maestà catolica di Filippo re di Spagna, Pavia, Andrea Viani, 1599. Le due opere, come pure la princeps del Cella, sono descritte nel catalogo della mostra recentemente tenutasi al Castello Visconteo di Pavia: “Sul Tesin piantàro i tuoi laureti”. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1553-1706), Pavia, Edizioni Cardano, 2002, pp. 198-9 e 213-6. 10 È una composizione che chiude la lettera dedicatoria ad Ambrogio Spínola di G.M. Solari, Spiritualium elegiarum opuscula, ad communem fidelium utilitatem emissa, Genova, Giuseppe Pavoni, 1598. La prima edizione dell’opera, impressa, sempre a Genova, dagli Eredi di Girolamo Bartoli, è del 1595. Non mi è stato possibile controllare se già nella princeps vi sia il testo del Cella. 11 Componimenti di diversi nel dottorato di leggi dell’illustrissimo Gio. Francesco Serbelloni, Pavia, Eredi di Girolamo Bartoli, 1599. È la canzone Guarda, pastor del poderoso Ibero, poi inclusa nelle Rime. Il Serbelloni, nipote dell’allora quasi leggendario capitano Gabrio, sarà poi governatore di Orvieto per Paolo V. 12 Tutti i testi del Cella sono tratti dall’edizione critica commentata delle sue Rime, per ora ancora dattiloscritta, che si fonda su un esemplare della princeps (corretto a penna da mano coeva) di mia proprietà.

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L’omaggio funebre appare tripartito: le quartine rammentano i fenomeni che fecero seguito alla scomparsa di Filippo II; la prima terzina menziona la morte del Doria, che cagiona le identiche manifestazioni naturali; la fine del componimento trova giustificazione alla replica nell’identità del valore degli estinti. Non è qui il caso di soffermarsi ad analizzare il testo, che pure offrirebbe parecchio dal punto di vista strutturale e retorico (non sfuggirà, per esempio, la quasi completa anagrammabilità tra presago... Sol, v. 6, e asperger volse, v. 8, dove presago è formato dalla identica sostanza grafica di “aspergo”). Ci si potrebbe limitare ad evidenziare che le due prosopopee, vv. 5-8, che si sarebbe tentati di imputare al cerebralismo dell’autore provengono (quantunque decontestualizzate) rispettivamente da un passo del Petrarca (RVF, CXV, vv. 12-13: “A lui [scil. al sole] la faccia lagrimosa e trista,/ un nuviletto intorno ricoverse”; inoltre le bende, lì però “bianche”, sono segno di vedovanza in Purgatorio, VIII, v. 74) e dalla rielaborazione della metafora dantesca “Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe/ fu e non è” (Purg., XXXIII, vv. 33-4), eventualmente avendo presente anche il mito di Pandora (Esiodo, Opere e giorni, vv. 42-105). Ciò che mi preme sottolineare è però come la scomparsa del nobile genovese non sia occasione per una profluvie magniloquente di lodi. Da una parte, è vero, i Cella erano legati ai Doria da ragioni feudali ormai plurisecolari e il personale affetto del nobile (ancorché decaduto) Scipione nei riguardi dell’anziano principe ci è testimoniato altrove nelle Rime, dove si dice che il nostro poeta teneva appeso in camera un suo ritratto13. Ma d’altro canto importa maggiormente come il Cella esprima il proprio cordoglio mettendo in campo qualcosa di intimamente suo, cioè i ricordi più intensi dei suoi anni giovanili pavesi: non riesce difficile immaginare le lunghe e preoccupate discussioni tra compagni di studi che si sforzavano di comprendere come sarebbe cambiata la vita politica della Lombardia spagnola dopo la scomparsa del re; e non pare ragionevole sottovalutare l’impatto emotivo originato dall’eco dell’inondazione avvenuta nella notte di Natale di quello stesso 1598 (inondazione ben più memorabile di quella del 1606), che fece a Roma un migliaio di morti e di cui vi è tuttora vestigio in Piazza di Spagna ne La Barcaccia del Bernini; e, infine, è ben possibile che la stesura della lirica abbia riportato in superficie le appassionate chiacchierate tra scolari intendenti di poesia che sottoponevano alla propria acribia le decine di sonetti presenti nell’antologia funebre per Filippo II, ora approvan-

13 Memoriale delle Muse, ott. 77, vv. 3-4, dove è il principe ormai defunto a parlare di Scipione al nipote, il cardinale Giovanni Doria: “E volto al Lino del mio volto adorno,/ tal si lagna sovente in voce roca”.

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do, ora biasimando il concetto, i traslati, le voci, i trapassi di un verso nel successivo e così via. Lasciamo le rive del Ticino per quelle animatissime del Reno, dove Scipione, come detto, concluse gli studi addottorandosi in giurisprudenza. Bologna può senz’altro essere considerata la sede più produttiva, unitamente a Genova, per quanto riguarda le sperimentazioni delle avanguardie liriche barocche. L’importanza dell’inventiva tematica e dell’oltranza metaforica di un Cesare Rinaldi (1559-1636), le cui prime prove poetiche sono in anticipo di quasi un quindicennio rispetto alle Rime del Marino, per altro ben più ‘moderate’ quanto all’ornatus, è già stata indagata a suo tempo con perizia da Ottavio Besomi14. Il 1601 è il penultimo anno in cui il Cella si trova nella città felsinea ed è anche l’anno impresso sul frontespizio del Canzoniere del Rinaldi15. Alessandro Martini ha recentemente chiarito che è il titolo di “una raccolta in cui prevalgono nettamente le canzoni, senza dunque particolari implicazioni di genere, bensì di forma metrica”16. Questo naturalmente non impedisce di considerare quel libro come altamente emblematico, per almeno tre ragioni. In primo luogo perché è l’unico tra i dieci stampati dall’autore tra il 1588 ed il 1608 ad avere quel titolo (contro sette volte di Rime e Delle Rime; i primi due sono di soli Madrigali) 17. Inoltre perché quel termine, come ancora ricorda Martini, è “già allora di qualche frequenza nella trattatistica per designare i Rerum vulgarium fragmenta o un’altra raccolta poetica d’autore, ma raro come titolo della stessa”18. Infine perché quel Canzoniere vede la luce esattamente cento anni dopo la fatica filologica del Bembo: se vogliamo credere a Daniela Righi, la quale sostiene che “dai primi Madrigali del 1588 alle Rime del 1608, attraverso le raccolte del 1590-1, del 1603 e del Canzoniere, per dire solo dei momenti più significativi, la metafora si fa gradualmente più ardita”19, possiamo ben riconoscere al Canzoniere il valore di 14

Il riferimento è ovviamente a O. Besomi, Ricerche intorno alla Lira di G.B. Marino, Padova, Antenore, 1969, passim. Sul versante del poema si vedrà C. Colombo, Cultura e tradizione nell’Adone di G.B. Marino, ivi, 1967, passim. 15 C. Rinaldi, Canzoniere di C.R. bolognese all’ill.mo et reverendiss.mo mons.r Giuliano della Rovere, Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 1601. 16 A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del Convegno di Lecce (23-26 ottobre 2000), Roma, Salerno, 2002, pp. 199-226 (citazione a p. 202, n. 11). 17 Il regesto è in D. Righi, L’indice metaforico di uno scrittore del Seicento, in “Lingua e Stile”, XV, 1980, 2, pp. 211-32 (citazione a p. 213, n. 9), tuttora il saggio piú solido, anche metodologicamente, sullo stile del Rinaldi. 18 Martini, Le nuove forme del canzoniere, cit., p. 202. Forse quel “raro” è anche troppo prudente. 19 Righi, L’indice metaforico di uno scrittore del Seicento, cit., p. 213.

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un manifesto di quella nuova ‘maniera’ che incontrerà il consenso degli scrittori e dei lettori nella prima parte del secolo. A Bologna è altresì attiva l’importante Accademia dei Gelati. Fondata nel 1588 da Melchiorre Zoppio e dai fratelli Gessi, aveva già dato alle stampe due raccolte quando Scipione concludeva gli studi. Nel 1590 erano state pubblicate le Ricreationi amorose, dove possiamo leggere poesie di nove autori, ciascuno identificato con il nome accademico e con la propria impresa, e dove per la prima volta compare l’impresa generale dell’Accademia, incisa da Agostino Carracci: una selva spoglia e ghiacciata con il motto di buon auspicio “Nec longum tempus” 20. Rende onore al nome accademico di Francesco Maria Caccianemici, il Tenebroso, il sonetto che qui trascrivo, tratto dalle citate Ricreationi amorose: “Dai più profondi e tenebrosi abissi esci Megera, e di veneno infetto, con l’usato furor, m’ingombra il petto in così tetre e paventose eclissi. Ché, qual fia ’l mio, non mai rimbombo udissi in aspre voci o in forsennato aspetto, mentre d’orrido gelo il corpo astretto m’avrai, e al cuore angui infernali affissi. Spaventerò col grido uomini e belve; tremeranno al muggito alberi e piante; tutta empierò d’orror l’immensa mole”.

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Così, per boschi oscuri ed atre selve, privo del suo bel folgorante Sole, gridava un cieco e disperato amante.

Ci troviamo in un ambito che non esito a definire sperimentale e avanguardistico. Semplificando grossolanamente, troviamo tre elementi che saranno cari alla lirica barocca. Intanto, la particolare presa di coscienza del potere evocativo del significante (a mio parere un tratto molto pertinente – anche se, naturalmente, non esclusivo – all’estetica barocca), cioè la consape-

20 Ricreationi amorose de gli Accademici Gelati di Bologna, [Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 1590]. Una seconda antologia appare, presso gli stessi editori, nel 1597 (Rime de gli Academici Gelati di Bologna): offre poesie di diciassette autori, tra cui il trentaduenne Ridolfo Campeggi, le cui Rime saranno pubblicate una prima volta solo nel 1608. Un’ultima raccolta è poi data alle stampe nel 1615.

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volezza della necessità di una costante persuasione acustica del lettore 21, qui onnipresente anche prescindendo dalle onomatopee rimbombo, v. 5, grido, v. 9, e muggito, v. 10. Ammaliamento che non si accontenta delle potenzialità dei suoni ma che coopta sinergicamente anche il ritmo: nei versi 9 e 10 l’inquietudine di uomini, belve, alberi e piante è resa palpabile grazie alle forti sinalefi di centro verso che rappresentano il sussulto. Un secondo aspetto che metterei in luce è il gusto per l’orrido ed il macabro, da porre sicuramente in relazione con la fortuna di cui godono in quel periodo le tragedie che imitano Seneca e con lo spiccato interesse che proprio i Gelati mostrano per il teatro22. Infine, darei importanza ad un fatto psicologico: quando lessi per la prima volta il testo credevo di avere a che fare, fino al v. 13 compreso, con il classico querulo pastore tormentato dai mali di Venere, ma certamente non me ne attendevo la cecità. Anche questa strategia, volta a turbare l’inerzia del lettore con inaspettate acutezze collocate in coda al componimento, sarà cara ai migliori poeti barocchi. A questo punto potrebbe nascere la curiosità di sapere se Scipione lesse effettivamente questo libro e, soprattutto, se se ne giovò nelle sue Rime. Credo che l’ultima strofe di una sua canzone, intitolata Mattutini amori, dia un’eloquente risposta (a sinistra trascrivo la presunta fonte, l’identica porzione testuale di una canzone del nostro Tenebroso, Francesco Maria Caccianemici) 23:

21 L’espressione è mutuata dalla Righi, L’indice metaforico..., cit., p. 230: “L’obiettivo è il consenso di un orecchio competente, sollecitato ad arte, e il mezzo non può essere che una metafora acusticamente persuasiva”. 22 Si veda l’importante e informato saggio di M. Calore, La biblioteca drammatica degli Accademici Gelati di Bologna, in “Atti della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di scienze morali. Rendiconti”, 1992-1993, pp. 62-82. Per quanto riguarda le predilezioni dell’epoca per i contesti lugubri, rinvio senz’altro al paragrafo dedicato da A. Battistini al Trionfo della morte, nel suo Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma, Salerno, 2000, pp. 99-109. 23 La canzone del Cella appare per la prima volta a stampa in P. Gentile, Della Corona di Apollo composta del piú vago de’ fiori di Permesso, Venezia, Sebastiano Combi, 1605, parte II, pp. 13-22. Il testo è giustapposto ai famosi Trastulli estivi del Marino, poi nella terza parte (1614) della Lira (e da leggere in parallelo con i Mattutini amori sono anche gli Amori notturni, nella seconda parte delle Rime, 1602). L’intera Corona di Apollo, intessuta per lo piú di canzoni, meriterebbe uno studio. Qui mi limito a segnalare il verboso Silenzio loquace del Grillo (dieci strofe di venti versi), la corona di 46 sonetti che rappresenta La Quaresima del celebre predicatore Francesco Panigarola e i 50 “scherzi” degli Accademici Trasformati di Milano che chiudono il volume, cinquanta componimenti in strofette, con versi tra il quadrisillabo e l’ottonario.

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Caccianemici:

Cella:

Non con più cari nodi preme la vite l’olmo né muro edera mai più stretto cinge, come, o Clori, t’annodi al tuo pastor, nel colmo del gioire, e te Tirsi allaccia e stringe et imprimendo pinge i baci nel bel volto, e con tronchi sospiri, quasi che l’alma spiri, sotto il laccio d’Amore è teco accolto; e l’erbe e i fiori istessi ridon d’essere oppressi.

Sembra Salmace al fonte, edera al tronco quella che sì mi stringe, e sembro pecchia al fiore io che la suggo; ma rotta è la mia gioia e ’l piacer tronco, ché mentre il desio spinge temo nuovo divieto e ’l gioir fuggo. Ella, che se n’accorge, sicurezza mi porge e dice: “Anima cara, anch’io mi struggo”, e cade sovra ’l letto, io sovra lei, e muor’io ne’ suoi baci, ella ne’ miei.

Canzonetta, agli amanti puoi ben dire se cari fur quei baci, ma fa che il resto taci.

Canzone, io t’ammonisco: fuggi l’invidia e ’l risco, motto non far di mie dolcezze altrui; taci e sia del tesor che l’alma gode chiave il silenzio e la mia fé custode.

Analoga è la situazione e identiche sono le parole chiave che la descrivono: edera, stringe (in rima), gioir(e), baci e, indispensabile vista l’arditezza delle scenette, taci 24. L’attenuazione (quasi che l’alma spiri), al pari della schiettezza (muor’io), non lascia nulla di inespresso. L’ineffabile istante che separa quel nel colmo da quel del gioire fu, al pari dei momenti di goliardia vissuti a Bologna, per sempre nella memoria di Scipione. Il Cella lasciò la città emiliana nel 1602 e si recò a Genova, dove fu dapprima al servizio di Cosimo Iacopo Appiani, principe di Piombino, e poi, morto quest’ultimo nel gennaio del 1603, alle dipendenze di Luigi Centurione, marchese di Morsasco, presso il quale ebbe l’incarico di auditore fino al 1607, l’anno in cui fu bandito da Genova e condannato in contumacia a morte per omicidio25. Il 1602 ed il 1607 sono dunque gli estremi del lustro

24 La rilettura degli Amores mi farebbe escludere, se ho visto bene, la presenza di un ipotesto ovidiano: il Cella parrebbe aver tratto ispirazione, per quest’ultima strofe, proprio dal Caccianemici. Le immagini dell’edera e della vite (la seconda assente in Scipione) provengono invece dal carme 61 di Catullo (vv. 34-5 e 102-3); se ne veda una dotta ma piacevolissima analisi in P. Fedeli, Il carme 61 di Catullo, Friburgo, Edizioni Universitarie Friburgo Svizzera, 1972. 25 La sentenza della Rota criminale e gli atti del processo d’appello (ma non il verdetto, preceduto, come mi sembra ragionevole supporre, dalla morte dell’imputato) sono a Genova, Archivio di Stato, Magistrato dei supremi sindacatori, anno 1607, n° 82.

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entro il quale si situa la maggior parte della produzione lirica del poeta, poi raccolta e ordinata dal nobile milanese Giovanni Bernardino Sessa che gli fu vicino nell’ultimo anno di vita. Il Sessa curò ciò che riuscì a reperire (molto andò smarrito, come egli dichiara in una lettera premessa alla stampa) con tutti i crismi, come vedremo, della forma canzoniere. Prima di avvicinarci all’opera, mi pare però necessario cercare di ricostruire, ben inteso per sommi capi, le vicende più importanti di cui fu protagonista l’ambiente letterario genovese di quel periodo, con particolare attenzione per la cerchia dei poeti26. Due sono gli aspetti pertinenti nel caso specifico del Cella: la forma di canzoniere data alle proprie Rime da uno degli intellettuali più ammirati nella Genova del tempo, Ansaldo Cebà, che era stato per anni il maître à penser della locale Accademia degli Addormentati27, e la persistenza del culto di Torquato Tasso, la cui origine risaliva ormai a un quarto di secolo prima. Una volta palesate le due questioni, sarà storicamente meglio definito lo statuto di “petrarchismo tassiano” che ho voluto attribuire al canzoniere del Cella. Le Rime di Ansaldo Cebà (126 sonetti, 19 canzoni, 89 madrigali e un componimento in ottave) erano state date alle stampe una prima volta nel 1596, a Padova e ad Anversa. Cinque anni dopo, Francesco Bolzetta si accinse a ristampare il volume, per compiacere in particolare “ad alcuni che oltre e [sic] monti hanno conosciuto e pregiato la dolcezza di questo Autore”28. Il rapido esaurimento di quella prima edizione si spiega in particolare se pensiamo alla nutrita colonia di mercanti genovesi presente nelle Fiandre; resta che la perfetta organizzazione tra i due poli canonici che fungono da estremi, 26

Menziona il Cella nel contesto di un quadro generale (e non generico) della Liguria letterata F. Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica a Genova nel primo Seicento, in Letteratura ligure. La repubblica aristocratica (1528-1797), 2 voll., Genova, Costa & Nolan, 1992, vol. I, pp. 220, 294, 302-4 e 308-9. Non so donde si tragga la notizia (a p. 220) secondo cui il Cella avrebbe studiato a Salamanca. 27 La figura e la produzione del Cebà (ma non le Rime di cui qui è questione) sono attentamente studiate da M. Corradini, Genova e il Barocco: studi su Angelo Grillo, Ansaldo Cebà, Anton Giulio Brignole Sale, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 123-246. Sull’attività degli Addormentati negli anni 1591-1594, quelli che vedono la presenza centralissima ed operosa del Cebà, è tuttora imprescindibile (e, purtroppo, solitario) lo studio di D. Ortolani, Cultura e politica nell’opera di Ansaldo Cebà, in “Studi di filologia e letteratura” [pubblicati dall’Istituto di Letteratura italiana dell’Università degli Studi di Genova], I, 1970, pp. 117-78 (in particolare pp. 123-50). 28 Lettera dedicatoria premessa a A. Cebà, Rime del Signor A.C. Al Signor Paolo Pozzobonello, Padova, Francescho Bolzeta, 1601. Dieci anni dopo vede la luce a Roma, per i tipi di Bartolomeo Zannetti, un ponderoso volume in 4° (Rime d’Ansaldo Cebà a Leonardo Spinola Francavilla): contiene ben 912 componimenti e il primigenio canzoniere d’amore è sostituito dai motivi edificanti, morali e religiosi.

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Il petrarchismo tassiano di Scipione della Cella

l’innamoramento e la morte della donna, arricchiva il libro di quella dimensione romanzesca che lo rendeva appetibile ad un vasto pubblico. La volontà di richiamarsi esplicitamente al modello del Petrarca è d’altronde ben visibile fin dal proemio: Tu che quasi in tranquillo e puro fonte il cor mi vedi in questo vario canto, e forse ancor con lacrimosa fronte talor secondi i miei sospiri e ’l pianto, de l’aureo poggio, ond’io piegai cotanto, ti faccia il nostro error le vie più conte; e per sentier di più verace vanto l’orme rivogli al faticoso monte. Sì vedrai quel che tanto al mondo piace ratto sparir dagli occhi in un momento, lasso, pur fermo in ciò ch’egli è fugace.

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E vedrai come farne il cor contento possa giamai qua giuso amor fallace, dove la vita e ’l piacer nostro è un vento.

Topici, in primo luogo, sono la collocazione della vicenda nel passato e il tentativo di distacco da essa. Il “Voi” allocutivo del Petrarca è sostituito da un più personale Tu, ugualmente incipitario ma più consono alla volontà, esplicitamente espressa, vv. 7-8, di convertire ciascun lettore. Anche la richiesta di compassione, vv. 3-4, e l’approdo finale, dove la vita e ’l piacer nostro è un vento, sono puntualmente, benché non letteralmente, mutuati dal modello. Si diceva del carattere romanzesco del libro. In effetti le poesie del Cebà presentano spesso riferimenti a situazioni reali (e quindi autobiografiche) di grande interesse; non solo in quei testi dove si nominano personaggi noti (per esempio a c. 6r, dove è menzionata la tela di Bernardo Castello raffigurante il poeta), ma anche in luoghi inaspettati: così a c. 51r vi è un dittico di madrigali (i nuclei tematici sono un’altra peculiarità della forma canzoniere) argutamente giocato su contrasti luminosi, dove veniamo a conoscenza del nomignolo annominativo affibbiato dalla donna al poeta per burlarsi del suo incarnato olivastro, cioè “nato di notte”. E poco più avanti, c. 53r, Lidia lo chiama “il mio disgratioso”, per la probabile non eccelsa venustà del volto. Addirittura impressionante, quanto a elegante icasticità, è un sonetto, c. 12r, dove siamo informati di un aborto della donna (a c.16r, invece, un parto felice): vita vissuta quindi, che si distanzia con forza dal petrarchismo imitativo

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che tanta parte ebbe nel Cinquecento. Invita, però, ad una lettura globale, da capo a fondo, delle Rime del Cebà lo studiatissimo ordinamento degli ultimi testi (cc. 54r-66v), dove ogni canzone segna uno snodo narrativo. Si incomincia con una massiccia canzone in cui il poeta parla alla propria ragione ricordando in termini di affanno e amarezza una vicenda amorosa mai felice. Si prosegue poi con sei sonetti sul tema dello sdegno, legati tra loro, si noti, in modo capfinidico (l’ultimo verso di un sonetto diventa l’incipit del successivo) e un settimo che chiude circolarmente la serie: il suo incipit è quasi identico all’explicit del primo. La fine dell’amore per Lidia permette al poeta di cantare una vedova, Laura, in una canzonetta di ottonari e in quattro sonetti, tre dei quali contengono il topico equivoco “Laura/l’aura”. Ma la donna protagonista del canzoniere, Lidia, muore (come muore, nell’anno della princeps, Aurelia Spínola) e il poeta torna da lei con una canzone e sei sonetti, cinque dei quali, di nuovo, legati in modo capfinidico. Una leggera e ampia canzonetta di ottonari e quadrisillabi torna alle bellezze della vedovetta, di cui si parla anche nel sonetto e nel madrigale seguenti. La stampa volge al termine con tre sonetti uniti dal tema, l’alternanza di timore e speranza, e, ancora una volta, dai versi estremi di ogni lirica (l’explicit del terzo è tra l’altro identico all’incipit del primo), per poi chiudersi con l’immancabile canzone di devoto pentimento e con un sonetto dove ci si affida agli sproni celesti per non deviare dal cammino appena intrapreso, cammino che sarà il Leitmotiv, come accennato, delle Rime del 1611. Veniamo al Tasso. Il vero e proprio culto di cui era oggetto il poeta nel Seicento è troppo noto perché vi si debba insistere qui. Credo di poter affermare, però, che a Genova Torquato dovette godere di una venerazione seconda, forse, solo a quella partenopea29. A Genova, intanto, sono letti per la prima volta versi che poi saranno nel poema. Nel 1579 infatti, Cristoforo Zabatta preparò una Scelta di rime e vi inserì il quarto canto della Liberata, capitatogli chissà come tra le mani30. Nel 1586, poi, esce un volume di Rime del Tasso, poco accetto dallo stesso poeta poiché assai scorretto quanto alla lezione del testo, ma interessante perché in esso si leggono, a mia conoscenza per la prima volta, liriche del migliore amico di quegli anni, quell’Angelo

29 Traggo la maggior parte delle notizie di questo paragrafo da A. Neri, Torquato Tasso e i genovesi. Notizia bibliografica, in “Giornale linguistico”, VII-VIII, 1881, pp. 194-208. L’articolo recensisce l’eruditissimo volume di G.J. Ferrazzi, Torquato Tasso. Studi biografici, critici, bibliografici, Bassano, F. Pozzato, 1880 (rist. anast.: New York, B. Franklin, 1971). 30 Scelta di rime di diversi eccellenti poeti. Di nuovo raccolte e date in luce, to. I-II, Genova, Cristoforo Zabata, 1579.

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Il petrarchismo tassiano di Scipione della Cella

Grillo che di lì a poco sarebbe diventato il riconosciuto capofila del concettismo a Genova, concettismo esperito tanto in ambito amoroso con lo pseudonimo di Livio Celiano, quanto in quello sacro dei Pietosi affetti 31. Nello stesso 1586 il Grillo presentò a Ferrara il pittore Bernardo Castello al poeta: fervevano già i preparativi per la grande edizione della Liberata. Nel luglio dell’anno seguente, poco dopo la sua liberazione, l’Accademia degli Addormentati invitò Torquato a Genova come lettore dell’Etica e della Poetica di Aristotele, promettendogli 400 scudi di salario e facendogli balenare la possibilità di averne altrettanti straordinari. Non se ne fece nulla, pare a causa della salute malferma dell’interessato e del mancato invio da parte del Grillo del denaro necessario al viaggio. Siamo ormai a ridosso dell’attesissimo avvenimento. Si fece preparare una carta speciale e si acquistarono a Venezia nuovi caratteri italiani e greci, nonché le capitali e tutti gli ornamenti adatti all’importanza dell’impresa. Nel 1590 il lavoro ultimato venne pubblicato da Girolamo Bartoli: la Gerusalemme liberata era arricchita dai ventidue disegni di Bernardo Castello, incisi da Agostino Carracci e Giacomo Franco, e dalle dotte annotazioni letterarie di Scipione Gentili e Giulio Guastavini32. Nel 1604 si stampò un’altra volta la Liberata, questa volta su una elegante carta azzurra e per i tipi di Giuseppe Pavoni, che da sei anni era attivo sulla scena tipografica ligure e che imprimerà l’opera anche nel 1615 e nel 1617 33. Gli argomenti premessi a ciascun canto erano dovuti alla penna di un caro amico del Cella, il rampante ventiduenne Gian Vincenzo Imperiale34. Bernardo Castello, da parte sua, dedicò l’opera ad Angelo Grillo, ormai trapiantato a Roma come abate di S. Paolo. Tra le liriche che precedevano il poema, l’ultima era un sonetto del nostro Scipione:

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T. Tasso, Delle Rime del s. T.T. parte quarta e quinta. Nuovamente stampate, Genova, Antonio Orero, 1586. Sul Grillo si vedranno la monografia di E. Durante e A. Martellotti, Don Angelo Grillo O.S.B alias Livio Celiano, poeta per musica del secolo decimosesto, Firenze, S.P.E.S, 1989, e l’esemplare saggio di G. Raboni, Il madrigalista genovese Livio Celiano e il benedettino Angelo Grillo, in “Studi secenteschi”, XXXII, 1991, pp. 137-88. 32 T. Tasso, La Gierusalemme liberata di T.T. con le figure di Bernardo Castello, e le annotationi di Scipio Gentili e di Giulio Guastavini, Genova, Girolamo Bartoli, 1590. 33 T. Tasso, La Gierusalemme di T.T. con gli Argomenti del Sig. Gio. Vincenzo Imperiale figurata da Bernardo Castello, Genova, Giuseppe Pavoni, 1604. L’opera è descritta in G. Ruffini, Sotto il segno del Pavone. Annali di Giuseppe Pavoni e dei suoi eredi (1598-1642), Milano, Franco Angeli, 1994, p. 98. 34 Alla sua figura ha dedicato uno studio magistrale R. Martinoni: Gian Vincenzo Imperiale, politico, letterato e collezionista genovese del Seicento, Padova, Antenore, 1983.

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Colorir ombre ed ombreggiar colori ecco il Ligure Apelle e ’l Tosco Omero, e, per dar cibo ai sensi, esca al pensiero, ecco in mute armonie lumi canori. Porga ognun pari lode, eguali onori al silenzio ingegnoso, al suon guerriero, e del doppio lavor, per pregio intiero, resti in preda l’Invidia ai suoi dolori; ché la penna e ’l pennel l’emulo volo sovra il volo del Sol fermano intanto, fatti nel ciel d’Onor le stelle e ’l polo.

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E dà lor quivi col suo proprio vanto, che fra gli Angeli è raro e fra noi solo, moti di Santa fama il Duce Santo35.

Mi permetto di proporre una parafrasi del testo, il cui senso non è forse limpidissimo ad una prima lettura: Ecco il Tasso e il Castello intenti, rispettivamente, a riportare in vita (colorir ombre, v. 1) sulla carta i personaggi protagonisti del poema, e a eseguire disegni a chiaroscuro (ombreggiar colori, v. 1), ed ecco, per dar motivo di eccitazione ai lettori, brillanti immagini espresse con versi sonori (lumi canori, v. 4) catturate nei disegni di armoniosa proporzione (mute armonie, v. 4). Ognuno esprima la stessa ammirazione nei riguardi dei disegni ricchi d’artifici (il silenzio ingegnoso, v. 6) e dei suoni delle battaglie evocate nei versi (il suon guerriero, v. 6), e, affinché le due opere acquistino interamente valore, possano gli invidiosi avvelenarsi con la propria malvagità; perché Tasso e Castello nel frattempo arrestano i loro slanci, originati dal costante desiderio di uguagliarsi (l’emulo volo, v. 9), ben al di sopra del cielo del sole, resi ormai volta celeste (la Liberata) e stelle che la impreziosiscono (i disegni) nel cielo dell’onore. E lì fornisce un impulso alla loro divina celebrità (moti di Santa fama, v. 14) Goffredo di Buglione (il Duce Santo, v. 14), per mezzo del suo merito che fra gli angeli è merce rara e fra noi non ha uguali.

35 Gli ultimi due versi citano due luoghi, tra loro prossimi, del Triumphus fame petrarchesco (II, vv. 137-8 e 145-6): “poi venia solo il buon duce Goffrido/ che fe’ l’impresa santa e ’ passi giusti” e “Raro o nessun che ’n alta fama saglia/ vidi dopo costui” (cito da F. Petrarca, Triumphi, a cura di M. Ariani, Milano, Mursia, 1988). Ringrazio Eraldo Bellini che mi ha ricordato la pertinenza di questi passi.

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Il petrarchismo tassiano di Scipione della Cella

Prescindendo dall’elegante citazione dantesca del v. 11 (“Tutte le stelle già dell’altro polo/ vedea la notte”, nel canto di Ulisse, vv. 127-8), a me pare che l’idea che sostiene il componimento sia notevolissima. Ed è pure un pezzo di bravura la preziosa molteplicità delle soluzioni ornamentali. Verso 1: antimetàbole o commutatio; v. 2: parallelismo e doppia allusione; v. 3: parallelismo; v. 4: chiasmo dal punto di vista sintattico (prima ossimoro, poi sinestesia dal punto di vista logico); v. 5: parallelismo; v. 6: isòcolon; v. 7: anastrofe; v. 9: paronomasia; v. 11: dittologia; v. 13: sìncrisi (parallelismo fra i cui membri vi è comparazione o antonimia); v. 14: chiasmo e antonomasia. Ora che abbiamo visto dove e come il Cella abbia imparato il mestiere di poeta, possiamo parlare della struttura e del contenuto del suo libro di Rime. La princeps contiene, nell’ordine, 73 sonetti, 7 canzoni (con un rapporto di uno a dieci analogo a quello del modello), una sestina e tre componimenti in ottava rima36. Manca del tutto la forma più alla moda, il madrigale, mentre la sestina assume il valore di un atto di deferenza nei riguardi del Casa e del Tasso (oltre che, naturalmente, del Petrarca e della lirica antica). La disposizione dei metri, dal discorso frammentario del sonetto a quello di più ampio respiro della serie di ottave, è pure da valutare nell’ottica di una propaggine del petrarchismo rinascimentale: basterà rammentare l’edizione petrarchesca di Alessandro Vellutello, 1528, in due parti (prima le Rime, poi i Trionfi) o, meglio ancora, quella di Bernardino Daniello, 1549, che già nel frontespizio annuncia Sonetti canzoni e triomphi 37. Se poi dalla struttura passiamo al contenuto, ci avvediamo che il primo sonetto è amoroso, mentre il 73esimo è devoto e di stampo mariano, narrando il “ritorno dell’Autore alla Santa Casa di Loreto”. Certo, il primo sonetto del Petrarca non è amoroso, ma il canzoniere del Cella è postumo e non sorvegliato dall’autore: questo mi pare spiegare la mancanza di un testo proemiale. Tematicamente i sonetti possono essere tripartiti, visto che i primi 44 sono amorosi, i 28 seguenti sono encomiastici e occasionali e l’ultimo, come detto, è sacro: si opera così l’identica divisione della materia che il Tasso avrebbe voluto per le sue Rime 38. Divi36

La seconda edizione, 1623 (ma non la terza, 1674, che ristampa la princeps), aggiungerà, in calce al primo canzoniere, tredici sonetti e sedici madrigali. 37 F. Petrarca, Il P., con l’espositione d’Alessandro Vellutello e con molte altre utilissime cose in diversi luoghi di quella nuovamente da lui aggiunte, Venezia, Bernardino Vitali, 1528 (la seconda parte del libro è intitolata Triomphi del Petrarca); F. Petrarca, Sonetti canzoni e triomphi, con la spositione di Bernardino Daniello da Lucca, Venezia, Pietro e Giovanmaria fratelli de Nicolini da Sabio, 1549. 38 Si veda in proposito A. Martini, Amore esce dal caos. L’organizzazione tematiconarrativa delle rime amorose del Tasso, in “Filologia e Critica”, IX, 1984, 1, pp. 78-121 (a pp. 79-80).

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sione che, rovesciata, è ripetuta nelle canzoni: la prima è sacra, le cinque seguenti hanno carattere encomiastico e occasionale e la settima è amorosa. Si forma così, tra sonetti e canzoni, un grande chiasmo, alle cui estremità vi è la problematica erotica e al cui centro vi è invece la questione della salvezza. La maggior parte delle rime amorose canta Lilla che è quindi la donna dominante, come nelle Rime del Marino (1602). Accanto a lei vi sono altre presenze femminili dal nome boschereccio (Clori, Crome, Fillide), di nuovo come in Marino e come già nel Tasso. Il poeta si lamenta spesso della durezza e della crudeltà di Lilla, come pure del suo essere capricciosa, cosa comune a tanta parte del petrarchismo, ma inesistente nel modello, dove la donna è immobile ma irraggiungibile e il Petrarca può solo dire, per citare un suo verso posto ad epigrafe del sonetto Il proprio ritratto del Foscolo, “ch’altri che me non ho di cui mi lagne”. La tiranna del Cella è invece donna a tutti gli effetti e se spesso è disdegnosa, può tuttavia talvolta rispondere alle profferte dell’uomo, come nel son. 29, dove lo bacia. Una donna calata in un mondo reale insomma, della stessa genia di quella dei cortigiani dell’ultimo Quattrocento e di quella del Tasso, che danza (son. 4), si invaghisce di altri uomini (sonn. 7 e 13), va in villeggiatura (son. 12), gioca a carte (son. 15). Ed è una donna che, cosa a mia conoscenza piuttosto nuova, mostra pure di essere gelosa. Alla partenza di lui per l’esilio in Lombardia (son. 17), fanno seguito tre testi (sonn. 19, 20 e 21) dove si cantano una Visconti ed una Sforza (cognomi ben milanesi) e dove egli dichiara di essersi innamorato di un’altra donna. Lilla certamente dovette subodorare qualche cosa, se consideriamo il fatto che in un altro trittico (sonn. 31, 32, 33) il poeta si lamenta della sua gelosia e la rassicura circa la propria fedeltà. Alla lontananza fa seguito la riunione: nel terz’ultimo sonetto egli la invita in barca, nel penultimo ha un accesso di gelosia e nell’ultimo testo amoroso riesce a scorgerle le gambe, scoperte da un soffio di vento. Questo sonetto e quello già citato sul bacio preparano la canzone Mattutini amori, di cui abbiamo letto l’ultima strofe, vero e proprio culmine di una gradatio. I temi della lontananza e del riavvicinamento, come pure quello della fedeltà nella separazione, rendono il racconto che ho voluto brevemente delineare simile al percorso tematico-narrativo proposto dal Tasso nelle poesie per Lucrezia Bendidio, percorso messo in luce a suo tempo in un saggio da Martini39. Si aggiunga che il tema della gelosia, molto importante nelle Rime del Cella, è di per sé tassiano; non solo come motivo poetabile ma anche come riflessione teorica: il Tasso, come è noto, dedica infatti un Discorso alla gelosia40.

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Ivi, pp. 86-8. Leggibile, per esempio, nel vol. IX delle Opere, a c. di G. Rosini, Pisa, N. Capurro,

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Il petrarchismo tassiano di Scipione della Cella

Avviandoci alla conclusione, propongo di leggere ed esaminare il sonetto sul bacio. Esso è imitazione di un luogo conosciutissimo dell’Aminta, ma anche la voce del Petrarca vi risuona in maniera inconfondibile. Nel caso della ninfa morsa su la bocca da un’ape nell’Aminta del Tasso, il poeta raddoppia il pensiero fingendo ch’egli morisse per veder la donna addolorarsi per un tal morso, e ch’ella baciandolo rendesse a sé la salute e a lui la vita. Fatto il vago animal vago de’ fiori, sussurrando al mio sole Amor si volse, o rara mia dolce ventura, e volse quella bocca impiagar ch’impiaga i cori. Vinta dagli acerbissimi dolori, al grido, al pianto il fren Lilla disciolse; io, cui pur del suo duol cotanto dolse, caddi, e caddi di vita insieme fuori. Doppia intanto pietate il cor le fiede, poi, perch’al suo, perch’al mio mal sì forte là col gel, qui col caldo accorrer crede,

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giunge le sue di foco a le mie smorte labbra di neve, onde già parte e cede quinci il velen d’Amor, quinci di morte.

La duplice sofferenza, quella dell’uomo e quella della donna, è sottolineata dalle numerose ripetizioni ‘orizzontali’: vago... vago (v. 1: ripetizione equivoca), impiagar... impiaga (v. 4: ripetizione con variatio di modo verbale), duol... dolse (v. 7: ripetizione con variatio grammaticale), caddi... caddi (v. 8: ripetizione con variatio di estensione semantica; la prima occorrenza è denotativa, la seconda metaforica), perch’al... perch’al (v. 10), quinci... quinci (v. 14). Anche la reiterazione verticale, cioè la rima equivoca volse, vv. 2 e 3, assume la funzione di segnale della Doppia... pietate, v. 9. Riassumendo, abbiamo la seguente situazione: la ninfa è punta dall’ape e prova quindi dolore; questo si trasmette all’uomo che ne muore, obbligando la donna a farsi carico di un nuovo dolore, a cui si pone rimedio, ovviamente, con l’unica azione in grado di mettere in gioco due elementi identici e contemporaneamente contrari, cioè il bacio sulla bocca grazie al quale le labbra bollenti pre1821-1832. Cfr. anche S. Prandi, “Ne le tenebre ancor vivrò beato”. Variazioni tassiane sul tema della gelosia, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di A.

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mono le labbra gelide. Credo si possa convenire che si tratti di una raffinatissima rappresentazione di uno dei paradossi fondanti della fenomenologia erotica in Petrarca, quello che permette, per esempio, la domanda che chiude il sonetto CCXX: “Di qual sol nacque l’alma luce altera/ di que’ belli occhi ond’io ò guerra et pace/ che mi cuocono il cor in ghiaccio e ’n fuoco?”41. Il sonetto del Cella imita un passo, narrativamente bipartito, dell’Aminta (a. I, sc. II, vv. 441-509). In un primo momento (vv. 441-67), Aminta vede Silvia e Filli sedute sotto un faggio; un’ape, confondendo la guancia di Filli con un fiore, la punge: Silvia allora la bacia sulla parte lesa, sanandola all’istante. In seguito (vv. 468-509), il Tasso ci racconta come Aminta decida di mettere a frutto la scena cui ha assistito: finge di essere stato morso sul labbro inferiore e Silvia interviene con un bacio; il pastore però le dice che il dolore non è stato scacciato, ottenendo così altri baci. Ciò che rende particolarmente degno di nota il componimento di Scipione è, a parer mio, il trasferimento della pluralità diacronica dei baci (la ripetizione della cura nel passo tassiano) nella pluralità sincronica del significato (o polisemia) del singolo bacio: lenimento e ‘resurrezione’. Portenti di una bocca di rosa che ci invogliano a ripetere, otto secoli dopo Guillaume de Lorris, Mout est gariz qui tel flor baise, qui est si douce et si olanz42.

Battistini, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 67-83.

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Danilo Boggini IL CANZONIERE DISPERSO DI OTTAVIO RINUCCINI

Le prime carte del manoscritto Palatino 249 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – che assieme al Palatino 250 costituisce il più importante corpus di testi rinucciniani a noi noto – sono occupate da un vero e proprio canzoniere in nuce, formato da 17 sonetti, due madrigali e una canzone. Prima di addentrarci nell’esame di questi componimenti credo sia opportuno chiarire i rapporti fra i principali testimoni dell’opera del poeta fiorentino. Li ho riassunti nello schema che segue:

Esemplati nei primi anni Novanta del XVI secolo con lo scopo di riorganizzare le poesie sin lì composte, i Palatini accompagnano l’autore per un arco consistente della sua vita, dai diciassette ai cinquantun anni, anche se all’appello mancano alcuni periodi nei quali è lecito supporre che si servisse di carte oggi disperse. Fra 1613 e 1621 (l’anno della morte) Rinuccini atten-

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Danilo Boggini

de alla compilazione dei manoscritti Trivulziani in vista di una pubblicazione1. Quei codici sono andati perduti nel corso della seconda guerra mondiale, ma le testimonianze – scarse invero – di chi ebbe la fortuna di visionarli concordano nel dire che da essi deriva la scelta postuma curata dal figlio Pier Francesco, poiché i componimenti che vi figurano erano contrassegnati in modo inequivocabile nei codici Trivulziani2. Il canzoniere nella prima sezione del manoscritto Palatino 249 L’esame delle carte 1-12 mostra in tutta evidenza che il canzoniere è frutto di una rielaborazione a bella copia di poesie precedentemente composte. Un medesimo ductus contraddistingue infatti i sonetti I-VIII, e lo stesso può dirsi dei componimenti X-XVIII. Inoltre la quasi totale assenza di correzioni in queste prime pagine si contrappone alle sezioni più tormentate dei codici Palatini 249 e 250, dove l’ordine e la compostezza iniziali lasciano spazio ad un disordinato brogliaccio nel quale si possono cogliere le fatiche giornaliere del laboratorio poetico, testimoniate da infinite varianti, correzioni e riscritture di testi interi. Si rileva infine la presenza di bordi tracciati con una punta metallica fra 1r e 3r, fenomeno pressoché unico nelle carte rinucciniane3. La disposizione dei testi è dunque ponderata con cura in modo da generare una struttura compatta e omogenea, che poggia su una fitta rete di rimandi interni tessuta attorno ad una solida trama narrativa. La tabella che segue offre una visione sintetica dell’impianto complessivo. 1 Il Solerti (Gli albori del melodramma, Torino, 1903, vol. II, pp. V-VI) segnala inoltre i mss. miscellanei Palatino 251 e Trivulziano 1004 (oggi perduto), che affiancano i due momenti principali della produzione rinucciniana. Per un errore incidentale in un mio precedente intervento (D. Boggini, Per un’edizione critica delle Poesie di Ottavio Rinuccini, “Rivista di letteratura italiana”, XIX (2001), pp. 11-60) i codici approntati dall’autore in vista dell’edizione sono designati, oltre che con la corretta segnatura di Trivulziani 1005 e 1006, con l’erronea indicazione di Trivulziani 1004 e 1005 (cfr. pp. 22 e 35). 2 In questa sede basterà menzionare le parole di Giuseppe Aiazzi, che costituiscono il primo e più certo esame dei codd. Trivulziani 1005 e 1006: “Da alcuni contrassegni che portano molti di questi componimenti, e dal trovare stampati quelli connotati, deduco fondatamente che questa raccolta servì per fare la scelta delle poesie impresse nel 1622 in 4.°; ve ne resta un buon numero delle inedite, che meriterebbero l’onore della pubblica luce. A uno di questi volumi sono state tagliate alcune carte, forse perché contenevano componimenti un poco troppo affettuosi.” Cfr. Ricordi storici di Filippo di Cino Rinuccini dal 1282 al 1460, colla continuazione di Alamanno e Neri suoi figli fino al 1506, seguiti da altri documenti di storia patria, a c. di G. Aiazzi, Firenze, Piatti, 1840, p. 174. Concordando nella sostanza con l’Aiazzi, il Solerti (Gli albori, cit., p. V) li dice “interamente autografi”. 3 Per un’analisi più dettagliata della situazione si veda Boggini, Per un’edizione critica delle Poesie di Ottavio Rinuccini, cit., pp. 18-34.

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Il primo sonetto mostra tutte le caratteristiche di un testo proemiale, dichiarando immediatamente, fra i tanti possibili, un preciso modello di riferimento. I rinvii puntuali al sonetto che inaugura le Rime del Tasso nell’edizione Osanna del 1591 4 (e che già apriva la serie del cod. Chigiano5) rimandano il lettore proprio a quell’esperienza, invitandolo ad un ideale confronto sinottico con il paradigma: Rinuccini6:

Tasso7: Questo primo sonetto è quasi propositione dell’opera, nel quale il poeta dice di meritar lode d’essersi tosto pentito del suo vaneggiare, et essorta gli amanti co’l suo essempio che ritolgano ad Amore la signoria di sé medesimi.

Quanto in rime cantai, dettando Amore, che nel cor giovenil gran tempo accolsi, allor che gli occhi e più la mente volsi 4 a quella cui donar mi piacque il core,

Vere fur queste gioie e questi ardori Ond’io piansi e cantai con vario carme, Che potean agguagliare il suon de l’arme E de gli Heroi le glorie e i casti amori;

scrissi, né già per acquistarmi onore, cercato in van da chi cantando duolsi; ma scoprendo ‘l mi’ error mill’altri volsi trar con l’esempio mio d’inganno fuore. 8

E se non fu de’ più costanti cori Ne’ vani affetti il mio, di ciò lagnarme Già non devrei, ché più lodevol parme Il pentimento ove honestà s’honori.

Hor con l’essempio mio gli accorti amanti, E forse fia che ‘l cieco e van desio, Leggendo i miei diletti e i miei desiri, queste Rime leggendo, alma gentile, spento, in foco più bel s’infiammi e incenda, 11 Ritolgano ad Amor de l’alme il freno. Pur ch’altri asciughi tosto i caldi pianti e quanto ‘l Mondo ha in sé posto in oblio, Et a ragion talvolta il cor s’adiri, disdegnando beltà terrena e vile, altro a cantar più degn’oggetto prenda. 14 Dolce è nudrir voglie amorose in seno.

4

Delle rime del Sig. Torquato Tasso Parte Prima, Mantova, Osanna, 1591. T. Tasso, Rime d’amore, secondo il cod. Chigiano L VIII 302, a c. di F. Gavazzeni, M. Leva, V. Martignone, Modena, Panini, 1993. 6 D. Boggini, Le Poesie di Ottavio Rinuccini, edizione critica, Tesi di dottorato presentata alla facoltà di lettere dell’Università di Friburgo (Svizzera) nel 1999, p. 31. L’opera, che vedrà presto la luce presso l’editore Res, contempla le tavole dei mss. Palatini 249 e 250, a cui queste pagine fanno riferimento. Il lettore potrà consultarle nel sito internet www.dboggini.supereva.it. Il testo di riferimento dell’edizione è quello della princeps. 7 Tasso, Rime d’amore, cit., p. 3. 5

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I rilievi intertestuali delineano il comune intento di ammonire i lettori attraverso un’esperienza amorosa segnata dalla vanità e configurata come exemplum, e si costituiscono pertanto come elemento di continuità rispetto al modello. Lo scarto sta invece nella soluzione di tale nodo, che Rinuccini spinge verso un trascendente “foco più bel” (v. 11), in una tensione verso un “più degn’oggetto” (v. 14) che è estranea alla “propositione” tassiana. Il secondo sonetto ruota attorno al tema della speranza disillusa: si noti la serie sperando, speme, speme, speranza 8, dilatata dai paronomastici e semanticamente affini spirto e spirando 9, che forma un corollario ideale al “cieco e van desio” del componimento introduttivo (I, 9). Il tema ritorna a intervalli regolari nei sonetti seguenti come un bordone che soggiace alla fase iniziale del canzoniere: nel sonetto IV una sconsolata constatazione (“Lasso, speme non ho che mi conforte”, v. 9) preparata dalla triplice anafora di Fia mai (che), che ne incrementa il pathos, è riecheggiata con maggiore perentorietà nel sonetto VI (“che più non spero omai di trovar pace”, v. 4) dove la speranza cede il passo a “mesti sospiri” erranti (v. 7). Nel terzo sonetto si materializza concretamente una “vendetta” (v. 11) che promana dagli “insidiosi inganni” (cfr. v. 9; sono ribaditi in rima equivoca al v. 13: “perfida, non fia più ch’alcuno inganni”), quegli stessi inganni che il poeta si riprometteva di svelare e combattere nel proemio (cfr. I, 8). La nemesi si realizza in un accorato invito rivolto a tutti gli amanti affinché fuggano le insidie amorose (“Fuggite amanti, oimè, nessun la miri”, v. 6) evitando così l’errore del poeta stesso, che nel momento dell’incontro amoroso non aveva saputo dare giusto peso ad una voce che lo ammoniva invitandolo alla fuga: Restai senz’alma, e nell’afflitto core parvemi voce udir: – Troppo ti fidi, fuggi meschin, t’anciderà costei! – (V, 9-11)

Il sonetto IV nasce come emanazione del testo che lo precede, traendo spunto in particolar modo dal suo terzo verso (“e gli occhi volge in sì soavi giri”): Fia mai che in più soavi e dolci giri volga ver me de’ suoi begl’occhi il sole madonna, e al suon di mie triste parole vestir il volto di pietà si miri? (IV, 1-4)

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Cfr. i vv. 2, 3, 7, 11. Cfr. i vv. 3 e 4.

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Nel solco di questa affinità si inserisce pure la ripresa – con lo stesso ordine e con le medesime distanze – di tre rime delle quartine (giri, miri, martiri 10), prolungate dalle quasi rime delle terzine (ire, desire 11). Anche i componimenti V e VI appaiono legati a mo’ di coblas capfinidas: da V, 9 (“Restai senz’alma, e nell’afflitto core”) deriva l’incipit del successivo (L’alma e ‘l cor per dolor si strugge, e sface), e la clausola core accomuna le prime terzine di entrambi i testi12. Ma ciò che più conta è l’appello a un non meglio precisato “Signor mio caro” (VI, 3), affinché dispieghi il “dolce stil” (v. 12) in vece del poeta: qui l’espressione “dolce stil” conserva tutto il significato che aveva ricevuto per bocca dell’ombra di Bonagiunta nel Purgatorio dantesco. Basta infatti un rapido sguardo a questo breve ciclo di quattro testi fittamente connessi fra loro per accorgersi che sono accomunati da una serie di immagini di derivazione stilnovistica. Ma c’è dell’altro: la tardiva didascalia della Giuntina permette di identificare (e non c’è motivo di supporre che la dedica sia intervenuta a posteriori) il “Signor mio caro”13 nell’amico e poeta Lorenzo Franceschi, membro di spicco dell’Accademia Fiorentina, consesso al quale appartenne lo stesso Rinuccini14. Viene così a stabilirsi all’interno del canzoniere un rapporto privilegiato e in qualche modo dialogico con un poeta sodale, e anche in questo caso la memoria corre ad esperienze duecentesche. Si aggiunga infine che il sonetto VI presenta un elemento che caratterizzerebbe piuttosto il poema epico-cavalleresco che il genere lirico: vi compare infatti una musa stanca e dimessa (v. 5), incapace di ispirare la muta cetra del poeta. È poco più che una semplice presenza, decisamente distante dal ruolo che generalmente le compete, ma contribuisce anch’essa a stabilire l’organicità dei testi I-VII. Il sonetto VII chiude idealmente questa fase con un richiamo a quel “cieco e van desio” (I, 9) che è fonte ineluttabile dei mali dell’autore: “sì il

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Cfr. III, 3, 6, 7 e IV, 1, 4, 5. Cfr. IV, 10 e 14. 12 Cfr. V, 9 e VI, 10. 13 Si noti che l’espressione ricorre tre volte nei Rerum vulgarium fragmenta (58, 2; 103, 3; 266, 1) ed è sempre riferita a un membro della famiglia Colonna (cfr. F. Petrarca, Canzoniere, a c. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996). 14 Il Franceschi (1561-1642) fu anche per tre volte arciconsolo della Crusca. I Fasti consolari dell’Accademia fiorentina di Salvino Salvini, Firenze, Tartini e Franchi, 1717, attestano una lunga frequentazione fra i due poeti. In particolare il Franceschi ricambiò l’omaggio del Rinuccini con una canzone in morte dell’amico (O delle Grazie figlio) nella quale dichiarava un debito incommensurabile nei suoi confronti, indicandolo come “pregio di Febo, Onor d’Arno e di Flora / che d’ogni noia mi sgombravi il petto / e perpetuo a Virtù m’eri consiglio, / senza cui caro a me non vissi un’ora” (vv. 3-6). 11

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desio cresce ch[e] talor m’adiro” (VII, 12); nel verso appare significativamente compendiata la rima desiri: adiri del proemio tassiano citato in precedenza15. Nel testo colpisce però soprattutto la triplice ricorrenza di gemma, e l’invito implicito a leggere il termine come un senhal 16: Tra le più care gemme e prezïose, quasi nova di lei gemma e tesoro, quella ch’io solo al mondo amo et onoro felice prigioniero un dì m’ascose. (VII, 1-4)

Nei sonetti VIII e X si focalizza il nucleo tematico della gelosia; in particolare nel primo dei due una Dafne in fuga da Apollo va ad insidiare il “sol” (v. 4) del poeta interponendosi fra lui e l’amata (“Or fuggendo or pregando il mio bel sole / così schermisci”, vv. 9-10). La situazione non pare spiegarsi in chiave eterosessuale17, si ha anzi l’impressione di un linguaggio cifrato, del resto confermato in occasioni analoghe da due componimenti di Rinuccini18. Nel secondo componimento il “geloso amante” (v. 2) si accende di sdegno verso il “Mostro crudel che di veleno infetti / i dolci miei” (vv. 12-13) senza fare però menzione alcuna delle cause del proprio sentimento. Fra i due è inserita la canzone Bella fanciulla, il tuo gentil sembiante, che rompe l’unità di metro e di ductus della serie di sonetti autografi. Estraneo ai componimenti circostanti è pure un tono idillico-pastorale che richiama gli accenti svagati di una canzonetta: I semplicetti tuoi trastulli e’ vezzi temp’è che lasci e sprezzi; (IX, 5-6) [...] altra di ricche gemme prezïose sen vada pur pomposamente altera; tua beltà pura e vera,

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Cfr. i vv. 10 e 13. Si vedano i vv. 1, 2 e 7. Si potrebbe supporre che fra le righe si nasconda una donna di nome Gemma. 17 Una ben più ostentata omosessualità femminile prende forma in un sonetto del Tasso (Rime d’amore, cit., LXXXVI) dove “due belle d’amor guerriere” (v. 3) “La bocca si ferir di bacio ardente” (v. 8). Si noti che il sonetto XII di Rinuccini (Due guerriere d’Amor segno il mio petto) si apre con un rimando a questo componimento tassiano. 18 Si tratta dei sonetti Tra’ cari nodi incatenato e preso (Pal 249 198r) e Perché quest’occhi miei, questo mio volto, (Pal 249 247v, poi in Boggini, Le Poesie di Ottavio Rinuccini, cit., CXC). 16

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vezzosa fanciulletta, non pon far gemme od arte più perfetta. (IX, 49-53) [...] e ‘l vel che rinchiude il sen manco ne chiuda, ch’allor più adorna sei quanto più nuda. (IX, 73-75)

Parrebbero insomma sussistere elementi sufficienti a considerare come spuria e casuale la presenza di questo testo fra i sonetti, anche perché ad essi segue una serie metricamente omogenea di 21 madrigali idiografi. Ma una valutazione di carattere strutturale induce a considerare la canzone come parte integrante del canzoniere: l’esibita gioventù della “Bella fanciulla”, associata ad una purezza ancora intatta, rappresenta infatti il pendant del sonetto XI, dove nel solco di RVF 90 (Erano i capei d’oro a l’aura sparsi) va in scena una bellezza còlta nel suo sfiorire (“e’ capei d’oro fin d’argento sparsi, / e le rose cader di sen si vede”, vv. 3-4). In un canzoniere che si organizza per simmetrie e contrasti tale elemento appare decisivo, e il fatto che la canzone sopravviva fino alla stampa19, passando attraverso i Trivulziani e figurando pure in una scelta intermedia – testimoniata da asterischi posti in calce a determinati componimenti20 – indica che in nessun momento l’autore ha avuto ripensamenti su di essa21. Anzi, la presenza del numero VI in testa alla pagina parrebbe indicare, secondo una prassi non infrequente nelle carte rinucciniane, uno spostamento del testo in sesta posizione, o in luogo del sesto componimento. In tal modo la canzone uscirebbe dal nucleo tematico della gelosia, con il quale non ha affinità alcuna, per situarsi a ridosso del sonetto VII, con cui condivide la triplice e ravvicinata presenza del senhal “gemma” (cfr. vv. 41, 49 e 53), assente nei restanti 18 testi del canzoniere22. I legami con quel sonetto trovano definitiva conferma nell’ambito della medesima strofa, con la ripresa della rima tesoro: oro (VII, 2 e 7) e dell’endiadi perle e rubini (VII, 9): Va’ pur vile e negletta, che ‘l più terso e fin oro avanzano i tuoi biondi incolti crini, 19

Poesie del Sr. Ottavio Rinuccini. Alla Maestà Cristianissima di Luigi XIII Re di Francia e di Navarra, Firenze, Giunti, 1622, pp. 46-49. 20 Sono registrati nella quinta colonna della tabella. 21 L’andamento giocoso di alcune parti della canzone potrebbe spiegarsi proprio in virtù della purezza adolescenziale che vi è rappresentata. 22 Nella princeps la voce beneficia invece di un’alta frequenza.

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né più ricco tesoro di perle e di rubini estranio Mar ricopre di quel che di tua bocca un riso scopre. (IX, 54-60)

Insomma del prezioso campionario che orna il componimento VII manca all’appello unicamente il diamante (v. 10); o forse si cela abilmente in IX, 3: “e di novello Amante”. L’incipit del sonetto XII (Due guerriere d’Amor segno il mio petto) basta a delineare una situazione in cui si moltiplicano gli oggetti dell’innamoramento, laddove la gelosia (VIII e X) ne moltiplicava i soggetti; e nella filigrana dei testi il richiamo a distanza fra la “doppia piaga” di XII, 9 e la “non avuta piaga” di X, 5 è spia tangibile di questo fenomeno. Fra i due nuclei si instaura dunque una relazione speculare, che ruota attorno al punto focale del sonetto XI, dove il tema dell’invecchiamento della donna amata può essere letto come segno di una crisi che sfocia in soluzioni alternative e stravaganti rispetto alla tradizione. Nel testo successivo il poeta prende esatta coscienza del proprio “dolce e volontario errore” (XIII, 7), un errore che va ad allinearsi – anche quanto a collocazione – con il “mi’ error” di I, 7 e i “mesti sospiri” che “errando vanno” di VI, 7. Per la prima volta dunque i dubbi circa il futuro dell’intera vicenda amorosa si manifestano apertamente: Io vo pensando s’agl’aspri martiri sotto ‘l cui pondo giace oppresso il core amaro o dolce fin destini Amore, se vuol ch’io mora o pur vuol ch’io respiri. (XIII, 1-4)

A ben guardare però il contatto intertestuale fra il primo verso e l’incipit di RVF 264 (I’ vo pensando, et nel penser m’assale), la prima delle rime in morte di Laura, va ben al di là della lettera del testo, lasciando presagire la soluzione di quegli interrogativi, che giunge puntuale nel sonetto XVII, in cui si è ormai consumato l’allontanamento della donna, tanto che al poeta non rimane che esternare dolorosamente una sofferenza che si tinge di accenti petrarcheschi: Poscia che rimirar l’alta beltade onde viver solea m’ha tolto il fato, vivo piangendo, e con la morte a lato vo per le più deserte inculte strade. (XVII, 1-4)

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È una lontananza rappresentata in modo tale da far dubitare della morte della donna, se il sonetto XVIII non dissipasse tutti i dubbi in tal senso. Va altresì notato che l’amata23 era entrata in scena “carolando” (V, 3) e ora ne esce “lieta cantando” (XVII, 13), il che autorizza l’ipotesi che questo canzoniere estremamente sintetico e concentrato fosse predisposto ad accogliere e ricevere parte della melica dell’autore, fortunata ed apprezzata già nell’ultima decade del Cinquecento24. Fra XIII e XVII si situa una pausa sospensiva di tre sonetti encomiastici che costituiscono un omaggio alla famiglia Medici: sono riconoscibili i dedicatari Cristina di Lorena, Francesco I e Leone X 25, ma più in generale occorre rilevare che i Medici e i loro sodali sono i principali dedicatari della prima sezione del codice Palatino 249, e che su tutti spicca per importanza il condottiero Giovanni de’ Medici. Insomma questa famiglia rappresenta per il giovane Rinuccini ciò che i Colonna erano per il poeta di Laura, il quale non per nulla aveva offerto un nucleo di testi dei Rerum vulgarium fragmenta ai propri potenti mecenati26. Infine il sonetto XVIII traccia un bilancio dell’intera vicenda amorosa, segnata da un’iniziale accondiscendenza (“e mostrò di pietà non bassi affetti”, v. 4) che si tramuta poi in rifiuto quando un “soverchio amor” (v. 6) mette a tacere il poeta (si noti l’analogia con VI, dove la cetra era ammutolita), che ora non può che supplicare Amore di restituirgli la facoltà di cantare per smuovere una donna resa insensibile dal proprio silenzio (“Perch’io taccio il mio male ella no ‘l crede”, v. 9). La parabola culmina nei madrigali XIX e XX, dove i temi del perdono e della redenzione chiudono un’esperienza che si era inaugurata nell’auspicio di volgersi un giorno ad altro “più degn’oggetto” (I, 14). E se è vero che sul piano metrico i due testi si inserirebbero nella serie di 21 madrigali idiografi che segue i sonetti (cc. 12r-16v), occorre però rilevare da un lato che questa seconda serie contrariamente alla prima è tema23

Al v. 6 è definita “dolce Sole amato”, che richiama il “mio sol” di VIII, 4. Cfr. D. Boggini, Parole tra le note: la poesia per musica di Ottavio Rinuccini, Tesi di laurea presentata presso l’Università di Friburgo (Svizzera) nel 1991, pp. 76-77. 25 Nel primo caso soccorre la didascalia della princeps: “Per la serenissima Cristiana di Loreno Gran Duchessa di Toscana”; nel secondo l’accenno alle “pompe di scettri e di corone” (v. 2) richiama la figura di Francesco I de’ Medici, alla cui morte (1587) è dedicato anche il madrigale Tuffasi il sol nell’onde e sorge poi che si legge a c. 18v (dunque in prossimità del sonetto in questione) con tanto di didascalia esplicita: “In morte del Gran Duca di Toscana Franc[esc]o”. Quanto al terzo sonetto, il Leone nominato al v. 2 non può che essere il papa che scomunicò Lutero, a sua volta riconoscibile nel “fero serpente” del v. 3. 26 Si tratta dei sonetti 7-10. Si veda a proposito F. Petrarca, Canzoniere, a c. di M. Santagata, cit., pp. LXIX-LXXI. 24

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ticamente disomogenea27, dall’altro che essi giungono sino alla Giuntina, dove conservano la medesima funzione e collocazione finale, occupando le posizioni 230 e 231 di una stampa che ne conta 235. Il canzoniere si chiude qui: tornando a insistere sulla crudeltà la donna, i madrigali che si leggono a c. 12v non si accordano con la rassegnazione amorosa di XIX e XX, né nei toni né nei contenuti28. Lo sviluppo nei manoscritti palatini Siamo insomma confrontati con un assieme di testi saldamente organizzato e decisamente omogeneo, che parrebbe destinato a svilupparsi catalizzando nuovi testi all’interno della propria struttura. E forse questo era l’intento iniziale del poeta, ma la crisi è già latente nella parte più antica dei manoscritti, che si chiuderà nel 1597 29: dopo 39 testi ordinati secondo il metro, si accumulano i componimenti più disparati, senza un ordine prestabilito. Si alternano in un caos inestricabile sonetti, madrigali, canzonette, ottave, sciolti, quartine e canzoni, e si mescolano i generi lirico, encomiastico, carnascialesco, pastorale e sacro, tanto che alla fine si avrà una proporzione di 191 testi esorbitanti di fronte ai 20 che costituiscono il canzoniere. Prima ancora di una generale tendenza all’abbandono della forma canzoniere sono le contingenze – che impongono testi encomiastici, mascherate (e di lì a poco i drammi per musica) – a segnare la crisi del progetto. E infatti d’ora in poi tutte le successive risistemazioni delle poesie seguiranno criteri metrici 30, cosicché alla fine si conteranno in totale 712 rime (469 nel Pal 249, e 243 nel Pal 250, pur con qualche doppione). È un percorso inverso a quelli compiuti da Petrarca e Tasso, che non approda però alle soluzioni tematiche a cui giungono lo stesso Tasso e il Marino; anzi, per quanto è dato di vedere rimane a metà del guado in un’imbarazzante equidistanza dalle due sponde. Invero una traccia – e anche piuttosto consistente – di un ripensamento della forma canzoniere si può ritrovare nei manoscritti, dove una serie di

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P. es. a c. 13r si legge Filli, se ti rimembra, un madrigale di chiara impronta pastorale. Basti in tal senso l’attacco del secondo: “O che gentil costume / di bella donna, o che maniere accorte / lasciar in preda a morte / un miserello amante / così fido in amor, così costante!” 29 Corrisponde alle cc. 1-143 del cod. Pal 249. Cfr. Boggini, Per un’edizione critica delle Poesie di Ottavio Rinuccini, cit., pp. 33-34. 30 Per maggiori dettagli rinvio al già citato sito www.dboggini.supereva.it 28

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segni particolari, per lo più asterischi31, delinea un canzoniere decisamente più ampio e ancora concepito tradizionalmente. È un’operazione situabile a ridosso dell’inizio della compilazione dei manoscritti Trivulziani (1613), visto che quelle indicazioni coprono l’intero arco dei manoscritti Palatini. Ma questo disegno, che trasceglie ma non organizza, differisce notevolmente dall’impianto della Giuntina32, cosicché l’assenza dei Trivulziani 1005 e 1006 – sarebbe bastata una tavola degli incipit – si fa sentire dolorosamente, ancor più che in sede ecdotica. Cosa sia successo a quello stadio non è dato di sapere: quel che è certo è che nella princeps la mano ordinatrice del padre si fonde con quella del figlio, il curatore della scelta (perché tale è, rispetto ai Trivulziani, la stampa) si sovrappone all’autore tanto da costringere l’editore moderno a sospendere il giudizio. Il suo sarà un discorrere di presenze; quanto alle assenze poco o nulla potrà inferire. Lo sviluppo nella Giuntina Nell’omaggio postumo al padre, Pier Francesco dichiara di dare alle stampe ciò che gli resta33, tentando di riproporre una parvenza di canzoniere. Sta di fatto che soltanto dodici componimenti del progetto iniziale figurano, dispersi qua e là, nella stampa, e che di essi solamente il primo conserva pienamente la sua funzione, ma è significativamente preceduto dai 365 sciolti del panegirico per la nascita di Luigi XIII – S’unqua mortal Pietà superbe Moli – e dai 790 versi che compongono l’Euridice 34. Gli altri per lo più si distribuiscono a costituire le stazioni di un percorso frammentario, senza che attorno ad essi germoglino i nuclei tematici che parevano destinati a suscitare. Cambiano inoltre i rapporti e le associazioni fra i testi: 31

Ne ho registrata la presenza nelle tavole. Molti componimenti presenti nella Giuntina non sono contraddistinti da nessuna indicazione particolare, segno che la selezione in vista della stampa fu fatta con altri criteri. È insomma impossibile tentare di ricostruire in qualche modo i mss. Trivulziani sulla scorta di questi contrassegni. 33 “Sentirò sommo piacere che da voi, Signori Alterati, fia gradita questa risoluzione, animandomi a mandar fuora quelle Poesie che mi restano, che sono assai; stimando sempre però il vostro ottimo giudizio come legge de’ miei pensieri e deliberazioni.” Cfr. Rinuccini, Poesie, cit., p. VI. Pier Francesco Rinuccini (1592-1657) fu a due riprese arciconsolo della Crusca, cfr. Ricordi storici di Filippo di Cino Rinuccini, cit., pp. 174-77. 34 È evidente l’intento di orientare l’opera verso il genere alto e di rendere omaggio ad illustri mecenati a scapito di molti componimenti che godettero di ben maggiore successo; in particolare spiccano per la loro assenza alcuni madrigali che fecero la fortuna di Rinuccini presso i musicisti. 32

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Il canzoniere disperso di Ottavio Rinuccini

I e V vanno a costituire la coppia canonica proemio-incontro, che si colloca ai numeri 3 e 4 delle Poesie 35 ed è seguita da una cornice di quattro bellissimi sonetti perfettamente consoni alla situazione, sennonché uno di essi36 denuncia già nella didascalia (“Per una Principessa che cantò con la maschera”) la propria origine cortigiana. Lo stesso può dirsi della canzone IX, che si vede assegnata una posizione adeguata al tema proposto (15), ma nel contempo subisce la presenza prossima – e questa volta decisamente ingombrante – del sonetto 13, nel quale il poeta lamenta un dolore ormai ineluttabilmente radicato (“e pur com’Amor vuole / dell’antiche mie doglie mi querelo”, vv. 3-4) che mal si sposa con l’acerba gioventù femminile di Bella fanciulla, il tuo gentil sembiante. Analogamente la dislocazione di II e III (87 e 88) porta il nucleo disperazione-vendetta in una zona della raccolta in cui prevale l’aspetto encomiastico, terreno sterile e infecondo che non gli consente di maturare e crescere. VI, XI e XVII (rispettivamente 103, 104 e 105) vengono invece uniti in modo significativo e sintomatico: invocazione alla musa, invecchiamento della donna (che conserva dunque la funzione di mediare fra due componimenti, seppur diversi) e lontananza si susseguono nel breve arco di pochi versi, a tal punto che il canzoniere pare concentrarsi e risolversi in questi testi, quasi negando se stesso. Poi però nel sonetto 106 (Scorsemi alto destin com’al ciel piacque) rivive un mito di Atteone e Diana che non si concilia minimamente con essi37, mentre 109 (Al suon di questa cetera) è un testo decisamente pastorale, che con i suoi 512 settenari sdruccioli nulla ha a che vedere con la tradizione lirica qui condensata38.

35 Per ragioni di chiarezza utilizzo la numerazione in cifre arabe per i componimenti della stampa, contrariamente a quanto fatto in sede critica e nella tabella riassuntiva qui proposta, dove i numeri romani della terz’ultima colonna indicano la numerazione della princeps, e quelli moderni della penultima la pagina di riferimento. 36 Si tratta del no 6, Per le piagge del Ciel ben picciol vento; cfr. Rinuccini, Poesie, cit., p. 41. 37 A onor del vero nel sonetto 107 ritorna il tema dell’”esiglio”, ma il seguente dialogo fra Amante e Amore (108) vive di luoghi comuni e frasi fatte (“Fortunato in Amor chi spera e crede!”, v. 7) che lo allontanano dal genere lirico. 38 Si vedano p. es. i vv. 57-72: “In un con lei si levano / le compagne festevoli, / e per la man giungendosi / cantando in giro ballano. // Io quasi a caso, e semplice- / mente al mio bene accostomi, / mentre a formare il circolo / stendea la man bianchissima. // Con qual dolcezza prendola, / cortese Amor tu narralo, / che gioia alt’incredibile / rende gli amanti mutoli. // Mentre canzoni e frottole / alternamente cantansi, / ella a me volta imposemi / ch’anch’io cantando seguiti.”

109

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Danilo Boggini

Scompaiono VIII e XII, i componimenti più devianti rispetto alla tradizione, ma il secondo sopravvive negli asterischi della scelta intermedia, quasi a ricordarci che discorrere delle assenze significa avventurarsi in un terreno irto di ostacoli e incognite. Scompaiono altresì i testi consacrati ai Medici (XV e XVI), sostituiti nel loro ruolo dai regnanti francesi. A tal proposito giova ricordare che l’intera raccolta delle Poesie è dedicata a Luigi XIII, al quale sono pure rivolti il panegirico summenzionato (1) nonché altri due testi in posizione significativa e eminente39, e che l’Euridice (2) fu composta in occasione delle nozze dei di lui genitori Enrico IV e Maria de’ Medici. Non è un caso che dei tre sonetti encomiastici sopravviva quello dedicato alle nozze di Cristina di Lorena (17), celebrata proprio in quanto francese: Così Francia dicea ne’ pianti suoi e chiamar mille volte udissi insieme, serenissima Donna, il vostro nome. (XIV, 12-14)

Insomma Rinuccini nel disgregare un organismo forgiato nel corso della propria gioventù segue un cammino inverso a quello di Petrarca e Tasso, che giunsero a sistemare la propria produzione poetica negli ultimi anni della loro esistenza. Al di là delle vicende biografiche – che pur contano – occorre rilevare che il fenomeno si inserisce in una generale tendenza alla notomizzazione poetica propria del barocco, che si distanzia progressivamente, seppur con qualche significativa eccezione, dall’archetipo strutturante dei Rerum vulgarium fragmenta, dove il discorso amoroso subordina gli altri40. È questo un fenomeno generale, estensibile a tutte le arti; come nota Andrea Battistini “la bellezza non si fonda più sulla semplificazione, come nel Rinascimento, ma sull’aggiunta di nuovi intrecci all’intreccio centrale, nella complicazione degli episodi, nei processi di accumulazione, nella predilezione per il linguaggio metaforico, dovuta al rilievo di virtualità multiple41”. Se di questa linea di tendenza il Nostro accoglie, volente o più verosimilmente nolente, l’aspetto destrutturante, sul piano stilistico il cannocchiale aristotelico non fa per lui. Non è questa la sede per aprire un siffatto discorso, né il tempo a disposizione lo consentirebbe. Mi si lasci però sottolineare che quel “dettan-

39

È la corona di due sonetti (La man ch’in fasce strangolò serpenti e Calpestar gli Empi e fulminar Babelle) che occupa i numeri 9 e 10 della stampa. 40 Si veda in proposito A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, ne I capricci di Proteo, percorsi e linguaggi del barocco. Atti del convegno di Lecce (23-26 ottobre 2000), Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 199-226. 41 Il Barocco, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 56.

110

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Il canzoniere disperso di Ottavio Rinuccini

do Amore” esibito nell’incipit del sonetto proemiale suona come una rivendicazione di un Fiorentino che si mantenne culturalmente e geograficamente estraneo ai fermenti più sfrenati del Seicento. L’aspetto strutturale merita ancora un’ultima benché non marginale considerazione: le vicende personali che conducono Rinuccini a comporre molti testi sacri nell’ultima parte della propria vita fanno sì che nella Giuntina si realizzi quel programma ideato circa trent’anni prima ed esplicitato nel sonetto proemiale: la redenzione dopo un percorso segnato da amori ed errori terreni si compie negli ultimi 34 testi della princeps (202-235), nei quali attorno ai madrigali XIX e XX (230 e 231) si sviluppa un organismo mai come prima unitario e coerente. È il colpo di coda di un canzoniere disperso ma mai completamente rinnegato.

NOTA AL TESTO: Sono qui trascritti con criteri modernizzanti i 20 testi del canzoniere. Per quelli che figurano nella Giuntina 42 si adotta il testo critico, per gli altri vale l’ultima volontà dell’autore e pertanto si accolgono a testo le varianti del cod. Palatino 249.

42

Sono contraddistinti dalla sigla G seguita da un numero romano.

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Danilo Boggini I

Quanto in rime cantai, dettando Amore, che nel cor giovenil gran tempo accolsi, allor che gli occhi e più la mente volsi a quella cui donar mi piacque il core,

4

scrissi, né già per acquistarmi onore, cercato in van da chi cantando duolsi; ma scoprendo ‘l mi’ error mill’altri volsi trar con l’esempio mio d’inganno fuore.

8

E forse fia che ‘l cieco e van desio, queste Rime leggendo, alma gentile, spento, in foco più bel s’infiammi e incenda,

11

e quanto ‘l Mondo ha in sé posto in oblio, disdegnando beltà terrena e vile, altro a cantar più degn’oggetto prenda.

14

Pal 249 1r; G III II

Arsi e ben fu l’incendio aspro e letale, ma pur da voi sperando un giorno aita, spirto di speme ancor reggeami in vita spirando al morto core aura vitale.

4

Con quest’armi schivar l’acerbo strale potei di morte un tempo, or è fornita ogni mia speme e là fuggendo gita l’anima stanca onde tornar non vale.

8

Ahi quanto mal si segue un bel sereno d’un gentil viso, e come in un momento certissima speranza altrui vien meno.

11

Avventuroso amante assai contento viver credetti, et or dentr’al mio seno di morte omai vicina i colpi sento.

14

Pal 249 1v; G LXXXVII III

Questa che con dolcissima favella par che dolce aura di pietate spiri e gli occhi volge in sì soavi giri tutta benigna in questa parte e in quella,

4

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Il canzoniere disperso di Ottavio Rinuccini

altrettanto è crudel quant’ella è bella. Fuggite amanti, oimè, nessun la miri, ell’è sì vaga degli altrui martiri che sdegno e feritade onore appella.

8

Ben conosc’or gli insidïosi inganni ov’io fui colto e discoprirgli a voi sarà vendetta in parte de’ miei danni.

11

Godi pur del mio strazio infin che puoi, perfida, non fia più ch’alcuno inganni; omai son noti gli empi lacci tuoi.

14

Pal 249 2r; G LXXXVIII IV

Fia mai che in più soavi e dolci giri volga ver me de’ suoi begl’occhi il sole madonna, e al suon di mie triste parole vestir il volto di pietà si miri?

4

Fia mai che questi miei lunghi martiri d’alcun breve conforto ella console, o pur come tem’io, come ella sole, fia mai sempre contraria a’ bei desiri?

8

Lasso, speme non ho che mi conforte; crescono ognora in lei gli sdegni e l’ire quant’in me cresce ognor doglia e tormento.

11

Quest’un ne’ miei dolor conforto sento, ch’io so che ‘l mio martir, che la mia morte farà pago e contento il suo desire.

14

Pal 249 2v V

La Donna mia, quasi novella Dea, là ‘ve tra vaghe Donne in bel soggiorno si traea carolando un lieto giorno, i dolci passi suoi ver me movea.

4

Sovr’ogn’uso mortale in guisa ardea un divin raggio in quel bel viso adorno, ch’abbagliati i miei spirti abbandonorno il cor, che più soffrirlo non potea.

8

113

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Danilo Boggini

Restai senz’alma, e nell’afflitto core parvemi voce udir: – Troppo ti fidi, fuggi meschin, t’anciderà costei! –

11

Pien di spavento allor, pien di timore, volsi il timido piede e non m’avvidi che dolce era ‘l morir davanti a lei.

14

Pal 249 3r; G IV VI

L’alma e ‘l cor per dolor si strugge, e sface gli occhi, che lagrimare altro non sanno, Signor mio caro; ond’io tanto m’affanno che più non spero omai di trovar pace.

4

Stanca è la Musa e la mia cetra tace, che fea men grave già mio duro affanno; or sol mesti sospiri errando vanno intorno a chi d’accorgli, oimè, non piace.

8

Come dunque potrò, mentre cotanto aspro e grave dolor m’ingombra il core, aprir le labbra a dolce canto intese?

11

Spiegate il dolce stil voi, cui cortese il ciel si mostra e sì benigno Amore. Me nato a lagrimar lasciate in pianto.

14

Pal 249 3v; G CIII VII

Tra le più care gemme e prezïose, quasi nova di lei gemma e tesoro, quella ch’io solo al mondo amo et onoro felice prigioniero un dì m’ascose.

4

In sì ricca prigione ella mi pose per dar a’ miei martir largo ristoro; ivi io mi spazio e tra le gemme e l’oro crescon l’ardenti mie voglie amorose,

8

che mentre or perle or bei rubini ammiro or lucidi diamanti e ‘n lor vagheggio le bellezze di lei divine e sante,

11

sì il desio cresce ch[e] talor m’adiro meco medesmo e quindi uscir pur chieggio, ingordo troppo e frettoloso amante.

14

Pal 249 4r

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Il canzoniere disperso di Ottavio Rinuccini VIII

Tu che le sue querele e’ giusti preghi da lui fuggendo udir mai non volesti e per odio di lui pianta ti festi, empio lauro e crudel, tu ‘l mio sol preghi.

4

Credi ch’al falso lagrimar si pieghi, folle, se ‘l suo verace in odio avesti? Bene è ragion, s’al vero amor non desti aita, ch’al tuo finto anco si nieghi.

8

Or fuggendo or pregando il mio bel sole così schermisci; forse a nuovo pianto con tue lusinghe ricondurlo tenti?

11

Ah cessa omai, ch’eternamente spenti già per te veggio i santi raggi, e tanto Celeste Nume già soffrir non suole.

14

Pal 249 4v IX

Bella fanciulla, il tuo gentil sembiante lieta ver me rivolta, e di novello Amante odi i sospiri e le parole ascolta. I semplicetti tuoi trastulli e’ vezzi temp’è che lasci e sprezzi; volgi la mente e ‘l core a’ bei pensier dove t’invita Amore, e ‘l mio cocente ardore, l’aspre mie pene amare, i dolci modi di sanare apprendi: e dritto è ben ch’impare a smorzar quegli incendi, a saldar quelle piaghe ch’opra son di tue luci e belle e vaghe. Spiran fiamme i tuoi lumi, e se no’l sai n’avvampo e già son morto, se da’ tuoi dolci rai non viene al grave ardor qualche conforto. Or porgi dunque alla mia stanca vita – sì vuole Amore – aita; tu raccogli i sospiri benigna, e queta le pene e i martiri.

7

15

22

115

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Danilo Boggini

Oimè perché t’adiri, perché di sdegno pieno alle parole mie dimostri il viso? Torna lieto e sereno il guardo, muovi un riso; ah non voler, crudele, che ‘l lume de’ begli occhi ira mi cele. Forse credi ch’io finga, e forse credi ch’Amor sia burla e gioco semplice, e non t’avvedi com’io son tutto fiamma e tutto foco; né sai che quando muovi i dolci sguardi escon dagli occhi dardi, o s’avvien che tu rida come ridendo mille cori ancida. Temi tu ch’io derida tuo basso stato umile perché di gemme il sen non t’orni o ‘l crino? Ho perle ed ostro a vile, tua beltà sola inchino, che semplicetta e pura fregio d’altronde non ricerca o cura. Altra con arte il sen pinga e colori, e di gigli e di rose il crin s’adorni e infiori, altra di ricche gemme prezïose sen vada pur pomposamente altera; tua beltà pura e vera, vezzosa fanciulletta, non pon far gemme od arte più perfetta. Va’ pur vile e negletta, che ‘l più terso e fin oro avanzano i tuoi biondi incolti crini, né più ricco tesoro di perle e di rubini estranio Mar ricopre di quel che di tua bocca un riso scopre.

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37

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In rete d’oro il crin trecciato e ‘nvolto porti chi non l’ha biondo, ondeggi all’aura sciolto il tuo, cui mai simil fia né secondo, né mentito color falso o fallace

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Il canzoniere disperso di Ottavio Rinuccini

m’asconda il tuo verace; vista più bella e vaga d’altro color mio veder non appaga. Pur se talor sei vaga mostrar più acute e forti l’armi di tua beltà, le braccia nude come ne’ tuoi diporti lascia, e ‘l vel che rinchiude il sen manco ne chiuda, ch’allor più adorna sei quanto più nuda. Sol può render maggior la tua beltate pietà, che dal bel petto orgoglio e crudeltate rimuova e scaldi d’amoroso affetto. Sovr’ogn’uso mortal son grazïosi gli occhi tuoi se pietosi, ben vaghi ancor nell’ira, ma via più se pietà gli informa e gira. Alza gli occhi e deh mira quanto è men vago il Cielo or che le torri e i monti irato offende, or che da fosco velo celato il Sol non splende. Così men chiaro suole splender nell’ira de’ tuoi lumi il Sole. Lassa dunque i superbi sdegni e l’ire, né più turbi il bel volto qualor pien di desire cupidamente il guardo in te rivolto, ma di dolcezza colmi e sfavillanti i tuo’ begli occhi santi con vago e lieto giro facciansi incontr’a miei quand’io ti miro. Talor qualche sospiro o di pianto una stilla mandi, segno d’Amor, l’anima accesa d’amorosa favilla, già d’Amor vinta e presa; pietà non più si nieghi a’ miei caldi sospiri e’ giusti preghi.

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75

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Canzon, muovi veloce e trova quella che non sa d’esser bella

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Danilo Boggini

e pur m’ha morto con un guardo solo. Tu falle aperta fede quanto sia grave il duolo che dalle piaghe viene, ch’aperte han le sue luci alme e serene.

112

Pal 249 5r [Cp1]; G XV X

Di non vero dolor vero contento, geloso amante, immaginando aspergo, e sì ne’ tristi miei pensier m’immergo che nelle gioie mie provo tormento.

4

Di non avuta piaga il dolor sento, certissimo piacer fugo e dispergo, e d’un sì rio timor son fatto albergo ch’al falso più ch’al ver sempre acconsento.

8

Vere le gioie mie, veri i diletti, vero provo il piacer, ma doglia e guai ha sempre il cor di tema ingombro e pieno.

11

Mostro crudel che di veleno infetti i dolci miei, senza ‘l tuo tosco mai avrò frutto d’amor soave a pieno?

14

Pal 249 7v; G CXVIII XI

Delle bellezze sue rapine e prede scorge la Donna mia da gli anni farsi, e’ capei d’oro fin d’argento sparsi, e le rose cader di sen si vede.

4

Pur l’usato rigor nel cor le siede e ‘l duro gelo ond’ella suole armarsi, né men son gli occhi del bel lume scarsi; misero amante, e quando avrò mercede?

8

Lasso, ch’io mi credea che se beltate mancasse in lei seco venisser meno o la mia fiamma o pur sua crudeltate!

11

Contrari effetti veggio: ard’io non meno, anzi ognor più m’infiammo e più gelate fansi le voglie entro quel duro seno.

14

Pal 249 8r; G CIV

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Il canzoniere disperso di Ottavio Rinuccini XII

Due guerriere d’Amor segno il mio petto s’han fatto a’ colpi loro e ‘n guisa tale or l’una or l’altra il cor punge et assale, che morte sempre ad ogni strale aspetto.

4

Un girar de’ begl’occhi, un riso, un detto nel cor mi scende e fa piaga mortale, né di schermir né di schivar mi cale i colpi lor, tal n’ho gioia e diletto.

8

O miracol d’amor, di doppia piaga trafitto sono, e di mortal ferita languendo il cor ne’ suoi dolor s’appaga,

11

né scampo trovo ond’io rimanga in vita, ch’egualmente dell’una e l’altra vaga l’alma dubbiosa non domanda aita.

14

Pal 249 8v XIII

Io vo pensando s’agl’aspri martiri sotto ‘l cui pondo giace oppresso il core amaro o dolce fin destini Amore, se vuol ch’io mora o pur vuol ch’io respiri.

4

Vari son de’ be’ lumi i moti e’ giri da cui dependon di mia vita l’ore, onde in un dolce e volontario errore vivo, né so dove il destin mi tiri.

8

Talor meco medesmo il duol sofferto vo misurando co’ presenti mali e de’ futuri danni ho doglia interna.

11

Deh chi l’arte m’insegna ond’io discerna in quelle vive mie stelle fatali della mia dubbia vita il fine incerto?

14

Pal 249 9r XIV

– De’ miei più cari e valorosi Figli vedermi il grembo ognor di sangue tinto, or questo or quel cadermi in braccio estinto, gli altri mirar tra rischi e tra perigli;

4

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Danilo Boggini

aver d’un Mostro rio nel cor gli artigli, con l’empio dente a divorarmi accinto, veder l’antico onor battuto e vinto de’ tanto chiari e glorïosi Gigli,

8

sì mi trafigge ‘l cor; ma perder voi, luce degli occhi miei conforto e speme, son di dolore insopportabil some. –

11

Così Francia dicea ne’ pianti suoi e chiamar mille volte udissi insieme, serenissima Donna, il vostro nome.

14

Pal 249 9v; G XVII XV

Chi più d’esser mortal fia che si sdegni se fra pompe di scettri e di corone morte vibra la spada e ‘n terra pone quei che già dominar cittadi e regni?

4

O de’ pensieri, o de gl’uman disegni trïonfatrice morte, in van s’oppone al tuo fermo voler forza e ragione, e ben con fero esempio oggi l’insegni.

8

D’armati cavalier tra schiera e schiera ten vai secura e di regali spoglie carca ritorni vincitrice altera.

11

Che più dunque per noi quaggiù si spera, anime pellegrine? Il ciel n’invoglie, e men temian di lei quant’è più fera.

14

Pal 249 10r XVI

Armasti, è ver, pien d’ira e di valore, magnanimo Leone, e l’unghia e ‘l dente contra quel che venìa, fero serpente, a farne schiavi, ad infettarne il core,

4

e ben per te di mortal rischio fore ringrazia il Cielo il giusto e l’innocente. Ma quel furor, quella giust’ira ardente qual pietate or raffrena e qual amore!

8

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Il canzoniere disperso di Ottavio Rinuccini

Fuor d’ogni tema omai, d’ogni periglio viva ‘l pio, viva il giusto; e l’empio e ‘l fello estinto cada o pur si prenda esiglio.

11

Più non è padre tuo, non tuo fratello, non è tua carne più, non è tuo figlio chi del suo redentor vive ribello.

14

Pal 249 10v XVII

Poscia che rimirar l’alta beltade onde viver solea m’ha tolto il fato, vivo piangendo, e con la morte a lato vo per le più deserte inculte strade.

4

Un lagrimoso umor da gli occhi cade di chi m’incontra, o dolce Sole amato, forse ancor voi del mio doglioso stato vi sentirest’al cor qualche pietade.

8

Ma in altra parte i dì lieti e contenti traete voi, mentr’io di pace in bando tregua non ho già mai co’ miei tormenti.

11

Lasso ch’io piango, e voi con dolci accenti, obliato il mio mal, lieta cantando empiete di dolcezza l’aere e i venti.

14

Pal 249 11r; G CV XVIII

Gl’interni del mio cor secreti affetti, le speranze, i timor, le voglie accese da me sovente la mia donna intese e mostrò di pietà non bassi affetti.

4

Ma poi che scior la lingua e formar detti soverchio amor negommi e mi contese, della mia pura fè sospetto prese e fur le pene e fur gl’ardor negletti.

8

Perch’io taccio il mio male ella no ‘l crede, folle, ch’alle lusinghe, alle parole viè più ch’agl’occhi e più ch’al cor dà fede.

11

Sciogli, pietoso Amor, poi ch’ella il chiede, la lingua, e senta ancor com’ella suole tra’ pianti e tra’ sospir chieder mercede.

14

Pal 249 11v

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Danilo Boggini XIX

O miei giorni fugaci, o breve vita, oimè già sei partita. Già sento, o sentir parmi, la rigorosa Tromba davanti a te, giusto Signor, chiamarmi, già nel cor mi rimbomba il formidabil suono. Miserere di me, Signor perdono.

5

Pal 249 12r [Cp1]; G CCXXX XX

Di mille colpe grave s’agghiaccia ‘l core e gela, sì la sentenza irrevocabil pave. Deh chi m’asconde e cela fin che del mio Signore passi l’ira e ‘l furore? L’Inferno fia per me gradito loco, tra fiamme e foco, pur ch’io speri poi quindi salir al Ciel fra’ servi tuoi.

5

Pal 249 12r [Cp1]; G CCXXXI

122

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Fulvio Pevere “MIRTI AMOROSI” ED “ETERNI LAURI”: FORME DEL PETRARCHISMO NELLA POESIA DI FULVIO TESTI

Nella lettera inviata il 3 maggio 1641 da Castelnuovo di Garfagnana al duca di Modena, che gli aveva chiesto consigli circa gli studi da far compiere al figlio, Fulvio Testi, giunto ormai verso il termine della sua vicenda letteraria e terrena, giudica la poesia come attività non adatta a un principe, in quanto “professione oziosa, di molto gusto, ma di poco profitto, da lodar in altri più che da desiderar in sé: difficilissima da praticarsi, perché in tutte l’altre arti s’ammette la mediocrità, in questa totalmente s’esclude, essendo degno di riso e di fischiate quel poeta che nel suo genere non arriva all’eccellenza”, per raggiungere la quale “bisogna consumare tutta intiera l’età d’un uomo in rivolgere i libri de’Greci e de’Latini, e spesse volte non basta”1. Egli dunque, come già in più occasioni aveva fatto, colloca la propria opera in un rapporto d’imitazione, diretta ed esclusiva, con la lirica classica, ma l’austera compostezza delle odi d’ispirazione pindarica e chiabreresca della maturità non è in realtà che la tappa conclusiva di un lungo apprendistato iniziato tra le suggestioni di un petrarchismo di maniera e non insensibile ai modi della nuova poesia mariniana. Le raccolte poetiche del ‘13 e del ‘17, che Testi, dopo la pubblicazione delle Poesie liriche del 1627, dichiarerà, in varie circostanze, di non voler più considerare come proprie (scrive ad esempio in una lettera del 30 settembre 1644 diretta al conte Raimondo Montecuccoli in occasione della stampa della seconda parte delle Poesie liriche: “Io non vorrei che il signor Marchese

1

F. Testi, Lettere, a cura di M. L. Doglio, vol. III, Bari, Laterza, 1967, p. 215 (lett.

1459).

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Fulvio Pevere

avesse veduto altro del mio che le canzoni, perché i sonetti, i madrigali e gli altri così fatti componimenti già mi son dichiarato di gittarli come aborti e sconciature di non matura gravidanza d’intelletto. Son cose giovanili, e fo solamente capitale delle prefate canzoni, non per la loro qualità, ma per l’imitazione de’Greci e de’Latini, che se ben la copia fosse cattiva l’originale però sarà sempre buono”2; e parole simili si ritrovano nella prefazione A chi legge dell’opera stessa3), sono perciò di estrema importanza per analizzare quell’irrequietezza sperimentale che Giovanni Getto individua come uno dei caratteri fondamentali della lirica testiana, osservando come, in controluce, essa riveli un sostrato poetico ben più profondo ed eterogeneo di quello indicato dall’autore4. Nei versi giovanili egli mostra la volontà di cimentarsi in componimenti di diverso genere e argomento, nei quali spesso, sulla scorta di Marino (l’influenza della cui maniera poetica è testimoniata non solo dai sonetti in lode di Marino stesso, di Preti e Achillini, che, seppur di circostanza, denunciano comunque una certa predilezione letteraria, ma anche dalla polemica nata col poeta napoletano a proposito di presunti, reciproci plagi5), manifesta sì un 2

Ivi, p. 488 (lett. 1833). Cfr. Fulvio Testi, Delle poesie liriche […] parte seconda, Modena, Giulian Cassiani, 1645, pp. 8-9: “Diversi stampatori hanno in diverse città ristampate le mie prime canzoni, anzi accresciutele d’altri componimenti, parte de’quali son veramente miei, parte non sono, né mai furno, miei, e parte, se ben son miei, furono però o inconsideratamente fatti nell’età puerile, senza studio e per impeto mero di natura, o precipitati dalla penna negli anni più maturi senz’applicazione, e più per servir ad altri che per compiacer a me medesimo. Confesso l’obbligo che devo loro e ne li ringrazio di buon cuore, ma li prego insieme che, volendo pur onorar di nuovo i parti del mio ingegno, qualunque si siano, si contentino di lasciar fuori tutti i sonetti, tutti i madrigali, in una parola tutte l’altre cose, salvo la prima e questa seconda parte delle canzoni. Approvo solamente queste per mie composizioni, rinunzio a tutte l’altre e protesto che non sono, e non intendo che sian, mie”. 4 Cfr. G. Getto, Irrequietezza di Fulvio Testi, in Id., Il Barocco letterario in Italia. Barocco in prosa e in poesia. La polemica sul Barocco, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 123-151. Il saggio era stato pubblicato per la prima volta, col titolo Fulvio Testi, in Letteratura Italiana: i Minori, vol. II, Milano, Marzorati, 1961, pp. 1641-1677 e quindi, col titolo attuale, in Id., Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969. L’estrema sensibilità di Testi alle più diverse suggestioni poetiche appare evidente sin dal sonetto proemiale delle Rime del 1617, Non perché dopo morte io viva, un’excusatio per la sua incapacità, a causa del tormento cagionato da Amore, di scrivere versi armoniosi e perfetti, e quindi degni di memoria, che ricalca abbastanza fedelmente, con alcune corrispondenze letterali, un analogo sonetto di Antonio Tebaldeo, Non feci verso mai per aver fama (cfr. A. Tebaldeo, Rime, a cura di T. Basile e J.J. Marchand, vol. II, t. 1°, Modena, Panini, 1989, p. 208, son. 79). 5 La vicenda (sulla quale cfr. anche D. Chiodo, L’idillio barocco e altre bagatelle, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. 114 e 120) è sufficientemente nota, ma vale forse la pena di riassumerne i termini essenziali. Nella lettera prefatoria alla terza parte della Lira, composta a nome di Onorato Claretti, Marino, probabilmente piccato per l’affer3

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certo gusto per l’arguzia, per l’immagine inconsueta, capace di suscitare la meraviglia del lettore, ma senza quell’oltranza metaforica, quel desiderio della novità ad ogni costo, ai limiti della bizzarria, che anima alcuni dei seguaci del marinismo, convinti, a differenza di Testi, dell’assoluta superiorità della poesia moderna su quella del passato, considerata al più come un mero repertorio di luoghi topici, quando non semplicemente di preziosi e raffinati motivi ornamentali, che ciascuno è libero di usare, a patto di essere in grado di amplificarli e arricchirli ingegnosamente. Testi, quindi, pur riecheggiando abbastanza esplicitamente Marino in alcuni componimenti6, nell’imitazione del suo modello (che pure, soprattutto nella sezione delle rime amorose della Lira, si era mostrato assai prudente, quasi ai limiti del conservatorismo, nell’elaborazione dell’apparato metaforico, che, come osserva Amedeo Quondam, “non si scosta dai livelli più diffusi dell’esercizio petrarchistico”7, per concentrarsi piuttosto sulle figure dell’anmazione di Testi, contenuta nella premessa all’edizione delle Rime del 1613, di essersi deciso a dare alle stampe le sue poesie prima che venissero, com’era successo in altre circostanze, “da certi pietosi spiriti per proprie figlie accarezzate e raccolte” (F. Testi, Rime, Venezia, Ciotti, 1613, c. 4r n.n.), accusò, pur senza nominarlo, il poeta ferrarese di aver plagiato la sua Lidia abbandonata nelle ottave del Lidio dolente. Testi replicò per mezzo di Alessandro Castelvetri, che nell’avvertenza A chi legge delle Rime del 1617 (nelle quali peraltro fu soppresso il componimento incriminato, anche se il suo contenuto venne riversato nell’idillio Lettera d’Eurilla a Lidio) si scagliava contro i “Satrapi di Parnaso” che lo avevano criticato, poiché “ ‘l mancamento ch’essi gli rinfacciano è proprio della natura loro, che rabbellandosi de’panni altrui e rubando ora a questo, or a quell’altro i concetti, si son guadagnati il titolo d’…, come quelli ch’all’altrui poesie cavano gli spiriti” (F. Testi, Rime, Modena, Giulian Cassani, 1617, p. 14). Il prefatore quindi, appellandosi, per respingere definitivamente ogni sospetto di plagio, ad una predilezione esclusiva di Testi per la lirica classica, in realtà difficilmente individuabile nella raccolta, negava che egli avesse mai rubato “concetti a’ poeti toscani, e particularmente moderni”, mentre “ha ancor egli vedute l’opere de’poeti greci e latini, e conosce le cose degne d’esser imitate, ma non fa d’ogn’erba un fascio” (ivi, pp. 14-15). La polemica si trascinò fino al 1620, quando Marino, nella celebre lettera indirizzata a Claudio Achillini premessa alla Sampogna, attaccò ancora esplicitamente Testi parlando di “certi giovinotti” che “per aver dato fuora un quinternuzzo di sonettini et di madrialetti quasi tutti scroccati dalle mie cose, mi fanno il concorrente addosso” (G. B. Marino, La sampogna, a cura di V. De Maldé, Parma, Fondazione Pietro Bembo / Guanda, 1993, pp. 40-41). 6 Oltre le ottave del Lidio dolente, comprese nell’edizione del 1613, che furono una delle cause della polemica tra i due poeti, denunciano un’ascendenza mariniana abbastanza palese, ad esempio, la canzone Labbri, che si rifà a quella, celebre, dei baci, e i sonetti Paragone d’uno stato amoroso con la zolfatara di Pozzuolo, Al sonno e Al pensiero, di cui si parlerà più diffusamente in seguito. 7 A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del manierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 165. Il sostanziale conservatorismo delle rime d’argomento

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titesi e sull’affinamento di una complessa e raffinata partitura fonica) predilige i temi e le forme che non segnino in maniera troppo evidente il distacco dalla tradizione poetica precedente, tanto che la sua produzione lirica (e in particolare i versi della maturità) presenta significative affinità, sul piano stilistico e tematico (ad esempio nello stretto legame tra materia amorosa e morale), con quella di un poeta come Girolamo Preti, ascritto da Franco Croce all’area del barocco moderato8. La raccolta del 1617, che fu la prima, dopo quella piratesca del ‘13, ad essere effettivamente autorizzata dall’autore, pur non mostrando al suo interno alcuna soluzione di continuità, raggruppa le poesie, anche se non in modo assolutamente rigoroso, per sezioni tematiche, secondo una suddivisione ormai canonica, ed amplia quindi, com’era divenuto consuetudine, il repertorio degli argomenti al di là della classica tipologia erotico-morale. Il volume si apre così con una serie di rime amorose, che ne occupano circa un terzo; seguono quelle encomiastiche e d’occasione, quelle funebri, quelle sacre, una sezione di “proposte e risposte” e, sull’esempio di Marino che contamina la partizione tematica con quella metrica, una di versi sciolti. Nella sezione iniziale dell’opera Testi pare voler mantenere una traccia dell’andamento narrativo tipico dei canzonieri petrarchisti che, peraltro, nel corso del tempo si è fatto via via sempre meno marcato e individuabile. Egli tenta di delineare una vicenda amorosa che si dipana attraverso i momenti topici dell’innamoramento (provocato, secondo consuetudine, dallo sguardo della donna ove si annida Amore: “Era per me vostra beltà fatale, / donna, s’ascoso in quel bel volto altero / doveva al primo incontro il nudo arciero / dal vostro ciglio in me scoccar lo strale”9), del manifestarsi degli effetti della passione, del dolore prodotto dalla crudeltà e dall’indifferenza della donna, ma non si tratta, evidentemente, che di un omaggio pressoché obbligato a quella che è avvertita ormai come una mera convenzione letteraria, priva di un’intima giustificazione. E, a dimostrazione di ciò, lo svolgimento del canzoniere, tra uno snodo obbligato e l’altro, perde ben presto ogni linearità (al

amoroso della Lira è messo in luce anche da O. Besomi, Ricerche intorno alla “Lira” di G. B. Marino, Padova, Antenore, 1969, pp. 54-56 e 234-239. 8 Cfr. F. Croce, Il marinismo conservatore del Preti e del Bruni, in Id., Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966. Sui rapporti tra la produzione poetica giovanile di Testi e la lirica mariniana e concettista si sofferma M. Castagnetti, Fulvio Testi e il suo classicismo barocco, in “Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo”, s. IV, XXXVIII (1967-1968), p. II, pp. 33-86, in particolare alle pp. 46-52. 9 F. Testi, Rime, cit., p. 59.

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di là di alcune sequenze omogenee basate su temi ampiamente autorizzati dalla tradizione, come la serie di quattro componimenti dedicati alla partenza del poeta per Roma e alla sofferenza che egli prova per la lontananza dalla sua donna), si fa policentrico, digressivo, così come si moltiplicano le figure dell’amata, che assume di volta in volta i nomi di Cinzia (di properziana memoria), Vittoria, Clelia. Nella descrizione di queste figure, non di rado effigiate sullo sfondo di idillici paesaggi campestri, solcati da ruscelli cristallini, si ritrovano tutti gli attributi classici della bellezza muliebre più cari al gusto petrarchista, dalle chiome dorate, spesso mosse dal vento, che si trasformano immancabilmente in catene per gli innamorati, agli occhi, “luci amorose” splendenti al pari del sole e delle stelle, dalla carnagione che ha il colore dei gigli e delle rose, alle labbra e ai denti, simili a rubini e a perle; ma, in modo non diverso da quanto avviene nella poesia marinista, queste immagini consacrate perdono la loro astrattezza e genericità, per condensarsi in raffigurazioni più corpose e sensibili, non di rado animate da una sia pur fredda vena di sensualità. Può valere come esempio il sonetto Bella donna che bevvé in una fonte, dove l’insistenza su particolari realistici come il sudore che imperla il volto della donna e l’innesto sul linguaggio aulico dalla tradizione di vocaboli dotati di maggior concretezza e precisione denotativa (come il sostantivo “faccia”) donano alla Cinzia qui evocata una corporeità che la rende assai diversa dalle diafane figure femminili di tanti canzonieri petrarchisti10, mentre topoi ormai consunti come quelli delle labbra e dei capelli ritrovano vitalità nell’arguzia finale: “Su ‘l meriggio più caldo e più cocente / stanca Cinzia, il mio ben, di sete ardea, / e con la bella man china chiedea / refrigerio soave al rio corrente. / Sparso intanto e negletto il crin lucente / su la faccia bellissima piovea, / e de l’interno ardor fede facea / raccolto in perle il bel sudor cadente. / Sotto il leggiadro piè fiorian le sponde, / sotto la bella man surgean fra loro / emule invidiose a gara l’onde. / Il rio, mirando in sé l’alto tesoro / de’labbri ardenti e de le chiome bionde, / s’arricchia di coralli e rene d’oro”11. Il desiderio di una più forte consistenza figurativa (che, ovviamente, non implica alcuna autentica apertura verso la realtà, in quanto si inscrive pur

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Non è forse superfluo osservare come G. Getto, Lirici marinisti, in Id., Il Barocco letterario in Italia, cit., pp. 40-90 (e cfr. in particolare le pp. 40-46), individui proprio nel tentativo di dare una maggior concretezza alla descrizione delle figure femminili, rispetto alle stilizzate immagini della lirica petrarchista, uno dei tratti caratteristici della poesia barocca. 11 F. Testi, Rime, cit., p. 22.

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sempre all’interno delle norme di un codice poetico rigidamente formalizzato), porta talvolta Testi ad accostarsi a quei nuovi modelli di rappresentazione della donna tanto cari agli autori del tempo, che, sottraendosi al rispetto della topica petrarchista, traggono dalla bellezza, colta nei più svariati aspetti (o anche nella sua assenza o nel suo sfiorire), dal nome, dall’abbigliamento, dall’agire altrettanti, innumerevoli e continuamente variati motivi di poesia. Questa predicazione multipla della figura muliebre, dà così vita in Testi a una galleria di belle donne che giocano a dadi, oppure si tingono i capelli di biondo per ingannare l’amante (quasi un ironico contrappunto al topos della chioma dorata che diviene catena d’amore), sul quale, anche se ormai incanutite, non cessano di esercitare la loro signoria (ed ancora una volta ritorna, variata, la consueta immagine dei capelli come laccio amoroso: “E ben d’argento il laccio d’or si tinge, / ma non perde però gli usati onori, né per mutar color men lega o stringe”12). Né mancano belle vedove, belle cantatrici, oppure conturbanti giovani provenienti da luoghi lontani e misteriosi, come una Bella donna indiana cognominata Aprilia. Il repertorio delle immagini relative all’amore e ai suoi effetti non pare discostarsi sensibilmente, invece, da quello della tradizione. La fiamma accesa dalla passione, che arde lo spasimante, può essere causa di “morte dolce”13, oppure, non appagata, produrre pianti e sospiri, mentre la donna amata spesso si mostra dura e crudele, del tutto incurante delle pene che, con la sua insensibilità, può provocare (come quelle espresse con enfatica climax nel madrigale Donna che ride mentre l’amante le parla: “I’ardo, i’spasmo, i’moro, / crudelissima donna, e voi ridete / che la mia morte siete?”14). E se in alcuni componimenti il poeta sembra volersi spingere verso più insoliti approdi figurativi, non per questo trascura però di cercare una legittimazione in modelli ben riconoscibili e consolidati, come nel caso del sonetto Paragone d’uno stato amoroso con la zolfatara di Pozzuolo: “Orrida valle in cui zolfuree vene / mandano ognora al ciel faville ardenti, / ove con onde torbide e cocenti / bollono stagni infra combuste arene: / quanto più de le pure aure 12

Ivi, p. 39. Ivi, p. 19. Il tradizionale contrasto vita-morte, in cui il secondo termine, in quanto frutto della passione, assume valenza positiva, compare sin dal sonetto che apre la raccolta, Innamoramento: “Quando gli occhi fisando in quel bel volto / che per ritrarre il cielo Amor compose, / fra caldi gigli e animate rose / vidi del sole un più bel sol raccolto, / stupido il core a tal beltà rivolto, / desioso spiegò l’ali amorose / e, trovando anco in cielo insidie ascose, / fra lacci beatissimi fu colto. / Così senz’alma e senza core stai, / né mi dispiacque il rimanere anciso / dove prima trovar vita sperai; / che morte i’ non potea da più bel viso / aver più cara e più felice mai, / poic’ho perduta l’alma in paradiso” (ivi, p. 18). 14 Ivi, p. 74. 13

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serene / care le tue mi sono ombre dolenti, / poiché parmi vedere i miei tormenti tutti quivi raccolti e le mie pene. / Quello in oscuri e nubilosi giri / fumo, che dal tuo seno esala fuore, / il fumo appunto par de’ miei sospiri. / Quel ch’arde e non consuma eterno ardore / vero ritratto è pur de’miei martiri, / poich’arde e mai non si consuma il core”15. Il paesaggio descritto nella poesia è lo stesso che fa da sfondo al sonetto 72 delle Rime amorose di Marino (che Ai bagni di Pozzuolo dedica anche il seguente), Per la sua donna, quando andò alla solfaia di Pozzuolo, la cui eco si avverte soprattutto nella cupa e quasi visionaria evocazione dei caratteri infernali del luogo, con ricorrenze lessicali assai precise (“Là, dove Stige per sulfurea vena / di fiamme inestinguibili e di fumi / rapidi globi e torbidi volumi / manda a turbar la pura aria serena / e donde van per infeconda arena / con tacito bollor pallidi fiumi, / e fra sanguigne nebbie e ciechi lumi / mirasi l’uscio de l’eterna pena”16). La scelta del tema parrebbe comunque indicare, sull’esempio mariniano, un allontanamento abbastanza deciso dai canoni della lirica amorosa petrarchista, ma va tuttavia rilevato che il paragone della la condizione dell’amante con la solfatara di Pozzuoli non è nuovo, come già osservò Federigo Meninni nel Ritratto del sonetto e della canzone, pubblicato nel 1677, nella tradizione poetica cinquecentesca, dove compare nei primi decenni del secolo nella Gelosia del sole di Girolamo Brittonio17 e, successivamente, nel sonetto Da l’ira di Vulcano arido loco, compreso nella prima parte della Mirtia di Ludovico Paterno, pubblicata a Napoli nel 1564. La ricerca da parte di Testi di effetti originali interessa però soprattutto il campo delle associazioni metaforiche, ove, sia pure in un numero di casi abbastanza ristretto, è evidente il tentativo di elaborare artificiosamente stile15

Ivi, p. 62. G.B. Marino, Rime amorose, a cura di O. Besomi e A. Martini, Modena, Panini, 1987, p. 179 (son. 72, vv. 1-8). Questo motivo godette di una certa persistenza nell’ambito della lirica barocca, come testimoniato, ad esempio, dal sonetto di G. B. Manso Solfataria di Pozzuoli, compreso nelle Poesie nomiche date alle stampe nel 1635. 17 Il sonetto di Brittonio presenta notevoli affinità con quello di Testi, che sicuramente ne trasse ispirazione: “Ognior ch’io miro voi, sulfuree vene, / penso al rio stato ove m’ha giunto amore: / che l’esser vostro i’ stimo lunge e fuore / conforme al viver mio colmo di pene. / Il vento in voi d’occolta parte vene, / in me i sospiri ascenden pur dal core; / caldo è ‘l vostro soffiare, in me calore / è ‘l sospirar, che vento e fiamma tene. / Voi per l’ardor che sotto voi dimora / generate acqua; i’ per lo incendio interno / verso dagli occhi lacrime tuttora. / Sol a me in questo i guai non vi discerno: / che fumo fate, ‘i perché ardendo mora / non fa mai fumo il mio gran foco eterno” (Opera volgare di Girolamo Britonio di Sicignano intitolata Gelosia del sole, Venezia, Sessa, 1531, c. 68v; la prima edizione fu pubblicata a Napoli nel 1519). Per quanto riguarda l’osservazione di Meninni, cfr. Id., Il ritratto del sonetto e della canzone, a cura di C. Carminati, Lecce, Argo, 2002, p. 127. 16

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mi consueti e ormai abusati. Uno degli esempi di questa timida volontà di sperimentazione è il sonetto Manda le rime alla sua donna, interamente giocato sul protratto e più volte variato contrasto metaforico tra il fuoco-passione e l’acqua-pianto: “Ecco devota a te l’anima mia, / a te che sei d’alta bellezza un mare, / queste degli occhi miei lagrime amare / che per te sparse in suo tributo invia; / e quelle fiamme in cui penar solia, / fiamme a lui crude sì, ma però care, / manda il mio core a le tue luci chiare, / perché luce e splendor dato lor sia. / Voi per cui piango et ardo, amati lumi, / fate che lo splendor vostro, che nuoco, / gradisca il pianto e le mie fiamme allumi. / Non ponno altro che ‘n voi ritrovar loco, / ché s’acquetano sol nel mare i fiumi, / e pace ha sol ne la sua sfera il foco”18. Testi adotta, in questa come in molte altre liriche, la consueta struttura binaria fondata sull’accostamento di coppie di termini antitetici 19. Nessuna traccia, ovviamente, rimane, come del resto era già in gran parte della poesia petrarchista, del sofferto dissidio di carattere etico e religioso che essa drammaticamente esprimeva in Petrarca, dissidio che ora si riduce a mero esercizio di virtuosismo stilistico, come quello di cui Testi dà prova nel sonetto Capriccio d’amante, completamente costruito su coppie antinomiche, in un gioco di alternanze che la disposizione chiastica e l’uso della paronomasia rendono ancor più elaborato: “Non vo’ penar senza gioir giamai, / né vo’ gioir senza penar talora; / vo’ sospirar, ma respirar ancora, / bramo i diletti e non ricuso i guai. / Abbia or ridenti or di sdegno i rai, / Alessandro, colei che m’innamora; / non sia pietosa e non sia cruda ognora, / e sia furto e non don ciò ch’impetrai. / Che se per molte glorie illustre e chiara / fosse la donna mia, perde ogni onore, / o sia prodiga troppo, o troppo avara; / ch’insipido è ‘l goder senza dolore, / duro è ‘l languir, e la bellezza è cara / che non sazia né strazia indarno il core”20. Al di là dei rari esempi di questo genere, Testi rimane però ben lontano dagli eccessi di artificiosità dell’elocutio, caratteristici di parte del petrarchismo tardo-cinquecentesco, e in particolare da quell’esasperazione dell’ornatus in verbis coniunctis, che prevede, con la preminenza dell’elemento formale dell’accumulazione, l’articolarsi dei versi in complesse strutture polimembri, che ne costituisce uno dei tratti distintivi, come ha ben mostrato

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F. Testi, Rime, cit., p. 50. L’organizzazione del verso in una struttura bimembre è artificio, di derivazione petrarchista, usato ampiamente nella Lira mariniana, come sottolinea O. Besomi, Ricerche intorno alla “Lira” di G. B. Marino, cit., pp. 25-32. 20 F. Testi, Rime, cit., p. 75. 19

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Quondam21 studiando la lirica napoletana del periodo. Una delle poche concessioni a questo gusto per la manierata ricercatezza stilistica è rappresentata da Donna che ama e non è amata, in cui si ritrova lo schema, abbastanza sfruttato (ad esempio, nel Cinquecento, da Paterno22), del sonetto costruito paratatticamente in cui le quartine e la prima terzina consistono in una lunga elencazione, che si risolve nella terzina finale. Si tratta di un procedimento enumerativo che, com’è noto, ha il suo paradigma nei celebri sonetti V e VI delle Rime bembiane, di cui Testi conserva, com’è ovvio, unicamente l’impianto formale, così da trasformare la descrizione del dolore provocato da un amore non corrisposto in una sorta di catalogo di espressioni e immagini care alla tradizione, ma ormai irrimediabilmente fredde e consunte: “Cacciar con stanco affaticato piede / fera ch’innanzi a me fugge a gran passo, / pregare un tronco e scongiurar un sasso, / e narrar il mio strazio a chi nol crede; / servir con saldo amor, con pura fede / idolo di pietate ignudo e casso, / e non giovare a un cor dolente e lasso / dopo lungo penar chieder mercede; / seguir legata un che sta fuor d’impaccio, / e versando dal cor pianti e sospiri / morir in foco per chi vive in ghiaccio: /Amor, questi con mille altri martiri / frutti son di quel foco e di quel laccio / onde accesi e legati hai miei desiri”23. Il tentativo di cimentarsi nell’imitazione di modelli ampiamente autorizzati e legittimati, a cui viene ovviamente negata, però, ogni esemplarità sul piano spirituale e del comportamento, testimonia, ancora una volta, il carattere di apprendistato poetico delle rime giovanili dell’autore. I testi canonici vengono privati della loro intima unità spirituale, la loro sintassi e il loro lessico sottoposti a un processo di desemantizzazione che ne elimina quelle implicazioni di carattere ideologico e teorico-concettuale di cui la codificazione bembiana li aveva arricchiti, per ridurli a meri depositi di immagini e

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Cfr. A. Quondam, Dall’abstinendum verbis alla “locuzione artificiosa”. Il petrarchismo come sistema della ripetizione, in G. Ferroni-A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del Manierismo, pp. 226-229 e Id., La parola nel labirinto, cit., pp. 171-173. Fondamentali osservazioni sulla tendenza dello stile di Petrarca e della poesia petrarchista a conformarsi in pluralità polimembri sono state formulate da D. Alonso, La poesia del Petrarca e il petrarchismo (mondo estetico della pluralità), in AA.VV., Petrarca e il petrarchismo. Atti del terzo congresso dell’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana, Aix-en-Provence – Marsiglia, 31 marzo-5 aprile 1959, Bologna, Minerva, 1961, pp. 73-120, quindi in Id., Saggio di metodi e limiti stilistici, Bologna, il Mulino, 1965, pp. 305-358. 22 Cfr. A. Quondam, La parola nel labirinto, cit., pp. 65-72. 23 F. Testi, Rime, cit., p. 71.

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concetti24, a materiali grezzi da combinare e assemblare in forme nuove in un contesto assai lontano da quello originale. Ne deriva una tendenza alla sperimentazione e alla contaminazione stilistica che spinge a volte Testi ad accostare ai toni delicati e suadenti, appena inaspriti, a tratti, da una drammaticità di maniera, quelli severi del petrarchismo grave e moraleggiante di ascendenza dellacasiana, i quali, pur trovando più ampio sviluppo nelle sezioni successive della raccolta, non mancano di risuonare neppure nei versi amorosi, come accade nei due sonetti contigui Al signor Antonio Guarini narrandogli come s’innamorò il primo dì dell’anno, che si apre con la cupa immagine del nuovo anno che pare rinascere uscendo da un sepolcro (“Quel dì, Guarin, che da la tomba uscendo / par che l’anno novel rinascer soglia, / come l’augello oriental ch’ardendo / torna sul rogo a risarcir la spoglia, / beltà nata, cred’io, per dar doglia / improvvisa m’apparve, ed io seguendo / quel lusinghier desio, che l’alme invoglia, / venni la prima libertà perdendo”25) e si risolve in un accorato lamento del poeta che non può trovare conforto ai tormenti che lo affliggono, e Al sonno, dove viene ripreso il tema classico, ampiamente sfruttato nel corso del Cinque e del Seicento, dell’invocazione al sonno perché giunga a sopire ogni affanno: “Or che spunta la notte e ‘l mondo ascoso / giace fra densi e taciturni orrori, / a te, sonno gentil, ch’a mesti cori / sumministri quiete e dai riposo, / questa di vin spumante ed odoroso, / sopitor de’pensieri e de’dolori, / piena tazza consacro, e questi fiori / di papavero molle e sonnacchioso. / Tu la bella e crudele onde mi doglio / menami in sogno, e fa ch’almeno apporte / qualche finto soccorso al mio cordoglio; / che se, la tua mercé, mi tocca in sorte / di godere il mio ben, chiamar ti voglio / de la vita fratel, non de la morte”26. Il primo riferimento che questi versi parrebbero evocare è il sonetto LIV di Della Casa, ma in essi traspare con evidenza, anche nell’uso compiaciuto di immagini ricercate e dalla marcata connotazione letteraria (come quella del “papavero molle e sonnacchioso”, che riecheggia ovviamente i “Lethaeo perfusa papavera somno” di Georgiche I, 78, ma discende direttamente da Sannazaro e Imperiali27), un carattere più legge-

24 Questo processo di desemantizzazione e ricodificazione a cui vengono sottoposti la sintassi e il lessico petrarchisti è una delle caratteristiche salienti di certa prassi poetica tardo cinquecentesca, come ha esemplarmente dimostrato A. Quondam, La parola nel labirinto, cit., pp. 5-7. 25 F. Testi, Rime, cit., p. 72. 26 Ivi, p. 73. 27 Cfr. I. Sannazaro, Arcadia, prosa 10, 55: “E in gran copia i sonnacchiosi papaveri con le inchinate teste” e G. V. Imperiali, Lo Stato rustico, IX, vv. 358-359: “È ‘l nero crine innanellato et irto / di sonnacchiosi e pallidi papaveri” (Venezia Evangelista Deuchino,

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ro e mondano, del tutto estraneo al senso di stanchezza e sofferenza che promana dall’accorata invocazione del poeta cinquecentesco. Il componimento, del resto, non stabilisce certo rapporti intertestuali, che peraltro appaiono estremamente generici, col solo testo dellacasiano, ma costituisce anzi un ulteriore esempio di come Testi ami spesso rifarsi a una serie di modelli diversi, intrecciandone le suggestioni in una trama complessa: la situazione dell’apparizione consolatrice dell’amata in sogno, che ricorre già in Petrarca, soprattutto nelle rime in morte di Laura, quando la donna invita però il poeta all’ascesi spirituale, è la stessa, infatti, delle rime 88-90 di Bembo, 27-29 e 454 di Tasso, del sonetto 60 delle Rime amorose di Marino (che al sonno dedica anche i tre sonetti successivi) e anche di quelli 30, 31 e 32 della terza parte della Lira; in particolare vi è un’esplicita allusione alla conclusione del sonetto 60, che viene però ribaltata nel suo disincantato pessimismo, con l’arguta trasformazione del sonno da fratello della morte (secondo l’immagine tradizionale accolta anche da Marino: “E vien col dolce tuo tranquillo oblio, / e col bel volto in ch’io mirar m’appago, / a consolar il vedovo desio. / Che, se ‘n te la sembianza, onde son vago, / non m’è dato goder, godrò pur io / de la morte, che bramo, almen l’imago”28), a fratello della vita. I motivi moraleggianti, come si è già accennato, acquistano maggior rilevanza nelle rime delle sezioni successive, in cui cominciano ad affacciarsi i temi che, in modo ben più intimamente sentito e artisticamente meditato, saranno dominanti nei versi della maturità: la consapevolezza della vanità di ogni grandezza umana (a cui si affianca e si contrappone, però, il desiderio di gloria poetica), il senso della fugacità delle gioie e dei piaceri mondani, l’ingratitudine e l’invidia che regnano nelle corti. Testi inizia qui a sviluppare un altro dei generi prediletti dal petrarchismo tardo-cinquecentesco, quello della poesia civile ed encomiastica, il cui stile alto e sublime vorrebbe rifarsi a quello delle canzoni politiche e civili di Petrarca, a volte esplicitamente richiamate, come nel caso, ad esempio, delle ottave, dedicate al conte Fabio Scotti, sui travagli che deve affrontare chi vive in corte, il cui incipit riecheggia volutamente quello della canzone LIII (“Spirto gentil, che da’ beati chiostri / sceso quaggiù forma mortal prendesti”29). Muta, in queste liriche, anche il modo di raffigurare la donna, che pare perdere ogni concretezza corporea per trasfigurarsi in un’entità eterea e spiri1613); l’immagine sarà poi ripresa anche da Marino ne La sampogna, idillio IV, Europa, v. 118-119: “Il papavero molle / alzò dal grave oblio”. 28 G.B. Marino, Rime amorose, cit., p. 155 (son. 60, vv. 9-14). 29 F. Testi, Rime, cit., p. 99.

