Ombre d'Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia
 9788855224086

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Guido Crainz

OMBRE D’EUROPA Nazionalismi, memorie, usi politici della storia

DONZELLI EDITORE

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© 2022 Donzelli editore Roma, via Mentana 2b www.donzelli.it ISBN 978-88-5522-408-6

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OMBRE D’EUROPA

Indice

p.

VII

Introduzione

Parte prima Le difficoltà di un progetto 5

I.

La magnifica illusione

13

II.

21

III.

Alle origini di un disincanto

39

IV.

Da Maastricht a Mariupol’

Intuizioni precoci e inascoltate

Parte seconda Dialoghi difficili, nazionalismi e usi pubblici della storia 61

I.

81

II.

La controversa Europa delle memorie Deformazioni storiche e (ri)costruzione di un impero: la Russia di Putin V

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Crainz, Ombre d’Europa 95

III.

La dissoluzione della Jugoslavia: la storia come arma da guerra

115

IV.

Shoah e Gulag: differenti Novecento?

125

V.

135

VI.

155

VII.

165

VIII.

171

IX.

179

I paesi baltici e i «due genocidi» Polonia: sovranismi e «politiche della storia» L’Ungheria di Viktor Orbán Slovacchia, Romania, Macedonia (del Nord)… Insegnare in Europa

Indice dei nomi

VI

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OMBRE D’EUROPA

Introduzione

Come immaginare il futuro di un’Europa che è stata investita da una terribile pandemia e che l’invasione dell’Ucraina ha costretto a interrogarsi ancora sulla propria ragion d’essere e sul proprio ruolo? Come siamo giunti a questa duplice prova? Con quali contraddizioni, con quali elementi di crisi? E quale può essere l’impegno della cultura nel misurarsi con essa, nel costruire percorsi per superarla o perlomeno per stimolare confronti reali sui suoi nodi di fondo? Gli ultimissimi stravolgimenti sembrano aver reso quasi superfluo il riflettere a fondo sul percorso precedente ma non è così. È diventato ancor più necessario invece l’interrogarsi su di esso: sulle sotterranee tensioni e incrinature che avevano preso corpo già prima del 1989 e sui nodi che erano affiorati all’indomani di esso, nella difficile transizione dei paesi ex comunisti. Sino alle questioni poste dal «grande allargamento» del 2004, talora eluse. È necessario interrogarsi, anche, sulle ragioni di lungo periodo e sui tratti specifici dei «sovranismi» illiberali e antieuropei che si sono affermati soprattutto (ma non solo) nell’Europa centro-orientale: considerandoli nella loro specificità e inserendoli al tempo stesso nel più ampio irrompere di nazionalismi e populismi. VII

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Crainz, Ombre d’Europa

Vi è inoltre un aspetto che colpisce in modo particolare, ove si pensi al ruolo tradizionalmente svolto dalla cultura nell’alimentare, se non nel proporre, il sogno europeo. Quell’impegno è apparso fortemente appannato e indebolito proprio nel momento in cui ve ne sarebbe stato maggior bisogno: una «rivelazione» dolorosa ma non inaspettata. Nello scorrere del tempo infatti erano apparse sempre più isolate le voci di chi, come Jürgen Habermas, insisteva con forza sulla necessità di costruire una «opinione pubblica europea», una rete di relazioni intellettuali e civili capaci di porre freni alle derive e di accelerare i processi positivi, i momenti di confronto e di dialogo. Non c’è troppo da stupirsi, dunque, se il maturare e poi l’infuriare delle crisi recenti non ha avuto, su questo versante, risposte realmente adeguate. Così come non ha avuto risposte adeguate il crescere di una sfida antieuropea che i governi sovranisti e illiberali hanno lanciato da tempo sul terreno stesso della cultura. Una sfida basata su un massiccio e deformato «uso politico» della storia volto ad accrescere le distanze fra gli stessi paesi europei, volto a «costruire disunione»: e ad esso concorrono le più differenti narrazioni e celebrazioni pubbliche (e sin dai banchi di scuola). Con l’invasione dell’Ucraina larga parte dell’Europa sembra quasi aver «scoperto» l’«uso» della storia da parte di Vladimir Putin: l’uso cioè di una narrazione del tutto infondata ma capace di legittimare politiche imperiali aggressive. E di far leva al tempo stesso su pulsioni e umori reali del paese: in questo caso su nostalgie di un «grande passato» acuite dalle delusioni e dalle amarezze del presente, o del passato più prossimo. Quasi una rivelazione inaspettata, per molti, eppure la narrazione di Putin è stata VIII

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Introduzione

costruita e si è imposta in Russia nel corso di due decenni, con continue e crescenti iniziative su tutti i terreni. Ancor prima, va aggiunto, quello stesso uso della storia come arma da guerra era stato centrale nei conflitti che avevano lacerato e dissolto la ex Jugoslavia (e da allora quei veleni, quei fumi tossici si sono attenuati solo in parte). Anche qui casi estremi, certo, ma analoga disattenzione ha riguardato al tempo stesso altri processi. Ha riguardato ad esempio le «politiche della storia» apertamente rivendicate da Diritto e Giustizia in Polonia e da Viktor Orbán in Ungheria: rivendicate e praticate dai loro governi nella dichiarata convinzione che sia compito della politica dettare e imporre la propria lettura del passato. E che spetti ancora alla politica isolare e mettere a tacere le voci che si oppongono a queste derive. Anche in questo caso le narrazioni nazionalistiche non sono prive di consonanze con umori e «memorie» diffuse che le «verità di Stato» dei regimi comunisti avevano potuto solo proibire, non cancellare (e che dalla proibizione stessa avevano ricevuto semmai una indebita nobiltà). Per altri versi, infine, si ha talora l’impressione che pesi ancora «l’ombra del Muro». Che sia ancora in piedi una sorta di Cortina di ferro senza il comunismo. Che i differenti vissuti alimentino talora «memorie incompatibili», o comunque aree di reciproca estraneità e insensibilità. Eppure non si costruisce Europa se non cresce la capacità di «ricordare con l’aiuto delle memorie altrui», per dirla con Paul Ricœur. Se questa capacità non è alimentata dal continuo rafforzarsi di relazioni e interazioni intellettuali, di confronti e di progetti comuni. E se questo impegno culturale e civile non ha il suo primo banco di prova, la sua prima e decisiva ricaduta nell’insegnamento, nella formaIX

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zione e nell’educazione dei cittadini. Più in generale, andrebbero conosciute molto meglio e messe continuamente a confronto le differenti visioni del passato che caratterizzano oggi il «continente Europa». Inutile negarlo: se si esplorano le narrazioni pubbliche che segnano i differenti paesi, come qui si è cercato di fare, è forte l’impressione che le dissonanze e le divaricazioni siano cresciute talora più delle sintonie. E che sia urgente invertire la tendenza. Che anche da questo dipenda il futuro dell’Europa. Questo piccolo libro vuol essere solo un sommesso grido di allarme e un richiamo a un impegno talora disertato.

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Ombre d’Europa

a Carmine e Bianca

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Parte prima Le difficoltà di un progetto

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OMBRE D’EUROPA

I.

La magnifica illusione

Sembrò davvero «il trionfo dell’Occidente», quel 1989, ma già vent’anni dopo nell’Europa post-comunista Bernardo Valli avvertiva delusioni, se non angosce: «le fiammate di populismo che sollecitano gli egoismi nazionalisti e xenofobi, la paura di non avere un lavoro stabile, garantito prima del 1989, sia pure mediocremente, la diffidenza verso un’Unione europea che non si è rivelata una terra promessa»1. In quello stesso giorno considerazioni convergenti venivano da André Glucksmann: «l’imprevisto 9 novembre berlinese – annotava – fu trasformato in destino ineluttabile. La Provvidenza aveva finalmente parlato […], la parentesi del terribile XX secolo si chiudeva. Dimenticati, cancellati, superati i 75 anni (1914-1989) più sanguinosi e crudeli dell’avventura umana». Purtroppo, continuava, «il qui pro quo fu radicale. La fine della guerra fredda immerse l’ex “mondo libero” in un’euforia sconfinata», ma «popoli che a fatica si tirano fuori dal dispotismo totalitario ritornano nella Storia liberi di scegliere»2: e 1 B. Valli, 1989. L’anno che cambiò il mondo, in «la Repubblica», 13 settembre 2009. 2 A. Glucksmann, Dopo il Muro la battaglia continua. A Tbilisi, Kiev e Teheran, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2009.

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Crainz, Ombre d’Europa

le strade che si aprono sono molte, in divergenti direzioni. Condizionate anche dalla storia precedente, da ipoteche già presenti. Era ormai alle spalle la grande fase espansiva del secondo dopoguerra – i «trenta anni gloriosi» dell’Occidente –, cui aveva posto fine la crisi petrolifera del 1973: per una intera generazione, osservava Tony Judt, «l’Europa occidentale aveva beneficiato di una inedita combinazione di crescita elevata e di quasi piena occupazione», e ora il contraccolpo è duro. I processi di deindustrializzazione e di trasformazione produttiva incidono profondamente su classi sociali e ceti, impoveriscono territori e periferie, alimentano nuove insicurezze economiche e sociali mentre l’invecchiamento della popolazione inizia a far vacillare il sistema di welfare3. E ha effetti traumatici l’ondata neoliberista degli anni ottanta, trainata dal thatcheriano «non vi sono alternative»: la «globalizzazione felice» dell’età dell’oro sembra lasciare il posto a una «globalizzazione dolorosa»4. Inizia allora un processo in cui l’umanità nel suo insieme diventa meno povera ma una parte non marginale dell’Occidente vede crescere difficoltà e incertezze di futuro: e poco importa se l’amarezza che inizia a diffondersi rinvia ad aspettative deluse più che al declino del benessere materiale5. Processi solo avviati e quasi inavvertiti nell’euforia dei «magici anni ottanta» (euforia che una improvvi3 T. Judt, Quando i fatti (ci) cambiano. Saggi 1995-2010, Laterza, RomaBari 2016, pp. 24-5. Il saggio da cui traggo la citazione è del 1996, e Judt affermava fin dall’inizio: «le probabilità che l’Unione europea riesca a mantenere le sue promesse di un’Europa sempre più stretta pur restando aperta a nuovi paesi alle stesse condizioni sono davvero esili» (p. 22). 4 N. Gnesotto, L’Europe indispensable, Crns Editions, Paris 2019, p. 9. 5 E. Luce, Il tramonto del liberalismo occidentale, Introduzione di G. Riotta, Einaudi, Torino 2017, p. 35.

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La magnifica illusione

sa crisi di Wall Street sembra raffreddare già verso la fine di quel decennio)6. Si delinea nello stesso torno di tempo il declino dei partiti di massa del Novecento e mutano radicalmente le modalità stesse della comunicazione politica, con il progressivo affermarsi della «democrazia del pubblico», per dirla con Bernard Manin: con un rapporto sempre più diretto cioè fra leader e opinione pubblica, e con la tendenziale trasformazione della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori7. Si delineano per questa via «leader senza partiti» e «partiti senza società», nell’affermarsi di «partiti personali» e nel deperire della partecipazione democratica, nelle forme che avevamo conosciuto sin lì8. Inizia allora, negli anni ottanta dell’Occidente europeo, un primo diffondersi dei populismi che avrà poi i suoi simboli nelle affermazioni di Jean-Marie Le Pen in Francia9 e di Jörg Haider in Austria10. E che è particolarmente visibile e aggressivo nelle periferie e nelle aree ex industriali che erano state roccaforti della sinistra11. Altri due elementi precedono il 1989. Nel 1973 vi era stato l’ingresso tardivo, e «con riserva», nella Comunità economica europea dell’Inghilterra: non disponibile poi 6 Debbo rimandare al mio Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012, pp. 185-6. 7 B. Manin, Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 1995. 8 I. Diamanti, Democrazia ibrida, Laterza, Roma-Bari 2014; cfr. inoltre C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza Roma-Bari 2003; M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino 2013, e Id., Populismo 2.0, Einaudi, Torino 2017. 9 Jean-Marie Le Pen giunge al ballottaggio nelle presidenziali del 2002 con il 16% dei voti (fermandosi poi al 18% al secondo turno). 10 Per un utile sguardo di insieme cfr. L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano 2017. 11 Per una amara narrazione-testimonianza cfr. D. Eribon, Ritorno a Reims, Bompiani, Milano 2017.

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Crainz, Ombre d’Europa

all’adozione dell’euro e altrettanto estranea all’area di Schengen (e a qualunque progetto implicasse ulteriori cessioni di sovranità)12. Vi è poi nel 1981 un ingresso della Grecia semmai troppo precoce e destinato ad alimentare nel paese false illusioni. Certamente privo di controlli reali, e i crediti comunitari furono usati per scopi molto diversi da quelli cui erano destinati, con il rigonfiamento dell’impiego pubblico per conquistare clientele e la creazione di «ricchezza artificiale» (senza dimenticare lo sperpero per le Olimpiadi del 2004). Le false illusioni si erano diffuse ulteriormente nel 2001 per un ingresso altrettanto prematuro nell’Eurozona: dal canto loro i vertici dell’Unione europea – ha osservato Lucio Caracciolo – si illusero sulla «pedagogia dell’euro. La nuova moneta avrebbe trasformato lo spirito di un popolo, le cicale sarebbero diventate formiche. Non è accaduto»13. E lo scrittore greco Petros Markarīs annotava: «abbiamo vissuto a credito e per questo stiamo andando in rovina»14. Sotto traccia non mancavano dunque nodi irrisolti, tensioni e contraddizioni destinate a crescere sino all’implosione ma era difficile porvi mente dopo la straordinaria esplosione del 1989 e l’euforia che si diffuse allora. «La fine 12 Da questo punto di vista ha qualche ragione Brendan Simms nel sostenere una sostanziale coerenza nelle scelte inglesi. E nel vedere quindi nella Brexit la difesa dell’«eccezionalismo» del Regno Unito, messo in discussione – in questa lettura – dalle «forzature» perseguite dall’Unione europea: B. Simms, Il Regno (non) unito in un’Europa divisa, in A. Bolaffi - G. Crainz (a cura di), Calendario civile europeo. I nodi storici di una costruzione difficile, Donzelli, Roma 2019, pp. 433-41. 13 L. Caracciolo, Il protettorato in maschera, in «la Repubblica», 14 luglio 2015. 14 P. Markarīs, Tempi bui, Bompiani, Milano 2012, p. 59. Sono qui raccolti gli articoli scritti da Markarīs dal 2009 al 2012 per «raccontare» ai lettori tedeschi le radici di una crisi (crisi «raccontata» anche dai suoi romanzi di quegli anni).

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La magnifica illusione

della storia», per dirla con un incauto commentatore15, con il trionfo definitivo della democrazia occidentale. Ove si ricordino le illusioni di quel tempo si coglierà immediatamente una questione rilevante, talora rimossa. Per molti versi infatti la fase di maggior trionfo del «sogno europeo» sembra coincidere con il sotterraneo inizio di una crisi: prima ancora dei grandi spartiacque costituiti dall’11 settembre del 2001, dalla crisi finanziaria internazionale del 2008 e dall’ingigantirsi dei flussi di popolazioni da altri continenti. Ben prima cioè dello scenario segnato nel 2015 dal tracollo della Grecia, dall’emergenza immigrazione16 e dall’esplodere del terrorismo islamico17. Non si trascuri dunque l’irrompere di un mondo globale talora devastante ma non si dimentichi neppure che i sintomi della crisi iniziano a manifestarsi già all’interno della «fase dell’ottimismo» seguita al 1989 e scandita da tappe di rilievo: il 1992, con il Trattato di Maastricht che fissa i parametri per l’ingresso nell’Unione europea; il 1998, con la definizione dell’area dell’euro; il 2004, con l’allargamento dell’Unione a dieci nuovi paesi, in larga parte ex-comunisti, mentre si avviavano i negoziati per l’adesione di Croazia e Turchia. La stagione dell’ottimismo, appunto, coronata nel 2007, all’insegna di Schengen, dalla caduta di confini spesso insanguinati dalla storia. È pubblicato nel 2004 un libro di Jeremy Rifkin che ha come titolo Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato 15

F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano

1992. 16 Cfr. almeno A. Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2015, e il fascicolo di «limes» del giugno 2015, Chi bussa alla nostra porta. 17 L’anno, iniziato a gennaio con l’attentato al settimanale satirico «Charlie Hebdo», prosegue a marzo con quello al Museo del Bardo a Tunisi, e prosegue a giugno con nuovi attentati in Tunisia, in Kuwait e in Somalia. per concludersi a novembre ancora a Parigi con l’attentato allo stadio ove si gioca Francia-Germania, alla sala concerti Bataclan e in altri luoghi ancora.

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Crainz, Ombre d’Europa

una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, e l’anno successivo esce a Londra quello di Mark Leonard, Why Europe Will Run the 21st Century. Oggi sembrano scritti in un altro mondo18, ma già nel 2005 i referendum di Francia e Olanda affossavano il progetto di Costituzione europea segnalando inquietanti scricchiolii19. Si aggiungano i timori provocati dagli stessi allargamenti dell’Unione: in quei referendum furono evocate invasioni di idraulici polacchi in Francia e di raccoglitori di tulipani in Olanda, e non mancò neppure lo spettro di future irruzioni islamiche dalla Turchia20. Nello stesso torno di tempo gravi processi involutivi stavano attraversando i paesi ex comunisti, ove il «gruppo di Visegrád» stava diventando simbolo e cuore propulsivo delle derive sovraniste e illiberali. Eppure era nato nel 1991 non «contro l’Europa» ma per favorire l’ingresso coordinato in essa della Cecoslovacchia, allora unita, della Polonia e dell’Ungheria, ed era stato promosso da figure come Václav Havel e Lech Wałęsa sulla base di un eccel18 «Il nuovo Sogno europeo è potente – scriveva Rifkin nell’Introduzione al libro – perché osa suggerire una nuova storia, che riserva attenzione ad aspetti come la qualità della vita, la sostenibilità, la pace e l’armonia»: J. Rifkin, Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Mondadori, Milano 2004, p. 5. Cfr. anche J. Zielonka, Contro-rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 65 sgg. e 119 sgg. 19 Scricchiolii già annunciati nel 2000 e nel 2003 dai pronunciamenti referendari della Danimarca e della Svezia contro l’euro. 20 Si aggiunga che nella campagna per la Brexit saranno alimentate paure di invasioni romene, dopo che nel 2014 erano state abolite le misure restrittive nei confronti di romeni e bulgari: D. Georgescu, «The Romanians Are Coming». Emerging Divisions and Enduring Misperception in Contemporary Europe, in F. Laczó - L. Lisjak Gabrijelčič (a cura di), The Legacy of Division. East and West after 1989, Ceupress, Budapest-New York 2020, pp. 241-53.

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La magnifica illusione

lente programma europeista di democrazia liberale21. Non si dimentichino, infine, le divaricazioni innescate nel 2003 dalla guerra all’Iraq: con il premier inglese Tony Blair decisamente al fianco di Bush, seguito da altri paesi europei, e con l’opposizione della Francia e del governo rosso-verde tedesco. Con l’Europa divisa, appunto. Non era una frattura di poco conto: la guerra «preventiva» dichiarata da Bush all’Iraq – e minacciata nei confronti di altri «Stati canaglia» – rovesciava pericolosamente la logica che aveva prevalso negli anni della guerra fredda, basata su «contenimento» e «deterrenza» (e proprio dall’Iraq dilaniato del dopo Saddam inizia il devastante e feroce percorso dell’Isis e del nuovo terrorismo islamico).

21 La Dichiarazione fondativa del «gruppo di Visegrád» poneva come obiettivo la «piena restaurazione dell’indipendenza dello Stato, della democrazia e della libertà; l’eliminazione di tutte le manifestazioni del sistema totalitario – sociali, economiche e spirituali –; l’instaurazione della democrazia parlamentare, l’affermazione dello Stato di diritto, il rispetto dei diritti dell’uomo e delle sue libertà fondamentali; la creazione di un sistema di mercato moderno; la piena partecipazione al sistema politico ed economico europeo e alla sua legislazione». Puntuali osservazioni sono in J. Misiuna - M. Pachocka, La Pologne en Europe au début du XXIe siècle: à la croisée des chemins?, in «Hérodote», 1° trimestre 2017, 164, Ménaces sur l’Europe, pp. 146-51.

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OMBRE D’EUROPA

II.

