Il paradosso della morale 8877570032

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Il paradosso della morale
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, VLADIMIR JANKELEVITCH

IL PARADOSSO DELLA MORALE



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Titolo originale LE PARADOXE DE LA MORALE

Traduzione e prefazione di Ruggero Guarini

© @

1981. Editions du Seui! Paris. 1986. Hopeful Monster editore Firenze.

ISBN 88-7757-003-2

INDICE

PREFAZIONE In cammino verso l'Altro

I. L'EVIDENZA MORALE È, AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA 1. Una problematica onnipresente e preveniente. 2. Il pensiero supera la valutazione morale. E viceversa! 3. Una "vita morale". Continua o discontinua? Il foro interiore. Circolo della temporalità. 4. Dalla negazione al rifiuto. Negazione del piacere, rifiuto del rifiuto. 5. L'interdizione. Interdizione dell'interdizione.

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IL L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA I. Ambiguità del massimalismo, eccellenza dell'intermediarietà. 2. Vivere per l'altro, chiunque sia questo altro. Al di là di ogni "quatenus", di. ogni prosopolessia. 3. Vivere per l'altro, fino a morirne. Amore, dono e dovere. Al di là di ogni "hactenus". 4. Tutto o niente (opzione), dal tutto al tutto (conversione), il tutto per tutto (sacrificio). Con tutta l'anima.

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5. I tre esponenti c:lella coscienza. Contrasto o coincidenza dell'interesse e del dovere: il chirurgo insostituibile. Doveri verso gli esseri cari. 6. La buona media. 7. Neutralizzazione reciproca. 8. Fino al quasi-niente. Il meno-essere. 9. Il battito oscillatorio. 10. Racchiudere il più possibile d'amore nel meno possibile di essere.

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III. IL MALE MINORE E IL TRAGICO DELLA CONTRADDIZIONE

L Lo slancio e il trampolino. Rimbalzo. L'effetto di rilievo. Positivjtà della negazione. 2. Uno dopo l'altro. Mediazione; Il dolore. 3. L'uno con l'altro. Ambivalenza. Di due intenzioni, l'una. 4. L'uno nell'altro: paradossologia dell'organo-ostacolo. L'occhio e la visione secondo Bergson. Il benché è la molla del perché. 5. Quel battito di un cuore indeciso. Una mediazione imprigionata in una struttura. 6. La· puntura della spina, la bruciatura della favilla, il morso del rimorso. Lo scrupolo. 7. L'anti-amore (minimo ontico), organo-ostacolo dell'amore. Per amare bisogna essere (e occorrerebbe non esserlo!), per sacrificarsi bisogna vivere, per donare bisogna avere. 8. L'ostacolo e il fatto dell'ostacolo (origine radicale). Perché in generale bisogna che... 9. Essere senza amare, amare senza essere. Interazione dell'egoismo minimale e dell'altruismo massimale. Contraccolpo afferente dello slancio efferente.

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1O. L'essere preesiste all'amore. L'amore previene l'essere. Causalità circolare. 11. Dono totale: come svellersi dai cardini dell'essere-proprio? Abnegazione. 12. Vapparizione dileguante fra l'ego e la viva fiamma d'amore ... La soglia del coraggio. 13. L'unzione. Il sentire minimale dell'abnegazione (afferenza dell'efferenza). Il piacere di far piacere. 14. L'orizzonte del quasi. Dal quasi-niente al non-essere. Instabile risultato dell'ambizione e dell'abnegazione.

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IV. I COMPLOTTI DELLA COSCIENZA. COME PRESERVARE l.'INNOC'ENZA 1. Pletora e sporadicità dei valori. L'assoluto plurale: caso di coscienza. 2. Tutti hanno dei diritti, dunque anch'io. La rivendicazione. 3. Tutti hanno dei diritti, tranne me. Io ho soltanto dei doveri. A te tutti i diritti, a me tutti i carichi. 4. Reificazione e obiettività dei diritti. Disuguaglianza e irreversibilità del dovere. 5. La prima persona diventa ultima, la seconda diventa prima. Io sono il difensore dei tuoi diritti, non il gendarme dei tuoi doveri. 6. Apertura degli occhi. La perdita dell'innocenza è il prezzo che la canna pensante deve pagare in cambio della sua dignità. 7. I tuoi doveri non sono il fondamento dei miei diritti. 8. Il prezioso movimento dell'intenzione.

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PREFAZIONE

In cammino verso l'Altro.

Prima viene sempre l'Altro, prima c'è sempre la presenza d'Altri: questo - e quasi nient'altro che questo - dice da sempre l'etica. Non già, dunque, come vuole l'ontologia nelle sue varie formulazioni, l'essere o l'ente, il mondo o l'io, l'oggetto o il soggetto, la materia o lo spirito, le cose o le idee, l'essenza o l'esistenza, bensì proprio l'Altro come tale: termine di un rapporto irriducibile allo schema della relazione teoretica, conoscitiva, adeguativa e proposizionale che nella filosofia occidentale si è imposto fin dall'origine come il modello ideale della "verità" in generale. Questo enunciato originario dell'etica (ma già chiamarlo "enunciato" è improprio, giacché si tratta piuttosto di una "verità" anteriore a ogni possibile discorso, nonché fondatrice di ogni discorso ulteriore), abitualmente e per lo più sembra che ci raggiunga e ci interpelli nella forma di un "comandamento". Qui però il "comandamento" viene sempre dopo la "rivelazione". In questo caso, infatti, esso non fa altro che prescriverci qualcosa che corrisponde al disvelamento di un fatto, dopo tutto, manifesto e incontrovertibile: l'assoluta priorità dell' Altro nell'ambito della concreta esperienza umana, ossia la circostanza fin troppo evidente che l'Altro - prima di ogni nostra possibile riflessione sulla realtà, sul mondo, sulle cose, su noi stessi, e ovviamente anche sugli altri - è già da sempre lì: presso di noi, accanto a noi, dietro di noi, di fronte a noi. Di più: nella relazione con l'Altro, il dato primordiale della sua priorità rispetto a tutto ciò che potrebbe porsi come puro contenuto di un cògito, mero correlato di un atto conoscitivo, semplice oggetto di un'apprensione sensibile o intellettiva, è

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qualcosa in cui la rivelazione del "fatto" coincide col "comandamento" in cui quel fatto consiste e si esprime nell'atto stesso di verificarsi. Ciò che in questa relazione si disv,ela, fin dall'inizio e congiuntamente con l'Altro, è infatti appunto quella priorità che aderisce all'Altro come una pelle dalla quale è impossibile estrarlo. Sicché si potrebbe dire che questo evento la rivelazione dell'Altro congiunta a quella della sua priorità è al tempo stesso un fatto e un ordine, un'apparizione e un comando, una manifestazione e un'ingiunzione. Tutto accade, insomma, come se la relazione con l'Altro fosse il luogo in cui la legge umana può finalmente manifestare ·la stessa implacabile efficacia della legge naturale - e quest'ultima, lo stesso· orientamento soprannaturale di quella umana ..,..... e come se quindi Natura e Storia, simili a due c911i convergenti o divergenti dai loro vertici, si incontrassero in un punto che, coincidendo con la fine della prima e con l'inizio della secon'" da, consentirebbe all'una di perpetuarsi nell'altra nel momento stesso in cui l'altra se ne distingue e se ne svincola. E poiché il tratto formale precipuo della relazione con l'Altro è quello dell'apertura, ne consegue che se l'etica è ancor sempre naturale per la forma della sua apertura, la natura, a sua volta, preannuncia fin dall'inizio l'etica con l'apertura della sua forma ... Ma non precipitiamo. Chiediamoci, piuttosto, cosa può esserci di vincolante in questo comando dell'Altro, a che cosa può obbligarci questo suo ordine, che cosa insomma può imporci questa sua ingiunzione primordiale. Se il còntenuto di questo comando non è nient'altro, appunto, che la rivelazione dell'evidente priorità del luogo da cui proviene, non ne consegue, forse,· che esso, dopo tutto, ci lascia perfettamente liberi di regolarci, nei confronti di questo Altro da cui l'ordine scaturisce, a nostro piacimento; e di assumere al riguardo una serie praticamente illimitata di posizioni antitetiche e di atteggiamenti contrastanti? Infatti è proprio così: questo Altro che non fa che segnalarci la sua insuperabile presenza, noi siamo liberi di amarlo o di detestarlo, di venerarlo o di disprezzarlo, di concupirlo o di perseguitarlo, di supplicarlo o di ingiuriarlo, di soccorrerlo o di

tradirlo, di consolarlo o di minacciarlo; possiamo persino ucciderlo; di più: con un gesto di rifiuto forse più radicale dell'omicidio, possiamo, addirittura, decidere di ignorarlo, fare come se non ci fosse ... Nulla sembra insomma limitare, nei suoi confronti, il libero esercizio della nostra spontaneità, ovvero del nostro arbitrio ... Una cosa però non ci è data: non potremo mai far sì che lui - prima di ogni nostro atto o decisio-· ne nei suoi riguardi - non sia già lì; ed è appunto questa ovvia, manifesta impossibilità a costituire la sua radicale separatezza, ossia i1 carattere irreversibile della relazione di cui esso, come si è detto, è il termine irriducibile. _ _ Giacché la relazione con l'Aitro non è dell'ordine della rappresentazione. Nella relazione rappresentativa, che è una relazione irreversibile, i termini di possono leggere, indifferentemente, da sinistra a destra e da destra a sinistra: essi possono, cioè, ·accoppiarsi l'uno con l'altro e viceversa, e in tal modo completarsi - come osserva Lévinas -,- in un sistema visibile dal di fuori. Ma così l'alterità di ciascun termine si risolve e si dissolve nell'unità del sistema, mentre nella relazione con l'Altro, essendo strutturalmente impossibile porsi al di fuori di essa per registrare l'accordo o il disaccordo dei due termini, l'Altro non può che mostrarci. - ed è proprio questo, paradossalmente, il suo modo di rivelarsi - la sua assoluta eterogeneità. L'alterità dell'Altro non è insomma un semplice roverscio dell'identità dell'Io, né si riduce alla serie delle resistenze che esso può opporre al Medesimo, ma è piuttosto radicata in quell'assoluta, inestirpabile anteriorità che come tale non può che precedere ogni iniziativa del Medesimo, ogni sua pretesa imperialistica di annessione, ogni suo progetto totalitario di superamento, ogni suo disegno sintetico di mediazione, ogni suo sogno erotico di godimento, ogni sua brama mistica di identificazione ... Anteriorità dell'Altro, ossia: rottura originaria dell'identità dell'Io... Eterogeneità dell'Altro, ovvero: apertura · originaria dell'Io all'Altro ... Irriducibilità dell'Altro, e dunque: movimento senza fine del Medesimo verso l'Altro... Detto più semplicemente: l'uomo è quell'essere che - prima di fare o pensare, bramare o decidere alcunché, e perciò al di qua di tutto ciò

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che si può pretendere di ascrivere alla sua supposta libertà non può non essere votato ali' Altro, destinato e ordinato ali' Altro, perennemente aperto e in cammino verso•l'Altro. Così quello che resta il primo (e forse ultimo) comandamento dell'etica - "prima viene l'Altro" - non c'impone che di essere sempre pronti a metterci in cammino; giacché uscire da noi stessi, evadere da noi stessi, andare fuori da noi stessi è un'esigenza alla quale, per quanto inesauribile e al limite inadempibile, non ci si può sottrarre se non ci si vuole precludere ogni possibilità di un rapporto di giustizia. L'esigenza del distacco, l'affermazione di una verità nomade, distinguono pe,rciò l'etica da ogni forma di paganesimo. Esser pagani vuol dire infatti fissarsi, quasi infiggersi nella terra, insediarsi in virtù di un patto con la permanenza che autorizzi il soggiorno e sia certificato dalla certezza del suolo, mentre l'etica (e il nomadismo che ne scaturisce) è la risposta a un rapporto al quale .il possesso non basta. Quando l'etica compare nella storia, sorge insomma l'appello al movimento. Abramo, felicemente insediato nella città sumera, a un certo punto rompe con essa e rinuncia alla dimora. Più tardi l'esodo farà degli ebrei un popo"." lo. E dove sono condotti, tutte le volte, dalla notte dell'esodo che si rinnova? In un luogo che non è un luogo, in rin luog in cui non è possibile risiedere. Il deserto trasforma gli schiavi d'Egitto in un popolo, ma è un. popolo senza terra, legato soltanto da un libro, ossia da una parola: quella parola, appunto, che scopre e rivela, con l'assoluta priorità dell'Altro, la stessa umanità dell'uomo. In questa prospettiva, l'etica cessa di essere una mera - provvida o sciagurata secondo i punti di vista - possibilità dell'uomo, uno dei suoi possibili attributi, l'esaltante o deprecabile invenzione di un essente (l'uomo, appunto) che sarebbe comunque tale anche senza di essa, e che quindi potrebbe accedervi o sbarazzarsene senza nessun serio pregiudizio per ciò che dovrebb'essere, secondo l'ontologia, la sua essenza o la sua natura; cessa di essere tutto questo per rivelarsi piuttosto come il fondamento della stessa condizione umana, e perciò come l'umano in quanto tale. Fin qui non si è mai fatto il nome di J ankélévitch. Sarà super-

fluo aggiungere che queste succinte annotazioni non hanno altro scopo che quello di introdurre alla lettura di questo libro fin troppo amabile e capriccioso, ironico e conversevole sui paradossi della morale gettando un po' di luce su alcuni (solo alcuni) presupposti di un discorso che tra le pieghe di una causerie confidenziale e a tratti virtuosistica (si sa che i corsi universitari di Jankélévitch erano spesso emozionanti come un recital), non cessa mai d'essere rigoroso. R.G.