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tualizzata, in pura manifestazione del bello ideale e assoluto, immagine dello splendore e della perfezione divina, come nel sonetto in lode della principessa Giulia d’Este: “Se di quella beltà prima, increata, / fosse imagin fra noi, Giulia, i’ direi / che l’avessi nel volto, e i pensier miei / umilmente t’avrian forse adorata. / E certo ascosa è in te forma beata, / poiché mirando altrui l’anime bei, / e se, che nol cred’io, donna pur sei, / fosti per maraviglia in ciel formata. / Son del divino Sol vive fiammelle / tuoi lumi, e s’altri avvien che ‘n lor s’affissi, / trova ch’oscure in ciel sono le stelle. / Immensi son di tua beltà gli abissi, / e ‘n paragon de le sembianze belle / ogni lume e splendor par che s’eclissi”30. Il trascorrere dal sensibile al trascendente non può che tradursi, infine, sulla falsariga di molti canzonieri petrarchisti, nel desiderio di abbandonare l’amore terreno per volgersi a quello divino, secondo l’itinerario, che conduce dal traviamento dei sensi al ravvedimento e all’ascesi mistica, attraverso le tappe obbligate della sofferenza e del rimpianto per i passati errori, esemplarmente descritto nel sonetto Ardor cangiato (vera e propria appendice delle “rime amorose”, che sottolinea il legame indissolubile esistente tra i motivi erotici, che trovano qui il loro epilogo e la loro sublimazione, e quelli sacri e morali), in cui ricorrono numerosi topoi caratteristici di questo tema, come il contrasto tra le due diverse fiamme amorose, la constatazione del carattere ingannevole e transitorio della bellezza umana (la quale altro non è che “fumo ed ombra”, endiadi già presente in Tasso31) confronto a quella celeste, la passata “follia” che ora provoca nel poeta amaro rimorso, non disgiunto dall’immancabile, patetica effusione di sospiri e pianti: “Ardo, Cinzia, e l’ardor ch’entro mi bea / non è, qual pensi tu, fiamma d’amore; / è santo ardor, c’ha ravvivato il core / che ‘l primo foco incenerito avea. / Il mio folle pensier, che non vedea, / scorto da cieco duce, il proprio errore, / trova che fumo ed ombra è lo splendore / ch’a la vista mortal tanto piacea. / Non gir superba, no, se talor miri / lagrimar questi lumi, e non si vanti / tua caduca beltà de’miei sospiri. / Tempo, non nego, fu che fur i tuoi vanti; / ora ch’acceso ho ‘l cor d’altri desiri, / sospiro quei sospir, piango quei pianti”32. Alla tensione verso l’amore mistico si accompagna una risentita riflessione sulla vanità di ogni bene e gioia mondana di fronte alla fuga inarrestabile del tempo e della gioventù; si tratta di un tema ormai fatto proprio dal barocco, che in Testi non manca però di risuonare di accenti che, ancora una

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Ivi, p. 93. T. Tasso, Rime, a cura di B. Basile, Roma, Salerno, 1994 (1326, v. 10). 32 F. Testi, Rime, cit., p. 142. 31

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volta, evocano i due modelli, contrapposti e complementari, di Della Casa e Tasso, come nel sonetto Al pensiero: “Lascia, folle pensier, pensier fallace, / del mondo infido i fuggitivi inganni; / tramonta il bel col tramontar degli anni, / e more e nasce in un l’età fugace. / Ancide quel che più t’alletta e piace: / son le gioie e gli acquisti angosce e danni, / sono i falsi piacer veraci affanni, / che dona e toglie un donator rapace. / Svanisce la beltà, vassene a volo / il fior di gioventù, resta il martiro, / ché, se fugge il gioir, non fugge il duolo. / Breve è del corso tuo la meta e ‘l giro, / il riso breve, il pianto lungo, e solo / da la vita a la morte evvi un sospiro”33. Il motivo del “pensiero fallace” che si piega a seguire le vie del mondo anziché tendere verso quelle del Cielo è indubbiamente petrarchesco (si ricordi, anche per la ricorrenza della medesima espressione, il sonetto CCLXXIII dei Rerum vulgarium fragmenta), ma va osservato come anche in questa circostanza agisca in modo determinante l’influenza di Marino, che al pensiero, nella Lira, intitola cinque sonetti delle Rime amorose (55-59), se non direttamente a livello tematico (le poesie mariniane sono dedicate al vagheggiamento, nel ricordo, dell’amata lontana, suggestione presente, peraltro, anche in Tasso, Rime 21), certamente a livello stilistico e lessicale (basti pensare all’incipit del sonetto 56: “Folle pensier, ch’ador ador ten vai / da me lontano […]”34), mentre la severa meditazione finale sulla fugacità della vita richiama con tutta evidenza la sentenza che conclude il sonetto Tratta delle miserie umane: “Da la cuna a la tomba è un breve passo”35. L’insistenza su una poesia che trae ispirazione dai motivi più profondi e severi della lirica petrarchista, però, lungi dall’essere segno di un consapevole progetto letterario, appare ancora null’altro che frutto di una ricerca poetica assai fluida, animata dal desiderio di fare esperienza di forme e generi offerti dalla tradizione, passata e recente. Perché si verifichi un autentico mutamento di poetica rispetto alle rime giovanili occorrerà quindi attendere l’edizione delle Poesie liriche del 1627, che comprende trentaquattro odi, composte all’incirca nell’arco di un decennio, a cui seguirà, nel 1645, una Parte seconda. Nell’introduzione A chi legge Testi, affermando di aver voluto prendere a modello la lirica classica, analogamente a quanto aveva già fatto Chiabrera, il primo “a correre questo arringo della pindarica imitazione, riportandone applauso sempre grandissimo”, dichiara la sua particolare predilezione per Orazio, il quale aveva emulato Pindaro, attenuandone però le 33

Ivi, p. 145. G.B. Marino, Rime amorose, cit., p. 147 (son. 56, vv. 1-2). 35 Cito da Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, Seicento, Torino, Einaudi, 2001, p. 60. 34

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asprezze e le oscurità stilistiche: “Io […] deliberai di far prova delle mie forze; ma parendomi che lo stare intieramente su la maniera greca potesse partorire oscurità, e sapendo dall’altra parte ch’Orazio era stato un grandissimo emulator di Pindaro, il tolsi per guida, osservando diligentemente le frasi, le sentenze, le digressioni e gli altri lumi ch’egli o prese dal greco o inventò col proprio ingegno”36. L’autore, dunque, allontanandosi sia dai metri e dai motivi marinisti, sia dal modello consolidato della canzone petrarchesca, si propone di dare vita a una poesia gnomica e civile (in quanto egli afferma di sentirsi “singularmente inclinato”37 ai soggetti morali) che tragga ispirazione dall’ode classica, e a una lirica amorosa che si distacchi anch’essa dai paradigmi del petrarchismo e del marinismo, facendo propri quegli schemi pindarici e oraziani la cui acquisizione alla poesia volgare era stata definitivamente sancita da Chiabrera. Si tratta di un tentativo la cui novità e importanza non sfuggono ai più acuti critici contemporanei, come Meninni, che individua proprio nella prevalenza della “nota sublime” rispetto a quella “umile” la caratteristica fondamentale delle canzoni moderne (vale a dire quelle di Chiabrera, Ciampoli, Cesarini, Testi)38, che appaiono quindi “più patetiche, sentenziose od ideali” delle antiche, e trattano, per lo più, non di vicende amorose, ma di “concetti morali tratti da una varietà grande di erudizione”39. Questo proposito di innovare le forme poetiche matura gradualmente in Testi negli anni che separano le rime del ‘17 da quelle del ‘27, e ad esso non è certo estraneo l’incontro, avvenuto a Roma nel 1620, con Virginio Cesarini (accomunato dall’autore nell’avvertenza A chi legge, come nume tutelare della sua nuova maniera poetica, a Giovanni Ciampoli in un iperbolico elogio: “Non lascerò già addietro monsignor Giovanni Ciampoli e ‘l signor don Virginio Cesarini, i duo miracoli dell’Italia, che se ben l’uno e l’altro si sono serviti della poesia per ornamento e per ricreazione degli studi più gravi, hanno però nell’opere loro dimostrato che le muse toscane non arrossiscono in paragone delle greche”40) e con i poeti e letterati che, stretti intorno a papa

36 F. Testi, Lettere, vol. I, cit., p. 109 (lett. 120). Sul rapporto tra la poesia di Testi e la lirica classica, in particolare quella oraziana, cfr. A. Beniscelli, La mediazione “oraziana” di Fulvio Testi nella lirica classicistica del Seicento, Casale Monferrato, Marietti, 1984, oltre all’Introduzione di M. Turchi all’edizione da lui curata delle Opere di Gabriello Chiabrera e lirici del classicismo barocco, Torino, UTET, 19742, in particolare alle pp. 31-38. 37 Ibid. 38 F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, cit., p. 246. 39 Ivi, pp. 271-272. 40 F. Testi, Lettere, vol. I, cit., p. 109 (lett. 120).

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Urbano VIII, egli stesso compositore di odi latine e di versi in volgare, stavano elaborando un programma di moralizzazione della letteratura, caro alla cultura gesuitica, contro gli eccessi e le lascivie della moderna lirica concettista, basato proprio sul ritorno alla poesia classica intesa come modello di sobrietà stilistica e sanità etica, radicalmente opposto alle squisitezze neoalessandrine tanto care al marinismo41. Tale programma fu eloquentemente delineato da Agostino Mascardi nelle Pompe del Campidoglio, pubblicate nel 1624, e dal gesuita Famiano Strada, professore del Collegio romano e maestro di Maffeo Barberini, che in una delle sue Prolusiones academicae (apparse nel 1617) aveva condannato quella che egli definiva la poesia impudica moderna, e aveva dimostrato come compito essenziale del poeta fosse quello di giovare al bene pubblico, docere e non delectare, privilegiando il vero contro la menzogna e gli artifici di una retorica fine a se stessa, che ha il solo scopo di provocare sorpresa e stupore nel lettore, di dilettarlo senza fornirgli alcun insegnamento di carattere etico; Strada quindi, come scrive Raimondi, “per definire una norma morale da cui la letteratura poteva attingere pienezza di umanità […], era anche venuto contrapponendo al gusto contemporaneo della morbidezza erotica un’idea più severa del mondo antico nella linea di un classicismo senza effusioni, integro e solenne”42. Si assiste in questo modo alla creazione di una vera e propria poetica classicistica (un “neoclassicismo cristiano”, lo definisce Marc Fumaroli43), al cui influsso Testi non rimarrà certo estraneo, animata dalla volontà di tornare ad una poesia di severa ispirazione classica, capace di attingere nuovamente al sublime, in cui modi e forme della lirica greca e latina sarebbero stati assorbiti e inverati in un universo di valori cristiani. La valenza etica che anima questo tentativo di rinnovamento poetico non si ritrova però solamente in una diversa idea dell’imitazione dei classici, ma anche in un ritorno, in forme diverse, al Canzoniere di Petrarca (in più occa41

L’ambiente culturale della corte barberiniana e il progetto di riforma letteraria elaborato nel suo ambito sono stati analizzati da E. Raimondi Alla ricerca del classicismo, in Id., Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 27-41. Sul classicismo romano cfr. inoltre i fondamentali contributi di M. Fumaroli, L’Âge de l’Éloquence. Rhétorique et “res literaria” de la Renaissance au seuil de l’époque classique, Geneve, Droz, 1980 (trad. it. L’età dell’eloquenza. Retorica e “res literaria” dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica, Milano, Adelphi, 2002, pp. 173-257) e Id., L’École du silence. Le sentiment des images au XVIIe siècle, Paris, Flammarion, 1994 (trad. it. La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995, pp. 136-196). 42 E. Raimondi, op. cit., p. 30. Sulle Prolusiones e il programma di poetica in esse delineato cfr. anche M. Fumaroli, L’età dell’eloquenza, cit., pp. 208-222. 43 M. Fumaroli, La scuola del silenzio, cit., p. 152.

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sioni elogiato, significativamente, anche se non senza qualche riserva, da Sforza Pallavicino), nel cui limpido equilibrio compositivo e nella cui vicenda d’amore, non di rado spiritualizzata e trasfigurata alla luce di una lettura devota, pareva potersi ritrovare un efficace rimedio alla degenerazione, estetica e morale, del marinismo44. In tal modo Urbano VIII stesso, nelle sue Poesie toscane, che fanno non di rado programmaticamente sfoggio di lessico e immagini petrarcheschi, ammanta di etica cristiana i versi, frammentariamente ripresi, del poeta trecentesco, che egli coniuga sapientemente con forme e motivi stilistici tipici della lirica contemporanea45. Una testimonianza estremamente significativa di questa riscoperta di un Petrarca “moralizzato” è la pubblicazione a Padova, nel 1635, da parte del canonico Jacopo Filippo Tomasini di un Petrarcha redivivus, Laura comite, in cui la vita del poeta è presentata come vicenda esemplare, dal punto di vista umano e artistico, a cui ispirarsi per la riforma delle lettere. Come osserva Fumaroli, l’esempio del poeta trecentesco si trasforma, a questo punto, in un vero e proprio archetipo: “Pétrarque a purifié les lettres néo-latines en les ramenant à l’imitation des auteurs classiques, et il a plié la langue toscane à la discipline du sonnet, à la douceur chrétienne de l’éloquence […]. Laure et Francesco définissent en effet une spiritualité littéraire pour laïcs, qui fait passer l’âme du désir de la beauté sensible à la splendeur intérieure et morale”46; il Petrarca del Canzoniere appare così “le remède à la ‘corruption’ mondaine du marinisme”47. L’imitazione dei poeti greci e latini può essere così coniugata con le cadenze più solenni e severe del petrarchismo, amplificate ed enfatizzate in un verseggiare dalle ampie volute oratorie, alto e retoricamente sostenuto, 44

Il richiamo alla tradizione petrarchesca come forma di opposizione al marinismo è individuato come uno degli elementi portanti delle poetiche classicistiche del Seicento da A. Asor Rosa, Classicismo e antimarinismo: poesia sacra e civile, melica e oratoria, ne La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, vol. V, Il Seicento. La nuova scienza e la crisi del Barocco, t. 1°, Bari, Laterza, 1974, pp. 525-586, in particolare alle pp. 525-532, e da G. Jori, Poesia lirica “marinista” e “antimarinista”, tra classicismo e barocco, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, pp. 653-726, in particolare alle pp. 700-704. 45 Sulla ripresa di stilemi petrarcheschi nelle esercitazioni poetiche in volgare di Maffeo Barberini cfr. almeno M. Costanzo, Sonetti giovanili di Maffeo Barberini, in Critica e poetica del primo Seicento, II, Maffeo e Francesco Barberini, Cesarini, Pallavicino, Roma, Bulzoni, 1970, pp. 15-31. 46 M. Fumaroli, Rhétorique et poétique, in “Lettere italiane”, XLIV, 1992, pp. 3-40. Il passo citato è alle pp. 36-37. 47 Ivi, p. 37. Importanti osservazioni sull’opera di Tomasini e la fortuna di Petrarca nella Roma di Urbano VIII si trovano anche in Id., La scuola del silenzio, cit., pp. 185-187.

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che dà vita a una poesia non più soltanto amorosa, ma soprattutto moraleggiante ed encomiastica (e, del resto, Chiabrera, nel Geri, aveva già accomunato componimenti lirici e d’encomio, in quanto entrambi hanno “forza di dare diletto a’sentimenti”48). Né va dimenticato che il rigoglioso sviluppo, in ambito cortigiano, di una lirica pindarica, magniloquente e sentenziosa, altro non è, come afferma Giulio Ferroni, che una delle conseguenze della rottura dell’unità del codice petrarchista, in cui si legavano organicamente norma linguistica, teoria dell’amore intesa come modello di comportamento umano integrale e immagine letteraria di una società, nell’“aspirazione a una maniera che non mette affatto in discussione quella univoca codificazione, ma ne prende volta per volta le diverse componenti come pezzi a sé, come materiali devitalizzati privati del loro contesto armonico”49. Testi, quindi, fa propria questa maniera grande e solenne, sottolineata dalla scomparsa di sonetti e madrigali e dalla scelta esclusiva dell’ode come forma metrica50, per cui la poesia non è più semplice esercizio, quando non gioco, letterario che si pone in un rapporto di moderata innovazione, all’interno di una sostanziale continuità, con il passato, ma viene innervata da una volontà di rigenerazione etica ed estetica che con la tradizione, o perlomeno con i suoi aspetti più superficiali, impone invece una netta cesura. Nella lirica della maturità il richiamo ai modi del petrarchismo non si risolve più così, come in quella giovanile, puramente sul piano dello stile e del linguaggio, nell’uso di un repertorio di immagini depurate dal loro senso originario, ma in un tentativo, peraltro ormai inevitabilmente destinato all’insuccesso, come mostrano chiaramente le sempre più forti spinte centrifughe che tenderanno a dissolvere l’omogeneità tematica e stilistica delle raccolte posteriori a quella del ’27, di mutuarne piuttosto le implicazioni teoriche e ideologiche, di creare nuovamente un codice poetico unitario che, per la forte valenza morale di cui è investito, possa svolgere la funzione di sistema di trasmissione dei valori per un’intera società. Ed è per questa aspirazione a recuperare il carattere 48 G. Chiabrera, Il Geri, dialogo della tessitura delle canzoni, in Opere di Gabriello Chiabrera e lirici del classicismo barocco, cit., p. 581. Sulla tensione oratoria e l’elevatezza sentenziosa come caratteristiche essenziali della lirica testiana, che respinge in questo modo i “miti poetici del tempo, cioè la musicalità e la sensualità” insiste P. Procaccioli ne L’altro canto. Il Seicento non marinista, in Storia generale della letteratura italiana, diretta da W. Pedullà e N. Borsellino, vol. VI, Il secolo barocco. Arte e scienza nel Seicento, Milano, Federico Motta, 1999, pp. 199-246 (il passo citato si trova a p. 219). 49 G. Ferroni, La teoria della lirica: difficoltà e tendenze, in G. Ferroni-A. Quondam, La “locuzione artificiosa”, cit., p. 19. 50 La struttura metrica dell’ode testiana è sinteticamente esaminata da M. Castagnetti, op. cit., p. 81.

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esemplare di una tradizione, piuttosto che i suoi tratti più appariscenti, che, come osserva Getto, il quale pure nega ogni influenza diretta di Petrarca per quanto riguarda la concezione dell’amore, il gusto figurativo, la sostanza delle immagini (ammettendo al più quella di un Petrarca letto e filtrato attraverso Orazio e Pindaro), nelle Poesie liriche testiane del poeta trecentesco non vengono mai meno l’altezza di stile, il decoro e la sostenuta disciplina formale 51. Il merito principale di quella che viene presentata come una vera e propria “conversione poetica” è attribuito da Testi, come già si è accennato, a Cesarini. Sarebbe stato il giovane poeta romano, infatti, a invitarlo a seguire l’esempio del “cantor di Tebe”, Pindaro, e ad abbandonare gli effimeri “mirti amorosi” per aspirare agli “eterni lauri” di una poesia più alta e meritevole di gloria: “Fulvio, tu mi dicevi, in riva a l’Arno / nascon mirti amorosi, / ma lungo Dirce eterni Lauri han vita: / or là meco t’invia, che non indarno / sentier sì gloriosi / argiva Musa a la mia mente addita”52. Compito del poeta è dunque quello di tornare alla purezza e alla magnanimità d’affetti e sentimenti che trovavano espressione nella lirica classica, a quell’“ideale di naturalezza affettuosa” che, come scrive Raimondi, “s’accordava agevolmente con le forme celebrative di una società raffinata e feudale” 53, senza preoccuparsi di ricercare il facile applauso del pubblico, che potrebbe essere ottenuto solamente assecondando i suoi gusti corrivi e cedendo all’imperante lascivia: “Non t’invaghir di quegli applausi indegni / ch’a le penne lascive / oggi l’effemminata età comparte, / né per gradir ad oziosi ingegni / permetter mai che prive / d’un ingenuo rossor sian le tue carte: / mira con che bell’arte / l’ismenio cigno a vera gloria aspira, / e di che nobil fregi orna sua lira. / Non bassi affetti d’impudichi amori, / ma gloriose imprese / d’incliti semidei narran suoi versi”54. La poesia deve assumere dunque, per Testi, la funzione di “esaltare un virile ideale della vita”55, di fornire esempi di quella virtù, consistente nel dominio sugli istinti e sulle passioni e nella fermezza e nella dignità con la quale si sopportano le sofferenze e le offese arrecate dall’avversa fortuna, in 51

Cfr. G. Getto, Irrequietezza di Fulvio Testi, cit., pp. 146 e 149-150. F. Testi, Delle poesie liriche […] parte prima, Modena, Giulian Cassiani, 1645, p. 86. Si tratta della riedizione, immutata tranne per la scomparsa della premessa A chi legge, sostituita da una dedicatoria dell’editore al duca di Modena, delle Poesie liriche del 1627, che erano state pubblicate sempre dal Cassiani. 53 E. Raimondi, op. cit., p. 40. 54 F. Testi, Delle poesie liriche […] parte prima, cit., pp. 86-87. La condanna dell’immoralità e dell’effeminatezza della poesia contemporanea è uno degli argomenti polemici prediletti da Testi. 55 M. Castagnetti, op. cit., p. 58. 52

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cui risiede la vera nobiltà dell’animo umano, così come insegnava l’ormai fiorente neo-stoicismo cristiano, di cui Mascardi era uno dei più eruditi e pugnaci propugnatori. Nelle Poesie liriche prevalgono quindi i temi civili e morali, spesso innestati su spunti mitologici, con una grandiosità e una teatralità d’impianto che, sul piano stilistico, si fonda su un accentuato gusto, comune a tanta parte della lirica contemporanea, per il chiaroscuro e per l’antitesi, “nella mescolanza”, come scrive Getto, “di tonalità opposte che si determina fra i diversi oggetti rappresentati e fra questi e il clima aulico e dignitoso del discorso”56 e nell’insistita opposizione tra lo splendido e il cupo, tra l’ostentazione, cara al gusto barocco, del fasto e del lusso e la presenza sempre incombente dell’ombra della morte. Le odi testiane, quindi, vivono sul precario equilibrio creatosi tra il tentativo di restaurare la sobrietà delle forme classiche e l’adesione di fatto a un comune clima culturale e letterario, il cui influsso pervasivo è evidente nel repertorio di temi e immagini che esse presentano. Il nuovo nasce certamente dalla lezione dell’antico, ma per Testi (come per Chiabrera) in suo nome è lecito anche abbandonare, almeno in parte, i modelli consacrati; proprio per questo Sforza Pallavicino, nelle Vindicationes Societatis Jesu, lo indica, assieme a Ciampoli, come il principale artefice di un auspicato mutamento del gusto poetico che, pur rifiutando gli eccessi e le immoralità del marinismo, non ne respinga totalmente le innovazioni stilistiche, ma le coniughi con i modi di una poesia più solenne e grandiosa, e lo considera capace di conciliare la dolcezza di Marino, rispetto al quale fu “uti castigator, ita splendidior ac pictior”57, con la grandiosità e la solennità di Chiabrera (“severos simul atque hilares sibi conciliavit”), di cui sarebbe stato miglior versificatore, anche se “poeta minor”58. Quello di Testi è, per usare la suggestiva defini-

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G. Getto, Irrequietezza di Fulvio Testi, cit., p. 140. S. Pallavicino, Vindicationes Societatis Jesu quibus multorum accusationes in eius institutum, leges, gymnasia, mores refelluntur, Romae, Dominici Manelphi, 1649 p. 125. 58 Ibid. Il giudizio di Pallavicino su Testi viene ripreso e tradotto alla lettera da Meninni, il quale, però, inserisce al suo interno l’elogio che nelle Vindicationes è rivolto a Marino per il rinnovamento della tradizione lirica di cui egli è stato artefice (“omnium primus italicam cytaram ad eos dies paulo tristioribus atque aridoribus modis resonantem mirifice emollivit atque hilaravit” [ivi, p. 123]). Si tratta di un’ulteriore, evidente dimostrazione di come Testi sia ritenuto capace di assimilare alcuni di questi caratteri innovativi, per costruire su di essi una poesia ispirata da un severo e vigoroso afflato morale e sorretta da un nitido rigore stilistico: “Volava per tutto il mondo de’letterati la fama del Cavalier Giovan Battista Marini per la facilità del metro, per la varietà de’componimenti, e per la feracità de’concetti e dello stile; ma il Conte Fulvio Testi le tarpò le piume; atteso che nelle sue liriche poesie, cioè nelle canzoni, fu più castigato, più splendido, più culto ed ornato di 57

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zione della Castagnetti, un “classicismo barocco”59 che si accorda perfettamente con le tematiche encomiastiche e celebrative, in cui dominano le tonalità del patetico e del sublime, espressione di una poesia che non mira più al ludere, ma al movere, alla commozione profonda degli affetti del lettore, a un patetico a cui, come osservano Battistini e Raimondi, fanno appello gli antimarinisti come Pallavicino, “il quale, soprattutto nella prefazione all’Ermenegildo, invoca la forza espressiva, come si conviene a un dramma religioso, di un sublime gnomico, tra pindarico e biblico, sulle orme amiche di un Ciampoli o di un Cesarini”60. Questa tendenza all’amplificazione patetica e alla virile effusione sentimentale rende più profonda, nelle Poesie liriche, la lezione di Della Casa e Tasso, peraltro già avvertibile, come si è visto, nelle rime giovanili; temi propri della poesia barocca, come la severa meditazione sulla precarietà delle vicende umane, in balia dei capricci della fortuna, sulla fugacità della vita e della bellezza, insidiate dal tempo, al cui potere nulla può sottrarsi, e dall’ombra opprimente della morte, assumono in questo modo un tono più drammatico e risentito e una maggiore asprezza. Si pensi ad esempio alla canzone all’abate Alessandro Sarzilli, nella quale vengono ripresi motivi già presenti nelle rime del ‘17, come il proposito di abbandonare le gioie caduche del mondo per volgersi a quelle eterne del cielo che era stato espresso in Ardor cangiato (di cui non manca una citazione letterale con la ripresa dell’endiadi “fumo e ombra”), ma ammantati di una solennità e di una gravità sentenziosa in precedenza ignote: “Fronte che di superbo ostro si cinga, / guancia in cui trionfante amore alloggi, / mole che con le stelle a cozzar poggi / lungo il fiume latin, me non lusinga. / Purpuree spoglie orror di morte adombra, / corrompe gel d’età fior di bellezza, / urto assiduo di tempo i marmi spezza, / e ciò che in terra splende è fumo ed ombra. / Sol di virtute adamantino è ‘l seggio / e sol la luce non teme ecclissi; / quinci i pensier miei divoti e fissi / stanno colà dove regnar la veggio”61. Si tratta della consueta

lui. Egli ammollì e rallegrò la durezza e la malinconia de’versi antichi, e fe’ tacer tutti con la novità del suo stile” (F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, cit., p. 268). La posizione di Pallavicino su Marino e Testi è analizzata da F. Croce, La critica dei barocchi moderati, in Id., op. cit., pp. 194-201. 59 M. Castagnetti, op. cit., p. 59. 60 A. Battistini-E. Raimondi, Le figure della retorica. Una storia letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1990, pp. 181-182 (già pubblicato, con il titolo Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. III, Le forme del testo, t. 1°, Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 5-339). 61 F. Testi, Delle poesie liriche […] parte seconda, cit., p. 38.

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“Mirti amorosi” ed “eterni lauri”: forme del petrarchismo nella poesia di Fulvio Testi

condanna moralistica dell’ingannevole attrazione che sull’uomo esercitano i desideri mondani e della sua vana ricerca di felicità terrena, che costituisce il leit-motiv di molte liriche, come quella diretta al fratello Costantino Che fallaci sono le speranze della corte: “La speranza omicida è de’mortali, / che fin al ciel n’estolle / perché maggior sia ‘l precipizio e ‘l danno. / Oh con che dolce e dilettoso inganno / l’alma fastosa e folle / pascendo ognor si va de’ propri mali: / mille pensieri ordisce e mille voglie, / mille ne tronca e scioglie; / parla e scherza con l’ombre, erra e delira, / tormentata dal ben che più desira”62. Testi non cessa però di dedicarsi alla poesia d’amore, e, anzi, a più riprese si dichiara incapace di abbandonarla per quella epica e morale, come afferma nell’ode, rivolta ad Alessandro Tassoni, Mostra che chi è dedito agli amori non può cantare cose eroiche 63, scritta forse nel 1619 alla corte di Carlo Emanuele I, e che pure, collocata com’è all’interno della serie di “Canzoni amorose” che chiude la raccolta, assume il tono di una giustificazione di circostanza, peraltro ribadita anche, in un altro componimento, a Cesarini64; in realtà la sua volontà di discostarsi sdegnosamente dalle vie battute da gran parte della lirica contemporanea implica il tentativo di dare vita, anche in questo genere, a una nuova forma poetica (che si tradurrà, dal punto di vista stilistico, nell’adattamento alla materia erotica dell’ode pindarica elaborata da Chiabrera), lontana, lo si è già accennato, sia dalla tradizione del petrarchismo sia da quella del marinismo, come egli sostiene polemicamente, pur se quasi en passant e a mo’ di scusa, dopo aver parlato delle odi morali (alle quali continua ad attribuire un’importanza preminente), nella prefazione alle Poesie liriche del 1627: “Ho però anche trattate alcune materie d’amore, ma con qualche novità, poiché lasciando quei concetti metafisici et ideali di cui sono piene le poesie italiane, mi sono provato di spiegare cose più domestiche e di maneggiarle con affetti più famigliari, a imitazione d’Ovidio, di Tibullo, di Properzio e degli altri migliori”65. L’intento dichiarato dell’autore, dunque, secondo un programma elaborato sin dall’inizio degli anni ‘20 (come testimonia, ad esempio, una lettera dell’ottobre 1620 indirizzata al conte Camillo Molza, nella quale è preannunciato l’invio di “una canzone che servirà per proemio e dedicazione d’alcune altre amorose ch’io disegno di fare in istil pindarico”66), è quello di legittimare la pratica di un genere 62

F. Testi, Delle poesie liriche […] parte prima, cit., p. 22. Ivi, p. 149. 64 Cfr. ivi, p. 122. Si tratta dell’ode Al signor don Virginio Cesarini. 65 F. Testi, Lettere, vol. I, cit., pp. 109-110 (lett. 120). 66 Ivi, p. 25 (lett. 31). 63

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poetico implicitamente indicato come minore, riconducendolo sotto la nobilitante tutela dei sommi elegiaci latini. In realtà Testi, al di là della sua insofferenza verso i “concetti metafisici ed ideali” del petrarchismo (quegli stessi che già nel novembre del 1620, in un’altra missiva a Camillo Molza, diceva di voler lasciare “a quelli che vanno su le cime degli alberi”, prediligendo egli invece “materie dolci” e “concetti affettuosi e naturali”67) e dei suoi propositi di rifiutare ogni idealizzazione della donna per cantare affetti più domestici e familiari, pare ancora una volta oscillare tra due poli diversi del suo sperimentalismo poetico: da un lato il tema della bellezza, vista come sola consolazione ai mali della vita, svolto in chiave platonico-moraleggiante (come nella Lode della bellezza, posta significativamente come proemio alle “canzoni amorose”, dove l’abbondante ricorso agli stilemi petrarcheschi è funzionale a una concezione platonizzante della bellezza stessa, che purifica lo spirito e lo guida dagli affanni terreni alla beatitudine celeste: “Labirinto è la vita, / sono i terreni affetti orridi mostri / ch’a l’alma traviata ognor fan guerra; / beltà le porge aita, / e per salire agli stellanti chiostri / le porge il filo e l’erge alto da terra. / Il Cielo a noi si serra, / né vede occhio mortal com’ei sia vago: / beltà fede ne fa, che n’è l’immago”68), dall’altro, soprattutto nella seconda parte delle Poesie liriche, la propensione alla predicazione multipla della bellezza femminile, alla sua rappresentazione in forme inusuali, cui si associa un sempre più marcato carattere narrativo e descrittivo dei componimenti. In questa sorta di breve canzoniere svanisce anche quella labile traccia narrativa che si poteva ancora scorgere nelle rime del ‘17; non vi è più narrata la vicenda di una passione, con le sue sofferenze e le sue gioie, ma trova forma unicamente la tensione verso l’approdo finale tante volte auspicato dal poeta, il porre fine ai tormenti d’amore per volgersi ai beni celesti. Anche le liriche dove ritorna la figura di Cinzia appaiono ora, con la loro intonazione grave e a tratti aspra, in cui si avvertono gli echi del petrarchismo più maturo, maggiormente vicine alla solennità dell’ode che alla sensualità e alla morbida musicalità della poesia elegiaca che pure Testi stesso aveva indicato come modello. Così, se la Serenata all’uscio di Cinzia, non priva di echi pontaniani, è dominata dalla suggestione dell’alto silenzio notturno nel quale si eleva l’accorata supplica del poeta di fronte alla porta serrata della donna, pervasa da un senso di profonda sofferenza per l’insensibilità dell’amata, con intonazioni che variano dal dolore alla sognante malinconia allo sdegno, in A Cin-

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Ivi, p. 27 (lett. 34). F. Testi, Delle poesie liriche […] parte prima, cit., p. 117.

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“Mirti amorosi” ed “eterni lauri”: forme del petrarchismo nella poesia di Fulvio Testi

zia il tema erotico lascia ben presto il passo a quello della fugacità della giovinezza e della necessità di cogliere le gioie della vita finché si è in grado di farlo, che si esprime in accenti di pensosa mestizia. Queste liriche amorose denunciano la predilezione per uno stile elaborato e complesso, ricco di perifrasi e richiami mitologici. Non si tratta però di un recupero prezioso ed erudito, destinato ad accrescere lo splendore dei versi, come accadeva in Marino e nei suoi seguaci, né solamente di un dovuto omaggio al modello supremo della poesia classica (e in particolare all’ode oraziana), ma di un mezzo per cristallizzare e sublimare la bellezza terrena e la perturbante forza d’amore che da essa nasce in una sorta di fregio freddo ed elegante, in un mondo di forme rarefatte e fissate in immobile armonia, dalle quali riverbera lo splendore di una bellezza assoluta e incorruttibile. In Amante trattenuto dalla sua donna mentr’era per partire, ad esempio, a una situazione iniziale che potrebbe appartenere al repertorio mariniano, corrisponde un impianto figurativo in cui l’immagine del seno scoperto di Cinzia non provoca alcun brivido di sensualità, ma pare piuttosto appartenere nella sua algida perfezione, anche per l’accostamento alla vicenda di Calipso e Ulisse, al repertorio iconografico dell’arte classica: “Già caduta dal cielo era ogni stella, / se non quella d’Amor ch’al giorno è scorta, / e già l’aurata porta / disserrava a Piroo l’Alba novella / quand’io col primo sole al mar vicino / costretto a dipartir presi il cammino. / Per le vie di Giunon pure e serene / battea placidi vanni aura feconda; / tranquillissima l’onda / baciava, e poi fuggia, l’umide arene, / e impaziente omai d’ogni dimore / chiedeva libertà l’avvinta prora. / Ed ecco Cinzia insù l’estremo lido / frettolosa ver me volger le piante; / bella d’Amor Baccante, il ciel feria con lagrimoso grido, / nuda il sen, sciolta il crin, doppio tesoro / quinci e quindi scopria d’avorio e d’oro”69. Accade poi talvolta che non sia più l’avvenenza della donna amata l’oggetto di contemplazione ma, moralisticamente, con la ripresa di un motivo tipicamente pretiano, la sua virtù; è quanto avviene, ad esempio, in Costanza in bella donna, ove si trova una ricapitolazione di tutti gli attributi usuali della bellezza femminile, considerati però inferiori alla dote della costanza, che nella tradizione lirica petrarchista sarebbe stata rimproverata invece alla donna come insostenibile durezza: “Donna, a voi mi rivolgo, / benché di voi sia la mia cetra indegna: / vostro intrepido cor non è che pieghi / a lusinghe, a minaccie, a pene, a prieghi. /Aver d’ebano il ciglio e d’oro il crine, / gli occhi di foco, il sen di neve, i labbri / d’animati cinabri,

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Ivi, pp. 144-145.

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/ di perle i denti orientali e fine, / vostri titoli son: v’amo per loro; / per la virtù non v’amo né v’adoro”70. Allo stesso modo, nel componimento in occasione delle nozze del duca di Fiano con la principessa di Venosa, fedelmente ricalcato sull’esempio degli epitalami classici, la rappresentazione dell’abbagliante splendore della sposa è corretta da un estemporaneo richiamo a quelli che il poeta considera i suoi autentici pregi: “O bei lumi d’Esperia, io già non sprezzo / tra i vostri onor grazie del ciel sì rare, / ma di virtù più chiare / in voi la luce io maggiormente apprezzo; / che ben è a l’ombre avvezzo / chi fra i raggi onde il ciel risplender suole / loda le stelle e non pon mente al sole”71. Nella seconda parte delle Poesie liriche Testi, pur ribadendo nella prefazione ai lettori un’assoluta fedeltà alla sua maniera classicheggiante (“non aspettate di veder forme nuove di scrivere, perch’io sto su la mia vecchia, su l’imitazione cioè de’Greci e de’Latini, e particolarmente di Pindaro e d’Orazio, i due più sicuri maestri, s’io non m’abbaglio, della lirica poesia. Tal è il mio genio, e se considero il gusto de’secoli antichi e anche la soddisfazione che ne mostra il moderno io non devo pentirmi della maniera”72), inizia ad alternare componimenti amorosi di tono pensoso e moralistico (come la canzone alla signora Leonora Baroni Che inevitabili sono le saette d’Amore, oppure l’ode Effetti della bellezza, in cui ritorna il tema della sua funzione rasserenante), assai simili a quelli della raccolta del ‘27, ad altri che riecheggiano a tratti la maniera delle sue liriche giovanili, col loro gusto per un moderato concettismo. Si accentua inoltre una tendenza descrittivo-narrativa, già intuibile in alcune canzoni amorose, del tutto estranea alla concentrazione lirica del petrarchismo e ulteriore dimostrazione della non ancora placata irrequietezza e mobilità sperimentale dell’autore. Essa è particolarmente evidente in un gruppo di odi composte nel periodo in cui Testi, per motivi diplomatici, effettuò alcuni viaggi in Spagna, dove subì, probabilmente, l’influsso delle “romances” popolari spagnole, assai simili a novelle in versi73. In Raccontasi il caso d’una bellissima giovane che tornando da pescare s’affogò per tempesta in bocca al porto di Barcellona, così, alla situazione inconsueta si accompagna una descrizione della giovane in cui si fondono caratteri petrarchisti e marinisti (“La beltà di costei / dei catalani regni era il tesoro: / duo coralli eritrei / parean le labbra, un Tago i capei d’oro, / un apri70

Ivi, pp. 134-135. Ivi, p. 61. 72 F. Testi, Delle poesie liriche […] parte seconda, cit., p. 8. 73 I rapporti tra la poesia di Testi e la lirica spagnola sono stati analizzati da G. Getto, Irrequietezza di Fulvio Testi, cit., pp. 148-150. 71

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“Mirti amorosi” ed “eterni lauri”: forme del petrarchismo nella poesia di Fulvio Testi

le il bel viso, / gli occhi in due nere stelle un sol diviso”74), mentre lo sdoppiamento della figura di Cinzia in Lidia, su cui si gioca la vicenda di Ritrova l’autore in Ispagna una dama in tutto e per tutto simigliante ad un’altra che avea lasciata in Italia, dà vita a un barocco gioco di specchi basato sul contrasto tra l’uno e il doppio, che trova coronamento nell’arguzia della strofa conclusiva: “Di duo strali io mi moro, / ed unica nel sen la piaga appare; / un nume solo adoro, / e duo gl’idoli son, doppio è l’altare: / e distinta ne’ luoghi / mia fé, benché Fenice, arde in duo roghi”75. Lidia compare ancora in Bella dama veduta su la riva del Manzanares la notte di S. Giovanni Battista, dove il suo ritratto, non privo di artificiosità (“in gran volume d’or la chioma bionda / parte raccolta in su la fronte s’erge, / parte cade ed asperge / del prolisso tesor quasi la sponda, / e di lontan diresti irsene vago / di dar tributo al Manzanar il Tago”76), diviene pretesto per una preziosa figurazione mitologica di gusto alessandrino, incentrata sul mito di Aretusa e Alfeo, assai lontana, nel suo carattere, da quelle delle odi della prima parte. L’esempio più compiuto di questa forma di poesia è però una sorta di poemetto, composto da tre odi, nel quale si narrano le vicende di un cavaliere maiorchino che s’innamora della figlia del pirata di Algeri che l’aveva catturato, ma, alla fine, decide di fuggire assieme ad altri prigionieri, lasciando la giovane nella disperazione. La fanciulla è qui colta mentre canta dolcemente, sulla sfondo di una natura idillica che possiede tutti i caratteri astratti e stilizzati del locus amoenus: “Così mentre che tocca / le tese fila a ben temprata cetra, / dall’armonica bocca / manda Celinda i carmi a ferir l’etra. / Seco d’amor vaneggia / e le fiorite vie sola passeggia. / […] / Frena purpureo nastro / la licenza al crine e lo gastiga; / ei fugge e l’alabastro / del collo altier con onde d’oro irriga, / e resta il cor sospeso / se vezzoso sia più libero o preso. / Posto fine al canto, / di mirto a un arboscel la cetra appende, / e de’ suoi fregi intanto / l’odorata riviera a spogliar prende, / ma, dovunque si volga, / par che produca fior più che non colga”77. I topoi petrarchisti, filtrati da una sensibilità tassiana, si susseguono in tutte e tre le sezioni, attraverso una serie di situazioni canoniche, dall’invito a godere delle gioie della giovinezza (in cui risuonano in lontananza i versi delle prime ottave del XVI canto della Gerusalemme liberata), all’effusione sentimentale in cui trova sfogo il dolore

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F. Testi, Delle poesie liriche […] parte seconda, cit., p. 92. Ivi, p. 120. 76 Ivi, p. 127. 77 Ivi, pp. 74-75. 75

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della giovane per la partenza dell’amato. Si tratta di un’ulteriore prova della propensione di Testi, tipica dell’estetica del barocco, alla commistione e alla contaminazione di carattere stilistico e tematico, che autorizza il recupero di materiali tipici di una tradizione come quella petrarchista e il loro riuso in un organismo poetico ad essi del tutto estraneo. La terza parte delle Poesie liriche, edita postuma nel 1648, e quindi fuori da ogni controllo dell’autore, accentua la mescolanza di toni e la varietà di argomenti della seconda (tanto che vi si trovano anche frammenti di poemi epici, un componimento drammatico per musica, lo scenario di un balletto). Alle rime encomiastiche e a quelle morali, che riprendono i temi consueti (come il distacco dall’amore terreno espresso in Che non si truova quiete altrove che in Cielo), o alle canzoni ove si rinnovano le suggestioni della lirica petrarchista, come Alla sua donna, si accompagnano molte poesie che risentono in maniera assai marcata dell’ispirazione giovanile, come testimonia anche il ritorno al sonetto o l’introduzione della canzonetta. Se non mancano le immagini tradizionali della bellezza muliebre, come nel sonetto Si lodano il canto e la bellezza della signora Leonora Baroni o nell’epitalamio per le nozze di Maria Farnese e Francesco d’Este, dove esse pure si complicano per la presenza di un compiaciuto gusto dell’artificio (ad esempio l’insistito bisticcio tra il nome di Maria e il mare, con tutte le conseguenze metaforiche che ne derivano), più spesso il poeta si serve di questi stilemi per descrivere la figura femminile nelle situazioni e nelle circostanze più varie e inconsuete, in cui i topoi tradizionali subiscono una metamorfosi che li conduce verso esiti impensati e bizzarri. Basti pensare alla canzone Per Madama la duchessa di Savoia fatta gialla per male d’iterisia, in cui l’oro del “Tago superbo” non è più quello delle chiome, ma quello del colorito della carnagione, che si sostituisce alle “rose” e alla “pura neve” del volto78; oppure al sonetto Figlio di bella donna sommerso nel passar d’un fiume, interamente basato sul contrasto tra il sole, immagine dell’avvenenza della donna, e l’acqua, che si risolve, ovviamente, nel ricordo del mito di Fetonte (“questi forse del ciel sono i costumi: / prefisse il fato e stabilì la sorte / che i figliuoli del Sol moran ne’fiumi”79; o, infine, alla canzone, dal marcato impianto narrativo, Bella donna liberata dal foco, dove torna insistentemente l’antitesi tra il fuoco e il ghiaccio: “Bella era sì, che figurata mai / dal mio pensier non fu beltà simile: / parean lucide stelle i duo bei rai, / l’ambra e l’oro cedeva al

78 F. Testi, Poesie […] con alcune aggiunte in questa nona impressione, divise in quattro parti, Modena, Eredi del Soliani, 1678, p. 451. 79 Ivi, p. 461.

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“Mirti amorosi” ed “eterni lauri”: forme del petrarchismo nella poesia di Fulvio Testi

crin sottile. / […] / Prendo la bella donna e men ritorno / d’un angelico peso onusto e carco, / e in mezzo a tanto ardor fatto di ghiaccio / non sento il fuoco, ed ho la fiamma in braccio”80. La vicenda poetica di Testi si conclude in tal modo con un ritorno ormai stanco alla maniera giovanile, senza aver trovato, nella sua inquieta mobilità sperimentale, un definitivo appagamento nell’armonia e nell’equilibrio, peraltro mai compiutamente raggiunti, delle odi classicheggianti e dopo l’inevitabile fallimento (i cui segni premonitori si avvertivano già nella seconda parte delle liriche) del progetto di una poesia che, coniugando la gravitas e la profondità di ispirazione con alcune delle innovazioni stilistiche del marinismo, potesse realmente riacquistare, in forme rinnovate, quel ruolo di modello spirituale e di comportamento sociale che essa aveva ormai smarrito e a cui il mutare dei tempi e delle condizioni storiche non le consentiva più di aspirare.

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Ivi, pp. 485-486.

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Stefano Barelli IL «CANZONIERE» DI GIROLAMO PRETI

Nell’esile raccolta uscita a stampa nel 1625 che ospita il corpus poetico pressoché completo del bolognese Girolamo Preti1 solo due letterati compaiono più di una volta in qualità di destinatari, e si tratta di due rivali: Fulvio Testi e Giambattista Marino. Si può partire da questo semplice riscontro per tentare una collocazione di un poeta che, a dispetto dell’esiguità della produzione e dell’interesse tuttora piuttosto scarso di cui è stato fatto oggetto2, ebbe un ruolo di primo piano nella definizione degli orientamenti poetici della prima metà del Seicento ed esercitò un influsso che, nonostante le censure, non si arrestò neppure con la riforma arcadica. Il secondo destinatario è indubbiamente risultato fatale per la considerazione del Preti dal Crescimbeni in avanti3: è noto come il poeta bolognese, a lungo meccanicamente associato al suo concittadino Achillini, sia stato assunto quale portabandiera del marinismo, il che è equivalso, almeno fino alla metà del secolo scorso, all’impressione di un marchio di infamia. Il primo (seguendo la successione dei componimenti nell’edizione definitiva) dei due sonetti indirizzati al 1 G. Preti, Poesie [...] Ottava impressione. Dall’autor corretta ed accresciuta, Roma, G. Facciotti, 1625. 2 Pochi, ma di valore gli studi monografici sul Preti: si vedano soprattutto F. Croce, Il marinismo conservatore del Preti e del Bruni in Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966 e le recenti ricerche di Domenico Chiodo, in particolare D. Chiodo, L’idillio barocco e altre bagatelle, Alessandria, Ed. Dell’Orso, 2000 (soprattutto pp. 15-55; 127-150). Chiodo è anche il curatore dell’edizione moderna delle Poesie (Torino, Res, 1990), con importante nota bio-bibliografica (cfr. più avanti). 3 G.M. Crescimbeni, L’istoria della volgar poesia, Venezia, L. Basegio, 1731, vol. I, parte III, pp. 488-89 e cfr. Chiodo L’idillio barocco, cit., pp. 129-30 per la valutazione del Preti nelle storie letterarie dal Sette al Novecento.

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Stefano Barelli

Marino4 rappresentò probabilmente per un paio di secoli la sua composizione più citata, un po’ come il Sudate o fochi del collega ed amico, pur senza recare impresso lo stigma di tanto censore. Il testo incriminato, che reca come didascalia Alla penna del cavalier Marino, è una lode che risponde ai canoni tipici della poesia encomiastica, incentrata sull’inevitabile gloria imperitura che attende la produzione del napoletano («penna immortal», «fonte d’eternità», «vena immortale»); più significativa è la dichiarazione di discepolato (vv. 9-11: «per te mia penna umil s’alza dal suolo, | come l’augel che, per sé tardo e vile, | già si levò su l’altrui penne a volo») o addirittura la confessione di furto letterario (vv. 13-14: «A te forme e colori e spirti involo, | e de’ tuoi spirti sol vive il mio stile»). Meno noto è il secondo sonetto rivolto al Marino5, che pure andrebbe letto in rapporto al primo, costituendone il contraltare: in garbato dissenso con il venerato e più anziano collega, che nella proposta esponeva le sue pene amorose ricorrendo alla metafora continuata e implicitamente erotica del giardino da cui non si ricavano i frutti sperati6, il Preti oppone la superiorità dell’«amor pudico» (vv. 12-14: «Così provo, Marin, ch’animo intento | ad un amor pudico arde felice, | e che piacer lascivo è un’ombra, un vento»). Si avrà modo di tornare su questo motivo, che costituisce il tratto più caratteristico della produzione pretiana. Per ora importa notare come il secondo sonetto preceda cronologicamente il primo, figurando a stampa già nel 1614, mentre la laudatio non compare prima del 1622, pochi anni prima della morte del Preti7: non si tratta quindi, come è stato ipotizzato supponendo una cronologia inversa8, della prova di un progressivo affrancamento dalla dipendenza mariniana da parte del poeta più giovane, bensì della convivenza lungo tutto l’arco della produzione del bolognese tra un senso di incondizionata – almeno a livello di dichiarazione – adesione stilistica (le «forme e colori e spirti» del son. LXI) e di presa di

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La lirica LXI nell’edizione del 1625 delle Poesie. È la lirica XCII. 6 Il sonetto del Marino («Venni al giardin d’Amor, non d’altro adorno») è incluso nella Lira (Rime C Ca, 53: per le liriche del Marino si utilizzano le abbreviazioni impiegate dai curatori delle Amorose – G.B. Marino, Rime amorose, a cura di O. Besomi e A. Martini, Parma, Panini, 1987 – e riprese nelle successive partizioni dell’edizione moderna, in fase di pubblicazione, delle liriche mariniane). 7 Sulle edizioni delle liriche del Preti cfr. più oltre. Un terzo componimento elogiativo rivolto al Marino, incluso nella Lira (Rime C, Poesie di diversi, 46, incipit «Quando spiegaro i tuoi primieri accenti») è stato escluso dalle Poesie. 8 A. Colombo, Recensione a G. Preti, Poesie, Torino, Res, 1991, in “Lettere italiane”, XLIV, 1991, pp. 343-47. 5

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Il «canzoniere» di Girolamo Preti

distanza dai contenuti sensuali9. È in questa dialettica di entusiasmo per gli esiti letterari e di esibita riserva o anche contrasto sul piano morale che dev’essere inquadrata e compresa, anche nei suoi riflessi sulla lirica del secondo Seicento, l’opera poetica del Preti. Un rapporto di discepolato regola pure la corrispondenza poetica con il secondo destinatario di due sonetti, ma con le parti invertite: qui è il giovane Testi a dichiararsi ammiratore del Preti, e non si tratta di un omaggio stereotipo nei confronti del collega più celebre. Nelle prime due raccolte poetiche del ferrarese, uscite rispettivamente nel 1613 e 1617 10 (quindi pochi anni dopo le prime, incomplete raccolte del Preti11), si riscontra una fitta rete di concordanze, tanto nell’impostazione concettuale quanto a livello di puntuali riprese di stilemi, con le rime del bolognese. Certo, a quest’altezza cronologica il Testi non aveva ancora completato quella riforma in direzione oraziana che farà di lui l’emblema del classicismo e della reazione antimarinista, ma i germi ci sono già tutti, e il primato dei valori morali è polemicamente proclamato ed esibito fin dal ’17: è quindi molto significativo che il Preti abbia costituito tra i contemporanei il punto di riferimento forse principale da cui prendere le mosse per inoltrarsi su strade poco frequentate (non sarà forse un caso che una delle corrispondenze poetiche concerna la libertà e i suoi pregi12). È appena necessario avvertire che in entrambi i casi la relazione non comporta necessariamente prelievi a senso unico, ma dà luogo sovente anche a scambi nei due sensi: ci si tornerà a proposito del rapporto con il Marino. È opportuno a questo punto fornire qualche indicazione sulla storia editoriale della raccolta del Preti e sulla sua piuttosto tormentata costituzione, sulla quale ha fatto luce con competenza e precisione Domenico Chiodo nella nota al testo in appendice all’edizione moderna da lui curata delle Poesie 13. Riassumendo sinteticamente, il poeta si affaccia sulla scena edito-

9 Dell’ammirazione del Preti fanno testo, pur facendo la debita tara delle convenzioni sempre connesse con il genere epistolare, la corrispondenza con il Marino e quella con l’Achillini dopo la morte del napoletano: cfr. G.B. Marino, Epistolario seguito da lettere di altri scrittori del Seicento, a cura di A. Borzelli e F. Nicolini, 2 voll., Bari, Laterza, 1911, in particolare lettere CLI, CCII, CCXXIV, CCXXX, CCXXXI, CCXXXV, CCXXXVII; Appendice 2, I; carteggio Achillini, lettere LCIII, CVI, CVII; vi si aggiungano almeno le lettere pubblicate in C. Delcorno, Un avversario del Marino: Ferrante Carli, in “Studi secenteschi”, XVI, 1975, pp. 69-155. 10 F. Testi, Rime, Venezia, G.B. Ciotti, 1613 e Rime, Modena, G. Cassiani, 1617. 11 Cfr. più avanti. 12 Si tratta del son. LXXXIII; l’altro è il son. LXX. 13 Poesie, cit., pp. 229-38. Una più dettagliata indagine, pur apportando qualche rettifica al panorama tracciato da Chiodo, ha consentito di confermarne la sostanziale validità.

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riale europea con il clamoroso successo del suo idillio Salmace, pubblicato a Bologna presso G. Rossi nel 1608 per iniziativa di un certo Claudio Sorani senza il consenso dell’autore e ben presto ripubblicato e tradotto in francese, inglese, spagnolo e latino; l’esito induce il Sorani a un nuovo “furto virtuoso” sottraendo all’autore altre carte (qualche lirica era peraltro già apparsa in pubblicazioni collettive14) e dando alle stampe un’edizione di Idilli e rime nel 1614 (Venezia, T. Bortolotti). È legittimo avanzare qualche sospetto circa il ruolo avuto dal Preti in queste operazioni di dichiarata pirateria editoriale15: fatto sta che la prima edizione autorizzata e curata dall’autore esce solo nel 1618, col titolo di Rime e la dedica a Alfonso III d’Este. La raccolta viene ampliata e rivista negli anni successivi (1618 e 1622), mutando di titolo (Poesie), fino all’edizione che si presenta a tutti gli effetti completa, pubblicata a Roma nel 1625. L’anno successivo il Preti si spegne prematuramente a Barcellona, dove era stato inviato al seguito di Francesco Barberini per una missione presso Filippo III. Diversi elementi provano che l’edizione romana del 1625 rappresenta un prodotto conchiuso e non una struttura in fieri. Per cominciare, il numero dei componimenti, fissato a cento. Una cifra non frequente: fra i pochi precedenti è significativo annoverare la prima raccolta del Testi (mentre successiva, e molto probabilmente modellata sull’esempio del Preti, come dimostra la ripresa dell’allora inusuale titolo Poesie, è la raccolta dell’Achillini). Ma soprattutto una solida organizzazione macrotestuale16, assai anomala in un periodo in cui il libro di poesie si presenta come una struttura aperta, regolata da quella morfologia cangiante ed elastica che trova la sua più completa esemplificazione nelle Rime del Marino: è infatti in quella raccolta che appare pienamente operante la “decisione di separare il discorso amoroso da quel-

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In A. Scaioli, Parnaso de’ poetici ingegni, Parma, Viotti, 1611 (le liriche del Preti sono alle cc. 75-78) e, poco dopo, in Rime dei Gelati, Bologna, B. Cochi, pp. 30-34 (sotto il nome dell’accademico Essercitato). 15 Sorprende un poco il fatto che il Sorani, pur riconoscendo, nella dedica ad Ascanio Pio di Savoia premessa agli Idilli e rime, che il Preti si era assai lamentato per la pubblicazione non autorizzata della Salmace, persista nell’operazione e anzi dichiari candidamente di avere rubato altre carte all’autore; inoltre, alcuni brani di questa dedica sono singolarmente affini a quella d’autore diretta ad Alfonso III d’Este che precede le Poesie. 16 Sull’argomento si veda soprattutto G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 11-134 e M. Santagata, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova, Liviana, 19892. Qualche spunto può offrire anche G. Cappello, La dimensione macrotestuale. Dante, Boccaccio, Petrarca, Ravenna, Longo, 1998, volume peraltro in generale assai debole.

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lo etico e religioso”17, rompendo così definitivamente con l’esempio petrarchesco. Con un’iniziativa controcorrente rispetto a quello che si imponeva ormai come il nuovo modello, il Preti non accoglie la parcellizzazione del canzoniere e la sua trasformazione in casellario tematico18. È vero che a un primo colpo d’occhio, sotto la vernice di una costruzione compatta, non è difficile scorgere la successione delle partizioni mariniane o stiglianesche, per cui si potrebbe essere indotti a credere che l’unitarietà della raccolta non abbia altre ragioni che la sua esiguità. Una più attenta considerazione prova però che le cose non stanno così: esaminiamo allora più nel dettaglio l’impianto delle Poesie. La sezione quantitativamente più cospicua, corrispondente a poco più della metà delle composizioni – 52 testi – è quella amorosa (si tornerà sulla sua organizzazione interna); fa seguito una parte encomiastica, in cui si riconosce una tripartizione tra panegirici, epitalami e «soggetti famigliari», per servirsi di una categoria usata da Stigliani per designare i componimenti diretti ad amici e conoscenti, svincolati dall’encomio cortigiano. Si prosegue con una serie di «lagrime» (uso qui l’etichetta impiegata nella Lira mariniana, che sostituisce quella di «lugubri» delle Rime), di cui fa parte anche quello che è apparentemente un corpo estraneo in una raccolta lirica: il poemetto Oronta di Cipro 19, 40 ottave in cui viene narrata la vicenda della vergine Oronta, eroina di stampo tassiano fatta prigioniera dai Turchi durante la presa di Cipro che immola sé e i compagni di sventura dando fuoco alle polveri della nave che li sta portando a Costantinopoli20. Il poemetto è infatti il perfetto pendant del sonetto che immediatamente lo segue, dedicato a Lucrezia abbandonata: si costituisce così un dittico di morti esemplari in cui all’exemplum classico si affianca quello moderno e “controriformista”, e soprattutto si realizza un’ideale e interessante equivalenza tra espressione epica e lirica21. Le «lagrime»

17 A. Martini, Le nuove forme del canzoniere in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del Convegno di Lecce, 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno, 2002, p. 214. A monte del Marino, il frazionamento del canzoniere ha i suoi precedenti tardocinquecenteschi in C. Muzio, L. Paterno, O. Giustinian. 18 Atto a volte a incamerare una produzione ipertrofica, come nei casi di Stigliani e Bruni. 19 Poesie, cit., LXXIII. 20 È contenuto nei Capricci della Lira il poemetto Lidia abbandonata, che conta anch’esso 40 ottave (Rime C Ca, 59). 21 La serie «lugubre», che comprende anche una lirica per Guarini e una per Margherita d’Austria, si chiude con un sonetto In morte di un cavallo di bella donna: per analoghi “scherzi” cfr. G.L. Sempronio, La selva poetica, Bologna, C. Ferroni, 1633, che in coda alla sezione funebre intitolata Il cipresso pone due sonetti In morte di Gradasso valorosissimo levriero del sig. Ippolito Giusti e uno In morte d’un grillo.

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sono in realtà una sottosezione delle rime morali, che proseguono con un gruppo abbastanza consistente di sonetti in biasimo della vita di corte; sigla canonicamente il tutto un’esigua scelta di composizioni sacre (non marinane Divozioni, ma liriche riferite a un percorso biografico individuale). Palesemente estranee a un macrotesto altrimenti solido, cui partecipano solo per il computo numerico, sono le ultime quattro composizioni, ovvero i tre idilli a cui principalmente il bolognese deve la sua fama anche europea22 e un «Dialogo composto per recitarsi in musica da una mascherata» intitolato Amor trionfante aggiunto nell’ultima edizione, presenza certo inconsueta ma non eccezionale in chiusura di raccolta lirica23. Per esaminare i collanti macrostrutturali di un impianto solo apparentemente disgregato conviene prendere le mosse dalla prima sezione, quella amorosa, la quale, in un periodo in cui la concezione del romanzo sentimentale racchiuso entro la cornice di un canzoniere sembra definitivamente tramontata (solo illusoriamente petrarchesco è il titolo Canzoniero di Stigliani) e ormai consumato il divorzio tra occasioni autobiografiche ed espressione lirica, ripropone, almeno nelle linee generali, la “storia di un’anima”24. La rinnovata aderenza a un percoso idealmente autobiografico è dichiarata fin dal sonetto proemiale, che sostituisce alla canonica evocazione del momento dell’innamoramento la proclamazione di un’altra svolta fondamentale della vita, quella legata al ripudio degli studi giuridici in favore del servizio delle Muse25: Vastissimo ocean, le cui profonde voragini il mio ’ngegno han quasi absorto, da l’austro a l’orse e da l’occaso a l’orto stendi il tuo regno e non hai mete o sponde. 22 Proprio per la loro marginalità a livello strutturale non si tratterà in questa comunicazione dei tre idilli, per i quali si rinvia a Chiodo L’idillio barocco, cit. 23 Il modello è probabilmente B. Guarini, Rime, Venezia, G.B. Ciotti, 1598, mad. 149 (Mascherata di contadine) e 150 (Mascherata delle Virtù contr’Amore). 24 Tanto legata alle contingenze che Chiodo vi ha intravisto la “celebrazione di tre amori per tre donne diverse” (Note sull’opera di Girolamo Preti, in “Giorn. Stor. della Lett. It., CLXIX n. 546, 1992, pp. 269), una suddivisione forse valida in origine, ma che nell’organizzazione definitiva delle Poesie scompare o quantomeno viene assai smussata in favore di un impianto unitario, con un’operazione non dissimile da quella concepita dal Tasso con l’organizzazione della stampa Osanna delle Rime (per la quale si veda Martini, Le nuove forme, cit., p. 213.). 25 Sonetto II (il primo è una dedica ad Alfonso III d’Este). Sarebbe opportuno uno studio sulle composizioni proemiali barocche, che possa affiancarsi a quello offerto da Erspamer per i canzonieri cinquecenteschi (F. Erspamer, Il canzoniere rinascimentale come testo o come macrotesto: il sonetto proemiale, in “Schifanoia”, IV, 1987, pp. 109-14.

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De’ tuo’ immensi volumi i flutti e l’onde sperai vincer col tempo, e prender porto. Ma già son fatto, ahi troppo tardi, accorto che ’l tuo sen solo scogli e sirti asconde. Altro mar solcherò per mio ristauro, cui non turbano mai venti o procelle: sarà porto la gloria, e merce il lauro. Donna, le luci tue pietose e belle, mentre anch’io vo cercando un vello d’auro, sien la mia tramontana e le mie stelle.

La composizione che fa da proemio (e che non risponde ai canoni dell’exordium: siamo già nell’initium narrationis) è indicativa di come il Preti intenda mettere il suo repertorio retorico al servizio non di un singolo testo, bensì di un più vasto sistema: il sonetto è tutto impostato sull’allegoria nautica, ma al tradizionale itinerario procelloso si sostituisce la statica e disperante visione delle immensità dell’oceano della giurisprudenza; donde la risoluzione di solcare un “altro mar” che condurrà infallibilmente alla gloria. L’altro mare rivela la sua natura poco oltre, nella prima delle cinque canzoni (il componimento X), dopo una serie di sonetti di esaltazione delle bellezze dell’amata (motivo questo sì topico ad apertura di raccolta, ma trattato dal Preti in un ottica marcatamente platonizzante, per cui il discorso amoroso si fa già veicolo di istanze morali, riproponendo un’alleanza che il Marino aveva spezzato): Già mi minaccia Amore onde di pianti, turbini di sospir, nembi di duolo, scogli di crudeltà, flutti d’orgoglio. Misero, il veggio: e pur ardisco, e voglio, seguendo Amore e i miei pensieri erranti, spiegar per onde tempestose il volo. Regge ’l mio corso il polo d’un bel sembiante e di due stelle infide, che, con soavi e lusinghiere scorte menandomi a la morte, son mie nemiche, e le pigliai per guide. Così mi trovo infra perigli avvolto: l’andar pavento, e ’l ritornar m’è tolto26.

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Poesie, cit., X, vv. 14-26.

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La bonaccia ha lasciato il posto a un «pelago crudele» e procelloso, foriero di imminente naufragio, mentre le «luci pietose e belle» che avrebbero dovuto costituire gli infallibili punti di riferimento per la navigazione si rivelano come «stelle infide» che conducono alla rovina e alla morte. E su queste tonalità l’allegoria ritorna a più riprese nelle Poesie, scandendo gli itinerari di un percorso che scavalca le partizioni di contenuto e che già giustifica l’assenza di linee divisorie nella raccolta. Un altro esempio di legante inteso a creare una sequenza narrativa è costituito da un gioco combinatorio attorno al petrarchesco «spero trovar pietà, nonché perdono» disseminato lungo la sezione amorosa. La prima ricorrenza è nella già citata canzone X, v. 56, in cui l’amante proclama orgogliosamente «Io non voglio pietà, non cheggio aita», dichiarando in tal modo la superiorità e la purezza di un amore segreto: la formulazione torna, ma con una variatio che rivela il progressivo cedimento della fermezza dei propositi, in XV, v. 11: «e vi cheggio pietà, ma non aita». Con la composizione seguente il cerchio si chiude con la caduta del proponimento virtuoso: «Il pianto è vano, e ’l sospirar non giova | per ottener pietà, non che mercede» (XVI, vv. 3-4). Gli incipit forniscono altre occasioni per creare delle serie sull’asse paradigmatico. Ne è un esempio l’attacco iterato, di fattura guariniana e mariniana, con voci del verbo “ardere”, che scandiscono le tappe progressive di un percorso esistenziale. Dapprima l’esordio, sempre con il verbo alla prima persona singolare, funge da comun denominatore per una serie di tre componimenti successivi dedicati al silenzio amoroso e all’amore casto (XIII-XV 27); sempre in prima persona, ma volto al passato remoto, il verbo in posizione incipitaria marca, a conclusione della sezione amorosa, il definitivo superamento dell’adorazione estatica della donna: «Arsi, né fiamme ha tante ...» (XLIX, v. 27: incipit della terza stanza). La ripresa dello stesso motivo non può a questo punto avvenire che in una nuova prospettiva esistenziale, quella delle rime morali e sacre: e in effetti, a chiusa di canzoniere e in sede di bilancio esistenziale, ecco ricomparire il modulo, ormai definitivamente consegnato al passato: «Arsi lunga stagion, piansi e cantai» (LXXXVII, v. 5: sonetto in biasimo dell’amore profano). È in questa sezione, ed è introdotto pure dal verbo “ardere”, il sonetto responsivo al Marino ricordato in precedenza e che ci si attenderebbe di trovare invece tra le rime amorose, anche in considerazione della proposta (un lamento per un amore non corrisposto). La

27 XIII, V. 1: «Ardo, ma la mortal tenace arsura»; XIV, v. 14 [incipit della seconda stanza]: «Ardo, e taccio il mio mal, perch’io pavento»; XV, v. 1: «Ardo tacito amante, e ’l foco mio».

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collocazione tra le morali è densa di significati: se infatti la sua inserzione comporta una rottura – peraltro autorizzata dal modello petrarchesco – della continuità biografica (e infatti il verbo torna al presente: «Ben ardo anch’io, ma d’un bel viso adorno»: XCII, v. 1), essa significa soprattutto che non vi è separazione tra discorso amoroso e discorso morale, in contrapposizione – ed è questo in definitiva il principale motivo di dissenso – con la proposta mariniana di innalzare invalicabili paratie tra un ambito lirico e l’altro. I segnali di coesione tra amore e morale sono in effetti disseminati lungo tutta la raccolta, coinvolgendo anche la sezione apparentemente parentetica, quella encomiastica: gli epitalami offrono infatti l’occasione per sancire la saldatura: «Amor, non tu, che con lascivi ardori, | la ragione adombrando, il senso accendi | ... | Ma tu, che de le menti ai ciechi orrori | con l’ardor di tua face il lume rendi» (LXVII, vv. 1-6) 28. Si è così ricondotti al motivo più caratteristico della produzione del Preti, quello dell’«ardor santo e celeste, ardor pudico» (XIV, v. 32), che pure va sommariamente esaminato in prospettiva macrotestuale. Il tema platonizzante e neocortese della bellezza dell’amata quale riflesso della luce divina è il filo conduttore della prima parte della raccolta (VI, vv. 5-8: «Raggio di deità ... | divina imago, in cui l’Eterna Cura | effigiò se stessa e si dipinse»; VII, vv. 10-11: «nel bel volto di cui viva scolpio | un’imago di sé l’Eterna Mente»; XIV, vv. 40-41: «Veggio, quando a mirar costei m’affiso, | ch’un raggio in lei di deità risplende»; XXV, vv. 35-37: «e ’n contemplar le mura [della casa dell’amata] al cor discende | gioia ch’ei non comprende, | quasi un raggio di Dio l’anima inspiri», ecc.), e l’ambito amoroso è già inscindibilmente legato alla dimensione etica. Del tutto assenti sono le lodi e i blasons delle parti del corpo femminile o gli oggetti-feticcio relativi all’amata, così frequenti nelle serie sonettistiche e soprattutto madrigalistiche dei “canzonieri” di Marino e Stigliani29: la bellezza è infatti solo la veritiera, ma comunque pallida manifestazione della virtù (X, vv. 90-91: «e conosco che ’n lei cede la palma | la beltà del sembiante al bel de l’alma»; XVIII, vv. 5-6: «Amo in voi la beltà che dentro siede, | che nulla ha di caduco o di mortale», ecc.). Sono coordinate che concedono all’espressione amorosa la sola via della sublimazione, per la quale «... l’anima apprende | vincer gli affetti e trionfar de’ sensi» (XIV, vv. 46-47): un percorso, quindi, antitetico rispetto al sensua28

Formulazioni analoghe nel poemetto epitalamico L’amor celeste (LXV), ottave 3-5. Da qui la quasi totale assenza, assai anomala a questa altezza cronologica, del madrigale nelle Poesie: due soli esempi (XXXI e XXXII), giustamente considerati da Martini “un congedo al genere quale sovranamente coltivato dal napoletano” (Martini, Le nuove forme, cit., p. 225). 29

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lismo del Marino30, ma che salta anche una tappa rispetto all’archetipo petrarchesco, dato che non è concesso alcun margine all’inganno dei sensi abbagliati dalla bellezza fisica e incapaci di riconoscere la bellezza spirituale: qui il primato di quest’ultima è sempre indiscusso. Donde una svalutazione quasi assoluta della fisicità: è significativo che già nella giovanile Salmace la descriptio personae concerna solo Ermafrodito, emblema di castità, e non vi sia una corrispondenza femminile per Salmace, se non attraverso il ricorso a un estremo laconismo31 (nell’Oronta di Cipro, poi, la descrizione dell’eroina espunge del tutto l’elemento corporale in favore di quello ideale: «E, se lice pur dir ciò che parea, | men bella fu de la Beltà l’idea»32). Questo non è tuttavia che il punto di partenza: la tappa successiva è rappresentata dal sonetto XXX (Per la sua donna specchiantesi), che ripropone il motivo platonico della bellezza come immagine del «sembiante interno», ma in prospettiva rovesciata: sfruttando il topos dello specchio e il soggetto della donna-Narciso intenta a compiacersi della propria immagine, il poeta contrappone al fallace riflesso delle apparenze un veritiero rispecchiamento, quello del cuore: Mentre in cristallo rilucente e schietto il bel volto costei vagheggia e mira, armando il cor d’orgoglio, il ciglio d’ira, del suo bel, del mio mal prende diletto. Vaga del vago e lusinghiero aspetto, dice: Ben a ragion colui sospira! Sembrano a lei, che sue bellezze ammira, oro il crin, rose il labro e gigli il petto. Ah, quel cristallo è mentitor fallace, che scopre un raggio sol del bello eterno, anzi un’ombra d’error vana e fugace! Vedrai, se miri il tuo sembiante interno, cui ritragge il mio cor, specchio verace, angue il crin, tosco il labro, il petto inferno.

Mediante un’originale forma di rapportatio le chiuse di fronte e sirma trasmettono in modo quasi iconico il duplice rispecchiamento: a tre elementi 30

Il quale peraltro, almeno come controcanto, ha coltivato anche in questo terreno: cfr. ad esempio, Rime C Am, 2. 31 Rispettivamente, XCVII, vv. 202-51 e 405-06. 32 LXXIII, ottava 20, vv. 7-8.

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fisici ripetuti due volte (crin – labro – petto), vengono accostate le qualifiche metaforiche delle rispettive immagini specchiate, dapprima in relazione alla realtà fenomenica, poi, con un rispecchiamento al quadrato, nella loro effettiva identità sul piano morale rivelata dallo «specchio verace» del cuore (il chiasmo che si determina con l’ultima coppia delle due serie – «gigli il petto – il petto inferno» – sottolinea ulteriormente il tema-guida). La completa palinodia è espressa a chiusura della sezione amorosa, mediante il reimpiego in contesto invertito degli stilemi usati per la glorificazione (si confrontino ad esempio XXVII, v. 7 [a Febo]: «la luce [della donna] che t’oscura in oriente» e XLIX, vv. 14-19: «O di quel giorno acerba | e rimembranza e luce, | ... ch’io vidi, empia e superba, | la donna in cui riluce / splendor che ’l sole in oriente oscura»), oppure, e nuovamente, attraverso la ripresa rovesciata dei topoi platonici disseminati nelle composizioni introduttive (ad esempio in XLIX, vv. 43-47: «che ritrovar sperai | nel sovrumano oggetto, | sotto membra celesti, alma di cielo. | Ma in bel corporeo velo | si chiude alma difforme, alma d’inferno»). Nell’ultima delle composizioni amorose, il sonetto LII, il gioco si fa particolarmente scoperto: Qui la donna di ghiaccio il cor m’accese, qui le chiome disciolte il cor legaro: qui dolce Amor, ma in sue dolcezze amaro, crudo mi lusingò, dolce m’offese. Da l’antico mio duol nuove difese, e dal mio mal la mia salute imparo: fuggito augel dal predatore avaro riede più cauto ove la rete il prese. Qui quant’ebbi dolor, tanto ho spavento; fuggo con l’alma se col piè m’appresso, e presente a colei lunge mi sento. Qui se indarno cantai, cantar non cesso; ma canto a chi m’ascolta, e non al vento, e qui l’alloro avrò, s’ebbi il cipresso.

A una serie di corrispondenze oppositive in praesentia se ne aggiungono altre che agiscono solo in prospettiva intratestuale: il v. 14 risponde infatti specularmente alla chiusa del sonetto XLVI: «avrò, lasso, i cipressi, ella gli allori», mentre la similitudine dei vv. 7-8 è il corrispettivo per antitesi di XXXV, vv. 9-11:

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Vo com’augel ch’al piede ha il laccio avvolto, che, se la morte o la prigion paventa, fugge l’ali battendo, e non è sciolto.

Il tema è ora pronto per essere consegnato, senza soluzione di continuità, alla sezione sacro-morale, dove si chiude il cerchio delle corrispondenze oppositive: così, ad esempio, la «... beltà che dentro siede | che nulla ha di caduco o di mortale» di XVIII, vv. 5-6 si rovescia, con perfetta specularità, nella «caduca bellezza» e nella «beltà mortal» di XCIII (Loda l’amor delle cose celesti), vv. 1 e 13. È evidente, anche solo da questi assaggi, l’impostazione parenetica del “canzoniere” del Preti (la donna sarà senz’altro qualificata come «angue» nell’ultimo sonetto della raccolta33, un epiteto ricorrente anche nel Marino, dove però non assume mai connotazioni morali), parallela all’evoluzione della pittura bolognese dei primi decenni del Seicento34, come ben segnalato da Raimondi35. Il parallelismo potrebbe proficuamente estendersi ad elementi più propriamente iconici – e si tratterebbe di stabilire se l’iniziativa partisse dall’ambito figurativo oppure da quello letterario – confrontando la rappresentazione della natura nella Salmace e nelle liriche più marcatamente immaginifiche (come il trittico pastorale XL-XLII) e i soggetti analoghi trattati dalla linea Carracci – Reni – Domenichino – Guercino: è un terreno sul quale però, in questa sede, non ci si inoltra. Tornando alle relazioni con il Marino, è curioso segnalare come recenti indagini sul terreno della lirica del primo Seicento abbiano indicato nel Preti addirittura un rappresentante di punta della reazione antimarinista, invertendo così l’assunto che aveva decretato il secolare bando del bolognese dal Parnaso36. In realtà il confronto tra le prime due parti delle Rime del napoletano con le Poesie del Preti rivela una fittissima rete di concordanze, che non possono essere interpretate che come dipendenze del secondo nei confronti del primo. Più complesse sono le relazioni che si instaurano con la terza 33

XCVI, vv. 12-14: «Io, che già tanto sospirai, quell’io | che già piansi per altri, e per un angue | ora per me non piango, e per un Dio?». 34 È significativa la virata in direzione morale e classicista del Guercino attorno al 1620. 35 E. Raimondi, La metafora ingegnosa. Letteratura a Bologna nell’età di Guido Reni in Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 21-53. 36 Cfr. ad esempio A.M. Luisetti: “Girolamo Preti [...] rappresentante di spicco nella Bologna anti-marinista della tendenza barocco-moderata, se non esplicitamente classicista; ammiratore, ma non certo seguace del Marino” (in P.G. Orsini, Rime diverse, a c. di A.M. Luisetti, Torino, Res, 1996, p. 204).

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parte delle rime, ovvero la Lira, che esce dai torchi nel pieno dell’attività poetica del Preti (nel 1614, data di pubblicazione della raccolta mariniana, escono pure gli Idilli e rime, che raccolgono il primo significativo blocco – 37 componimenti – della sua produzione). Per comprendere la natura del rapporto Preti – Marino a questa altezza cronologica è indicativo l’esempio offerto dal sonetto XXI (Per una donna, mentre vedeva il suo vago che giuocava a palla), uno dei pochi a presentarsi come assolutamente estraneo alle vicende dell’io lirico, data l’assunzione di un’ottica femminile, secondo un gioco di ruolo caro al Marino ma ben presente anche nella tradizione lirica precedente37 (l’indipendenza rispetto all’impianto macrostrutturale si spiega con l’alta data della composizione, che fa parte della prima produzione lirica, comparendo a stampa già nel 1611 in una pubblicazione miscellanea38). Ecco ch’Amor novello un arco stringe, onde scherza, ond’impiaga ogn’alma errante, mentre l’orbe volubile e volante con percosse iterate avventa e spinge. Or s’inoltra, or s’arresta, or si ristringe, gira di qua, di là la man, le piante, e la chioma dorata e ’l bel sembiante s’imperla di sudor, d’ostro si tinge. Quell’arco, arco è d’Amor, la palla è il dardo, sento ben io la piaga aspra e pungente, e, se scherza la man, fulmina il guardo. Colà ratto il mio cor vola sovente, e de la mano ond’io mi struggo ed ardo, fatto palla animata, i colpi sente.

La dipendenza dalle prime due parti delle Rime del Marino è evidente tanto nell’impostazione, che rinvia, ad esempio, alla serie 40-49 delle Amorose (corona di sonetti «ad instanza ed in persona d’una cortigiana, la quale si era fortemente invaghita d’un giovane») quanto, ancor più, nell’organizzazione interna e nell’impianto retorico: si veda il madrigale Canto amo-

37 L’altro esempio è rappresentato dal sonetto XXVIII: Per una donna la qual vide il suo vago che uccellava con l’archibugio, che intrattiene analoghe relazioni con composizioni mariniane. 38 Scaioli, Parnaso, cit., c. 77. 39 Anche modello per il son. XIX: Canto e suono della sua donna.

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roso (Rime B, 2 39): Fuggite incauti amanti la canora omicida ch’asconde empia ed infida sotto note soavi amari pianti. Quelle corde sonore sono i lacci d’Amore; quella, che sembra cetra, è d’Amor la faretra; quell’arco, arco è d’Amor, que’ dolci accenti son saette pungenti.

Oltre a trapiantare il primo emistichio del v. 9 nella medesima posizione del suo sonetto, il Preti riprende dal Marino la divisione tra una prima parte oggettiva e una seconda esegetica, in cui gli elementi precedentemente esposti sono assunti quali figuranti e tradotti in figurati. Tuttavia i rapporti più stringenti si hanno con composizioni, cronologicamente successive, della Lira: si consideri il dittico Rime C Am, 55-56 (Giuoco di pallone. Per una donna e Giuoco di racchetta. Per la medesima): Globbo gravido d’aure al ciel sospinto ferir con cavo legno, il volto e ’l crine sparso di vive fiamme e vive brine veggio scherzando il mio novel Giacinto. E crudel fra gli scherzi, al gioco accinto, ma più molto ale stragi, ale rapine strugger mill’alme, e di chi vince alfine trionfar vincitore, e vincer vinto. E mentre, quasi un ciel ch’avampi e scocchi, battendo il lieve suo volubil pondo, tuona col braccio e folgora con gli occhi, par degli strazi suoi lieto e giocondo, o la man vaga o ’l piè leggiadro il tocchi gioir percosso e ripercosso il mondo. (Rime C Am, 55) [...] volo al volar de la volubil palla, e quanti colpi intanto il mio diletto m’aventa con la man, che mai non falla, tanti fa nodi al alma e piaghe al petto. (Rime C Am, 56, vv. 11-14).

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Il «canzoniere» di Girolamo Preti

e la similitudine di Rime C Am, 79, vv. 12-14: Così suol giocator, che palla aspetta per ribbatterla indietro, e la riceve sol per spingerla poi con maggior fretta.

È chiaro come ora le parti si siano invertite e come sia stato il ben noto rampino del poeta più anziano ad aver prelevato dal giovane ammiratore: ed è significativo che il Marino attinga non alla più recente produzione del Preti, concepita per un disegno unitario, ma a quella precedente, più eversiva rispetto alla tradizione petrarchesca e ancora legata ai modi manieristi, per esempio, di un Rinaldi40. Un legame a doppio filo, dunque, che si manifesta però sempre a livello dei singoli componimenti, non del loro contenitore (neppure del loro contenitore metrico, se si considera la già ricordata indifferenza del Preti per il madrigale). Il presunto antimarinismo del bolognese è quindi da ricercare nell’impianto macrostrutturale? Forse, più che appellarsi a categorie antitetiche, si potrebbe ricordare la suggestiva ipotesi suggerita da Santagata dell’esistenza nella lirica quattro e cinquecentesca di un petrarchismo “forte” e di uno “debole”: secondo lo studioso “un codice petrarchesco formato e fissato espunge il livello macrostrutturale [e quindi non richiede la presenza di un libro di poesie dotato di una sua propria architettura], mentre un codice petrarcheggiante ancora aperto e in via di formazione empirica può accoglierlo fra i suoi settori sperimentali” 41. Se si accettano queste premesse, e se si ritiene legittima, mutatis mutandis, la loro esportazione in altro contesto cronologico e culturale, quello del Preti potrebbe essere considerato una forma di marinismo “forte”, e rafforzato proprio dal riconoscimento dato da un “maestro” che non esita a prelevare dal “discepolo”. Il Marino aveva disgregato il modello petrarchesco sciogliendo i leganti che componevano la “storia di un’anima” e i riferimenti a un amore unico, e innalzando pareti divisorie invalicabili (o quasi) tra l’ambito amoroso, quello encomiastico e quello etico42; il Preti ripropone un’unitarietà che non è un rovescio dell’impianto fissato dal napoletano (le categorie delle Rime, si è visto, restano

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Un altro esempio di prelievo del Marino, questa volta per l’Adone, è segnalato da A. Battistini, Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma, Salerno, 2000, p. 165 e concerne il sonetto LIV (Fontana di Paolo Quinto nella Piazza di San Pietro in Roma). 41 Santagata, Dal sonetto al canzoniere, cit., p. 15. 42 Si veda, di nuovo, Martini, Le nuove forme, cit. (particolarmente pp. 213-15); cfr. anche, dello stesso studioso, Marino postpetrarchista, in “Versants”, VII, 1985.

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Stefano Barelli

risconoscibili nelle Poesie), ma che indica una via diversa entro cui incanalare un modello estetico comune: le partizioni mariniane (e stiglianesche) possono così comporsi entro un macrotesto petrarcheggiante. Quale sia il grado di originalità della sua proposta rispetto a quella, certo prevalente, del Marino (che si concretizza nelle «selve», «giardini», «cieli», «cetre», e quant’altro intitola le raccolte del secondo Seicento), è, allo stato attuale delle ricerche, arduo dire: nuove indagini sui “canzonieri” seicenteschi potrebbero a questo riguardo rivelare dei retroscena inaspettati.

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Eraldo Bellini PETRARCA E I LETTERATI BARBERINIANI

Nel volume delle Poesie liriche toscane e latine di Virginio Cesarini, la cui stampa, iniziata a Roma da Ludovico Grignani, rimase poi misteriosamente interrotta, si può leggere un importante documento epistolare in prosa latina indirizzato da Virginio Cesarini a Maffeo Barberini, nel quale sono illustrati i nuclei di quella riforma ‘barberiniana’ della poesia che farà avvertire la propria influenza culturale durante tutto il più che ventennale pontificato di Urbano VIII 1. 1 Le Poesie liriche toscane e latine di D. Virginio Caesarini [nel frontespizio inciso: «Di D. Virginio Cesarini Poesie liriche toscane e latine, In Roma, Per il Grignani», s.d.] sono tramandate in un’unica copia a stampa conservata presso la Biblioteca Nazionale di Roma, con segnatura 7 10-E 35. L’epistola Maphaeo Barberino cardinali amplissimo postea Urbano VIII si legge nella sezione delle poesie latine alle pp. 76-97 (ma in realtà 76-85, giacché la numerazione salta per errore da p. 76 a p. 89): di qui i passi citati successivamente nel testo. I componimenti sia latini sia volgari del Cesarini videro la luce di fatto per la prima volta, con il titolo complessivo di Carmina, nei due volumi stampati a Roma nel 1658 presso Bernabò Dal Verme. Una ampia indagine intorno alle stampe ed ai manoscritti contenenti componimenti del Cesarini in M. Costanzo, Inediti di Virginio Cesarini, nella sua raccolta Critica e poetica del primo Seicento, II, Maffeo e Francesco Barberini, Cesarini, Pallavicino, Roma, Bulzoni, 1970, pp. 33-100 (alle pp. 36-38 notizie sulla incompiuta edizione Grignani). Per l’attività poetica del Cesarini, oltre al saggio fondamentale di E. Raimondi, Paesaggi e rovine nella poesia d’un «virtuoso» [1963], poi nel suo volume Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 43-72, sarà ora da vedere T. Bonaccorsi, «Clausus rerum aperire sinus». L’esperimento d’un poeta linceo: Virginio Cesarini, «Bruniana e Campanelliana», 7 (2001), pp. 51-76. Utili indicazioni anche in V. De Caprio, Alcune linee della lirica romana, nella miscellanea Dopo Sisto V. La transizione al Barocco (1590-1630), Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1997, pp. 99-136: 129-134. Una ricostruzione della biografia intellettuale del Cesarini è in E. Bellini, Umanisti e Lincei. Letteratura e scienza a Roma nell’età di Galileo, Padova, Antenore, 1997 (in particolare cap. I e cap. IV).

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Accompagnando un «Pindaricum carmen» di fresco composto dall’amico e sodale Giovanni Ciampoli, Cesarini indicava senza indugi nel Chiabrera l’unico modello degno di essere imitato da coloro che intendessero cimentarsi in questo genere poetico2. Chiabrera era infatti il solo, a parere di Cesarini, che avesse attinto con abbondanza ai fonti greci, mentre la schiera degli altri poeti si era affaticata quasi esclusivamente intorno alla lirica d’amore, restringendo in uno spazio troppo angusto le possibilità ben più ampie offerte all’imitazione poetica. La censura del Cesarini non chiama in causa direttamente Petrarca, lodato anzi per aver liberato la poesia dal duro giogo barbarico («Rudi adhuc Italia necdum barbarorum iugo excusso, et peregrinitate exacta licuit Francisci Petrarchae miram in scribendo ubertatem laudare, metaphysicasque illas amoris ideas, propriam illius vatis suppellectilem, tam accurate et adamussim exhibitas admirari»), ma investe la prolifica famiglia dei ‘petrarchisti’, «qui se illi mancipantes, ipsum non ut ducem sequuntur, sed uti dominum colunt». Anche Cesarini, come confessa egli stesso a Maffeo, aveva iniziato il suo tirocinio poetico sotto il segno degli amori impudichi e degli «incendia vana»3, ma ben presto si era allontanato da quella «pau-

2 Sul sodalizio intellettuale che legò Cesarini al Ciampoli, nel segno della comune appartenenza lincea e dell’ammirazione per Galileo, si rinvia a Bellini, Umanisti e Lincei, pp. 1-84. Sulla stagione pindarica che sulle orme di Chiabrera costituì l’indirizzo prevalente del ‘classicismo’ romano di primo Seicento, sotto le cui insegne operarono letterati di diversa formazione e provenienza, quali Maffeo Barberini, Cesarini, Ciampoli, Sforza Pallavicino, Fulvio Testi e Alessandro Adimari, saranno da vedere, oltre le sintetiche osservazioni che si leggono in Bellini, Umanisti e Lincei, pp. 299-301, F. Vazzoler, Un’inedita parafrasi pindarica di Giovanni Ciampoli. Contributo allo studio del pindarismo nel Seicento, in Studi di filologia e letteratura dedicati a Vincenzo Pernicone, II-III, Genova, Università degli Studi di Genova, 1975, pp. 259-280; A. Beniscelli, La mediazione oraziana di Fulvio Testi e la lirica classicistica del Seicento, Casale Monferrato, Marietti, 1984; L. Castagna, Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, in La scelta della misura. Gabriello Chiabrera: l’altro fuoco del Barocco italiano, a cura di F. Bianchi e P. Russo, Genova, Costa e Nolan, 1993, pp. 139-175 (dove si rivendica al Ciampoli, di ben 38 anni più giovane rispetto a Chiabrera, un ruolo decisivo nell’indirizzare l’ispirazione pindarica del poeta savonese). Si vedano anche C. Gaschino, Le poesie pindareggianti inedite dello Sforza Pallavicini, Cherasco, Tip. Municipale F. Raselli, 1913, e C. Del Bravo, Pindaro, il “Barocco”, Bernini, in Barocco romano e Barocco italiano. Il teatro, l’effimero, l’allegoria, a cura di M. Fagiolo, M.L. Madonna, Roma-Reggio Calabria, Gangemi, 1985, pp. 45-50. 3 Ben informato appare Agostino Favoriti, autore della Virginii Caesarini vita che precede la sezione latina dei Carmina nell’edizione Bernabò Dal Verme del 1658, [pp. 1-14: 9]: «In his quae scripsit materna lingua, multa reperiuntur etiam amatoria, satis pro argumento verecunda et sobria, quae tamen author postea improbabit, tanquam imbecilla adhuc aetate scripta; et superat eorum numerus quae hominem philosophum, et a vulgi erroribus

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Petrarca e i letterati barberiniani

perrima […] poetarum natio», infastidito, e quasi disgustato, da quei versi di continuo riproposti e ad ogni replica sempre più avviliti rispetto al già illustre modello. Il componimento proemiale che apre, sia nella stampa Grignani sia nei Carmina del 1658, la sezione volgare delle poesie del Cesarini marca con evidenza questo allontanamento dalla lirica d’amore, che ormai deve cedere il passo alla lode delle virtù morali celebrate con marcati accenti neostoici: Arcier di Delo, oggi di lira imbelle l’arco deponi e gli amorosi accenti: ricusa il plettro mio d’occhi ridenti, idolatra d’Amor, cantar due stelle. […] Ecc’io primier con venerando esempio vi conduco al Liceo per via canora; e della Stoa felice, ove s’adora virtù reina, io fermerovvi al tempio.

La diffusa e quasi esclusiva propensione dei poeti per gli argomenti d’amore, declinato spesso nei suoi aspetti più vani e lubrìchi, è stata causa, continua Cesarini nella lettera a Maffeo, di una grave perdita di considerazione dell’attività dei poeti e dei letterati, fin quasi a rendere inconciliabile nella opinione generale il nome di poeta con quello di uomo dabbene. A tale situazione intende porre dunque rimedio la musa del Ciampoli, tesa, per contro, a recuperare grandi temi morali e civili onde giustificare, secondo l’avvertimento di Platone, la permanenza dei poeti nel seno di una ideale repubblica. Né certo confligge con questo nobile progetto l’intenzione di aprire l’imitazione poetica anche a soggetti sacri, comunemente rifiutati dai poeti perché considerati «argumenta invenusta et languoris plena». L’esempio di Maffeo, capace di coniugare felicemente soggetti morali e religiosi con le regole più esigenti dell’imitazione poetica, svela con eccesso di prova come le scuse

alienum, magis deceant, quaeque christiano poeta digniora videri possint». Sul Favoriti, figura di rilievo nella corte di Alessandro VII e in stretti rapporti con Pallavicino, nonché a sua volta buon poeta latino, si veda, oltre a R. Contarino, D. Busolini, Favoriti Agostino, DBI, 45 (1995), pp. 477-482, T. Montanari, Sulla fortuna poetica di Bernini. Frammenti del tempo di Alessandro VII e di Sforza Pallavicino, «Studi secenteschi», 39 (1998), pp. 127164: 138-152. Questa attività giovanile del Cesarini (ma si ricordi che Cesarini morì l’11 aprile 1624 neppure ventinovenne) è stata portata alla luce per la prima volta in Costanzo, Inediti di Virginio Cesarini, pp. 79-100.

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Eraldo Bellini

avanzate dagli scrittori altro non siano se non astute menzogne 4. In conclusione della lettera, Cesarini si poneva dunque alla sequela di Maffeo e di Ciampoli, auspicando che, persuasi dal loro esempio, i moderni potessero infine riscoprire le vere leggi della poesia da lungo tempo ormai cadute in oblìo. Elaborata verisimilmente intorno al 1618 5, l’epistola a Maffeo Barberini si colloca in perfetta sintonia con alcune Prolusiones academicae di Famiano Strada, edite nel 1617, dove il dotto gesuita, uno dei maestri più ascoltati di questa generazione di letterati, si chiedeva An poetae dicendi sint obscenorum carminum scriptores e An poetice faciant, qui versus faciunt impudicos 6. 4

Intorno all’attività letteraria di Maffeo Barberini si dovrà rinviare a M. Castagnetti, I “Poëmata” e le “Poesie toscane” di Maffeo Barberini. I. Stampe e problemi di cronologia, «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo», s. IV, 39 (1979-1980), pp. 283-388, e, della stessa Castagnetti, La ‘Caprarola’ ed altre ‘Galerie’. Cinque lettere di Maffeo Barberini ad Aurelio Orsi, «Studi secenteschi», 34 (1993), pp. 411-450. Utili indicazioni anche in C. D’Onofrio, Roma vista da Roma, Roma, Edizioni ‘Liber’, 1967, pp. 3348; M. Costanzo, Sonetti giovanili di Maffeo Barberini, in Critica e poetica del primo Seicento, II, pp. 13-31; V. Salierno, I ‘Poëmata’ di Urbano VIII, «L’Esopo», 21 (1984), pp. 35-42. Si veda anche G. Spini, Galileo, Campanella e il «divinus poeta», Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 41-57. 5 Il documento epistolare sembra avere infatti qualche legame con quanto lo stesso Cesarini scriveva a Galileo, sempre in relazione agli esperimenti pindarici di Ciampoli, in una lettera datata Roma, 1 ottobre 1618: «Tratanto ella favoriscami, in virtù dell’amicizia comune, di ascoltare alcuni de’ componimenti del S.r Ciampoli, ornati delle novità e vaghezze greche ch’io ho accennate: e sì come ella ne’ studi di matematica e filosofia ha con tanta felicità tentato e arrivato a cose nuove, finché apieno sarà raguagliato de’ nostri pensieri dal S.r. Ciampoli, sospenda il suo giudizio dalla inclinazione verso i poeti antichi lirici toscani, e non attribuisca tanto alla venerazione dell’antichità, che l’arbitrio resti corotto dalla falsa grazia delle opinioni vulgari. Attribuisca, di grazia, V.S. alla chiarezza del suo ingegno questo pregio non affatto vulgare, di non aver disprezzato la musa argiva del S.r. Giovanni adottata nell’Italia, e degnisi di sospettare che forsi, non altrimente ch’ella in Aristotele e in Tolomeo ha scoperti molti mancamenti, così anco qualche altro ingegno abbia potuto riconoscere l’imperfezzioni de’ poeti toscani che fin ora avevano scritto. Di ciò il S.r. Gioanni è per raggionare con esso lei più assai di quello che io sapessi o potessi dire» (G. Galilei, Opere, XII, a cura di A. Favaro e I. Del Lungo, Firenze, Barbèra, 1934, pp. 413-415). 6 F. Strada, Prolusiones academicae, Romae, Apud Iacobum Mascardum, 1617; le due prolusioni citate nel testo, cui si dovrà aggiungere la contigua An ex rebus sacris idonea commentationibus poeticis argumenta proveniant aeque ac ex profanis, qui alle pp. 76-183. Su Famiano Strada (1572-1649), insegnante di Cesarini presso il Collegio Romano (un elogio del mirabile ingegno di Cesarini si legge nelle Prolusiones academicae alle pp. 381382), si vedano almeno M. Fumaroli, L’Âge de l’éloquence. Rhétorique et «res literaria» de la Renaissance au seuil de l’époque classique, Genève, Droz, 19842, pp. 190-202, e C. Mouchel, Cicéron et Sénèque dans la rhétorique de la Renaissance, Marburg, Hitzeroth,

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Petrarca e i letterati barberiniani

Strada, da un lato, contrapponeva alle morbidezze dei moderni la severa lezione dei classici, ma dall’altro, riproponendo celebri anatemi platonici, sosteneva che non poteva essere considerata vera poesia quella che non portava nessun giovamento «al bene pubblico», e rinunciava di fatto ad una doverosa distinzione tra ‘poesia d’amore’ e ‘poesia impudica’ od ‘oscena’7. Gli stessi nuclei argomentativi che avevano sorretto la lettera di Cesarini a Maffeo risuonavano nel 1624 all’interno delle Pompe del Campidoglio di Agostino Mascardi. Qui, nella decifrazione dei complessi apparati edificati per la solenne presa di possesso di Urbano, Mascardi, sostando di fronte alla statua della Poesia Sacra, indicava l’esemplarità delle scelte tematiche e stilistiche che avevano illustrato l’attività letteraria del già cardinale Maffeo Barberini: «Maffeo Barberino trasse la maniera del poetar dalla Grecia, l’elocuzione dal Lazio, l’argomento dal Cielo. Intessè l’aureole del paradiso con palme tebane e con allori latini; richiamò Pindaro dagli arringhi elei alle vittorie celesti e, in vece di Ierone, d’Arcesilao, o di Cromio, gli fe’ lodar Lodovico, Lorenzo e Maddalena. E con quest’arte imparata non nel profano Parnaso, ma nel religioso Oratorio, insegnò con l’esempio che le materie sagre eran capaci d’ornamento poetico»8. Nel 1631, infine, ritessendo in versi latini le sparse osservazioni di Famiano Strada, di Cesarini e di Mascardi, all’interno della edizione dei Poëmata apparsa per cura dei gesuiti presso il Collegio Romano lo stesso pontefice si incaricava di rendere pubblica, con l’elegia Poesis probis et piis ornata documentis primaevo decori restituenda, la propria «enciclica letteraria»9.

1990, pp. 271-296. Sulla scia delle ricordate Prolusiones di Famiano Strada si colloca anche il Discorso di Girolamo Preti sovra la poesia che apre la seconda edizione delle Lagrime di Maria Vergine di Ridolfo Campeggi, stampate a Bologna nel 1618 per gli Eredi del Perlasca (per la lettera del Preti si veda Bellini, Umanisti e Lincei, pp. 115-117). 7 Le posizioni estetiche dello Strada sono illustrate in E. Raimondi, Alla ricerca del classicismo [1964], in Anatomie secentesche, pp. 27-41 (qui, a p. 30, la citazione). Si dovranno anche tener presenti F. Croce, Le poetiche del Barocco in Italia, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, I, Milano, Marzorati, 1959, pp. 547-575: 552-553, e F. Malterre, L’esthétique romaine au début du XVII e siècle d’après les “Prolusiones Academicae” du P. Strada, «Vita latina», 66 (1977), pp. 20-30. 8 A. Mascardi, Le pompe del Campidoglio per la S.tà di N.S. Urbano VIII quando pigliò il possesso, In Roma, Appresso l’Erede di Bartolomeo Zannetti, 1624, p. 24. Una lettura di quest’opera di Mascardi sullo sfondo delle istanze etiche e letterarie promosse dalla cultura barberiniana è in Bellini, Umanisti e Lincei, pp. 85-167. Per una ricostruzione complessiva della figura e dell’attività di Mascardi si rinvia a E. Bellini, Agostino Mascardi tra ‘ars poetica’ e ‘ars historica’, Milano, Vita e Pensiero, 2002. 9 M. Barberini, Poëmata, Romae, In Aedibus Collegii Romanii Societ. Iesu, 1631; l’elegia si legge in apertura del volume in pagine non numerate. Un ampio affresco dell’am-

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Argomenti simili a quelli già proposti dal Cesarini sulla scorta probabile delle indicazioni dello Strada ricompaiono nelle pagine premesse da Sforza Pallavicino all’edizione delle Rime del Ciampoli, apparse postume nel 1648, in cui si proponeva per la prima volta ai lettori anche il testo programmatico della Poetica sacra. Dedicando il volume al cardinal Girolamo Colonna, Pallavicino ricordava i cospicui debiti contratti dalla poesia italiana con i Colonna, magnanimi protettori anzitutto di Francesco Petrarca. «Ma – osservava Pallavicino – quel gran padre della lirica toscana, generandola in tempo ch’egli delirava tra leggierezze d’amore, produsse questa figliuola molto più leggiadra che saggia, non disonesta, ma vana. Indi, come l’immitazione del male suol riuscir superiore all’esempio, molti poeti suoi successori alla vanità della materia aggiunsero l’oscenità della forma. Tanto che, trasferita nell’arte la colpa degli artefici, era lo stesso in Italia il nome di poesia e d’impudicizia» (le stesse argomentazioni del Cesarini, come si sarà notato). Nata già sotto la magnanima protezione dei Colonna («Se in Francesco Petrarca rinacque la poesia latina, e nacque, si può dir, la toscana, egli attesta in mille luoghi che la vostra Colonna fu il sostegno del suo Parnaso»), di nuovo godendo della protezione dei Colonna la poesia italiana viene ora anche battezzata, prosegue Pallavicino, poiché Ciampoli, seguendo «gli esempi del gran cardinal Maffeo Barberino, adorato poscia dal mondo col nome d’Urbano VIII, machinò egli a pro de’ mortali una nuova lega non pur fra le Muse e la Verità, ma fra le Muse e la Pietà»10.

biente romano che ruota intorno al papa poeta è in M. Fumaroli, «L’ispirazione del poeta» di Poussin: i due Parnasi, nel suo volume La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo [1994], Milano, Adelphi, 1995, pp. 81-196 (per l’elegia Poesis probis pp. 147-149). Ma si dovrà anche tener presente l’ampio commento che a questi versi di Maffeo dedicò Tommaso Campanella: T. Campanella, Opere letterarie, a cura di L. Bolzoni, Torino, Utet, 1977, pp. 690-889. Della stessa Lina Bolzoni saranno anche da vedere La restaurazione della poesia nella prefazione dei «Commentaria» campanelliani, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, s. III, 1 (1971), pp. 307-344 e Un modo di commentare alla fine dell’Umanesimo: i “Commentaria” del Campanella ai “Poëmata” di Urbano VIII, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di lettere e filosofia, s. III, 19 (1989), pp. 289-311. Un sintetico ma efficace percorso particolarmente attento al ruolo di Campanella all’interno dell’elaborazione poetica del classicismo romano di primo Seicento è ora in P. Frare, Poetiche del Barocco, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, (Atti del Convegno di Lecce 23-26 ottobre 2000), Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 41-70: 56-70. 10 G. Ciampoli, Rime, In Roma, Appresso gli Eredi del Corbelletti, 1648; i passi citati nella dedicatoria di Sforza Pallavicino al cardinal Girolamo Colonna, in pagine non numerate. Per i rapporti tra Petrarca e i Colonna sono fondamentali le ricerche di G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, I, Tradizione e fortuna di Livio

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Petrarca e i letterati barberiniani

Fermandoci a queste fin troppo esplicite dichiarazioni, si potrebbe pensare che la muraglia difensiva eretta dai ‘barberiniani’ durante questa letteraria guerra dei Trent’anni abbia rigorosamente preservato quest’area ancora poco nota della nostra tradizione letteraria da una capillare pratica di riuso dei testi petrarcheschi. Qualora si entri tuttavia nel vivo della produzione letteraria di personaggi come Agostino Mascardi, autore come si è detto delle Pompe del Campidoglio, la cui carriera letteraria si compie tutta sotto le insegne dei Barberini, o dello stesso Pallavicino, il paesaggio sembra tuttavia meno uniforme e scontato; non privo anzi di inattese ondulazioni. Nella stessa Poetica sacra, del resto, dove Ciampoli sembrava contrapporre allo stanco e deteriore petrarchismo il modello di Dante («Dimmi, e ti par ch’entro al confine stretto / d’un volto amorosetto / imprigionar volesse a i carmi il volo / l’aligero intelletto / dell’ammirabil Dante? / Fu breve spazio l’uno e l’altro polo / a quell’alma volante, / che con vasto pensiero / alla Commedia sua volle la scena / maggior del mondo intiero»), e dove la Devozione rimproverava la Poesia per il suo tenace attaccamento ai temi d’amore, rubricati in moduli tipicamente petrarcheschi («Colpa di vil follia / tua celeste armonia / fu di sospiri in rime sparse il suono, / e di giovine donna / candido piè scoprio leggiadra gonna»), era però prendendo a prestito un celebre verso di Petrarca che la Poesia confessava le proprie colpe di fronte al persuasivo incalzare della Devozione: «Con alma confusa e volto rosso / di me medesma meco mi vergogno»11. Come appare quasi emblematicamente in questo dialogo tutto interno al sonetto proemiale del Canzoniere, l’esperienza poetica di Petrarca poteva fornire, da un lato, una casistica dettagliata delle ‘follie d’atra Medioevo e Umanesimo, Parte I, Padova, Antenore, 1981 (part. il cap. VII: «I Livi dell’antica biblioteca papale», pp. 176-240). Nuove ipotesi indirizzate a redistribuire i ruoli di Giovanni e Giacomo Colonna quali destinatari di componimenti del Canzoniere sono avanzate in M. Santagata, Petrarca e i Colonna, Lucca, Pacini Fazzi, 1988. 11 La Poetica sacra, overo dialago [sic] tra la Poesia e la Devozione, occupa le pp. 235-350 delle Rime del Ciampoli nella edizione Corbelletti del 1648; i versi citati qui alle pp. 243-244 e pp. 347-348. La Poetica sacra si legge, con varianti ed aggiunte, anche nelle Poesie sacre di monsignor Giovanni Ciampoli stampate a Bologna presso Carlo Zenero sempre nel 1648. Sulla Poetica sacra, della quale manca ancora una lettura complessiva, si può vedere intanto l’Introduzione di M. Guglielminetti a M. Guglielminetti – M. Masoero, Lettere e prose inedite (o parzialmente edite) di Giovanni Ciampoli, «Studi secenteschi», 19 (1988), pp. 131-237: 144-146; Bellini, Umanisti e Lincei, pp. 120-129 (qualche ulteriore approfondimento in Agostino Mascardi tra ‘ars poetica’ e ‘ars historica’, pp. 70-73); P. Frare, Tesauro teorico e Tesauro poeta. Metafora (di equivoco) e menzogna, o il vero attraverso il velo [1999], nella sua raccolta «Per istraforo di perspettiva». Il ‘Cannocchiale aristotelico’ e la poesia del Seicento, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000, pp. 131-155: 146-155, e dello stesso Poetiche del Barocco, pp. 64-70.

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more’, ma anche, dall’altro, il modello inarrivabile del pentimento e del rimorso. Mascardi, ad esempio, sembra assai meno sicuro dello Strada riguardo all’impossibilità di poter trattare in termini di onestà e modestia anche argomenti d’amore, come si desume dalle parole che premette alle tre elegie Erinnyos sive Didonis proditae ab Aenea conquestio, inserite nel volume delle Silvae edito ad Anversa nel 1622: «Intelligent, opinor, qui obstinate negabant, in argumento lubrico illo quidem ac periculoso, poëtam moribus non improbum modeste posse versari; ac nihil esse tam turpe, quod […] boni viri prudentia non sanctescat»12. Su posizioni simili, ed anzi in dichiarata polemica con le ricordate prolusioni dello Strada, si attesterà anche Paganino Gaudenzio, letterato in rapporti assai stretti con i barberiniani (in particolare con Pallavicino), il quale, in un volume stampato a Pisa nel 1644, ancora vivo dunque padre Famiano, osservava che gli sembravano «esser cose molto differenti lo scrivere con oscenità e lo scrivere di quello affetto che si chiama amore». E sarà di qualche interesse in questa sede ricordare che a sostegno delle sue affermazioni Paganino invocava proprio l’esempio di Petrarca: «Certamente ognuno le composizioni del maraviglioso Petrarca a Madonna Laura versi d’amore chiama, ma non v’è chi gli accusi come osceni, impudichi, sporchi, laidi, essendo stati da tanti onestissimi soggetti commentati ed esposti, non lasciando ogni sorte di persone di studiarli, e d’essi in più occasioni valersi». «L’amatoria poesia – concludeva dunque perentoriamente il Gaudenzio – non ripugna al buon costume ed all’utilità publica, cheché dicano questi tanto severi Catoni e superciliosi barbassori»13. Da queste sparse dichiarazioni può già tuttavia apparire chiaro che all’interno di una concezione prevalentemente ‘eteronoma’ della poesia, come è quella in cui si aggirano tutti questi letterati, il modello di Petrarca può anche suscitare qualche

12 A. Mascardi, Silvarum libri IV, Antuerpiae, Ex officina Plantiniana Balthasaris Moreti, 1622, pp. 59-60 (le tre elegie si leggono alle pp. 61-76). 13 Della Disunita Accademia accrescimento. Operetta di Paganino Gaudenzio nella quale l’autore insieme difende alcuni istorici contra l’accuse d’Agostino Mascardi, In Pisa, Nella stamperia d’Amor Massi e Lorenzo Landi, 1644; i passi citati nel cap. XXIX, Che lo scrivere d’amore, ma con modestia, non apporta danno alla civile società, pp. 29-30. Sul Gaudenzio saranno almeno da vedere, oltre F. Menghini, Paganino Gaudenzio, letterato grigionese del ’600, Milano, Giuffrè, 1941 (per i rapporti con Pallavicino si rinvia all’appendice epistolare alle pp. 307-323), gli interventi di G. Godenzi: Paganino Gaudenzi, Berna-Francoforte, Lang, 1975; Epistolario (1633-1640) di Paganino Gaudenzi (15951649), Poschiavo, Tip. Menghini, 1991; Paganino Gaudenzi. Uno scrittore barocco in bianco e nero nel quarto centenario della nascita 1595-1995, [s.l e s.d.]. Ulteriori indicazioni bibliografiche in G. Brunelli, Gaudenzi Paganino, DBI, 52 (1999), pp. 676-678.

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imbarazzo di natura moralistica, ma le stesse testimonianze dimostrano in modo evidente che il fronte del classicismo si presenta tutt’altro che compatto, e per nulla allineato alle posizioni rigoriste di Famiano Strada. Mascardi sembra dare spazio al conflitto tra queste differenti posizioni intorno all’‘amore’ nei Discorsi morali sulla Tavola di Cebete Tebano, editi nel 1627 a Venezia. Nel discorso Delle cose indifferenti, e nominatamente de’ piaceri e degli affetti 14, egli considera come indifferenti, e dunque passibili di condurre tanto al vizio quanto alla virtù, anche i diletti del senso, e prima tra tutti la passione d’amore, con ciò opponendosi non solo ai rigidi divieti degli antichi stoici, ma, come avrebbe scritto qualche anno più tardi il Gaudenzio, anche dei «severi Catoni» moderni. Né si dovrà tacere che ad esemplificare il conflitto tra i sostenitori delle opposte ragioni Mascardi si affidi a Petrarca, proponendo una ampia parafrasi della canzone Quel antico mio dolce empio signore [RVF 360], dove ben più che le accuse rivolte da Petrarca ad Amore, chiamato a giudizio di fronte al tribunale della Ragione, è la difesa di Amore, com’è noto, a risultare assai più persuasiva: Fu dal Petrarca una volta al tribunal della Ragione accusato Amore, come quelli ch’avendogli grandi e sincere contentezze promesse, l’avea in diversi tormenti essercitato ed afflitto, onde, scordato di se medesimo, delle nobilissime doti ricevute dal cielo, e di Dio stesso, andava cangiando pelo senza l’ostinata voglia cangiare; in somma, in quattro intere stanze d’una sostanziosa canzone, l’appassionato poeta i torti ricevuti da Amore eloquentemente restrigne. Ma egli, che quando non vuol vedere è cieco, e poi, a guisa d’un Argo apre cent’occhi, e quando non vuol parlare è bambino, e poscia infonde la facondia ne’ muti, l’ingrato amante agramente ripiglia, ed espone le sue ragioni: E per dir all’estremo il gran servigio, da mille atti inonesti io l’ho ritratto, che mai per alcun patto a lui piacer non potea cosa vile [360 121-124]

E dopo aver sottolineato con questi versi i salutari effetti morali provocati da Amore sull’ingrato amante, Mascardi, ancora con i versi di Petrarca, 14 A. Mascardi, Discorsi morali su la Tavola di Cebete Tebano, In Venezia, Ad instanza di Girolamo Pelagallo [nel colophon: Agnolo Cantini correttore, In Venezia, 1627, Appresso Antonio Pinelli], il discorso Delle cose indifferenti, e nominatamente de’ piaceri e degli affetti alle pp. 106-122 (i passi citati successivamente nel testo alle pp. 112-117). Per la fortuna della Cebetis Tabula si veda S. Benedetti, Itinerari di Cebete. Tradizione e ricezione della ‘Tabula’ in Italia dal XV al XVIII secolo, Roma, Bulzoni, 2001 (per il commento di Mascardi pp. 323-384).

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indica platonicamente una linea di continuità tra beni terreni e beni eterni: «Da volar sopra ’l ciel gli avea date ali / per le cose mortali, / che son scala al fattor chi ben le stima» [137-139]. Se tanto Cesarini quanto Strada, infine, avevano posto in luce la non assoluta necessità che i poeti si rivolgessero ad argomenti d’amore, in queste pagine Mascardi sembra esaltare, per contro, lo stretto legame tra passione d’amore e poesia lirica, che quell’affetto soprattutto contribuisce a rendere eloquente fabbricatrice di parole: «Leggete Catullo, Properzio, Tibullo e Ovidio, troverete ch’alla cote amorosa aguzzan l’ingegno, dalle ali d’amore tolgon le penne, con gli strali di lui le temprano, e dalle ferite del cuore traggon l’inchiostro, che sembra altrui sì spiritoso e vivace». Come del resto aveva affermato Amore ancora nella canzone Quel antico mio dolce empio signore, ai cui versi Mascardi nuovamente si affida: E sì alto salire il feci, [e un cantar tanto soave gli diedi,] che tra’ caldi ingegni ferve il suo nome, e de’ suoi detti conserve si fanno con diletto in alcun loco. [112-115, con un verso spurio inframezzato]

Ma con i versi di Petrarca Mascardi sembra intrattenere anche un rapporto più privato e personale. Nei fogli di guardia di una edizione di Giovenale, Mascardi annotò infatti un piccolo centone petrarchesco tratto dalle canzoni Sì è debile il filo a cui s’attene [RVF 37] e Spirto gentil, che quelle membra reggi [RVF 53], e dai sonetti Amor, che nel penser mio vive e regna [RVF 140] e La bella donna che cotanto amavi [RVF 91], florilegio che, isolato dall’ipotesto petrarchesco, appare tutto incentrato sul sentimento dell’inesorabile trascorrere del tempo e dell’approssimarsi della morte: Il tempo passa e l’ore son sì pronte a fornire il viaggio ch’omai spazio non aggio pure a pensar com’io sono alla morte. […] Le vite son sì corte, sì gravi i corpi e frali de’ miseri mortali! [37 17-20 e 25-27] Rade volte addivien ch’all’alte imprese fortuna ingiuriosa non contrasti [53 85-86] Che bel fin fa chi ben amando muore [140 14]

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Ben vedi omai sì come a morte corre ogni cosa creata e in quanto all’alma bisogna ir lieve al periglioso varco [91 12-14] 15

Ma è soprattutto nei Sospiri dell’anima tormentata dalla conscienza, una prosa penitenziale edita nella raccolta postuma dei Discorsi accademici stampati a Genova nel 1705, che Mascardi manifesta la propria diuturna consuetudine con il testo di Petrarca. In questo scritto le tessere petrarchesche vengono sradicate e reinserite entro una prosa lirica intessuta sopra i primari orditi tematici del disinganno e del rimorso per il tempo consumato nei dolci errori dell’esistenza. Oltre a citare tre celebri versi della canzone Che debbio far? Che mi consigli, Amore? [258 67-69] («Pon freno al gran dolor che ti trasporta; / ché per soverchie voglie / si perde il Cielo ove tuo core aspira»), Mascardi amplifica e riaccosta ‘sentenze’ del Canzoniere divenute quasi proverbiali con un’abile tecnica combinatoria, secondo meccanismi che la lunga stagione del petrarchismo cinquecentesco aveva ormai ampiamente sperimentato sul piano della lingua poetica: Verrà tempo [RVF 126 27], se morte non ti previene, che l’oro de’ capegli diverrà pallido argento, le guancie sì delicate e il bel sereno [«che quasi un bel sereno a mezzo ’l die»: RVF 37 44] della fronte da squallide rughe verranno arate, le luminose stelle degli occhi da fosca nube saranno ingombre […]. E pure, ahi mentecatta, dietro a questo impuro lume tanto t’aggirasti, semplicetta farfalla [«semplicetta farfalla al lume avezza»: RVF 141 2], che vi lasciasti le penne con cui dovevi all’alta cagion prima [«potea levarsi a l’alta cagion prima»: RVF 360 143] gloriosamente innalzarti; dietro a questa fallace scorta sei per tant’anni andata raminga per le distorte vie de’ vizi che incespando tutt’ora di pericolo in pericolo, di danno in danno, di colpa in colpa, sei ita precipitosa, non solo lagrimoso spettacolo delle menti beate, ma favola del vulgo e riso de’ tuoi nemici; e qual è ora il frutto del tuo sì lungo vaneggiare? [RVF 1] 16

15 I versi, trascritti da Mascardi su una edizione di Giovenale apparsa a Lione nel 1594 «Apud Ioannem Pilleohote», sono riportati in F.L. Mannucci, La vita e le opere di Agostino Mascardi con appendici di lettere e altri scritti inediti e un saggio bibliografico, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», 42 (1908), pp. 218-219, il quale tuttavia non si avvede del prelievo dal sonetto Amor che nel penser mio vive e regna. La trascrizione di Mascardi presenta varianti rispetto alla moderna vulgata del Canzoniere, che legge, in 37 19-20, «ch’assai spacio non aggio / pur a pensar com’io corro a la morte», e, in 37 27, «degli uomini mortali». 16 A. Mascardi, Discorsi accademici, In Genova, 1705, Per Giovan Battista Franchelli; i Sospiri dell’anima tormentata dalla conscienza qui alle pp. 424-454: 448-449 (i versi in precedenza citati nel testo a p. 434).

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Ma gli stessi Sospiri dell’anima tormentata dalla conscienza possono dimostrare, con efficacia quasi didattica, quanto le lunghe mani del petrarchismo risultino efficaci nel conferire unità e saldezza alla nostra tradizione lirica. E se ad un livello più superficiale il Canzoniere può prestarsi, come nel caso precedente, ad una alla lunga sterile operazione di riscrittura moralizzata, esso tuttavia riesce anche ad offrire ‘occasioni’ meditative da scandagliare con gli strumenti della nuova spiritualità seicentesca, ormai modellata sugli Esercizi di Ignazio e che sembra presagire in un non lontano orizzonte i Pensieri di Pascal. È per questa via più interiore che Mascardi sembra anticipare movenze, situazioni e finanche soluzioni linguistiche che riaffioreranno, a distanza di due secoli, nei Canti di Leopardi, predisponendo materiali che, prelevati da Solo e pensoso o magari da O cameretta che già fosti un porto, potranno venire riutilizzati con pochi ritocchi nelle moderne architetture del Passero solitario, delle Ricordanze o dell’Infinito: O quante volte per tua cagione [rimordimento della coscienza] fatto grave a me stesso, schivo di compagnia [«schivi gli spassi»: Pass. sol. 14], tutto romito e solitario, se non quanto indivisa famigliola di noiosi pensieri mi circonda, me n’esco alla campagna [«Io solitario in questa / rimota parte alla campagna uscendo»: Pass. sol. 36-37], e con interrotti sospiri narro alle piante i mie gravi tormenti; ma subito al susurro del vento [«sussurrando al vento»: Ricord. 15; «E come il vento / odo stormir tra queste piante»: Inf. 8-9], al volo degl’augelli, al mormorio dell’acque, al movimento de’ rami, qual nuovo Caino, impallidito e tremante aspetto sopra di me l’alto colpo dell’ultrice spada di Dio! O quante volte imprigionato in tenebre volontarie di cieca cameretta [«cieca stanza»: Il sogno 3] mi dibatto e lamento indarno [«e qui per terra / mi getto, e grido, e fremo»: Sera dì d. f. 22-23], indi atterrito dall’ombre vane [«quando fanciullo, nella buia stanza, / per assidui terrori io vigilava»: Ricord. 53-54], nel più segreto cantone, nel più angolo rimoto, nella più chiusa parte, raccolto fra mille crucci d’animo agonizante veggo aprirmisi sotto i piedi una vasta voragine che m’ingoia17?

Se il dialogo tra Mascardi e Petrarca risulta particolarmente intenso, e protratto nel corso degli anni, sarà tuttavia da ricordare che anche il più difficoltoso rapporto tra Pallavicino e Petrarca, lungi dall’esaurirsi nelle brevi pagine della dedicatoria a Girolamo Colonna, è destinato in più occasioni a riannodarsi all’interno della vasta attività del cardinale. Si dovrà rilevare, anzitutto, come tralasciando le riserve avanzate nella premessa alle Rime del

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Mascardi, Sospiri dell’anima tormentata dalla conscienza, pp. 428-430.

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Ciampoli del 1648, egli assegni al Petrarca una collocazione onorevolissima all’interno delle Vindicationes Societatis Jesu, edite nel 1649. Qui la figura di Petrarca si impone, sul duplice orizzonte del latino e del volgare, come «lumen […] praeclarissimum», sorto quasi senza precursori o maestri, «inter coecas ineruditi plane saeculi tenebras», tanto da poter essere considerato «Italicae poeseos in summa illius aetatis rusticitate miraculum»18. Ma Pallavicino instaura un serrato colloquio con i testi petrarcheschi tanto nelle pagine di un trattato di materia morale come Del bene apparso nel 1644, dove anche compaiono significativi riferimenti ai Triumphi, quanto nelle Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo, a stampa nel 1646, poi in edizione definitiva nel 1662 come Trattato dello stile e del dialogo. In Del bene Petrarca, definito «dottissimo lirico», «dotto poeta», «dottissimo poeta»19, compare ad esempio allorché i versi «che del suo proprio error l’alma s’appaga» e «che, se l’error durasse, altro non chieggio» di RVF 129 37 e 39 vengono chiamati in causa per provare l’affermazione secondo cui la felicità può avere origine solo in interiore homine, non dagli oggetti che sono fuori di noi. Ancora, i vv. 41-42 di RVF 70, «Tutte le cose di che ’l mondo è adorno, / uscîr buone di man del mastro eterno», vengono citati per confutare la tesi manichea che pone all’origine i due opposti principi del bene e del male; la terzina «o fidanza gentil! chi Dio ben cole, / quanto Dio ha creato, aver soggetto, / e ’l ciel tener con semplici parole!» [Tr. Fame II 67-69], dove Petrarca ricorda la fede di Giosuè, cui fu concesso di fermare il sole, compare nella discussione se l’uomo abbia o no il dominio sopra i corpi celesti e terreni. Sempre dai Triumphi viene altresì prelevato, con qualche aggiustamento, «il meglio e ’l più ti diedi, il men ti tolsi» [Tr. Mortis II 153], e ancora dal Canzoniere, egualmente con qualche ritocco, il «bellissimo verso», sono parole di Pallavicino, «beata se’, che puoi beare altrui» [341 9], a conferma di altrettanti passaggi argomentativi20. Può accadere, infine, che una ‘senten18

S. Pallavicino, Vindicationes Societatis Iesu, Typis Dominici Manelphi, Romae, 1649, p. 120. 19 S. Pallavicino, Del bene libri quattro, In Roma, Appresso gli Eredi di Francesco Corbelletti, 1644; le citazioni nell’ordine a p. 137, p. 282, p. 387. Un tentativo di ricollocare il trattato Del bene all’interno della riflessione letteraria di Pallavicino è in E. Bellini, Scrittura letteraria e scrittura filosofica in Sforza Pallavicino, in C. Scarpati, E. Bellini, Il vero e il falso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Milano, Vita e Pensiero, 1990, pp. 73-189: 73-95. In àmbito più specificamente filosofico si muove S. Knebel, Die früheste Axiomatisierung des Induktionsprinzip: Pietro Sforza Pallavicino, «Salzburger Jahrbuch für Philosophie», 41 (1996), pp. 97-128. 20 Pallavicino, Del bene, i riferimenti petrarcheschi rispettivamente a p. 137, 282, 387, 559, 672. Altre occorrenze petrarchesche compaiono, sempre in Del bene, a p. 177: «Certo

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za’ di Petrarca debba subire una leggera torsione sintattica per aderire al nuovo contesto, segno questo di indubbia familiarità con l’archetipo trecentesco: «Un uomo stesso in varietà di circostanze varia opinioni. No! Ordinariamente varia la deliberazione, ritien l’opinione. L’infermo non giudica miglior consiglio l’avvelenarsi con l’acqua fredda, che ’l ricomperar la vita con poche ore di sete, né ciò persuaderebbe ad un suo figliuolo, ‘ma vede il meglio ed al peggior s’appiglia’»21. A Petrarca viene assegnata una collocazione di rilievo anche nella struttura argomentativa delle Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo, edite nel 1646. Nelle Considerazioni si poteva già leggere, anzitutto, quella lode di Petrarca che comparirà, come si è visto, nelle Vindicationes del 1649, dove questi appariva mirabile fabbro della lingua italiana ed insieme restauratore del latino, ormai quasi sfigurato da secoli di barbarie: Ma non conviene che in questo luogo io defraudi della meritata lode Francesco Petrarca. Egli fu che condusse il suo materno linguaggio a quella nobilissima leggiadria che ancora, dopo tant’arte usatavi attorno per molti secoli da’ più rari ingegni della già letterata Italia, si rende ne’ suoi scritti ammirabile, e quasi inarrivabile. Ed egli parimente fu il primo che cominciasse a tergere lo squallore dal volto dell’abbandonata lingua latina, facendola ricomparir con grazioso aspetto in prosa e in versi22.

Ai versi di Petrarca, in compagnia soprattutto di Tasso e Marino, Pallavicino affida nelle Considerazioni il compito di esemplificare le varie tipologie così parve al nostro poeta, quando esaggerò come eccesso d’orgoglio (il qual orgoglio aspira sempre al più alto) l’abborrimento di recar piacere altrui, dicendo ‘Che di piacer altrui par che le spiaccia’» [RVF 171 8], e a p. 465: «Non veggiamo noi forse quanto la Natura umana si vergogna d’aver errato nella credenza? E che altro, se non una tal vergogna, rende gli uomini sì ostinati difensori di ciò che hanno affermato una volta? Onde non solo perciò negli esterni congressi ‘Il furor letterato in guerra mena’ [Tr. Fame III 102], ma eziandio abborrono di sgannarsi interiormente per non confessare al cuor suo d’essersi ingannati». 21 Pallavicino, Del bene, pp. 248-249. Il riferimento è a RVF 264 136: «Et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio». 22 S. Pallavicino, Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo, In Roma, Per gli Eredi del Corbelletti, 1646, pp. 23-24. Le Considerazioni saranno ristampate con lievi varianti e con il titolo di Arte dello stile nel 1647 a Bologna, per Giacomo Monti, quindi vedranno la luce in edizione definitiva con aggiunte e varianti cospicue, come Trattato dello stile e del dialogo, a Roma nel 1662 per tipi di Vitale Mascardi. Il percorso evolutivo dell’opera, dalle Considerazioni del 1646 al Trattato del 1662, è seguito in Bellini, Scrittura letteraria e scrittura filosofica in Sforza Pallavicino, pp. 95-176. Per coerenza con l’arco cronologico privilegiato in queste pagine (1618-1648), le citazioni da quest’opera del Pallavicino faranno riferimento, salvo diversa indicazione, alle Considerazioni del 1646.

