Paradosso e controparadosso 8870788121, 9788870788129

Scritto nel 1975 da un'équipe di psichiatri e psicoanalisti in rotta con l'ortodossia psicoanalitica "Par

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Paradosso e controparadosso
 8870788121, 9788870788129

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Dal catalogo

M. Selvini Palazzoli, S. Cirillo, M. Selvini, A.M. Sorrentino 1 giochi psicotici nella famiglia M. Selvini Palazzoli, S. Cirillo, M. Selvini, A.M. Sorrentino Ragazze anoressiche e bulimiche P. Bertrando, D. Toffanetti Storia della terapia familiare L. Boscolo, P. Bertrando Terapia sistemica individuale

G. Cecchin, G. Lane, W. Ray Verità e pregiudizi Un approccio sistemico alla psicoterapia

P. Leonardi, M. Viaro Conversazione e terapia L’intervista circolare

P. Watzlawick, G. Nardone Terapia breve strategica

Mara Selvini Palazzoli, Luigi Bos colo Gianfranco Cecchin, Giuliana Prata

PARADOSSO E CONTROPARADOSSO

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Cortina Editore

www.raffaellocortina.it

Prima edizione italiana 1975, Feltrinelli

ISBN 88-7078-812 1 © 2003 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4

l’iinia cilizitiix-: 2001

INDICE

“Paradosso e controparadosso” oggi: il senso di una riedizione (P Barbetta) Prefazione alla prima edizione

Vii xill

Parte prima

Capitolo I Introduzione

3

Capitolo II Modalità di lavoro dell’équipe

9

Parte seconda

( Capitolo III I ,a coppia e la famiglia a transazione schizofrenica

19

( Capitolo IV Il paziente designato

31

Parte terza < Capitolo V ( ili interventi terapeutici come apprendimento I»er tentativo ed errore

43

( iapilolo VI I .1 l li.il mia del condizionamento linguistico

47

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Capitolo Vil La connotazione positiva

51

Capitolo Vili La prescrizione in prima seduta

63

Capitolo IX I rituali familiari

77

Capitolo X Dalla rivalità col fratello al sacrificio per aiutarlo

91

Capitolo XI I terapeuti prendono su di sé il dilemma del rapporto fra genitori e figlio

97

Capitolo XII I terapeuti accettano senza obiezioni il miglioramento sospetto

103

Capitolo XIII Come ricuperare gli assenti

107

Capitolo XIV Come aggirare la disconferma

113

Capitolo XV Il problema delle coalizioni negate

123

Capitolo XVI I terapeuti dichiarano la propria impotenza senza biasimare alcuno

133

Bibliografia

141

VI

PARADOSSO E CONTROPARADOSSO ” OGGI: IL SENSO DI UNA RIEDIZIONE Pietro Barbetta

È esagerato paragonare Paradosso e controparadosso dPPInterpreta­ zione dei sogni! Si è detto di quest’opera di Freud che la sua distanza dagli scritti immediatamente antecedenti costituisce il crinale tra la preistoria e la storia della psicoanalisi. Paradosso e controparadosso ha il diritto di essere considerato l’inizio della storia della terapia familia­ re sistemica. Credo che un tale giudizio possa essere condiviso da molti. Valga pei- tutte la testimonianza di Lynn Hoffman, che - con Peggy Papp e Olga Silverstein - introdusse, all’Ackerman Institute di New York, il modello del gruppo di Milano: “Quando lessi per la prima volta Para­ dosso e controparadosso ne fui ispirata. Finalmente una teoria della te­ rapia costruita sulla visione sistemica che Bateson aveva tentato di de­ scrivere”. Come avvenne che le teorie antropologiche di Bateson si trasfor­ marono in pratiche terapeutiche? Il passaggio storico e concettuale si sviluppa in tre momenti: - l’antipsichiatria aveva contestato i fondamenti scientifici delle teorie della malattia mentale, anche a seguito dell’influenza della grande ope­ ra di Foucault su “follia e sragione”; - Gregory Bateson aveva formulato la prima ipotesi sulla schizofrenia basata sulla comunicazione interpersonale; - Paradosso e controparadosso apriva la via alla terapia con le famiglie “a transazione schizofrenica”. Frano gli anni - la prima edizione italiana è del 1975, quelle ingle­ se e francese del 1978, la spagnola del 1982 - in cui nei paesi a demo­ crazia occidentale venivano smantellate le istituzioni totali e venivano formulate nuove leggi per la diagnosi e la cura del mental disorder. In VII

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c i in. i liin.i .111 ni i .11 i.i >li । li in.ii । .izii mi- lrn due curai Ieri ugual lucil­ ie I iniz.itmali ni < >gui sistema vivente; < ) la tendenza omeostatica />} la capacita di trasformazione quasi si trattasse di antinomie, laddove la tendenza omeostatica sarebbe di per sé “cattiva” e la capacità di trasformazione di per sé “buona”. In realtà tendenza omeostatica e capacità di trasformazione, in quanto caratteri funzionali al sistema, non sono rispettivamente né me­ glio né peggio. Giacché in un sistema vivente non può esservi tendenza omeostatica senza una certa capacità di trasformazione né capacità di l raslormazione senza una certa tendenza omeostatica. La loro combi­ nazione si svolge circolarmente secondo un continuum, sostituendo al modello lineare dell’“o, o”quello circolare del “più o meno” (giacché nell’etica sistemica, ci sembra chiaro, non si danno antinomie). Eppure, come osserva Shands, gli uomini sembrano perseguire, in­ stancabilmente, un impossibile stato di relazioni invariabili, un “obiet­ tivo ideale” di raffigurarsi l’universo interiore come completamente in­ i

dipendente da constatazioni empiriche. Il processo può essere descritto come un moto verso una completa indipendenza dall’hic et nunc, come un volersi liberare dalle nccessiià fisiologiche che mutano a ogni momento. Il paradosso è che ogni elici livo raggiungimento di tale stato sarebbe incompatibile con la vita per la semplice ragione che la vita è movimento continuo, un insieme di operazioni che accrescono l’entropia e che devono essere sostenute da un afflusso di entropia negativa [“negentropia” sia come energia che come informazione] per permettere la sopravvivenza del sistema. È spiegato così il paradosso senza fine della ricerca di stabilità e di equili­ brio anche se è facile dimostrare che l’equilibrio e la stabilità sono otte­ nibili solo in sistemi inorganici e anche qui in misura limitata. La stabi­ lità è incompatibile con la vita o con l’apprendimento: il progresso sia pur minimo è un elemento indispensabile di ogni sistema biologico.

( risi anche la famiglia in crisi che arriva a chiederci la terapia è quan­ to mai partecipe di tale “obiettivo ideale” e neppure verrebbe se non fosse in preda alla paura chela sua stabilità e il suo equilibrio, così tena­ cemente perseguiti contro ogni evidenza empirica, sono in pericolo. E a tutti noto che le difficoltà a motivare alla terapia una famiglia < /'■/. i< -I i> >

designata, i in’adolescente piulloslo obesa. La squallida del contesto terapeutico poteva essere significala col titolo seguente: “In visita dai dietisti di Margherita”. L’inizio della terza seduta fu ancor più fantasioso. La famiglia di­ scusse per dieci minuti, con ricchezza di particolari, sull’opportunità di intervenire o meno ai funerali di una parente. Registrammo tale squalifica sotto il titolo: “Conferenza sugli usi e costumi funerari della Val Badia”. Ma anche le famiglie reticenti e congelate non sono meno abili nello squalificare il contesto. In prima seduta presentano non di rado un fe­ nomeno tipico. I membri della famiglia si siedono in gruppo serrato, fissando i terapeuti in silenzio, con espressione interrogativa. Nessuno direbbe, osservandoli, che sia stata la famiglia a richiedere il colloquio. In tale comportamento appare chiaramente la squalifica del contesto, espressa in maniera non verbale, e precisamente mediante il silenzio e l’espressione interrogativa. Il che, in linguaggio formale, potrebbe esse­ re tradotto nel modo seguente: “Abbiamo cortesemente aderito al vo­ stro insistente invito, ed eccoci qui per sapere che cosa voi desiderate”. L’esperienza ci ha insegnato che il mostrare alla famiglia quanto ac­ cade, cioè il metacomunicare su tali comportamenti ricorrendo allo strumento verbale, non sorte altro effetto che manifestazioni di stupo­ re, negazioni e squalifiche. Tanto più che la connotazione critico-mo­ ralistica di tali comportamenti risulterebbe inevitabile. Invece una pre­ scrizione semplice e ben dosata, ispirata dalle ridondanze osservate in seduta, ci permette di evitare la connotazione critico-moralistica, con le conseguenti squalifiche, e di ridefinire il rapporto come terapeutico. Inoltre, come già detto ai punti 3 e 4, tale prescrizione servirà a delimi­ tare il campo di osservazione e a strutturare la seduta seguente. Infatti, con certe famiglie dal chiacchiericcio caotico, la seconda seduta rischia di ricalcare esattamente la prima, come se la famiglia avesse già dato il massimo di informazioni e non potesse che ripetersi. Ricevendo una prescrizione, i membri della famiglia saranno co­ stretti, nella seduta seguente, a riferire ai terapeuti in merito all’esecu­ zione della prescrizione stessa. Eccone un esempio. Si tratta della prima seduta con una famiglia di tre persone, i genitori e una bambina di 10 anni presentante un com­ portamento psicotico iniziato all’età di tre anni e mezzo. La bambina, nonostante tre anni di regolare frequenza in una scuola speciale, non aveva ancora potuto essere ammessa alla prima classe elementare. Du­ rante quella prima seduta i terapeuti osservarono un fenomeno ripcli-