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I. L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA

Ci assicurano dovunque che la filosofia morale è tenuta attualmente in grande onore. Poiché una morale onorata dall'opinione pubblica è a priori soggetta a cauzione, bisogna accogliere con qualche diffidenza queste rassicuranti affermazioni. È lecito innanzi tutto dubitare che i crociati di questa nuova crociata sappiano effettivamente di che cosa parlano. Al centro della filosofia, già tanto controvertibile in se stessa, la filosofia morale appare come il colmo dell'ambiguità e dell'inattingibile; essa è l'inattingibile dell'inattingibile. La filosofia morale è in effetti il primo problema della filosofia: prima di difendere la sua causa occorrerebbe quindi chiarirne il problema e interrogarsi sulla sua ragion d'essere.

1. Una problematica onnipresente e preveniente. Della filosofia morale è più facile, in realtà, dire che cosa non è e con quali prodotti sostitutivi si rischia di scambiarla. Dobbiamo perciò incominciare da questa "filosofia negativa" .o apofatica. Evidentemente, la filosofia morale non è .affatto la scienza dei costumi, se è vero che la scienza dei costumi si accontenta di descrivere i costumi al modo indicativo e come uno stato di fatto, senza prendere (all'inizio) partito, né formulare preferenze, né proporre giudizi di valore: essa espone senza proporre se non indirettamente, di contrabbando e per sottintesi; riti, tradizioni religiose, consuetudini giuridiche o usanze sociologiche - tutto può servire da documento preparatorio, in vista del vero e proprio discorso morale. Ma come passare

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dall'indicativo al normativo - e, a fortiori, all'imperativo? Nell'immensa collezione di assurdità, pregiudizi barbarici o strambi di cui la storia e l'etnologia ci proiettano Ìl film pittoresco, come scegliere? Davanti a questo oceano di possibilità ipotetiche e alla fin fine equivalenti in cui tutte le aberrazioni della tirannia sembrano giustificabili,. potremo mai trovare un principio di scelta? una sola ragione per agire? E perché l'uno piuttosto che l'altro? un concetto piuttosto che l'altro? Il principio della preferibilità, nella sua forma elementare, potrebbe riuscire a spiegare il tropismo dell'azione e a calamitare la volontà: .ma 1 non trova a che cosa applicarsi in un mondo fondato sul capriccio, sull'arbitrio e sull'isostenia dei motivi. Ma ecco che il nostro imbarazzo, proprio sul punto di volgersi in disperazione davanti all'incoerenza delle prescrizioni e alla stupidità delle proibizioni, ci lascia intravedere una luce; e più procediamo a tentoni, più ciò che intravediamo si precisa, proprio in e attraverso l'equivoco. La problematica morale, in rapporto agli altri problemi, svolge il ruolo di un a priori, sia nel senso di priorità cronologica che in quello di presupposizione logica. Detto in altre parole, la problematica morale è al tempo stesso preveniente e inglobante; precorre spontaneamente la riflessione critica che finge di contestarla; ma non al modo in cui il pregiudizio precede in effetti il giudizio; e ancor meno col pretesto che la presa di posizione morale, nei suoi interventi espliciti, supererebbe in velocità e agilità la riflessione critica: paradossalmente, ognuna delle due è più rapida dell'altra! Più rapida a turno, ossia all'infinito ... D'altra parte - e questo torna con ciò che si è detto -: la moralità è coessenziale alla coscienza, la coscienza è interamente immersa nella moralità; a cose fatte risulta che l'a priori morale non era mai scomparso, che era già là, sempre là, apparentemente assopito, ma in ogni momento sull'orlo del risveglio; la morale, per dirla ne! linguaggio della normatività, o addirittura del partito preso, previene la speculazione critica che la contesta, poiché le preesisteva tacitamente. E non soltanto l'avviluppa nella sua luce diffusa; ma altresì, in un'altra· dimensione, e per usare altre metafore, impregna l'insieme del problema speculativo; essa è la quintessenza e il foro interno di questo problema.

1.'l!VIDllNZA MORALE Il AL 'l'BMl•O S'l'l!SNO INOJ.OIIANTll Il lNOLOBATA

2. Il pensiero supera la valutazione morale. E viceversa! Il pensiero, secondo Descartes, è sempre anch'esso là - esso soprattutto -; implicito o esplicito, immanente e continuamente pensante, anche se non se ne ha esplicitamente coscienza; ma si scopre presente in atto a se stesso, in un ritorno riflessivo su di sé, col favore di un'interrogazione o in occasione di una crisi, Il pensiero pensa l'assiologia, il pensiero pensa i giudizi di · valore, così c9me pensa ogni cosa: _l'assiologia, infatti, non associa forse alla valutazione (àl;iouv) un logos, ossia una certa forma di razionalità? Il "giudizio di ·valore" non valuta forse· sotto la forma di un giudizio? Nell'ambiguità del "giudicare", l'operazione logica-e la valutazione assiologica stingono l'una sull'altra. Senza dubbio quella "logica" è una logica senza rigore e di bassa lega: sembra avere alcunché di parziale, di approssimativo, e persino di un po' degènere. Tuttavia, è pur sempre la ragione a determinare, qui, lo statuto speculativo della valutazione... Ricordiamoci che Spinoza volle dimostrare l'etica alla maniera dei geometri! Ma la reciproca non è meno vera: la morale, che si esprime al modo norm1:1-tivo, e anche all'imperativo, convoca a sua volta là ragione speculativa davanti al suo tribunale, come se la ragione e la logica potessero dipendere da una siffatta giurisdizione e dovessero renderle conto di alcunché. Di più: la morale s'interroga sul valore morale della scienza! Non è il colmo? il colmo dell'impertinenza e della derisione? Insistiamo ancora: quando la morale chiede conto di qualcosa alla ragione, non lo fa in virtù di un privilegio esorbitante o di una prerogativa regale che essa si arrogherebbe arbitrariamente ... Chissà, forse ne ha il diritto. Pascal, considerando l'irrazionalità della morte e il nulla a cui siamo votati, si chiedeva se vale la pena di filosofare. Certamente sì, ne vale la pena, a patto però di non eludere il problema radicale della peculiare ragion d'essere della filosofia, che in qualche modo è sempre morale. Il problema può essere posto meglio in questa forma: la verità è altrettanto buona che vera? Dato che l'uomo è un essere de"'.' bole e passionale, ci sarà sempre una deontologia della veracità e un misterioso rapporto fra la verità e l'amore. Questa c:ieonto-

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logia e questo mistero non sono il meno inquietante dei paradossi della problematica morale. Tutto ciò che è umano, prima o poi, da un lato o dall'altro, in una forma ~ nell'altra, pone un problema morale. Giacché la morale è competente dovunque, anche... e soprattutto nelle faccende che non la riguardano; e quando la prima parola non spetta a lei, è perché avrà l'ultima. La presa di posizione morale non tollera alcuna astensione, nessuna neutralità; almeno al limite e in via teorica. L'uomo è un essere virtualmente etico c!:iJ: esiste come tt:zle, ossia come essere morale, ogni tanto e di quando in quando molto di quando in quando! Poiché qui le intermittenze sono anormalmente frequenti, le eclissi di coscienza smisuratamente prolungate: durante queste lunghe pause la coscienza, apparentemente vuota di ogni scrupolo, sembra colpita da anestesia o adiaforia morale, ossia incapace di distinguere fra il "bene" e il "male". O, per esprimerci col linguaggio tradizionale della teologia morale: la vox conscientiae, finché dura l'incoscienza morale della coscienza speculativa, rimane silenziosa. Che fine ha fatto la voce della coscienza, in genere - a detta dei teologi così loquace? È diventata muta e àfona - si è fermata, la voce della coscienza; i suoi oracoli infallibili tacciono. Vivere un'esistenza autenticamente morale e pertanto incessantemente morale in quanto tale è forse alla portata dei santi e degli asceti in odore di santità, ed è possibile, posto che questa chimera sia concepibile, soltanto grazie a delle risorse soprannaturali ... Tolstoj aspirava a una "vita" cristiana e si disperava di non poterla raggiungere, o, se riusciva a raggiungerla per un. istante, di non potervisi mantenere. Che cosa fanno l'austero e il mistico nell'intervallo fra due osservanze? Quali sono i loro riposti pensieri? Lungo la successione dei giorni l'uomo medio che possiamo chiamare homo ethicus si occupa dei suoi importantissimi affari, rincorre i suoi piccoli piaceri e non si pone nessun problema; non è neanche un cristiano "della domenica mattina"! L'essere pensante è ben lontano dal pensare tutto il tempo. A maggior ragione l'istinto, nell'animale morale, dorme soltanto con un occhio: le rivincite della naturalità, sensualità e voracità sono frequenti; non meno frequenti le ricadute nel-

l,'HVll>HNZA MORAl.(l I! AL TEMl•O S'l'l!SSO INUl,OIIAN'l'li li INOL.ODATA

l'amor proprio; quanto alle sonnolenze e alle distrazioni della coscienza morale, esse occupano la maggior parte della nostra vita quotidiana.

3. Una "vita morale". Continua o discontinua? Il foro interiore. Circolo della temporalità. Ciò premesso: tutto il problema consiste nel sapere, quando si tratta dell'essere morale, quale senso bisogna dare all'aggettivo qualificativo, epìteto o predicato. L'essere morale è morale nel senso ontologico - morale dalla testa ai piedi e da un lato all'altro? Morale per tutto il tempo e in ogni istante di questo tempo? Morale anche quando mangia la sua zuppa o quando gioca a dòmirio? Si può credere, con Aristotele, alla perennità di un modo d'essere (el;tç) che sarebbe cronico, come ogni modo d'essere: quando questo rriodo d'essere è morale, esso meriterebbe il nome di virtù. Benissimo! Ma in nessun caso la virtù è un'abitudine: giacché, man mano che esso diventa abituale il modo d'essere morale si dissecca e si svuota di ogni intenzionalità; esso diventa tic, automatismo e vaneggiamento di un pappagallo virtuoso; ed è allora perfino peggio del gesto dell'acqua benedetta, che almeno non si rivolge a nessuno su questa terra: è piuttosto come il gesto del devoto che, senza neanche guardare il mendicante, lascia cadere un soldo nella sua ciotola. A maggior ragione non si può parlare di una seconda natura che verrebbe a sostituirsi alla prima, alla natura naturale, e che sarebbe la natura soprannaturale dei superuomini (o degli angeli!). Anche Aristotele ne conviene: una disposizione morale diventa virtuosa soltanto se esiste in atto (èvépy1::t'. :: :.;

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I COMPLOTTI DELLA COSCIENZA. COME PRESERVARE L'INNOCENZA

soltanto afferma l'esistenza dell'altro, ma sottintende, indirettamente e a maggior ragione, la preservazione dell'ego; nella trasparenza cristallina dell'amore, nella limpida semplicità del• l'innocenza, le contraddizioni fra i doveri dileguano come per miracolo; lo sciame delle virtù si riduce ormai a un'unica virtù. Si direbbe che ci sia un'analogia fra il firmamento lacerato dei valori e la città degli uomini: la sconnessione assiologica sembra essersi incarnata nella pluralità monadologica. Certamente l'assolutismo plurale apre fra le persone certi vuoti, certe discontinuità, certi varchi che mobilitano l'influsso transitivo dell'amore. Ma più spesso ancora questo assolutismo al plurale attizza la lotta per la vita. Proprio come le pretese ugualmente giustificate di tutti i valori a una stessa sovranità indivisa generano frizioni e collisioni, così l'assolutismo di ogni persona e di ogni libertà distintamente, essendo ciascuna di esse un fine a sé o un imperium in imperio, genera a un tempo la reciproca attrazione e la concorrenza selvaggia, cioè la tensione passionale. Ovvero, per usare a un tempo il linguaggio di Pascal e quello di Leibniz: l'universo monadico delle persone e degli opposti egocentrismi è una totalità il cui centro è dappertutto. L'altro è il mio fratello in umanità e, proprio per questo, è paradossalmente il mio impedimento alla vita: il mio fratello-nemico. Egli è vicino e lontano. Come seconda persona, è il focolare di ogni comunione e l'oggetto di ogni odio e gelosia. In virtù della legge dell'alternativa, il posto dell'uno è occupato dall'altro, la parte dell'uno è prelevata da quella dell'altro; le monadi sono solidali, ma in ragione della loro compiutezza, sono anche incompossibili. È così che la pletora volge in penuria. Il male è un'intenzione, nient'altro che questo. Noi diciamo: il male non è, come insegnava la metafisica greca, il plurale in se stesso, ma l'intenzione machiavellica e perfida di sfruttare questa divisione e, sfruttandola, di indebolire i valori e gettare sulla loro serietà il dubbio e il discredito. Equivoco e insinuante: tale è l'ostacolo che noi chiamiamo assiologico, e che dipende principalmente dal mistero dell'assoluto plurale. Poiché quello che si insinua tra i valori è un male immanente, una lotta intestina, non è possibile ipostatizzarlo; essendo un male nascosto

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nelle intenzioni, non si può dire da cosa dipenda o in cosa consista, né dove si trovi il suo campo: è irttenzionale, ecco tutto. Bisogna accusare l'istinto? O il vizio? O Satana? Un po' tutto questo, e nulla di tutto questo. In ogni caso, nessun nemico in particolare è colpevole: sempre evanescente, risorgente senza posa, la malevolenza impedisce la reificazione del male; essa ricomincia all'infinito, ma non esiste quasi mai in modo definitivo. Lo stesso paradosso di una pletora del valore indica già da solo fino a qual punto la perversione possa essere evasiva e la malafede sconcertante. Ripetiamolo: san Francesco di Sales parlava, nel suo speciale linguaggio, di un"'avarizia spirituale"! E difatti esiste una rapacità devota che si dedica alla capitalizzazione dei meriti e fa collezione di virtù. Strani, lacrimevoli tesaurizzatori che collezionano non già medaglie o nastrini, ma le stesse virtù! In ogni modo la categoria della quantità e la risposta alla domanda "quanto?" non ci illuminano affatto sulla distinzione qualitativa del bene e del male. Se ciò che è in questione è il valore, come può esserci abuso? Abuso di che? La parola eccesso non ha corso quando si tratta di coraggio o di disinteresse ... Lo abbiamo gia suggerito parlando dell'impetus amoroso e dell' "iperbole demoniaca"... La parola iperbole non è forse assurda a partire dal momento in cui la si applica all'eccellenza? Il motto, in questo campo, dovrebb'essere piuttosto: mai abbastanza! mai troppo! È comunque un fatto che i valori si contraddicono, che l'uno può essere un impedimento per l'altro e - suprema derisione! che la problematica morale sia spesso appesantita da una specie di "pesantezza" etica!