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di locuzione figurata o metaforica passate in rassegna, onde valutarne la pertinenza entro i confini esigenti, ma non del tutto impenetrabili, dello stile insegnativo. Tenendo presenti i fini differenti che distinguono i poeti dagli scrittori di materie gravi, se a questi ultimi sarà di norma vietato l’uso eccessivo di perifrasi, al contrario, Pallavicino loderà senz’altro Petrarca allorché scrive, «in cambio del lauro, ‘l’onorata fronde che prescrive / l’ira del ciel quando il gran Giove tuona’ [RVF 24 1-2]. E, in luogo del sole, ‘il pianeta che distingue l’ore’» [RVF 9 1]. Così se dovrebbe muovere «a schifo e ad orrore il veder un uomo ber l’acqua d’un fiume infetta di sangue umano», invece, osserva Pallavicino, certamente diletta per la novità quel verso di Petrarca «là ove di Mario si dice ‘né più bevve del fiume acqua che sangue’» [RVF 128 48]. Lodevole per l’inattesa vivacità è l’iperbole rafforzata «per figura di correzione», quando cioè una affermazione successiva venga a rettificare con una nuova iperbole la precedente, come avviene nei versi petrarcheschi «La notte che seguì l’orribil caso, / che spense il sole, anzi il ripose in cielo» di Tr. Mortis II 1-2, anche se Laura sembra a Pallavicino «suggetto immeritevole» per fondare l’esagerazione 23. Il rapporto che Pallavicino instaura con Petrarca può essere anche dichiaratamente conflittuale, come nel caso dei concetti fondati sull’«equivoco della parola», in relazione al quale se talora Petrarca opera con efficacia e naturalezza «nella allusione ad un nome», in altre occasioni «il gran lirico italiano» gli appare però per l’insistenza «soverchio e noioso». All’interno dell’ottava e ultima specie di concetti discussa da Pallavicino nelle Considerazioni, i ‘contrapposti’, Petrarca può anche trovarsi in compagnia di Marino nell’impiego innaturale e forzato delle allitterazioni, vizio che incrina la regola aurea di un’arte che non deve scoprire se stessa: «Quindi è che riesce freddo quel contrapposto di suono appresso il Petrarca, ‘Di fiorir queste innanzi tempo tempie’ [RVF 210 14], e quell’altro appresso il Marino nella Strage degl’innocenti, ‘Che diero fuor delle scannate gole / sangue in vece di voce e di parole’. Poiché nel primo quella lunga trasposizione fra ‘queste’ e ‘tempie’ è una durezza manifestamante eletta per cavarne il bisticcio, e nel secondo dicendosi dopo ‘voce’ un sinonimo, cioè ‘parole’, necessario per la rima, già si scorge che ‘voce’ non è ivi adoperato dal poeta con altro frutto se non di trarne il bisticcio»24. Può 23

Pallavicino, Considerazioni, i passi citati a p. 134, p. 144, pp. 229-230. Pallavicino, Considerazioni, i brani citati a p. 218 e pp. 242-243. La citazione da Marino riproduce con varianti i versi conclusivi della prima ottava della Strage de gl’innocenti (G. Marino, Dicerie sacre e La strage de gl’innocenti, a cura di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1960, p. 467: «Che deste fuor de le squarciate gole / sangue invece di voce e di parole»). 24

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anche accadere, secondo modalità già osservate in Del bene, che un verso petrarchesco, in questo caso la celeberrima chiusa di RVF 90, «piaga per allentar d’arco non sana», venga parafrasato con lieve variatio a sigillare in modo icastico un articolato percorso argomentativo, come avviene nell’explicit del capitolo XXXIV, dove Pallavicino sconsiglia l’impiego di mezzi di persuasione retorica a sostegno di «empia credenza o viziosa cupidità», per quanto successivamente destinate ad essere smascherate come tali, «che non risana la piaga per lo spezzamento dell’arco che cagionolla»25. Ma Petrarca può mettere in mostra le sue prerogative di «scienziato poeta» anche in uno scritto in cui Pallavicino si colloca ormai in una esclusiva angolatura morale, se non moralistica, come l’Arte della perfezion cristiana del 1665. Non solo qui Petrarca è l’eloquente censore del vizio della ‘gola’, con esplicito riferimento a «La gola e ’l somno e l’otïose piume» [RVF 7 1], ma la sua vicenda biografica, distillata nei versi conclusivi del sonetto proemiale del Canzoniere, può essere indicata addirittura come salutare antidoto all’insana passione d’amore generosamente ospitata nelle carte dei poeti: «Io ti conforto a raccoglier dalla tua follia que’ tre frutti che scrisse d’aver raccolti dalla sua un celebre poeta cristiano; il quale, secondo che riferisce il cardinal Bellarmino nel Catalogo degli scrittori ecclesiastici, chiuse i giorni suoi santamente. Egli, rammaricandosi d’aver consumata l’età in questa infelice pazzia, conchiude: ‘E del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto, / e ’l pentirsi, e ’l conoscer chiaramente, / che quanto piace al mondo è breve sogno’»26. Il poeta che nella prefazione alle Rime del Ciampoli del 1648 era stato accusato di essere all’origine di un’idea di poesia magari «non disonesta, ma vana», si trasformava qui nel «poeta cristiano» la cui vicenda di conversione poteva venire indicata, con l’avallo autorevole del Bellarmino, come

25

Pallavicino, Considerazioni, pp. 478-479. Per la fortuna ‘gnomica’ di RVF 90 14 si veda F. Petrarca, Canzoniere, ediz. commentata a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori (‘I Meridiani’), 1996, p. 444. 26 S. Pallavicino, Arte della perfezion cristiana, In Roma, 1665, Ad instanza di Iacomo Antonio Celsi, Libraro appresso al Collegio Romano, il passo citato a p. 208; la precedente citazione, e il riferimento a RVF 7 1, a p. 162. Il breve profilo di Petrarca stilato dal Bellarmino, cui Pallavicino rinvia, in R. Bellarmino, De scriptoribus ecclesiasticis liber unus, Romae, Ex Tipographia Bartholomaei Zannetti, 1613, pp. 227-228: «Franciscus Petrarcha, patria Florentinus, Archidiaconus Parmensis, et Canonicus Patavinus, lusit aliquando elegantissimis versibus italicis, amores suos erga Lauram, seu veros, seu confictos, ut haberet materiam excercendae Musae; sed poenitentia ductus, et tempus in cantiunculis illis consumptum deflevit, et in solitudine positus vitam Christiano, et pio hominem dignam egit, et multa opera gravia, atque utilia scripsit, ac tandem pie, sancteque obiit anno Dom. 1374, aetatis suae 70».

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esemplare anche in un percorso di perfezione morale e religosa. Forse non occorreva più attendere l’arrivo del Ciampoli per battezzare la nostra lirica, nata sotto il segno di Laura; né tantomeno porre mano ad operazioni simili a quelle del Petrarca moralizzato del Malipiero già illustrata da Amedeo Quondam 27. Senza alcun ardore sostitutivo, poteva apparire sufficiente far emergere le potenzialità ‘morali’ e meditative inserite in profondità nella stessa organizzazione tematica del Canzoniere. Ciò poteva avvenire, ovviamente, a patto di recuperare la dimensione temporale sottesa ai Rerum vulgarium fragmenta, riproponendo, pur in embrione, una storia di affetti terreni destinata a trascolorare una volta conquistata la consapevolezza di aver scambiato l’effimero con l’eterno, ciò che passa con ciò che non è soggetto alla morte e alla corruzione. Rifiutando l’uso puramente testuale del Canzoniere, ridotto da Marino e dai suoi seguaci ad un fornitissimo fondaco cui attingere per coprire le occasioni di una casistica amorosa in progressiva diffrazione dopo gli esperimenti lirici tassiani28, la vicenda d’amore del poeta per Laura tornava a narrare la storia di ogni uomo, nel mai placato conflitto tra beni eterni e passioni terrene. Per tal via Petrarca, liberato dalle riserve moralistiche del classicismo secentesco, si apriva a nuova vita lungo i ben livellati sentieri d’Arcadia. A questi documenti ‘pubblici’ occorrerà aggiungere, oltre a due lettere nelle quali Pallavicino si interroga intorno ai problemi di cronologia suscitati dal «dì sesto d’aprile» [RVF 211 13 e 336 13] 29, almeno una ulteriore testimonianza epistolare nella quale Pallavicino esprime il proprio giudizio sul «canzoniere», in larga parte ancora oggi inedito, di Lorenzo Azzolini (15831632), un ecclesiastico originario di Fermo che fu, dal 1624 fino alla morte,

27 A. Quondam, Riscrittura, citazione e parodia. Il «Petrarca spirituale» di Girolamo Malipiero [1978], nel suo volume Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991, pp. 203-262. 28 Sulle modalità di riuso del Canzoniere da parte di Marino è d’obbligo il rinvio a A. Martini, Marino postpetrarchista, «Versants», 1985, n. 7, pp. 15-36 (per questi rilievi part. pp. 18-19), e si veda ora, dello stesso Martini, Le nuove forme del Canzoniere, in I capricci di Proteo, pp. 199-226. 29 S. Pallavicino, Lettere inedite, Roma, Tip. della Società Editrice Romana, 1848, pp. 80-82; le due lettere, indirizzate «Al sig. Stefano Pignatelli», sono prive di data. Sulle varie ipotesi esegetiche relative al «dì sesto d’aprile» si vedano: C. Calcaterra, Feria sexta aprilis, nella sua raccolta Nella selva del Petrarca, Bologna, Cappelli, 1942, pp. 209-245; B. Martinelli, ‘Feria sexta aprilis’. La data sacra nel ‘Canzoniere’ di Petrarca [1972], nel suo volume Petrarca e il Ventoso, Bergamo...Roma, Minerva Italica, 1977, pp. 103-148; M. Santagata, Piccola inchiesta cinquecentesca sul 6 aprile di Petrarca, in Omaggio a Gianfranco Folena, 2 voll., Padova, Editoriale Programma, 1993, II, pp. 985-999.

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stretto collaboratore di Urbano VIII e che accompagnò Francesco Barberini nelle legazioni in Francia e in Spagna del 1625-1626 30. Nella lettera, dopo aver segnalato lo stato precario dei testi, dovuto alla morte prematura dell’autore, così scriveva Pallavicino: Pigliando il tutto, penso che un tal canzoniere sarà il migliore di quanti ne sono usciti dopo il Petrarca, e per le vestigia del Petrarca, eccettuato lui, perché, quantunque vi siano delle imperfezioni assai, ed in pochissimi sonetti, ed eziandio canzoni non si vegga molto che perdonare alla qualità del secolo, tuttavia niuno è stato inventore di tante bellissime forme, e di tanti concetti sottili; onde negli altri sarà meno che riprendere, ma più di gran lunga meno che ammirare31. Nel resto, dopo il Petrarca, io anteporrei questo canzoniere a quello del Casa, del Caro, del Tansillo, del Costanzo, del Guarino, e dell’Unghero [Antonio Ongaro], ed ancor del Marino, rispetto alla qualità, benché in quell’uomo sia maravigliosa la copia, e l’essere stato il primo a far che la poesia lirica italiana, la quale prima camminava sui trampani, e malinconica, cominciasse a ballare con le sue scarpette e tutta gioliva.

30 La «Lettera sul canzoniere di M.[onsignor] Azzolini», senza data né esplicito destinatario, ma inviata quasi sicuramente al nipote di Lorenzo, Decio Azzolini il Giovane, cardinale nel 1654, in stretti rapporti con Cristina di Svezia e con il Bernini (nella lettera si allude al «degno zio di V.E.»), si legge in Pallavicino, Lettere inedite, pp. 83-88 (di qui le successive citazioni nel testo). Preliminari notizie sull’Azzolini in G. De Caro, Azzolini Lorenzo, DBI, 4 (1962), pp. 772-773. Un regesto di manoscritti e stampe contenenti componimenti dell’Azzolini è in M. Costanzo, Critica e poetica del primo Seicento, III, Studi del Novecento sulle poetiche del Barocco (1899-1944), Alessandro Donati, Emanuele Tesauro, Roma, Bulzoni, 1971, pp. 116-139. 31 L’aspirazione ad una poesia capace di suscitare admiratio, ‘meraviglia’, è centrale nella visione letteraria di Pallavicino, e proprio in base a tale principio egli manifesta, in termini assai simili a quelli della lettera all’Azzolini, la propria insoddisfazione sul petrarchismo troppo rigido e asciutto di Antonio Querenghi, uno degli interlocutori che compaiono in Del bene: «Componeva egli nondimeno, come dimostrano le sue poesie latine e toscane, con uno stile alquanto smilzo ed asciutto, più tosto sano che vigoroso, pulitissimo, ma non ricchissimo, ed in cui molto è da lodare, ma poco altro da ammirare, se non che nulla vi si possa rinvenir da riprendere. Sono elle state perciò più tosto approvate che lette; e l’isperienza in loro ha mostrato quanto sia vero ciò ch’udii più volte dal Pindaro di Savona, Gabrielle Chiabrera, cioè che la poesia è obligata di fare inarcar le ciglia» (Pallavicino, Del bene, p. 17). Per il Querenghi è fondamentale la monografia di U. Motta, Antonio Querenghi (1546-1633). Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento, Milano, Vita e Pensiero, 1997. L’insoddisfazione per gli esiti dell’esperienza del petrarchismo tardocinquecentesco accomuna del resto i classicisti romani allo stesso Marino (per i giudizi di Marino intorno a Petrarca e i petrarchisti si veda Martini, Marino postpetrarchista, pp. 21-22).

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E passando a giudicare più minutamente la varia produzione dell’Azzolini secondo la tradizionale scansione per forme metriche, così proseguiva in relazione ai sonetti: Quanto a’ sonetti, se ne troverà qualcuno nell’Unghero, nel Coppetta o nel Marino forse più bello di tutti i composti da monsignore; ma per mio avviso niun di loro ne ha tanti d’eguale eccellenza, perché negli altri i buoni sono pochissimi, e nel Marino i concetti son così tenui, e di sì picciolo fondo, che non parranno straordinari se non ad ingegni ordinari; là dove in monsignore sempre si scorge una tal profondità di discorso, e di filosofia, qual è in quei del Petrarca, e tra i latini negli epigrammi di Marziale32.

Qualora, infine, si avesse l’intenzione di dare alle stampe il «canzoniere» dell’Azzolini, Pallavicino segnalava l’opportunità di una attenta emendazione per ovviare alla troppo frequente reiterazione di forme linguistiche e di «alcuni concetti», e concludeva: Ma sopra tutto parmi che l’emendazione debba consistere in levare alcuni sonetti che hanno troppo del tenero in soggetti amatori, parendomi che si debbano ritener sol quelli i quali si trattengon nel senso della vista, il qual senso per se stesso non è venereo33. Gli altri, benché siano composti in età giovanile, e più a fin d’imitare i sentimenti degli altri, che d’esprimere i propri, tuttavia pare che torrebbon più che non darebbon d’onore al nome di sì venerabil prelato.

Nel definire gli esperimenti poetici dell’Azzolini come «canzoniere», Pallavicino impiega il termine, non diversamente del resto dalla tradizione esegetica a lui precedente, in accezione certamente generica34, ma la pronta collocazione di queste ‘rime’ nel solco profondo lasciato da Petrarca è operazione tutt’altro che arbitraria. Ancora in larga parte inediti, i componimenti di

32

I giudizi di Pallavicino intorno a Marino sono discussi in Bellini, Scrittura letteraria e scrittura filosofica in Sforza Pallavicino, pp. 131-135. 33 Sul primato della ‘vista’ nella riflessione del Pallavicino si veda Bellini, Scrittura letteraria e scrittura filosofica in Sforza Pallavicino, pp. 167-173. Ma sullo sfondo saranno sempre da tener presenti le pagine fondamentali di E. Raimondi, Verso il realismo [1969], nel suo volume Il romanzo senza idillio. Saggio sui ‘Promessi sposi’, Torino, Einaudi, 1974, pp. 3-56. 34 Sulla nozione di ‘canzoniere’ si veda G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico [1984], nel suo volume Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 11-134: 113-134. Un utile percorso è in M. Danzi, Petrarca e la forma «canzoniere» fra Quattro e Cinquecento, in Lezioni sul testo. Modelli di analisi letteraria per la scuola, a cura di E. Manzotti, Brescia, La Scuola, 1992, pp. 73-115.

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Lorenzo Azzolini sembrano infatti testimoniare la persistenza, nei primi decenni del Seicento, di un libro di rime in cui si snoda una ‘storia esemplare’ che muove dalle passioni terrene, come l’amore e la gloria, fino al traviamento, per approdare ad una conversione che apre la strada a temi religiosi, non senza passaggi intermedi ed oscillazioni della volontà35. Particolare rilievo, nella scansione attenta di questo diario spirituale viene assegnata alla zona tematica in cui si dichiara il mutamento e si stabilisce il confine tra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo: Si pente dell’amor vano Pensai levarmi a volo erto e superno seguendo Amor, che sì veloci ha l’ale. Ma dove alato augello in alto sale egli scendea nel precipizio eterno. E quindi tanto al Ciel preposi Averno e all’eterno Sole ombra mortale, ch’una vita vivendo a morte eguale in questo mondo gustai l’Inferno. Or deplorando il mio passato errore, se fui libero albergo al cieco dio, in sua tomba o prigion trasformo il core. Ove da due guerrier, sdegno et oblio, incatenato e seppellito amore, spenga la face sua nel pianto mio36.

È probabile che l’intento di un ordinamento unitario tendente verso la forma ‘canzoniere’, chiaramente visibile nel ms. 4-F-5, n. 271, 272, non risalga direttamente all’Azzolini, ma è tuttavia rilevante che un tale percorso potesse essere tracciato senza particolari difficoltà entro la selva testuale dei suoi componimenti. E comunque, anche attingendo ad altri testimoni mano35 Le notizie relative al ‘canzoniere’ dell’Azzolini sono in larga parte desunte dalla dissertazione di laurea di Micaela Borraccini, Ricerche su Lorenzo Azzolini (1583-1632), promossa da Claudio Scarpati e da Eraldo Bellini, e discussa nell’a.a. 1994-1995 presso l’Università Cattolica di Milano. 36 Il sonetto si legge nel Ms. 4-F-5, n. 271, 272, conservato nel Fondo Antico della Biblioteca Comunale di Fermo, p. 246 (la numerazione è per pagina). Il sonetto riportato nel testo forma un unico blocco tematico con altri quattro sonetti trascritti in successione nel codice: «Lascia l’amor vano e torna a Dio», «L’amor vano insegna a lasciare se stesso», «Cristo crocifisso l’induce a lasciar beltà vana», «Vanità recidiva» (pp. 247-250).

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scritti che conservano extravagantes dell’Azzolini, appare chiara la volontà di dialogo del collaboratore di Urbano con Petrarca e con la tradizione petrarchista, come si può osservare nel sonetto sopra «il fonte» della Sorgue a Valchiusa, dove i luoghi dei colloqui reali o immaginari tra Francesco e Laura divengono occasione per celebrare la forza di trasfigurazione della poesia, capace di conferire immortale gloria e bellezza anche a ciò che nella realtà non è che mediocre, o effimero: Di Sorga il fonte celebrato, e ’l colle, non è, qual io pensai, dolce e giocondo; ma che? del tosco Orfeo color facondo in vago aspetto effigiar lo volle. Né men l’ostro natìo, l’avorio molle parve di Laura sì leggiadro al mondo; ma che? caduto il suo corporeo pondo di gran cigno febèo penna l’estolle. Quinci impara a gradir, superba Irene, l’onor de’ carmi, e non sdegnar che viva l’alta bellezza tua con le mie pene. O de’ versi magia canora e diva, trasforma Alpi sassose in tèmpe amene, e fa morta beltà splender più viva37.

Un sentiero analogo a quello delineato nelle rime dell’Azzolini sembra rintracciabile altresì nelle prove volgari di Maffeo Barberini, che, diversamente dai suoi celebratissimi componimenti latini, vero best-seller nel più che ventennale pontificato, videro la luce solo nel 1635 38. Nel volume delle Poesie toscane di papa Urbano VIII non potevano sopravvivere, com’è ovvio, sonetti dedicati alle Forme di bella donna in ballo, a una Bella donna veduta all’improvviso, o addiritura allusivi ad un pur giovanile «basso amor», testi questi tutti portati alla luce solo in anni recenti da Mario Costanzo39. Le Poesie

37

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chig. I V 202, f. 162v; il medesimo componimento si legge anche, senza varianti, nel ms. Ferr. 317, pure conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, p. 132 (per questo sonetto dell’Azzolini si veda anche Costanzo, Critica e poetica del primo Seicento, III, p. 125). 38 Un regesto delle stampe dei Poëmata e delle Poesie toscane dal 1606 al 1726 è fornito in Castagnetti, I “Poëmata” e le “Poesie toscane” di Maffeo Barberini, pp. 320-329. 39 M. Costanzo, Sonetti giovanili di Maffeo Barberini, nella sua ricordata raccolta Critica e poetica del primo Seicento, II, pp. 13-31.

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toscane si aprono infatti con un sonetto in cui si deplora il Grave error de’ poeti ch’intraprendono a cantar d’amori impudichi, ammonimento di papa Urbano indirizzato ai verseggiatori contemporanei posto in simmetrica collocazione rispetto all’elegia Poesis probis che schiudeva i Poëmata del 1631; ma basta appena addentrarsi nelle Poesie toscane per incontrare un sonetto in cui Maffeo dichiara il proprio Pentimento delle passate colpe, e dimanda al Signore del suo divino aiuto, querelandosi «del tempo in vano speso», o per imbattersi in un Contrasto nella mente del pentimento de gli errori, e de gli stimoli del vano piacere, in cui «l’intelletto» sembra oscillare tra il giusto rifuggire dai «falli antichi» e «l’assalto», tenace, del «van desio». Segni evidenti di una originaria architettura petrarchesca resa ormai topica dal costante riuso cinquecentesco dell’archetipo del Canzoniere. Un eloquente «Che fai Maffeo, che pensi?», modellato sul «Che fai? che pensi?» di RVF 150 1, o, se si vuole, sul «Che fai, alma? Che pensi» di RVF 273 1, conferiva del resto un accento di interiorità pensosa al sonetto in cui Maffeo argomentava Quanto sia vano il pensiero d’acquistar fama col mezo della poesia, riflessione forse non del tutto indolore, considerato l’alto concetto nel quale papa Urbano, come sappiamo da molte testimonianze, teneva i propri parti poetici40. Né si dovrà dimenticare, infine, come suggerisce con finezza una recente ipotesi, la probabile derivazione del celebre distico di Maffeo posto nel 1625 alla base dell’Apollo e Dafne di Bernini, «Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae / fronda manus implet baccas seu carpit amaras», dal sonetto Sì traviato è ’l folle mi’ desio [RVF 6], dove sarà da considerare, oltre il v. 2, «a seguitar costei che ’n fuga è volta», soprattutto la terzina conclusiva: «Sol per venire al lauro onde si coglie / acerbo frutto, che le piaghe altrui / gustan-

40 I testi cui si fa riferimento si leggono nelle Poesie toscane del card. Maffeo Barberino oggi Papa Urbano VIII, In Roma, Nella Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, 1635; rispettivamente p. 1, p. 23, p. 26, p. 46. Un eloquente tentativo di inserire le Poesie toscane di Maffeo nella tradizione petrarchista, entro una ideale linea che collega Petrarca a Vittoria Colonna, era già del resto nella dedica ad «Anna Colonna Barberina», moglie di Taddeo Barberini, a firma di un Andrea Brogiotti. L’idea di dedicare i versi volgari di Maffeo ad Anna Colonna non nasceva solo da legami familiari con i Barberini, né dalle eccelse qualità della discendente dei Colonna, «ma per esser a lei stato trasmesso, anco per prerogativa della famiglia, il patrocinio di questi studi. Poiché, tralasciando le antiche memorie del cardinal Giovanni, e del vescovo di Lombes suo fratello [Giacomo Colonna], quali furono benignissimi fautori di quel sublime ingegno che ha posto in sì alto pregio la toscana poesia, la Marchesana di Pescara ha più modernamente accresciuto il proprio splendore con la fama di straordinaria lode in simili componimenti». La cifra petrarchesca delle Poesie toscane di Maffeo Barberini è posta in luce anche in De Caprio, Alcune linee della lirica romana, pp. 123-130.

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do affligge più che non conforta». Quando non si voglia vedere nel distico di Maffeo non tanto, come si è fatto di solito, un rude tentativo di ‘moralizzare’ l’impudico gruppo berniniano, bensì, come pure è stato suggerito, una sottile scelta di campo in favore di una ispirazione di stampo petrarchesco, di un amore contemplato nella dimensione della vista, della distanza e del ricordo, in opposizione alla nuova poetica dell’appagamento dei sensi di cui Marino celebra i fasti nel canto VIII dell’Adone 41. Anche un altro pontefice, tuttavia, Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi, sul soglio di Pietro dal 1655 al 1667, ma la cui formazione si svolge tutta in età barberiniana, mostra, per sua esplicita confessione, una qualche inclinazione per il Petrarca. Negli appunti che il Chigi andava via via stilando dopo la sua elezione al pontificato, destinati alla realizzazione di una biografia ufficiale che il Pallavicino si era assunto l’incarico di comporre, si leggono queste righe relative alla fortezza e alla tolleranza con cui il giovane Fabio aveva affrontato le continue malattie dalle quali era stato afflitto in giovinezza, in particolare durante l’anno 1614: «Non recusò mai medicamento alcuno, per amaro et aspro che fosse; non chiedeva, né recusava; e stava sempre giocondo; solo contrafece in occultarsi un Petrarca sotto ’l capezzale, quando il Moreschini medico e la madre gli avevan tolti tutti i libri; e quello, di nascosto, quando non era veduto, si godeva; et imparò a mente il Trionfo della Divinità e la Canzone della Beata Vergine»42. Se il Chigi riteneva che l’oc-

41

Per queste ipotesi si veda A. Bolland, ‘Desiderio’ and ‘Diletto’: Vision, Touch, and the Poetics of Bernini’s ‘Apollo and Daphne’, «The Art Bulletin», 82 (2000), pp. 309-330: 313-318. Precise tessere del racconto ovidiano del mito di Dafne sono segnalate all’interno del sonetto petrarchesco nel commento di Santagata (p. 31). 42 G. Incisa Della Rocchetta, Gli appunti autobiografici d’Alessandro VII nell’Archivio Chigi, nei Mélanges Eugène Tisserant, VI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1964, pp. 439-457: 455. La biografia di Alessandro VII scritta da Pallavicino fu edita postuma solo nell’Ottocento: S. Pallavicino, Della vita di Alessandro VII libri cinque, 2 voll., Prato, Tip. dei Fratelli Giachetti, 1839-1840. La vicinanza culturale tra Pallavicino e Fabio Chigi emerge con evidenza in alcune lettere degli anni 1629-1630: A. De Luca, Lettere inedite di Sforza Pallavicino a Fabio Chigi, «Rassegna della letteratura italiana», 78 (1974), pp. 31-42; sul versante petrarchesco andrà segnalata, a p. 42, la lettera datata Roma, 10 novembre 1630: «Mi pare di vivere nella Repubblica de gli Spartani, mentre i miei furti vengono così riccamente premiati; ma ci è questa differenza, che là si dava il guiderdone al furto celato, e ’l mio è stato tanto più felice quanto più noto al padrone de’ tesori rubbati. Certo non potrò dire, co ’l Petrarca, ‘è più quel ch’io ne furo, che quel che mi viene da grazioso dono’» [RVF 73 52-54: «Lasso, ma troppo è più quel ch’io ne ’nvolo / or quinci or quindi, come Amor m’informa / che quel che vèn da gratïoso dono»]. Una ulteriore tessera petrarchesca [RVF 129 60: «Quanta aria dal bel viso mi diparte»] in una lettera inedita di Pallavicino al Chigi datata Orvieto, 15 gennaio 1635: «Talora fo quelle conside-

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cultamento del ‘petrarchino’ fosse degno di figurare nella propria biografia autorizzata significa che l’infrazione era davvero lieve, se non addirittura lodevole. D’altro canto, si può stare sicuri che il giovane Chigi, oltre ai testi esplicitamente ricordati, avesse delibato, al pari dei suoi contemporanei, credo si possa ormai dire, anche tutto il rimanente. Ma a Petrarca non si può rinunciare soprattutto quando si tenti di opporre al nuovo canone dei moderni, fondato su Nonno, Claudiano, e prima di tutti su Ovidio (magari volgarizzato dall’Anguillara), un canone assai più rispettoso della tradizione, basato, come scrive polemicamente Mascardi, su «Omero, Virgilio, l’Ariosto, il Tasso, il Petrarca», nomi questi tutti allineati da Mascardi nel suo discorso sulla ‘cometa’, a stampa nel 1622. Quando si deve far fronte alle artificiali sfrenatezze dei moderni, ai «superbissimi traslati», alle «figure violente», Petrarca può fungere da sicuro baluardo difensivo43. Analogo appello ai poeti affinché si tengano stretti all’imitazione di Petrarca, per l’occasione convocato insieme a Della Casa, risuona nella satira Contro la lussuria di Lorenzo Azzolini: «Chi per me canta gli amorosi affanni, / serba lo stil che dianzi usaro i miei / messer Francesco, e monsignor Giovanni»44. Ed in un’altra satira, Contr’alcuni mali poeti moderni, pure attribuita, non senza margini di dubbio, all’Azzolini, la causa dei mostri metaforici partoriti dall’ingegno sfrenato dei moderni viene individuata nell’es-

razioni che dettava la malinconia d’amore al Petrarca, pensando quant’aria, quanto mare, e quante montagne mi dividono da V.S. Ill.ma» (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chig. A III 53, f. 336r). 43 A. Mascardi, Prose vulgari, In Venezia, Per Bartolomeo Fontana, 1625; il Discorso sopra un componimento poetico intorno alla cometa (già presente nel volume delle Orazioni stampate a Genova presso il Pavoni nel 1622) si legge alle pp. 134-148 della sezione dei Discorsi (le citazioni riportate nel testo rispettivamente a p. 147, p. 138, p. 140). Per una analisi del discorso sulla ‘cometa’, vero manifesto delle posizioni letterarie di Mascardi all’altezza degli anni ’20, si rinvia a Bellini, Agostino Mascardi, pp. 15-33. 44 La Satira di monsignor Lorenzo Azzolino contra la lussuria si legge nella Scelta di poesie italiane non mai per l’addietro stampate de’ più nobili autori del nostro secolo, Venezia, 1686, Presso Paolo Baglioni, pp. 1-38: 31. Su questa satira dell’Azzolini si vedano almeno U. Limentani, La satira nel Seicento. Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, pp. 176-177; C. Chiodo, La satira ‘Contra la lussuria’ di Lorenzo Azzolino [1978], nella sua raccolta Il gioco verbale. Studi sulla rimeria satirico-giocosa del Seicento, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 73-89 e A. Corsaro, La poesia senza pubblico. Teoria, scrittura e diffusione della satira nel primo Seicento [1992], poi nel suo volume La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1999, pp. 163-188: 178-185. La satira Contra la lussuria è ricordata anche in P. Camporesi, I balsami di Venere, Milano, Garzanti, 1989, pp. 95-108.

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Petrarca e i letterati barberiniani

sersi costoro allontanati dal «sentier, benché dubbioso ed erto», già segnato da «quei che l’acque e l’erba / di Sorga amò più de la riva d’Arno»45. Il Petrarca dei ‘barberiniani’ è tuttavia destinato ormai a convivere almeno, per restare ai volgari, con Ariosto e Tasso, ma anche con Dante, reinserito nel canone dei ‘buoni’ scrittori, come si è osservato, nella Poetica sacra di Ciampoli. Se Cesarini nella lettera a Maffeo ricordata in apertura lamentava come i petrarchisti avessero onorato Petrarca alla stregua di una divinità, per quest’area della cultura romana dei primi decenni del Seicento Petrarca non rappresenta più, senz’ombra di dubbio, un modello unico e irripetibile di lingua e di stile; e come tale continuamente da imitare, e, se possibile, da emulare46. Non tanto di oscuramento di Petrarca si dovrà parlare, tuttavia, quanto della messa in discussione del modello classicistico architettato dal Bembo a partire dai due grandi scrittori del Trecento. Su questo punto le prese di posizione di Mascardi, di Ciampoli, e soprattutto di Pallavicino, sono nette ed inequivocabili47. Riecheggiando le obiezioni opposte da Ludovico da Canossa al Fregoso, che richiamava nel I del Cortegiano [XXXVII] ad una più selettiva idea di imitazione, sulla scorta delle proposte avanzate da Bembo nelle Prose, e in precedenza nella polemica con Gianfrancesco Pico del 1512-13, in questi termini Mascardi nel discorso sopra la ‘cometa’ chiariva la propria distanza da Bembo, e dal Petrarca di Bembo: So che molti contendono che si debba seguir l’esempio d’uno solo, famoso nel suo mestiere, perché la varietà confonde, e spesso un autor distrugge ciò che edifica l’altro. Dicono che i pellegrini hanno molti ospiti, ma pochi amici; che nuoce alla sanità il cangiare spesso medicamento; ma io porto opinione contraria, e stimo che ’l poeta sia come l’ape, che da fiori diversi raccoglie miele; o come i profumieri, che da molte specie d’aromati, ridotte in ben temperata mischianza, traggono un odor solo diverso dagli altri; o come un musico ben intendente che dalla moltiplicità delle voci fa nascer un solo, e pur armonioso

45 La satira si legge nella ricordata edizione veneziana della Scelta di poesie italiane non mai per l’addietro stampate, pp. 39-66: Contr’alcuni mali poeti moderni. Satira d’incerto, al cavalier fra Tommaso Stigliani (i versi citati a p. 51). L’attribuzione all’Azzolini è proposta, con qualche cautela, in Corsaro, La poesia senza pubblico, pp. 182-183. 46 Sull’idea di imitazione non rigida e selettiva, ma aperta ed eclettica, che caratterizza l’ambiente letterario romano di primo Seicento, si veda De Caprio, Alcune linee della lirica romana, pp. 120-121. 47 Preliminari informazioni intorno alle idee linguistiche circolanti nell’ambiente del classicismo romano di primo Seicento sono fornite in E. Bellini, Linguistica barberiniana. Lingue e linguaggi nel ‘Trattato dello stile e del dialogo’ di Sforza Pallavicino, «Studi secenteschi», 35 (1994), pp. 57-104.

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Eraldo Bellini

concerto. Non è una sola stella in cielo, ma molte costellazioni. Un pittore non riduce a perfetta forma una tavola con un sol colore. Et anco Zeusi volle contemplar le cinque vergini di Crotona per far più bella l’opera sua. Sia dunque il buono imitator come Ulisse, e abbia sempre rivolta la prora ad Itaca, patria sua, ma però nel viaggio visiti molti luoghi, diverse genti e costumi. Uno sia lo scopo in cui ferisca l’arciero, molti ne’ quali s’eserciti48.

Lo scrittore deve essere, al pari di Ulisse, polùtropos. La propria voce può venire modulata solo guardando ad una pluralità di modelli. Gli argomenti di Mascardi ripropongono celebri immagini della Lettera 84 di Seneca, poi riprese nelle altrettanto celebri Familiares [I 8; XXII 2; XXIII 19] dedicate da Petrarca al problema dell’imitazione, quella a Tommaso Caloiro e le due al Boccaccio49. Mascardi corregge Bembo tornando a Seneca e, soprattutto, a Petrarca. E a Petrarca, in particolare alla Familiare XXIII 19, guarderà Mascardi anche nell’ampia discussione sullo stile che compare nell’Arte istorica, allorché, prima di giungere alla definizione di ‘stile’ come ‘maniera’, egli avanzerà l’ipotesi di ‘stile’ come ‘aria del volto’, quel particolare tipo di somiglianza, cioè, che intercorre tra padre e figlio: «Umbra quedam et quem pictores nostri aerem vocant», aveva scritto Petrarca50. Le affermazioni più decise investono però l’ambito linguistico. La lingua, anche la lingua letteraria, non può rinunciare a stabilire un rapporto di comunicazione con i contemporanei; ma allora, si chiede polemicamente Mascardi ancora nel discorso sulla ‘cometa’, «perché vorrà dunque un poeta, 48

Mascardi, Discorso sopra un componimento poetico intorno alla cometa, pp. 146-147. Per le teorie dell’imitazione nel classicismo italiano, saranno da tener presenti, oltre all’Introduzione di Carlo Dionisotti a P. Bembo, Prose e rime, Torino, Utet, 19662, G. Santangelo, Il Bembo critico e il principio d’imitazione, Firenze, Sansoni, 1950; F. Ulivi, L’imitazione nella poetica del Rinascimento, Milano, Marzorati, 1959; G.W. Pigman III, Versions of Imitation in the Renaissance, «Renaissance Quarterly», 33 (1980), pp. 1-32; L. Borsetto, Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura, riscrittura nel Rinascimento, Alessandria, Dell’Orso, 1990; M.L. McLaughlin, Literary Imitation in the Italian Renaissance. The Theory and the Practice of Literary Imitation from Dante to Bembo, Oxford, Clarendon Press, 1995; N. Gardini, Le umane parole. L’imitazione nella lirica europea del Rinascimento da Bembo a Ben Jonson, Milano, Bruno Mondadori, 1997; Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, a cura di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 1998 (per il discorso che qui importa soprattutto A. Quondam, Note su imitazione furto e plagio nel classicismo, pp. 373-400). Un’utile raccolta di testi tutta incentrata sulle teorie dell’‘imitazione’ è fornita in Rinascimento e Classicismo. Materiali per l’analisi del sistema culturale di Antico Regime, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1999. 50 Il percorso argomentativo dedicato da Mascardi alla questione dello ‘stile’ all’interno del trattato Dell’arte istorica, edito a Roma presso Giacomo Facciotti nel 1636, è analizzato in Bellini, Agostino Mascardi, pp. 164-179. 49

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Petrarca e i letterati barberiniani

scrivendo a’ nostrali, andare spiando per le tombe degli incenerati toscani, e risuscitarne alcune poche parole, già condennate al sepolcro? Sarà forse spettacolo degno d’un secolo sì dilicato il veder in compagnia di leggiadre donzelle putrefatti cadaveri?». Lo stesso Mascardi, del resto, aveva espresso con polemica baldanza, fin dalla prefazione alle Orazioni del 1622, poi riproposta nelle Prose vulgari del 1625, il proprio netto dissenso rispetto alle troppo rigide limitazioni imposte dal Bembo e dalla Crusca: «Ho scritto in italiano, perché la lingua puramente toscana io non sono obligato a saperla. I miei natali, la mia educazione, per ragion d’idioma, ogn’altra cosa m’insegnano che i ‘quinci’ e i ‘quindi’. Onde, se qualcuno disiderasse maggior pulitezza di dire, ho fatto lasciar margine assai capace dove, con l’aiuto del Vocabulario della Crusca e delle regole del Bembo, ogn’un potrà notar ciò che gli verrà a grado»51. Sarà appena il caso di rammentare che proprio sopra Petrarca e Boccaccio le «regole del Bembo» erano state edificate. L’insufficienza della modellizzazione del Bembo, tempestivamente avvertita da Castiglione fin dalla dedica al De Silva (non potevo imitare Boccaccio perché non ha mai scritto nulla che sia simile per materia al mio Cortegiano, – e ancora –, la vera regola di ben parlare consiste nell’uso, ed è sempre vizio usar parole che non siano in consuetudine), vieppiù si percepisce nel Seicento allorché la lingua italiana prova a colonizzare in profondità il campo della storiografia o si affaccia in territori tradizionalmente riservati al latino, come quello della comunicazione scientifica, che dopo la coraggiosa scelta di Galileo trova compiuta formalizzazione nelle Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo del Pallavicino52. Il quale, forse non immemore di Castiglione, motiverà, nella prefazione alla Istoria del Concilio di Trento, la propria distanza dal modello del fiorentino del Trecento spiegando che, oltre ad essere molte di quelle voci «rigettate dall’uso», «gli autori lodati e i libri lodati di quell’età son pochi, abbracciano poche materie, e non si confanno a tutti gli stili»53. Nelle Considerazioni del Pallavicino l’attacco

51

I due brani citati nel testo rispettivamente in Mascardi, Discorso sopra un componimento poetico intorno alla cometa, p. 140, e nella prefazione al Lettore che apre le Orazioni del 1622 in pp. n.n. (qui si cita dalle Prose vulgari del 1625). 52 Una rilettura di quest’opera del Pallavicino, nella quale si «descrive una scrittura scientifica dialogica che aderisce come un guanto al modello galileiano», è proposta in M.L. Altieri Biagi, Venature barocche nella prosa scientifica del Seicento, in I capricci di Proteo, pp. 507-555 (la citazione alle pp. 523-524). 53 S. Pallavicino, Istoria del Concilio di Trento, 3 voll., In Roma, Per Biagio Diversin e Felice Cesaretti, 1664; il brano citato in I, nella Lettera a chi legge appartenente alla seconda publicazione, in pp. n.n.

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Eraldo Bellini

al classicismo di Bembo è totale, e viene mosso sul doppio fronte del latino e del volgare. Chi vorrà trattare argomenti scientifici «in lingua viva», afferma Pallavicino, «elegga le forme e le voci più tosto dell’età sua, che delle sole passate; avvenendo nelle parole come nelle monete: si contemplano le antiche, si spendono le moderne. […] E le parole già disusate sarebbon opportune solamente a chi scrivesse per essere letto non in questo mondo, ma più tosto ne’ Campi Elisi». Quanto «al nostro italiano», prosegue Pallavicino, io dissento da «que’ valent’uomini i quali esortan di scrivere secondo l’uso della Toscana dal Trecento al Quattrocento, quasi che per l’innanzi la nostra lingua fosse troppo fanciulla, e che da poi non si conservasse vergine»54. Assai eloquente è il sintetico abbozzo di storia della lingua letteraria volgare inserito dal Pallavicino nelle Considerazioni. La lingua del Trecento, si afferma in quelle pagine, fu migliore non solo di quella del secolo precedente, ma anche di quello successivo; e ciò è da attribuire per Pallavicino proprio alla responsabilità di Petrarca, il quale, «avendo cominciato […] a restituire il pregio alla gloriosa lingua latina, i letterati s’invaghirono sì fattamente di lei che trascurarono la nostrale». Restate in bilico fino all’età di Carlo V, le sorti del volgare ebbero una decisiva riscossa, a parere del Pallavicino, proprio con il Bembo. Apparentemente lusinghiera per il poeta di Laura come per il letterato cinquecentesco, questo abrégé di storia della lingua oltre a dimenticare clamorosamente, almeno per un momento, l’importanza del Petrarca volgare finiva per fare di Bembo il padre dei moderni, degni ormai, grazie alla sua opera in favore del volgare, di gareggiare con il secolo aureo. Gli scrittori «eccellenti di questa lingua da cent’anni in qua, tanto in prosa quanto in ogni genere di poesia, non solo mi paiono superiori – conclude infatti Pallavicino – a coloro che illustrarono il quartodecimo secolo, ma gli stimo a pena inferiori a quelli che rendon così gloriosa l’età d’Augusto»55. Oppugnato sul versante del volgare per la pretesa di imporre i modelli dell’aureo Trecento, identico trattamento viene riservato a Bembo per ciò che concerne il latino, per il quale Pallavicino, pur individuando nell’età di Augusto la base di quella lingua, non è assolutamente propenso a concedere

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Pallavicino, Considerazioni, i passi citati alle pp. 347-349. Pallavicino, Considerazioni, le citazioni alle pp. 351-353. Una aggiunta che si legge nella sola edizione del Trattato dello stile e del dialogo del 1662, p. 262, sottolinea il ruolo decisivo avuto da Bembo nella promozione del volgare: «Ma prima di tutti il Bembo, al quale Casa nella sua Vita dà il vanto d’aver tornato all’onore quest’avvilito e abbandonato idioma». Pallavicino fa riferimento alla Petri Bembi vita che si legge nella raccolta postuma dei Latina monimenta del Casa editi per cura di Pier Vettori a Firenze nel 1564 presso gli Eredi di Bernardo Giunta, pp. 53-75 (il passo richiamato da Pallavicino alle pp. 73-74). 55

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Petrarca e i letterati barberiniani

a Cicerone il primato assoluto della prosa. L’uso del latino, almeno nei domini della prosa, è ormai un uso solo pratico, non estetico; e dunque ad ognuno è lecito utilizzare termini attestati dai lessici, senza chiedersi se appartengano o meno agli scrittori aurei, e finanche creazioni dei moderni. In quanto lingua morta che serve però a comunicare con i viventi, anche la prosa latina si dovrà adeguare alla regola secondo la quale «la lingua e la scrittura sono ordinate a’ coetanei ed a’ posteri, non a’ defonti»56. Nel tracciare un profilo teso a dimostrare la tenuta del modello classicistico, mai pienamente sovvertito neppure durante il secolo ribelle del Barocco, Amedeo Quondam ha tuttavia indicato nella «rivendicazione oltranzista del primato dei Moderni sugli Antichi» un momento «di accelerazione dinamica e conflittuale»57. Il rilievo vale anche, e direi soprattutto, per i ‘barberiniani’. In questi letterati, assai vicini, se non addirittura fiancheggiatori di Galileo, come il Ciampoli, il primato linguistico dell’uso moderno si inscrive con coerenza in un più generale ‘primato dei moderni’, all’interno cioè di una visione progressiva ed evolutiva della conoscenza che soprattutto dopo le scoperte di Galileo difficilmente poteva essere posta in discussione. Risulta significativo, in tale direzione, l’argomento portato da Pallavicino contro coloro che considerano inoppugnabile la dottrina dell’arcaismo linguistico in base all’autorità degli «autori». Gli ‘autori’, e fra questi Bembo per primo, «a lor tempo ragionevolmente preferivano la favella» del Trecento «ad ogni altra usata fin allora; ma non l’anteposero mai a quella che successe dopo di loro»58. L’argomento rappresenta, com’è noto, un vero e proprio topos nelle reiterate polemiche ingaggiate contro gli aristotelici da Galileo; al quale appariva davvero singolare che si volesse far giudice Aristotele di novità «ch’egli né seppe né potette sapere»; anzi, con brillante argomentazione per absurdum, Galileo affermerà in più occasioni che se lo stesso Aristotele avesse potuto vedere «le novità scoperte in cielo» dalla perspicacia dei moderni non ci sarebbe alcun dubbio che «e’ non fusse per mutar opinione e per 56 Pallavicino, Considerazioni, per queste argomentazioni si vedano le pp. 360-363 (a p. 363 la citazione). L’opposizione al ciceronianesimo esclusivo di Bembo viene esplicitata in una aggiunta che compare nel Trattato dello stile e del dialogo del 1662, p. 267: «Né vorrei dare a quel secolo, e specialmente a Cicerone col Bembo, quella monarchia nella latinità che non gli concedettero né Quintiliano stesso, quasi adoratore della sua penna, né verun altro di coloro che appresso crebbero splendore a quell’idioma ancora vivente». 57 A. Quondam, Il Barocco e la letteratura. Genealogie del mito della decadenza italiana, in I capricci di Proteo, pp. 111-175: 165. 58 Pallavicino, Considerazioni, p. 355. 59 Le affermazioni di Galileo rispettivamente in G. Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari [1613], in Opere, V, a cura di A. Favaro e I. Del Lungo, Firenze,

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Eraldo Bellini

emendar i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine»59. I moderni correggono dunque gli antichi: Galileo vagheggiava un Aristotele copernicano, Pallavicino un Bembo non più arcaizzante, ma sbilanciato con decisione sui moderni. Appare chiaro, a questo punto, che l’opposizione dei barberiniani alla tesi arcaizzante di Bembo, fondata sull’idea che i modelli trecenteschi di Petrarca e Boccaccio rappresentino punti di irradiazione sottratti all’erosione del tempo, trova la sua origine in una più generale sostituzione di paradigmi filosofico-antropologici. Non esiste nel passato nessun momento o luogo di perfezione che non possa essere perfezionato dai moderni. Il mito dell’età dell’oro è una dorata menzogna dei poeti, scrive Pallavicino in Del bene 60. «Sempre s’impara, e quanto più si vive, più si sa. […] I concetti antichi sono sbozzature della sapienza nascente, e i concetti nuovi sono speculazioni della sapienza invecchiata»; «Che maligna ingratitudine è il professar nemicizia col suo secolo, e voler sempre anteporre i vocabuli incanutiti all’invenzioni nascenti!», sentenzia l’autore della Poetica sacra, Giovanni Ciampoli. Il quale aggiunge, con atteggiamento quasi irridente, che se «una nutrice d’Olanda […] raccontasse oggi giorno ai suoi infanti» le celebratissime imprese degli Argonauti «gli moverebbe non a maraviglia, ma a riso». Difficoltà quasi insuperabili accompagnarono i modestissimi viaggi degli antichi; oggi i pargoli olandesi «a pena nati […] trascorrono sopra i moderni navili fino al remotissimo Giappone con quella agevolezza con la quale sogliamo trasferirci a villeggiare in una amenità vicina»61. «Nostra profecto sunt antiqua temBarbèra, 1932, p. 236, e nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, in Opere, VII, Firenze, Barbèra, 1933, p. 136 (ma si veda anche, sempre nei Massimi sistemi, p. 76). Per questo topos argomentativo, che riaffiora costantemente negli scritti di Galileo, si veda A. Battistini, Introduzione a Galilei, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 61-62. 60 Pallavicino, Del bene, pp. 642-644. 61 G. Ciampoli, Prose, In Roma, Nella Stamperia di Manelfo Manelfi, 1649, i passi citati alle pp. 132-135. Come già il volume delle Rime del 1648, anche le Prose del Ciampoli sono dedicate al cardinal Girolamo Colonna. Nella prefazione A chi legge si indica nel Pallavicino il vero curatore delle Prose: «L’ultimo compimento è proceduto dall’industria del p. Sforza Pallavicino, il quale così per suo genio verso la gloria dell’autore, e il ben publico, come per servire al magnanimo desiderio del signor cardinale, non ha risparmiato o tempo o fatica in ordinare e aggiustare un fascio di carte confuse, scorrette, abbozzate». Lo stesso Pallavicino sottoscrive altresì, con parole di lode, l’Approvazione ecclesiastica. Su Pallavicino editore degli scritti filosofici di Ciampoli si veda, oltre a E. Raimondi, Avventure del mercato editoriale [1961], in Anatomie secentesche, pp. 99-118: 114-117, F. Favino, Sforza Pallavicino editore e «galileista ad un modo», «Giornale critico della filosofia italiana», 79 (2000), pp. 281-315.

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Petrarca e i letterati barberiniani

pora, cum mundus jam senuerit», aveva scritto nel 1623, l’anno dell’elezione pontificale di Maffeo, ma anche del Saggiatore, dell’Adone e magari dell’Hoggidì di Secondo Lancellotti, Francesco Bacone nel De dignitate et augmentis scientiarum, libro tempestivamente diffuso tra i ‘barberiniani’ per merito di Cassiano Dal Pozzo che aveva potuto leggerlo fin dal 1625 durante la legazione francese di Francesco Barberini 62. In linea con questa visione evolutiva della scienza e della cultura, e dunque anche della lingua e dello stile, va collocata, a suggello di questo troppo breve e lacunoso percorso, una memorabile pagina del Cannocchiale aristotelico nella quale Tesauro individua all’altezza dei grandi trecentisti non più la perfezione della nostra favella, ma solo «la sua giovinezza», non esente dai difetti che a tale stagione della vita quasi di necessità si accompagnano: «Il Petrarca poi, quantunque con acutezza e accuratezza maggiore abbia scritto, nondimeno – affermava Tesauro – per le poetiche licenze, per la violenza della rima, e per le reliquie dell’idiotismo antico sparte ne’ suoi manoscritti, più facilmente puoi tu a Cecilio [Stazio] che a Virgilio paragonarlo». «La perfetta virilità dell’italiano idioma», concludeva Tesauro, è «questa che, incominciata nel passato secolo, va tuttavia maturando». Nella prospettiva del primato dei moderni, di cui Tesauro forniva copiosa lista, i quali avevano ampiamente dimostrato che «per ben parlar toscano più non è mestier di bere ad Arno», il ‘barberiniano’ Mascardi («chi più sostenuto nella Oratoria che un da Sarzana?») poteva ormai pacificamente convivere con «la Sirena Marina»63.

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Sul dibattito ‘Antichi-Moderni’ nell’ambiente culturale barberiniano, e sulla tempestiva diffusione degli scritti di Bacone tra i Lincei, si vedano Bellini, Umanisti e Lincei, pp. 205-209, e A.R. Romani, Francis Bacon e il carteggio puteano, in Cassiano Dal Pozzo. Atti del Seminario Internazionale di Studi, a cura di F. Solinas, Roma, De Luca, 1989, pp. 3135. La citazione dal De dignitate et augmentis scientiarum in F. Bacon, Works, I, a cura di J. Spedding, R.L. Ellis, D.D. Heath, London, Longman & Co…, 1858, pp. 458-459 (rist. fotostatica Friedrich Fromman Verlag…, Stuttgart-Bad-Cannstatt, 1963). 63 E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, In Torino, Per Gio. Sinibaldo, 1654, pp. 308-310 (nella definitiva edizione Zavatta, Torino, 1670, i brani citati alle pp. 242-243). Ma per i giudizi di Tesauro intorno a Petrarca è d’obbligo il rinvio a E. Raimondi, Un esercizio petrarchesco di Emanuele Tesauro, nel suo volume Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Firenze, Olschki, 1961, pp. 77-94.

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Massimo Scorsone PETRARCHISMO E LIRICA NEOLATINA TRA I SECC. XVI-XVII: UNA RICOGNIZIONE IN LIMINE

L’argomento della presente comunicazione, il rapporto intercorso cioè fra due distinte e, seppur diversamente, più che autorevoli espressioni di classicità letteraria, parrebbe necessitare di un chiarimento preliminare, ancorché forse ovvio. Ma un chiarimento inteso, se non altro, a fornire un contributo, per minimo che possa risultare, ad una verifica in sede storica delle motivazioni ultime sottese all’utilizzazione di formule sintetiche – del tipo ‘petrarchismo latino’ e simili – che, al di là di ogni deliberata genericità, presuppongono (a torto o a ragione) l’esistenza di un non astratto oggetto di riflessione, corrente o movimento o scuola ovvero indirizzo poetico che sia: locuzioni o, per dir meglio, consuetudini fraseologiche i cui significati più complessi e specifici attendono tuttora (se non ci erriamo) un effettivo accertamento critico. Operando in proposito una temporanea sospensione di giudizio, si è preferito a tale scopo evidenziare analiticamente – anche mercé l’adozione di ciò che potrà forse apparire come una sorta di endiadi, se si vuole – l’arco concettuale compreso congetturalmente fra gli opposti poli di tradizioni liriche ben consolidate, le cui rispettive autonomie d’altra parte non vietarono mai influssi vicendevoli, come avremo modo di dimostrare, se non addirittura mutue interferenze fra pratiche poetiche limitrofe (per tutte si pensi alla copiosissima sonetteria pastorale tardocinquecentesca e, parallelamente, all’almeno altrettanto abbondante produzione coeva di lusus neolatini di soggetto e d’intonazione affini: tutti esercizi di stile che, in varia misura, rivelano in filigrana la presenza di un ipotesto di petrarchevole maniera), pratiche più volte contaminate con i termini di una cultura, e di un linguaggio, ad esse strettamente consentanei.

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Massimo Scorsone

D’altra parte, se già il petrarchismo cinquecentesco, come bene è stato osservato, era parso specialmente connotarsi attraverso gli intensi sviluppi impressi a una certa dimensione di socialità linguistica, presto emersa come il fenomeno più rilevante all’interno di un’esperienza che fu, innanzi tutto, esperienza – storica non meno che geografica – di diffusione e circolazione di tipologie espressive ancor prima che di peculiari caratterizzazioni poetiche o di specifiche romanzesche, non sarà difficile ammettere che, anche per quanto concerne l’acculturazione non tanto del genuino modello dei canzonieri, ma sì piuttosto degli istituti maggiormente caratteristici del vernacolo sentimentale petrarchesco presso gli umanisti, dovette trattarsi, in primo luogo, di un ulteriore ampliamento di codesta medesima koiné lirica all’ambito della poesia neolatina: capitolo di ben più vasta vicenda, com’è chiaro, e che tocca appunto la longeva coesistenza della cultura umanistica di lingua latina accanto alle varie civiltà letterarie volgari, l’una e le altre, vorremmo ribadire, energicamente vitali lungo tutto il corso del secolo XVI; l’una e le altre, anzi, giunte al culmine di plurisecolari sviluppi proprio sullo scorcio del Cinquecento. E se nella sola Italia, in particolare, con maggiore efficacia cooperò a consolidare la rinomanza del Petrarca e ad innalzarlo ad esempio sommo sopra ogni altro classico toscano «l’imitazione di rimatori volgari e persino di versificatori umanisti, i quali ebbero presenti, non meno del Canzoniere, i Trionfi», talché ripercorrere la storia di queste imitazioni, come faceva ancora rilevare il Bonora, condurrebbe a riesaminare a fondo, oltre che quasi tutta la lirica volgare dell’età precedente, «in parte la stessa poesia degli umanisti»1, è altrettanto vero che “quel sì gentil d’amor mastro profondo”, per tornare a servirci della tarda e abusata definizione romantica alfieriana, era già stato capace d’imporsi alla considerazione dell’intera res publica litteratorum non solo come lirico erotico, ma altresì per la sua opera di umanista, e anzi, come si sa, soprattutto in virtù di questa, specialmente al di là delle Alpi. Non a caso il mito, già direttamente, se non premeditatamente, inaugurato con l’Epistola posteritati, e vieppiù arricchito dalla copiosa quanto poco vigilata aneddotica provveduta dai primi commentatori ed autori di vite petrarchesche, ne aveva assai per tempo recato notizia agli Oltramontani, magnificando la leggendaria sapienza di storico e d’erudito del poeta aretino, e legittimando al contempo – ben prima del Vellutello o del Gesualdo, per tacere dei ‘minori’ Fausto da Longiano e Silvano da Venafro – la tipizzazione di quei tratti di squisita accezione emotiva che, lungi dal venire considerati

1

Cfr. E. Bonora, Francesco Petrarca, in I classici italiani nella storia della critica, a c. di W. Binni, Firenze 1970, vol. I, p. 106.

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Petrarchismo e lirica neolatina tra i secc. XVI-XVII: una ricognizione in limine

meramente caratteriali (l’amor solitudinis, il taedium vitae, la vieta antitesi teologica fra caritas e cupiditas fervidamente rivissuta in termini di tensione psicologica) e prima ancora di essere eventualmente costituiti in elementi di poetica, erano stati resi di fatto funzionali all’ipotesi di una vicenda biografica «esemplare e fortemente sollecitante le esigenze spirituali di un umanesimo saturo» (Baldacci); sicché alla fine del Quattrocento l’umanista alsaziano Sebastian Brant (1458-1521) poteva ancora asserire, in un suo pur semibarbaro latino, che Gloria Petrarchae tanto est cumulata decore Ut sibi nil addi nil minuive queat; Quicquid enim humanis potuit complectier usquam Usibus excultis, arte vel ingenio, Hoc † meus ingenue † novit bonus ille poeta, Calluit hic cunctas funditus historias2;

ma seminando inoltre, pur con improvvido anacoluto, tale volgata superficiale e genericissima – ereditata, con ogni evidenza, dalle precoci testimonianze Boccacciane e Vergeriane – di rozzi spunti moraleggianti: Omnibus his spretis sed enim haec fucata veneno Saecula mortifero liquit et illecebras, Et nemora et montes habitans colit atque frequentat, Secreti calles et loca sola placent. Proinde sibi obtinuit famamque decusque perenne, Et fieri meruit carior inde Deo3. […]

2

Sebastian Brant, De Francisci Petrarchae laude et praestantia (in Varia Sebastiani Brant Carmina, Basileae 1498), vv. 1-6: «Alla gloria del Petrarca non si può aggiungere né toglier nulla, a tal segno abbonda di titoli di virtù; ché quell’ottimo poeta a menadito seppe tutto ciò che gli uomini poteron mai conquistare per esercizio di civili costumi, arte od ingegno, ed ebbe profonda conoscenza della storia tutta». Il carme è stato ripubblicato integralmente nella bella ed ampia scelta di componimenti poetici neolatini allestita da H. C. Schnur (Lateinische Gedichte deutscher Humanisten, ausgewählt, übersetzt und erläutert von Harry C. Schnur, Stuttgart 19782, pp. 14-15), il quale propone congetturalmente di sanare il locus desperatus al v. 5 con un mente ingenua, peraltro assai persuasivo («nam tria adiectiva uni nomini apposita ab latinitate videntur abhorrere»). 3 S. Brant, De Francisci Petrarchae…, vv. 7-12: «Pure, disprezzata ogni cosa, abbandonò tuttavia questo secolo attoscato da letal veleno assieme alle sue lusinghe, e prese rifugio tra boschi e monti, essendogli grati soltanto appartati romitaggi: donde s’acquistò fama ed onore perenni, meritando perciò di divenir più caro a Dio».

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Che poi l’ammirazione verso l’opera del Petrarca più propriamente erudita e Latinior, ma certo ormai troppo redolente di Medioevo ad olfatti resi più delicati dalla pratica diuturna degli auctores di una appena resuscitata classicità, si attenuasse a mano a mano che il nostro umanesimo s’irrigidiva in un sempre più esclusivo ossequio dei modelli che vorremmo chiamare ‘unicisti’, ciceroniani o vergiliani che fossero, mentre si affermava, per converso, il riconoscimento della sua eccellenza di poeta volgare, e di lirico amoroso («dirò bene che egli trattate ha le cose di Amore più gentilmente che poeta alcun Greco o Latino», stando a quanto ancora lo stesso Girolamo Muzio attestava), eccellenza prossima ad autorizzare un analogo processo di normalizzazione interpretativa d’allora in poi riconosciuta, almeno in Italia, per ortodossa – intendiamo dire il solenne, grave neoclassicismo teorizzato unitamente negli Asolani e nel trattatello epistolare De imitatione –, è fatto che non potrà stupire eccessivamente, facendo anzi meglio comprendere come altre realtà dovessero in seguito intervenire a modificare un assetto di cose già tenacemente conservativo: e sarà dunque la reazione d’intellettuale secchezza, e insieme di artificio inesausto, d’ingegnosa arguzia combinatoria, manieristica o prebarocca che dir si voglia, al severo ma appassionato petrarchismo bembesco, tutto versato nella riproduzione la più integrale e fedele possibile della figura del Petrarca uomo ed artista, a completare il portato di abitudini che rappresenteranno il panorama culturale quantomai vario e composito entro il quale verranno attuandosi le prime proficue (e pienamente riconoscibili) contaminazioni tra lirica volgare e poesia neolatina. Ché sarebbe erroneo, o quantomeno parziale, da un’idea perfettamente decontestualizzata del petrarchismo maggiormente in voga fuori d’Italia – meglio: dei vari petrarchismi, “generici” (giusta la distinzione non schematizzante proposta ancora da E. Bigi) o “eterodossi” che dir si vogliano, cortigiano concettistico flamboyant, conforme alle denominazioni e ai diversi climi culturali e spirituali che ne propiziarono la fioritura e il rigoglio – dedurre una situazione rigorosamente simmetrica in ambito neolatino. Ché Serafino dall’Aquila, il Cariteo, il Tebaldeo (per il quale ultimo, in verità, avvezzare la lingua curtense del ‘suo’ Petrarca al latino, pur saporoso, di alquanto ricercati epigrammi dovette avere il senso malinconico di un obbligatorio ripiego più che di un positivo ampliamento d’orizzonti4) e gli altri minori esponenti di quella lirica 4 Si vuole ovviamente alludere alla testimonianza recata in proposito da A. F. Seghezzi in una chiosa all’epistolario bembiano (indizio sicuro, fra l’altro, di una transizione tra due diverse età poetiche) che ci permettiamo di riportare integralmente: «Il Tebaldeo ferrarese fu celebre verso la fine del secolo quindicesimo per le sue rime ripiene di una certa vivacità per cui si allontanò di molto dalle orme felicissime del Petrarca, ma dileguossi finalmente

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cosiddetta ‘cortigiana’ cui tanta fortuna arriderà sotto altri cieli, dalla Francia di Scève, Desportes e Pontus de Tyard all’Inghilterra eufuistica, ebbero bensì il merito di recare non mediocre contributo all'internazionalizzazione della parlata dolente e sospirosa dei canzonieri trasformandola in autentica “lingua franca” della poesia amorosa; ma è altrettanto vero che gli echi risvegliati per simpatia sulla lira latina del pieno e del tardo umanesimo dalla concors vocum discordia dei versificatori petrarchisti non poterono mai uniformarsi ad una sola declinazione di tale poetica. L’impiego di codesti codici (e dunque non già una presenza integrale del Petrarca, bensì l’occorrenza del suo linguaggio formulare; ma potremmo spingerci un poco oltre, e parlare di una certa coscienza dolorosamente, talora morbosamente introspettiva, di un algolagnico egotismo d’atteggiamenti cupamente meditativi) si rivelò anzi da sempre, e in pressoché assoluta diacronia, in una molteplicità di toni e modi espressivi, a cominciare da esili forme poematiche, succinte e sentenziose, che potremmo definire a un dipresso neoteriche, rifuse talora all’interno di contesti lirici di più ampio respiro, e non di rado ravvivate dalle solite acuzie o da bisticci, che mettono a profitto come patrimonio comune un dovizioso repertorio topico fisio-psicologistico. E se ne potrebbero fare al riguardo parecchi esempi: valga per tutti quello del napoletano Berardino Rota (15091575), il quale, se pure meritò come rimatore in volgare, né forse del tutto irragionevolmente, l’accusa di aver ridotto, appunto in virtù d’una nativa concettosità della sua poesia, «la vaga musica del Petrarca a secchi suoni epigrammatici»5, dovrà almeno altrettanto francamente essere ricordato come il soavissimo non meno che sconsolato melodo di teneri epicedi latini, nello stile pontaniano, in morte dell’ancor giovane moglie, Porzia Capece, ch’egli (secondo testimoniava Scipione Ammirato) «pianse sempre amarissimamente», onorandola del suo canto accorato:

ogni onore da lui acquistato, e le sue composizioni rimasero in poca stima, essendosi i letterati di quel secolo accorti del loro errore, al pubblicarsi gli Asolani del Bembo e l’Arcadia del Sannazaro, che insegnarono agli uomini italiani cosa fosse il comporre toscanamente. Accortosi il Tebaldeo del cangiamento della sua fortuna, diessi a scrivere epigrammi latini, ne’ quali riuscì più felicemente» (cfr. P. Bembo, Opere [Classici Italiani, vol. VII], Milano 1810, pp. 207-208). Intorno alla produzione poetica in lingua latina del Tebaldeo si veda ancora S. Pasquazi, Rinascimento ferrarese, Caltanissetta-Roma 1957, passim. 5 E. Bonora, Francesco Petrarca, cit., p. 118. Varrà la pena di ricordare in proposito l’apprezzamento, singolare, ma evidentemente tutt’altro che fortuito, manifestato a contrariis sullo scorcio del Seicento nei confronti del Rota da quegli stessi esponenti del cosiddetto classicismo d’Arcadia i quali tennero la poesia del Canzoniere «come modello accanto ad altri modelli e greci e latini e volgari» (Id., Ibid.).

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[…] O utinam in fluvium lacrymans, et tristis abirem, Qui propter tumulum, cinerem qui condit amatum, Laberer, hoc saltem solarer funus acerbum; Ah cinerem extinctum, vivos qui suscitat ignes, Ah cinerem exiguum, magnam qui pectoris Aetnam Suscitat: at parvo grandes accendier aestus Quis putet e cinere? at cineres Amor excitat alis 6 […]

un canto, com’è chiaro, atto anch’esso a fornire, coerentemente e diligentemente registrando gli estremi di una sua pur minima miracolistica erotica, fatta di repentine metamorfosi e di sagacie forse un poco ingenue, ma non per questo meno convincenti sul piano d’una complessiva verità storica, la prova provata di un sentimento vivace, e anzi “forte come la morte”, dichiarato esplicitamente, e con ancor più evidente concisione, nell’icastico lampeggiamento di singoli distici, come nel celebre epitafio a se stesso, Cur tumulus manat lacrymis, cur aestuat igni? Ipse vel in tumulo luget et ardet amans7,

dal quale pure, invero, così saldamente fondato su quelle due voci primordiali, lacrymae e ignis, di comune e inequivocabile significato, ci sembra traluca, e con particolare e risentita evidenza, vorremmo dire, al di là d’ogni circostanziale agudeza, il senso profondo del nostro Cinquecento8, come 6 Berardino Rota, Portia (in Sylvarum, seu Metamorphoseon Liber), vv. 19-25: «Oh se potessi, mesto ch’io sono, piangendo dissolvermi in fiume, e prendessi così a scorrere accanto al tumulo che copre l’amato cenere! almeno così mitigherei l’acerba morte. Ahi quell’estinto cenere, che vive fiamme suscita! Ahi quel pugno di cenere, che mi suscita in cuore un’Etna immane! E chi mai direbbe che da sì piccolo cenere s’accendano vampe sì grandi? Ma è Amore, che ventila i ceneri con l’ali». Citiamo dalla splendida stampa settecentesca delle poesie del Rota (Delle Poesie del Sig. Berardino Rota Cavaliere Napoletano, In Napoli, Nella Stamperia di Gennaro Muzio, 1726, p. 249). 7 B. Rota, Sui ipsius tumulus (in Epigrammaton Liber): «Perché stilla di lacrime il sepolcro, perché avvampa di fiamme? Chi ama, persino nella tomba piange, ed arde» (cfr. Delle Poesie del Sig. Berardino Rota…, op. cit., p. 232). 8 O, per meglio dire, del primissimo Cinquecento bembino che, ravvisando come ragione seminale della propria poesia «un essenzializzato movimento dialettico di stati psicologici», già scientemente si richiamava a «un senso più critico della tematica lirica del Petrarca» (cfr. L. Baldacci, in Lirici del Cinquecento, Milano 1984, p. xx-xxi) pur all’interno di ormai desueti canoni espressivi – segnatamente, della poesia popolare e cortigiana, epperò sfoltita d’ogni clamoroso eccesso di retorici portenti.

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anche di tanta parte, e della parte certamente più viva, della poesia del nostro umanesimo, così diverso – ché giova in proposito istituire il confronto – dall’attardato Medioevo (ma per la verità eccezionalmente solidale con la poetica, tutta secentesca, della vanitas) cui si provò spesso a dar voce, poniamo, il gallese John Owen (Johannes Audoenus, 1564-1622) in versi del tenore seguente: Est amor in nobis, in lignis ut latet ignis, Ignis uti lignum, nos levis urit amor. Ligna sed in cineres vanescunt, ignis in auras; Nos cinis, et noster, quid nisi fumus, amor 9?

che lo rivelano del tutto all’oscuro di qualsivoglia alchimia d’Amore, e perciò, rinserrato com’era nel cerchio angusto (cui bene potrebbe alludere pure, se non ci s’inganna, l’epigramma citato, coi chiusi chiasmi tenaci che tutto lo innervano) di un suo limitato orizzonte boreale, perfettamente ignaro di simili fenici eternamente rinnovantisi, così come di redivive rose paracelsiane10. Era una topica, quella adottata dagli umanisti petrarcheggianti, fatta di radicati loci communes, che dan conto almeno di come, se vero è l’assunto in

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John Owen, Amantes (cfr. Ioannis Owen Cambro-Britanni Epigrammatum Liber singularis, n. 229): «È racchiuso in noi l’amore, siccome la fiamma si cela nel legno: come la fiamma il legno, così ardendo ci consuma l’amore. Ma il legno si muta in cenere, svanisce la fiamma nell’aria: siam noi la cenere; e il nostro amore cos’è, se non fumo?». Gli epigrammi dell’Owen, riscontrati principalmente sulla stampa olandese del ’33 (Ioann. Oweni Oxoniensis Angli Epigrammatum Editio Postrema, Amsterdami, apud Guiljelm. Blaeu, MDCXXXIII), sono attualmente accessibili nella moderna edizione del Martyn: J. Audoeni Epigrammata, ed. J. R. C. Martyn (Vol. I [Libri I-III], Leiden 1976; vol. II [Libri IV-X], Ibid. 1978). 10 Presumibilmente, non una sensibilità più pervia alle profonde suggestioni della lirica amorosa attesterebbero i peraltro rari componimenti del tipo del seguente, significativamente intitolato – in italiano nell’originale – Nilo negli occhi, Ætna nel cuore (Epigr. I, 74): Frigidus ardentes intravit Nilus ocellos, / Dum cor Aetneo carpitur igne meum. / Nec tantus fluvio lacrymarum extinguitur ardor, / Nec tanti fletus flumina siccat amor. / Sic sibi discordes, exercent vim tamen ambo / In me concordes, ignis et unda, suam («Un gelido Nilo mi penetrò negli occhi ardenti, poi che il cuor mio in preda fu di fiamme etnee; né vampa sì grande vien spenta dal fiume delle lacrime, né l’amore prosciuga l’onde di sì gran pianto. Così fuoco ed acqua, benché fra loro discordi, entrambi di comune accordo infieriscono su di me»), quanto piuttosto qualche necessaria consuetudine con i topoi abituali delle poetiche concettiste, certo ben note, quantunque sostanzialmente estranee, alla musa del celebrato “Marziale britannico”.

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base al quale riconosciamo che i fragmenta volgari del mesto amante di Vaucluse rappresentarono «il più grande ed accreditato deposito delle riprove d’amore», questi stessi fragmenta venissero interpretati dai più, per consuetudine già antica, in base a un principio di economia sentimentale del tutto privata, e ricercando in essi, e anzi in essi quasi divinando, a modo di sortes, la conferma di uno stato d’animo particolare; ma è altresì innegabile che la poesia del Petrarca sia stata spesso considerata anche come l’astratta indicazione (astratta nella misura in cui si palesava priva di determinazioni localistiche, di argomenti o di sfondi storici, così come scevra di coloriture paesane o strapaesane) di una verità sentimentale e psicologica d’ordine generale. Una verità che anche i verseggiatori neolatini, come la moltitudine dei tardi nepoti del “gran padre d’Amore” poetanti in volgare, cercarono di penetrare; e anzitutto per mezzo d’imitazione o, per meglio dire, di parafrasi, ovvero di “parodia”, etimologicamente intesa in base all’uso tecnicistico ormai invalso: pratica certo ben documentata, quantunque, di norma, non specialmente connotativa in sede storica – ché ben poco, in termini d’intenzionalità poetica, distinguerà meri esperimenti di trasposizione dall’originale quali il giovanile carme flaminiano De Delia, fedelmente esemplato, ad inizio ’500, sulla canzone Chiare, fresche et dolci acque 11, e la traduzione in raffinate forme epigrammatiche del sonetto 170 (RVF 203), Lasso, ch’i’ ardo, et altri non me ‘l crede, provveduta verso il 1810 da Thomas Gray (Uror, io! veros at nemo credidit ignes)12, tanto lontani fra loro nel tempo quanto, di fatto, elettivamente prossimi per comunione di propositi –, e legata essenzialmente al costume solito dei progymnasmata accademici; ma che poté altresì produrre, conseguendo un effetto di più precisa determinazione, risultati di significato assai meno equivocabile ai fini di una migliore intelligenza del fenomeno. È il caso della ‘Ekatompaqía (1582), centuria d’amore bilingue (anglolatina) dovuta al poeta ed erudito Thomas Watson il Giovane (1556?-1592), che contribuirà anch’essa, in qualche misura, assieme ai più noti canzonieri volgari del Sidney e del Drayton, a caratterizzare la voga letteraria parzialmente italianizzante della Londra elisabettiana e giacobita13. L’opera, se non

11 Cfr. M. Flaminio, Carm. I, vi (De Delia); ora leggibile in Marcantonio Flaminio, Carmina, a cura di M. Scorsone, Torino 1993, p. 14 sgg. 12 Cfr. Th. Gray, From Petrarch. Lib: I: Sonett: 170. Lasso ch’i ardo, & altri non me ‘l crede, &c. (in The Complete Poems of Thomas Gray, edited by H. W. Starr and J. R. Hendrickson, Oxford 1966, p. 141). 13 Riteniamo tuttavia non illecito credere che, a favorire la diffusione e la circolazione di autorevoli modelli italiani all’interno della variegata temperie letteraria anglosassone, un

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fu la maggiormente rappresentativa fra le raccolte coeve, più o meno direttamente ispirate al modello petrarchesco – di cui qui (per limitarci ai neolatini) vorremmo ricordare, oltre ad una corona di componimenti contenuta nel Poematum libellus (London 1598) dovuto ad un altro poeta Cambro-Britannus, William Vaughan (1577-1641), e al florilegio di pseudo-sonetti del polacco Nicola (Mikoaj Se˛p) Szarzyn´ski (ca. 1550-1581), soprattutto le due sillogi delle Paraeneses e degli ‘Eéldora, o Desideria, entrambe allestite nel 1596 dal fiammingo Simone Ogerius di St. Omer (1549-1603?), esplicitamente memori della vicenda germinale del Canzoniere: tutte specialmente notevoli, se non altro, per il bizzarro tentativo di consertare, sulla traccia del volgare, componimenti latini nel rispetto di inconsuete (almeno nell’ambito della lirica profana) e quantomai falotiche metriche accentuative14 –, ebbe

poco più funzionali dovessero rivelarsi in seguito, fra i lavori del latinista Watson, una versione esametrica dell’Aminta (del 1585), come pure l’elegante ecloga originale, di poco posteriore alla metafrasi tassiana, dal titolo Amyntae Gaudia. Data per la prima volta alle stampe a Londra (imprinted by Iohn Wolfe for Gabriell Cawood, dwellinge in Paules Churchyarde at the signe of the Holy Ghost), quasi sicuramente nel 1582, l’‘Ekatompaqía, or Passionate Centurie of Loue conobbe in effetti scarsissima fortuna, e forse ancor più scarsa diffusione, non venendo più ripubblicata sino al 1869, allorché la Spencer Society ne allestì un’edizione a tiratura limitata, anch’essa oggi difficilmente reperibile, mentre appena l’anno seguente Edward Arber ne curò la ristampa per la serie degli “English Reprints”, ove comparve assieme ad altre due opere del Watson – un epicedio pastorale bilingue (Meliboeus, sive Ecloga in obitum honoratissimi viri Domini Francisci Walsinghami / An Eglogue upon the death of Right Honorable Sir Francis Walsingham) e le postume Teares of Fancy – sotto il titolo collettaneo di Poems (London 1870). Il testo integrale dell’Hecatompathia, nuovamente riprodotto in tempi a noi più prossimi in una pubblicazione della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania (Thomas Watson, ‘EKATOMPAQIA [1582], a cura di Cesare G. Cecioni, Catania 1964), è oggi disponibile pure nell’edizione delle opere complete del Watson (The Complete Works of Thomas Watson [1556 – 1592], Lewiston, NY, 1997) curata da Dana F. Sutton e provvista di aggiornata bibliografia critica. 14 Pure, sebbene abbiano lasciato tanto esigua traccia nell’ambito eminentemente tecnico della trattatistica metricologica – di cui una sola allegazione documentabile potrebbe essere addotta: parliamo ancora una volta del noto Libellus de novis metris et lyrica poesi (Parmae 1614) del Ronsferto (a proposito del quale si veda J. Sparrow, Latin Verse of the High Renaissance, in Italian Renaissance Studies… C. M. Ady, ed. by E. F. Jacob, London 1960, p. 408) –, occorrerà forse al riguardo ricordare che occasionali soluzioni compromissorie (cui corrispondono, e molto pertinentemente, le pressoché contemporanee sperimentazioni “barbare” in volgare) non furono tentate per non segnate vie: senza voler risalire ad analoghe stravaganze tardomedioevali – i soneta, o sonicii versus: intorno ai quali può ancora esser utile consultare F. Novati, Sonetti latini e semilatini nel Trecento, in «Studi medievali» 2 (1906-07), pp. 109-112 –, sarà sufficiente menzionare in proposito l’opera di un altro eccentrico, il milanese Lancino Corte (Lancinus Curtius; ca. 1450-1511), autore di

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tuttavia il pregio difficilmente contestabile di fornire alcuni esempi di metafrasi latine dal Petrarca di chiara e perspicua definizione. I sonetti, o passions, ora imitati, ora, e più spesso, tradotti paene ad verbum dal Watson, che nelle sommarie glosse di cui correda ciascun componimento non perde occasione di protestare al lettore la propria fedeltà d’interprete (This passion […] commeth somwhat neerer unto the Italian phrase then the English doth; the Authour translateth, as it were, paraphrastically the Sonnet of Petrarch, which beginneth […]; This Latine passion is borrowed from, ovvero is faithfully translated out of Petrarch; e così via), sono brevi liriche – evidentemente superstiti di una serie più numerosa di tali esercitazioni, da intendersi sovente come mere forme intermedie e veicolari tra originale italiano e imitazione inglese, che per una ragione o per l’altra non venne mai data alle stampe15 – conteste, in linea di massima, di regolari esametri quantitativi disposti secondo uno schema di tipo italiano (due quartine e due terzine, quantunque naturalmente non rimate) 16, che già alla piana allure paratattica e alla singolare penuria di iperbati e di altre figure sintattiche abituali alla lingua poetica latina immediatamente denunciano una pedissequa, benché non ingrata aderenza al

alcuni bizzarri componimenti del medesimo genere contenuti nei postumi Epigrammatum libri decem (Mediolani 1521), fatti anche ultimamente – e forse per la prima volta dopo G. Ellinger, Geschichte der neulateinischen Literatur (Berlin 1929-1933; Ibid. 1969), vol. I, pp. 115-117 – specifico oggetto di qualche interesse da parte della critica più avvertita (per cui si rinvia senz’altro a F. Santi, Lancino Curzio, Epigrammi alla corte di Ludovico il Moro, in «Poesia», n. 116 [1998], pp. 46-53, e Id., Tra latino e volgare. Appunti su Beatrice d'Este e una committenza divisa, in «Semicerchio», n. XXII [2000], pp. 64-73). Sul prestito di modelli metrici dal volgare al latino si veda ancora (oltre all’Ellinger, Geschichte…, cit., voll. I-III [passim], e a J. Rieß, Die Sestine. Ihre Stellung in der literarischen Kritik und ihre Geschichte als lyrisches Genus [München 1971], pp. 114-116) J. IJsewijn-D. Sacré, Companion to Neo-Latin Studies – part I [«Supplementa Humanistica Lovaniensia», V], Leuven 1990, pp. 170 e 309. 15 Varie e discordanti le ipotesi ventilate in proposito – per non menzionarne che una delle ultime: «because of a lack of interest of the Latinate reading public?» (cfr. J. IJsewijnD. Sacré, Companion to Neo-Latin Studies – part II [«Supplementa Humanistica Lovaniensia», XIV], Leuven 1998, p. 17) –, tutte egualmente viziate dalla connaturata fragilità di ogni argumentum ex silentio, e pertanto impossibili da suffragare in alcun modo. 16 Qualora si tenga presente che il modello metrico adottato dal Watson nelle sue passions in lingua inglese (anch’esse spesso semplici rifacimenti dagli originali italiani) rappresenta una modificazione ulteriore del sonnet marotique d’importazione francese, di struttura diversa (tre strofe tetrastiche di decasillabi, ciascuna suggellata da un distico) e dallo schema canonico del sonetto petrarchesco e dalla sua variante elisabettiana (tre quartine concluse da un distico a rima baciata), introdotta in Inghilterra dal Surrey, la precisazione forse non parrà superflua.

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dettato dell’originale. Si prenda il caso di una di esse, la VI, plasmata sul celeberrimo S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento (son. CXXXII): Hoc si non sit amor, quod persentisco, quid ergo est? Si sit amor, tum quid sit amor qualisque rogandum: Si bonus est, unde effectus producit acerbos? Sin malus, unde eius tormentum dulce putatur? Sique volens uror, quae tanti causa doloris? Sin invitus amo, quid me lamenta juvabunt? O laetum vivax, o delectabile damnum, Qui sic me superes, tibi si concedere nolim? Et me si patior vinci, cur lugeo victus? Adversis rapior ventis, nulloque magistro Per maris effusi fluctus, in puppe caduca, Quae vacua ingenio, tantoque errore gravata est, Ipsus ut ignorem de me quid dicere possim: Frigeo, dum media est aestas; dum bruma, calesco17.

Come è facile comprendere anche a una delibazione tanto corsiva, il rispetto puntiglioso, anzi quasi pedestre, del fraseggio dell’originale, nonché minimamente impedire, sembrerebbe all’opposto esaltare vieppiù, se è possibile, il barbaglio prezioso dei valori compositivi di cotesta accorta esercitazione – tutta smaltata d’anafore, antitesi, ossimori, interrogazioni retoriche; tutta armonicamente bilanciata in simmetrici cola, e via dicendo –, garantendogli persino, se è lecito affermarlo, una mirabile dimensione di autonomia rispetto al modello stesso. Il quale, così latinizzato, pare quasi autorizzare un recupero, o almeno semplicemente denotare una ricrudescenza degli schemi retorico-poetici (il cursus ritmico, la dispositio verborum, ecc.) cari alla Spätantike e al Medioevo: procedimenti adoperati ancora in volgare non solo dal Petrarca o da Boccaccio, ma addirittura, se è per questo, da Guittone – e ancora, fuori d’Italia, nel Froissart, e in Antonio de Guevara, in età seriore –, che conferiscono senza meno a queste e a consimili ‘prove d’artista’ del Watson una cert’aria di famiglia con simili experientiae coeve, e a tal segno che, in trasparenza, verrebbe fatto di leggere, dietro il nome venerato del cantore di Laura, quello di John Lyly. E le esemplificazioni potrebbero continua-

17 Seguiamo la trascrizione del ‘sonetto’ watsoniano fornita da C. G. Cecioni (in Th. Watson, ‘EKATOMPAQIA, cit., p. 43), discostandocene parzialmente solo nell’uso interpuntivo.

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re, illustrandoci minutamente in che modo il poeta inglese, traducendo e imitando da tali nugae volgari, venisse anch’egli a scrivere in modo – se l’affermazione non paia contraddittoria – spontaneamente eufuistico: come nella passion LXVI, Dum coelum, dum terra tacet, ventusque silescit, che sfuma appena di riverberi tibulliani il trasparente adattamento di RVF 164 (Hor che il ciel et la terra e ‘l vento tace); ovvero nelle puntuali versioni di XC, Me sibi ter binos annos unumque subegit e C[bis], Lugeo iam querulus vitae tot lustra peracta, lavorate anch’esse a freddo, ma su di una viva impressione di cocente contrizione spirituale, che rendono in forme esametriche a un dipresso speculari le commosse eucologie a sfondo autobiografico di Tennemi Amor anni vent’uno ardendo (RVF 364) e di I’ vò piangendo i miei passati tempi (RVF 365) rispettivamente; o ancora nella passion XLV (non una parafrasi, questa volta, bensì una delicata variazione su similitudini amorose e altrettanto noti sviluppi metaforali d’un gusto che potrebbe risolutamente dirsi serafiniano, e anzi premarinista, già affrontati inoltre nella Centurie of Loue watsoniana in un precedente sonetto in lingua vernacola), odicina inopinatamente rabescata, sulla scorta di un sistema ignoto allo stesso Orazio, in strofe liriche d’un genere nuovo: Foelices alii iuvenes, quos blandula Cypris Aptos fecit amoribus, Exoptare solent tenebrosa crepuscula noctis, Aurorae maledicere: At multo est mihi chara magis pulcherrima coniux Tythoni gelidi senis, Dum venit in prima surgentis parte diei, Et soles geminos mihi Apperit, et moesto foelices reddit ocellos, Quod Soles videam duos, Qui simili forma, simili sic luce coruscant, Et mittunt radios pares, Vt Polus ipse nouo Terrae laqueatus amore Flammis invideat meis, Solis et ignoto se torreat igne secundi, Oblitus decoris sui, Haud secus atque olim, cum veris prima venustas Multo flore superbiit, Et nitidos primum strophiis ornare capillos Pulchri Naïadum chori18,

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«Beati gli altri giovani, che Cipride seducente rese acconci all’amore, e che son soliti bramare gli oscuri crepuscoli notturni, e maledir l’aurora; ma a me assai più cara è la

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ove il novum prodigii genus, il “miracol d’Amore” propiziato da riferimenti mitologici che caratterizzerebbero il componimento come una sorta di tarda palinodia a Ovidio, Amores I 13 (una delle più utilizzate tra le diffuse invettive in Auroram, e fonte già privilegiato dall’Aquilano19 e dal Tebaldeo20), incrementata inoltre mercé riflessi dal Canzoniere (soprattutto RVF 291) 21, occorre in una sua dimensione peculiarmente arguta e concettosa, in un’accezione witty che risulterebbe a malapena legittimabile all’interno delle tipologie imitative sino ad allora impiegate. Si trattò, insomma, di un lento ma inarrestabile procedimento di appropriazione del vocabolario dell’erotica petrarchesca che, se non culminò effettivamente, e per ovvie ragioni, nella creazione di un canone linguistico auto-

sposa radiosa del vecchio, tremante Titone, allor che giunge sul far del giorno, e i soli gemelli mi schiude, e rende a me già mesto i lieti lumi, poi che vedo due soli i quali con pari bellezza, con pari splendore brillano, i lor raggi effondendo di eguale fulgore al punto che il cielo stesso, avvinto alla terra d’amor novello, mi possa invidiare i due begli astri miei, e dimentico del proprio decoro s’abbruci alla fiamma insolita d’un secondo sole, non diversamente da quando già nella sua prima età primavera leggiadra tra fiori in gran copia andò altera, allor che i bei cori delle Naiadi le adornarono di serti il biondo crine». Dal punto di vista metrico la lirica, preceduta come di consueto da una breve nota esplicativa («The Authour vseth in this Passion the like sense to that which he had in the last before it, calling his Mistres a Second Sunne vpon earth, wherewhith Heauen it selfe is become in Loue: but when he compiled this Sonnet, he thought not to have placed it amongst these his English toyes»), consta non di epodi pitiambici I alla maniera oraziana – come pare ritenere l’editore italiano dell’Hecatompathia – bensì di una serie di distici inusitati, formati da esametri dattilici seguiti da gliconei catalettici in basi invariabilmente spondaica. Anche qui, come nel caso del componimento precedente (cfr. supra, n. 13), ci studiamo di conservare di massima la punteggiatura dell’originale, normalizzandone in parte, e soltanto occasionalmente, la grafia. 19 Facciamo riferimento al popolare Capitulo de l’Aurora (inc. Ben puoi tu lucidar, candida Aurora), l’unica composizione dell’Aquilano apparsa a stampa vivente l’autore (cfr. G. La Face Bianconi-A. Rossi, Le rime di Serafino Aquilano in musica, Firenze 1999, p. 164 sgg.). 20 Cfr. Antonio Tebaldeo, Rime, 3 voll., a c. di T. Basile e J.-J. Marchand, Modena 1989-1992 (Son. 198). 21 Ma forse anche (ed eventualmente con ancor maggiore attinenza) da loci più peregrini; fra cui si potrebbe in particolare indicare un capitolo di Venturino da Pesaro (Opera nuoua 1507, cc. f1r-3r: Rischiara presto, disiata Aurora, / Con la tua dolce vista il mondo intorno, / Che ‘l mio stato felice comincia ora; / Ché, col tuo alegro e lucido ritorno, / Da un più chiaro balcon chiaro oriente, / Del tuo un più bel sol mi porta el giorno etc.), sul quale peraltro già è stata richiamata l’attenzione – benché non del tutto a proposito – in riferimento al già menzionato (cfr. supra, n. 19) testo di Serafino (cfr. G. La Face BianconiA. Rossi, Le rime di Serafino Aquilano…, cit., p. 169).

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nomo, ebbe però il merito di ottenere alla poesia neolatina di modi che potremmo definire lirico-sentimentali (la poesia, intendiamo, o la consuetudine versificatoria che riassemblava e mescidava con la massima libertà possibile materiali catulliani e vergiliani, e talora anche epigrammatici, ma rifusi ordinariamente entro contesti di solida impostazione elegiaca22) uno strumentario espressivo incomparabilmente duttile e articolato, agile e minuzioso ad un tempo, e atto, da un canto, a significare con lucida intensità e seguace adesione ogni cadenza, ogni pur minima inflessione di una loquela effusiva e affettuosa – quasi lingua naturale di un io dolente e affabulante –, e dall’altro a sottrarre, per così dire, tali ‘ragioni del cuore’ alla logica esclusivista seguita di norma dai versificatori, o dai centonisti, ordinariamente adusi ai soli modelli tràditi dalla classicità (benché tutti più o meno uniformemente omologati in ragione di una aemulatio troppe volte, invero, banalizzata in una trita successione di meri calchi mnemonici). Vero si è tuttavia che anche gli effetti di tale rinsanguamento andarono progressivamente scemando, stemperandosi sino al ristabilimento del primitivo equilibrio tra struttura lirica originaria e prestiti da una tradizione volgare che, completamente dissoltasi come somma di istituti, sopravvivrà bensì nell’elegeon neolatino, quantunque, appunto, ‘in soluzione’: dunque soltanto incidentalmente, e in poco più che mere ed isolate emergenze formulari, rendendosi ormai difficilmente avvertibile all’infuori di una data e generica atmosfera sentimentale23. Ma l’acquisi-

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Impostazione elegiaca che nel corso dell’intero sec. XVI parrà durevolmente privilegiare, oltre Ovidio, l’illustre exemplum lirico properziano, in che i cinquecentisti rinveniranno, a fronte della ‘spiritualizzata’ passionalità petrarchesca, accenti «più concreti e corposi» a descrivere e inventariare le gioie e le pene d’amore ispirate da una Cinzia divenuta, di fatto, «l’allettante contrapposizione di Laura»; si vedano in proposito gli illuminanti contributi di E. Villa, La « Musa tenuis » di Properzio nella poesia del Cinquecento, e G. Rati, Properzio e i lirici del Cinquecento, entrambi reperibili nel volume miscellaneo edito dall’Accademia Properziana del Subasio-Assisi, Properzio nella letteratura italiana – Atti del Convegno Nazionale (Assisi, 15-17 novembre 1985), a c. di S. Pasquazi, Roma 1987 (risp. alle pp. 92-115 e 117-130). 23 Non esitiamo al riguardo a ritenere eccezioni di conferma alla regola generale testé enunciata le emergenze di pressoché perfetti parallelismi (ossia concernenti presuntivamente contenuti, Stimmung, testura e ductus espressivo), o meglio corrispondenze biunivoche, tra elegia neolatina e sonetto volgare – benché di fatto si sia potuto talora affermare, eccedendo in approssimazione, ed a guisa di prove enumerando in prospettiva astrattamente fenomenologica (e dunque, in definitiva, antistorica) i frutti di certa sperimentalistica produzione quattrocentesca (ad es. Naldo Naldi, Epigr. xxxv) assieme alle ottocentesche ‘traduzioni’ di sonetti shakespeariani (edite dall’Harrower in Gulielmi Shakespeare Carmina quae Sonnets nuncupantur…, London 1913) provvedute da Alfred T. Barton (cfr. J. IJsewijn-D. Sacré, Companion to Neo-Latin Studies – part II, cit., p. 17, n. 8), che «in

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zione del basilare Wortschatz amoroso del Petrarchismo, e il processo che l’aveva consentita, erano ormai dati di fatto; e gli esiti di tale processo, lungamente sedimentandosi nella prassi compositiva tardoumanistica sino ad assumere fisionomie ben riconoscibili almeno in chiave di rettorica, se non propriamente di poesia, continueranno ad essere documentati ai livelli più vulgati nelle serie di moralitates ad usum scholarum (comprendenti etopee, ekphraseis e simili) di cui continueranno ad offrire testimonianza ancora alla fine del secolo XVII crestomazie quali le celebri Descriptiones poeticae, pubblicate a Venezia nel 1683 dal padre Giovan Battista Ganduzzi S. J.24. La lingua petrarchesca, naturalmente proclive a una dialettizzazione di più in più serrata (e dimostrata già dal rapido moltiplicarsi di idiomi poetici all’interno dei vari canzonieri), non poté dunque prescindere da contaminazioni sempre più frequenti, e autorizzate, in certo qual modo, dallo stesso composito statuto di una tipologia lirica in lingua latina – che si stenterebbe a designare come genere, dappoiché ne eccede di gran lunga la ristretta categoria – di spiriti nuovi e di dimensioni decisamente internazionali, e della quale anzi, pur largamente generalizzando, avrebbe potuto dirsi tributaria l’intera Europa letteraria. Apparentata per movenze, stilemi e concetti al comune

many cases the Latin elegy is the counterpart of the sonnet in the vernacular» (Ibid., p. 80) –, peraltro di più in più diradantisi fra i secc. XVI e XVII. 24 Descriptiones Poeticae Ex Probatioribus Poetis excerptae quas … publicè vtilitati exponit P. Io: Baptista Gandvtivs Societatis Iesu, Venetiis, Pezzana, MDCLXXXIII. Se ne consideri, a mo’ d’esempio, lo scorcio epidittico riprodotto in ordine alfabetico sotto il titolo convenzionale di Amoris indicia, anch’esso in versi eroici, tratto a sua volta da un vulgatissimo enchiridion retorico-stilistico, il Palatium Reginae Eloquentiae, ancora assai usitato nel corso del sec. XVIII: Interdum dulci languentia corda calore / Permulcens blande in lacrymas liquefacta resolvit; / Et primum teneris guttae eluctantur ocellis; / Mox velut effractis torrens violentus habenis / Praecipitat, totum in largos cor liquitur imbres. / Quis referat quoties vultus mutavit honorem? / Quam varios subitus color accusavit amores? / Friget, inardescit, pallet, rubet, aestuat, horret. / Nunc tremulo excussae micuerunt sanguine venae, / Nunc et inaequali per mollia pectora motu / Fusae languescunt animae; nunc impetus omnis / Emoritur, refugitque animus, subitoque resurgunt / Conceptae vires, languorem concutit ardor («nel mentre, molcendo il languido petto con mite tepore, lo strugge in pianto, e presto ai teneri occhi fan ressa le lacrime; ma poi, siccome un torrente impetuoso, rotto ogni freno, rovina, tutto si scioglie il cuore in acquate copiose. Chi narrerà quante volte il viso mutò d’espressione? Quale mai vario stuolo di passioni denunciò l’improvviso trascolorare? Gela, s’accende, impallidisce, s’arrossa, avvampa, rabbrividisce. Ora palpita, tremula di sangue pulsante, la trama delle vene; ora lunghi sospiri dal petto spossato con moto ineguale si effondono; ora si estingue ogni impeto, e l’animo cede; ora d’un tratto risorgon nuove forze, l’ardore ricaccia il languore»).

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dominio dei sonettisti; per le diffuse tematiche del platonismo amoroso alla rimeria italiana in volgare, e a quella francese (e poi spagnola) per le impressioni connesse alla fugacità del tempo e della bellezza; per i motivi erotici più franchi ed espliciti – frequenti nei Basia e in componimenti consimili, odae o neniae che fossero, pervase di spiriti marulliani e polizianei, così come nell’epigrammatica ispirata ai modelli marzialeschi rimessi in voga nella prima metà del Quattrocento dal Panormita, o nei falecei rimaneggiati sulla falsariga di Catullo (e del Pontano) – e per gli elementi anacreontici e pastorali erede diretta della tradizione poetica dell’umanesimo già quattrocinquecentesco, la produzione poetica neolatina nel suo complesso mostra fra i secoli XVI e XVII tracce inequivocabili di tali mutui trapassi di forme, nei quali tratti ben ravvisabili del lessico petrarchista, o petrarchesco tout court, destrutturati, collazionati e nuovamente reimpiegati in regime di somma autonomia emergono in diverse occorrenze all’interno degli svolgimenti più disparati, dagli Amores alle epistole poetiche, anch’esse di schietta motivazione elegiaca, benché variamente commiste di eredità properziane (del Properzio della lettera di Aretusa a Licota, IV III), tibulliane (il ciclo di Sulpicia e Cerinto) e soprattutto ovidiane (sia in quelle composte nello stile delle Heroides sia nelle Querimoniae, o Querelae o Threnodiae che dir si vogliano, pure debitrici, almeno parzialmente, ai Tristia del sulmonese), alle ecloghe (e così nei pretti Bucolica come nei Lusus pastoritii o pastorales veri e propri25): e tanto presso autori francesi (du Bellay, Salmonio Macrino, Forcadel) quanto tra fiamminghi e olandesi (Ghisleno Bultelio26, Janus Dousa, Daniel Heinsius), polacchi (Jan Kochanowski, Szymon Szymonowic alias Simonides), tedeschi (Pietro Lotichio Secondo 27, Johann Stigel, Giusto Vulteio, il Winsemio), italiani, spagnoli, inglesi. Fra questi ultimi, il classicista di stretta osservanza Thomas Campion (ovvero Campianus; 1567-1620), meglio noto ai fasti delle patrie lettere come sapiente autore di leggiadre can-

25 Circa la parziale autonomia goduta dal Lusus di soggetto pastorale entro i limiti prescritti del genere bucolico, si veda W. L. Grant, The neolatin “Lusus pastorales” in Italy, «Medievalia et Humanistica», XI (1957) pp. 94-98; e inoltre M. Scorsone, Il lusus pastoralis: lineamenti di storia di un genere letterario, in «Proteo» 1, III (1997), pp. 23-33. 26 Sulla figura del Bultelio può ancora essere utile considerare L. Bakelants, La vie et les œuvres de Gislain Bulteel d’Ypres, 1555-1611, Bruxelles 1968. 27 A proposito del quale rimandiamo volentieri il lettore al pregevole studio di W. Ludwig, Petrus Lotichius Secundus and the Roman Elegists: Prolegomena to a study of Neo-Latin Elegy, in Classical Influeces on European Culture A. D. 1500-1700, edited by R. R. Bolgar, Cambridge 1976, pp. 171-190; ora in Id., Litterae Neolatinae, München 1989, pp. 202-219.

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zoni, compone in un latino alquanto sorvegliato e forse, se è lecito affermarlo, almeno altrettanto armonioso, elegie in cui ancora «ogni passione si smaterializza e s’alleggerisce in puro canto» (M. Praz), come nel nativo eloquio dei suoi songs o ayres: e talvolta ulteriormente complica le guise a un dipresso madrigalesche nelle quali ricompone tali esperienze delle vivide suggestioni musicali dei carmi ‘in eco’, tornati in onore al volgere del secolo decimosesto dopo una tempestiva quanto fuggevole apparizione in Italia nell’età del Bembo: Ver anni lunaeque fuit: pars verna diei; Verque erat aetatis dulce, Sybilla, tuae. Carpentem vernos niveo te pollice flores Ut vidi, dixi: – tu dea veris eris –. Et vocalis – eris – blanditaque reddidit Eccho; Allusit votis mimica nympha meis. Vixdum nata mihi simulat suspiria, formam Quae dum specto tuam plurima cudit Amor. Si taceo, tacet illa; tacentem spiritus urit: Si loquor, offendor garrulitate deae. Veris amica Venus fetas quoque sanguine venas Incendit flammis insidiosa suis. Nec minus hac immitis Amor sua spicula nostro Pectore crudeli fixit acuta manu. – Heu miser –, exclamo, – causa non laedor ab una –; – Una – Eccho resonat; – quam, rogo, diva, refers? Anne Sybillam? – – illam –, respondit: sentio vatem Mox ego veridicam fatidicamque nimis: Nam perii, et verno quae coepit tempore flamma,

28 «Era primavera, e per l’anno e per il mese, e si era nella primavera del dì, ed era pure, o Sibilla, la dolce primavera di tua vita. Appena ti vidi cogliere con la nivea mano i fiori della stagion novella, dissi: – tu la dea di primavera sarai –. Ed Eco loquace, allettata dalla mia voce, – sarai – di rimando gridò, prendendosi gioco, la ninfa canzonatrice, delle mie speranze. E, nata pur mo’, già imita i frequenti sospiri che Amore m’infonde in petto, allor che ammiro la tua bellezza. Se taccio, anch’essa tace; ma l’ardore infiamma chi tace: eppure, se parlo, m’insulta la garrula dea, mentre anche Venere, nume di primavera, con le sue fiamme insidiosa mi fa avvampare nelle vene il sangue, e la mano crudele d’Amore, non più benigno di sua madre, con le sue quadrelle mi trafigge il cuore. – Ahi, me misero – esclamo, – ché la ragion di mia doglianza non è sol una –; ma – è sol una – fa Eco allora. Ed io a lei: – Forse di Sibilla, o dea, tu parli? forse di lei? – – Di lei –, risponde; al che m’avvedo di quanto l’oracolo suo sia veridico nel predire la mia sorte. Ché muoio, e la fiamma che mi accese a primavera nessun gelo d’inverno può sedare» (Elegia I, in Thomae Campiani Elegiarum Liber). Ci uniformiamo alla lezione dell’elegia

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Iam mihi non ullo frigore ponet hyems28.

Non sembra punto improbabile che proprio la corrività, o l’intrinseca debolezza, se si vuole, dei formalismi ravvisabili in tale gracile cliché melico, fondato tuttavia anch’esso interamente, al modo delle opposte poetiche barocche, sui fin troppo facili espedienti prestamente attivati da un’analoga, e sovrana, “funzione smisurata dello stile”29, preponderante su ogni altra istanza, potesse condizionare intorno a sé un tessuto lirico di tal fatta (una trama intemporale, vogliamo dire, integralmente materiata di elementi rapsodici e autoschediastici, ma non più, a rigore, strettamente autobiografica), e in grado, in ultima analisi, di favorire in misura non irrilevante – esulando una volta per tutte da ogni puntuale orizzonte storico, particolare o universale che sia – una autonoma, fantastica transizione dall’elegos all’idyllium, a caratterizzare un neppur troppo singolare caso di evoluzione (o, forse meglio: di involuzione) convergente con un processo già attuatosi al principio del Cinquecento in seno al genere bucolico propriamente detto30. D’altra parte, la stessa poesia pastorale, come si è precedentemente accennato, se anche non partecipò delle più specifiche ambizioni del petrarchismo, pure ne risentì ancora l’influsso sul piano del linguaggio e nei calchi espressivi che dal Petrarca direttamente derivavano: e già in essa la lirica d’ispirazione amorosa, con tutto il suo personalismo psicologico e romanzesco insieme, sottoposta ad una irresistibile deriva mitografica pare approdare alle convenzioni e ai modi stilizzati e altamente mimetici della favola boschereccia, del masque, del lusus, infine, progressivamente tramutando le indimenticabili figure di donne che animarono l’oltremodo ricco panorama poetico dell’elegia neolatina quattro-cinquecentesca (le innumeri Monofile Angeline Fiammette Cinzie Xandre Isotte; ma anche le legittime consortes, oltre le pressoché anonime amicae o puellae, raccolte tutte all’ombra delle ali d’Amore nel segno comune di un sentimento molteplice, liberamente svariante dalla viva, quantunque sempre un poco scontata, intensità propria della passione alla tenera dilezio-

provveduta in Campion’s Works, edited by Percival Vivian, Oxford 1909, p. 315.

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ne affettuosa, ad approfondire e ad amplificare la gamma delle tipologie emotive liricamente rappresentabili31) in mere parvenze, quand’anche non in esanimi larve, o in rigide personificazioni simboliche, a costante contraddizione non solo di ciò che si è convenuto di chiamare, con felicissima caratterizzazione, la “predicazione multipla” della figura femminile32 messa in atto con verve inesausta, fra gli altri, dai tanti erotici del pieno e del tardo umanesimo, ma financo della selettiva realtà (epperò realtà pur sempre, per quanto ardua ed esclusivista) dei petrarchisti. Né dovette essere un caso che, in un clima di perenne alternanza tra un più cauto sperimentalismo e un conservatorismo oculato (ma non di rado risoltosi addirittura in audaci tentativi di restaurazione degli istituti più significativi del classicismo letterario) indu-

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Adoperiamo per l’occasione la nota, compendiosa e quantomai profittevole formula del Friedrich (cfr. H. Friedrich, Epoche della lirica italiana, III, Il Seicento, trad. it., Milano 1976, pp. 13-32). 30 Su cui cfr. M. Scorsone, Il lusus pastoralis, cit., p. 23. 31 Giusta l’esempio del Pontano, esso stesso articolato nei non opposti, ma complementari modelli offerti dal De amore coniugali (dedicato all’amatissima moglie Adriana/Ariadna, fulcro ideale di una intera costellazione di caldi affetti familiari) e da altre, più tradizionali raccolte poetiche (dal Parthenopeus agli Hendecasyllabi all’Eridanus, il canzoniere composto per la ferrarese Stella); ma si potrebbero pure citare, in pieno secolo decimosesto, i nomi di altri tenerorum lusores amorum, dai già menzionati Flaminio e Rota al Castiglione, al Molza, soprattutto, delle delicate elegie a Furnia e a Licoride (per cui si veda ora Francesco Maria Molza, Elegiae et alia, a cura di M. Scorsone e R. Sodano, Torino 1999), per non parlare che degli italiani. Ma oltre quelli appena menzionati, come si è detto, potrebbero essere ricordati ancora parecchi altri casi, trascegliendoli presso i più disparati contesti nazionali: dalla Germania dei già ricordati Stigelio, Winsemio e Pietro Lotichio, creatore quest’ultimo, in particolare, di suggestivi fantasmi femminili (in riferimento ai quali cfr. W. Kühlmann, Die verstorbene Gattin – die verstorbene Geliebte. Zum Bild der Frau in der elegischen Dichtung des deutschen Humanismus [Jacob Mycillus und Petrus Lotichius Secundus], in Die Frau in der Renaissance, hrsg. von P. G. Schmidt, Wiesbaden 1994), alle Fiandre del Bultelio, ai Paesi Bassi di Giano Secondo, Nicola Grudius e Adriano Mario; dalla Francia di Salmonio Macrino alla Polonia di Kochanowski e di Janicki: tutti poeti che, al di là di ogni determinazione aggiuntiva, e benché accortamente modulandone i nomi su registri differenti, cantarono assieme a poco più che ficticiae Neaere, Ursule e Telesille anche i sentimenti assai meno convenzionali (o, forse, soltanto tradizionalmente meno fondati, almeno sotto il mero profilo delle occorrenze liriche) ispirati, appunto, dalla iugalis dilectio – o dal suo equivalente – per altrettante Ippolite, Luise e Beatrici. 32 L’espressione è di G. Getto, Barocco in prosa e in poesia, Milano 1969, p. 76. 33 Per giovarci a nostra volta dell’avventurata denominazione coniata ormai quasi quarant’anni fa da Franco Croce, qualora si sia disposti a tollerarne l’indebita estensione, di cui peraltro ci si assume interamente la responsabilità, dal ristretto ambito della trattatistica al più vasto (e controverso) orizzonte della lirica; cfr. F. Croce, La critica dei barocchi moderati, in Tre momenti del Barocco letterario italiano, Firenze 1964, pp. 93-220.

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giante tra forme del ‘barocco moderato’33 e rinnovata fede in più austere tradizioni poetiche, alcuni fra gli “astri” della romana Pleiade neoalessandrina34, non paghi soltanto d’improvvisate silvae, di vane suasoriae o di faticosi lambiccamenti emblematici, e declinando talora dalla consueta, ma quantomai stucchevole pratica ‘politica’ dell’encomio e del panegirico, si compiacessero di qualche ingegnoso diletto, riesumando e predisponendo ad uso della propria musa svagata, seppure per brevi istanti, tutto il ben congegnato apparato favoloso escogitato da un’età ormai tramontata in bozzetti del tipo del seguente Ad Choream, fontem Tiburtinum, opera del segretario dei brevi ai principi di Alessandro VII Chigi, il romano Natale Rondinini (1628-1657), edito tra i componimenti postumi del giovane poeta: Chorea Naïadum pulcerrima, Chorea lento Seu celeri graderis per cava saxa pede, Vortice seu placido lymphas revoluta resorbes, Provocet ut rauco gurgite murmur aves. Nempe tua captum forma, niveisque lacertis Vicinum fama est incaluisse deum, Saepius et traxisse imo suspiria corde Atque auxisse suis flumina de lacrymis, Donec et ipsa, dei longos miserata dolores, Aeternos pacta es caerula nympha toros. Siste fugam, nemoris dea, qua prope porrigit umbras Quercus opaca altis ambitiosa comis. Nullae hic insidiae, non caeco commodus hosti Trames, et occulta conditus arte dolus. Quin satyri procul hinc, procul hinc agrestia fauni Quae tegat intonsa numina fronde nemus.

34 Ovvero l’aristocratico cenacolo neolatino riunitosi intorno a papa Alessandro VII (che legittimamente accolse l’eredità culturale e spirituale delle Atticae volucres urbaniane) e al di lui nipote, il cardinale don Flavio Chigi, supremo Patrui de sidere sidus (così Apollonio Fiorente). Eletta e cosmopolitica accolta di letterati dilettanti, tutti per lo più di alta estrazione ecclesiastica e curiale, la Pleias ha lasciato la testimonianza forse più eloquente di un probo tirocinio poetico, e insieme di una innegabile continuità con la Roma tardoumanistica e prearcadica dei barberiniani, nella collettanea stampa dei Septem Illustrium Virorum Poemata, edita da Balthasar II Moret ad Anversa nel 1662 (cfr. infra, n. 35) e annoverante nell’ordine componimenti di Apollonio Fiorente, Agostino Favoriti, Ferdinand von Fürstenberg, Johannes Rotger Torck, Natale Rondinini, Stefano Gradic´ e Virginio Cesarini. 35 «Cora, radiosa tra le ninfe tutte, sia che con lento passo, Cora, fra le cave rupi tu inceda, oppur celere; sia che l’acque tu chiami a raccolta, volgendoti sui placidi flutti, sì

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Illa tamen properat, duro obsequiosa marito: Sollicitat timidos, heu! quoque cura deos 35.

Un godibile “quadretto di genere”, a suo modo, prossimo al sonetto pure per l’aurea misura di stile cui si raccomanda, ove non è difficile divinare qualche traccia, per quanto remota, del suntuoso rococò ante litteram del Sarca bembiano, exemplum inarrivabile del genere di epillio rinascimentale che potremmo chiamare neo-mitologico, contaminato peraltro, se non ci erriamo, con una vena di sensualismo schiettamente pittorico non immemore della molziana Ninfa Tiberina, alla quale parrebbe potersi accostare pure per la strumentale evocazione d’immaginari dèi e semidèi rusticali, risalente per li rami ai Ninfali boccacciani, a riprova della ricorrente commistione di elementi epici e bucolici (minimo preludio a più arditi tentativi di accordo tra grandezza eroica e pastorale semplicità, cui il primo neoclassicismo arcadico non sarebbe stato estraneo), apprezzata ancora dal Burckhardt come uno dei tratti salienti della ‘nuova poesia’ umanistica36; ma un quadretto, o una vignetta, che soprattutto ci rende edotti della contestura tematica complessa, per quanto invecchiata, sulla quale si vengono reimpostando cadenze genericamente petrarchistiche – né del tutto aliene da acutezze e viete iperboli, appena velate nell’ordito epigrammatico dell’insieme (fama est […] auxisse suis flumina de lacrymis), alle quali l’atmosfera fiabesca conferisce comunque di diritto nuova e piena liceità – sommate al distinto riecheggiamento di accenti tasseschi, più che mai manifesti nell’intonazione sostenuta del distico conclusivo, davvero memorabile, in quella sua spaziata risolutezza di accenti e cesure, Illa tamen properat, duro obsequiosa marito: Sollicitat timidos, heu! quoque cura deos,

e di tale efficacia che non si durerebbe fatica a crederla quasi interpolata dal primo coro dell’Aminta. Un banchetto certo sfarzoso, insomma; cui tuttavia, per quanto se ne brami gustare, tien dietro la delusione di chi, sedotto da tanto sfoggio di prelibatezze, di là dalla fastosità dell’apparecchio scopre, novello Tantalo, la futilità dell’intera imbandigione, allestita solamente, vien

che il cupo lor mormorio sfidi a tenzone gli uccelli; per te si racconta che un tempo, vinto invero da tua beltà, e dalle tue nivee braccia, ardesse il dio di queste plaghe, e che sovente traesse sospiri dal profondo del petto, gonfiando i fiumi del pianto suo fin che tu stessa, cerula ninfa, avendo pietà di sì lunghi affanni, a lui ti unisti in matrimonio eterno; arresta la tua corsa, dea della selva, qui dove ombrosa quercia, superba per l’alta chioma, ti offre riparo. Qui non insidie, né varco alcuno a nemico ignoto, qui non son trappole ascose ad

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fatto di pensare, ad esaltare i limitatissimi pregi di poco di più d’una frigida e vacua allegoria. E sarà pure stato, almeno in parte, per una sorta d’effetto di reazione a tali inanità (o, volendo esser generosi, ad una poesia intesa in mera accezione ludica: a solemn game, per parafrasare, né del tutto a sproposito, ci sia consentito dirlo, l’espressione eliotiana37) se, con un procedimento approssimativamente analogo a quanto venne attuandosi – anche in termini di prassi compositiva, e non soltanto di pura ermeneutica testuale – in ambito petrarchistico con la maturazione di tendenze ‘spiritualizzanti’ inverate nella riscrittura in chiave prettamente religiosa del Canzoniere (un costume ben documentato, come è risaputo, almeno a cominciare da fra’ Girolamo Malipiero), la lirica neolatina di tendenze elegiache – o, con maggior esattezza, elegiacopastorali – troverà in piena età controriformistica nuovi fonti d’ispirazione nella materia sacra e, in particolar modo, nel culto della Vergine (donde l’esuberante profusione di Elegiae Marianae di che s’imbalsamano i mistici roseti della letteratura religiosa del tempo), assicurando copioso prosieguo alla tradizione (minore, forse, ma non certo minoritaria all’interno delle categorie letterarie del classicismo cristiano-rinascimentale) inaugurata ancora sullo scorcio del Quattrocento dai Parthenices e dalle Eclogae dello Spagnoli con la produzione di una quantità di ‘parodie’ a sfondo devoto, laboriosamente apprestate piegando i modelli esemplati – né soltanto gli antichi, ma estendendo inoltre ai moderni, e financo ai Veneris cantores, un programma di cristianizzazione delle lettere, e della poesia profana in ispecie, già assai per tempo avviato in età tardoantica – ad una reinterpretazione non meno radicale, se possibile, della lettura ‘confessionale’ cui era stato sottoposto, come si diceva, il Petrarca stesso. Appunto a tale tradizione si rifaranno nel Seicento i numerosi epigoni del Mantovano, appartenenti in massima parte alla greggia eletta di Ignazio di Loyola, ancora una volta travasando i contenuti della fede entro calchi prevalentemente ovidiani e vergiliani, pur senza

arte; anzi lungi da qui, satiri, pur voi, e fauni, voi pure via di qui, rustici numi, che il bosco impervio vi occulti tra le fronde… ma quella s’affretta, fedele al coniuge severo. Ahimé, ché pur i timorosi divi il cruccio assilla». Trascriviamo il componimento (il cui titolo compiuto suona Ad Choream, fontem Tiburtinum, in vicinum Anienem influentem) dall’edizione dei Septem Virorum Illustrium Poemata, Antverpiae, ex officina Plantiniana Balthasaris Moreti MDCLXII, p. 217 sg., leggermente ammodernandone, come di consuetudine, l’interpunzione. 36 Cfr. J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it., Firenze 1958, p. 235.

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esimersi da contaminazioni accessorie: dai fiamminghi Sidronio Hosschius (1596-1653) e Guglielmo Becano (1608-1683), elegiaci raffinatissimi, ed eruditi in grado di coniugare la perfetta padronanza di una lingua squisitamente tornita alle infinite risorse di un sicuro magistero stilistico, di una vasta e profonda cultura teologico-scritturistica, al francese René Rapin (1621-1687), esprit charmant – così il Sainte-Beuve – assai onorato tra i letterati del suo tempo ed elegante lirico pastorale38, che nelle sue Eclogae sacrae (1659), votate – tanto nelle trasposizioni poetiche dei richiami tipologici e profetici veterotestamentari quanto nella rievocazione di specifici episodi evangelici – alla celebrazione della figura di Maria, ricommessa per l’occasione entro una cornice bucolica di maniera, non si periterà di dotare eccentricamente il soggetto pio dei suoi carmi dei vezzi (per lo più, invero, non troppo opportuni) di un cospicuo ornato galante, e ancor più appariscente laddove più frivolo. Al cui proposito crediamo basterà menzionare, a guisa d’esempio significativo, il primo carme della raccolta (In Virginem conceptam), nel quale il biblico David, atteggiandosi a poeticus non meno che propheticus pastor 39, e rivestiti come d’uopo gli arcadici panni, nasciturae Virginis imaginem – secondo recita l’argomento proemiale – per somnum objectam amat, et veneratur, levando all’appena intravisto e già fugace sembiante della vagheggiata Parthenis un disperato lamento d’amore, articolato nell’abituale trafila di trepidi accordi verbali, ma ulteriormente percorso ed acceso da una ridda di meno triviali sovrasensi letterari: […]

37 Alludiamo alle riserve lucidamente espresse dall’Eliot a proposito della poesia tardoumanistica di un altro, sebbene assai più celebre, precursore della maniera neoclassica, il Milton (cfr. T. S. Eliot, Note on the Verse of John Milton, in Essays and Studies by Members of the English Association, Vol. xxi, Oxford 1936; ora in Id., On poetry and Poets, London 1956): riserve ricondotte già dal Praz (cfr. M. Praz, Milton e Poussin, in Seventeenth Century Studies presented to Sir Herbert Grierson, Oxford 1938; e ora in Id., Gusto neoclassico, Milano 1974), con l’acume consueto, al comune denominatore anticlassicistico (o, per dir meglio, antineoclassico) di tanta parte delle più vulgate tendenze della critica contemporanea.

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– Quis mihi, quis te, inquit, rerum pulcherrima Nympha, Objecit deus? atque objectam protinus idem Eripuit? quid, Virgo, fugis, si quaeris amari? Aut si te celas, cur tam divina fuisti? Credo equidem, tenuem miseri pastoris avenam, Agrestisque rudes calami aspernabere cantus. Accipe vota, meos si non dignaris amores. Et quamvis me non ausim promittere amantem, Nec sperem fas esse, tibi tamen, omnia quando Possumus, aut posse incauti speramus amantes, Partheni, forte tibi mea quondam vota placebunt. Fontibus aut rivi deerunt, aut murmura rivis, Quam tua, Virgo, meo labatur pectore imago. – Quae te non rupes illis videre diebus Errantem, et blandos jactantem pectore quaestus, Fortunate animi pastor? quae saxa gementem, Qui montes, quae te non audivere cavernae? Sed seu te rupes, seu gramina laeta fluentis, Seu virides sylvae, seu patria rura tenerent: Parthenidem sylvae, et rupes, et rura sonabant 40. […]

Alla patetica apostrofe41, ampiamente riverberantesi nell’ombroso cer-

38 Ma la cui fama (converrà ricordarlo) riposa in particolare, oltre che sulle Observations sur les poëmes d’Homère et de Virgile (Paris 1669) e sulle non meno brillanti Réflexions sur la Poétique d’Aristote (Ibid. 1674), che continuano a rappresentare un capitolo di rilievo non trascurabile nella storia delle ideologie classicistiche, sull’intervento antigiansenista di De nova doctrina dissertatio seu Evangelium Iansenistarum (1656), in cui energicamente impugnò le tesi cristologiche eterodosse professate dai teologi di Port-Royal. 39 Non più di una strumentale sovrapposizione di immagini, a prudente riconciliazione dei termini (ma assai superficialmente intesi, come facilmente ci si avvede, e senza eccedere di molto i limiti di un innocuo calembour) della più che millenaria antitesi tra litterae saeculares e Sacra Scriptura, già precocemente avvertita agli albori della storia cristiana. Cfr. Tertulliano, De corona, vii 13: «Nobis vero Moyses, propheticus, non poeticus pastor … »: tale la prima, compiuta denuncia della suddetta antinomia, dichiaratamente espressa come contrasto puntuale tra Esiodo, cui già le Muse kalæn e¬dídaxan a¬oidæn / a¢rnav poimaínonq' ‘Elikønov u™pò zaqéoio (Th. 23) e Mosé – anch’egli, al modo di David, pastor vates – prossimo, in condizioni simili, a ricevere sul Sinai il carisma della profezia (cfr. Es. 3, 1: «Moyses autem pascebat oves Iethro […] cumque minasset gregem ad interiora deserti, venit ad montem Dei Horeb» etc.).

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Petrarchismo e lirica neolatina tra i secc. XVI-XVII: una ricognizione in limine

chio di selve e di rupi montane, con che lo sfortunato amante dà ripetuto sfogo alla delusione patita dopo il risveglio dal grato suo sogno, tramato di desiderio42, faranno poi seguito in un empito, si direbbe, di ben dissimulata iperdulìa mariana i fervidi voti del pastor vates, formulati anche in questo caso nello stile extradiegetico dell’invitatio, in cui la già eterogenea rete di reminiscenze vergiliane (e, seppur indirettamente, teocritee) si complica di più in più di nuove eco, anafore, refrain, strutturandosi in forme di autentiche armonie imitative: Dum vagus erraret, venit Jordanis ad undam Lassus, et extremae sedit sub margine ripae, Multa putans: tum sic tenues effatus in auras: – Ripa silet, silet aura, silent cum flumine valles, Nec pectus, moestoque silent in pectore curae. Ecquis erit tanto modus aut quis finis amori? Omnis sperat amans, et durus sperat arator Venturam segetem, maturam vinitor uvam, Foeturam pastor, flaventes messor aristas. Quin age, praeque diem veniens, o Nympha, beatum Nascere, nascenti Zephiris clementibus aurae Aspirent, puroque micet lux candida Sole. Ah! ne illam rigido contristet frigore lucem Immitis Boreas, aut nubibus aera foedet. Ah! ne illum contra tendant se nubila Solem –. Talia per montes, subjectaque montibus antra Dicebat, nec quid posset sperare, videbat: Tantum per sylvas, et per deserta viarum

40 Ecloga I [In Virginem conceptam], v. 69 sgg. Forniamo la traduzione dei brani citati attingendo dalla garbata, quantunque un poco prolissa, parafrasi settecentesca delle Egloghe del padre Rapin provveduta per Pietro Alpini accademico concorde: « “ Qual vaghissima ninfa, ahimé! qual Nume / Mi scopre a un tempo il tuo bel volto e toglie? / Se brami amor, perch’hai fuggir costume, / E perché ascondi le celesti spoglie? / Di povero Pastor forse non curi / Le umili canne e i rozzi versi e duri? / Se ambir d’amante il nome a me non lice, / Anzi saría delitto, accettar dei / Sdegnando amore i voti almen: felice / Fia il cuore appien, fian paghi i desir miei: / Che pur gli accogli un dì quest’alma spera, / Nulla incauto amator giammai dispera. / Vedrem di valli cave i monti privi, / E ignude elle d’ombriferi arboscelli, / Non scorreran da fonti argentei rivi, / Né dolce sussurrar s’udran ruscelli, / Anzi che per obblio resti smarrita, / Vergin, l’immagin tua nel cor scolpita. ” / Fortunato Pastor, qual rupe allora / Tuo pié non corse, e quai dolci querele / Traesti fuor dal caldo petto ogn’ora? / Agli antri ai sassi ai monti il tuo crudele / Narrasti affanno, e le Partenie lodi / La selva e il colle ripeté fedele. / O boschi o rupi o patrii campi godi / O pratelli albergar di fonti lieti, / Partenide ricanti in grati modi» (cfr. Egloghe di Renato Rapino vol-

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Ibat, ubi, quondam ventura in Virgine, vanus Suspirabat amans, quos non sperabat, amores43.

Armonie che, seppure nell’accezione affatto particolare e sublimata dell’eros celeste, sembrano legittimamente ricapitolare e compendiare, nella levigata apparenza di un dettato poetico di eccezionale scaltrezza e perspicuità, gli istituti di un’intera tradizione lirica, e senza rifuggire dall’avvalersi talora di meno ovvi contributi, ma accomunando anzi sullo stesso piano antichità e modernità, a congiungere in unico concento esperienze fra loro remote, tutte ormai non più che occasionalmente accolte, con deliberata sprezzatura, a guisa di meri spunti esecutivi: utili, nella migliore delle ipotesi, a suggerire variazioni infinitesime, virtuosistiche filature, efflorescenze di soavi melismi; o, viceversa, prossime a ridursi a minima sillabazione citazionistica di ben più ampie idee melodiche, quali il ricordo del petrarchesco Hor che il ciel et la terra e ‘l vento tace (RVF 164) intarsiato, con discrezione squisita, in non più di un esile distico: Ripa silet, silet aura, silent cum flumine valles, Nec pectus, moestoque silent in pectore curae.