Iivo, Se essi liiccviino iilLi Imiiil>iini delle domande, la madre immedia­ tamente rispondeva pei lei, Senza elle i terapeuti avessero formulato alcun rilievo, i genitori spontaneamente spiegarono che la bambina non poteva rispondere perché non sapeva costruire frasi: pronunciava soltanto parole isolate. Alla fine della seduta i terapeuti consegnarono a ciascuno dei genito­ ri un quadernetto con la seguente prescrizione: durante la settimana successiva, i genitori dovevano scrivere con la più grande esattezza, cia­ scuno sul proprio quadernetto, tutte le espressioni verbali della bambi­ na. Dovevano prestare estrema attenzione per non dimenticare nulla. Una sola omissione avrebbe potuto nuocere al lavoro terapeutico. Tale prescrizione mirava a vari scopi: a) accertare la disponibilità dei genitori di fronte alla prescrizione; b) permettere alla bambina un’esperienza nuova, quella di essere ascoltata e di riuscire eventualmente a completare delle frasi (dato che i genitori, tutti intenti a scrivere, non potevano interromperla); c) apportare ai terapeuti dati importanti; d) strutturare la seduta seguente sulla lettura dei quadernetti, evi­ tando così di cadere nel chiacchiericcio e nella ripetizione. Riferiamo, per inciso, questo seguito incredibile. Nella seconda se­ duta si lessero sul quadernetto tenuto dalla madre frasi complete an­ che se elementari. Ma sul quadernetto tenuto dal padre, questi lesse una frase per noi stupefacente, in paragone al comportamento ebete tenuto dalla bam­ bina in seduta. (Tale frase risultò pronunciata dalla bambina mentre si trovava sola col padre in automobile.) “Papà, spiegami, anche i trattori hanno la frizione?” Tuttavia, con nostro ancor più grande stupore, il padre accompagnò la lettura di quella frase con mesti scuotimenti del capo e infine chiuse di botto il quadernetto fissandoci con aria smarri­ ta e sussurrando in tono di mistero "... ma guardino cosa va a dire questa bambina... ” quasi si trattasse della frase più inequivocabilmen­ te indicativa della sua follia. Tuttavia, anche una prescrizione apparentemente innocua come quella sopra descritta può esporre a errori qualora i terapeuti non ab­ biano saputo cogliere e valutare nella giusta misura certi comporta­ menti indicativi di un peculiare gioco familiare. Così, con un’altra fa­ miglia che presentava un bambino di 6 anni, psicotico, oltre a una fi­ glia sedicenne apparentemente sana, prescrivemmo alla fine della pri­ ma seduta la compilazione del quadernetto con le espressioni verbali del piccolo psicotico. Tale prescrizione fu però da noi data alla sola 65

DIO)',lie, col prclcslo che il marno, commesso . ................ , .1.1 .issciilc ila casa per urna la settimana. La nostra intenzione eia < li sci vini ili questo come stratagemma per separare la coppia. Il comportamento ili quella famiglia ci aveva purtroppo sedotti a credere (ma quanto inge­ nuamente!...) che la moglie, venendo sola alla successiva seduta, ci avrebbe dato certe informazioni che non osava dare in presenza del marito. Rientrati in seduta per dare la prescrizione, trovammo costui

in piedi, avanzato di alcuni passi rispetto alla famiglia che gli sedeva dietro, e con le braccia un poco allargate, nell’atteggiamento di chi protegge un suo esclusivo possesso. Una tale inequivoca comunicazio­ ne posturale avrebbe dovuto avvertirci dell’errore che stavamo per commettere. Purtroppo non ne prendemmo atto, e convocammo la moglie sola alla seduta seguente. Il giorno stesso dell’appuntamento telefonò il marito comunicandoci che la moglie non poteva venire; era a letto ammalata. Vanamente tentammo di recuperare la famiglia. L’errore risultò irrimediabile. In altri casi, e particolarmente quando la famiglia non appare affat­ to motivata al trattamento, ma sospinta a forza dall’inviante, ricorria­ mo a tattiche più complesse e a prescrizioni niente affatto innocue allo scopo di mettere la famiglia in crisi. Questa è una delle mosse terapeutiche più difficili e che più espone all’errore, soprattutto per ciò che riguarda il giusto dosaggio nonché la possibilità di coinvolgere tutti quanti i membri mettendoli sullo stesso livello. Incontriamo inoltre per la prima volta una famiglia del tutto sconosciuta e dal canto suo ben decisa a darci il minimo di informazio­ ni utili. Esponiamo qui, per esteso, la prima seduta con una famiglia che chiameremo Villa. L’inviante di tale famiglia, una neuropsichiatra infantile, aveva pre­ so precedentemente contatto con un collega del Centro, preavvisando dell’invio, e dando notizie assai scarne, giacché si trovava in un mo­ mento di superlavoro e aveva pochi attimi a disposizione. La sua dia­ gnosi era di psicosi autistica in un bambino di 5 anni. I terapeuti, dal canto loro, erroneamente omisero di riprendere contatto con la colle­ ga neU’imminenza della seduta, onde ottenere più ampie informazioni, autocondannandosi, come si potrà vedere, a uno sforzo da indovini. Sulla scheda di prenotazione (risalente a diversi mesi prima) era stata trascritta, pressoché verbatim, la conversazione telefonica avuta con la madre all’atto della prenotazione. In questa essa diceva di aver faticato molto a convincere il marito a 66

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ililervenire iilln nciIiiih, Cem liiisciin stilo perché la neuropsichiatra, che curava Lillo con psicolnrinaci, si era rifiutata di rivederlo sinché non avessero lat to una seduta familiare presso il nostro Centro. La ma­ lattia di Lillo, proseguiva la madre, era iniziata a tre anni e mezzo, in seguito a un forte raffreddore. Lillo ne uscì completamente cambiato. Rifiutava di giocare, sia da solo che con altri bambini. Da allora se ne sta in casa tranquillo, come assente. A volte piange senza motivo. A ta­ vola è giocoforza imboccarlo, perché sta lì trasognato e mangia senza accorgersene. Episodicamente, e senza alcun motivo, ha improvvisi scatti di furia e scaglia qualche oggetto lontano da sé. In tali casi, la madre gli somministra del cibo e lui si calma. Alla prima seduta si presentano due genitori più senili di quanto comporti la loro età. La madre spinge avanti un bambino dal colorito giallognolo, l’aspetto di un vecchietto con la pancetta prominente e un’espressione pecorina. Il bimbo se ne sta immobile sulla poltrona per gran parte della seduta: non parla e non risponde ad alcuna do­ manda. I terapeuti indagano brevemente sulla storia dei genitori. Ri­ sulta che si sposarono abbastanza tardi, avendo per pronuba un’agen­ zia matrimoniale cattolica. Non avevano avuto precedenti esperienze amorose. Si trovarono subito d’accordo, in quanto entrambi “sempli­ ci” e con le stesse idee (sottolineiamo la qualifica di “semplice” in quanto reiterata nel corso del colloquio con ridondanza altissima). Il loro livello socio-culturale è molto basso. Hanno entrambi la licenza elementare. I cosiddetti disturbi della comunicazione appaiono, in entrambi, imponenti. L’interazione è resa quasi insopportabile dal continuo dire e disdire, squalificare e controsqualificare, con in più il vezzo di termi­ nare quasi sempre le frasi con un “mah...” criptico che lascia l’interlo­ cutore a mani vuote. Puntando i riflettori sui rapporti con le rispettive famiglie estese, ci sembra di capire che la famiglia della madre sia ri­ masta alquanto in disparte, e non sostenga un ruolo importante. Intri­ catissimi appaiono invece i rapporti con la famiglia del padre. Costui visse fino a 37 anni con la madre e la sorella più giovane, Zi­ ta. Nella stessa villetta, a tre piani, vivevano pure i suoi due fratelli, con mogli e figli. Entrambi i fratelli sono diplomati, con buona posizione economica. La villetta era stata costruita mediante un mutuo bancario non ancora estinto. Nina, la moglie, fu bene accolta dalla suocera e dalla cognata “a causa della sua semplicità”. Per far posto agli sposi, l’appartamento della suocera venne diviso con un armadio sistemato di traverso nel 67

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commie corridoio, l'ino alili morte della suoi era mito andò pei il ine glio. Ma subito dopo la morte di lei, Zita comincio a lit igare coi I rateili: pretendeva che le venisse liquidata la sua parte di casa per una cifra esorbitante. Nina, che voleva fare da paciere, fu accusata violentemen­ te da Zita di “essere la causa di tutto”, il che provocò in lei un tracollo morale e una indignazione enorme nel marito, che non sapeva capaci­ tarsi di così ingiusta accusa. Finalmente, con l’intervento di amici, i fratelli si accordarono per versare una cifra a Zita, che si sposò e scom­ parve. In quel periodo (precedente la malattia di Lillo) Nina, depressa, insisteva col marito per cambiare abitazione e sottrarsi alle liti, ma non approdò a nulla. Dopo la partenza di Zita, i rapporti coi fratelli e le co­ gnate divennero freddi. “Erano passati per sempre i bei tempi in cui tutti ci riunivamo la sera, a guardare la televisione nella cucina della vecchia mamma.” Tuttavia, nonostante le nostre insistenti domande, non riusciamo assolutamente a venire a capo dei motivi di tale fred­ dezza. Come mai? Non era stata soltanto Zita il pomo della discordia? Non si erano tutti trovati alleati contro di lei? Le domande non otten­ gono che risposte vaghe, a guisa di proverbio: “Quando si è stati scot­ tati si cerca di stare alla larga...”. Ma è impossibile capire chi mai sia stato scottato. Fu poco dopo il matrimonio di Zita che Lillo improvvisamente cambiò. I nostri sforzi per ottenere qualche notizia su avvenimenti im­ mediatamente precedenti annegano in un fiume di contraddizioni. Al­ lo stesso modo riesce impossibile ottenere notizie precise sui segni ini­ ziali della psicosi di Lillo. E solo durante quest’ultima sequenza transa­ zionale che Lillo, per la prima volta, si muove dalla sua poltrona: due volte si avvicina alla madre per tapparle carezzevolmente la bocca, più volte si tura le orecchie. Non prende mai contatto col padre, che siede sull’orlo della poltrona, al capo opposto della stanza. In discussione di seduta, l’équipe si ritrova d’accordo sulla totale assenza di motivazione della famiglia a intraprendere una terapia. Essi sono venuti solo per accontentare la neuropsichiatra, ma è evidente che ci hanno nascosto notizie di importanza cruciale. Sarebbe quindi un errore offrire la terapia familiare. Appare invece opportuno definire la terapia familiare come indi­ spensabile, ma, contemporaneamente, rifiutarla, allo scopo di spingere i genitori a richiederla motu proprio. Ma come? Un accenno dei tera­ peuti a un’eventuale possibilità di cambiamento di abitazione ha tro­ vato in entrambi i coniugi un muro di resistenza: è una cosa impossibi­ le, per gravi motivi economici. Inutile insistere; è chiaro che se i coniu-

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gi potessero decidere di cniiibiiire cusii lo avrebbero già fatto. Ma allo­ ra, perché noi) lasciano il campo? b'ormuliamo l’ipotesi che ci appare più probabile: entrambi sperano probabilmente di ottenere qualcosa dalle famiglie dei parenti.1 In tale intricata e tacita battaglia, Lillo sembra essersi pesantemente coinvolto. È probabile che egli riceva l’ingiunzione verbale di essere gentile con i parenti e di giocare nel cortile coi cuginetti, mentre, taci­ tamente, gli viene ingiunto di tenersi alla larga. Nel double-bind, Lillo ha trovato la soluzione psicotica: non se la farà più con nessuno. Dopo tale discussione, decidiamo il seguente intervento terapeuti­ co. Consegneremo solennemente alla famiglia una nostra relazione, destinata alla neuropsichiatra inviarne, con la quale la famiglia ha un appuntamento di lì a 14 giorni. Ma tale relazione non sarà consegnata in busta chiusa, conformemente all’uso. Sarà invece letta a voce alta e chiara da uno dei terapeuti prima di consegnarla al padre. (E questo allo scopo di captare le diverse retroazioni.) Il referto è il seguente: Gentile Collega, nel caso della famiglia Villa, siamo pienamente concordi con la sua in­ dicazione, cioè con la necessità di fare circa dieci sedute di terapia fami­ liare. Tuttavia, al momento attuale, la psicoterapia non può proseguire a causa di un fatto: la straordinaria sensibilità di Lillo. Lillo è un bambi­ no di sensibilità straordinaria, perché, già dall’età di tre anni e mezzo, non si sente di giocare con persone che non apprezzano la sua mamma. Poiché, da quanto ci è stato detto in seduta, non vediamo per ora la possibilità che la mamma riconquisti quella stima che la suocera le dava per le sue doti di semplicità, Lillo non potrà riprendere a giocare e a comportarsi come gli altri bambini. Tanto più che Lillo, dato che il pro­ blema è con le famiglie degli zii, è così delicato che, per non offendere nessuno, non gioca neppure da solo, né con altri bambini. Solo quando la signora Villa avrà qualche idea per tentare di riconquistare l’apprez­ zamento dei parenti, potremo risentirci per la seconda seduta.