Intuizioni precoci e inascoltate

Molti e differenti fattori hanno contribuito a un differenziato emergere di pulsioni nazionalistiche e illiberali, ma già all’indomani del 1989 gli stessi promotori del «ritorno in Europa», per usare l’espressione di Václav Havel, ci segnalavano i problemi aperti e le molte difficoltà con cui misurarsi. È straordinariamente profetico il discorso tenuto nel 1990 al Senato polacco da Bronisław Geremek, leader autorevole di Solidarność e storico di qualità1. Oggi, annotava, nelle nostre società postcomuniste «possiamo scorgere sia un’atmosfera di libertà riconquistata» sia «un radicamento troppo debole delle istituzioni democratiche», non solide neppure prima dei regimi comunisti (con l’eccezione della Cecoslovacchia fra le due guerre). È mancata qui, osserverà trent’anni dopo Sławomir Sierakowski, «quella tradizione di meccanismi di controllo e garanzie costituzionali che da tempo salvaguarda le democrazie occidentali»2. Tre pericoli segnano dunque questa fase di 1 Fra i suoi libri cfr. almeno La stirpe di Caino. L’immagine dei vagabondi e dei poveri nelle letterature europee dal XV al XVII secolo, a cura di F. Cataluccio, Il Saggiatore, Milano 1980; La pietà e la forza. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma-Bari 1986. 2 S. Sierakowski, Orbán e Kaczyński. Populismi a confronto, in «MicroMega», 2019, 2, Un’altra Europa è necessaria, p. 261.

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transizione, continuava Geremek: «il primo è il populismo, che trova un naturale terreno di coltura nelle esperienze finora vissute da tali società e si fonda sulle illusioni egualitarie. Può diventare un’arma pericolosa nelle mani dei demagoghi politici. Può rovesciare un ordinamento democratico ancora fragile». Il secondo pericolo, aggiungeva, «è la tentazione di instaurare governi dalla mano forte […]: particolarmente presente nelle società post-comuniste proprio perché sono deboli invece le istituzioni democratiche e lo stile democratico di pensiero». Il terzo pericolo, infine, è il nazionalismo: nei regimi comunisti sottomessi all’Unione Sovietica la forma più naturale di opposizione «era il richiamo al sentimento nazionale […]. Ma a volte, in situazioni di grande trasformazione e di instabilità sociale, tale sentimento subisce delle deformazioni e diventa nazionalismo e sciovinismo»3. Vi è qui un nodo centrale: al dissolversi della Cortina di ferro le due parti dell’Europa ci appaiono quasi «eredi di due diversi Novecento»4. Nell’esperienza dei padri fondatori infatti la costruzione europea era stata la via per superare le tragedie dei nazionalismi mentre i paesi postcomunisti uscivano da quarant’anni di dominazione sovietica ammantata di internazionalismo5. Da questo pun3 B. Geremek, Le speranze polacche, in «L’Europa ritrovata», settembre-ottobre 1990, 3, pp. 17-20. È il testo della conferenza The Transition to Democracy in Contemporary Europe, organizzata nel giugno del 1990 dal Senato della Repubblica polacca. 4 Cfr. M.-E. Gastineau, Le nouveau procès de l’Est, Les Éditions du Cerf, Paris 2019, p. 15. 5 G. Amato - N. Verola, Libertà, democrazia, stato di diritto, in G. Amato, E. Moavero Milanesi, G. Pasquino, L. Reichlin (sotto la direzione di), Europa. Un’utopia in costruzione, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2018; cfr. inoltre «L’Europa non è più in Occidente», conversazione con Herfried Münkler di Fernando D’Aniello in «limes», 2020, 9, Occidenti contro.

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Intuizioni precoci e inascoltate

to di vista, insomma, «europei dell’Est e dell’Ovest abitano tempi, non solo spazi, intimamente diversi»: dalla Polonia all’Ungheria o ai paesi baltici, chi ha riconquistato di recente la propria indipendenza non «aderisce di cuore alle parziali cessioni di sovranità che noi eurooccidentali concordammo […] dopo la sconfitta collettiva nella IIa guerra mondiale»6. Su questo differente vissuto mira a far presa una propaganda sovranista che giunge a mettere sullo stesso piano la difesa europea dello Stato di diritto e i diktat sovietici, Bruxelles e Mosca. «Dopo 30 anni dalla caduta del Muro – dice Viktor Orbán nel 2017 – c’è di nuovo una forza mondiale che vuole plasmare le nazioni europee in modo che diventino dello stesso colore e della stessa sostanza […]. C’è di nuovo un pericolo che minaccia tutto quello che abbiamo pensato dell’Ungheria e del modo di vivere ungherese […]. Siamo arrivati di nuovo a un momento cruciale della nostra storia. Volevamo credere che l’ossessivo sogno comunista di creare l’homo sovieticus al posto degli ungheresi fosse sconfitto per sempre. E ora […] vediamo che le forze della globalizzazione lavorano affinché al posto degli ungheresi venga creato un homo bruxellicus»7. Si consideri poi un altro aspetto, evocato in quello stesso 1990 da Václav Havel: noi, paesi ex-comunisti, affermava, «dovremmo integrarci in Europa in modo coordinato» e dal canto suo «l’Europa dovrebbe prestare attenzione alla nuova situazione. Le strutture europee oggi esistenti sono state teoricamente create per l’intero conti6 L. Caracciolo, Se il sovranismo torna a covare nell’est Europa, in «La Stampa», 12 ottobre 2021. 7 Cit. in A. Poinssot, Dans la tête de Viktor Orbán, Solin-Actes Sud, ParisArles 2019, pp. 146-7.

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nente ma in realtà costituiscono una sopravvivenza della divisione dell’Europa e sono strutture sostanzialmente europeo-occidentali. È necessario quindi uno sforzo di entrambe le parti perché solo un’iniziativa del genere può portare all’integrazione»8. Così non avvenne, con ricadute sottovalutate, allora: le migliaia di pagine «da incorporare nella legislazione dei nuovi membri durante la fase di pre-adesione trasformavano i parlamenti dei paesi coinvolti in meccanismi per la fotocopiatura della legislazione europea»9. Non è osservazione isolata: a condizioni di ingresso più rigide che in passato si fa riferimento spesso in una ricca riflessione a più voci svolta nel trentesimo anniversario del 1989. Anche a non volervi vedere l’imposizione cosciente di un unico parametro, si osserva, vi era comunque una sottovalutazione delle differenze. E si tendeva a ignorare che i progetti di unificazione europea dal 1950 in poi consideravano l’Europa occidentale come l’intera Europa10. Ritorniamo però al 1990: sono ancora di quell’anno alcune riflessioni di Adam Michnik che allora parvero forse «estreme». Nell’Europa centrale, osservava, ai regimi co8 Cfr. Una Cecoslovacchia «antipolitica», intervista con Václav Havel a cura di Andrzej Jagodziński, in «L’Europa ritrovata», maggio-giugno 1990, 1, pp. 23-5. 9 Lo ha annotato Jacques Rupnik, già consigliere di Havel: J. Rupnik, Senza il Muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Donzelli, Roma 2019, p. 25. In modo ancor più crudo Jan Zielonka ha osservato: «l’allargamento dell’Unione europea ha significato formalmente l’adozione di circa 20.000 leggi dell’Unione da parte degli Stati candidati» e nella sua essenza «fu un’affermazione del controllo politico ed economico dell’Unione sull’instabile e impoverita parte orientale del continente» (Contro-rivoluzione cit., p. 89). 10 Cfr. Laczó - Lisjak Gabrijelčič (a cura di), The Legacy of Division cit.; in particolare, oltre all’Introduzione dei curatori, D. Bohle - B. Greskovits, Staring through the Mocking Glass, e F. Bieber, Anxious Europe.

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munisti non si opponevano solo i progetti democratici fondati sulla società civile ma anche le componenti nazionalistiche e conservatrici: «il totalitarismo agonizzante lascia così in eredità un nazionalismo aggressivo e l’odio tribale. L’eventuale vittoria di queste tendenze trasformerebbe l’Europa centrale e orientale in un inferno di conflitti nazionali e di scontri sanguinosi»11. Di lì a poco si sarebbe trasformato in un inferno proprio il paese che era parso più vicino all’Occidente, con una «esplosione delle nazioni» che lacera e dissolve la Jugoslavia e con un ritorno della guerra in Europa che ha contorni drammatici e feroci12. E che ha un primo impulso proprio nel 1989, a giugno, a poche ore di distanza da un altro e opposto evento-simbolo. Il 27 giugno a Sopron, infatti, fra Austria e Ungheria, i ministri degli Esteri dei due paesi tagliavano insieme il filo spinato del confine e iniziava così il percorso che porta al crollo del Muro. Il giorno dopo invece nella Piana dei Merli in Kosovo, di fronte a una enorme folla di serbi giunta da ogni parte, la celebrazione di una battaglia di seicento anni prima è l’occasione scelta da Slobodan Milošević per annunciare un’escalation aggressiva. È la commemorazione di una sconfitta subita per «mancanza di unità e tradimento»: l’estremo tentativo di resistere all’avanzata ottomana guidato dal principe Lazar di Serbia, che vi lasciò la vita. Martirio ed eroismo13. E ri11 A. Michnik, Contro il nazionalismo, in «L’Europa ritrovata», maggiogiugno 1990, 1, pp. 22-3. 12 Cfr. N. Janigro, L’esplosione delle nazioni. Il caso jugoslavo, Feltrinelli, Milano 1993; P. Rumiz, Maschere per un massacro, Introduzione di C. Magris, Editori Riuniti, Roma 1996. 13 Cfr. A. Arru, Un caso di uso politico della storia. La battaglia della Piana dei Merli (1389), in «Acta historica et archeologica medievalia», 20092010, 30.

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scatto, annunciato da Milošević con riferimenti espliciti alle battaglie future e senza escludere, in prospettiva, scontri armati14: evocando il mito della «sconfitta vittoriosa» e indicando la strada della «riscossa nazionale». Una «orazione funebre per la Jugoslavia», con la proclamazione definitiva di un progetto politico che nella «invenzione della storia» cercava la propria legittimazione. Nei due anni precedenti la salma del principe Lazar era stata riesumata per una nuova sepoltura e portata di monastero in monastero, secondo il rito ortodosso, in tutti i luoghi ove vi fosse una presenza serba (quasi prefigurando idealmente i confini di una «grande Serbia»)15. Si legga contemporaneamente il Preambolo della Costituzione della Repubblica croata di poco successivo, vi campeggia la rivendicazione di una «millenaria indipendenza statuale» della Croazia che sarebbe riconoscibile già dal Seicento dopo Cristo16: anche questa sconfessione definitiva dell’esperienza jugoslava ha bisogno di fondarsi su un mito. Si annuncia sin dall’inizio dunque il nesso strettissimo fra nazionalismi e usi politici della storia e della memoria. «Guerre del ricordo» apparvero allora ad Ágnes Heller i 14 Contemporaneamente, ha ricordato Aleš Debeljak, agli albanesi del Kosovo era vietato «perfino metter fuori la punta del naso nelle strade dei loro villaggi e città»: Il crepuscolo degli dei, in F. Modrzejewski - M. Sznajderman (a cura di), Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 237. 15 K. Verdery, The Political Lives of Dead Bodies. Reburial and Postsocialist Change, Columbia University Press, New York 1999, pp. 17-8 e 98; C. Pistan, Il ruolo dei miti e dei simboli nei processi di nation building e l’etnicizzazione della memoria nei Balcani occidentali, in L. Montanari (a cura di), L’allargamento dell’Unione europea e le transizioni costituzionali nei Balcani occidentali. Una raccolta di lezioni, Editoriale Scientifica, Napoli 2022; Arru, Un caso di uso politico della storia cit., p. 115. 16 Cfr. infra, Parte seconda, cap. III.

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tragici conflitti che lacerarono la Jugoslavia17, e Predrag Matvejević aggiungeva: abbiamo voluto salvaguardare la memoria e adesso la memoria sembra punirci18. Si dissolse nei massacri e nelle pulizie etniche quel che restava del paese e il ritorno della guerra nel vecchio continente era traumatico per più ragioni: «in Bosnia l’Europa ha dato le dimissioni – scriveva ancora Matvejević –. Maastricht ha moralmente capitolato di fronte a Sarajevo». Riproponendo quel giudizio e riflettendo sul proprio impegno nella diplomazia europea in quell’area, Fernando Gentilini ha osservato: «l’Europa di Maastricht restò sorda agli appelli dell’Europa di Sarajevo […], quasi non riuscisse a vedere al di là dell’euro». Ma ha aggiunto: è però la prospettiva europea che ha posto qualche argine a derive ancor più distruttive e avviato processi di democratizzazione che sembravano impossibili. E ha imposto a quei governi misure impopolari nei loro paesi come la consegna dei ricercati per crimini di guerra al Tribunale internazionale dell’Aja19. Altri annunci di un futuro incerto vengono poi se lo sguardo si fa meno eurocentrico. In Cina, ad esempio, il 1989 non vede il trionfo della democrazia ma la repressione di Tienanmen: e quella fase viene vista oggi come «il momento di avvio di una ascesa della Cina come superpotenza economica e strategica» destinata a ridisegnare gli equilibri mondiali20. Destinata al tempo stesso a proporre il modello di «governi autoritari legittimati dalla crescita del Pil» e a infrangere l’immagine del liberalismo occiden17

Á. Heller, E il ricordo scatenò le guerre, in «l’Unità», 26 gennaio 1993. P. Matvejević, Mondo ex e tempo del dopo. Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano 2006, p. 14. 19 F. Gentilini, Infiniti Balcani. Viaggio sentimentale da Pristina a Bruxelles, Pendragon, Bologna 2007, pp. 39-44. 20 Rupnik, Senza il Muro cit., p. 138. 18

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tale come universale21. Infine, l’anno in cui la libertà d’espressione ritorna nell’Europa centro-orientale è anche quello della fatwa a Salman Rushdie per i Versetti satanici: anch’essa, a suo modo, «annuncio di futuro».

21 J. Wang, The End of the Liberal Word As We Know?, in Laczó - Lisjak Gabrijelčič (a cura di), The Legacy of Division cit., pp. 97-103.

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OMBRE D’EUROPA

III.

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Si tenga a mente la contemporaneità di processi così diversi e si guardi più da vicino alle modalità della transizione. Ci si interroghi a fondo su quel passaggio dalla euforia al disincanto, se non al rancore, che progressivamente affiora in molte parti dell’«Europa ritrovata» dopo la caduta del Muro. Molte riflessioni successive ci aiutano a scomporre il quadro prendendo avvio dalla natura stessa di quei sommovimenti: certamente «ci si ribellò per molti motivi – ha osservato Ivan Krastev –, non si condivideva un’ideologia ma un momento». E al di là delle file dei dissidenti, ha aggiunto, «fu l’attrazione del consumismo più che del liberalismo a segnare la fine della guerra fredda»1. Erano presenti insomma differenti tendenze e culture, non riducibili ai fermenti e alle aspirazioni della stagione di Solidarność, o dell’esperienza di Charta 77 e del dissenso cecoslovacco. Non vi erano solo gli Havel in Cecoslovacchia, i Michnik e i Kuroń in Polonia o gli János Kis in Ungheria e altri ancora, ed era forse illusorio pensare «che la loro stagione sarebbe durata un minuto di più dello spa1 «The Future Was Next to You»: An Interview with Ivan Krastev on ’89 and the End of the Liberal Hegemony, in Laczó - Lisjak Gabrijelčič (a cura di), The Legacy of Division cit., p. 287.

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zio temporale della transizione»2. A quella stessa stagione avevano partecipato forze diverse: facevano parte di Solidarność anche Lech e Jarosław Kaczyński, poi leader sovranisti e oltranzisti, e nella Chiesa polacca erano già presenti quelle componenti pesantemente conservatrici e nazionaliste che occuperanno sempre più la scena dopo l’era di Karol Wojtyła. Ci si sposti in Ungheria: nel giugno del 1989 a Budapest è il giovane Viktor Orbán a infiammare i funerali di massa di Imre Nagy, il leader del 1956 ungherese mandato a morte dal regime, con un appello a elezioni libere e al ritiro delle truppe sovietiche che rompe i vincoli concordati3. E l’Ungheria «non era mai stata realmente una democrazia liberale», ha ricordato Ágnes Heller, né vi era cresciuta negli anni precedenti un’opposizione democratica: nel 1989, ha concluso, «cambia il sistema politico, non il popolo»4. Senza neppur evocare qui paesi come la Bulgaria e altri in cui «la vera lotta politica, accompagnata da tentativi di restaurazione e destabilizzazione, ebbe inizio non prima ma dopo i cambiamenti del 1989»5. Altri studiosi hanno osservato in modo altrettanto drastico che il liberalismo fu piuttosto «una creazione del 1989, non una sua causa»6, e che molti aspetti della narrazione di quel perio2 W. Goldkorn, Il dissenso travolto dal passato, in «MicroMega», 2019, 6, La sinistra nel mondo a trent’anni dalla caduta del Muro, p. 19. 3 Rupnik, Senza il Muro cit., p. 11. Cfr. inoltre T. Garton Ash, Le rovine dell’impero. Europa centrale 1980-1990, Mondadori, Milano 1992 (in particolare il capitolo «Budapest. L’ultimo funerale», pp. 296-306). 4 Á. Heller, Orbanismo. Il caso dell’Ungheria dalla democrazia liberale alla tirannia, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 18-9. 5 S. Bottoni, Un altro Novecento. L’Europa orientale dal 1919 ad oggi, Carocci, Roma 2011, p. 264. 6 B. C. Iacob, J. Mark, T. Rupprecht, The Struggle of Eastern Populism, in Laczó - Lisjak Gabrjelćić (a cura di), The Legacy of Division cit., p. 127.

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do sono quelli che abbiamo voluto vedervi7. Sopravvalutando talora l’ampiezza della «società civile» che era scesa in campo e sottovalutando il permanere di una «società incivile», per dirla con Stephen Kotkin, che si era consolidata nei regimi comunisti (dagli ex iscritti al partito sino ai molti che avevano in qualche modo collaborato)8 e che avrà un peso non marginale nella gestione della transizione. Più in generale, nei sommovimenti e nelle aspirazioni del 1989 si intrecciavano «naturalmente» il rifiuto di regimi oppressivi e l’aspirazione a un benessere di cui l’Occidente era il simbolo. Ed è facile comprendere come «l’imitazione dell’Occidente»9 fosse tendenza quasi inevitabile, non essendovi alle spalle lunghe stagioni di confronti e di riflessioni collettive. Quella «imitazione» aveva però in sé un vizio mortale, segnalato oggi in modo convergente da molti commentatori: l’identificazione di democrazia liberale e di liberismo economico, oltretutto in una fase in cui spirava forte il vento del neoliberismo. Un «neoliberismo selvaggio», ha sottolineato Jacques Rupnik, segnato dalle forti pressioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale «perché si attuassero in tempi rapidi la privatizzazione, la deregolamentazione e la flessibilità del mercato del lavoro». Con uno sconvolgimento radicale, mentre contemporaneamente venivano in parte smantellate le protezioni sociali comunque assicurate dai regimi comu7

B. J. Falk, Legacy of 1989 for Dissident Today, ibid., p. 190. S. Kotkin, Uncivil Society. 1989 and the Implosion of the Communist Establishment, Modern Library, New York 2009. L’utilizzo di questa categoria è presente anche in S. Bottoni, Orbán. Un despota in Europa, Salerno Editrice, Roma 2019. 9 Su questo tema si veda il confronto a distanza fra le tesi di Ivan Krastev e le osservazioni critiche di Aleida Assmann in Laczó - Lisjak Gabrjelćić (a cura di), The Legacy of Division cit., pp. 264-90. 8

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nisti10. Vi fu cioè una coincidenza temporale fra l’avvento della democrazia e la fase di maggior influenza del neoliberismo: l’esatto contrario di quel che era avvenuto nell’Occidente del dopoguerra, dove la democrazia si era coniugata con l’affermarsi del welfare11. E se a Ovest la democrazia si era consolidata – o ricostruita – all’interno del «miracolo economico» dei «trenta anni gloriosi», nei paesi postcomunisti essa arriva ora con le privatizzazioni selvagge e una disoccupazione prima sconosciuta o quasi. Con l’espansione delle imprese occidentali e con processi che vedono spesso gli ex apparati di partito riconvertirsi nelle attività economiche e arricchirsi. Con diffusi fenomeni di corruzione che rendono ancor più acute e rancorose le insicurezze sociali, soprattutto nelle aree più fragili, e più forte il bisogno di protezione12. Anche a questo risponde l’«offerta populista» di Orbán in Ungheria e di Diritto e Giustizia in Polonia, che possono poi fruire di una congiuntura economica più favorevole (accresciuta, va aggiunto, dai finanziamenti europei). In altri termini, ha osservato ancora Rupnik, l’attuale scissione fra liberalismo e democrazia in Ungheria, in Polonia e altrove «ha molto a che fare con la confusione, e di fatto la collusione, fra liberalismo e liberismo economico del periodo post-1989»13. L’economia di mercato così come è stata attuata in Polonia, aveva annota10 Cfr. P. Ther, The Price of Unity. The Transformation of Germany and East Central Europe after 1989, ibid., pp. 30-47; Rupnik, Senza il Muro cit., pp. 153 sgg. 11 S. Sierakowski, Orbán e Kacziński. Populismi a confronto, in «MicroMega», 2019, 2, p. 261. 12 Cfr. «Un mondo di simboli perduti», intervista a Judith Schalansky di Tonia Mastrobuoni, e «La libertà conquistata va difesa», intervista a Timothy Garton Ash di Enrico Franceschini, in «Robinson-la Repubblica», 2 novembre 2019. 13 Rupnik, Senza il Muro cit., pp. 205 sgg.