2. Tutti hanno dei diritti, dunque anch'io. La rivendicaz10ne.

Tutti hanno dei diritti, dunque anch'io. I "diritti" che rivendico o che mi vengono riconosciuti sono in qualche modo la parte normativa di questa pesantezza. Dunque anch'io! noi diciamo. Et ego! Poiché i miei diritti sono dedotti da quelli dell'uomo in generale. La loro pesantezza pesa in modo particolare nel

I COMPLOTTI DELLA COSCIENZA. COME PRESERVARE L'INNOCENZA

ragionamento deduttivo che mi serve a rivendicarli e nella meccanica irrefutabile, irrefragabile di quel "dunque". Una deduzione? Che dico! quasi un sillogismo ... Un diritto valido per l'universalità dei soggetti pensanti in considerazione della loro uguale dignità è perciò stesso valido anche per me, che sono uno di quei soggetti; un diritto valido per tutti gli altri, e conseguentemente per questo o quello, è a maggior ragione applicabile a me, che sono anch'io uno di quegli altri, giacché sono quanto meno un soggetto morale, un soggetto morale fra gli altri e come gli altri, uno di quei soggetti a favore dei quali s'invoca giustizia e diritto. Ecco un'applicazione che non è prevista specificamente per me. Non c'è niente da ridire contro questa logica, giacché si tratta, insomma, della logica elementare dell'identità: ciò che vale per il tutto vale egualmente per la parte; ciò che vale per l'insieme degli esseri dotati di ragione, prima persona inclusa, vale ipso facto (a maggior ragione? a minor ragione? secondo i punti di vista) per questa stessa prima ·persona: giacché anch'io faccio parte della specie umana; perché anch'io sono incluso nell'universalmente umano; io sono uno di noi tutti! Dopo tutto, io sono, come tutti, un qualcuno, cittadino della repubblica dei liberi soggetti morali ... Né più né meno di un altro - di ogni altro! Né meglio né peggio ... A patto però che · quei microcosmi al plurale riescano a coesistere nella pienezza dei loro diritti! Poiché le· monadi, se non si fanno reciprocamente delle concessioni, se si affermano fino all'assoluto, ossia fino all'assurdo, si contraddicono violentemente. D'altra parte la comunità umana, che è tutta al mio fianco e di cui sono un rappresentante, concede la sua potenza, la sua irresistibile cauzione morale, alla filautia istintiva; l'universalità dei diritti dell'uomo in generale conferisce al nostro istinto di conservazione e di perseveranza nell'essere, un'introvabile normatività, una legittimità che è la nostra salutare opportunità. E reciprocamente, il vissuto dell'istinto, strofinandosi all'idealità morale, la rende più concreta; rinforza la coscienza della fraternità umana, e apparentemente si direbbe che proceda nello stesso senso; grazie a un'osmosi provvidenziale, rivivo in me carnalmente i diritti di tutti gli uomini, mentre, viceversa, i miei bisogni vita-

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li - la passione della libertà, il diritto di vivere, il bisogno d'amare - acquistano in questo amalgama la dimensione dell'universalità. Nel riflesso passionale la logica deduttiva inietta così alcune gocce di idealità, di obiettività e di imparzialità; grazie a questa iniezione, l'affermazione del mio diritto non è più effetto del mio egoismo o della mia voracità: è una rivendicazione; ha, cioè, un carattere giuridico; quel che reclamo non è una pretesa arbitraria, né un'esigenza selvaggia: quel che reclamo, ho il diritto di rivendicarlo; lo rivendico nobilmente, con tutta la dignità della coscienza frustrata. L'affermazione del mio diritto personale è particolarmente energica quando essa protesta contro ciò che la contesta. Non c'è "ragione" per cui io debba essere frustrato nel mio diritto; poiché la spoliazione è innanzitutto violenta, vale a dire irrazionale; non c'è ragione perché io resti tutto solo come un povero orfano abbandonato, diseredato, dimenticato, escluso da un "privilegio" che è esso stesso un paradosso, poiché è il "privilegio" di tutti gli uomini. Un'unica eccezione a questo privilegio che non è affatto tale, un'unica eccezione a questo privilegio quasi universale, universale in linea di diritto, ma sospeso nel mio caso e per mia sciagura, un'unica eccezione a mie spese smentirebbe di colpo la legge generale; o il privilegio è universale, e allora non è più un privilegio, giacché tutti gli uomini, dal primo all'ultimo, lo detengono, o esso inesplicabilmente mi esclude, e in questo caso il principio che pretende di difendere l'umanità di tutti gli uomini in generale e la dignità di ogni uomo in particolare, è una fandonia: le due parole tranne me saranno sufficienti; un'unica eccezione manderebbe in rovina i grandi princìpi, i diritti dell'uomo, le verità immortali e la stessa teodicea; peggio ancora: il grande principio era dunque soltanto un'assurdità e una contraddizione? Semplicemente un non-senso! Come minimo, l'urtante ineguaglianza è una complicazione che richiede esplicitamente una spiegazione, qualcosa come un'anomalia che aspetta d'essere normalizzata, una dissimmetria che esige d'essere compensata, una violenza le cui conseguenze dovrebbero essere livellate. Ma il diniego di giustizia non è soltanto un'illogicità che offende la ragione: esso provoca reazioni passionali e riflessi vendicativi, collera,

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sdegno e risentimento. L'ingiustificabile ingiustizia è assurda, ma la rivoltante iniquità fa scandalo. L'iniquità era in realtà un'inconfessabile, scandalosa persecuzione, e io protesto contro di lei: il rifiuto insurrezionale raggiunge il ragionamento della ragione, e il ragionamento conferma e legalizza il rifiuto. Non accetto di essere maledetto, non accetto di essere personalmente scomunicato dalla comunità giuridica e morale, quella che si estende a tutti gli uomini fino all'ultimo, a tutti gli umani per definizione, senza eccezione né esclusione alcuna: protesto contro questo impossibile presupposto a mio sfavore, contro questa discriminazione irrazionale a mio detrimento. Nella provvidenziale interazione di una filautia legittimata dalla filantropia, e di una filantropia rinforzata e vitalizzata dalla filautia, c'è qualcosa di sospetto: uno scambio inquietante di buone maniere! Questo alcunché di sospetto non è certamente una coincidenza miracolosa, né un'occasione eccezionale, e meno ancora, come si potrebbe comunemente pretendere, una "bazza". In effetti, questa "opportunità" è basata sull'armonia permanente ... e approssimativa fra l'interesse personale e quello generale. Ma l'incorreggibile ottimismo è sempre tentato di prestare aiuto all'opportunità; esso si dice che lavorando per se stesso lavora anche per gli altri; e dispiega a questo scopo prodigi di ingegnosità e di malafede... Che fiuto! Che compiacenza ovattata! Qui non c'è altro che mercenarietà, scambio di servizi, niente per niente... Ma l'amore, in tutto questo, che fine ha fatto? Che cosa è diventato? l'amore, ossia la vocazione amorosa? l'amore, ossia un cuore ispirato? al modo del mio potere, che è campo d'azione e zona di virtualità oltre l'essere attuale, i "miei diritti" formano intorno all'ego una zona affermativa che allarga il mio essere personale. L'insieme dei miei diritti personali costituisce una specie di "minimo giuridico" che è a suo modo la forma normativa del male minore. Ci si stupirà certamente nel sentir dire che i miei diritti, ai quali io ho diritto, e in pieno diritto, sono un "male" ... Ma esso è il minore, - dato, almeno, l'insieme delle circostanze! Come può accadere che questa positività, che per me è una garanzia e un potere, che questo più che è garante della mia

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sicurezza, siano un male,. fosse anche il minore, fosse anche il più piccolo possibile? Stupirsi di una cosa co~ì poco stupefacente, vuol dire misconoscere il dato dell'alternativa e della finitezza, e quindi il paradosso della felice miseria. I miei diritti sono al tempo stesso qualcosa e poca cosa: qualcosa, cioè più che niente, un 'umile garanzia contro la bestialità, la rapina e la violenza; poca cosa, ossia quasi niente, o a mala pena qualcosa, o, in ogni caso, il meno possibile, appena quel che occorre per non annichilirsi ... I diritti, in ragione del loro carattere normativo, valgono più dell'arbitrio della violenza senza fede né legge, ma soltanto l'amore vale più di tutto! Come l'avere, e come lo stesso essere, in quanto l'essere è sedimento rappreso, i mei diritti sono una regione opaca in cui lo slancio d'amore si leva a stento e sùbito ricade. Ma, nella misura in cui il mio diritto, fosse anche il più personale, non è mai del tutto privo di qualsiasi idealità, si dovrebbe poter dire: questa zona è quella del chiaro-scuro. lo, il beneficiario dei diritti dell'uomo, sono perciò stesso il titolare di un credito morale che, per morale che sia, resta pur sempre un credito la cui gestione è per me fonte di delizie, preoccupazioni, sod~isfazione. Giustizia per me, come per tutto il genere umano! Giustizia... per tutto il genere umano: questa è la parte della morale aperta. Ma innanzitutto, giustizia per me stesso! Giustizia per questo piccolo mondo chiuso, per questo grazioso giardino, per questo microcosmo rinchiuso su se stesso che ha come centro l'io. Questa armonia immanente i cui elementi intrinseci sono così compatti, equilibrati e definiti, merita forse d'esser chiamata giustizia quando essa non tiene neanche conto dell'altro? Nel linguaggio sostanzialista della logica egocentrica, i miei diritti sono completamente positività, e sono essi a superare e a condizionare i miei doveri. Si può ammettere che il mio diritto, chiudendo l'anello, mi ritorni subordinatamente dal lato del tuo dovere? che i mei diritti siano semplicemente una conseguenza fortuita dei doveri altrui? in qualche modo, un effetto di rimbalzo? Questo dunque accade? Sarebbe peggio che un'opportunità derisoria: sarebbe una vera miseria! Ma c'è di più: la rivendicazione, quando si tratta del mio diritto, non è soltanto preveniente: è anche, come indicammo, es-

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senzialmente protestataria, e conseguentemente gelosa e ombrosa, addirittura arrogante: la rivendicazione genera immediatamente il gesto rivoluzionario che compenserà l'ingiustizia. Il mio diritto non è l'oggetto di una constatazione platonica; ancor meno è un favore o un obolo che io elemosinerei e in cambio dei quali io dovrei gratitudine e commossi ringraziamenti a coloro che me li concedono. Dopo tutto, quel diritto mi è dovuto. E io non reclamo che il mio diritto. È la più piccola delle cose! L'uomo che rivendica parla alto e forte. Giacché il suo stesso diritto è forte della coalizione (della complicità?) che associa la norma all'istinto: il patto che la giustizia conclude con la pleonessia, benché sia fonte di malintesi, rappresenta tuttavia una doppia forza; l'uomo forte del suo diritto soffoca gli scrupoli e i pensieri riposti, respinge la falsa vergogna e i complessi, se ne ha; in lui monta la collera, pronta ad esplodere. - L'uomo forte del suo diritto si crede forte ugualmente della sua intima buona coscienza, e questa buona coscienza apparente è coscienza di non "sollecitare" nulla; la rivendicazione dell'uomo che parla forte si pretende monda di ogni gratuità, di ogni arbitrio; niente di sfumato, di ambiguo, di allusivo; nessuna timidezza, nessuna suggestione crepuscolare. Tutto è corretto e rigoroso. Questa buona coscienza esclude finanche il sospetto di una cattiva coscienza nascente; niente di tutto ciò che è fobia o masochismo, mania di persecuzione o passione del martirio, sfiora la sua sicurezza. Occorre forse che la giustizia, per sembrarmi giusta, si pronunci contro di me? che la giustizia sia giusta soltanto quando si esplica a mie spese? Io non faccio eccezione alla legge comune, anche se la legge comune, per una volta, mi favorisce! anche se la giustizia serve il mio interesse! Non è certamente uno scandalo se la legge riconosce il mio diritto, né questo è un motivo per considerare sospetto questo mio diritto. Indipendentemente da ogni giustificazione egoistica o ragionevole, in · certi casi bisogna saper ammettere un vantaggio con semplicità.