La lettura del referto, fatta da un terapeuta con voce alta e pause ben dosate, provoca in Lillo retroazioni drammatiche. Allorché il tera­ peuta giunge alle parole “Lillo è così delicato che, per non offendere 1. Formulammo tale ipotesi in base all’esperienza precedente, più volte ripetuta con le fami­ glie di bambini psicotici. Di frequente incontrammo coppie di genitori imprigionate in una du­ plice, coperta simmetria: quella fra loro e quella con qualche membro importante di una delle rispettive famiglie estese, da cui ciascuno dei due coniugi, competitivamente, si aspetta di strap­ pare, un giorno, la palma della vittoria cioè una conferma incondizionata (che, ovviamente, non arriverà mai).

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Dessimo.il viso del piccolo incomincia a si i nvolgersi. I terapeuti al­ lo specchio lo fissano intensamente. Il mento comincia a tremargli, ser­ ra le labbra, cerca di controllarsi, ma infine scoppia in un pianto dirot­ to. Poi bruscamente si alza, si butta addosso alla madre e comincia a baciarla e carezzarla. La madre, dal canto suo, mentre accoglie passi­ vamente queste carezze, si rivolge vivamente ai terapeuti dicendo: “Ma non è mica facile! Come potrei trovare il modo di essere apprezzata dai miei cognati?”. Retroazione di conferma, come quella di Lillo, ma tuttavia sorprendente, giacché la donna si comporta come se essa stes­ sa avesse dato ai terapeuti tale informazione! Il padre invece, all’altro canto della stanza, se ne sta zitto e immobile. Allorché i terapeuti si al­ zano per congedarsi, Lillo si butta a terra, gridando e scalciando, men­ tre lancia sguardi di odio ai terapeuti. I genitori lo portano via di peso. Poco dopo la seduta, telefonammo alla collega inviarne per infor­ marla. Nel corso del colloquio essa ci diede notizie fondamentali. Ci disse che il comportamento psicotico di Lillo, un anno e mezzo prima, era iniziato con crisi di agitazione durante le quali il piccolo pronun­ ciava velocissimamente e iterativamente una sola frase: “Si cambia ca­ sa, si cambia casa, si cambia casa...”. Durante un colloquio diagnosti­ co, invitato a disegnare, aveva disegnato un cortile pieno di ometti. Uno di questi, più alto degli altri, era messo in disparte, isolato dentro un cerchio e circondato da una gabbia nera. La collega ci informa inoltre che da un anno lei stessa insiste coi ge­ nitori perché cambino abitazione. Ha persino dimostrato loro, coi conti alla mano, che non è affatto impossibile farlo. Ma evidentemente i motivi per non farlo sono ben altri! Dal canto nostro spieghiamo alla collega che il referto che le verrà portato è in realtà un tentativo di effettuare un intervento terapeutico paradossale. Subordinare la continuazione della terapia alla realizza­ zione di una pretesa impossibile: quella di riguadagnare la stima dei cognati. Giacché, se la famiglia la riguadagnasse, la terapia diventereb­ be inutile: Lillo sarebbe guarito. Ma giacché riguadagnare la stima dei cognati risulta impossibile, i genitori si trovano a un bivio: o rinunciare alla terapia, o lasciare il campo, cioè abbandonare la pretesa di ricon­ quistare l’apprezzamento perduto. La madre si rifece viva dopo un mese. Telefonò alla terapeuta di­ cendole che la neuropsichiatra aveva trovato Lillo migliorato, ma insi­ steva perché la famiglia chiedesse un secondo appuntamento. Al mo­ mento la cosa era impossibile. Per la prima volta nella vita avevano de­ ciso di andare tutti insieme al mare per quindici giorni. “So che questo /()

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non risolve nienle", iiggimiNc, "nm c In prillili volta che chiudiamo casa da quando ci siamo sposali. Comunque, dottoressa, sono ormai con­ vinta che è tutta colpa mia! " Dopo un altro mese la donna ritelefonò alla terapeuta. “Abbiamo portato Lillo a un’altra visita di controllo. La dottoressa dice che il mi­ glioramento c’è, ma che è necessario che ritorniamo da voi. Ma mio marito non è d’accordo per via della spesa. Io non so cosa fare..Do­ po tSle telefonata, discutemmo nuovamente il caso e il nostro interven­ to terapeutico. Decidemmo che l’intervento, nelle sue linee essenziali, era stato abbastanza acuto e corretto e aveva sortito un certo risultato. Rilevammo tuttavia due omissioni. La prima consisteva nell’aver man­ cato di coinvolgere direttamente anche il padre, citandolo nel referto come colui che più di tutti soffriva per la perdita della stima dovuta a sua moglie. La seconda consisteva nell’aver omesso di completare il paradosso di fine seduta con un altro paradosso: fissare un appunta­ mento successivo, sia pure dilazionato. E ciò in evidente contrasto con la sentenza da noi data sull’impossibilità di proseguire la terapia. Le difficoltà della prima seduta non sono così grandi allorché la fa­ miglia ci giunge angosciata, in crisi, e non sospinta a forza dalle insi­ stenze degli inviami.2 In tal caso è perfino possibile arrivare già nella prima seduta alla prescrizione del sintonia al paziente designato con ri­ sultati sorprendenti, purché si abbia cura di connotare positivamente il sintoma in senso sistemico, schierandosi dalla parte della tendenza omeostatica. Riportiamo la prima seduta di una famiglia che chiameremo Lauro. Il colloquio era stato fissato con relativa urgenza (dopo tre settimane dalla prima richiesta) sia per il caso in sé, sia per le insistenti telefonate del padre che appariva angosciato, disperato. La famiglia era inviata da un Centro di Psichiatria Infantile, dove il figlio era stato visitato e sottoposto a una serie di reattivi psicodiagnostici. La diagnosi era di sindrome psicotica acuta in soggetto di 10 anni intellettualmente su­ perdotato. Erano stati prescritti e somministrati psicofarmaci in dose abbastanza elevata, senza risultati. Alla prima seduta il padre appare un uomo emotivo, dall’aspetto un po’ flaccido. La madre, snella e ben tenuta, mostra al contrario un 2. Escludiamo invece per principio, in seguito a esperienze disastrose, di ricevere una fami­ glia, o di proseguire i colloqui, allorché un membro della famiglia si trovi in trattamento indivi­ duale. In tal caso infatti, anche se il collega fosse consenziente o fosse addirittura l’inviante stes­ so, si instaura immediatamente un gioco competitivo globale fra le due terapie.

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comportamento controllato, distaccalo. I'.rilesti>, ili 1(1 .inni, unico h glio della coppia, assai allo e sviluppato per la sua eia, colpisce per un comportamento peculiare, al limite del farsesco. Cammina rigido, un po’ curvo in avanti, a passetti brevi e strascicati come quelli di un vec­ chio. Seduto esattamente nel mezzo fra i due genitori, risponde alle domande dei terapeuti con una vocetta nasale, in falsetto. Impiega ter­

mini inusitati e difficili, alternati a espressioni da libro di lettura scola­ stica del primo Novecento. Per esempio, interrompe un discorso del padre con la frase seguente: “E d’uopo intervenga con una precisazio­ ne, acciocché lor signori non abbiano a prendere lucciole per lanter­ ne”. Risulta che tale comportamento di Ernesto ebbe inizio brusca­ mente tre mesi innanzi, dopo un breve periodo in cui la famiglia aveva ospitato una parente. Ernesto si era chiuso in sé, scoppiava frequente­ mente in pianto, senza motivo, sovente stringeva i pugni in modo mi­ naccioso, senza rivolgersi contro alcuno. Ex primo della classe negli anni scolastici precedenti, è attualmente il peggiore. Vuole essere ac­ compagnato a scuola dalla madre, nonostante le beffe dei compagni, coi quali ha rapporti ostili. Non vuole più uscire col padre, perché ha paura che qualcuno spari al padre, e, sbagliando mira, colpisca lui. Nonostante le proteste del padre, che nega desolatamente, sostiene di essere stato sempre inseguito, quando usciva col padre, da un tipo ma­ gro, con la barba e il viso aspro: “Lo vedevo di dorso, e poi me lo ritro­ vavo di fronte, e siccome non sono un allucinato, lo riconoscevo benis­ simo”. Dalla storia della famiglia risulta che i Lauro hanno sempre coabitato con la famiglia della moglie, costituita dal padre e dai tre fra­ telli maggiori (la madre era morta ancor giovane). Giulia, la madre di Ernesto, dovette accudire per anni a tutti quanti, ed era cronicamente sfinita. Quando finalmente, sposatisi due fratelli, i Lauro presero una casa propria, il nonno andò ad abitare con loro. Vi restò quattro anni, fino alla morte, avvenuta allorché Ernesto aveva 6 anni. Dopo di che la famiglia traslocò nuovamente. Ernesto, a detta dei genitori, sofferse molto per la morte del nonno, a cui era estremamente affezionato. Era sempre stato un bambino piuttosto saggio per la sua età, ma socievole e allegro. Dopo la morte del nonno si chiuse in casa, non frequentò più gli amici. Passava i po­ meriggi sui compiti di scuola, o leggendo. I genitori erano tuttavia sod­ disfatti giacché il profitto scolastico era eccezionale. Fu soltanto in settembre, dopo la partenza della zia, che Ernesto cambiò in modo subitaneo e drammatico. I genitori non sanno capaci­ tarsi del perché. Risulta solo che Giulia aveva trascorso con la cognata