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to già prima Michnik, ha portato con sé anche il fallimento di molte aziende e un alto tasso di disoccupazione: in questo modo, paradossalmente, «i lavoratori delle grandi aziende che aderivano a Solidarność sono diventati le vittime delle libertà da loro conquistate. Nel mondo-prigione del comunismo le persone erano proprietà dello Stato ma lo Stato si prendeva cura della loro esistenza. Nel mondo della libertà nessuno ha fornito assistenza»14. Ed era rimasta isolata la voce di chi, come Karol Modzelewski – dissidente comunista negli anni sessanta e poi uno dei padri di Solidarność15 – giudicava «troppo radicale la riforma in senso liberista del mercato, e trovava insopportabili e portatrici di disastro le diseguaglianze provocate dal rapido processo di privatizzazioni»16. Molte analisi recenti hanno insistito con forza su questo aspetto: sugli sconvolgimenti profondi indotti da una liberalizzazione senza freni, sulla scomparsa di interi settori economici, sulla rimozione del controllo e della regolamentazione statale da settori vitali, sulla contrazione del sostegno sociale. Sino ad affermare che nella sua essenza l’allargamento fu (o apparve) «un’affermazione del controllo politico ed economico dell’Unione europea sulla instabile e impoverita parte orientale del continente tramite l’imposizione, in pratica, di condizioni politiche ed economiche». Imposizioni accettate dagli Stati ex comunisti «perché alla fine del processo era concesso loro di parteci14 A. Michnik, La Polonia del sospetto e quella del dialogo, in «la Repubblica», 17 maggio 2007. 15 Ebbe echi anche da noi la sua Lettera aperta al partito scritta assieme a Jacek Kuroń e pubblicata da Samonà e Savelli nel 1967 con il titolo Il marxismo polacco all’opposizione. 16 Lo ha ricordato Wlodek Goldkorn alla sua scomparsa: Addio a Karol Modzelewski, fra i padri di Solidarność, in «la Repubblica», 30 aprile 2019.

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pare al processo decisionale e alle risorse economiche dell’Unione europea»17. Vi furono anche i vinti, nelle società post-comuniste, e prese corpo anche da qui una «resistenza» che si colorò di valori tradizionali e nazionali in opposizione alla «modernità» e alla multiculturalità dell’Occidente: in modo più sensibile man mano che ci si allontanava dai centri urbani e ci si inoltrava nelle aree rurali e periferiche18. Non è qui luogo per ripercorrere più da vicino i differenti modi in cui le liberalizzazioni avvennero nei diversi paesi ma certamente il primo impatto fu devastante. Pur nella difficoltà delle comparazioni e nella forte differenza fra le diverse realtà è possibile sostenere che «nel 1989-92 l’Europa orientale patì un declino economico variabile dal 15% al 40% […] particolarmente acuto nell’industria pesante». Con forti differenze interne e con una ripresa più marcata a partire dal 1992-93 in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. E fra il 1989 e il 1992-93 il potere d’acquisto diminuisce del 17% in Polonia, del 19% in Ungheria, del 21% in Cecoslovacchia e così via, sino a un crollo ancor più drastico in Romania, dove una inflazione impetuosa contribuisce a falcidiare salari e pensioni. Difficile stupirsi, ove si pensi alla chiusura di migliaia di imprese e alla conversione di interi settori produttivi: «anche in uno dei paesi più fortunati, l’Ungheria, il numero degli occupati calò in pochi anni da 5 milioni e mezzo a meno di 4 milioni». Ondate di licenziamenti, «ristrutturazioni» e «razionalizzazioni» hanno poi effetti diversi nelle differenti fasce d’età: con il dramma delle generazioni nate negli anni quaranta e cin17

Zielonka, Contro-rivoluzione cit., pp. 74 e 89. Cfr. ad esempio Iacob, Mark, Rupprecht, The Struggle over 1989 cit., e Falk, Legacy of 1989 for Dissident Today cit., pp. 123-33 e 187-208. 18

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quanta e con il dinamismo (e spesso la fuga verso Occidente) di significative fasce delle generazioni più giovani19. Sono elementi che ritornano con insistenza nelle opinioni raccolte da Bernard Guetta in Ungheria e in Polonia, con giudizi in qualche modo «condivisi» – sia pur con accenti differenti e talora opposti. In Ungheria gli esempi concreti fanno balzare in primo piano la crisi dei diversi settori economici (dalle cooperative agricole alla siderurgia), le conseguenze delle privatizzazioni, l’afflusso di imprese straniere. E fanno comprendere meglio perché «le privatizzazioni siano state identificate con la povertà e la perdita della dignità», nel giudizio di un giornalista orbaniano. Fanno emergere quasi il rimpianto «della quiete comunista che avrebbe preceduto l’inferno liberale»: in questo caso a parlare è un deciso antagonista di Orbán20. Certo, un processo «graduale sarebbe stato meglio ma non è stato possibile», osserva János Kis, uno dei simboli dell’opposizione al comunismo. E aggiunge: «che si poteva fare se in Occidente si stava smantellando lo Stato sociale, l’Ue parlava solo di pareggio di bilancio, l’Ungheria doveva pagare tutti i debiti dell’antico regime» e «ciò che era redditizio all’interno del blocco sovietico non lo era più nel mercato mondiale?»21. Altre riflessioni rinviano alla impreparazione con cui ci si misurò con quell’enorme compito: eravamo convinti «che sarebbe bastato eliminare le grandi de19 Bottoni, Un altro Novecento cit., pp. 280-6. Si veda inoltre Ther, The Price of Unity cit., pp. 30-47. 20 B. Guetta, I sovranisti. Dall’Austria all’Ungheria, dalla Polonia all’Italia, nuovi nazionalismi al potere in Europa, Add editore, Torino 2019, pp. 19-20. 21 Ibid., pp. 75-6; cfr. inoltre G. Riva, Dal sogno del capitalismo alla nostalgia che ha spianato la strada a Orbán, intervista allo scrittore András Forgách, in «L’Espresso», 28 luglio 2019.

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viazioni del socialismo perché tutto iniziasse a funzionare» ricorda l’economista Péter Mihályi, figura importante nelle privatizzazioni ungheresi degli anni novanta22. I costi sociali della transizione sono evocati con insistenza anche in Polonia, e un intellettuale di punta di Diritto e Giustizia (il partito sovranista, fortemente radicato nell’area rurale e periferica)23 ci restituisce la dimensione culturale di un problema: «scoprendo fino a che punto l’ovest è cambiato ci è difficile accettarlo, perché vorremmo far parte di un ovest che non c’è più»24. L’«ovest che c’è», invece, alimenta talora diffidenze e paure. Accresciute dalla stessa capacità di attrazione che esso esercita sulle fasce più giovani in cerca di lavoro e di modi diversi di vivere: attrazione che crea vuoti rilevanti nei paesi più arretrati o meno capaci di offrire un futuro. Paesi in cui appaiono ancor più evidenti i limiti di una liberalizzazione «gestita spesso da apparati statali locali che sostanzialmente riciclavano i precedenti apparati comunisti», ha osservato Vintilă Mihăilescu. E le privatizzazioni hanno avuto in alcune aree effetti davvero drastici: se nei primi anni dopo il 1989 il calo dell’occupazione è attorno al 9% in Polonia e Repubblica Ceca, supera il 13% in Romania e il 25% in Bulgaria25. Con un’emigrazione ta22 Guetta, I sovranisti cit., p. 70. Per quel che riguarda le misure di protezione sociale di Orbán, Zsuzsa Hegedüs fa riferimento alla scuola d’infanzia obbligatoria, alle mense scolastiche per i più poveri e all’istituzione del lavoro socialmente utile retribuito: ibid., pp. 28-31. 23 Cfr. almeno P. Morawski, Atlante geopolitico della Polonia. La storia divora la geografia, in «limes», 2014, 1, Polonia, l’Europa senza l’euro. 24 Così Marek Cichocki, filosofo e consigliere di Jarosłav Kaczyński, in Guetta, I sovranisti cit., p. 118. 25 Cfr. V. Mihăilescu, I Balcani. Frontiere e identità, in M. Lazar, M. Salvati, L. Sciolla (a cura di), Europa, III, Culture e società, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 2018; cfr. inoltre R. Krakovsky, Le populisme en Europe centrale et orientale. Un avertissement pour le monde?, Fayard, Paris 2019, pp. 239-44.

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lora impetuosa verso l’Occidente: fra il 1989 e il 2017, ha annotato Ivan Krastev, Lettonia, Lituania e Bulgaria hanno perso il 27%, il 23% e il 21% della loro popolazione, e 3,4 milioni di romeni hanno lasciato il paese dopo il 2007. Una emigrazione di massa e una popolazione che invecchia: di qui, ha osservato ancora Krastev, un «panico demografico» che ingigantisce le paure per i flussi (reali o paventati) di profughi provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Paure di una «grande sostituzione» su cui fa ampia presa la propaganda dei leader nazionalisti, tesi a presentare l’Unione europea come portatrice di una globalizzazione sregolata e destinata a erodere sicurezze e modi di vita26. È per molti versi rivelatore quel che avviene nella ex Germania dell’Est dopo una unificazione invocata con entusiasmo. Le cifre parlano in realtà di una storia di successi: nel 1989 il prodotto interno lordo per abitante era la metà di quello della Germania Ovest, nel 2009 è salito a due terzi, nel 2018 al 75%. E dietro queste cifre vi sono stati investimenti altissimi che hanno messo a dura prova il bilancio federale. Eppure, trent’anni dopo, meno del 40% dei tedeschi dell’Est giudicava riuscita l’unificazione e analoghi segnali venivano da tempo, con una insoddisfazione che è diffusa anche a Ovest27: nel concorde giudizio di 26 I. Krastev, Gli ultimi giorni dell’Unione. Sulla disintegrazione europea, Luiss University Press, Roma 2019; dati e osservazioni convergenti sono in J. Panagiotidis, Freedom of Movement. A European Dialectic, in Laczó - Lisjak Gabrjelćić (a cura di), The Legacy of Division cit., pp. 23240, e in Misiuna - Pachocka, La Pologne en Europe au début su XXIe siècle cit., pp. 145-61. 27 L. Caracciolo, Molto meglio della guerra, in «limes», 2019, 10, Il Muro portante, p. 28. Già dieci anni prima Andrea Tarquini annotava che solo il 46% dei tedeschi orientali e il 40% di quelli occidentali ritenevano che vi fosse stato un miglioramento: A. Tarquini, L’arte di non amarsi, ivi, 2009, 5; cfr. inoltre T. Giani Gallino, Viaggio nell’altra Germania, Einaudi, Torino 2013.

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molti osservatori i tedeschi dell’Est (Ossis) e dell’Ovest (Wessis) non sembrano ancora pienamente integrati. Anche in questo caso si deve prendere avvio dal processo di transizione: con la «privatizzazione selvaggia» delle industrie pubbliche messa in atto dalla Treuhandanstalt, l’agenzia istituita dal governo dell’Est prima della riunificazione (migliaia di imprese vendute in breve tempo, con il massiccio afflusso di imprese e imprenditori occidentali). Con il cambio alla pari della moneta e con la liberalizzazione del mercato internazionale, che mettono in ginocchio l’economia sin lì protetta della ex Repubblica Democratica Tedesca: i «paesaggi in fiore» promessi dal cancelliere lasciano presto il campo a scenari molto diversi28. Con mutamenti radicali nei modi di lavorare e di vivere, ed è il vissuto, con le sue stesse distorsioni, a far capire meglio la realtà. Dopo aver sintetizzato in modo drastico i tratti della transizione Ilko-Sascha Kowalczuk ha annotato: «La DDR era una società fondata sul lavoro e organizzata attorno al concetto statale di un’assistenza dalla culla alla tomba. Il tracollo totale e improvviso di questo modello non poteva che arrecare conseguenze disastrose»29. Dal canto suo Aleida Assmann ha aggiunto: la riunificazione ha cancellato molte tracce della storia della Germania dell’Est, che non era solo un regime poliziesco ma «garantiva il diritto all’alloggio, all’assistenza, all’istruzione, sia pure a livelli bassi […]. Con il neoliberismo tutto questo finì»30. Nel discorso pubblico quel passato veniva ora condannato in blocco, ridotto alla 28

Ther, The Price of Unity cit. I.-S. Kowalczuk, Il grido inascoltato dell’Est, in «limes», 2019, 10, p. 75. Il giudizio è sostenuto più ampiamente nel suo Die Übernahme. Wie Ostdeutschland Teil der Bundesrepublik wurde, Beck, München 2019. 30 A. Assmann, Go East!, in Laczó - Lisjak Gabrjelćić (a cura di), The Legacy of Division cit., p. 270. 29

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presenza onnipotente della polizia segreta31 se non equiparato al periodo hitleriano: ha una mano tesa nel saluto nazista e l’altra stretta a pugno la statua collocata davanti al Museo di storia contemporanea di Lipsia voluto da Kohl. E vanno nella stessa direzione le due Commissioni parlamentari di inchiesta istituite negli anni novanta (ove si eccettuino, naturalmente, le relazioni di minoranza degli ex comunisti): per una «politica della memoria» più pluralistica e attenta alle differenze occorrerà attendere il governo rosso-verde guidato da Gerhard Schröder dal 1998 al 200532. Aspetto marginale, se si vuole, rispetto agli enormi problemi con cui Schröder deve misurarsi, originati appunto dalle modalità della transizione e da un crollo dell’ex Germania dell’Est che pesa fortemente sul bilancio federale33: «basso tasso di crescita, alto tasso di disoccupazione, un debito pubblico fuori controllo, a fronte di una preoccupante disaffezione degli investimenti privati»34, mentre l’«Economist» definisce la Germania «il malato d’Europa»35. Di qui le riforme economiche e sociali volute dal cancelliere socialdemocratico, che ridimensionano in modo significativo il sistema di protezione sociale36, con 31 «Ritagliata in maniera riduttiva sulle vicende della Stasi – annotava allora Habermas – la storia della DDR diventava una cava cui attingere pietre per il linciaggio»: J. Habermas, Escussione del passato. La svastica ed il pugno, in «Belfagor», 1992, 4, pp. 381-402. 32 P. Cooke, Representing East Germany since Unification. From Colonization to Nostalgia, Berg, Oxford 2005, pp. 35-45; M. Ponso, Processi, riparazioni, memorie. L’elaborazione del passato nella Germania postnazista e postcomunista, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 95-116. 33 Ther, The Price of Unity cit. 34 A. Bolaffi, Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea, Donzelli, Roma 2013, p. 127. 35 Ther, The Price of Unity cit., pp. 31-2. 36 Riguardano la flessibilità del mercato del lavoro e gli stessi salari, oltre alla riduzione dei sussidi di disoccupazione, delle pensioni e dell’assicurazio-

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contraccolpi ancor più acuti a Est. Riforme che «salvano la Germania ma perdono la Spd», come è stato detto. Pongono cioè le basi per la ripresa del paese, che potrà affrontare solidamente la crisi finanziaria del 2008 e nel decennio successivo avrà la crescita più alta della zona euro. Ma al tempo stesso logorano il rapporto della socialdemocrazia tedesca con il suo elettorato, avviandola verso una crisi da cui si è ripresa solo in tempi recenti. Si consideri infine un altro aspetto, «le forti ineguaglianze nel ricoprire cariche importanti da cui i tedeschi dell’Est risultano fortemente discriminati». Le ha evocate anche Wolfgang Thierse, dissidente nella DDR e poi presidente socialdemocratico del Bundestag dal 1998 al 2005: certo, ha osservato, un periodo di transizione era necessario, bisognava liberarsi delle classi dirigenti del periodo comunista, ed è anche comprensibile l’estensione a tutto il paese della legislazione della Repubblica Federale, ma si è andati oltre37. Thierse ha ricordato poi un elemento che pesa in Germania più che altrove: se a Ovest l’esperienza della democrazia ha coinciso con gli anni del «miracolo tedesco», a Est la si è riconquistata in un contesto di disoccupazione, di insicurezza economica e con la sensazione di essere sempre al traino dell’Occidente. Lo stesso andamento elettorale, ha aggiunto, segnala una parabola: nei ne sanitaria. Oltre al saggio di Ther, cfr. C. Strassel, Une puissance économique fragilisée, in «Hérodote», 4° trimestre 2019, 175, L’Allemagne trente ans après, 1989-2019, pp. 187-213. 37 B. Grésillon - S. Vannier, Entretien avec Wolfgang Thierse, ancien Président du Bundestag, in «Hérodote», 4° trimestre 2019, pp. 87-104; cfr. inoltre Cooke, Representing East Germany cit., p. 53. Uno degli slogan degli ex comunisti del Pds nelle elezioni del 1994 era «la mia biografia non inizia nel 1989». Su questo cfr. anche La RDA: «pays disparu», nation disparue? Entretien avec Nicolas Offenstadt, in «Hérodote», 4° trimestre 2019, pp. 179-86.

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primi anni dopo l’89 la Germania dell’Est fa trionfare la Cdu di Kohl, fautrice decisa della riunificazione e portatrice dei miti dell’Occidente, ma poi quella stessa area contribuisce al successo di Schröder, e contemporaneamente alla ripresa e alla crescita dei «nostalgici» postcomunisti del Pds e poi della Linke (abili, ha osservato Paul Cooke, a usare la percezione di una «colonizzazione» per mobilitare l’elettorato). Infine, dopo la crisi del 2008 e dopo l’irrompere dei flussi di migranti – hanno aggiunto Béatrice von Hirschhausen e Boris Grésillon – anche la Linke appare troppo «omologata»38. E l’insicurezza sociale dell’Est sembra talora trasformarsi in rancore: irrompe in questo quadro nel 2013 l’estrema destra di Alternative für Deutschland, che costruisce qui le sue roccaforti e nel 2017 entra di slancio nel Bundestag con percentuali molto alte proprio a Est39. Eppure «i mutamenti erano stati spettacolari»: nelle città, nelle infrastrutture, negli investimenti delle imprese dell’Ovest, nel forte tasso di crescita dell’industria dopo il 2005, nella diminuzione della disoccupazione. Insomma, «il salvataggio economico sembra riuscito ma il comportamento elettorale dell’Est sembra mostrare il contrario»40. Sembra permanere se non crescere la 38 B. von Hirschhausen - B. Grésillon, Les traces géopolitiques de la partition Est/Ouest, in «Hérodote», 4° trimestre 2019, 175, pp. 105-30. 39 Qui AfD, ha osservato Gian Enrico Rusconi, ha sottratto alla sinistra il monopolio della critica all’esistente e ha influenza su una vasta area di lavoratori dell’ex Repubblica Democratica Tedesca «che soffrono della svalorizzazione della propria biografia, del proprio stile di vita, della propria posizione lavorativa»: G. E. Rusconi, A 30 anni dal Muro, come è cambiata e come cambia l’Europa, in «gli asini», ottobre 2019, p. 40. 40 Hirschhausen - Grésillon, Les traces géopolitiques de la partition Est/Ouest cit., pp. 87-104; J. Vaillant, L’évolution du système des partis en Allemagne, in «Hérodote», 4° trimestre 2019, 175, pp. 131-54; cfr. inoltre C. Leggewie, Thirty Years on: Germany’s Unifinished Unity, in Laczó - Lisjak Gabrjelćić (a cura di), The Legacy of Division cit., pp. 48-58.

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sensazione di una «subalternità», di una diminuzione di status: i vincitori dell’89, per dirla ancor con Thierse, sembrano diventati i vinti dell’unificazione41. Sino alle punte estreme: Integriert doch erst mal uns! (Cominciate con l’integrare noi!), il grido ascoltato a Dresda in una manifestazione della destra razzista e xenofoba di Pegida, è diventato nel 2018 il titolo di un libro-inchiesta della socialdemocratica Petra Köpping che fa emergere umori diffusi. Il mutare dei climi culturali conferma questa parabola, e oggi lo shock delle origini è apertamente riconosciuto. Nella prima fase della transizione, ha ricordato la leader dei Verdi Annalena Baerbock, «molta gente perse non solo il lavoro ma anche l’identità […] quello che era giusto fino a pochi mesi prima improvvisamente era sbagliato». «Biografie spezzate», per utilizzare l’espressione del presidente Frank-Walter Steinmeier42. E il tema è stato evocato con qualche riferimento personale anche da Angela Merkel nel suo ultimo discorso in occasione della Festa nazionale della riunificazione, il 3 ottobre del 202143. Si inizi però dal progressivo emergere negli anni novanta di una Ostalgie, di una nostalgia del passato comunista tardivamente «scoperta» a Occidente grazie all’ironia di un film di successo come Good bye, Lenin! di Wolfgang Becker, del 2002. Preceduto nel 1999 da Sonnenallee di Leander Haußmann (anch’esso di successo, in Germania: la storia di 41 Ella Glenz ha osservato in modo convergente: «la percezione diffusa di aver giocato la parte degli sconfitti all’indomani della riunificazione ha lasciato una profonda cicatrice emotiva nella maggior parte dei cittadini dell’Est»: cfr. E. Glenz, Germania, l’unificazione incompiuta, in «Arel», 2019, 3, pp. 74-6. 42 P. Valentino, «Ma per molti a est fu uno schiaffo. C’è molto da fare», in «Corriere della Sera», 3 ottobre 2021. 43 Id., Angela Merkel riscopre (tardi) il passato, ivi, 7 ottobre 2021.