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3. Tutti hanno dei diritti, tranne me. Io ho soltanto dei doveri. A te tutti i diritti, a me tutti i carichi.

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Ma appunto: la buona coscienza assordante e tonitruante del mio buon diritto grida a squarciagola soltanto per coprire in fondo a se stessa un'altra voce sepolta nel mio foro interiore; quest'altra voce è la voce, umile e segreta, della cattiva coscienza. Questa buona coscienza così sicura di sé, ma in effetti così profondamente ambivalente, voleva innanzitutto convincere se stessa. Nel tono della sua voce si poteva notare un'esitazione - nella sua stessa insolenza una profonda incertezza, nella stessa vociferazione una timidezza nascosta e come un impercettibile tremore ... Riannodiamo il filo dei paradossi momentaneamente interrotto. Innnazitutto, il paradossale della prima serie è strettamente imparentato col dossale e i truismi generati dal principio di identità: tutti hanno dei diritti, dunque anch'io; il mio diritto sembrava allora l'anello di una catena nella continuità di una deduzione rassicurante. Ma adesso, al contrario, noi diremmo piuttosto: tutti hanno dei diritti tranne me; qui la preposizione tranne, colmando un vuoto al posto di dunque, sopraggiunge con la brutalità di una frattura, frattura ingiuriosa e scandalosa che, in questo mondo spietato in cui ognuno è portatore di un diritto da difendere, dà un colpo di freno alla generalizzazione del diritto morale sicuro di sé e una cieca smentita alla sua universalità. A condizione di non essere io stesso un candidato machiavellico e sottilmente ipocrita all'eroismo, io professo spontaneamente l'eccezione offensiva, l'inconfessabile numerus clausus che mi escludono per sempre da ogni rivendicazione. Non sarei che un diseredato e un paria. Benché egli non si sia esplicitamente augurato il proprio spossessamento, l'uomo senza diritti rinuncia a ogni imborghesimento e assume la purezza della spoliazione assoluta. Non è da parte sua né affettazione né civetteria né masochismo: giacché tutto questo, come la mania di persecuzione e la dilettazione del martirio, sono ancora, per l'ipocrita, modi di riservarsi il proprio diritto. Il giusto, vittima di un'estrema ingiustizia, come Giobbe nelle sue prove scandalosamente immeritate, si confonde al limite

ICOMPLOTTIDELLACOSCIENZA.COME PltESl'IIVAlll- l'INNIII INIA

con l'amante disinteressato, dispcrnlo, dio 1111111 Ml~ll/.fl HtHlh'O~ partita. Il cinico non conosce altri diritti ch1: i p1•opri dhllli p1H1ouu11i. e questi non ·sono diritti in senso normntìvo, p.ì1w,1h1' Ili lrntut di un fatto bruto. Per me i mei diritti sono 1.c.i111plìc,,u1tH11t1 l1uu, soluto della violenza e della pleonessia sen1.a mh111rn né llmltL Ecco il bell'assioma dell'egoismo. Ma la giustizia rcllifieu, i11,· troduce sfumature e ritocchi: i diritti dell'uomo, sono i miri &· ritti dell'uomo per me, limitati, adattati e, se occorn:, sospmd dai diritti degli altri, dai diritti del maggior numero po:mihik di uomini; è questo, almeno, quello che ne resta! Ed ecco orn l'austera verità: i diritti dell'uomo, sono i diritti degli altd, senza concessioni né compensazioni, senza nessun genere di ne~ comodamento. Lungi dal poter essere considerati come il positi~ vo e il negativo, il diritto e il rovescio di una stessa realtà mo~ ralé, il diritto e il dovere sono tra loro radicalmente dissimmc~ trici. Il paradosso dei paradossi, per chi non vuol cadere nella pietosa ipocrisia della buona coscienza, si riassume in questo: a priori e teoricamente, io ho dei diritti, ma propriamente par~ lando e al limite, non ne ho nessuno. Innanzitutto: ho dei diritti. I miei diritti - quelli almeno ai quali ho diritto - esistono o, piuttosto, consistono nell'obbiettività giuridica e nella reciprocità sociale: essi si intersecano l'uno con l'altro, si agglutinano l'uno all'altro, formano un sistema di intelligibili, una specie di spazio attrezzato che è in qualche modo il nostro avere etico; meglio ancora: essi sono reificati, enumerabili, e noi non cessiamo, con innumerevoli varianti, di leggerne la lista; li nominiamo come gli antichi astronomi nominavano gli astri nella sfera delle stelle fisse. Essi non cambiano colore a seconda della luce, né dipendono da un punto di vista. In rapporto all'ottica speculativa della monade delle monadi, ogni monade, in quanto portatrice di diritti intelligibili, vale idealmente un'altra. E i portatori di diritti, a loro volta, sono teoricamente uguali, se non intercambiabili.

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4. Reificazione e o biettività dei diritti. Disuguaglianza e irreversibilità del dovere.

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In questo firmamento di diritti e di norme, il dovere fa apparire un principio di destabilizzazione e d'inquietudine: il nostro patrimonio assiologico viene messo fra parentesi. L'azione trasformatrice, che è la nostra vocazione, accentua il carattere contingente ed emendabile del dato; il dato sembra essere tutt'altra cosa... Il dovere porta con sé la disparità, o meglio la disuguaglianza. Giacché il dovere è essenzialmente impari! Lo scrupolo, l'umiltà, la passione di completare e di emendare, nascono nella sua scia; umanizzando l'uguaglianza giuridica, rovesciando il dislivello egoistico, che è tutto a mio vantaggio, il dovere istituisce il dislivello a mie spese... In altre parole, l'uomo del dovere è fondamentalmente disinteressato. AI di là di ogni mercenarietà, l'uomo del dovere professa (posto che si possa dire "professa"!) una splendida negligenza verso la regolarità, l'equilibrio, la simmetria del niente per niente. In questo il rapporto chiamato dovere è della stessa natura della generosità, la pietà o l'amore, ed è un rapporto a senso unico; ma il tratto dominante di questo rapporto è più il rigore volontaristico del sacrificio che la tenera e ansiosa sollecitudine. In ogni caso, esigenza imperativa o spontaneità amorosa, il dovere contrasta la trasformazione del moto generoso in merito e in cosa; esso ci tiene col fiato sospeso; mobilita e rimobilita senza posa il moto generoso sempre tentato di rimirarsi nello specchio della soddisfazione e di girare in tondo; l'estrema tensione del dovere impedisce la tesaurizzazione dei meriti e la capitalizzazione delle virtù; il dovere rompe man mano i nostri trastulli e giocattoli. Tensione spossante e appassionata, il dovere mantiene la coscienza aperta. Aperta su che cosa? su quale avvenire? Il polo magnetico che attira a distanza e orienta l'intenzione, si chiama seconda persona; questo futuro è a un tempo vicino e lontano ... Così prossimo, così lontano! È il futuro prossimo, giacché indica col dito il primo non-io al di là dell'io e nella sua immediata tangenza con me, poiché egli è appena un non-io, poiché egli è quasi me senza essere me: nel tempo egli dunque designa un dovere urgente, o almeno si

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rapporta a un còmpito imminente. Inoltre il dovere considera un altro sempre altro, altro da me all'infinito e altro anche da ogni altro; altro con un esponente infinito. La volontà morale, affascinata e per così dire magnetizzata, non è più là dove era: attraverso il vuoto, la volontà volente ha fatto il salto pericoloso per raggiungere istantaneamente la cosa voluta e identificarsi miracolosamente con lei; la volontà magnetizzata, come dicemmo dell'estasi, è fuori dei suoi cardini. Non è forse questa specie di estasi che si dovrebbe chiamare intenzionalità? La volontà su questo punto è altrettanto miracolosa che l'amore: il posto lasciato vuoto dall'oblio-di-sé, attrae, per così dire, l'aria. Grazie alla quale, il rapporto dell'uno all'altro, o più semplicemente il rapporto come tale, potrà avere un senso. E non soltanto il soggetto non è più dov'era: egli non è neanche ciò che era, non è più lui. Questa seconda fantasmagoria fa insomma tutt'uno con la prima. L'onnipresenza e la metamorfosi al limite si confondono. Soggetto amante o soggetto volente, il soggetto è simultaneamente qui e là, ed è insieme lo stesso e un altro, lui stesso e un altro. Nel posto vuoto, non c'è una cosa, e neanche un'altra cosa, c'è una fine appassionatamente voluta, e c'è l'accusativo d'amore, che è tutto slancio e fervore. La vocazione del dovere mi chiama a vivere per l'altro restando inesplicabilmente me stesso. Mostreremo che questo slancio è l'innocenza. Ma non mancano certo gli ostacoli che potrebbero farla scivolare. Fra i più pericolosi, ecco i tre principali: il primo è naturalmente l'istinto sordido e la bestialità, l'autos e la sua animalesca filautia; affinché l'essere umano si trasformi in persona umana e in soggetto del dovere, egli deve innanzitutto svuotarsi della sua egoità sostanziale. Che divenga una specie di nulla sotto lo sguardo dell'altro! Che l'estrema rarefazione del suo essere lo renda translucido! Allora il mio prossimo, che si aspettava tutto da me, riprenderà a sperare. Il secondo ostacolo è l'altruismo professionale che fa della filantropia una specializzazione al servizio di una clientela: l'altruista ricomincia a sonnecchiare e a ronfare. Il terzo ostacolo è infine il movimento di retroversione scrupolosa dell'uomo che, smentendo la vocazione del dovere e dimenticando il suo prossimo-lontano, si

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ripiega su se stesso non già riflessivamente, ma morbosamente, per accentuare le proprie manie. L'ottica egocentrica che si inscrive nelle persone della coniugazione comporta in ogni istante i rovesciamenti più paradossali. Bisogna così definire e specificare incessantemente la clausola irrazionale del punto di vista. Questa clausola è un dettaglio apparentemente circostanziale, addirittura aneddotico e derisorio, e di conseguenza trascurabile; essa però capovolge tutti i giudizi di valore ed è dunque moralmente decisiva. La circostanza è più essenziale dell'essenza. Piccole cause, grandi effetti. Graciàn e Pascal, come si sa, tenevano molto a questa metafisica della derisione. Nell'obbiettività impersonale della monade delle monadi, tutti i diritti della persona umana sono eterni, assoluti, ugualmente e infinitamente validi. Ma il mistero dell'assoluto plurale, che è quello delle persone, sconvolge questo cielo sereno. L'essere morale è anche un essere psicosomatico; esso è alla mercé della sua finitezza carnale e di clausole derisorie: imponendo a tutti gli umani l'ottica parziale, il privilegio unilaterale della prima persona, l'egocentrismo è in qualche modo l'immagine vissuta di un universo caricaturale abitato soltanto da mostri. Si può forse dire che il centrismo di questo centro si organizza in noi alla maniera di un a priori? Questo significherebbe dimenticare che l'a priori è razionale, e che la priorità dell'io è al contrario piuttosto biologica e istintiva. Possiamo forse dire, almeno, che l'io è il centro intorno al quale si ordina il mio microcosmo - il mio microcosmo egoistico? L'io (con l'articolo) è un'entità generale, un concetto che già presuppone le deformazioni nate dall'egocentrismo e che, in una certa misura, neutralizza o compensa, spiega o scusa queste deformazioni: dicendo l'io, dall'alto della mia obiettività, l'io e non già io, non già io che vi parlo e che scrivo questo, proprio in questo posto e in questo momento, io prendo già le mie distanze in rapporto all'inconfessabile preferenza egoista: mi sono dissociato; io e me-stesso non formiamo più un blocco compatto: ho abbandonato il mio stato di indivisione sostanziale con me stesso. A determinare questa fissio. ne è la presa di coscienza. Più tardi, la coscienza scissa potrà ritornare appositamente allo stadio dell'indivisione, professare

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scolasticamente, ossia cm1camente, l'egocentrismo origi1111rlo t; farsene una religione: talvolta essa eccede nell'insolcn:w cd mm,· gera con l'istinto; talaltra acconsente lucidamente all'i111.:li1111,, zione egoista; il suo egocentrismo diventa egotropismo, cd t)IH!O cede a tutte le tentazioni: contrazione sul sé, pesante1.zu morule, rifiuto del dialogo, fobia dell'altro e dell'apertura. Ma se es~ sa aderisce alla propria naturalità, è perché se ne è teorican1c11~ te già dissociata. La storia della coscienza _farà il resto ... Poiché le conseguenze infinite della presa di coscienza non si possono limitare!