tin periodo piiilii'oliinnciiic lch< c. Avevi! ospitalo per un mese la co­ gnata, che normalmente incoili ni solo nelle vacanze estive, a causa di una serie di esami medici cui questa doveva sottoporsi. “Ero felice per­ che, avendo sempre vissuto solo con uomini, non mi pareva vero di stare con una donna, di parlare con lei di tante cose.” I terapeuti non riescono a sapere di più. Passano allora a chiedere ai genitori che cosa pensano dell’attuale modo di fare di Ernesto, che sembra un ottanten­ ne e pajla come un libro stampato di un secolo fa. E padre non si pro­ nuncia. La madre minimizza, dicendo che Ernesto è sempre stato un bambino molto precoce, ha sempre parlato con grande ricchezza di vocaboli. Ammette tuttavia che il fenomeno si è recentemente assai ac­ centuato. Ernesto interviene con una frase criptica, nel suo stile aulico: “La loro domanda non mi fa maraviglia, non mi fa punto maraviglia. È stato già rilevato. Credo che sia perché non mi piacciono i riassunti [allude forse alla maniera imprecisa e vaga con cui si esprimono i suoi?]: Non faccio domande. Leggo molto. Cerco le risposte nei testi. Preferisco leggere i testi”. A questo punto i due supervisori allo spec­ chio chiamano uno dei terapeuti. Sembra ormai chiaro che Ernesto sta mimando il nonno. È meglio non insistere con altre domande, che la famiglia sembra ben decisa a evadere. Occorre coinvolgere direttamente Ernesto, lavorare con lui. Il terapeuta rientra, e dopo qualche minuto chiede a Ernesto di raccontare come era il nonno, come si comportava. Ernesto accusa il colpo, divaga, dice di non ricordare. Il terapeuta prega allora Ernesto di mostrargli come il nonno parlava con la mamma. Dopo averci pensato un poco, Ernesto si decide a farlo. Aggiustandosi solennemente sul suo sedile, esclama: “Ma va là, Giulia, ma va...”. (Il tono è di bonaria superiorità, accompagnato da un gesto che sembra significare: “Smettila con queste sciocchezze!”) Dopo di che, il terapeuta chiede a Ernesto di mostrare come papà parla con mamma a casa. Stavolta Ernesto esita a lungo e poi si rivolge verso il padre dicendogli: “Papà, non vorrei offenderti... ma se può essere vantaggioso...”. E padre fa un vago cenno di assenso. Ernesto esegue allora l’imitazione: “Giuulia... Giuulia... [Voce piagnucolosa] pen­ serò io a tutto - ti prego... vai a fare il pisolino... ”. Dopo questo, i terapeuti si alzano ed escono dalla sala. I due osservatori allo specchio si fermano ancora per un poco. Ve­ dono il padre rimproverare agitatamente Ernesto: “Ma perché hai det­ to questa roba ai dottori?” ed Ernesto rispondergli: “Che lo sappia­ no. .. che sei buono, che sei buono come il pane... La madre invece è rimasta chiusa in sé, immobile, come tediata.

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Ill discussione di equipe prevale l'ipotesi i lie I .11 lesi 1 >, nel nie/.zo di una coppia inconciliabile, abbia avvertilo un qualche pericolo, subito dopo la morte del nonno. Chiudendosi in casa a leggere c a studiare,

ha cercato in qualche modo di sostituirlo. Ma, con la venuta della zia, il pericolo di un cambiamento, forse di una minacciosa alleanza fra le due donne, deve essergli apparso ancora più grande. L’équipe concor­ da con l’impressione che, sotto sotto, Ernesto sia più legato al padre, e sia convinto dell’incapacità di lui a imporsi, a prendere un ruolo ma­ schile, a controbilanciare il crescente potere materno. Per rafforzare l’omeostasi, Ernesto ha resuscitato il nonno, il solo che era capace di controllare la mamma, di tenerla al suo posto. Di più, per il momento, l’équipe non è riuscita a capire. Si decide perciò di chiudere la seduta con un commento che connoti positivamente il comportamento di Er­ nesto, senz’affatto criticare i genitori, ma tuttavia alludendo, in modo criptico, non verbale, a una certa paura che nutre Ernesto per il padre, nel senso di una sua possibile sconfitta. Preparato minuziosamente il commento, anche nei suoi aspetti non verbali, i due terapeuti rientrano nella sala. I sospetti dell’équipe sono immediatamente confermati dal cambiamento di posizione di Ernesto: questi ha sospinto il suo sedile assai più accanto a quello del padre, ma avanzandolo di qualche poco, quasi a nascondere il padre alla vista dei terapeuti. Per prima cosa, i terapeuti annunciano la loro conclusione che è ne­ cessario proseguire la terapia familiare. Il decorso è progettato in 10 sedute, distanziate di circa un mese. ERNESTO (agitato, ma sempre col tono in falsetto da vegliardo)'. Ma il re­

sponso? Qual è il responso? TER. UOMO: Chiudiamo questa prima seduta rivolgendoci a te, Erne­

sto, per dirti che stai facendo una buona cosa. Abbiamo capito che tu consideravi il nonno come il pilastro centrale della tua famiglia (la mano del terapeuta si muove in senso verticale, quasi a tracciare un immaginario pilastro), la cementava, manteneva una certa equità (il terapeuta stende le mani avanti, orizzontalmente, tenendole sullo stesso piano). Mancato il nonno, hai avuto paura che qualcosa cambiasse. Allora hai pensato di assumerti tu il ruolo del nonno, forse per timore che l’equità potesse alterarsi (il terapeuta abbassa lentamente la mano destra, corrispondente al lato dove siede il padre). Per ora è bene che tu continui questo ruolo che ti sei spontaneamente assunto. Non devi cambiare nulla fino alla prossima seduta, che sarà il 2 I gennaio (cinque settimane di intervallo}. /■I

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Dopo questo, i leiiipriiii si iilzmio per congedarsi. 1 genitori sem­ brano inlerdetIi, eonlusi. Ma l'.rnesio, dopo un momento di shock, balza precipitosamente dulia sua seggiola, e, abbandonati i modi da ot­ tantenne, si precipita verso la terapeuta che sta uscendo e afferrandola le grida: E la scuola?... Lo sa che a scuola sono un disastro? Lo sa?... Lo^a che rischio di ripetere la quinta?... Lo sa? ter. donna {dolcemente)-. Per il momento sei così preso dal compito generoso che ti sei spontaneamente assunto in casa che è naturale non ti restino energie per la scuola... come potresti?... ERNESTO {alzando la voce, con espressione disperata)'. Ma per quanti an­ ni, per quanti anni dovrò ripetere la classe quinta per riuscire a metterli d’accordo? E ci riuscirò poi? Me lo dica!... TER. DONNA: Di questo parleremo il 21 gennaio. Ci sono le vacanze di Natale. MADRE {molto turbata)-. Ma io non ho potuto dire cosa era successo in settembre... volevo dire... TER. UOMO: Rimandiamo tutto quanto alla prossima seduta. PADRE {squalifica tutto quanto è avvenuto chiedendo banali consigli sulle vacanze natalizie). ERNESTO:

Questo primo intervento risultò corretto già dalle retroazioni im­ mediate. Nella seconda seduta notammo altri cambiamenti. Ernesto aveva lasciato il comportamento da vegliardo, anche se si esprimeva in modo un poco aulico. Da due settimane frequentava la scuola con buon profitto, né parlava più di inseguitori dal viso aspro. Questi cam­ biamenti ci permisero di ottenere nuove informazioni e quindi di esco­ gitare nuovi interventi efficaci, produttori a loro volta di ulteriori cam­ biamenti e di ulteriori informazioni. E così via per dieci sedute che ri­ sultarono in una radicale trasformazione della famiglia e, naturalmen­ te, di Ernesto. La settima seduta di questa famiglia sarà riferita nel capitolo 11.

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1 RITUALI FAMILIARI

Una tattica terapeutica da noi escogitata la quale si è rivelata molto efficace è quella di prescrivere alla famiglia dei rituali. Questi possono essere sia dei rituali da eseguirsi una tantum che dei rituali ripetitivi. Fra i riti familiari che abbiamo finora prescritti, e che hanno avuto ef­ fetti sorprendenti, ci sembra di doverne presentare uno in maniera particolareggiata per vari motivi. Perché tale rito fu anche teso allo scopo di far cadere un mito alla cui costruzione avevano collaborato tre generazioni. Perché, per una adeguata comprensione di tale rito, è necessario al lettore conoscere l’intera storia della famiglia e l’evoluzione transgene­ razionale del suo mito. Perché l’esposizione, anche se riassuntiva, del decorso del tratta­ mento psicoterapico, permetterà di analizzare gli errori commessi dal­ l’équipe terapeutica, tanto più ammaestranti, al solito, che non i succes­ si. Giacché furono proprio gli errori commessi, e le conseguenti retroa­ zioni, a suggerirci finalmente l’invenzione e la prescrizione del rito. Perché, infine, l’analisi particolareggiata della forma e degli scopi di tale rituale ci faciliterà il compito di spiegare che cosa intendiamo per rituale. Chiameremo questa famiglia Gasanti. Ne esporremo la storia lungo l’arco di tre generazioni, così come potemmo ricostruirla, retrospetti­ vamente, al termine della terapia. ( !n rito contro un mito letale La nostra storia dei Gasanti inizia nei primi anni del Novecento, in un grosso podere isolalo in una zona depressa dell’Italia centrale. Da 77

molle generazioni i (Insanii, che non sono padroni ma mezzadri, suda­ no su quella terra per campare. La prima generazione è costituita dal padre, “il capoccia”, un lavoratore dal pugno di ferro, che poggia la sua autorità incontestata su un codice antico di regole patriarcali affat­ to mutate dall’epoca feudale, e da sua moglie, una donna che si direb­ be forgiata sul modello dei Libri della famiglia che Leon Battista Al­ berti scrisse nel 1400. Una lavoratrice indefessa e parsimoniosa fino al­ lo scrupolo, e soprattutto convinta che le donne devono soltanto servi­ re, partorire, allevare, non discutere la superiorità e i diritti degli uomi­ ni, paghe della soddisfazione di sentirsi virtuose. Essa ha dato al mari­ to cinque figli maschi, che costituiscono la seconda generazione (l’ulti­ mogenito, Siro, diverrà il padre della nostra famiglia). Da sempre quella gente nasce contadina e muore contadina. Il lavo­ ro è duro, l’allevamento del bestiame non risparmia neppure i giorni fe­ stivi. I figli, appreso in qualche modo a leggere e scrivere nella scuola del villaggio più prossimo, sono presto mandati nei campi, dove ancora si lavora a forza di braccia. E le braccia sono preziose. Non è immagina­ bile alcuna alternativa, alcuna possibilità di evasione. Che altro può fare un contadino ignorante, ma tuttavia insediato in un podere abbastanza vasto da nutrire tutti e da permettere qualche risparmio, se non restare coi suoi? La sola cosa da farsi è di sgobbare e andare d’accordo. La famiglia agricolo-patriarcale, in quelle zone, negli anni Trenta ancora pressoché isolate dal resto della cultura, era considerata il solo mezzo sicuro per la sopravvivenza e la dignità dei suoi membri. Andar­ sene significava emigrare, sradicarsi, senza alcun mezzo e alcuna pre­ parazione, privarsi dell’appoggio e della solidarietà del gruppo nel ca­ so di malattie e disgrazie. In tale cultura, il padre con figli maschi era fortunato. Giacché non solo avrebbe avuto braccia per i campi, ma, a tempo opportuno, nuore ubbidienti e laboriose da destinare alla casa e al podere. Perciò ogni figlio era tenuto a sposarsi presto, in ordine di età. La sposa, debitamente approvata, sarebbe andata ad abitare con la grande famiglia e sarebbe stata sottomessa, nell’ordine, al capoccia, al­ la suocera, al marito, ai cognati e alle cognate che eventualmente l’a­ vessero preceduta. A tale usanza secolare si uniformavano i Gasanti. I primi quattro fratelli erano già da tempo sposati allorché Siro, l’ultimo, tornò dalla guerra. Era stato via alcuni anni, dal 1940 al 1945, aveva combattuto, aveva visto molte cose. Aveva ricevuto in caserma una certa istruzione: un corso per meccanici e una patente di camionista. Smobilitato e ri­ tornato al podere si ritrovò depresso, strano. Per qualche tempo non 7K