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un gruppo di adolescenti nella Berlino divisa)44. E da un ampio spettro di iniziative e proposte, dai cabaret di Dresda degli anni novanta al successivo irrompere di questo tema nei grandi media. Ostalgie come critica a una rappresentazione unicamente «dittatoriale» della DDR e come difesa di una parte, almeno, del proprio passato («nel guadagnare un pezzo di vita ne abbiamo perduto un altro», ha scritto Thomas Rosenlöcher)45. Come resistenza all’assorbimento nella Repubblica Federale Tedesca, nel momento in cui essa inizia a deludere, ma anche alla modernità dell’Occidente così come concretamente si presentava. Reazione a un’unificazione monetaria che spazza via l’ormai agonizzante sistema economico dell’Est (e con esso un intero universo di prodotti di consumo) in uno scenario segnato da una inedita precarietà sociale. Reazione a quella che è avvertita, appunto, come «colonizzazione»46, in un vissuto che naturalmente conosce differenze e contrapposizioni: «gli uni ricordano la pagnotta da cinque centesimi, le scuole materne che si dicevano essere tanto buone e le piacevoli serate trascorse nel collettivo del dopolavoro. Gli altri menzionano i morti del Muro, elencano i verdetti dell’ingiustizia politica e puntano il dito sulla piaga dello spionaggio»47. Più generale, 44 In Cooke, Representing East Germany cit., vi è un’ampia ricostruzione di questi aspetti. Sonnenallee è tratto da un romanzo di Thomas Brussig, di cui si veda Proviamo nostalgia perché siamo esseri umani, in Modrzejewski - Sznajderman (a cura di), Nostalgia cit.; cfr. inoltre P. Capuzzo, «Good bye Lenin». La nostalgia del comunismo nella Germania riunificata, in «Studi culturali», a. I, giugno 2004, 1. 45 Cit. in E. Banchelli, Memorie delle cose, memorie dei luoghi. Considerazioni sul fenomeno dell’Ostalgie, in Id. (a cura di), Taste the East. Linguaggi e forme dell’Ostalgie, Bergamo University Press, Bergamo 2006, p. 13. 46 Ibid., pp. 9-31. 47 S. Wolle, Die heile Welt der Diktatur, Links, Berlin 1997, cit. in Ponso, Processi, riparazioni, memorie cit., pp. 351-2.

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uno spaesamento: mi sentivo totalmente heimatlos (priva di patria, priva di radici) dice Christine, che ha partecipato in prima fila alle manifestazioni del 1989 e 5 anni dopo ha votato per gli eredi del Partito comunista48. È tutto questo, e al tempo stesso l’ironia su tutto questo. Ed è comunque un segnale collocato nel tempo, più forte nella ex Germania dell’Est ma non assente anche in altri paesi. Talora rimpianto del «rassicurante paternalismo del tardo comunismo», nella lettura dello storico ceco Michal Kopeček: in contrasto sia «con le trasformazioni del capitalismo selvaggio» sia con la «cupa realtà degli anni staliniani» (e talora autogiustificazione, più o meno consapevole)49. Non stupisce che la Jugonostalgia affiori in un’area poi devastata da guerre, massacri e pulizie etniche50: stupisce semmai – ma non moltissimo, a ben vedere – che il rimpianto per un passato segnato da «stabilità» si sia affacciato in varie forme anche in altri paesi. Ritorniamo però alla Germania, in particolare alla ex DDR, e a quel passaggio dalla delusione al rancore che segna gli anni più recenti. In primo luogo, come s’è detto, con l’affermarsi della destra estrema di Alternative für 48 B. Spinelli, Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi, Mondadori, Milano 2004, pp. 150-1. 49 M. Kopeček, In Search of «National Memory», in Id. (a cura di), Past in the Making. Historical Revisionism in the Central Europe after 1989, Ceup, Budapest 2008, pp. 75-92; in relazione all’Ungheria e alla Polonia annotazioni convergenti sono in F. Laczó, The Many Moralists and the Few Communists, ibid., pp. 145-65, e in K. Pobłocki, The Economics of Nostalgia. Socialist Films and Capitalist Comodities in Contemporary Poland, ibid., pp. 181-214. 50 A. Trovesi, L’enciclopedia della Jugonostalgia, in Banchelli (a cura di), Taste the East cit., pp. 257-74; N. Daković, Out of the Past. Memories and Nostalgia in Post-Yougoslav Cinema, in O. Sarkisova - P. Apor (a cura di), Past for the Eyes: East European Representations of Communism in Cinema and Museum after 1989, Ceu Press, Budapest-New York 2008, pp. 117-41.

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Deutschland, che nel 2021 a livello nazionale ottiene poco più del 10% ma ha una presenza consistente proprio a Est, ove supera il 20% in più di una realtà. Una destra estrema che delinea il suo profilo anche in riferimento alla storia, contestando quella celebrazione dell’8 maggio del 1945 come «giorno della Liberazione» che era stata uno dei punti di approdo del ripensamento tedesco del proprio passato (consacrato definitivamente nel 1985 dal presidente Richard von Weizsäcker)51. Contestando la «cultura della colpa» che verrebbe imposta ai tedeschi «in ossequio ai vincitori di ieri» e sostenendo una «visione positiva» della loro storia: «fino ad oggi il nostro stato d’animo era quello di un popolo vinto – afferma nel 2017 Björn Höcke, leader dell’organizzazione della Turingia –. È necessaria una virata di 180 gradi nella nostra politica della memoria». E ha aggiunto, riferendosi al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa: «siamo l’unico popolo al mondo che ha piantato un monumento alla vergogna nella propria capitale». L’anno successivo un altro leader, Alexander Gauland, afferma: «nella ultramillenaria storia tedesca, ricca di successi, Hitler e i nazisti sono solo un Vogelschiss» (sterco d’uccello, a tradurlo alla lettera). E ancora Gauland ha poi aggiunto: i tedeschi hanno «il diritto di essere fieri di quel che hanno fatto i loro soldati nella seconda guerra mondiale». Si potrebbe continuare a lungo, sino a quel che è stato scritto su «Junge Freiheit», rivista della destra estrema: «il più potente demone di oggi è la religione civile in cui Auschwitz ha preso il posto di Dio». Il tutto unito, naturalmente, all’allarme contro l’«invasione» degli immi51 In realtà neppure allora erano mancate polemiche: cfr. H. Knabe, Tag der Befreiung? Das Kriegsende in Ostdeutschland, Propyläen, Berlin 2005.

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grati e dell’Islam, e all’evocazione della «grande sostituzione» della popolazione tedesca che sarebbe in corso. E a Est, come s’è detto, Alternative für Deutschland è diventata un partito molto radicato52.

52 Traggo le citazioni da B. Giblin, Editorial. La question allemande trente ans après la réunification, e da J.-S. Mongrenier, L’Allemagne et l’Otan: «What else?», in «Hérodote», 4° trimestre 2019, 175; cfr. inoltre P. Thibaut, Quand l’Afd bouscule l’Allemagne, in D. Vidal (sotto la direzione di), Les nationalistes à l’assaut de l’Europe, Demopolis, Paris 2019; G. E. Rusconi, La rinascita della nazione tedesca, in «limes», 2019, 10; A. Assmann, Il sogno europeo. Quattro lezioni sulla storia, Keller editore, Rovereto 2021.

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IV.

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Si rileggano in questo scenario il Trattato di Maastricht, con i vincoli che esso poneva1, e l’introduzione dell’euro. Con il privilegiamento della dimensione economica e ponendo l’unificazione monetaria non come conclusione ma come premessa dell’integrazione politica: un «peccato originale», ha osservato Angelo Bolaffi, da cui sarebbero derivate conseguenze pesanti2. Si modificava al tempo stesso il sistema di governo previsto dai Trattati di Roma del 1957: l’accento si spostava cioè dalla Commissione europea, composta da personalità nominate dagli Stati ma indipendenti da essi, al Consiglio europeo, composto dai capi di governo. Si spostava cioè da un organismo sovranazionale, per sua natura portato a privilegiare l’«interesse europeo», al coordinamento governativo, luogo di mediazione fra i differenti interessi nazionali3. 1 Riguardavano soprattutto la stabilità dei prezzi, il deficit di bilancio (che doveva rimanere sotto il 3% del Pil) e il debito pubblico (da contenere entro il 60% del Pil): cfr. almeno V. Castronovo, L’avventura dell’unità europea. Una sfida con la storia e il futuro, Einaudi, Torino 2004, e F. Fauri, L’integrazione economica europea 1947-2006, il Mulino, Bologna 2006. 2 Bolaffi, Cuore tedesco cit., pp. 51-66. 3 Nell’impostazione originaria spettava alla Commissione di avanzare al Consiglio le proposte economiche e finanziarie su cui esso poi decideva. A partire dal Trattato di Maastricht e dall’introduzione dell’euro quell’equilibrio si rompe, in un percorso in cui – ha osservato Angelo Bolaffi – «gli av-

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Alcuni limiti di quella impostazione erano colti già allora: «mettere in regola le nostre finanze – annotava Gian Enrico Rusconi – è soltanto la premessa per un’iniziativa politica di cui vorremmo conoscere le strategie concrete, non soltanto le linee di principio»4. Certo, aggiungeva Ezio Mauro, era stato inevitabile avviare l’unificazione «attraverso l’unico comun denominatore possibile, quello della moneta» ma è urgente ora «dare un contesto istituzionale, culturale e politico a questa moneta. Perché rappresenti l’Europa e non soltanto undici paesi comandati da una banca»5. Sono le banconote stesse, del resto, a segnalarci una rinuncia, o un primo fallimento. Nel definire l’immagine dei differenti tagli, infatti, non si riuscì a trovare l’accordo su alcune grandi figure europee da privilegiare e si esclusero poi anche i monumenti storici, considerati «troppo identificativi». Si ripiegò così su elementi architettonici astratti: «si discusse se mettere Dante o Goethe sulle banconote dell’Euro – ha annotato amaramente Michael Žantovský – ma non si riuscì a mettersi d’accordo così alla fine ci si affidò al computer, che ha generato ponti, finestre e porte che non esistono»6. venimenti hanno per così dire preso il sopravvento sulle regole»: ora – ha sottolineato Giuliano Amato – «alla Commissione è chiesto al più un documento orientativo, il Consiglio non incontra limiti nel modificarlo o anche nell’ignorarlo». Traggo le due citazioni da A. Bolaffi, Uno sguardo verso il futuro e G. Amato, 25 marzo 1957. Identità europea e identità nazionali, in Bolaffi - Crainz (a cura di), Calendario civile europeo cit., pp. 489 e 250. 4 G. E. Rusconi, Aspettando la politica, in «La Stampa», 28 settembre 1996. 5 E. Mauro, L’unione della moneta nuda, in «la Repubblica», 1° maggio 1998. 6 L. van Middelaar, Pourquoi forger un récit européen? Nécessités et contraintes d’un récit commun, in A. Arjakovsky (sotto la direzione di), Histoire de la conscience européenne, Salvator, Paris 2016, pp. 45-8; per le osservazioni di Zantovský cfr. M. Palumbo, Pirati a Praga. La rivoluzione ha figli ribelli, in «Corriere della Sera», 6 marzo 2019.

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La fiducia nel primato dell’economia contribuisce a spiegare anche la sottovalutazione dei problemi posti dall’allargamento a Est del 2004: dall’ingresso cioè di molti paesi segnati da strutture e storie profondamente diverse. In quello stesso anno, ad esempio, questo nodo è sostanzialmente assente dal confronto/scontro fra i partiti italiani persino in occasione delle elezioni europee. Assente la riflessione sulle sue prospettive e le sue incognite, e ancor di più sulle misure necessarie per sanare distanze economiche e istituzionali, e per far dialogare differenti eredità storiche e visioni culturali. Assente il confronto sui possibili, ulteriori allargamenti7, sui cui contorni e sulle cui direzioni di marcia vi era solo grande incertezza. Per non parlare del grande nodo della Costituzione europea. Tutti temi «non pervenuti» nel dibattito italiano del 2004, concentrato sul declinare o meno della stella berlusconiana8. Non è un limite solo nostro: un anno prima dell’allargamento – hanno annotato Tito Boeri e Fabrizio Coricelli – più del 50% dei cittadini europei dichiaravano di non conoscere i nomi dei nuovi Stati membri9. E in molti paesi, ha osservato Giorgio Petracchi, mutamenti rilevanti sono stati decisi e governati «senza avvicinare i cittadini alle istituzioni europee e in assenza di un popolo europeo»10 (e senza uno sforzo reale per «costruirlo»). Inadeguata attenzione è prestata anche, come s’è detto, all’emergere dei primi segnali di crisi, a partire dalla boc7 Erano già in cantiere gli ingressi di Romania e Bulgaria, mentre Turchia e Croazia stavano iniziando allora un percorso. 8 Su questo aspetto rinvio al mio Diario di un naufragio. Italia, 20032013, Donzelli, Roma 2013, pp. 6-10. 9 T. Boeri - F. Coricelli, Europa: più grande o più unita?, Laterza, Roma-Bari 2003, p. VII. 10 G. Petracchi, Introduzione, in Id. (a cura di), Vaghe stelle d’Europa. Quali confini, quale identità, quale economia?, Leg, Gorizia 2007, p. 10.

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ciatura della Costituzione europea nei referendum di Francia e Olanda: la sostanziale riproposizione di quel testo nel Trattato di Lisbona del 2007 sembrò poi confermare la mancanza di democrazia dell’Unione11, mentre i sondaggi iniziavano a mostrare quasi ovunque un calo di fiducia nei suoi confronti. Irrompe in questo quadro la crisi finanziaria internazionale del 2008, dopo il crollo della Lehman Brothers, con le profonde insicurezze che alimenta: con gli sconvolgimenti nei rapporti sociali e nei vissuti, nelle speranze e nelle paure. Irrompe in uno scenario già fortemente segnato dai processi di globalizzazione, con i prezzi pagati dalle fasce deboli dei paesi sviluppati e con il crescere delle divaricazioni sociali12. E già dai primi anni novanta – ha annotato Luca Ricolfi – il reddito dei paesi più avanzati cresce meno degli altri13. Non sono solo gli strati più poveri e marginali a essere colpiti, o a sentirsi comunque abbandonati «dalla politica»: dalla democrazia, in ultima istanza. Erosioni, declassamenti e inedite forme di precarietà vengono a investire e a stravolgere anche quei ceti medi che erano stati centrali nei processi di «civilizzazione democratica», scossi ora da crescenti inquietudini e paure14: ad alimentare le pulsioni populiste, ha osservato Marco Revelli, vi è la rivolta non tanto degli esclusi quanto degli 11

B. Giblin, Éditorial, in «Hérodote», 1° trimestre 2017, 164, p. 9. «Negli ultimi due decenni in Asia – ha osservato Jacques Rupnik – mezzo miliardo di persone sono uscite dalla povertà mentre lo Stato assistenziale europeo è stato gradualmente smantellato»: Rupnik, Senza il Muro cit., p. 156. 13 L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano 2017, p. 80. 14 Ad esse contribuisce, ha aggiunto Tito Boeri, anche un processo tecnologico che erode condizioni di lavoro e sicurezze: Populismo e stato sociale, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 11 sgg. 12

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«inclusi messi ai margini»15. La rivolta di chi vede interrompersi quel miglioramento continuo, di generazione in generazione, su cui si basavano largamente consenso e fiducia nel futuro. Si è andata diffondendo anche così una rancorosa psicosi da assedio e l’Unione europea ha iniziato ad esser vista come veicolo di una globalizzazione sregolata capace di minacciare il tradizionale welfare state, perno e asse centrale delle democrazie occidentali. E neppure nella bufera del 2008 o dopo di essa si avviò una seria riflessione su come immaginare una ripresa economica credibile e un welfare capace di coniugare le bussole dell’equità sociale e delle compatibilità economiche, in un quadro segnato dall’invecchiamento crescente della popolazione e da nuovi bisogni16. Quasi inevitabilmente allora, nel vivo della crisi, nazionalismi, xenofobie, populismi e più generali pulsioni di rifiuto crescevano ulteriormente, mettendo in discussione e minacciando da vicino anche assetti politici che erano sembrati solidi17. Più in generale andava in crisi l’idea, sin lì confortata dai fatti, che gli interessi dei singoli Stati e quelli dell’Unione coincidessero immediatamente, all’interno di un processo che rendeva tutti «vincitori». In forme differenti, dunque, dopo il 2008 la fiducia in un futuro comune è progressivamente incrinata dalla crescente sensazione di un declino ineguale: ineguale fra i dif15

Revelli, Populismo 2.0 cit., p. 4. Cfr. M. Deaglio, La strada difficile della ripresa, in «La Stampa», 1° settembre 2014. 17 Cfr. almeno T. Garton Ash, L’assalto dei nazionalisti alla debole Europa, in «la Repubblica», 18 novembre 2013; L. Caracciolo, L’onda di populisti e indignati si abbatte sull’Europa in crisi, ivi, 26 maggio 2015; M. Bertoldi - M. Salvati, L’economia europea nella globalizzazione, in Lazar, Salvati, Sciolla (sotto la direzione di), Europa, III, Culture e società cit. 16

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ferenti paesi e all’interno di ciascuno di essi (e già prima Colin Crouch aveva avvertito che l’Europa rischiava di apparire «un goffo pigmeo di fronte agli agili giganti della globalizzazione»)18. Nel crollo del neoliberismo inizia allora, non solo a Est, una più forte espansione dei movimenti populisti e nazionalisti, e molte convergenti letture ci aiutano a coglierne i differenti contorni e le differenziate dinamiche19. Si ripresenta in questo quadro la faglia fra il Nord e il Sud dell’Europa, legata anche a differenti orientamenti di politica economica20, mentre nell’area centroorientale l’«imitazione dell’Occidente» lascia progressivamente il posto al risentimento verso una «Unione matrigna»21. E nella politica dei governi di Orbán in Ungheria o di Diritto e Giustizia in Polonia acquistano rilievo le misure di protezione sociale, dalle pensioni all’assistenza sanitaria o al sostegno alle famiglie numerose (accompagnandole, in Ungheria, da una riscrittura radicale della Costituzione)22. Se il 1989, ha osservato Holly Case, era 18

Crouch, Postdemocrazia cit., p. 37. Oltre a Ricolfi, Sinistra e popolo cit., pp. 131-7, cfr. almeno Vidal (sotto la direzione di), Les nationalistes cit. Attenti commentatori segnalavano «in presa diretta» quel percorso e quel nesso: cfr. ad esempio F. Rampini, La rivincita sul neoliberismo, in «la Repubblica», 3 gennaio 2013; Garton Ash, L’assalto dei nazionalisti cit.; e M. Magatti, Il declino dei neoliberisti lascia spazio ai populisti, in «Corriere della Sera», 28 aprile 2016. 20 Era evidente, ad esempio, la tensione fra i paesi che avevano utilizzato gli anni di crescita per risanare l’economia e quelli che non lo avevano fatto (anche al di là del caso greco): cfr. R. Perissich, Stare in Europa. Sogno, incubo e realtà, Bollati Boringhieri, Torino 2019, pp. 55-6. 21 Cfr. S. Fabbrini, I nodi irrisolti di un’Europa più grande, in Bolaffi Crainz (a cura di), Calendario civile europeo cit., pp. 393-4. 22 H. Case, The Great Substitution, in Laczó - Lisjak Gabrijelčič (a cura di), The Legacy of Division cit., pp. 111-22; F. Guida, L’altra metà dell’Europa. Dalla Grande Guerra ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 274-81; Sierakowski, Orbán e Kaczyński cit., e G. Caldiron, Non è populismo, è fascismo del terzo millennio, in «MicroMega», 2019, 2, pp. 260-72 19

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stato il simbolo di un futuro liberale, il 2008 della crisi internazionale diventa il simbolo della fine del neoliberismo, e nell’estendere il proprio controllo sull’intera società i governi e i leader sovranisti dell’Est sembrano riproporre quella fusione fra partito e Stato che aveva segnato i regimi comunisti23. Inoltre nel terribile 2015 (segnato anche, come s’è detto, dall’«emergenza migranti» e dall’esplodere del terrorismo islamico) la crisi greca mostrava sia la necessità di adeguate forme di controllo «preventivo» sia la miopia di un rigorismo estremo. Sullo sfondo vi è un mutamento radicale che Jan Zielonka ha sintetizzato evocando il suo maestro, Ralf Dahrendorf: «nella sua vita da adulto ha assistito allo sviluppo del welfare, di parlamenti che regolavano il mercato e di una stampa che era luogo privilegiato del discorso democratico. La mia vita da adulto si svolge invece tra Paesi che smantellano il sistema di welfare, parlamenti che de-regolano i mercati, e internet che è diventato il luogo essenziale della comunicazione»24. Fra paesi, va aggiunto, che talora rifiutano i principi essenziali dello Stato di diritto e in una Unione sin qui incapace di agire adeguatamente per imporne il rispetto, paralizzata dal criterio della unanimità. Spesso poco più che spettatrice, annotava già nel 2014 Barbara Spinelli, quasi fosse «un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli». Nel 2004-2007, proseguiva, l’allargamento «si concentrò su regole finanziarie e giuridiche e mancò la politica come sintesi […] l’allargamento avvene 245-59; Poinssot, Dans la tête de Viktor Orbán cit.; Bottoni, Orbán cit.; E. Giovannini, Europa anno zero. Il ritorno dei nazionalismi, Marsilio, Venezia 2015, pp. 110-38. 23 Case, The Great Substitution cit. 24 Zielonka, Contro-rivoluzione cit., p. XVI.