Ed è, in definitiva, a tali termini, non più rigidamente filologici o meramente imitativi, sibbene di ricreativa eleganza e facilità che, consumata integralmente l’eredità propria del Canzoniere, può agevolmente raccordarsi il diagramma della lirica neolatina post Petrarcham fra i secoli decimosesto e decimosettimo: ossia ad una misurata intelligenza dei modi d’una poesia volgare tradotta Latine e ormai profondamente sussunta, e ancora sapientemente contaminata d’elementi – elegiaci soprattutto; ma anche bucolici ed epigrammatici, per tacere di qualche limitato e circospetto sperimentalismo, coronato peraltro da assai scarsa fortuna – attinti bensì alla tradizione umanistica, ma liberamente e variamente arbitrati tra evasione e virtuosismo, fra prassi disimpegnata ed esibizioni di ben controllata abilità stilistica, giusta la più che prevedibile casistica offerta da una rettorica che, fatte le debite, ancorché

garizzate per Pietro Alpini fra Concordi Eacida, Torino, Fontana, MDCCXC, p. 13 sg.). 41 Quaestus cui chiaramente, e con buona approssimazione, corrisponde per tema e per struttura l’archetipo di Buc. 2, 6 sgg. (i “rozzi accenti” in cui s’effonde la monologante passione di Coridone, descritta e ambientata in modo assai simile), ancora saccheggiato e rielaborato a ragion veduta.

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Petrarchismo e lirica neolatina tra i secc. XVI-XVII: una ricognizione in limine

sparute, eccezioni, pare inesorabilmente dominare la zona di crepuscolo posta a cavaliere tra Cinque e Seicento. Quanto, com’è inevitabile, non potrà che eccedere i limiti del quadro che si è venuti sinora sommariamente prospettando sarà la consapevolezza della funzione stimolatrice che le nuove linfe poetiche, trasfuse nella mai dismessa pratica versificatoria in lingua latina, esercitarono reagendo al contatto con le istanze espresse dall’umanesimo maturo e tardo, arricchendolo d’inediti spunti emotivi, di originali fermenti spirituali e psicologici, e vivificando l’estenuata, spesso poco più che meccanica riproposizione dei modelli ormeggiati (di volta in volta tibulliani o properziani, ovidiani o anche vergiliani) sino a farne talora lievitare le alquanto pedestri premesse ad altezze d’autentica poesia, a testimonianza di una non sempre, né soltanto, superficiale, ma certamente estesissima e duratura influenza.

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Uberto Motta PETRARCA A MILANO AL PRINCIPIO DEL SEICENTO

Si propongono alcune considerazioni sulla ricezione della figura e dell’opera di Petrarca nella civiltà letteraria milanese del primo Seicento. L’esame è articolato in dieci brevi paragrafi, riguardanti dapprima il Petrarca di Federico Borromeo, e poi, in diversa accezione, Petrarca nei libri di poesia scritti o stampati nel Ducato di Milano durante i decenni iniziali del secolo XVII. 1. Petrarca in Ambrosiana I lavori per la costruzione della Biblioteca Ambrosiana cominciarono nel giugno del 1603; l’8 dicembre 1609 si svolse la cerimonia di inaugurazione. Dopo la funzione nella chiesa di San Sepolcro, Federico guidò le personalità ecclesiastiche e laiche (senatori, magistrati) in biblioteca, ed esibì la collezione: 30.000 volumi a stampa e 6.000 manoscritti1. Fra i più preziosi, mostrati con orgoglio, erano due codici appartenuti al Petrarca, i quali, prima che transitassero sugli scaffali della neonata Biblioteca, erano stati per qualche anno nella libreria privata del cardinale: il Virgilio con l’antiporta miniata da Simone Martini, comperato a Roma nell’aprile del 1600 (già Ambr. A 79 inf., e poi S.P. 10/27)2; e l’Iliade greca, fatta allestire a Costantinopoli dall’amba-

1

M. Rodella, Fondazione e organizzazione della Biblioteca, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento, Milano, Cariplo, 1992, pp. 121-147. Da altra prospettiva, sui modelli ispiratori dell’istituzione milanese, si consideri A. Nuovo, Federico Borromeo fondatore della Biblioteca Ambrosiana, «Società e storia», 45 (1989), pp. 741-749. 2 Il Virgilio Ambrosiano, venduto all’incanto a Roma nel 1600 durante la dismissione della libreria dell’abate Marcantonio Maffa, fu acquistato da Grazio Maria Grazi per conto

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Uberto Motta

sciatore bizantino Nicola Sigero (per mantenere la promessa con cui s’era accomiatato da Petrarca, a Verona, nel 1348: cfr. Fam. XVIII 2 6, «Hunc tu michi, vir amicissime, donasti, promissi tui simul ac desiderii mei memor, quodque non modicum dono adicit, donasti eum non in alienum sermonem violento alveo derivatum, sed ex ipsis greci eloquii scatebris purum et incorruptum et qualis primum divino illi perfluxit ingenio»), e acquistata da Federico nel 1603 (Ambr. I 98 inf.) 3. S’inaugura al principio del Seicento, come è stato largamente riconosciuto, la civiltà dei cataloghi e delle collezioni, in cui l’elaborazione del sapere (letterario e non) procede sempre dalle biblioteche, dalla consultazione di documenti o cimeli4. Non stupisce dunque, quanto al Virgilio del del Borromeo: la storia e la bibliografia relative al prezioso codice del Petrarca, con la scorta di memorabili contributi (A. Ratti, Ancora del celebre codice ms. delle opere di Virgilio già di Francesco Petrarca ed ora della Biblioteca Ambrosiana, in Francesco Petrarca e la Lombardia, Milano, Società Storica Lombarda, 1904, pp. 217-242; R. Sabbadini, Dal «Virgilius Petrarcae» dell’Ambrosiana, «Giorn. stor. d. lett. it.», 45, 1905, pp. 169-175; P. de Nolhac, Pétrarque et l’Humanisme [1907], I, Paris, H. Champion, 1965, pp. 140-161; fino al decisivo G. Billanovich, L’alba del Petrarca filologo. Il Virgilio Ambrosiano, «Studi petrarcheschi», n.s., 2, 1985, pp. 15-52, poi nel suo vol. Petrarca e il primo Umanesimo, Padova, Antenore, 1996, pp. 3-40), sono ricapitolate (nella prospettiva che qui interessa) in A. Paredi-M. Rodella, Le raccolte manoscritte e i primi fondi librari, in Storia dell’Ambrosiana, pp. 57-58 e 84-85, e U. Motta, L’Ambr. S 77 sup. e l’inventario dei libri di Antonio Querenghi: antichi e moderni nell’erudizione di fine Cinquecento, «Italia medioevale e umanistica», 41 (2000), pp. 245-247. Sul prete senese Grazio Maria Grazi, fortunato responsabile dell’acquisto di molti codici per Federico Borromeo: A. Ceruti, Biblioteca Ambrosiana, in Gli istituti scientifici, letterari ed artistici di Milano. Memorie pubblicate per la cura della Società storica lombarda, Milano, G. Pirola, 1880, pp. 103118, 127-128 e 196-197 (dove è detto che il Grazi, procacciatore di libri e quadri per conto del Borromeo, nel 1603 invano offrì a Federico l’acquisto del ritratto di Paolo III dipinto da Tiziano); Guido Billanovich, Antichità padovane in nuove testimonianze autografe di Sicco Polenton, in Medioevo e Rinascimento veneto con altri studi in onore di Lino Lazzarini, I, Padova, Antenore, 1979 (Med. e Uman., 34), p. 317. 3 Di seguito a A. Martini-D. Bassi, Catalogus codicum graecorum Bibliothecae Ambrosianae, I, Mediolani, imp. U. Hoepli, 1906 (=Hildesheim-New York, Georg Olms, 1978), p. 1130, n° 1057, si vedano: A. Pertusi, L’Omero inviato al Petrarca da Nicola Sigero ambasciatore e letterato bizantino, in Mélanges Eugène Tisserant, III, Città del Vaticano, Bibl. Ap. Vat., 1964 (Studi e testi, 233), pp. 115-139; Id., Leonzio Pilato fra Petrarca e Boccaccio. Le sue versioni omeriche negli autografi di Venezia e la cultura greca del primo Umanesimo, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1964, pp. 1-72. 4 L. Marin, Mimésis et description. Ou de la curiosité à la méthode de l’âge de Montaigne à celui de Descartes, in Documentary culture: Florence and Rome from GrandDuke Ferdinand I to Pope Alexander VII. Papers from a Colloquium held at Villa Spelman (Florence 1990), ed. by E. Cropper, G. Perini and F. Solinas, Baltimore (Md) – Bologna, Johns Hopkins Univ. Press – Nuova Alfa, 1992, pp. 23-47.

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

Petrarca, la fierezza del proprietario, che sapeva di avere messo al sicuro, in un luogo deputato alla protezione, allo studio e al ritiro, un oggetto prezioso5. Ne rimane esplicita se pure tarda testimonianza nel capitolo 26, intitolato Dell’amore dei libri e delle inscrittioni, delle Ephemerides litterariae, là dove il Borromeo faceva cenno alla «lodevole usanza che le valorose persone e segnalate honorino i loro libri con le proprie inscrittioni dei nomi, [...] perché comprendiamo di quanto momento sia l’haver alcuna memoria di coloro che già possedettero i libri» («e si dovrebbe persuadere a loro – aggiungeva, citando i casi di Erasmo e Pomponio Leto – che lo facessero, perché il farlo sarebbe buona cosa per loro e per altri, e il non farlo è danno commune»): «Francesco Petrarca poi hebbe tanta vaghezza e fu sì curioso che si sapesse che il suo Virgilio era stato suo, che ne lasciò chiarissimi segni; e fra gl’altri, col mezzo di quella bella pittura di Simon da Siena e con quei versi che dichiarano e illustrano il dipintore. Questo codice si conserva nella Biblioteca Ambrosiana»6. Analoghi accenni, dati il pudore e la riservatezza del cardinale, non sono frequenti nelle scritture federiciane: se ne deduce che ai suoi occhi il caso di Petrarca era senza dubbio eccezionale. Poiché tuttavia, alla luce della documentazione prodotta da Roger Chartier, simili libri si comperavano allora per molte ragioni (affetto, caso, mania, consiglio...), né gli ecclesiastici restavano impermeabili alle imprese culturali che accomunavano le élites cittadine, conviene sondare quali fossero le intenzioni del Borromeo7. 2. Borromeo lettore di Petrarca Tra il 1589 e il 1594, durante la permanenza a Roma, il periodo più fecondo di studi e letture, Federico riempì un volume di 360 pagine con brani tratti da vari autori, rivelando uno spiccato interesse per la letteratura in vol5

Si veda per ciò K. Pomian, Tra il visibile e l’invisibile: la collezione [1978], nel suo vol. Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia: XVI-XVIII secolo, Milano, Il Saggiatore, 1989, pp. 15-60. 6 Milano, Bibl. Ambr., F 20 inf., n° 2, Ephemerides litterariae, f. 133v (= c. 188). Si tratta di una raccolta di aneddoti in volgare (nota anche come Meditamenta litteraria), a cui toccherà di fare in seguito riferimento, la quale, se pure non è databile con certezza, pare riconducibile alla mano del copista che redige le ultime opere del Borromeo (essa è costituita da sei quaderni di sedici fogli ciascuno, e occupa i ff. 37-169 del codice; porta anche una autonoma numerazione, sul recto e verso delle carte, da 1 a 220). Cfr. Inventario Ceruti dei Manoscritti della Biblioteca Ambrosiana, II, Trezzano s/N (Mi), Etimar, 1975, p. 8. 7 R. Chartier, Letture e lettori nella Francia di Antico Regime [1987], Torino, Einaudi, 1988, pp. 135-186.

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Uberto Motta

gare. Si tratta del ms. Ambr. G 24 inf., n° 7 (Selectorum ex variis auctoribus miscellanea), su cui ha richiamato l’attenzione Alessandro Martini8. Per le citazioni dalle opere di Francesco Petrarca, come è stato dimostrato da Stefano Pellizzoni, Borromeo utilizzava probabilmente l’edizione di Basilea del 1581, e di qui, a tre riprese, estrasse passi a suo giudizio memorabili 9. Alle cc. 13-16 (insieme a brani di commento o parafrasi su testi di altri autori) troviamo i primi quattro versi di RVF 259, Cercato ò sempre solitaria vita, e gli ultimi tre versi di RVF 170, Più volte già dal bel sembiante humano, tre passi dalle Familiari (da VIII 4 e VIII 3: entrambe all’amico denominato Olimpio, cioè Luca Cristiani; e da V 8: a Giovanni d’Andrea), e un rinvio al terzo libro del Secretum. Le citazioni formano due microsistemi. Si legga l’attacco di RVF 259, nella forma trascritta dal Borromeo: «Cercato ho sempre solitaria vita / (le rive il sanno, e le campagne e i boschi) / per fugir questi ingegni sordi e loschi, / che la strada del ciel hanno smarrita». Il sonetto di polemica anti-avignonese allude ai frequenti soggiorni che l’autore è costretto a fare nella corrotta città, lasciando l’amata Valchiusa. A esso vengono collegati tre brani dalla Fam. VIII 3: Petrarca, immerso nella pace di Valchiusa, esalta le gioie di un vita ritirata contro gli affanni della socialità e delle corti, e tuttavia non si esime dal rilevare che le cure di un uomo maturo mal si combinano con l’elezione di un ricovero isolato (cfr. §§ 8 e 15: «Igitur Clausa Vallis, ut ceptum sequar, ad aliquod breve tempus, urbanarum voluptatum tedio affectis, ut olim, diverticula non inamena sufficeret; in longum certe nec promitteret necessaria nec prestaret»; «Veruntamen, nisi nosmet ipsos fallimus, alia quedam sunt viro tractanda quam puero»)10. Nell’ambivalente oscillazione dei testi petrarcheschi, fra negozi urbani e diverticula campestri, Federico si riconosceva. Si rispecchiavano in essi l’amore del Borromeo per la solitudine, il suo rimpianto per la pace e la tranquillità di luoghi lontani dalla vita cittadina, dove le responsabilità l’obbligavano a operare. L’indizio trova conferme nelle successive scritture federiciane, di tipo auto8 A. Martini, «I tre libri delle laudi divine» di Federico Borromeo. Ricerca storico-stilistica, Padova, Antenore, 1975 (Miscell. erudita, 26), pp. 138-143. Una sommaria scheda in Inventario Ceruti, II, p. 96. 9 S. Pellizzoni, Federico Borromeo e le note di lettura del periodo romano, «Aevum», 69 (1995), pp. 641-652. 10 Così la nota del Borromeo a proposito della Fam. VIII 3: «Philosophos quidem et poetas duros ac saxeos vulgus existimat. Ibidem Sorgam fontem laudat et Clausam Vallem, dicitque multa ibi per decem annos scripsisse, summa fruens quiete. Deinde dicit: Hinc illa vulgaria iuvenilium laborum meorum cantica, quorum hodie pudet ac penitet, sed... Quid multa? Si quaecunque alibi cum his quae ibi scripsi conferantur, loca omnia locus ille, me iudice, actenus superet».

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

biografico, in cui il cardinale delineava il proprio ritratto ideale sull’immagine che Francesco Petrarca aveva inteso dare di sé ai posteri: il contrappunto dialettico tra Valchiusa e Avignone, identificato da Wilkins11, ispirava al Borromeo una rappresentazione affatto serafica o stereotipata, che opponeva Milano alle amate sponde del lago Maggiore (e alla casa avita di Arona) 12. Basterebbe, d’altronde, aprire la pur agiografica Vita di Federico Borromeo del Rivola (pubblicata per la prima volta nel 1656), e leggere dal sesto libro il capitolo settimo (Quanto amata da lui sia sempre stata la solitudine): «Fu sempre infin da fanciullo così amatore della solitudine, chiamata da lui madre degli studii, che pareva che l’amor ed il disiderio di essa fosse con 11

E.H. Wilkins, Vita del Petrarca e La formazione del «Canzoniere», a c. di R. Ceserani, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 34: «Per il Petrarca Avignone significava folla, clamore, confusione, eleganza, spreco del suo tempo, contatto con le indegnità commesse nella corte papale, e inoltre la vicinanza di Laura, che rinnovava di continuo in lui l’amore e la pena. Valchiusa sarebbe invece stata la realizzazione di un sogno della fanciullezza e gli avrebbe offerto solitudine, pace, semplicità di vita, il fascino del fiume, il vagare fra i boschi e la bellezza ognintorno. Soprattutto sarebbe stata per lui la libertà; libertà di pensare, di studiare e di scrivere. E in realtà Valchiusa fu per il Petrarca tutto questo, e molto altro ancora; e presto divenne, fra tutti i luoghi della terra, quello che aveva più caro. Andando ad abitare a Valchiusa, il Petrarca prendeva in mano le redini della sua vita». 12 Milano, Bibl. Ambr., G 310 inf., n° 8: De propriis studiis commentarius (si tratta dell’autobiografia letteraria del Borromeo; è divisa in due parti: la prima, di mano di un copista, precede l’edizione a stampa del 1627, con il titolo De suis studiis commentarius, per cui F. Buzzi, Il corpus delle opere di Federico Borromeo stampate in vita e conservate all’Ambrosiana: 1616-1631, «Studia Borromaica», 15, 2001, p. 118, n° 55; la seconda, autografa, è inedita e viene aggiornata fino alle settimane che, nel 1631, precedettero la morte dell’autore). Nella seconda parte, alle cc. 259-262, il tema petrarchesco della solitudine, dell’otium idillico e operoso (ricorrente in molti scritti del Borromeo) era svolto in maniera non convenzionale, perseguendo attivamente l’adesione al modello: «Il quale amore [della solitudine] ha puoi nodrito meravigliosamente i miei studii in tutte le età; e dico nodrito, perché la solitudine è come una balia delli studii, che porge il latte della dolcezza, gli mantiene in vita, a ciò che non si moiano, li adaggia prestando a loro comodità e togliendoli via tutte quelle cose che potrebbero nocerli. Il quale amore della solitudine e delli studii è meco congionto anchora in questa età, e non solo nella giovenile. Se io credesse esser così volontà di Dio, cioè che non fosse tentatione ma regulato appetito, io pigliarei licenza volantieri da tutte le humane conversationi e da tutti li aspetti degli huomini: non per odio loro ma per amore della virtù e degli studii. E m’anderei a vivere con sei o otto famigliari e servitori in alchuna valle, alpestre o bella che fosse, ovvero nella cima d’alchun monte, dove veramente sempre, dal principio della mia vita in sin adesso, ha anelato il mio spirito. E forsi oltre l’inclinatione naturale, la quale al sicuro è grandissima, io son ancora aceso dal vedere diversi luochi, che sono della giurisditione e del dominio della casa mia: belli a meraviglia, e di tutte le sorti e maniere, che altri può desiderare e quasi immaginare. In modo che, sì come al goloso l’appetito vien aguzzato vedendo le vivande in tavola, così io mirando quei luoghi, quasi Tantalo favoloso, miro quelle acque e quel refrigerio che io non posso e forsi non potrò mai godere».

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esso lui nato e cresciuto. [...] E questo ardente suo disiderio lo ridusse a segno che gli venne più volte in cuore di rinuntiar nelle mani del Sommo Pontefice l’Arcivescovado, acciocché libero del carico pastorale, e di tutte quelle occupationi che con seco porta quell’uficio, più sollecitamente attender potesse allo studio e alla contemplatione delle cose divine [...]. E se pur fuori della città talhora usciva per andar in qualche villa o foresta, colà lo trasportava l’amore della solitudine, altro non intendendo che di viversi quivi tutto solitario intento solo alla contemplatione e agli studii, e per meglio goderla eleggevasi le foreste più dishabitate e più silvestri»13. Dalla Fam. V 8 (al celebre canonista Giovanni d’Andrea, super statu adolescentis luxuriosi) Federico riportava poche righe col titolo De adolescenti amore noxio capto («Illaqueate volucris mos est, ut exagitando sese arctius implicet. Melius sperarem, si non odio amorem ac litigio, sed oblivione ac silentio finiret. Illud sane mentis, hoc lesi amoris indicium est»), e a margine di esse rinviava a un passo del terzo libro del Secretum, in cui da Agostino erano indicati i rimedi da adottare in caso di traviamenti amorosi («V. etiam in l. de contemptu mundi, dial. 3, f. 359») 14. Petrarca era assunto al rango d’un esperto della filosofia e fenomenologia d’amore. E perciò alle due citazioni era accostata la scheda presa da RVF 170, sul motivo della impossibilità di rivelare i propri sentimenti a colui/colei che si ama. Di qui, però, il Borromeo isolava i tre versi conclusivi («E veggi’ hor ben che caritate accesa / lega la lingua altrui, gli spirti invola; / chi può dir come egli arde, è ’n picciol foco»), per i quali Leopardi ebbe a osservare: Chi può favellare alla persona amata dell’amor suo, ama freddamente 15. Dovevano parergli evidenti le possibili applicazioni al campo della vita spirituale. Si ricavavano

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F. Rivola, Vita di Federico Borromeo, Milano, Dionisio Gariboldi, 1656, pp. 666-669. Il rimando riusciva oltremodo appropriato, poiché nella pagina citata dal Borromeo (Secr. III 164) era analizzato il nesso fra la tenacia dell’irretimento sentimentale e l’inclinazione dell’amante a non lasciare i luoghi in cui è sbocciata la passione: «Aug. – Exteriora tibi remedia adhibenda sunt. Potes ne igitur in animum inducere fugam, exiliumve, et notorum locorum caruisse conspectu? Fr. – Licet tenacissimus uncis trahat, possum tamen. Aug. – Si hoc potes sanus eris. Quid ergo aliud dicam, nisi Virgilianum versiculum paucis immutatis: Heu fuge dilectas terras, fuge littus amatum? [cfr. Verg. Aen. III 44] Quomodo enim unquam his in locis tutus esse poteris, ubi tam multa vulnerum tuorum extant vestigia, ubi et praesentium conspectu et praeteritorum recordatione fatigaris? Ut igitur idem ait Cicero: “Loci mutatione, tanquam aegroti iam convalescentis curandus eris” [Cic. Tusc. IV 35,74]» (Francisci Petrarchae de contemptu mundi colloquiorum liber, quem secretum suum inscripsit, in Francisci Petrarchae... Opera quae extant omnia, Basileae, per Sebastianum Henricpetri, 1581, p. 359). 15 Cfr. F. Petrarca, Il Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, p. 768. 14

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da Petrarca le citazioni per illustrare da una parte le inquiete passioni di una rumorosa esistenza, esuberante, affollata e mal controllabile, dall’altra gli esercizi e le gioie di un silenzioso ‘ritiro’, nutrito di studi e taciti colloqui (con l’anima e con Dio), che consentono all’uomo il dominio di sé. Ne è conferma lo scampolo che Borromeo ritagliava dalle prime righe della Fam. VIII 4 (All’amico Olimpio, Hortatoria ad votorum modestiam, et non differenda consilia melioris vita): contro i piaceri della tavola e i vizi della gola («Coquus, inquam, quod non te latet, apud maiores olim nostros vilissimum mancipium, victa demum Asia in precio haberi coeptum. Nunquam utinam armis Asiam vicissemus, ne unquam suis illa deliciis nos vicisset!»). Il primo percorso petrarchesco escogitato da Federico ruotava dunque intorno alle Fam. VIII 3 e 4: pagine che appartenevano, in origine, a una lunga lettera (databile 19 maggio 1349), poi rielaborata e divisa in quattro epistole al medesimo destinatario16. Qui l’autore, sulla scorta di analoghi spunti agostiniani ripresi anche nel Secretum (cfr. Conf. VI 14), accarezzava gli ideali di vita cari al Borromeo, e assunti a fondamento del suo progetto intellettuale: la libertà, la tranquillità e l’indipendenza; la comunione amicale con gli intimi sodali, fondata sulla consonanza di interessi e abitudini; la modestia e la rettitudine, che si contentano del necessario per vivere dignitosamente; la pratica collegiale degli studi. Erano i capisaldi da cui derivavano le coordinate del rinnovamento culturale auspicato da Federico17: sicché nell’Ambr. G 24 inf., n° 7, privato ‘tesoro’ di citazioni, parafrasi e commenti, se ne distillavano le idee fondamentali e gli spunti di partenza. In quest’ottica alle cc. 67-68 erano riportati i versi 1-14, 21-24 e 29-38 della canzone Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina (RVF 50), sul motivo del contrasto fra la pace serale di tutti i viventi e l’affanno angoscioso dell’amante (e a Federico, futuro collezionista di Jan Brueghel e delle nature fiamminghe, si può credere piacessero il tema della quiete notturna, l’ambientazione agreste, le figurine dell’idillio: la stancha vecchiarella pellegrina del v. 5, la mensa ingombra / di povere vivande dei vv. 21-22, la lontan da la gente / o casetta o spelunca dei vv. 35-36, eccetera) 18, e la quartina iniziale del 16 U. Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 204-208. Sui rapporti tra questa lettera e il Secretum: F. Rico, Precisazioni di cronologia petrarchesca: le «Familiares» VIII 2-5, e i rifacimenti del «Secretum», «Giorn. stor. d. lett. it.», 155 (1978), pp. 481-525; H. Baron, Petrarch’s «Secretum»: its making and its meaning, Cambridge (Mass.), The Medieval Academy of America, 1985, pp. 113-116. 17 R. Ferro, Gli scritti di Federico Borromeo sul metodo degli studi, «Aevum», 75 (2001), pp. 737-758. 18 Sull’interesse del cardinale per la pittura paesistica specie fiamminga: S. Bedoni, Jan Brueghel in Italia e il collezionismo del Seicento, premessa di P. De Vecchi, prefazione

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sonetto In nobil sangue vita humile et queta (RVF 215). Qui era abbozzato da Petrarca un ritratto di Laura vagamente ‘penitenziale’, che non sfuggì, probabilmente, al Borromeo perché affine al prototipo umano da lui coltivato: «In nobil sangue vita humile e queta / et in alto intelletto un puro core, / frutto senile in sul giovenil fiore / e ’n aspetto pensoso anima lieta». Lo stimolo a congiungere semplicità e finezza, letizia e pensosità, all’epoca del soggiorno romano (quando furono copiati questi versi), costituì il prezioso ricavo che Federico trasse dalla frequentazione dell’ambiente oratoriano, in cui era propugnata una spiritualità austera ed esigente (incline a disciplinare la natura, senza calpestarla), e insieme circonfusa di allegrezza, nutrita di misura (mediocritas) e ricca di sapienza psicologica: Filippo Neri e la Vallicella offrirono al Borromeo uno stile gioioso di vita cristiana, diverso da quello legato alla religiosità di san Carlo, che egli provò a saldare alla sua personalità compassata e introversa, esasperata dagli scrupoli e dalla libido sciendi, in una maniera che conviene dire petrarchesca19. Di non dissimile tenore è quel che s’incontra alle cc. 141-147. Queste carte, datate 30 aprile 1591 a c. 144 («Ultimo April., hor. 18, 1591, in meo parvo cubiculo»), vennero riempite in una grafia confusa e minuta, con un coacervo di frasi lapidarie provenienti dal De remediis utriusque fortunae e dal De vita solitaria. Dal primo libro del De remediis Federico estrasse schedi B.W. Meijer, Firenze-Milano, Lit. Rotoffset, 1983, pp. 89-162; P.M. Jones, Federico Borromeo e l’Ambrosiana. Arte e Riforma cattolica nel XVII secolo a Milano [1993], Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 63-71. 19 Sui legami di Federico con l’ambiente oratoriano e, più in generale, sulla parte svolta dalla Vallicella nella stagione culturale coincidente con il soggiorno romano del Borromeo, durante il pontificato di Clemente VIII (quando vicino a Filippo Neri si raccolsero uomini che, seguendo un orientamento teologico agostiniano, nutrivano aspirazioni alla bibliofilia, all’erudizione enciclopedica, agli studi scientifici e matematici) esiste una cospicua tradizione di studi; di seguito a Martini, «I tre libri delle laudi divine», pp. 143146, si segnalano solo: A. Cistellini, Il cardinal Federico Borromeo, san Filippo e la Vallicella, «Atti dell’Accademia di san Carlo», 4 (1981), pp. 91-134 (poi, anche Id., San Filippo Neri: l’Oratorio e la Congregazione Oratoriana. Storia e spiritualità, 3 voll., Brescia, Morcelliana, 1989, in particolare I, pp. 411-480); G. Baffetti, Federico Borromeo e i Lincei: la spiritualità della nuova scienza, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di A. Battistini, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 85-102; J.P. Donnelly, The congregation of the Oratory, in Religious orders of the Catholic Reformation. In honor of John C. Olin on his seventy-fifth birthday, ed. by R.L. De Molen, New York, Fordham Univ. Press, 1994, pp. 188-215; La regola e la fama. San Filippo Neri e l’arte, Catalogo della mostra (Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, ottobre-dicembre 1995), Milano, Electa, 1995; V. Frajese, Tendenze dell’ambiente oratoriano durante il pontificato di Clemente VIII, «Roma moderna e contemporanea», 3 (1995), pp. 57-80; M. Marcocchi, Cultura e spiritualità in Federico Borromeo, «Studia Borromaica», 15 (2001), pp. 215-226.

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de riguardanti la vanità della bellezza fisica, la memoria, l’eloquenza, la virtù, le vesti ricercate, la magnificenza delle case, l’amore del popolo; al secondo libro rinviavano laconici frammenti sulla debolezza del corpo, la patria ignobile, l’umiltà delle origini, la povertà, l’invidia, la semplicità dell’abitazione, l’esilio, la tristezza e la miseria, eccetera. Borromeo carpiva i risvolti moraleggianti e polemici dell’opera petrarchesca, trascrivendone i passi coi quali fissava nella propria fantasia la lezione del maestro; circa lo spirito di essa, bastino tre delle citazioni allineate, su temi diffusamente ripresi dal cardinale nelle pagine della maturità: «[Gaudium.] Bene de me sentiunt [cives mei. Ratio.] Non refert, quid de te alii sentiant, sed quid tu» (da De rem. I 11, De virtutis opinione); «[Gaudium.] Multi [et varii mihi sunt] libri. [Ratio.] Fallit sepe viarum multiplicitas viatorem [et qui uno calle certus ibat, haesit in bivio, multoque maior est trivii error, aut quadrivii: sic saepe qui librum unum efficaciter elegisset, inutiliter multos aperuit evoluitque]» (da De rem. I 43, De librorum copia); «[Dolor.] Foribus meis paupertas insultat. [Ratio.] Aperi ocyus, antequam vectes subita vi costringat, [atque ostii vulsis a cardine, victrix introeat,] ut enim resistentibus permolesta, sic cedentibus periucunda est» (da De rem. II 8, De paupertate) 20. Il testo era interpretato in chiave autobiografica; se ne effettuava una lettura romantica e impressionistica, desumendone le osservazioni che fornivano a Federico lo spunto per comprendere la propria ‘vocazione’. Sicché, con il medesimo intendimento, dal De vita solitaria erano ricavate citazioni, rapide parafrasi, osservazioni di commento (con una fretta che a tratti, tuttavia, compromette la leggibilità per eccesso di sintesi e conseguente confusione). Trascritte le righe iniziali dell’opera («Credo ego generosum animum, preter Deum ubi finis est noster, preter seipsum et arcanas curas suas, aut preter aliquem multa similitudine sibi coniunctum animum, nusquam acquiescere»), a margine Borromeo rinviava a passi delle Senili X 2 (a Guido Sette arcivescovo di Genova, sul primo viaggio a Valchiusa) e XI 16 (a Urbano V, sui lussi e le ricercatezze della Curia), con gli estremi che ne avrebbero consentito il reperimento nell’edizione di Basilea del 1581: «Vide de Clausa Valle rer. sen. lib 10, ep. 2, fol. 869. Quieto animo fuit supra multos mortales Ibid. lib. 11, ep. 16, fol. 894». L’esercizio d’autoritrarsi con le parole di Petrarca giungeva così all’epilogo, ribadendo le maglie essenziali di una fisionomia intellettuale condivisa: l’amore per la solitudine; il desiderio di una residenza e di una compagnia confacenti alla propria indole; la diffidenza nei confronti delle

20

Cfr. Francisci Petrarchae de remediis utriusque fortunae, in Opera, pp. 8, 43 e 114 (fra parentesi quadre le parti dell’originale omesse dal Borromeo).

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grandi città, sedi predilette dell’invidia, dell’indifferenza e dell’arroganza. Un passo, fra gli altri, era collocato in speciale rilievo mediante tre croci o asterischi, che ne denunciavano la centralità nel processo di distillazione compiuto a partire dalle pagine dell’Opera petrarchesca: Petr. Opera, p. 234 (De vita sol. I 3)

Ambr. G 24 inf, n° 7, c. 145

Sunt enim, quibus solitaria vita morte gravior sit, et mortem allatura videatur, quod praecipue literarum ignaris evenire solet. Quibus si confabulator desit, quid secum, quidve cum libris loqui valeant non habent, itaque muti sunt, equidem solitudo sine literis exilium est, carcer, aculeus. Adhibe literas, patria est, libertas, delectatio. Nam de ocio quidem illud Ciceronis notum. Quid dulcius ocio literato? [Tusc. V 36,105] Contraque non minus illud Senecae vulgatum: ocium sine literis mors est, et vivi hominis sepultura [Ep. ad Lucil. 82,4].

Solitudo sine litteris carcer est, exilium; adhibe litteras patria est, libertas est. Senecam vulgatum: otium sine litteris mors est, et vivi hominis sepoltura.

3. Borromeo e gli ‘squarciafogli’ petrarcheschi Federico Borromeo non fu lettore e critico di Petrarca che, a prescindere dalle sue predilezioni, si potesse tacciare d’ingenuità. Era anch’egli passato, infatti, dalla scuola di Fulvio Orsini, il quale il 24 agosto 1590 a Gian Vincenzo Pinelli scriveva: «Il cardinale Borromeo, il quale fu hieri due hore in camera mia, ogni giorno mostra più desiderio delle buone lettere»21. È legittimo supporre che le ‘buone lettere’ desiderate dal Borromeo comprendessero gli argomenti cari alla filologia petrarchesca di fine Cinquecento. All’ipotesi induce il miscellaneo codice Ambr. G 285 inf. (un quaderno di ff. 38, contenente varie annotazioni in latino e in volgare, epistole originali e copie di esse, allestito da diverse mani sotto la supervisione di Federico), dove, ai ff. 31v-32r, si legge:

21

P. de Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini, Paris, F. Vieweg, 1887 (= GenèveParis, Slatkine-H. Champion, 1976), p. 17.

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

Haveva il medesimo Fulvio Orsino una piccola bibliotheca di libri manuscritti, rarissimi e annotati di propria mano d’illustri scrittori. Nella quale rippose alcune opere latine scritte di mano di Francesco Petrarca, e particolarmente tutte le rime toscane composte da esso, scritte in carta pergamena con assai belli caratteri, e alcuni fogli di carta, communi archetipi delle dette rime, che furono del cardinale Bembo, che mostrano la esatta diligenza che usava nel comporle. Operò anche di havere un libro, manoscritto in foglio con gran diligenza, nel quale si contenevano le poesie de’ provenzali. Della lingua de’ quali Giovanni Maria Barbieri, letterato modenese, haveva fatto un copiosissimo ditionario22.

L’Iliade e l’Eneide del Petrarca arrivarono nelle mani di chi aveva studiato con avidità e intelligenza sia la redazione definitiva del Canzoniere, in parte autografa e tutta vigilata dall’autore («le rime toscane composte da esso, scritte in carta pergamena in assai belli caratteri»: evidentemente l’attuale Vat. lat. 3195), sia la collezione d’abbozzi in varie fasi d’elaborazione raccolti nel Vat. lat. 3196 («alcuni fogli di carta, comuni archetipi delle dette rime»). Fondata la Biblioteca Ambrosiana, legittimamente Federico esibiva la moderna tradizione di cui, non per mania o semplice curiosità, si voleva erede: da Bembo a Barbieri, da Orsini a Pinelli23. A misura e riscontro di ciò, il cardinale vantava la conoscenza di un «copiosissimo ditionario» provenzale compilato da Giovanni Maria Barbieri. All’opera (perduta) facevano cenno anche Ludovico Barbieri, figlio di Giovanni Maria, in una lettera del 28 luglio 1581 a Jacopo Corbinelli (contenuta nell’Ambr. D 465 inf., f. 183r, già del Pinelli e poi del Borromeo, che rilevò in gran parte la sua biblioteca)24, e lo stesso Pinelli, il quale ne indicava per

22

Inventario Ceruti, II, p. 192: in questo disordinato taccuino sono raccolti documenti e informazioni di eterogenea provenienza intorno a protagonisti (di variabile calibro: da Pomponio Leto a Paolo Manuzio, da Latino Latini a Flaminio de’ Nobili) della cultura erudita cinquecentesca, per lo più gravitanti sulla scena romana. Sull’uso che poteva esserne fatto da parte del proprietario, illustra la nota al f. 1r: «Olgiato [Antonio Olgiati, principale collaboratore di Federico nella formazione della Biblioteca Ambrosiana e, dopo l’apertura ufficiale di essa, primo prefetto del Collegio dei Dottori]. È bene a conservare questi fogli nella libreria, perché in essi si contengono alcune cognitioni d’huomini e di libri, le quali forse altrove non si troverebbono, e di alcune ne ho fatto mentione io ne’ miei scritti, oltre a quello ch’io sapevo innanzi». 23 Sintomatico, tuttavia, che in un passo del De fugienda ostentatione (Mediolani 1623, pp. 33-34: cfr. Buzzi, Il corpus, pp. 114-115, n° 32a-b) il cardinale milanese criticasse, a margine dell’erudizione dell’Orsini, proprio la sua avidità poco generosa nei confronti degli altri studiosi: Martini, «I tre libri delle laudi divine», p. 156. 24 Così Ludovico Barbieri diceva a Corbinelli: «Questo scrivo a V.S. per havere inteso da una lettera che già hebbi dal s. Giacopo Castilvetro, molto mio amico, che ella ciò desi-

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possessore Antonio Giganti, segretario di Ludovico Beccadelli (nell’Ambr. I 192 inf., f. 70v)25. Borromeo petrarchista e provenzalista? Non è una boutade, alla luce di una delle sue riflessioni (sui generi letterari e sugli stili narrativi) trascritte da un ignoto copista con il titolo Considerazioni filologiche, ossia trattato sopra il modo di ben parlare e scrivere: Ci fu ancora persona che disse che il Petrarca havea preso molti suoi versi da un poeta portoghese, il quale anticamente fu tradotto in lingua limosina, overo in lingua d’oca dai poeti provenzali. Da questi poeti provenzali poi prese il Petrarca molte cose, e le trasferì nella lingua toscana. Questo si ha da una lettera scritta a m. Claudio Tolomei da m. Giovan Francesco Bini 26. Fulvio Orsino si vantava d’havere il proprio codice, che fu già del Petrarca, dal quale prese molte cose dei suoi versi. Et era un codice nel quale erano diversi poeti provenzali, dai quali diceva Fulvio Orsino che si credeva che il Petrarca havesse preso molte cose. Di questi autori, provenzali poeti, non ce n’è molta cognitione, poiché si sono spersi. Un codice l’haveva Fulvio Orsino, il quale era alto quasi quattro dita, in foglio, scritto di caratteri assai antichi. Un altro so che ve n’era nelle parti d’Avignone. Un altro l’havea Aldo Manutio, figliolo di Paolo; forse questo capitò nella Vaticana. La origine di questi poeti non fu, come credettero alcuni, dalla Corte Romana quando era in Avignone, ma furono più antichi, il che la scrittura ancora dimostra. E si crede che havessero principio avanti ancora ai tempi di Raimondo Beringhieri conte di Provenza, del quale fa honorevole mentione Dante 27.

derava. E di più le faccio anco sapere, in proposito di questa lingua provenzale, come fra le fatiche del predetto mio padre trovo una traslatione di molte canzoni di buon’ rimatori con la historia delle loro vite in nostra lingua, e sei volumi scritti di sua mano di simili compositioni non translate, e ho non è molto inteso che mons. Carnasecca ha una sua grammatica e un vocabulario di questa lingua» (S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, a c. di C. Segre, Padova, Antenore, 1995, p. 314). 25 Debenedetti, Gli studi provenzali, p. 80-83. 26 L’epistola di Giovan Francesco Bini a Claudio Tolomei, dal tono burlesco, scherzoso, e insieme smaliziatamente erudito, risaliva al tempo della fondazione dell’Accademia romana della Virtù, sotto il patrocinio di Ippolito de’ Medici; Federico ne trovava copia nel volume De le lettere facete e piacevoli di diversi grandi huomini e chiari ingegni, raccolte per m. Dionigi Atanagi. Libro primo, in Venetia, Bolognino Zaltieri, 1565 [prima ed.: 1561], pp. 211-218 (a p. 216 il passo a cui era fatto cenno da parte del Borromeo: «Alcuni gentilhuomini portogallesi [...], dilettandosi anchor essi di poesia [...], mi dissono haverne uno [libro] molto antico in lingua spagnuola, tradotto di lingua arabica d’un libro che fu già portato [...] in Portogallo, e di Portogallo in non so che libreria di Spagna, gran tempo inanzi che fussi il Petrarca. E che, venutane copia in Provenza a quelli poeti, quivi allhora fu tradotta in lingua toscana dal Petrarca; il quale con tutto che lo riducessi in quella dolcezza che ognun sente, la invention però fu d’altri, e in lingua del primo autore stimano che fussi dolcissima»). 27 Milano, Bibl. Ambr., G 10 inf., n° 2: Philologicae considerationes (Inventario

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

È lecito identificare almeno due dei testimoni a cui s’appellava il Borromeo, per prova del suo dominio intorno alla materia in questione. Sul copioso «libro de provenzali» di Aldo Manuzio infatti (entrato nella Biblioteca Vaticana alla fine del secolo XVI: Vat. lat. 5232 = A), a più riprese, tra il 1585 e il 1590, l’Orsini aveva informato il Pinelli (cfr. Ambr. D 422 inf., ff. 186 e 298) 28. Mentre il codice dell’Orsini menzionato da Federico era forse quello che il proprietario aveva così catalogato: «Poesie di cento venti poeti provenzali, tocco nelle margini di mano del Petrarca et del Bembo, in pergamena in foglio, et ligato in velluto cremisino»29. Il manoscritto, alla morte del dotto romano, passò alla Biblioteca Vaticana, e di qui alla Nazionale di Parigi, dove tuttora si conserva (Fonds Français 12473 = K)30: di certo appartenne al Bembo, ma senza fondamento era ipotizzato che le notazioni del precedente possessore risalissero al Petrarca31. Quando esso era ancora di proprietà di Alvise Mocenigo, fu studiato da Gian Vincenzo Pinelli, che redasse un indice alfabetico di tutti i trovatori presenti (conservato nello zibaldone Ambr. D 465 inf., ff. 286-302) 32. Già nel 1582 l’Orsini riferiva al Pinelli: «Io horamai abhorisco certi humanisti che, senza cognitione d’historia o dottrina alcuna antica, m’importunano alle volte, come ancora certi forestieri, che non intendendo né artificio di pitture, né antichità di libri o statue, me consumano in mostrarli, o farli vedere le cose di Roma, che sono un chaos, e se ne vengono alla mia volta come s’io fossi lo più sfacendato huomo del mondo»33. Non a tutti era dunque volentieri concesso il privilegio di frequentare la casa e le carte dell’Or-

Ceruti, II, p. 87). L’opera occupa 18 quaderni di quattro, sei o otto fogli, numerati (con alcuni errori) sul recto e verso di ogni carta da 1 a 338. Il brano sopra citato è tratto dal sesto capitolo, Della poesia, e si trova alle cc. 196-198 (la porzione in corsivo corrisponde a una integrazione aggiunta a margine). Su Raimondo Berengario IV, conte di Provenza: Par. VI 133-138 (ma si ricordi anche la rapsodica allusione del Bembo, in Prose I 8). 28 Debenedetti, Gli studi provenzali, pp. 55, 111-112, 249, 289-290, 361. Inoltre: F. Zufferey, Autour du chansonnier provençal A, «Cultura neolatina», 33 (1973), pp. 147-160. 29 Nolhac, La bibliothèque, pp. 313-314 e 392. 30 Per le sigle dei manoscritti provenzali: A. Pillet-H. Carstens, Bibliographie der Troubadours, Halle, Niemeyer, 1933. 31 Sull’uso di K da parte dell’autore delle Prose: C. Pulsoni, Pietro Bembo e la tradizione della canzone «Drez et razo es qu’ieu ciant em demori», «Rivista di letteratura italiana», 11 (1993), p. 288; Id., Per la fortuna del «De vulgari eloquentia» nel primo Cinquecento: Bembo e Barbieri, «Aevum», 71 (1997), p. 639; Id., Bembo e la letteratura provenzale, in «Prose della volgar lingua» di Pietro Bembo. Atti del Seminario di Studi (Gargnano del Garda, 4-7 ottobre 2000), a c. di S. Morgana, M. Piotti e M. Prada, Milano, Cisalpino, 2000, pp. 43-54 32 Debenedetti, Gli studi provenzali, pp. 97 e 291-292. 33 A. Barera, L’opera scientifico-letteraria del card. Federico Borromeo, Milano, Vita

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sini, toccato al Borromeo in virtù della sua competenza e preparazione nei campi dell’erudizione e della filologia. Prove supplementari, al riguardo, si possono estrapolare dalla raccolta d’aneddoti in volgare, dettata dal cardinale milanese al copista che redasse le sue opere più tarde, e intitolata Ephemerides litterariae: Gli squarciafogli poi, per così chiamargli come volgarmente si chiamano, e gli autografi delle sue rime, dimostrano ch’egli [Petrarca] fu diligentissimo nel notare non solamente i giorni dei suoi componimenti, ma le hore e certi altri avvenimenti che ivi pure sono notati. Questi fogli e fragmenti delle sue rime furono già del Bembo; poi, non so come, pervennero in mano di Fulvio Orsino, e ora sono alla Vaticana. Perché ciò facesse quello scrittore, si può credere che fosse a fine di conservare una certa giocondità nell’animo e di nodrirla, sì come già si dice quando altri delle cose passate raccordandosi sente diletto e a lui giova. E per simil ragione ancora, per avventura, il Petrarca prese a far memoria in uno dei suoi componimenti poetici nella toscana lingua che, mentre egli scriveva, nevicava forte d’intorno nei vicini monti della sua cotanto amata Valclusa: perché voleva un’altra volta godere di quel diletto, mentre scriveva e d’ogni intorno nevicava. Da questi fogli poi, i quali etiandio difficilmente si intendevano, un segretario del Bembo ne cacciò una copia assai intelliggibile e netta, nella quale si vedevano tutte le varietà, e credo che si conservi ancora nella Vaticana34.

Federico, dubitando sulla effettiva collocazione («credo che si conservi ancora nella Vaticana»), ricordava qui una «copia assai intelleggibile e netta» che un segretario del Bembo avrebbe tratto dagli «squarciafogli» petrarcheschi, cioè dal Vat. lat. 3196. Come dimostrato da Stefano Pellizzoni, riprendendo le argomentazioni proposte da Giuseppe Frasso, si tratta del ms. 1636 della Biblioteca Palatina di Parma, in cui già Flaminio Pellegrini nel 1896 aveva identificato un apografo cinquecentesco del ‘codice degli abbozzi’, con aggiunti quattro capitoli trionfali, e che l’Orsini, rivolgendosi al Pinelli, per tempo aveva descritto in questa maniera: «Libro de sonetti, canzone et capitoli del Petrarcha, dove nelle margini sono le varie lettioni, scritto in foglio,

e Pensiero, 1931, p. 67.

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di mano dell’Anselmi, segretario del Bembo, senza coperta»35. 4. Petrarca nelle opere del Borromeo Federico Borromeo possedeva (o meglio: credeva di possedere) due ritratti del Petrarca: l’uno in biblioteca, l’altro in pinacoteca. Il primo stava nella serie dei ritratti di uomini illustri e personaggi famosi che aveva, nelle sue intenzioni, un valore prettamente storico e documentario: illustrazione iconografica e dimostrazione visibile di una tradizione, spirituale e morale, le cui varie branche confluivano nella Biblioteca Ambrosiana. Il profilo petrarchesco, insieme a quello di Dante e di molti altri, era stato eseguito da Antonio Maria Crespi (detto il Busto), tra il 1613 e il 1622, sul prototipo già posseduto dal Giovio36. Il secondo ritratto del Petrarca s’incontra citato nell’inventario ragionato della pinacoteca accluso all’atto di donazione del 1618: si tratta di un’evanescente tavoletta con due profili, tracciati a punta d’argento, creduti di Gian Galeazzo Visconti e del Petrarca. Nel documento vengono attribuiti a Leonardo, per ragioni non comprensibili: più opportunamente sono stati quindi assegnati a un anonimo miniatore lombardo del Trecento37. Erano le propaggini di una ‘funzione Petrarca’, forse intuita all’epoca delle letture e degli studi romani, di cui Federico ripetutamente si servì sulla scena milanese. L’attivazione di essa non era tuttavia semplice o pacifica, poiché comportava la selettiva manipolazione del modello; l’esemplarità petrarchesca, nelle scritture del Borromeo, poteva essere esibita solo a determinate condizioni. Illuminano, al proposito, i tre esempi che seguono, tratti da opere databili intorno al 1625. Nel De delectu ingeniorum l’autore evocava le antinomie del percorso intellettuale di Petrarca, e ne esaltava come lieto fine un presunto approdo agli studi eruditi e agli esercizi spirituali. Al termine del primo libro Federico sostava a riflettere «donde proceda quella calamità in alcuni che sono inclinati etiandio negli studi, [...] laonde il medico vuol essere poeta, e il matematico vuol esser filosofo», e commentava: Parimenti noi trovaremo delle persone che sono sommamente disposte a un’arte naturalmente, e tuttavia il loro animo non vi inclina, e l’operare contro l’inclinatione noi sappiamo quanto sia duro viaggio, e certi per lo contrario hanno una voglia indicibile di esser filosofi, o poeti, e in ciò hanno così mala gratia e 34 Milano, Bibl. Ambr., F 20 inf., n° 2, Ephemerides litterariae, ff. 133v-135r (= cc. 188-190). 35 G. Frasso, Appunti e proposte per la storia del manoscritto Parmense 1636 della

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dispositione, che compassionevole è il loro caso, se si mettono alla prova. Diciamo nientedimeno esser alcune persone maggiormente disposte e habili con le forze sole naturali dell’intelletto ad una scienza che all’altre; ma che questa dispositione non sarà tanto giovevole, quanto la fatica e la perseveranza, e lo inchinamento dell’animo, delle quali cose infino a qui habbiamo ragionato. E il giudicio di quelle dispositioni, cioè quali esse siano, lo saprà far meglio la stessa natura che noi, sì come gran maestra, poiché questa gli farà cambiar mestiere, come avvenne al Petrarca, e al Pico Mirandolano, e al Fracastoro. E se pure ciò noi fare dovessimo, vi bisognarebbe gran tempo per filosofare intorno a ciascuna persona e per conoscere isquisitamente il temperamento, e le qualità di lei, e per avventura ultimamente alcuni farebbono ricorso alle stelle intorno a ciò, le quali non ha dubbio che hanno nella nostra massa corporale alcuna parte, e così ci converrebbe diventare astrologi, di filosofi che noi siamo38.

Nella misura in cui dedicò tempo e talenti agli esercizi poetici e amorosi, secondo il Borromeo, Petrarca non fu buon giudice di se stesso: contravvenne alla sua naturale inclinazione, che richiedeva «la fatica e la perseveranza» per avanzare nel campo delle più utili discipline storiche ed erudite. Non erano giudizi ‘ufficiali’ venati di moralismo cattolico39: al cardinale milanese premeva di dimostrare «quanti beni nascano nelle opere degli studi dai temperati costumi», e perciò rimaneva turbato non tanto dal Canzoniere, quanto dalla scia di deteriori e spudorate imitazioni a cui quell’opera aveva fornito l’abbrivo. L’inquietavano, probabilmente, la leggenda petrarchesca e il ‘romanzo di Laura’, che s’erano diffusi in Italia e in Europa nel corso del XVI secolo, per cui, com’è stato di recente ribadito, nell’immaginario dei più la figura del dotto restauratore dell’antichità classica e del moralista cedeva il passo a quella del raffinato maestro d’amore, e, con il favore del pubblico, dal crescente interesse per la vicenda dei due illustri innamorati germinavano scritture fantasiose o apologetiche (a partire dai pellegri-

Biblioteca Palatina di Parma, «Studi Petrarcheschi», n.s., 1 (1984), pp. 259-272; Pellizzoni, Federico Borromeo, pp. 650-651. Per Antonio Anselmi, segretario al servizio del Bembo a partire dal 1537, basti qui il rinvio a M. Quattrucci, sub voce, in DBI, 3 (1961), p. 377.

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naggi presso le sorgenti della Sorga e i deserti campi di Valchiusa) 40. Federico sapeva scorgere la ricchezza e profondità d’intenti degli auctores trecenteschi, e tuttavia temeva una ricezione depauperante che, esaltando i testi più ‘facili’, ne eleggesse a campione gli aspetti superficiali e perniciosi: E parmi di vedere che il Petrarca, e Dante, e il Boccaccio, del loro errore ultimamente avvedendosi, volessero medicare questa gran percossa, così agl’altri come a loro dannosa, e perciò si diedero a scrivere, fingendo di far altro, alcuni componimenti che mostravano pentito animo e contrito, il quale sodisfacimento, se dinanzi a Dio fosse poi valevole, e venisse ricevuto, ciò è da lasciare da parte, senza nostra disputa. Ma è però certo il danno che etiandio al presente, doppo essere scorsi più di trecento anni, con seco portano, e per avventura porteranno infino alla fine del mondo.

Al petrarchismo di Federico non era estranea una vena antipetrarchista che, al modo di quella poi teorizzata da Arturo Graf, stimava l’imitazione in verbis (la riduzione della poesia a maniera, e del Canzoniere a un dizionario di voci pronte all’impiego: «il petrarchismo in istretta relazione con la cortigiania più frivola e scioperata») una malformazione letteraria e una pericolosa malattia41. In rapporto a ciò non stupisce che nel De rebus inveniendis fossero biasimate le forme di assoluta devozione dei confronti del modello. Nel capitolo XVIII, in particolare, si insisteva sui limiti e sui rischi di una educazione intellettuale che, in nome della memoria e della imitazione, sottraesse spazio al discernimento individuale: Questa continuanza pur del leggere e del rileggere piacque tanto ad alcuni che essi [i buoni huomini antichi] hebbero per opinione che per imparar bene le scienze convenisse imparare a mente i testi dei più celebri scrittori di esse. [...] E io ho conosciuto alcuni che pure fanno l’istesso d’alcuni libri migliori, e tale io so che ha imparato tutto il Dante a mente. E questa usanza è stata più nel passato seculo che nel presente. [...] E la prima cosa che essi davan per precetto a chi voleva far versi era imparar a mente la maggior parte del Petrarca; e il medesimo costume pure si osservava nell’imparare le lingue. [...] Non si può negare che il sapere le cose sempre non sia ben fatto, e che non sia avantaggio l’havere a mente i libri, ma tuttavia, quantunque si sappiano in simil modo, non per questo meglio si intendono sempremai né si osservano più isquisitamente, et è gran perdita di tempo l’imparare a mente, et è più tosto laude puerile che altro; e parlando dell’intelligenza e dell’osservatione già mi abbatte’ a vedere certi fanciulli

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Jones, Federico Borromeo, pp. 151 e 323. B. Agosti, Collezionismo e archeologia cristiana nel Seicento. Federico Borromeo e

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che recitavano i salmi hebrei, e alcuni altri tutte le regole greche a memoria, e tuttavia né gl’uni né gl’altri intendevano ciò ch’essi si dicessero. La ragione di questo si crede che sia perché la memoria è distinta potenza dell’intelletto, sì come ognuno sa; e l’attentione dello imparare a mente, e lo scopo, disvia l’animo dall’altre operationi e ultimamente la memoria può essere, ed è, nelle bestie etiandio in gran perfettione, e non vi è l’intelletto né buon discorso42.

Erano le premesse per un attacco alla moda del petrarchismo, la cui grammatica di base era stimata nient’altro che un costume puerile e deprecabile: fondato sul passivo impiego della memoria, che riduceva l’impresa del far versi a un esercizio sterilmente virtuosistico, non assistito da una intenzione di tipo dialettico e conoscitivo43. Su questo punto (se e come imitare Petrarca) ruotava il fondamentale capitolo XIII del terzo libro del lungo trattato De exercitatione et labore scribendi, dove erano distillati gli «ammaestramenti» e i «precetti» utili a conseguire la disciplina della scrittura e la

il Medioevo artistico tra Roma e Milano, Milano, Jaca Book, 1996, p. 155.

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«certa eruditione che è propria de’ studii e delle buone arti»44. Per converso, nel capitolo XI (intitolato Dell’assiduità e perseveranza) del primo libro del medesimo De exercitatione et labore scribendi si valorizzava il profilo dell’umanista e dello studioso a scapito del poeta d’amore. Al riguardo Federico non aveva esitazioni: nell’ambito delle scienze e delle arti convenivano non la sprezzatura o la disinvoltura elegante, ma «la fermezza dell’animo e la gravità», con una forma di dedizione integrale e ‘servile’ («da buon servo») nei confronti nel proprio campo specialistico o «mestiere». L’esempio veniva da Petrarca, su cui riferiva la parte conclusiva del capitolo, aggiunta in un secondo tempo mediante un’ampia nota marginale: Chi serva inviolabilmente queste leggi fa grandissime cose, poiché non è inconstante ed è sempre l’istesso, e la perseveranza doma ogni fatica e riporta vittoria d’ogni grande impresa. E se io qui aducessi altri luoghi di scrittori, i quali facessoro testimonianza che i filosofi grandissimi o vero i matematici hanno fatto grandissimo studio e con somma assiduità, non sarebbe tanto da farne maraviglia quanto raccontando qui ciò hora dirò. Ed è questo. Che si legge nella vita di Francesco Petrarca che esso quasi sempre dormiva vestito. E sicuramente ciò esso faceva perché ne’ studi delle notti fosse più pronto. Similmente si legge di Giovanni di Certaldo, che esso fu preso da quella infermità, di cui poi si morì, per lo soverchio studio. E se si dee dar fede a quella scrittura intitolata il Testamento di Francesco Petrarca, esso Petrarca lasciò una vesta di pelle a Giovanni

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La redazione volgare del De delectu ingeniorum è tradita dall’Ambr. F 31 inf., ff. 147r219v (Inventario Ceruti, II, pp. 12-13); la citazione ai ff. 184r-185v. La successiva stesura latina fu stampata a Milano nel 1623: Buzzi, Il corpus, p. 114, n° 31 a-b; Ferro, Gli scritti di Federico Borromeo, pp. 751-753. 39 Cfr. per ciò S. Morgana, Gli studi di lingua di Federico Borromeo, «Studi linguistici italiani», 14 (1988), pp. 193-194. 40 Di seguito a E. Carrara, La leggenda di Laura [1934], nel suo vol. Studi petrarcheschi e altri scritti, Torino, Bottega d’Erasmo, 1959, pp. 79-111, si vedano: A. Rieger, De l’humaniste savant à l’amoureux de Laura: l’image de Pétrarque dans l’iconographie française (XVe et XVIe siècles), in Dynamique d’une expansion culturelle. Pétrarque en Europe: XIVe-XXe siècle (Actes du XXVIe congrès international du CEFI, Turin et Chambéry, 11-15 décembre 1995, a la mémoire de Franco Simone), ét. réunies et publ. par P. Blanc, Paris, Honoré Champion, 2001, pp. 99-126; R. Brovia, Il Petrarca di Madeleine de Scudéry, «Lettere italiane», 54 (2002), pp. 402-430.

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di Certaldo, perché esso possa valersene negli studii delle notti. Chi crederebbe, chi crederebbe, dico, che huomini tali havessero studiato? E che le novelle, e che i versetti, che vani ancor essi chiamar si possono, ricercato havessero tanto studio e tante vigilie? E non sarebbe così gran cosa, se ciò si dicesse di Dante, sì come autor più grave, il quale, parlando del suo poema, dice che esso lo haveva fatto diventar magro, e cioè per la fatica del comporlo45.

La fonte dell’abitudine evocata dal Borromeo (riguardante le veglie notturne riservate agli studi) era forse la Vita e costumi del poeta premessa da Alessandro Vellutello alla sua edizione commentata del Petrarca volgare, dove era laconicamenta denunciata tale predisposizione: «Era di brevissimo sonno. Levava sempre a meza notte a laudare Iddio prima, e poi a dar opera a suoi studi. Usava molte volte dormir vestito»46. Qui veniva allegata anche la traduzione volgare del testamento di Francesco, che appunto diceva: «A M. Giovanni da Certaldo, o vero Boccaccio (nel vero vergognosamente, a uomo di tanta stima lasciando così piccola cosa), lascio cinquanta fiorini d’oro di Fiorenza per una veste da portare il verno per lo studio e fatiche della notte» (così il testo latino, Exemplum testamenti a Francisco Petrarcha conditi, nell’edizione di Basilea del 1581, II, p. 117: «Domino Ioanni de Certaldo seu Buccatio, verecunde admodum, tanto viro, tam modicum lego quinquaginta florenos auri, de Florentia, pro una veste hyemali, ad studium lucubrationesque nocturnas»). Importa rilevare la somiglianza tra la figura del Petrarca, che dormiva vestito perché «negli studi delle notti fosse più pronto», e il ritratto del Borromeo lasciato dal suo biografo, Antonio Rivola: «Egli non perdeva mai punto di tempo, cominciando da quell’ora nella quale si destava di notte tempo da suo breve sonno; poiché, chiamato tantosto l’aiutante di camera Girolamo Ponzone, facevasi portare il lume e studiava, infinché veniva l’ora del dir le mattutine preci»47. L’affiliazione obbediva a ragioni insie-

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A. Graf, Petrarchismo e antipetrarchismo, nel suo vol. Attraverso il Cinquecento [1888], Torino, G. Chiantore, 1926, pp. 3-70 (a p. 10 il frammento citato).

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me culturali e morali; il Petrarca del De remediis e del De vita solitaria era eletto da Federico a segnale del proprio destino, come maestro di erudizione, di umiltà e di decoro. A dispetto del variare delle mode e dei tempi, egli costituiva il prototipo del moderno studioso, secondo quanto veniva ribadito, sulla base della Fam. XXI 10, ancora nel De exercitatione et labore scribendi a proposito Dello scrivere con la propria mano overo del dettare (sui rapporti tra il libro manoscritto e quello a stampa)48. Dalla riformulazione del canone biografico petrarchesco (espungendone l’invadenza della materia sentimentale, preponderante nelle aristocratiche letture di stampo prima cortigiano, e poi salottiero) era ricavato un nuovo modello di vita e di comportamento, sotto l’egida d’un ideale d’imitazione che sviluppava la ‘leggenda’ in senso etico e pedagogico. Ciò che premeva al Borromeo di desumere dall’autore trecentesco non era tanto un canovaccio letterario, retorico e poetico, quanto una forma morale, la cui sequela gli consentisse di presentare se stesso quale alter Franciscus: e d’altronde il desiderio d’essere

42 La redazione volgare del De rebus inveniendis è tradita dall’Ambr. F 29 inf., ff. 238r-335r (Inventario Ceruti, II, pp. 11-12); la citazione ai ff. 312v-314v. La successiva stesura latina fu stampata a Milano nel 1625 (Buzzi, Il corpus, p. 117, n° 46 a-b). 43 Sul «tipo di imitazione» proposto dal Borromeo (contenutistico e ad ampio raggio, «secondo un gusto nettamente cinquecentesco»): Martini, «I tre libri delle laudi divine», pp. 77-78. Le predilezioni di Federico, frutto di una spiritualità che, interiorizzate le ragioni liriche e didascaliche, convergeva verso un ideale di tipo morale e poetico insieme, sono state quindi discusse in R. Ferro, L’esercizio della scrittura nel pensiero di Federico Borromeo, «Studia Borromaica», 16 (2002), pp. 215-243. 44 La redazione volgare del De exercitatione et labore scribendi è tradita dall’Ambr. F 24 inf., cc. 1-690 (Inventario Ceruti, II, pp. 9-10); la successiva stesura latina dell’opera fu stampata a Milano nel 1625 (Buzzi, Il corpus, p. 116, n° 42 a-b). Nel corso del terzo libro del trattato Federico toccava «i vari generi e le varie conditioni degli scrittori», e nel capitolo XIII (Dell’imitare) sostava a riflettere su una questione di capitale importanza per raggiungere la «perfettione» e la «purità» dello stile (necessarie a quanti, scrivendo, intendessero giustamente «parlare con tutti quegli huomini che alhora vivono e che forse viveranno nel tempo a venire per molti secoli»: per cui cfr. Bembo, Prose, I 18-19). E commentava: «Quando essa imitatione si adopra nei nostri scritti, ella piace sommamente ai lettori in trovandola entro ad essi nostri componimenti; e quel riconoscimento piace ai lettori perché pare a loro, riconoscendo, di dar segno di sapere, poiché si scuoprino gl’honesti e leciti furti altrui dal loro ingegno e dalla loro eruditione. E che da qui nasca il nostro diletto, provasi con questo argomento: perché, se non vivessero nelle mani delle persone hora gli scritti che furono imitati, cessarebbe il diletto nostro, leggendo gli scrittori che hanno preso ad imitare. Egregia è poi la laude di questa imitatione, quando è ben fatta; e non succede a tutti gli scrittori. E alcuni sapranno scrivere ma non imitare, e sapranno comentare e disputare e non potranno imitare. Laonde ben diceva il Bembo a messer Trifone Gabriella, vantandosi esso Trifone di intendere molto finamente alcuni passi del Petrarca: “Messer Trifone, voi inten-

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‘a immagine di Petrarca’ acuiva i rovelli nel lettore delle rime d’amore49. Si spiega in questa prospettiva il riassuntivo giudizio contenuto nelle Considerazioni filologiche dell’Ambr. G 10 inf. (n° 2), che guardava insieme all’uomo e alla sua opera: Non fu ricco né povero: visse in solitudine, e fu studiosissimo e laboriosissimo sopra molti huomini letterati, e pure tutta la sua eccellenza si ridusse al sonetto e in questo solo fu eccellente. E in questo sonetto ancora alcuni considerano che i primi quattro versi sono quelli che vagliono più del resto. Il qual sonetto è tanto difficile da farsi, parlando in generale, che il Varchio disse, quando senté che il Bembo era morto: hora il sonetto è mio. Volendo dire ch’egli solamente cedeva al Bembo, e che egli restava quale unico huomo al mundo che sapesse fare un sonetto eccellentemente. O vero sia, o vero non sia questo dell’eccellenza del Varchi, basta che a noi provi quanto sia difficile quest’arte, e quanto biasmevol cosa il porsele prosontuosamente, et esercitarla. E, tornando al Petrarca, io dico che, non ostante tanti studi e tanta lettura e natura, cioè naturale inclinatione alla poesia, il Petrarca nei Triunfi fu puerile, et è più tosto historico che poeta in quella compositione. Nelle canzoni anche poteva essere migliore, levatene alcune poche. E pure torno a dire che hebbe tutto quello in aiuto che puotè renderlo sommo poeta. E maggiore commodità e aiuti hebbe che non hebbe Virgilio, per ragione della solitudine, e perché niuno gli comandava. Laonde egli dice, in una lettera ch’egli scrisse a m. Benintendi segretario della Signoria di Vinegia: «Né facilmente si troverebbe alcuno né più libero né più padrone di se stesso di me». E nell’istessa lettera dice che non voleva scrivere più versi (Antonio Francesco Doni nella raccolta delle prose volgari antiche, fol. 58, in bibl. 4.e.596) 50.

L’epistola petrarchesca in questione, nel tratto conclusivo dell’excerptum, era la decima delle Variae scritta da Milano a Benintendi Ravagnani il primo settembre 1357 (incipit: «Colende semper atque honorabilis amice»), già nelle edizioni di Venezia (1503) e Basilea (1554, 1581)51;

derete meglio di me il Petrarca, ma io poi lo imitarò meglio di voi”. E questa certamente era laude di gran lunga maggiore. Ma è così debole la forza humana, e la nostra veduta è così corta, che appena si trova alcun huomo che possa valere in due cose» (Ambr. F 24 inf., cc. 631633). L’aneddoto era messo in campo dal Borromeo con buon senso dell’opportunità, evocando da una parte il Bembo, che, sebbene (o proprio perché) il più autorevole cultore del volgare al principio del Cinquecento, si guardò dall’entrare nell’arengo del commento petrarchesco, e dall’altra Trifone Gabriele (l’uomo ‘schivo di ogni onore’ e ‘incurante di ogni frontespizio’), che, illuminandolo da maestro agli amici e ai discepoli, di Petrarca fu l’esegeta esperto ed erudito; si può credere che arrivasse a Federico dal Pinelli e dalla sua cerchia, presso cui, fin dagli anni

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per essa Borromeo rinviava alla traduzione volgare contenuta nella raccolta Prose antiche di Dante, Petrarcha et Boccaccio a cura di Anton Francesco Doni52. Le Considerazioni federiciane che da essa prendevano spunto ruotavano intorno a una notazione di rammarico, come se tante virtù personali e tanti regali della sorte non avessero fruttato quanto e come avrebbero potuto. Come se le superlative qualità e fortune del Petrarca, pur riconosciuta l’eccellenza delle sue scritture, fossero state in certa misura sciupate: per difetto non tanto del poeta, quanto della poesia, senz’altro, a cui l’autore trecentesco, ingannandosi, aveva posposto gli studi scientifici, storici ed eruditi. Sul Petrarca lirico, maestro o modello di lingua e di stile, Federico non aveva perplessità, e se mai censurava, per contrasto, la concettosa maniera dei suoi contemporanei53; già nelle note di lettura stese durante il soggiorno romano osservava: «I sonetti del Petrarca, levatane la materia, sono belli; e non quelli dei nostri tempi, che sempre si avvolgono sopra una punta d’ago o malamente discorrono»54. E nel capitolo XII (intitolato Dei secoli più e meno eruditi) del trattato De exercitatione et labore scribendi, ragionando con cautela sulle «buone arti» del «nostro secolo», una citazione petrarchesca serviva al Borromeo per stigmatizzare il depauperamento entropico in atto nella formula d’un severo vaticinio: Le buone arti pare che a noi minaccino di voler tramontare, e che i futuri tempi saranno ancor peggiori, e lo stato delle cose presenti pare che sia questo, cioè che dei letterati ve ne è gran copia. E di una certa mediocrità trovasi grande abbondanza, laddove dell’eccellenza e dell’isquisita dottrina rari sono gl’esempi. E intorno a questa nostra Italia io non vorrei pronosticare alcun male, ma più tosto, se io potessi, farei quello che già s’ingegnò di fare un nobile poeta coi

Settanta, fu attivo uno scriptorium dove erano raccolte e trascritte le opere di Trifone e della scuola. Sui rapporti fra i due (Bembo e Trifone): V. Cian, Un decennio della vita di M. Pietro Bembo (1521-1531), Torino, E. Loescher, 1885, pp. 50 e 120-122; inoltre: G. Belloni, Chiose di Trifon Gabriele a Petrarca, «Filologia e critica», 8 (1983), pp. 3-23, poi, col titolo Tracce di Trifone Gabriele, nel suo vol. Laura tra Petrarca e Bembo. Studi sul commento umanisticorinascimentale al «Canzoniere», Padova, Antenore, 1992 (Studi sul Petrarca, 22), pp. 167-188; G. Frasso, Francesco Petrarca, Trifon Gabriele, Antonio Brocardo, «Studi petrarcheschi», n.s., 4 (1987), pp. 159-189 (sul Trifone ‘dantista’, infine, ma con accenni ai rapporti col Bembo: L. Pertile, Le edizioni dantesche del Bembo e la data delle «Annotationi» di Trifone Gabriele, «Giorn. stor. d. lett. it.», 160, 1983, pp. 393-402; Id., Trifone Gabriele’s Commentary on Dante and Bembo’s «Prose della volgar lingua», «Italian Studies», 40, 1985, pp. 17-30; Id., Apollonio Merenda, segretario del Bembo, e ventidue lettere di Trifone Gabriele, «Studi e probl. di crit. test.», 34, 1987, pp. 9-48).

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suoi versi, che così dicono: Che s’aspetti non so, né che s’agogni, Italia, che suoi guai non par che senta. Vecchia, otiosa e lenta, dormirà sempre, e non fia chi la svegli? Le man l’havess’io avolte entro e capegli55. Ella pur dorme un alto sonno, e per più ragioni. E per diversi affari dovrebbe pure svegliarsi questa che già fu sì gran donna. E non è che ella non sia habile a qualunque gran cosa, sì come ella già fu, ma, neghittosa e pigra, se stessa non conosce e il proprio suo valore non considera56.

Al di là di simile denuncia circa i costumi presenti, i dubbi riguardavano la poesia tout court. Essa, come sancito nelle Considerazioni, era stimata dal Borromeo un esercizio insieme «piacevole» e «difficile», «grato a molti e grato ai principi singolarmente e ai gran signori», e tuttavia non meritevole di un primato assoluto nel campo delle discipline umanistiche, a causa della sua ‘leggerezza’ e delle frequenti declinazioni all’insegna della vanagloria, dell’adulazione, della licenziosità: Volendo dire qualche cosa della poesia, noi cominciaremo da qui, e non dal dire ch’ella sia uno studio piacevole e grato a molti e grato ai principi singolarmente e ai gran signori; ma diremo che, per essere tanto difficile impresa, non si deve la persona appigliare a questo studio temerariamente, senza haver ben librato le forze sue, e bilanciatole e havutone anche il parere da altri. Perché la maggior parte delle persone s’invaghiscono di se stesse in questo studio, e si pavoneggiano e si credono d’essere quello che non sono. E non vi è forse studio alcuno nel quale pur leggiermente s’ingannino le persone, perché è uno studio vezzoso, et egli inganna, e gl’ingannati hanno caro d’essere ingannati, e amano d’esser laudati; anzi lo vanno cercando miseramente. Il che non vedo in altri studi farsi così licentiosamente57.

Di qui derivava il limite dell’esperienza petrarchesca rilevato dal Borromeo: encomiabile nel campo degli studi umanistici e dell’erudizione, in tal senso essa avrebbe potuto offrire di più, e invece aveva fornito pretesto a generazioni di imitatori, legittimando, col suo splendore, l’impiego esclusivo (e degradante) del45

Milano, Bibl. Ambr., F 24 inf., cc. 204-205. Le volgari opere del Petrarcha con la espositione di Alessandro Vellutello da Lucca, in Vinegia, per Giovanniantonio e fratelli da Sabbio, 1525. Si cita dall’edizione in Venetia, per Domenico Giglio, 1552, c. *5r. Intorno al commento petrarchesco di Alessandro Vellutello, stampato per la prima volta nell’anno delle Prose del Bembo: G. Belloni, Un eretico nella Venezia del Bembo: Alessandro Vellutello, «Giorn. stor. d. lett. it.», 157 46

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l’arte lirica nel canto degli amori profani («Plurimum obfuit moribus honestis, patefacto itinere pessimo, quod tam multi postea calcavere»)58. 5. Petrarca e alcuni libri del Borromeo Ulteriori considerazioni possono essere aggiunte impiegando un documento ancora Ambrosiano: si tratta del cod. E 20 suss., che contiene l’inventario dei libri (manoscritti e a stampa) ricevuti o comperati da Federico prima del 1603, anno della formale istituzione della Biblioteca59. Viene qui fermato il nucleo antico dei volumi raccolti dal Borromeo, nel quale si riflettevano le sue personali propensioni, prima che ogni energia fosse volta all’arricchimento indiscriminato dell’Ambrosiana. Limitandosi all’essenziale, si rileva che: • Petrarca era presente con il volume in folio delle sue opere latine e volgari (verosimilmente, l’edizione di Basilea del 1581), registrato

(1980), pp. 43-74, poi, con diverso titolo e nuova appendice, nel suo vol. Laura tra Petrarca e Bembo, pp. 58-95; W.J. Kennedy, Authorizing Petrarch, Ithaca (New York) – London, Cornell Univ. Press, 1994, pp. 45-52; B. Richardson, Print culture in Renaissance Italy. The editor and the vernacular text, 1470-1600, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1994, pp. 77-78. 47 Rivola, Vita, pp. 747-748.

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con la segnatura «D fol. 1» nelle classi riservate a Philosophi, Litterae humaniores e Poetae (ff. 164r, 251r, 280r); • la moda o maniera del petrarchismo spirituale era discretamente recepita, grazie alle opere del capostipite Malipiero (ff. 280r e 316r), di Cesare Rocca (Sacre rime: f. 281r), Bruto Guarino (Ottave in lode del Santissimo Sacramento: f. 273v) e Niccolò Tucci (Rime spirituali: f. 282r)60. Tali moderne riscritture dei fragmenta parevano supportate da ambizioni pedagogiche affini al gusto di Federico: contro i libri disonesti che, abusando dell’archetipo petrarchesco, erano colpevoli di esporre «all’ignaro vulgo» «vergognosi amori e frenetici desiri»61; • fra i poeti latini del medio e tardo Cinquecento, di ascendenza petrarchesca, non mancavano schede interessanti (in ordine cronologico): Giovanni Paolo Ubaldini (Poetarum variorum opera conquisita: f. 282v), Publio Francesco Spinola (Poemata: f. 281v), Bernardino

48 Milano, Bibl. Ambr., F 24 inf., cc. 290-293: «Altre volte i libri si tenevano con maggiore pregio. Ma non voglio però dire quello che hanno detto gl’altri: che la stampa habbia cagionato più danno che utile. Solamente dico che nella correttione de’ libri ha cagionato molti danni per diverse ragioni, che qui non è necessario addurle. E etiandio l’eccellenza di certi scrittori non vi è più, e hora non si studia molto nel formare dei caratteri né con gran regola, ladove per lo addietro non fu così. E oltre a ciò l’esercitatione di copiar libri di sua mano era frequente appresso gli huomini più dotti per le seguenti ragioni. Lentamente studiavano il libro e essi medesimi erano sicuri della correttione del testo primiero e dell’originale, e si imprimevano nell’animo la dottrina e le cose scritte, e utilissimo era alla memoria. E ultimamente formavasi un certo habito intorno allo stile di quello scrittore, che leggendo e rileggendo con difficoltà maggiori e tempo non si conseguisce senza questo trascrivere. D’alcuni letteratissimi huomini cosa memorabile ciò che si racconta ci è, che essi non havevano havuto alcun libro nella loro libreria che trascritto non havessero di loro mano. E questo narrasi di Pomponio Leto fra gl’altri, e alle mie mani sono pervenuti alcuni libri scritti di suo pugno. Si dice che il Petrarca riscrisse l’epistole ad Attico, e il Gaza la Politica di Aristotele, e Bessarione scrisse ancor egli molti libri. E i libri poi che essi componevano non havrebbono patito che altri trascritti gli havessero» (cfr. Fam. XXI 10, Ad Nerium Morandum Foroliviensem, §§ 16-17: «Est michi volumen epystolarum eius ingens, quod ipse olim manu propria, quia exemplar scriptoribus impervium erat, scripsi, adversa tunc valitudine, sed corporis incommodum et laborem operis magnus amor et delectatio et habendi cupiditas vincebant. Hunc librum, ut michi semper ad manum esset, in bibliothece ostio, posti innixum, stare solitum vidisti»). 49 Intorno a questa ambivalente dialettica, per cui nella ricezione del corpus petrarchesco s’intrecciano la ripresa d’un ideale letterario (imitari) e la derivazione d’un ideale di vita (sequi), ha scritto pagine importanti D. De Rentiis, Die Zeit der Nachfolge. Zur Interdependenz von «imitatio Christi» und «imitatio auctorum» im 12.-16. Jahrhundert, Tübingen, Max Niemeyer, 1996 (Beihefte zur Zeitschrift für Romanische Philologie, 273).

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Baldini (Lusus: f. 273v), Muzio Sforza (Himni e Clementias: f. 281v). L’Ubaldini aveva approntato una antologia (Carmina poetarum nobilium) stampata nel 1563 e dedicata al governatore di Milano (Gonzalo Fernández de Córdoba, duca di Sessa), che offriva un buono spaccato della tradizione letteraria ambrosiana (proiettandola sulla scena nazionale, con confronti interessanti e rinvii a: Tebaldeo, Navagero, Guido Postumo Silvestri, Giano Vitali, Miguel da Silva, Giovanni Della Casa); l’opera obbediva a una intenzione encomiastica, filospagnola e filoborromaica, ma non iperortodossa, come dimostrava, per esempio, la presenza di Iacopo Bonifacio, decapitato nel 1550 con l’accusa d’eresia62. La poesia di Francesco Spinola possedeva una tempra sentenziosa e filosofica (di impronta oraziana) congeniale alle inclinazioni del Borromeo; nel quarto libro delle sue Elegiae de variis argumentis Federico poteva leggere il carme Ad Musam, cum esset Arquati, nostalgicamente riservato al ricordo di Petrarca: Ocyus en celeri labuntur tempora dicto, et Iove diffugiunt, Musa, probante dies. Qui formosus eram, matura en ut rosa turpis iam defloresco, iam moriarque brevi. Quid mihi divitiae, Veneris quid caeca voluptas nunc prosunt? Quid opes, gloria, fastus, honos? Qui vixi tecum, iam nunc miser occido, Musa, quique fui, iam me fata fuisse volunt. Omnia qui Divum generat, Natura parensve humanum frustra condidit ecce genus. Quanta sit illius cernis constantia, natius quae dedit, extemplo corripit illa suis. Nonne fuit satius nobis nil hanc dare prorsum, quam sua tam subito, quae dedit, eripere? Vel tantum vitae non debuit huius amorem in natorum animis ingenerare Dea. Omnino vel si cuperent nos dura perire fata, darent nobis absque dolore mori.

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Milano, Bibl. Ambr., G 10 inf. (n° 2), cc. 189-197 (ma c’è un salto nella numerazione da 191 a 196). 51 F. Petrarca, Epistolae de rebus familiaribus et Variae, a c. di G. Fracassetti, Firenze, Le Monnier, 1863-1867: I, pp. xxxiv-xxxv, e III, pp. 324-325 («Nam ubi alios, et humanum genus omne contemplor, multa fateor occurrunt, unde mei status cum alienae sortis collatione consoler, neque facile quisque me liberior, aut magis suus appareat»). Ora anche in F.

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Quid multis? Homini creto Natura suavis non mater, verum saeva noverca fuit. Nil quorum intererat, cervo et cornicibus aevum amens tum longum vivere nonne dedit? Ast hominem genitrix crudelis et impia, causas discere cum rerum coepit, obire iubet. Non dedit ante mihi volucrem cognoscere vitam, quam ruga heu vultus coepit arare meos. Nam mihi perpetuus quondam esse videbar, inani cum spe lactarent Cypria, Bacchus, Amor. At modo me cinerem, bullam vocat usque senecta et barbam et canas inficiente comas. Ut vati Hetrusco, non verba haec desinit unquam inculcare mihi, pulvis et humbra, peri. Augmine donato terras atque aera, rerum principia, ut cecidit patribus ante tuis, Francisco ut cecidit vati, qui vixit et istic mortuus est. Haec sunt namque sepulcra viri. Extremos versus, Mater sanctissimi Christi succurre, hic cecinit, Virgo decora mihi. Tu quoque sic Patavi in regione peribis, ut hospes Francisci titulos hic utriusque legat. Extremam ut patriae non auram is reddidit, ossa relliquiasque manet terra aliena tuas. Portabis scripta hinc nigras Acherontis ad undas, et versus: vivet non tua Musa diu. Pieris, haud uno mecum omnia munera lecto o precor avertat funeris atra dies. Carmina non pereant a te dictata, laborque carmina sint vitae tot monimenta meae. Illius et nemo contemnit ut ossa viator, inscripta at tumulo carmina terna legit; sic mea praeteriens ut noscat quisque sepulcra, o cinis, hic dicat, Spinula doctus erat 63.

Poeta di luoghi e di persone, lo Spinola dedicava molti testi (nei Carminum libri quatuor) ai santi di Milano (Ambrogio, Vittore, Gervasio e Protasio, Nazario e Celso, Sebastiano), nonché a Carlo Borromeo una parafrasi dei

Petrarca, Lettere disperse, a c. di A. Pancheri, Milano-Parma, Fondazione Pietro BemboUgo Guanda Editore, 1994, pp. 320-327 (a p. 324 il frammento citato dal Borromeo, che

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salmi stampata nel 1562: imprigionato nel 1564 a Venezia con l’accusa di eresia, egli era stato però condannato a morte, con il supplizio dell’affogamento, nel 1567 64. Bernardino Baldini fu professore di matematica a Milano e di medicina a Pavia, con una propensione simbolico-speculativa di matrice pitagorica e platonica; traduttore e commentatore di Aristotele, poeta in latino e in volgare, nel Lusus posseduto dal Borromeo erano carmi per Torquato Tasso (inc. Pinxisti remquanque suo, Torquate, colore), Bernardino Baldi (inc. Sollicitis tusco praecepta poemate nautis) e un distico Ad Federicum Borromaeum («Non dubie dives superis operare, quoad ingens / te, Federice, tenet relligionis amor»)65. Le due raccolte di Muzio Sforza presenti nell’inventario nella biblioteca borromaica erano i frutti della cultura umanistica e della sensibilità religiosa coltivate a Roma al principio del pontificato di Clemente VIII, all’epoca del soggiorno federiciano, che coniugavano l’enciclopedismo e la dottrina classicheggiante in funzione propedeutica, come guida all’intendimento della tradizione cristiana66. 6. Le voci del petrarchismo milanese: Filippo Massini e Bernardino Baldi All’ombra di Federico Borromeo stava la poesia in volgare prodotta o stampata nel Ducato di Milano durante il primo quarto del Seicento. Con qualche approssimazione, Petrarca da una parte e Tasso dall’altra erano i cardini sui quali ruotava il genere lirico; ne derivava un petrarchismo resistente agli eccessi della nuova moda e in generale espresso con raffinate misure

nell’edizione di Basilea del 1581 si trovava a p. 987).

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madrigalistiche67. Ma, per evitare generalizzazioni, si assumono due nomi, a contrassegno del clima d’inizio secolo: Filippo Massini e Bernardino Baldi. Filippo Massini nacque a Perugia nel 1559; professore di diritto, dopo avere insegnato a Fermo, Macerata, Napoli e Pisa, nel 1596 approdò allo studio pavese. Socio delle due più importanti accademie, gli Intenti e gli Affidati, lasciò la città intorno al 1610. Morì a Bologna nel 1617. A Pavia, presso Andrea Viani e Pietro Bartoli, pubblicò quattro volumi di poesie: il Lucherino (1599), le Rime (1609), il Candore amoroso (1610), il Chiaroscuro amoroso (1611) 68. Lo si è collocato, a buon diritto, nel campo del tardo manierismo petrarchesco e concettoso. E sulle sue aspirazioni (vere o presunte) illuminava la premessa al libro delle Rime, firmata da Francesco Visdomini e indirizzata all’erudito senese Adriano Politi: in quelle «coltissime e purissime rime» si scorgevano «il candore e la chiarezza dello stile del Petrarca, che da molti anni in qua è stato poco imitato per non dir molto ignorato; poiché hoggidì pare che sia poco frequentata la via già calcata da lui, e che noi ci siamo dati a saltar macchie e aprire nuovi valichi». Massini ripudiava l’oscurità e l’abuso di metafore («sonettoni forniti di parole sonanti, translazioni smoderate e di sensi così oscuri che noi stessi non gl’intendiamo»): «Si può dire – concludeva il Visdomini – che lo stile del Petrarca sia ravvivato nel suo, in cui si vede quella amica congiura della natura e dell’arte». Così sul piano delle intenzioni e dei programmi: perché, a guardare i risultati, davvero frequenti riuscivano tessere e citazioni petrarchesche (a partire dal sonetto proemiale, Carte e scogli segnando, arene e piante, / cantar piangendo in vario stil appresi), ma queste erano disseminate su un ventaglio di temi frivoli e galanti (accostati per la possibilità di destare, con essi, un’emozione di meraviglia, lusso o rarità), del tutto estranei alla temperie del modello, che sconfessavano ogni ipotesi seriamente emulativa (nel volume delle Rime, alle pp. 18-20 e 26-27, si prendano a esempio i madrigali L’amata specchiandosi toglie la vista di sé medesima all’amante ch’è vero specchio di lei, Donna di

52 Prose antiche di Dante, Petrarcha et Boccaccio, et di molti altri nobili et virtuosi ingegni, nuovamente raccolte, in Fiorenza, appresso il Doni, 1547; così, a p. 58, la versione dell’autore della Zucca: «Percioché, quando io contemplo gli altri e tutto il genere humano, io confesso che molte cose mi si parano avanti, onde io posso consolare lo stato mio col paragone della sorte altrui. Né facilmente si troverebbe alcuno né più libero né più padrone di se stesso di me». 53 Sulla positiva incidenza di Petrarca nelle riflessioni linguistiche del Borromeo: Morgana, Gli studi di lingua, pp. 192-197. Si veda inoltre F. Borromeo, Osservationi sopra le Novelle. Avertimenti per la lingua toscana, a c. di S. Morgana, Milano, Ed. PaolineBiblioteca Ambrosiana, 1991, pp. 17, 75 e 93. Riguardo alla pertinente distinzione operata dal Borromeo, fra un Petrarca «modello di lingua» (sotto l’aspetto fonologico, morfologico

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lontano fra molte a pena veduta maggiormente incende e Bevendo a tazza segnata dalle labbra della sua donna maggiormente si accende)69. Da una parte il Massini scriveva una canzone sotto forma di Centone spirituale de’ versi del Petrarca, e d’altronde corrispondeva con Tasso, Preti, Della Cella, Marino e Isabella Andreini. Se rifiutava l’enfasi e gli eccessi del barocco, ne sfruttava i motivi principali, per curiosità, leggiadria figurativa, e per gusto della varietà (si vedano anche gli artificiosi madrigali del Chiaroscuro amoroso, impostati sul contrasto cromatico e psicologico evocato nel titolo, sul dubbio e sull’ambiguità tra notte e alba, tra bianco e nero, sulla compresenza dei due colori nella donna amata)70. Conviene, in quest’ottica, la menzione del sonetto di lode indirizzatogli da Girolamo Preti (Allor che spieghi in amorosi accenti), che del Massini fu probabilmente scolaro di diritto all’università di Pavia: per testimonianza d’una minima esportazione dei progetti letterari accarezzati, al principio del Seicento, a Milano e dintorni71. Con una meccanica operazione, a Pavia, nell’ambiente dell’Accademia degli Affidati, si voleva fare del Massini il campione, la bandiera, di un ritorno a Petrarca. Venivano così ristampate nel 1611, presso Andrea Viani, le sue Lettioni (già Perugia, appresso Petroiacomo Petrucci, 1588), la prima delle quali aveva il valore d’un manifesto: Della difesa del Petrarca, intorno all’oppositioni fatteli dal Castelvetro nel suo Comento della Poetica di Aristotele. Le ragioni dell’apologia erano dichiarate in principio: «Malagevolmente patisco di sentir riprendere e mordere quello scrittore, il quale fu sempre fin da’ primi anni tra la famigliuola de i miei libri a me carissimo, e onde trassi sempre tanto d’utile e di diletto quanto da qual si voglia scrittore». Le imputazioni di Castelvetro a Petrarca prese di mira dal Massini erano una decina, e la puntuale replica a esse consentiva giudizi perentori: sul primato di Pe-

e lessicale) e un Petrarca «modello di poesia», cfr. K.W. Hempfer, Per una definizione di petrarchismo, in Pétrarque en Europe, p. 29. 54 Milano, Bibl. Ambr., G 24 inf. (n° 7), c. 422. Opinioni analogamente severe intorno alla poesia secentesca, poggiante sulla ricerca della rarità lessicale e dell’acutezza, sono riportate e commentate in Martini, «I tre libri delle laudi divine», pp. 77-78.

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trarca rispetto a Dante, sulla teoria dell’imitazione, sul rapporto tra la poesia e la scienza, sull’uso delle favole antiche (la mitologia) «trattando materie religiose pie, secondo la religione christiana», sul valore dei capitoli trionfali. Venivano confutati il metodo critico del Castelvetro e le concezioni estetiche da esso presupposte, che, mediante l’impiego di categorie aristoteliche, fermavano l’attenzione soprattutto su questioni di contenuto e di coerenza interna (in base ai principi di ‘necessità’ e ‘convenevolezza’): riducendo l’invenzione artistica a elaborazione di un congegno tematico congruente, e rappresentabile all’intelletto senza contraddizioni o sbavature logiche72. Massini restava freddo e sordo dinnanzi ai rilievi petrarcheschi del Castelvetro, che consistevano «in una scomposizione della sostanza tematica nei suoi nuclei essenziali, e in una ricomposizione e riordinamento di questi nuclei in schemi dotati di una loro organicità e congruenza logica»73. Al perugino, più fioco sul piano della speculazione dialettica e razionale, a dispetto della sua formazione e professione giuridica, non pareva possibile che si dovesse restringere il compito del giudice/lettore, obbligandolo a verificare solo la tenuta del testo, la pertinenza e congruità delle espressioni, proprie e figurate. Estraneo agli ‘scrupoli’ analitici e sintetici del Castelvetro, gli tornava ovvio contestare chi volesse «torre questa libertà ai moderni, che gli antichi liberamente si son pigliati». Sicché, a proposito dei versi iniziali del primo Triumphus Cupidinis (citati in questa forma: «Nel tempo che rinova i miei sospiri, /

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RVF 53 (Spirto gentil, che quelle membra reggi), vv. 10-14. Milano, Bibl. Ambr., F 24 inf., cc. 214-216. 57 Milano, Bibl. Ambr., G 10 inf. (n° 2), cc. 187-189. 58 F. Borromeo, De insanis quibusdam tentationibus, Mediolani, [Bibliotheca Ambrosiana], 1629, p. 26 (Buzzi, Il corpus, p. 119, n° 61 a-b). Si veda al proposito il commento di P. Bellezza, Federico Borromeo nella vita, nell’opera, negli scritti, Milano, Vallardi, 1931, pp. 56-57. 56

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per la dolce memoria di quel giorno / che fu principio a sì lunghi martiri, / scaldava il Sol già l’uno e l’altro corno / del Tauro»)74, osservava: Concedo ben io al Castelvetro che i segreti delle scientie, frequentemente mescolati nei poemi per vanità, massime quando son lontani dalla capacità del vulgo, al quale concorro che si debbono accommodare l’opere de’ poeti, sieno riprensibili; ma queste descrittioni del Petrarca non sono già prese da luogo recondito dell’Astrologia, anzi da luogo trito e notissimo, essendo lo scorrere del Sole per li dodici segni del Zodiaco cosa intelligibilissima, e nota anco a i volgari. Non è adunque il Petrarca incorso nell’errore nel quale per aventura incorse Dante, che trasportò tante cose nella sua Comedia cavate dall’intime viscere delle scientie, senza mutare pur molte volte i proprii termini, come può ciascuno per se stesso osservare. Onde diede occasione al Bembo di dire, nel secondo delle sue Prose, che, mentre egli havea voluto mostrarsi in tutte l’arti liberali dotto e scientiato, era divenuto men perfetto poeta75.

Con la scorta di Petrarca, Massini mirava a tutelare la libertà dell’espressione poetica, conservandole margini di possibile genericità o ambiguità che non erano tollerati dalle più scaltrite ottiche del letterato modenese, il quale di ogni singola parola vagliava puntualmente la proprietà linguistica e testuale. E d’altronde per Castelvetro era prioritaria la verifica della credibilità o verosimiglianza della favola e della unità d’azione 76; ne conseguiva il rifiuto delle soluzioni allegoriche oscure e artificiose che, eccedendo la raffigurabilità razionale di quanto contenuto nel testo, precludevano al lettore la comprensione e il diletto. Il giudizio intorno ai capitoli trionfali riusciva al proposito discriminante; se di essi nell’orizzonte critico castelvetriano non potevano che risaltare i limiti e le mende, la difesa incondizionata del Massini ricorreva nuovamente al confronto con la Comedia dantesca: Per risolutione di questa difficultà è da osservare che ’l poeta, dovendo tirare a fine con la constitutione della favola un poema così nobile e di tanto diletto e ammaestramento, come è questo de’ suoi Trionfi, ne gli encomii del quale hora non comporta che io entri l’occasione di breve discorso, s’avvide di non poter per avventura formarla verisimile, [...] senza l’introduttione di sogno e di visione miracolosa; conciosiacosache poco verisimile sarebbe stato che ’l Petrarca

59 Milano, Bibl. Ambr., E 20 suss., cart., ff. I+368+I, 270x200. Come per tempo riconosciuto dagli studiosi, si tratta dello «schedario della biblioteca federiciana» (F. Molinari, Per una bibliografia ragionata del cardinale Federico Borromeo, «Ricerche di storia sociale e religiosa», nuova serie, 27, 1985, p. 68), che «elenca in ordine alfabetico per materia tutti i libri della biblioteca personale di Federico» (E. Galbiati, L’orientalistica nei primi decenni di atti-

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havesse realmente veduto, e fuor di visione, quei carri e quelle deità trionfanti, con quelle tante persone delle quali fa così leggiadro, ordinato e artifitioso racconto. Fu dunque necessaria l’introduttione del sogno al Petrarca, per osservar le leggi e i precetti dell’arte del buon poeta: nel che, siami leccito dire il parer mio, fu per aventura più avveduto di Dante, il quale ci lascia in dubbio se egli ci voglia narrare, nella sua Comedia, cosa avvenutali in sogno e in visione, o pure ci voglia far credere d’haver fatti realmente quei lunghissimi e felicissimi viaggi. Non è adunque, come presuppone l’oppositore, che senza bisogno fosse introdotto il sogno nei Trionfi del Petrarca.

È nota l’insofferenza del Castelvetro per le pratiche di imitazione che, adottando uno stile o un tema «già fabricato» da altri, offrivano vuoti e inautentici simulacri dei modelli; a esse era imputata una quota d’affettazione che gli sembrava inestricabile da varie prove del classicismo petrarchesco e poi bembiano77. Da tali premesse, nella sintesi offerta dal Massini, discendeva l’assunto infamante che Petrarca avesse «rubbato i concetti di molti suoi sonetti a diversi scrittori». L’imputazione ruotava intorno a una materia già sondata nella celebre lettera dell’Aretino a Niccolò Franco del 25 giugno 1537 («Perché è gran differenzia dagli imitatori ai rubatori, che io soglio dannare»), destinata a divenire (complici le pagine premesse alla Sampogna, nell’edizione parigina del 1620) il cuore del dibattito intorno alla sostanza artistica del marinismo78; e la replica a ciò, contenuta nella Difesa, riusciva adeguatamente articolata: A questa oppositione si può principalmente rispondere negando che ’l Petrarca habbia tolto altrui i concetti onde ha informati i suoi leggiadri e nobili componimenti, conciosiacosa che involatori dell’altrui inventioni sieno coloro che rubbano i concetti interi e principali, e non quegli altri che torranno da un poeta greco e latino una sentenza o un concetto particolare, il quale può essere anco comune, ché tutto ciò credo io che si faccia più tosto virtuosamente che con vitio o mancamento alcuno. Io, quanto a me, per quel poco che mi son dato alla lettione de’ poeti latini, non ho saputo osservare se non che ’l Petrarca, studioso di quelli, è andato imitando e cogliendo modestamente qualche fioretto, onde ha ornato con artifitio la bellezza nativa de’ suoi vaghissimi componimenti, senza far danno al prato onde l’ha tolto. [...] E poi, se è vero, come è verissimo, se crediamo alle nostre leggi, che ’l furto non si commetta senza affetto di furare, dove il Castelvetro, ch’è l’accusatore, non provi più che efficacemente questo proposito di furare nel Petrarca, esso, che è reo, dovrà venire, senz’alcun dubbio, anco in questa parte assolto. vità, in Storia dell’Ambrosiana, p. 91). Informazioni, al riguardo, si desumono da: Jones, Federico Borromeo, p. 39; U. Motta, Borromeo, Pinelli e Querenghi: letteratura e collezionismo librario tra Cinque e Seicento, «Studia Borromaica», 13 (1999), pp. 137-140; e soprattutto M. Rodella, Federico Borromeo collezionista di manoscritti: un primo percorso, «Studia

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

Col piglio del giurista, Massini distingueva l’imitazione dal furto sancendo un metro che disciplinasse i pronunciamenti: da una parte egli poneva il proposito virtuoso di ricavare dai modelli una sentenza o un concetto particolare, il quale può essere anco comune, dall’altra il rubare consapevolmente (con affetto di furare) i concetti interi e principali. Del raffinato magistero petrarchesco (distillato essenzialmente nelle Fam. XXII 2 e XXIII 19), in queste svelte pagine, non rimaneva che l’impalcatura esterna, la superficiale tassonomia: ciò bastava, però, perché il Massini ritenesse di avere così risolto il problema79. Petrarca era esibito come antidoto e come nutrimento preventivo, senza che questo comportasse, a livello operativo, l’assoluto rifiuto delle novità. Veniva da Milano e dintorni non la tardiva e scolastica difesa del modello unico, ma l’affermazione del valore della tradizione, perpetuamente rinnovantesi sulle orme dei propri archetipi (dalle origini a Tasso). Analogo a quello del Massini era il caso del Baldi, che il Marino, generosamente, evocò fra i «Ritratti di diversi signori e letterati amici dell’autore» nella sua Galeria 80. Erudito rimatore, scienziato, storico e traduttore, egli nacque a Urbino nel 1553. Se ne conosce almeno in parte la biblioteca grazie a un contributo di Maria Moranti, in cui sono ricapitolati i termini essenziali della sua biografia: da Urbino a Padova per gli studi universitari, quindi a Guastalla (maestro di matematica presso la corte di Ferdinando Gonzaga, con le raccomandazioni di Carlo Borromeo, e abate dal 1585), di qui a Roma e poi di nuovo a Urbino (a servizio di Francesco Maria II della Rovere), fino alla morte nel 1617 81. S’aggiunga che fu per un certo tempo anche a Milano. Socio degli Affidati, a Pavia nel 1600 stampò presso il Bartoli la raccolta amorosa Il lauro, petrarchesca già nel titolo, come pure l’autore ammetteva nella dedica a Ferdinando Gonzaga («Né si maravigli poi l’E.V. che io habbia lodato quel Borromaica», 15 (2001), pp. 202-206. Intorno al 1603 il cardinale milanese decise di destinare la sua collezione privata di manoscritti e libri, adunata in quasi vent’anni, alla costituenda Biblioteca Ambrosiana; il già ricordato Antonio Olgiati redasse un elenco delle opere possedute dal Borromeo, ripartendole tra le seguenti categorie: Sacre Scritture (ff. 2-24: 306 voci), santi Padri (ff. 25-49: 161 voci), scolastica (ff. 50-74: 121 voci), controversie (ff. 75-99: 277 voci), casi di coscienza (ff. 100-112: 53 voci), diritto canonico (ff. 113-135: 226 voci), diritto civile (ff. 136-148: 65 voci), filosofia (ff. 149-172: 435 voci), matematica (ff. 173-185: 70 voci), storia sacra (ff. 186-210: 283 voci), storia profana (ff. 211-235: 376 voci), discipline umanistiche (ff. 236-258: 254 voci), eloquenza (ff. 259-271: 44 voci), poesia (ff. 272-284: 216 voci), cerimonie e riti (ff. 285-307: 129 voci), opere devozionali (ff. 308-319: 89 voci), testi greci (ff. 320-332: 169 voci), testi ebraici (ff. 333-345: 48 voci), e miscellanea (ff. 346-368: 186 voci). L’inventario, che dentro ciascuna delle sezioni è ordinato alfabeticamente, comprende oltre tremilacinquecento voci; tale numero, tuttavia, eccede quello dei volumi censiti, poiché numerose opere sono rubricate tanto con il nome dell’autore, quanto con la parola iniziale del titolo, e inoltre taluni testi interdisciplinari ricorrono in due o più classi: parrebbe dedursene che il catalogo fu compilato non a scopo diplomatico, ma per facilitare la consultazione e l’attraversamento del patrimonio bibliografico che esso presupponeva. In tale prospet-

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nome che con tanta altezza di concetti e di stile fu celebrato dal più famoso poeta che mai cantasse fra’ nostri, poiché nel fatto de l’amore non cade l’elettione»)82. Il volume per Laura del Rio risaliva, nella concezione, agli anni del soggiorno padovano, ed era distinto in due sezioni: la prima comprendeva 200 madrigali (pp. 7-81), 12 ballate (pp. 81-90), 50 sonetti (pp. 91-116), 4 canzoni (pp. 116-130) e 2 sestine (pp. 130-132); la seconda, col titolo Rime secondo l’uso de’ siciliani antichi, proponeva 8 ballate, 36 sonetti e 3 canzoni (pp. 133-168). A decorrere dalle rapide considerazioni linguistiche fermate nelle pagine proemiali, s’intendono i tratti di più sicura originalità dell’operazione («Mi trovavo haver poste insieme alcune compositioni amorose, cioè non picciola quantità di madrigali, sonetti, canzoni, e in particolare alcuni capricci, scritti da me in quella lingua ne la quale si essercitarono Guittone d’Arezzo, Cino da Pistoia, Dante Alighieri, Dante da Maiano, e quegli altri nostri poeti de la scuola antica»). Varrebbe, Il lauro, per «la prima prova che s’incontra, nella nostra lirica, di un arcaismo ricercato per sola intenzione d’arte»83. I tributi all’autore del Canzoniere erano espliciti e frequenti, non sempre banali, come dimostrano alcuni sintomatici campioni: i madrigali Laura risorge (p. 14), Lauro di frutto amaro (p. 20), Lauro amato (p. 32), Ritratto di Laura che si vede nel Palazzo del Petrarca in Castello Arquato (p. 58), Laura novella (p. 58), Chiedesi al Petrarca l’altezza de lo stile (p. 63)84; il sonetto Queste fresche, felici e ben nat’herbe (Testimonio de la bellezza de la sua donna dal luogo ov’era stata, p. 113); la canzone Su le rime di quella del Petrarca, «Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi» (alle pp. 128-130, inc. Più felice cagion di tesser versi, con ricalco dell’ardito schema metrico e rimico di RVF 29: 8 coblas unissonans di 7 vv., di cui 2 settenari, secondo un modulo di origine occitanica, attestato presso Guittone e dintorni ma sconosciuto a Dante e agli stilnovisti). Simile dottrina era uno dei tratti caratterizzanti della raccolta, e impediva al Baldi di pienamente contentarsi del modello: di qui egli si allargava con esperimenti di recupero (linguistico e metrico) della poesia delle origini (dai siciliani a Dante).

tiva, le poche schede aggiunte in un secondo tempo, da mano diversa da quella dell’estensore del documento, e le numerose pagine lasciate bianche avrebbero dovuto giovare per rendere conto dei progressi della collezione.

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Il dittico Massini-Baldi non è pretestuoso. Il primo, difendendo le scelte tematiche e formali di Petrarca dalle imputazioni di Castelvetro, convocava e citava Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Guittone, Bonagiunta, Dante da Maiano, Guinizzelli, Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia (un costume attestato dalla tradizione valeva per regola e legge, sicché il confronto con gli auctores scagionava il presunto reo); il secondo desumeva lessico, sintassi e rime, oltre che dal Canzoniere, dai «poeti de la Scuola Antica» (si vedano per ciò, nella seconda parte del Lauro, la canzone Su la testura di quella di Giacomo Notaro da Lentino, che comincia «Madonna, dir vi vollio», alle pp. 159-162, e la canzone Su la testura di quella di Dante da Maiano, che comincia «Tutto ch’eo poco vallia», alle pp. 163-166) 85. «Di Siciliani, in verità, il Baldi ne conosceva ben pochi», bastandogli quel che d’essi trovava nella Giuntina, e «di sotto alla vernice primitiva, come per un’inconsapevole, ed invincibile, disposizione del poeta, come il ricordo e l’impronta di tutta la sua educazione letteraria, traluceva ed affiorava la nota petrarchista»86. E però la ‘capricciosa’ scelta di imitazione dell’antico acquistava un rilievo militante, e non impediva al Baldi, come al Murtola e ad altri in quel giro d’anni, di attingere alle vene destinate a essere sfruttate dalla poesia barocca e secentesca (non troppo lontano dalla esperienza del genovese Scipione Della Cella, il quale, già legato al milieu pavese degli Affidati, si propose secondo Marziano Guglielminetti di superare il manierismo tardo e accademico «risalendo magari sino alla lezione di Dante e degli stilnovisti»87. Non a caso dunque Della Cella e la sua opera furono bene accolti a Milano, dove egli, esule con una accusa d’omicidio, si rifugiò e dove, postu60 Su Girolamo Malipiero e sulla definizione del cosiddetto «petrarchismo spirituale», che godette di qualche fortuna ancora nell’ultimo quarto del XVI secolo: A. Quondam, Riscrittura, citazione, parodia del Codice. Il «Petrarca spirituale» di Girolamo Malipiero, «Studi e problemi di critica testuale», 17 (1978), pp. 77-125 (poi nel suo vol. Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991, pp. 203-262); U. Schick, Malipieros Petrarca Spirituale als Canzoniere-Allegorie, in Interpretation: das Paradigma der Europäischen Renaissance Literatur. Festschrift für Alfred Noyer-Weidner zum 60. Geburtstag, hrsg. von K.W. Hempfer und G. Regn, Wiesbaden, Steiner, 1983, pp. 272-287. Per la tradizione editoriale delle rime «sacre» o «spirituali» di Bruto Guarini (letterato prossimo a Filippo Neri e al circolo della Vallicella, legato, oltre che allo stesso Borromeo che ne era stato allievo a Bologna, ai cardinali Sirleto, Paleotti e Valier), Nicola Tucci (scrittore di origine lucchese; diplomatico, cortigiano e ambasciatore a Roma, a Bologna e in altre città d’Italia), Cesare Rocca, lungo l’estremo decennio del Cinquecento: Biblia. La biblioteca volgare, 1, Libri di poesia, a c. di I. Pantani, Milano, Ed. Bibliografica, 1996, pp. 154-155 e 250. 61 Nell’Introduzione di fra Ieronimo Malipiero minoritano alle ornate canzoni del suo teologo e spiritual Petrarca (aggiunta al Petrarca spirituale con la ristampa veneziana del

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me, nel 1609 e nel 1623 uscirono a stampa le sue Rime a cura dell’amico Giovanni Bernardino Sessa) 88. 8. Le voci del petrarchismo milanese: Isabella Andreini Il 1600 fu l’anno del Lauro. Tra il 1601 e il 1605 si compì a Milano la consacrazione poetica di Isabella Andreini, attrice virtuosa, donna colta e raffinata all’apice della notorietà89. La prima edizione delle sue Rime apparve infatti nella capitale del Ducato nel 1601, con dedica al cardinale Cinzio Aldobrandini: si trattava, da parte di una personalità artistica di rilievo, di affidare a una raccolta poetica la celebrazione definitiva della propria immagine, con un calcolato esercizio di auto-rappresentazione 90. Erano trecento e più pagine in quarto, che portavano evidenti tracce della fitta trama di illustri relazioni che l’autrice aveva costruito, piazza dopo piazza, nel corso della sua itineranza professionale (i sonetti andavano ai Gonzaga e ai Farnese, agli Estensi e ai Medici, ai Doria e ai Della Rovere, ai Savoia e ai reali di Francia). Figura pubblica e riconosciuta, in rapporto con i maggiori esponenti della cultura e del potere politico del tempo, Isabella morì a Lione nel giugno del 1604, durante la fortunata tournée francese. L’edizione postuma delle Rime, che fu stampata a Milano nel 1605, venne curata dai figli e dal marito Francesco: in due volumi, costituiva una messa in scena della sopravvivenza dell’Andreini, resa eterna dalla fama91. La parte iniziale dell’opera riproponeva, integrale e inalterata, la serie dei testi già pubblicati nel 1601, ma prima di essa veniva inserito un folto gruppo di componimenti (latini e volgari) «in morte della medesima signora Isabella»; fra gli autori spiccavano i milanesi e

1545) erano declinate una teoria generale della comunicazione poetica e una difesa della stessa che, col segnalarne le virtù e le risorse, censurava l’esperienza dei «moderni versificatori», i quali avevano stravolto lo statuto del genere lirico. Come per Borromeo, così già per Malipiero l’accessus ad Petrarcham passava per l’intensa requisitoria contro la degenerazione degli eredi contemporanei (recentiores deteriores): «Oh tempi nostri infelicissimi e tenebrosi, quanto errore e quanto abuso stomachevole oggidì circa ciò si vede tra’ mortali? [...] Oh di quanta riprensione e castigatura sono degni cotai uomini, i quali [...] cotai vergognosi amori e frenetici desiri inconsultamente espongono all’ignaro vulgo, onde gli animi degli incauti e male aveduti lettori, come agli ami i pesci, sono invilupati e presi, percioché sotto gli amorosi versi e lusinghevoli parolette prendono occasione e materia di vana concupiscenza e illecita voluttà» (Quondam, Riscrittura, citazione, p. 219).

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i pavesi, vicini al Borromeo e alla sua cerchia: Ignazio Albani (Isabella obiit. Periisse existimo Suadam), Francesco Pozzobonelli (Illa fatali tegitur sepulchro), Giovanni Ambrogio Biffi (Deh ferma, o passaggier, deh ferma il passo), Ippolito Cerboni (Ove hai, nova Thalia, fedel Sirena). Nella stessa prospettiva s’intendeva lo scambio d’omaggi con il Massini, alle pp. 5-6 della Parte seconda, che, ai fini di cogliere in entrambi la padronanza dei Filippo Massini Isabella Andreini Vesta o coturno altero o socco humile, costei, che forme cangia e fassi idea hor di celeste hor di terrena dea, hor di donna selvaggia hor di civile, de gli affetti è tiranna, e in vario stile tristi e lieti pensieri ancide e crea, e fa, colta parlando, hor dolce hor rea del ver più bello il falso al ver simile. E misera e felice, e in foco e in gielo, desta, hor con mesto viso hor con giocondo, riso e pianto a sua voglia, horrore e spene. O gloria nuova de le antiche scene, scena degna di te sarebbe il Cielo, ma fora poi teatro angusto il mondo.

Più non tem’io gli ingiuriosi danni del Veglio alato, hor le mie voglie adempio, hor de l’eternità poggiando al tempio lieta me ’n vo per lo sentier de gli anni. Cloto invan contra me vien che s’affanni, spezzato è pur l’arco letale ed empio, tarpati ha pur con memorando scempio l’oblio, morte seconda, i negri vanni. Per te, Massini, al dispietato artiglio son già sottratta, e di celeste schiera hoggi m’ha resa il tuo valor compagna. Se m’alzi al ciel, per sì degn’opra il ciglio veggio inarcar? No. Di tua musa altera il cantar dal bear non si scompagna.

mezzi tecnici ed espressivi, non è forse inutile riprodurre: Erano qui denunciati ed esibiti i due poli intorno ai quali ruotava il libro di rime di Isabella: da una parte, nel sonetto del Massini, si rilevava la preponderanza dello statuto teatrale nel campo della lirica, conseguendone la falsità autobiografica, la natura puramente letteraria degli erotikà pathèmata, inventati allo scopo di somministrare alla fantasia occasioni per esercitarsi poeticamente; d’altro canto, il sonetto dell’Andreini pareva contenere una riflessione moraleggiante sulla labilità delle cose terrene, congeniale, come è stato detto, a un’attrice che sull’effimero aveva intessuto la propria esistenza, ricavandone la «continua e ossessiva aspirazione all’eternità»92. L’atteggiamento dell’Andreini nei confronti di Petrarca era venato da sfumature concettiste, dimostrando scaltrezza e originalità. Ne erano spia eloquente i tre capitoli «con ogni terzo verso del Petrarca» (p. 46, Lunge da le tue luci alme e divine; p. 175, D’Amor, di lui che ’l cor mi strugge e sface; 62

Carmina poetarum nobilium Io. Pauli Ubaldini studio conquisita, Mediolani, apud

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Uberto Motta Chi pensò mai veder far terra oscura 311,11 due rose fresche, e colte in Paradiso, 245,1 che dal mondo m’havean tutto diviso, 323,30 dolcemente obliando ogn’altra cura? 325,27 Qualhor veggio cangiata sua figura 183,10 e ’l lampeggiar de l’angelico riso, 292,6 piovommi amare lacrime dal viso. 17,1 Ahi, null’altro che pianto al mondo dura. 323,72 Quella che fu mia donna al cielo è gita; 270,107 tal fu mia stella, e tal mia cruda sorte, 217,11 per far me stesso a me più grave salma. 278,13 A l’ultimo bisogno, o miser alma, 239,25 è l’aura mia vital da me partita, 278,4 né contra morte spero altro che morte. 332,42

Amor m’ha posto come segno a strale, 133,1 pasco il cor di sospir, ch’altro non chiede, 130,5 e qual è la mia vita, ella se ’l vede, 324,12 e quinci e quindi il cor punge ed assale. 241,8 In questa breve mia vita mortale, 263,4 lasso, ch’i’ ardo ed altri non me ’l crede, 203,1 veggio a molto languir poca mercede, 101,5 o viva morte, o dilettoso male. 132,7 Non veggio ove scampar mi possa homai, 107,1 e vo contando gli anni, e taccio e grido, 105,79 o speranza, o desir sempre fallace. 290,5 Primavera per me pur non è mai. 9,14 Pascomi di dolor, piangendo rido, 134,12 e sol di lei pensando ho qualche pace. 164,8

p. 202, Invidioso Amor del mio contento) e soprattutto i due sonetti centone, costruiti con quattordici versi del Canzoniere (pp. 132-133 e 161): Valore e significato di simili e analoghe operazioni sono stati indicati da Luciana Borsetto93. Per obbedienza a una moda, invalsa a partire dalla metà del Cinquecento, con gli esempi di Vittoria Colonna, Veronica Gambara e Chiara Matraini, Isabella perseguiva il doppiaggio programmaticamente facile e ostentato del Canzoniere, allo scopo di simulare un uso ‘liturgico’ delle rime petrarchesche. Benché il ricordo della ‘lettera’ prevaricasse sulla ‘storia’ (sul racconto, tra sensualità e rimorso, delle vicende di un’anima), l’effetto copia risultava pressoché totale; la duplicazione del modello era perfetta, senza sbavature o varianti. Non accedevano al testo segnali che denunciassero l’identità femminile del soggetto scrivente. L’Andreini offriva in un concentrato ristretto l’intero discorso petrarchesco: ciascun suo sonetto valeva per sintesi e sostituzione dei canonici 366 frammenti volgari. Ne dava una summa insieme formulare, memorabile e celebrativa. Erano i sintomi di una inclinazione permanente a utilizzare le tecniche del calco, della citazione e del collage: portata alle estreme conseguenze la predisposizione alla mascheratura e alla finzione, l’io poetico si spingeva a scrivere nei panni convenzionali d’un uomo, d’un fantasma senza corpo, poiché contavano, ai suoi occhi, solo lo stile, l’utilizzo affettato dei modelli, il Antonium Antonianum, 1563. Oltre a G. Parenti, La poesia latina del Cinquecento. Esemplarità e imitazione, «Studi italiani», 4 (1990), pp. 7-8, si veda la scheda di F. Santi, in Sul Tesin piantàro i tuoi laureti. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (15351706), Catalogo della mostra (Pavia, Castello Visconteo, 19 aprile-2 giugno 2002), Pavia,

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dialogo con essi e la padronanza degli arcani della metrica94. La raccolta delle Rime dell’Andreini era anche una antologia petrarchesca, che dimostrava l’intercambiabilità e la fruibilità dei ‘pezzi’ dell’archetipo: con una differenza, rispetto ai casi della Colonna e della Gambara. Qui lo statuto, come si conveniva a una brava attrice, era quello del gioco, dell’illusione e della messa in scena. Si vedano, per ciò, inizio e fine del sonetto proemiale (a p. 1 del volume citato): S’alcun fia mai che i versi miei negletti legga, non creda a questi finti ardori, che ne le scene imaginai amori usa a trattar con non leali affetti. [...] Così la stella mia seguendo, ancora di fuggitiva età nel verde aprile, vergai con vario stil ben mille carte.

Al modo di Petrarca, l’autrice cominciava con un appello ai destinatari del suo libro di rime; tuttavia, nonostante il vario stil e le mille carte (già 1,5 e 43,11 nel Canzoniere), subito la consistenza di quel che seguiva era ridotta a un vuoto simulacro. L’ingiunzione al lettore pareva perentoria: non creda a questi finti ardori. E presupponeva lucidità e disincanto non comuni: la poesia, stanti le dichiarazioni dell’Andreini, era coltivata non per confessione personale o diario di un’anima, ma in vista di una dimensione fittizia al di là delle contingenze biografiche, dotata di una trama più consistente di quella delle scene e però come esse percorsa dall’incessante cambiamento delle maschere. Ben diverso, per esempio, era l’atteggiamento di un petrarchista medio e sentimentale come Luca Pastrovicchi, il quale nel sonetto proemiale delle sue Rime scriveva: Deh, voi ch’udite o qui mirate espresso in miserabil suon qual fu ’l mio stato, qualche scintilla di pietà destate. Tardi m’avvidi, e non fortuna o fato incolpo più, o le due luci amate, ma fabro del mio mal dico me stesso95.

Cardano, 2002, pp. 343-346.

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Marchigiano di San Costanzo, legato alle accademie pavesi degli Affidati e degli Oziosi, il Pastrovicchi si diceva ammiratore del Massini, né mancava di omaggiare sonetti a Guarini, Stigliani, Marino. Giurista di professione, egli si occupava di poesia per svago, secondo il costume del tempo, facendo gruppo coi letterati dell’entourage borromaico (lombardi per nascita o temporanea adozione: dal già ricordato Giovanni Ambrogio Biffi al fiammingo Ericio Puteano), che lo ricoprirono di teneri elogi in principio del suo canzoniere spirituale96. Poste tali coordinate, s’intende la maniera spicciola e dilettantesca, al limite dell’ingenuità, della sua devozione nei confronti del modello. 9. Le voci del petrarchismo milanese: la poesia sacra Nella poesia d’ispirazione sacra la persistenza di un taglio petrarchesco e madrigalistico (amoroso), in aperto contrasto e attrito con la materia dei testi, sollecitava da parte degli autori continue giustificazioni, ch’erano attinte prima dalla polemica sorta al seguito della Gerusalemme liberata, e poi dal Discorso del Preti premesso alle Lacrime di Maria Vergine del Campeggi o dalla Poetica sacra del Ciampoli (a quest’ultimo si appellavano, per esempio, Ennio Minuti nelle Rime sacre dedicate al cardinale Federico Borromeo, omonimo e nipote del fondatore dell’Ambrosiana, e Giuseppe Girolamo Semenzi nel suo Mondo creato diviso nelle sette giornate) 97. La matrice moralistica, sempre presente nella poesia milanese primoseicentesca, s’accentuava a ridosso degli argomenti scritturali o agiografici, e, tramite l’istanza devozionale, consentiva il recupero di spunti tematici e situazioni già in

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P.F. Spinola, Elegorum de variis argumentis libri quatuor, Venetiis, ex. off. Stellae Iordani Zileti, 1563, pp. 50-51.

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

Petrarca: sulla vanitas vanitatum, la fragilità umana, la fugacità del tempo, il rimorso dei peccati, il conflitto tra cielo e terra, la solitudine salvifica. Si possono citare al proposito i sonetti del cappuccino cremonese Alessandro Lami98. Canzoni, sonetti e madrigali di taglio petrarchesco vennero scritti anche per san Carlo, nello spirito insieme civico e popolare legato ai festeggiamenti per la beatificazione del 1610 99. Federico Borromeo teneva agli scrittori della sua cerchia la medesima lezione ch’era svolta dal Preti e dal Ciampoli ai colleghi di Bologna e Roma: insieme essi deploravano le disavventure della lirica moderna, che (nelle parole del Preti) s’era fatta «corrotta e impudica» a causa della moda, per la moltiplicazione delle «cose amorose», «trite e divolgate» ma «spiacevoli» agli «uomini gravi»; convenivano, invece, un «classicismo casto» e una «teologica poesia», che ai fini del «giovamento spirituale» procedessero sulle orme di Petraca e Tasso, fondendo «la sublimità dello stile, la nobiltà dei concetti e la tenerezza degli affetti»100. Larga parte della letteratura derivante da simile impostazione si fermava ai livelli della occasionalità e della celebrazione encomiastica; interessa tuttavia notare che, per esito di tali spinte, nel Ducato di Milano sino ai decenni inoltrati del Seicento la poesia religiosa continuò a correre nell’alveo del petrarchismo rinascimentale, e solo tardi (per ipotesi: quando si attenuarono le diffidenze verso esperienze religiose più individuali e anticonformiste) si assistette alla sperimentazione di una scrittura mistica di tipo barocco101. Di petrarchismo spirituale a tutti gli effetti (complici gli esempi di Malipiero, Fiamma e Grillo), conviene parlare per due libri coevi, stampati a Milano al principio del secolo: i Sacri affetti del già ricordato Pastrovicchi, e la virtuosistica Tela cangiante dell’aristocratico alessandrino Annibale Guasco (una raccolta di 3110 madrigali di otto versi, endecasillabi e settenari, con il medesimo schema rimico: abbaccdd)102.

64 Sulla interessante e complessa fisionomia di questo autore (già segnalato da Parenti, La poesia latina, pp. 8 e 13), cfr. la scheda riservata alle sue raccolte latine da F. Santi, in Sul Tesin piantàro i tuoi laureti, pp. 341-343. 65 B. Baldini, Lusus ad M. Antonium Baldinum fratris filium, Mediolani, ex typographia Pacifici Pontii, 1586; le citazioni alle pp. 60, 79-80 e 112. Sull’autore: P. Zambelli, ad vocem, in DBI, 5 (1963), pp. 481-482; S. Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 294-295. 66 M. Sforza, Hymnorum libri tres, in universos sanctos quos hodierni breviarii calendarium continet, Romae, apud Aloysium Zannettum, 1593; Id., Clementiados libri II, Romae, apud Aloysium Zannettum, 1593. Le linee fondamentali che ispirarono l’opera di Clemente VIII, fin dall’avvio del suo pontificato, si desumono da Das Papsttum, die Christenheit und die Staaten Europas, 1592-1605. Forschungen zu den Hauptinstructionen Clemens’ VIII, hrsg. von G. Lutz, Tübingen, M. Niemeyer, 1994 (cui si aggiunga, almeno,

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Uberto Motta

Altri esempi potrebbero confermare la persistenza del modello lungo il versante ‘alto’ della letteratura sacra: nella tragedia spirituale Il mortorio di Christo del francescano Bonaventura Morone da Taranto (stampata a Milano nel 1612 e 1615) citazioni da Petrarca (ma anche da Dante e da Tasso) erano gestite efficacemente nelle scene di appassionato dialogo su questioni teologiche e morali103. Qui il racconto di prodigi (Gesù che cammina sulle acque) o di sogni profetici (l’incubo di Pietro) attivava scontri dialettici in cui la stringente logica delle argomentazioni, dedotte dalla letteratura controriformistica, conservava ritmo e passione, oltre che per l’armamentario barocco (fantasmi e demoni, compianti, lamenti e cori devozionali), grazie alla sicura padronanza dell’ornatus da parte dell’autore, il quale, per coinvolgere lettori e spettatori, dispiegava metafore, similitudini, antitesi, anafore, allitterazioni. Di citazioni dantesche, petrarchesche e tassiane, garantendo per esse la sostenutezza dell’eloquio, faceva sfoggio anche Giovan Battista Andreini al fine di mostrare perizia e abilità nella Maddalena lasciva e penitente (pubblicata a Milano per la prima volta nel 1652)104. Date le ambizioni letterarie dello scrivente, ad assicurare lo spessore della trama retorica concorrevano l’aggettivazione esornativa, le figure tropiche (sineddochi, metafore, allegorie), accumulative (epanalessi, anafore, diallagi), omofoniche (allitterazioni, rime interne), le quali, con una virata in direzione di Chiabrera, appena sfioravano, sorvolandole, le potenzialità drammatiche della materia. In sintonia con le

Frajese, Tendenze dell’ambiente oratoriano, pp. 57-80). 67 Così conclude Q. Marini, Libri italiani del Seicento, in Sul Tesin piantàro i tuoi laureti, pp. 21-22, alla luce di una sommaria ma non corriva ricognizione delle opere di poesia pubblicate a Milano, Pavia e dintorni.