riuscì a lavorine e In minio |»i-i "iiuiiirinienlo”. Poi gradualmente si riadattò, riprese il lavoro, Brìi presto il "capoccia” prese a pungolarlo. Era tempo che si sposasse. Due nuore erano gravide: occorreva una donna per la cucina e il governo degli animali. C’era già una candidata, una figlia di contadini. Ma Siro aveva in te­ sta Pia, una sartina graziosa che aveva incontrato anni prima in città, durante il servizio in caserma. La ricercò, trovandola un po’ sciupata e triste. Era stata abbandonata dal fidanzato dopo anni di impegno e si sentiva una ragazza finita. Così Pia accettò di sposare il contadino con­ tro il parere dei genitori e delle amiche: “Non ci resisterai a quella vi­ ta... vedrai... tornerai presto indietro... ”. Ma Pia sapeva bene che non sarebbe più tornata: era come se si facesse monaca. I Gasanti, dopo molta esitazione e diffidenza “sulla ragazza di città”, l’accettano. Capi­ scono che è una ragazza seria, che sa sgobbare e non aprir mai bocca. Ma i tempi sono cambiati: la famiglia è piena di tensioni. Si ascolta la radio e si va talvolta in città, si vedono donne eleganti che fumano, che guidano l’automobile. Le giovani nuore esecrano il vecchio che non molla il comando e critica persino il nuovo grembiule, e la suocera, che sempre si schiera dalla parte dei suoi maschi. Ad esempio, soltanto loro hanno il diritto di svagarsi la domenica in paese. E tutti quanti via coi motorini, e le donne a casa a fare i loro lavori: mungere le bestie e pulire le stalle. Alcune nuore sospirano di andarsene, le più coraggiose semi­ nano zizzania e tentano di aizzare i mariti. Ma, di fronte al pericolo, co­ storo fanno muro con i vecchi, ratificano una coalizione silenziosa. I ve­ ri Gasanti sono loro, i maschi. Devono dominare le donne, imporre lo­ ro il silenzio. Ogni lamentela, ogni espressione di rancore, di gelosia, deve venire immediatamente squalificata. Si deve proclamare che non esistono disparità nella distribuzione dei compiti e delle spese: ogni co­ sa è fatta con assoluta equità. E i bambini? Devono essere tutti uguali: è vietato fare dei confronti, esprimere dei giudizi. Le rivalità sono impen­ sabili. I figli degli uni sono anche i figli degli altri. Nasce così il mito familiare che dalla famiglia si estende a tutti quanti l’accostano. “Non c’è famiglia in tutta la regione che va d’ac­ cordo come i Gasanti, una così grande famiglia dove tutti si vogliono bene, senza mai un litigio, uno screzio, un pettegolezzo. ” Nella costruzione del mito ha avuto larga parte anche Pia. Arrivata per ultima e sottomessa a tutti, è considerata, dalla suocera, una santa, riconoscimento non piccolo in quella cultura. (Ma dei santi, si sa, ci si approfitta.) È lei la saggia, la servizievole, la madre imparziale di tutti i bambini del clan. Nella prole è stata sfortunata: ha avuto solo due fem7')

mine, Leda e Nora. Le ha accudite con In nIcmnii solici ilinline con cui accudiva i nipoti, senza preferenza alcuna. Anzi, uddelia ira gli altri al delicato compito di cucinare e spartire il cibo, ebbe sempre cura di servire le sue figlie per ultime e coi bocconi meno ambiti. Ciò non le costava alcuno sforzo, le veniva naturale. E vero che le sue bambine l’avevano vista talvolta piangere nella sua stanza. Ma lei aveva sempre spiegato che non si sentiva troppo bene. Che se poi il marito, rientran­ do sfinito dall’aratura, brontolava con lei perché i fratelli gli lasciavano i lavori più faticosi, era lei a calmarlo, a dirgli che non era vero, che la vita era dura per tutti quanti. A questo punto possiamo osservare come tutte le caratteristiche del mito familiare, quale fu precisato da Ferreira, siano ormai in atto. Nella prima generazione, raggiungibile dalla nostra indagine, siamo all’epilo­ go di una credenza condivisa ancora vitale, in quanto connessa alla realtà di una sottocultura agricolo-patriarcale omogenea nel suo isolamento. “La sopravvivenza, la sicurezza, la dignità dei singoli, dipendono dalla famiglia. Chi se ne separa è perduto.” Nell’assenza di alternative, di informazioni, di confronti, non c’è conflitto. Ma, col giungere della seconda generazione all’età adulta, iniziano le tensioni dirompenti. È finito il fascismo con la sua enfasi sulla battaglia del grano: c’è la demo­ crazia. I comizi politici arrivano alle piazze dei villaggi più sperduti. Il lavoro dei mezzadri è definito umiliante, sfruttato. La cultura indu­ striale s’impone attraverso il cinema, la radio, i mercati, i contatti con la gente di città, gente che sa vivere e far soldi con poca fatica. Ma i fratelli Gasanti, ancora capeggiati dal vecchio, ne diffidano. Sono manifestazioni di un mondo impazzito. La loro forza è sempre quella antica: sgobbare e stare tutti uniti. E per starci, devono costrui­ re un mito, un prodotto collettivo, la cui insorgenza, persistenza e riat­ tivazione mira al rafforzamento omeostatico del gruppo contro ogni sollecitazione dirompente. “Noi restiamo una famiglia modello, all’an­ tica, dove tutti stanno insieme e si vogliono bene.” Come ogni mito,

il mito familiare esprime convinzioni condivise concernenti sia i mem­ bri della famiglia, che i loro rapporti, convinzioni che debbono essere accettate a priori, a dispetto di flagranti falsificazioni. Il mito familiare prescrive i ruoli e gli attributi dei membri nelle loro transazioni reciproche, ruoli e attributi che, benché falsi e illusori, sono accettati da ciascuno come cosa sacra e tabù, che nessuno osa esamina­ re e tantomeno sfidare. Un membro individuale può sapere, e talvolta anche sa, che molto 80

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amicizie, la popolarità. I ,e gelosie, le invidie si inlilliscono. Voci .,{

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Pieocctipiillssiini pci limo quel "pensare” di Ernesto, i genitori si erano accordati di darsi il cambio onde fargli compagnia, distrarlo. Quando mamma, sfinita, andava a fare il pisolino, toccava a papà la­ sciare la vicina azienda per costringere Ernesto a giocare con lui a scacchi o a carte, in attesa del risveglio di mamma, che riprendesse il turno di guardia. Dopo tale sfogo a due voci all’indirizzo dei terapeuti, la madre si ri­ volge angosciosamente a Ernesto: “Alla mamma devi dire la verità, Er­ nesto! Fai questo solo per spirito di contraddizione o per qualche al­ tro motivo?”. Ernesto, che si è fin lì limitato a lasciar parlare i genitori, le risponde che non è colpa sua se non riesce a uscire di casa. Il tono, tuttavia, con cui si esprime, non è vivace, ma infantilmente querulo, melenso. La sequenza viene chiusa dal padre che interpella direttamente i te­ rapeuti: “Ciò che oggi vogliamo sapere da voi è se facciamo bene a comportarci come ci comportiamo col bambino, o se sbagliamo tutto, se dobbiamo fare diversamente”.

In discussione di seduta l’équipe è unanimemente d’accordo di evi­ tare il tranello teso dal gruppo, e soprattutto dalla richiesta del padre. Ovviamente è impossibile evadere tale richiesta, bisogna rispondervi. Ma è altrettanto imperativo non entrare nei contenuti, onde evitare squalifiche più che prevedibili. Calcolando che si lavora con la famiglia già da sette mesi, sembra giunto il momento opportuno per lavorare sul rapporto di Ernesto coi terapeuti.1 L’équipe prepara minuziosamente la modalità dell’intervento, e cer­ ca di fare previsioni sulle possibili retroazioni immediate, allo scopo di non cadere in tranelli inattesi. Sospettiamo che Emesto farà il possibi­ le per indurre i terapeuti a criticare i genitori. Probabilmente è arrab­ biato con loro proprio perché non lo fanno. Trascriviamo dal registrato il finale della seduta. TER. UOMO: Poco fa, signor Lauro, lei ci ha fatto una domanda impor­ tante: se fanno bene o male a comportarsi come si comportano con Ernesto. La nostra risposta è che è del tutto indifferente... PADRE {interrompendo)-. Allora vuol dire che io sbaglio? TER. UOMO: No, affatto. Voglio dire che non ha alcuna importanza che I. A cliffcrcnz.il ili nitri interventi descritti, questo, evidentemente, ha un certo “timing”. Non può essere eseguito troppo precocemente, e soprattutto non prima di aver constatato i se­ gni di un rapporto sul lit leulcuiciilc intenso. 09