5. La prima persona diventa ultima, la seconda diventa prima. Io sono il difensore dei tuoi diritti, non il gendarme dei tuoi doveri. La conversione da un estremo all'altro, da un estremo all'estremo diametralmente opposto, segna per la coscienza l'avvento di una vita morale: la prima persona, prima proprio per me secondo la grammatica e la coniugazione, diventa ultima: sempre per me; la seconda persona, quella dell'interlocutore (il tu), diventa pneumaticamente la prima, !'assolutamente prima per me, mi sloggia dalla mia egoità e prende il mio posto... pur restando numericamente un'altra persona: es~a sarà, per l'interesse appassionato che nutro per la sua esistenza e la sua felicità, la mia nuova prima persona! "Eoovtm o{ Ecrx,a:rot npro-rot xa.ì oi npro-rot scrx,a:tot: gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi 1; questa inversione rivoluzionaria del numero ordinale è il segno di un rovesciamento ancora più radicale, di un rovesciamento ascetico e letteralmente soprannaturale che prelude, forse, al rovesciamento dei riflessi e all'avvento di una naturalità contro natura. La supernatura trascende a volte la natura e la natura contronatura... la quale non è mai altro che una natura invertita! O meglio: la soprannaturalità non sarà mai, in atto, contro-naturale, né mai si abituerà a camminare con la I. Mt. 20, 16; 19, 30; Le. 13, 30. 13°

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testa in giù: ma fra l'amore disinteressato e i riflessi logorati dagli scrupoli diventa possibile una lotta senza tregua. La conservazione del proprio essere e l'incremento del proprio avere verranno ormai all'ultimo posto, dopo la tenera sollecitudine ispirataci dal nostro prossimo. Le forme più elementari della gentilezza e della socievolezza sono quasi un timido approccio, benché ancora convenzionale, all'abnegazione: l'ingordo reprime la sua ingordigia e si serve per ultimo; si abitua a scegliere la porzione più piccola, non per offrire al pubblico una stupefacente lezione di virtù, ma, se è possibile, per pura gentilezza; il capitano della nave in procinto di affondare lascia il bastimento per ultimo, non già in modo teatrale e per immortalare il suo esempio, come l'ammiraglio del film Noblesse oblige, ma per salvare il maggior numero possibile di uomini. Per una conversione repentina e forse senza domani, il mio dovere verso l'altro sloggia così l'egocentrismo che occupava il primo posto - tutto il posto. Questo primato del dovere, del mio dovere personale non è, come la priorità dell'istinto e del mio diritto, una semplice priorità biologica e cronologica; ma non è neanche un primato ontologico, come quello dei diritti impersonali dell'uomo in quanto uomo. Se la priorità dell'istin. to è piuttosto preesistente, il primato del dovere è piuttosto preveniente: i problemi che esso ci pone li incontriamo a proposito di un caso di coscenza, cioè di conflitto di valori. Al limite e in via di principio, in rapporto al mio prossimo io ho soltanto dei doveri, senza avere moralmente il minimo diritto su di lui, e in particolare senza avere diritto alla minima ricompensa: tale è la verità disinteressata, l'austera e ingrata verità del dovere! Quanto a te, prossimo mio, tu hai su di· me soltanto dei diritti senza avere in rapporto a me doveri di sorta, o almeno senza avere dei doveri di cui io possa moralmente esigere il rispetto: i tuoi doveri verso di me non mi riguardano! A te i diritti, a me tutti i doveri e tutti i carichi! E come se questo non bastasse: il mio dovere si applica, più che a qualsiasi altra cosa, alla preservazione dei tuoi diritti, esso include e ìntima questa preservazione come una delle sue esigenze più imperative. Ciò che per me è sacro, ciò che per me è oggetto della mia preoccupazione quotidiana e della mia co-

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stante sollecitudine, non sono tanto i diritti dell'essere umano in generale, nel cui novero figurano anche i miei, ma innanzitutto i diritti dell'altro, e più in particolare i tuoi - giacché io lavoro per i tuoi diritti, non per i miei: il primo dei miei doveri è il rispetto dell'altro, della sua dignità, dei suoi diritti, del suo onore; per questo onore che non è il mio, mi batto e se è necessario mi sacrifico; per quell'onore, devo essere capace di morire. Non perché il tuo onore e il tuo disonore siano una parte del mio, o ricadano su di me, come nella morale tribale, ma unicamente perché questo onore è il tuo, e per questa unica ragione ... che poi non è affatto una ragione! Io non sono il gendarme dei tuoi doveri, ma il difensore dei tuoi diritti. I diritti sono un più che è un meno; e inversamente, i doveri sono un meno che è un più. I diritti, beninteso, sono un più quando li si considera nel loro rapporto con le norme in sé, coi valori eterni e metafisici di cui quelle medaglie scintillanti, quelle croci, quei nastrini variopinti sono il riflesso e il simbolo, o meglio il ricordo ... in qualche modo, il riassunto!· Ma i segni di un coraggio passato non sono più il coraggio stesso: giacché il coraggio esiste nell'istante presente; e il merito ha bisogno di essere ·continuamente rigenerato e rinnovato, ringiovanito, aggiornato; non si può vivere tutta la vita su titoli qi gloria di quarant'anni fa: il precedentemente, in materia d'eroismo, non conta! I diritti che si iscrivono, che si dispiegano in lettere maisucole sul petto di un prode, in un uomo bardato di diritti, corazzato di titoli e costellato di ricompense; sono diventati un semplice potere - ossia un avere - statico, inerte e disseccato come ogni avere: l'uomo meritevole, schiacciato da queste reliquie di un passato defunto, finisce per soffocare sotto il loro peso. Così come una virtù isolata dalle altre virtù è un vizio, la verità del mio diritto, esiliata dal dovere, è soltanto un'astrazione, vale a dire una menzogna. Un meno che è un più: tale è il dovere. Innanzitutto un meno: poiché i suoi compiti aridi e ingrati esigono il sacrificio del mio interesse e vengono prelevati dal mio tempo libero e dalla mia libertà. I tuoi diritti spettano o appartengono a te, ma è su di me che incombe la loro difesa: e in questa forma essi sono i miei doveri più sacri; far valere i miei diritti, rivendica-

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re il mio debito, o anche soltanto parlarne, non è compito mio - poiché la coscienza del mio diritto, considerata riflessivamente e in prima persona, non è mai morale: essa resta prigioniera dell'interesse e della sordidezza. L'uomo del dovere non lavora per giustificare più o meno ipocritamente il proprio diritto o la propria ambizione: egli è là, piuttosto, per santificare la felicità degli altri. Il positivo e il negativo, associandosi, danno al· dovere il modello e il rilievo dell'ambivalenza. Sublimità e miseria, direbbe Pascal... La nostra finitezza inciampa invariabilmente nella medesima alternativa, contro la stessa insuperabile barriera. Non è possibile avere tutti i vantaggi in una volta! L'angoscia sarà dunque, come sempre, il prezzo fatale della nostra dignità... Il peso che incombe su di noi è la nostra grave responsabilità, e tiene in serbo per noi molta amarezza. Noblesse oblige ... La dignità è obbligante! Ma non è, beninteso, per nobiltà che l'uomo del dovere persegue questa impresa estenuante ed eternamente incompiuta... Non è per recitare una nobile parte che egli resta fedele, senza nessuna speranza di ricompensa, all'opera interminabile! La relatività delle persone della coniugazione si riassume infine per tutti gli uomini nell'opposizione di due universi, e si potrebbe anche dire di due paesaggi: il primo è un punto di vista, il mio punto di vista, il cosmo egocentrico, deformato e incessantemente mutevole, visto attraverso le finestrelle del mio corpo; l'altro è il non-io nel suo insieme, l'universo oggettivo, l'universo degli altri, di tutti gli altri. Il fatto impalpabile di essere un altro, ossia di essere il mio simile-diverso, monadicamente distinto da me, è, se è concesso dirlo, la causa. di un amore senza causa. La causa impalpabile può avere come effetto soltanto un amore inesplicabile. Amare l'altro semplicemente perché è un altro, senza nessun motivo e indipendentemente dai suoi meriti, è il tratto peculiare di un amore puro e disinteressato, di un amore immotivato. Perché sono io, perché è lei: questo perché circolare, che non risponde a un perché? e rimanda a se stesso, è la formula assurda dell'amore gratuito. Quando la risposta è, alla fine, la semplice ripetizione della domanda, questo vuol dire: non c'è nessun'altra ragione d'amore tranne il fatto della pura alterità... Cosa che non è evidente-

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mente una ragione; non, almeno, una ragione sufficiente; il fatto che un altro è un altro - il mio altro! - chiunque sia questo altro, è una tautologia e non potrebbe bastare. Ma a che pro segnare il passo? Bisognerebbe asserire: la ragione è proprio l'assenza di ogni ragione. Ma pretendere per forza che l'assenza di ragione sia essa stessa una ragione, vuol dire interpretare in modo pedantesco l'incomparabile gratuità dell'amore. A parte il carattere verbale di questo gioco di prestigio, si può notare che il gusto degli umani per gli amori assurdi o strani è anche una civetteria, e fra le più alienanti... L'amore disinteressato, l'amore immotivato non è il capriccio di un amante cocciuto. No, il puro amore non è un ghiribizzo. Esso è al contrario di un'assurda testardaggine: la verità è che il puro amore, essendo anch'esso fondatore di una causalità, supera ogni eziologia; esso è categoricamente imperativo, proprio perché è incondizionato; come i profumi della primavera, esso è paradossalmente, assurdamente ispiratore. D'altra parte il nostro amore per l'alterità dell'altro è un amore puro perché si rivolge all'essenza stessa dell'essere amato. Ciò che esso ama, non è questa o quell'altra qualità eminente presso questa o quell'altra persona amata (un dono eccezionale presso costui, un notevole talento in quell'altro), giacché l'amore in questo caso sarebbe secondo rispetto all'amabile, e si estinguerebbe con la qualità che lo fece nascere: questo povero amore mercenario, motivato, condizionato procede a rimorchio di un perché; si divide e si sparpaglia fra le due ragioni per amare e la sua alta temperatura si abbassa; la fervida fiamma d'amore, sempre preveniente, che arde nell'estasi amorosa e nell'oblio di sé, esso non la incontra mai. Le ragioni per amare, quando pretendono di motivare l'amore, si trasformano in merci monetizzabili, in titoli negoziabili e conseguentemente revocabili. Andiamo oltre: il prezioso, inestimabile movimento dell'intenzione, non appena prende coscienza di sé, diventa schema inerte e moneta falsa; tutta l'impalcatura morale si reggeva sulla fragile punta dell'innocenza: l'edificio, privato dell'istante ispiratore, è crollato di colpo, e non ne restano che delle macerie. Meglio, e con altre immagini: per sgonfiare il bluff del vanitoso è bastata una sola paro-

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la, un monosillabo, un aggettivo possessivo... Il mio moto generoso, il mio disinteresse! Così degenerano i meriti rivendicati dall'ego, così si atrofizzano le eminenti virtù che il soggetto attribuisce a se stesso: queste virtù danno un suono falso non perché delle qualità meritorie sarebbero di per sé condannabili, ma per la tracotanza di attribuirsele, di prevalersene e anche, semplicemente, di parlarne. Caricatura di coscienza, la "riflessività" compiacente dell'io è un veleno deleterio. Ci sono qualità che vengono immediatamente o ipso facto contraddette, smentite, annullate dalla riflessività dell'aggettivo possessivo (la mia modestia! il mio humour! il mio fascino! la mia innocenza!), altre che vengono rese buffonesche o equivoche dalla semplice aggiunta dell'Io (la mia dignità!): la grandezza d'animo è, se non proprio annientata, quanto meno rimpicciolita dall'infatuazione e dalla meschinità. Anche quando la soddisfazione di colui che brandisce la sua bella anima come una sciabola non è immotivata, essa è tuttavia sospetta e quanto meno soggetta a cauzione. Ecco dunque una verità che è oggettivamente vera ... e che tuttavia non ho il diritto di dire: dall'istante in cui sono io a dirla (proprio io e non voi o qualcun altro), essa diventa immorale, ridicola e persino del tutto falsa! Sono queste le due forme invertite e apparentemente arbitrarie di una medesima aseità: la verità diventa pneumaticamente menzogna (pur restando letteralmente vera), unicamente perché la professo io e perché io sono in malafede; il falso diventa pneumaticamente verità (pur restando falso), perché amo di amore sincero, e per un amore sincero non ci sono né conti da rendere né ragioni da dare; in tutti i casi l'amore preveniente è causa sui! A seconda che sia proprio io o un altro al mio posto a enunciare la lusinghiera verità sulla mia anima bella (sempre che si tratti, notate bene, della medesima verità), la lusinghiera verità cambia completamente di senso, di luce e di portata; e se la grido dai tetti, diventa francamente urtante e assurda. E tutto questo, notiamolo ancora, unicamente perché sono io, e per questa unica ragione! Si dirà nuovamente che questa sola ragione non è affatto una ragione, che è piuttosto una contro-ragione. La più veridica ve-