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

riflessioni di Federico Borromeo, mediante la Maddalena (stampata due anni prima della sua morte) l’Andreini pareva lasciare in dono alla città di Milano l’estrema testimonianza d’un impegno etico e religioso, per cui s’offriva allo spettatore la possibilità di pregare e convertirsi a teatro: e a tale scopo serviva un impiego ben disciplinato della lingua di Petrarca. 10. Le voci del petrarchismo milanese: la poesia pastorale e il poema A ciascuno il suo Petrarca, si direbbe. Così nell’ambito delle favole pastorali, attraverso il congegno della lingua d’amore parlata dagli abitanti d’Arcadia, la destrezza verbale petrarchesca era sperimentata come strumento d’educazione del pubblico. Le formule discorsive impiegate già nel Canzoniere (poi in Tasso e Guarini) erano proposte come esportabili sul più vasto palcoscenico della vita sociale. Si prenda per emblematico il caso dell’Arminia di Giambattista Visconti, rappresentata (nel teatro del Palazzo Ducale) e pubblicata a Milano nel 1599, in occasione dei festeggiamenti in onore dell’infanta di Spagna Isabella, sorella di Filippo III, e dell’arciduca Alberto, fratello di Rodolfo II 105. Nel secondo atto comparivano sulla scena Ireno innamorato di Arminia, Arminia innamorata di Corinto e Corinto dedito alla caccia più che alle donne: l’impotenza della pazzia d’amore (ossia d’un amore vano, che costringa l’innamorato alla condizione del perpetuo inseguitore) era codificata mediante il ripetuto utilizzo delle antinomie presenti in Pace non trovo, et non ò da far guerra (RVF 134). Mediante la quasi ossessiva esibizione dei medesimi clichés, si insegnava a maneggiare con le parole (con una elocuzione esornativa e stereotipata tanto da divenire lingua franca) la galassia mobile e a volte ambigua dell’amore106. Improprio sarebbe immaginare una autentica ‘scuola’. Non si trattava però di semplici e occasionali esercizi dilettantistici, se i vari ingegni attivi a Milano al principio del Seicento coltivarono il teatro bucolico con assiduità e talento,

68 Queste informazioni sono desunte dalle schede di M. Volpi, in Sul Tesin piantàro i tuoi laureti, pp. 216-220. 69 «Situazioni – commentava Getto, a proposito dei madrigali del Massini – in cui c’è già come un presentimento della festevole grazia del Rococò, ma che tuttavia appartengono bene al Barocco, a quel Barocco che non insiste soltanto sui toni più solenni e gonfi, come vorrebbe un’ormai consunta etichetta critica, ma che sa toccare anche le più squisite e delicate tonalità, e che, accanto a quello che i tedeschi indicarono come Schwulst, sa accogliere quel mignard et doux style che sarà cercato dal Rococò. Comunque sono situazioni ormai ben lontane da quelle tipiche della tradizione che risaliva al Petrarca, proprio per il carattere

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cogliendo risultati significativi mediante I falsi dei di Ercole Cimilotti (1599), L’amorosa prudenza di Girolamo Borsieri (1610), Il pastor infido di Luigi Rusca (1622), L’amor impossibile fatto possibile di Carlo Torre (1648)107. Il mondo della pastorale diventava il dominio della ‘maniera’ e del ‘codice’ (dell’amore, dell’onore, della religione) con i riti che ne conseguivano. La pastorale, uscita dalle corti, entrava in città. Ne era minima spia la condotta di Orazio Seroni (socio della milanese Accademia degli Incogniti con il nome di Imperfetto), che si congedava dai lettori della sua Fida Armilla (Venezia 1610) appunto con una citazione petrarchesca: «Vivete adunque felici, e siatemi cortesi dello scudo dell’humanità vostra, colla cui aita mi prometto e contra i momi e contra il tempo onestissimo riparo, quantunque egli sia, come cantò il toscano poeta nel Trionfo del Tempo, etiandio della fama distruggitore, dicendo egli: “Un dubbio verno, un’instabil sereno / è vostra fama, e poca nebbia il rompe, / e ’l gran tempo a gran nomi è gran veneno”. Che però dice nel fine: “Tanto vince e rivolge [ma ritoglie] il tempo avaro, / chiamasi fama et è morir fecondo [ma secondo]; / né più che contra ’l primo è alcun riparo; / così ’l tempo trionfa i nomi e ’l mondo” [cfr. Triumphus Temporis, vv. 109-111 e 142-145]. Ma di questo mio studio non credo, quando che ’l fortissimo diamante della vostra benignità mi ricuopra»108. La poesia milanese del primo Seicento si mostrava se non refrattaria alla diffusione estensiva delle acutezze, quanto meno cauta nell’accoglierle. Ne derivava la fedeltà ai modelli cinquecenteschi e, in ultima istanza, a Petrarca. Ariosto e Petrarca bastavano al veneziano Giovanni Soranzo, a Milano tra il primo e il secondo decennio del secolo (protetto da Francesco d’Adda), per scrivere Lo Armidoro (edito nel 1611), un lunghissimo poema in 42 canti che offriva insperata continuazione alle vicende del Furioso e dei Cinque can-

di concretezza, per la fisica consistenza di quegli elementi» (G. Getto, Barocco in prosa e in poesia [1969], ora in Il Barocco letterario in Italia, con una Premessa di M. Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 42. Qui, alle pp. 66-71, sono altre considerazioni sulla «riposata e gioiosa visione del reale» che contraddistingue l’esercizio lirico del Massini, «orientato a un vagheggiamento intenerito e ridente, compiaciuto di un disegno a morbide sfumature e a linee lievi e aggraziate»). 70 S’intende così l’assunzione del Massini da parte di Benedetto Croce (e poi di Giovanni Getto), nella schiera dei poeti chiamati a far da corona all’opera del Marino, quasi che il più anziano scrittore perugino potesse essere ricondotto al cerchio d’ispirazione e alla scuola poetica legati all’autore dell’Adone (cfr. B. Croce, Lirici marinisti, Bari, Laterza, 1910; G. Getto, Opere scelte di G.B. Marino e dei marinisti, Torino, Utet, 1949): inoltre, O. Besomi, Ricerche intorno alla «Lira» di G.B. Marino, Padova, Antenore, 1969 (Miscellanea erudita, 20), pp. 1112. Per simili ragioni il Massimi era accostato a Marino già da Adriano Politi (che si è detto dedicatario delle Rime dell’autore perugino: 1609), nell’epistola Al Sig. Conte Giulio

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Petrarca a Milano al principio del Seicento

ti 109. Della matrice petrarchesca e tassiana s’alimentava l’elegante e versatile scrittura del nobile giureconsulto milanese Cesare Borri, autore di un Adone pubblicato dal Bidelli nel 1614 110. Il poemetto (110 ottave senza divisione in canti, fedeli nel complesso alla fonte ovidiana: Met. X 519-739) non figura tra le opere citate nel commento di Giovanni Pozzi all’Adone mariniano: ma non si può escludere, a una prima lettura, che Marino avesse contratto debiti in questa direzione. Il rilievo ha per il tema toccato (Petrarca a Milano) una importanza non secondaria, e una valenza, si vorrebbe suggerire, provvisoriamente conclusiva: il rapporto inverso infatti, da Marino ai milanesi, non appare quasi mai operante fino a che non s’oltrepassa il primo quarto del secolo, con gli autori di un’altra generazione, come Valeriano Castiglione, Giovan Battista Oddoni e Claudio Trivulzio.

Pannocchieschi d’Elci a Siena, in Annali ed istorie di G. Cornelio Tacito con le due operette de’ costumi de’ Germani, e della vita d’Agricola tradutte in volgar senese dal sig. Adriano Politi, Roma, G.A. Ruffinelli, 1611 [prima ed.: Venezia, Pulciano, 1604], pp. 511-512. 71 Il sonetto si legge ora in appendice a G. Preti, Poesie, Torino, Res, 1991, p. 244.

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Gian Piero Maragoni «SOGNI E COPULE IO FINGO». AVVENTURE SECENTESCHE DEL PETRARCA ONIRICO

Sì, sono un realista. Immagino che la gente pensi che un realista sia uno che imita la natura […] io dal vero non lavoro più. Ottengo di più lavorando in studio. Edward Hopper1

Per habitat di un tópov intenderemo il suo dove e il suo quando2 carat-

1

Scritti. Interviste. Testimonianze, Milano, Abscondita, 2000, 67 e 64. V. Carlo Dionisotti, «Un’Italia fra Svizzera e Inghilterra», Giornale storico della letteratura italiana, CXVIII (2001), 2, 192 e Id., «Scuola storica», in Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, UTET, 1986, 2 ed., IV, 140, col. 2 (e cfr. Id., «Ancora humanista/umanista», in Studi in memoria di Paola Medioli Masotti, Napoli, Loffredo, 1995, 71 e Id., «Per una storia delle dottrine linguistiche del Rinascimento», Filosofia, XXI [1970], 1, 19-20). 3 Il binomio vigore-accortezza (o congiunti [Tacito, Germania, VI, 4; Arriano, India, XXX, 7] o invece distinti [Velleio Patercolo, Storie, I, 12, iv]) nella lotta fra due contendenti o comunque in re militari è visto sopravvivere in mille disparate occorrenze duellistiche (cfr. e. g. Mario Saccenti, «Virgilio, Caro, Tasso: la mutazione della fortuna in un episodio di battaglia», in Id., Lo scrittoio dei classici, Modena, Mucchi, 2001, 61, n.10 con Franco Pignatti, «La morte di Sveno (“Gerusalemme liberata” VII, 5-40) e la tradizione epicocavalleresca medievale», Giornale storico della letteratura italiana, CXVIII [2001], 3, 371373), da una fiaba di Madame d’Aulnoy (La belle aux cheveux d’or) a un sonetto del nostro Leopardi (La morte di Ettore); ma uno scontro può anche interrompersi (Igino, Miti, 112) o apparire iniquo e scellerato (de Maistre, Les soirées de Saint-Petersbourg, III, 14), ed ecco allora il tema alternativo della tenzone abortita in extremis (per arguzia [Bracciolini, 2

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Gian Piero Maragoni

teristici (di contro alla durata nel tempo di talaltro, comunque evolubile3). Si pensi al ripesco mitologico in molto Novecento franciano4; o al sordo antimeridionalismo (qual méfiance per l’a lungo ignorato) di più d’un autore del Centronord negli anni dell’interno migrare5; o all’âge d’or del disagio di coppia come tema cinematografico6; o a un ricorso d’ordine struttivo nell’arco di un giusto quarantennio, cioè l’insulto di un serio corale nel finale di una sinfonia7. Invece, addentellato di un tópov sarà il suo peculiare far corpo con un genere ovvero un filone, anche assunti in amplissimo senso (sino al caso Facetiae, CCII]; per viltà [Grillparzer, Das Kloster bei Sendomir]; per onestà [Dumas, Le comte de Monte-Cristo, LXXXIX]; per saggezza [De Roberto, L’Imperio, IV]). Così pure, osserviamo che a lungo (e cioè prima – ad esempio – che Quint [James, The Turn of Screw, V] o anche Mellors [Lawrence, Lady Chatterley’s Lover, XIV] e Dimmersdale stesso [Hawthorne, The Scarlet Letter, III] innovassero assai fortemente) il blasone del maschio venusto fu pur sempre apollineo o atletico: incarnato e capelli da efebo (in Medoro [Ariosto, Furioso, XVIII, 166], Floridoro [Fonte, Floridoro, V, 45-46] ed Adone [Marino, Adone, I, 41-43]) o imponenza di spalle e torace (da Menelao in Omero [Iliade, III, 210.] e Meleagro in Valerio Flacco [Argonautica, I, 434.-435.] a Renzo Tramaglino filatore [P. S., XIII, 49], attraverso Guelfo in Tasso [Liberata, III, 63, c.-d.] e Aminta in Bonarelli [Filli, ii, 3, 94.]) o semmai la misura plenaria che combina gli opposti elementi (come nel Batillo dello PseudoAnacreonte [Odi, 29], nel Teodorico di Sidonio Apollinare [Epistulae, I, 2, iii] e nel Collaltino di Gaspara Stampa [Rime, 7, 5.6.]). 4 Da Tcherepnin (Narcisse et Echo) e Dukelsky (Zéphyr et Flore) agli outsiders Satie (Les aventures de Mercure), Berners (The Triumph of Neptune) ed Ibert (Les amours de Jupiter); e dai ritrattisti Honegger (Antigone), Milhaud (Médée), Auric (Phèdre), Martinu˚ (Ariane) fin giù ad Yves Prin e ai suoi stupori e meraviglie (Le souffle d’Iris). 5 «[…] mercanti neri dal meridione, carichi di valigie d’olio […]» (Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, I, 2); «[…] questo qui solo per dirmi si accomodi tira fuori un bell’accento meridionale Dio santo sta’ a vedere che costui è terrone e io non sono preparato a un terrone […]» (Giuseppe Berto, Il male oscuro, VIII, 3); «[…] loro teste da bassa Italia […]» (Paolo Volponi, La macchina mondiale, II, 2). 6 Dopo i precorrimenti di Rossellini (Viaggio in Italia, 1953) e Bergman (Smult ronsta˚llet, 1957) oltre che – a suo modo – di Eduardo (Sabato, domenica e lunedì, 1959), l’archetipo del grave motivo è dato per tempo da Antonioni (L’avventura, 1959; La notte, 1960; L’eclisse, 1962), cui succedono, sparsi sul globo, Donen (Two for the Road, 1967), Loy (Il padre di famiglia, 1967), Carlos Saura (Stress es tres, tres, 1968) e Delvaux (Un soir, un train, 1968). 7 Dalla Prima di Brahms (1862-1876) alla Terza di Ciaikovski (1875), alla Quinta di Bruckner (1878), alla Seconda di Strauss (1884), alla Quinta di Mahler (1902). 8 Tale fu, nel secondo dopoguerra, il concerto per fiati assortiti. Aprì le danze da vero par suo il decrepito Strauss sempreverde (Duetto-Concertino per clarinetto, fagotto, arpa ed archi [1947] cui si unirono Arthur Honegger (Concerto da Camera per flauto, corno inglese ed archi [1948]), Villa-Lobos (Fantasia per sassofono tenore, tre corni ed archi [1948]), Martin (Concerto pour sept instruments à vent, timbales, percussion et cordes [1949]) e

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«Sogni e copule io fingo». Avventure secentesche del Petrarca onirico

squisito e supremo di quei generi topici in sé8). Così è del fidanzamento sovvertito nella comedy di innumerevoli sorte9; o altresì dell’acquisto del volo nella lirica fiaba buonista (Andersen, Den grimme Aelling; Barrie, Peter Pan in Kensington Gardens, II; Sepúlveda, Historia de una gaviota y del gato que le enseñó a volar, II, 11); o del supplizio come incubo e grottesco nell’Ottocento visionario e romanesque (Poe, The Pit and the Pendulum, I; Nodier, La fée aux miettes, XVII; Berlioz, Symphonie fantastique, IV; Strauss, Till Eulenspiegels lustige Streiche, VI, 164 sgg.); od anche dell’oggetto eccezionale in molta narrativa femminile10. Tutto ciò sia stato detto per fermare che sui temi cimentarsi non si può se non sempre con squadra e compasso, confrontando aggregando isolando. È quindi il buon giudizio che la poesia reclama (non già smania analitica di tutto decomporre) a volere saggiare in struttura l’ordinarsi dei varî motivi nel seno di un certo canzoniere-capostipite, figlio o nipote. Mentre dunque presso il Petrarca volgare si scorge un ordo fragmentorum cum toto, e cioè un’architettura universa che presiede all’intera raccolta, nei lirici del Cinquecento Paul Hindemith (Concerto for Woodwinds, Harp, and Orchestra [1949]; Concerto for Trumpet, Bassoon, and String Orchestra [1949]), alla breve e lussuosa fiorita poi seguendo tardizie onorabili (Zimmermann, Konzert für Trompete in C und Orchester [1954]; Rivier, Concerto pour saxophone alto, trompette et orchestre à cordes [1955]; Schmidt, Pièce Concertant per tromba, trombone, percussione, arpa ed archi [1959]; van Delden, Piccolo concerto per dodici strumenti a fiato, timpani, percussione e pianoforte [1960]). Resta a parte il costume italiano del concerto per flauto o ottavino (Ghedini, Sonata da concerto per flauto, archi e percussione [1958]; Petrassi, Concerto per flauto e orchestra [1960]; Malipiero, Concerto per flauto e orchestra [1968]; Mortari, Concerto per flauto e orchestra [1973]; Bucchi, Piccolo concerto per ottavino e archi [1973]; Pennisi, Arioso mobile per flauto o ottavino e orchestra [1981]; Pennisi, Eclisse a Fleri per flauto contralto, flauto basso e orchestra [1985]; Castiglioni, Cavatina per ottavino e orchestra [1988]), che ad un’altra topicità ci conduce, cioè quella dello strumento come tale. Per il che cade acconcio riflettere sopra i fasti dell’organo in Francia, tra animosa ricerca linguistica (Litaize, Jeux de rythmes; Messiaen, Livre d’orgue; Guillou, Jeux d’orgue) e orazione raccolta e scavata (Demessieux, Sept méditations sur le Saint-Esprit; Messiaen, Méditations sur le mystère de la Sainte Trinité; Langlais, Cinq méditations sur l’Apocalypse). 9 Howard Hawks, Bringing Up Baby (1938); Alfred Hitchcock, The Lady Vanishes (1938); Billy Wilder, Sabrina (1954); Robert Stevenson, That Darn Cat (1965); Charles Walters, Walk, Don’t Run (1966); Peter Bogdanovich, What’s Up Doc? (1972); John Landis, Trading Places (1983); James Foley, Who’s That Girl? (1987); John Turteltaub, While You Were Sleeping (1995); Nora Ephron, You’ve Got Mail (1998); David Mamet, State and Main (2000). 10 Ricorderò la piantina di geranio in Anna Maria Ortese (L’Infanta sepolta, I, 6, i), il temperino di madreperla in Gianna Manzini (Ritratto in piedi, II, 1+3) e consimili carabattole e cineserie in Natalia Ginzburg (Lessico famigliare, IV, 8) e Lalla Romano (Dall’ombra, II, 2, i).

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Gian Piero Maragoni

e ben oltre havvi un ordo fragmentorum inter se, e cioè architetture parziali che conformano brevi triforî11, alla generale seriazione subentrando dei ganglî centripeti (come appunto nel nobile Orsini12 le tre coppie di belle contrarie13) e il motivo, da narrema portato (nel racconto dell’opera tutta)14, convertendosi in narrema portante (cioè racconto minuto ed autonomo15), sullo sfondo di un poetare trasformato – con la scorta d’acustica e logica16 – e di un nuovo sentimento dell’intreccio quale fascio di fitte energie, alla stregua del lessico medesimo avvertito come agente e pulsivo17 (onde appunto il racconto diventa nelle mani di un mastro barocco meno forse un andare avanzando che non un procedere a raggiera, e assai meno un evento nel tempo che un’interdipendenza di azioni18, 11 V. Massimo Danzi, «Petrarca e la forma “canzoniere” fra Quattro e Cinquecento», in Lezioni sul testo, Brescia, La Scuola, 1992, 111-115 e Alessandro Martini, «Le nuove forme del canzoniere», in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, Roma, Salerno Editrice, 2002, 199, 209-210, 219, 221, 224; cfr. et Roberto Gigliucci, Capp. a «Giovanni Della Casa», in La lirica rinascimentale, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2000, 573 e Guglielmo Gorni, Capp. a «Pietro Bembo», in Poeti del Cinquecento, I, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, 43. 12 Rime diverse, I, 16-17/ 20-21/ 22-23. 13 Bella cittadina/Bella contadina, Bella savia/ Bella matta, Bella impudica/ Bella pudica. 14 Sul nesso fra tópov e diegesi cfr. Jacqueline Nacache, Il cinema classico hollywoodiano, ed. it. Genova, Le Mani, 1996, 25-26; Cosetta Saba, Alfred Hitchcock. La finestra sul cortile, Torino, Lindau, 2001, 34; Gianni Di Claudio, North by Northwest. PoliziescoNoir-Gangster Film-Spy Story-Thriller, Chieti, Libreria Universitaria Editrice, 2002, 19-21. 15 Cfr. (oltre a L’anima in Barocco. Testi del Seicento italiano, Torino, Scriptorium, 1995, XXXVI-XXXVII e a Giacomo Jori, Per evidenza. Conoscenza e segni nell’età barocca, Venezia, Marsilio, 1998, 113-114 e n. 21) Guido Arbizzoni, «La poesia del Seicento», in Storia della letteratura italiana. La tradizione dei testi, Roma, Salerno Editrice, 2001, 871-872. 16 Cfr. (oltre a Giorgio Bárberi Squarotti, «Bartolomeo Dotti: l’arte del sonetto morale», Rivista di letteratura italiana, XIX [2001], 1, 80 e a Luisella Giachino, «Dall’effimero teatrale alla quête dell’immortalità. Le rime di Isabella Andreini», Giornale storico della letteratura italiana, CXVIII [2001], 4, 533) Matteo Cerutti, «Logica e retorica nella poesia barocca. Alcune considerazioni in margine all’edizione delle Rime di Scipione della Cella», Critica letteraria, XXX (2002), 1, 33. 17 V. Marcello Durante, Dal latino all’italiano moderno, Bologna, Zanichelli, 1981, 187189 nonché Lucia Rodler, Una fabbrica barocca. Il «Cane di Diogene» di Francesco Fulvio Frugoni, Bologna, Il Mulino, 1996, 116-117 e Sergio Bozzola, La retorica dell’eccesso. Il «Tribunale della Critica» di Francesco Fulvio Frugoni, Padova, Antenore, 1996, 258; cfr. et Emilio Alarcos, «Los sermones de Paravicino», Revista de Filología Española, XXIV (1937), 3-4, 295 e Dámaso Alonso, «La lacerazione affettiva nella poesia di Quevedo», in Id., Saggio di metodi e limiti stilistici, ed. it. Bologna, Il Mulino, 1965, 383, n. 21. 18 Per qualche esempio antico di dislocazione spaziale e internamento temporale fra catene parallele di fatti si v. Senofonte, Anabasi, VI, 3 [fenomenale]; Polibio, Storie, VII, 17-18; Floro, Epitome, IV, 2, lxiv; Ammiano Marcellino, Storie, XXXI, 4, xi-xiii. 19 V. Marco Catucci, «Un romanzo di Francesco Belli», Sincronie, I (1997), 2, 219 e Martino Capucci, «Un romanzo di testa: le Fortune d’Erosmando e Floridalba di Prospero Bonarelli», Studi secenteschi, XL (1999), 115-117, e cfr. (oltre a Donata Ortolani, Potere e

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«Sogni e copule io fingo». Avventure secentesche del Petrarca onirico

prevalendo sviluppo su esito e funzione su suo rendimento19). Venendo adesso al sogno come tema20 (od anzi all’amata21 vista nel sonno), giustappunto vedremo in Petrarca un contegno di tipo sistemico, poiché alle liriche oniriche in vita [I, 249; 250; 251] numerose ne rispondono in morte [II, 282; 285; 302; 340; 341; 342; 343; 356; 359] distinguendosi le une

LAURA VIVA

LAURA MORTA

privazione (sanabile)

privazione (definitiva)

apparizione notturna come compenso (ma fuggevole e parziale)

apparizione notturna come garanzia della riunione avvenire

sogno come (incolpevole) remedium concupiscentiae 22

sogno come (adiuvante) pignus futurae gloriae 23

violenza nel romanzo italiano del Seicento, Catania, Pellicanolibri, 1978, 157; Donatella Riposio, Il laberinto della verità. Aspetti del romanzo libertino del Seicento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1995, 9; Lucinda Spera, Il romanzo italiano del tardo Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 2000, 147) Anna Maria Pedullà, «Per una semantica del romanzo barocco italiano», in Miscellanea di studi in onore di Raffaele Sirri, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1995, 347 e 354, e Monica Farnetti, «Il romanzo epistolare pseudo-orientale: alcune divagazioni sul Seicento italiano», in Miscellanea di studi in onore di Claudio Varese, Manziana, Vecchiarelli, 2001, 385. 20 Ci occuperemo qui del sogno narrato (o sogno come significante) anziché del sogno esperito (o sogno come significato, immemorabile e intransitivo: v. Giovanni Pozzi intervistato da Antonio Gnoli, «La Repubblica», 9 Giugno 2002, 33, col. 5 [e cfr. Simon Monneret, Il sonno e i sogni, ed. it. Milano, Sonzogno, 1993, 69 e Mauro Mancia, Sonno & sogno, Roma-Bari, Laterza, 1996, 119]). Per una più o meno generale tematologia letteraria del sogno si ricorra poi ad Albert Béguin, L’anima romantica e il sogno. Saggio sul romanticismo tedesco e la poesia francese, ed. it. Milano, Il Saggiatore, 1967 e Marco Hagge, Il sogno e la scrittura. Saggio di onirologia letteraria, Firenze, Sansoni, 1986. 21 Del motivo in parola pur si v. un esempio pederastico in chiaro (Beccuti, Rime, I, 5, xvii) e un trattamento in potenza omofilico (B. Tasso, Rime, I, 133) attraverso una doppia traiezione (ché all’amata sottentra un amato – e un amato dormiente, a chi sogna). 22 Cfr. Benito Pereyra S. J., Adversus fallaces et superstitiosas artes, id est, de magia, de observatione somniorum, et, de divinatione astrologica, Venezia, Ciotti, 1592, 158-159 con Der Traum offenbart das Wesen der Dinge, Milano, Mazzotta, 1991, 93-94 e Reading Dreams. The Interpretation of Dreams from Chaucer to Shakespeare, Oxford, Oxford University Press, 1999, 151. 23 Sul sogno come messaggio divino cfr. (oltre a Mariano Ballester, Meditare un sogno. Dimensione spirituale del mondo onirico, Padova, Messaggero, 1994 [I ed. 1989],

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dalle altre con criterio preciso e pregnante: Alla classe effusiva e patetica in cui rientrano i brani anteriori24 fa riscontro il genere spirituale delle visioni godute in appresso 25, i testi come plesso sincronico (composizione iuxta qualitates 26) evolvendo in testura orientata (disposizione percorsa da un verso): i. ii. iii. iv.

Apparizione dell’amata durante la notte. [II, 282] Discesa dell’amata dall’Empireo. [II, 285] Elevazione dell’amante al terzo cielo. [II, 302] Il poeta si querela con l’amata perché più non lo visita e la prega di tornare a soccorrerlo. [II, 340] v. Il poeta gioisce del fatto che l’amata sia tornata a lui, e l’amata rinnova le sue consolazioni e motiva la sua precedente latitanza. [II, 341] vi. Accadimento in sogno come subìto dall’amante (che dall’amata è carezzato con tenerezza ed ammaestrato con esortazioni). [II, 342] vii. Accadimento in sogno come subìto dall’amata (che ascolta l’amante e si commuove). [II, 343]

L’appena riassunta coalescenza ripartire si può come segue: i.

= Positio thematis 27.

ii. iii.

= Iniziativa dall’alto. = Risposta dal basso.

iv. v. vi.

= Assenza. = Avvento. = Comunione per contatto.

25-31 e ad Antonio Gentili e Anna Maria Vacca, Te i nostri cuori sognino. Per un’arte cristiana del sognare, Milano, Àncora, 1994, 42) Steven F. Kruger, Il sogno nel Medioevo, ed. it. Milano, Vita e Pensiero, 1996, 94. 24 Cfr. Mario Fubini, «Il Petrarca artefice», in Id., Studi sulla letteratura italiana del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1947, 8-9. 25 Cfr. Paul R. Olson, «Two Sonnets of Heavenly Vision», Italica, XXXV (1958), 3, 159 e Mario Petrini, La risurrezione della carne. Saggi sul «Canzoniere», Milano, Mursia, 1993, 16. 26 Per la quale scrutiamo affiancarsi (con legame discreto ma saldo) correlazione in stretta adiacenza: [I, 249] visione dell’amata (riveggio, 5.) [I, 250] amata in sogno (vista, 2.) [I, 251] visione dell’amata (visione, 1.) e richiamo a distanza in contrarium: [I, 216] notte infelice [I, 250] notte gratificante 27 Prima ricomparsa del motivo a morte di Laura avvenuta, ad esso non pertenendo certo le epifanie diurne del blocco [279, 280, 281].

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«Sogni e copule io fingo». Avventure secentesche del Petrarca onirico

vii. = Comunione per dialogo.

sicché in vero si assiste a un crescendo ([282] [285, 302] [340, 341, 342, 343]) materiato di tre microstorie, delle quali l’ultima – a tetrade – studiatissima in proprî epicicli: iv.-v. = Escursione nel rapporto fra i partners (dal distacco angoscioso al letificante ritrovarsi). vi.-vii.= Ribaltamento nel ruolo degli amasî (l’amata interviene sull’amante – l’amante interviene sull’amata) e mutazione degli effetti reciproci (Francesco non trattiene le lacrime e ne è dissuaso da Laura – Laura apprende le lunghe pene di Francesco e ne è toccata fino a piangerne).

Relazioni remote e nascoste cerno invece più oltre nel libro [343, 356, 359], giusto al modo di rampe lanciate dall’ancor combattuto decorso [343, 356] sino al termine quieto e glorioso [359] della storia di un’anima anela: il sonetto 356 si connette al 343 dipanando su scala diversa28 il tenore di una sua frazione (11.), mentre la terzultima canzone [359] proprio presso l’annuncio di salvezza (66.) di 356 doppia l’explicit con le sue coincidenze29. Tutto muta con Tasso e Marino, perché il primo dirotta l’onirico da evasione e leniente vacare a conquista efficace e completa30, mentre l’altro congela il motivo e lo svuota (o assottiglia) da dentro riducendolo a bluff autoerotico od a sacre dello stato passivo31. È in tal modo che il nostro stereotipo nel seriore Seicento si assesta, travestendosi infine da immagine di amoroso soddisfacimento. Qualche esempio ne osserverò ora in cui stile e racconto si

28 Si consideri: tempo ab extra (cronografia del momento del sogno: 4.+13.); tempo ad intra (cronologia dei fatti narrati nel sogno: 5.+8.); svolgimento della visione nel sonno, dal suo inizio (2.-3.) al suo culmine (9.-11.) e al suo svanire (14.). 29 Tra fine del discorso del poeta, fine della visione e fine del sonno. 30 Rime, I, 1, xxix. 31 Cfr. gl’imperscrittibili rilievi di Alessandro Martini, in Giovan Battista Marino, Amori, Milano, Rizzoli, 1982, 160-166. V. et (oltre a Giorgio Ficara, Solitudini, Milano, Garzanti, 1993, 157 e ad Ezequiel de Olaso, «Giocare sul serio», Paradigmi, XIII [1995], 2, 209) Francesco Guardiani, «Oscula mariniana», Quaderni d’italianistica, XVI (1995), 2, 199; Vincenzo Guercio, «Ancora sui “baci di carta”: Marino, Guarini, Fenaruolo», Studi italiani, XII (2000), 2, 12; Quinto Marini, Frati barocchi. Studi su A.G. Brignole Sale, G.A. De Marini, A. Aprosio, F.F. Frugoni, P. Segneri, Modena, Mucchi, 2000, 29.

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impigliano, per il che mi si voglia concedere di interporre una pausa o parentesi. Nell’approccio ad un certo stilema si dovrà tener conto senz’altro della sua varia latitudine quanto a tempo32 spazio33 contesto34, e di un munus forsanco assegnatogli in ragione di tutto il narrato35. Così un quid del linguaggio o espediente, anziché da ornamento aggiuntivo, pare offrirsi da fonte primaria sull’essenza genuina di un passo. In Keller36, un fottìo di correlati e paralleli matura in emblema di sordida grettezza: […] denn war Jobst fleissig und genügsam, so war Fridolin tätig und enthaltsam [...] war aber Jobst heiter und weise, so zeigte sich Fridolin spasshaft und klug; war jener bescheiden, so war dieser demütig, jener schlau und ironisch, dieser durchtrieben und beinahe satirisch [...]

In Chamisso37, la censura dell’arida mondanità emerge non tanto dalla lettera del discorso quanto dalla sua stessa configurazione (incarnata in un’antimetatesi, vera icona di fatua bêtise):

32

V. la pluralizzazione degli astratti in taluna prosa primo-novecentesca: «[…] pareva denunziare trepidazioni […]» (Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, I, 5); «[…] ogni collera […]» (Primo Levi, Se questo è un uomo, I); «[…] di attenzioni e paure […]» (Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, I). 33 V. il comincio di periodo col soggetto post-verbale presso alcuni più recenti siciliani: «Parlava, parlava il Maniforti […]» (Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, IV); «Prevalgono le fantasie […]» (Carmelo Samonà, Fratelli, III); «Intanto quieta quieta veniva giù di nuovo la pioggia.» (Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, XVI); «Avanzava infine l’ipotesi […]» (Andrea Camilleri, La mossa del cavallo, IV). 34 V. e.g. la tergeminazione nel vasto dominio delle scritture religiose: «[…] de corde puro, et conscientia bona, et fide non ficta.» (1 Tm 1, 5); «[…] et causa subsistendi et ratio intelligendi et ordo uiuendi […]» (S.Agostino, De civitate Dei, VIII, 4); «[…] alacri animo, devota mente attentisque auribus […]» (Desiderio di Montecassino, Dialogi de miraculis Sancti Benedicti, I, 9, ii); «Phariseos confutauerat. Saduceis satisfecerat. Scribas redarguerat.» (S. Thomas More, De tristitia Christi, [I, 15]); «[…] el que sigue el deleyte y el que anhela a la honra y el que brama por la vengança […]» (fray Luis de León, De los nombres de Christo, II, 3, iv). 35 Come ad un Aquí anaforico in un esordio di Tirso de Molina (El condenado por desconfiado, i, 1, 43. sgg.), che con epiboli di altri non fa razza (da Ruiz de Alarcón [La verdad sospechosa, i, 11, 23. sgg] a Calderón de la Barca [El medico de su honra, ii, 16, 603. sgg.]) perché proprio arrovescia – evocandolo – lo speciale sembiante che il qui in anafora sembra esibire presso tanta poesia pastorale. 36 Die Leute von Seldwyla, I, 4, vi. 37 Peter Schlemihls wundersame Geschichte, I, 3.

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«Sogni e copule io fingo». Avventure secentesche del Petrarca onirico

[…] man sprach zuweilen von leichtsinnigen Dingen wichtig, von wichtigen öfters leichtsinnig [...]

In Storm38, un impeccabile ordinamento di fulminee pointes descrittorie (congiuntive eppur separative [stessa parte del corpo tra molti]): (A) (B) (C) (D)

[...] mit seinen grellen runden Augen. [...] ihre kleinen blöden Augen [...] [...] und blinzelten ihn schläfrig aus halbgeschlossenen Augen an. [...] mit ihren kleinen blanken Augen [...]

FEROCIA

OTTUSITÀ

UOMINI (A) occhî di Bulemann

ANIMALI (C) occhî dei gatti

(B) occhî della serva

(D) occhî dei topi40

già è una forma di schietta esegesi sugli attori del pravo morceau, cioè una sorta di commento al racconto con i mezzi del racconto medesimo 39: Presso il nostro Seicento poetico il cliché degli amori sognati è guidato – qual fabula felix – dall’antitesi a mo’ di sintagma: si suppone difatti una veglia tribolata o comunque scontenta, e si finge per essa un ristoro negl’illuTRAVAGLIO VISSUTO

A ama B, però non ne è corrisposto.

] ]

--/ --/

[ [

SOLLAZZO SOGNATO

A ama B, e ne è giocondato.

38

Geschichten aus der Tonne, II (1; 2; 4 ii; 4 iii). Cfr. Luciano Berio, in All. a Erato E.C.D. 88151, Paris, 1986, col. 2. 40 Parrà ora che abbiamo ecceduto nell’esporre illustrare chiarire, eppure, come la verace didassi non può prescinder dalla scienza più seria (cfr. Gianfranco Folena, Filologia e umanità, Vicenza, Neri Pozza, 1993, 274), così, anche la più alta cultura spesso accede e si umilia a splanare (cfr. Alfredo Stussi, Tra filologia e storia, Firenze, Olschki, 1999, 241). 39

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si fantasmi del sonno: Nondimeno, taluni scrittori (del Sud tutti, almenanco in origine) si misuran con quello stereotipo surrogando all’antitesi in moto una specie di astuta conferma (e cioè un negare il negato): (1) o perché il sogno è invocato, ma è dubbio se mai arriverà (Bruni, Or che da le native orride porte; Artale, Quando il sol dorme in mare); (2) o perché, pur arrivando, porta dolore anziché gioia: (a) o in quanto affliggente e tormentoso (Basso, Chi m’insidia i riposi); (b) o in quanto ingannevole ed effimero (Stigliani, Colla man bianca; Balducci, D’eccelsa pianta).

Principiamo dal destro Stigliani e dal suo novellare troussé: Colla man bianca avvolta al bianco crine L’Alba amorosa il suo Titon destava, E già ‘l freno a’ corsier Febo lentava Fuor delle salse uscendo acque marine; Quand’io con luci anco velate e chine Tra la vigilia e ‘l sonno incerto stava; Ed ecco Amor, che sovr’un carro andava D’umane squadre cinto e di divine, «S’io vincer la tua Donna unqua non posso, Or tu, tu soffri il proprio e altrui tormento.» Disse, e di strai scoccommi un nembo addosso. Ben io tutt’altro, ombre fallaci e vento, Conobbi, poiché fui dal sonno scosso; Ma non le piaghe, oimè, che vere sento41.

Il sonetto si mostra al lettore come – insieme – sontuoso e premente. Affettuosa e ambiziosa è non poco la quartina di avvìo e segnale (con la doppia lunetta di miti, specialmente espansiva al suo inizio [«man BIANCA avvolta al BIANCO crin – Alba amorosa – suo Titon»]), ma corrente è poi tutto il processo degli snodi disposti nel tempo, a ciascuno venendo elargito un suo kit di morfemi o di avverbî: 2. […] destava,

41

fase statica e ingressiva (con simultaneità tra vicende [3.a/

Canzoniero, Roma e Venezia, Deuchino, 1625, 31.

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3. E già […] lentava 5. Quand’io […] 6. […] stava;

5.a] e aspetto di durabilità [2.w, 3.w, 6.w])

7.a Ed ecco Amor […]

svolta ex abrupto

7.w […] che […] andava transizione retrospettiva (al tempo del decorso continuo) 11. Disse, e […] scoccommi […] 13.a Conobbi […]

aspetto di puntualità (al passato remoto attivo)

13.w […] fui […] scosso; aspetto di perfettività (al passato remoto passivo) 14. […] sento

transizione prospettiva (al tempo dell’attualità)

Ebbene, il volto del componimento così come ci siamo studiati di finora avvisarlo e fissarlo è a puntino riassunto in un suo stilema (che assurge – quindi – esso stesso a eloquente funzione del racconto tutto intero), vale a dire l’implexio verborum – in tre stichi finali di strofa –: 4. Fuor delle salse (B) uscendo (A) acque marine (C); 8. D’umane (B) squadre (D) cinto (A) e di divine (C), 11. Disse, e (A) di strai (E) scoccommi (B) un nembo (D) addosso (C).

cioè una messe di linee e di curve (columelle, o altrettali tracciati 42) non men dense di sforzo e violenza che di un piglio pomposo e grand-chambre. Passiam quindi a Francesco Balducci ed al suo repertorio di acumi: D’eccelsa pianta, a la cui guardia stassi, Quasi Drago vegghiante, Honor tiranno, Pareami in sogno, dopo lungo affanno, Posar disteso a l’ombra i membri lassi. E de’ suoi pomi, a cui simil non dassi Frutto altro in terra, ristorava il danno Del mio digiun, che giunge al settim’anno, Da che volsi a’ suoi rami avido i passi. Favo, che mandi a noi la piaggia Iblea, Zuccar di Cipro, o di Croton la manna, Tosco al dolce, c’hebb’io, sembrar potea.

42

Un ricciolo, in 4.; una podaria del cerchio, in 8.; una mortasa e un tenone addentati,

in 11.

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Ma ‘l bene in sogno hora vegghiando affanna La mente: ahi d’empio Amore usanza rea! Gioia porger non sa, se non inganna43.

Quella che ritraiamo dal sonetto è una curiosa e ingegnosa impressione, quasi si trattasse di una favola o di un tale d’avventure e magie. Senza dire di coup d’oeil o carattere del paesaggio con attante silente44, rimarchevole deve apparirici il progresso del carme, in parcelle: i. ii. iii. iv. v. vi. vii. viii.

Pareami [3.a] --------------------- 4 Dopo lungo affanno [3.w] ------ 3 ristorava [6.] ---------------------- 5 giunge [7.] ------------------------ 2 volsi [8.] -------------------------- 1 hebbi [11.a] ----------------------- 6 potea [11.w] ---------------------- 7 affanna [12.] ---------------------- 8

È possibile infatti osservare nel complesso dei varî segmenti non soltanto un profilo diegetico per anfratti45 e ritorni all’indietro46, ma eziandio il delicato trompe-l’oeil dei ben quattro presenti fittizî (non di certo situanti nel tempo, sì ipotetici [9.], aoristici [1.] o gnomici [5., 14.]). E stavolta altresì, il racconto e la morfologia che gli è propria – con sue bugne e suoi golfi, a marezzo – si compendia in dettaglî di stile, quali i fatti di ordo e sintassi (fra sinuosi, svagati e sbiadenti) annidati nel cuor del dettato e operosi nel crearne la tinta. Sarà dunque un genitivus instrumenti seceduto dal suo proprio predicato [5.-7.]: E de’ suoi pomi, a cui simil non dassi Frutto altro in terra, ristorava il danno Del mio digiun […]

o sarà l’avverbializzazione dell’aggiunto merce’ oculato e peregrino infissamento [8.]: Da che volsi a’ suoi rami avido i passi. 43

Rime, Roma, Facciotti, 1630, 65. Il vegetale ombroso e fruttifico (1.+4.+5.) è un esempio di albero fatato, tanto quanto il custode minace (2.) si presenta da mostro rivale; e anche il rango elativo insistito (1.a, 5.w-6.a) vale infine da tratto fantastico. 45 L’analessi prossima di ii. 46 L’analessi mediana di iv. e l’analessi remota di v. 44

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«Sogni e copule io fingo». Avventure secentesche del Petrarca onirico

o sarà pure un’innocua omissione («bene [goduto] in sogno» [12.]) che eleva ad attributo (*«bene sognato») il complemento («bene in sogno»). Ed in tema di arguti contracambî, come invero non potere notare [9.-10.]: Favo, che mandi a noi la piaggia Iblea, Zuccar di Cipro, o di Croton la manna,

le antitoponomasie laconiche (tra proverbio e leggenda golosa: quasi storie amenissime in nuce imbustate in un più ampio récit) per cui la narrazione vien cangiando da rapporto su una folta trafila – e sui momenti nei quali consiste – in mera nominanza dei suoi estremi, ed al cinquecentesco implemento della nuda facezia in novella47 segue la barocca metamorfosi dell’evento in atto di parola48? Ed è sempre il tópov dell’amata disponibile in sogno al suo amante che invigila ad un altro spostamento progressivo del piacere (del testo). Si badi infatti a quest’ultimo sonetto dell’urbinate Giovan Battista Pucci: De la pallida morte oscura imago, Sonno, che spesso entro al silentio e l’ombra, Quando l’orror notturno i sensi ingombra, Fai di futura gioia un cor presago; Fatto, credo a mio pro, Pittore o Mago, Pinto hai quel volto, cui non sdegno adombra, Finto hai quel bel, che gli orror ciechi sgombra, E reso il cor di tanta luce hai pago. Ne l’imagin di morte ombra di vita Scorsi in mirar quel simulacro pio, Ch’ora sol mi tien l’alma al petto unita.

47

V. Marziano Guglielminetti, «La novella del Cinquecento», in Per Giancarlo Mazzacurati, Roma, Bulzoni, 2002, 88; Favole parabole istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 2000, 559-560; Rinaldo Rinaldi, «Per la novella manierista», in Id., Le imperfette imprese. Studi sul Rinascimento, Torino, Tirrenia, 1997, 316 (e cfr. Franco Pignatti, «La novella esemplare di Sebastiano Erizzo», Filologia e Critica, XXV [2000], 1, 55-56; Fulvio Pevere, L’ordine della retorica. La riscrittura del mondo nelle novelle di Maiolino Bisaccioni, Torino, Tirrenia, 1998, 14-15; Bruno Porcelli, Struttura e lingua. Le novelle del Malespini e altra letteratura fra Cinque e Seicento, Napoli, Loffredo, 1995, 15). 48 Cfr. M. Antonietta Cortini e Luisa Mulas, Selva di vario narrare. Schede per lo studio della narrazione breve nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2000, 34 e «Leggiadre donne…». Novella e racconto breve in Italia, Venezia, Marsilio, 2000, 48.

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Beata vita havrò se fia mai ch’io, Qual lo scoperse al cor l’ombra gradita, Veggia nel chiaro dì l’Idolo mio49.

Qui il cospetto notturno che appaga vien costretto a implicare un passaggio dal sogno come metafora (in quanto fedele allegoria [1.]) al sogno qual metonimia (in quanto arra [8.], promessa [4.] ed augurio [12.-14.]); e quel che ciò comporta in un secolo deliziato da totum pro parte 50 come pur da materia pro opere 51, sel vedrà facilmente ciascuno.

49

In Raccolta di sonetti d’autori diversi, & eccellenti dell’età nostra, Ravenna, de’ Paoli e Giovannelli, 1623, 102. 50 Cfr. Denise Aricò, «Anatomie della “dissimulazione” barocca. (in margine all’Elogio della dissimulazione di Rosario Villari», Intersezioni, VIII (1988), 3, 566 e 571. 51 Cfr. Carlo Ossola, «“Homo inchoatus, homo perfectus”: figure dell’abbozzo in età barocca», Lettere Italiane, LIII (2001), 3, 341.

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Clizia Carminati PETRARCA NEL RITRATTO DEL SONETTO E DELLA CANZONE DI FEDERIGO MENINNI*

Pindaro e Francesco Petrarca dipinti in un quadro Cinti d’allor le chiome finse dedalea mano col Tosco antico cigno, anco il Tebano; tu, che in Cirra innalzar brami il tuo nome, mirali di lontano: se del castalio rio l’onda chi beve l’uno imitar non può, l’altro non deve. (F. Meninni, Le maraviglie poetiche, 1705)

Il ritratto del sonetto e della canzone di Federigo Meninni costituisce un capitolo per più versi singolare della fortuna del Petrarca nel Seicento. È, innanzitutto, un trattato; e un trattato interamente dedicato alla lirica, anzi alle sue due forme più illustri, il sonetto e la canzone: un testo, dunque, che non avrebbe in alcun modo potuto prescindere dal Canzoniere, né dalla codificazione che quelle forme avevano ricevuto nel Canzoniere e dopo il Canzoniere; e, allo stesso tempo, un testo in cui, per la sua stessa natura, la posizione dell’autore nei confronti del Petrarca è espressa in forma esplicita, e non in veste di memoria poetica. Anche la posizione cronologica del libro è strategica: il trattato, infatti, è pubblicato nel 1677 e scritto non molto tempo prima. Raccoglie, dunque, quasi interamente l’arco cronologico dell’espe* Ringrazio per i preziosi consigli Eraldo Bellini, Matteo Cerutti, Davide Conrieri, Alessandro Martini.

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Clizia Carminati

rienza poetica del marinismo, costituendone l’espressione, il suggello e forse il canto del cigno; e, per quanto riguarda la canzone, tiene conto degli esiti del classicismo barocco. È di conseguenza un punto di osservazione molto vantaggioso per determinare la posizione che Petrarca assunse nella teoria e nella prassi poetica del Seicento, o almeno della poesia che comunemente definiamo barocca. Quest’ultimo rilievo non è di passaggio: un elemento che merita attenzione e che è di per sé assai eloquente è la presenza, esattamente negli stessi anni e negli stessi luoghi (Napoli), di una poesia che cercava di abbandonare il cammino aperto dal Marino, e proprio nel nome di Petrarca. Penso, in particolare, ai convincimenti di poetica e alla produzione lirica di Carlo Buragna, che muore poco dopo la pubblicazione del Ritratto e ben prima del Meninni, lasciando una raccolta postuma, pubblicata nel 1681, saldamente ancorata al modello petrarchesco. O ancora, a Pirro Schettini, e alle perplessità che cominciava a nutrire Antonio Muscettola, amico e protettore del Meninni e di Giuseppe Battista, in una polemica in versi proprio col Buragna1. Insomma, il Meninni è un portavoce di parte: ma di quella parte è portavoce senza ripensamenti. Egli testimonia del lungo cammino che aveva seguito, lungo il secolo, la poesia nata col Marino e dunque già polemicamente antipetrarchista2: in un certo senso, la posizione del Meninni nei confronti del Petrarca è l’ultimo termine dell’antipetrarchismo marinista, e forse l’espressione più radicale di esso. In quest’ottica, il recupero di Petrarca da parte di poeti coevi come il Buragna, e della prearcadia e dell’Arcadia poco dopo, appare poco sorprendente e anzi giustificato: fors’anche, in quel momento, l’unica possibilità di staccarsi da un’idea della poesia che aveva indubbiamente fatto il suo tempo, almeno per quanto concerne il sonetto perché, come si vedrà, il discorso è diverso per la canzone. La breve storia della poesia lirica che il Meninni disegna nei due Ritratti è sorretta dalla convinzione del progressivo perfezionamento della poesia lungo i secoli: Nella lirica il primo tempo di perfezione cominciò nell’anno 1350 del Petrarca, il secondo nel 1550 di Luigi Tansillo, di Angelo di Costanzo, di Antonio Ongaro; e l’ultimo intieramente perfetto nel 1600 di Giovan Battista Marini e d’altri de’ quali furono le rime impresse insino all’anno 1648 3. 1

Su questi personaggi cfr. A. Quondam, Dal Barocco all’Arcadia, in Storia di Napoli, Napoli, Società Editrice Storia di Napoli – Edizioni Scientifiche Italiane, 19812, vol. IX, pp. 9-29. 2 Cfr. A. Martini, Marino postpetrarchista, «Versants», 1985, n. 7, pp. 15-36. 3 Traggo tutte le citazioni dall’edizione da me curata di F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, Lecce, Argo, 2002. La presente è a p. 56.

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Petrarca nel Ritratto del sonetto e della canzone di Federigo Meninni

Per la canzone (cap. XVII, pp. 263-271) la scansione cronologica è parallela: Petrarca rappresenta il «primo tempo», Fulvio Testi l’epoca di massima perfezione. Tra i due, la novità, e cioè proprio l’abbandono del modello petrarchesco, incomincia con Bernardo Tasso (unico poeta cinquecentesco nominato) e viene meglio interpretata da Gabriello Chiabrera. La medesima convinzione sostiene il trattato in ogni sua parte: nei capitoli sul confronto tra forme poetiche antiche e moderne, nei ‘medaglioni’ dedicati ciascuno a un autore e, quel che più conta, nei capitoli dedicati all’esemplificazione retorica, cioè nel vero e proprio ‘manuale’. In ciascuna di queste parti Petrarca è tanto presente da risultare, ad indicem, l’autore più spesso citato. In ciascuna di esse, dunque, cercherò di mostrare il ruolo che egli viene ad assumere: e cioè, che cosa si dice di Petrarca e dell’imitazione di Petrarca, come vengono impiegati i commenti al Canzoniere, quali componimenti sono citati e come. Le due ‘schede’ su Petrarca inserite nei capitoli sulla storia della poesia lirica, composti appunto di ‘medaglioni’ ciascuno dedicato a un autore, sono identicamente strutturate. La parte descrittiva per il sonetto si apre nel nome e nell’umore di Alessandro Tassoni (Petrarca «non fu osservato senza macchie» ed «è basso non poco in alcuni versi, in altri è più tosto prosatore che versificatore»; i sonetti «vanno accoppiati, un tristo ed un buono, come polli di mercato»; le rime «servono per empire il verso»4); per la canzone (p. 263), al contrario, la lode è incondizionata (ancora sulla scorta del Tassoni, secondo il quale proprio le canzoni avevano reso il Petrarca «poeta grande e famoso»: ma su questa lode dovremo tornare). Entrambe le schede, poi, elencano gli imitatori del Petrarca, giungendo a conclusioni simili: Ebbe il Petrarca moltissimi seguaci, e oggi giorno non vi mancano di quei che vantano d’imitar la sua maniera; ma posso ben dire con quel festivo ingegno di Nicolò Franco in una lettera, che «vi vuol altro che falde di neve, pezze d’ostro e collane di perle, altro che smaltar fioretti, adacquar erbette, frascheggiar ombrelle e nevicare aure soavi, per sonettizzare alla petrarchesca». Non basta solo l’usar voci e frasi proprie, «cominciare e finire come comincia o finisce un sonetto del Petrarca», per acquistar quel credito ch’ei s’acquistò con l’aria del suo poetare. Odasi quel che di vantaggio soggiunge un satirico moderno: «sono anche oggi fra noi alcuni secchi cervelli, le cui poesie paiono scheletri; perché non v’è né immagine, né polpa; dicono di seguire lo stile del Petrarca: ma, o non sanno imitarlo, o non devono. Non sanno imitarlo, perché ne prendono la

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Ritratto, pp. 57-58; e cfr. A. Tassoni, Considerazioni sopra le Rime del Petrarca, Modena, Cassiani, 1609, p. 207.

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purità, non i candori; la natura, non l’artificio; la materia, non la forma, e imparano nel suo passeggiar poetico l’andamento dei piedi, non l’aria del volto. Non devono imitarlo, perché la virilità del nostro secolo non più discepolo in quest’arte come quell’era, appetisce forme più maestose e più scaltre. Quanto però si è detto ha forza contra coloro che infelicemente affettano lo stile petrarchesco; sapendo io per altro che vi sieno ingegni nobilissimi a’ quali riesce il farlo con molta lode, conforme gli ho ammirato più volte». (Sonetto, p. 60) Il Petrarca ebbe tanti seguaci quanti furono i poeti che scrissero fin al principio del nostro secolo [...].Con tutto ciò dicasi pure con Ovidio Laudamus veteres, sed nostris utimur annis. Sono molti, è vero, che lodano più le canzoni del Petrarca, che de’ moderni, ma può ben dirsi con Marziale: Laudant illa, sed ista legunt. Né vi manca chi giudica non improbabilmente che del Petrarca possa dirsi quel che Orazio soleva dire di Lucilio: Si foret hoc nostrum fato delatus in aevum detereret sibi multa, recideret omne quod ultra perfectum traheretur. Altri lodano fortemente gli antichi, ma non lasciano di ammirar i moderni, dicendo con Plinio lib. 6 ep. 21: «Sum ex iis qui mirer antiquos; non tamen ut quidam temporum nostrorum ingenia despicio. Neque enim lassa, et effeta natura; ut nihil iam laudabile pariat». Avvisa Tacito nel libro terzo degli Annali: «Nec omnia apud priores meliora, sed nostra quoque aetas multa laudis, et artium imitanda posteris tulit». Né lasciano d’apportar l’autore De oratoribus: «Non desinis Messalla vetera tantum, et antiqua mirari, nostrorum autem temporum studia arridere atque contemnere». E Pindaro a proposito: Lauda autem vetus quidem vinum; flores vero hymnorum recentiorum. (Canzone, pp. 264-265)

Sulla scorta delle autorità citate in questi passi, il Meninni si inserisce in una lunga serie di difensori dell’«oggidì», dal Tassoni stesso, del quale è citato altrove il Paragone degl’ingegni antichi e moderni (Pensieri X, 14: pagina 55), all’Abati, il «satirico moderno» cui appartiene la citazione contenuta nel primo passo, sino al Frugoni, che farà sue argomentazioni molto simili nel Tribunale della Critica 5. 5 Per Tassoni cfr. l’ed. dei Pensieri e scritti preparatori, a c. di P. Puliatti, Modena, Panini, 1986, pp. 869-870. La citazione di A. Abati proviene dal «fascio secondo», Poetastri d’Efeso, e loro forme delle Frascherie, Venezia, Matteo Leni, 1651, pp. 215-216. Sulla posizione del Frugoni cfr. la mia introduzione al Ritratto del sonetto e della canzone, pp. LIII-LIX e passim.

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Petrarca nel Ritratto del sonetto e della canzone di Federigo Meninni

Come la superiorità, così anche la differenza stilistica dei moderni rispetto agli antichi è spiegata dal Meninni. Per il sonetto ciò avviene nel capitolo X, nel quale l’autore, per dimostrare come lo stile nei sonetti si sia «perfezionato di tempo in tempo», «pone sotto gli occhi» una serie di sonetti perfettamente rispettosa della serie delle tre epoche citate poc’anzi: cinque sonetti sulla gelosia (Petrarca, Casa, Tansillo, Tasso, Marino); cinque sonetti in morte di donne (Petrarca, Rota, Tansillo, Marino, Brignole Sale); due sonetti di stile umile (Petrarca e Marino), tre di stile temperato (Petrarca, Tansillo, Marino), cinque di nota sublime (Petrarca, Tansillo, Marino, Achillini, Paoli, ove si noterà la presenza quantitativamente maggiore dei moderni, che, nel trattato, sono soprattutto meritevoli di aver praticato lo stile grave e sublime, che è ovviamente superiore agli altri). Alla fine di questa esemplificazione, tutt’altro che priva di interesse6, il Meninni conclude: Da’ componimenti addotti degli antichi e de’ moderni autori può chiaramente vedersi che gli antichi hanno purità di locuzione, candor di stile, gravità di sentenze con affetto e proprietà di parole; ma sono secchi, senza molta vaghezza, privi quasi di spirito, e freddi, particolarmente nelle conchiusioni de’ sonetti, non senza qualche languidezza di versi. I moderni allo incontro hanno metafore, traslati nobilissimi, vivacità di pensieri, vaghezza d’erudizioni, versi grandi, e armonia che corre, e che tal volta ha qualche ritegno che la raffrena; onde la toscana poesia, ch’era dianzi acerba, oggi è ridotta a tal perfezione. (p. 55)

Analogamente, nella scheda su Petrarca, il Meninni afferma, a proposito dello stile, che il Petrarca «è molto più sentenzioso e patetico de’ suoi antepassati, ed anche de’ moderni, ma ha meno di furore, e quasi nulla d’arguzia rispetto a’ moderni» (p. 59). Si tratta di affermazioni esattamente parallele a quelle sopra riportate dell’Abati: è, il Seicento, un secolo più «virile», che appetisce forme «più maestose e più scaltre». Nel Ritratto della canzone il capitolo XVIII è intitolato Della differenza ch’è fra le canzoni antiche e fra le moderne e costituisce di fatto, e ciò è già significativo, un commento retorico alla canzone Serenata all’uscio di Cinzia di Fulvio Testi. Ecco come si apre il capitolo: Da quanto si è detto dal capitolo della locuzione fino a questo […] manifestamente si vede la differenza ch’è tra le canzoni degli antichi e de’ moderni; e per maggior chiarezza dico che la principal differenza sia l’aria, non senza ragione

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Cfr. in particolare il primo caso, in cui ai sonetti sulla gelosia si affianca, del Petrarca, il sonetto Amor, che ’ncende ’l cor di ardente zelo, R.V.F. 182.

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avendo detto il Testi a’ lettori delle sue liriche poesie: «chi torrà la penna in mano per comporre a quest’aria incontrerà per avventura più difficoltà di quello che a prima faccia si persuadeva». […] Così l’antiche possono chiamarsi petrarchesche, le moderne o pindariche o pure oraziane. Di più le canzoni del Chiabrera, del Cesarini, del Ciampoli, ma di costui non tutte, e quelle del Testi particolarmente non hanno quella tessitura di stanze lunghe, come l’antiche, le quali giungevano a’ versi venti lo più delle volte. Quelle sono più patetiche, o sentenziose ed ideali; queste più amene, più piene di vivacità, e più famigliari. Quelle non hanno versi numerosi, e queste sì. Sono quelle per lo più narrative, e s’hanno figure, o sono rare, o pure languidamente spiegate; queste arricchite di concioni, di varietà e vivacità, di figure, di traslati e d’altri tropi. Qui si fan digressioni e concioni, e là di raro o non mai. L’antiche esprimono per lo più amori, e le moderne per lo più concetti morali tratti da una varietà grande di erudizioni. In quelle è il comiato, ed in queste mai no. (p. 271)

Conviene soffermarsi brevemente sulla canzone, prima di tornare all’esemplificazione petrarchesca per il sonetto. Il commento appena letto è, come si vede, assai meno umorale del corrispondente commento sulla superiorità dei sonetti moderni. Più che il perfezionamento di un modulo antico, è visibile in questo passo, che riassume il cammino di tutto il Ritratto della canzone, una diversità sostanziale tra la canzone petrarchesca e quella moderna, giunta a perfezione con il Testi passando per Bernardo Tasso e per Chiabrera. Questa diversità è sì metrica e retorica, ma anche e soprattutto di contenuti: amorosi quelli della canzone antica, morali «tratti da una varietà grande di erudizioni» quelli della canzone moderna. L’origine di tale differenza è ricondotta (correttamente) dal Meninni alla scelta di modelli diversi dal Petrarca: Bernardo Tasso, di cui si cita la dedicatoria agli Amori, fu il primo a uscire dalla maniera del Petrarca, ma soltanto «nell’ode e negli inni», rivolgendosi, per «accrescer vaghezza» alla poesia toscana, alle «muse greche e latine»; Chiabrera, allo stesso modo, trasportò «da Ippocrene all’Arno le ricchezze per lungo tempo lasciate nella Grecia», riuscendo a far «tralasciar da parte le canzoni petrarchesche» e correndo per primo «l’arringo della pindarica imitazione». Impresa condotta a perfezione, secondo il Meninni, dal Testi, che, oltre a Pindaro, potenzialmente foriero di oscurità, «si tolse per guida» Orazio. Proprio al Testi risale un sostanziale mutamento nei contenuti: egli lasciò «quei concetti metafisici e ideali di cui sono piene le poesie italiane» provandosi a «spiegare cose più domestiche», «con affetti più familiari» (e qui i numi tutelari sono i poeti elegiaci latini). Nelle schede successive, il nome di Petrarca non compare più: il successo degli altri poeti di canzoni si misura sulla capacità di imitare «l’aria del Testi»7. Questa distinzione porta 7

Coerente a questi convincimenti è l’attività poetica del Meninni. Si veda, a esempio, quanto scrive Baldassarre Pisani nella prefazione alle canzoni del Meninni: «nell’aria delle

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con sé una profonda diversità stilistica, tanto che i moderni compongono quasi soltanto nello stile sublime. Il raffronto con lo stile petrarchesco, a questo proposito, risulta assai eloquente: Benché lo stile si divida in umile, in temperato, ed in sublime, ond’altri vuole che ’l Petrarca nella canzone Se ’l pensier che mi strugge; Chiare, fresche e dolc’acque usato avesse la nota umile, appresso il Chiabrera, il Ciampoli ed il Testi nelle loro canzoni questa nota umile io non osservo, mentre sono per lo più della nota sublime. Anzi potrebbe alcuno negare che le canzoni accennate del Petrarca sieno della nota umile, per la vaghezza e dolcezza loro, che tali non fa vederle; con tutto ciò ponno dirsi tali, rispetto alle canzoni del Chiabrera, del Ciampoli, del Testi (p. 246).

Ad ogni modo, il Ritratto della canzone contiene molti esempi petrarcheschi, citati, parallelamente a quanto avveniva per il sonetto, come primo elemento della successione di esempi portati a mostrare il progressivo perfezionamento della lirica. Come si diceva, la successione più spesso ricorrente è Petrarca-Testi-Meninni. Poche sono le citazioni del Chiabrera, più numerose quelle del Ciampoli8. Rispetto a quanto accade nel Ritratto del sonetto, scompare quasi completamente il «secondo tempo», schiacciato dall’esemplificazione moderna. Ma, rispetto al Ritratto del sonetto, l’esemplificazione petrarchesca si è fatta assai più rara. Nell’elencare le figure, il Meninni segue la classificazione tesauriana in patetiche e ingegnose, trascurando completamente le figure armoniche. Su 80 figure catalogate, l’esempio petrarchesco, comunque seguito (con rarissime eccezioni) da un esempio moderno, compa-

canzoni non ha voluto allontanarsi dalle vestigia di Orazio, ch’egli per guida si elesse: così perché l’imitazione gli è riuscita più franca, ed a suo genio, come anche per cagione che oggigiorno dall’Italia questa idea è maggiormente gradita. Avvertì Angelo Poliziano che nello scrivere bisogna conformarsi con la maniera del secolo, come le vesti debbono accomodarsi al capriccio di quell’usanza che corre. Le materie son tutte varie, ma non poche di esse morali e malinconiche, lontane dalla festività giovenile, non già dalle poetiche amenità. […] Oltre ciò, avendo l’autore osservato che ’l Conte Testi abbia con tanta felicità scritto nelle tenerezze degli affetti in traccia di Tibullo, di Catullo, di Properzio, di Ovidio, e d’altri di questa riga, e ritrovando i luoghi occupati, ha voluto impiegarsi in differenti materie. […] Ha toccato, benché di raro, qualche argomento dagli autori più classici maneggiato, non per altro, se non per gareggiamento d’ingegno, o per aprir nuovo campo a quelle materie, alle quali parea impossibile aggiungersi cosa di nuovo, dimostrando in questa guisa la vera imitazione, secondo l’insegnamento di Quintiliano, o la vera emulazione, com’altri vogliono». Delle poesie di Federigo Meninni, le canzoni…, Venezia, Pezzana, 1676, pp. n. n. 8 Sulle motivazioni probabili della preferenza del Meninni per il Testi più che per

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re per 24 figure soltanto. Per le altre figure vi è solamente un esempio moderno (Ciampoli, Testi o Meninni). Pur mettendo in conto che il Meninni, nel Ritratto della canzone, va un po’ di fretta, è un dato che colpisce. Anche la natura dei commenti agli esempi va in questa direzione. Nella ‘scheda’ su Petrarca come autore di canzoni, il Meninni, dopo aver condiviso del Tassoni (come sopra ricordato) la lode ben più decisa che per i sonetti, cita un altro passo delle Considerazioni: «benché dove ha spiegato concetti amorosi abbia detto assai meglio che non altrove, nelle canzoni nulladimeno è stato tanto eccellente che ancora dove non parla d’amore veggonsi certi spiriti, e certe grazie, più facili d’esser ammirate, che imitate» (p. 263; Considerazioni cit. pp. 46-47). Il Meninni, dunque, coglie del commento tassoniano un tratto molto importante ai fini del suo discorso, l’unico, forse, avvicinabile alla novità contenutistica delle canzoni moderne, ossia l’eccellenza anche in argomenti non amorosi. A due canzoni non amorose si rivolgono, infatti, due difese del Petrarca dai suoi troppo severi commentatori cinquecenteschi. Nella stessa pagina, il Meninni si oppone alle censure del Muzio, del Tassoni e del Castelvetro sopra la canzone Vergine bella portando un passo di Benedetto Fioretti: «per lo soggetto è altissima, di stile non meno gravissima che ornatissima, di concetti senza fine varia e maravigliosa, di affetti umili e supplichevoli artificiosissima» (p. 264), e rinviando poi alla Sposizione del napoletano Giovan Battista Attendolo. La canzone che conclude il Canzoniere, si noti, è la stessa di cui Lodovico Antonio Muratori dirà nelle sue Osservazioni: «della sua bellezza non m’accorgeva io, quando i grilli della gioventù cercavano altro pascolo, cioè cose bizzarre, pensieri che feriscano, e stile fiorito e acuto. Ma chi gusta le bellezze del compor sodo e virile, e dello stile maturo, distinguerà meco la nobiltà, la pulizia e la felicità» di questa canzone (II, 315) 9. Più sorprendente è un altro esempio, che

Ciampoli o Chiabrera ho detto nella Introduzione al Ritratto, pp. LIX-LXII.

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Petrarca nel Ritratto del sonetto e della canzone di Federigo Meninni

compare nel capitolo XII dedicato alla sentenza (cioè all’aristotelica diànoia: «un’immagine di quello che si ragiona, e rendesi manifesta per la locuzione»). Dopo aver consigliato che «sia maschia la sentenza, né abbia quelle arguzie che proprie sono de’ sonetti e de’ madrigali», il Meninni aggiunge: Il Petrarca, evitando gli antiteti e i contraposti in quella gravissima canzone Italia mia, con giudicio così disse, benché a torto callonniato dal Muzio, ma con ragione difeso da Torquato Tasso: E i cor, che indura e serra Marte superbo e fero, apri tu padre, intenerisci e snoda dove, «avendo risposto alla voce serrare e indurare con aprire ed intenerire, s’aggiunge la voce snoda, a cui nissun’altra è che si contraponga». (p. 246)

Anche in questo caso, i censori del Petrarca vengono confutati: e, quel che più conta, vengono confutati lodando una rinuncia all’artificiosità, a quella perfezione dell’artificio che invece, come si vedrà, aveva il primo posto nella scala di valore del Ritratto del sonetto. E anche in questo caso può essere rivelatore il confronto con quanto dirà, della medesima canzone, il Muratori: Non aspettar qui nondimeno di quelle immagini pellegrine, o di que’ pensier acuti, o di quelle vivacissime figure, che fermano i lettori con piacere, e dan loro negli occhi, e gli empiono d’ammirazione. Io non so trovarci di queste cose. Ma ciò non ostante altissima stima è dovuta a questa canzone, perché di sentimenti gravissimi e nobilissimi tutta è composta. Lo stile magnifico (e non mezzano, come altri vuole) che qui si usa, e vien tessuto in ogni sua parte di convenevoli frasi poetiche, e il vedi camminare con passo maestoso ed eguale,

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Le osservazioni del Muratori uscirono per la prima volta nel 1711 (Modena, Soliani) nell’edizione delle Rime petrarchesche da lui curata con triplice commento (Tassoni, Muzio e appunto Muratori). Mi avvalgo della seguente edizione: Rime di Francesco Petrarca col comento del Tassoni, del Muratori, e di altri, [a c. di L. Carrer], Padova, pei Tipi della Minerva, 1826, 4 parti in 2 voll. (cito nel testo il numero romano del volume e la relativa pagina). L’edizione Carrer non è priva di interesse. Cfr. per esempio quanto si dice nella dedicatoria ai lettori: «a taluno è paruto di chiamare il Petrarca precursore de’ pazzi secentisti; e questa proposizione per molti rispetti non può rigettarsi come falsa, sol che non si voglia scambiar per brillanti i cristalli, e rispettare, in grazia del secolo o della fama, in un dato scrittore quelle forme e maniere che si condannano in altri cento. Le metafore trasmodate, le prolisse allegorie de’ secentisti non le avete, se non tutte, almeno in grandissima parte nel canzoniere di questo divino? […] Il Marini, e caviamoci il cappello sempre che

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nobilmente colorendo tante buone sentenze. Per altro più alle belle e sensate riflessioni dell’ingegno filosofico e all’artifizio suo, che alle bizzarrie e al pennello della fantasia è dovuta la lode di questo componimento (Osservazioni cit., II, 417).

Se riuniamo da una parte la difesa delle canzoni ‘sublimi’ del Petrarca e dall’altra il venir meno dell’esemplificazione petrarchesca a vantaggio di quella moderna, otteniamo l’impressione che, per la canzone, l’esempio petrarchesco non sia più molto funzionale al discorso del Meninni: in altre parole, che la canzone, a quell’altezza, potesse tranquillamente prescindere dalla tradizione petrarchesca, fosse già da tempo un’altra cosa: donde la scarsa forza argomentativa degli esempi petrarcheschi, impiegati invece, nel Ritratto del sonetto, per autorizzare i ritrovati dei moderni o per dimostrare quanto questi ultimi avessero ‘migliorato’ il Petrarca. La ragione di questa salutare e ormai acquisita differenza va rintracciata nei modelli della canzone moderna: rivolgendosi a Pindaro e Orazio, i lirici secenteschi erano riusciti a staccarsi dall’ingombrante eredità del petrarchismo. Come osservazione a margine, vorrei ricordare che la preferenza per il Petrarca autore di canzoni rispetto all’autore di sonetti è, oltre che del Tassoni e del Meninni, anche del Muratori. Secondo Fiorenzo Forti tale preferenza discenderebbe da una «persistenza» nel Muratori di un gusto barocco che lo condurrebbe a una diffusa insoddisfazione nei confronti dei sonetti petrarcheschi10. L’osservazione di Forti è tanto più vera per il Meninni. Forse, però, di tale persistenza si può parlare non soltanto ‘in negativo’: alcuni degli avvicinamenti che ho proposto, uniti ai molti richiami, nel commento muratoriano, alla canzone pindarica11, consentono, a mio avviso, di riscontrare nel Muratori la persistenza di

nominiamo questo colosso di poesia, ci ha fatto storcere il naso con que’ due Levanti che ha in viso la sua innamorata; ma per bacco che questa graziosa immaginetta è uscita della officina di messer Francesco, sebbene un po’ temperata [al verso 6 del son. La sera desiar, odiar l’aurora, R. V. F. 255]». Su questa edizione e in generale sui commenti sette-ottocenteschi ai Rerum vulgarium fragmenta cfr. R. Tissoni, Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), in Il commento ai testi, a c. di O. Besomi e C. Caruso, Basel-Boston-Berlin, Birkhäuser Verlag, 1992, pp. 433-652, in part. pp. 442-461 (sul commento muratoriano) e 576-586 (sull’ed. Carrer). Il saggio è stato pubblicato, con lo stesso titolo, in volume autonomo (Padova, Antenore, 1993). Ma sul Muratori si vedano piuttosto M. Fubini, Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica e sulla cultura del Settecento. Seconda edizione riveduta, corretta e accresciuta di nuovi studi, Bari, Laterza, 1954, pp. 52-191 e F. Forti, Lodovico Antonio Muratori fra antichi e moderni, Bologna, Zuffi, 1953, in part. i capp. Col Petrarca, in Arcadia e Gusto tassoniano e gusto muratoriano.

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Petrarca nel Ritratto del sonetto e della canzone di Federigo Meninni

un gusto barocco anche nella scelta e nel commento delle canzoni petrarchesche12. Allo stesso modo è vero per il Meninni che la coscienza di essersi lasciati alle spalle il magistero petrarchesco nella canzone poteva dar corso a una lode del Petrarca non più condizionata dalla necessità di dimostrare la superiorità dei moderni: proprio perché il campo in cui mostrare quella superiorità era un altro, altra la strumentazione retorica, altri i soggetti da cantare, altri i modelli da superare. Il Ritratto del sonetto è invece caratterizzato da una costante tensione a dimostrare la superiorità dei moderni rispetto al modello antico. L’operazione del Meninni è quasi un equivalente secentesco di quella del Bembo, non, ovviamente, nel campo linguistico, ma in quello retorico. L’intento del Meninni è quello di costruire un canone da imitare (si ricordi che il trattato è indirizzato a chi vuole esercitarsi «nel mestiere del poetare»): un canone però secentesco, anzi primo-secentesco, riassunto nell’unico nome di Giovambattista Marino. La ‘scheda’ a lui dedicata, infatti, con la lode alla versatilità dell’ingegno di un poeta che seppe eccellere in ogni genere letterario, potrebbe essere vista come l’amplificazione del giudizio bembiano (Prose, II, 2) secondo cui nel solo Petrarca «tutte le grazie della volgar poesia raccolte si veggono». E infatti, parallele a quelle del Bembo sono le strutture argomentative che il Meninni mette in opera: il Marino perfeziona e supera i predecessori come Petrarca superava Dante; dal Marino sono tratti gli esempi dell’eccellenza nella riuscita poetica e della perfezione dell’artificio retorico, come esempio della eccellenza linguistica e poetica era il Petrarca di Bembo; l’autorità degli antichi è richiamata per giustificare le imperfezioni del Marino come l’autorità di Dante spiegava quelle di Petrarca; non ultimo, il rinnovamento dei contenuti della poesia viene fatto risalire al Marino come da Bembo al Petrarca. Ecco dunque che, nel Ritratto del sonetto, l’esemplificazione petrarchesca assolve a una duplice funzione: da una parte, se ne mostrano le imperfe10 Forti, op. cit., pp. 176-183. Non sarà inopportuno riportare un tratto di queste pagine: «il sonetto era dunque per il Muratori la più ardua prova d’ingegno e non gli pareva senza significato che il Petrarca – come credeva anche lui – fosse riuscito meglio nella forma più placida e distesa della canzone: quante volte di fronte ai pochi ‘incomparabili’, il Muratori nota che i sonetti petrarcheschi sanno di prosa, o mancano di una chiusa spiritosa, o di concetti o di tropi o di numero! Il gusto marinistico aveva lasciato segni indelebili in lui e la sua lettura del Petrarca rivela qualcosa di più che le cicatrici di un male guarito» (p. 179). Anche Muratori, come il Meninni (p. 15), paragona, nel commento a Nel dolce tempo de la prima etade (I, 78), il sonetto al letto di Procuste, sostenendo che «più difficile, e perciò più lodevole, si è il fare un bel sonetto, che una bella canzone». Altre attestazioni della similitudine fra sonetto e letto di Procuste porta N. Tonelli, Varietà sintattica e costanti

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zioni e la povertà di figure per mostrare quanto i moderni abbiano superato il Petrarca; dall’altra, però, tale esemplificazione fa intendere al lettore che i moderni, e segnatamente il Marino, comprendono in sé tutta la perfezione petrarchesca: insomma, ciò che ha fatto il Petrarca ha fatto anche il Marino, e lo ha fatto meglio. Nei primi capitoli del Ritratto, la successione PetrarcaMarino è serrata e quasi completamente dimentica del ‘secondo tempo’ (si veda a esempio il capitolo IX sulla sentenza 13, pp. 38-40). In un passo dedicato alla «conformità dello stile alla materia» nel cap. X, il Marino compare addirittura tra Petrarca e Virgilio: Il Petrarca nel sonetto Vergognando talor, ch’ancor si taccia è facile e temperato per la proprietà del dire amoroso; ma in quello Quando il pianeta che distingue l’ore imita la gravità del soggetto col parlar figurato e co’ traslati congionti alle parole proprie, per isfuggir l’oscurità. […] Ma dove e’ parla di dolore, il suo stile è addolorato con le parole proprie più atte a muover la compassione. Così pure altro è il Marini nelle materie amorose, altro nelle marittime e nelle boscherecce, altro nell’eroiche e nelle lugubri, ed altro ne’ soggetti morali e sacri; come anche Vergilio nell’Ecloghe, [nelle Georgiche], e nella Eneida, osservando la forma umile, temperata, e sublime. (pp. 44-45)

Nei capitoli dedicati alle figure, divise qui in figure appartenenti ai tre stili umile, temperato e sublime, la tripartizione delle epoche della lirica è quasi sempre rispettata (un esempio del Petrarca, uno della generazione del Tansillo, uno moderno, mariniano o marinista). Rispetto al Ritratto della canzone, le assenze del Petrarca sono pochissime, proprio perché il terreno che i moderni hanno meglio coltivato è quello stesso della tradizione petrarchista. Per questo motivo, tali assenze sono assai significative. Le figure descritte senza l’apporto di un esempio del Petrarca sono quasi tutte quelle di cui è sottolineata la modernità, spesso legate a un mutamento sostanziale nel soggetto scelto come argomento della poesia. Questa diversità di argomenti è resa esplicita in un passo molto importante: Gli antichi s’avvalsero ne’ loro componimenti della filosofia di Platone più che dell’erudizioni o storiche o favolose; ma dal tempo di Giovambattista Marini gli scrittori più s’affaticarono nell’arguzie tratte dall’erudizioni che in materie astratte e speculative. (p. 157) retoriche nei sonetti dei Rerum Vulgarium Fragmenta, Firenze, Olschki, 1999, p. 9, nota 5. 11 Si vedano a esempio le difese dei «salti poetici» (cioè i ‘voli pindarici’) nei commenti a Chiare, fresche e dolci acque (I, 409), a Che debb’io far, che mi consigli Amore? (II, 8). Li ricorda Forti (pp. 182-183), sottolineando la distanza che su questo punto separa

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Petrarca nel Ritratto del sonetto e della canzone di Federigo Meninni

Andrà notato, ma non è questa la sede per diffondersi sull’argomento, che nelle raccolte del Meninni e di alcuni suoi contemporanei non solo è definitivamente abbandonata la forma-canzoniere14, ma la poesia amorosa ha uno spazio davvero molto limitato: nella prima raccolta del Meninni, del 1660, i sonetti amorosi sono una decina (su 155); nella raccolta del 1676, che ne riprende e amplia una del 1669, è presente una sezione di sonetti amorosi, ma tutti strettamente ‘boscherecci’ e mitologici (con esplicito rimando all’identica sezione della Lira mariniana nella prefazione); nella sezione eponima dell’ultima raccolta, le Maraviglie poetiche del 1705, i sonetti amorosi scompaiono completamente; nelle Poesie varie della medesima raccolta la proporzione ritorna quella del 1660 15. Alla novità dei soggetti poetabili sono avvicinabili alcune novità retoriche e stilistiche. Va notato, innanzitutto, che di quella novità sono testimoni proprio i sonetti moderni apportati nel cap. X come esempi di stile ‘sublime’: il sonetto del Marino è tratto dalla terza parte della Lira ed è dedicato all’inondazione del Tevere; quello dell’Achillini è un sonetto encomiastico per la nascita dell’Infante di Spagna; quello del Paoli una elucubrazione erudita su

il Muratori dal Tassoni. La «maestà e sublimità degli argomenti gravi e lo stile pindarico» comparivano nel commento a Chiare, fresche e dolci acque (I, 391) anche a proposito della tessitura metrica delle stanze: poiché più conveniente ad essa sublimità è una tessitura di stanze lunghe e con maggioranza di endecasillabi, il metro musicale della canzone 126, dice il Muratori, «oggidì non ha più preminenza». 12 Meglio che di una persistenza del gusto barocco nei due critici si potrebbe forse parlare di una sopravvivenza delle forme poetiche e degli esiti stilistici del classicismo barocco di matrice pindarico-oraziana all’epoca medesima che li aveva generati. Ho brevemente affrontato la questione, alla luce anche della Perfetta poesia italiana, nell’Introduzione al Ritratto, p. LXII. Mi pare questione importante e passibile di ulteriore approfondimento.

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un cavaliere che lascia la poesia per andare alla guerra16. Proprio al Paoli, tra l’altro, il Meninni attribuisce nella ‘scheda’ il merito di aver aggiunto alla poesia toscana la «nuova perfezione» di cui si è detto, ossia la capacità di trarre argomenti poetici da una «moltitudine d’erudizioni»17. Vi è dunque una corrispondenza tra novità contenutistica e sublimità stilistica18. Le figure che più da vicino si richiamano a questa novità nei contenuti sono appunto quelle per cui il Meninni non porta un esempio del Petrarca: la definizione, che «comprende molte metafore conglobate» e che è intesa come una divagazione su un oggetto, molto spesso con l’apporto dell’erudizione storica o mitologica19; la congerie, che «si fa quando altri, per amplificare una cosa, cumula molte voci o molti concetti insieme a quel proposito» (p. 106); l’allusione, e cioè il procedimento mediante il quale si trae un «enunciato meditativo o sentimentale» da una rappresentazione sostanzialmente autonoma 20; la dubitazione, e cioè la tecnica con cui si costruisce un sonetto «problematico» (si veda a p. 144 il sonetto ove Meninni avanza varie ragioni Perché gli antichi romani portassero la luna ne’ calzari per segno di nobiltà); o ancora, l’impiego del periodo breve in incipit (un espediente nuovo per la gravitas, com-

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Gli esempi sono introdotti con locuzioni esattamente parallele: “tale viene osservato il sonetto del Petrarca … e tale è pur quel del Marini”; “e ’l Petrarca nel sonetto … e ’l Marini in quello…”; “si osserva in più sonetti del Petrarca, ed in quello particolarmente… e in quello del Marini …”.

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plementare all’inarcatura, che risente della preferenza barocca per il laconismo: p. 41). Altre volte, gli esempi petrarcheschi apportati sono significativi proprio per la distanza che li separa dagli esiti moderni: doppiamente significativi, perché, se permettono di vedere quale «perfezionamento» i moderni apportarono, consentono anche di capire quale lettura del Petrarca facessero i marinisti. Interessante, per esempio, che nel capitolo sulla «sentenza», intesa questa volta come aforisma, il Meninni citi, per esemplificare il particolare sottoinsieme della «moralità», l’ultima terzina del sonetto Rotta è l’alta colonna, e ’l verde lauro (R. V. F. 269): O nostra vita, ch’è sì bella in vista, com’ perde agevolmente in un mattino quel che ’n molt’anni a gran pena s’acquista.

Non si discute, ovviamente, sul fatto che di moralità si tratti. La citazione petrarchesca, però, è seguita da alcuni esempi moderni che conviene vedere nei particolari. Essi appartengono tutti a una specie di sottogenere secentesco: quello del sonetto intitolato “cava moralità da…”, esemplare tra i migliori di quel rinnovamento tematico di cui si diceva (basti ricordare i sonetti sugli orologi). Il primo esempio è di Antonio Bruni, che appunto «Cava moralità da un orologio d’acqua, e dall’altro da polvere»: Lasso, e mirar mi fa quinci la sorte un’imagin di noi miseri, e frali: che siam lagrime in vita, e polve in morte.

In un secondo esempio, Francesco Masucci «Cava moralità da un cavallo ferrato d’oro, cavalcato per Roma da un ambasciatore»: De l’esecranda sete i vivi ardori estingui, estingui omai, che i bruti istessi t’insegnano a calcar gli argenti, e gli ori.

Il terzo esempio è dello stesso Meninni, «Cava moralità dal palagio versatile di Nerone»: Imparate idolatri. In corte un’ora felicità non dura. Amano i grandi l’instabiltà negli edificii ancora21. 14

Ma è pure abbandonata la ‘divisione per capi’ della Lira mariniana, segno che anche la ‘predicazione multipla’ e la ‘variazione artificiosa’ erano ormai superate (e infatti il

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Come si vede, gli esempi moderni sono qualitativamente differenti da quello petrarchesco, poiché in essi la moralità, che occupa come nel sonetto petrarchesco l’ultima terzina, è legata indissolubilmente con quanto la precede, è precisamente cavata: quando dico indissolubilmente, intendo dire che il legame è concettuale ma anche verbale, o in una parola, tesaurianamente, metaforico: nel sonetto del Bruni, il veicolo sono le gocce d’acqua di un orologio (e dunque le lacrime, il dolore in vita) e la polvere dell’altro; in quello del Masucci, il legame è il verbo «calcare», nel senso letterale di calpestare (il ferro d’oro) e in quello figurato di disprezzare; in quello del Meninni, il legame è garantito dal doppio senso della parola «instabilità»: movimento del palazzo girevole, precarietà della fortuna in corte. Nel sonetto petrarchesco non c’è un legame concettoso tra il «doppio thesauro» perduto e la moralità finale: a meno di non supporne uno tra gli oggetti impiegati per l’allegoria (la colonna e il lauro) e i «molt’anni» dell’ultimo verso (crolla cioè in un giorno ciò che si è costruito, o che è cresciuto – come la pianta – in molti anni). Che vi sia o no tale supposizione da parte del Meninni (e io credo di no), importa comunque l’avvicinamento senza mediazione tra i due tipi di moralità. Un discorso quasi analogo può farsi per gli esempi petrarcheschi portati ad illustrare gli «argomenti ingegnosi». Dico quasi, perché in questi capitoli gli esempi petrarcheschi, quantunque meno carichi d’acutezza, sono, eccetto uno, calzanti: in questi capitoli, cioè, Meninni tenta scopertamente di far risalire al Petrarca alcune tecniche tipicamente secentesche. Ma se è forte la necessità di autorizzare con l’intervento del classico Petrarca alcune tecniche molto amate dai moderni, dal classico moderno Marino e, non dimentichiamolo, dallo stesso Meninni, è anche importante vedere come questo avvicinamento proponga un tipo di imitazione diverso da quello del petrarchismo ma anche, ed è importante, da quello mariniano: non limitato, cioè, al ricordo verbale o alla struttura sintattica, né alla raccolta ‘col rampino’, né alla traduzione, ma attento ai meccanismi dell’inventio e del fingimento cavilloso, alla forma più che alla materia, secondo la definizione dello stesso Meninni22. Sarebbe lungo, qui, seguire il filo dell’esemplificazione per tutti gli argomenti ingegnosi; mi limiterò dunque a portare l’esempio dell’argomento a maiori (Ritratto, pp. 151-153), il meno calzante, e quello dunque che mostra più

Meninni rivendica al sonetto una sua nobiltà): cfr. A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del barocco. Atti del Convegno di Lecce 2326 ottobre 2000, Roma, Salerno, 2002, pp. 199-226, che mi esime dal trattare qui le questioni relative al recupero (o rifiuto) cinque-secentesco della dimensione macrotestuale dei Rerum vulgarium fragmenta.

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scoperta la volontà di autorizzare una tecnica secentesca e, insieme, una lettura secentescamente orientata del Petrarca. Tra i sonetti moderni citati dal Meninni, scelgo quelli che più chiaramente mostrano il funzionamento dell’arguzia a maiori. Il primo è il sonetto Questi fogli, in cui già degna d’oblio del Marino, le cui terzine recitano: Che se l’invitto e ’ntrepido Romano al foco condannò la destra ardita perché morte non diede al re toscano; quanto più giustamente incenerita cader dovria questa mia sciocca mano, ch’a donna sì crudel diede la vita?

Nel sonetto il poeta ricorre all’esempio di Muzio Scevola per concludere che più giustamente, cioè con più forti ragioni, dovrebbe condannare al fuoco la sua propria mano, rea di aver immortalato una donna crudele e perciò immeritevole di tale immortalità. Il secondo esempio è il sonetto «Mammella di bella donna abbruciata» (La mia guerriera dispietata e bella) di Pier Francesco Paoli: Ma di Neron la crudeltà trapassi, che qui su ’l Tebro è più spietato oggetto ardere i cor, ch’incenerire i sassi.

Anche qui, un esempio classico (l’incendio di Nerone) è impiegato come termine di paragone per un’immagine di maggiore crudeltà, quella della tortura inflitta alla donna. La comparazione di maggioranza è consentita da uno o più «legamenti» metaforici: l’elemento (il fuoco, come nel sonetto precedente), il luogo (Roma), come prima la mano (quella di Scevola, e quella che scrive). Il terzo sonetto è Ceda col Gange al tuo Sebeto il Reno, dedicato a Napoli, dello stesso Meninni: O quanti pregi a te serbò Fortuna! Se a Partenope pria desti la tomba, fabrichi a più Sirene oggi la cuna23.

In questo caso l’allusione erudita alla sirena Partenope consente l’equivoco con il comune appellativo dei poeti napoletani: la comparazione di maggioranza è data dal maggior numero di «sirene». 15

Idiosincratico nei confronti della rimeria d’amore era stato Giuseppe Battista, certa-

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Ora, l’esempio petrarchesco apportato è la chiusa del sonetto Sì traviato è ’l folle mi’ desio (R.V.F. 6), in cui il desiderio per Laura è paragonato a un cavallo in corsa. Ecco le terzine (ma il Meninni riporta soltanto la seconda): Et poi che ’l fren per forza a sé raccoglie, i’ mi rimango in signoria di lui, che mal mio grado a morte mi trasporta: sol per venir al lauro onde si coglie acerbo frutto, che le piaghe altrui gustando affligge più che non conforta.

Si presume24 che secondo il Meninni l’argomento ingegnoso a maiori sia da vedersi nell’ultimo verso, in quel più che: ma si tratta di un fraintendimento, poiché qui Petrarca non vuole affatto instaurare una comparazione di maggioranza (quel lauro sì conforta, ma ancor più affligge), bensì semplicemente negare: questo alloro, al contrario degli altri, non sana le piaghe ma le affligge. Più che vale dunque piuttosto che (il commento di Marco Santagata rende con «inasprisce più che alleviare»). Tuttavia, anche se l’interpretazione del Meninni fosse corretta, il sonetto comunque non sarebbe un argomento a maiori, proprio perché carente di struttura argomentativa (non è presente, cioè, un elemento estraneo con cui instaurare la comparazione, come invece negli esempi secenteschi – Muzio Scevola, Nerone, Partenope). Non sembra dunque fuori luogo affermare che in questi capitoli è forte il desiderio di cercare, e trovare, nel Petrarca i prodromi di una poesia arguta che è invece tutt’altra cosa25.

mente modello, almeno per questo aspetto, delle poesie del Meninni. Cfr. G. Rizzo, Introduzione a G. Battista, Opere, Galatina, Congedo, 1991, passim e Lorenzo Crasso a chi legge, ivi, p. 95. Anche una ricerca nelle poesie meninniane di sintagmi, strutture, lessico petrarcheschi non sembra, a un primo tentativo, dare risultati di rilievo. In generale, quando si ritrovano nei sonetti meninniani memorie petrarchesche, è possibile ritrovare, fra i due, la mediazione mariniana. Quasi freudiana negazione mi pare il passo seguente (p. 133-134 del Ritratto): «chiusi il sonetto con un verso del Marini: “Neve al sol, cera al foco, e nebbia al vento” il qual verso vien pur da quel del Petrarca “Amor m’ha posto come segno a strale, / com’al sol neve, come cera al foco, / e come nebbia al vento”». Il verso mariniano, però, suonava «brina al sol, neve al foco, e nebbia al vento». Più seriamente può dirsi che nei sonetti del Meninni è scarsissima la presenza di «sintagmi non progressivi» (secondo la definizione di Dámaso Alonso: cfr. sotto, nota 28), e ciò è esattamente in linea con la quasi esclusiva scelta dello stile sublime: anche i tratti più apertamente petrarchisti del Marino vengono abbandonati. Ciò è visibilissimo nella serie di sonetti portata dal Meninni nel cap. X del Ritratto: i sonetti moderni in stile sublime sono quasi privi di sintagmi non progressivi, tanto quanto

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Meno numerosi, ma altrettanto significativi, sono i casi in cui il miglioramento dei moderni rispetto agli esiti petrarcheschi è esplicitamente dichiarato. Porterò soltanto due esempi. Nel primo, l’esito moderno è migliore di per sé. Esso compare nel capitolo sull’annominazione (bisticcio): Il Petrarca chiude ancora un sonetto col bisticcio, ma senza grazia, dicendo: o s’infinge, o non cura, o non s’accorge del fiorir queste inanzi tempo tempie. Il Marini usollo con grazia: Baci per versi, e per un libro un labro. Sempre suole a la stalla unir la stella. (p. 118, corsivo mio)

Varrà la pena di notare che di questo bisticcio petrarchesco il Tassoni diceva che qui Petrarca «parla a’ grotteschi»26. Nel secondo esempio, il miglioramento (ancora mariniano) è dato dall’aggiunta di altre figure: un criterio di valore tipico della poetica barocca. La figura in questione è l’esclamazione. Del Petrarca si citano le conclusioni dei sonetti 245, 243 e 278 (esclamazione «con meraviglia»: O felice eloquenza, o lieto giorno; «con allegrezza»: O sacro, avventuroso e dolce loco; «con disiderio»: O che bel morir’era oggi ha ’l terz’anno). Ecco quanto si dice del Marino: E ’l Marini con l’esclamazioni accoppia sempre gli epiteti contrarii alla natura delle cose alle quali sono aggiunti, il che aggiunge maggior leggiadria: O che felice perdita di core. O noi fragili oggetti a sì fort’arco. O che dolce obbedir sotto tal morso. (p. 139)

La maggiore artificiosità, o la maggiore precisione nell’artificio, è anche uno dei motivi delle esplicite difese o accuse rivolte al Petrarca dal Meninni, spesso con la mediazione dei commentatori. Nel capitolo XXV, a proposito della correlazione, il Meninni esamina i sonetti petrarcheschi Amor m’ha posto come segno a strale (R. V. F. 133) e Né mai pietosa madre al caro figlio. (R. V. F. 285). Ecco come commenta il primo:

i sonetti degli altri due stili (inclusi i mariniani) ne sono ricchi.

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Osserva questo sonetto la gradazione, ma ampliando e dichiarando le cose dette nel primo quaternario. «Alcuni spositori dicono che questo sonetto sia artificioso e facile», il che niega Alessandro Tassoni; perché vi è la dichiarazione degli occhi, che «vi sta a disagio», ed è così; «e l’esser bersaglio non ha che fare con un colpo ricevuto molto prima, e ’l dolce spirto per lo dolce sospirare partorisce oscurità»27. Oltreché dice che il colpo uscì da gli occhi di Laura, e poi soggiunge, che i pensieri sieno saette. Altri disse che questo sonetto sia per se stesso chiaro e facile, pien di grande artificio tanto, quanto di gravità voto, ma le molte contrarietà ch’egli ha in sé lo rendon vago e leggiadro molto. Io confesso l’artificio, ma non la vaghezza e la felicità, perché l’artificio sta intralciato da una borra d’empitura di versi, come sono «e son già roco; donna, mercé chiamando, e voi non cale; dagli occhi vostri uscìo ’l colpo mortale; contro cui non mi val tempo, né loco», le quali cose non fanno punto al caso. (p. 102)

L’artificio della correlazione, dunque, non è condotto con piena felicità perché «sta intralciato da una borra d’empitura di versi», cioè da versi estranei all’artificio stesso. Anche in questo caso, la corrispondente osservazione del Muratori può risultare interessante: Ha faticato il nostro poeta, volendo raggruppare in varie guise le quattro similitudini ch’egli ne’ tre primi versi propone. E veramente con felicità gli è riuscito di farlo nella maggior parte del componimento. Dico nella maggior parte del componimento, perché in que’ versi notati dal Tassoni, cioè nel sesto e nel tredicesimo, a me ancor pare di vedere che il Poeta abbia con poco buona grazia cacciato della roba non opportuna, a fine d’empiere un poco di voto che restava nell’economia del lavoro, e a fine di sovvenire alle rime. […] Ma io son di quegli che soglio più tosto ammirare che amare o credere degni di vera lode questi sì fatti componimenti, perché mi sembra di trovarci dentro dell’affettazione, o dell’ambizion dell’ingegno, dacché i poeti troppo apertamente mostrano lo sforzo quivi fatto. La bellezza non solo della poesia, ma ancora delle altre cose, tanto è più perfetta, quanto è più naturale; e benché la bellezza venga eziandio dall’artifizio, pure tanto è più bello l’artifizio quanto più s’asconde, e quanto più imita e rappresenta la natura. (I, 444)

Per il Meninni, invece, è proprio l’imperfezione dell’artificio a togliere valore a questo sonetto: ma sul valore dell’artificio medesimo non v’è dubbio. Ciò è ancor meglio chiarito nella pagina seguente del Ritratto. A proposito del sonetto 285 il Meninni si allontana dal Tassoni, che molto lo lodava, e anche da Bernardino Daniello, contestando proprio la riuscita dell’artificio retorico. Ecco come commenta il Meninni: 16

Rispettivamente: Marino, Lilla, se ’l Tebro i sette colli affonda (La lira, p. III, Amori,

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Ma come può vedersi manifestamente, parmi non esser vero ciò che asserisce il Daniello, ch’in tutto il sonetto sia corrispondenza; perché, benché la similitudine di madre e di sposa corrisponda a Madonna Laura che consiglia il Petrarca; e ’l timore corrisponda alla madre, e l’ardere alla sposa, e quello c’ha da fuggire, c’ha riguardo al fedel consiglio del primo quaternario: con tutto ciò la corrispondenza non segue, particolarmente nell’ultimo ternario, dove era più necessaria, e quel Pregando posto nel penultimo verso vi sta a disagio, potendo bastare ciò che disse nel primo ternario: E nel parlar mi mostra Quel che in questo viaggio o fugga, o segua, dove resta terminata perfettamente la sentenza. (p. 103)

Ancor più significativo è il controesempio portato dal Meninni, e cioè il sonetto D’un sì bel foco, e d’un sì nobil laccio di Luigi Tansillo, nel quale appunto, contrariamente che nel sonetto petrarchesco, «dal principio infino al fine si osserva l’ordine con chiarezza e con nobiltà di concetti»28. Una consimile censura al Petrarca compare nel cap. XXXIV sulla descrizione. Il sonetto petrarchesco è Pommi ov’il sole occide i fiori e l’erba (R. V. F. 145). Commenta il Meninni: A molti sembrerà artificioso, e chiaro questo sonetto del Petrarca: a me pare che pecchi, mentre, scorrendo quasi per tutta la categoria, dovea procedere con ordine, e non cominciare dal luogo e venir poi all’avere, e ritornare al luogo, venire al tempo, e ritornar di nuovo al luogo, dal sito venir di nuovo al tempo, e dall’avere già tocco venir finalmente alla passione. Potrebbe altri oppormi che anche in Marziale non si veda osservato quest’ordine di categoria […]; ma la risposta è pronta, cioè che l’errore di uno non iscusi quello di un altro, e che gli epigrammi di Marziale sieno sopra materie giocose ed irrisorie, dove non solo non è necessaria l’osservanza così rigorosa dell’ordine, ma lo scomponimento stesso è riputato artificio. Oltre che il Pommi in Cielo, in terra od in abisso, non essendo epilogo, rende inutile il primo quaternario, il secondo verso del secondo quaternario, e del primo ternario di questo sonetto. Né mi si dica che tirato dall’impeto della passione amorosa sia da scusarsi il Petrarca, perché io risponderò che in sì fatto modo tutti gli errori ne’ sonetti amorosi sarebbero degni di scusa, il che non è vero. (p. 122)

p. 64 dell’ed. Venezia, Tomasini, 1647); C. Achillini, Partite, ispani abeti, e in mar tonante (Poesie a c. di A. Colombo, Parma, Centro Studi “Archivio barocco”, 1991, p. 35); P. F. Paoli, Hai deposto, signor, l’arco tuo d’oro? (Rime varie, Roma, Corbelletti, 1637, p. 328). 17 A proposito di questa «nuova perfezione», varrà la pena di ricordare che il Muratori nelle Osservazioni si lamentava per l’«erudizione, ossia allusione alle favole rancide», del verso 68 della canzone petrarchesca O aspettata in ciel beata e bella (RVF 28), che suona: «perché d’Orpheo leggendo e d’Amphione»... 18 Il canovaccio è ancora il Marino, ma il Marino della Lira III: di lui si dice infatti

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Anche per questo sonetto è utile il confronto con l’osservazione del Muratori. Questi, infatti, ammette di malavoglia che «questa maniera di comporre», e cioè quel tipo di componimento che «preso un sol pensiero o sentimento, altro poi non fa che amplificarlo», «ebbe ed avrà sempre un credito singolare in Parnaso»; ma tale ammissione giunge dopo aver osservato che il sonetto potrebbe parere «una di quelle orazioni che con vocabolo greco tuttavia nelle scuole si chiamano Crie» (I, 470). Per il Meninni, invece, la censura deriva proprio dall’imperfezione dell’artificio: l’artificio viene prima di tutto. Ma questi ultimi esempi sorprendono forse meno dei precedenti: e certamente più scontata di quanto si è detto finora è la constatazione che il Petrarca del Meninni, quello scelto e lodato, è un Petrarca il più possibile arguto. Che nel Petrarca potessero trovarsi i prodromi del marinismo lo avevano già capito in tanti, primo tra tutti il Tassoni. Ha scritto a questo proposito Fiorenzo Forti: «allorché il Marino accolse con favore le Considerazioni tassoniane dovette annusare soltanto quel vago sentore di ribellione agli antichi e l’irriverenza all’esemplare petrarchesco, ma non badò certo a quei luoghi dove il Tassoni attraverso il Petrarca colpiva la poesia che già si annunciava agli albori del nuovo secolo: alludo a passi ben espliciti, come quando a proposito della sestina A la dolce ombra delle belle frondi il Tassoni si chiedeva: “e qui come s’intende? rami per membra, frondi per capegli, verdi per biondi? Meraviglieremci poi, se con questi esempi, alcuni moderni sono trascorsi a chiamare idropico il mar gonfiato; paralitichi i boschi mossi dal vento; etica l’erba inarsicciata dal freddo; e per croste di gel leprosi i monti?”. Non c’è dubbio – aggiunge Forti –: in questo e in altri casi il bersaglio del Tassoni non era già il Petrarca ma “certi stivali di vacchetta moderni” che confondevano nella poesia di quel grande i fiori con le erbacce»29. Su

nella ‘scheda’: «nella prima parte della Lira sta più su la gravità e su ’l costume osservato dagli antichi, nella terza più su l’arguzie e sul dir fiorito, mostrando una copia grande di metafore, di traslati, e d’altre figure» (p. 76). La maggior parte degli esempi mariniani proviene infatti dalla terza parte. 19 È ciò che G. Getto chiamava «moltiplicazione metaforica»: (nel saggio sui Lirici marinisti (1952), ora in Il Barocco letterario in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 40-90: p. 66). L’esempio, apportato nel capitolo XIX, è dello stesso Meninni: si tratta del sonetto Questi, che spiega a l’aure ali splendenti (accolto anche da B. Croce nei Lirici marinisti, Bari, Laterza, 1910, p. 487), nel quale il pavone è via via definito come Proteo, Iride, Argo, cielo stellato, Atlante. 20 Per questa figura, su cui ha scritto una pagina illuminante Getto (op. cit., p. 60), Meninni porta a esempio il sonetto mariniano per la teriaca Questa de le cui polpe opra vitale (Lira cit., p. III, p. 229). Ma lo stesso impianto poteva trovarsi nel sonetto petrarchesco, ricordato da Getto,

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Petrarca nel Ritratto del sonetto e della canzone di Federigo Meninni

questo passo tassoniano possiamo misurare non solo la gioia un po’ miope con cui il Marino accolse le Considerazioni, ma anche la pertinacia con cui

Movesi il vecchierel canuto e bianco (R. V. F. 16): a dimostrazione che «estranea al Petrarca nel modo più assoluto è la qualità delle immagini che occupano quello spazio [lo spazio espressivo riservato alla ‘scena’ da cui si trae l’allusione], la sostanza costitutiva di quella scena».

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il Meninni30 ancora nel 1677 trasceglieva dal Canzoniere, tacciato in blocco di scarsità di arguzia, sia il sonetto allegorico Passa la nave mia colma d’oblio, già bistrattato dal Tassoni, sia la «qualche vivezza» osservata in S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? e Pace non trovo, e non ho da far guerra: vivezze che non potevano essere ignorate perché avevano condotto al tempo «intieramente perfetto» della poesia marinista, ma che fortunatamente anche lo stesso Meninni poeta, con i suoi contemporanei, aveva già superate.

21

Ecco i luoghi dei tre esempi secenteschi: A. Bruni, Già nel secol primier Roma ed Atene, p. 406 delle Tre Grazie, Roma, Facciotti, 1630; F. Masucci, Del campion de la Senna il bel destriero, p. 104 delle Poesie de’ Signori Accademici Fantastici di Roma, Roma, Grignani, 1637; Meninni, Perché Nume s’adori il fier Nerone, p. 20 delle Poesie cit., I sonetti. 22 Tale concetto di imitazione è espresso dal Meninni nei capp. LIV e sgg. del Ritratto del sonetto, gli stessi, non a caso, in cui forti riserve interessano il ‘furto’ di mariniana memoria. Si vedano gli esempi delle pp. 168-169.

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Cantieri petrarchistici

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Domenico Chiodo COMMENTO AI TESTI O PAROLE IN LIBERTÀ? PER UNA CRITICA DI NARCISO GLOSSATORE*

Se ho ben compreso lo spirito della presente giornata, essa ha lo scopo di esibire come in un’ideale vetrina i lavori in corso nel campo delle edizioni di testi lirici quattro-cinquecenteschi, o, se non proprio i lavori in corso, progetti futuri a più lunga scadenza. Non avendo personalmente nessun impegno del genere in programma, presumo che la mia presenza sia dovuta al mio rappresentare la Res, e di conseguenza non posso non manifestare un certo imbarazzo nel prendere la parola. Il cantiere di lavorazione della Res è infatti stato reso pubblico attraverso il sito Web (www.edres.it) e qualunque notizia sui nostri progetti editoriali presenti e futuri è facilmente ricavabile dalla consultazione del medesimo. Inoltre, e soprattutto, alcuni dei successivi relatori parleranno, con molta più competenza di quanto potrei fare io, dei lavori che stanno portando a compimento per le nostre collane; e altri ancora, qui presenti per altre ragioni, potrebbero fare altrettanto per altri titoli in programma di interesse cinquecentesco. Di fatto, l’unica informazione che sono in grado di dare personalmente riguarda l’allestimento del prossimo numero della nostra rivista in rete, Lo Stracciafoglio, nel quale numerosi saranno i testi pertinenti all’ambito di studio di cui ci stiamo occupando: vi si leggeranno infatti, tra varie altre cose, la

* Invitato per una discussione ‘a braccio’ mi sono visto richiedere – e ne ringrazio i curatori – un contributo per la pubblicazione di atti: ho inteso ottemperare alla richiesta tentando di riprodurre, con l’aiuto di pochi superstiti foglietti, la cicalata pronunciata nell’occasione; mi affido alla benevolenza del lettore che pretenderebbe a ragione un più circostanziato argomentare e documenti probanti affermazioni che potranno apparire troppo genericamente polemiche. Occorrerebbe più tempo e ne riuscirebbe altra cosa rispetto a quanto in quella giornata fu detto.

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lettera prefatoria apposta da Alessandro Piccolomini alla edizione dei suoi Cento sonetti, due sonetti dalle rarissime Rime di Gandolfo Porrino e uno inedito di Benedetto Varchi. Ne consiglio vivamente la lettura (oltre tutto assolutamente gratuita) perché credo che ciascuno di questi testi, ovviamente per ragioni diverse, presenti motivi di interesse: quella del Piccolomini è una delle poche riflessioni teoriche sul genere lirico che, come ben sappiamo, non ebbe le stesse attenzioni che la trattatistica cinquecentesca dedicò ad altri generi; i sonetti del Porrino sono un esempio di uso politico della comunicazione lirica; l’inedito del Varchi è un sonetto di corrispondenza composto all’indomani dell’assassinio del duca Alessandro e della salita al potere di Cosimo. Con queste notizie la parte informativa sarebbe di già conclusa, e mi sembra perciò maggiormente proficuo, anziché gigioneggiare sull’attività passata, presente e futura della Res, affrontare, sia pure con la caoticità giustificata dall’impostazione conversevole di questo discorso, questioni di carattere generale con cui ci si viene abitualmente a scontrare nell’allestimento delle edizioni di testi. Non mi dilungherei troppo sulla questione “criteri di trascrizione”, a proposito della quale le mie convinzioni credo siano note ed espresse ormai in varie sedi. Posso semmai provare a riassumerle sinteticamente. Presupposto fondamentale è che l’italiano letterario non è una lingua morta; nello sviluppo della nostra lingua la norma grammaticale ha proficuamente condizionato l’uso a principi di eleganza ed efficacia espressiva così che, al contrario di altre lingue europee, l’evoluzione non ne ha stravolto le strutture. In altri termini: almeno fino alla nostra generazione è stato possibile operare una scelta tra la lingua di Pietro Bembo e quella di Pippo Baudo, e a me pare un dovere morale cercare di permettere una tale possibilità di scelta anche alle generazioni future; principale strumento utile allo scopo è consentire l’accesso a edizioni moderne degli autori antichi che possono fungere da modelli del bello scrivere, e perché tale accesso sia consentito è indispensabile che il testo sia reso con criteri ammodernanti, il che non significa affatto appiattimento uniformante, ma semplicemente l’impegno a tentare di restituire il testo in modo tale che il lettore di oggi, anche il lettore non specialista, arrivi a pronunziarlo nel modo più prossimo possibile a quello in cui lo intendeva pronunciare l’autore. Vorrei però dedicarmi qui a un’altra questione a proposito della quale, almeno pubblicamente, non ho mai avuto occasione di esprimere il mio parere; ed è questione che richiama effettivamente in campo il lavoro della Res, poiché ha a che fare con la critica che più comunemente viene mossa alle nostre edizioni, ovvero la mancanza del commento ai testi che vengono pubblicati, o quanto meno ai primi di essi. Tralasciando però per il momento la Res, vorrei provarmi a elaborare una classificazione dei possibili commenti a

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un testo, che mi pare possano essere riducibili a quattro tipologie: filologico, didascalico, retorico-stilistico, storico-erudito. Per quanto riguarda il commento filologico non credo vi siano soverchie discussioni da fare: è una necessità imprescindibile di un’edizione che voglia dar conto del lavoro servito a produrre il testo e non vi è dubbio che il processo attraverso il quale si giunge alle scelte che determinano un’edizione sia importante quasi quanto il risultato finale. Non ho difficoltà a riconoscere che le prime edizioni approntate dalla Res sono da questo punto di vista senz’altro carenti e me ne assumo la responsabilità: vi era una motivazione polemica a determinare tali scelte ed è una motivazione che a mio avviso persiste, ma la soluzione adottata fu troppo radicale e di conseguenza errata. Rimango convinto che sia preferibile l’eccesso del silenzio piuttosto che quello del filologismo caricaturale (un esempio per tutti: la correzione di banali refusi indicata come intervento congetturale sul testo) e che si debba in ogni modo evitare che gli apparati soffochino il testo, ma convengo che fu un errore non dare conto in sede di apparato di tutto il lavoro che stava dietro, ad esempio, all’edizione del Camillo; e se è vero che a semplice apertura di libro il lettore può avere la percezione di come la nostra edizione sia migliore delle altre moderne, è altrettanto vero che qualche informazione in proposito la si doveva offrire già nel volume. Vorrei però difendere l’idea del libro (e del libro di poesia in modo particolare) come di un prodotto che deve anche soddisfare la vista e invitare piacevolmente alla lettura, e dal momento che ci troviamo a discutere di petrarchismo, la domanda che potrei porvi è la seguente: la fortuna di Petrarca nel Cinquecento fu legata più all’edizione aldina del Bembo, ove soltanto il Petrarca si leggeva, o alle numerose edizioni commentate del Canzoniere in cui il testo era soffocato dall’immensa cornice di note che lo attorniava? Sono due diverse immagini del libro di poesia petrarchesco di cui credo abbia contato infinitamente di più la prima: e sappiamo bene che il Bembo non fece affatto minor fatica nell’allestire il suo testo di quanta ne fecero il Vellutello o il Gesualdo nel redigere il loro commento. L’idea che l’apparato a piè di pagina abbia uno statuto di scientificità superiore a quello di un apparato posto in posizione più discreta a fine volume a me pare quasi altrettanto balzana di quella che criteri di trascrizione rigidamente conservativi testimonino una maggiore attendibilità filologica rispetto a quelli di una trascrizione ammodernante. Peraltro i nuovi sistemi di comunicazione possono forse fornire la soluzione alla doppia esigenza di avere pagine pulite e leggibili e un apparato minuzioso: l’ipertesto potrebbe anche divenire il mezzo per l’informazione filologica futura e così pure il supporto multimediale a un’edizione cartacea. Per quanto riguarda il commento didascalico invece, esso richiederebbe un approfondimento con un’ampia discussione e l’illustrazione di una casisti-

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ca sterminata. Alcune osservazioni in proposito sono però possibili anche in un discorso generico come è il presente. Penso che l’elaborazione di questo tipo di commento sia molto più difficile di quanto si creda e devo dire di essermi stupito di notare che esso sia frequentemente affidato a giovani neolaureati, come se si trattasse di un impegno di scarsa rilevanza: anzi mi è toccato personalmente osservare come uno studente di cui pochi mesi prima si presumeva che necessitasse di edizioni commentate per accedere a determinati autori, non appena laureato, quasi fosse di conseguenza investito di un mistico afflato ermeneutico, veniva ritenuto in grado di occuparsi del commento didascalico di un testo. Potrebbe forse essere questa la ragione per cui tali commenti spiegano sempre quello che tutti comprendono ma latitano in modo sconcertante laddove ci si trova di fronte a una questione davvero complessa: troviamo regolarmente la nota brando = spada, rio = fiume, e così via, ma sulla costruzione sintattica ricca di iperbati o sulle amfibologie di difficile interpretazione si sorvola senza meno. Se ben ricordo, in tutte le edizioni che mi è toccato commentare sono stato costretto almeno a una nota in cui ho dovuto scrivere ‘questa cosa non l’ho ben capita’ e credo che non ci sia nulla di male; anzi mi pare doveroso arrendersi a simili dichiarazioni di impotenza piuttosto che ritardare indefinitamente l’edizione in attesa di una celeste ispirazione o di un terrestre consiglio, o ancor peggio far finta di nulla. Un’altra considerazione relativa ai commenti didascalici riguarda la difficoltà di adeguare il livello del commento a quello dei possibili utenti. Su questo punto sarei per un atteggiamento radicale: la mia esperienza di insegnante della scuola media, inferiore e superiore, mi ha convinto del fatto che è controproducente tentare di inseguire gli allievi per strapparli al vortice della loro ignoranza; una terapia d’urto è spesso più salutare e può servire a scuotere dal torpore quanti non hanno mai imparato a consultare un dizionario. D’altronde se ci si dovesse adeguare all’attuale andazzo dei corsi universitari, che vanno sempre più ad assomigliare a quelli che erano un tempo i corsi di ‘recupero anni scolastici’ (30 ore per la letteratura italiana dall’indovinello veronese a Tabucchi!), e ci si ponesse in animo di spiegare tutto ciò che uno studente medio non conosce, dovremmo immaginare commenti del tutto fuori misura: si pensi anche soltanto alla necessità di illustrare anche i più comuni riferimenti mitologici. Credo sia di gran lunga preferibile servirsi del testo come di una scossa che solleciti alla curiosità; e insomma il commento didascalico mi pare dovrebbe intervenire soprattutto laddove l’uso di un normale dizionario non è sufficiente, ma occorre un effettivo aiuto per la comprensione del testo. Mi rendo conto che quanto ho in animo di dire a proposito del terzo tipo di commento, quello retorico-stilistico, potrà lasciare perplessi: esso infatti

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gode oggi dei maggiori favori; anzi è divenuto per certi versi il commento per eccellenza. Personalmente lo trovo per lo più inutile e francamente insopportabile nella forma che ha assunto nelle edizioni moderne; anzi mi pare di poter dire che oggi si tende a considerare lo spazio del commento non come il luogo in cui illustrare il testo che si pubblica, ma in cui esibire il proprio sapere e la propria sagacia critica. Il testo e l’autore pubblicati divengono spesso quasi il pretesto per mettere in mostra se stessi come commentatori. A me pare che questa tendenza sia da combattere tenacemente. E ancora più sia da combattere quando si riduce a una serie di vuoti tecnicismi o di rilevazioni statistiche ininfluenti per il giudizio su di un autore ed esibite soltanto a sfoggio personale, ma con ben pochi meriti perché ormai meramente compiute con il supporto di mezzi informatici. Verrebbe insomma da parafrasare Churchill: la retorica è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai glossatori, e tanto più ai glossatori in carriera. Se già molto irritanti riescono quelle edizioni in cui l’interpunzione adottata mostra inequivocabilmente che il curatore ha fallito anche la più elementare parafrasi e il commento esibisce invece il dispiegamento dei più peregrini termini della casistica retorica, decisamente dannoso è l’uso recentemente invalso di costituire i repertori di fonti attraverso l’uso della memoria artificiale, ovvero attraverso l’interrogazione dei database operanti nella LIZ o anche in più ricche raccolte di testi digitati. I pericoli sono in questo caso di varia natura. Vi è innanzi tutto il rischio di individuare fonti che tali non sono, privilegiando un’occasionale omologia lessicale o il ripetersi di una iunctura tutt’altro che inusuale e ignorando invece (perché l’interrogazione non la presenta essendo espressa con diverse scelte lessicali) la ripresa di un’immagine o di un motivo simbolico o di una analoga concatenazione concettuale. In secondo luogo il rischio è quello di accentuare il carattere meta-letterario delle opere in esame tendendo a proporre l’esercizio della scrittura poetica, e tanto più quindi di quella petrarchista, come un perpetuo ed estenuato rifacimento centonario (se la memoria non falla, mi pare che si sia giunti in un commento a segnalare l’occorrenza statistica del nesso “begli occhi” in Petrarca, quasi che l’espressione non possa naturalmente sorgere in chi si profonde nelle lodi dell’amata). In terzo luogo (ed è un guasto che già ho denunciato recensendo alcuni volumi), considerata l’esiguità, almeno nei primi tempi della LIZ, del repertorio di opere interrogabili, si incorre nell’errore di costituire arbitrariamente costellazioni letterarie di autori le cui opere si rimandano invariabilmente l’una all’altra e che finiscono per diventare una sorta di fonte passepartout, buona a tutti gli usi e per tutte le epoche, tralasciando invece il confronto con testimoni assai meno nobili ma molto più vicini nel tempo e di ben maggiore importanza per l’analisi del testo in esame. Insomma l’uso inadeguato della memoria artifi-

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ciale non si limita a produrre chiose inutili, ma contribuisce a sviluppare un’idea artificiosamente deformata dell’attività letteraria; la maggiore utilità della stessa dovrebbe invece risiedere proprio nel rendere ormai superate rilevazioni statistiche e rimandi lessicali che ciascuno di noi può svolgere anche a casa propria se viene colto da tali ghiribizzi: si liberi in tal modo spazio nei commenti ed energie da profondere più utilmente nei chiosatori. L’ultimo tipo di commento, che è di fatto divenuto l’ultimo nell’attenzione dei contemporanei, è quello storico-erudito, che mi pare sia oggi tanto trascurato quanto sopravvalutato è quello retorico-stilistico. Ovviamente tale indifferenza trae origine da una concezione dell’arte poetica che considera ininfluente la contestualizzazione storica nel giudizio su di un’opera letteraria, una concezione che sarà pur nata dal legittimo fastidio verso tanto sociologismo d’accatto imperante in decenni passati, ma che a sua volta ha prodotto guasti ed è giunta a un limite non più tollerabile. Produco tre soli esempi nel tentativo di dimostrare come una corretta comprensione degli eventi storici, o anche soltanto aneddotici, da cui un testo trae alimento sia indispensabile anche per una corretta valutazione del suo valore e del suo significato estetico. I primi due esempi sono tratti da uno dei volumi che sono in cantiere per la Res e che credo possa essere, insieme alle Rime del Molza, un’opera di fondamentale importanza per un complessivo riesame della tradizione del petrarchismo, ovvero i Cento sonetti di Anton Francesco Raineri. In quella che a mio avviso rimane (ma ancora non ho visto quelle di Gorni e di Gigliucci) la più bella antologia di lirici del Cinquecento, Luigi Baldacci scelse alcuni sonetti del Raineri, e in particolare il VI dei Cento, “Celeste forma, anzi lucente stella”, che per maggiore comodità del lettore trascrivo qui secondo la lezione che sarà data nell’edizione Sodano: Celeste forma, anzi lucente stella, Ch’al Sole innanzi et a la bionda Aurora, Sì ricca luce aprivi al mondo, allora Che sparian l’altre in questa parte e ’n quella, Ove sei? che non più viva, né bella Tra noi ti miro, e pur ti cerco ognora? E membrando il tuo bel, che m’innamora, Ardo; né chieggio luce altra novella. Ov’ascondesti il viso, Espro lucente, Non Lucifero più? com’il chiudesti Quand’al suo maggior lume il tuo si rese? Già ti vid’io di pura fiamma ardente, Piovendo di virtù faville accese, Spiegar i raggi al Polo, onde scendesti.

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Nel commentare il presente sonetto il Baldacci, che traeva il testo del Raineri da una delle numerose antologie cinquecentesche, scrisse: “Sonetto in morte di Madonna, che richiama quello del Tarsia per la morte della moglie, Donna che viva già portavi i giorni”; e svolse poi la sua lettura del sonetto nel parallelo con quello del Tarsia. Se però andiamo a leggere il testo nell’edizione dei Cento sonetti, lo troveremo accompagnato da quelle annotazioni redatte dal fratello Girolamo che sono parte integrante dell’opera (numerosi componimenti risulterebbero presso che incomprensibili senza di esse) e sulla cui importanza già ha attirato l’attenzione Guglielmo Gorni. Ebbene il commento cinquecentesco ci informa che il sonetto, “affettuoso e lugubre”, è composto in morte di “Monsignor Guidiccione”. Il secondo esempio riguarda il sonetto XXXII del Raineri, che anche in questo caso trascrivo: Ben si vede, Signor, la vostra mente A l’opre accesa, et agli antichi onori; E le faville già tralucon fuori Della virtù che ’n voi arde altamente: Tuor di man l’armi a la nemica gente, Perché lampeggin d’esse i vostri allori, Aprir le mura, et a’ superbi cori Impor le leggi, e trionfar sovente, Roma vide ne’ tempi antichi e degni Più d’una volta; e sanlo dir gl’inchiostri E spirarlo i metalli e i vivi marmi: Ma donar le cittadi intiere, e i Regni, Volgendo gli occhi a l’Oriente, e l’armi, Son fatti sol d’un Alessandro e vostri.

Qui il commento fornisce un’indicazione piuttosto strana: “È diretto alla S. memoria di Papa Paulo III, doppo l’impresa contr’a casa Colonna; e non so dir precisamente se quel verso, Ma donar le cittadi intiere, e i Regni, voglia inferir della donazione che fece S. Santità di Modena e Rezzo, o pur di Castro, il qual aggiunse a l’antico stato Farnese; o voglia dir di Camerino, o di Parma e Piacenza. Né so dir anco se il senso sia di vere lodi, o pur d’una velata antifrasi; e però me la passo, per ora”. Effettivamente non può non balzare agli occhi che a commento di un sonetto che dovrebbe essere d’encomio, a celebrare la poco gloriosa impresa di Pier Luigi Farnese contro Ascanio Colonna a Paliano, si elenchino quasi in successione tutti gli episodi di più accentuato nepotismo che resero inviso Paolo III e la sua corte, ed in particolare il figlio Pier Luigi che dell’impresa “contr’a casa Colonna” era

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stato protagonista in prima persona. Il medesimo sonetto era già stato edito nella giolitina del 1547, il Secondo libro delle Rime di diversi, ma con le seguenti varianti nella terzina finale: Ma far nuove città, far nuovi Regni, Soggiogando gli altrui sempre con l’armi, Son fatti sol d’un Alessandro e vostri.