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facciano in un modo piuttosto che in un all i o, Perche I'.mesto il pro­ blema ce l’ha con noi, con noi terapeuti, non con loro. (Pausa) E per­ ché? Perché Ernesto non ha capito bene cosa noi terapeuti ci aspet­ tiamo da lui, o meglio, Ernesto ha capito che, a causa del nostro ruolo di terapeuti, anche se non lo diciamo, sotto sotto non possiamo che aspettarci che lui cresca, che diventi uomo. Ma qui sta il problema con noi. Se lui cresce come noi ci aspettiamo in realtà non cresce, perché ci ubbidisce come un bambino. Per noi è questo il problema a cui Ernesto pensa continuamente standosene tutto il giorno in casa: al problema che ha con noi. E in effetti ha ragione. Noi siamo prigio­ nieri del nostro ruolo di terapeuti, e quindi non possiamo non desi­ derare che Ernesto cresca. È un problema effettivo che ci mette in stallo. Avevamo visto che Ernesto, allo scopo di diventare uomo, si era scelto un modello tutto suo particolare: il nonno. Forse ora, per crescere, dovrà pensare a dei modi suoi propri... ERNESTO (interrompendo, e mutandosi di botto in un ragazzino intelli­ gentissimo e partecipe)-. Voi state dicendo che se cresco come si aspettano gli altri in effetti non cresco, perché non faccio (gridan­ do) la mia dichiarazione di indipendenza! ! TER. UOMO: Esatto. ERNESTO: Ma allora questo riguarda anche loro! (accenna col pollice ai genitori) c’entrano anche loro nella faccenda... questi signorini!... TER. UOMO (stornando il pericolo di scivolare sulle critiche ai genitori)-. La cosa è complessa, Ernesto. Rivediamo insieme la faccenda della ripresa dei medicinali. La scorsa seduta noi abbiamo ordinato la so­ spensione delle medicine. Non è così? Era un messaggio implicito che noi ti consideravamo pronto a crescere, in fondo era quasi un ordine... e tu ti sei messo a piangere, a star male, e i tuoi genitori te li hanno ridati. Questo dimostra che il tuo problema era ed è con noi. Facendoti ridare i medicinali ci hai comunicato che vuoi deci­ dere tu quando crescere e come crescere. Non direi che è spirito di contraddizione... piuttosto, come dici tu, è una dichiarazione di in­ dipendenza nei nostri riguardi. ERNESTO (aggressivo)-. Ma allora che debbo fare coi medicinali? TER. DONNA: Decidere tu se prenderli o no. ERNESTO (petulante): E allora decido subito che non li prendo più! TER. UOMO (alzandosiper il congedo): La prossima seduta sarà dopo le vacanze, il 3 settembre. Ernesto avrà tempo per pensare al suo pro­ blema con noi... (La madre non ha più aperto bocca, ma dall’espressione tesa del suo viso sembra molto colpita. Ernesto, ritornato vivace e simpatico, strin­ ge cordialmente la mano ai terapeuti. Il padre, che ha invece un’e­ spressione smarrita, si attarda nella stanza per bisbigliare: “Ma allo­ ra...? mi danno buone speranze?”, al che il terapeuta risponde soltan­ to con un cenno in direzione di Ernesto, che è già balzato nel corri­ doio dietro alla madre.) 100

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A questo punto, immaginiamo il lettore chiedersi il perché di un co­ si (ermo proposito di non entrare a discutere direttamente del rapporlo I ra i genitori e il ragazzo. Una ragione fondamentale è stata già data nel capitolo 7, concer­ nente la connotazione positiva. Rispondere alla richiesta del padre entrando nei contenuti non poI eva avere che due alternative: aj o punteggiare arbitrariamente il comportamento dei genitori co­ me causa del comportamento del figlio, e quindi criticarli; b) o punteggiare arbitrariamente il comportamento del figlio come volutamente provocatorio, connotando così il figlio in modo negativo. In entrambi i casi saremmo stati squalificati e ridotti all’impotenza, vuoi immediatamente, vuoi nella successiva seduta. Dal figlio, in quan­ to gli sarebbe stato facile squalificare l’illusione di alternative, dichia­ rando (come già aveva fatto con la madre) che non era colpa sua se si comportava a quel modo, che non poteva farci nulla. Dai genitori, i quali sarebbero ritornati (irritati o depressi) alla successiva seduta per comunicarci la totale inefficienza dei tentativi fatti per comportarsi di­

versamente. Tuttavia questa ragione, per quanto fondamentale, non è la sola. Nei primi anni della nostra ricerca abbiamo commesso l’errore (pur­ troppo ostinato) di credere che un adolescente non poteva “guarire” se noi non riuscivamo a cambiare i rapporti intrafamiliari, e soprattut­ to il rapporto fra i genitori. Ma per far questo entravamo nel problema i n maniera diretta, verbale, mostrando tutto quanto accadeva in sedu­ ta, sia nel rapporto triadico che in quello della coppia, allo scopo di cambiare quanto c’era di “sbagliato”. A parte che così facendo non raccoglievamo che troncamenti, squalifiche, o nei casi favorevoli qual­ che “dressage” superficiale, l’errore più grave consisteva nel messaggio implicito che in tal modo davamo all’adolescente: precisamente che la “conditio sine qua non” per una sua costruttiva evoluzione era che i genitori cambiassero. Non avevamo ancora capito che la pretesa sim­ metrica di “riformare” i genitori costituisce il nucleo, forse il più im­ portante, dei disturbi adolescenziali, ivi compresi quelli psicotici. Infatti non c’è adolescente disturbato che non sia intimamente con­ vinto che lui non va bene perché non vanno bene i suoi genitori (e vi­ ceversa, giacché pure i genitori lo pensano, ma con la variante che cia­ scuno dei due è adamantinamente convinto che la responsabilità è del coniuge). Si aggiunga che in sistemi rigidamente disfunzionanti, come quelli a 101

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transazione psicotica, i figli (e non solo il paziente designalo) volonle resamente si assumono il ruolo di “riformatori”, vuoi con la pietesa di vicariare un coniuge insoddislacenle, o di vendicare un coniuge op­ presso, o di inchiodare alla famiglia un coniuge instabile, o addirittura, come constatammo in una adolescente psicotica, di sostituire un padre ritenuto debole e inetto con un comportamento da “padre di tipo an­ cestrale”, violento, volgare e bestemmiatore. Un ruolo così volonterosamente assunto è ovviamente anche dato dai genitori, ma sempre in maniera coperta, e attraverso coalizioni se­ grete le quali vengono immediatamente negate alla più piccola minac­ cia di venire scoperte. Il compito dei terapeuti è invece quello di comportarsi in modo da distruggere la falsa credenza, da capovolgere l’errata epistemologia fa­ miliare mediante un messaggio inverso. E quale? Che non è affatto compito dei figli migliorare il rapporto dei genitori, o vicariarli nelle loro funzioni. Che un adolescente può evolvere egregiamente, comun­ que sia il rapporto fra i suoi genitori. L’essenziale è che si convinca che la faccenda non lo riguarda affatto. Ma una convinzione così sana non poteva certamente sbocciare in un adolescente che assisteva in seduta alle nostre diatribe impotenti coi suoi genitori, identiche a quelle cui lui stesso, da tempo, si applicava. Né può fare alcuna meraviglia che qualche paziente designato, do­ po un certo tempo, disertasse le sedute. Che diamine, poteva ben prendersi qualche ora di vacanza visto che aveva dei sostituti così pronti a raccogliere il suo mandato ! Il colmo dell’insipienza, a quel tempo, era la nostra convinzione che, così facendo, oltre a scaricare l’adolescente dal suo ruolo ingrato, offrivamo a tutti quanti l’esempio di genitori “migliori”. E non erava­ mo invece che degli adolescenti disturbati, premurosi di distribuire ai genitori pagelline con zero in condotta.2

2. Della validità del “nuovo corso” abbiamo avuto riprove concrete. Tre famiglie, con le quali non avevamo ottenuto risultati soddisfacenti, hanno avuto la bontà di riprcsentarsi sponta­ neamente. Una di queste (con paziente psicotica) lo lece dopo tre anni dalla prima terapia con lo scopo, nemmeno tanto coperto, di rifarci toccare con mano la nostra impotenza. Poche sedu te furono sufficient i a cambiare il gioco avviando una t raslornuizionc tosi rii! i iva.

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XII

I TERAPEUTI ACCETTANO SENZA OBIEZIONI IL MIGLIORAMENTO SOSPETTO

Le modalità di tale tipo di manovra sono state già esemplificate nel capitole? I ritualifamiliari. Tale manovra terapeutica consiste nell’accogliere senza obiezioni un miglioramento o una scomparsa del sintomo che non appaiono af­ fatto giustificati da un corrispondente cambiamento del sistema di transazione familiare. Nasce il sospetto di trovarsi di fronte a una mos­ sa di cui sono complici tutti quanti i membri del gruppo naturale, an­ che se è uno solo a farsene il portavoce. Lo scopo comune è quello di sottrarre ai terapeuti qualche territorio di indagine sentito come peri­ coloso allo statu quo. La caratteristica di tale miglioramento è quella di essere improvviso e inspiegabile, accompagnato non di rado da un at­ teggiamento di disimpegno o di ottimismo del tipo “tout va très bien, madame la marquise” per nulla suffragato da dati persuasivi. Con que­ sto la famiglia fa intendere ai terapeuti (senza dirlo) l’intenzione collet­ tiva di balzare sulla piattaforma del primo treno in transito. Anche in tal caso l’esperienza ci ha insegnato che i terapeuti non possono perdere l’iniziativa. Una possibilità sarebbe quella di rilevare il significato e lo scopo di tale comportamento familiare interpretan­ dolo come “fuga nella guarigione”. Per nostra esperienza ciò è un er­ rore in quanto comporta un atteggiamento critico del tutto in contra­ sto con l’aureo principio della connotazione positiva, e quindi provo­ catore di negazioni e squalifiche, o, peggio, di un braccio di ferro. Non di rado poi, come si è visto nel caso della famiglia Gasanti, il moto di I uga consegue a qualche errore dei terapeuti, o a un intervento in sé corretto ma intollerabile per il gruppo. La linea da noi seguita consiste nell’accettare tale miglioramento senza obiezioni, prendendo noi stessi l’iniziativa di chiudere la terapia. 103

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Giacché la famiglia, in tali casi, non e ancora arrivala a chiederei “expressis verbis” il termine del trattamento, ma è soltanto impegnata nelle mosse preliminari per giungervi, noi la preveniamo decidendo noi stessi, di autorità, la sospensione della terapia. Il primo scopo è quello primario di avere sempre in mano l’iniziati­ va e il controllo della situazione, prevenendo e annullando le mosse del partner avversario. Il secondo è direttamente collegato alla nostra modalità di contratto con la famiglia: l’aver pattuito un numero preciso di sedute. Di fronte a una scomparsa inspiegabile del sintoma nel paziente de­ signato, accompagnato dai comportamenti di resistenza collettiva so­ pra descritti, noi preferiamo chiudere subito la terapia onde mettere alla prova l’autenticità della “guarigione”, avendo tuttavia ancora “in cassa” un certo numero di sedute qualora la “guarigione” non regga al cimento dei tempi lunghi. Ritorniamo al nostro comportamento che abbiamo definito criptico e allusivo. Esso è tale in quanto noi abbiamo cura di non esprimere af­ fatto la nostra opinione sul presunto miglioramento, né tanto meno di confermarlo. Rientrati in seduta, ci limitiamo a un semplice commento in cui dichiariamo di prendere atto della soddisfazione espressaci dalla famiglia per i risultati ottenuti. Di conseguenza comunichiamo di aver deciso che la terapia ha termine con la seduta in corso. Ribadiamo tut­ tavia l’obbligo da noi contratto di concedere alla famiglia le sedute non ancora utilizzate in caso di successiva richiesta. A tale intervento terapeutico corrispondono nella famiglia alcune retroazioni tipiche, variabili nell’intensità, ma comunque rivelatrici della mossa in atto. Una di queste è la seguente: “Ma voi che cosa ne pensate?”. Domanda che mira evidentemente a sedurci nel tranello di aprire una discussione su nostri dubbi o obiezioni che verrebbero tosto squalificati. Ma i terapeuti cripticamente ribadiscono di basare la loro decisione semplicemente sulla soddisfazione espressa dalla fa­ miglia. In tal modo la famiglia si trova presa nella trappola paradossale di essere nominata iniziatrice di una decisione che in realtà è presa dai terapeuti. In altri casi piomba invece sul gruppo un silenzio sepolcrale, segui­ to poco dopo da proteste, espressioni di dubbio, di incertezza, di pes­ simismo, insistenze per fissare immediatamente un appuntamento suc­ cessivo od ottenere dai terapeuti la promessa solenne che una futura richiesta di ripresa non debba comportare un’attesa prolralla. 101