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ne inscatolando, non integrando, e l’Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata […]. Molti nuovi Stati non hanno capito l’Unione in cui entravano: la scambiavano appunto per un recipiente che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune e solidale». Va oggi francamente riconosciuto, concludeva appunto nel 2014, «che l’era degli allargamenti è conclusa, che le stesse adesioni o associazioni esterne oggi fanno problema»25. È questa Europa che negli ultimi anni è stata investita in rapida successione da una pandemia che ha fatto ricordare flagelli antichi e da una invasione russa dell’Ucraina che ha messo e mette seriamente a rischio l’assetto stesso del continente. Quasi paradossalmente lo scenario ci appare oggi radicalmente modificato rispetto al passato ma al tempo stesso confermato nei suoi tratti essenziali, nelle questioni irrisolte. Nodi precedenti – differenti fra loro ma spesso strettamente intrecciati – sono riemersi con grande evidenza e riconducono tutti alla natura e al futuro del progetto europeo. Ha confermato la sua forza ma al tempo stesso i suoi limiti, ad esempio, l’idea-chiave della dichiarazione fondativa di Schuman del 1950, secondo cui «l’Europa non potrà farsi in una volta sola né all’interno di una costruzione complessiva: essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino prima di tutto una solidarietà di fatto». Ne avvertiva con chiarezza i limiti già nel maggio del 2000 il leader dei Verdi tedeschi, e allora ministro degli Esteri, Joschka Fischer: «È arrivato il tempo – diceva alla 25 B. Spinelli, L’urlo dell’Ucraina e il silenzio dell’Europa, in «la Repubblica», 29 gennaio 2014. L’articolo prendeva avvio dall’esplodere della crisi ucraina di quell’anno e invitava a non ignorare le molte componenti che confluivano nei sommovimenti, comprese quelle ultranazionalistiche.

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Humboldt-Universität di Berlino – di superare la logica del “passo dopo passo”»26. Non vi è alcun dubbio, la solidarietà economica ha confermato tutta la sua decisiva importanza, e parleremmo di un’altra Europa se nel luglio del 2020 non fosse stata compiuta la scelta del Recovery Fund: ricordando al tempo stesso che quella scelta non apparve subito scontata, pur nell’infuriare dell’emergenza. Sembrava diffusa semmai la amara constatazione che Gli europei non sono europei, per citare un intervento di allora che apertamente parlava della «disgregazione europea» come di una «partita in corso» e segnalava l’approfondirsi della faglia fra i «paesi frugali» del Nord e le «cicale» mediterranee27. Si scorrano i quotidiani di quei mesi del 2020: Sergio Fabbrini, Unione a rischio. Il futuro dell’Europa viene deciso adesso, «Il Sole 24 Ore», 29 marzo; Delors: «se manca la solidarietà pericolo mortale» e Piero Ignazi, Delors, la lezione dei grandi vecchi, «la Repubblica», 29 marzo; Ursula von der Leyen, Scusateci, ora la Ue è con voi, ivi, 2 aprile; Thierry Breton e Paolo Gentiloni, Occorre un fondo per la rinascita. È adesso il momento per salvare l’Europa, «Corriere della Sera», 6 aprile; Massimo Riva, Gli infingardi di Bruxelles, «la Repubblica», 14 aprile; Ezio Mauro, Dov’è l’Europa dell’audacia?, ivi, 15 aprile; Angelo Bolaffi, Una terapia per salvare questa Europa risentita e balbettante, «Il Foglio», 20 aprile; Federico Fubini, L’Europa adesso c’è, «Corriere della Sera», 25 aprile; Carlo Bastasin, La sentenza 26 Cfr. «Sì, quella Costituzione fu una fuga in avanti. Ora la Ue non sprechi la chance», intervista di Stefano Disegni a Giuliano Amato in «Reset Newsletter», 7 gennaio 2021. 27 F. Petroni, Gli europei non sono europei, in «limes», 2020, 3, Il mondo virato, pp. 161-82. L’articolo affermava sin dalla prima pagina: «L’epidemia ha confermato che l’Europa non esiste, ne esistono tante, irriducibilmente plurali».

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della Corte costituzionale tedesca. Il giudice e il bazooka, «la Repubblica», 6 maggio; Federico Fubini, Uno schiaffo all’Europa. L’obiettivo: ridiscutere l’intero sistema anti-crisi, «Corriere della Sera», 6 maggio; Id., Così 5 Paesi limitano il piano per la ripresa, ivi, 17 maggio 2020; Alberto D’Argenio e Tonia Mastrobuoni, Bazooka Merkel-Macron, aiuti Ue per 50 miliardi, e Andrea Bonanni, Una mossa anti-sovranista, «la Repubblica», 19 maggio; Marco Zatterin, Il barlume di un’Unione solidale, «La Stampa», 19 maggio; Maurizio Molinari, Effetto Covid sulla sorte dell’Europa, «la Repubblica», 24 maggio; Bernard Guetta, I motivi per credere nell’Europa, ivi, 26 maggio; Stefano Stefanini, Fumata bianca a Bruxelles, «La Stampa», 28 maggio; Carlo Cottarelli, Un passo importante, «la Repubblica», 28 maggio; Sergio Fabbrini, Per l’Europa è arrivato il momento delle scelte, «Il Sole 24 Ore», 7 giugno.

E poi via via fino alla conclusione positiva: Federico Fubini, Recovery Fund. Vigilanza e rapidità i vincoli per i fondi, «Corriere della Sera», 22 luglio; Carlo Cottarelli, Condizioni accettabili. L’incognita siamo noi, e Maurizio Molinari, La responsabilità della ricostruzione, «la Repubblica», 22 luglio.

Conclusione positiva che non nascondeva le questioni irrisolte: in primo luogo la difficoltà di sanzionare realmente il mancato rispetto dello Stato di diritto, permanendo il vincolo dell’unanimità su questioni decisive28. Eppu28 Cfr. M. Riva, No al ricatto di Visegrad, in «la Repubblica», 21 ottobre 2020; P. Valentino, Stato di diritto, il ricatto di Orbán alla Ue, in «Corriere della Sera», 15 novembre 2020; F. Fubini - P. Valentino, Il Recovery Fund finisce ostaggio del veto ungherese e polacco, ivi, 17 novembre 2020; M. Monti, La (debole) sfida a questa Europa, ivi, 22 novembre 2020; S. Fabbrini, Il ricatto da rifiutare di Polonia e Ungheria, in «Il Sole 24 Ore», 29 novembre 2020; V. Zagrebelsky, La Ue non ceda ai sovranisti di Visegrad, in «La Stam-

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re l’importanza di quella scelta va sottolineata in tutto il suo valore. Il Recovery Fund, osservava allora Ezio Mauro, può permettere finalmente di inventare «un sovrano a quella moneta nuda che è l’euro». Ed è implicito, aggiungeva, che il potere di raccogliere sul mercato le risorse per contrastare uno stato d’eccezione possa esser utilizzato anche per altre missioni comuni (dalla green economy alla ricerca scientifica e alla difesa). In generale dunque la svolta imposta dalla crisi «può generare una nuova politica. Ora tocca alla politica generare una nuova Europa»29. Non solo alla politica, ed è necessario aggiungere che in quel frangente decisivo non fece sentire adeguatamente il proprio peso una «opinione pubblica europea», per dirla con Habermas, capace di influire sulle scelte dei governi e di orientarle nel senso della solidarietà. Ancora nell’aprile di quel 2020 non raccoglievano plebisciti gli appelli in questa direzione proposti soprattutto da intellettuali tedeschi, apertamente polemici con le incertezze e i freni posti sin lì dai loro governanti: «a cosa serve l’Unione europea – chiedevano – se ai tempi del coronavirus non dimostra che gli europei stanno insieme e lottano per un futuro comune?». Per l’Europa questa rischia di essere l’ultima possibilità per invertire la tendenza, annotava appunto Habermas30, e in pa», 9 dicembre 2020; S. Fabbrini, Polonia, Ungheria e la fragilità dell’Europa, in «Il Sole 24 Ore», 13 dicembre 2020; V. Zagrebelsky, I diritti traditi d’Europa, in «La Stampa», 28 giugno 2021; M. Bresolin, Ultimatum della Ue alla Polonia. «Rispetti le regole o pagherà», ivi, 21 luglio 2021; Morawiecki sfida l’Ue. «Bruxelles ci ricatta, la Polonia è sovrana», ivi, 20 ottobre 2021; La Polonia sfida la Ue: «Ci siamo già battuti contro il Terzo Reich», in «la Repubblica», 20 ottobre 2021; P. Valentino, Sì Ue a Varsavia e lo «Stato di diritto»?, in «Corriere della Sera», 6 giugno 2022. 29 E. Mauro, L’Europa e i nuovi nazionalismi, in «la Repubblica», 20 luglio 2020. 30 N. Truong, Habermas: l’unica cura è la solidarietà, ivi, 12 aprile 2020.

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modo convergente Peter Schneider, intervistato da «La Stampa», osservava: «Serve una risposta solidale o la Ue implode […]. L’Europa ha bisogno di un gesto forte. Siamo di fronte a una crisi esistenziale senza precedenti […]. Se il Nord non aiuta il Sud non solo perde se stesso ma perde anche il senso stesso dell’Europa […]. Siamo alla fine dell’Europa? Siamo abbastanza vicini a questa fine, questa Europa così non può sopravvivere […]. Il principio dell’unanimità è tremendo, non permette di fare assolutamente niente». Dopo aver evocato il Piano Marshall, Schneider concludeva: «c’è bisogno di queste iniziative per far ripartire l’Europa. Se l’Europa avesse agito con una risposta comune e in fretta i nazionalismi avrebbero pochi argomenti»31. Voci importanti, ma è difficile sostenere che vi sia stato realmente un moto intellettuale collettivo, di dimensione europea, capace di orientare e sollecitare le scelte della politica. E osservazioni analoghe possono essere fatte anche di fronte all’invasione russa dell’Ucraina. Al tempo stesso quell’invasione, con la messa in discussione della pace e della sicurezza dell’intero continente, ha fatto comprendere come non sia più rinviabile il nodo di una comune difesa europea, con tutte le implicazioni che questo ha. E ha riproposto il nodo dell’allargamento dell’Unione. Ha portato cioè in primo piano questioni irrisolte e al tempo stesso ha reso ineludibile un più generale «progetto di futuro». Come era prevedibile, la candidatura all’ingresso nella Ue concessa a Ucraina e Moldavia ha riacceso le spinte e le tensioni di paesi candidati da tempo o aspiranti ad esserlo: ad esempio la Serbia (filorussa, con persistenti 31 L. Tortello, Peter Schneider: «Deluso da Merkel. Senza il Sud l’Europa perde anche se stessa», in «La Stampa», 4 aprile 2020.

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tensioni con il Kosovo e ambizioni non sopite sulla parte serba della Bosnia-Erzegovina)32. E poi Albania, Montenegro, Macedonia del Nord, senza dimenticare le aspirazioni del Kosovo (la cui indipendenza continua ad esser messa in discussione, appunto, dalla Serbia, e non è riconosciuta da altri paesi della Ue)33. Lasciando pur da parte la candidata più antica, la Turchia34 (che contemporaneamente ha usato il suo potere di veto nella Nato per condizionare pesantemente l’ingresso di Svezia e Finlandia)35. Paesi in cui le istituzioni democratiche e il rispetto delle minoranze sono spesso carenti, per usare un eufemismo. 32 Spinge in questa direzione anche il leader dei serbi bosniaci, Milorad Dodik: cfr. S. Giantin, Bosnia. L’incubo di un’altra guerra, in «La Stampa», 4 novembre 2021; G. Riva, Dodik, il lupo serbo di Bosnia pronto ad infiammare i Balcani, in «L’Espresso», 5 dicembre 2021; S. Giantin, A trent’anni dall’assedio di Sarajevo Dodik soffia sul vento separatista, in «La Stampa», 10 febbraio 2022; S. Stefanini, La lunga marcia della Russia infiamma anche i Balcani, ivi, 2 agosto 2022. 33 In un recente momento di tensione fra i due paesi, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha affermato: «i serbi del Kosovo non tollereranno altre persecuzioni. Cercheremo la pace ma lasciatemi dire che non ci arrenderemo. La Serbia non è un Paese che si può sconfiggere facilmente come lo era ai tempi di Milošević». Nelle stesse ore dal ministero degli Esteri russo venivano forti pronunciamenti filoserbi: cfr. N. Caragnano, Kosovo-Serbia, scontri al confine. Mosca: «Belgrado pronta alle armi», in «la Repubblica», 1° agosto 2022; M. Minniti, Evitare una nuova Sarajevo, ivi, 2 agosto 2022; S. Giantin, Serbia-Kosovo. Blocchi, spari e valichi chiusi. Si infiammano i confini, in «La Stampa», 1° agosto 2022. 34 Cfr. ad esempio L. Veronese, La crisi ucraina allontana i Balcani dall’Unione, e G. Chiellino, Da ponderare rischi e costi dell’ingresso nel club Ue, in «Il Sole 24 Ore», 3 luglio 2022. 35 Erdoğan ha richiesto infatti che cessi l’accoglienza dei due paesi ai suoi oppositori curdi, considerati in blocco terroristi: P. Mastrolilli, Arriva il via libera di Erdogan. Svezia e Finlandia nella Nato, in «la Repubblica», 29 giugno 2022. Le conseguenze non si sono fatte attendere: cfr. M. Perosino, La Svezia cede al ricatto di Erdogan. Attivista curdo estradato in Turchia, in «La Stampa», 22 agosto 2022.

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Sergio Fabbrini ha osservato criticamente che «l’allargamento ha rappresentato il principale strumento di politica estera della Ue, in sostituzione di una vera politica estera»36, e in modo convergente Riccardo Perissich si è chiesto: è possibile «fare dell’allargamento il sostituto di una politica estera» o, al contrario, «la fedeltà ai valori che la ispirano è un elemento fondamentale a cui l’Unione non può rinunciare»?37 L’invasione stessa dell’Ucraina, ha osservato Goffredo Buccini, ci ha dato due opposti segnali. Ci ha fatto capire quanto sarebbe stata importante un’Europa più larga, comprendente anche quel paese, ma al tempo stesso – con la posizione filorussa di Orbán – quanto sia stato «prematuro inglobare membri privi di una sedimentata cultura dei diritti»38. Spesso, va aggiunto, i sostenitori di ulteriori allargamenti in tempi brevi sembrano quasi ritenere che l’ingresso nell’Unione abbia di per sé un’influenza positiva. E sembrano rimuovere sia la realtà attuale di molti paesi sia riflessioni critiche sul passato proposte da più voci: l’Europa – annotava Massimo Riva qualche anno fa – vive «una sorta di coma politico» proprio per il «grave errore di aver spalancato le porte del Consiglio europeo senza curarsi di adeguare criteri e meccanismi dei processi decisionali»39. E senza considerare la forza delle pulsioni nazionalistiche che convi36 S. Fabbrini, L’Ucraina e il dilemma dell’Unione allargata, in «Il Sole 24 Ore», 3 aprile 2022. Osservazioni analoghe erano state avanzate già prima dell’invasione dell’Ucraina: cfr. Id., Ecco perché l’Europa rimane divisa fra Est e Ovest, ivi, 17 novembre 2019, e Id., L’Europa apra le porte solo alle vere democrazie, ivi, 25 luglio 2021. 37 Perissich, Stare in Europa cit., p. 137. 38 G. Buccini, L’Europa che cambia marcia, in «Corriere della Sera», 10 giugno 2022. 39 M. Riva, Gli strani veti di Parigi, in «la Repubblica», 12 novembre 2019; cfr. inoltre Id., L’Unione e il paradosso di Bucarest, ivi, 8 gennaio 2019.

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vevano con una adesione alla Ue talora strumentale, connessa in primo luogo ai vantaggi economici che ne sarebbero derivati40. Per superare l’impasse è stata avanzata da tempo, e in più forme, l’ipotesi di un’Europa «a due velocità»41: ipotesi ragionevole e fondata, a patto che la direzione ultima di marcia sia davvero la stessa. A patto cioè che le «due velocità» non nascondano divisioni sulle finalità stesse del processo di integrazione42. Di questa e di altre obiezioni sembra tener conto la recente proposta di Emmanuel Macron volta a far procedere insieme «allargamento» e «approfondimento». Volta a dar vita da un lato a una Comunità politica europea ampia (senza escludere neppure chi ne fosse uscito in precedenza, come l’Inghilterra) e dall’altro a una revisione dei trattati dell’Unione che ne approfondisca l’integrazione introducendo modifiche significative. In primo luogo abolendo l’obbligo dell’unanimità nelle materie in cui esso è previsto, attribuendo nuovi poteri di iniziativa legislativa al Parlamento europeo e fissando nuovi traguardi comuni per «clima, lavoro, crescita e giustizia sociale»43. Proposta consonante con ipotesi già avanzate ma contrastata subito da tredici Stati. E se l’abolizione del vincolo dell’unanimità appare ormai condizione preliminare (ma non facilmente raggiungibile) per ogni discussio40 S. Romano, Nazionalismi: per la Ue un malinteso da risolvere. Anche con il divorzio, in «Corriere della Sera», 16 maggio 2021. 41 J.-C. Juncker, Velocità diverse, stessa direzione, in «Europa», inserto speciale de «La Stampa», 23 marzo 2017. Juncker era allora presidente della Commissione europea. 42 S. Fabbrini, Attenti all’elefante che si aggira a Bruxelles, in «Il Sole 24 Ore», 19 marzo 2017. 43 S. Montefiori, Inclusione e voto a maggioranza. La «Nuova Europa» di Macron, in «Corriere della Sera», 10 maggio 2022; M. Ferrera, L’identità (più forte) della Ue, ivi, 5 luglio 2022.

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ne sul futuro44, i contorni di un possibile percorso appaiono ancora molto incerti. Più in generale, sullo sfondo delle pulsioni a ulteriori allargamenti dell’Unione sembra esserci anche un’insicurezza profonda: o meglio, sembra esserci «il dato centrale […] della situazione storica dell’Europa nel 1945 e nei decenni successivi: vale a dire la sua decadenza»45. Il giudizio di Ernesto Galli della Loggia poté forse sembrare «estremo» nel momento in cui fu formulato, quasi vent’anni fa, ma ben prima della devastante «era Trump» l’indebolirsi dell’asse transatlantico ci ha costretti progressivamente a non rimuoverlo. Ci ha costretti a riconoscere, anche, che l’Europa era sin lì cresciuta in qualche modo à l’abri per dirla ancora con il presidente Macron. Al riparo cioè dal resto del mondo, essendo la sua sicurezza garantita dagli Stati Uniti d’America: ora non è più interamente così, anche se tardiamo a trarne le conseguenze46. Alla domanda di fondo dobbiamo dunque ritornare: che Europa vogliamo costruire? Quali sono le vie per superare quell’addensarsi di difficoltà e problemi che abbiamo qui solo evocato? E in questo più ampio scenario quali sono le responsabilità e i compiti della cultura? 44 S. Cappellini, Letta: «La Ue svolta se toglie il diritto di veto. Presto a Kiev i 5 leader dei Paesi più grandi», in «la Repubblica», 5 maggio 2022; E. Galli della Loggia, Il rilancio europeo, in «Corriere della Sera», 20 giugno 2022; F. Basso - M. Gabanelli, Il diritto di veto paralizza l’Unione, ivi, 27 giugno 2022. 45 E. Galli della Loggia, L’Europa come problema, in Petracchi (a cura di), Vaghe stelle d’Europa cit., p. 20. 46 Cfr. A. Bolaffi, La fine dell’era transatlantica e la solitudine d’Europa, in Bolaffi - Crainz (a cura di), Calendario civile europeo cit., pp. 465-73, da cui traggo anche questo giudizio; cfr. inoltre J. S. Mongrenier, Du «British Exit» à l’«American Brexit»: les perspectives incertaines d’une défense européenne autonome, in «Hérodote», 1° trimestre 2017, 164, pp. 179-8.