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racità, anche ove sia compensata da quel riduttore che si chiama "equazione personale", è sempre impercettibilmente falsata: ciò che qui è in causa è l'a priori dell'egoità. La scusa della prima persona è forse una semplice precisazione grammaticale? Lungi da ciò! Questa irritante precisazione non è un vano dettaglio aneddotico e circostanziale. Se la deformazione che essa ci rivela si riducesse a un capriccio arbitrario e gratuito, non servirebbe a niente: un insignificante peccatuccio, una semplice esagerazione enfatica e pittoresca. Si tratta invece di una fatalità costitutiva, e questa fatalità è più perfida del disaccordo dell'apparenza e dell'essenza: poiché essa non concerne soltanto il rapporto della verità con l'errore, ma la qualificazione morale della persona. Le mie virtù, per poco che me ne prevalga, diventano vizi, ossia tics e manie ridicole, o si mutano in scimmiottatura. I miei meriti - anche quelli che a suo tempo furono obbiettivamente dei meriti straordinari - sono da molto tempo un vagheggiamento. I miei talenti non sono più altro che bluff, furfanteria e mezzi arrivistici. Ciò che in definitiva è propriamente irrazionale, e persino un po' diabolico, è l'inesplicabile contraddizione che inerisce al minimo etico: il minimo etico, una volta rivendicato, diventa giuridico, e il minimo giuridico, rivendicato, diventa a sua volta sedimento morto, possesso e titolo di priorità; il minimo etico è in fin dei conti chiuso in una cassaforte, e questo soltanto per effetto della rivendicazione, in virtù della pretesa più legale, e dunque di pieno diritto. Qui la normatività viene rivendicata, essa dunque no~ è usurpata, non risulta da un'approssimazione indebita. E questa normatività di uno dei due contrari a farci dire: la contraddizione può essere diabolica? La contraddizione può essere una maledizione? Questo lo che avvelena i nostri giusti diritti può mai essere maledetto? Chissà che la maledizione della contraddizione non sia un brutto tiro del genio maligno! In ogni caso, in questo modo si spiegherebbe il carattere a volte un po' terroristico di una repressione che nel linguaggio proibisce e censura la prima persona e che contrappone la fobia dell'Io alla malattia dell'arroganza. Proibito sussurrare il maledetto monosillabo! Proibito persino pensarci! Tutti questi divieti per un

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monosillabo! Ma noi diciamo fobia quando forse bisognerebbe dire pudore. La fobia è un'anomalìa patologica,, ma il pudore è il fiore più raro, il più delicato e squisito dell'esistenza morale. Qui il monosillabo è soltanto un soffio, un alito leggero, un'ammissione appena percepibile. I diritti - si intende: i miei diritti, non i vostri - verificano e giustificano questa discrezione: essi vogliono conservare l'incognito, ci chiedono l'anonimato. Ci è fatto divieto di assumere i nostri diritti! Ci è proibito professarli... Addio, diritti miei! E tuttavia i miei diritti sono giusti e veri. E tuttavia (eppure*)... Queste due parole esprimono la volontà caparbia della paradossologia che protesta scandalosamente contro le evidenze volgari e continuamente rinascenti del senso comune. Alla fin fine lo statuto dei miei diritti e della mia dignità non è fondato né sull'evidenza né sull'inevidenza: è piuttosto avviluppato nell'ambivalenza e nell'ambiguità; è essenzialmente sconcertante. Attutita dalla sordina del pudore, la rivendicazione rivendica sottovoce, si fa timida, evasiva e a volte quasi confidenziale: nella penombra, l'evidenza diventa sfumata, e l'insolente certezza, privata della sua sicurezza dogmatica, appare ambigua e nebbiosa. I diritti universali dell'uomo sono in definitiva diritti inattingibili, e per così dire impalpabili, che è scandaloso negare agli altri, ma che tuttavia non posso rivendicare per me. Non è forse, questa, un'ingiustificabile ingiustizia? una contraddizione insolubile? L'io è detestabile. Nascondete questo io che non tollero di vedere. Indubbiamente l'Io non è fatto per vedere se stesso. Ma alla fine... tutti questi scrupoli per un monosillabo? Tutti questi scrupoli e tormenti della malafede? L'insignificanza della meschina verità e della meditazione che ci apporta - ecco un soggetto di meditazione veramente pascaliano. Derisione delle derisioni! Quale derisione! Tutto dipende di nuovo da questo dettaglio meschino, tutto è sospeso a questo dettaglio: la persona della coniugazione, il numero di questa persona. Poiché il numero cambia tutto, decide di tutto. In effetti, l'ironia di questa sproporzione caricaturale fra l'io e la

* In italiano nel testo (N.d. T.).

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verità - ironia abbastanza simile per le sue smisurate conseguenze al naso di Cleopatra - non è forse piuttosto un mistero? Indiscutibilmente un simile contrasto ha degli aspetti burleschi, ed è a questa comicità misteriosa che dovremo dare ormai il nome di paradosso.

6. Apertura degli occhi. La perdita dell'innocenza è il prezzo che la canna pensante deve pagare in cambio della sua dignità. · All'interno del minimo etico, la coscienza-di-sé può sembrare, in certi casi, quando in essa si accumula lo stock dei nostri ricordi, delle nostre tradizioni e dei nostri pregiudizi, l'elemento più pesante del nostro bagaglio. Poiché la coscienza di sé, proprio come la libertà, è un'arma a doppio taglio: è la liberazione riflessiva che mette fine all'indivisione vegetativa; ma nella misura in cui a volte è introversione e retroversione, essa è anche perversione e ci distoglie dalla nostra vocazione, che è quella di agire e di amare: anche per questo essa può diventare assai perfidamente e sottilmente fallace. La disuguaglianza degli effetti della coscienza è sottintesa nel racconto della Genesi: l'apparizione della coscienza è il principio dell'apertura degli occhi, ossia della chiaroveggenza, ma questa stessa chiaroveggenza è discernimento del Bene e del Male, dignoscentia conoscente il Bene attraverso il Male e il Male attraverso il Bene, conoscenza relativa legata all'effetto di rilievo, che ha come effetto la vergogna, la fobia della nudità, la ricerca dell'ombra: "L'uomo e la sua compagna si nascosero al volto di Dio fra gli alberi del giardino" 2• La conoscenza vergognosa, che cerca il chiaro-scuro nel paradiso, non è dunque compatibile con una felice eternità. Questa alternativa della felicità e della conoscenza sdoppiata sarebbe in qualche modo la tara originaria. Di più: al tempo stesso lucida e generatrice di opacità, è la coscienza a rendere l'innocenza così precaria, fragile, instabile; 2. Gen. 3, 8.

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l'innocenza non chiede altro che di virare: un solo granello di polvere basta a rendere impura la purezza, a, trasformare la bianchezza immacolata in un grigiore - una scossa infinitesimale della coscienza, una piega impercettibile nella mia semplicità... - e il superlativo dell'innocenza è già lontano. Addio, innocenza! La coscienza e la vergogna hanno ucciso in me il candore. Il serpente non ha bisogno di eloquenza per installare nel mio foro interno la goccia di veleno della falsa promessa: tutta la sua arte di persuasione consiste in un debole sussurro... L'uomo è debole, credulo, accessibile alle tentazioni! Ed ecco, con la sua alternativa insolubile, la tragedia della contraddizione - contraddizione molto più acuta di quella del merito e del legittimo orgoglio: - l'innocenza è la condizione vitale di un amore senza secondi fini, di un'azione coraggiosa e spontanea; e la coscienza è la mia insostituibile superiorità di canna pensante! Giacché si può ben chiamare tragedia un caso di coscienza in cui ciò che fa problema è la stessa coscienza! Questo caso di coscienza è un dilemma disperante. La priorità dell'innocenza e l'a priori della coscienza pensante sono entrambe altrettanto "prevenienti" e si superano a vicenda a gara. La coscienza è tutta riflessione; ma è anche affettazione nascente, sempre pronta a sdoppiarsi, a rimirarsi e ad ammirarsi in uno specchio, ad ascoltarsi, insomma sempre occupatissima a far la bella; anziché guardare dritto davanti a sé l'oggetto della sua mira intenzionale, sbircia di lato la propria immagine, e con la coda dell'occhio si osserva mentre recita la commedia della sua vita. Anche questo è coscienza! Anche lei, la coscienza, è un mezzo che fa ostacolo... La coscienza pervertita diventa viziosa a partire dal momento in cui l'ostacolo prevale sull'organo. Ma come può, l'essere pensante, impedire a se stesso di prender coscienza? Dovrebbe ridiventare bambino! Dovrebbe non prender coscienza di questa coscienza, evitare persino il pensiero di questo pensiero ... Dunque, non pensateci, e soprattutto ... zitti! non ne parlate. Proibito pensare al pensiero del pensiero! Per poco che la supercoscienza di una tale coscienza vi sfiori, per imponderabile che essa sia, il compiacimento e l'affettazione hanno già messo la loro maschera e inscritto la loro smorfia sul vostro volto; la scimmiottatura ha

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cancellato l'innocenza. Non pretendere, ci consiglia Alain in uno dei suoi più sottili ''propos" 3 • Giacché la pretenziosità, l'ambizione, la rivendicazione, pesano gravemente, indiscretamente sulla coscienza; spezzano la sua punta affilata senza che si possa dire a partire da quale momento l'insistenza divenga sospetta. La supercoscienza ha l'orecchio fino: sicché non resta ingenua troppo a lungo. Essa sente dire e sussurrare che tutti hanno dei diritti; e questa verità filantropica non cade nell'orecchio di un sordo. Per giunta, è dotata di memoria, cosa che la rende capace di sorvolare l'attualità istantanea del presente. Perché questa universale distinzione dovrebbe applicarsi a tutti gli esseri umani fuorché a se stessa, fuorché a me stesso, soggetto riflettente? Questa distinzione non ha niente di un privilegio e non ha, ricordiamolo, nessun motivo di escludermi: ogni scomunica, in questo campo, è arbitraria, discriminatrice e scandalosa. Così la coscienza pensante, minacciata dal diniego scandaloso della giustizia, dall'incomprensibile numerus clausus, non esita ad applicarsi a se stessa, a rivendicare per se stessa, per diretta estrapolazione o semplice deduzione, quei diritti dell'uomo che sono validi senza eccezione alcuna per tutti gli uomini. Il rispetto di questo bene elementare è davvero il meno che ci si debba.

7. I tuoi doveri non sono il fondamento dei miei diritti. Ma io posso anche accorgermi della reciproca: se è vero che ho dei diritti come te, non è meno vero che dopo tutto tu hai dei doveri come me. Da questo riconoscimento dei tuoi doveri al pensiero dei miei diritti correlativi non c'è che un passo. E questo passo è subito fatto! Giacché l'ego non perde la testa ... Interpretare i doveri altrui come se traducessimo in cavo ciò che è in rilievo giustificherebbe i miei stessi diritti; annettere ai propri averi e a proprio credito i doveri e gli obblighi degli al3. Préliminaires à l'esthétique, Propos 72.

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tri: ecco un'inferenza senza dubbio meno diretta della prima, ma più ingegnosa e altrettanto probante. Speculazione, a dire il vero, un po' disinvolta e gratuita! Noi diciamo: io non ho che dei doveri. Ma poiché tutti, Dio grazia, sono nella stessa condizione, l'insieme di questi doveri altrui mi assicura una certa latitudine di azione, sgombera intorno a me una notevole libertà di movimento e quasi una frangia di potere: in altri termini la coscienza del soggetto, ventilata dai doveri degli altri verso di lei, dispone di alcuni diritti di iniziativa e di un piccolo margine per realizzare l'opera intrapresa. In un modo o nell'altro, che io l'abbia voluto o no, l'universalità dei doveri altrui verso di me renderà la vita più vivibile, l'azione più vitale, la coesistenza più respirabile, il mondo più abitabile; io sarò un po' alleggerito dai miei pesi; conoscerò un piccolo sollievo. Di modo che in effetti il problema del dovere impossibile non si potrà porre nel suo rigore letterale: non ci saranno aporie; grazie a questo malinteso, avremo trovato un modus vivendi! Tuttavia, i tuoi doveri non erano fatti espressamente per arricchire e rinforzare i miei diritti; lo scopo originario dei doveri degli altri non era quello di garantire la mia spigliatezza e il mio benessere. Quella che mi viene offerta è semplicemente un'occasione fortuita che io sfrutto a mio vantaggio, un'improvvisa opportunità di cui approfitto con zelo. Questa opportunità è la correlazione, o meglio la simmetria speculare, del tuo dovere e del mio diritto, simmetria che rende possibile il gioco di prestigio dell'inversione: il tuo dovere sarà il mio diritto. Opportunità insperata e anche introvabile, poiché per giunta la salvaguardia dei miei diritti è diventata un obbligo per l'interlocutore ... come se la sola salvaguardia non bastasse! E infatti il mio diritto deriva ipso facto dal tuo dovere, e ciò senza nessun intervento esplicito da parte mia, senza che io ri. vendichi nulla, addirittura senza neanche pensarci ... Quel favore inatteso che non ho sollecitato né richiesto in nessun modo, quel diritto supplementare che non ho esplicitamente rivendicato, sono in qualche modo una felice sorpresa, e li ricevo innocentemente come una mia personale opportunità, o piuttosto come una grazia; a cose fatte mi trovo in possesso di alcune inaspettate facilitazioni. Questi doveri dell'altro verso di me,