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I terapeuti linuingoiii । lei mi nella decisione presa, lasciando alla fa­ miglia l'iniziativa di chiedere il completamento delle sedute pattuite; imi tuttavia non prima che sia trascorso un lasso di tempo minimo sta­ bilito dai terapeuti. Mediante tale tattica paradossale si riesce ad annullare la mossa sahotatrice mettendo la famiglia in condizione di dover richiedere, pri­ ma o poi, la prosecuzione della terapia. Una» tattica del genere viene da noi adottata anche con altri tipi di famiglie. Ad esempio con giovani coppie entrate in terapia per qualche disturbo di un figlio nella prima e nella seconda infanzia. A volte, in ta­ li casi, se si ottiene rapidamente la scomparsa del sintonia nel bambi­ no, i genitori segnalano allusivamente quasi subito la comune intenzio­ ne di fuga dalla terapia. Anche in tali casi preferiamo non insistere, non guastare il rapporto avanzando sospetti, critiche o interpretazioni. L’esperienza ci ha insegnato che tali resistenze congiunte sono insor­ montabili. Il tentativo di prenderle di petto espone a conseguenze ne­ gative. In questi casi optiamo per il rispetto della resistenza, prenden­ do noi stessi l’iniziativa di sospendere il trattamento, lasciando tuttavia aperta la prospettiva di un’ulteriore ripresa. Un tale atteggiamento dei terapeuti rafforza nei coniugi, già resi fiduciosi dai risultati ottenuti con il bambino, il senso di libertà nei confronti della terapia. Varie coppie si sono ripresentate, dopo qualche tempo, per discute­ re coi terapeuti i loro problemi di rapporto. In altri casi, pur terminando la terapia, fissiamo un appuntamento telefonico o ima seduta di lì a pochi mesi, allo scopo di ricevere notizie e fare un bilancio globale. Con tale espediente manteniamo la famiglia “in terapia” mentre implicitamente comunichiamo la persistenza del nostro interesse e della nostra disponibilità.

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COME RICUPERARE GLI ASSENTI1

Nel ricco armamentario delle manovre familiari intese alla tutela Jello statu quo, la manovra del membro assente è forse la più nota, e già ampiamente descritta da vari ricercatori. Sonne, Speck e Jungreis, che per primi vi dedicarono uno studio particolare, conclusero come tale manovra, anche se agita da un solo membro della famiglia, e apertamente di sua iniziativa, “è in realtà una manovra familiare totale a cui collabora, più o meno, il resto della fa­ miglia”. Tuttavia, quanto al modo di prevenire tale manovra, o di sven­ ni ila allorché si verifica, gli autori non si pronunciano. E necessario, aflermano, un ulteriore lavoro di ricerca. La nostra opinione personale, derivata dall’esperienza diretta, colli­ ma con la conclusione di detti autori: precisamente che si tratta di una resistenza condivisa dall’intera famiglia. Con la variante, tuttavia, di in­ cludere nell’analisi dinamica del suo verificarsi anche i comportamenti dei terapeuti, e soprattutto i loro errori. Tali, nel nostro caso, i rilievi critici all’indirizzo dei genitori, nonché lo scoperto schierarci dalla parte del cambiamento. Nei primi anni del nostro lavoro la frequenza di tali errori ci fruttò con altrettanta frequenza il verificarsi di tale retroazione che ci gettava nel più grande imbarazzo. Come fare per ricuperare gli assenti? Per ri­ portarli in seduta? Naturalmente, inconsapevoli come eravamo degli errori che stava­ no alla base della retroazione, non potevamo che accumularne degli alI. 'l’ale tattica si riferisce alle assenze che si verificano nel corso della terapia, non alla seduta iniziale, la quale non viene concessa se tutti i membri non sono presenti. A questo proposito riliuiiaino sistematicamente il tentativo dei genitori di ottenere un colloquio preliminare con noi. I lupo la compilazione della scheda telefonica, il primo colloquio è sempre plenario.

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è la famiglia. Non vi accettiamo in sedili a se non al completo. ( ) as­ sumendo un falso atteggiamento di “nonchalance” o, più frequente­ mente, accanendoci nell’analisi minuziosa del significato e dei motivi dell’assenteismo, senza, naturalmente, approdare ad alcun risultato. L’assente rimaneva assente, o si ripresentava ogni tanto a suo capric­ cio, ospite atteso e tosto bombardato dalle nostre richieste e interpre­ tazioni sui motivi e sui significati del suo ritorno, interpretazioni che gli era facilissimo squalificare. Riusciti finalmente a individuare e a eliminare dal nostro lavoro gli errori più banali, il fenomeno dell’assentarsi di qualche membro è dive­ nuto rarissimo. Tuttavia, esso si verifica ancora qualche volta, sia in se­ guito a un nostro errore, che immediatamente cerchiamo di individuare in discussione di équipe, sia in seguito a qualche intervento terapeutico azzeccato ma mal sopportato perché prematuro, tale da provocare que­ sto tipo di retroazione. Come abbiamo già detto nel capitolo apposito, la ricerca sulla famiglia, e in particolare sulla famiglia a transazione schi­ zofrenica, non può che procedere per tentativo ed errore. Ciò che im­ porta è far tesoro di ogni retroazione in quanto out-put del nostro com­ portamento e quindi guida al comportamento successivo. Riguardo al nostro comportamento in seduta, abbiamo abbandona­ to ogni atteggiamento autoritario e ogni tentativo di indagine analitica. Quando un membro si assenta, accettiamo ugualmente la famiglia in seduta e mostriamo di prendere per buoni i motivi, solitamente assur­ di, banali o generici, addotti dalla famiglia per giustificarne l’assenza. “Non può chiedere permessi al suo capoufficio, è in rapporti difficili con lui.” “Non vuole perdere la scuola, questo della seduta è proprio il giorno del compito in classe.” “Non vuole più venire, dice che è sfidu­ ciato, non vede risultati... ” ecc. Nonostante l’accettazione apparente, siamo attentissimi a quanto avviene in seduta, mantenendo al centro del nostro interesse il feno­ meno dell’assenza e collegandolo direttamente, dentro di noi, al mate­ riale della seduta o delle sedute precedenti. Il problema dell’assenza diviene per noi il problema centrale di quella seduta. Veniamo ora alla tattica da noi escogitata per ricuperare alla terapia il membro assente. Precisiamo che tale tattica è intimamente collegata 2. Un atteggiamento dei genere ricorda un poco le prediche di certi vecchi parroci di cam­ pagna che tuonano sui fedeli presenti i loro anatemi per la scarsa allluenza in chiesa. l'oriunalamente i fedeli non osano interloquire “badi, Reverendo, che ntn siamo qui”.

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ni nostro, diremo tosi, ninni'- ili seihiin, consistente nell’iiso (tuttavia non rigido) di dividere In seduta in cinque parti: la preseduta, il collo­ quio con la famiglia, In discussione d’équipe, il rientro dei terapeuti per la conclusione consistente solitamente in un lapidario commento o in una prescrizione, il verbale di seduta. Il commento o la prescrizione di fine seduta sono normalmente immediati, cioè rivolti verbalmente al gruppo naturale al completo. ^Consideriamo invece il caso della famiglia che, dopo un certo nu­ mero di sedute, si presenta mutilata di qualche membro. Quale signifi­ cato assumerebbe terminare la seduta con un commento o con una prescrizione immediati? Sarebbe certamente un errore. Perché ciò equivarrebbe a soccombere alla manovra familiare, e quindi a perdere il contesto e il ruolo terapeutico. In effetti, non si comunica con ciò che si dice, ma con ciò che si fa. Se anche i terapeuti verbalmente di­ chiarassero di rifiutare il sottogruppo, di fatto, rivolgendosi al sotto­ gruppo per il commento e la prescrizione, lo ratificherebbero. Allo scopo di sormontare tale grave ostacolo, abbiamo escogitato di aggiungere alla seduta una sesta parte: la conclusione della seduta do­ vrà aver luogo al domicilio della famiglia, riunita al completo. A tale scopo il commento conclusivo, discusso e concordato nella riunione d’équipe, viene steso per iscritto, firmato dall’équipe e sigillato in una busta. Rientrati nella sala i terapeuti annunciano, senz’altre spiegazio­ ni, che la seduta avrà termine in serata, in casa loro, allorché tutta quanta la famiglia sarà riunita per la cena. Uno dei membri, oculata­ mente scelto a seconda dei casi, viene nominato responsabile della cu­ stodia del plico, che dovrà aprire e leggere a voce alta in presenza di tutta la famiglia. In caso di difficoltà contingenti, l’apertura del plico dovrà essere rimandata al giorno in cui l’intera famiglia potrà riunirsi. Mediante tale manovra, sventiamo senza dirlo là manovra familiare, nel mentre il membro assente viene “presentificato”. È pleonastico aggiungere quanto sia difficile redigere un commento scritto, in cui ogni parola deve essere accuratamente soppesata. Tanto più che dobbiamo sforzarci di redigerlo in modo da coinvolgere l’as­ sente al punto da costringerlo a ripresentarsi. Talvolta la cosa ci riuscì così difficile che, per non lasciare la fami­ glia ad aspettarci per ore, decidemmo di inviare il commento per lette­ ra raccomandata, avvertendo la famiglia e dando istruzioni per la lettu­ ra. Una discussione troppo lunga e sfibrante è inoltre segno di confu­ sione dell’équipe (facilmente indotta in tale stato dalla transazione schizofrenica) per cui è buona norma in tal caso, per non commettere 109