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All’indomani dell’allargamento a Est, Peter Schneider doveva annotare amaramente: non viviamo affatto «un clima comparabile al grande e fecondo scambio di idee del dopoguerra democratico dell’Europa occidentale, che unì e animò intellettuali tedeschi e francesi, inglesi e italiani […]. Oggi sembra rimanere in piedi una sorta di Cortina di ferro senza il comunismo». Anche per questo, concludeva, «la memoria divisa dell’Europa è un problema centrale» ma «su di essa – e sulle sue conseguenze per il presente e il futuro – manca un dialogo»47. Sedici anni dopo quel dialogo continua largamente a mancare, eppure la «memoria divisa» d’Europa è un nodo ancor più centrale di quanto Schneider potesse intendere all’inizio del 2006: da allora infatti ad ampliare e approfondire quella divisione si sono impegnate in modo crescente forze politiche e leader antieuropei e sovranisti, o accesamente nazionalisti. Forze politiche e leader che hanno fatto della «politica della storia» un asse fondamentale della loro azione, in omaggio alla massima orwelliana: «chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato». Non sono certo mancate e non mancano nei differenti paesi energie intellettuali impegnate a contrastare queste derive, come vedremo, ma spesso non hanno trovato il convinto sostegno che sarebbe stato e sarebbe necessario48. Con molte ragioni lo storico polacco Basil Kerski ha osservato che il restringersi della «cultura critica della memoria» 47 P. Schneider, Il «Muro» della nuova Europa, in «la Repubblica», 8 gennaio 2006. 48 Cfr. almeno M. Riva, Aria di primavera ad Oriente, ivi, 26 novembre 2019, e W. Goldkorn, Esiste un’altra Polonia, ivi, 14 luglio 2020. Sul crescere delle misure antidemocratiche cfr. almeno A. Michnik, Il bavaglio della Polonia, ivi, 10 marzo 2021; F. Bianchi, Qui muore l’Europa, in «L’Espresso», 25 aprile 2021; Id., Buio a Lubiana, ivi, 20 giugno 2021.

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mette in pericolo la solidità stessa dell’Europa, e ha aggiunto: spesso all’opinione pubblica occidentale vengono presentate le deformazioni delle «politiche della storia» dei partiti sovranisti dell’Europa centro-orientale ma sono «raccontati» molto meno gli sforzi di molti – politici, storici, artisti e organizzatori di Musei – per opporsi a queste derive49. Una «omissione» grave: forse anche per questo non è cresciuta in modo adeguato in questi anni una rete di relazioni culturali capace di porre freni alle derive. Capace di rilanciare con forza iniziative pluralistiche volte a far dialogare le differenti sensibilità e memorie. Forse non vi è stata neppure consapevolezza della reale posta in gioco. Il «demos» europeo, annotava molti anni fa Gian Enrico Rusconi, non è un dato ma un processo da costruire. Esattamente come «non c’è una etnonazione falsamente omogenea ma una società civile che si fa nazione comunicando al proprio interno»50. Un «plebiscito di ogni giorno», come Ernest Renan diceva della nazione, che ha il suo perno in un continuo dialogo di memorie, di culture e di narrazioni. Fondamentale, in un momento in cui sembrano prevalere il rancore, la contrapposizione o l’indifferenza di fronte alle derive. Fondamentale per l’oggi, e ancor più in proiezione futura: è difficile costruire Europa se in alcuni paesi viene proposta una visione del passato segnata da chiusure nazionalistiche e da contrapposizioni più che da dialoghi e inclusioni. Una visione «dettata» 49 La riflessione di Kerski, direttore dello European Solidarity Centre di Danzica, è riferita in particolare all’opinione pubblica tedesca, ma può essere estesa più ampiamente: cfr. B. Kerski, Europäische Lektionen. DeutschPolnische Essays, dpgb, Berlin 2018, in particolare pp. 9-19. 50 G. E. Rusconi, Cittadinanza e Costituzione, in L. Passerini (a cura di), Identità culturale europea. Idee, sentimenti, relazioni, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 141.

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spesso, nelle più differenti forme pubbliche e mediatiche, dai leader politici sovranisti e illiberali e dalle forze intellettuali che ne condividono l’ispirazione. Accompagnata inoltre, a Ovest come a Est, da più sotterranee insensibilità nei confronti di altri vissuti e di altre memorie. Anche per questo è centrale la capacità di riflettere insieme sulle ferite, i traumi, le lacerazioni della storia europea: partendo in primo luogo dai percorsi già intrapresi, dai passi in avanti compiuti e dai momenti di confronto pur avviati. Interrogandosi al tempo stesso sulle inversioni di tendenza che vi sono state e sulle chiusure nazionalistiche che sono riemerse, talora in forme nuove.

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Parte seconda Dialoghi difficili, nazionalismi e usi pubblici della storia

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OMBRE D’EUROPA

I.

La controversa Europa delle memorie

Nasce per superare tragiche ferite, la costruzione dell’Europa, all’insegna del «mai più guerre fra noi». Nel luglio del 1962 c’è l’Europa nella cattedrale di Reims ove Charles de Gaulle e Konrad Adenauer partecipano insieme a una messa solenne per la pace, nel percorso che l’anno dopo porterà al Trattato franco-tedesco dell’Eliseo1. E nel 1984 c’è l’Europa nel cimitero di Verdun, dove François Mitterrand e Helmut Kohl si tengono per mano ricordando insieme i caduti di entrambe le parti2: suscita ancor oggi emozione, quell’immagine, eppure erano passati settant’anni dall’inizio della prima guerra mondiale. E dieci anni dopo, alla fine del suo secondo mandato, Mitterrand sapeva di sfidare una parte dell’opinione pubblica francese facendo sfilare il 14 luglio ai Campi Elisi soldati e carri armati tedeschi dell’Eurocorpo. Quella scelta, coronata da un successo che non tutti si aspettavano3, era esplicitamente volta a superare anche una ferita più recente. Poco prima infatti 1 Luogo simbolico, Reims: il 7 maggio del 1945 era stata firmata qui la capitolazione della Germania. 2 «L’Europa è la nostra patria culturale – affermava la dichiarazione di Mitterrand e di Kohl – […] l’unità dell’Europa è il nostro obiettivo comune. Per esso operiamo in uno spirito di fraternità». 3 G. Martinotti, I tedeschi marciano in pace, in «la Repubblica», 15 luglio 1994.

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la Germania era stata esclusa dalle celebrazioni dello sbarco in Normandia: in questo modo – affermava polemicamente un appello di intellettuali francesi e tedeschi – da esse «veniva esclusa non solo la Germania ma anche l’Europa»4 (dieci anni dopo quell’errore non sarà ripetuto). Non vi sarebbe stata realmente Europa, va aggiunto, senza quel profondo ripensamento tedesco del proprio passato che ha il suo simbolo nell’immagine di Willy Brandt inginocchiato nel ghetto di Varsavia, nel dicembre del 1970: e Brandt era in Polonia per firmare il trattato che riconosceva il confine tracciato al termine della seconda guerra mondiale. Due anni dopo vi è la prima conferenza tedescopolacca sui libri di scuola patrocinata dall’Unesco, nella quale viene costituita la prima commissione comune di storici (pur limitata da pesanti condizionamenti polacchi)5. Anche in questo caso la memoria chiama in causa il passato e il futuro, rinvia a una molteplicità di percorsi precedenti e successivi. In primo luogo al rapporto dei tedeschi con la Shoah: un rapporto inizialmente rimosso (sia pure in forme diverse) nelle due Germanie ricostruite sulle macerie e sostituito spesso, allora, dalla visione dei tedeschi come vittime. Vittime di Hitler (cancellando ogni corresponsabilità) ma anche dei bombardamenti alleati che distruggevano le città, della feroce avanzata dell’Armata rossa e delle drammatiche vicende dell’immediato dopoguerra6. 4 A. Tarquini, Ma alla Germania hanno detto no, ivi, 20 aprile 1994; B. Valli, Kohl e lo sgarbo normanno, ivi, 7 giugno 1994. 5 A. Bazin, Produire un récit commun: les commissions d’historiens, acteurs de la réconciliation, in G. Mink - L. Neumayer (sotto la direzione di), L’Europe et ses passés douloureux, La Découverte, Paris 2007, pp. 109 sgg.; M. Cattaruzza - S. Zala, Negoziare la storia? Commissioni storiche bilaterali nell’Europa del XX secolo, in «Storia della storiografia», 2004, 45, pp. 129-55. 6 R. G. Moeller, Germans as Victims?, in «History and Memory», 2005, 1-2.

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Inizia solo alla fine degli anni sessanta un percorso che ha avuto molti altri momenti simbolici dopo quel 1970 (nonostante i sussulti «revisionistici» che provocarono l’Historikerstreit degli anni ottanta)7: dal discorso del 1985 con cui il presidente Richard von Weizsäcker consacrava definitivamente l’8 maggio di quarant’anni prima come Tag der Befreiung – giorno della Liberazione8 – sino al 1990. È ancora Weizsäcker, allora, a deporre fiori nel ghetto di Varsavia e nel campo di sterminio di Treblinka, alla vigilia degli accordi che confermano in via definitiva i confini decisi nel 1945 e pongono fine alle tensioni che erano riemerse dopo la riunificazione della Germania9. E nel 1994 il presidente Roman Herzog, invitato alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’insurrezione di Varsavia, pronuncia parole intense: «Costruiamo il futuro insieme: non possiamo fare di meglio per i nostri figli. Noi ex nemici vi condurremo nell’Europa unita. Incontriamoci, chi ha bisogno di perdono e chi è pronto a perdonare»10. Sono solo alcuni momenti del processo che giunge sino al Denkmal für die ermordeten Juden Europas (Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa) inaugurato nel 2005 nel cuore di Berlino. Preceduto e accompagnato da una ricca e intensa discussione sui «modi del ricordare» che porta anche alle Stolpersteine: le «pietre d’inciampo» che l’artista tedesco Gunter Demnig va ponendo da 25 anni in Germania e in tutta Europa – con una presenza mol7 G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non vuole passare, Einaudi, Torino 1987. 8 I dissensi non mancarono né allora né in seguito: cfr. H. Knabe, Tag der Befraiung?, Propyläen, Berlin 2005. 9 T. Snyder, The Reconstruction of Nations. Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999, Yale University Press, New Haven-London 2003. 10 A. Tarquini, «Polonia, perdonaci», in «la Repubblica», 2 agosto 1994.

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to significativa dell’Italia – davanti alle case di chi fu deportato11. E nel 2020 la Repubblica Federale Tedesca ha dedicato una moneta da 2 euro al 50° anniversario del Kniefall von Warschau (la genuflessione di Varsavia)12: l’immagine di Brandt inginocchiato è accompagnata dal candeliere a 7 bracci e dall’evocazione delle vittime del ghetto. La capacità di fare dolorosamente i conti con il proprio passato rivendicata come parte costitutiva della propria identità nazionale. Ritorniamo però al discorso del 1994 del presidente Herzog perché ci conduce a un grande dramma rimosso e al tempo stesso indica nell’Europa il «luogo» per superarlo. Herzog riprendeva infatti alla lettera l’appello rivolto nel 1965 dall’episcopato polacco a quello tedesco, «noi perdoniamo e chiediamo perdono»: perdoniamo i crimini del nazismo, e chiediamo perdono per le feroci espulsioni di tedeschi del secondo dopoguerra. Avevano mutato il volto dell’Europa, quei forzati esodi: decisi nell’estate del 1945 alla Conferenza di Potsdam ma iniziati sul finire della guerra, sull’onda dell’avanzare dell’Armata rossa. Annunciati da Churchill già nel dicembre del 1944 alla Camera dei Comuni: le espulsioni dei tedeschi dall’Europa centro-orientale, aveva detto, sono «il metodo più duraturo e soddisfacente» per porre fine a «miscugli di popoli, causa di guai interminabili». Dodici, tredici milioni di tedeschi che vivevano da generazioni in quelle aree (ben oltre quelli trasferiti da Hitler durante la guerra per «germanizzarle»): espulsi dalla Polonia (8 milioni), dalla Cecoslovacchia (3 milioni, in larga 11 R. Robin, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria, ombre corte, Venezia 2005; A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli, Roma 2014. 12 Ho visto (con emozione) quella moneta grazie all’amicizia di Massimo Storchi.

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parte dai Sudeti), dall’Ungheria, dalla Jugoslavia, dalla Romania. Si aggiungano le espulsioni di ungheresi dalla Cecoslovacchia e altri processi ancora: in questo stesso scenario si colloca anche l’esodo degli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. E si collocano i conflitti feroci fra ucraini e polacchi in Galizia orientale e Volinia, con le espulsioni reciproche da aree ove avevano convissuto per secoli13. Sullo sfondo, le lacerazioni inasprite dalle vicende stesse della seconda guerra mondiale, con le alterne avanzate delle truppe naziste e sovietiche, e gli spostamenti dei confini decisi all’indomani di essa. In primo luogo il drastico «spostamento» verso occidente della Polonia, mutilata a est a favore dell’Urss e «compensata» a ovest con vaste aree prima tedesche. Sullo sfondo, anche, questioni irrisolte che rinviano agli stessi trattati di pace della prima guerra mondiale (prima fra tutte la questione dei Sudeti)14. Si guardino nel loro insieme le tragedie che travolgono quest’area. Fra la fine degli anni trenta e la fine degli anni quaranta, ha scritto Johanna Nowicki, «il cuore dell’Europa multietnica, multiconfessionale e poliglotta» viene drammaticamente stravolto e snaturato: lo sterminio degli ebrei, gli spostamenti forzati di popolazioni e in molti paesi l’eliminazione delle minoranze15. Intere società sono 13 Cfr. almeno T. Snyder, Il problema ucraino. La pulizia etnica in Polonia, 1943-47, in M. Buttino (a cura di), In fuga. Guerre, carestie e migrazioni forzate nel mondo contemporaneo, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2001, pp. 49-80. 14 Su questi aspetti qui e in seguito rinvio a G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2008, e a A. Ferrara - N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, il Mulino, Bologna 2012. 15 J. Nowicki, Les différences de réalités et de perceptions entre Européens de l’Est e de l’Ouest, in Arjakovsky (sotto la direzione di), Histoire de la conscience européenne cit., p. 236.

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scomparse – ha aggiunto Karl Schlögel –, «interi paesaggi sono stati cancellati, intere regioni e città hanno visto spostare i loro abitanti da un giorno all’altro […] fu nel corso di questo processo che scomparve l’ebraismo europeo e che si verificò la maggior operazione di deportazione e allontanamento della storia moderna […]. Com’è possibile che la catastrofe rappresentata dalla fine dell’est tedesco ci tocchi così poco?»16. Uno sconvolgimento profondissimo dunque, che distrugge quel carattere multietnico e multiculturale che era stato la ricchezza e il patrimonio profondo di questo «cuore dell’Europa»17. Si legga la storia di Wrocław, ora polacca (la vecchia Breslau, prevalentemente tedesca), magistralmente ricostruita da Norman Davies e da Roger Moorhouse18. Si scorrano le pagine in cui Czesław Miłosz evoca la città della sua giovinezza: «i polacchi dicono Wilno, i lituani Vilnius, i tedeschi e i bielorussi Vilna», e gli ebrei europei la chiamavano «la Gerusalemme del nord, e a ragione la consideravano la loro capitale culturale»19. Si leggano anche le pagine in cui evoca il 1945: «i pochi giorni trascorsi in un villaggio presso Danzica in autunno, quando i tedeschi venivano espulsi, hanno lasciato in me disgusto e tristezza. Una certa Müller, che invano si appellava al fatto di aver nascosto prigionieri alleati, si suicidò assieme ai suoi bambini gettandosi nella Vistola. Pressappoco in quel periodo, in quello stes16 K. Schlögel, Arcipelago Europa. Viaggio nello spirito delle città, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 246. 17 Cfr. anche il bellissimo libro di Claudio Magris, Danubio, Garzanti, Milano 1990, con le considerazioni dedicate a questi aspetti: in particolare pp. 32, 343 sgg., 358 sgg., 362 sgg. 18 N. Davies - R. Moorhouse, Microcosmo. L’Europa centrale nella storia di una città, Bruno Mondadori, Milano 2005. 19 C. Miłosz, La mia Europa, Adelphi, Milano 1985, pp. 72 e 112.

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so villaggio, morì di tifo mia madre, che a sua volta aveva perso, a oriente, la sua patria lituana»20. Si consideri infine Königsberg – la città di Kant e dove è cresciuta Hannah Arendt –, duramente colpita dai bombardamenti inglesi nella seconda guerra mondiale e poi conquistata dall’Armata rossa e annessa all’Urss: è diventata Kaliningrad e i tedeschi ne sono stati espulsi21. Oggi è una exclave russa fra Polonia e Lituania: non vi sono antiche biblioteche ma i missili di Putin puntati sui paesi baltici (molti lo hanno «scoperto» solo nelle emergenze recenti). Lacerazioni profondissime, e il loro superamento è stato e in parte è un altro nodo decisivo del necessario «dialogo di memorie». In Polonia il lungimirante appello dell’episcopato, a lungo inascoltato, fu ripreso negli anni ottanta da intellettuali ed esponenti di Solidarność22. E dopo il 1989 il dialogo crescerà con forza23: è appunto Lech Wałęsa a invitare Herzog alle celebrazioni del 1994, sfidando le critiche (e sostenuto da voci significative, da Adam Michnik allo scrittore Andrzej Szczypiorski)24. L’anno dopo pronuncia parole importanti il ministro degli Esteri polac20

Ibid., p. 271. V. Parisi, Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte, Prefazione di F. Cataluccio, Exòrma, Roma 2019. 22 «Nonostante tutti i nostri risentimenti – dirà ad esempio Jan Józef Lipski – dobbiamo fare nostro quest’appello». E aggiungerà, rompendo un tabù: «abbiamo contribuito a derubare milioni di tedeschi della loro patria»: J. J. Lipski, Examen de conscience, in «Esprit», marzo 1982, pp. 16-33. 23 All’indomani della riunificazione tedesca è firmato il trattato che riconosce definitivamente i confini, e nel nuovo clima la commissione tedescopolacca sui libri di storia vede cadere vincoli e censure. 24 A. Tarquini, A Varsavia, 50 anni dopo, in «la Repubblica», 1° agosto 1994. Szczypiorski aveva partecipato all’insurrezione di Varsavia ed era stato poi internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen (di lui si veda almeno La bella signora Seidenman, Adelphi, Milano 1988, ambientato nella Varsavia del 1943). 21

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co Władysław Bartoszewski, che aveva conosciuto sia Auschwitz che le persecuzioni del regime comunista del suo paese: parlando al Parlamento tedesco esprime apertamente il rimorso del suo popolo per le sofferenze inflitte nel 1945 a tedeschi innocenti. Atti di profondo significato eppure in quello stesso periodo un sondaggio rivelava che meno del 30% dei polacchi era interamente d’accordo con l’appello dei vescovi: poco più del 20% non era disposto né a perdonare né a chiedere perdono mentre la maggioranza era disposta a perdonare ma riteneva che la Polonia non avesse nulla di cui chiedere perdono. Questo è lo scoglio vero, chiedere perdono: fare i conti con le proprie responsabilità storiche e civili. I rapporti fra Polonia e Germania mostrano al tempo stesso che sono sempre possibili passi indietro, con il riemergere di diffidenze e chiusure. Spinsero in questa direzione le organizzazioni dei profughi tedeschi guidate da Erika Steinbach, con le richieste di restituzione dei beni e con la proposta di un «Centro contro le espulsioni» a Berlino dall’impostazione fortemente unilaterale25. E nel 2004 contribuì alla tensione la richiesta della Dieta polacca alla Germania di risarcimenti per i danni di guerra, assecondando gli umori che porteranno al primo governo di Diritto e Giustizia guidato da Jarosław Kaczyński26. Con la 25 Cfr. P. Lutomski, The Debate about a Center against Expulsions: An Unexpected Crisis in German-Polish Relations?, in «German Studies Review», XXVII, 2004, 3, pp. 449-68. Un ampio fronte di intellettuali tedeschi e polacchi propose allora una diversa localizzazione: ad esempio a Wrocław, che aveva visto sia le espulsioni dei tedeschi che i flussi di polacchi provenienti dalle aree orientali annesse all’Urss. Cfr. inoltre il catalogo della mostra organizzata nel 2006 a Berlino dall’Associazione dei profughi tedeschi: Erzwungene Wege. Flucht und Vertreibung im Europa des 20. Jahrunderts, Zentrum gegen Vertreibung, Berlin 2006. 26 A. Tarquini, «Berlino paghi per gli orrori di Hitler». Varsavia, il Parlamento chiede risarcimenti alla Germania, in «la Repubblica», 12 settem-

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sconfitta di esso, e con i governi guidati dal 2007 da Donald Tusk e da Piattaforma civica, la situazione muta ancora, in questo caso positivamente: proprio a partire da questo nodo, come vedremo, si avvierà una riflessione più generale sulla seconda guerra mondiale27, mentre il passato tedesco delle città ora polacche ha iniziato ad essere reintegrato nella memoria collettiva28. Sono di grande interesse anche i rapporti fra polacchi e ucraini dopo le lacerazioni profondissime della guerra e del dopoguerra, e in questo caso l’invasione russa dell’Ucraina ha mostrato bene quanto quel dialogo sia stato prezioso. Colpisce la straordinaria preveggenza di una rivista dell’emigrazione polacca, «Kultura». Sin dagli anni settanta essa partì dall’accettazione dei confini esistenti: considerò cioè definitivamente persi dalla Polonia i territori annessi alle repubbliche sovietiche dell’Ucraina, della Lituania e della Bielorussia. E ipotizzò quel che allora pareva utopia, il loro costituirsi come Stati sovrani nel crollo dell’Unione Sovietica: Stati con cui dialogare, con cui costruire futuro. Anche in questo caso inoltre furono voci del mondo cattolico a rivolgere a ucraini, lituani e bielorussi l’appello che era stato rivolto ai tedeschi: «perdoniamo e chiediamo perdono»29. Negli anni ottanta la posiziobre 2004; Kerski, Europäische Lektionen cit., pp. 21-31; R. Traba, Memorie asimmetriche. Il passato polacco-tedesco deve ancora passare, in «limes», 2014, 1, pp. 101-12. 27 Rinvio fin d’ora a P. Machcewicz, The War That Never Ends. The Museum of the Second World War in Gdansk, De Gruyter, Berlin-Boston 2019. 28 Cfr. U. Blacker, Living Among the Ghosts of Others: Urban Postmemory in Eastern Europe, in U. Blacker, A. Etkind, J. Fedor, Memory and Theory in Eastern Europe, Palgrave Macmillan, New York 2013, pp. 173-94. 29 Lo fece padre Jan Zieja già nei primi anni settanta: cfr. Snyder, The Reconstruction of Nations cit., p. 227.