Qui la sottolineatura del ‘soggiogare altrui’ accentua il carattere negativo delle imprese nepotistiche di Paolo III ed anche il “far nuove città”, anziché il ‘donarle’, sembra maggiormente in sintonia, quasi fosse un ammiccamento ironico, con il contenuto del commento edito nel 1551. L’impressione insomma è che, nel consegnare definitivamente alle stampe il testo, il Raineri abbia voluto edulcorare i toni e rendere più allusivo quanto poteva apparire immediatamente polemico, destinando la critica, comunque reticente, al luogo più discreto delle annotazioni. Quale fosse il suo giudizio storico ed umano su Paolo III ci viene incofutabilmente testimoniato da un componimento disperso, non destinato alla pubblicazione e sfuggito alla recensione del Gorni dei testi extravaganti raineriani. Si tratta di un sonetto di risposta inviato al vescovo di Pavia, Giovan Girolamo de’ Rossi, vittima di uno dei numerosi soprusi giudiziari con i quali il papa Farnese intese eliminare, quando non lo fece fisicamente con il veleno o servendosi delle efferatezze del suo degno figlio Pier Luigi, personaggi a lui invisi: a consolarlo delle persecuzioni e delle frodi tramate da Paolo III nei suoi confronti, il Raineri lo invita a resistere contro “di Lerna il fatal mostro”, ricordandogli come non poté nulla contro di lui “tinta in ostro La fraude uscita dal tartareo chiostro” e auspicando in conclusione che giungerà il momento in cui saranno riconosciuti i suoi onori “spenta la fera, Che copre il rio con apparenze sante”. Si tratta di espressioni assai forti, che ci inducono a riflettere sull’importanza dei contenuti della rimeria d’occasione e sulla necessità di valutare anche come abilità poetica le acrobazie diplomatiche cui talvolta i letterati erano costretti. Il terzo episodio che intendo riferire riguarda una lettera di Fausto Sozzini a Girolamo Bargagli, una lunga e importante lettera in cui vengono agitate varie questioni, etiche, politiche e religiose, e al termine della quale è trascritto un sonetto di contenuto amoroso. Il Cantimori, che di tale missiva riferisce (Eretici italiani del Cinquecento, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 347sgg.), non pone soverchia attenzione al documento poetico e più in generale a tale attività del Sozzini; anzi parrebbe ritenerla il segno di un bizzarro persistere di consuetudini che la conversione ‘evangelica’ avrebbe dovuto cancellare (“non aveva abbandonato gli studi letterari” …). E più avanti mostra

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ancora di stupirsi della convenzionalità della produzione poetica del Sozzini (“versi d’amore del carattere platonizzante allora usuale”), ma riferendone non può non osservare una curiosa commistione di tematica religiosa e topica amorosa, come ad esempio in un sonetto in cui l’autore auspica di giungere a una conoscenza teologica altrettanto viva di quanto era stata in lui l’immagine dell’“angelica beltà” oggetto del suo primo amore. Anziché sorvolare su questi testi, credo piuttosto che si dovrebbe considerare l’eventualità, che già ho dovuto contemplare commentando le rime del Nannini, che dietro la rimeria amorosa alla maniera del Petrarca si potessero celare contenuti di tutt’altra natura, la cui espressione non poteva essere palese. La presenza di componimenti poetici di materia amorosa in contesti e situazioni che parrebbero doverli escludere rende lecito il dubbio che in ambienti nicodemitici (e tale era il Sozzini, ma se si intende il termine in un’accezione ampia, numerosi rimatori cinquecenteschi possono vedervi rientrare i propri personali esercizi di prudenza) del codice convenzionale della lirica amorosa ci si potesse servire in una chiave se non proprio cifrata, quanto meno allusiva, una chiave che poteva essere nota soltanto a una cerchia di sodali. Ed è allora evidente che i presunti ozi letterari di Fausto Sozzini assumerebbero una ben diversa rilevanza. La morale dei tre esempi sopra riferiti può essere così enunciata: bisogna sporcarsi le mani con la storia; non ci si può cullare nell’idea che alla comprensione di testi poetici, anche letterariamente raffinatissimi, si possa giungere soltanto servendosi di una strumentazione tecnico-retorica o di una particolare sensibilità del gusto e del giudizio. Gran parte della poesia cosiddetta petrarchista è rubricabile sotto la generica etichetta dell’encomiastico, ma un conto è comporre versi in lode di Paolo III o di Carlo V, un altro è comporli in morte di Filippo Strozzi o di Ippolito de’ Medici; e un altro ancora è mascherare un’invettiva contro Paolo III come sonetto d’encomio, dal momento che di questo si tratta nel sonetto del Raineri sopra citato. Il riconoscimento di tali intenzioni non incide soltanto nella ricostruzione della biografia dell’autore, ma deve aver peso nella valutazione della sua stessa poesia; e del significato che complessivamente possiamo attribuire all’attività poetica del periodo. Ovvero, a questo punto, partendo dai tre esempi sopra citati, può divenire inquietante chiedersi: che cos’è il petrarchismo? Se è vero che la proposta del termine è autorizzata dall’essere il medesimo già in uso presso i contemporanei, è altrettanto vero che a noi esso viene soprattutto dalla pretesa del De Sanctis di racchiudere tutta l’esperienza lirica del secolo nell’unico modello delle Rime del Bembo e di indicare il petrarchismo come forma esemplare di un’esperienza letteraria puramente imitativa e vacuamente monocorde. Ma questa pretesa è fondata

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su numerose forzature e, non ultima, quella di leggere come ‘sonetti in morte dell’amata’ anche quelli dedicati alla scomparsa del Guidiccioni o di altri contemporanei. A tale consolidata immagine del petrarchismo cinquecentesco si possono contrapporre, e già sono state opposte più o meno recentemente, varie obiezioni, e in particolare si può sollevare contro di essa la constatazione che, osservati con maggiore attenzione e senza la pretesa di procedere per forzate campionature, i canzonieri e i libri di rime cinquecenteschi presentano in realtà molta più varietà di quanto si voglia loro attribuire. È ormai dato critico acquisito che accanto al modello bembiano il libro di rime presenta anche altre possibili forme di organizzazione e altri referenti di imitazione: nelle rime del Brocardo, dell’Alamanni, di Bernardo Tasso si riconosce a ragione la presenza, accanto al Petrarca e non certo contro il Petrarca, di un diretto rivolgersi ai classici; a tal proposito ancora maggiori indicazioni si potranno avere a compimento di alcune imprese editoriali in corso per la Res: le rime del Molza innanzi tutto, ma anche quelle del Raineri, senza dimenticare una raccolta come quella di Antonio Mezzabarba che negli anni del pieno bembismo e presso che contemporaneamente alle esperienze del Brocardo e del Tasso compone un canzoniere che si presenta come il risultato di un’ibrida mescolanza di omaggi al Bembo e di significative deroghe al modello da lui proposto, un canzoniere che per protagonista ha una Lietta suonatrice di liuto che, lungi dal rimembrare le movenze di Laura, ha tratti assai più prossimi a quelli di Lesbia. E allora vediamo che l’elemento di varietà che noi indichiamo nel più diretto risalire alle suggestioni delle fonti classiche presenta in realtà ulteriori elementi di variazione poiché accanto al filone oraziano delle odi tassiane o degli sciolti del Muzio, o ancora a quello elegiaco dell’Alamanni, ritroviamo nella lirica volgare anche un filone catulliano e ovidiano, di autori tutti cioè la cui imitazione il Bembo riteneva doverosamente confinata nell’ambito degli esercizi in lingua latina. Ancora più vario è tuttavia il panorama della lirica volgare cinquecentesca se consideriamo, ed è purtroppo un terreno vergine di studi, l’uso della lirica, e soprattutto della lirica di corrispondenza, come luogo anche di dibattito filosofico, ove al modello platonizzante della scala d’amore si contrappongono più spesso di quanto si è soliti pensare voci polemiche, suggestioni epicuree e lucreziane, tesi averroiste o di ancor più radicale materialismo aristotelico pomponazziano. E a tutto ciò si aggiunga la necessità già precedentemente dichiarata di rivolgere una ben maggiore attenzione a quanto fin qui rubricato sotto l’etichetta, un tantino infamante, dell’encomiastico. Una buona occasione può esserne la prossima pubblicazione della Res (ormai più che imminente, il libro è oggi in legatoria), ovvero la famosa antologia giolitina del 1545, le Rime diverse di molti

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eccellentissimi autori curate dal Domenichi 1: se infatti numericamente prevalenti sono in essa i componimenti di argomento amoroso, molto più numerosi di quanto abitualmente si creda sono i testi di natura politica, dai lamenti per le sventure della patria italiana alle lodi sincere per uomini che combatterono per la libertà della stessa. Ma, al di là di queste considerazioni, l’antologia giolitina ci propone anche una riflessione su un paradosso che non può non porre in crisi i più consolidati luoghi comuni critici sul petrarchismo: da un lato infatti si afferma abitualmente che il pieno successo della proposta petrarchista si realizzi proprio con l’inizio della serie delle famose antologie liriche giolitine che sanciscono l’egemonia bembiana nel panorama letterario cinquecentesco, dall’altro non si può non constatare che la proposta lirica bembiana consiste nel concepire il canzoniere lirico come il racconto di un itinerario biografico spirituale che inquadra le passioni secolari come momenti di una scala ascensionale verso la spirituale perfezione, ovvero che pretende di indicare nella dialettica peccato-pentimento la soluzione del massimo dilemma umanistico, la conciliazione tra ricerca del vero e fede nella rivelazione; è però ovvio che l’idea del canzoniere lirico come autobiografia spirituale non può reggere in una raccolta antologica, ove il petrarchismo si propone invece come valore comune di una collettività che si riconosce nell’esercizio lirico, e spesso nella lirica come forma di corrispondenza, con quella complessità che alcuni esempi precedentemente esposti hanno tentato di mettere in luce. Ben lungi dall’essere chiarito in tutte le sue implicazioni rimane peraltro il senso dell’operazione che il Bembo volle condurre pubblicando nel 1529 il suo canzoniere, in un momento in cui, in certo qual modo, le ricche esperienze del decennio trascorso giungevano tutte quante alla decisiva consacrazione pubblica della stampa e in cui proprio il genere lirico, o comunque poetico in più lato senso, finì per occupare un luogo rilevante non soltanto per le proposte in lingua volgare (Trissino, Sannazzaro) ma ancora per le numerose pubblicazioni di raccolte latine, per lo più legate al poemetto sannazzariano, il De partu Virginis, che tante polemiche doveva suscitare: i lusus del Navagero, i carmi del Flaminio, del Cotta, del Fracastoro, del Castiglione, dello stesso Bembo vennero a disegnare un panorama di rinnovata eccellenza nella produzione lirica latina che direttamente ambiva a ricollegarsi all’aureo secolo virgiliano e catulliano. Nel convegno bolognese del 1529 l’Amaseo salutò proprio nel Bembo il campione di tale rinnovata latinità, relegando il volgare

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Nel frattempo, ovviamente, il volume è stato pubblicato: Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Giolito 1545), a cura di Franco Tomaso e Paolo Zaja, Torino, Res, 2001.

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a generi minori e a un’inferiore attitudine espressiva, lontana dalla perfezione della lingua latina; nelle Prose della volgar lingua invece il progetto enunciato in apertura vuole che la ricerca della perfezione proceda di pari passo nelle due lingue: è proprio l’aver ormai ritrovato l’aurea misura dell’espressione ciceroniana che deve indurre gli autori volgari a puntare ad una perfezione elocutiva che avvicini la composizione in lingua toscana all’eccellenza conseguita in quella latina; e la proposta dei modelli boccacciano e petrarchiano origina semplicemente dalla constatazione del buon esito raggiunto nella composizione latina tramite l’adozione di una rigorosa pratica imitativa che costringesse a non esulare dai due modelli prescelti, Virgilio e Cicerone. Il rigoroso petrarchismo delle Rime era dunque, per molti versi, un nuovo capitolo della battaglia per il ciceronianismo che il Bembo e il Sadoleto avevano vittoriosamente (mercé l’appoggio di Leone X) combattuto nel secondo decennio del secolo e che i nuovi eventi, dall’elezione di Adriano VI, all’ascesa di Carlo V, al Sacco del 1527, alle proverbiali indecisioni di Clemente VII, avevano vanificato: è appena il caso di dire come dietro tali schermaglie letterarie si celassero questioni politiche di ben più ampia portata, la cui trama è oggi difficilmente comprensibile, ma la cui realtà si intuisce dietro dibattiti tanto accanitamente accesi quali furono quelli legati alla concessione della cittadinanza romana al Longolio o alla composizione e alla pubblicazione del De partu Virginis. Comprendo che possa parere un’ipotesi avanzata con ampi margini di incertezza e qualche forzatura, ma credo che si possa pensare al petrarchismo nell’età di Clemente VII come al sostituto del ciceronianismo dell’età di Leone X e che entrambi siano tanto più comprensibili quanto meno vengano considerati nell’ottica moderna del ‘movimento letterario’: perché le nostre conoscenze sul petrarchismo migliorino servono sempre più edizioni integrali degli autori, soprattutto di quelli a torto considerati minori, e commenti che ci spieghino che cosa in quei versi si diceva, senza ritessere perpetuamente l’infinita tela dei rimandi fini a se stessi, il cui principale esito mi pare sia quello di rendere mortalmente noiosa una materia che tale di per sé non è e di ottundere le possibilità di comprendere quelle differenze che soltanto possono aiutare la conoscenza.

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Guido Baldassarri – Monica Bianco «OFFICINA PADOVANA»

Due parole, in apertura, sul titolo di questo intervento. Furono gli organizzatori, nell’invitarci al colloquio romano dell’ottobre 2001, a proporlo, avendo nella mente, ma a titolo di cortese plaisanterie, altre e tanto più illustri officine e titoli che per molti versi hanno segnato, nel secolo appena concluso, le vicende dei nostri studi. Noi a Padova, nel riceverlo e accoglierlo, pensavamo, e pensiamo, assai più modestamente, ad altro, e cioè all’attività di un gruppo di ricerca, per la verità assai poco strutturato, in cui si riconoscono, nel nome di un vero e proprio lavoro di équipe, o almeno per lo scambio continuo di informazioni e di esperienza, studiosi di provenienze anche diverse, che da tempo lavorano attorno alla tradizione della lirica quattro-cinquecentesca, e fanno dunque i loro conti con la nozione e la pratica del petrarchismo. Alcuni di loro, nel colloquio romano e dunque negli «atti», ma anche in altre sedi, hanno avuto di recente l’occasione di esporre più distesamente il risultato delle loro ricerche. A noi che firmiamo questo intervento spetta dunque, distintamente, il compito di tracciare un quadro d’insieme, per necessità assai sommario, delle attività del gruppo, e di dare breve notizia del proprio campo specifico di studi (rispettivamente, l’edizione di Domenico Venier, e il lavoro esegetico in margine alle rime di Torquato Tasso). Ne risulterà così, dopo questa breve premessa, una struttura tripartita della nostra comunicazione1.

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Si precisa qui, come del resto evidenziato dalle firme, che a Monica Bianco si devono, oltre alla premessa, i primi due paragrafi, e a Guido Baldassarri il terzo.

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Guido Baldassarri – Monica Bianco

1. Per un quadro delle ricerche in corso In margine alla tradizione lirica, l’ambito privilegiato di lavoro, a Padova, è risultato quello ecdotico. L’«officina padovana» ha così prodotto nel corso degli ultimi anni le edizioni criticamente curate della produzione poetica di alcuni lirici quattro-cinquecenteschi. Le rime di Niccolò Lelio Cosmico (a cura di Beatrice Bartolomeo) 2, e di Pietro Barignano (a cura di chi scrive)3, sono destinate rispettivamente alle collane «Biblioteca veneta» dell’Editrice Antenore e «Scelta di curiosità inedite e rare» della Commissione per i testi di lingua. A queste edizioni si devono aggiungere quella delle rime di Marco Piacentini, curata da Elena Maria Duso4, e quella delle rime di Domenico Venier, curata da chi scrive5. Tra i lavori in corso si segnala l’edizione delle rime di Giovanni Guidiccioni alla quale sta attendendo Emilio Torchio6; mentre Gino Belloni ha in corso di stampa un’edizione, con ampio commento, del Calmo. 2 Per maggiori notizie sull’edizione delle rime del Cosmico si rimanda allo scritto della curatrice presente in questi stessi atti: B. Bartolomeo, Le rime di Niccolò Lelio Cosmico. Del ms. Marciano It. IX. 152, importante per il vantaggioso contributo da esso arrecato alla ricostruzione della tradizione complessiva delle rime del poeta padovano, la Bartolomeo aveva già tracciato un ritratto in B. Bartolomeo, Un manoscritto quattrocentesco di rime di Niccolò Lelio Cosmico. Il ms. Marciano It. IX 152, in “Lettere Italiane”, XLIX, 1997, pp. 600-23. Più recentemente la studiosa ha pubblicato il testo della saffica Io temo, e forsi ogni paura è vana: cfr. B. Bartolomeo, I primi esperimenti di metrica barbara nel Quattrocento: la saffica volgare di Niccolò Lelio Cosmico, in “Stilistica e metrica italiana”, I, 2001, pp. 113-58. 3 Il censimento dei manoscritti e delle stampe contenenti rime del poeta pesarese è consultabile in M. Bianco, La tradizione delle rime di Pietro Barignano, in “Schifanoia”, XVII-XVIII, 1997, pp. 67-124. 4 Riguardo alla possibilità di individuare un canzoniere piacentiniano si rinvia alla comunicazione tenuta dalla studiosa in questo convegno: E. M. Duso, Il canzoniere di Marco Piacentini. La Duso ha dedicato nel corso degli anni tutta una serie di saggi ai problemi sia ecdotici che ermeneutici sollevati dalle rime del Piacentini. Si leggano ed es. E. M. Duso, «Laura sua al buon Petrarca, a me la mia» (CCLVI, 8): Marco Piacentini e l’influsso delle Tre Corone nella costruzione del personaggio femminile, in “Quaderni Veneti”, XXIII, 1996, pp. 85-131; Ead., La poesia politica di Marco Piacentini, in “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti”, CLIII, 1994-1995, pp. 425-85 [articolo concluso dalla presentazione di 33 sonetti del rimatore padovano]; Ead., Appunti per l’edizione critica di Marco Piacentini, in “Studi di filologia italiana”, LVI, 1998, pp. 57-127; Ead., Un nuovo manoscritto di Marco Piacentini esemplato da Felice Feliciano, in “Lettere Italiane”, L, 1998, pp. 556-86. 5 L’edizione è brevemente presentata nel secondo paragrafo del presente contributo. 6 Il Torchio sta completando l’edizione del Guidiccioni come tesi di dottorato in Italianistica presso l’Università degli Studi di Padova, sotto la supervisione di G. Capovilla. Una prima nota sullo stadio raggiunto dal suo lavoro è stata presentata dallo studioso nel

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«Officina padovana»

Da segnalare anche il rilievo del lavoro ecdotico in margine alle antologie cinquecentesche. Dopo l’edizione delle Rime degli Academici Eterei, curata in coincidenza del centenario tassiano del 1995 da Ginetta Auzzas e Manlio Pastore Stocchi, con ampia introduzione del Daniele7, sono appena uscite alle stampe, a cura di Franco Tomasi e Paolo Zaja, le Rime diverse di molti eccellentissimi auttori (Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1545)8. Archetipo di una fortunatissima serie di antologie, la giolitina del 1545, com’è noto, si impose da subito quale modello, dando luogo a un vero e proprio genere editoriale, e attivando nei decenni successivi «specializzazioni» e «concorrenze». Qui, agli inizi del processo, prevalente è piuttosto l’idea alquanto generica di organizzare una silloge di buona qualità di poeti contemporanei. L’introduzione di Franco Tomasi delinea la storia della raccolta, fornendo chiavi di accesso alle coordinate geografico-culturali del retroterra che la promosse e ne decretò il successo; segue all’edizione una sintetica Nota al Testo, ad opera di Paolo Zaja, e le schede biografiche (equamente distribuite tra i due curatori) dei 96 poeti prescelti da Ludovico Domenichi. L’utilità di quest’ultima sezione risulta evidente a chiunque abbia a che fare con le antologie cinquecentesche, nelle quali grandi poeti ed autori di pochi, stentatissimi versi trovano ugualmente posto nel nome di una pratica di scrittura divenuta fenomeno e dovere sociale. Sempre nell’ambito dell’edizione di sillogi cinquecentesche a stampa, ma nel diverso genere delle raccolte encomiastiche, sono in corso presso il Dipartimento di Italianistica di Padova (Baldassarri) edizioni e ricerche affidate a giovani studiosi, che attendono per il momento alla loro tesi di laurea. Si segnalano intanto, perché in fase di più avanzata preparazione, le Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della Signora Irene delle Signore di Spilimbergo (Venezia, Domenico e Giovanni Battista Guerra, 1561 9), cui attende Elisabetta Lunardi, e il Tempio fabricato da diversi cultissimi e nobilissimi ingegni in lode dell’illustre ed eccellente Donna Flavia seminario La letteratura italiana. Storia e tradizione dei testi: materiali per un repertorio (Ascona, 15-19 ottobre 2001) con il titolo: Giovanni Guidiccioni: un’incompiuta silloge d’autore. 7 Rime de gli Academici Eterei, a cura di G. Auzzas e M. Pastore Stocchi, Padova, CEDAM, 1995. E si vedano, dei due studiosi, i contributi apparsi nel vol. coll. Formazione e fortuna del Tasso nella cultura della Serenissima, a cura di L. Borsetto e B. M. Da Rif, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, 1997. 8 Rime diverse di molti eccellentissimi auttori (Giolito 1545), a cura di F. Tomasi e P. Zaja, Torino, Edizioni RES, 2001. 9 La sola sezione «volgare»; quella latina, pure di grande interesse, è oggetto in altra sede delle cure di Guido Baldassarri.

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Guido Baldassarri – Monica Bianco

Peretta Orsina (Roma, Giovanni Martinelli, 1591), su cui lavora Barbara Valle. Accanto alle edizioni, gli studi. Non pochi dei ricercatori sin qui ricordati10 da qualche anno si stanno occupando delle antologie cinquecentesche sia manoscritte che a stampa, non solo allargando lo spettro d’indagine ad ambiti di ricerca sino ad oggi sostanzialmente disertati, ma tentando anche di ricostruire, almeno per campione, il complesso iter evolutivo compiuto dalla «forma antologia» nel corso del XVI secolo. I primi risultati di tali ricerche sono stati raccolti nel volume «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento 11, che, assieme all’edizione delle Rime diverse Giolito, è stato al centro di una giornata di studio (15 febbraio 2002) organizzata a Padova e dedicata alle vicende della diffusione delle sillogi liriche cinquecentesche in Italia e in Europa12. Franco Tomasi e Paolo Zaja, del resto, hanno avviato una prima indagine sulle lezioni accademiche cinquecentesche volte all’illustrazione e al commento di rime di autori contemporanei: settore interessantissimo, ma per molti aspetti ancora poco frequentato13. Questa breve rassegna può utilmente concludersi con l’annuncio di un seminario di studi sulle antologie liriche cinquecentesche che si terrà a Padova nell’autunno del 2004. Il seminario, che si inserisce tra gli eventi delle celebrazioni petrarchesche, sarà strutturato in tre tavole rotonde14.

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Beatrice Bartolomeo, Monica Bianco, Elena Strada, Franco Tomasi e Paolo Zaja. A cura di M. Bianco ed E. Strada (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001: per la collana Manierismo e Barocco diretta da Guido Baldassarri e Marziano Guglielminetti). Sono cinque saggi che, pur nella specificità delle singole ricerche, si propongono di tracciare un percorso coerente: E. Strada, Carte di passaggio. ‘Avanguardie petrarchiste’ e tradizione manoscritta nel Veneto di primo Cinquecento, pp. 1-41; B. Bartolomeo, Notizie su sonetto e canzone nelle Rime diverse di molti eccellentissimi auttori nuovamente raccolte. Libro primo (Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1545), pp. 43-76; F. Tomasi, Alcuni aspetti delle antologie liriche del secondo Cinquecento, pp. 77-111; P. Zaja, Intorno alle antologie. Testi e paratesti in alcune raccolte di lirica cinquecentesche, pp. 113-45; M. Bianco, Il ‘Tempio’ a Geronima Colonna d’Aragona ovvero la conferma di un archetipo, pp. 147-81. 12 Con la partecipazione di Guido Baldassarri, Armando Balduino, Jean Balsamo, Anna Bettoni, Maria Luisa Cerrón Puga, Guglielmo Gorni, Manlio Pastore Stocchi. 13 La ricerca è finanziata sui fondi «Progetti Giovani Ricercatori» messi a disposizione dall’Università di Verona (Petrarchismo in accademia: per uno studio delle lezioni accademiche sulla lirica nel Cinquecento, coordinatore Paolo Zaja). 14 È prevista la partecipazione di Simone Albonico, Beatrice Bartolomeo, Monica Bianco, Silvia Bigi, Stefano Carrai, Massimo Castoldi, Andrea Comboni, Vincenzo De Caprio, Maria Giovanna Miggiani, Amedeo Quondam, Giovanna Rabitti, Massimiliano Rossi, Elena Strada, Franco Tomasi, Paolo Zaja, Giovanni Zanovello. 11

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«Officina padovana»

2. Sulla tradizione delle «Rime» di Domenico Venier 15 Appartenente ad una delle più importanti famiglie nobili veneziane, e senatore della Repubblica; di cultura raffinatissima, e famoso per le sue ardite sperimentazioni poetiche; amico di tutto l’establishment letterario dell’epoca, e animatore di quelle riunioni che avrebbero portato alla nascita della famosa Accademia della Fama16; protettore, consigliere e ispiratore di un’infinità di scrittori, Domenico Venier (1517-1582) godette in vita di un prestigio straordinario. Ciò nonostante le sue rime, pur universalmente lodate, non trovarono un curatore dopo la sua morte, dato che alla costruzione di una complessiva raccolta d’autore, se non ad un «canzoniere», non era pervenuto in vita lo stesso autore17. I suoi testi circolarono così sparsamente: ora in gruppi più o meno consistenti, nelle miscellanee manoscritte o nelle antologie di Rime di diversi, ora nei paratesti di corredo di opere di amici ed ammiratori, ora come proposte o risposte in edizioni di rime altrui. Pur sottoponendo i singoli testi ad un instancabile labor limae, e certo non facilitandone la diffusione18, il Venier per la verità tentò in una certa fase della sua carriera quanto meno di abbozzare una sua personale silloge. Documento assai interessante, in proposito, è il ms. Marciano Italiano IX. 589 (9765)19. Riscoperto da Armando Balduino, che ne diede notizia in un articolo del 1974 20, Mc è quasi interamente autografo (una seconda mano, calligrafica, che chiameremo B – evidentemente un copista – esempla 14 testi tutti corretti, quando non rielaborati, dal Venier), e fu utilizzato, a partire dal 1550, per 15 I dati qui esposti sono tratti dalla Nota al testo premessa all’edizione da me curata: Le Rime di Domenico Venier (edizione critica). Tesi di dottorato in Filologia ed ermeneutica italiana, sotto la supervisione di A. Balduino, discussa presso l’Università degli Studi di Padova nel 2001. 16 Le allora celebri «tornate di Ca’ Venier», alle quali partecipava il fior fiore dei letterati presenti a Venezia. 17 Triste destino per chi aveva, direttamente o indirettamente, promosso la stampa delle rime di tanti conoscenti ed amici (Rota, vivente l’autore; Zane, Molin, Fenaroli dopo la loro morte). 18 130 sono le rime inedite in attestazione unica, 43 quelle che furono stampate una sola volta nel corso del XVI secolo. 19 D’ora in poi Mc. 20 A. Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di G. Padoan, Firenze, Olschki, 1974, pp. 253-58. Una prima analisi del manoscritto era stata affidata dal Balduino ad una sua allieva: C. Vianello, Rime inedite di Domenico Venier. Tesi di laurea discussa a Padova presso la Facoltà di Magistero nell’anno accademico 1971-1972.

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Guido Baldassarri – Monica Bianco

circa un decennio. Nato come raccolta di componimenti non recentissimi, o comunque giunti a uno stadio di elaborazione ritenuto dall’autore se non definitivo almeno soddisfacente, Mc riunisce nella prima ventina di carte rime con pochissime correzioni, per le quali anche la successiva tradizione sia manoscritta che a stampa non conserva che minimi ritocchi21. Progressivamente esso si trasforma invece in un vero e proprio «codice degli abbozzi», attestando così la genesi, talora davvero tormentatissima, dei componimenti, e conservando numerosi testi incompleti o a livello di frammento22. Mc raccoglie 127 rime (tre in doppia redazione), 20 soltanto delle quali ebbero una diffusione a stampa. Il fatto che l’assoluta maggioranza dei testi completi risulti cassata con un tratto di penna trasversale, e che a fianco di tre sonetti compaia l’annotazione «da metter in libro» (confermata in due casi da un’altra della seconda mano, «scritto»), comprova l’esistenza di un altro quaderno in cui tutti questi componimenti trovarono posto. Dato che alcuni piccoli gruppi di sonetti di Mc sono identificati dal Venier con sequenze di lettere o numeri23, è molto probabile che in questo successivo quaderno le rime avessero, almeno per sezioni, una disposizione d’autore. Purtroppo la scomparsa di questo prezioso testimone non ci consente di suffragare con prove decisive l’ipotesi che il Venier fosse pervenuto a costruire una sua personale raccolta. La prima edizione che si proponesse di riunire tutte le rime del veneziano fu stampata soltanto nel 1751, a Bergamo presso Lancellotti, curatore Pierantonio Serassi, e consta di 134 testi24. Considerando che due soli di questi risultavano precedentemente inediti, si era in sostanza in presenza della quasi totalità della produzione del Venier data alle stampe nel Cinquecento25. Primo volume interamente dedicato alla produzione di Domenico Venier,

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Ritocchi relativi, peraltro, ad un numero estremamente esiguo di testi. Sono 24, circa 1/5 del totale. 23 70 [Ahi ch’i’ non posso far ch’io non mi sdegni], 71 [Venere ceda, e ceda insieme a questa] e 74 [Come torna leggiadro e vago amante] sono contrassegnati dalle lettere b, a, c; 94 [Perché dar la ragione in preda a i sensi], 100 [Scrivi, dolce mio caro Aminta, prego] e 102 [Perché mai non discioglia altri che Morte] da B, A, C. 112 [Né rubin mai né perle al mondo, credo], 116 bis [Mentre che tutto il cor si stilla in pianto], 118 [Mal vidi lasso, Amor, colei presente] e 119 [Quanto più di ritrarsi indietro il piede] sono invece contrassegnati dai numeri 7-10. La numerazione dei testi è quella stabilita nell’edizione da me curata. 24 107 sono le rime di argomento vario, 27 quelle di corrispondenza, accompagnate dalle proposte e risposte. 25 All’erudito abate erano sfuggiti soltanto quattro testi: 151 [Perché l’immensa gioia], 153 [Dove fuggi, crudele? Ahi che fuggendo], 210 [Beltà, senno et valor s’uniro insieme], 217 [Ahi che giace per man d’invida morte]. 22

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«Officina padovana»

questo curato dal Serassi ha avuto la sorte di rimanere fino ad oggi anche l’unico. Per leggere un altro insieme di testi del nostro autore bisogna passare infatti al supporto informatico. Nel CD-ROM Archivio della tradizione lirica da Petrarca a Marino 26 è presente infatti una sezione dedicata al Venier 27, la quale però comprende solo componimenti inediti. Resta aperto, ovviamente, stante anche la finalità «d’uso» della silloge, il problema attributivo, assai arduo28, e non mancano inconvenienti imputabili molto probabilmente al passaggio dal supporto cartaceo a quello informatico. L’edizione che qui si presenta raccoglie dunque per la prima volta tutte le rime (edite ed inedite) di Domenico Venier. In questa sede ci si limiterà a fornire taluni dati sulla tradizione dei testi, nel tentativo di offrire un quadro della loro ‘fortuna’29. Sgombrato il campo dalle erronee attribuzioni, ovviamente agevoli a fronte di testi a limitata diffusione, recuperati i quattro componimenti editi sfuggiti al Serassi, aggiunte otto rime inedite alle 107 di Mc e alle 23 già individuate nei lavori citati30, il corpus poetico del Venier consta a tutt’oggi di 276 rime. Di una ventina di testi sono documentate redazioni diverse; numerose le tracce superstiti del continuo labor limae dell’autore. 131 i testimoni: 49 manoscritti e 82 a stampa. Come avvenne per la quasi totalità dei poeti del suo tempo, la diffusione delle rime del Venier fu pressoché limitata al Cinquecento31. Diminuì infatti drasticamente già nel secolo successivo32, per godere di una certa rinascita nel Settecento33, e decrescere di nuovo nell’Ottocento34. Nel Novecento, se

26 Archivio della tradizione lirica da Petrarca a Marino, a cura di A. Quondam, Roma, Lexis Progetti Editoriali, 1997. 27 Si tratta della sezione relativa ai testi della tesi di laurea di A. Nuovo, relatore C. Bozzetti, discussa a Pavia presso la Facoltà di Lettere nell’anno accademico 1981-1982. 28 Ad es. i sonetti sull’assedio di Malta numerati 1. 11. 1-7, attribuiti al Venier sulla scorta del manoscritto 147 della Biblioteca Universitaria di Pavia, sono opera di G. Fenaroli. Nell’edizione postuma delle di lui Rime (uscita a Venezia presso l’Angelieri nel 1574 e dedicata proprio a Domenico Venier) essi sono più numerosi e disposti in due blocchi ben distinti. La canzonetta Donna leggiadra e bella (da non confondere con 49 di eguale incipit) numerata 1. 14, è di G. Brevio e si trova nell’edizione delle sue Rime e prose volgari (Roma, Blado, 1545) alle cc. C 4v-C 5r. 29 Domenico Venier fu autore anche di testi in dialetto veneziano: cfr. T. Agostini Nordio, Poesie dialettali di Domenico Venier, in “Quaderni Veneti”, XIV, 1991, pp. 35-56. 30 Cfr. nn. 20 e 27. 31 98 testimoni su 131. 32 5 testimoni (3 manoscritti e 2 a stampa). 33 3 manoscritti e 15 edizioni a stampa, tra cui l’editio princeps del Serassi. 34 Due sole antologie, alle quali si aggiungono le edizioni delle rime del Caro e del Varchi.

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Guido Baldassarri – Monica Bianco

poche sono le sillogi che accolgano testi del Venier 35, si è assistito in compenso a quella ripresa di studi sulla sua produzione inedita di cui si è detto. Ad una attenta analisi risulta inoltre che i testi veniereschi che godettero effettivamente di ampia circolazione non furono moltissimi. Esclusi Non punse, arse o legò stral, fiamma o laccio [144] e Qual più saldo, gelato et sciolto core [145], veri e propri best-sellers con i rispettivi 33 e 21 testimoni, i componimenti che, grazie alle grandi raccolte di Rime di diversi curate dal Dolce o dal Ruscelli, attraversarono tutto il Cinquecento furono poco più di 50. Per lo più i testi del Venier ebbero circolazione limitata, e moltissimi ci sono giunti in attestazione unica36. Quanto risulta dall’analisi della tradizione letteraria trova conferma nelle edizioni musicali. Delle 276 rime soltanto diciassette, infatti, ebbero una veste musicale37, per un totale di 42 intonazioni e 51 edizioni. Più della metà di esse (11) ebbero una sola messa in musica; nove furono edite una sola volta38; 163 (F. De Monte, madrigale a quattro voci) e 198 (B. Donato, madrigale a quattro voci) ebbero invece rispettivamente due (1581, 1588) e sei (1550, 1551, 1552, 1554, 1556, 1558) edizioni. Scende a quattro il numero dei testi che furono messi in musica due volte39. L’intonazione di F. De Monte di 7 fu l’unica ad avere due edizioni. Il solo 153 fu musicato quattro

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Sono 6 in tutto. Cfr. n. 18. 37 7 [Né sì dolce com’hor né sì cortese], 49 [Donna leggiadra et bella], 121 [Donna, il pregio di voi tant’alto sale], 144 [Non punse, arse o legò stral, fiamma o laccio], 152 [Ahi chi mi rompe il sonno? Ahi chi mi priva], 153 [Dove fuggi, crudele? Ahi che fuggendo], 154 [O più ch’altra giamai cruda e rubella], 158 [Verdeggiavano intorno i boschi e i prati], 163 [Dolce mio caro et pretioso albergo], 169 [Poiché pianti e sospir’ gravi et dolenti], 171 [Non saettar, Amore], 186 [Pien d’amoroso ardor mi struggo et sfaccio], 189 [Due ben scese qua giù dal sommo Trono], 192 [Fiammeggiavano in ciel chiare le stelle], 198 [Gloriosa, felice, alma Vinegia], 207 [Mentre m’havesti caro], 249 [Deh potess’io, madonna, uscir di vita]. 38 49 (G. Bassano, canzonetta a quattro voci, 1587); 121 (G. A. Veggio, madrigale a quattro voci, 1575); 154 (A. Martorello, madrigale a cinque voci, 1547); 169 (R. Vettore, madrigale a quattro voci, 1560); 171 (G. Belli, madrigale a cinque voci, 1584); 189 (F. Rosselli, madrigale a cinque voci, 1562); 192 (H. L. Hassler, madrigale a sei voci, 1596); 207 (F. Portinari, madrigale a otto voci, 1554); 249 (T. Massaino, madrigale a cinque voci, 1571). 39 7 (F. De Monte, madrigale a quattro voci, 1569, 1585; R. Del Mel, madrigale a sei voci, 1585); 144 (G. Martoretta, madrigale a quattro voci, 1554; I. Chamaterò, madrigale a cinque voci, 1560); 158 (D. Sacerdote, madrigale a sei voci, 1575; G. Belli, madrigale a cinque voci, 1584); 186 (G. Martinengo, madrigale a cinque voci, 1580; G. Aichinger, madrigale a cinque voci, 1590). 36

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volte40. Dalle quattro intonazioni di 153 si passa poi alle 19 (due dello stesso autore, F. De Monte, a venti anni di distanza) di 152, vero successo in campo musicale, paragonabile a 144 e 145 in campo letterario, per un totale di 25 edizioni41. Come in ambito letterario, anche in quello musicale la fortuna dei testi del Venier fu tutta cinquecentesca: sono soltanto 5 su 51 le edizioni secentesche, e tutte entro il primo ventennio del secolo (1603, 1608, 1611, 1615, 1617). Le edizioni cinquecentesche si dispongono in un arco di tempo che va dal 1547 al 1600, ma vedono la loro massima frequenza negli anni SettantaOttanta (22 su 46). La fortuna musicale del Venier coincide quindi con gli anni di massima prosperità editoriale del madrigale polifonico, e declina con l’abbandono della tradizionale scrittura polifonica tardo-cinquecentesca in favore dell’adozione sempre maggiore delle nuove tecniche concertanti a voci sole o ad una soltanto sul basso continuo. I testi del veneziano furono musicati infatti nella quasi totalità come madrigali a quattro (8 intonazioni), cinque (21 intonazioni) o sei voci (10 intonazioni). Se gli anni Settanta-Ottanta del Cinquecento furono quelli che videro con maggiore continuità la pubblicazione di raccolte musicali contenenti rime del Venier, si può dedurre che nel suo complesso la fortuna in questo ambito dei testi veniereschi seguì quella letteraria. A questa situazione generale si contrappongono però alcune interessanti eccezioni. Quattro testi uscirono infatti a stampa in un’edizione musicale prima (in due casi molto prima) della princeps del solo testo: sei anni separano Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori (Venezia, 1553) dall’uscita dell’intonazione del Martorello (1547) di 154 [O più ch’altra giamai cruda et rubella]; quindici, undici e tre anni intercorrono tra la raccolta De le rime di diversi nobili poeti toscani raccolte da M. Dionigi Atanagi (Venezia, 1565) e le edizioni Scotto

40 G. Textoris, madrigale a cinque voci, 1566; D. Sacerdote, madrigale a sei voci, 1575; G. Turnhout, madrigale a sei voci, 1589; F. Guami, madrigale a quattro voci, 1598. 41 Nell’ordine: G. Textoris, madrigale a cinque voci, 1566; F. De Monte, madrigale a cinque voci, 1570 (con riedizioni nel 1573, 1578, 1580, 1581); T. Massaino, madrigale a cinque voci, 1571; G. Dalla Casa, madrigale a cinque voci, 1574; A. Merlo, madrigale a cinque voci, 1577; S. Felis, madrigale a sei voci, 1579; F. Rovigo, madrigale a cinque voci, 1581; G. Cavaccio, madrigale a cinque voci, 1583; R. Del Mel, madrigale a sei voci, 1584; F. De Monte, madrigale a sei voci, 1591; G. Barthaei, madrigale a cinque voci, 1592; C. Cardillo, madrigale a cinque voci, 1594; A. Fontanelli, madrigale a cinque voci, 1592 (con riedizioni nel 1596, 1603); G. Arnoni, madrigale a sei voci, 1600; J. Hassler, madrigale a sei voci, 1600; P. Quagliati, madrigale a quattro voci, 1608; G. F. Anerio, madrigale a una voce, 1611; N. Rubini, madrigale a cinque voci, 1615; G. Belli, madrigale a cinque voci, 1617.

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(1550) o Gardane (1544; 1562) di 198 [Gloriosa, felice, alma Vinegia: madrigale a quattro voci di B. Donato], 207 [Mentre m’havesti caro: madrigale a otto voci di F. Portinari] e 189 [Due ben scese qua giù dal sommo Trono: madrigale a cinque voci di F. Rosselli]. Ma il dato più notevole riguarda 249 [Deh potess’io, madonna, uscir di vita], 121 [Donna, il pregio di voi tant’alto sale] e 49 [Donna leggiadra e bella]: rimaste inedite per quanto concerne la tradizione letteraria, uscirono in stampe musicali rispettivamente nel 1571 (Il primo libro de madrigali a cinque voci di Tiburtio Massaino, Venezia, A. Gardane), 1575 (Di Gio. Agostino Veggio [...] il primo libro de madrigali a quattro voci, Venezia, S. Viotto) e 1587 (Canzonette a quattro voci di Giovanni Bassano, Venezia, G. Vincenzi). MONICA BIANCO 3. Per l’esegesi delle «Rime» di Torquato Tasso Come si è tentato di dimostrare in altra sede, la persistenza a tutt’oggi di un rilevante problema filologico concernente le Rime tassiane ha coinciso con una situazione a dir poco deficitaria (salvo eccezioni) sul piano di un approccio ordinato al né facile né poco necessario lavoro esegetico in margine ai testi, sia pur provvisoriamente fissati in una lezione discutibile, ma che è poi quella di una vulgata che, almeno in astratto, dato il rilievo e la qualità dell’autore e della sua produzione di rime, largamente avrebbe dovuto interagire con la vasta messe di studi che alla tradizione lirica cinquecentesca, specie negli ultimi decenni, sono stati dedicati42. Occorre invece osservare, specie a confronto con tanto più impegnativi progetti di commento di cui proprio nel corso di questi «atti» si dà conto, che la situazione per le Rime del Tasso è ancora nelle condizioni di dover auspicare il conseguimento dei requisiti minimi di un’esegesi degna di questo nome: l’illustrazione del testo, ai fini addirittura della sua comprensibilità, sul piano della sua concretezza lingui-

42

Cfr., al riguardo, di chi scrive, Per l’esegesi delle «Rime», in “Studi Tassiani”, XLVII, 1999, e XLVIII, 2000, nonché il contributo «A illuminar le carte». Per l’esegesi delle Rime tassiane, nel vol. coll. Studi sul Manierismo letterario, per Riccardo Scrivano, a cura di N. Longo, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 135-53. Per le edizioni (e i commenti), qui e nel seguito, si rinvierà in forma abbreviata (Solerti, Maier, Basile) a T. Tasso, Rime, edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe, a cura di A. Solerti, Bologna, RomagnoliDall’Acqua, 1898-1902; T. Tasso, Rime, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1963-1964; T. Tasso, Rime, a cura di B. Basile, Roma, Salerno Editrice, 1994.

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stico-sintattica, una pur cauta e limitata indicazione delle interferenze con la tradizione dei «classici» antichi e moderni, un conteggio adeguato del bagaglio culturale dell’autore (con la fruizione sistematica, se non dei «postillati», almeno delle prose), il rilievo delle contaminazioni e degli incroci stilistici, sul doppio versante dell’inter- e dell’intra-testualità, quanto meno con il rilievo ordinato delle presenze dantesche, petrarchesche, bembiane e dellacasiane, e di un sistema né sporadico né casuale di sovrapposizioni (dalla «memoria poetica» all’autocitazione vera e propria) con la restante produzione in versi dell’autore (elenco minimo, Liberata, Aminta, Torrismondo, Conquistata, Mondo creato). Mi soffermerò in questa sede, a titolo aggiuntivo, su taluni esempi che, sul piano delle competenze adibite, hanno attinenza con la predilezione tassiana per le scienze storiche e antiquarie. In questa direzione, uno dei testi più sfuggenti, nelle Rime del Tasso, è rappresentato probabilmente dal son. 633, accolto dal Solerti nella seconda parte del secondo libro delle Rime d’occasione o d’encomio, e come tale di data incerta43. Totalmente costruito sulla base di excerpta di storia romana pertinenti alla seconda guerra punica, esso risulta bensì bisognoso in sede di commento di qualche nota integrativa, ma soprattutto dell’indicazione (sin qui assente sul piano documentario) di una credibile circostanza di composizione che ne precisi finalità e senso complessivo: Dopo Romulo e Cosso, a Giove offerse le terze spoglie del re gallo opime il gran Marcello e riportò le prime palme de’ Mauri ch’ei vinse e disperse. Nola il sa ben, che lui fra schiere avverse, qual fra gli augelli l’aquila sublime, o qual saetta in su l’eccelse cime di sacre querce impetuoso scerse. Non Paulo o Claudio, ch’Asdruballe estinse, agguagliò Roma a la fulminea spada, ma sol del vecchio Fabio il cauto scudo: perché represse l’uno Annibal crudo, e l’altro il tenne con molt’arte a bada: pur l’alto Scipion fu quel che vinse.

Nonostante qualche défaillance dei commenti disponibili, il sistema dei rinvii alla storia liviana appare nel complesso coerente; basterà semmai pre-

43

Solerti, III, p. 174; Maier, I, pp. 627-28; Basile, I, pp. 608-09.

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cisare, anche con l’occhio alle discussioni di epoca augustea, che le terze spoglie in ordine di tempo (v. 2) sono in realtà prima spolia in ordine d’importanza, e come tali destinate al tempio di Giove Feretrio: occorrenza verificatasi solo tre volte nella storia romana, allorquando il comandante supremo (e dunque con propri auspicia) uccideva di persona in battaglia il re nemico. Elogio dunque di Marcello, nel Tasso, che dopo quell’impresa memorabile fu il primo, teste Livio, a fermare presso Nola la sequenza impressionante dei successi annibalici44. Di qui, nella seconda quartina, la doppia immagine dell’«aquila» e del fulmine, nel nome rispettivamente della potenza romana non doma, e dell’imprevedibile colpo inferto all’orgogliosa sicurezza di Annibale (vv. 7-8: «su l’eccelse cime / di sacre querce»). Di qui, in un’ipotetica gerarchia di valore e d’importanza dei comandanti romani, la collocazione ex aequo, al primo posto, di Marcello e di Fabio (la «fulminea spada» e il «cauto scudo», vv. 10-11), anche rispetto a Claudio Nerone, il vincitore della battaglia del Metauro, e al grande Lucio Emilio Paolo, morto con onore sul campo di Canne, ed esaltato dalla tradizione senatoria45: anche se, ex post, il successo finale arriderà solo a Scipione (v. 14). Diversamente da quanto avviene in molti altri testi tassiani46, dove la rivisitazione delle storie antiche ha immediata connessione con il presente, foss’anche nel nome di una pura coincidenza onomastica (i casi ben noti di Alessandro e dello stesso Scipione47), il son. 633 appare comunque, da questo punto di vista, irrelato: anche se nella disposizione solertiana parrebbe implicito un rinvio ai contigui nn. 632 e 634, entrambi, in termini pur differenziati, di elogio del vincitore di Lepanto, don Giovanni d’Austria48. Se così fosse, il dato saliente, ma per la verità del tutto implicito, in assenza come si è detto di riscontri esterni, dovrebbe essere una sorta di climax ascendente, lungo la quale, un po’ come avviene nelle ottave proemiali della Liberata 49,

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Ab urbe condita, XXXIII 14 sgg. Non dunque il Macedonico, come intendono i commenti, ma il padre di questi, che fu suocero di Scipione l’Africano. Inutile dire che ai vv. 12-13 continua il parallelo tra Marcello e Fabio, nel nome di una diversa e complementare virtus bellica, l’attacco («represse l’uno Annibal crudo») e la resistenza («l’altro il tenne con molt’arte a bada»). 46 Se ne vedano, più oltre, taluni esempi qui stesso. 47 Per il quale ultimo interessante fra gli altri è il son. 516 (v. 13), già presente nelle rime ‘eteree’ del Tasso, a titolo di vistoso elogio di Scipione Gonzaga e della sua autobiografia. 48 E nel primo caso con ampi rinvii al tema di Alessandro. A don Giovanni d’Austria è indirizzato anche il son. 774 (Solerti, III, pp. 325-26; Maier, I, p. 739; Basile, I, pp. 76768), con diffusi riferimenti alla storia antica e alle guerre persiane. 49 I 5. 45

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gli auspici si volgono nella direzione di una guerra risolutiva contro il Turco, rispetto a cui la vittoria di Lepanto assumerebbe il significato di un pur rilevantissimo successo preliminare. Ma, ripeto, tutto ciò, allo stato, riguarda al massimo le intenzioni del Solerti: rispetto a cui, in astratto, e in assenza di una nuova ricognizione dell’ordinamento almeno dei testimoni base, equivalente potrebbe persino risultare un’intenzione «cortigiana» di elogio, come in tante altre occasioni, di interlocutori, protettori o mediatori del Tasso rispondenti ai nomi di Marcello Fabio o Scipione, presi separatamente o tutti insieme che siano. All’antiquaria, ma per l’appunto secondo un criterio comparativo esplicito tanto più agevole a ritrovarsi nelle Rime, fa invece riferimento il son. 923: e assai opportunamente, si aggiunga, trattandosi del terzo di un gruppo di tre (gli ultimi due in morte) per Pirro Ligorio50: Pirro, mentre già vivo in terra fusti tra quei che ’l mondo volentieri elegge, scegliesti i marmi di chi freno e legge gli diede e vi punì gli empi e gl’ingiusti; or che sei giunto dove i premi giusti comparte il Re che ’l sole informa e regge, con lieta fronte dove il ver si legge miri di gloria coronati augusti; e guardando il celeste adorno tempio e gli aurei seggi e gli stellanti chiostri ch’in giro appese e per albergo scelse, archi, terme, teatri, opere eccelse, ma pur mortali, e i magisteri nostri tutti disprezzi, onde si prende esempio.

E dunque lo studioso celebre di antichità, giunto in cielo, e confrontando con le divine meraviglie le opere pur illustri della storia umana, può giudicare per esperienza queste ultime in termini così riduttivi come già, sulla scorta del Somnium ciceroniano, e in termini adeguati al loro status (l’«imperio» e l’amore), avevano provveduto a giudicare delle cose terrene il Goffredo e il Rinaldo della Liberata 51. Qualche oscurità semmai, certo anche in virtù dei

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Solerti, III, pp. 471-73; Maier, I, pp. 839-41; Basile, I, pp. 916-19. Aggiungo qui che nel son. 921 eliminerei la virgola della vulgata in fine del v. 13, mentre una corruttela del testo appare indubbia nel son. 922, al v. 9. 51 XIV 9-11, XVIII 12-13. Intendo, ai vv. 13-14: ‘persino le opere umane assunte a modello’; mentre, ai vv. 10-11, sarà da segnalare una calcolata corrispondenza: aurei seggi: appese; stellanti chiostri: scelse.

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consueti difetti della punteggiatura solertiana, è stata rilevata dai commenti all’altezza della prima quartina: ma qui il confronto col son. 921, e soprattutto il pendant nel medesimo son. 923 fra i vv. 3-4 e 7-8, permette di intendere: ‘tu che da vivo tra le statue antiche gradite al mondo collezionasti i busti dei Romani che esercitarono l’impero e amministrarono la giustizia, ora, in cielo, dove Dio stesso se ne fa garante, vedi faccia a faccia, tanto superiori ai pagani illustri, i beati redimiti di gloria celeste’52. Sulla stessa linea di ordinata transizione dalle glorie pagane alle cristiane 53, ma nel nome di una più agevole, nelle Rime, coincidenza onomastica, si colloca il più tardo son. 1223, per il cardinalato del nipote di Sisto V, Alessandro Damasceni54. Qui per la verità, e certo in virtù della ricerca di una significativa continuità «romana», al più ovvio degli Alessandri, il Macedone, si sostituisce niente meno che il poco più che adolescente Alessandro Severo, imperatore dal 222 al 235: Fra’ suoi vittoriosi e sacri augusti Alessandro contò la nobil Roma, quando ella cinse d’or l’antica chioma55, donna di Sciti e d’Etiopi adusti. Or ch’al sommo poter confini angusti dar può la terra e ’l mar ch’uom varca e doma, altri Alessandri in sé produce e noma, altri n’adorna e via più santi e giusti. E questo, dopo gli altri, al ciel più care fa le rive del Tebro, e i bei costumi son quasi stelle e sole il chiaro ingegno. Mont’alto è l’oriente ond’egli appare, come riluce in più sereni lumi al cader d’uno altro celeste segno!

E intenderei ai vv. 5-8: ‘Ora che cessata la monarchia universale il potere terreno è venuto a restringersi entro più angusti confini, Roma ripete il bel

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Leggerei dunque, ai vv. 1-3: «Pirro, mentre già vivo in terra fusti, / tra quei che ’l mondo volentieri elegge / scegliesti i marmi [...]»; e cfr. il son. 921: «Tu, ch’opre di materia e di lavoro / così pregiate scegli, e i duci egregi / e i grandi augusti e i gloriosi regi / che man latina o greca impresse in loro [...]». 53 Dove interessante può essere il confronto con alcune pagine del dialogo de gli idoli (ed. Raimondi, vol. II, to. II, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 697-99, §§ 28-36). 54 Solerti, IV, p. 268; Maier, I, p. 1065; Basile, II, p. 1252. 55 Con allusione all’avvenuto passaggio dall’età repubblicana all’impero.

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nome antico nei suoi cardinali e nei suoi pontefici, ma in un grado tanto più eminente di santità e giustizia’. È appunto il caso del nuovo cardinale Alessandro, venuto a prendere il posto di quanti nella Chiesa lo hanno preceduto con quel nome56, proprio come lungo il circolo dello zodiaco si succedono ordinatamente le costellazioni57. Ad Alessandro Magno del resto quasi naturalmente tornava il Tasso, nel secondo e soprattutto nel terzo di una serie di quattro sonetti (nn. 13951398), pure indirizzati al cardinal Montalto58. Qui, una sorta di sommario delle imprese dell’eroe macedone, guerriero e fondatore di città, ma tutto volto a oriente59, si pone quale antefatto delle gesta «sacre» del nuovo Alessandro, in grado di impegnare ugualmente60 l’«occaso» e l’«orto» (v. 10): Far contra il corso eterno un lungo corso d’alte vittorie e far cittadi illustri, perché più l’oriente indi s’illustri, drizzando altari al mondo, e vinto e scorso; passar de’ mari il sen, de’ monti il dorso, arene tempestose, onde palustri, glorie accresciute son d’anni e di lustri senza temer del tempo il duro morso. 56 E non escluderei, anche per ragioni di date (1580 e 1585, rispettivamente), che il Tasso alludesse a una sorta di restauro, da parte del nuovo cardinale, del luogo lasciato vacante da Alessandro Farnese, cui, in morte, aveva destinato un’ottava e quattro sonetti (nn. 1430-1434). 57 Interverrei anche qui sulla punteggiatura solertiana; a parte l’opportunità di due virgole in cesura, ai vv. 8 e 11 («altri n’adorna, [...]»; «son quasi stelle, [...]»), più conta, ma proprio ai fini dell’interpretazione, l’interpunzione della seconda terzina, che strettamente si ricollega col verso di chiusura della precedente (le «stelle» e il «sole»), e con tutta probabilità non va esente da una suggestione dantesca (Par. XI 53-54: «[...] non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vole»), e dove il come del v. 13 vale evidentemente ‘così come’ e non ‘quanto’, senza alcuna necessità dunque del finale punto esclamativo. 58 Maier, II, pp. 126-29; Basile, II, pp. 1535-539. E, per il son. 1396, si vedano soprattutto i vv. 6-11 («[...] del nome il tuo gran merto è degno, / Alessandro, e nascesti a l’ostro, al regno, / a dar soggetto a le famose carte. / E se non fa per te Fortuna oltraggio / a’ regi, e non ingombra estrania terra / con ruina d’imperio al suolo sparso [...]»). 59 La ricapitolazione tassiana, tutt’altro che imprecisa, trova sostanzialmente riscontro nella Vita plutarchea: gli «altari» (v. 4: Vita Alexandri, 62), le «arene tempestose» nel viaggio verso l’oracolo di Ammone (v. 6: Vita Alexandri, 26-27; e cfr. Erodoto, III 26), le «onde palustri» (v. 6), per le quali penserei soprattutto alla discussione plutarchea sulla Palude Meotide (Vita Alexandri, 44); e, per i «mari» e i «monti» (v. 5), non vi è colà che l’imbarazzo della scelta. 60 Un po’ sulla linea della celebre quaestio liviana.

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Ma voi fate più bello in Roma il mondo61, volto a l’occaso: a l’orto alta speranza danno i trofei contro Babel superba. E tanto il novo onor gli antichi avanza, quanto è men ampio il mar del ciel profondo, ch’è vostro fine e ’l premio a voi riserba.

Un supplemento di attenzione, in questo contesto, meritano probabilmente le due soglie del testo. Al v. 1, contro l’esegesi corrente (‘il corso del tempo’, nel nome di un perdurare nella memoria delle gesta di Alessandro, quasi anticipazione del v. 8), andrà infatti evidenziata62 una reminiscenza dantesca, ben adeguata al «corso» verso oriente del re63; mentre ai vv. 13-14, col sin ovvio confronto fra la gloria celeste destinata al cardinale e quella puramente terrena dell’antico, il Tasso pare qui preferire, a ogni incursione negli ampi domìni della leggenda di Alessandro, la figura storica di chi all’esercito di terra, e anche con finalità di ricognizione geografica, volle affiancare una potente armata navale64. E un’allusione agli storici antichi è riconoscibile nella chiusa del son. 1410, indirizzato alla moglie di Luigi Carafa, Isabella Gonzaga, del ramo di Sabbioneta65: dove le «antichità» dei Gonzaga66 coesistono, a titolo di elogio, con un auspicio di gloria regale non dimentico di celebri signa 67: L’antica gloria in voi di scettri e d’armi con tanti d’onestate onori e pregi, son pur semi e faville, e non già spente; e voi qui le spargete e veggio, o parmi, dal vostro sen fiamma di gloria ardente uscita, coronare i duci e i regi.

61 ‘In occidente abbellite il mondo, fattosi in Roma città’, sulla falsariga dell’elogio già antico dell’urbs orbis. 62 E si veda più sopra il caso analogo del son. 1223 (nota 57). 63 Par. VI 1-2 («Poscia che Costantin l’aquila volse / contr’al corso del ciel [...]»). 64 Si veda ancora la plutarchea Vita Alexandri, 66 e 68. 65 Maier, II, p. 137; Basile, II, pp. 1550-551. 66 E si vedano già i vv. 1-4 («Ciò che versò per meraviglia il cielo / in cento eroi famosi in cento lustri, / che fanno adorna Italia, e prima illustri / fer le parti soggette al duro gelo [...]»). 67 Caso esemplare, ancora, la plutarchea Vita Alexandri, 2. Aggiungo qui che per il v. 8 («onde s’illustri / Napoli più di Creta e Delfo e Delo») agevole risulta il confronto con Liberata IV 29, vv. 1-2 («Argo non mai, non vide Cipro o Delo / d’abito o di beltà forme sì care [...]»).

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Concludo con due ultimi esempi, che rinviano ancora alla storia romana e all’erudizione antiquaria. Niente affatto generica, nel son. 1563 (indirizzato come il precedente a donna Felice Orsina Peretti, principessa di Palliano 68), è l’allusione conclusiva al «gran Camillo», che «chiude», infatti, il Leitmotiv, sin dall’inizio, del componimento, se si vuole sul filo dell’agudeza (Roma, stabile per millenni nella sua sede, vorrebbe seguire la dama nei feudi meridionali del marito, Marcantonio Colonna69): Roma, ch’al variar d’iniqua sorte per incendio o per fera ampia riuna non mutò sede, e com’alta reina cadde e ’n se stessa ebbe sepolcro e morte, or che l’antiche glorie in sé risorte vede e ’l regno, che ’l cielo altrui destina, ed ogni estrema gente a lei s’inchina oltre le vie del sol lunghe e distorte70, vorria, donna, seguirvi; e i sette monti sdegnando, in umil riva e ’n mar tranquillo prender brama da voi fortuna71 e legge. E s’ella i passi ha del voler men pronti, natura incolpa e non il gran Camillo, ma voi servir pria che regnare elegge.

La reminiscenza, possibile, del Petrarca (TdF II 138: «che fe’ l’impresa santa e’ passi giusti») non autorizza in effetti, neanche con la scorta di Livio72, a intendere: ‘non può farne colpa a Camillo, che anzi, nel combattere i Galli, «ebbe [...] i passi pronti al volere»’73; più giustamente Roma, incapace di mettere in atto i suoi propositi, può rimproverare di ciò la natura (‘città’ e ‘movimento’ essendo fra loro incompatibili), e non certo Camillo, che sin dai tempi antichi, con un’appassionata orazione, e con l’ausilio di un celeberrimo auspicio (Hic manebimus optime), impedì lo spostamento a Veio del centro dello stato romano dopo la guerra gallica74. 68

Maier, II, pp. 310-11; Basile, II, pp. 1786-788. E si veda del resto l’intero son. 1562, in cui Roma stessa prende a lungo la parola sull’argomento (vv. 10 ss.: «[...] gli aurei alberghi in più rozzi soggiorni / per appressarmi a lei sicura io cange [...]»). 70 Citazione petrarchesca (RVF XXXVII 24). 71 Elimino l’antecedente virgola della vulgata. 72 Ab urbe condita, VII 26 (convocato dal Basile, ad loc.). 73 Così il Maier, ad loc., sostanzialmente seguito dal Basile. 74 Ab urbe condita, V 50-55. 69

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Un’«acutezza», ancora, ma non così estemporanea come intendono i commenti75, ricorre nel son. 1672, di argomento «sacro», indirizzato a Maurizio Cataneo. Al peccato dell’uomo si oppone la misericordia del Cristo, nel nome della quale, e della correzione fraterna del destinatario, l’autore rinsalda le sue speranze di fruttuoso ravvedimento: L’alma ch’Amor non arde e non riscalda, membrando il tempo che l’accese ed arse e le speranze sue fallaci e scarse, gela per tema come bianca falda di fredda neve in Alpe; e ’n pietra salda legge le colpe sue, né può quetarse, se chi la dura Croce infuse e sparse, Maurizio, non la rende ardita e balda. Egli, che scrisse le pietose leggi col vivo sangue e cancellò la morte, non già dragon, ma sì ben detto agnello; egli mi purghi e mondi, e tu correggi i passi miei, se per vie dubbie e torte travio del mondo lusinghier novello.

Eppure, la contiguità con i termini chiave delle «pietose leggi» e della «morte» (sconfitta dal Cristo, con la sua passione e resurrezione, in senso proprio e spirituale) può e deve mettere sull’avviso: non per negare l’artificiosa opposizione, al v. 11, fra il «dragon» e l’«agnello», l’agnus Dei sacrificale, ma per rilevarne la funzione «complicante» (interpretatio nominis!) rispetto alla chiamata in causa del famigerato Dracone, il legislatore inflessibile le cui leggi erano scritte non già con l’inchiostro, ma col sangue76. Sparsi frammenti, anche questi, di un commento alle Rime del Tasso che, in attesa di una nuova e filologicamente credibile edizione dei testi, può e deve rimanere puramente «virtuale»; ma da cui, forse, si può inferire, se non una «legge», un’esigenza ormai indifferibile degli studi sulla tradizione lirica e sul petrarchismo: edizioni, certo, ma, davvero, mai più senza commento. GUIDO BALDASSARRI

75 Maier, II, p. 407; Basile, II, pp. 1918-919. Nessuna indicazione al riguardo in G. Santarelli, Studi sulle rime sacre del Tasso, Bergamo, Centro Tassiano, 1974. 76 E si veda, fra le testimonianze antiche, almeno la plutarchea Vita Solonis, 17.

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Tiziano Zanato NOVITÀ SU TRADIZIONE E TESTO DEGLI AMORUM LIBRI TRES

Le novità di cui intendo parlare si devono ritenere tali rispetto all’edizione critica di riferimento del testo boiardesco, curata da Pier Vincenzo Mengaldo nel 1962 1, sono già state in parte applicate nella mia edizione commentata degli Amores uscita per Einaudi, nel 1998, verranno esposte e dettagliatamente verificate nel testo critico da me stabilito degli Amorum libri tres ora in corso di stampa per l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento2. Si intende che le novità sono relative, poiché derivano da una riconsiderazione globale e puntuale dei manoscritti già noti (minime le nuove acquisizioni, limitate a qualche codice miscellaneo) e da una auscultazione attenta del testo, ma comunque tali, così mi sembra, da permettere un passo in avanti rispetto al punto di partenza, in ogni caso buono, del testo-Mengaldo. Il testo critico degli Amores si basa sull’escussione di tre testimonianze fondamentali (della tradizione estravagante dirò qualcosa a parte): L = Londra, British Library, ms. Egerton 1999. Membranaceo, inizio dell’ultimo quarto del sec. XV (cfr. subscriptio: «die quarto Januarii 1477»), copiato da un’unica mano, che in un secondo momento provvide a rivedere qua e là la trascrizione, per lo più con qualche integrazione o espunzione di lettere (= L1); su tale testo intervenne a sua volta L2, mano coeva alla prima, con modifiche sostanziali alle lezioni, per lo più su rasura.

1 Cfr. M. M. Boiardo, Opere volgari. Amorum libri – Pastorale – Lettere, a cura di P. V. Mengaldo, Bari, Laterza, 1962. 2 A cui ovviamente rinvio per quanto attiene a tutto ciò che affermerò, senza poterlo dimostrare direttamente, in questo intervento, nonché alla bibliografia utilizzata e a questioni di dettaglio [l’edizione è uscita nel gennaio 2003].

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O = Oxford, Bodleian Library, ms. Canoniciano Italiano 47. Membranaceo, trascritto a non molta distanza da L e giuntoci gravemente mutilo (mancano circa due terzi del libro II e altrettanto del libro III). Si notano interventi successivi sul testo dovuti alla stessa prima mano (= O1) e soprattutto a un’altra mano coeva (= O2), di copista non professionista che esegue varie modifiche testuali, su rasura e non, correzioni e integrazioni; un altro menante (= O3), coevo ai precedenti, si incarica di tracciare in inchiostro rosso alcune didascalie latine in testa ai componimenti, ed è poi ancora O2 che appone dei marginalia ai testi. Re = stampa princeps, intitolata Sonetti e Canzone, Reggio Emilia, per Francesco Mazalo, 19 dicembre 1499, curatore Bartolomeo Crotto o Crotti.

Si avverta subito che tale edizione rileva in quanto, essendo indiscutibilmente descripta da O (con tutte le sue mani), surroga quest’ultimo testimone laddove il testo sia in esso caduto. A loro volta, le versioni-base di L e di O, sottoposte a collazione, dimostrano di essere indipendenti l’una dall’altra (presenza di singulares, rispettivamente, in L e in O), ma di derivare, a seguito dell’esistenza di un manipolo di errori comuni, da un medesimo esemplare perduto a, sotto al quale L e O si diramano come collaterali. Fin qui, niente di sostanzialmente nuovo. Nuovo è invece l’approccio verso O, e in particolare verso la mano che abbiamo chiamato O2, suggerito da un articolo di Gemma Guerrini sulla scrittura in casa Boiardo 3, nel quale la studiosa, dopo aver caratterizzato O2 come appartenente a un copista non professionista, che «non sa eradere bene la scrittura» prior e «dimostra molte esitazioni nella resa della scrittura posata», così conclude: Chi poteva dunque essere quello scriba non professionista al quale era permesso di eradere i testi poetici del Boiardo, di apporre varianti sulle rasure e di aggiungere didascalie su manoscritti coevi all’autore e per di più con molta probabilità esemplati sotto la sua diretta sorveglianza? Chi, se non l’autore, il Boiardo stesso 4?

Quest’ipotesi, che poteva sembrare azzardata, ha trovato piena conferma nell’indagine filologica (che devo dare per acquisita): la mano O2 si può identificare a pieno titolo con quella di Boiardo. Ma c’è un’altra novità, in qualche modo preparata da quanto osservato a proposito di O2, e riguarda l’altro codice fondamentale, cioè L: si ripete infat-

3 Cfr. G. Guerrini, Scrivere in casa Boiardo: maestri, copisti, segretarî, servi e autografi, in «Scrittura e civiltà», XIII, 1989, pp. 441-73. 4 Ivi, p. 472.

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ti per L – L2 la stessa dinamica ora vista per O – O2, nel senso che anche dietro a L2 va individuata la mano di Boiardo. Lo assicurano prima di tutto motivi filologici (eccellenza delle proposte di L2) e, a sostegno, paleografici: L2 presenta le medesime caratteristiche di scrittura non professionistica già notate per O2 (specie per ciò che attiene alle rasure poco curate), si evidenzia per il colore molto scuro dell’inchiostro, abbraccia un campo d’intervento analogo a quello di O2, condivide alcune delle caratteristiche scrizioni di O2, dalla a ‘a mascherina’ alla r peculiare usata in fine di parola. L’allargamento anche a L della condizione di idiografo già riconosciuta a O non deve sembrare un’indebita moltiplicazione degli autografi boiardeschi, come ben sa chi ha una qualche familiarità con i codici usciti dallo scrittoio del conte di Scandiano: gli interventi di Boiardo su manoscritti approntati da suoi copisti, infatti, erano una prassi, dal momento che una simile fenomenologia si riscontra nel ms. Barberiniano Latino 1879 della Biblioteca Apostolica Vaticana, contenente i Pastoralia, sul cui testo Boiardo è intervenuto di persona con rasure approssimative riempite da correzioni che si sforzano di imitare la scrittura-base del codice 5. E che tanto L quanto O siano manoscritti allestiti in casa Boiardo, opere di scribi professionisti agli ordini del Conte, si dimostra anche da un punto di vista esterno, considerando l’omogeneità del materiale usato (pergamena), la quasi perfetta contiguità cronologica dei due codici, la presenza delle medesime modalità di confezione, nonché il fatto che il copista di L trascrisse anche l’ultimo fascicolo giuntoci di O. Si deve dunque ammettere che Boiardo sia intervenuto a modificare i suoi Amores non già lavorando sempre e comunque sull’autografo, ma concentrandosi invece sulle copie “a buono” approntate dai suoi copisti. Dall’analisi degli apporti di O2 e di L2 comprendiamo che la revisione abbracciava uno spettro ampio, dalla correzione degli errori materiali di ricopiatura nei singoli testi-base ai ritocchi grafico-fonetico-morfologici, dagli aggiustamenti metrico-prosodici ai veri e propri rifacimenti testuali. Se volessimo ora tracciare uno stemma (privo degli apporti dei codici estravaganti) degli Amorum libri, otterremmo il seguente disegno:

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Come informa S. Carrai, La tradizione manoscritta e a stampa dei «Pastoralia» di Boiardo, in «Italia medioevale e umanistica», XXXV (1992), pp. 179-213, alle pp. 196-99, nonché in M. M. Boiardo, Pastoralia, a cura di S. Carrai, Padova, Editrice Antenore, 1996, pp. xx-xxiv.

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dove L1 è un intervento del copista pilotato da Boiardo sul testo-base, e lo stesso si dica di O1. Il testo degli Amores si ricava dal confronto di base fra L e O/Re, con il conforto di L1-L2 e O1-O2 per quanto riguarda: 1) la correzione degli errori e delle singulares di L e di O rispettivamente; 2) la rettifica degli errori e della grafia dell’archetipo a; 3) la dinamica delle varianti d’autore, che in ogni modo vedono le proposte di L1-L2 e/o di O2 (O1 ne è privo) come seriori rispetto a quelle leggibili in L-O.

Più in dettaglio: si danno coincidenze rarissime di L2-O2 e limitate di L1O2 nei confronti del testo primitivo consegnato alla scriptura prior, poi erasa, di L-O; pochi i casi di L2 sopravvenuto contro L (eraso) e O antecedenti; più numerose le redazioni posteriori di O2 rispetto al testo di partenza testimoniato da O (eraso) e da L. Dovendo ricorrere a Re per defezione di O, la norma prevede che Re (figlio di O-O1-O2) attesti la redazione definitiva nei confronti di L antecedente. Da tutto questo discende che la seriazione delle varianti d’autore risulta automatica, e pressoché meccanico il loro riconoscimento. Viene così superata la principale aporia del testo approntato da Mengaldo, che per il riconoscimento della successione delle varianti redazionali si rifaceva, caso per caso, a criteri euristici preventivamente stabiliti, su basi per lo più stilistico-formali. La griglia metodologica approntata da Mengaldo mostra di funzionare, alla luce della dinamica redazionale da me stabilita, all’incirca per i tre quarti dei casi, ed era dunque un buono strumento di valutazione; certo, come sempre accade in queste situazioni, non poteva tener conto di un fatto importante, e per Boiardo fondamentale, e cioè la possibilità del poeta di smentire sé stes-

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so, di un “capriccio” o di un colpo d’ala che ribaltasse la prassi seguita. Mi spiego con il primo esempio che càpita sotto gli occhi del lettore degli AL, relativo a I, 2, 10: Così comincio, ma nel cominciare al cor se agira un timoroso / timideto gielo che l’amoroso ardir da me diparte.

L + O, seguiti da Mengaldo, leggono timoroso, O2 (cioè Boiardo, in seconda battuta) timideto. Credo che Mengaldo (che non si esprime direttamente sul luogo in oggetto) abbia pensato a timoroso come variante redazionale ultima sia per la ripercussione interna (rima) con amoroso del verso seguente (secondo la predominante fonica caratteristica dei versi di Boiardo), sia per il recupero di un aggettivo petrarchesco (da Tr. Mortis II, 108: «ed or temorosa ed or dolente»), mentre sta di fatto che la lezione seriore è quella di O2, timideto, la quale si schiera invece con Dante (Purg. III, 81: «e l’altre stanno | timidette») e inoltre persegue una omogeneizzazione nel sistema, dato il ritorno del medesimo alterato a III, 48, 52: «ben fòra d’alma timideta e vile». Aggiungerò solo un altro esempio, questa volta per consentire con la seriazione riconosciuta da Mengaldo, che a sua volta si opponeva a quella suggerita dalla massima auctoritas degli studi variantistici, Gianfranco Contini. Ecco il quadro delle testimonianze relative a II, 47, 9-11: voi seti i testimon’ de la mia vita, palesatila voi, fàtine fede a quella altiera che la aveti odita. [L] o testimoni eterni de mia vita, odeti la mia pena e fatti fede a quella altiera che la aveti odita. [Re → Mengaldo]

Si avverta che i testimon(i) di cui parla Boiardo sono, bucolicamente, la selva, il sol, le fiere selvage, gli ocei, il rivo corrente, vale a dire la Natura, in cui il poeta si è rifugiato per fuggire il tradimento di Antonia. Ora, a norma di quanto sopra si è detto, dobbiamo necessariamente considerare seriore la lezione di Re, che qui recupera una variante di O2 sopravvenuta in O, non pervenutaci direttamente per la caduta delle carte di O; a proposito del testo di Re, scrive Contini:

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Che questa sia variante dell’autore, e primitiva, non par dubbio: «la aveti odita», che riprende tanto normalmente l’«odeti», alla vita, pur gemente d’alte querele, si riferisce con stento. Ma che faceva il Boiardo, ricorrendo alla lezione che tramandano i manoscritti? [= L, per Contini seriore] Cancellava l’ultima ombra di perplessità circa la docilità di Natura, quell’invito insistente atto a suggerire la trepidazione d’un dubbio, proclamava una sua sicurezza non immune da qualche iattanza6.

Credo che qui Contini sia stato guidato da una pregiudiziale non confessabile, l’aver cioè considerato a priori poziore la lezione dei manoscritti su quella delle stampe; sta di fatto che Mengaldo7, con una serie di serratissime argomentazioni di stilistica, dimostra come sia proprio la variante di Re ad appianare felicemente le molte anomalie formali di L, e le sue conclusioni, che sappiamo essere a norma di stemma ineccepibili, trovano conforto nel dominio intertestuale, come ho notato nelle mie note di commento al passo8. Il problema delle varianti d’autore, che come si è capito risulta di vitale importanza per gli AL, non si esaurisce però con i soli interventi di L2 e O2. Le correzioni boiardesche, infatti, si esercitarono, oltre che sulle carte di L e di O, già a monte, proprio sui fogli di quel manoscritto perduto a che funge da archetipo sui generis della tradizione. Se altrimenti fosse, non si saprebbero spiegare alcuni casi di opposizione fra lezioni buone, cioè parimenti difendibili, rispettivamente di L e di O, come si nota a I, 19, 3: mirabil sì che in croce mi lo adoro (L) mirabil sì che in terra mi l’adoro (O)

oppure a II, 3, 14: amara pena a chi dolce la amava (L) amara vita a chi dolce la amava (O)

Il quadro è più ampio di quanto emerge da questi due esempi, per i quali riesce lecito ipotizzare che anche a fosse un collettore di varianti, e che dunque esso stesso avesse subìto la sorte che poi sarebbe toccata a L e a O. Se ne ricava che a era in origine, come poi L e O, una copia “a buono” degli AL 6 Cfr. G. Contini, Breve allegato al canzoniere del Boiardo [1935], in Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, Torino, Einaudi, 1974, pp. 220-31, a p. 221, n. 1. 7 Ed. cit., p. 387. 8 Cfr. Boiardo, Amorum libri tres, cit., p. 340.

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approntata dai menanti a disposizione del conte di Scandiano, e che già su di essa aveva cominciato a esercitarsi la propensione al ritocco di Boiardo, ma questa prima fase redazionale riesce per noi quasi del tutto perduta, perché sia L sia O ricopiarono le lezioni sopravvenute, salvo qualche caso di incertezza riflessasi nella diversificazione delle scelte fra L e O. Ancora a varianti redazionali ci conduce una parte della tradizione estravagante, relativa a codici di fine Quattro – inizio Cinquecento che ci hanno trasmesso soltanto alcune liriche degli Amorum libri. Ricordo telegraficamente i più significativi: Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 1242 Brescia, Biblioteca Civica Queriniana, ms. A VI 23 Budapest, Fo ´´városi Szabó Ervin Könyvtár [Biblioteca Metropolitana Ervin Szabó], ms. 09/2690 [codice Zichy] Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile, ms. 91 Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Ital. 560 Pesaro, Biblioteca Oliveriana, ms. 54 Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina, ms. 7.2.31.

La collazione di questi codici e il loro confronto con L e O portano a una conclusione inedita, per quanto non inattesa: essi derivano dall’autografo per via diversa rispetto ad a, cioè tramite un nuovo archetipo, o co-archetipo, che chiameremo b, sul quale non si sono esercitati i successivi interventi redazionali boiardeschi che hanno invece interessato prima a, poi L e successivamente O. Ne deriva che, in caso di varianti d’autore, b tramanda la redazione anteriore rispetto ad a e ai suoi derivati. Anche qui porto un solo esempio, relativo a I, 26, 9-14: testo b [primitivo]

testo a (= L + O) [seriore]

Quest’è quel giorno in cui Natura piglia tanta arroganza del suo bel lavoro, tal che di l’opra stessa ha maraviglia: – Mirate – va dicendo – s’io m’onoro nel viso di costei, che rasimiglia qualunque lume in cielo è il più decoro –.

Questo è quel giorno in cui Natura piglia tanta arroganza del suo bel lavoro che de l’opra sua stessa ha maraviglia. Più de l’usato sparge e ragi d’oro il sol più bello e l’alba più vermiglia: oggi nacque colei che in terra adoro.

Di fronte al testo b, Mengaldo nega che possa risalire a Boiardo. Eppure, quel testo è in sé plausibilissimo e si inserisce senza difficoltà nell’universo stilistico e culturale degli Amores, come assicurano le seguenti osservazioni:

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– l’idea di far parlare in presa diretta la Natura nei vv. 12-14 trova riscontro in altri spezzoni di discorso diretto accolti negli AL, e sempre in finale di sonetto (tacendo dei componimenti dialogati, si veda Amore che parla a I, 31, 14); – il va dicendo del v. 12 reitera la modalità di III, 48, 65, ove il poeta, rivoltosi nel congedo alla sua canzone, la esorta: «Vanne dicendo…» (cui segue il discorso diretto); – Mirate s’io m’onoro incarna un costrutto ben boiardesco, dal momento che lo si legge appena qualche componimento prima: «Mirate, donne, se mai fu …» (I, 17, 9); – rasimiglia è forma parasintetica che fino a tutto il Quattrocento (teste la LIZ 9) usa soltanto Boiardo, e a più riprese; – qualunque, nel ruolo di aggettivo, tornerà anche a III, 10, 7; – l’aggettivo decoro è un hapax nell’intera opera del conte di Scandiano, ma tale fatto non può ritenersi, come vorrebbe Mengaldo10, «la spia linguistica» dell’estraneità di tutta la terzina ai modi boiardeschi: fra gli unica di cui sono ricchi gli AL, ben può inserirsi anche decoro, che è vocabolo di ampia fortuna quattrocentesca (Lorenzo, Pulci, Poliziano, …) e risulta attestatissimo fra i classici, da Virgilio a Orazio a Ovidio, per non parlare del Canticus canticorum; – i richiami intertestuali orbitano all’interno della cultura degli AL: Mirate d’avvio di terzina tiene senza dubbio presente il sonetto XXIII di Giusto, completamente svolto sull’anafora di questa forma verbale, e in cui si legge fra l’altro: «Mirate un altro sole, e di più lume, | (…) | e delle stelle l’ultima possanza» (vv. 9 e 14)11; nel viso di costei rimodella RVF XIII, 2 «nel bel viso di costei»; l’explicit va appaiato a Teseida IV, 35, 1: «Qualunque dea nel cielo è più bella».

Veniamo ora alle rubriche latine, inserite in testa a molti dei componimenti di O dalla mano che si è chiamata O3, coeva alle altre del codice. Già il fatto che O3 agisca pressoché in contemporanea con O2, cioè con Boiardo stesso, rappresenta di per sé una garanzia sulla non estraneità di quest’ultimo all’apposizione delle rubriche, dal cui contenuto, comunque, si evince che esse non possono essere altro che una diretta emanazione dell’autore degli Amores, in quanto offrono notizie biografiche, particolari sull’occasione dei versi, dediche, denominazioni e interpretazioni metriche non altrimenti ricavabili dal testo delle liriche. La paternità boiardesca di tali rubriche è un fatto critico ormai assodato, e in quanto rappresentano un valore aggiunto importante e irrinunciabile vanno stampate assieme ai versi, come già ha provvedu9 Vale a dire LIZ 4.0. Letteratura Italiana Zanichelli. CD-ROM dei testi della letteratura italiana, a cura di P. Stoppelli – E. Picchi, Bologna, Zanichelli, 2001. 10 Ed. cit., p. 396. 11 Cito (purtroppo ancora) da G. De’ Conti, Il Canzoniere, a cura di L. Vitetti, Lanciano, Carabba, 1918, p. 57 (dove il sonetto è erroneamente numerato «XXXIII»).

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to a fare Mengaldo. Sussiste però un problema non secondario, e cioè la verosimile caduta delle rubriche originali in un fascicolo di O, contenente i primi 25 componimenti del terzo libro, sostituito ad un certo punto (e comunque dopo che O3 aveva portato a termine l’apposizione delle rubriche in tutto il codice) con un altro, di mano L, che non trascrisse le didascalie latine. Che queste ultime dovessero essere presenti nel fascicolo originario poi rimpiazzato è dimostrato quantomeno dal fatto che Boiardo, solito a rubricare tutti i metri non sonettistici degli AL, non può essersi dimenticato, o essersi rifiutato, di segnare denominazioni e definizioni delle due ballate III, 6 e 19, nonché delle due canzoni III, 12 e 25; e poiché per tali metri lunghi conosciamo il criterio di designazione di Boiardo, credo sia compito dell’editore intervenire. Si tratterà dunque di integrare in testa a III, 6 la rubrica chorus simplex, relativa a una ballata regolare; a III, 19 chorus unisonus, perché in questa ballata l’ultima rima della volta non coincide con l’ultima del ritornello (Y), ma con l’altra sua rima (X); a III, 12 e 25 cantus, seguito da dei puntini di sospensione, dato che Boiardo è solito aggiungere una precisazione originale e specifica a questo sostantivo designante la canzone, e noi non siamo in grado di divinarne il contenuto. Ancora, ci si può avventurare ad assegnare a ciascuno dei sonetti III, 10 e 23 la didascalia cruciatus, che il Conte impone agli schemi delle quartine diversi da ABBA (10: ABAB BABA; 23: ABAB ABAB), mentre a sua volta il sonetto III, 7 sarà capitalis, in quanto acrostico. Le integrazioni si fermano forzatamente qui, dato che siamo in grado di intervenire soltanto sulle rubriche metriche, laddove nulla possiamo sapere (e divinare) su ciò che attiene alla presenza eventuale di altre didascalie tematico-documentarie, le quali molto verosimilmente, a giudicare dalla loro frequenza generale negli AL, si presentavano anche nel fascicolo incriminato, ma sono irrimediabilmente perdute. Un problema in parte analogo a quello delle rubriche pongono all’editore i marginalia latini, che abbiamo detto essere stati apposti da Boiardo stesso, come mano O2, in O. Ne offriamo intanto l’elenco, comunque da ritenere gravemente incompleto, poiché la stampa Re, cui è giocoforza ricorrere per le estese parti di O andate perdute, non trascrive i marginalia che pur doveva leggere nelle parti di O che non ci sono giunte: I, 15 – prima strofa: Principium – seconda strofa: Luna – terza strofa: Lucifer – quarta strofa: Aurora – quinta strofa: Sol I, 16, 4 [R]egium regia vere civitas

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I, 19, 9 Restitue Amori I, 29, 10 Fortunate Insule I, 30, 3 Charites I, 33, 15 [V]er transiit I, 48, 6 Cyrce I, 50 – prima strofa: A – seconda strofa: B – terza strofa: C – quarta strofa: D – quinta strofa: C – sesta strofa: B – settima strofa: A II, 3, 4 Occupatio II, 9, 1 crudelis 2 versus 3 fundam 4 duratur 5 permanet 6 versi 7 incantaciones 8 immobilem 9 cantus 10 senesco 11 auxilium 12 canto 13 tenpus 14 adiuvo II, 10, 12 Colochacio II, 12, 11 Adauctio II, 13, 1 Adauctio II, 18, 2 Sole in Geminis in lucem primum datus

Il contenuto della tavola appare eterogeneo, ma in sostanza risponde all’esigenza di estrinsecare ciò che è implicito nella lettera del testo, con risultati che mirano, nel complesso, ad aiutare un lettore naïf nell’esegesi dei versi. Sotto un certo aspetto, tali annotazioni rappresentano un inizio di commento, nella fattispecie di autocommento, rivolto in più direzioni: – partizione della materia nei metri lunghi (I, 15) o brevi (I, 19, 9) – esplicitazione di un procedimento metrico particolarmente complesso e inedito (le lettere maiuscole di I, 50, ove a lettera uguale corrispondono gruppi di rime uguali) – chiosatura elementare di I, 29, 10; 30, 3; 48, 6

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– svelamento di giochi verbali (I, 16, 4) o di affermazioni testuali importanti (I, 33, 15; II, 18, 2) – note di tipo retorico (con rimandi a figure inconsuete: Occupatio, Colochacio, Adauctio) – fino al supremo esercizio linguistico-interpretativo di II, 9, ove si svela parola per parola, per mezzo della traduzione in latino, la natura aequivoca, secondo che detta la rubrica iniziale, del sonetto e delle sue parole-rima (che sono dura e versi nelle quartine, canto, tempo e aiuto nelle terzine).

L’apposizione di consimili marginalia non è una novità nella prassi compositiva di Boiardo: analoghe chiose, pur sempre autografe, compaiono sui vivagni dei Pastoralia trasmessi dal già ricordato ms. Barberiniano Latino 1879 della Vaticana. Evidentemente era costume del conte di Scandiano non solo curare le copie “a buono” delle sue opere correggendone e sviluppandone il testo, ma anche arricchirle di rubriche e di noterelle esplicative, con l’intendimento del tutto palese di renderle più immediatamente fruibili al pubblico. L’impressione è che il suo lettore implicito fosse ritagliato sulla figura di Ercole d’Este, suo probabile destinatario (tale sembra apparire in AL III, 54, 8-10: «Doe cose fòr mia spene, e sono ancora, | Hercule l’una, il mio Signor zentile, | l’altra il bel volto ove anco il cor se posa»), vale a dire un personaggio d’alto lignaggio ma poco acculturato, bisognoso di essere guidato nelle pieghe, anche le meno irresistibili, del testo. Le annotazioni marginali permettono così di definire più compiutamente l’idea di edizione cui tendeva Matteo Maria Boiardo: di qui la decisione editoriale, innovativa, di accoglierle nel testo critico degli Amorum libri. Dall’analisi complessiva della tradizione, un dato emerge fra gli altri, vale a dire il ruolo di redazione definitiva, o se si vuole di redazione più completa, rivestito da O, con il corredo delle sue mani O1-O2 e O3 (per le rubriche). Di conseguenza, proprio su O-O1-O2-O3 si dovrebbe basare l’edizione critica degli AL, ovviamente con il supporto continuo, per eliminare gli errori singulares di O e acquisire le varianti redazionali non giunte ad esso, di L-L1L2 e dei codici di b. Tutto ciò significherebbe anche dare piena fiducia alla veste grafico-fonetico-morfologica di O, se non fosse che tale operazione riesce vanificata dallo stato di grave incompletezza in cui ci è giunto il manoscritto oxoniense. È dunque necessario che l’editore degli AL si rivolga al tessuto formale del manoscritto londinese (L), che presenta il pregio della completezza e della compattezza testuali, grazie all’unicità della mano che l’ha trascritto, pur sempre appartenente al manipolo di scribi agli ordini di Boiardo. Tale soluzione grafico-fonetico-morfologica collima con quella di Mengaldo, le cui scelte da questo punto di vista sono state da sempre il punto

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di forza della sua edizione (accompagnata, come è noto, dalla monografia su La lingua del Boiardo lirico 12). Ciò non toglie, com’è normale nei lavori di questo tipo, che certe opzioni mengaldiane possano essere ridiscusse, come ad esempio i due sciolger di II, 26, 13, che io mantengo perché scrizione ben documentata nei testi antichi, laddove Mengaldo modernizza in scioglier. Anche nel dominio dell’interpunzione il testo critico vulgato necessita di essere rivisto. Mi limiterò pur qui ad un solo esempio, dove il recupero della corretta interpunzione passa attraverso un restauro testuale: si tratta di III, 39, cioè di un sonetto-chiave, in cui si annuncia, fin dalla rubrica («Cum Romam foret eundum»), l’inevitabilità del viaggio a Roma per accompagnare Borso d’Este, eleggendo duca di Ferrara. Nel testo-Mengaldo, la prima quartina è così scandita: Chi piagnerà con teco il tuo dolore, amante sventurato, e le tue pene poiché lasciar t’è forza ogni tuo bene (dispietata Fortuna!) e il tuo Signore?

Al v. 3 L e Re (tace O), dunque a, leggono te forza, che l’editore moderno interpreta con t’è forza, mentre riesce estremamente interessante la lezione suggerita dal ramo b della tradizione, te sforza, che permette a ritroso di considerare quel forza di a come verbo, dunque di rivedere l’interpunzione del quartetto in questo modo: Chi piagnerà con teco il tuo dolore, amante sventurato, e le tue pene, poiché lasciar te sforza ogni tuo bene dispietata Fortuna e il tuo Signore?

Sparisce così un v. 4 “anomalo”, ove la parentetica vocativa dispietata Fortuna! si faceva negativamente notare per la sua rarità, anzi unicità, negli AL, e l’epifrastico il tuo Signore (da riferire ad Amore) andava forzosamente unito a ogni tuo bene, l’uno e l’altro complementi oggetto. Ora invece il v. 4 ritrova piena regolarità sintattica, con la coppia Fortuna e Signore quali soggetti posposti di sforza (al solito al singolare, perché anticipato), e si capisce finalmente che quel Signore, colpevole al pari della Fortuna del viaggio obbligato di Boiardo a Roma, non può essere Amore, bensì il duca Borso. Solo così si può arrivare a comprendere in pieno il riferimento, altrimenti

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Novità su tradizione e testo degli Amorum Libri Tres

generico e vagamente sentenzioso, dei vv. 7-8, «Miser chi signoria de altrui sostene, | ma più chi serve altrui servendo Amore!», ove altrui è proprio Borso e dietro a chi si cela lo stesso Matteo Maria, costretto (forzato) a seguire il suo “capo” a Roma: doppio servitore, del duca e di Amore. Un altro settore che abbisogna di una qualche rinnovata sollecitudine editoriale è quello metrico, notoriamente al centro di un intenso sperimentalismo. Fra i vari loci critici, di particolare complessità risulta quello relativo alla canzone II, 11, nella quale è necessario conciliare la scansione dei versi come appare dai testimoni (in ciò unanimi) con la rubrica esplicativa degli stessi: «Cantus interchalaris rithmo intersecto: ternarius enim tetralogon dividit», e cioè: ‘Canzone con versi intercalari (vale a dire con ritornello), a intersezioni ritmiche, dato che dei ternari interrompono dei quadernari’. In L + O/Re il componimento è diviso in 6 stanze più congedo, omometriche la II-III e la V-VI (18 versi in terzine, l’ultima rappresentata dal ritornello), laddove la I e la IV si snodano su 22 versi ciascuna, secondo il seguente schema: abb5c add5c CeC eff5g exx5g XYX (la terzina finale è il solito ritornello); si aggiunga che anche il congedo segue quest’ultima disposizione, solo che risulta privo dell’intercalare finale, dunque assomma 18 versi. Secondo lo schema proposto dai testimoni, le stanze I, IV e il commiato presenterebbero delle quartine intercalate da terzine, il che corrisponderebbe a quanto si afferma nella rubrica, specie là dove si parla di un «rithmus intersectus», e cioè di un intreccio ritmico, tale per cui «ternarius tetralogon dividit», vale a dire delle terzine si intersecano a delle quartine: il quale assunto varrebbe per le stanze I, IV e per il congedo, ma anche, a livello complessivo, per tutta la canzone, nella quale delle stanze in capitoli ternari si alternano (nel rapporto di due a uno) a stanze in cui dominano i quartetti. Perché dunque intervenire sulle proposte strutturali di L + O/Re? Per appianare due anomalie, la prima consistente nella diversa misura delle stanze, che andrebbero ricondotte tutte al totale di 18 versi, la seconda relativa alla necessità di ridurre a norma molti dei settenari che seguono ai quinari nelle stanze I, IV e nel congedo, dato che il sistema prosodico boiardesco non prevede il ricorso a dialefi eccezionali. Mengaldo propone di considerare i quinari come primi emistichi di endecasillabi con rimalmezzo, secondo lo schema: ab(b5)c ad(d5)c CeC ef(f5)g ex(x5)g XYX, ma a tale soluzione si oppongono sia la scansione dei versi brevi nei testimoni, sia il dettato della rubrica, perché in questo modo le quartine spariscono, trasformate in terzine. In merito a quest’ultimo rilievo, Mengaldo pensa che la seconda parte della rubrica «sia una interpolazione esplicativa derivante dalla errata struttura metrica attestata nei testimoni»13, 12

Firenze, Olschki, 1963.

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Tiziano Zanato

che è un comodo escamotage per trarsi d’impaccio, dal momento che quella didascalia latina è interamente tracciata in O dalla solita mano O3, sotto la supervisione di Boiardo, e non vi sono tracce di interventi allotri o di aggiunte d’altra mano, sicché essa va accolta nella sua integralità. L’unica soluzione sottoscrivibile, che attui un compromesso fra proposte dei testimoni e rubrica, pare a me quella di spezzare a scalino gli endecasillabi con rimalmezzo, in modo che il secondo emistichio tipograficamente inizi là dove finisce il primo, ma una riga più sotto: si perviene così a mantenere delle “quartine” di fatto, o per l’occhio, intercalate a terzine, e a rispettare la misura dei 18 versi per stanza. Ecco i risultati applicati alla prima strofa:

5

10

15

Se il Cielo e Amore insieme destinan pur ch’io mora e gionta è l’ora che mia vita incide, queste mie voce extreme almanco sieno intese, e fian palese a quella che me occide. Ma a che, se lei se ’l vede e se ne ride? Ché aperta è ben mia doglia a quella fiera che ’l mio cor conquide; et essa, che mi spoglia e vita e libertade, non ha pietade del martìr ch’io sento. Insensata mia voglia! Ché doler me convene e sazo bene che io mi doglio al vento. Odi, superba e altera, le mie pene, odi la mia rason solo una volta, prima che morte al crudo fin mi mene.

Termino con le novità recuperando l’originaria lezione boiardesca in un passo che era stato considerato, da tutti gli editori precedenti, erroneo nell’archetipo e di conseguenza modificato, ma a torto. A I, 51, 9-11 si ricava la seguente lezione, per convergenza di L + O: Così ritorno a ragionar d’amore, con mente ardita e con la voce stanca, da ragion fiaco e pronto da speranza.

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Novità su tradizione e testo degli Amorum Libri Tres

Già in Re, seguita a ruota dai successivi editori degli AL, pronto veniva sostituito con punto, dato che non si capiva il corretto significato del termine, che va ricondotto al verbo prontare, «Sollecitare energicamente e con insistenza una persona»14, di cui pronto è il participio passato “corto” (così come il parallelo fiaco è participio passato accorciato di fiacare). Si recupera pienamente in tal modo non solo l’originario significato del v. 11, ‘abbattuto dalla ragione ma pungolato dalla speranza’, ma anche si può apprezzare il parallelismo chiastico dei due participi di prima coniugazione, nonché la ripercussione fonica ragiON – prONto all’interno della catena timbrica perfettamente sovrapponibile dei due emistichi: da ragión fiàco – e prónto da sperànza.

13

Ed. cit., p. 411.

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Massimo Malinverni L’EDIZIONE E IL COMMENTO DEI SONETTI E CAPITULI DI PANFILO SASSO

1. L’utilità di un’indagine su autori di fine ’400 e primo ’500 non appartenenti alla strada (che solo a posteriori si rivelerà ‘maestra’) del petrarchismo più ortodosso, non dovrebbe più essere, ormai, oggetto di discussione, soprattutto dopo il recente ma progressivo infittirsi dei segni dell’attenzione critica. E nel novero di questi autori la figura di Panfilo Sasso1 è parsa tra le più meritevoli di un’attenzione ravvicinata, che permettesse di collocare più precisamente la sua personalità poetica rivelandone gli aspetti di maggiore originalità: certo un’originalità, a parte un successo di pubblico tanto intenso e caloroso quanto limitato nel tempo, fatalmente e precocemente condannata all’oblio e alla disattenzione dai successivi sviluppi dell’esperienza lirica volgare (come quasi sempre, nella storia molto poco pacifica della repubblica delle lettere, in egual misura trionfanti ed impietosi). E allo stesso modo si è avvertita la necessità di provocare una sorta di vitale ‘emersione’ di questa figura (come naturalmente sarebbe auspicabile per molte altre) dal limbo francamente un po’ imbalsamatorio rappresentato dall’etichetta di «lirica cortigiana» (in primis condivisa con Tebaldeo ed Aquilano), con le sue sfumature connotative in direzione di una caratterizzazione frivola e ‘colorita’, di simpatica ma innocua esuberanza (quasi anche a questa letteratura venissero concesse, per dirla con Dionisotti, le esclusive «attenuanti giullaresche»2). 1

Per i riferimenti biobibliografici rimando al mio studio Sulla tradizione del sonetto «Hor te fa terra, corpo» di Panfilo Sasso, in «Studi di filologia italiana», XLIX, 1991, pp. 124-25. 2 C. Dionisotti, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto, in Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980, p. 24.

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Massimo Malinverni

Ma intanto si osservava la mancanza assoluta di un’edizione moderna (l’ultima ristampa è cinquecentesca, del 1519), con quanto, in materia di incertezza testuale, questo comportava (e da questo punto di vista il fatto di essere di fronte ad una raccolta d’autore, per di più a stampa, non tranquillizzava certamente – soprattutto a questa altezza cronologica: la princeps è del 1500 –). Comunque, anche al di là del decisivo dato di fatto dell’esistenza di una raccolta autorizzata, c’era tutta una tradizione manoscritta da indagare, alla ricerca delle possibili tracce, sia di natura quantitativa come qualitativa (ovvero nel senso della selezione come della revisione), disseminate lungo il suo percorso dall’operazione letteraria sfociata nell’editio princeps di Brescia. E nella stessa misura in cui questa ricerca si è dimostrata fruttuosa (certo non clamorosamente, visto il mancato reperimento, a tutt’oggi, di un autografo, ma positivamente per quanto riguarda il riconoscimento di varianti d’autore e di testi in seguito non ammessi nell’edizione), è cresciuta la contemporanea consapevolezza dell’impossibilità (ma di un’impossibilità spontaneamente suggerita, iuxta propria principia, dall’applicazione quotidiana e fattiva) di separare il momento dell’accertamento testuale, con quanto di euristicamente prezioso esso comporta, da quello di un commento che dia conto delle non poche difficoltà, spesso di natura linguistico-interpretativa, che quello stesso accertamento progressivamente rivela; come naturalmente da un tentativo di caratterizzazione fondato su sintetiche osservazioni di natura stilistico-retorica e su possibili riscontri con la tradizione. E il quadro che ne è risultato mostra senz’altro caratteri di maggiore complessità rispetto a quanto forse ci si poteva attendere. L’adozione frequente di moduli popolareggianti (con l’annesso ricorso ad espressioni di tipo proverbiale-sentenzioso, soprattutto, ovviamente, nei contesti gnomici) e l’impressione di facile eloquenza, dunque con il dubbio di un uso retorico semplificato ed esclusivamente effettistico, non hanno impedito di porre in luce, per converso, una sofisticata strumentazione retorica, capace di adattarsi con notevole flessibilità (segno precipuo, questo, di padronanza del mezzo linguistico) ai più diversi registri stilistici. Perché se di un altro carattere tipico di questa poesia bisogna parlare, certo questa volta non esclusivo del Sasso, è senz’altro della polivalenza tematico-stilistica (dal registro amoroso a quello gnomico, da quello politico a quello teologico; con in più l’ulteriore diversificazione all’interno dei singoli registri, tipicamente di quello amoroso); ma di una polivalenza che è stata troppo spesso confusa con un’onnivora ed acritica disponibilità occasionale ed improvvisatoria, quando, perlomeno nella maggior parte dei casi, si

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L’edizione e il commento dei Sonetti e Capituli di Panfilo Sasso

tratta invece di una scelta cosciente e, si vorrebbe aggiungere, felicemente e quasi paganamente priva di sensi di colpa nell’atto stesso della non osservanza di quel comandamento di ortodossia e di monostilismo che assumerà, di lì a breve, i connotati inevitabili dell’archetipo petrarchesco. 2. Ma è a questo punto necessario un sintetico sguardo d’insieme allo stato della tradizione3. Ad un primo regesto, forzatamente provvisorio e costantemente minacciato, nei suoi confini, da inevitabili insidie attributive, la produzione poetica volgare del Sasso parrebbe constare di 596 individui. Di questi, ben 450 (ossia 406 sonetti, 39 capitoli e 5 egloghe) sono presenti nella princeps del 1500 (BS) 4 e nelle successive ristampe dei Sonetti e capituli; le rimanenti 145 rime (ovvero 48 sonetti, 8 capitoli, 2 egloghe polimetriche, 1 poemetto in ottava rima, 87 strambotti), convenzionalmente definibili extravaganti, sono tràdite o da edizioni parziali o da miscellanee, sia manoscritte che a stampa. Com’è naturale, questa bipartizione fondamentale della tradizione (della quale si è subito rilevata la natura almeno parzialmente convenzionale) non implica un’assoluta reciproca impermeabilità: molti testi afferenti al ramo ‘principale’ dei Sonetti e capituli (per l’esattezza 65) sono anche presenti in diversi manoscritti miscellanei e in alcune edizioni collettive o di altri autori. In assenza di autografi certi, l’unico testimone autorizzato è costituito dall’editio princeps bresciana dei Sonetti e capituli dedicata ad Elisabetta Gonzaga, essendo tutte le successive ristampe, col titolo comune, e più generico, di Opera, risultate descriptae. In quanto ai manoscritti, vi è un gruppo di testimoni (Z, G, N, P2 e Pr2), i più ricchi di rime del Sasso, che rivestono una particolare rilevanza dal punto di vista testuale, permettendo spesso di porre in luce evidenti lezioni d’autore. Da un’analisi interna, quale quella da me condotta sulla base dei testi in testimonianza multipla di BS, appare infatti evidente come nella quasi totalità dei casi siano proprio quattro di questi manoscritti (esattamente Z, N, P2 e Pr2) ad offrire le più significative varianti d’autore, sia che permettano d’individuare stadi redazionali discriminabili con sufficiente chiarezza, sia che rivelino semplicemente la presenza di varianti alternative. Volendo arrischiare una sintesi generale, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un gruppo di testimoni che riflettono una o più 3

Per un’analisi più approfondita della tradizione manoscritta e a stampa (qui ridotta nei suoi termini essenziali) rimando di nuovo a Sulla tradizione del sonetto «Hor te fa terra, corpo», cit., pp. 132-38. 4 Si veda in Appendice l’elenco delle sigle e delle abbreviazioni bibliografiche.

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fasi redazionali quasi sempre precedenti quella di BS. Dunque, anche osservando come sia presente in questi manoscritti un numero elevato di testi (da noi definiti extravaganti) che non hanno trovato posto in BS, sembrerebbe convalidata l’ipotesi di una selezione d’autore (sia quantitativa sia, per così dire, qualitativa e revisoria) per l’allestimento della princeps. Per quanto riguarda invece le lezioni d’autore presenti in questi manoscritti non è purtroppo possibile, almeno per ora, rilevare dei comportamenti comuni sufficientemente omogenei e costanti, tali da permettere apparentamenti precisi (una qualche comunanza di comportamento è forse rilevabile solo tra P2 e Pr2). Quello che è importante osservare è come questo gruppo di testimoni debba risalire, più o meno direttamente, ad una o più raccolte, si presume abbastanza vaste e strettamente legate fra loro, con funzione di ampi collettori di rime del Sasso: raccolte per noi perdute, o comunque finora non reperite. 3. Come risulterà evidente da una pur corsiva analisi della tradizione, l’edizione dei testi si basa su BS, unico testimone dietro il quale sia possibile riconoscere un’organica intenzione d’autore. Naturalmente, nel caso dei testi in testimonianza plurima si è operato un confronto testo per testo con la tradizione manoscritta, anche al fine di isolare possibili residui di varianti (se non stadî) redazionali, precedenti la fase testimoniata dalla princeps e frequentemente attribuibili all’autore, in maggiore o minor misura sicuramente discriminabili dal substrato costante delle lezioni adiafore. E a questo proposito il caso senz’altro più rilevante, dunque oltremodo esemplare, è quello del son. 63 5. Radice del mio cor, man dolce acerba, diti longi e sutil’ d’avorio e d’oro; man bella e bianca per cui sola io moro, diti ov’è l’alma e ’l duol si disacerba; man per cui el foco tutto mi disnerba, diti mio ben, mia gioia e mio thesoro; man per cui gemo, mi lamento e ploro, diti, cagion che a bon tempo mi serba.

5 Utilizzo per tutte le citazioni, integrali o parziali, il testo critico da me stabilito in I sonetti di Panfilo Sasso dall’editio princeps di Brescia (1500): saggio di edizione critica e commentata, Università degli Studi di Pisa, Tesi di dottorato in Studi italianistici – V° ciclo.

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L’edizione e il commento dei Sonetti e Capituli di Panfilo Sasso

Man fiera, man crudel, marmorea mano, dito dolce, amoroso e tener dito, man che me tira al fin de mano in mano, dito che me resana a dito a dito, man che me morde e strugge a mano a mano: la man m’enpiaga, et me resana el dito. BS N Pr2 1] Radice del mio mal man dolce acerba N marg. ds. del mio ben marg. ds. sprscr. e cara Na 2 diti longi e sutil’] dito lungho sottile N 3 io] om. Pr2 4] dito ove l’alma el chor se disacerba N marg. ds. gioir impara Na l’alma] alalma Pr2 5] man per quel foco tutto mi disnerba N marg. ds. ch’ancor non si vidde la più rara Na man] ma BS 6] dito mie ben mie vita et mie thesoro N 7] man per cui sempre i mi lamento e proro N marg. ds. mi struggo e m[oro] Na 8] dito chagion chal buon tempo mi serba N marg. sn. ch’adolci la (corretto su di) mia vita amara marg. ds. che scacci mia fortuna av[ara] Na 9 marmorea] man fera N 10] dito humil dito mio candido dito N diti humil diti amen smeraldeo dito Pr2 11 tira] tiri N 12 risana] risani N 13 morde e strugge] mordi et struggi N strugge el cuore Pr2 14 m’enpiaga] mi strugge N

La tradizione di questo sonetto sembra rivelare il caso forse più complesso di stratificazione di lezioni d’autore, che permetterebbero di individuare almeno tre stadi redazionali, sulla cui omogeneità, tuttavia (in presenza di una situazione d’elaborazione testuale probabilmente ancora aperta e non giunta a compimento, forse con la sola eccezione di BS), è possibile soltanto avanzare delle ipotesi di lavoro: dunque, per definizione, provvisorie e continuamente verificabili. Venendo al dettaglio delle singole testimonianze, BS ancora una volta sembrerebbe risalire, insieme a Pr2 (che si differenzia solo ai vv. 10 – dove la lezione di Pr2, pur erronea, nasconde certamente una variante alternativa a quella di BS – e 13), ad un’ultima fase di revisione del testo; N apparterrebbe ad un’altra fase indipendente da quella di BS e Pr2; mentre una terza fase è testimoniata dalle glosse marginali (relative alle sole quartine) presenti in N, e che, in quanto di mano chiaramente diversa da quella che trascrive il sonetto, si è chiamata Na. Ritengo utile, per prima cosa, confrontare la lezione delle quartine secondo N e secondo Na (si sono corretti gli errori evidenti: vedi apparato; la lezione di BS e Pr2 è quella accolta a testo): N Radice del mio mal, man dolce acerba, dito lungo sottil d’avorio e d’oro; man bella et bianca per cui sola i’ moro, dito ov’è l’alma e ’l cor se disacerba;

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man per cui el foco tutto mi disnerba, dito mio ben, mia vita et mio thesoro; man per cui sempre i’ mi lamento e ploro, dito, cagion ch’al buon tempo mi serba. Na Radice del mio ben, man dolce e cara, dito lungo sottil che tanto adoro; man bella et bianca per cui sola i’ moro, dito ov’è l’alma e ’l cor gioir impara; man, ch’ancor non si vidde la più rara, dito mio ben, mia vita et mio thesoro; man per cui sempre i’ mi struggo e moro, dito ch’adolci la mia vita amara. 8 al.: dito che scacci mia fortuna avara.

La questione di fondo, posta quella di BS e Pr2 come l’ultima stesura, risiede nella priorità cronologica tra queste due forme. L’unica osservazione esterna di un qualche rilievo che è immediatamente possibile fare riguarda l’indubbia maggiore vicinanza della stesura di N a quella di BS-Pr2: ne fanno fede la rima A in -erba (contro -ara di Na) e le forti varianti sostanziali che in Na ne conseguono direttamente; d’altro canto sia N come Na mostrano, all’inizio di ogni verso pari, la forma dito contro diti di BS-Pr2, mentre sempre in BS e Pr2 si osserverà lo spostamento di cor dalla dittologia del v. 4 al v. 1, con la conseguente sostituzione, rispetto al v. 4 di N-Na, di duol a cor (e l’approssimazione al modello di RVF 23, 4: «perché cantando il duol si disacerba») 6. Le ipotesi che a questo punto è possibile formulare sono due, certo fortemente dissimili ma, si ritiene, altrettanto probabili: 1) le glosse marginali di N (Na) a questo sonetto sono di mano dell’auto7 re : potrebbe anche trattarsi di correzioni estemporanee, saltuarie, in seguito rifiutate (o semplicemente dimenticate) al livello della fase testuale di BSPr2; dunque ne deriverebbe la seguente ricostruzione:

6

Ma esattamente inverso (nei confronti di RVF 331, 5: «O del dolce mio mal prima radice») è al v. 1 il comportamento di N rispetto a tutti gli altri testimoni. 7 Ricordo che le altre chiose marginali presenti in N, e riguardanti diversi sonetti (del Sasso come di altri autori), sono invece della stessa mano che trascrive i testi.

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X1

Na

N

Pr2

BS

Pr2

BS

oppure:

X1

N

Na

2) le glosse sono di un anonimo e casuale postillatore, che collaziona N con un ms. (da noi perduto) in suo possesso che presenta lezioni d’autore risalenti a una diversa fase; sono quindi possibili due casi: a) il ms. perduto testimonia una prima stesura, precedente quella di N; ne consegue:

X1

Na

X2

N

Pr2

BS

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b) le correzioni di Na risalgono invece ad una fase successiva a quella di N (valgono di nuovo entrambi gli schemi proposti al punto 1: dunque o a livello di BS-Pr2 c’è un ritorno di lezione, da parte dell’autore, alla prima fase, oppure la fase testimoniata da Na fu un tentativo saltuario, che non ebbe seguito). E mi sia consentito, in base a quanto affermato in precedenza e allo stato attuale dello studio di tradizione (nella quale, lo si rammenta ancora, non è stato finora possibile identificare la presenza certa di un autografo), non propendere per nessuna di queste due soluzioni alternative, che paiono sostanzialmente offrire lo stesso grado di plausibilità. 4. Passando ai caratteri stilistici e retorici (ovviamente desumibili dal lavoro di commento), si vorrebbe iniziare, forse poco scientificamente, con un’impressione di lettura. La netta sensazione è di essere di fronte ad un autore dalla personalità decisamente spiccata, sia nella virtù come nel vizio, ma certamente non un anodino improvvisatore. Non vorremmo, insomma, che la generica qualifica di poeta «cortigiano» non finisse, per il Sasso come per altri autori di questo periodo, per risultare un cappio eccessivamente stretto, che mortifichi un intero gruppo di autori riducendoli al denominatore comune di un genere superficialmente bollato come facile, se non esclusivamente finalizzato all’intrattenimento galante o alla promozione sociale. Ma spesso (ed è sicuramente il caso del Sasso) ci si imbatte in qualcosa di diverso, ossia nella ricerca di un linguaggio poetico originale, spesso di notevole complessità, e, se è consentita la nota di simpatia, generoso anche nell’insuccesso. Certo la strada maestra imboccata dalla lirica italiana sarà tutt’altra, ma, per ripetere le parole di Gorni (a proposito della frottola Venite in danza dell’Alberti): «È una delle vie chiuse della poesia italiana che allo storico, con pietà retrospettiva, è concesso di rimpiangere»8. Entrando nel merito, credo che la proverbiale ‘facilità’ della vena creativa del Sasso9, e quell’impressione di immediata ed icastica eloquenza che non può non cogliere ciascun lettore al primo approccio con la sua opera, siano invece spesso (certo

8 L. B. Alberti, Rime e versioni poetiche. Edizione critica e commento a cura di G. Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, p. 76. 9 Indubbiamente coonestata dalla mole della sua produzione, e prontamente volta in negativo dai suoi detrattori: cfr. il Pistoia («Sasso è un fiume che argento e sterpi mena») e il Bibbiena («Far molto e grosso? Al Sasso questo e quello»), citati da D’Ancona, Del secentismo nella poesia cortigiana del secolo XV, in Pagine sparse di letteratura e di storia, Firenze, Sansoni, 1914, pp. 152-53.

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non sempre) il risultato di una costruzione retorica e stilistica tutt’altro che superficiale ed univocamente effettistica. Si tratta, in definitiva, di valutare con obbiettività di giudizio un’operazione dichiaratamente pre-classicistica. Ove per classicismo naturalmente si intenda quello, volgare e di codificazione trecentesca, del Bembo. Perché di un altro classicismo, pur desultorio nell’applicazione e negli esiti (nel solco di un’impronta umanistica e sperimentale, di laboratorio), si può invece a pieno titolo discorrere. Ma vediamo il dettaglio. In merito all’andamento sintattico e alla struttura argomentativa, si osserva come il periodo tenda spesso a disporsi lungo l’intera struttura strofica del sonetto, anche se naturalmente prevale la bipartizione in due distinti periodi. Maggioritaria è poi la struttura di tipo epigrammatico con conclusio finale, d’altronde diffusissima in questo tipo di letteratura10, spesso corroborata da una struttura argomentativa assai complessa, di tipo sillogistico o entimematico, oppure preparata da una costruzione in climax ascendente. In ogni caso è frequentissimo l’uso dell’enjambement, per lo più non come espediente atto a facilitare una scorrevolezza prosastica11, ma spesso come mezzo atto ad intensificare efficacemente un’inarcatura sintattica di tono grave e sublime: cfr. son. 137, 1-2: «Quando vien l’hora che la libertade | perse, volendo el sol fisso guardare»; son. 142, 1-4: «Per gionger legne al foco, al caldo ardore, | per poter monstrar più gran crudeltade, | novellamente ha finto haver pietade | de li miei danni el tyran crudo Amore»; son. 220, 1-2: «Haria voluto, quando alontanarme | mi vidi da la mia bianca colomba»; son. 222, 9-11: «è forsi ver che dòl, lacrime e morte | futura annunci, e pensier’ tristi e negri, | a me la fronde tua, come far sòle?». E sempre a proposito di strutture sintattiche complesse va subito rilevata l’elevata frequenza dell’iperbato (spesso con epifrasi), dell’anastrofe e dello zeugma. Meno frequenti ma notevoli le costruzioni ellittiche del predicato verbale, mentre è spesso utilizzato il polisindeto. Assolutamente predominante tra le figure retoriche, per presenza e complessità di utilizzazione, è senz’altro il chiasmo12, forse sentito come lo strumento dell’antitesi più efficace, da un lato, nel favorire effetti di variatio in

10 Cfr. A. Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, Brescia, Morcelliana, 1980, pp. 75-79. 11 È quanto ad esempio osservato dalla Tissoni Benvenuti in merito a Niccolò da Correggio (Opere, Bari, Laterza, 1969, p. 562). 12 È particolarmente interessante, a questo proposito, notare come questa figura non sia quasi mai utilizzata dall’Aquilano: cfr. A. Rossi, Serafino Aquilano, cit., p. 61, che rileva, nei sonetti, una sola occorrenza.

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contesti prevalentemente parallelistici ed enumerativi, dall’altro come elemento fortemente strutturante in grado di controllare e in qualche modo ‘imbrigliare’, in sede di dispositio, un materiale tematico e lessicale spesso esuberante. Si notano così, oltre ai frequentissimi chiasmi semplici, casi assai complessi di permutatio, sia nella forma del chiasmo semantico, come del chiasmo sintattico. Particolarmente diffuso è anche, come ci si poteva aspettare, l’uso dell’anafora; sporadica, ma con esiti di singolare efficacia, l’utilizzazione dell’anadiplosi. È infine da segnalare, tra gli artifici costruttivi, l’uso dello schema additivo. E si veda, per il versante retorico, di nuovo il caso (indubbiamente oltranzistico) dell’appena considerato son. 63, Radice del mio cor, man dolce acerba. L’ossessiva attrazione per la man bella e bianca è condotta, pur originando dagli archetipi di Petrarca e Giusto de’ Conti (autore dell’eponimo canzoniere La bella mano), ad una accentuazione iperbolica tipicamente tardoquattrocentesca: come si può rilevare dalla rigida struttura anaforica in climax ascendente che innerva la capziosa disputatio sulle opposte qualità della mano (letale) e delle dita (risanatrici) della donna. L’intero testo è costruito sull’opposizione di mano e diti (o dito), che si alternano nell’iniziare ogni verso (tranne che nel v. 1, in cui man è nel secondo emistichio). In più, nelle terzine mano e dito sono le sole parole-rima, mentre soltanto il verso conclusivo (come nello stretto finale di una sestina) accoglie finalmente entrambi gli elementi, ma in posizione chiastica rispetto ai predicati verbali, quasi a sottolinearne ulteriormente, separandoli, la diversa e inconciliabile funzione. Si nota, nelle terzine e dunque nella fase più stringente del climax, l’infittirsi dei fenomeni retorici appena sottolineati, ossia nel contempo anafora, paronomasia ed allitterazione. Questi ultimi, in particolare, fanno alternativamente prevalere m o d (o addirittura man e dito) in corrispondenza della parola in rima (con l’eccezione già rilevata del verso finale, che presenta entrambi i termini). Si veda lo schema seguente: Man fiera, man crudel, marmorea mano, dito dolce, amoroso e tener dito, man che me tira al fin de mano in mano, dito che me resana a dito a dito, man che me morde e strugge a mano a mano: la man m’enpiaga, et me resana el dito.

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5. Quello dei valori fonico-timbrici e delle figure dell’espressione è un capitolo particolarmente ricco e significativo, e contemporaneamente, come è noto, di ardua interpretazione. Fatti salvi alcuni capisaldi teorici ormai irrinunciabili13, e senza volersi minimamente addentrare nella questione, si può osservare, soprattutto per i fenomeni allitterativi, come essi spesso concorrano efficacemente, sul piano timbrico, all’incremento semantico (sia pure connotativo e non banalmente mimetico) della partitura espressiva di un testo. Ed esiti analoghi sono ovviamente riscontrabili nei casi di adnominatio, figura etimologica e paronomasia. Ad es. il son. 111: Posa Cupido hormai l’acuto strale per me (che opri ver’ me) ne la pharetra, ché un saldo cor per ferro non se spetra, fredo che in sé non ha vita mortale. In van le fiamme accende et bati l’ale, ch’io son come ombra chiusa in fossa tetra; che pense tu: trar sangue d’una petra e far a un sterpe senza sensi male? Sì presto come io vidi i chiari rai del volto che per pompa fé Natura, sì presto in scoglio e in sterpe me mutai, el qual non ha di ferro o fuoco cura: onde, ferendo me, come quel fai che ara sopra una petra alpestre e dura.

rappresenta un caso oltremodo elaborato (probabilmente limite) di partitura timbrica intenzionalmente orientata, e precisamente in senso aspro e ‘petroso’: quasi a sottolineare l’immobilità e la glacialità (fredo, petra, sterpe senza sensi, scoglio) della condizione espressa. Data la complessità del caso mi sembra utile riproporre l’intero testo con l’indicazione delle principali serie allitterative intersecantesi (cons. + r, o viceversa, ed r semplice, in corsivo; s o s + dentale, in nero; f, in maiuscolo): Posa Cupido hormai l’acuto strale per me (che opri ver’ me) ne la PHaretra, ché un saldo cor per Ferro non se spetra, Fredo che in sé non ha vita mortale. In van le Fiamme accende et bati l’ale,

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È d’uopo almeno citare G. L. Beccaria, L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1975.

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ch’io son come ombra chiusa in Fossa tetra; che pense tu: trar sangue d’una petra e Far a un sterpe senza sensi male? Sì presto come io vidi i chiari rai del volto che per pompa Fé Natura, sì presto in scoglio e in sterpe me mutai, el qual non ha di Ferro o Fuoco cura: onde, Ferendo me, come quel Fai che ara sopra una petra alpestre e dura.

6. Per quanto pertiene all’imitazione e ai riscontri testuali, piuttosto frequenti sono i riscontri diretti possibili con autori classici, soprattutto nel senso dell’imitazione diretta, come tale immediatamente verificabile. Più spesso si tratta invece di riecheggiamenti generici, magari mediati da fonti volgari, oppure semplicemente di un riferimento tematico, in genere di argomento mitologico, fortemente compendiato rispetto alla narrazione originale, e non più rapportabile, almeno formalmente, con quella fonte (e qui gli esempi, soprattutto nei riguardi delle Metamorfosi, potrebbero risultare assai numerosi). Ma di frequente l’intento imitativo è scaltrito e consapevole, e non pedissequamente vòlto ad esiti propri ed autonomamente riconoscibili. Nel son. 271: Ponime in mezo al mar, quando el delphino leva più in alto la curvata schena e ’l vento l’onde hor alto hor basso mena e piange el navigante el suo destino, et fa che ’l volto angelico e divino veda io, che intorno a sé l’aura serena: e tanto havrò timor d’affanno e pena quanto è sicuro a l’umbra el peregrino. Ponime in meggio un prato a primavera tra sòni e canti: sencia el suo bel viso piangerò come l’hom che si dispera. Insomma: quand’io son da lei diviso ogni piacer me par cosa aspra e fiera, né creggio sencia lei sia paradiso.

l’evidente debito nei confronti di Orazio, Carm. I xxii 17 ss. (segnatamente, ma per una labile tangenza quasi e contrario, cfr. i vv. 17-18: «pone me pigris ubi nulla campis | arbor aestiva recreatur aura», con il v. 9 del S.) e RVF 145, 1 ss. («Ponmi ove ’l sol occide i fiori et l’erba | [...]») non impedi-

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sce di apprezzare l’originalità del trattamento tematico, quasi sillogisticamente tripartito: a) situazione infausta e felicità del poeta in presenza della donna (vv. 1-8); b) situazione fausta ma infelicità del poeta per l’assenza della donna (vv. 9-11); c) conclusione gnomica, che ribadisce segnatamente, ma promuovendolo a verità generale, il motivo del secondo exemplum (vv. 12-14). Nel caso del sonetto 241: L’incanto fa il sordo aspe obediente, rompe le dure pietre, abassa i monti; l’incanto ferma i fiumi e secca i fonti, obscura el sol d’istade in oriente. L’incanto el mar turbato fa la gente passar sencia ale, sencia nave e ponti; l’incanto fa doi tigri, insieme agionti, portar el duro giogo humanamente. L’incanto pò dal ciel tirar la luna, l’antiqua etade a la nova tornare; l’incanto vince Amore et la Fortuna, et non pò la tua mente, aspra, mutare: unde passi di orgolio, in el mondo una, monti, fiumi, aspi, tigri, pietre e mare. 1. Diffusissima l’immagine dell’incantamento dei serpenti: cfr. in particolare TIBULLO I viii 19 ss. (probabile ispiratore della presente struttura anaforica): «Cantus vicinis fruges traducit ab agris, | cantus et iratae detinet anguis iter, | cantus et e curru Lunam deducere temptat»; quindi VIRGILIO, Aen. VII 753-55; OVIDIO, Met. VII 203; SENECA, Medea 684-90; LUCANO, Phars. VI 488-91; infine, per la sottolineatura del potere della poesia, RVF CCXXXIX 28-30: «Nulla al mondo è che non possano i versi: | et li aspidi incantar sanno in lor note, | nonché ’l gielo adornar di novi fiori»; e cfr. anche AL CXI 1-2: «Qual si move constretto da la fede | de’ tesalici incanti il frigido angue». Ma per sordo aspe è fondamentale l’archetipo scritturale di Ps 57, 5-6: «sicut aspidis surdae et obturantis aures suas | quae non exaudiet vocem incantantium et veneficii incantantis sapienter», in seguito ripreso da un’amplissima tradizione leggendaria medioevale (ad es. ISIDORO, Etym. XII iv 12) ed ovviamente volgare: si vedano almeno, in poesia, RVF CCX 7: «che sol trovo Pietà sorda com’aspe» e PULCI, Morgante XIV 83, 5: «l’aspido sordo, freddo più che lastra». 2-3. Effetti propriamente magici sulle pietre o il suolo sono in TIBULLO I ii 47 («haec cantu finditque solum») e, più latamente, in due luoghi paralleli ovidiani, Her. VI 88 e Met. VII 204. – abassa i monti: cfr. LUCANO, Phars. VI 476-77: «[...] Summisso vertice montes | explicuere iugum». – ferma i fiumi: cfr. TIBULLO I ii 46 («fluminis haec rapidi carmine vertit iter») e OVIDIO, Her. VI 87 («illa refrenat aquas obliquaque flumina sistit»); VIRGILIO, Aen. IV 489. Nel

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campo dei prodigi della poesia vedi invece VIRGILIO, Ecl. VIII 4; ORAZIO, Carm. III xi 14; CLAUDIANO, De raptu Pros. Prol. l. II 17-18; BOEZIO, De cons. phil. III, metr. XII, 9; e soprattutto lo stesso SASSO, De morte Angeli Politiani, 9 (Epigr. libri, cc. d2v-d3r), con evidente influsso ovidiano: «[...] sistebat flumina cantu». Ma per entrambi i versi decisivo è il confronto con AL CIV 13-15: «Farebbe a’ saxi tenerezza avere | del mio cordoglio e le cime inclinarsi | de’ monti e a’ fiumi il suo corso tenere». 9. Sicuramente il più vulgato degli incantesimi; si veda innanzitutto VIRGILIO, Ecl. VIII 69: «Carmina vel caelo possunt deducere lunam», insieme al calco boiardesco di AL LXIX 7: «dal ciel la luna pòn detrare e’ versi» (e vedi note al v. 12); ma anche TIBULLO I viii 21 («cantus et e curru Lunam deducere temptat») e OVIDIO, Met. VII 207 («te quoque, Luna, traho»); quindi ORAZIO, Epod. V 46 e XVII 77-78; PROPERZIO I i 19; OVIDIO, Her. VI 85-86; SENECA, Herc. Oet. 526; MARZIALE IX xxix 9; LUCANO, Phars. VI 500-506. 12. Cfr. AL LXIX 8: «né mover pòn questa alma ferma e dura».

il Boiardo rappresenta la pressoché esclusiva mediazione (e quindi coonestazione) volgare di un esteso complesso di fonti classiche e scritturali. Per quanto riguarda la tradizione tardolatina e medioevale si segnala l’irrinunciabile presenza del filone enciclopedico, ben rappresentato dalle Etymologiae di Isidoro da Siviglia14, come di quello favolistico-moraleggiante del fortunatissimo corpus pseudo-esopico; avvertibili le tracce, pur sporadiche, della Consolatio boeziana (segnatamente del metro XII del III libro). 7. Ancora più vario e complesso è il quadro offerto dalla tradizione volgare. Scontatamente predominante è la presenza del Petrarca dei RVF, sia che venga utilizzato come una sorta di ‘serbatoio’ lessicale e tematico, sia che fornisca singole tessere e sintagmi isolati, allusivamente impiegati per impreziosire testi magari assai distanti tonalmente (e a volte anche tematicamente) dal modello, sia infine quando si assiste, in un unico testo, ad un complesso tentativo di contaminazione e rifusione di più luoghi petrarcheschi. Paradigmatico è il caso del son. 32: Nympha che spargi a l’aura el bel crin d’oro et lievi el volto al ciel chiaro et eburno, calciata d’un purpureo cothurno et coronata d’un frondente aloro, da qual spiera descendi o da qual choro?