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aiuto fraterno· o dovere di assistenza, io li accolgo con animo disteso e cuore incredulo, quasi timidamente, e spogliandomi di ogni arroganza. Sia benedetta la sorpresa che una mattinu suona alla porta del mio appartamento, come un'amica sulla quale non facevo più assegnamento! Tutto è per me dovere. E conseguentemente i tuoi diritti sono da me percepiti e vissuti come se fossero i miei primi doveri: quelli più urgenti e imperativi; essi dovrebbero essere il mio cruccio, la mia intenzione, la mia angoscia di ogni giorno, l'oggetto della mia costante sollecitudine. I diritti dell'altro sono essi stessi per me altrettanti doveri che devo assumere e preservare gelosamente, così come si veglia su un tesoro infinitamente prezioso. Ma questo non vuol dire tuttavia che sia vera anche la reciproca, che cioè i tuoi doveri siano automaticamente i miei diritti, che corrispondano ad essi obbligatoriamente ... Sarebbe troppo bello e comodo! Sarebbe un racconto rosa, un'autentica fantasmagoria, un'armonia provvidenziale; ma soprattutto questa simmetria sarebbe fin troppo esemplare, e questa reciprocità fin troppo fittizia... con, in più, un profumo sospetto di malafede: se i tuoi diritti disegnano in rilievo i miei doveri, la proporzione è ben lungi dall'essere reversibile. Io dunque non posso, moralmente, applicare a me stesso nessuno dei due ragionamenti interessati, nessuno dei due sofismi giustificativi escogitati in mio favore: né dedurre i miei propri diritti dai diritti dell'uomo in generale, né ancor meno approfittare della latitudine propizia lasciatami dalla rettitudine morale altrui prevalendomi spavaldamente delle agevolazioni che ne derivano per me. O quanto meno, non spetta a me giudicare, non più nel secondo caso che nel primo: non sono che due sotterfugi escogitati per sfuggire ai miei doveri. - In realtà i diritti che derivano per me dai tuoi doveri sono come ricadute e avanzi dei miei stessi doveri; briciole dimenticate; ... ceneri! In ogni modo io lascio che questi inattesi diritti giungano fino a me attraverso i tuoi doveri; essi mi ritornano come di rimbalzo dopo aver descritto questo gancio e io mi trovo a raccogliere in via subordinata qualche misera briciola proprio quando mi aspettavo il meno. - Sicché i tuoi doveri saranno forse i miei diritti, e io potrò beneficiarne... a condizione di non stare lì a

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spiare indiscretamente questo effetto di rimbalzo, a condizione di non contare troppo su di esso come se fosse una cosa dovuta, a condizione di non insistere troppo coscientemente, troppo riflessivamente,· troppo esplicitamente. A condizione, a condizione ... Questa condizione, sempre la stessa, è quella di evitare l'eccesso di coscienza che fa ostacolo all'innocenza e bara col suo segreto. Una siffatta speculazione sui doveri altrui può tradire una grossolana mancanza di tatto, una grande volgarità morale. lo non ignoro che anche il mio interlocutore ha dei doveri, doveri che al momento giusto allevieranno il mio sforzo e mi aiuteranno a vivere. Ma per il momento conviene dimenticarlo. Fino a nuovo ordine è preferibile che io non faccia troppo assegnamento sui tuoi doveri per alleggerire il mio compito. Innanzitutto i bisogni degli uni e degli altri non formano un solo bisogno in cui quel che conta sarebbe il risultato, un solo compito in vista del quale i soggetti solidali potrebbero aiutarsi reciprocamente e coniugare i loro sforzi, un'opera unica che si realizzerebbe pezzo per pezzo grazie agli sforzi di tutti. .. In questo caso il tuo lavoro potrebbe effettivamente dispensarmi dal mio, e il supplente potrebbe rimpiazzare colui che viene sostituito: giacché ciò che è stato fatto non deve essere più fatto ... nella misura in cui si tratta di fare qualcosa! Ciò che è stato fatto da uno potrebb'essere dedotto dal compito di un altro, prelevato dal dovere dell'altro; quel che è stato fatto sarebbe stato ugualmente fatto! Ma non è così. Dobbiamo rinunciare a tutte queste ingegnose comodità ... Addio alla bella economia dello sforzo e all'armoniosa complementarietà dei compiti. L'intenzione, la responsabilità, la decisione morale del sacrificio sono iniziative essenzialmente solitarie che nessuno può prendere al mio posto e dalle quali nessuno può dispensarmi. Qui ognuno deve operare e penare per proprio conto, anziché rimettersi al vicino. Un uomo può sacrificarsi al posto di un altro in questa o quella data circostanza: ma nell'istante supremo ognuno muore solo; e allo stesso modo, ognuno deve penare e soffrire per se stesso come se fosse solo al mondo; nessuno può fare niente per lui. Più esattamente ancora: io mi batto per i tuoi diritti e per la tua esistenza, e sarei persino pronto, se non fosse assurdo e addirit-

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tura contraddittorio, ad assumere io stesso i tuoi doveri al tuo posto. In ogni caso c'è un equivoco grossolano che dobbiamo dissipare: io non debbo vigilare sull'esercizio dei tuoi doveri, né dettarne la lista; non calcolo il vantaggio che potrei trarne né il partito che ne potrei ricavare: queste sospettose precauzioni non si addicono all'uomo disinteressato, all'uomo del dovere e della rettitudine. Da questo punto di vista non c'è comunicazione diretta od osmosi tra i tuoi doveri e i miei diritti. Non posso gettarmi come un affamato, con una premura di cattiva lega, sui doveri di Pietro e di Paolo: Pietro e Paolo si occuperanno essi stessi di ciò che spetta loro, e questo in tutta innocenza, così come noi stessi lavoriamo, soffriamo e ci prodighiamo per loro senza attendercene niente: né salario, né renumerazione, né riconoscenza. Per questo occorre dirsi e ripetersi incessantemente: io sono il difensore incondizionato dei tuoi diritti, non il gendarme dei tuoi doveri. A ciascuno i suoi doveri non può più essere ormai la formula desolante dell'egoismo: sarà al contrario il motto del ·disinteresse universale e di quella universale innocenza in cui gli uomini s'incontrano per scambiarsi il bacio della pace al di fuori di ogni relazione mercenaria. Colui che ha preservato e giustificato i suoi valori morali, salvaguardato la sua onorabilità e il suo minimo etico, corre dei rischi medi. Ma l'uomo privo di tutto che perviene a quell'ultima sponda del sacrificio-limite che ha nome abnegazione, come lo chiameremo? Lo chiameremo un rischia-tutto: giacché la sua avventura è un'avventura mortale, e il suo lancinante dilemma gli ingiungerà di optare fra l'amore-senza-essere e l'esseresenza-amore. Ma come scegliere? Si risponderà che occorre scegliere un minimo di essere per sopravvivere, poiché non c'è amore se non c'è amante, e perché l'ego, soggetto sostanziale, è la condizione sine qua non della relazione amorosa; alcune bolle d'amore, per piacere, al fine di attenuare la prostrazione dell'essere e contenere la degenerazione adiposa. Ma, come abbiamo già suggerito a partire da Fénelon e da La Rochefoucauld, il superlativo della purezza amante e del disinteresse è così fragile e instabile che a degradarla basta il più piccolo ispessimento: un compiacimento impercettibile, un'insistenza

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imponderabile, una lentezza appena discernibile, una distrazione sospetta, e l'immacolata bianchezza - dicemmo - è già diventata un grigiore. Dove finisce l'amore puro quando si va in direzione dell'essere? Proprio là dove incomincia l'amor-proprio, ossia l'amore impuro: immediatamente. Come in quei microscopi ultrasensibili in cui l'immagine si confonde sùbito alla minima pressione della mano, l'amore, ancora puro, ossia "inesistente", situato al di là dell'essere, si intorbida alla minima tangenza, per un millesimo di millimetro e per un milionesimo di secondo, per un movimento impalpabile e fuggitivo del nostro umore; una dose infinitesimale di interesse personale, l'affioramento di un remoto secondo fine potrebbero bastare a far avvizzire e a intorbidare questa purezza. E inversamente: fin dove occorre inoltrarsi nella rarefazione del proprio essere quando si sogna una nuova purezza per un amore affuscato? A partire da quel momento l'essere rarefatto e quasi annichilito corre il rischio di morire di estenuazione. Poiché se l'amore-senza-essere è infinitamente instabile, l'essere-senza-amore è essenzialmente vulnerabile. Fra questi due estremi, dove occorrono prodigiose acrobaz.ie per mantenervicisi, sono rappresentate tutte le varietà di amore impuro e le mescolanze di ogni grado. Fra Scilla e Cariddi, come barcamenarsi? - Per la logica estremistica e iperbolica, per l'assurda logica dell'esigenza morale, ciò che non è purissimo, ossia puro al cento per cento, è impuro; e analogamente, ciò che non è sicuro, è dubbio a partire dal momento in cui la cosa certa ci illumina non già di una certezza assolutamente trasparente, ma di una certezza a metà certa e a metà incerta. Non ci sono vie di mezzo. Gli stoici dicevano che un peccatuccio è già un grande peccato. Un po', quando si tratta di colpa, è ancora troppo, infinitamente troppo! E la quantità non cambia le cose. Teoricamente, il paradosso morale non ci lascerebbe neanche la consolazione di pensare che sono un essere umano fra gli altri e come gli altri. Giacché non sono neanche uno di questi altri, valido come gli altri, degno di rispetto come gli altri, e in grado come loro di rappresentare il genere umano nella mia persona: infatti può anche darsi - dati i sofismi diabolici dell'amor proprio - che questa modesta concessione sia anch'essa un pretesto per rein-

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tegrare di colpo tutte le prerogative della mia preziosa pcnm·• na, per recuperare tutti i miei privilegi e dedurre nuovamcnh· tutti i miei diritti, compresi quelli ai quali non ho avuto mui diritto! Tutt'al più la paradossologia potrebbe ammettere clw i miei diritti potrebbero essere la conseguenza fortuita e non ri-• vendicativa dei doveri altrui ...

8. Il prezioso movimento dell'intenzione. Detto questo, simili oltranze sembreranno senz'altro assurde. Io sono poca cosa? Dunque qualcosa! Sono, quanto meno, un po'; non sono un meno-che-niente. Meno che niente? qucstn umiltà sarebbe pura follia! Il poco che sono, lo sono. Questa modestissima tautologia vissuta, che si potrebbe chiamare "tautousia", è essenzialmente positiva; essa mi preserva almeno dall'annientamento infinito dell'umiltà: fra il niente di questa umiltà e l'ampollosità della iattanza, essa salvaguarda quel prezioso movimento del cuore che è un piccolo raggio di luce, intimo oblio di sé e apertura infinita all'altro, vasta come il cielo. Ma non per questo è vero che la tua vita valga in ogni caso più della mia: è vero soltanto che farei meglio a non saperlo. Se la morale fosse una semplice speculazione astratta, un'opera di alta fantasia, e se la paradossologia morale mirasse a non saprei quale limite utopico e teorico, si potrebbe a rigore immaginare un puro amore che fosse un essere al grado zero e un amoroso niente. Ma il paradosso morale ha certi rapporti con l'azione, o con una pratica, ed esige in linea di principio di essere vissuto effettivamente: è fatto per questo! Senza questa pienezza positiva sarebbe soltanto una fandonia, voto platonico o semplice figura retorica. L'estremismo morale è dunque una cosa seria? Non è affatto serio, ed è addirittura un po' ciarlatano, se ci promette un'elevazione definitiva di tutto l'essere, una cronicità perfettamente stabile, una promozione e una trasfigurazione permanenti; ma è serio se toglie a questa abnegazione ogni sublimità professionale e se accede istantaneamente alla spontaneità e alla franchezza dell'innocenza. Que-

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sta innocenza sottile e trasparente è come la punta estrema dell'anima. Così sottile, così trasparente! Non , gliene importa niente di non essere più niente! O meglio, non gliene importa quasi niente: ma questo quasi decide tutto. "Vita paradossale" o "paradosso vissuto", il paradosso della morale è senza dubbio una contraddizione, una sfida alle condizioni della vita sociale e anche alle leggi della fisiologia e della biologia - e ancor più una sfida al senso comune e alla ragione; questo è quanto hanno sempre pensato i saggi e i santi, gli stoici e i cinici, Platone e anche Aristotele, nonché, d'altro canto, gli spirituali della Philocalie e l'autore dell' Imitazione. L'acrobazia in una forma spettacolare e pericolosa, il movimento nelle forme più familiari della vita quotidiana, la stessa temporalità, rinnovano ad ogni istante il miracolo di una caduta differita che è anche un continuo riassestamento: la soluzione è data dall'attimo stesso in cui viene lanciata la sfida alle leggi dell'equilibrio e della pesantezza. E l'uomo, nella sua infinita gratitudine, rende grazie ogni mattino al suo avventuroso destino per essere sfuggito una volta di più al pericolo della morte. Il miracolo del movimento di cui ci parla Bergson è a suo modo il perpetuo grazie formulato dall'uomo nel suo cuore per la proroga ulteriore che gli è stata concessa. La vita paradossale è al tempo stesso vivibile e invivibile, possibile e impossibile, ovvero - ma è la stessa cosa - possibile all'infinito per una buona volontà disperata e appassionata capace anch'essa di volere all'infinito. Si dice infatti: volere è potere ... Non che volere sia, letteralmente, potere ciò che si è voluto, in virtù di onnipotenza in atto, come quella delle fate e delle streghe: è piuttosto "possibilizzare" all'infinito un'impossibilità impossibile per sempre. Il volere tende asintoticamente verso un limite che esso non potrà toccare fisicamente, ma può soltanto sfiorare con un'istantanea e imponderabile tangenza. Sconcertante e inconsistente, deludente non meno che evasiva, l'esistenza morale si contraddice da sé all'infinito: non soltanto è paradossale, ma non teme neanche di sembrare a volte "paralogica" .... cioè irrazionale. Per amare bisogna essere. Ma più si è, più si abbonda e si sovrabbonda, grassamente e riccamente, nella densità del proprio essere; più l'amore soffoca; e a fu-