errori irreparabili, "scdimer.tarc" per qualche giorno, avanti di riunirsi a stendere il commento. La manovra qui descritta ha anche un intenso elicilo di drammatiz­ zazione. Allorché i terapeuti rientrano in seduta consegnando il plico, o preannunziandone la spedizione postale, la famiglia retroagisce con un silenzio drammatico e con espressioni mimiche e posturali che de­ nunziano sorpresa per il fallimento di una sua manovra così abilmente

congegnata. L’effetto di drammatizzazione è ulteriormente aumentato dall’atte­ sa, nel tempo che intercorre tra il congedo e la lettura del documento. E, quando siamo stati bravi a redigerlo, trova il suo coronamento nel contenuto del documento stesso. Si veda il caso di un padre che si era assentato in quinta seduta per effetto di “un progressivo e invincibile sentimento di sfiducia nei ri­ guardi della terapia familiare” in coincidenza col momento in cui an­ dava profilandosi nel paziente designato un sensibile miglioramento. Si trattava di una famiglia di quattro membri, presentante, oltre al piccolo Duccio, di 6 anni, un paziente designato di 13 anni, che chia­ meremo Ugo. Diagnosticato all’età di 4 anni presso una Clinica Uni­ versitaria come affetto da pseudo-oligofrenia psicotica, era stato in cu­ ra da uno stuolo di neurologi, per approdare infine a un trattamento psicoterapico individuale che non sortiva alcun risultato. Fu la tera­ peuta stessa che, sfiduciata, consigliò la terapia familiare. Alla prima seduta, il ragazzo si presentò come un ebetoide. Corpu­ lento, femmineo, insaccato nella poltrona, teneva la bocca aperta con espressione melensa. Alle domande non rispondeva affatto, oppure ri­ spondeva con frasi sciocche, non pertinenti o criptiche. Nella scuola della cittadina in cui la famiglia abitava era tollerato, nonostante il ren­ dimento nullo e certi comportamenti strani, a causa del prestigio so­ ciale paterno nonché dei buoni uffici del medico di famiglia. Total­ mente privo di amicizie e di interessi sportivi, era però campione di enigmistica. Passava i pomeriggi ciondolando per casa attorno alla ma­ dre, alla quale procurava un superlavoro anche a causa di un’encopresi frequente e abbondante con cui lordava letto e vestiario. Come segreto vergognoso l’encopresi veniva celata anche alla domestica. Alla quarta seduta si profilò in Ugo un sensibile miglioramento. Si dimostrò partecipe e vivace, dotato di acume e di senso dell’umori­ smo, tanto da provocare espressioni di stupore nel padre. Non fummo tuttavia informati, come venne in chiaro in seguito, che l’encopresi era cessata da varie settimane. I IO

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Alluni lu lui in illudo,di Iciii'ir In niiiiiiiiiii I(>1 iiInlei 11e occupiliu c in chiodata, aiutato mi po’ anche du ( ihicco, coi suoi capricci. Dato che il lavoro di controllo della mamma lo lai lu, papà ha più tempo per dedi­ carsi alle sue cose e stare tranquillo.

Esponiamo ora, paratamente, le retroazioni che ci pervennero nella seduta successiva. Luigi, il padre, impassibile come al solito, ma con un viso livido, di­ chiara subito che la prescrizione è stata seguita, ma senza alcun ap­ prezzabile effetto su Bruno. Jolanda, tremante e angosciatissima, dice di aver sofferto in maniera terribile. Inoltre i bambini erano stati più che mai insopportabili, e anche il marito Luigi era stato, per la prima volta, ansioso. Interrogata dal terapeuta uomo sul motivo di tale sconvolgimento, Jolanda lo riferisce alla lettura del testo. Il testo ha provocato in lei un flash-back incredibile: un ritorno totale nel passato! Ha ripensato ai genitori dei suoi genitori, a tutta la storia della sua famiglia, e poi a suo padre che urlava e le vietava ogni cosa, a sua madre che amava solo suo fratello Carlo e la costringeva, lei ancora bambina, a fargli da baby-sit­ ter e da maestra, e lei odiava farlo, per cui oggi, per lei, Bruno non è al­ tri che Carlo... Sono quelli della sua famiglia che l’hanno inchiodata, sempre! E aveva anche l’angoscia dell’approssimarsi dell’ultima sedu­ ta, il terrore che li abbandonassimo. Per sentirsi più vicina, andò perfi­ no a rileggersi un libro della dottoressa Selvini (la terapeuta donna)... Ha letto e riletto l’autobiografia di quella paziente e ha sentito che quella paziente era lei, tale quale, perfino in certi episodi... (scoppia a piangere).

TER. UOMO: Così, Jolanda, quel testo l’ha fatta pensare a noi. Ma quali sentimenti prova per noi?2 JOLANDA (improvvisamente calma, con un sorriso invitante}-. Devo esse­ re sincera con lei, dottore, lei per me, per il momento, è ancora un’ombra... Ma la signora Selvini è dentro il mio cuore! Quando mi sorride... è tutto per me... Il sorriso che mi fa quando mi salu­ ta, alla fine delle sedute... mi accompagna... mi aiuta... TER. UOMO: E lei, Luigi, quali sentimenti prova per noi? LUIGI: ... vi considero due brave persone... ehm... non saprei dire... (deciso) non posso dire di avere sentimenti ostili. 2. Tale domanda è una mossa tattica, precedentemente concordata dall’équipe, per ottenere una retroazione illuminante sul gioco in atto coi terapeuti. Si osservi che i terapeuti accolgono le risposte senza alcun commento. La retroazione ottenuta servirà loro da guida all’intervento te­ rapeutico.

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TUR. IK)M( >: Mn quali ii'iizlniii hn nvulo nllii lettura del testo? Jolanda ce lo ha dello. I;, leiH ( Jie Ini pensalo? LUIGI: ... niente di particolare... avete detto che sono debole... è ve­ ro... ma... che posso farci? (fa spallucce} TER. UOMO: Jolanda ci ha detto che lei era ansioso, era la prima volta che si vedeva... LUIGI (tono squalificante}-. Ansioso, be’... sì... per modo di dire... ero influenzato nel vedere Jolanda messa in quello stato... e poi... la prospettiva di finire la terapia in questa situazione... una prospetti• va un po’... JOLANDA: Eri ansioso, lo eri più di me! TER. UOMO: E lei, Jolanda, cosa provava per Luigi? Cosa pensava dopo quel testo... JOLANDA (come stupita}: Che pensavo? pensavo... penso che dovrebbe essere... ora dico una cosa che vi farà... (ride infantilmente, copren­ dosi la bocca} ciò che non è stata mia madre con me!... ma so che non ci riuscirà... e se lo fosse... (improvvisamente drammatica, gri­ dando) mi avvinghierei, lo farei a pezzi, lo divorerei...

Durante tutto l’arco delle sequenze transazionali notiamo come per la prima volta è Luigi che si incarica di disciplinare Bruno. A varie ri­ prese si alza e lo costringe con rudezza a sedersi. Quanto a Bruno, no­ tiamo che non è affatto peggiorato, ma prosegue nel graduale miglio­ ramento. Già da alcune sedute aveva abbandonato le ecolalie, le itera­ zioni verbali, le grida inarticolate che aveva presentato in prima sedu­ ta. In questa si comporta come un bambino iperattivo, ubbidisce solo per pochi attimi, ballonzola, gioca coi portacenere, si sporge dalla fine­ stra, mentre Chicco lo imita al suo meglio. I genitori ci riferiscono che dopo la scorsa seduta Bruno ha cambiato le sue vittime: non fa più lo “stupido” con le donne, ma con gli uomini. Commento. - H comportamento di entrambi i coniugi appare ai te­ rapeuti nel suo significato di grande manovra a tenaglia eseguita allo scopo di stornare il pericolo di una definizione della loro relazione. In­ fatti nel testo consegnato nella precedente seduta, i terapeuti avevano per la prima volta delimitato la famiglia nucleare, e alluso all’effettivo gioco interazionale. La grande manovra si articola in molte mosse. La prima, eseguita dal padre in apertura di seduta, è una squalifica che può essere così tradotta: abbiamo fedelmente eseguito la prescri­ zione la quale non ha prodotto alcun effetto positivo sul solo paziente di cui dovete occuparvi, che è Bruno. Quindi la vostra prescrizione è fallita. 117

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La successiva mossa, eseguila ila eiilrainbi i coniugi, c consislila nell’estrarre dal testo una sola parola per manipolarla in modo da squalificare la definizione della relazione col rispettivo coniuge e col figlio.

Jolanda ha isolato dal testo la qualifica “inchiodata” ignorandone il riferimento a Luigi e a Bruno. Un misterioso flash-back l’ha invece ri­ portata indietro addirittura di due generazioni! Mediante tale tattica, essa esclude dall’interazione il marito e il figlio. Come si può inchioda­ re qualcuno che era già inchiodato da altri? E impossibile. Inoltre, Luigi non è Luigi, ma sua madre, o meglio, Luigi dovrebbe essere ciò che non fu sua madre per lei. Che se mai riuscisse a esserlo (ma è impossibile) sarebbe da lei divorato in quanto madre. Con Bruno, poi, Jolanda non c’è affatto, perché quand’è con Bruno è con Carlo, suo fratello... Al momento essa ha tuttavia un grande, unico amore, la dottoressa Selvini. Quanto alla dottoressa Selvini, essa è una che l’aiuta (per il momen­ to) solo col sorriso di fine seduta. Il terapeuta uomo è invece (per il momento) soltanto un’ombra per lei. Ma intanto gli vien fatto balena­ re che, se la terapia riprenderà, chissà che anche lui non diventi una persona in carne e ossa, e magari più amabile della Selvini. Per il mo­ mento è soltanto in panchina, in riserva. Si tenga pronto per la chiama­ ta in campo, si alleni. Gli è dato da sperare. Con quest’ultima splendida manovra, Jolanda comunica con tutti, su molti livelli, e con scopi molteplici, di cui uno, evidentissimo, è quello di scindere i terapeuti seducendoli entrambi e stimolandoli, di conseguenza, a proseguire il gioco. I terapeuti, dal canto loro, hanno qui occasione di sperimentare, in prima persona, l’efficienza e la seduttività del gioco schizofrenico, al cui fascino è molto difficile sottrarsi. Quanto a Luigi, il marito, egli ha estratto dal testo soltanto la quali­ fica “debole”, in senso astratto e assolutizzato, e perciò irraggiungibile. Del testo ignora totalmente l’accenno a un suo eventuale bisogno di inchiodare Jolanda, e tanto meno l’allusione a una sua coperta coali­ zione con Bruno. Quanto ai suoi sentimenti verso i terapeuti, egli afferma che non può dire di avere sentimenti ostili. In tal modo egli ha squalificato il testo, evitato di definire la sua re­ lazione con la moglie e col figlio, evitato di definire la sua relazione coi terapeuti. (Anzi, disciplinando il figlio con rudezza, ha cercato di ne­ ll.S