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Ma si può anche risalire, ancora in ambito classico, alla Naturalis historia di Plinio.

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Da quel de Iove o da quel de Saturno? Over là dove Phebo el car diurno hor move in Ariete, hor move in Toro? Sei tu nympha de monte o sei Napea? Pomona, Flora, Arethusa o Diana, over la bionda e bianca Citharea? Non hai sembiante human, non voce humana, non human passo: onde sei certo idea, ché mortal forma non è sì soprana.

Il sonetto è costruito sulla contemporanea contaminazione e variazione di quattro fonti petrarchesche: RVF 90, 159, 220 e 291. Il v. 1 rimanda a 159, 5-6: «Qual nimpha [...] | chiome d’oro sì fino a l’aura sciolse?»; 90, 1: «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi»; e 291, 2: «co la fronte di rose et co’ crin’ d’oro». Si noti inoltre la rima in -oro in comune con 291, 2-3 e 6-7, e in particolare la parola-rima «alloro» (v. 4: cfr. 291, 7; ma anche 325, 22: «coronati d’alloro», sempre in rima). Nel v. 5 vi è un ricordo di 220, 9: «Da quali angeli mosse, et di qual spera»; si noti inoltre la rima in -ea in comune con 159, 1, 4-5 e 8, e il ritorno della parola-rima «ydea» del v. 1 (Sasso: idea, v. 13). Il v. 9 sembra quasi un calco sonoro di 159, 5: «Qual nimpha in fonti, in selve mai qual dea». Per i vv. 12-14 vedi 90, 9-11: «Non era l’andar suo cosa mortale, | ma d’angelica forma; et le parole | sonavan altro, che pur voce humana».

Come di norma nella tradizione tre-quattrocentesca, è poi evidente la frequentazione del magmatico corpus delle Disperse. Ma è soprattutto interessante la massiccia presenza dei Trionfi: ed è forse, questo, l’indizio di un’agnizione, nella seconda opera volgare petrarchesca, di un’auctoritas per il versante gnomico-moraleggiante se non francamente disperato: un’auctoritas, in qualche modo, più elettiva e ‘qualificante’ di quella del pur molto amato, ma vulgatissimo, Dante. E Dante è in effetti molto amato dal Sasso, ma di un amore, per così dire, più rispettoso e misurato di quanto forse non ci si attenderebbe, forse condizionato dal timore di quell’abuso corrivo così frequente ai minimi livelli letterari. Dunque è certo presente, la Commedia, magari solo a suggerire certi sintagmi o la filigrana delle parole-rima, oppure a fornire, nei casi più complessi, un esteso sfondo mnemonico e tonale. E cfr. il son. 167: Nymphe vaghe, leggiadre e gratiose che seguite d’Amor la dolce schiera,

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portatime qua tutta primavera, zigli, narciso, myrto, hedera e rose. E voi, alme celeste e gloriose che habitate del ciel la terza spera, uscite fuor de questa preggion fera se ve fôr grate le leggie amorose. Pregate Citharea che mena Amore e voi venete seco in compagnia, ché voglio incoronar con iusto honore la dolce porta de la nympha mia, che lieta s’apre e mostra el sol di fòre quando me vede andar lieto per via.

Quasi a collegare idealmente la terza spera (v. 6) celeste qui evocata con il secondo cerchio dantesco (forse alluso dalla preggion fera del v. 7), sono particolarmente frequenti in questi versi le tangenze con il momento iniziale dell’episodio di Paolo e Francesca (Inf. V 73-96). E più che la ripresa dell’allocuzione dantesca dei vv. 80-81 («O anime affannate, | venite a noi parlar, s’altri nol niega!»), latamente sovrapponibile all’intera seconda quartina, ne sono spia più probante sia una generale intonazione di indulgenza affettiva, qui felicemente traslata all’universo pastorale, sia la presenza ravvicinata di elementi lessicali o sintagmatici comuni (pur se a volte svincolati da una precisa congruenza contestuale), come a costituire una occultata ma riconoscibile filigrana allusiva. Si vedano infatti: gratiose, v. 1 > grazioso, v. 88; schiera, v. 2 > id., v. 85; alme, v. 5 > anime, v. 80; uscite, v. 7 > uscir, v. 85; Pregate... che mena Amore | e voi venete, vv. 9-10 > priega | per quello amor che i mena, ed ei verranno, vv. 77-78 (ma anche venite, v. 81). Ma non meno significativo, alla luce di quanto appena osservato, è il recupero discreto del Dante lirico, delle Rime e della Vita Nova, non a caso soprattutto rilevabile in testi di lode alla bellezza della donna, dunque con un omaggio, di nuovo, allusivo a una ben più famosa ‘poetica della lode’. Prevedibilmente cospicui, per tornare al Trecento delle ‘Corone’, i riscontri boccacceschi, segnatamente dalle Rime e dall’Amorosa visione. Ben rappresentata è la tradizione lirica toscana tre-quattrocentesca, dal Saviozzo a Giovanni Ciai e Bernardo Pulci. Possibili (ma tutt’altro che certe) sono poi le tangenze con Fazio degli Uberti, Burchiello e Antonio di Meglio. Di assoluto rilievo sono le testimonianze del petrarchismo quattrocentesco più ortodosso, partendo da Buonaccorso da Montemagno il Giovane; cfr. soprattutto il son. 143: Non bisogna più lacci o più catene, non bisogna più nodi per ligarme;

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non bisogna più stral, pharetra et arme per farme el sangue uscir fuor de le vene; non bisogna più canto de sirene od altro dolce suon per inganarme; non bisogna più foco per scaldarme né doglia per accrescer le mie pene, ch’io son preso e legato in stretto laccio e fatto segno e mira al stral d’Amore, et pigliomi la Morte per solaccio. Basta ch’el vinca, un generoso core, senza far del nimico magior stracio. Uccider l’hom che è preso è poco honore.

evidente variazione di Buonaccorso 4 (che riportiamo integralmente, corsivando sintagmi e lemmi coincidenti): Non bisogna più filo o più lavoro per tesser contro a me novella rete: basti, signor, ch’al mio collo tenete cinta l’impia crudel catena d’oro. Non ordite più funi al mio martoro, ch’ogni altra opera omai più vi perdete, ché mia vita e mia morte scritta avete ne’ be’ vostri occhi, ond’io mi discoloro. Basti el bel primo nodo e ’l dolce laccio, onde celatamente el dì fui giunto ch’Amor fe’ del mio mal vostro cor sazio. Assai m’è passïon quando in un punto per voi triemo ardo intepidisco e ghiaccio: gloria non è far d’un prigion sì strazio. Rispetto al modello (imitato, ma solo nell’incipit, anche da Bernardo Pulci XCV [Lirici toscani II 356]: «Non bisogna più foco o più dolce esca»), saranno almeno ancora da notarsi la rima C in comune (-accio / azio: con «laccio» – sempre al v. 9 – e «strazio») e la pointe gnomica che sigilla il sonetto (particolarmente vulgata: cfr. Ovidio, Am. I ii 22: «nec tibi laus armis victus inermis ero»; RVF 3, 12- 13; e, almeno per il S., Mare amoroso 3-4 [Poeti ’200 I 487]: «or vi pensate ben se v’è onore | a darmi morte, poi m’avete preso»; Boccaccio, Rime XXX 9-11: «Poco onor ti sarà, [...] | ferir, vincer, legar, uccider uno | che far non puote inver di te difesa»; Lorenzo De’ Medici, Canz. XV 1: «Non t’è onor, Amor, l’avermi preso»), dilatata dal S. alla misura dell’intera terzina conclusiva. Inoltre, ma differenzialmente, il diverso (com’era forse da attendersi) e più insistito uso dell’anafora nel S. (ben cinque occorrenze di Non bisogna più nei primi otto versi).

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In definitiva, un’esemplare rilettura tardo-quattrocentesca di un piccolo classico del petrarchismo di inizio secolo. Sempre in quest’ambito (ma avviandoci alla metà del secolo), sono quindi presenti Giusto de’ Conti, lo Staccoli e Niccolò Malpigli. Ancor più significativa è l’attenzione ai presunti ‘grandi isolati’ della lirica del secolo, dall’Alberti al Petrucci e, soprattutto, al Boiardo. Nel caso di quest’ultimo, a fronte di sporadici riscontri con l’Inamoramento (prevedibilmente di natura più che altro tematica e tonale), colpisce la frequenza e la rilevanza delle tangenze con gli Amorum libri, tale da imporci, tra breve, un doveroso approfondimento. La presenza di poeti della cerchia laurenziana si riduce sostanzialmente, tolte due tangenze col Poliziano (dall’Orfeo e dall’elegia In violas) ed una, ma soltanto probabile, col Morgante del Pulci, al fondamentale apporto di Lorenzo de’ Medici (soprattutto dal Canzoniere, dall’Ambra e dalle Selve) prova comunque evidente di quello stretto legame con l’ambiente fiorentino ben testimoniato dal ms. N (contenente, oltre a ben 23 sonetti del Sasso, testi, fra gli altri, di Bartolomeo Fonzio, Pietro da Bibbiena e Piero de’ Medici). Per quanto concerne i poeti contemporanei (dunque operanti sullo scorcio del secolo) riscontri singolari ma di notevole rilievo sono possibili con il Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara e con un sonetto attribuito a Giovanni Pico della Mirandola; più frequenti gli incontri con Gasparo Visconti e Niccolò da Correggio. Un discorso a parte meritano i già menzionati Tebaldeo ed Aquilano, ovvero i due nomi che più frequentemente concorrono, insieme a quello del Sasso, nel definire il gotha della cosiddetta lirica cortigiana. Anche se le tangenze testuali che li riguardano appaiono discretamente rilevanti, è innanzitutto da avvertire che per ragioni cronologiche inerenti la loro produzione (ad es. la princeps del Tebaldeo è del 1498, quella dell’Aquilano del 1502), il rapporto con il Sasso sarà piuttosto di dare ed avere, e per ogni testo, insomma, sarebbe necessaria una puntualizzazione temporale precisa. 8. Ma torniamo necessariamente agli Amorum libri, al cui proposito si è tempestivamente e ripetutamente rilevato il ruolo fondamentale di mediazione del dettato petrarchesco svolto da Giusto de’ Conti15. Quella che forse non

15 E. Ronconi, recensione all’edizione Scaglione, in «Rinascimento», III, 1952, pp. 173-77; Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki, 1963, pp. 336-9 e passim.

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si è sufficientemente sottolineata è la vera e propria consistenza di una linea ‘alta’ del petrarchismo quattrocentesco (almeno fino ai tre quarti del secolo), che ha appunto i suoi nodi fondamentali in Giusto e Boiardo, ma che si giova anche delle rilevanti inserzioni (più o meno distanti dall’ortodossia petrarchesca ma in ogni modo decisive) di Buonaccorso da Montemagno il Giovane, dello Staccoli, dell’Alberti, e tra i suoi precedenti trecenteschi almeno di Antonio da Ferrara e del Saviozzo16. In merito al Boiardo lirico, nel concreto il ruolo di modello degli Amorum libri funziona su di un piano prevalentemente occulto ed allusivo, comunque non palesemente dichiarato e direttamente avvertibile. Ad esempio non funziona sul piano della strutturazione di canzoniere, poco ricevibile, almeno in maniera così rigorosa, dall’insofferente generazione di fine secolo, né tantomeno sul piano dell’estrema complessità metrica, anch’essa non consona ai più consueti codici cortigiani. Dove invece il modello boiardesco funziona è al livello più propriamente formale, ossia dell’imitazione stilistica, sintattica, tonale e frequentemente sintagmatica. Quella che insomma pare decisiva non è certo la presenza, di per sé ovvia e prevedibile, degli Amorum libri nella lirica di fine secolo, ma la netta impressione del ruolo ‘forte’ e sottilmente modellizzante del canzoniere boiardesco, assunto, dalle personalità poetiche cortigiane più avvertite, come il precedente più immediato ed autorevole (insieme, non va dimenticato, a Lorenzo de’ Medici: ma con l’ovvio vantaggio, per il Boiardo, delle comuni affinità padane) di quella tradizione lirica quattrocentesca cui si è accennato. Ma andiamo per gradi, iniziando da considerazioni esterne, ‘strutturali’. Tolte ben poche eccezioni, è arduo reperire nella produzione lirica dell’ultimo quarto del secolo, soprattutto settentrionale (le eccezioni ritrovandosi in particolare a Firenze – si pensi a Lorenzo – e a Napoli – almeno con Aloisio, Caracciolo e Cariteo –), un’intenzione di coerente ed organica strutturazione di canzoniere (più o meno avvicinabile al modello petrarchesco) così come nei due modelli più decisivi, ma non esclusivi17, di Giusto e Boiardo. Prevale, in ambito cortigiano, lo

16 Si veda in particolare, per quest’ultimo, E. Pasquini, Echi minori nel Boiardo lirico e bucolico, in Il Boiardo e la critica contemporanea. Atti del Convegno di Studi su Matteo Maria Boiardo (Scandiano-Reggio Emilia, 25-27 aprile 1969), a cura di G. Anceschi, Firenze, Olschki, 1970, pp. 377-94. 17 Vedi almeno i casi di Agostino Staccoli e Rosello Roselli (sui quali cfr. SantagataCarrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, F. Angeli, 1993, pp. 92 e 117-8; M. Danzi, Petrarca e la forma «canzoniere» fra Quattro e Cinquecento, in Lezioni sul testo. Modelli di analisi letteraria per la scuola, a cura di E. Manzotti, Brescia, La scuola, 1992, pp. 92-93), e Antonio Cornazano (cfr. A. Comboni, Per l’edizione delle Rime

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zibaldone di rime, la generica collezione della propria produzione poetica con puri fini di diffusione sociale, sia ristretta e solo manoscritta, sia più ampia e veicolata dal nuovo mezzo della stampa (altro è il discorso, pur centrale per questa lirica ma che qui non interessa, delle grandi antologie manoscritte cortigiane di fine secolo, quindi di una diffusione amplissima e tuttavia frammentaria). Anche nel caso del Sasso, è naturalmente necessario partire da un’analisi esterna della composizione della sua raccolta. BS, abbiamo visto, contiene 450 testi, tra sonetti, capitoli ed egloghe, così disposti e suddivisi: son. 1-406; cap. I-XXVII; egl. I-V; cap. XXVIII-XXXIX. L’impressione è, comunque, di trovarci di fronte a un canzoniere, ovviamente privo del legame continuo e unitario garantito da un’unica ‘storia’, ma non di quello di più ‘storie’ minori, caratterizzato da sequenze di varia estensione, ma chiaramente omogenee e segnate da precise connessioni intertestuali. Certo si avvertono spesso, nel passaggio da una sequenza tematica all’altra, più i segni della giustapposizione che non quelli dell’amalgama: ma non si può dimenticare di essere in presenza di una struttura policentrica, perfettamente conscia della propria plurivalenza tematica, tonale e stilistica, e per nulla turbata dalla necessità di approssimarsi a un unico modello, quale quello, sublimemente selettivo, dei Rerum vulgarium fragmenta, in quanto l’autorità petrarchesca, ben viva e feconda al livello dell’imitazione stilistica, non era però vissuta se non come una delle tante strade percorribili. E la lezione, propriamente sul piano strutturale, dei RVF sarà recepita solo tardi, e assai episodicamente e con molte contraddizioni, anche dalla lirica post-bembesca18. Ma vediamo come questa strutturazione, nel nostro caso, concretamente si realizzi. La bipartizione fisica tra sonetti e capitoli (comprese le egloghe), pure evidente, non comporta tuttavia una cesura irrimediabile tra i due blocchi metrici: analizzando attentamente i testi che fungono da ‘cornice’, che, cioè, aprono e chiudono sia l’intero canzoniere come le due sezioni (sonetti e capitoli) in cui è diviso, si riescono a cogliere i segni evidenti di una costruzione intenzionale. Si veda lo schema seguente: a) son. 1: proemiale (dichiarazione di non pentimento nei confronti dell’esperienza amorosa); son. 2-3: dedica ad Elisabetta Gonzaga;

di Antonio Cornazano, in «Studi di filologia italiana», XLV, 1987, pp. 101-49, e Il Canzoniere di Antonio Cornazano, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989, pp. 123-9). 18 Cfr. G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Letteratura Italiana, III. Le forme del testo, t. I, Torino, Einaudi, 1984, pp. 506-509 (ora anche in Gorni, Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 118).

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b) son. 401-406: sulla Fortuna e la predestinazione; c) cap. I: sulla malattia e la guarigione di Elisabetta Gonzaga (visione); d) cap. XXXVII: visione escatologica; cap. XXXVIII: alla Vergine (dichiarazione di pentimento); cap. XXXIX: Credo. Come si può osservare, i primi tre sonetti e gli ultimi tre capitoli si corrispondono simmetricamente nella loro opposta funzione proemiale e di conclusivo pentimento religioso19 (ed è probabilmente questo il motivo dell’inserimento delle egloghe all’interno della sezione dei capitoli e non alla fine, appunto per permettere questa dialettica unificante tra proemio e finale). Il cap. I, invece, sembrerebbe in qualche modo richiamare per l’argomento i son. 2 e 3, ugualmente dedicati ad Elisabetta Gonzaga, quindi con la duplice funzione di legame tra sezione dei sonetti e sezione dei capitoli, e di ripresa dopo la chiusa piuttosto solenne (sui temi della Fortuna e della predestinazione) ma certamente provvisoria rappresentata dagli ultimi sonetti (401-406). In questo modo viene salvaguardata la struttura complessiva della raccolta, costruita sull’asse proemio-conclusione (ossia, come si è visto, rivendicazione dell’esperienza amorosa vs. pentimento), e nel contempo viene in qualche modo `sfumata’ la transizione tra i due grandi blocchi metrici, che poteva risultare disturbante nei confronti di una costruzione unitaria20. Non è certo possibile in questa sede entrare in una considerazione ulteriormente analitica della struttura di questa raccolta. Ma soccorre un elemento particolarmente rilevante a mettere in connessione La bella mano, gli Amorum libri e i Sonetti e capituli. Tutte e tre le raccolte sono infatti caratterizzate da una o più sezioni iniziali (diversamente estese ma immediatamente 19 Anche se, rispetto all’atteggiamento radicale del sonetto proemiale, questa sezione finale monoliticamente consacrata alla giustificazione religiosa e alla contrizione pare assai meno sincera, e probabilmente debitrice di quella simmetrica necessità di opposizione di cui essa stessa, in primo luogo, è segnale. Sul tema del ‘pentimento’ nelle raccolte di rime quattrocentesche cfr. Mengaldo, La lingua, cit., Firenze, Olschki, 1963, p. 25; M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 231-32. 20 Va a questo proposito osservato come a scongiurare questo pericolo contribuisca di per sé la sostanziale omogeneità tematica tra sonetti e capitoli, anche se forse sarebbe meglio parlare di omogeneità nell’escursione tematica. Si passa infatti dal registro amoroso (II-X; XII; XVI-XVII; XIX-XXI; XXIV-XXV; XXVIII-XXIX; XXXI-XXXII; XXXV) a quello politico-encomiastico (I; XI; XV; XVIII; XXII-XXIII; XXVI-XVII; XXX; XXXIV; XXXVI), da quello gnomico (XIV; XXXIII) a quello francamente religioso (XIII; XXXVIII-XXXIX). Tutte di argomento politico (non sempre immediatamente decifrabile) sono poi le cinque egloghe. Una sintetica illustrazione della tipologia tematica dei capitoli del Sasso si legge ora in P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 40-44.

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seguenti i testi proemiali) compattamente dedicate alla lode delle bellezze della donna, alla descrizione dei loro miracolosi effetti sulla natura e sugli uomini (tipicamente: l’amante stesso), in sostanza all’esaltazione dell’essenza soprannaturale della donna. Si mettano a confronto gli schemi iniziali dei tre canzonieri21: La bella mano

Amorum libri

Sonetti e capituli

1-2 Proemiali 3-26 Lode 27-49 Lode (mista al lamento per la durezza della donna) 50-90 Lamento per la durezza della donna

1 Proemiale 2-32 Lode 33-35 Prime durezze della donna 36-42 Ritorno della pace e nuova lode 43-60 Profezie e presagi negativi alternati a nuova lode 61-90 Lamento per la durezza della donna

1-3 Proemiali 4-38 Lode 39-46 La dolorosa ‘prigionia’ d’Amore 47-57 Il tradimento della donna 58-84 Pace e nuova lode

Anche da questo sommario accostamento emerge con evidenza un processo comune (segno di consapevole imitazione, pur con dinamiche e orientamenti tematici parzialmente differenti) che dall’incontaminata, spesso entusiastica purezza della lode iniziale conduce inevitabilmente, dapprima in forma ibrida, alla progressiva interferenza della durezza della donna e del conseguente dolore del poeta (ed è inoltre presente, in tutti e tre i testi, il tema della gelosia o addirittura del tradimento: vedi Giusto LII, Boiardo 3335 e 91-103, Sasso 47-57). Ebbene, questa configurazione iniziale comune è una variante innovativa del petrarchismo quattrocentesco, che si deve, naturalmente, all’iniziativa di Giusto. 9. E proprio partendo dalle sezioni iniziali di lode vorrei pur velocemente affrontare il nodo dell’imitazione formale boiardesca (quando possibile risalente a Giusto e agli altri petrarchisti) nel Sasso. Tolto ovviamente Petrarca, il Boiardo è per il Sasso la massima presenza ed autorità volgare,

21 Ma va ricordato come già Ronconi, nella citata recensione all’edizione Scaglione, avesse sottolineato la profonda e ricercata affinità delle sezioni di apertura di Giusto e Boiardo.

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superando, per numero ed entità dei riscontri, rispettivamente Lorenzo de’ Medici e Giusto. Coerentemente a questa rilevanza, l’assunzione boiardesca ci pare più autonoma ed originale che, ad esempio, nel Tebaldeo, mostrando apertamente i caratteri di un’interpretazione personale e selettiva. Ma quel che più conta è la palese funzione di ruolo guida di un’intera tradizione, consapevolmente ed allusivamente assunta, offerto dal Sasso agli Amores boiardeschi. Nella sezione iniziale dei Sonetti e capituli pare infatti di ravvisare a tratti quello stesso intento (se è consentito miscere sacra profanis) riscontrabile nei poeti classici, ansiosi di alludere, con entusiastico ma disciplinato fervore, a «tutta la lignée artistica precedente ad ogni nuovo esperimento»22. Nelle due compatte sequenze iniziali di lode (sonetti 4-38 e 59-84) è presente un fitto intarsio combinatorio tra alcuni dei massimi soggetti della tradizione lirica tre-quattrocentesca: si riscontra la presenza (sempre sottinteso Petrarca) almeno di Boccaccio (s’intenda delle Rime), Saviozzo, Buonaccorso, Giusto, Alberti, Staccoli, Malpigli, Lorenzo de’ Medici ed ovviamente Boiardo. Ma vediamo da vicino, con qualche esempio, i modi dell’imitazione, analizzando due testi della sezione di apertura. Quando l’aurora nel celeste choro ascende, e mostra a noi la faccia lieta, me par veder la mia fatal cometa sparger al vento le sue treccie d’oro. Quando el Monton dà loco in ciel al Toro e vien a noi lo universal pianeta, veggio l’angiola dolce e mansueta scoprir nel bianco seno el bianco avoro. Quando el ciel più de chiara luce è pieno, veggio costei quando la getta el riso e scopre le sue man candide e belle. Quando s’asconde vène el giorno a meno, la notte obscura, senza lume e stelle: costei pò far l’inferno e el paradiso. 1-2. Cfr. LORENZO DE’ MEDICI, Ambra 4, 7-8: «Orïon freddo col coltel minaccia | Febo, se mostra a noi la bella faccia». Per il movimento ascendente dell’aurora (dunque opposto allo «scender» di RVF CCXCII 1) cfr. tuttavia anche

22

G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino, Einaudi, 19852, p. 12 [n. 19]; lo stesso atteggiamento, notava sempre Conte, per il quale il Pasquali di Arte allusiva (Pagine stravaganti, II, Firenze, Sansoni, 1968, p. 278) ha avuto «la bella espressione di ‘complimento’».

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BUONACCORSO 18, 1-2: «Quando salir fuor d’oriente suole | la messaggera de’ futuri giorni». 12-13. Cfr. AL CXXXVIII 7-8: «al veder nostro il giorno non ha sole, | la notte non ha stelle senza lei». 14. Forse lontano ricordo di RVF CCXCII 7: «che solean fare in terra un paradiso», insieme a AL XXXII 3: «ch’io faria in terra un altro paradiso».

Il sonetto 35 è aperto e chiuso (quasi incastonato) da due zone a fitta densità mnemonica. I vv. 1-2 sovrappongono un’immagine derivata da Buonaccorso a un esteso imprestito sintagmatico laurenziano (dall’Ambra). L’ultima terzina accosta (ai vv. 12-13) una variazione abilmente occultata di AL CXXXVIII 7-8 a un più lato richiamo (al v. 14) insieme a RVF CCXCII 7 e ad AL XXXII 3. Ancor più fitta la trama allusiva del son. 38: Tanta dolceccia da’ belli occhi piove de la mia donna, a maraviglia adorna, ch’a meza notte el sole in lei soggiorna e fra doe stelle fa mirabel prove. Quando el candido piè per l’herba move cade virtù da le celeste corna; quando la parla Philomena torna alle querele sue sempre più nove; e se el bel vel che chiude el bianco petto la bella e bianca man rimove in parte, tanta è la luce sua che ’l sol s’asconde, né val luce mortal con tal obietto; ma se la spiega le sue treccie bionde mostra quanto pò el Ciel, Natura et arte. 1-2. Cfr. DANTE, Rime 18, 1: «De gli occhi de la mia donna si move» (: nove: piove: prove) e Par. XXXII 88-89: «Io vidi sopra lei tanta allegrezza | piover [...]»; RVF CLXV 7: «da’ begli occhi un piacer sì caldo piove» e CXCII 3: «vedi ben quanta in lei dolcezza piove»; quindi GIUSTO VIII 14: «et tanta gratia dalle ciglia piove», IX 4: «cosa che m’arde ne’ begli occhi piove» e soprattutto XIII 69: «cotanta gratia da’ begli occhi piove»; infine, per l’andamento sintattico, BUONACCORSO 17, 1-2: «Pioggia di rose dal bel viso piove | di questa prezïosa, alma Ruberta». Più labile il rapporto con AL LV 9: «Fiamelle d’oro fuor quel viso piove». 2. a maraviglia adorna: cfr. BOIARDO, In. II xx 12, 5: «l’un più che l’altro a meraviglia adorno»; senza scordare l’analogo (e contestualmente più congruente) «a meraviglia bella» della descrizione della fata Febosilla in II xxvi 16, 3. 3-4. L’immagine iperbolica è probabilmente desunta da AL III 12-13 («[...]

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costei, che sòle | scoprir in terra a meza notte un giorno») e dalla contemporanea amplificazione di tre spunti metaforici petrarcheschi (Tr. Cup. III 133: «e veramente è fra le stelle un sole»; Tr. Mor. I 25: «Stelle chiare pareano, in mezzo un sole»; Disperse XIV 5: «Farebbe a mezza notte arder il sole»). 5-6. Cfr. RVF CLXV 1-3: «Come ’l candido piè per l’erba fresca | i dolci passi honestamente move, | vertù che intorno i fiori apra et rinove». 10. la bella e bianca man: vedi RVF CCVIII 12: «Bascial ’l piede, o la man bella et bianca»; ma soprattutto GIUSTO, in cui, ormai avvenuta l’inversione tra sostantivo e attributi, il sintagma sembra cristallizzarsi, e divenire formulare (al pari, naturalmente, dell’ancor più frequente, ed eponimo, «la bella mano»). Cfr. II 5-6: «Porgami speme quella bella et bianca | man [...]»; XIX 1: «O bella et bianca mano, o man suave»; CVIII 1: «La bella e bianca man, che ’l cor m’afferra». 14. Cfr. ancora GIUSTO XL 1: «Quanto può il ciel, natura, ingegno et arte» (a sua volta debitore di RVF CXCIII 13-14, e forse anche di CXCIX 3-4).

I primi due versi mostrano un’impressionante stratificazione (quasi una sorta di rimpiattino testuale bisecolare) di luoghi danteschi, petrarcheschi, di Giusto, Buonaccorso e, seppur più marginalmente, Boiardo. L’immagine iperbolica dei vv. 3-4 è ottenuta dalla contaminazione di un passo boiardesco con tre luoghi petrarcheschi (dai Trionfi e dalle Disperse). Dopo un nuovo riferimento a Petrarca ai vv. 5-6, tutta la seconda parte del sonetto è sotto il segno di Giusto: dallo scontato topos della bella e bianca mano del v. 10 alla chiusura formulare del v. 14. 10. Insomma, tutto parrebbe confermare il progressivo definirsi, con il finire del secolo e proprio a partire dalla funzione dinamica (per così dire coagulante) del modello boiardesco, di una cosciente esperienza lirica padana, ben esemplificata dalla produzione del Sasso, geograficamente ben connotata nella sua duplice natura di dissimulata ma orgogliosa continuità con il passato più nobile e di libera ed eversiva disponibilità stilistica e tematica. E l’identificazione di questo vero e proprio ‘anello mancante’ evolutivo (certo quasi tutto ancora da indagare) permette innanzitutto di ridimensionare il finora presunto isolamento degli Amores, la cui lezione è stata ben fertile ed accolta, e non necessariamente tradita. Le sempre felicissime pagine di Mengaldo23 sull’«intensa ricerca di scoperti effetti musicali» negli Amorum libri, e in sostanza la precisa definizione di un’autonoma inventività scarsa-

23

Mengaldo, La lingua, cit., pp. 148-49.

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mente riducibile alla più ortodossa ispirazione petrarchesca mi sono frequentemente parse estendibili a molti dei migliori prodotti (naturalmente meno corrivamente disponibili alla pura occasione e all’esclusiva bizzarria capricciosa) della temperie cortigiana. Quello che semmai può diversamente connotare l’esperienza di questi poeti nei confronti del Boiardo è la presenza di più estese aree aperte ad una libera e rischiosa inventività verbale e metaforica (si ricordi solo, nel Sasso, la vita-luce ormai giunta ai quarant’anni che «è fatta una stilla inanti al sole», simbolo felicissimo e congruente di caducità; oppure la stessa vita ritenuta «preciosa | si quando la non è de morte pregna»)24. Inventività, per altro confermata e segnalata localmente da una parallela minor presenza di riscontri imitativi di tradizione, che si sarebbe tentati di definire un portato residuo (ma spesso né vacuo né provinciale) della maggiore creatività dantesca. Caratteri tali, probabilmente, da far ritenere la poesia del Sasso il frutto più originale della breve stagione cortigiana di fine Quattrocento.

24

Rispettivamente son. 212, 14 e 121, 10-11. Degni di nota anche due passi del son. 131. Ai vv. 7-8 il poeta si dichiara, pur vivo, «più defuncto | de quel ch’ha sciolto in ombra e ’l terren calma» (ossia: ’di quello che è morto [ch’ha sciolto in ombra è forma assoluta, con possibile sfumatura mediale] e può concedere riposo alla parte terrena, mortale di sé [’l terren, ogg. di calma]’); quindi, continuando sullo stesso registro, ai vv. 10-11: «e già ne gli occhi | se sente el crudo albergo de la Morte».

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APPENDICE SIGLE E ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE Manoscritti G N P2 Pr2 Z

Gubbio, Archivio di Stato, ms. I.D.2 (Armanni XVIII F 34). Napoli, Biblioteca Nazionale «V. Emanuele III», ms. XIII.D.44. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. It. 1047. Parma, Biblioteca Palatina, ms. Parm. 1424. Budapest, Fövárosi Szabó Ervin Könyvtár, ms. Zichy 09/2690. Edizioni a stampa

BS MI VE1 VE2 VE4 VE6 VE7

Sonetti e capituli del clarissimo poeta miser Pamphilo sasso modenese, Brescia, Misinta, [1500]. Opera del praeclarissimo poeta miser Pamphilo sasso modenese. Sonetti.CCCC.VII. Capituli.XXXVIII. Egloge.V., Milano, G. A. Scinzenzeler, 1502. Opera del praeclarissimo poeta miser Pamphilo sasso modenese. Sonetti.CCCCVII. Capituli.XXXVIII. Egloge.V., Venezia, Vercellese, 1500. Opera del praeclarissimo poeta miser Pamphilo sasso modenese. Sonetti.CCCCVII. Capituli.XXXVIII. Egloge.V., Venezia, Vercellese, 1501. Opera del praeclarissimo poeta miser Pamphilo sasso modenese. Soneti.CCCCVII. Capituli.XXXVIII. Egloghe.V., Venezia, Vercellese, 1504. Opera del praeclarissimo poeta miser Pamphilo sasso Modenese. Sonetti.CCCCVII. Capituli.XXXVIII. Egloge.V., Venezia, Vercellese, 1511. Opera del preclarissimo poeta Miser Pamphilo Sasso Modenese. Sonetti.CCCCVII. Capituli.XXXVIII. Egloge.V., Venezia, G. de Fontaneto, 1519. Opere citate

AL MATTEO MARIA BOIARDO, Amorum libri, in Opere volgari, a cura di P. V. Mengaldo, Bari, Laterza, 1962. BOCCACCIO, Rime GIOVANNI BOCCACCIO, Rime, a cura di V. Branca, in Tutte le opere, vol. 5/1,

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Milano, Mondadori, 1992. BOEZIO, De cons. phil. A. MANLIO SEVERINO BOEZIO, De consolatione philosophiae. BOIARDO, In. MATTEO MARIA BOIARDO, L’inamoramento de Orlando. Edizione critica a cura di A. Tissoni Benvenuti e C. Montagnani. Introduzione e commento di A. Tissoni Benvenuti, in Opere, Tomo I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999. BUONACCORSO B UONACCORSO DA M ONTEMAGNO IL G IOVANE , Rime, in Le rime dei due Buonaccorso da Montemagno. Introduzione, testi e commento di R. Spongano, Bologna, Pàtron, 1970. CLAUDIANO, De raptu Pros. CLAUDIO CLAUDIANO, De raptu Proserpinae. DANTE, Rime DANTE ALIGHIERI, Rime, a cura di G. Contini, in Opere minori, I 1, MilanoNapoli, Ricciardi, 1984 Epigr. libri Pamphili Saxi Poetae lepidissimi Epigrammatum libri quattuor. Distichorum libri duo. De bello gallico. De laudibus Veronae. Elegiarum liber unus, Brescia, Misinta, 1499. GIUSTO GIUSTO DE’ CONTI, Il Canzoniere. Prima edizione completa a cura di L. Vitetti, Lanciano, Carabba, 1918, 2 voll. Inf. DANTE ALIGHIERI, La commedia. Inferno, in La commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966-67. ISIDORO, Etym Isidori Hispalensis Episcopi Etymologiarum sive Originum libri XX. Recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. M. Lindsay, Oxford 1911, 2 voll. Lirici toscani Lirici toscani del Quattrocento, a cura di A. Lanza, Roma, Bulzoni, 1973-75, 2 voll. LORENZO DE’ MEDICI, Ambra LORENZO DE’ MEDICI, Ambra, in Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992. LORENZO DE’ MEDICI, Canz. LORENZO DE’ MEDICI, Canzoniere, a cura di T. Zanato, Firenze, Olschki, 1991, 2 tomi. LUCANO, Phars. MARCO ANNEO LUCANO, Pharsalia. MARZIALE MARCO VALERIO MARZIALE, Epigrammata.

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ORAZIO, Carm. QUINTO ORAZIO FLACCO, Carminum libri IV. ORAZIO, Epod. QUINTO ORAZIO FLACCO, Epodon liber. OVIDIO, Am. PUBLIO OVIDIO NASONE, Amores. OVIDIO, Her. PUBLIO OVIDIO NASONE, Heroides. OVIDIO, Met. PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorphoseon. Par. DANTE ALIGHIERI, La commedia. Paradiso, in La commedia secondo l’antica vulgata cit. PETRARCA, Disperse Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite. Raccolte a cura di A. Solerti, Introduzione di V. Branca, Postfazione di P. V. Galli, Firenze, Le Lettere, 1997. Poeti ’200 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, 2 tomi. PROPERZIO SESTO PROPERZIO, Elegiarum libri IV. PULCI, Morgante LUIGI PULCI, Morgante e lettere, a cura di D. De Robertis, Firenze, Sansoni, 1962. RVF F RANCESCO P ETRARCA , Canzoniere. Edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996. SENECA, Herc. Oet. LUCIO ANNEO SENECA, Hercules Oetaeus. SENECA, Medea LUCIO ANNEO SENECA, Medea. TIBULLO ALBIO TIBULLO, Elegiarum libri II. Tr. Cup. FRANCESCO PETRARCA, Triumphus Cupidinis, in Trionfi, Rime extravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino. Introduzione di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996. Tr. Mor. FRANCESCO PETRARCA, Triumphus Mortis, in Trionfi cit. VIRGILIO, Aen. PUBLIO VIRGILIO MARONE, Aeneis. VIRGILIO, Ecl. PUBLIO VIRGILIO MARONE, Eclogae.

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Elena Maria Duso IL CANZONIERE DI MARCO PIACENTINI

Al petrarchista Marco Piacentini, vissuto a Venezia tra la fine del Trecento e gli anni compresi tra il 1446 ed il 1453 (sicuro termine ante quem della sua morte), ho già dedicato una serie di contributi, nati in margine all’edizione critica parzialmente allestita per la tesi di laurea1. Quando dieci anni fa Armando Balduino affidava le sue schede piacentiniane alle mie mani, parlava di lui come un “fantomatico”2 petrarchista dalla straordinaria precocità: una ricostruzione d’archivio della biografia e soprattutto l’analisi della produzione poetica, in particolare delle rime politiche, ha permesso di delinearne meglio la figura e di tracciarne le coordinate storico-culturali. Sono emerse dunque da un lato la notevolissima – per l’epoca – influenza del magistero petrarchesco, dall’altro l’ancora pesante retaggio della tradizione veneta, orientata verso lo sperimentalismo metrico e il ludismo linguistico-stilistico e segnata dal culto per Dante. Le due componenti fanno del Piacentini un esemplare del petrarchismo quattrocentesco tanto più interessante quanto atipico ed isolato.

1

E. M. Duso, La poesia politica di Marco Piacentini, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 153-II, 1995, pp. 425-485; Ead., «Laura sua al buon Petrarca, a me la mia» (CCLVI, 8): Marco Piacentini e l’influsso delle tre Corone nella costruzione del personaggio femminile, in «Quaderni veneti», XXIII, 1996, pp. 85-131; Ead, Un nuovo manoscritto esemplato da Felice Feliciano, in «Lettere italiane», XXIII, 1998, fasc. 4 pp. 566-86; Ead., Appunti per l’edizione critica di Marco Piacentini, in «Studi di filologia italiana», LVI, 1998, pp. 57-127. 2 A. Balduino, Le esperienze della poesia volgare, in Storia della cultura veneta dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, 3. I., a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 265-367, a p. 286.

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Elena Maria Duso

All’incirca contemporaneo di Giusto de’ Conti, che sembrerebbe non conoscere, e vissuto in quella regione e in quella stessa città alla quale Giusto – secondo le parole di Italo Pantani3 – deve una delle spinte propulsive al suo successo, il Piacentini godette infatti di scarsissima fortuna: nessuna menzione da parte di autori a lui coevi, scarsa circolazione manoscritta e, soprattutto, nessuna edizione a stampa, se si fa eccezione per alcuni sonetti pubblicati nel 1589 da Faustino Tasso sotto il nome di Cino da Pistoia. La storia delle false attribuzioni delle rime piacentiniane, che comunque richiede un capitolo a sé4, certamente è stata favorita dalla condizione di anonimato o di adespotìa delle rime. Anche se la tradizione manoscritta piacentiniana conta 23 codici, il nome del poeta appare esclusivamente in tre raccolte antologiche del Quattrocento veneto, il Ricc. 1154, il Vicentino Bertoliano 44 e l’Estense alfa.U.7.24, per pochi sonetti. Manca invece in tutte e tre le raccolte, anch’esse di provenienza veneta, dedicate per intero al Veneziano: adespoto è il manoscritto Monacense 627, ital. 259, contenente 112 sonetti piacentiniani, che ho dimostrato essere stato esemplato da Felice Feliciano5, come pure il Vicentino Bertoliano 114, unico testimone dell’intero corpus del Piacentini (514 componimenti). Il Marciano ital. IX 350 infine, che contiene 345 rime (tutte presenti nel Vicentino), è attribuito, con un errore, ad “Antonii Cornaciani Placentini”6. L’esame dei sonetti politici, che si riferiscono agli anni ’30-40 del secolo, ovverosia ai tempi del Concilio di Basilea e delle guerre tra la lega antiviscontea ed i Visconti, unitamente allo studio del manoscritto monacense, mi ha spinto a considerare l’ipotesi che sia stata l’influenza che ebbero nel Piacentini i temi profetico-apocalittici di ascendenza gioachimita ad ostacolare la diffusione dell’intero canzoniere e a determinare piuttosto la circolazione di rime sparse di soggetto amoroso. Lo stesso Piacentini sembra rimandare ad un momento più propizio la circolazione della sua opra 7: «Tardi o per 3 I. Pantani, Tradizione e fortuna delle rime di Giusto de’ Conti, in «Schifanoia», VIII, 1989, pp. 37-96, pp. 72-73. 4 Per questo aspetto, cfr. Balduino, Le esperienze della poesia volgare, cit., pp. 28788; Duso, Per l’edizione critica, cit., pp. 94-96. 5 Duso, Un nuovo manoscritto, cit. 6 A. Comboni, Alcune puntualizzazioni sulla tradizione delle rime del Cornazzano con una canzone inedita sulla minaccia del turco (1470), in «Bollettino storico Piacentino», LXXX, 1985, pp. 197-98. 7 Il termine opra con il senso specifico di raccolta poetica unitaria, non è frequente nell’italiano antico. Le ricorrenze più vicine sono in Petrarca, Rvf. 20,6: «... né ovra da polir con la mia lima», 309,6-8: «Amor, che ’n prima la mia lingua sciolse / poi mille volte

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Il canzoniere di Marco Piacentini

tempo s’udirà il rimbombo / di l’opra ch’io novellamente acopio, / che non è da fanciul che chiami bombo» (CCCXXIX, 9-11). Il progetto di un libro unitario sembra dunque essere uno degli elementi più interessanti – e finora meno indagati –del precoce petrarchismo piacentiniano: va però precisato che tale ipotesi riguarda solo uno dei due rami in cui si bipartisce la tradizione delle rime, ossia il ramo b, costituito dal Vicentino Bertoliano 114 (Vi) e dal Marciano IX 350 (Mc), mentre va esclusa a priori per il ramo a, rappresentato dal codice Monacense (Mo) e da altri codici, contenenti pochi sonetti, tutti riconducibili al magistero di Felice Feliciano8. In Mo infatti le rime sono abbastanza nettamente bipartite in rime politiche (cc. 1-9v) ed amorose (cc. 10r-58v). Lo stacco tra le due parti è segnalato anche dalle interessanti miniature che illustrano i componimenti poetici: un Anticristo collocato a c. 7r rappresenta uno dei temi principali dei sonetti politici, mentre Cupido bendato, seduto disarmato sotto un alloro cui sono posati arco e faretra, si fa efficace sintesi della tematica amorosa, raffigurando la sconfitta dell’amore profano da parte del lauro, emblema della poesia e dell’amore neoplatonico9. Più significativa è invece la composizione dei due codici del ramo b, che però, oltre non concordare nei componimenti proemiali e finali, presentano un ordinamento interno parzialmente differente. Mi soffermerò dunque ad esaminare da vicino la fisionomia di ciascuna delle due raccolte, sottolineandone tratti comuni e differenze. Lo scopo è verificare se è possibile individuare in Vi ed Mc alcuni di quelli che sono stati individuati come tratti caratteristici dell’istituzione ‘canzoniere’, ossia: unicità della donna amata, eclettismo metrico (pur nella selezione delle forme scelte da Petrarca), assenza di sonetti di corrispondenza, partizioni esterne ed elementi di scansione temporale, solidarietà dei nuclei narrativi e loro coerenza testuale10.

indarno a l’opra volse / ingegno, tempo, penne, carte e ’nchiostri», e 40,9, dove però opra si riferisce al De viris o all’Africa; è proprio il sonetto 40 a suggerire il passo piacentiniano: «S’Amore o morte non dà qualche stroppio / a la tela novella ch’ora ordisco / .../ mentre che l’un con l’altro vero accoppio / i’ farò forse un mio lavor sì doppio / che .../ infino a Roma n’udirai lo scoppio». 8 Si tratta del Marc. it. IX 257, del codice Ottelio di Udine (Biblioteca Comunale V. Joppi, cod. 10) e del ms. C II 14 della Biblioteca Civica Quirininana di Brescia, esemplato dopo la morte di Feliciano, ma a lui legato. 9 Per un’analisi dettagliata delle due miniature, cfr. Duso, Un nuovo manoscritto, cit., pp. 574-83. 10 Per il canzoniere nella letteratura italiana dal XIV al XVI secolo, cfr. almeno S. Longhi, Il tutto e le parti nel sistema di un canzoniere (Giovanni Della Casa), in «Strumenti critici», XIII, 1979, pp. 265-300; M. Santagata, la lirica aragonese. Studi sulla

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Il codice vicentino, esemplato da ignoto in epoca databile, in base alle filigrane, fino al primo trentennio del Cinquecento, ma linguisticamente legato ad una temperie ancora quattrocentesca, all’insegna dell’ibridismo tra forme toscane e settentrionali, è, oltre che adespoto, anepigrafo: manca dunque di un titolo, che avrebbe potuto dare indizi importanti su di un eventuale progetto unitario da parte dell’autore. Contiene 514 componimenti, tra cui 506 sonetti, 5 ballate, 2 madrigali, 1 sestina: ad eccezione della canzone – che nel Veneto del Tre-Quattrocento conosce poca fortuna11 – sono dunque presenti tutti i metri selezionati anche dal Petrarca, pur in proporzioni abbastanza differenti. L’indice più notevole del petrarchismo metrico del Piacentini è costituito dall’identità degli schemi dei due madrigali e di quattro delle cinque ballate con i corrispondenti metri dei Rvf: per i madrigali, vengono recuperati infatti Rvf. 54 e 121; per le ballate sono ripresi Rvf. 324, 14 e 149 e lo schema di Donna mi vene, appartenente alle Disperse 12. Ancora legati alla tradizione trecentesca precedente a Petrarca, e al di qua della svolta segnalata da Santagata per la prima metà del Quattrocento il cui capostipite è Giusto, sono invece gli schemi delle terzine del sonetto13.

poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Liviana, 1979; Id., Dal sonetto al Canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova, Liviana, 19892 e Id., La forma canzoniere, in M. Santagata-S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, p, cit., pp. 31-39; G. Gorni, Il Canzoniere, in Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 113-134 (precedentemente in Le forme primarie del testo poetico, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, III.I, Torino, Einaudi, 1984, pp. 514-518); M. Danzi, Petrarca e la forma «canzoniere» fra Quattro e Cinquecento, in Lezioni sul testo. Modelli di analisi letteraria per la scuola, a cura di E. Manzotti, Brescia, Editrice La Scuola, 1992 e i diversi interventi raccolti in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a c. di M. Santagata e A. Quondam (Ferrara, 29-31 maggio 1987), Modena, Panini, 1989. 11 F. Brugnolo, I Toscani nel Veneto e le cerchie toscaneggianti, in Storia della cultura veneta. II. Il Trecento, Vicenza, Neri Pozza, 1976, pp. 370-439, a p. 433; per il QuattroCinquecento C. Dionisotti, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, in «Italia medievale e umanistica», XVII, 1974, pp. 61-113, a p. 100. 12 Secondo il repertorio di Linda Pagnotta (Repertorio metrico della ballata italiana, Milano-Napoli, Ricciardi, 1995) lo schema di Donna mi vene (99.1) era già stato ripreso da Alessio Donati, Deh, oh volesse Idio; quello di Rvf. 14 (Occhi miei lassi, 249.2) da un anonimo, Voi non guardate; lo schema di Rvf. 324 (Amor, quando fioria, 251.4) invece, è già attestato, oltre che nell’adespota Mentre che ’l vago viso, in Nicolò del Proposto e in Francesco Landino, Né ’n ciascun mio pensiero (con variazione nella posizione del settenario nei piedi). Per lo schema di Rvf. 149 non sembrano esservi invece attestazioni precedenti a quella del Piacentini. 13 M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano, in Santagata- Carrai, La lirica di corte, cit., pp. 43-95, a p. 72.

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Prevalenza assoluta hanno infatti le terzine a due rime alternate CDC DCD, che raggiungono circa l’80%, contro lo scarso 15% delle tre rime CDE CDE. Infine, non petrarcheschi – o addirittura anti-petrarcheschi14 – appaiono i numerosi sonetti artificiosi, che siano ritornellati (3), continui (11), semilitterati (1) o comunque con inserzioni latine di un verso (6) o di emistichi (4), duodenari (2), muti (1), con rima al mezzo (1). Tali sonetti, pesanti eredità di una tradizione fortemente amante dello sperimentalismo metrico come quella veneta, vengono tuttavia impiegate dal Piacentini quasi sempre quali semplici contenitori di tematiche invece assolutamente vicine a quelle del Petrarca. Con l’eccezione di una trentina di sonetti politici, raggruppati verso la fine del manoscritto, Vi contiene una raccolta di componimenti amorosi dedicati ad una Laura “celeste”, nata sulle rive dell’Adriatico, sotto la quale si cela Pellegrina Testa. La protagonista, che unisce in sé i tratti salvifici della Laura petrarchesca e della Beatrice dantesca, facendosi per il personaggio poeta veicolo di redenzione e di ascesa15, si colloca sempre a metà strada tra cielo e terra: manca dunque in Vi la bipartizione tra rime in vita e rime in morte che caratterizzava il Canzoniere. Pur non essendo possibile parlare di una vera e propria ‘storia d’amore’, dal momento che è assente una progressione, va notato però che la vicenda appare scandita dagli anniversari. Imitazione certa di quella liturgia calendariale che caratterizza il Canzoniere petrarchesco, otto sonetti che celebrano la ricorrenza dell’innamoramento si susseguono nel codice vicentino, i primi sette con una certa regolarità (nonostante un addensamento attorno ai numeri LXVII-LXXXIII, in cui sono impiegati ben tre sonetti per il passaggio dal secondo al terzo anno), l’ultimo invece dopo un intervallo molto più lungo. 1) XXVI, 9-12 Cusì vo’ sempre, e son presso al quint’anno: duo begli occhi legiadri, anci due stelle, anci due soli, a ciò conduto m’hanno.

5) LXXXIII, 5-8 fra bronchi ignudo, a mezo il verno scalzo, un stanco infermo bue canuto sferzo, un cervo per pigliar che già nel terzo anno m’ha scorto, e pur, misero, incalzo.

2) XLI, 1-4 Laura mia sacra, in cui già il second’anno mia salute, mio bene e mia speranza requie, reposso e ’l viver che m’avanza fondai col guidardon d’ogni mio affanno

6) CXXIX, 1-4 Nel quarto per entrar lasso il terz’anno de l’aspre acerbe mie piaghe imortali né gli ami sbronco o spontar posso gli strali né gli ochi umiliar, ch’in prigion m’hanno.

3) LXVII, 1-4 Finisse il second’anno oggi ch’io narro

7) CLXIV, 12-14 E l’ambe usate mie stelle sì fide,

14 15

Gorni, Il canzoniere, cit., pp. 124-25. Duso, «Laura sua al buon Petrarca», cit., pp. 116-27.

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Elena Maria Duso de Laura mia ’l valor, la virtù degna, né ancor ch’ella se piega opur si degna solo un’ora ascoltarmi non inarro.

che mi scorzano al fin de l’anno terzo, scorger al fin m’affermano del quarto.

4) LXXXI, 1-4 Intrato, signor mio, son nel terzo anno ch’io pria conobi, e poi mai più non vidi quella che cum begli occhi altieri e fidi

8) CCCLXXVII, 1-4 S’io ben geometro il corso del mio sole cum che madonna mi distingue l’ore, quattro lustri passati son che Amore

I componimenti fanno dunque riferimento ad una storia amorosa durata almeno cinque anni16; leggendoli, si nota però un’incongruenza che riguarda il sonetto XXVI, che dovrebbe venire per ultimo, mentre è collocato in posizione iniziale, forse a causa di un errore di inversione del copista. Sono assenti in Vi tanto i sonetti ‘cortigiani’, dedicati alla celebrazione di oggetti o parti della donna (come la mano), quanto i sonetti di corrispondenza; vi sono invece due sonetti indirizzati a tale Giovanni Ludovico, che costituisce il referente illustre della raccolta. Come nel Canzoniere di Petrarca, appaiono anche in Vi dei piccoli cicli, dove il Piacentini dimostra una certa predisposizione narrativa: l’esempio più significativo è costituito dal gruppo di sonetti 59-63 (contigui anche in Mc) che vede avvicendarsi scomparsa e riapparizione di Laura, con relative conseguenze sul mondo naturale e sul poeta stesso17. La solidarietà tematica di questi sonetti è ribadita e rafforzata da una fitta rete di echi e legami retorici e linguistici: le connessioni intertestuali caratterizzano del resto l’intera raccolta vicentina, e possono essere classificate secondo le tipologie indicate da Marco Santagata per Petrarca18. Il ciclo appena citato è infatti un esempio di quelle che vengono definite come connessioni di trasformazione tra testi tra i quali “sussiste un rapporto logico e/o sintattico”19, il tipo più raro anche nei Rvf. 16 Nell’ultimo sonetto lustro sembra essere utilizzato con il valore generico di ‘anno’ (come attestato anche nel GDLI per il secolo successivo) piuttosto che di ‘quinquennio’. 17 Tali sonetti, che si ispirano certamente a R.v.f. 41-42 (per cui cfr. M. Santagata, Le connessioni intertestuali nel ‘Canzoniere’ del Petrarca, in Id., Dal sonetto al Canzoniere, cit., pp. 40-42), vedono in sequenza: uno sconvolgimento dell’ordine naturale dovuto alla mancanza di Laura (59-60); la ricomparsa di Laura, che riporta la pace in terra (61), ed il successivo ristabilirsi dell’ordine naturale (62-63), pur nella petrarchesca contrapposizione tra gli altri esseri animati, quieti e felici, ed il poeta costantemente in pena, con echi della canzone 50 dei Rvf. In «Laura sua al buon Petrarca», cit., pp. 123-27 ho inoltre segnalato un gruppo di sette sonetti (CCXV-CCXXVI) in cui Laura risolve alcuni dubbi dottrinali del poeta e lo accompagna al trono di Dio. 18 M. Santagata, Le connessioni intertestuali, pp. 35-75. 19 Ivi, p. 37.

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Registro poi almeno un caso di connessioni di trasformazione cui “è sotteso un parametro spaziale e/o temporale”20: CDLXXXIII, 1-2 «Io canterei di Laura mia celeste / l’alta virtù, la vita onesta e pura» e CDLXXXIV, 1: « Laura de ch’io cantai lieta e felice» (= Mc)21. Molto più diffuse sono invece le connessioni di equivalenza, che “consistono nella ripetizione parallelistica in testi contingui di elementi simili”22: come in Petrarca, esse possono riguardare “la forma del contenuto” o “la forma dell’espressione”23. Per il primo tipo, segnalo sonetti contigui che nell’ultima terzina contengono ad esempio un’invocazione a Dio: CDLXXXIV, 12-14: «Tu che dignasti al secol farne copia, / Iusto factor del ciel, deh, non t’incresca / farli del mio adversario almeno inopia» e CDLXXXV, 12-14: «anci, se in me è virtù, da lei l’involo; / Padre del ciel che tal gloria dispensi, / serbami, prego, in simil gratia solo» o un’invocazione agli occhi: CLIII, 1, 9: «Piangete, ochi miei lassi che per vostro / (...) / ma voi ochi crudei che fosti prima» e CLIV, 1; 9: «Sdegni gentil’ che quei begli occhi onesti / (...) / Ma voi, luci tranquille ond’io sofersi». In questo caso, il legame coinvolge anche la forma dell’espressione: identica è infatti la struttura sintattica, che prevede un vocativo iniziale e un’avversativa al v. 9. Equivalenze nella struttura sintattica presentano anche i sonetti seguenti: CXI, 1, 5, 9: «SOLEA sovente per gratia o per ventura / (...) / OR vegio ben che la mia sorte dura / (...) / MA s’io seguia di mia natura il corso» e CXII, 1, 5, 9: «SOLEA sol de la vista contentarmi / (...) / OR mi si è tolta e non la vegio e parmi / MA sciai che ancor vedrai e tempo e loco». Sonetti contigui possono essere legati dall’uso degli stessi ingredienti retorici24: rilevante a questo proposito è il raccordo tra i sonetti XLIX-L, il primo dei quali elenca, in verticale, le diverse componenti del lauro, mentre il secondo presenta le stesse, ma disposte orizzontalmente in asindeto: XLIX,

20

Ibid. Con l’indicazione (= Mc) intendo che quella stessa sequenza di componimenti è presente anche nel codice Marciano. 22 Ivi, p. 45. 23 Ivi, p. 46. 24 Casi meno interessanti ma frequenti sono quelli dei sonetti contigui accomunati da continue anafore sull’interrogativa cavalcantina (e biblica) “Chi è questa...?”, o, viceversa, sull’affermazione reiterata “Questa è colei...”, come avviene in LXXI-LXXII (= Mc), CICII (= Mc), CCLXXI-CCLXXII, CCCVIII-CCCIX, o degli introduttori Né (CCXXIX) e Se (CCXXX), Senza Laura (CCLX) e Laura (CCLXI). In altri casi sono accostati sonetti tutti costruiti su antitesi, come il CXXXVII Guerra pur cerco e vo’ gridando pace e il CXXXVIII A vita chieggio morte, a morte vita, contenuti anche in Mc; su adynata (CDLVIICDXXXVIII), o su continui vocativi (CXIX-CXX, CCXIX-CCXX). 21

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1-13: «Radice ... / tronco ... / scorza ... / rami .../ frondi ... fior’ ... / fructo... / seme... / cespi ... / bronchi... / vincastri... / cima ... / ombra... » e L, 1-2: «Radice, tronco, scorza, rami, foglie / fior’, fructo, seme, brunchi, cespi, cima / ombra...». Frequentissime sono poi le connessioni che riguardano singoli elementi lessicali, a cominciare dai legami di tipo “capfinido” tra la fine di un sonetto e l’inizio del seguente: CXXX, 14 «se morte advien che suoi begli ochi serra» e CXXXI, 1: «Quando Amor, donna, i be’ vostr’ochi gira»; CLXIX, 14 «pur ch’io fama gli acquisti o pregio o nome» e CLXX, 1: «Se la vertute avesse al mondo pregio», CLXXVII, 14: «farò memoria eterna in mille carte» CLXXVIII, 1: «O memoria tenace in cui si liqua»; CCCXIV, 14: «e farmi odiar, per amar lei, me stesso» e CCCXV, 1: «Amai et amo et amerò se Morte»; CCCLXV, 14: «in franca servitù libertà serva» e CCCLXVI, 1: «In serva libertà servitù franca». Vi sono poi frequenti legami tra incipit: III, 1: «Lingua presumptuosa, animo lento» e IV, 1: «Pusillanimo cor, lingua procace» (= Mc); XXVI, 1-2: «D’un in altro dolor, de pena in pena / stanco e non sacio, a passi scarsi e infermi» e XXVII, 1 «Io non fui d’amar voi satio né stanco» (= Mc); CXXV, 1: « Mira mio stanco e torbido pensiero» e CXXVI, 1: «Mira quel stato, aflicto mio cor vano» (= Mc) o tra explicit: CCXXXIII, 14: «quanto io per lei pensier’ la nocte il giorno» (: intorno) e CCXXXIV, 14: «io i pensier de la note a scriver torno» (: giorno: intorno); CCLXV, 14: «quando sì bella donna al mondo vene» e CCLXVI, 14: «far che sì bella donna in noi nascesse»; CCCLXXIX, 14: «partecipar del ben che là su fai» e CCCLXXX, 14: «se meco lei partecipasse in una». Mi sono limitata a qualche esempio, ma la frequenza con cui le connessioni intertestuali compaiono in Vi sembra indice di una volontà d’autore, soprattutto qualora esse leghino componimenti contingui anche nel codice Marciano. Come nel caso dei Rvf. dunque, il Piacentini potrebbe averli adottati come mezzo “per risolvere una sintagmatica del discontinuo in una sintagmatica del continuo”25. Sembra infine interessante esaminare i sonetti collocati ai due estremi della raccolta vicentina, l’inizio e la fine o, per dirla con Gorni, “l’Alfa e l’Omega”26, dal momento che, come sottolinea lo studioso “ai fini della confezione del libro, spesso più importa all’autore il limite che non il limitato”27. 25

Santagata, Le connessioni intertestuali, cit., p. 35. G. Gorni, Il libro di poesia nel Cinquecento, in Metrica e analisi letteraria, cit., pp. 193-203 (precedentemente, con il titolo Il libro di poesia cinquecentesco, principio e fine, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, cit., pp. 35-41). 27 Ivi, 193. 26

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Proemio e testo di chiusura appaiono in effetti anche nel codice Vicentino, ma non sono assolutamente calchi dei corrispettivi sonetti del Petrarca: anzi, il sonetto che imita Rvf. 1 è collocato in Vi internamente, al numero CDLXIII. Il primo sonetto della raccolta ha comunque carattere introduttivo, annunciando la volontà di raccontare la propria vicenda d’amore per quel lauro (Laura) che aveva innamorato di sé anche Apollo, e i motivi di tale scelta (vv. 13-14). Significative sono l’apparizione di Amore “nel capoverso, in medias res e senza tante ambagi”28, che secondo Gorni è tratto distintivo di una tradizione proemiale il cui capostipite sarebbe Giusto de’ Conti, e il possibile eco nel v. 10, di Rvf. XXXIV «Apollo s’ancor vive il bel disio / che t’infiammava a le tesaliche onde», che nella prima raccolta del 1342 apriva il Canzoniere di Petrarca. I

DXX

S’al camin lungo ove Amor vuol ch’io vada cogliendo l’aura a passo tardo e lento, ch’alto chi vol salir in un momento, per forza e cum ragion convien che cada, non mi è precisa o chiusami la strada da sorda invidia in ch’io temo e pavento, a poco a poco i’ prenderò argomento, narrar ciò ch’el mondo odia, il ciel agrada.

Le sterile mie rime a te scoperte non fur senza cagion, Signor mio caro, anci devote a te si presentaro, como per poca pratica inexperte. Ma perch’ele non sia sparte e lacerte dal moderno idioma o stil più chiaro, coregille, ché in fama vien di raro che per sé saglia un uom cieco et inerte.

Ché quel arbor, che in corpo umano Apollo ni tesalici campi amò gran tempo or amo, reverisco onoro e collo 29, farò gustar altrui tardi o per tempo, e la cagion per ch’io somissi il collo per lui al giogo in ch’io troppo m’attempo.

E se sua dignità fa lor non degne de parlar de madona onesta e bella, de che altro mai non fu mie voglie pregne, deh, prima ch’ele sian dinanci ad ella, o ponto se ne turbe o se ne sdegne, iongi, scema, postilla e cancella!

L’ultimo sonetto invece si presenta come un biglietto d’invio ad un destinatario, cui viene chiesto di correggere le rime. Non è purtroppo possibile stabilire se si tratti di un personaggio reale (ad esempio quel Giovanni Lodovico che altrove Piacentini invoca: «Per el mio singolar padre e monarca / messer Giovani Ludovico caro / conobi l’eloquenza, il valor chiaro, / vostra di che fu sempre mente carca» CDXCI, 1-4) o piuttosto fittizio, come Amore, al quale vanno attribuite quasi tutte le occorrenze dell’appellativo «signore» della raccolta vicentina, altrove presentato dal Piacentini come colui che ‘chiosa e postilla’ la sua opera poetica30. 28

Ivi, pp. 196-197. Collo vale qui ‘colo’, ‘venero’. 30 CDLXIII, 2-3: «le fervide mie rime, unde si stilla / l’opra che Amor mi giosa e mi postilla». 29

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Da sottolineare che sonetto iniziale e sonetto finale sono legati da una sentenza – collocata, rispettivamente, alla fine della prima e della seconda quartina – che esprime l’impossibilità per l’uomo di «salire» senza un aiuto. Anzi, sono i versi 6-8 di DXX, che spiegano meglio l’affermazione di I, 3-4, e confermano che si parla davvero di poesia e gloria poetica. Se il sonetto DXX è dunque un congedo dalle proprie rime, è quello precedente a costituire il vero e proprio testo di chiusura: DXIX Come a palio corsier fanciulo sferza, di nostra etate il termine al fin vola31, rato è sì el tempo, a noi stessi c’invola32, che a vespro è quel che crede esser a terza. Morte a guidar la sua falce non scherza, né a lei se va pur par vechieza sola, ma febre, peste, fame, fredo e gola, l’omo avitichia come elera a querza. O mondo immondo, o labile dolcezza, tanto è veloce il tuo corso e ripente, che infantia sei in un ponto e poi vechiezza! Or pona in te, cui se confida, mente: nel mezo del camin como si spezza spesso il sperar de chi tardi si pente!

Il componimento, che si collega anch’esso al numero I tramite la metafora del cammino, che lì apriva e qui chiude, con procedimento circolare, costituisce una delle rare riflessioni del poeta, in genere poco interessato a temi religiosi, sullo scorrere del tempo e sulla labilità della vita umana, con la notevole immagine del «corsier fanciulo» lanciato in una corsa verso il palio che prefigura l’ultima meta dell’esistenza33. Il tema è petrarchesco, mentre il linguaggio è ricco di reminiscenze dantesche34, e si spinge ad una

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Rvf. 323, 55: «ogni cosa al fin vola». Rvf. 75, 107: «A me stesso m’invola». 33 Significativa è infine la chiusura sul verbo «si pente», che però non sembra sufficiente a definire ‘penitenziale’ l’intero sonetto. 34 Oltre al riferimento ovvio del v. 13 a Inf. I, 1, vanno sottolineati gli echi di Purg. XX, 38-39: «lo cammin corto / di quella vita che al termine vola» del v. 2 e di Purg. XVIII,103: «ratto ratto, che il tempo non si perda» dei vv. 3 e 14. Per la serie rimica sferza: scherza cfr. Dante, Rime, 46, 71:72, sferza: terza Purg. XIII, 35:37. 32

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similitudine che deriva dal Boccaccio35, a ribadire ulteriormente la natura eclettica del petrarchismo quattrocentesco. Nel complesso comunque l’ordinamento di Vi appare avere una sua coerenza; proemio e conclusione, pur non rimandando al contenuto, si incentrano sul motivo tipicamente umanistico dell’immortalità che si raggiunge attraverso la poesia, presente con insistenza in tutto il libro. Parziali differenze presenta il Marciano, esemplato – come ha dimostrato Paul Holberton36 – attorno al 1510 dal patrizio veneziano Zuanantonio Venier di Giacomo Alvise, collezionista ed amante d’arte, morto nel 1550. Proprio a lui potrebbe risalire il titolo Laura novella che appare nella coperta originale: difficilmente infatti esso va attribuito allo stesso Piacentini, che, pur sottolineando continuamente i caratteri innovativi della sua Laura rispetto a quella del Petrarca, non utilizza mai nelle rime tale sintagma. Il codice contiene 345 componimenti (di cui due doppi), tutti sonetti, con l’eccezione di una ballata. Sono presenti solo sette degli otto sonetti di anniversario di Vi, e seguono un ordinamento regolare, senza quell’incongruenza del sonetto XXVI. Oltre a molti dei cicli di sonetti presenti anche in Vi, in Mc vi sono altri raggruppamenti di tipo però più esteriore: l’esempio più clamoroso è costituito da quello che si potrebbe definire il “ciclo dell’aura”, formato da una serie di diciotto sonetti (inframmezzati da soli tre componimenti di soggetto diverso), contenuti tra le cc. 70r-76r. I sonetti sono strettamente legati tra loro dalla presenza in incipit di un riferimento al nome della donna, attraverso la metafora dell’aura, la brezza, accompagnato da verbi come spirare, mormorare e dagli aggettivi dolce, gentile, sacra 37.

35 La similitudine dell’edera deriva infatti da Boccaccio, Filocolo, 204: «Come l’abbracciante ellera aviticchia il robusto olmo, così le tue braccia il mio collo avvinsero», piuttosto che da Dante, Inf. XXV, 5-6: «ellera abbarbicata mai non fue / ad albor». Altrove (CCCXXII, 5-6) il Piacentini ha: «che elera sì non s’avitichia a gli olmi / com’ella me ha me fra ’l petto e i fianchi». 36 P. Holberton, La bibliotechina e la raccolta d’arte di Zuanantonio Venier, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXLIV, 1985-86, pp. 173-193, a p. 181. 37 Ecco alcuni esempi, secondo l’ordine di comparsa (tra parentesi indico la numerazione di Vi): cc. 70r-v L’aura che col spirar m’apre gli orechi (CDLXXV); c. 71r L’aura gentil che l’onorata tromba (CDXXX), S’advien che l’aura mia non vari stile (CDLXV), L’aura che ’l ciel, spirando, rasserena (CDLXVI); c. 72r L’aura gentil la cui ineffabil ombra (CDLXXVI), Al spirar dolce di sì nobil aura (CDLXXVII), L’aura che tanto il cielo onora et ama (CDXLV); cc. 72 v-73r Questa è quella aura angelica e suave (CDXLVII); cc. 73v-74r D’un lauro a l’ombra al murmurar di l’aura (CDLXXIII), L’aura gentil, che sì suave spira (CDLXXIV) ecc.

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Lo spunto può anche in questo caso venire da un’analoga serie dei Rvf., composta però da soli tre sonetti (196-198). Ci si potrebbe forse appellare alla tendenza all’amplificazione che contraddistingue i petrarchisti, ma l’ossessività dell’iterazione e la constatazione che molti di questi sonetti sono contigui anche in Vi, ma non in modo così ripetitivo, spinge a pensare piuttosto all’intervento di un trascrittore che abbia affiancato, artificialmente, tutte le liriche dall’incipit simile. Particolarmente interessanti sono invece i componimenti di cornice, che si avvicinano maggiormente a quelli del canzoniere petrarchesco. Il sonetto d’apertura è infatti, almeno all’inizio, un calco di Rvf. 1, e come tale si apre con un «voi» sospeso, seguito da una relativa che occupa l’intera quartina. Già al quinto verso però il «voi» si rivela essere riferito non al pubblico al quale Petrarca chiedeva compassione, ma, secondo moduli molto più tradizionali, alla donna. La somiglianza con il proemio dei Rvf. finisce qui; il sonetto mantiene però uno spiccato carattere introduttivo, in quanto elenca una serie di temi che dovrebbero essere oggetto della narratio: lode della donna, innamoramento, proseguimento della vicenda amorosa. Si noti anche qui il riferimento ad un’opra amorosa, che si stilla in rime, petrarchescamente sparse. Il sonetto è seguito da una piccola serie di componimenti con uno spiccato carattere proemiale. Dopo la propositio seguono infatti l’invocatio alle Muse, di sapore dantesco38 e la presentazione di Laura, prima attraverso un riferimento al nomen reale (l’aurea Testa, sonetto 3, v. 8), quindi attraverso la comparsa di lei sulla scena. Nel sonetto 3 compare anche un altro elemento topico proemiale, quello della modestia. In definitiva, nel codice marciano appare esserci un vero e proprio proemio allargato, secondo la tradizione dei classici, ripresa da Petrarca nel Canzoniere. 1 (CDLXIII)

2 (CDLXIV)

Voi che ascoltar venite, a l’aura sparte, le fervide mie rime, unde si stilla39 l’opra che Amor mi giosa e mi postilla, sol che io la copia in più de mille carte, donna, i’ vo’ cominciar da quella parte dove in voi più virtù chiaro sfavilla,

O fonte di Parnaso, o Calïope, apri il tuo gremio, e qui non esser parca, guida il mio stil ove per sé non varca, con l’altre ninfe che te sono prope. O qual dal Mauro clima a l’ Indo Etiope degno più per virtù siede monarca,

38 Si noti infatti il riferimento a Calliope e alla «frale barca», che ricorda il proemio del Purgatorio, oltre alla serie rimica in ope per cui cfr. Par. XIX 107: 109: 111 prope : Etiope : inope. 39 Cfr. Disperse, 142: «S’io potessi cantar, dolce e soave, / come talor Amor dentro mi stilla / in cor di marmo accenderei favilla».

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Il canzoniere di Marco Piacentini e como l’alma a voi si fece ancilla per aver fama in terra e nel ciel parte.

scorga la frale e debile mia barca, colma di errori e de virtute inope,

Poi seguirò de tempo in tempo come voi cum Amor mi scorgereti inseme, traendo in lunga tema el vostro nome, il da voi colto onor, fior, fructo e seme, dolce rimedio alle amorose some, che ben pò nulla chi non vi ama e teme.

a dir la gloria, il gran precio e valore di Laura mia gentil, che, dove splende, spira, cum carità, sincero amore. Natura il ciel di lei infiamma e accende, e ’l sol se la vagheza, e ’l mondo onore di simil Laura e vanagloria prende.

3 (CDLXXI)

4 (CDLXXII)

Se de mia stella il corso non si resta, a cui par pur che ’l ciel propitio sia, mercé del mio Signor, che a ciò mi invia e sì sovente a tal opra mi desta, per tempo o tardi, spiero ancor cum questa pena adunar mirabil monarchia, per cantar il valor, la cortesia, e ’l bel nome gentil de l’aurea Testa.

O stelle, o cieli, o voi fatali sorte, o nutrivi elimenti, o tu natura, o ninfe che Elicona alza e ’sicura, state qui meco a tante glorie acorte. Ecco Laura gentil, ch’apre le porte, del ciel, ch’altri che lei non brama et cura, e per vera umiltà semplice e pura, sola è fatta de Dio vera consorte.

Ma non vorei però che ’l vulgo idiota il mio dir temerario presumesse, ché a tante imprese fora un picol iota, ché ’l chiaro nome, a cui largo concesse Iove ogni gratia, al cieco mondo ignota, non ha mestier di mie basse promesse.

Questa è Laura soave in cui si spechia il sol, che senza lei lume non sporge e che ancor fama e gloria m’aparechia. Questa è Laura che al ciel mi guida e scorge, per cui convien, cantando, che me invechia, ché el vulgo ingrato di lei non si acorge.

Molto meno convincente è invece il sonetto di chiusura (nel quale permane una crux), che si rifà all’episodio biblico di Davide, rimproverato dal profeta Natan e punito da Dio per avere preso per sé la moglie del soldato Uria, spingendolo alla morte. Due ipotesi: o il sonetto cela un episodio della biografia del poeta che a noi sfugge, oppure dobbiamo ritenere che sia stato collocato in sede finale solo in quanto nell’incipit rievocava in qualche modo un pentimento, avvicinandosi ai testi che chiudevano il Canzoniere 40. La dittologia iniziale infatti è eco palese di Rvf. 364, 9, sonetto appartenente a quel crescendo penitenziale che sfocia nella canzone alla Vergine.

40 Va ricordato che nel Quattrocento gli unici petrarchisti “a ricalcare lo schema conclusivo del pentimento religioso dei Rvf.”sono il Boiardo degli Amorum libri (P.V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki, 1963, p. 25) e Gaspare Visconti dei Rithimi del 1493 (P. Bongrani, Lingua e letteratura a Milano nell’età sforzesca. Una raccolta di studi, Parma, 1986, p. 41).

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Elena Maria Duso 345 (CCCLXX)

R.vf. 364, 9-12

Pentuto e tristo, in loco occulto et atro, pianse Davit l’iniuria fatta a Uria, da Natan punto, onde la psalmodia fece ch’un men fu di duo volte quatro. Però d’udir s’excluse dal baratro la musica di mesta sinfonia, col spirto aflito più da l’agonia, solo e stanco nochier che †conti ’n batro†41

pentito e tristo de miei sì spesi anni che spender sì devean in miglior uso in cercar pace e in fuggir affanni

Dal suo impreso rigor ve mosse l’orme perseverando, finché vinti nove volte fu Phebo ond’el si desta e dorme. Quivi imparò come si placa e move l’ira del cielo e quanto a lui diforme vincer chi vuol le inlicite sue prove.

Complessivamente dunque l’ordinamento di Mc appare formalmente più vicino a quello del Canzoniere petrarchesco, ma per alcuni aspetti meno convincente di quello di Vi. I tratti comuni alle due raccolte (unicità della donna amata, sonetti di anniversario, presenza di legami intertestuali, assenza di sonetti di corrispondenza) spingono ad ipotizzare che ci dovesse essere sotto un progetto d’autore, sebbene lascino irrisolti molti quesiti: l’antigrafo dei due manoscritti, ad esempio, era esattamente lo stesso? Se sì, quale fisionomia aveva? O altrimenti è possibile pensare a due differenti redazioni dell’opera piacentiniana, ossia ad una prima raccolta integrale del corpus, confluita poi (magari con alcune variazioni nell’ordinamento) in Vi, e ad una successiva riduzione e parziale rielaborazione di questa allo scopo di produrre un canzoniere più aderente al modello dei Rvf., trasmessa da Mc? Ed una revisione di questo tipo rispecchierebbe una volontà d’autore? Effettivamente, desta qualche perplessità ritenere che lo stesso Piacentini, a quell’altezza, abbia voluto escludere i metri di più stretta imitazione petrarchesca, quali madrigali e ballate, che pure nella seconda metà del Quattrocento tendono a scomparire, e la sestina. Come già rilevato inoltre, il titolo di Mc, “Laura Novella”, è difficilmente attribuibile all’autore e la seriazione di alcuni componimenti appare poco plausibile. Sembra probabile piuttosto che a trarre da una silloge poetica una raccolta più vicina – nel numero dei componimenti e nella cornice esterna – a quella del Petrarca – fosse altri, in un periodo probabilmente successivo alla morte del Piacentini, ma comunque compreso entro il 1510 circa. 41

La variante di Mc è «che arà trabatro».

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Il canzoniere di Marco Piacentini

Nel Veneto di fine Quattrocento e primissimo Cinquecento, non ancora assoggettato alla “dittatura”42 del Bembo, i modelli per i libri di poesia, manoscritti e a stampa, erano eclettici: oltre a raccolte altrimenti strutturate (basti pensare alle rime di Niccolò Lelio Cosmico), circolavano ormai diversi canzonieri con ordinamento d’autore, come quello di Giovanni Antonio Romanello (veneto e probabilmente padovano), edito a stampa a Verona nel 1480 43, o di Antonio Cornazano, pubblicato nel 1502 a Venezia dal Bonelli, con il titolo Soneti e canzoni 44. Il decennio 1501-1510 è caratterizzato poi da un’esplosione di libri sempre più decisamente improntati al modello petrarchesco: come ricorda Nadia Cannata Salamone, nel passaggio dal manoscritto alla stampa non furono rari i casi di riscrittura o di manipolazione di raccolte poetiche preesistenti, in direzione di un avvicinamento ai Rvf.45. Qualcosa di analogo potrebbe essere successo con il nostro codice: il maggior indiziato per la rielaborazione sarebbe allora lo stesso Zuanantonio Venier, non un semplice copista, ma un esperto conoscitore della poesia volgare, che amava trascrivere in eleganti codicetti cartacei, decorati con iniziali miniate e stemmi. Sei di essi sono tuttora conservati in Marciana e formano una “bibliotechina”, datata tra il 1495 ed il 1510, che può fungere da specchio della cultura letteraria veneziana dell’epoca46. Contengono rime di Dante, Saviozzo, Malatesta Malatesti da Rimini, Piacentini, Pietro Bembo, oltre all’Arcadia di Sannazzaro e al Philareto di Giovanni Badoer: ad eccezione di Dante dunque prevale il gusto per un petrarchismo di stampo neoplatonico e fortemente idealizzato, com’è quello del Piacentini. L’esame interno dei due manoscritti più vicini tipologicamente al nostro, il Marc. IX 347 ed il IX 348, che tramandano, rispettivamente, le rime di Simone Serdini e di Malatesta Malatesti da Rimini, ha mostrato che anche lì l’ordinamento dei componimenti risulta anomalo rispetto alla restante tradizione manoscritta, e che le raccolte si concludono con sonetti penitenziali, come Mc, il che confermerebbe la tendenza del Venier ad intervenire sulla disposizione dei testi che trascriveva47. 42

C. Dionisotti, Il culto del Petrarca nel Veneto fino alla dittatura del Bembo, in «Nuovo Archivio veneto», n.s. IX, 1904, pp. 421-65. 43 B. Bentivogli, Appunti sui sonetti di Giovan Antonio Romanello, in Il libro di poesia, cit., pp. 117-22. 44 A. Comboni, Il canzoniere di Antonio Cornazano, in Il libro di poesia, cit., pp. 123-29. 45 N. Cannata Salamone, Per un catalogo di libri di rime 1470-1530: considerazioni sul canzoniere, in Il libro di poesia, cit., pp. 83-89, alle pp. 86-87. 46 Holberton, La bibliotechina e la raccolta d’arte, cit., p. 174. 47 Nel Marciano ital. IX 348, adespoto e anepigrafo, la seriazione dei componimenti è, a detta dell’editrice, “particolare” (cfr. Malatesta Malatesti, Rime, ed. crit. a c. di Domizia

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È possibile dunque pensare che Zuanantonio Venier, trovandosi a trascrivere una silloge manoscritta di rime monogamica e già parzialmente strutturata, abbia tentato di metterla ulteriormente in ordine, depurandola di forme metriche ormai desuete e ricreando un proemio ed una chiusura più vicini a quelli del Canzoniere. Non occorreva inventare nuovi componimenti, ma bastava riutilizzare quelli già esistenti come fossero pedine. Non sembra utile però spingersi oltre nel campo delle illazioni. Rimane un’unica certezza: il Piacentini, nella sua precocità, pare aver colto l’intenzione petrarchesca di organizzare le proprie rime, dando loro una struttura unitaria, e aver tentato di riprodurla almeno nei suoi tratti fondamentali48. Il suo dunque può essere considerato il primo tra i canzonieri veneti quattrocenteschi, e venire affiancato cronologicamente alla Bella mano di Giusto de’ Conti49. Trolli, Parma, Studium Parmense, 1982, p. 65) rispetto alla restante tradizione. Le rime non hanno la struttura di un canzoniere, almeno nella prima parte, che contiene prima le canzoni, poi i sonetti. Verso la fine è possibile tuttavia intravvedere una sequenza che comprende, nell’ordine, sonetti in morte della donna, sonetti in lode del signore, sonetti che lamentano un tradimento da parte dello stesso, e quindi sonetti di pentimento e di ritorno a Dio. Il Marc. IX 347 secondo Pasquini (Simone Serdini da Siena datto il Saviozzo, Rime, ed critica a c. di E. Pasquini, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1965, p. CXXXVI) “si differenzia da tutti gli altri [testimoni] nella successione delle rime: prima le canzoni con i capitoli e i sirventesi, poi tutti i sonetti con l’unico madrigale”. Dopo la scritta Finis (che segue sonetti di tematiche varie), lo stesso Zuanantonio, con inchiostro diverso, aggiunse una piccola serie di sonetti di tipo religioso-penitenziale, quasi non potesse tollerare che una libro di poesia si concludesse altrimenti. 48 L’episodio conferma la tesi di Marco Santagata sull’esistenza di un rapporto tra forma canzoniere e condizione di isolamento del poeta (La forma canzoniere, in SantagataCarrai, La lirica di corte, cit., pp. 31-39, a p. 36 e ss.): la Venezia della prima metà del Quattrocento, dove mancava non solo un centro unificante come avrebbe potuto essere la corte, ma anche, data la precocità dei tempi, una tradizione petrarchista, che poteva favorire lo sviluppo di una poesia cortigiana, di pronto consumo, era il luogo ideale per spingere alla raccolta delle rime in un libro. Si ricordi inoltre che oltre al modello di Petrarca, potrebbe aver influito sul Piacentini anche quello di Nicolò de’ Rossi, autore, come già ricordato, di un piccolo canzonieretto per Floruzza. Sebbene non mi sia riuscito di provare una conoscenza diretta delle rime derossiane da parte del Piacentini, va ricordato che il poeta trevigiano trascorse gli ultimi anni della sua vita a Venezia, dove dal 14 luglio 1338 al 1348 ebbe l’incarico di pievano di Sant’Apollinare, incarico che all’incirca un secolo dopo spettò allo stesso Piacentini. 49 La Bella mano infatti, edita nel 1472, fu composta attorno al 1440 ( M. Manchisi, La data della ‘Bella mano’, in «Rassegna critica della letteratura italiana», III, 1898, pp. 610) almeno in una prima redazione (cfr. il contributo di Italo Pantani in questo stesso volume). Per il Piacentini manca invece una data precisa, ma sappiamo che i sonetti politici

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Il canzoniere di Marco Piacentini

Ben diverso è naturalmente il successo che ebbero i due libri: mentre la Bella mano fece scuola, fino a diventare un modello talvolta più incisivo dei Rvf. almeno per quanto riguarda la metrica, il libro del Piacentini sembra ignorato da tutti, anche in loco. Si è già ricordato ad esempio che Felice Feliciano, che pure apprezzava talmente la poesia piacentiniana da arrivare in alcuni casi al plagio, si mostra all’oscuro dell’esistenza di un canzoniere organico; quando compose la sua personale raccolta poetica per Pellegrina da Campo, il modello cui metricamente si attenne è la Bella mano: Matteo Soranzo, che ha recentemente allestito l’edizione critica delle rime tradite dal Marc. IX 257, ha infatti evidenziato come in essa compaiano i capitoli ternari, su modello giustinianeo50. Analogamente accade con Michele della Vedova51, petrarchista istriano ma operante a Venezia, che nella sua raccoltina per una Laura “celeste” nata sulle rive adriatiche, con tratti molto simili a quella del Piacentini, introduce anche lui i ternari. Per concludere, ritengo che l’esame interno dei due manoscritti riconfermi la scelta di Vi come codice base per l’edizione delle rime piacentiniane: oltre ad essere numericamente completo e a risultare più corretto di Mc52, è più probabile che si avvicini ad un progetto d’autore originario, o comunque che abbia subito meno manipolazioni. Se non può esser definito un ‘canzoniere’ in senso strettissimo, Vi è comunque un libro di poesia in cui è “evidenziabile, a uno o più livelli del testo, qualche intento di organizzazione interna della materia” 53, delimitato ai margini da componimenti che fanno riferimento al soggetto da trattare, al desiderio di gloria, agli scrupoli stilistici dell’autore, e contenente una vicenda amorosa priva di sviluppi e tutta involuta su se stessa, segnata però da ricorrenze precise. In appendice all’edizione sarebbe comunque opportuno inserire un’ampia scheda che dia risalto alla diversa struttura del codice marciano. sono databili tra il 1432 e il 1441, e presumibilmente attorno o entro quegli anni vanno collocati anche gli amorosi. 50 M. Soranzo, Il canzoniere per Pelegrina da Campo di Felice Feliciano, tesi di laurea, relatore A. Balduino, Università di Padova, A.A. 2000-1 e Id., Felice Feliciano e il Canzoniere per Pelegrina da Campo. Una bottega della poesia nella Verona del Quattrocento, in «La parola del testo», VI, 2002, F. 2, pp. 289-308. 51 Su di lui, cfr. Balduino, Le esperienze della poesia volgare, cit., pp. 293-94, 352-53. Le rime sono leggibili nella tesi di laurea di P. Cecchellero, Le rime di Michele della Vedova, relatore A. Balduino, Università di Padova, A.A. 1973-74. 52 Duso, Appunti per l’edizione critica, cit., p. 123. 53 Gorni, Il canzoniere, p. 118.

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Paola Morossi RIFLESSIONI SULLE RIME DI CARITEO: APORIE CRONOLOGICHE NEL SECONDO ENDIMIONE

Nulla ci autorizza a considerare la princeps dell’Endimion come il prodotto della volontà di Cariteo in merito alle proprie rime. Le rime che vengono pubblicate a stampa oltre dieci anni dalla data in cui il codice viene approntato per Ferrandino paiono far parte di quella sorta di bilancio conclusivo della stagione ultima della lirica aragonese che consiste nella rapida successione di stampe dei maggiori lirici di un’età definitivamente tramontata. Ho cercato di mostrare come il codice Marocco1 sia un codice di dedica per Ferrandino, al quale Cariteo – presumibilmente – porse le sue cure, e come tramandi un canzoniere properzianamente strutturato. L’Endimion trasmesso dalla princeps finita di stampare il 15 gennaio 1506 a Napoli da Giovanni Antonio di Caneto2 (A) è una testimonianza praticamente coincidente dal punto di vista redazionale, con quella del codice Marocco. Il codice Marocco (M) che intendo dare a testo della mia edizione è una delle superstiti sillogi manoscritte della lirica aragonese nella sua fase ultima 1 P. Morossi, Il primo canzoniere di Cariteo secondo il codice Marocco, in “Studi di Filologia Italiana” LVIII (2000) pp. 173-97. 2 OPERE DEL CHARITEO (c. Ir) cc. Iv-2v AL VIRTUOSISSIMO CAVALIERE / MESSER COLA D’ALAGNO PROLO/GO DI CHARITEO IN LO LIBRO IN/SCRIPTO ENDIMION A LA LUNA; cc. 3r-32r LIBRO DE SONETTI ET CANZO/NE DI CHARITEO INTITULATO / ENDIMION A LA LUNA; c. 32v [bianca]; cc. 32r-38r [trentadue strambotti]; c. 38v AL ILLUSTRISSIMO SIGNOR DON / ALFONSO DAVALOS MARCHESE / DE PESCARA GRAN CAMARLENGO / DEL REGNO NEAPOLITANO: PRO-/LOGO DI CHARITEO IN LA CANZO/NE DE LODE DEL SERENISSIMO SIG/ NOR PRINCIPE DE CAPUA.; cc. 39r-41v CANZONE DI CHARITEO DE / LODE DEL SERENISSIMO SIG/NOR PRINCIPE DE CAPUA; cc. 42r-47v CANZONE DI CHARITEO INTITU/LATA ARAGONIA; c.48r FINE DE LA OPRETTA DI CHARI/TEO IMPRESSA IN NAPOLI PER IOANNE ANTONIO DE PAVIA / ANNO M.CCCCC.VI. A DI. XV. / DI IANUARIO.; c. 48v [bianca].

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Paola Morossi

e più tragica. Altre testimonianze di questa ultima fase aragonese sono costituite dalla porzione del codice oratoriano che tramanda la prima forma del canzoniere di Iacopo Sannazaro3 e dalla raccolta barberiniana4 delle rime di Caracciolo. Il manoscritto Marocco (olim De Marinis) è esemplato per Ferrante II (chiamato nella sua breve vita Ferrandino) quando era ancora principe di Capua, cioè prima della morte di suo nonno Ferrante I avvenuta il 24 gennaio 1494. Le rime di Cariteo vengono pubblicate a stampa – in una redazione molto vicina a quella tràdita dal codice Marocco – oltre dieci anni dopo dalla data di confezione del codice. Tutto è cambiato: gli Aragonesi non ci sono più, Napoli è ora in mano agli Spagnoli, Pontano è morto nel 1503 e Sannazaro, tornato dalla Francia nel 1504, si dedica, nella sua villa di Mergellina – dono dell’amato Federico – alla stesura e all’instancabile rielaborazione di testi latini; anche Joan Francesco Caracciolo è ormai morto. La giovane industria tipografica punta in quegli anni su testi volgari che rappresentano una fase dunque epigonica della lirica aragonese e il ritratto di un mondo ormai tramontato. Si spartiscono il campo Caneto e Mayr: il primo 3 Cito da C. Bozzetti, Note per un’edizione critica del “canzoniere” di Iacopo Sannazaro, in “Studi di filologia italiana” LV (1997), p. 121: «Il manoscritto XXVIII I 8 è nella Biblioteca Oratoriana di Napoli, ma non è un manoscritto napoletano. Scritto da un’unica mano, non è meridionale, né linguisticamente, né per il contenuto, che è costituito tutto da rime in stragrande maggioranza settentrionali, sì che la presenza di rime sannazariane non è che l’ennesima testimonianza della loro diffusione, e fortuna, a nord della penisola. Le prime 66 pagine contengono 46 rime di Sannazaro: tutte le 46 rime salvo una (la dispersa XXIII) si trovano nella princeps; nessuna è tramandata solo da NO oltre che dalla princeps; non c’è divisione per metri; la seriazione delle rime non è uguale né a quella di Fn4b, né a quella della princeps; 31 rime sono comuni a NO e a Fn4b; non ci sono in NO, né LXXVI, né LXXXIX, né XCVIII, cioè nessuna delle tre rime che sole permettono di datare il canzoniere e lo spazio esistenziale che investe; la presenza in NO di XLI e la sua assenza in Fn4b non è valutabile, stante la frammentarietà di quest’ultimo nella sezione dei metri diversi dal sonetto, ma, comunque, essa è la prima canzone della silloge sannazariana in NO e, poi che è anche l’unica che rinvii chiaramente a Cariteo (vv. 37-38 e sei pur quella Luna / ch’Endimion sognando fe’ contento) non può non sottolineare i rapporti tra la silloge stessa e l’Endimione del poeta catalano dedicato nel 1495 a Ferradino e pubblicato a stampa (con qualche minima diversità) nel 1506. E, infatti, i testi già da me citati come scritti da Sannazaro a gara con Cariteo sono tutti in NO, ad eccezione di LXXXV che, in onore di Ferrante I, ma scritto in occasione di un dipinto voluto da Federico, rinvia al tempo, con molta probabilità, in cui questi era già re, cioè a dopo il 1496. Che è la data, dunque, ad quem della silloge. Qualche copista settentrionale, insomma, ha avuto (in data più tarda, ma difficile da precisare) a disposizione un antigrafo (o, naturalmente, copia di un antigrafo) risalente a prima del 1496 e l’ha trascritto». 4 Santagata ha studiato il ms. barberiniano latino 4026, che ritiene con ogni probabilità ordinato nel 1495. In particolare il rimando è a M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, p. 37 n. 1 e pp. 60-61.

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Riflessioni sulle rime di Cariteo: aporie cronologiche nel secondo Endimione

nel 1506 stampa i canzonieri di Caracciolo (Amori ed Argo) curati da Girolamo Carbone, l’Endimione di Cariteo e nel 1508 la Pastorale di de Jennaro; il secondo, stampa l’Arcadia nel 1504 ed il secondo Endimione nel 1509, entrambi a cura del Summonte 5. La redazione del 1506 (come quella manoscritta di più di dieci anni prima) nel suo complesso si presenta come una patetica ed estroversa summa di lamenti esternati a piena voce. Fenzi6 vi ravvisa un impianto nel suo fondo antipetrarchesco alludendo con ciò ad una strutturazione bloccata su alcune irrisolte antinomie tematiche, priva non solo di uno sviluppo narrativo, ma anche di una dinamica puramente psicologica. L’aspetto più significativo per una valutazione storica di una simile raccolta va ravvisato nel fatto che il suo apetrarchismo non si risolve nell’assunzione dei moduli di marca cortigiana. Se prescindiamo dalle due canzoni che chiudono la raccolta, nessuna apertura verso l’esterno turba il sistema tematico imperniato sul dissidio amore / morte. Nessun testo d’encomio, nessun dedicatario, nessuna allusione a scene od episodi della vita di corte, nessun accenno infine ad un contesto

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A questa successione di stampe deve avere contribuito un ordine di Consalvo di Cordora. Consalvo entra vittoriosamente in Napoli il 16 maggio 1503 e assume la funzione di viceré. Deve essere degli inizi del 1504 – anche se non ne conosciamo la data – l’atto che conferisce a Pietro Summonte la facoltà di stampare le opere del Pontano, del Sannazaro e degli altri pontaniani: Pietro Summonte napolitano; Ordino che il detto Pietro habbi pensiero di fare stampare le opere del Pontano, del Salazato [così per Sannazaro] et altri. L’edizione di Pontano fu avviata da Summonte nel 1505, i canzonieri di Caracciolo e la Pastorale di De Jennaro vengono pubblicati postumi. Posso presumere che Cariteo e Sannazaro siano stati allettati dall’idea di ripercorrere insieme un tratto sulla strada della poesia in volgare: se letti contemporaneamente l’Endimione nella sua forma del 1509 e la Princeps sannazariana del 1530 mostrano affinità tali da far supporre un progetto comune ed anche un cammino percorso ancora insieme. Ma Cariteo, attraverso questo iter giunse ad aderire – di fatto – al progetto culturale promosso da Consalvo per la longa manus di Summonte, Sannazaro non volle che il suo canzoniere fosse pubblicato. Mi limito ad indicare che la notizia dell’ordine di Consalvo, attualmente perduto, è stata conservata da Minieri-Riccio che la riprendeva da un repertorio de’ privilegi della R. Cancelleria dell’Arch. di Stato di Napoli (fol. 74), nel quale si rimandava al registro 4a (fol. 77) di quei privilegi, intitolato Notamentorum Provisionum III Domini Magni Capitanei ann. 1504. Sul documento, ricordato da Percopo nella sua edizione di Cariteo, si sono soffermati N. Mancinelli, A. Charis Marconi e, soprattutto, T. R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia a Napoli nella prima metà del Cinquecento (1503-1553), Ente regionale per il diritto allo studio universitario “Napoli I”, 1992, pp. 18-19. 6 Il rimando è al lungo articolo di E. Fenzi, La lingua e lo stile del Cariteo dalla prima alla seconda edizione dell’“Endinione”, in «Studi di filologia e letteratura», Università degli Studi di Genova, Istituto di Letteratura Italiana, I (1970), pp. 9-83.

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Paola Morossi

sociale o ad un ambiente geografico. Tutto ciò rappresenta una novità assoluta per Napoli: tanto più rilevante se si pensa che la redazione manoscritta si pone subito a ridosso dell’edizione del Perleone e che in quello stesso giro d’anni, o poco dopo, Caracciolo, nell’organizzare il suo canzoniere non riesce ancora a staccarsi pienamente dai moduli cortigiani. Questo impianto è radicalmente sconvolto nell’Endimione del 1509 7 (B) dove il primo disegno salta entro un largo e diverso impegno narrativo. La dimensione del racconto è introdotta dalla partenza di Luna, che costituisce un discrimine in base al quale il canzoniere si struttura solidamente nei tre tempi, progressivamente riducentisi, dell’innamoramento, della partenza della donna e del rimpianto. Cariteo a posteriori costruisce la cronologia interna del secondo Endimione: con la canzone Crudele autunno & vario (B: CLXXII; Percopo8: canzone XV) egli indica la data di partenza di Luna per la Spagna. Nella terza stanza della canzone il primo indizio cronologico (Decimo dì del mese, / che la notte vittrice / fa, poi de l’equinottio, anzi l’inverno): Cariteo dice che l’anniversario della partenza della sua donna capitò d’autunno, e precisamente nel giorno del mese che, venendo dopo l’equinozio precedente l’inverno, fa le notti più lunghe dei giorni. Nella quarta stanza il secondo indizio (Amor, tu vuoi ch’io creda, / che ‘l ciel fa movimento / per memoria del pianto & morte mia. / Io ‘l credo, & par che’l veda: / che ‘n quella hora & momento, / che parte il sol, la luna si partia. / Sorte maligna & ria, / che due volte in occaso / hai voluto eclipsare / le due luci più chiare; / ond’io de l’una son cieco rimaso: / cosa inaudita & nova, / che per dolore humano il ciel si mova!): in quello stesso giorno vi fu un’eclissi solare. E poiché si considera

7 TUTTE LE OPERE / VOLGARI / DI CHARITEO / Primo libro di Sonetti: & Canzoni inti- /tulato Endimione. Sei Canzoni ne la nativita de la Gloriosa / madre di Christo. / Una Canzone ne la nativita di Christo. / Una Canzone in laude de la humilitade. / Uno Cantico in terza rima de dispregio del mondo. / Quattro Cantici in terza rima intitulati Metamorphosi. / Uno Cantico in terza rima ne la morte del Marchese del Vasto./ Risposta contro li malivoli./ Sei Cantici del libro intitulato Pascha. / c.161r FINE DE LA PASCHA / DI CHARITEO / c. 161v Errori de la stampa. / c.162 v IMPRESSA / in Napoli per Maestro Sigismundo Mayr Alamanno / con somma diligentia di P. Summontio nel anno M.DVIIII del Mese di Novembre: con privilegio del / Illustrissimo Vicere & general locotenente de la Ca / tholica Maiesta: che per X anni in questo Regno / tal opera non si possa stampare: ne stampata portarsi / da altre parti sotto la pena in essa contenuta. / reg. A B C D E F G H I L M N O P Q R S T U V / Tutti sono quaterni excetto M che quinterno. 8 Cito sempre anche dall’edizione Pèrcopo: Le rime di Benedetto Gareth detto il Chariteo secondo le due stampe originali, con introduzione e note di Erasmo Pèrcopo, Napoli 1892, 2 volumi.

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Riflessioni sulle rime di Cariteo: aporie cronologiche nel secondo Endimione

l’equinozio autunnale, che cade il 21 settembre, quel decimo giorno deve appartenere all’ottobre. Ora, proprio il 10 ottobre 1493 per tutta Europa vi fu un eclissi solare 9. La partenza di Luna, avvenuta giusto un anno prima, fu il 10 ottobre 1492. Questa è una data fissata da Cariteo che nella redazione del 1509 (B) decide di delimitare lo spazio esistenziale della sua esperienza affettiva. Mostrerò brevemente come egli costruisca una serie di rime anniversarie. La redazione definitiva dell’Endimione (Libro di sonetti et canzoni di Chariteo intitulato Endimione) include il precedente Endimione (Libro de sonetti et canzone di Chariteo intitulato Endimion ala Luna), le cui rime vengono a costituire il primo quarto del secondo. Nella redazione ultima (B) l’ultimo sonetto della princeps (A) conclude effettivamente quello che è il primo quarto dell’Endimione inserito compattamente nel canzoniere incrementato. L’ultimo sonetto di A si trova a precedere le due canzoni politiche che nella princeps erano a sé. La redazione B riprende con un sonetto che deve e vuole essere un elemento di scansione strutturale del nuovo canzoniere. Hor ritornamo ai primi aspri tormenti testimonia l’esigenza di agganciarsi ai modelli classici che hanno nutrito il nucleo del primitivo Endimione e a quella che ne è la sostanza tematica: la patetica ed estroversa summa di lamenti esternati a piena voce per il breve corpus del canzoniere. Il progetto – diciamolo subito – fallisce. Il tentativo di costruire un libro imperniato sulla lirica amorosa viene abbandonato e così pure senza conclusione o trasformazione è l’amore per la donna, che era oggetto del desiderio e scopo del canto. Il tentativo di un liber, con un’impalcatura di rime anniversarie e di una storia, di cui le date e gli eventi significativi sono annotati sistematicamente a partire dai primi sonetti aggiunti, si scontra con evidenti aporie. Il sesto testo aggiunto nel nuovo Endimione (B: LXXVI; Percopo: sonetto LIX A voi sola vorrei far manifesto) è la prima rima anniversaria: Ma, perché già passato è l’anno sesto / de la mia pena, al valor vostro eguale / celar non posso agli altri un foco tale / et per paura a voi no’ ‘l manifesto (versi 5-8). Siamo dunque nel 1486. Il settimo anniversario è celebrato nel sonetto O Baia, di lacciuol venerei piena (B: XCI; Percopo: sonetto LXXII): Rimembrevi ch’or volge il septimo anno, / che, seguend’io de la mia Luna il sole, con voi mi lamentava del mio danno (versi 9-11). L’anno è il 1487. Senonché il sonetto citato si trova a precedere un trittico di sonetti (B: CXI-CXIII; Percopo: sonetti XCI-XCIII) databili agli anni 1482-84 ed anche a precedere il sonetto

9 L’art de vérifier les dates des faits historiques, des chartes, des chroniques, et autres anciens monumens, depuis la naissance de notre seigneur, Paris, MDCCXXXIII, tomo I pag. 79.

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Imagin di celesti, ampi thesori (B: CXXX; Percopo: sonetto CX) di cui abbiamo un preciso terminus post quem fissato al 1501. Il septimo anno precede anche il sonetto Vapor terreni obnubilare il cielo (B: CXXXIII; Percopo: sonetto CXIII) dove il terminus post quem è certamente il 1503. La canzone O non volgare honor del secol nostro, dedicata a Iacopo Sannazaro (B: CXXXVI; Percopo: canzone X) è la terza rima anniversaria. Il verso 24 (ché passa il decimo anno, / ch’io pugno meco per fuggir d’affanno, / et per questo pugnar cresce il martire) segna il decimo anno della storia. Siamo dunque nel 1490. Terminus ante quem di questa canzone è il 1501, anno della morte dell’Altilio, di cui i versi 67-72 (cante con versi d’immortal memoria / Altilio, al cui cantar terso & polito / le Nymphe di Sebeto / menavan le lor danze, onde quel lieto / Hymeneo, Hymeneo sonava il lito / del bel Tyrrheno mar, tranquillo & cheto) parlano come di persona viva. I versi 102-05 (il mio signor, con l’honorata soma / di trophei, mi darebbe nome altero, et non minor di quello / forse, che diede Achille al grande Homero) sembrano presupporre Ferrandino ancor vivo e regnante; mentre Federico al verso 80 è chiamato de l’Aragonio onor l’altra speranza. Il terminus ante quem salirebbe così al 1496 e dovremmo ammettere che Sannazaro per quell’anno qualcosa avesse scritto di tema religioso sia in volgare sia in latino, poiché i versi 75-78 in cui Cariteo si rivolge a Sannazaro recitano: et tu di cui l’ingegno ogni altro avanza, / che l’una e l’altra lingua hai exorata, / l’alme Muse evangeliche illustrando. Prima del 1496 Sannazaro aveva scritto la Lamentazione sopra al Corpo del Redentor del mondo a’ mortali e presumibilmente il capitolo Se mai per meraviglia alzando il viso (XCIX della princeps). Le prose in latino sembrano tutte posteriori a questa data, anche se la stretta tradizione testuale della Lamentatio non sembra fornire elementi utili alla cronologia delle varie fasi di composizione10. In nessun modo si potrà accettare l’indicazione del 1490 data dal poeta stesso: va quindi segnalata la difficoltà a prendere per buone le indicazioni cronologiche fornite dal poeta e va accettato che la cronologia di Cariteo è tutta costruita a posteriori – e respinta all’indietro. Questa canzone – del 1495 circa – è posta immediatamente avanti al sonetto Un sogno paventoso, oscuro & nero (B: CXXXVII; Percopo: sonetto CXVI), il primo in cui si affaccia il tema della partenza di Luna (datata 1492): quasi che il poeta volesse far quadrare i conti. Il sonetto Ai, Napol

10

Rimando a C. Vecce, Maiora numina. La prima poesia religiosa e la Lamentatio di Sannazaro, in «Studi e problemi di critica testuale», 1991 (XLIII), pp. 49-94.

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Riflessioni sulle rime di Cariteo: aporie cronologiche nel secondo Endimione

bella, ai, seggio, in cui fe’ nido (B: CXLV; Percopo: CXXIII) segna nell’explicit un altro anniversario (Io, lasso!, a cui i begli occhi tanto scarsi / fur sempre, ho di morir vera cagione: / che duodeci anni indarno piansi & arsi) cui seguono rime in cui Ferrandino è menzionato come principe – anteriori dunque al gennaio 1494. La canzone Poiché sì breve, irreparabil tempo(B: CLXIX; Percopo: canzone XIII) è databile al 1493. Ho già detto dell’importante – ai fini della ragnatela di date ordita dal catalano – canzone Crudel autunno e vario (B: CLXXII; Percopo: canzone XV) che segna il tredicesimo anniversario dell’amore ed il primo della partenza di Luna (Quest’è il giorno postremo / del primo flebile anno / nel qual tanto perdei, che più non posso è l’accorato lamento dei versi 14-16), cioè il 1493. Il progetto culturale imperniato sulla lirica amorosa viene d’ora in poi clamorosamente smentito dall’andamento del libro. La canzone Fulgore eterno & gloria d’Aragona (B: CLXXV; Percopo: canzone XVI) è scritta per l’incoronazione di Alfonso II, succeduto a Ferrante I il 25 gennaio 1494 e incoronato con grandissima pompa e sfarzo da Giovanni Borgia, cardinale di Monreale, l’8 maggio di quell’anno. A partire da questa canzone, senza alcuna motivazione interna alla storia, la vicenda amorosa passa in sott’ordine, e la scena è occupata proprio da quei temi civili che Cariteo aveva demandato ad altri. Sono gli eventi bellici del biennio 94-95 ad imprimere una svolta senza ritorno nella produzione dello spagnolo: col sonetto Mentre che d’Aragona il sommo honore (B: CLXXXV; Percopo: sonetto CLIV), posteriore all’ottobre del 96, la tematica amorosa e quella politica si ricongiungono un momento nella confessione dell’impossibilità del canto. Una condizione quanto mai stringente se dal 1496 al 1500 nel canzoniere c’è il vuoto, mentre l’ultima parte, assai omogenea, – una sessantina di componimenti a partire dal sonetto Quando Minos d’Athene hebbe il governo (B: CLXXXVI; Percopo: sonetto CLV) diretto a Pier Giovanni Spinelli – è tutta posteriore a quell’anno, e testimonia una fase di ripensamento delle idealità e dei valori sui quali egli aveva creduto bene di regolare la sua vita, in stretto e affettuoso colloquio con gli amici più cari, scampati al naufragio della dinastia aragonese e tuttavia fedeli alla memoria di quei re sfortunati. Se si considerano poi le tarde opere in terzine, La Metamorphosi innanzitutto (1502-03), La Pascha (1506 circa), e i Cantici e le canzoni sacre, risulta dunque che chi si trova davanti tutto Cariteo necessariamente è portato a ridimensionare il peso dell’esperienza amorosa, spinto in parte anche dai sonetti proemiali (I-VI) aggiunti ad esaltare la purezza di quell’amore giovanile ma insieme a prenderne le debite distanze. Così il canzoniere amoroso, che copre poco più dei due terzi dell’Endimione, mantiene un suo relativo isolamento e si struttura solidamente

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Paola Morossi

nei tre tempi, progressivamente riducentesi, dell’innamoramento, della partenza della donna e del rimpianto, scanditi sulle orme di Petrarca da una serie di graduate coordinate temporali. In un simile contesto non era dunque possibile perpetuare quella tesa dialettica tra canto e Morte che attraversava da cima a fondo, con poche evasioni, il nucleo primitivo dell’Endimione, anche se al punto di sutura tra le vecchie e le nuove liriche, dopo le due canzoni aragonesi, il poeta si preoccupava in modo sin troppo scoperto di riallacciare le fila di un unico discorso: Hor ritornamo ai primi aspri tormenti, / a le lagrime prime, al primo ardore. Su sessanta testi dell’ultima sezione, solo cinque parlano ancora di Luna: B: CLXXXVII (Percopo: sonetto CLVI), B: CXCIII(Percopo: sonetto CLXII), B: CXCIV(Percopo: sonetto CLXIII), B: CXCV (Percopo: sonetto CLXIV), B: CCVIII (Percopo: sonetto CLXXVII). La donna scompare dalla scena del libro senza influire in nessun modo sulla struttura che viene acquisendo la sezione conclusiva. In sostanza, la produzione amorosa di Cariteo è quasi tutta concentrata prima del 94; ma ciò che più interessa è che l’Endimione definitivo registri fedelmente questa cesura, lasciando incompiuto il canzoniere amoroso. È anche questo un bilancio, una chiave di lettura che Cariteo fornisce al lettore: il libro, partito come canzoniere amoroso, e orgogliosamente affermato come tale, si chiude in negativo, con un ridimensionamento dell’esperienza amorosa.

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Italo Pantani FASI E VARIANTI REDAZIONALI DELLA BELLA MANO: PRIMI APPUNTI

Tra le cause della lunga sfortuna critica subita dalla Bella mano nel secolo da poco trascorso, come in altre occasioni ho avuto modo di accennare1, un ruolo importante (ovviamente accanto agli orientamenti estetici dominanti, tutti ostili alla poesia d’imitazione petrarchesca) ha svolto l’edizione allestita da Leonardo Vitetti nel 1918, rimasta l’ultima e più completa silloge di rime contiane2, ma al tempo stesso rivelatasi strumento fuorviante di approccio all’opera: al punto da rappresentare, in particolare sotto l’aspetto strutturale, un consistente passo indietro rispetto alle precedenti (e apparentemente più primitive) edizioni. Il curatore infatti, senza visionare direttamente nessuno dei (pochi) codici di cui pure aveva e rendeva notizia, si limitò a ridisporre i testi della Bella mano, assunti nella forma trasmessa dalla storia editoriale dell’opera (salvo ulteriori normalizzazioni introdotte per via puramente congetturale), secondo l’ordine attestato in un codice laurenziano (Ashburnham 1714: Fl3) venti anni prima riscoperto come la più ricca raccolta manoscritta di rime contiane3, ma anche decisamente sopravvalutato sul 1

I. Pantani, Il polimetro pastorale di Giusto de’ Conti, in La poesia pastorale del Rinascimento, a cura di S. Carrai, Padova, Antenore, pp. 5-6; I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni, 2002, p. 203. 2 Giusto de’ Conti, Il canzoniere, a cura di L. Vitetti, 2 voll., Lanciano, Carabba, 1918 (ristamp. ivi, 1933); per i criteri che guidarono l’editore, oltre alle sue stesse Indicazioni (pp. 25-33), cfr. più in dettaglio L. Quaquarelli, Per l’edizione critica della Bella mano di Giusto de’ Conti, in «Studi e problemi di critica testuale», n. 38, 1989, pp. 12-27. 3 Grazie a E. Rostagno, Il codice “Angelucci”, ora Laur.-Ashburnhamiano del “Canzoniere” di G. de’ Conti, in «Rivista delle biblioteche e degli archivi», VIII, 1896, pp. 11-27.

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Italo Pantani

piano dell’attendibilità attributiva, strutturale e testuale. A questa versione spuria del canzoniere (responsabile di contraddizioni nella diegesi macrotestuale su cui mi soffermerò tra breve, del tutto assenti nella versione per secoli trasmessa a stampa), l’editore fece inoltre seguire la raccolta delle rime «disperse» di Giusto, sempre comunque desunte dalle edizioni spicciolate che vari eruditi ne avevano dato tra Otto e Novecento; con conseguente acritica accoglienza prestata anche a testi poi rivelatisi apocrifi4, e specularmente col paradossale esilio tra le rime «disperse» di due sonetti (211, 212) in precedenza sempre presenti nelle edizioni del canzoniere, e ora da esso esclusi in quanto assenti nel codice Ashburnhamiano. Ma sebbene il carattere fuorviante dell’edizione Vitetti sia un dato acquisito da quasi quindici anni, e diversi studi abbiano cominciato a far luce sulla tradizione delle rime contiane5, ancora non si registrano prese di posizione circa la configurazione, alquanto variabile anche nella tradizione manoscritta, da assegnare criticamente all’opera; ed oggi, nel riprendere definitivamente un lavoro che ho sempre desiderato poter realizzare, vorrei proporvi (pur in fase di collazione – e valutazione delle varianti riscontrate – ancora in corso) alcune linee da me individuate per la soluzione di questo primo, basilare problema. Inoltre, gettando uno sguardo iniziale su alcuni dei testimoni parziali delle rime contiane, vorrei anche aprire uno spiraglio su una loro fase redazionale anteriore all’inserimento nel macrotesto. Va preliminarmente ricordato che, se trascuriamo i testimoni sicuramente descripti, la tradizione delle rime di Giusto comprende 24 codici della Bella mano, l’editio princeps bolognese6, e circa 60 manoscritti con selezioni 4 Già sappiamo erroneamente attribuiti al Conti i sonetti 213 (Non sento ancor che vogli honor farme, di Angelo Galli: cfr. A. Galli, Canzoniere, ed. critica a cura di G. Nonni, Urbino, Accademia Raffaello, 1987, p. 430, n. 326), 214 (Amor fanciullo qual pò dar consiglio?, di Alessandro Sforza: cfr. A. Sforza, Il canzoniere, ed. critica a cura di L. Cocito, Milano, Marzorati, 1973, p. 163, n. 220; Galli, Canzoniere, cit., p. 430, n. 327; G. Gorni, Appunti metrici e testuali sulle rime di Alessandro Sforza, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIII, 1975, p. 232) e 215 (Pensando nel mio bel tempo perduto, di Rosello Roselli: cfr. Galli, Canzoniere, cit., p. 401 n. 296a; il testo non compare nel canzoniere di Rosello pubblicato da A. Lanza, in Lirici toscani del ’400, vol. II, Roma, Bulzoni,1975, pp. 400-55). 5 Oltre a quelli già citati, vanno ricordati almeno I. Pantani, Tradizione e fortuna delle rime di Giusto de’ Conti, in «Schifanoia», n. 8, 1989, pp. 37-96; G. Biancardi, Appunti per l’edizione critica del Canzoniere di Giusto de’ Conti, in «Acme», XLIII, 1990, pp. 53-68; L. Quaquarelli, «Intendendo di poeticamente parlare»: la Bella mano di Giusto de’ Conti tra i libri di Feliciano, «La Bibliofilia», XCIII, 1991, pp. 177-200. 6 «Ivsti de Comitibus […] libellvs foeliciter incipit intitvlatvs La bella mano […]. Per me Scipionem Malpiglivm bononiensem MCCCCLXXII». Ad essa fa capo la successiva produzione a stampa, come preciserò tra breve.

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Fasi e varianti redazionali della Bella mano: primi appunti

ora corpose, ora minime, di componimenti in parte entrati, in parte rimasti esclusi dal canzoniere; i primi, pur con sostituzioni di cui presto darò conto, nella storia editoriale della Bella mano ammontano sempre a 150 (anche se la numerazione dei testi nell’edizione Vitetti – che si è ancora obbligati ad adottare – giunge a 151 per la bizzarra scelta dell’editore di saltare il numero 138, al fine di mantenere la corrispondenza con il citato codice Ashburnhamiano contenente, a quella altezza, un sonetto di Angelo Galli); i secondi, detratti i tre certamente apocrifi di cui si è detto (ma non ancora altri di assai incerta attribuzione), giungono a costituire un corpus di 66 rime «disperse». I 25 testimoni integrali (salvo lacune) del canzoniere possono innanzitutto essere raggruppati in base alla consistenza macrotestuale che assegnano all’opera, con il seguente quadro risultante (in cui sono evidenziati i testi caratterizzanti i singoli gruppi)7: gruppo A (144 testi):

1-17, 136, 18-135, 142-149 Fnc, Ma1, Vm4 Fl1, Fn4, Tr [mutili]

gruppo Ab (145 testi):

1-17, 136, 18-49, 137, 50-135, 142-149 Ob [disordinato] Fnp, Vr [disordinati, lacunosi; si chiudono con 146]

gruppo B (150 testi):

1-135, 136 [spostato], 137, [138: Galli], 139, 140, 141, 142-149, 150, 151 Fl3 [aggiunge in appendice i testi 152-206]

7 Ricordo i testimoni cui si riferiscono le sigle (rimandando per la loro descrizione a Pantani, Tradizione, cit., pp. 39-50): Bs: Bålsta, Skokloster slott bibliotek, Skoklosterarkivet 33, 4°; Fl1: Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana, Ashburnham 1263; Fl3: Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana, Ashburnham 1714; Fn4: Firenze, Bibl. Nazionale Centrale, Magliabechiano VII.1393; Fnc: Firenze, Bibl. Nazionale Centrale, Conv. Sopp. B.2.1267; Fnp: Firenze, Bibl. Nazionale Centrale, Palatino Baldovinetti 216; Ll: Londra, Library of Dr. Brian Lawn, Med. and Renaiss. Mss. 16; Ma: Milano, Bibl. Ambrosiana, H.23.Sup.; Ma1: Milano, Bibl. Ambrosiana, I.88.Sup.; Mt: Milano, Bibl. Trivulziana, 910; Mt1: Milano, Bibl. Trivulziana, 985; Me1: Modena, Bibl. Estense, a.U.6.11 (Ital. 656); Ob: Oxford, Bodleian Library, Canoniciano ital. 50; Ob1: Oxford, Bodleian Library, Canoniciano ital. 56; Ob2: Oxford, Bodleian Library, Canoniciano ital. 57; Pn2: Parigi, Bibl. Nationale, Ital. 1034; Po: Pesaro, Bibl. Oliveriana, 55; Ra: Roma, Bibl. Angelica, 1349; Sc: Siviglia, Bibl. Capitular Colombina, 7.1.4; Tr: Torino, Bibl. Reale, Varia 93; Vb: Città del Vaticano, Bibl. Apostolica, Barberiniano lat. 3968; Vr: Città del Vaticano, Bibl. Apostolica, Rossiano 220; Vr1: Città del Vaticano, Bibl. Apostolica, Rossiano 985; Vm4: Venezia, Bibl. Nazionale Marciana, Ital. IX.157 (6459); 472: editio princeps «Per me Scipionem Malpiglivm bononiensem MCCCCLXXII».

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Italo Pantani

Po Ra, Vb gruppo C (150 testi):

[replica 76 tra 137 e 138; si chiude con 150] [replicano 76 tra 137 e 138; lacunosi e mutili]

1-17, 136, 18-36, 141, 150, 139, 212, 211, 37-135, 142-149, 151 Ll, Mt1, Me1, Ob1, Ob2, Pn2, Vr1, 472 [sconvolge l’ordine dei testi] Bs, Ma, Mt, Sc [da antigrafo contaminato con un esemplare A]8.

Innanzitutto, alcune precisazioni sulla princeps (472) e sulla conseguente tradizione a stampa. L’ordine dei testi nell’edizione Malpigli (di cui ho visionato l’esemplare conservato dalla Bibl. Trivulziana di Milano) è il seguente: 1-17, 136, 18, 20, 19, 21-36, 141, 150, 139, 212, 211, 37-87, 90, 88-89, 97, 91-96, 102, 105-107, 98-101, 112, 103-104, 113, 108-111, 147, 114-117, 121, 120, 118-119, 124, 122-123, 126-133, 125, 134-135, 142-146, 148-149, 151. Tale successione, frutto di numerosi quanto (per lo più) piccoli spostamenti, non è accettabile dal punto di vista macrotestuale (inammissibile è soprattutto la forte anticipazione del ternario 147, il famoso Udite monti alpestri, che nell’opera apre la conclusiva serie di componimenti lunghi); e tuttavia essa fu fedelmente replicata dalle due successive edizioni della Bella mano, che ne rappresentano (anche dal punto di vista testuale) una fedele ristampa: «Veneciis, [Gabriele di Pietro], MCCCCLXXIIII»; e «Veneciis, per Thomam di Piasis, MCCCCXCII». Una meno totale dipendenza mostra invece l’edizione di «Vinegia, per Maestro Bernardino di Vidali veneto, MDXXXI»: la quale, pur fondata essenzialmente sempre sulla princeps, poté giovarsi (come dichiara l’editore stesso) del confronto con un testimone manoscritto9: con limitati benefici sul piano strutturale, visto che le sole variazioni apportate a questa anomala successione furono un piccolo spostamento del n. 97 (dopo il 102), e la pur importante ricollocazione del n. 147 ad aprire la serie dei ternari. Decisiva invece, nella storia della tradizione a stampa dell’opera,

8

Come dimostrato da Biancardi, Appunti, cit., pp. 58-61. Si legge nella prefazione Alli benigni e candidi Lettori: «E perciò che la detta opra non per causa dell’auttore, anzi per vicio de gl’impressori, in molte cose ritrovasi manchevole, io puosi quella debita diligenza che per me si puote maggiore et la revidi, e insieme col maturo e ben fondato giudicio d’alcuni la corressi […], non però in maniera veruna dipartendomi dall’originale di propria sua mano descritto, e a passati giorni alle mie mani divenuto». Da primi sondaggi, il codice consultato dal Vidali mostra notevoli affinità con Vm4. 9

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Fasi e varianti redazionali della Bella mano: primi appunti

fu com’è noto l’edizione successiva: «La bella mano. Libro di messere Givsto de Conti, romano senatore. Per m. Iacopo de Corbinelli, gentilhuomo fiorentino ristorato. In Parigi, appresso Mamerto Patisson regio stampatore, 1589». Giovandosi del confronto tra una copia della princeps, una dell’edizione Vidali e il ms. Pn2 venuto in suo possesso, Corbinelli nella disposizione dei testi si affidò sostanzialmente al codice (ben impiegato anche dal punto di vista testuale), con le sole anticipazioni di 20 a 19 e di 52 a 51; e in questa forma (1-17, 136, 18, 20, 19, 21-36, 141, 150, 139, 212, 211, 37-50, 52, 51, 53-135, 142-149, 151), comunque pienamente riconducibile al gruppo C, La bella mano sarebbe stata riprodotta senza più interventi (al di fuori di un assiduo processo di normalizzazione linguistica) sino all’edizione novecentesca curata da Giuseppe Gigli, anteriore di soli due anni a quella di Leonardo Vitetti10. Quest’ultima, si è detto, basa invece la propria struttura su Fl3, la cui posizione marginale nella tradizione dell’opera (all’interno del poco consistente gruppo B) risulta già a prima vista dallo schema sopra proposto. Il quale, d’altro canto, mostra come la Bella mano abbia avuto innanzitutto un’autorevole circolazione nella configurazione A, che si chiudeva con il polimetro La notte torna, estremo sfogo, in vesti pastorali, dell’innamorato tradito11. A sua volta, il gruppo Ab rientra a pieno titolo in questa prima confi-

10 Ricordo le edizioni in questione: La bella mano di Giusto de’ Conti romano senatore, in Firenze, per Jacopo Guiducci e Santi Franchi, MDCCXV; La bella mano di Giusto de’ Conti romano, in Verona, presso Giannalberto Tumermani, 1750; La bella mano di Giusto de’ Conti romano, in Verona, presso Giannalberto Tumermani, MDCCLIII; La bella mano di messer Giusto de’ Conti, in Parnaso italiano, tomo VI (Lirici antichi serj e giocosi fino al secolo XVI), a cura di Andrea Rubbi, Venezia, presso Antonio Zatta e figli, MDCCLXXXIV; Giusto de’ Conti, La bella mano, in Parnaso italiano, vol. XI (Lirici de’ secoli I. II. III.), a cura di F. Zanotto, Venezia, Giuseppe Antonelli, 1846, colonne 837-903 (i testi del canzoniere sono qui disposti per metro, sulla base comunque della successione data loro dal Corbinelli); La bella mano di Giusto de’ Conti, a cura di Giuseppe Gigli, Lanciano, Carabba, 1916. La storia editoriale dell’opera sino all’importante operazione svolta dal Corbinelli è stata illustrata da L. Quaquarelli, «Quelle pochette annotationi dalla margine tirate del libro mio»: la princeps bolognese della Bella mano di Giusto de’ Conti nelle postille dell’editore cinquecentesco Jacopo Corbinelli, «Schede umanistiche», n. s., 1991, 2, pp. 51-79; ancora sull’impresa editoriale del Corbinelli, cfr. M. Gazzotti, Jacopo Corbinelli editore de La bella mano di Giusto de’ Conti, in La lettera e il torchio. Studi sulla produzione libraria tra XVI e XVIII secolo, a cura di U. Rozzo, Udine, Forum, 2001, pp. 167-247. 11 Su questo tema mi sono già ampiamente soffermato in Pantani, Il polimetro, cit., pp. 2-12; sulla struttura narrativa del canzoniere contiano cfr. anche Pantani, «La fonte», cit., pp. 198-202.