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ne di «Kultura» fu assunta dall’insieme di Solidarność. E nel 1989 Adam Michnik porterà il suo sostegno all’indipendenza ucraina al congresso di fondazione del Rukh, movimento nazionalista di quel paese. La Polonia sarà poi la prima a riconoscerla e aprirà così la via a sviluppi ulteriori, a partire dal trattato polacco-ucraino del 199230. A promuovere «verità e riconciliazione» vi sono anche Karta, rivista e organizzazione fondata in clandestinità nel 1982, e la sezione ucraina della russa Memorial. E nel 1994 un seminario di storici polacchi e ucraini si conclude con un appello a proseguire gli sforzi di dialogo. Proseguiti realmente poi in varie forme, sia pur fra grandi difficoltà, evocando anche i nodi più irti. Da un lato la pulizia etnica e gli eccidi compiuti su larga scala in Volinia e nella Galizia orientale dall’«Esercito rivoluzionario ucraino» nazionalista – l’Upa di Stepan Bandera –, che combatté al fianco dei nazisti. D’altro lato le ferocie contrapposte, sino agli spostamenti forzati di ucraini in altre parti della Polonia nel 1947 (l’«operazione Vistola»)31. Anche il dialogo istituzionale è proseguito (pur esposto al mutare dei climi politici e all’evolversi dello scontro all’interno dei due paesi)32: nel 1997, ad esempio, il presidente polacco Aleksander Kwásniewski e il presidente ucraino Leonid Kučma sottoscrivono una solenne «Dichiarazione di Riconciliazione». E nel giugno del 2005 a Leopoli Kwásniewski e Viktor Juščenko inaugurano insieme due opposti memoriali che evocano i conflitti armati fra polacchi e ucraini all’indo30

Per una accurata ricostruzione cfr. ibid. Rinvio ancora a Id., Il problema ucraino cit. Anche su questo tema pesano le differenti realtà che compongono l’Ucraina: cfr. A. Portnov, Memory War in Post Soviet Ucraine (1991-2010), in Blacker, Etkind, Fedor (a cura di), Memory and Theory in Eastern Europe cit., pp. 233-54. 31 32

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mani della prima guerra mondiale. «Ciascuno ha dovuto dare legittimità alla storia, al patriottismo e all’orgoglio nazionale dell’altro» – hanno sottolineato Andrea e Paolo Morawski: «“Grazie per aver trovato il coraggio di venire qui […], il coraggio di un vero europeo” si sono detti a vicenda i due capi di Stato»33. Un percorso esposto anche a passi all’indietro, come s’è detto, inevitabilmente accentuati dopo il ritorno al potere di Diritto e Giustizia, nel 2015. O dopo la riabilitazione e la celebrazione in Ucraina di Stepan Bandera e dell’Upa34. Nodi irti, questioni laceranti e non dimenticate: eppure è facile comprendere quanto quel dialogo sia stato importante per entrambi i paesi e per il futuro stesso dell’Europa35. E quanto i «conflitti di memoria» (o «politiche 33 Da un lato «il memoriale dei soldati ucraini dell’armata galiziana che combatterono nel 1918-19 contro i polacchi nel tentativo (fallito) di […] creare uno Stato ucraino indipendente e libero». Dall’altro «il memoriale di circa tremila soldati e cittadini polacchi […] che difesero la loro città, allora a maggioranza polacca, contro gli ucraini nel tentativo riuscito per un ventennio di conservare Lwóv, oggi L’viv, alla Polonia»: A. Morawski - P. Morawski, Polonia mon amour. Dalle Indie d’Europa alle Indie d’America, Ediesse, Roma 2006, p. 26; P. Morawski, Acqua sulle sciabole. Polonia e Ucraina, in Crainz, Pupo, Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace cit., pp. 39-74; A. Paczkowski, Pologne et Ucraine. Quéstions délicates, réponses difficiles, in Mink - Neumayer (sotto la direzione di), L’Europe et ses passés douloureux cit., pp. 143-55. 34 Sul clima in cui maturano queste scelte cfr. almeno F. Bettanin, Putin e il mondo che verrà. Storia e politica della Russia nel nuovo contesto internazionale, Viella, Roma 2018, pp. 285 sgg.; cfr. inoltre Portnov, Memory War cit., pp. 239-40; M. J. Cordes, Polonia e Ucraina. Storie contro, in «limes», 2022, 2, La Russia cambia il mondo, pp. 132-5. Sull’uso di questo aspetto da parte di Putin cfr. i saggi di Simone Attilio Bellezza e di Alexis Berelowitch in Ucraina. Assedio alla democrazia, a cura di Memorial Italia, coordinamento di M. Flores, Rizzoli, Milano 2022. Va ricordato al tempo stesso che l’aspirazione di Bandera a uno Stato indipendente ucraino gli costò anche una prigionia non breve nel campo di concentramento nazista di Sachsenhausen. 35 Lo annotava bene già nel 2014 Basil Kerski in 1989, 2004, 2014: Zeiten des Umbruchs, ora in Id., Europäische Lektionen cit., pp. 65-71; M. J. Cordes,

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della storia» nazionalistiche) possano invece indebolire quel processo. Oggi molte questioni sin qui trattate possono apparire quasi ininfluenti o «accademiche», ma non è così: certo, il futuro va costruito in primo luogo su altri terreni e con altri strumenti, ma può avere basi solide e durature solo facendo crescere al tempo stesso il dialogo culturale e la capacità di misurarsi, insieme, con un passato doloroso. È necessario farlo con tutti gli strumenti possibili: dal confronto fra storici alle differenti forme pubbliche di «comunicazione della storia». E naturalmente, anche al di là della loro effettiva influenza, sono preziose tutte le esperienze di confronto all’interno stesso dell’Ucraina, come quelle promosse fra 2011 e 2012 da Nova Doba, associazione panucraina degli insegnanti di storia con il sostegno di istituzioni tedesche e olandesi. Fra esse un libro di testo realizzato in collaborazione con EuroClio (European Association of History Educators, fondata nel 1992 con il sostegno del Consiglio d’Europa): Insieme in una sola terra. La storia multiculturale dell’Ucraina. Esperienze di ieri ma forse anche semi preziosi per un futuro oggi quasi impensabile36. Suggerisce ulteriori riflessioni poi il caso della Cecoslovacchia. La prima critica alle espulsioni e agli espropri di tedeschi e ungheresi (sanciti nel 1945 dai decreti Beneš) è venuta qui da intellettuali legati al «Nuovo corso» di Alexander Dubčeck e poi a Charta 77: furono la prima Polonia e Ucraina. Storie contro, in «limes», 2022, 2, pp. 129-38; W. Goldkorn, Varsavia e i suoi vicini: un passato che sta passando, ivi, 2002, 3, Il triangolo di Osama. Usa/Russia/Cina, pp. 121-6. 36 P. Verbytska, Memoria storica e costruzione del consenso attraverso l’insegnamento della storia. Ucraina, Moldavia e Russia, in L. Blanco - C. Tamanini (a cura di), La storia attraverso i confini. Esperienze e prospettive didattiche, Carocci, Roma 2015, pp. 243-58.

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violazione della legalità, dei diritti umani e del diritto di proprietà – osservò lo storico slovacco Ján Mlynárik – e di fatto prepararono la via al «colpo di Stato» comunista del 1948. Convergenti osservazioni vennero dagli storici che utilizzarono lo pseudonimo di «Boemus», e iniziò così una importante stagione di studi37. Con la caduta del regime comunista le parole del dissenso diventarono anche qui «parole di governo» e nel gennaio del 1990 Váklav Havel, nel suo primo viaggio presidenziale in Germania, pronunciò scuse pubbliche per quelle espulsioni. Parole che suscitarono forti dissensi nel suo paese, tanto che un quotidiano italiano titolò Scuse ai tedeschi dei Sudeti. Prima gaffe di Havel: un errore di giudizio clamoroso e al tempo stesso rivelatore38. Seguirono altre iniziative, sino alla Dichiarazione ceco-tedesca del 1997 che condannava sia i crimini dei nazisti sia le espulsioni dei tedeschi, e operarono anche commissioni storiche bilaterali che pubblicarono volumi importanti39: eppure un’indagine svolta allora rivelò che il 75% dei cechi giustificava interamente o largamente le espulsioni40. Non mancarono altri momenti di contrasto, connessi anche in questo caso alle iniziative delle associazioni degli esuli tedeschi e più in generale al 37 Cfr. E. Glassheim, The Mechanics of Ethnic Cleansing: The Expulsion of Germans from Czechoslovakia, 1945-47, in Ph. Ther - A. Siljak (a cura di), Redrawing Nations. Ethnic Cleansing in East-central Europe, 1944-1948, Rowman and Littlefield Publishers, Boston 2001, pp. 208-19. 38 Cfr. «la Repubblica», 6 gennaio 1990. Havel espresse gli stessi concetti in una intervista alla televisione cecoslovacca, «un gesto che innumerevoli connazionali non gli perdonarono»: cfr. Spinelli, Il sonno della memoria cit., pp. 80-1. 39 Cfr. ad esempio D. Brandes, E. Ivaničková, J. Pešek (a cura di), Erzwungene Trennung, Klartext Verlag, Essen 1999. 40 M. Kunštát, Czech-German Relations after the Fall of the Iron Curtain, in «Czech Sociological Review», VI, 1998, 2, pp. 149-72.

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riemergere dei nazionalismi. E si riaprirono le tensioni sugli stessi «decreti Beneš», di cui fu chiesta l’abolizione da un fronte che andava dalla Cdu e dalla Csu bavarese al partito austriaco di destra e xenofobo di Jörg Haider. Sul versante opposto quei decreti, pur condannati dalla Dichiarazione ceco-tedesca del 1997, furono difesi poco dopo dal premier ceco Miloš Zeman e dal presidente Václav Klaus, succeduto ad Havel: «l’affermarsi di climi e partiti neonazionalisti – annotava Barbara Spinelli – ha certamente fatto precipitare la situazione»41. Nelle forme più diverse dunque si intrecciano sulla scena atti istituzionali simbolici e mutamenti dei climi politici, memorie radicate nelle comunità nazionali e la necessità di superarne le unilateralità e asprezze. Ed emerge un nodo di fondo: spesso infatti gli orientamenti di apertura e di dialogo adottati dalle élites intellettuali e dai capi di Stato o di governo sembrano faticare enormemente nel promuovere mutamenti reali nella sensibilità e nella coscienza delle comunità nazionali. All’opposto, scelte di chiusura e di contrapposizione dei gruppi politici dominanti risvegliano immediatamente risentimenti, ostilità e fantasmi che sembravano sepolti. Qualche ulteriore elemento ci è offerto dalla vicenda stessa del nostro confine orientale, con il difficile dialogo che si apre solo con il dissolversi della ex Jugoslavia. Bisogna attendere il 1993, infatti, perché i ministri degli Esteri di Italia, Slovenia e Croazia istituiscano due commissioni storiche bilaterali: quella italo-croata non iniziò neppure i 41 B. Spinelli, Alba di guerra fredda, in «La Stampa», 6 aprile 2002; sulle politiche di Klaus e di Zeman cfr. G. Mink, Introduction, in Mink Neumayer (sotto la direzione di), L’Europe et ses passés douloureux cit., pp. 11-3; cfr. inoltre M. Blaive, De la démocratie tchèque et des «décrets Beneš», ibid., pp. 118-27.

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suoi lavori, mentre quella italo-slovena li concluse nel 2000 con una relazione finale di grande interesse42. Destinata a cadere nel vuoto, allora, anche per il protagonismo di una destra nostrana che nell’infuriare delle guerre jugoslave era giunta sin a rivendicare il ritorno all’Italia dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia43. E che nel 2001 ritorna al governo, dopo la breve esperienza del 1994. È in quel clima che nel 2004 viene approvata la legge che istituisce la «Giornata del ricordo» delle foibe, dell’esodo e della «più complessa vicenda del confine orientale»: il doveroso superamento di una lunga e colpevole rimozione viene segnato così anche da messaggi volti a riaccendere antiche contrapposizioni44. Sono avviati però al tempo stesso differenti e opposti processi. Il 1° maggio del 2004 infatti la Slovenia entra in Europa assieme ad altri paesi ex comunisti, e quel giorno a Gorizia Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, parla per la prima volta di un atto di conciliazione fra i due paesi45. Nella stessa direzione si muoveva il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi assieme ai presidenti sloveno e croato, ma «la poli42 Cfr. Italia e Slovenia alla ricerca di un passato comune, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 2003: a differenza della Slovenia, l’Italia non pubblicò in forma ufficiale quella relazione. 43 Nel febbraio del 1991 alcuni senatori del Movimento sociale italiano presentarono un’interpellanza in tal senso. Fu l’avvio di una serie di iniziative culminate in un corteo a Trieste nel novembre del 1992: al termine di esso il segretario del Msi, Gianfranco Fini, entrava in acque slovene per gettare in mare garofani e decine di bottiglie con un messaggio: «Istria e Dalmazia saranno italiane»: cfr. E ora riprendiamoci l’Istria e la Dalmazia, in «la Repubblica», 28 febbraio 1991; «Istria e Fiume all’Italia» e C. Martinetti, «Ritorneremo a Fiume», in «La Stampa», 8 novembre 1992. 44 Fra essi anche la pessima fiction televisiva Il cuore nel pozzo di Alberto Negrin. 45 Su quella giornata e sul percorso immediatamente successivo cfr. P. Segatti, Riconciliazione. La politica non istighi, in «Il Piccolo», 13 agosto 2006.

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tica rimase congelata nel gioco delle contrapposizioni formali e l’iniziativa si arenò»46. Una iniziativa ripresa dal presidente Napolitano, nonostante altre tensioni47, sino al primo, significativo atto di conciliazione che si svolse a Trieste nel luglio del 2010. E sino all’intenso omaggio reso nel luglio del 2020 dai presidenti italiano e sloveno, Sergio Mattarella e Borut Pahor, ai luoghi del dolore di entrambe le parti48. Atto idealmente proseguito di lì a poco con la scelta slovena di indicare Nova Gorica e Gorizia come città europee della cultura per il 2025: la «città della divisione» diventerà così simbolo di un futuro comune. All’indomani del 1989 dunque la prospettiva europea aiuta a superare vecchie lacerazioni ma progressivamente affiorano nuove tensioni: il recupero di «memorie a lungo sepolte sotto la cappa dell’ideologia e della storia ufficiale» – si osservava già allora – non corrisponde necessariamente «a un risanamento reale del rapporto con il passato». Soprattutto «nei luoghi di forte tensione intercomunitaria, interetnica, interculturale» riemergevano anche «memorie intossicate, vittimistiche […], vendicative, annunciatrici di conflitti violenti»49. Nuove tensioni e al 46 Sono parole dell’allora consigliere diplomatico di Ciampi, Antonio Puri Purini, che qualche anno dopo parlò esplicitamente di quell’iniziativa: Zara e una riconciliazione rinviata, in «Corriere della Sera», 1° aprile 2010. 47 Alcune furono innescate anche dal discorso tenuto dallo stesso Napolitano in occasione del 10 febbraio del 2007, che provocò forti reazioni della Croazia (soprattutto) e della Slovenia. 48 Furono il Narodni Dom, la casa della cultura slovena incendiata dai fascisti un secolo prima, la foiba di Basovizza e, sempre a Basovizza, il luogo in cui furono fucilati durante il fascismo quattro giovani indipendentisti sloveni (rinvio al commento che ne feci allora: Se a Trieste la memoria diventa riconciliazione, in «la Repubblica», 11 luglio 2020). 49 A. Brossat, S. Combe, J.-Y. Potel, J.-Ch. Szurek, Introduzione, in A est, la memoria ritrovata, Prefazione di J. Le Goff, Einaudi, Torino 1991, pp. XXXVII-XXXVIII.

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tempo stesso eredità del passato. Avete vissuto per decenni «con le spalle al Muro di Berlino», diceva a Timothy Garton Ash l’ungherese György Konrád già negli anni ottanta50, e Milan Kundera annotava amaramente allora: «la cortina dell’incomprensione occidentale si è sovrapposta alla cortina di ferro comunista»51. In modo convergente lo storico inglese Norman Davies criticava «la tendenza a guardare al passato europeo esclusivamente con gli occhi dell’Occidente». Non senza conseguenze: «l’Europa era la nostra terra promessa, il mitico Ovest a cui anche noi aspiravamo e volevamo appartenere – ha scritto Wojciech Jagielski –. Per questo abbiamo studiato la vostra storia che consideriamo parte della nostra stessa storia. Però mi chiedo che cosa abbiate imparato voi su di noi». E ha concluso: «in Polonia le generazioni del dopoguerra vedevano nell’Europa non tanto un’istituzione quanto un’idea […]. Adesso che ci stiamo entrando cominciamo a capire che anche l’Europa è un’istituzione. E in qualche modo ci sentiamo un po’ delusi»52. Vi è qui un passaggio che non può essere eluso: «perché l’unificazione europea avesse successo dopo la fine della guerra fredda – hanno annotato di recente Ferenc Laczó e 50 T. Garton Ash, Storia del presente. Dalla caduta del Muro alle guerre nei Balcani, Mondadori, Milano 2001, p. 152. 51 M. Kundera, Praga, la carta in fiamme, in «L’Illustrazione Italiana», ottobre 1981, 1. Il tema è ripreso con forza in un intervento successivo che apre un ampio dibattito: Un occidente sequestrato, ovvero la tragedia dell’Europa centrale, in «Nuovi argomenti», gennaio-marzo 1984, 9. E su quel dibattito debbo rinviare a G. Crainz, Le tre Europe, in «Almanacco culturale della Carnia», 1991, VI, pp. 11-32. 52 Cfr. N. Davies - R. Moorhouse, Microcosmo. L’Europa centrale nella storia di una città, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. XIII e 10; W. Jagielski, Il caso polacco, in Aa.Vv., Mass media e nuova Europa, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 40-1 e 44.