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ria di soffocare, muore. Ma se non si è, dov'è l'amante d1c dovrebb'essere il soggetto del verbo amare? Questo amante non è ancora nato; forse non apparterrà mai al mondo dei vi~ vi ... Ancora una volta, dov'è l'amore? Quando si tratta della vita morale, l'inattingibile, dei suoi valori tanto controversi, delle sue esigenze sovente derise, veniamo prima o poi assaliti dagli stessi interrogativi. Tutto questo forse non sono altro che miti e ubbìe. O non sarà un sogno dal quale non mi sono ancora svegliato? Più di una volta ci domandiamo dove se n'è fuggita, la nostra vita morale, in cosa consiste, e addirittura se consiste in qualche cosa. Ma è precisamente in quei momenti, quando essa è sul punto di scapparsene via e noi disperiamo di acciuffarla, che è più autentica: bisogna allora cogliere a I volo l'occasione nella sua viva flagranza! Posto che la coscienza non sfiguri troppo il suo volto con delle smorfie, e non raffreni troppo il suo slancio. L'impetus morale somiglia alla fata Anima, che cessa di cantare quando Animus la guarda, e che ritrova una voce - l'innocente, la completamente pura - quando Animus smette di fissarla; la vita morale non è più pudica dell'anima, né più evasiva della libertà, né più sconcertante di quanto non sia, secondo la testimonianza di sant' Agostino, la temporalità: se mi si chiede che cos'è il tempo (quid sit), o se tento di spiegare la sua natura, mi confondo e balbetto; ma quando non mi assillo più con delle domande e considero il tempo con semplicità, con animo ingenuo e disteso, l'ambiguità e l'inquietudine cedono il posto all'evidenza. A questo scopo occorreva vedere le cose molto dall'alto e da lontano, non nelle brume del presso-a-poco ma nella sana approssimazione del buonsenso. 1. La vocazione morale dell'uomo è di amore e vivere per gli altri. 2. Ma nell'ordine elementare che noi chiamiamo il minimo ontico, l'amore non può essere interamente, puramente amoroso: esso presuppone un essere amante che è, secondo il punto di vista adottat~, sia il soggetto sostanziale e irrazionale, l'assise impura e la condizione passiva dell'amore, l'eccipiente, in qualche modo, per opposizione al principio attivo, sia, inversamente, il residuo indissolubile, per così dire opaco e massiccio, di

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quel medesimo amore. Residuale o sostanziale, questo elemento irriducibile ci sbarra in ogni caso la strada dell'abnegazione grazie alla quale l'essere compatto potrebbe sublimarsi e convertirsi completamente in amore. Se non ci fossero altre complicazioni, oseremmo chiamare "male" quell'impedimento che è la fatale pesantezza dell'amore, la sua tara congeniale, il suo inevitabile coefficiente di inerzia: l'essere dell'amante, in quanto egli è carne e materia, è la parte non-amante dell'essere amante. La resistenza di questo elemento massiccio, di questo ego cieco, non porta forse la firma della nostra finitezza?· 3. Ma bisogna tener conto di una necessità che fa valere le sue pretese quasi subito; l'elemento massiccio non è piombo, esso si chiama carne: implica esso stesso una complessità che rende l'essere amante due volte complicato; e questa complicazione non è una contraddizione estrinseca, ma una negazione immanente. Se fosse estrinseca, sarebbe guaribile e non indispensabile; in quanto immanente, la negazione è invece un male necessario, ovvero, come si può anche dire, un impossibile-necessario: il contrario egoistico penetra profondamente nell'intima contestura dell'intenzione morale, non soltanto perché la condiziona, ma perché le presta il proprio volto, la imita, per ingannarsi; la carità ipocrita prende in prestito la maschera di quella vera e al limite diventa indiscernibile da essa. Abbiamo parlato di un ibrido chiamato organo-ostacolo. Più organo o più ostacolo? A rigore il senso univoco di questo equivoco, il senso esoterico di questa apparenza - se l'ostacolo fosse sempre impulso, trampolino o molla, macchina ingegnosa che ci permette, grazie allo scatto o al rinculo, di saltare più in alto e con uno slancio più energico - potrebb'essere interpretato dialetticamente. L'intralcio è dovuto all'utensile, nonché alla dispersione dei mezzi, o più semplicemente al tempo perduto; è lo strumento stesso a costituire impedimento. E più generalmente: per potere, occorre essere impediti e limitati; questa alternativa è la tara paradossale della finitezza. Quando la sovrabbondanza e l'enormità ridicola dei mezzi impiegati diventano esse stesse ingombranti o ci minacciano di soffocamento, le si può ridurre al minimo e in tal modo tergiversare con la contraddizione; questo rapporto di un minimo di mezzi con un massimo

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di aspettativa è la mira di una saggia economia. Ma il grovi• glio è a volte inestricabile. Quando l'essere morale non è gii\ ostacolato dal peso e dalle conseguenze delle sue offerte, bcnsl intralciato a priori dall'intima perversione del movimento intenzionale, intaccato nella sua essenza e nella totalità della Stili esistenza, allora non c'è più soluzione e la tragedia risulto doppiata da un'amarissima ironia, giacché allora è l'essere stcs•• so del donatore a smentire il dono amoroso: ciò che per dcfi-• nizione rende possibile il dono disinteressato, ne rende anclw inevitabile la degenerazione egoistica. Né con né senza. Ma questa è la formula disperante dell'insolubile dilemma della situazione senza uscita; tale è la doppia impossibilità che blocca per sempre ogni risposta. L'essere dell'individuo, sia esso fisico o biologico, si situa in rapporto all'amore come i diritti in rapporto al dovere. È possibile considerare i diritti come un affinamento etico dell'essere. I diritti apportano a uno stato di fatto (non è una vera bazza?) la giustificazione normativa e la consacrazione che gli mancava; conferiscono alla naturalità dell'ego una specie di aureola - l'aureola della sublimazione idealizzante, o quanto meno dell'onorabilità; stabilizzata, gelosamente rivendicata, a volte anche calcolata, ridotta spesso allo stato di sedimento virtuale, il minimo etico si apparenta molto più all'avere che all'essere: diventa così qualcosa come il viatico morale che ci accompagna e protegge nelle prove dell'esistenza. Lo abbiamo già mostrato: nei rapporti fra l'essere e l'amore c'è una maliziosa derisione che deriva dalla costituzionale finitezza dell'uomo, o più esattamente dai rapporti ambivalenti e contraddittori fra l'essere e l'amore: è l'essere dell'amante a rendere possibile l'amore, ma un amante troppo felice, in troppa buona salute e troppo ben nutrito, è la negazione dell'amore; e inversamente, se per veicolo ha soltanto un essere rarefatto, l'amore si volatilizza nel vuoto. L'espansione vitale lo favorisce fino al momento in cui la sazietà soffoca in lui quella sacra insoddisfazione, quel bisogno di essere un'altra cosa, infine quell'inquietudine che costituivano l'aspetto aereo della sua natura: appesantito da un essere ridicolmente pletorico, l'amore imborghesito perde le sue ali e si abbatte al suolo. Così l'amore va e

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viene fra il troppo e il troppo poco; riprende necessariamente le forze tutte le volte che si ritempra alle sorgenti della vita, ritrova periodicamente una nuova giovinezza e un sangue nuovo, e valga quel che valga, bene o male, così o colì, riesce a sopravvivere. Ma per quel che riguarda il dibattito sui diritti e i doveri, la trappola, pur essendo meno sanguinosa, è però più sottile, la malizia più insidiosa, l'alternativa più ambigua: giacché è proprio l'uomo morale a scoprire la verità normativa dei diritti dei miei diritti e di quelli altrui - a sacralizzare questi diritti e farli valere. La pardossologia morale mi costringe a confessare - contro ogni evidenza e contro la mia stessa convinzione - che io non ho diritti e che tutti ne hanno eccetto me. Questa contraddizione a mie spese non è certo un sacrificio cruento come al limite lo è l'incompossibilità dell'amore e dell'essere, come al limite lo è l'impossibile necessità di annichilirsi per amare di amore puro; nondimeno essa è, a modo suo, una rinuncia straziante ... e tanto più straziante in quanto questa smentita in adjecto ha come posta dei valori normativi, e può sembrare un cinico attentato contro la verità e il principio di identità; qui il sacrificio - è proprio il caso di dirlo - è letteralmente sacrilego! Può forse il pessimismo morale scindere in qualche misura plausibile questa scandalosa disuguaglianza, questa disgustosa ingiustizia che la ragione si rifiuta di ammettere? Si è tentati di considerare questo scandalo alla stregua di un'apparenza che potrebbe dissimulare non si sa quale sconcertante finalità, e forse addirittura una tacita promessa. Sopporteremo dunque il diniego della giustizia in nome della promessa? È questo il modo in cui la ricerca razionalista, sempre saggia e preveggente, cerca di rassicurarci: aspettando non perdete niente - essa ci dice - riderà bene chi riderà per ultimo! La speranza in un avvenire migliore potrebbe aiutarci a sopportare meglio la frustrazione presente. Niente di più saggio e ragionevole. Ma allora che differenza c'è fra la mercenarietà manifesta, ancorché a breve scadenza, e la sordidezza di questo calcolo fin troppo facile? Se la rinuncia al mio diritto è una speculazione a lungo termine e a scadenza remota, essa non è meno utilitaristica o interessata. Questo calcolo tortuoso è un'ipocrisia e niente altro. In li-

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nea di principio, io devo sopportare l'insopportabile iniq11i1i\ di cui sono vittima senza pretendere alcuna ricompensa, scnzn d vendicare il più piccolo risarcimento, senza neanche 11w1T Il diritto di lamentarmi. Il mio prossimo non ha forse sopn1 di me tutti i diritti? Ogni essere morale dovrebbe affrontare davanti a se stesso 111 doppia prova alla quale la disparità dei doveri e dei diritti sot • topone il suo egoismo. Innanzitutto, tutti hanno dei doveri, soprattutto compreso me, poiché il dovere, esprimendo l'i11fi11i•• ta incompiutezza dell'essere morale, precede ogni appello o vo,, cazione. Ma io non devo vigilare sui doveri degli altri: i miei doveri includono tutti i doveri e sono responsabile di essi. D'altra parte, come abbiamo già detto, tutti hanno dei diri1ti tranne me, che incomprensibilmente e inesplicabilmente non ne ho; io sono dunque, in linea di principio, sprovvisto di tutto, l' non posso contare su niente, salvo che sulle libertà e i poteri che i doveri altrui, fortuitamente ma fatalmente (entrambe k cose insieme), mi lasceranno; in ciò risiede, in qualche modo, in questa ingiusta miseria, la mia opportunità. Sono condannato a vivere di mendicità? Ebbene, così riceverò, se non quanto mi è dovuto - giacché non mi è dovuto niente - almeno le briciole del festino e la merce respinta, ossia le eccedenze che mi ritornano, un po' di contrabbando, a partire dai meriti altrui. Ma queste briciole non sono affatto niente, giacché mi permettono di sopravvivere nella spossante e amarissima lotta a cui sono condannato. Esse sono il nutrimento aleatorio che una mano compassionevole getta agli uccelli del cielo e che, misteriosamente, non è quasi mai priva di spensieratezza. Ma il mucchio di paradossi che la filosofia morale ci getta in pasto non è sempre un sistema di verità. Qui noi tocchiamo l'ultima ambiguità, quella radicata nel più impenetrabile dei misteri. lo non ho diritto a niente, ma nonostante ciò riceverò in definitiva ciò che mi spetta - ciò che mi spetta senza essermi dovuto. Lo riceverò a patto di non reclamare, di non averci neanche pensato; lo riceverò in tutta umiltà e innocenza. Lo riceverò ... Ma zitto! non vi ripetete... Che nessuno ne sappia niente. Ahimé! lo abbiamo detto! Abbiamo già divulgato il segreto, e non poteva andare diversamente. Com'è possibile custodire un

segreto divulgandolo? divulgarlo conservandolo? Ebbene, è possibile, se è vero che l'alternativa dei contrari reciprocamente impermeabili viene a tratti oltrepassata. L'oracolo di Delfi, secondo Eraclito, non dice né nasconde, ma suggerisce mediante segni, con mezze parole o con parole coperte. O più semplicemente, non parla affatto, ma dà ad intendere, e sussurra all'orecchio della nostra anima le verità segrete.

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Finito di stampare nel Gennaio Ì987 da: Arti Grafiche "C. MORI" - Firenze