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gurazione, in quanto esso si caratterizza semplicemente per l’aggiunta di un testo (l’attuale 137) che ha tutto il sapore dell’interpolazione, dato anche il generale disordine strutturale (ma non testuale) di quest’area di trasmissione; in ogni caso, andrà sottolineato che questo sonetto (Tanto è possente il fiero mio disio), probabilmente di Giusto sebbene estraneo al canzoniere12, trovava tra i numeri 49 e 50 una collocazione accettabile, in quanto ritrae una fase intermedia dell’esperienza amorosa del protagonista, ancora lontano dalla conclusiva sfiducia. Questo stesso criterio contenutistico dimostra peraltro, facilmente, l’incongruenza strutturale del gruppo B: un ramo localizzato lungo la linea Pesaro (Po) – Arezzo (Fl3)13, e che è il solo a interrompere la successione dei sonetti affini 135 e 142, interpolandovi componimenti appartenenti a tutt’altra fase, come conferma la loro corretta disposizione nei gruppi A e C. Il sonetto 135 (Zefiro, vieni, e la mia vela carca) è infatti la preghiera rivolta al vento perché faciliti il ricongiungimento del poeta con l’amata («Menami al mio terrestre paradiso / […] Fa’ che io riveggia il disiato riso»: vv. 9, 12), da cui egli si era distaccato nel sonetto 106 (Quanto più m’allontano dal mio bene), e cui si riavvicinerà nell’ormai prossimo 144 (Mentre che io m’avicino al bel terreno); e un autoinvito al ricongiungimento, prima sentimentale che fisico, si trova infatti anche nell’adiacente sonetto 142 (Ritorna al foco, o mio debil coraggio). Spezzando tale continuità, il confusionario assemblatore del subarchetipo B ne approfittò per inserire proprio a questa altezza, in prossimità dell’epilogo, una serie di componimenti destinati a tutt’altra posizione, e attinti un po’ dovunque: iniziò recuperando l’omesso sonetto 136 (Ratto per man di lei, che in terra adoro), la cui estasiata celebrazione della donna solamente in una sede iniziale come la 18a (quella occupata in tutto il resto della tradizione) aveva la sua giusta collocazione; proseguì con il 137, rintracciato dalle stesse fonti di Ab; inserì come 138 un sonetto di Angelo Galli (Piangi misero, lasso, ch’hai ben donde), a cui a suo tempo Giusto aveva risposto con il suo 110 (Quel tuo bel lamentar, che mi confonde), e che dunque andava immesso piuttosto circa trenta posizioni prima; quindi introdusse

12

Contiano certo è lo stile di questo componimento, nel quale tornano espressioni tipiche di Giusto: «che del giudizio il mio veder appanna» (v. 3), ad esempio, ricorda «dell’intelletto il mio vedere appanna» (83, 4), più del petrarchesco «se mortal velo il mio veder appanna» (Rvf 70, 35); le «nostre ricordanze» del v. 10, poi, ritornano anche in 148, 173 («triste ricordanze») e richiamano «la ricordanza dei passati stenti» (130, 8), laddove il termine era stato ripudiato da Petrarca. 13 Per l’origine aretina di Fl3, pesarese di Po, centro-meridionale di Ra e Vb, rimando ancora a Pantani, Tradizione, cit., pp. 40, 46-49.

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due sonetti che si ritrovano nel gruppo C, ma molto più opportunamente (dato il contenuto ancora fiducioso) tra la 38a e la 40a posizione (il 139: Qual Salamandra in su l’acceso foco, e il 141: Caro conforto a mie dolenti pene), e tra di loro un testo senza altri riscontri (140: Se ’ll’è natural vostro, over costume), ma non privo di tipici stilemi contiani14. L’ultimo pasticcio doveva verificarsi nella zona conclusiva del canzoniere, che quel compilatore incontrava evidentemente fissata dal polimetro 149, ultimo di tre lunghi componimenti dominati dall’amarezza e dalle invettive rivolte verso la traditrice Isabetta: imbattutosi nell’estatica ballata 150 (Grandezza d’arte e sforzo di natura), che il gruppo C introduce opportunamente in 39a sede, egli non seppe far altro che aggiungerla in coda, come attestato da Po, che lì si chiude; ma l’ancor più solerte assemblatore di Fl3, trovato il ternario 151 (Se con l’ali amorose del pensiero), che con la sua riassuntiva e pacificata visione nel cielo di Venere conclude la Bella mano nel gruppo C, si limitò a farlo seguire a quella ballata, posta così a spezzare inaccettabilmente la serie dei quattro ternari. E in questa assurda fisionomia, accolta dall’edizione Vitetti, la Bella mano è stata letta dal 1918 ad oggi. In precedenza, come detto, la tradizione a stampa aveva sostanzialmente (mai però esattamente) replicato la configurazione del gruppo C, ma per ragioni accidentali: la princeps del 1472, infatti, fu realizzata sulla base di un antigrafo appartenente a tale gruppo; al quale, casualmente, appartiene anche il solo manoscritto (Pn2) che il Corbinelli ebbe la possibilità di consultare per allestire la sua meritoria e basilare edizione. Per noi, tuttavia, il rapporto tra A e C rappresenta ancora un problema da risolvere nella ricerca della conclusiva volontà dell’autore: e dato che la collocazione cronologica dei più antichi testimoni datati delle due forme è praticamente equivalente15, la differenza tra di esse consiste essenzialmente nella diversa estensione testuale (144 i testi di A, 150 quelli di C), determinatasi per accidenti intervenuti in due sole zone del canzoniere: la forma C contiene infatti una ballata e quattro sonetti inseriti tra il 37° e il 38° testo della forma A, e in chiusura presenta un quarto ternario, la già citata e conclusiva visione 151. Sin troppo semplice, in prima istanza, sarebbe pensare a una doppia lacuna, intervenuta a formare A dal corpo (completo) di C, anche in ragione

14 Come al v. 6: «per sempre lagrimar», da confrontare con 97, 32 («il sempre sospirar per selve et colli») o 147, 103 («se del mio sempre lagrimar si ride»); al v. 8: «possente et vivo lume», da confrontare con 96, 5 («et tu possente lume»); e al v. 13: «che tal dureza pieghi», da confrontare con 148, 38 («se pietà mai piegasse tal dureza»). 15 Nessuno dei codici A è datato, ma Ob (il più importante del gruppo Ab) fu esemplato da Antonio Petrucci nel 1464 nella rocca di Urbino; nel 1465, invece, Felice Feliciano trascrisse OB1.

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dell’esistenza di tre errori comuni all’intera tradizione 16: la caduta infatti di una carta contenente quei cinque testi, brevi e in successione, e di qualche carta finale comprendente il ternario, ben avrebbe potuto produrre un simile effetto. A dire il vero, nell’economia dei fascicoli di un codice il fenomeno non sarebbe poi così facilmente ammissibile; ma soprattutto, un ostacolo a tale ipotesi sembra venire dalla correttezza testuale dei più autorevoli esponenti di A, correttezza superiore a quella dei più curati rappresentanti del gruppo C, tutti imparentati da alcuni errori comuni, e velati da una spiccata patina linguistica padana, laddove più varia è la fisionomia linguistica di A, prevalentemente, ma non esclusivamente, di marca toscana17. In tali condizioni, volendo seguire la strada dell’origine di A per lacuna, dovremmo configurare un percorso di tradizione di questo genere: da un capostipite comune, strutturato come C, si sarebbe presto formata, per caduta materiale di alcune carte, la forma A, di cui tuttavia ci sarebbero pervenuti alcuni codici appartenenti ai rami alti dell’albero stemmatico, ed esemplati sia in Toscana che nell’Italia padana; meno fortunati saremmo stati per i testimoni dell’integrale forma C, giuntici tutti da località settentrionali, e tutti nati da un capostipite portatore di errori assenti, invece, in A. Questa ipotesi in realtà appare decisamente macchinosa nel configurare una tradizione toscana tanto fortunata sotto l’aspetto testuale, quanto sfortunata sotto quello strutturale; inoltre, alcuni contenuti presenti proprio nei sei testi di C mancanti ad A introducono qualche rilevante fattore di ordine cronologico, che cercherò ora di illustrare. Fondamentale, per tali considerazioni, risulta ancora una volta il più famoso codice della Bella mano, il parigino Pn2: testimone della forma C, e al contempo aperto dalla miniatura di un monumento su cui risalta l’epigrafe che data l’opera al 1440; anno in cui Giusto era a Firenze (al seguito di Eugenio IV – il papa di cui era cubicolario – ivi impegnato nel celebre Concilio), e che ben si sposa con una testimonianza di Angelo Galli ritraente un Conti ancora coinvolto nell’amore per Isabetta nel 1438 18. Ebbene, se nella forma A non s’incontrano componimenti che richiedano una collocazione in anni successivi, tra i sei testi supplementari presenti nella forma C qualche difficoltà in tal senso non manca. Mi riferisco in particolare a due passi, il primo dei quali s’incontra nel v. 79 del capitolo 151: 16

Errori segnalati da Quaquarelli, Per l’edizione, cit., pp. 27-28. Per questi accertamenti cfr. Pantani, Tradizione, cit., pp. 39-50; Id., Il polimetro, cit., pp. 12-14. 18 L’epigrafe recita: «Ivstvs vates romanvs orator ivrisqve consvltvs ex Isabetae bononiensis amore composvit MCCCXL». Sulla cronologia dell’amore di Giusto, che alcune note di Angelo Galli al proprio canzoniere ci dicono ancora ben vivo a tale data, cfr. Pantani, Tradizione, cit., pp. 72, 90; e soprattutto Id., «La fonte», cit., pp. 180-95. 17

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Lasso me, non poria, parlando, bene ridire il modo, la stagione e l’ora, né la cagion de sì legiadre pene. Mentre che ardendo Roma struggea allora, cieco, più chiara vista omai rapella in parte ove ’l pensier più s’inamora. Vedeame innanzi l’amorosa stella, che amar m’insegna cum soi rai possenti, a sì gran torto contra me rubella.

Se è corretta la punteggiatura proposta, Giusto pare qui collocare l’episodio della sua celeste visione dell’amata (descritta in questo testo caratterizzante la tradizione C) dopo il suo ritorno a Roma, avvenuto verosimilmente il 28 settembre 1443, il giorno in cui vi rientrò Eugenio IV; anzi, il tempo della voce poetante (dato il suo raccontare al passato) si colloca in una fase persino posteriore ad un nuovo distacco dalla città (che sappiamo avvenuto entro l’8 febbraio 1446, data in cui troviamo il poeta già attivo nella Marca Anconetana come tesoriere pontificio19). Ma ancor più significativo appare, nella stessa direzione, il sonetto 212 (Se mai per la tua lingua il sacro fonte), nel quale il Conti chiese al solito Angelo Galli (vv. 5-14): deh, dimmi: è mai vendecta de nostre onte che Italia a torto in servitù rapelle, o pur coniunction de fiere stelle fermate eternalmente a l’orizonte? Ché omai tanti anni il ciel volgendo intorno, per affondarla, nocte e dì la investe Fortuna, che ne tien sotto ’l tributo; tal ch’io discerno, in fra le gran tempeste, l’italico valor con nostro scorno da’ barbari già vinto e combatuto.

Giusto si sentirà rispondere dall’amico che la responsabilità è del papa (Le acque che scendon giù del sacro monte, vv. 9-14): Adonqua a l’alta tua dimanda torno: non giustitia de Dio che ce moleste, né da maligna stella è proceduto;

19

Cfr. G. Benadduci, Della signoria di Francesco Sforza nella Marca e peculiarmente in Tolentino (dec. 1433 – ag. 1447), Tolentino, Filelfo, 1892, Documenti, p. LXXV.

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ma el capo nostro, che ’l gran manto veste, l’italico giardin già tanto adorno a’ barbar che tu dice ha conceduto 20.

Ebbene, se la libertà di queste considerazioni (quelle di Angelo più di quelle di Giusto) sembra presupporre un Conti non più alle dipendenze del soglio pontificio, ma di Sigismondo Pandolfo Malatesta (passaggio avvenuto intorno al maggio del 1447 21), i «barbari» di cui egli lamenta la vittoria non possono identificarsi che con gli aragonesi di re Alfonso, definiti ad esempio «barbaricos hostes» anche da un altro letterato malatestiano, Basinio da Parma, che nel Liber Isottaeus (che gli si attribuisce) fa dire al poeta, rivolto a Calliope (III 2, vv. 3-6): Tamne diu taceas Pandulphi maxima regis praelia, magnanimi splendida facta ducis? Qui nunc barbaricos Italis a finibus hostes expulit, o magna bella canenda lyra!22

È noto che Alfonso s’impegnò militarmente in Italia fin dal 1435, e dunque la proposta di Giusto potrebbe anche rientrare (ma con scarsa pregnanza) entro il termine del 1440; la risposta del Galli, tuttavia, sembra spostare decisamente la corrispondenza a tempi successivi al 6 luglio 1443, la data in cui, dopo aver a lungo osteggiato Alfonso, Eugenio IV si rassegnò a riconoscerlo come sovrano di Napoli. Le ragioni di una tale perdurante ostilità nei due poeti, nonostante l’accordo, sono del resto facilmente identificabili: Alfonso continuò infatti a imperversare militarmente nell’Italia centrale sino al 1448, quando a sbaragliarne le milizie presso Firenze fu proprio quel Sigismondo Malatesta (che fino all’anno precedente era stato suo alleato), alla cui corte lo stesso Giusto, a quella data, operava ormai da circa un anno. Del resto, a con20

I due sonetti, meglio che nell’edizione Vitetti della Bella mano (vol. II, pp. 79-80), si leggono in Galli, Canzoniere, cit., pp. 399-400, nn. 295 e 295a. 21 Giusto abbandonò la sua carica di tesoriere pontificio, per passare alle dipendenze del Malatesta, tra l’aprile del 1447 (data in cui ancora firma i documenti del suo ufficio: cfr. G. Benadduci, Nuovi documenti sforzeschi secondo l’archivio Gonzaga di Mantova e quello di Tolentino, Tolentino, Filelfo, 1899, p. 26) e il 17 maggio 1447 (quando in tale compito è sostituito dal vice tesoriere Filippo Abbate di San Lorenzo: cfr. Benadduci, Della signoria, cit., pp. 390-91). 22 Basinio da Parma, Le poesie liriche, a cura di F. Ferri, Torino, Loescher, 1925, p. 48. Su Basinio, per un primo orientamento, cfr. A. Campana, Basinio da Parma, in Dizionario biografico degli italiani, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1965, pp. 89-98; e Pantani, «La fonte», cit., pp. 295-300.

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ferma di una datazione intorno ai mesi finali del ’43, il canzoniere del Galli offre ulteriori riscontri: questa corrispondenza con Giusto infatti si colloca nella raccolta del rimatore urbinate entro un gruppo di testi (indirizzati a Piero e Giovanni de’ Medici, nonché a Rosello Roselli) certamente risalenti alla missione compiuta da Angelo nel 1443 a Siena, la città in cui la corte pontificia effettuò quell’anno una lunga sosta (durante la quale cadde appunto il riconoscimento di Alfonso), nel corso del tragitto che doveva riportarla da Firenze a Roma 23. Ora, il concorso tra il v. 79 del ternario 151 e questi indizi cronologici offerti dal sonetto 212, tutti proiettati a tempi non anteriori alla metà del 1443, tende a mettere in crisi la datazione al 1440 della Bella mano, o forse meglio quella della sua forma C, la sola contenente questi due testi. L’unica alternativa ad una radicale negazione di attendibilità della datazione tràdita appare infatti l’ipotesi, utile anche a risolvere le incongruenze prima ricordate, delle due redazioni. Benché indicatoci da un codice della seconda forma, il 1440 sarebbe dunque la data di composizione della prima redazione, mantenuta nell’epigrafe di Pn2 in quanto datazione dell’opera tout court. Che Giusto abbia continuato a scrivere anche negli anni seguenti è peraltro già noto, visto che ancora negli anni di Rimini, all’atto di assumere l’ufficio di consigliere di Sigismondo, lo troviamo alludere alla nuova carica nel sonetto 216 (Come chi, facto accorto con soi danni) 24; e come non pensare che, magari proprio a tale altezza cronologica (1447-49), Giusto abbia voluto allesti-

23 «Al magnifico Piero de Cosmo», come indicato dalle didascalie del canzoniere di Angelo, sono indirizzati i sonetti 291-294 e 297; a Rosello Roselli è rivolto il sonetto 296; in nome di «Giovanni di Cosmo» sono scritti i sonetti 298-299 (cfr. Galli, Canzoniere, cit., pp. 396-406). Sulla vita e gli spostamenti del Galli, cfr. G. Nonni, Galli, Angelo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. LI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 596-600. 24 In risposta a un sonetto di Angelo Galli (rimasto escluso dal canzoniere di quest’ultimo), che lo aveva esortato a non abbandonare il servizio amoroso nonostante i recenti successi professionali (vv. 1-4: «Non fugge amor per lo fugir degli anni / in cor gentil, per prender dignitade, / per pensier gravi, o per matura etade, / per novi offici o per togati panni»), Giusto afferma di evitare ora l’amore solo in quanto «fatto accorto con soi danni»: «Non è novello officio che me affanni, / non fresca degnità che [in] me non cade, / non tempo già, né toga ch’or me aggrade, / cagion ch’io fuga amor che tene inganni» (vv. 5-8). E si trattò di uno scambio di sonetti rimasto particolarmente caro al Galli, il quale (precisando che quando questa corrispondenza ebbe luogo «currivano gli anni del Signore MCCCCXLVIIII») volle interamente riportarlo in apertura dell’Operecta da lui indirizzata nel 1453 al duca di Calabria Ferrante d’Aragona (cfr. B. Wiese, Ein unbekanntes Werk Angelo Gallis, in «Zeitschrift für romanische Philologie», XLV, 1925, pp. 473-74; e Pantani, «La fonte», cit., pp. 163-66).

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re una seconda redazione che si concludesse non più con le risentite invettive del polimetro 149 ma con la pacificata visione celeste del ternario 151, e che contenesse un rapido accenno politico a vicende di grande attualità? Quale momento migliore infatti, per l’inserimento del sonetto 212 nel canzoniere, dei mesi (tra il 1447 e il 1448) in cui più intenso era il conflitto tra Sigismondo ed Alfonso? L’ipotesi delle due redazioni spiegherebbe anche con più semplicità l’insorgere dei ricordati fenomeni di trasmissione. Nel 1440, come detto, Giusto era a Firenze: la localizzazione toscana della prima divulgazione della Bella mano, nella sua forma A, motiverebbe come mai tutti i codici toscani del canzoniere presentino questa forma, o quelle leggermente accresciute (ma su tale base) dei rami Ab e B; in modo equivalente, la costituzione a Rimini della più ampia redazione C ci darebbe ragione della fortuna esclusivamente padana di tale forma. Non mancano però anche a questa soluzione alcune difficoltà: come la minore affidabilità testuale e linguistica dei codici del gruppo C (poco comprensibile in presenza di un controllo d’autore), o la perdurante presenza nella tradizione C di tre errori d’archetipo condivisi con A. Ampliando il suo canzoniere, il Conti si sarebbe dunque limitato ad integrare un testimone già disponibile, privo degli errori poi insorti nei rappresentanti del gruppo A, ma non emendato da quelle originarie sviste d’archetipo; un comportamento che può destare qualche sospetto, soprattutto di fronte al ben visibile disordine metrico che caratterizza il polimetro 149 25. Lungo questa strada, si potrebbe persino dubitare dell’effettiva presenza di una volontà d’autore dietro la forma C, che potrebbe anche essere nata da iniziativa di ignoti disposti ad incrementare il quadro dell’opera con sei testi supplementari, comunque contiani; oppure, meno drasticamente, si potrebbe pensare ad un lavoro di revisione interrotto dall’improvvisa e prematura morte del Conti (scomparso – probabilmente non ancora cinquantenne – il 19 novembre 1449) 26, e dunque limitato all’introduzione, nell’archetipo disponibile, di testi comunque predisposti dall’autore. Non si dovrà dimenticare, del resto, che il vero grande successo della Bella mano sembra aver avuto inizio circa quindici anni dopo la morte dell’autore, concentrandosi essenzialmente entro gli anni ’60 e ’70: una distanza cronologica che indubbiamente favoriva 25

Un fenomeno quest’ultimo sul quale cfr. A. Balduino, Manuale di filologia italiana, Firenze, Sansoni, 1979, pp. 202-05; G. Biancardi, Esperimenti metrici del primo Quattrocento: i polimetri di Giusto de’ Conti e Francesco Palmario, in «Italianistica», XXI (1992), pp. 651-54; Pantani, Il polimetro, cit., pp. 22-24. 26 Sull’inaffidabilità della data di nascita vulgata (1390), cfr. Pantani, Il polimetro, cit., p. 9.

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il rapido deperimento della qualità testuale e linguistica dei testimoni, soprattutto presso quel ramo della tradizione (il ramo C, appunto) che più assunse un carattere spiccatamente commerciale. In ogni caso, al di là delle numerose possibilità che possono aver dato origine a questa intricata situazione, ritengo che i riferimenti (sopra illustrati) ad eventi posteriori al 1440 presenti nei testi che caratterizzano la forma C, la configurazione razionale e compatta conservata da quest’ultimo anche dopo tali integrazioni, e soprattutto i contenuti riepilogativi e conclusivi del ternario 151 (che certamente fu composto dal Conti perché chiudesse più degnamente il canzoniere, come solo in tale forma avviene senza scompensi), devono rappresentare per l’editore una sufficiente certificazione d’autore, nelle condizioni date. Non dunque la forma A (sia che la si consideri esito di lacuna materiale, sia che la si ritenga con me prima redazione dell’opera), ma la C dovrà essere riconosciuta come portatrice della conclusiva volontà dell’autore; ferma restando, data la parziale affidabilità testuale (e soprattutto linguistica) assicurata da questo ramo della tradizione, l’imprescindibile attenzione dovuta ai testimoni del ramo A appartenenti alle posizioni più alte dell’albero stemmatico. Concludo, come promesso, con uno sguardo sui testimoni della tradizione frammentaria, grazie ai quali sarà possibile anche per Giusto fare esercizio di critica delle varianti. Se infatti, almeno per ora, non posso parlare di correzioni d’autore riscontrabili tra le due redazioni or ora ipotizzate, sono invece in condizione di sostenere che il Conti, introducendo nella prima redazione dell’opera i testi prima composti isolatamente, li sottopose ad attenta revisione di contenuti e di stile; e ad offrirci la possibilità di entrare nel suo laboratorio sono proprio alcuni testimoni parziali, che ci hanno conservato diversi componimenti nella facies testuale che li caratterizzava anteriormente alla costituzione del macrotesto. Innanzitutto, propongo un esempio al di sopra di ogni sospetto, vale a dire le differenti fisionomie presentate da un già citato sonetto di corrispondenza (il n. 110) con Angelo Galli: quella attestata dalla raccolta del Galli stesso, sempre pronto a trascrivere tra le sue carte anche le rime dei corrispondenti (ovviamente nella forma in cui gli giungevano) 27: Quel tuo bel lamentar, che me confonde fra l’alto stile e la pietà infinita,

27

Edito in Galli, Canzoniere, cit., pp. 386-87, n. 279a.

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svegliato m’ha la forza tramortita de le mie piaghe infino al cor profonde. E ben che l’ombra de le treze bionde sovente renfrescasse la ferita, pure era agli occhi mei quasi sparita la luce che Fortuna me nasconde. Però se gli occhi giro al bel terreno, raserenato dal sembiante humano che sdegno a torto e gelosia m’ha tolto, retrovo de speranza el cor sì pieno che, qual già presso, avampo de lontano: sì m’han le rime tue per forza volto;

e quella tràdita nei testimoni della Bella mano: Quel tuo bel lamentar, che mi confonde fra l’alto stile e la pietà infinita, raccesa m’ha la fiamma tramortita delle mie piaghe infin al cor profonde; ché, ben che l’ombra delle trezze bionde talor mi rinfrescasse la ferita, pur era agli occhi mei quasi sparita la luce che Fortuna mi nasconde. Però se gli occhi giro al bel terreno raserenato dal sembiante humano che sdegno a torto e gelosia m’ha tolto, ritrovo de speranze il cor sì pieno che l’alma trista avampa de lontano, come già presso i ragi del bel volto 28.

I risultati del confronto mi sembrano degni di grande interesse. Al v. 3, fortemente caratterizzato dalla presenza di un termine peculiarmente stilnovistico come « tramortita» (del tutto assente nel canzoniere petrarchesco), Giusto innanzitutto ne ripristina il riferimento (che gli è consueto) alla «fiamma» amorosa, contro un’inusitata e meno stilizzata «forza»: riproponendo uno stilema in realtà che gli appartiene pienamente nel suo carattere tutto emblematico, ben distante dagli usi propriamente stilnovistici (che prevedevano l’associazione del verbo a facoltà vitali come l’«anima», la «labbia» o il «co-

28

Di questo componimento (di cui do qui un testo provvisorio) ho proposto una lettura nel mio «La fonte», cit., pp. 187-95; qui riassumo (e talvolta integro) i rilievi lì sviluppati.

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Fasi e varianti redazionali della Bella mano: primi appunti

re») 29. La stesura finale del verso, d’altra parte, rivela nell’adozione di «raccendere» al posto di «svegliare» la ricerca di una maggiore finezza espressiva su base petrarchesca: nei Fragmenta infatti in relazione alla passione amorosa compare solo il verbo ora acquisito dal Conti (113, 13; 131, 4; 135, 74), il quale in essi del resto trovava anche un precedente del nuovo nesso fiamma / piaghe (241, 9: «L’una piaga arde, et versa foco et fiamma»). Rilevato che l’intervento al v. 5 testimonia la ricerca di una maggiore coesione sintattica, e che quello al v. 6 mostra una volontà di ridimensionare, nel disgraziato percorso amoroso del canzoniere, i favori pur talvolta (e non «sovente») ricevuti dall’amata, l’intervento più consistente si registra evidentemente nei due versi finali del sonetto. In essi, nella prima versione, il poeta affermava di ritrovarsi «el cor sí pieno» (come già Petrarca: 108, 8 e Triumpus Cupidinis III 1) di speranza, da ardere a distanza d’amore per la sua donna, come gli accadeva quando le era vicino; e una parte di responsabilità, in tale sua condizione, grava sullo stesso Angelo Galli, che con le sue rime lo ha «per forza volto» a ricordi ormai quasi rimossi. Ma questa locuzione dantesca (Purgatorio XXXII 7), su cui il sonetto allusivamente si chiudeva (Dante viene al contrario distolto, dalle tre virtú teologali, dal guardare «troppo fiso» Beatrice), non sopravvisse alla necessità avvertita dal Conti di eliminare la pur amichevole attribuzione di responsabilità rivolta al Galli: un contenuto opportuno tra le cortesie di una corrispondenza, ma assai meno in un autoritratto psicologico e sentimentale come quello rappresentato nel canzoniere. A seguito di questo attento lavoro di revisione, i due versi finali appaiono pienamente in linea con la maniera contiana, pronta ad acquisire espressioni largamente autorizzate («alma trista», «avampan» con valore transitivo)30, ma anche a servirsi di materiali metaforici tradizionali per assemblare immagini dal carattere più astratto, suggestivamente irrazionale, come quella su cui il sonetto si chiude: poiché, riferendo direttamente al «bel volto» di Isabetta la luce di quei «raggi» che Petrarca aveva sempre attribuito al suo «sole» (emblema di Laura, naturalmente, ma elemento imprescindibile

29 Giusto ricorre al sintagma «fiamma tramortita» anche in 86, 8 e in 109, 13. Il verbo tramortire si trova più volte usato dal Dante della Vita nova (tramortita: XXXI 68, con una ripresa nel Purgatorio, XXXIII 129; altre forme: Vita nova XV 6, XXXIX 11). Ben presente nelle rime di Cino da Pistoia (88, 3; 101, 14), Dino Frescobaldi (5, 61), Niccolò De’ Rossi (147, 2; 181, 11; 241, 61), Simone Serdini (LXXIV 64), il verbo torna spesso nei versi del Boccaccio (tramortita: Rime I 90, 6; Teseida: X 84, 3; altre forme: Filostrato IV 18, 7; Teseida IV 36, 3; VIII 29, 8; Ninf. fiesol.: 250, 2; 252, 1; 253, 2). 30 «Alma trista», già espressione cavalcantiana e ciniana, era confluita nel canzoniere petrarchesco (= Rvf) 269, 10 e 177, 3; il verbo avampare è usato transitivamente in Rvf 88, 10.

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Italo Pantani

di un sistema simbolico coerente), e riconoscendo loro il potere di “far bruciare” la sua anima, Giusto perviene a rappresentare il «volto» concreto della sua amata (e non più una sua proiezione simbolica) come una sorgente irresistibile di luce e di calore31. Più rischiose, ma a mio avviso sin d’ora legittime, sono le analoghe valutazioni suggerite dalla situazione testuale di numerosi componimenti di Giusto fotografata da almeno quattro codici, il più famoso dei quali è il Magliabechiano VII 721 (Fn2) della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: vale a dire il codice in cui, tra il 1448 e il 1450 (data assai alta, equivalente agli ultimi anni di vita del Conti stesso), il notaio Giovanni da Carpi esemplò a Ferrara ben 55 testi contiani32. Nello schema che segue, riporto i testi nella prima serie secondo l’ordine dato loro dal copista, nella seconda (per un più agevole confronto) secondo la successione attuale: 8, 100, 135, 60, 57, 71, 81, 76, 98, 75, 66, 9, 219, 27, 136, 18, 58, 55, 103, 56, 3, 6, 23, 32, 92, 129, 95, 10, 90, 94, 130, 106, 37, 124, 14, 112, 96, 64, 4, 143, 30, 49, 102, 147, 17, 48, 145, 148, 126, 127, 34, 36, 46, 19, 44. [3-4, 6, 8-10, 14, 17-19, 23, 27, 30, 32, 34, 36-37, 44, 46, 48-49, 55-58, 60, 64, 66, 71, 75-76, 81, 90, 92, 94-96, 98, 100, 102-103, 106, 112, 124, 126-127, 129-130, 135-136, 143, 145, 147, 148, 219].

Lo schema permette di osservare, innanzitutto, che tra i componimenti noti al carpense non figurano né quelli dotati nel canzoniere di maggiori implicazioni strutturali (come il sonetto di esordio), né i sei subentrati negli ultimi anni a caratterizzare la conclusiva redazione C; al contrario, ve ne compare uno, il 219, che dalla Bella mano rimase escluso. Infine, si noterà che questi 55 componimenti s’incontrano qui trascritti in una successione del tutto estranea a quella che essi ricevettero nel canzoniere. Ora, questa situazione presenta molte affinità con quella riprodotta da altri tre testimoni parziali a me noti: il manoscritto di Firenze, Riccardiano 1154 (Fr3, probabilmente veneto, contenente i testi 90, 64, 100, 135, 60, 71, 76, 75, 66, 219, 104, 122, 79, 56, 6, 23, 32, 92, 10, 94, 37, 124, 147, 148, 216), quello di Lawrence (Kansas), K. Spencer Res. Lib. C 24 (Ls, ove s’incontrano i testi 90, 64, 100, 135, 60, 71, 76, 75, 66, 219, 104, 122, 79), e quello di Vicenza, 31

Il dato è rilevante perché ricorrente, nella Bella mano: il caso specifico già in V 9 («Dal volto, acceso d’un celeste raggio»). Per l’uso dell’immagine nel canzoniere petrarchesco, cfr. Rvf 110, 11; 162, 8; 175, 10; 176, 4. 32 Sul codice, cfr. Pantani, Tradizione, cit., p. 55; sul copista cfr. D. De Robertis, Iohannes Carpensis / Giovanni da Carpi, in Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, vol. I, Roma, Bulzoni, 1985, pp. 255-96.

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Fasi e varianti redazionali della Bella mano: primi appunti

Bertoliano 1.10.22, n. 128 (Vc1, contenente la serie 100, 135, 60, 71, 76, 75, 66, 219, 104, 122, 79, 56, 6, 23, 32, 92, 10, 94, 37, 124) 33; e infatti i quattro codici hanno in comune l’ulteriore importante caratteristica di trasmettere tali testi in una versione ricca di varianti testuali rispetto a quella attestata dalla tradizione del canzoniere; varianti troppo estese e complesse per non potersi dire d’autore. Se ne dovrà inferire che gli estensori di tali miscellanee attingevano tutti da una più ampia e non strutturata raccolta di testi spicciolati, che Giusto aveva ben potuto diffondere sia a Ferrara, dove trascorse quasi per intero il 1438 al seguito del Concilio, sia a Padova, dove in quello stesso anno, il 12 dicembre, conseguì finalmente la laurea per la quale si preparava almeno dal 1433 34. Ed ecco ora, nei versi di tre sonetti contiani presi a campione, qualche esempio delle correzioni apportate da Giusto nel passaggio dalla diffusione spicciolata dei testi al loro inserimento nel canzoniere: 79, 1

Se per chiamar mercè s’impetra mai nella amorosa guerra alcun soccorso, qual fera è sì crudel, qual tigre o orso, che pianger meco non venisse omai?35

Se per chiamar mercè se impetra mai fra stimoli d’amor qualche soccorso qual è sì duro cor de tigre o d’orso che a pianger meco non venisse omai?

94, 9

O bel paese, o chiuse e chete valli, dove da me fugendo il cor mio stassi e dove col disio la mente movo; o fiori aventurosi, bianchi e gialli, che lei racoglie e preme, o fiumi, o sassi, dove son li bei ochi ch’or non trovo?36

Dolci contrade, o chiuse e chete valli, dove da me fugendo il cor mio stassi e donde col disio la mente movo; o ben nati fioretti bianchi e gialli, che lei raccoglie e preme, o fiumi, o sassi, dove son gli occhi bei che qui non trovo?

104, 9 O speranza infinita, o cor mio stanco, o piacer troppo ingordo, che dinanci pur mi dipingi l’ombra del bel guardo, o venenoso stral, che ’l lato manco di man d’Amor per mezo ’l cor m’avanci, quando uscirò del fuoco in ch’io sempr’ardo?37

O speranza infinita, o cor mio stanco, o perfido costume, che dinanzi pur mi figuri l’ombra del bel guardo, o venenoso stral che ’l lato manco per man d’Amor per mezo ’l cor m’avanzi, quando uscirem del foco ov’io tutt’ardo?

33

Su questi tre codici (i primi due quattrocenteschi, il terzo cinquecentesco), cfr. Pantani, Tradizione, cit. pp. 58-59, 68-69. 34 Come segnalato da G. Gorni, Atto di nascita d’un genere letterario: l’autografo dell’elegia «Mirzia», in «Studi di filologia italiana», XXX, 1972, pp. 264-65. La dipendenza dei quattro codici da un capostipite unico è confermata da taluni errori comuni (come 100, 1: «Dolce, suave et dolce mio sostegno»] fido lezione critica). 35 Fr3, c. 28r; Ls: c. 190r; Vc1, c. 80r. 1 s’] se Vc1; 2 nella] ne la Vc1; 4 che ] chi Fr3, che Vc1. Ancora non dispongo del microfilm del codice Ls. 36 Fn2, c. 93r; Fr3, c. 29v; Vc1, c. 83v. 9 chete] quete Vc1, valli] valle Fn2 Fr3, ualj Vc1; 10 me] 2 mi Fn , fugendo] fugiendo Fr3; 11 movo] move Vc1; 12 racoglie] raccoglie Vc1; 14] omitt. Fr3 Vc1. 37 Fr3, c. 27v; Ls, c. 189v; Vc1, c. 79r. 9 stanco] stancho Vc1; 10 troppo] tropo Vc1, dinanci] dinanzi Vc1; 11 guardo] sguardo Vc1; 12 ’l] al Vc1, lato manco] latto mancho Fr3, Vc1; 13 d’] di Vc1, ’l] el Vc1, m’avanci] mi avanzi Vc1; 14 fuoco] fuocho Fr3.

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Italo Pantani

Non è questa la sede per approfondite analisi variantistiche, che richiederebbero un quadro già completo degli interventi d’autore documentabili; ma alcuni primi rilievi emergono sin d’ora con tale evidenza da non potersi tacere. Il dato più evidente è rappresentato da un frequente percorso di allontanamento dal modello massimo (e – si direbbe – istintivamente seguito), Petrarca, nella ricerca di una propria identità stilistica, pur a quella fonte ispirata. Così, espressioni tratte di peso dai Fragmenta, come «alcun soccorso», sono leggermente variate in «qualche soccorso» (formula che ritornerà in 132, 19); altre che del modello avevano un troppo forte sapore, come «amorosa guerra», o termini ugualmente connotati come «ingordo», «dipingi», vengono sostituiti da formule meno ovvie: «stimoli d’amor» proviene addirittura dal Salutati (e già appariva in 9, 10), «perfido costume» è solo contiano, «figuri» è verbo tipicamente dantesco; inoltre, sintagmi che addirittura vantavano precedenti sia danteschi che petrarcheschi, come «bel paese», sono sostituiti da espressioni originali, come «dolci contrade»38. Nei nostri esempi non si assiste a spostamenti in direzione inversa, mentre sono frequenti le sostituzioni tra formule ugualmente autorizzate: «qual fera», oltre che guittoniana, era già locuzione petrarchesca, come già attestata nei Fragmenta era l’espressione «qual ombra è sì crudel»; il passaggio al non meno autorevole «sì duro cor» può esser stato dovuto alla volontà di attenuare la forte bipartizione del verso determinata dalla doppia interrogazione. Né valutazioni diverse sollecita la sostituzione di «fiori aventurosi» (in Petrarca si leggeva «aventuroso più d’altro terreno», e «o sacro, aventuroso et dolce loco») con «ben nati fioretti», così vicino alle «ben nate herbe» di Petrarca: anche se «fioretti» è termine dal sapore più dantesco (quattro occorrenze nella Commedia) che petrarchesco (una sola presenza nel canzoniere). Un piano, questo dei rapporti tra materiali delle due «corone», in cui comunque si assiste anche al percorso inverso, nel passaggio da «sempr’ardo» (sia dantesco che petrarchesco) a «tutt’ardo» (solo petrarchesco). Quanto all’inversione da «bei ochi» a «occhi bei», esso sembra ancora

38 «Alcun soccorso» si leggeva in Rvf 12, 14 e 21, 10, come pure nel Saviozzo (71, 91); «Amorosa guerra» è formula dagli ingredienti spiccatamente petrarcheschi, ma di suo non compare che in una delle rime Attribuite a Petrarca (151, 2: cfr. Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, raccolte a cura di A. Solerti, Firenze, Sansoni, 1909, p. 213); «ingordo» è aggettivo frequente in Petrarca (Rvf 240, 14; Tr. Cupid. III 107), e fu infatti acquisito da Giusto (149, 156): ma qui fu eliminato a vantaggio di un aggettivo («perfido») estraneo al lessico petrarchesco; per «stimoli d’amor» cfr. Salutati 5, 2, per «figuri», Par., XXV 32 (ma diverse altre sono le voci del verbo presenti in Dante, e non in Petrarca); «bel paese» era passato da Inferno XXXIII 80 a Rvf 61, 3, 146, 13 e 177, 12.

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Fasi e varianti redazionali della Bella mano: primi appunti

dipendere dalla volontà di sostituire ad un sintagma onnipresente una sua meno diffusa variante39. Per il momento, non è il caso di andare oltre: ci basta aver potuto constatare che l’edizione critica, come su altri aspetti della scrittura lirica contiana, permetterà di far luce anche sulla sua evoluzione.

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«Qual fera»: Guittone 57, 6; Rvf 56, 7; e cfr. «qual ombra è sì crudel», Rvf 56, 5. «Sì duro cor»: Rvf 265, 12. «Aventuroso più d’altro terreno»: Rvf 108, 1; «o sacro, aventuroso et dolce loco»: Rvf 243, 14. «Ben nati»: Purg. 5, 60; «ben nate herbe»: Rvf 162, 1. «Sempr’ardo»: Par. XXXVI 15; Rvf 127, 65. «Tutt’ardo»: Rvf 72, 66. «Occhi bei»: Rvf 154, 7.

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Roberto Gigliucci SCHEDA PREPARATORIA PER L’EDIZIONE E IL COMMENTO DELLE RIME (1544) DI LODOVICO DOMENICHI

La silloge di rime di Lodovico Domenichi del 1544, per Giolito, rappresenta, come è noto, il “biglietto da visita” dell’intellettuale piacentino, il suo esordio significativo nel mondo editoriale1. Nella raccolta, tripartita, trovia-

1

Rime di M. Lodovico Domenichi, In Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari, MDXLIIII. Nella prossima edizione delle rime domenichiane che sto curando per l’editore torinese Res non ho incluso le (numerosissime) estravaganti, tranne quelle presenti nei nove “canonici” libri di Rime diverse o Rime di diversi, serie inaugurata dal Domenichi stesso in veste di pionieristico curatore. Qualche prima notizia, invece, sul ms. Add. 165577 della British Library (Additional Mss., part. 4), segnalato dal Kristeller: ha un frontespizio decorato dove si legge Sonetti madrigali e canzoni di Messer Lodovico Domenichi scritte di sua propria mano l’anno 1535. I madrigali sono in realtà ballate, e sono chiamati madrigali anche nella titolazione (Madrigal. Primo ecc.) presente all’interno. Il colofon legge Il fine. A gli dì III di settembre del MDXXXV; poi tutto è cancellato (otto righe!); forse intuiamo Scritte per Gianlodovico Domenico; terzultima e penultima riga senz’altro Lodovico Domenichi scriveva. La autografia sembrerebbe confermarsi dopo confronto con una lettera certamente autografa al Varchi da Venezia del 13 giugno 1545 (Bibl. Naz. di Firenze, Fondo Palatino, Autografi palatini, Lett. Varchi I, 89). La raccolta di rime del ms. non dovrebbe essere opera di Domenichi; ragioni cronologiche sembrerebbero ostare all’attribuzione; si vedano ad es. i sonetti scritti nell’occasione della morte di Francesco d’Avalos, marito della Colonna: nel 1525 Domenichi era poco più che decenne. L’autore è di ambiente (e probabilmente di nascita) mantovano. Ulteriori approfondimenti di inchiesta, ovviamente, andranno effettuati. Per quanto riguarda una bibliografia orientativa sul Domenichi, rimando per praticità al mio saggio Il dialogo «Della fortuna» di Lodovico Domenichi e Ulrich von Hutten, in Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, a cura di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 263-282. Di recente aggiungerei almeno: Enrico Garavelli, Per Lodovico Domenichi. Notizie dagli archivi, «Bollettino storico piacentino», XCVI, 2001, 2, pp. 177208; Id., Una scheda iconografica per la polemica Doni-Domenichi, «Neuphilologische

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Roberto Gigliucci

mo ampia presenza di testi socio-encomiastici, di testi petrarchisti prevedibili (dalla descriptio più ortodossa al motivo della frale barca, a quello delle disaguaglianze d’amore, dell’anniversario dell’innamoramento ecc.), ma soprattutto rileviamo nutrite testimonianze di un petrarchismo bucolicamente integrato, di quel petrarchismo classicista che incontriamo in Brocardo, Bernardo Tasso, nel Varchi, nonché in un Alamanni, in un Molza, in un Caro, in un Raineri ecc. Subito all’inizio, all’altezza del quinto sonetto, troviamo un Thirsi pastore (di derivazione navageriana) e poi non mancheranno le ninfe, i tritoni, i fiumi personificati, le schermaglie amorose fra ninfe e pastori, il motivo pederotico, peraltro presente anche nel manipolo di rime di R2, ove FR (Ruscelli) espurgherà declinando al femminile gli aggettivi2. Si veda Mentre il mio caro pastorello, nella terza parte delle Rime. Altre situazioni leggiadramente pastorali: Mentre due tortorelle (42r), Delia invidia i due uccelli amanti, essendo lei lontana dal suo Dorilo; Porgi, Cinthia gentil (43v), dove si invita la crudele a rinunciare all’orgoglioso Aminta, di cui è infatuata, e dare invece gioia ai due innamorati Batto e Ligurino. Motivo degli amori sfasati, secondo il modulo Odio chi m’ama e seguo chi mi fugge (10v), peraltro di autorizzazione ovidiana («quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor»: Amores II, 20, 36). Presenti motivi fortemente legati a una tradizione lirica in commercio con gli elegiaci latini, come quello dell’Aventurosa notte (30r), poi applicato anche al Natale, con parodia seria (52r); quello dell’invettiva contro l’Aurora (Perché turbi il mio bene, invida Aurora, 19r), che Antonio Rossi ha dimostrato, nel capitolo dell’Aquilano, derivare dal solito Ovidio; quello del bacio pseudoplatonico, per cui cfr. Macrobio e Aulo Gellio ecc. Rilevante anche il topos della donna luminosa che sconfigge il sole che sorge (Fermato m’era a salutar l’aurora, 15r): l’eliofobia britoniana era anche nutrita dell’epigramma (omoerotico) di Lutazio Catulo riportato da Cicerone nel De natura deorum (I, 79), che sarà fruito e quasi volgarizzato dallo squisito Rainerio nel son. Era il mar cheto e l’alte selve e i prati 3. Le tracce di questa opzione di allargamento classicistico del canone petrarchesco sono molteplici nelle rime doMitteilungen», CIII, 2002, 2, pp. 133-145; Vanni Bramanti, Sull’ultimo decennio “fiorentino” di Lodovico Domenichi, «Schede umanistiche», n.s., 2001, 1, pp. 31-48. La raccolta di Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Giolito 1545) è stata edita modernamente presso l’editore Res (Torino 2001), a cura di Franco Tomasi e Paolo Zaja. Segnalo inoltre che per i tipi di Vecchiarelli (Manziana) uscirà prossimamente un’edizione della Nicomediana doviziosamente commentata da Enrico Garavelli. 2 Per lo scioglimento di tutte le sigle, cfr. qui oltre, Appendice. 3 In attesa della prossima ediz. delle rime raineriane a cura di Rossana Sodano per la Res, rimando a Lirica del Rinascimento, a cura di Roberto Gigliucci, Introduzione di Jacqueline Risset, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2000, pp. 680-81.

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Scheda preparatoria per l’edizione e il commento delle Rime (1544) di Lodovico Domenichi

menichiane, dove non mancano ad es. i ligustri (in dittologia con rose), emblema floreale classico (virgilianissimo), assente nei Fragmenta (ma cfr. comunque TT 101). Irrinunciabile la segnalazione della figurazione canicolare, così manierista nella trafila che almeno dall’epigramma navageriano conduce al volgarizzamento supremo del Tansillo (E freddo è il fonte) e di qui alle esperienze meridionali di Pignatelli fino al cruciale Marino del son. marittimo Or che l’aria e la terra arde e fiammeggia. Leggiamo il sonetto domenichiano interamente: Ne l’hora che le piagge irato fiede con maggior forza il padre di Phetonte et l’arso campicel, l’asciutto fonte ombra et humor per suo soccorso chiede, colei ch’al secol nostro ha fatto fede co chiari rai di sue bellezze conte quanto sia il bel de l’eterno orizonte bagnò ne l’onde l’uno et l’altro piede. Allhor le nimphe e ’l Dio del picciol fiume mossi del puro lor per troppo ardore dicean: questa è mortale o sacro nume? Se questa è Dea, come da foco tale si può schermir il ciel? perché non muore quanto alberga tra noi, s’ella è mortale?

La preziosa figurazione serba memoria di epifanie interrogative petrarchesche (che so, Rvf 159, 5-6: «Qual nimpha in fonti, in selve mai qual dea / chiome d’oro sì fino a l’aura sciolse?», d’altronde evocante una passo virgiliano, Aen. I, 328 sg.), ma sembra andare in direzioni più marcatamente classicheggianti. Si pensi anche a quel campicel che rimanda, sembra quasi esclusivamente in territorio lirico, all’Alamanni più georgico; oppure a quella dittologia ombra et humor che ritroviamo nella prima egloga del Baldi (v. 147), anche se, presumibilmente, non solo lì. E nelle rime domenichiane non mancano neppure i volgarizzamenti diretti di luoghi latini, come nel son. Felice chi ne le guerre amorose (69v), che traduce da presso Ov., Amores II, 11, 29 sgg. Nella dedica a Isabella Sforza, Lodovico chiama i suoi versi “Amori che nella mia prima giovanezza ho scritti”, rimandando alla linea ovidiano-tassiana. A quel Bernardo, cioè, che nella prefazione alla prima edizione dei suoi Amori si poneva sotto l’ombra del Brocardo, mentre nelle pagine introduttive alla seconda evocava i classici Virgilio, Orazio, Teocrito.

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Roberto Gigliucci

La poesia del Domenichi andrà inserita insomma in quella forma di petrarchismo che devia dal bembismo4 coltivando gli orti della classicità grecolatina, spigolando fra le antologie greche e gli elegiaci latini, sviluppando un habitus imitativo del resto già ben petrarchesco.

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Se pure relativamente: cfr. ad es. Guglielmo Gorni, «Né cal di ciò che m’arde». Riscritture da Orazio e Virgilio nell’ultimo Bembo, «Italique», I, 1998, pp. 25-34.

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Scheda preparatoria per l’edizione e il commento delle Rime (1544) di Lodovico Domenichi

Appendice

Rime = Rime di M. Lodovico Domenichi. In Vinegia appresso Gabriel Giolito De Ferrari MDXLIII. R1 = Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo. In Venetia. Appresso Gabriel Giolito Di Ferrarii. MDXLV. DI M. LODOVICO DOMENICHI. p. 357 Color, cui ciel poco benigno diede, son. p. 358 Mentre senza temere oltraggio, o scorno, son. Padre del ciel, se mai ti mosse a sdegno, son. p. 359 Correndo il giorno tuo verso l’occaso, son. Quell’empia, per cui Troia arse, & cadeo, son. p. 360 Da voi partendo Amor viver m’insegna, son. Lungo le rive tue canti ogni cigno, son.

R12 = Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo, con nuova additione ristampato. In Vinetia. Appresso Gabriel Giolito Di Ferrarii. MDXLVI. DI M. LODOVICO DOMENICHI. p. 367 Amore, affin che’l tuo tenace visco, son. Com’esser puo, che l’orgoglioso, & empio, son. p. 368 Signor, quando pensando al cor mi riede, son. D O L C E, il fuoco di quello amaro, & rio, son. p. 369 Crivello invitto a le percosse acerbe, son. Questa crudel d’Amor nemica, & mia, son. p. 370 Qual n’ha fatto il Signor de gli alti chiostri; son. A noi del vostro nido antichi figli, son. p. 371 Lauro gentil, le cui leggiadre frondi, son. (a Laura Terracina) Poi chel ciel, L A N C I L O T T O, a voi concesse, son.

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Roberto Gigliucci

p. 372 p. 373 p. 374

Color, cui ciel poco benigno diede, son. Mentre senza temere oltraggio, o scorno, son. Padre del ciel, se mai ti mosse a sdegno, son. Correndo il giorno tuo verso l’occaso, son. Quell’empia, per cui Troia arse, & cadeo, son. Da voi partendo Amor viver m’insegna, son. I L F I N E.

R13 = Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo con nuova additione ristampato. In Vinetia. Appresso Gabriel Giolito Di Ferrarii. MDXLIX. Rist. di R12. DI M. LODOVICO DOMENICHI. pp. 367-374: sequenza di R12, ovviam. descripta, con rarissime autonomie.

R2 = Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana. Libro secondo. In Vinetia. Appresso Gabriel Giolito Di Ferrarii. MDXLVII. DI M. LODOVICO DOMENICHI. c. 82v Poi che’l piu grave incendio, e’l piu vil nodo, son. c. 83r Poi che per mille ingegni & argomenti, son. Se la pena al mio cor non fu compagna, son. c. 83v Ben havete à custodia il van thesoro, son. A le vostre bellezze alte & divine, son. c. 84r De l’estremo dolor, ch’Adige ingombra, son. Lasso me, perch’io veggia il mondo tutto, son. c. 84v Con voi, giovani illustri, eternamente, son. A te volgo il mio dir famoso Thebro, son. c. 85r I di miei piu felici assai, che molti, son. Idol mio, s’a l’angeliche parole, son. c. 85v Hor che la sua mercé gratia celeste, son. Lungo le vaghe, & dilettose sponde, son. c. 86r Io, che degno d’invidia à voi dimostro, son. Vendicatrice de gli oltraggi miei, son. c. 86v Questa mia chiara, & gratiosa luce, son. Licida, col bel, lucido, & sottile, son.

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Scheda preparatoria per l’edizione e il commento delle Rime (1544) di Lodovico Domenichi

c. 87r c. 87v c. 88r c. 88v c. 89r

Io, che solco d’amor le torbide onde, son. Mentre il giardin del mio sterile ingegno, son. Nuovo fuoco non è quel che risplende, son. O degno figlio à la gran madre Flora, son. A te malvagio & importuno augello, son. COSMO amato da gli huomini, & da Dio, son. Donna gentil, perche si grave pena, son. DOLCE, voi d’Adria in grembo & de gli amici, son. Se’l vostro ingegno à vera gloria intende, son.

R6 = Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, nuovamente raccolte, et mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli. Al molto reverendo, et honoratiss. Monsignor Girolamo Artusio. In Vinegia al segno del Pozzo. MDLIII. LODOVICO DOMENICHI. c. 154v Di fuora, huomini, & arme, e fosse, e mura, son. c. 155r Quando non fosse ogn’hor meco presente, son. Itene pure in pace, ò cari amici, son.

R7 = Rime di diversi signori napolitani, e d’altri. Nuovamente raccolte et impresse. Libro settimo. In Vinegia appresso Gabriel Giolito De’ Ferrari, e fratelli. MDLVI. DI M. LODOVICO DOMENICHI

p. 150 p. 151 p. 152

Io, che gia tanto, ancor che indegno, dissi, son. CHIARA Donna & gentil, ch’al picciol Serchio, son. [Quant’anni oscura e cieca in terra i vissi, son., risposta di Madonna Chiara Matraini] [Ben può superbo andar mio picciol Serchio, son. risposta di Madonna Chiara Matraini] (cfr. C. Matraini, Rime e lettere, a cura di Giovanna Rabitti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1989, pp. 109-111).

RR = Rime di diversi, et eccellenti autori. Raccolte da i libri da noi altre volte impressi. Tra le quali, se ne leggono molte non più vedute, Di nuovo ricorrette e

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Roberto Gigliucci

ristampate. In Vinegia appresso Gabriel Giolito De’ Ferrari, et fratelli. MDLVI. DI M. LODOVICO DOMENICHI. pp. 328-341: sequenza di R2 con varianti

FR = I fiori delle rime de’ poeti illustri, nuovamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli [...]. In Venetia, Per Giovanbattista et Melchior Sessa fratelli. 1558 LODOVICO DOMENICHI p. 441 Poi che’l più grave incendio, e’l più vil nodo, son. p. 442 Poi che per mille ingegni, et argomenti, son. Or, che la sua mercé, gratia celeste, son. p. 443 Ben’havete in custodia il van tesoro, son. A le vostre bellezze alte, e divine, son. p. 444 I dì miei più felici assai, che molti, son. Questa mia chiara, e gratiosa luce, son. p. 445 Licida, col bel, lucido, e sottile, son. Io, che solco d’Amor le torbid’onde, son. p. 446 Mentre il giardin del mio sterile ingegno, son. A te malvagio, et importuno augello, son. p. 447 Com’esser può, che l’orgoglioso,& empio, son. Crivello invitto à le percosse acerbe, son. p. 448 Quell’empia, per cui Troia arse, e cadeo, son. Da voi partendo, Amor viver m’insegna, son. p. 449 Qual n’ha fatti il Signor de gli alti chiostri, son. A noi del vostro nido antichi figli, son. p. 450 Lauro gentil, le cui pregiate frondi, son. R9 = Rime di diversi autori eccellentiss. Libro nono. In Cremona per Vincenzo Conti MDLX. DI M. LODOVICO DOMENICHI. p. 165 [Damon, ch’a l’ombra di pregiato Alloro, proposta di M. Lucia Bertana] p. 166 Perche non è il mio stil chiaro & canoro, son. responsivo

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Scheda preparatoria per l’edizione e il commento delle Rime (1544) di Lodovico Domenichi

RS = Il primo volume delle rime scelte da diversi autori, di nuovo corrette, et ristampate. In Vinegia appresso Gabriel Giolito De’ Ferrari MDLXV DI M. LODOVICO DOMENICHI. pp. 332-344: sequenza di R2 descripta da RR, con rare autonomie.

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INDICE DEI NOMI

Abati, A., 292 e n., 293 Achille, 414 Achillini, C., 79, 93, 124, 151n., 153n., 154, 301, 302n., 312n. Adimari, A., 168n. Adone, 11, 12, 51, 165n., 197, 257n., 272 e n., 273, 276n. Adriana, 216 Adriano VI, 326 Afribo, A., XI Agosti, B., 241n. Agostino, San, 232, 282n. Aiazzi, G., 98n. Aichinger, G., 334n. Alamanni, L., X, 14, 17, 21, 24, 29, 62n., 64n., 324, 438, 439 Alarcos, E., 278n. Albani, I., 264 Alberti, F., 22, 25, 29, Alberti, L. B., 368 e n., 378, 379, 383 Albonico, S., VII, XI, 255n., 330n. Alciato, A., 26, 29 Alcide, 46 Alcina, 66n., 68 Aldobrandini, C., 264 Alessandro Magno, 46, 321, 322, 338 e n., 340, 341, 342 e n. Alessandro Severo, 340 Alessandro VII, 169n., 189 e n., 217n., 218, 228n. Alfeo, 147 Alfonso d’Aragona, 426, 427, 428 Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara, 409n., 415

Alfonso III d’Este, 154 e n., 156n. Alighieri, D., XVI, 17, 18, 20, 21, 23, 24, 30, 43, 60n., 61 e n., 63, 64, 67, 154n., 173, 191, 238, 241, 243, 245n., 246, 249 e n., 257, 260, 262, 263, 270, 297n., 299, 349, 375, 376, 384, 388, 389, 391, 400n., 401n., 405, 431 e n., 434n. Aloisio, 379 Alonso, D., 80n., 131n., 278n., 301n., 309n. Alpini, P., 222n. Altieri Biagi, M. L., 193n. Altilio, G., 414 Alunno, F., 12 Alvise, G., 401 Alzato, G. B., 268n. Amadigi, 24, 32 Amalteo, G. B., 26, 29 Amanio, G. P., 27, 29 Amaseo, R. Q., 325 Ambrogio, San, 236, 254 Aminta, 14, 24, 32, 60n., 95, 96, 207n., 219, 276n., 337, 438 Ammiano Marcellino, 278n. Ammirato, S., 17, 26, 29, 203 Ammone (oracolo di), 341n. Amomo, 26, 29 Anceschi, G., 379n. Anderson, H. C., 277 Andreini, F., 264 Andreini, G. B., 267, 270 e n. Andreini, I., 257, 264 e n., 265, 266, 278n. Andrews, R., 264n. Andrioli, P., 270n. Androfilo, 56

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Indice dei nomi Anerio, G. F., 335n. Anfione, 302n. Angelica, 65 e n., 66 Angelo di Costanzo, 26, 30, 80, 290, 306n. Angiolieri, C., 60n. Anguillara, G. A., dell’, 14, 15, 19, 24, 29 Anselmi, A., 27, 29, 66n., 240 e n. Antigone, 276n Antonelli, G., 421n. Antoniano, A., 253n. Antonio da Ferrara, 379 Antonio de Guevara, 209 Antonio di Meglio, 376 Antonioni, M., 276n. Apelle, 92 Apollo, 50n., 86n., 103, 188, 399 Appiani, C. I., 87 Aprosio, A., 281n. Aquilano, S., IX, 202, 211 e n., 361, 369n., 378, 438 Arber, E., 207n. Arbizzoni, G., 278n. Arcesilao, 171 Arena G. T., d’, 25, 29 Aretino, P., 38 e n., 42n., 61n., 62n., 260 e n. Aretusa, 147, 214, 375 Argo, 302n. Ariani, M., 33n., 92n. Arianna, 276n. Aricò, D., 288n. Ariosto, L., 14, 15, 17, 18, 20, 21, 24, 29, 51n., 52n., 60n., 61, 62n., 63, 64, 65 e n., 66 e n., 67 e n., 68 e n., 70, 190, 191, 272, 276n. Aristotele, 64n., 91, 170n., 195, 196, 247n., 255, 257, 258n. Armenini, G., E., 26, 29 Armidoro, 272 e n. Arminia, 271 e n. Arnaldi, G., 391n. Arnigo, B., 25, 29 Arnoni, G., 335n. Arriano, 275n.

Artale, G., 284 Artemidoro, 17 Artusio, G., 443 Ascanio Pio di Savoia, 154n. Asdrubale, 337 Asiani, G., 26, 29 Asor Rosa, A., 11, 138n., 142n., 394n. Asy, C. M., 207n. Atanagi, M. D., 24, 31, 238n., 335 Atlante, 302n. Attendolo, G. B., 296 Atteone, 109 Attico, 247n. Augusto, 46, 194 Aulo Gellio, 438 Auric, G., 276n. Ausonio, 61 Auzzas, G., X, 329 e n., Azia, G. B. d’, 26, 29 Azzolini, D., 184n. Azzolini, L., 183, 184n., 185, 186 e n., 187 e n., 190 e n., 191n., 311n. Bacone, F., 197 e n. Badoer, G., 405 Baffetti, G., 234n. Baglioni, P., 190n. Bakelants, L., 214n. Baldacci, L., XIII, 34n., 201, 204, 320, 321 Baldassarri, G., 327, 329 e n., 330n. Baldi, B., 255, 261 e n., 262, 263 e n., 439 Baldini, A. M., 255n. Baldini, B., 252, 255 e n. Balducci, F., 284, 285 Balduino, A., 330n., 331 e n., 391 e n., 392n., 407n., 428n. Ballaster, M. 279n. Balsamo, J., 330n. Bandello, M., V, 62n., Bandini, F., 34n. Banto, A. M., XVI Barbaro, D., 27, 29 Bàrberi Squarotti, G., 278n., 359n.

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Indice dei nomi Barberini, F., 138n., 154, 184, 197 Barberini, M., 137, 138n., 167 e n., 168n., 169, 170 e n., 171 e n., 172 e n., 187 e n., 188 e n., 189, 191, 197 Barberini, T., 188n. Barbieri, G. M., 237 e n., 239n. Barbieri, L., 237 Barera, A., 239n. Baretti, G., 297n. Barezzi, B., 20 Bargagli, G., 322 Barignano, P., 328 e n. Barilli, R., 259n. Baron, H., 233n. Baroni, L., 146, 148 Barrie, J. M., 277 Barthaei, G., 335n. Bartoli, D., 62n., Bartoli, G., 81n., 82 e n., 91 e n., 261, 269n. Bartoli, P., 256n. Bartolomeo, B., X, 328 e n., 330n. Barton, A., T., 212n. Basegio, L., 79n., 151n. Basile, B., 134n., 336n., 337n., 338n., 339n., 340n., 341n., 342n., 343n., 344n. Basile, T., V, 41n., 124n., 211n. Basinio da Parma, 426 e n. Bassano, G., 334n., 336 Bassi, D., 228n. Basso, A., 284 Batillo, 276n. Battaglia, L., 58n. Battaglia, S., 35n., 61n., 359n. Battiferri Ammannati, L., IX Battista, G., 290, 301n. Battistini, A., 86n., 95, 110, 165n., 142 e n., 196n., 234n. Batto, 438 Baudo, P., 316 Beatrice d’Este, 208n. Beatrice, 47, 395, 431 Beaziano, A., 26, 29 Becano, G., 220

Beccadelli, L., 238 Beccaria, G. L., 371 Beccuti, F., detto il Coppetta, 26, 30, 185, 279n. Bedoni, S., 233n. Béguin, A., 279n. Bellarmino, R., 182 e n. Bellay, J., du, 214 Bellezza, P., 250n. Belli, F., 278n. Belli, G., 334n., 335n. Belli, V., 26, 29 Bellini, B., 60n., 62n., Bellini, E., 92n., 167n., 168n., 171n., 173n., 179n., 180n., 185n., 186n., 190n., 191n., 192n., 197n.268n., 289n., 307n., 311n. Belloni, G., XIII, 245n., 246n., 328 Belprato, G. V., 27, 29 Bembo, P., II, XII, XIII, XX, XXI, 21, 22, 24, 29, 43, 44n., 45n., 46n., 58n., 59, 60 e n., 61, 62n., 63, 64, 66 e n., 68n., 70, 84, 125n., 133, 191, 192 e n., 193, 194 e n., 195 e n., 196, 203n., 215, 237, 239 e n., 240 e n., 244n., 245n., 246n., 248 e n., 258n., 259 e n., 278n., 299, 316, 317, 323, 324, 325, 326, 369, 405 e n. Benadduci, G., 425n., 426n. Benavente, J., 80n. Bendidio, L., 94n. Benedetto, San, 282n. Beniscelli, A., 136n., 168n. Benivieni, G., 27, 29 Bentivogli, B., VI, 405n. Bentivoglio, E., 26, 29 Benvenuti Tissoni, A., 369n., 388 Bergman, I., 276n. Berio, L. 283n. Berlioz, H., 277 Berners, G. T., 276n. Berni, F, 38n., 60n. Bernini, G. L., 83, 168n., 169n., 184n., 188 Berra, C., XII Bertana, M. L., 444

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Indice dei nomi Berto, G., 276n. Bertolini, L., V Besalio, C., 26, 29 Besomi, O., V, VI, 11, 42n., 84 e n., 126n., 129n., 130n., 152n., 257n., 261n., 297n., 310n., 311n., 312n. Bessarione, 247n. Bettarini., R., 263n. Bettoni, A., 330n. Biancardi, G., 418n., 420n., 428n. Bianchi, F., 168n. Bianchi, S., IX, XII Bianchini, L., 56 Bianciardi, L. 276n. Bianco, M., X, XIII, 327, 328n., 330n. Bibbiena, P. da, 368n., 378 Bidelli, G. B., 80n., 264n., 270n., 272 e n. Biffi, G. A., 265, 268 Bigi, E., 202, 258n. Bigi, S., VI, 330n. Billanovich., G., 172n., 228n. Bini, G. F., 238 e n. Bisaccioni, M., 287n. Blanc, P., 242n. Bo, C. XIII Boccaccio, G., 15, 26, 29, 38n., 51, 60 e n., 61, 63, 64 e n., 154n., 192, 193, 196, 209, 228n., 243, 245, 246 e n., 249 e n., 377, 383, 388, 401 e n., 431n. Boezio, S., 16, 17, 19, 24, 32, 374, 388 Bogdanovich, P. 277n. Boggini, D., 98n., 100n., 103n., 106n., 107n. Boiardo, M. M., 11, 60n., 67n., 345n., 346 e n., 347 e n., 348, 350 e n., 349, 351, 352, 353, 355, 356, 357, 358, 374, 378 e n., 379 e n., 382 e n., 383, 384, 385, 386, 387, 388, 403n. Bolland, A., 189n. Bolzeta, F., 88 e n. Bolzoni, L., 16, 172n. Bonaccorsi, T., 167n. Bonagiunta, 102, 263 Bonarelli, P., 276n., 278n.

Bonfadio, G., 26, 29 Bongrani, P., 403n. Bonifacio, B., 20 Bonifacio, D., IX Bonifacio, G., 15, 16 e n., 21 Bonifacio, I., 253 Bonora, E., 200 en., 203n. Bordogna, S., 69n., Bordone, G., 264n. Borgese, G. A., 282n. Borgia, C., 361n. Borgia, G., 415 Borraccini, M., 185n. Borri, C., 272 e n. Borromeo, C., San, 234, 253, 254, 261, 269 e n., 272n. Borromeo, F., 228 e n., 229 e n., 230 e n., 231 e n., 232 e n., 233 e n., 234 e n.., 235 e n., 236, 237 e n., 238 e n., 239, 240 e n., 241 e n., 242 e n., 243, 244n., 245 e n., 246, 247, 248 e n., 249 e n., 250 e n., 251 e n., 252 e n., 255n., 268 e n., 269, 270, 273n. Borsellino, N., 139n. Borsetto, L., 192n., 266 e n., 329n. Borsieri, G., 271, 272n. Borso d’Este, 356 Bortolotti, T., 154 Borzelli, A., 153n. Bozzetti, C., VII, 410n., 333n. Bozzola, S., 278n. Bracciolini, P., 275n. Bradamante, 65 e n. Brahms, J., 276n. Bramanti, V., 438n. Branca, V., 388, 389 Brant, S., 201 e n.. Brevio, G., 333n. Brignole Sale, A. G., 88n., 281n., 293 Brittonio, G., 27, 29, 129 e n., Brocardo, A., 27, 29, 245n., 324, 438, 439 Brogiotti, A., 188n. Brovia, R., 242n. Bruckner, A., 276n.

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Indice dei nomi Brueghel, J., 233 e n. Brugnolo, F., 394n. Brunelli, G., 174n. Brunello, G., 34n. Bruni, A., 126n., 151n., 155n., 284, 303 e n., 304 Bruni, M., 19 Bruno, G., 61n. Bucchi, 277n. Bufalino, G., 282n. Bullock, A., IX Bultelio, G., 214 e n., 217n. Buona, G., 27, 29 Buonaccorso da Montemagno il Giovane, 376, 377, 379, 383, 384, 385, 388 Buonarroti, M., 27, 29, 60n., Buragna, C., 290 Burchiello, Domenico di Giovanni, detto il, 60n., 376 Burckhardt, J., 219 e n. Burri C., 273n. Busolini, D., 169n. Buzzi, F., 231n., 237n., 242n., 244n., 250n. Caccianemici, F. M., detto il Tenebroso, 85, 86, 87 e n. Caino, 178 Calcaterra, C., 183n. Calderón de la Barca, 282n. Calisto, 49 Calitti, F., I Calliope, 402, 426 e n. Calmo, A. 328 Caloiro, T., 192 Calore, M., 86n. Camerino, G. A., 270n. Camilleri, A., 282n. Camilli, C., 18, 25, 29 Camillo, G., 16 e n., 17, 25, 30, 317, 343 Campana, A., 426n. Campanella, T., 170n., 172n. Campeggi, R., 85, 171n., 268, 311n. Campion, T., 214, 215n.

Campo, P., da, 407 e n. Camporesi, P., 190n. Caneto, G., di, 409 e n., 410 Cannata Salamone, N., IV, 405 e n. Cantimori, D., 322 Cantini, A., 175n. Capece, P., 203n. Capilupi, L., 27, 30 Caporali, C., 27, 30 Capovilla, G., 328n Cappello, B., X, 25, 30 Cappello, G., 154n. Capponi, G., 311n. Capucci, M., 278n. Caracciolo, G. C., 26, 30, 379, 410, 411 e n., 412 Caracciolo, J. F., 410 Carafa, F., X, 25, 30 Carafa, L., 342 Carandini, S., 271n. Carbone, G., 411 Cardanetto, O., 26, 30 Cardillo, C., 335n. Cariteo, Benedetto Gareth, detto il, 202, 379, 409 e n., 410 e n., 411 e n., 412 e n., 413, 414, 415, 416 Carli, F., 153n. Carlo Emanuele I, 143 Carlo V, 55, 68, 194, 323, 326 Carminati, C., 38n., 80n., 129n., 261n. Caro, A., 19, 25, 30, 62n., 63n., 64n., 184, 275n., 333n., 438 Carpani, R., 270 e n. Carracci, A., 85, 91, 162 Carrai, S., I, III, IX, XI, XI, XV, 330n., 347n., 394n., 406n., 417n. Carrara, E., 242n. Carstens, H., 239n. Cartari, V., 20 Caruso, C., 297n. Cascetta, A., 270n. Casella, P., 16 e n. Casini, T., 263n.

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Indice dei nomi Casoni, G., 22, 26, 30 Cassiani, G., 124n., 125, 140n., 153n., Cassiano dal Pozzo, 197 e n. Castagna, L., 168n., Castagnetti, M., 126n., 139n., 140n., 142 e n., 170n. Castello, B., 89, 91 e n., 92 Castelvetri, A., 125n. Castelvetro, G., 237n. Castelvetro, L., 257, 258 e n., 259, 260, 262, 296 Castiglione, B., 26, 30, 193, 217n., 325 Castiglione, V., 273 Castiglioni, N., 277n. Castoldo, S., 330n. Cataneo, M., 344 Catucci, M., 278n. Catullo, 87n., 176, 214, 295n. Cavaccio, G., 335n. Cavalcabò, D., 26, 30 Cavalcanti, G., 60n., 263 Cawood, G., 207n. Cebà, A., 88 e n., 89, 90 Cebete Tebano, 17, 175 e n. Cecchellero, P., 407n. Cecilio Stazio, 197 Cecioni, C. G., 207n., 209n. Celiano, L., 91 e n. Celinda, 147 Cellini, B., IX, 63n. Cellini, C., 60n. Cellini, M., 60n. Celsi, I. A., 182n. Celso, San, 254 Cencio, G., 27, 30 Cenne dalla Chitarra, 60n. Centurione Salvago, M., 263n. Centurione, D. L., 80n., 87n. Centurione, G. G., 80n. Centurioni, L., 264n. Cerbero, 35, 41 Cerboni, I., 265 Cerinto, 214

Cerrón Puga, M. L., 330n. Cerruti, M., 264n., 278n., 289n., 312n. Ceruti, A., 228n. Cervantes, M., 80n. Cesaretti, F., 193n. Cesarina, G., 27, 30 Cesarini, V., 136, 138, 142, 143 e n., 167 e n., 168 e n., 169 e n., 170 e n., 171, 172, 176, 218n., 294 Ceserani, R., 231n. Chamaterò, I., 334n. Chamisso, A., von, 282 Champion, H., 228n. Charis Marconi, A., 411n. Chartier, R., 229 e n. Chaucer, G., 279n. Chiabrera, G., 22, 27, 30, 73, 74, 75, 73, 76, 77, 78, 79, 80, 81n., 135, 136 e n., 139 e n., 141, 143, 168 e n., 184n., 263n., 270, 291, 294, 295 e n. Chigi, F., 189 e n., 190 e n., 217n. Chiodo, C., 190n. Chiodo, D., IX, XI, 60n., 124n., 151n., 153 e n., 156n., 261n. Churchill, W., 319 Ciai, G., 376 Ciaikovski, P. I., 276n. Ciampoli, G., 136, 141 e n., 142, 168 e n., 169, 170 e n., 172 e n., 173 e n., 179, 182, 183, 191, 195, 196 e n., 268 e n., 269, 294, 295 e n., 296 Cian, V., 245n. Cicerone, 17, 194, 195n., 236, 326, 438 Cieco, F., da Ferrara, 378 Cimilotti, E. (Estuante Accademico Inquieto), 271 e n. Cimosco, 68 Cino da Pistoia, 60n., 262, 263, 392, 431n. Cinzia, 127, 134, 144, 145, 147, 212n., 293, 438 Ciotti, G. B., 23, 80n., 125n., 156n., 311n. Cipride, 210 e n. Cisano, G., 11, 12, 13 e n., 14, 15, 16 e n., 17, 18, 19, 20, 23

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Indice dei nomi Cistellini, A., 234n. Citarea, 375, 376 Citolini, A., 42n., Cittadini, C., 27, 30 Claretti, O., 124n. Clarignano, A., 56, 57n., Claudiano, 190, 374, 388 Claudio Nerone, 337, 338 Clelia, 127 Clemente VII, 326 Clemente VIII, 234n., 255 e n. Clori, 87, 94 Cloto, 265 Coccio, F., 26, 30 Cochi, B., 154n. Cocito, L., 418n. Cola d’Alagno, 409n. Colelli, P., 16 Collatino, 276n. Colombo, A., 152n., 302 Colombo, C., 84n. Colonna, A., 188n., 321 Colonna, Gia., 188n. Colonna, Gio., 188n. Colonna, Gir., 172 e n., 178, 196n., 330n. Colonna, M., 343 Colonna, V., X, 11, 15, 17, 25, 30, 60n., 188n., 266, 267, 437n. Comanini, D., 27, 30, 392n. Comboni, A., 330n., 379n., 405n Como, G. G., 272n. Conrieri, D., 289n. Consalvo di Cardora, 411n. Consolo, V., 282n. Contarini, F., 20 Contarino, R., 169n. Conte, G, B., 383n. Conti, V., 444 Contile, L., 26, 30 Contini, G., 78, 349, 350 e n., 388, 389 Cora, 218n. Corbelletti, F., 172n., 179n., 180n. Corbinelli, I., de, 237 e n., 421 e n., 423

Corfini, L., 25, 30 Coridone, 22n. Corinto, 271 Cornazano, A., 379n., 380n., 392n., 405 e n. Corradini, M., 88n, 272n. Corsaro, A., 190n., 191n., 311 Corso, A., 25, 30 Corso, R., 15, 17, 25, 30 Corte, L., 207n. Cortellessa, A., I Corti, M., 81 Cortini, M. A., 287n. Cosmico, N. L., 328 e n., 405 Cosso, 337 Costantino, 342n. Costanzo, M., 138n., 184 e n., 167n., 170n., 187 e n. Cotta, G., 325 Cresci, P., 27, 30 Crescimbeni, G., M., 79n., 151 e n. Crespi, A., M., detto il Busto, 241 Cripper, E., 228n. Cristiani, L., 230 Cristina di Lorena, 106 e n., 110 Cristina di Svezia, 184n. Cristo, 18, 186n., 247n., 254, 269, 270n., 282n., 344, 412n. Croce, B., 257n., 302n. Croce, F., 126 e n., 142n., 151n., 171n., 217n. Crome, 94 Cromio, 171 Cupido, 258, 371, 393 Curzio, L., 208n. D’Ancona, A., 368n. D’Andrea, G., 230, 232 D’Onofrio, C., 170n. Da Rif, B. M., 329n. Dafne, 103, 188 Dal Verme, B., 167n., 168n. Dalla Casa, G., 335n. Damasceni, A. 340

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Indice dei nomi Daniele, A., X, 329, Daniello, B., 15, 93 e n., 308, 309 Dante da Maiano, 23, 27, 30, 262, 263 e n. Danzi, M., V, 278n., 185n., 379n., 394n. Davide, 221 e en., 403, 404 De Angelis, F., 264n. De Caprio, V., 167n., 188n., 191n., 330n. De Caro, G., 184n. De Filippo, E., 276n. De Iennaro, P. J., 411 e n. De Lorris, G., 96n. De Luca, A., 189n. De Maldé, V., 125n. De Marini, G. A., 281n. De Meun, J., 96n. De Molen, R. L., 234n. De Monte, F., 334 e n., 335 e n. De Nolhac, P., 228n. De Rentiis, D., 247n. De Robertis, D., 389, 432n. De Roberto, F., 276n. De Sanctis, F., XVI, 323 De Silva, M., 193 De Vecchi, P., 233n. Debenedetti, S., 238n., 239n. Dei, A., 37n. Del Bravo, C., 168n. Del Lungo, I., 170n., 195n. Del Mel, R., 334n., 335n. Delcorno, C., 153n. Delia, 206 e n. Della Casa, G., III, IX, 25, 30, 43n., 60n., 132, 135, 142, 184, 190, 253, 278n., 293, 393n. Della Cella, S., 79 e n., 80, 81n., 82 e n., 83 e n., 84, 85, 86 e n., 87 e n., 88 e n., 91, 93, 94, 95, 257, 263 e n., 264n., 278n., 312n. Della Vedova, M., 407 e n. Delvaux, P., 276n. Demessieux, J., 277n. Descartes, R., 228n. Desideria, 207 Desiderio di Montecassino, 282n.

Desportes, A. F., 203 Deuchino, E., 13, 20, 132n., 261n., 272n., 284n. Di Beneddetto, V., XXI Di Benedetto, F., 258n. Di Claudio, G., 278n. Diana, 60n., 109, 375 Didone, 174 Dilemmi, G., XII Dimmersdale, 276n. Diogene, 278n. Dionisotti, C., 66n., 69n., 192n., 275n., 361 e n., 394n., 405n. Diversin, B., 193n. Doglio, M. L., 123n. Dolce, L. M., 24, 26, 30, 38n., 334 Domenichi, L., IX, 25, 30, 325, 329, 437 e n., 438n., 439, 440, 441, 442, 443, 444, 445 Domenichino, Domenico Zampieri, detto il, 162 Donadi, F., 258n. Donati, A., 184n., 394n. Donato, B., 336 Donen, S., 276n. Doni, A. F., 38n., 248, 249 e n.437n. Donnelly, J. P., 234n. Doralice, 67 Doria, G. A., 82, 83 Doria, G., 83n. Dorilo, 438 Dotti, B., 278n. Dotti, U., 233n. Dousa, J., 214 Dracone, 344 Drayton, M., 206 Du Bartas, G. S., 23, 27, 30 Dukelsky, V., 276n. Dumas, A., 276n. Durante, E., 91n. Durante, M., 278n. Duranti, A., 33n. Duso, E. M., 328 e n., 391, 392n., 393n., 395n., 407n.

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Indice dei nomi Eco, 215n., 266n., 276n. Egidio, C., 26, 30 Eliot, T. S., 220n. Ellinger, G., 208n. Ellis, R. L., 197n. Endimione, 409 e n., 410n., 411 e n., 412 e n., 413, 415, 416 Enrico IV, 110 Ephorn, N., 277n. Epicuro, M., 26, 30 Erasmo da Rotterdam, 229 Erasmo di Valvasone, 19, 25, 30 Ercole d’Este, 355 Ercole, 25, 31, 61, 389 Eridano, 216 Erinnione, 174 Erizzo, S., 287n. Ermafrodito, 160 Ermenegildo, 142 Erode, 47n., Erodoto, 341n. Erosmando, 278n. Erspamer, F., XI, 34n., 57n., 156n. Esiodo, 83 Ettore, 46, 275n. Eugenio IV, 424, 425, 426 Euridice, 108, 110 Eurilla, 125 Ezequiel de Olaso, 281n. Fabbri, L., 74 Fabri, G. F., 27, 30 Facciotti, G., 151, 192n. Fachenetti, L., 311n. Fagiolo, M., 168n. Farnese, A., 341n. Farnese, M., 148 Farnese, P. L. 321, 322 Farnetti, M., 279n. Fausto da Longiano, 200 Favaro, A., 170n., 195n. Favini, F., 196n. Favoriti, A., 168n., 169n., 217n.

Febo, 33, 36, 40, 41n., 65, 68, 102n., 284, 375, 383, 404 Febosilla, 384 Fedeli, P., 87 Federico d’Aragona, 414 Fedi, R., I, IX, XI, XXI Fedra, 276n. Feliciano, F., 391n., 393 e n., 407 e n., 423n. Felis, S., 335n. Fenaroli, G. 331n., 333n. Fenaruolo, G., 27, 30, 281n. Fenzi, E., 411 e n. Feo, M., II Fera, V., 258n. Ferdinando I, 228n. Fernández, G., de Córdoba, 253 Ferrandino, 409, 410 e n., 414, 415 Ferrante d’Avalois F., Marchese di Pescara, X Ferrante I d’Aragona, 410 e n., 415, 427n. Ferrante II d’Aragona, 410 Ferrari, C., 25, 30 Ferrari, O., 27, 30 Ferrazzi, G. J., 90n. Ferretti, G., 26, 30 Ferri, F., 426n. Ferrini, B., 27, 30 Ferro, R., 233n., 242n., 244n., 268n., 269n. Ferroni, C., 155n. Ferroni, G., XIII, XIV, 131n., 139 e n. Fetonte, 148, 439 Fiamma, 269 Fiammetta (Madonna), 26, 29, 60n. Fiaschini, F., 264n., 270n. Ficara, G., 281n. Fidamante, 25, 31 Fidenzio, 60n. Fidia, 49, 66 Filippo Abbate di S. Lorenzo, 426n. Filippo II, 81, 82 e n., 83 Filippo III, 82, 154, 271 Filli, 96, 107n. Fillide, 94 Fiorente, A., 217n.

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Indice dei nomi Fioretti, B., 296 Flaminio de’ Nobili, 217n., 237n., 325 Flaminio, M., 206n. Flora, 375 Floriani, P., XII, 381n. Floridalba, 278n. Floridante, 24, 32 Floridoro, 276 Floro, 278n. Floruzza, 406n. Folena, G., 183n., 283n. Foley, J. 277n. Folgore da S. Giminiano, 60n. Fontana, B., 190n. Fontanelli, A., 335n. Fontaneto, G., da. 387 Fonte, N., 276 Fonzio, B., 378 Forcadel, E., 214 Fornari, S., 15 Forni, G., V, IX, X Forster, L., 96n. Forti, F., 297n., 298 e n., 307n., 310 e n. Foscolo, U., XV, XVI, XVII, XXI, 94, Fracassetti, G., 248n. Fracastoro, G., 27, 30, 242, 325 Frajese, V., 255n. Francavilla Spinola, L., 88n. Francesca, 376 Franceschi, L., 102 e n. Francesco d’Adda, 272 Francesco d’Assisi, 60n. Francesco d’Avalos, 437n. Francesco d’Este, 148 Francesco Maria II della Rovere, 261 Franchelli, G. B., 177n. Franchi, S., 421n. Franco, G., 91 Franco, N., 38n., 260 e n. Franco, V., IX Frare, P., 172n., 173n. Frasso, G., 240 e n., 252n. Fregoso, F., 191

Frescobaldi, D., 431n. Friedrich, H., XVI, 216n. Froissart, J., 209 Frugoni, F. F., 278n., 281n., 292 e n. Fubini, M., 280n., 297n., 307n. Fumaroli, M., 137 e n., 138n., 170n., 172n. Furnia, 217n. Fürstenberg, F., von, 218n. Gabriele, T., 244n., 245n. Galbiati, E., 251n. Galeazzo di Tarsia, III, 11, 321 Galeota, F., 27, 30 Galilei, G., 62n., 168n., 170n., 193, 195 e n., 196 e n., 268n. Galli, A., 418 e n., 419, 422, 424 e n., 425, 426 e n., 427 e n., 429, 431 Galli, P. V., 389 Gambara, V., IX, 27, 30, 266, 267 Gandolfo, C., 27, 30 Ganduzzi, G. B., 213 e n. Garavelli, E., 437n., 438n. Gardane, A., 336 Gardini, N., 192n. Gareth, B., 412n. Gariboldi, D., 232n. Gaschino, C., 168n. Gatti, A., 19, 20, 25, 31 Gatti, G., 33n., 41n., 43n., 46n., 48n., 49n., 57n., 64n., Gatto, V. IX Gavazzeni, F., V, XII, 100n. Gaza, T., 247n. Gazzotti, M., 421n. Gemma, 103n. Gentili, A., 280n. Gentili, P., 86 Gentili, S., I, 15, 91 e n. Gervasio, San, 254 Gesù, 141 e n., 270 Gesualdo, G. A., 15, 200, 317 Getto, G., XVI, 124 e n., 127n., 140 e n., 141 e n., 146n., 217n., 256n., 257n., 302n.

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Indice dei nomi Ghedini, G. F., 277n. Ghelfucci, C., 27, 31 Ghinassi, G., 42n., Ghisolfi, F., 268n. Giachino, L., 264n., 265n., 266n., 278n., 311n. Giacomo da Lentini, 60n., 263 Giambonini, F., 20n., 21n. Giganti, A., 238 Gigli, G., 421 e n. Giglio, D., 246n. Gigliucci, R., I, IX, XI, XIII, XIV, 192n., 261n., 278n., 320, 437n., 438n. Ginzburg, N., 277n. Giolito de’ Ferrari, G., X, 14, 24, 25, 32, 330 e n., 437 e n., 438n., 441, 442, 443, 444, 445 Giorgio, San, 19 Giorgione, 42n. Giosuè, 179 Giovanna d’Aragona, 24 Giovanni Battista, San, 147 Giovanni d’Austria, 338 e n. Giovanni da Carpi, 432 e n. Giovanni, San, 60n. Giovanniantonio da Sabbio, 246n. Giove, 276n., 337, 338, 375 Giovenale, 176, 177n. Giovio, P., 241 Giraldi Cinzio, G. B., 25, 31 Girardi, R., IX Girolamo di Tarsia, 321 Giulia d’Este, 134 Giuliano della Rovere, 84n. Giunone, 145 Giunta, B., 194n. Giusti, I., 155n. Giustinian, O., IX, 27, 31, 155n. Giusto de’ Conti, 23, 26, 31, 352 e n., 370, 378, 379, 382 e n., 383, 384, 385, 388, 392 e n., 394, 399, 406, 417n., 418 e n., 421e n., 422 e n., 424 e n., 425, 426 e n., 427 e n., 428 e n., 429, 430, 431 e n., 432, 433, 434n.

Gnoli, A., 279 Godenzi, G., 174n. Goffredo, 25, 29, 92 e n., 339 Góngora y Argote, L. de, 80n. Gonzaga, C., 25, 31 Gonzaga, E., 363, 380, 381 Gonzaga, F., 261 Gonzaga, I., 342 Gonzaga, L., 18n., Gonzaga, S., 338n. Gorni, G., IV, XII, XIII, XIV, XV, 154n., 185n., 278n., 320, 321, 322, 330n., 368 e n., 380n., 394n., 395n., 398n., 399, 407n., 418n., 440n., 433n. Gradenigo, G., 27, 31 Gradenigo, P., 26, 31 Gradic´, S., 218n. Graf, A., IX, 243 e n. Grant, W. L., 214 Gravina, G. V., XVI Gray, T., 206 e n. Grazi, G. M., 227n., 228n. Grazzini, A. F., 38n. Grierson, H., 220n. Grignani, L., 167 e n.. 169 Grignani, M. A., IX Grillo, A., 14, 16, 17, 18, 20, 21, 22, 24, 31, 86n., 88n., 91 e n., 261n., 269 Grillparzer, F., 276n. Grohovaz, V., 258n. Groto, L., detto il Cieco d’Adria, 27, 31, 33n., 34 e n., 35n., 36 e n., 38 e n., 39 e n., 40, 41 e n., 42 e n., 43 e n., 44 e n., 45 e n., 46, 47, 48n., 49 e n., 50, 51, 52 e n., 53, 54n., 55, 56 e n., 57 e n., 58 e n., 59, 61n., 62 e n., 64 e n., 65e n., 66 e n., 67 e n., 68, 69 e n., 70 e n., 71 Grudius, N., 217n. Guami, F., 335n. Guardiani, F., 281n. Guarini, A., 132 Guarini, B., 20, 21, 24, 31, 80, 155n., 156n., 252 e n., 184, 261n., 267, 271, 281n.

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Indice dei nomi Guasco, A., 269n. Guastavini, G., 15, 16, 91 e n. Guelfo, 276n. Guercino, Giovanni Francesco Barbieri, detto il, 162 e n. Guercio, V., 281n. Guerenghi, A., 184n. Guerra, D., 329 Guerra, G. B., 329 Guerrini, G., 346 e n. Guglia, F. M., 27, 31 Guglielminetti, M., 80, 81n., 173n., 256n., 260n., 263 e n., 287n., 330n. Guida, A., 258n. Guidi, B., 26, 31 Guidi, E. M., IX Guidiccioni, G., 25, 31, 324, 328 e n., 329n. Guido delle Colonne, 263 Guiducci, J., 421n. Guillou, J., 277n. Guinizzelli, G., 60n., 263 Guittone d’Arezzo, 17, 23, 27, 31, 60n., 64, 75, 209, 262, 263 e n., 435n. Hagge, M., 279n. Hassler, H. L., 334n. Hassler, J., 335n. Hawks, H., 277n. Hawthorne, N., 276n. Heath, D. D., 197n. Heinsius, D., 214 Hempfer, K. W., 249n., 252n. Hendrickson, J. R., 206n. Hindemith, P., 277n. Hitchcock, A., 277n., 278n. Holberton, P., 401 e n., 405n. Honneger, A., 276n. Hopper, E., 275 Hosschius, S., 220 Hutten, U., von, 437n. Iacopone da Todi, 60n. Ibert, J., 276n.

Ierone, 171 Igino, 275n. Ignazio di Loyola, 178, 220 Ijsewijn, J., 208n., 212n. Imperiali, G. V., 21, 79, 91 e n., 132 e n., 261n. Incisa della Rocchetta, G., 189n. Intronato, F., 27, 31 Intronato, S., 27, 31 Irace, E., XVI Ireno, 271 Iride, 302n. Isabella di Morra, IX Isabella, infanta di Spagna, 271 Isabetta, 423, 424 e n., 431 Isidoro, 373, 374, 388 Jacob, E. F., 207n. James, H., 276n. Janicki, K., 217 Jones, P. M., 241n., 251n. Jori, G., 138n., 268n, 278n. Keller, G., 282 Kennedy, W. J., 246n. Kochanowski, J., 214, 217 Kristeller, P. O., VII, 437n. Kruger, F., 280n. Kühlmann, W., 217n. La Face Bianconi, G., IX, 211n. Lady Chatterley, 276n. Lami, A., 269 e n. Lancellotti, S., 197 Lancillotto, 441 Landi, L, 174n. Landino, C., 15 Landino, F., 394n. Landis, J., 277n. Langlais, J., 277n. Lanza, A., 388, 418n. Lapo Gianni, 263 Larivaille, P., 260n.

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Indice dei nomi Latini, L., 237n. Laura del Rio, 262 Laura, XIII, 15n., 17n., 37, 43n., 47 e n., 48, 49, 50 e n., 51, 52, 53, 54 e n., 55, 79, 90, 106, 133, 138, 174, 181, 183 e n., 187, 209, 223n., 231n., 234, 242 e n., 245n., 246n., 252n., 262 e n., 280n., 281, 306, 308, 309, 324, 328n., 391n., 395 e n., 396 e n., 397e n., 399, 401, 402, 403, 404, 407, 431 Lavezuola, A., 15, 17, 27, 31 Lawrence, D. H., 276n. Lazzarini, L., 228n. Leni, M. 292n. Leonardo da Vinci, 241 Leone X, 106 e n. Leoni, G. B., 27, 31 Leopardi, G., XVII, XX, 178, 275n. Lercari, A., 79n., Leri, C., 269n. Lesbia, 324 Leto, P., 229, 237n., 247n. Leva, M., 100n. Levi, P., 282n. Licoride, 217n. Licota, 214 Lidia, 89, 90, 125n., 147 Lidio, 125 Lietta, 324 Ligorio, P., 339 Ligurino, 438 Lilla, 94, 95 Limentani, U., 190n. Lindsay, W. M., 388 Lionardi, A., 26, 31 Lionardi, G. I., 38n. Litaize, D., 277n. Locarni, P. M., 264n., 270n., 271n. Locatelli, P., 39n. Lodo, A., 34n. Lombardi, M., 271n. Longhi, S., XII, 393n. Longo, N., 336n.

Longolio, C., 326 Lotichio, P. II, 214, 217n. Loy, N., 276n. Lucano, 373, 374, 388 Lucilio, 17, 292 Lucio Emilio Paolo, 337, 338 Lucrezia, 155 Ludovico da Canossa, 191 Ludovico il Moro, 208n. Ludwig, W., 214n. Luigi XIII, 104n., 108, 110 Luis de León, 282n. Luisetti, A., M., 162n. Luna, 410n, 412, 413, 414, 415, 416 Lunardi, E., 329 Lutazio Catulo, 438 Lutero, M., 106n. Lutz, G., 255n. Lyly, J., 209 Machiavelli, N., 62n., 361n. MacNeil, A. E., 264n. Macrino, S., 217n. Macrobio, 438 Madame d’Aulnoy, 275n. Maddalena, 270 e n. Madonna, M. L., 168n. Maffa, M., 227n. Maganza, G. B., detto il Magagnò, 27, 31, 69 e n., Magnani, F., 269n. Magno, C., X, 25, 31 Mahler, G., 276n. Maia Materdona, G. F., 261n. Maier, B., 43 e n., 336n., 337n., 338n., 339n., 340n., 341n., 342n., 343n., 344n. Maistre, J. de, 275n. Malatesta, C. A., 268n. Malatesta, G. B., 270n., 273n. Malatesta, G. C., 270n. Malatesta, M. T., 80n., 263n., 272n. Malatesta, P. S., 426 e n., 428 Malatesta, P., 271n.

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Indice dei nomi Malatesti da Rimini, M., 405 e n. Malato, E., VII, 23n. Malespini, C., 287n. Malipiero, G., 183 e n., 220, 252 e n., 269, 277n. Malpighi, N., 378, 383 Malpighi, S., 418n., 419n. Malterre, F., 171n. Mamet, D., 277n. Manchisi, M., 406n. Mancia, M., 279n. Mancinelli, N., 411n. Mancini, M., IX Mannucci, F. L., 177n. Manso, G. B., 129n. Mantovano, P. F., 220 Manuzio, A., 238, 239 Manuzio, P., 237n., 238 Manzano, S., 27, 31 Manzini, G., 277n. Manzoni, A., 73 Manzotti, E., 379n., 394n. Marcello, 337, 338 e n., 339 Marchand, J. J., V, 124n., 211n. Marcocchi, M., 234n. Marfisa, 65 e n. Margherita d’Austria, 81, 82n., 155n. Maria Vergine, 22, 55, 171n., 220, 221, 223n., 268, 403 Marin, L., 228n. Marinelli, L., 26, 31 Marini, Q., 255n., 268n., 281n. Marino, G., IV, V, VI, XX, 11, 14, 20 e n., 21, 22, 24, 31, 42 e n., 63n., 79, 80 e n., 81n., 84 e n., 94, 107, 124 e n., 125 e n., 126 e n., 129 e n., 130n., 133 e n., 135 e n., 141 e n., 142n., 145, 151, 152 e n., 153 e n., 154, 155n., 157, 158, 159, 160, 162 e n., 163, 164, 165 e n., 166, 180, 181 e n., 183 e n., 184 e n., 185 e n., 188, 257 e n., 261, 263n., 264n., 267, 273, 276n., 281 e n., 290 e n., 293, 296n., 299, 300 e n., 301 e n., 302n., 304, 305, 307 e n., 310, 311 e n., 333 e n., 439

Mario, A., 217n. Marte, 297 Martelli, V., 27, 31 Martellotti, A., 91n. Martignone, V., IX, 100n Martin, P. E., 276n. Martinelli, B., 183n. Martinelli, G., 330 Martinengo, G., 334n. Martini, A., I, II, 15n., 34n., 42n., 84 e n., 93n., 94, 110n., 129n., 152n., 155n., 156n., 159n., 165n., 183n., 184n., 228n., 230 e n., 234n., 237n., 244n., 249n., 278n., 281n., 289n., 290n., 301n. Martini, S., 227 Martinoni, R., 91n. Martinu˚, B., 276n. Martorello, A., 334n., 335 Martoretta, G., 334n. Martyn, J. R. C., 205n Marziale, 185, 205, 292, 309, 374, 389 Mascardi, A., 137, 141, 171 e n., 173 e n., 174 e n., 175 e n., 176, 177 e n., 178 e n., 190 e n., 191, 192 e n., 193 e n., 197 Mascardi, I., 170n. Mascardi, V., 180n. Masi, G., XI Masoero, M., 173n. Masotti Medioli, P., 269n., 275n. Massaino, T., 334n., 335n., 336 Massini, F., 256 e n., 257 e n., 258, 259, 260, 261, 262, 265, 267 Massolo, E., 66n., Masucci, F., 303 e n., 304 Matraini, C., 266, 443 Mayr, S., 410, 412n. Mazalao, F., 346 Mazzacurati, G., XII, 287n. McKenzie, K., 41n McLaughlin, M. L., 192n. Medea, 276n., 373, 389 Medici F., I de’, 106 e n. Medici, A., de’, 316 Medici, C., de’, 316, 427n.

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Indice dei nomi Medici, G., de’, 106, 427 e n. Medici, I., de’, 238n., 323 Medici, L., de’, 17, 23, 25, 31, 60n., 352, 377, 378, 379, 383, 388 Medici, M., de’, 76, 110 Medici, P., de’, 378, 427 e n. Medoro, 66, 276n. Meijer, B., W., 234n. Meleagro, 276n. Melibeo, 207n. Mellors, 276n. Menelao, 276n. Menelfi, M., 196n. Mengaldo, P. V., VI, 345 e n., 348, 349, 350, 351, 352, 353, 355, 356, 357, 378n., 381n., 385 e n., 387, 403n. Menghini, F., 174n. Meninni, F., 38n., 80, 129 e n.., 141 e n., 142n., 261n., 289, 290 e n., 292, 293, 294 e n., 295 e n., 296, 297, 298 e n., 300, 301 e n., 302 e n., 303, 304 e n., 305, 306 e n., 307 e n., 308, 309 e n., 310, 312 Menni, V., 26, 31 Mercatanti, R., IX Mercurio, 276n. Merenda, A., 245n. Merlo, A., 335n. Messiaen, O., 277n. Metastasio, P., II Mezzabarba, A., 324 Micheletto, don, 361 Mida, 49, 50 Miggiani, M. G., VI, 330n. Migliorini, B., 42n., 43n. Miguel da Silva, 253 Milhaud, D., 276n. Milite, L., IX Milton, J., 220n. Minerva, 67 Minosse, 415 Minturno, A., 25, 31 Minuti, E., detto il Solingo, 268 e n. Mirzia, 433n

Mocenigo, A., 239 Moles, G., 26, 31 Molin, G., 331n. Molinari, F., 251n. Molza, F. M., X, 18, 25, 31, 64n., 143, 144, 217n., 320, 324, 438 Monforte, V., 65n., Monneret, S., 279n. Montagnani, C., I, 388 Montaigne, M. E. de, 228n. Montalto, A., 341 e n. Montanari, T., 169n. Montecuccoli, R., 123 Montenero, M., 25, 31 Monti, G., 180n. Monti, V., II, 61n. Monza, L., 272n. Moranti, M., 261 e n. Moret, B. II, 217n. Morgana, S., 239n., 242n., 249n. Morgante, 60n., 63, 373, 378, 389 Moro, M., 20, 26, 31 Moro, Tommaso, San, 282n. Morone, B., 269, 270n. Morossi, P., 409n. Mortari, V., 277n. Mosé, 221n. Motta, U., 184n., 228n., 251n., 272n. Mott-Petavrakis, A., 33n. Mouchel, C., 170n. Mucillo, G., 217n. Mulas, L., 287n. Muratori, L. A., XVI, 179n., 296 e n., 297 e n., 298 e n., 299n., 302n., 306n., 308, 310 e n. Murtola, G., 20, 22, 25, 31, 263 e n. Muscetta, C., XIII, 138n. Muscettola, A., 290 Mussara, F., 258n. Muzio Scevola, 305, 305, 306 Muzio, G., 25, 31, 155n., 202, 204n., 296 e n., 297, 324 Muzzarello, G., 28, 31

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Indice dei nomi Nacache, J., 278n. Naldi, N., 212n. Nannini, R., IX, 25, 31, 323 Napea, 375 Narciso, 266n., 276n. Natan, 403, 404 Navagero, 253, 325 Nazario, San, 254 Negrini Beffa, A., 33n. Neri, A., 90n., 263n. Neri, F., San, 234 e n., 252n. Nerone, 303, 304n., 305, 306 Nettuno, 276 Nevizzano, F., 28, 31 Niccolò da Correggio, 369n., 378 Nicolini, F., 153n. Nicolini, G., de, da Sabio, 93n. Nicolini, P., de, da Sabio, 93n. Nigrisoli, A. M., 25, 31 Nodier, C. E., 277 Nolhac, P., de, 236n., 239n. Nonni, G., 418n., 427n. Nordio Agostini, T., 333n. Novati, F., IX, 207n. Nuovo, A., 227n., 333n. Oddoni, G. B., 273 Ogerius, S. di St. Omer, 207 Olchisi, A. M., 273n. Olgiati, A., 237n., 251n. Olimpia, 56, 66 Olin, J. C., 234n. Olson, P. R., 280n. Omero, 38n., 56, 92, 190, 221n., 276n., 414, Ongaro, A., 28, 31, 184, 185, 290 Orazio, 135, 136, 140, 146, 210, 292, 294, 295n., 298, 352, 372, 374, 389, 439, 440n. Orero, A., 91n Orfeo, 60n., 302n., 378 Orione, 383 Orlando, 14, 17, 21, 24, 29, 51 e n., 60n., 65e n., 66, 67, 68, 70, 272, 276n,

Orologi, G., 15 Oronta, 155, 160 Orsi, A., 170n. Orsina Peretti, F., 76, 330, 324 Orsini, F., 236 e n., 237, 238 Orsini, P. G., 237n., 162, 239, 240, 278 Ortese, A. M., 277n. Ortolani, D., 88n., 278n. Ossola, C., XIII, XVII, 135n., 288n. Ovidio, 19, 24, 29, 62n., 143, 176, 190, 211, 292, 295n., 352, 373, 374, 377, 389, 438 Owen, J., 205 e n. Pacca, V., 35n., 389 Pacuvio, 17, 19 Padoan, G., 331n. Paganino Gaudenzio, 174 e n., 175 Pagnotta, L. 394n. Paleotti, G., 252n. Palmario, F., 428n. Pancheri, A., 248n. Pandora, 83 Panigarola, F., 86n. Panizza, L., 264n. Pannocchieschi d’Elci, G., 257n. Panormita, Antonio Beccadelli, detto il, 214 Pantani, I., VI, VII, VIII, IX, XV, 392 e n., 406n., 417n., 418n., 419n., 421n., 422n., 424n., 426n., 427n., 428n., 432n., 433n. Paoli, P. F., 293, 301, 302 e n. Paolino, L., 35n., 389 Paolo III, 228n., 321, 322, 323 Paolo V, 82n., 165n. Paolo, 376 Paolo, San, 60n. Parabosco, G., 25, 32 Paravicino, D., da, 278n. Paredi, A., 228n. Parenti, G., 253n., 255n. Paride, 67 Partenope, XI, 305, 306 Pascal, B., 178 Pasquali, G., 383

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Indice dei nomi Pasquazi, S., 203n., 212n. Pasquini, E., 379n., 406n. Passaro, G., 80 Pastore Stocchi, M., X, 329 e n., 330n., 391n. Pastrovicchi, L., 267 e n., 268n., 269 Paterno, L., X, 15, 25, 32, 129, 131, 155n. Patisson, M., 421 Patriani, F., 69n., Pavoni, G., 73, 80n., 82n., 91 e n. Pedullà, A. M., 279n. Pedullà, W., 139n. Pelagallo, G., 175n. Pellegrini, C., 26, 32 Pellegrini, F., 240 Pellizzoni, S., 230 e n., 240 e n. Pennisi, F., 277n. Pepoli, I., 56, 68 Percivalle, G., 28, 32 Pèrcopo, E., X, 411n., 412 e n., 414, 415, 416 Pereyra S. J., B., 279n. Perini, G., 228n. Pernicone, V., 168n. Perosa, A., 432n. Pertile, L., 245 Pertusi, A., 228n. Peter Pan, 277 Petracci, P., 20, 21, 26, 32 Petrarca, F., I, II, V, VI, VII, XI, XIII, XVI, XVII, XIX, XX, XXI, XXII, 13, 15, 16, 17, 18, 20, 21, 22, 24, 32, 34 e n., 35n., 36, 38n., 39 e n., 40, 41n., 42 e n., 43, 44 e n., 45 e n., 47 e n., 48, 49n., 50, 52 e n., 53, 54n., 55, 57 e n., 58, 59 e n., 60n., 62n., 63n., 65, 67n., 71, 73, 77, 83, 89, 92n., 93 e n., 94, 95, 102n., 106n., 107, 110, 130, 131n., 133, 137, 138 e n., 140, 154n., 168, 172 e n., 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182 e n., 183, 184, 185, 187, 188n., 189 e n., 190 e n., 191, 192, 193, 194, 196, 197 e n., 200 e n., 201n., 202 e n., 203 e n., 204n., 206 e n., 208, 209, 220, 223n., 224, 227, 228 e n., 229, 230, 231 e n., 232 e n., 233 e n.,

234, 235 e n., 236, 237, 238 e n., 239, 240, 241, 242 e n., 243, 244 e n., 245 e n., 246 e n., 247 e n., 248 e n., 249 e n., 251, 252n., 256 e n., 253, 257, 258n., 259, 260 e n., 261, 262 e n., 265, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 277, 278n., 279, 280n., 281, 289, 290, 291 e n., 292, 293 e n., 294, 295, 296 e n., 297 e n., 298 e n., 299, 300 e n., 301n., 302 e n., 303, 304, 305, 306, 307 e n., 309 e n., 310 e n., 317, 323, 324, 328n., 331n., 333 e n., 343, 370, 374, 382, 383, 385, 389, 392n., 395 e n., 393, 394 e n., 396 e n., 397, 399, 401, 402, 404, 495n., 406n., 416, 431, 434 e n. Petrassi, G., 277n. Petrini, M., 280n. Petrocchi, G., 388 Petrucci, A., 378, 423n. Petrucci, P., 257 Pevere, F., 287n. Piacentini, M., 328 e n., 391 e n., 392, 394 e n., 395, 396, 398, 399, 401 e n., 404, 405, 406 e n., 407 Piantanida, S., 20n., Piastra, W., 79n., Piccaglia, G. B., 267n., 269n., 272n. Picchi, E., 41n., 352n. Piccolomini, A., 38n., 316 Piccolomini, B. C., 25, 32 Pico della Mirandola, G., 23, 28, 32, 242, 378 Pico, G. F., 191 Pierre de Ronsard, 74 Pietro, San, 270 Pigman III, G. W., 192n. Pignatelli, A., IX, 24, 32, 439 Pignatelli, S., 183n. Pignatti, F., 275n., 287n. Pilato, L., 228n. Pillet, A., 239n. Pindaro di Savona, 184n. Pindaro, 135, 136, 140, 146, 168n., 171, 289, 292, 294, 298

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Indice dei nomi Pinelli, A., 175n. Pinelli, G. V., 237, 239, 240, 245n., 251n. Piotti, M., 239n. Pipini, G., 270n. Pirola, G., 228n. Pirro, 340n. Pisani, B., 294n. Pistoia, A., detto il Cammelli, 368n. Pittoni, G., 70n., Platone, 57n., 169, 300 Plinio il Giovane, 292 Plinio il Vecchio, 374n. Poe, E. A., 277 Poggi, A., 34n. Polibio, 278n. Politano, A., 374 Politi, A., 256, 257n. Poliziano, A., 23, 25, 32, 60n., 295n., 352, 378 Pollastra, G. M, 42n. Pomian., K., 229n. Pomona, 375 Pona, G. B., 28, 32 Ponchiroli, D. XIII Pontano, G., 214, 216n., 410, 411n. Ponte, G., 47n. Pontio, P., 255n., 267n., 269n., 272n. Pontus de Tyard, 203 Ponzone, G., 246 Porcacchi, T., 15, 25, 32 Porcelli, B., 287n. Porrini, G., 26, 32 Porrino, G., 316 Portinari, F., 334n., 336 Porto, L., da, 26, 32 Poussin, N., 220n. Pozzi, G., 11, 12n., 16, 21n., 33n., 34n., 42n., 51n., 52n., 66n., 81, 181n., 273n., 279n. Pozzobonelli, F., 264 Pozzobonello, P. 88n. Prada, M., 239n. Praloran, M., VI Prandi, S., 94 Praz, M., 215, 220n.

Preti, G., 19, 22, 25, 32, 124, 126 e n., 151 e n., 152 e n., 153 e n., 154 e n., 155, 156n., 157, 162 e n., 163, 164, 165, 171n., 257 e n., 268 e n., 269 Prin, Y., 276n. Procaccioli, P., 38n., 139n. Procuste, 298n. Prometeo, 46, 192n. Properzio, 143, 176, 212n., 214, 295n., 374, 389 Proposto, N., del, 394n. Proserpina, 374, 388 Protasio, San, 254 Proteo, 84n., 110n., 155n., 195n., 214n., 278n., 301n., 302n. Pseudoanacreonte, 276n. Pucci, G. B., 287 Puga Cerrón, M. L., X Pulci, B., 376, 377 Pulci, L., 60n., 352, 373, 378, 389 Pulciani, G. B., 13, 20, 272n. Puliatti, P. 292n. Pulsoni, C., 239n. Puteano, E., 268 Quadrio F. S., IX, XVI, 19 e n. Quagliati, P., 335n. Quaquarelli, L., 417n., 418n., 421n., 424n. Quattrucci, M., 240n. Querenghi, A., 228n., 251n. Quevedo y Villegas, F. G. de, 278n. Quint, 276n. Quintiliano, 195n., 295 Quinto Fabio Massimo, 337, 338 e n., 339 Quirini, V., 26, 32 Quondam, A., 15 e n., 43n., 44n., 54n., 125 e n., 131 e n., 132n., 139n., 183 e n., 192n., 195 e n., 252n., 261n., 290n., 330n., 333n., 380n., 394n. Rabitti, G., IX, 330n., 443 Raboni, G., 91n., 269n. Ragnina, D., 27, 32

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Indice dei nomi Raimondi, E., 95n., 137n., 140 e n., 142 e n., 162n., 167n., 171n., 185n., 196n., 197n., 234n., 258n., 269n., 311n., 340n. Raimondo Berengario IV, 238, 239n. Raineri, A., 25, 32, 320, 321, 322, 323, 324, 438 Rainerio, 438 Rampi, E., 268n. Rapino, R., 221, 222n., 224n. Raselli, P., 13 e n., 14 Ratti, A., 228 Ravagnini, B., 248 Razzoli Roio, A. M., 269n. Rebaudengo, M.,270n. Recaldini, G., 80n. Regn, G., 252n. Reni, G., 162 e n., 269n. Renier, R., IX Riccucci, M., 258n. Richardson, B., 246n. Rico, F., VIII, 233n. Ridolfo II, 271 Rieger, A., 242n. Rieß, J., 208n. Righi, D., 84 e n., 86n., 310n., 311n. Rinaldi, C., 22, 26, 32, 84 e n., 310n., 311n., 312n. Rinaldo, 14, 20, 24, 32, 60n., 64, 65n., 339 Rinaldo, R., XI, 287n. Ringhieri, I., 26, 32 Rinuccini, A., 98n. Rinuccini, F. di Cino, 98n. Rinuccini, N., 98n. Rinuccini, O., 23, 97, 98n., 100 e n., 101, 102 e n., 103n., 104n., 106 e n., 107n., 108 e n., 109n., 110, 111 Riposio, D., 279n. Riselli, R., 427 Risset, J., 438n. Rivier, A., 277n. Rivola, A., 246 e n. Rivola, F., 231n., 232n. Rizzo, G., 270n.

Rocca, C., 252 e n. Rocca, F., 24 Rocco, B., 28, 32 Rodella, M., 227n., 228n., 251n. Rodler, L., 278n. Rohlfs, G., 36n., 69 e n., Romanello, G. A., 405e n. Romani, A. R., 197n. Romano, L., 277n. Romolo, 337 Roncaccia, A., 258n., 260n. Ronconi, E., 378n., 382 Rondinini, N., 218 e n. Rosa, S., 311n., 312n. Roselli, R., 379n., 418n., 427 e n. Rosini, C., 21 Rosini, G., 94n. Rosselli, F., 334n., 336 Rossellini, R., 276n. Rossi, A., IX, 211n, 369n., 438 Rossi, G. B., 272n. Rossi, G. G., de’, 322 Rossi, G., 84n., 85n., 154 Rossi, M., 330n. Rossi, N., de’, 406n., 431n. Rostagno, E., 417n. Rota, B., IX, 27, 32, 203 e n., 204n., 217n., 293, 331n. Rovigo, F., 335n. Rozzo, U., 421n. Rubbi, A., 421n. Rubini, N., 335n. Ruffini, G., 91n. Ruggiero, 65 e n., 68, Ruiz de Alarcón, 282n. Rusca, L., 271, 272n. Ruscelli, G., IV, 15, 17, 18, 24, 334, 438, 443, 444 Russo, P., 168n. Saba, C., 278n. Sabbadini, R., 228n. Sabrina, 277n.

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Indice dei nomi Saccenti, M., 275n. Sacchetti, F., 60n., Sacerdote, D., 334n., 335n. Sacré, D., 208n., 212n. Sadoleto, J., 326 Sainte-Beuve, C. A. de, 221 Salmace, 19, 22, 25, 32, 87, 154 e n., 160, 162 Salmonio Macrino, 214 Salutati, C., 434n. Salviati, L., 43n., Salvini, S., 102n. Samonà, C., 282n. Sandoval di Castro, D., IX Sanguineti, E., XVI Sannazzaro, J., 14, 16, 25, 32, 38n., 42n., 60n., 63n., 132 e n., 203n., 326, 405, 410 e n., 411 e n., 414 e n. Santagata, M., III, IV, V, 35n., 47n., 54, 102n., 106n., 165n., 173n., 183n., 189n., 232n., 306 e n., 379n., 380n., 381n., 389, 393n., 394 e n., 396 e n., 398n., 406n., 410n. Santangelo, G., 192n. Santarelli, G., 344n. Santi, F., 208n., 253n., 255n. Santini, S., 27, 32 Sapegno, N., 47n. Sarzalli, A., 142 Sasso, P., 361 e n., 363, 364n., 366n., 368 e n., 374, 375, 378, 381n., 382, 383, 386, 387 Satie, E., 276n. Saturno, 375 Sauli Carrega, G. N., 79n., 80n. Saura, C., 276n. Scaglione, A., 378n., 382 Scaioli, A., 154n., 163n. Scarpati, C., 186n. Scève, M., 203 Schettini, P., 290 Schick, U., 252n. Schlemihls, P., 282n. Schmidt, P. G., 217n., 277n. Schnur, H. C., 201n. Schulz-Buschhaus, U., 33n.

Scinzenzeler, G. A., 387 Scipione l’Africano, 338 e n., 339 Scorsone, M., 206n., 214n., 216n., 217n. Scotto, G., 335 Scrivano, R., XI, 258n., 336n. Scroffa, C., 60n. Sebastiano, San, 254 Secondo, G., 217n. Seghezzi, A. F., 202n. Segneri, P., 281n. Segre, C., XIII, XVII, 65n., 135n., 238n. Semenzi, G. G., 268 e n. Sempronio, G. L., 155n. Seneca, 17, 86, 192, 373, 374, 389 Senofonte, 278n. Sepúlveda, L., 277 Serassi, P., 332, 333 e n. Serbelloni, F., 82n. Serbelloni, G., 82n. Serdini, S., detto il Saviozzo, 379, 383, 405, 406n., 431n. 434n. Serianni, L., XVII, 23 e n., 81 e n. Seroni, O., 272 e n. Serrai, A., 261n. Sessa, G., 444 Sessa, G., B., 88, 263 e n. Sessa, M., 444 Sforza Pallavicino, P., 138, 138n., 141 e n., 142 e n., 169n., 167n., 168n., 172 e n., 173, 174, 178, 179 e n., 180 e n., 181 e n., 182 e n., 183 e n., 184 e n., 185 e n., 189 e n., 191 e n., 193 e n., 194 e n., 195 e n., 196 e n., 307n. Sforza, A., 418n. Sforza, F., 425n. Sforza, I., 439 Sforza, M., 252, 255 e n. Shakespeare, W., 212n., 279n. Sidney, P., 206 Sidonio Apollinare, 276n. Sigero, N., 228 e n. Silvano da Venafro, 200 Silvestri Postumo, G., 253

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Indice dei nomi Silvia, 96 Simon da Siena, 229 Simone, F., 242n. Sinibaldo, G., 197n. Sirleto, G., 252n. Sirri, R., 279n. Sisto V, 167n., 340 Slawinski, M., IX Sodano, R., 217n., 438n. Sofonisba, 60n., Solari, G. M., 82n. Solerti, A., XII, 20n., 98n., 337 e n., 336n., 338n., 339 e n., 340n., 389, 434n. Solinas, F., 197n. Solinas, F., 228n. Solone, 344n. Sorani, C., 154 e n. Soranzo, G., 272 e n. Soranzo, M., 407 e n. Sorella, A., VIII Sozzini, F., 322, 323 Spada, G. B., 11, 12, 15, 23 Spagnoletti, G., XIII Spagnoli, G. B., 220 Sparrow, J., 207n. Spedding, J., 197n. Spera, L., 279n. Spilimbergo, I., 329 Spinelli, P. G., 415 Spini, G., 170n. Spínola, A., 82n., 90 Spinola, P. F., 252, 253, 254 e n. Spira, F., 26, 32 Spongano, R., 388 Staccoli, A., 378, 379 e n., 383 Stampa, G., 276n. Starr, T., 206n. Stecchini, M., 28, 32 Stevenson, R., 277n. Stigel, J., 214, 217n. Stigliani, T., 22, 25, 32, 79, 80, 155n., 156, 159, 191n., 267, 284, 310n., 311n., 312n. Stoppelli, P., VIII, 41n., 352n.

Storm, H. T., 283 Strada, E., X, XIII, 330n. Strada, F., 137, 170 e n., 171 e n., 174, 175, 175 Strauss, R., 276n., 277 Strozzi, F., 323 Strozzi, G. B., 33n. Strubel, A., 96n. Stussi, A., 283n. Sulpicia, 214 Summonte, P., 411 e n. Surrey, H. H., conte di, 208n. Sutton, D. F., 207n. Sveno, 275n. Szarzyn´ski Se˛p, M., 207 Szymonovic, S., detto Simonides, 214 Tabucchi, A., 318 Tacito, 257n., 275n., 292 Taddeo, E., 33n., 34n., 38n., 39n., 40n. Tansillo, L., X, 25, 32, 60n., 63n., 80, 184, 290, 293, 300, 309 e n., 439 Tantalo, 219 Tanturli, G., IX Tasso, B., IX, 14, 21, 24, 32, 75, 279n., 292, 294, 438 Tasso, F., 392 Tasso, T., IV, V, XII, 14, 15, 17, 20 e n., 21, 22, 24, 32, 42, 43 e n., 57n., 60n., 64, 68n., 79n., 80 e n., 88, 90 e n., 91 e n., 92, 93 e n., 94, 95, 96, 100 e n., 103n., 107, 110, 134 e n., 135, 142, 149, 156n., 179n., 180, 190, 191, 255, 257, 261, 264n., 269, 270, 271, 275n., 276n., 281, 293, 297, 324, 327, 336 e n., 337, 338 e n., 339, 341n., 342, 344 e n. Tassoni, A., 15, 19, 143, 291 e n., 292 e n., 296 e n., 298, 299n., 307, 308 e n., 310 e n., 311n., 312 e n. Tcherepnin, A., 276n. Tebaldeo, A., II, V, 28, 32, 41n., 124n., 202 e n., 203n., 211n., 253, 361, 378, 383, Teocrito, 439 Teodorico, 276n.

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Indice dei nomi Terminio, A., 24, 32 Terracina, L., 441 Tertulliano, 221n. Terzoli, M. A., XVI Tesauro, E., 179n., 184n., 197 e n. Testa, P., 395 Testi, F., 123 e n., 124n., 125 e n., 126 e n., 127n., 128, 129, 130 e n., 132 e n., 133 e n., 134 e n., 135, 136 e n., 137, 139, 140 e n., 141 e n., 142n., 143 e n., 144 e n., 146 e n., 147n., 148 e n., 151, 153 e n., 154, 168n., 291, 293, 294, 295 e n., 296 Textor R., 15 Textoris, G., 335n. Tibullo, 143, 176, 295n., 373, 374, 389 Tiraboschi, G., XVI Tirsi, 87, 438 Tirso de Molina, 282n. Tissoni, R., 297n. Tito Livio, 338, 343 Titone, 211n., 284 Tizzoni, M., 271n. Tobino, M., 282n. Togni, A., 33n. Tolomei, C., 170n., 238 e n. Tomasi, F., X, 325n., 329 e n., 330 e n., 438n. Tomasini, J. F., 138 e n. Tommaseo, N., 60n., 62n. Tonelli, N., 298n. Torchio, E., 328 e n. Torck, J. R., 218 Torelli, P., 28, 32 Torre, C., 271, 272n. Torrismondo, 14, 20, 24, 32 Toscanella, O., 15 Toscano, T. R., IX, X, XI, 411n. Tramaglino, R., 276n. Trapp, J. B., 262n. Leone X, 326 Trenti, L., I Trissino, G. G., VIII, 28, 32, 43n., 44n., 45n., 60n., 325 Trivulzio, C., 273

Trolli, D., 406n. Trovato, P., VIII, 258n. Tschiesche, J., 64n., Tucci, N., 252 e n. Tumermani, G., 421n. Turchi, F., 15 Turchi, M., 136n. Turnhout, G., 335n. Turrini, I., 60n. Turteltaub, J., 277n. Ubaldini, G. P., 252, 253 e n. Uberti, F., degli, 376 Udine, E., 28, 32 Ulisse, 93, 145, 192 Urbano VIII, 137, 138 e n., 167 e n., 171 e n., 172 e n., 184, 187, 188 e n. Uria, 403, 404 Vacca, A. M., 280n. Valentini, M., 34n. Valerio Flacco, 276n. Valgrisi, V., 65n., Valier, A., 252n. Valle, B., 330 Van Delden, L., 277n. Varchi, B., X, 16, 19, 24, 32, 248, 258n., 316, 333n., 437n.,438 Varese, C., 279n. Varoli, F., 28, 32 Vasari, G., 62n., Vaughan, W., 207n. Vazzoler, F., 88n., 168n. Vecce, C., 414n. Vecchi Galli, P., V. VI, IX, X, XI Vecellio, T., 21 Vega, F. Lope de, 80n. Veggio, G., A., 334n., 336 Vela, C., XII, 259n. Velleio Patercolo, 275n. Vellutello, A., 15, 93 e n., 200, 246 e n., 317 Vendramin, C., 25, 32 Venere, 67, 86

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Indice dei nomi Veneroso, I., 28, 32 Venier, D., 25, 32, 331 e n., 327, 328, 332, 333 e n., 334, 335 Venier, M., 28, 32, 57n., Venier, Z., 401 e n., 405, 406 e n. Venturino da Pesaro, 211n. Vettore, R., 334n. Vianello, C., 331n. Viani, A., 82n., 256, 257 Vidali, B., 420 e n. Villa, E., 212n. Villa-Lobos, H., 276n. Villari, R., 288n. Vincenzi, G., 336 Violante di Correggio, 311n. Viotto, S., 336 Virgilio, 38n., 190, 197, 221n., 227 e n., 228 e n., 248, 275n., 300, 326, 352, 373, 374, 389, 439, 440n. Visconti, G., 241, 271 e n., 378, 403n. Visdomini, F., 256 Vitali, B., 93n. Vitali, G., 253 Vitetti, L., 352n., 388, 417 e n., 419, 423 Viti, P., 270n. Vittore, San, 254 Vittori, P., 194n. Vittoria, 127 Volpi, M., 256n., 261n., 267n., 269n. Volpino, 56 Volponi, P., 276n. Volta, A., 34 e n., 35n., 36 e n., 48n., 50n., 56

Vulcano, 129 Vultelio, G., 214 Walsingham, F., 207n. Walters, C., 277n. Watson, T., 206 e n., 207n., 208 e n., 209 e n. Wiese, B., 427n. Wilder, B., 277n. Wilkins, E. H., 231 e n. Winsemio, 214, 217n. Wolf, J., 207n. Zabatta, C., 90 e n. Zaja, P., X, 325n., 329 e n., 330 e n., 438n. Zaltieri, B., 238n. Zambelli, P., 255n. Zanato, T., 388 Zancan, M. 266n. Zane, G., IX, 331n. Zanetti, A., 255n. Zanetti, B., 88n., 171n. Zanotto, F., 421n. Zanovello, G., 330n. Zatta, A., 421n. Zenero, C., 173n. Zerbino, 67 Zileti, G., 254n. Zilioli, A., 19 e n. Zimmermann, B. A., 277n. Zoppini, A., 33n., 49n., 56n., Zoppini, F., 33n., 49n., 56n., Zoppio, M., 85, 312n. Zufferey, F., 239n.

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