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Luka Lisjak Gabrijelčič – era necessaria una più ampia e inclusiva narrazione del passato. Non era necessario solo decolonizzare la visione eurocentrica del mondo, era necessario anche sprovincializzare l’Europa occidentale per non riprodurre all’interno del continente gerarchie e stigmatizzazioni»53. Un processo continuo: non si tratta di «forgiare una memoria collettiva comune», ha osservato ancora Garton Ash (sarebbe una «estrema violenza alla verità storica») ma di esplorare «la diversità delle nostre memorie»54. Di «ricordare con l’aiuto delle memorie altrui», per dirla con Paul Ricœur55. E Aleida Assmann ha aggiunto: l’Europa non ha bisogno di «una visione unitaria della storia» ma della capacità delle differenti visioni di dialogare costantemente. Non di una «narrazione ufficiale comune» ma di una narrazione «condivisibile»56. Non si tratta di respingere il paradigma nazionale, ha aggiunto Robert Traba, ma di inserirlo in una storia più ampia, vivendo l’Europa come un intreccio di influssi reciproci57. Aprendosi ai nuovi flussi provenienti dall’esterno e a «un più ampio spettro di idee e di odori, persino di spiacevoli dissonanze cognitive». Ampliando il proprio orizzonte e perseguendo «un allargamento transnazionale della solida53 F. Laczó - L. Lisjak Gabrijelčič, Introduction, in The Legacy of Division cit., p. 2. 54 Le sue osservazioni sono ampiamente riprese in D. Rieff, Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica, Prefazione di M. Boneschi, Luiss University Press, Roma 2016, pp. 55-6. 55 Cfr. su questo N. Janigro, Memorie private, celebrazioni pubbliche, in «Diario europeo», 2008, 1, Cattive memorie. Luoghi e simboli delle guerre nei Balcani, pp. 42-6. 56 Assmann, Il sogno europeo cit., pp. 161 sgg. 57 R. Traba, Der Sinn gemeinsamen Erinnerns, Polnische martyrologische Museen und deutsche Gedenkstätten, in «Annali dell’Istituto storico italogermanico in Trento», XLVI, 2020, 1.

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rietà civica». L’ultima occasione per l’Europa, per citare il libro di Habermas da cui traggo queste ultime citazioni58. Con differenti ma consonanti accenti è indicata così una via fondamentale e al tempo stesso irta di ostacoli, che possono sembrare quasi insormontabili nell’affermarsi di pulsioni e regimi nazionalistici e autoritari. Regimi che hanno fatto della «politica della storia» un aspetto centrale del loro affermarsi e dei loro tentativi di plasmare le comunità nazionali.

58 J. Habermas, L’ultima occasione per l’Europa, a cura di F. D’Aniello, Castelvecchi, Roma 2019, pp. 24-5 (il testo citato è del 2006).

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II.

Deformazioni storiche e (ri)costruzione di un impero: la Russia di Putin

Su questo terreno la Russia di Putin, pur nella sua specificità, può fornire chiavi di lettura più generali. Il ripensamento del passato era stato un elemento importante del percorso che aveva portato al crollo dell’Urss: dall’accento gorbacioviano sulla necessità di colmare le «pagine bianche» (le vicende cancellate dalla storia ufficiale) sino ai fermenti che attraversarono teatro, cinema e letteratura. E sino all’impegno che alla fine degli anni ottanta portò alla fondazione di Memorial: quasi un movimento collettivo, ha scritto Maria Ferretti, «mosso dalla volontà etica prima che politica di rendere giustizia alle vittime dello stalinismo». Entrarono così in crisi censure istituzionali sin lì insuperabili: nel 1988 gli esami di storia furono sospesi perché i testi allora in uso non erano più credibili1. Sono fermenti e processi che subiscono una robusta inversione di tendenza dopo il crollo di Boris El’tsin, in un clima segnato dai pesanti costi sociali delle sue riforme economiche liberalizzatrici, da un disorientamento diffuso e dalla riaffiorante nostalgia di una passata grandezza. È un’inversione di tendenza che Vladimir Putin enfatizza 1 M. Ferretti, La memoria mutilata. La Russia ricorda, Corbaccio, Milano 1993, pp. 19-22, 257 e 344-51.

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sin dall’inizio: è compito del governo, afferma nel 2001, imporre una storia nazionale basata su orgoglio e onore, e capace di promuovere il patriottismo2. Invita poi gli storici ad agire in questa direzione nello scrivere i manuali scolastici: negli anni successivi molti di essi si adegueranno, «raccontando» una Russia pacifica ma costretta sempre a difendersi da un Occidente ostile. E capace di farlo – in questa lettura – grazie alla concentrazione del potere politico e alla formazione di uno Stato forte (anche su questo le «indicazioni dall’alto» saranno esplicite). Nel 2002 poi il governo decide di sottoporre i manuali a periodiche verifiche e di ridurne drasticamente il numero, distinguendo fra «ammessi» e «raccomandati» (in questo caso con il sostegno dello Stato). È solo l’inizio: nel 2003 Putin afferma che i libri di testo devono far crescere nei giovani «il sentimento di orgoglio per la propria storia nazionale» e che vanno liberati di «tutte le scorze e di tutta la schiuma» che si erano accumulate negli ultimi anni. Diventa progressivamente centrale inoltre l’esaltazione della vittoria nella seconda guerra mondiale (la «grande guerra patriottica»), inserita a pieno titolo in una storia di lungo periodo che da Pietro il Grande giunge a Stalin – sia pur con critiche e riserve – e prosegue nei decenni successivi, rinverdendo anche il mito di Jurij Gagarin e degli Sputnik. Il tutto accompagnato da più generali atti simbolici: dal ritorno al tricolore zarista con l’aquila bici2 Id., L’identità ritrovata. La nuova «storia ufficiale» della Russia di Putin, in «Passato e Presente», 2004, 63, pp. 49-62; Assmann, Go East! cit., p. 273. Per sguardi più ampi alle deformazioni putiniane della storia e alle loro radici cfr. N. Werth, Poutine historien en chef, Gallimard, Paris 2022; M. Eltchaninoff, Nella testa di Putin, e/o, Roma 2022; B. Jangfeldt, L’idea russa. Da Dostoevskij a Putin, Neri Pozza, Vicenza 2022; O. Moscatelli, Putin e putinismo in guerra, Salerno editrice, Roma 2022.

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pite all’adozione delle divise dell’esercito imperiale o al ripristino dell’inno nazionale sovietico, sia pur con un testo parzialmente modificato3. Accompagnato, anche, dalle critiche agli anni novanta (letti sempre più come «l’epoca della vergogna nazionale e della sventura del popolo») e all’ordine costituzionale stabilito nel 1993 (anche per il suo rifiuto di un’unica ideologia di Stato)4. Il 2005, sessantesimo anniversario della vittoria, sancisce poi definitivamente la centralità della «grande guerra patriottica» (e delle celebrazioni del 9 maggio): mito di unificazione nazionale e di legittimazione del ruolo internazionale della Russia; elemento decisivo nella ricostruzione di un passato glorioso in cui l’eredità dell’epoca prerivoluzionaria si salda con quella sovietica. Senza trascurare nulla, dalle coreografie e dalle liturgie di massa in cui ricompare l’immagine di Stalin sino alla rivendicazione delle scelte fatte allora, a partire dal patto Molotov-Ribbentrop (scontrandosi duramente con i paesi baltici e la Polonia, e difendendo quelle scelte ripetutamente anche in seguito)5. E sino alla sostituzione della tradizionale festa del 7 novembre (in passato dedicata alla Rivoluzione del 1917 e «rimodellata» già da El’tsin) con il 4 novembre, «Giornata dell’Unità nazionale». Data che evoca una vittoria sui polacchi che avevano invaso la Russia nel lontanissimo 1612 e sembra far riaffiorare la «nostalgia per la perduta gran3 A. Roccucci, Parole d’ordine: grande potenza e terra russa, con un’antologia di manuali attualmente in uso curata da A. Salacone, in «limes», 2020, 8, È la storia, bellezza!, p. 223. 4 P. Verbytska, Memoria storica e costruzione del consenso sociale attraverso l’insegnamento della storia. Ucraina, Moldavia e Russia, in L. Blanco C. Tamanini (a cura di), La storia attraversa i confini. Esperienze e prospettive didattiche, Carocci, Roma 2015, p. 251. 5 Cfr. ad esempio G. Agliastro, Putin attacca Varsavia sulla Seconda guerra mondiale, in «La Stampa», 3 gennaio 2020.

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dezza imperiale»6: l’anno successivo iniziava infatti la dinastia dei Romanov. Sempre nel 2005 Timothy Garton Ash annotava: «La Russia post 1991 stava guarendo. Molti scolari russi ebbero accesso a un libro di storia che, come è giusto, parlava degli straordinari sacrifici dell’Armata rossa nella seconda guerra mondiale e dei civili, dei quali a sessant’anni di distanza ancora vengono alla luce negli scavi miseri resti. Ma citavano anche l’occupazione degli Stati baltici da parte di Stalin, le deportazioni dei baltici e di altre popolazioni da lui ordinate in tempo di guerra […]. Adesso quel libro di testo è stato ritirato»7. Proprio in quel 2005 Putin definiva la dissoluzione dell’Urss come «la più grande tragedia geo-politica del XX secolo», e la pedagogia di regime si intensificava con l’accentuazione dell’«educazione patriottica» nelle scuole8. Scandita anche dai rituali delle celebrazioni e accompagnata da gesti simbolici a tutto campo: fra essi la risepoltura solenne – nel 2005, di nuovo – del generale Anton Ivanovič Denikin, il più famoso comandante dell’Armata bianca9. Accompagnata da altre celebrazioni e monumenti, sino a quello bronzeo ed enorme dedicato ad Alessandro III, inaugurato a Jalta alla presenza di Putin nel 6

G. Belardelli, Il colpo di spugna, in «Corriere della Sera», 5 novembre

2005. 7 T. Garton Ash, Europa, la guerra della memoria, in «la Repubblica», 14 maggio 2005. 8 Per una ricostruzione di questo processo cfr. G. De Florio - I. Karmanova, Infanzia militarizzata. Pratiche e tendenze del passato e del presente, in Aa.Vv., Russia. Anatomia di un regime, coordinamento di M. Flores, Rizzoli, Milano 2022, pp. 123-42. 9 In quell’occasione la figlia di Denikin «consegna a Putin la sciabola del padre. Suggello della riconciliazione di bianchi e rossi nelle mani del nuovo capo. Benedetta dal patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Alessio II»: cfr. Platov non ha paura, editoriale di «limes», 2022, 4, Il caso Putin, p. 25.

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2017 (3 anni dopo l’annessione della Crimea): «sul piedestallo su cui è seduto con la spada sguainata è scritta la sua frase più celebre, “La Russia ha due soli alleati, il suo esercito e la sua flotta”»10. Del resto già nel 2007 erano state definite chiaramente le linee guida per il manuale delle superiori, con il ribadito obiettivo di rendere gli alunni consapevoli della storia millenaria della Russia. Non si negavano periodi bui e fasi di declino ma si sottolineava che alla fine il paese aveva sempre ritrovato l’unità interna e il ruolo di grande potenza grazie ai suoi leader e all’unità del popolo. E di Stalin si «relativizzavano» i crimini sottolineando piuttosto il suo ruolo di costruttore di uno Stato forte e di artefice della vittoria. Sempre nel 2007 lo stesso Putin interviene alla Conferenza nazionale degli insegnanti di storia: «Sì, anche noi abbiamo pagine problematiche, come ne ha ogni Stato. Meno di altri e meno terribili […]. Noi non abbiamo mai usato l’atomica contro i civili […] o gettato più bombe su un piccolo Paese di quante ne siano state usate nell’intera Seconda guerra mondiale […]. Per questo non possiamo consentire ad alcuno di imporre un senso di colpa alla Russia […] gli avvenimenti del passato devono essere descritti in modo tale da suscitare l’orgoglio per la nostra storia». Nel 2009 il presidente Dmitrij Medvedev istituisce la «Commissione per opporsi ai tentativi di falsificazione della storia a detrimento degli interessi della Russia», nel contesto della «guerra di memoria» con Polonia e Ucraina. E due anni dopo ancora Medvedev parlando ai veterani lamenta che, dopo «le posizioni piuttosto chiare a cui si erano attenuti gli storici nel periodo sovietico», le cose 10 P. Valentino, Nella mente di Putin, in «Corriere della Sera», 25 febbraio 2022.

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hanno iniziato a confondersi: «ne deriva la percezione che tutta la nostra storia sia stata caratterizzata da guai, o da situazioni in cui lo Stato non si è mostrato all’altezza delle sue responsabilità, oppure da una descrizione di tutti i nostri leader come despoti e tiranni». Nel 2013 Putin auspica un unico manuale di storia e sostiene comunque la necessità di indicare «una unica logica di continuità della storia russa, di rispetto verso tutte le pagine del nostro passato»11. E la continuità della «grande madre Russia», dall’epoca imperiale sino all’oggi, è al centro dei tre manuali approvati nel 202012. In quello stesso anno un intellettuale putiniano, Leonid Dobrokhotov, può riferirsi così alla Costituzione appena approvata13: «vi si sancisce che la Russia-nazione, tenuta insieme da una storia millenaria e dalla memoria degli avi, […] è l’erede legittima dell’Urss nel suo territorio […]. La Costituzione […] onora la memoria dei difensori della patria e garantisce la difesa della verità storica». Dopo la caduta dell’Urss, prosegue, «i manuali scolastici e i media 11 Nel «nuovo piano per la redazione di testi scolastici unificati» adottato in quell’anno «l’attenzione è stata gradualmente concentrata sulla Grande guerra patriottica, scarsissimi i riferimenti al Terrore staliniano, molti invece ai grandi successi dell’Urss»: E. Dundovich, La grande trasformazione. La Russia dal 1991 ad oggi, in Aa.Vv., Russia cit., p. 37. 12 M. Ferretti, La memoria spezzata. La Russia e la guerra, in «Italia contemporanea», dicembre 2006, 245, pp. 525-65; Id., L’eredità difficile. La Russia, la rivoluzione, la memoria, Viella, Roma 2019; Roccucci, Parole d’ordine cit.; F. Maronta, Se non basta la vittoria, in «limes», 2021, 11, CCCP. Un passato che non passa, pp. 119-28; A. Salacone, La storia è nostalgia, ivi, pp. 139-45; I. Kalinin, The Struggle for History. The Past as a Limited Resource, in Blacker, Etkind, Fedor (a cura di), Memory and Theory in Eastern Europe cit., pp. 255-65; Bettanin, Putin e il mondo che verrà cit., pp. 88-114; Id., Uomo forte e stato debole, in «limes», 2021, 11, pp. 147-56. 13 Su di essa e sui principi che la ispirano cfr. anche O. Moscatelli, Putin = Russia. Russia = Putin, in «limes», 2022, 4.

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non sottolineavano i successi dell’Unione sovietica e dell’Armata rossa nella seconda guerra mondiale […] ma piuttosto parlavano degli orrori e dei crimini – veri o supposti tali – del regime staliniano». Citando un saggista ottocentesco evoca poi la tendenza del popolo russo a rapportarsi senza violenza nei confronti dei popoli assoggettati: non di rado, conclude, questa tendenza «si è trasformata in ingiustizia nei confronti del popolo russo». E riesce ad aggiungere che nel periodo post-staliniano «le risorse del centro venivano destinate alle altre repubbliche con il pretesto del loro necessario sviluppo economico e sociale»14. Politiche della storia e «nostalgia», difficoltà del presente e immaginari profondamente radicati: all’inizio degli anni venti del Duemila, secondo alcuni sondaggi, il 6570% della popolazione adulta aveva una visione positiva dell’Urss e non avrebbe voluto la sua fine. E fra le ragioni del rimpianto è indicata in primo luogo la passata appartenenza a una grande potenza15. Qui Putin fonda la sua sintonia con una Russia profonda: nella sua narrazione il «bene perduto» non è «il comunismo, la bandiera rossa, la falce e martello – ha annotato Ezio Mauro – ma la solidità di comando che quella dottrina garantiva a Mosca, l’autorità che quello stendardo portava con sé, la differenza originaria e perpetua che quel simbolo attribuiva alla Russia dandole la potestà di rappresentare l’altra parte del mondo nella lunga contesa con l’Ovest»16. Non il comunismo ma 14

L. N. Dobrokhotov, I russi sono eccezionali, ivi, 2020, 8, pp. 209 e 213. O. Moscatelli, L’homo sovieticus non è ancora morto, in «limes», 2021, 11, pp. 75-6; A. Berelowitch, Un’ideologia di Stato al servizio della guerra, in Aa.Vv., Russia cit., in particolare pp. 60-7. 16 E. Mauro, Se la Storia va in frantumi, in «la Repubblica», 14 marzo 2022. 15

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«il sovietismo come sistema di gestione imperiale». O meglio, «il restauro di un’anima imperiale, con il conseguente rango mondiale di potenza: un elemento di rassicurazione e risarcimento per la popolazione, dopo le frustrazioni seguite al ridimensionamento» successivo al 199117. Il bisogno di colmare un vuoto enorme: le testimonianze proposte da un monumentale (e splendido) volume di Svetlana Aleksievič, Tempo di seconda mano, ci fanno cogliere per intero disorientamenti e immaginari, spaesamenti e ricerche quasi disperate di certezze18. Di questa «politica della storia» fa parte a pieno titolo anche il silenzio imposto alle voci e ai temi che erano emersi sin dalla glasnost’ gorbacioviana e avevano contribuito a squarciare i veli sulle ferocie e le disumanità del passato. È esemplare la vicenda di Perm’-36, il museo istituito negli anni di El’tsin in ricordo di un Gulag rimasto in funzione dopo la seconda guerra mondiale. La legge del 2012 che colpisce come «agenti stranieri» chi riceva finanziamenti dall’estero è utilizzata due anni dopo per chiuderlo, e prende corpo così un museo molto diverso19. E alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina vi è 17 Id., La propaganda e i moscerini di Putin, ivi, 4 aprile 2022. Nel corso degli anni, ha osservato ancora Mauro, si è costruito «un nuovo pensiero russo di regime […], una dimensione culturale egemone che ha sostituito la vecchia ideologia», tenuta insieme dal «cemento di un patriottismo leggendario capace di fermare Hitler […]. Circonda il tutto un profumo di incenso dell’ortodossia resuscitata da Putin (che oggi rivendica il suo battesimo da bambino), riconsacrata dal Cremlino dopo l’ateismo di Stato, elevata a custode dei valori tradizionali più conservatori». 18 S. Aleksievič, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, Bompiani, Milano 2014. 19 Non documenta più le drammatiche sofferenze dei prigionieri – ha osservato Paweł Machcewicz – ma il contributo del sistema del Gulag e del lavoro forzato alla vittoria su Hitler. E descrive in modo edificante le condizioni di vita e lavoro nel campo: Machcewicz, The War That Never Ends

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la chiusura di Memorial International, sempre in base alla legge del 2012: secondo l’ufficio del procuratore generale, avrebbe «insudiciato la memoria della II guerra mondiale» e creato «una falsa immagine dell’Urss come stato terrorista»20. Il cerchio così si completa, e comprendiamo meglio allora il processo complessivo che abbiamo cercato di evocare: uno stretto intrecciarsi di pedagogia autoritaria, di repressione del dissenso e di una politica volta a occupare di nuovo lo spazio ideale e politico dell’Urss e – più ancora – della Russia zarista. Volta a «cercare nell’anima della Russia le ragioni di una diversità insopprimibile e le energie per rilanciare la sfida»21. A questo rinvia l’«uso della storia» che impronta di sé anche il documento che Putin pubblica nel luglio del 2021, Sull’unità storica di russi e ucraini, per negare l’esistenza dell’Ucraina come nazione indipendente22. «Uso della storia» che diventa ossessivo cit., p. 30. Non è diversa la vicenda del cimitero memoriale di Sandarmokh, in Carelia: cfr. A. Gullotta, Guerra e memoria nella Russia di Putin, in Ucraina. Assedio alla democrazia cit., pp. 99-110. 20 A. Zafesova, Quando la dittatura processa la storia, in «La Stampa», 29 dicembre 2021; R. Castelletti, Da Putin colpo di grazia all’opposizione. Chiusa la ong fondata da Sacharov, in «la Repubblica», 29 dicembre 2021. Nell’ottobre del 2022 a Memorial è stato poi assegnato il Premio Nobel per la pace. 21 E. Mauro, Il fronte dell’Est, in «la Repubblica», 21 febbraio 2022; cfr. inoltre W. Goldkorn, Il mito della Grande Russia, in «L’Espresso», 27 febbraio 2022, e E. Galli della Loggia, La storia falsa, in «Corriere della Sera», 8 luglio 2022. 22 Il documento prende avvio dall’antica Rus’ per giungere ad affermare (con «argomenti che fanno rabbrividire», per dirla con Timothy Snyder) che «l’Ucraina moderna è interamente il prodotto dell’era sovietica»: cfr. A. Zafesova, Putin, Kiev e la guerra per la popolarità, in «La Stampa», 23 novembre 2021; A. Lombardi, «Putin attacca Kiev per dividere l’Europa», intervista a Timothy Snyder, in «la Repubblica», 21 marzo 2022. Cfr. inoltre F. Battistini, Il conflitto fra Russia e Ucraina si combatte sulle ossa di Jaroslav.

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nel momento stesso in cui annuncia l’invasione, nel febbraio successivo, e dipinge l’Ucraina come una sciagurata «invenzione di Lenin». La annuncia avendo alle spalle la bandiera russa con l’aquila dorata a due teste dei Romanov23 e proclamando al tempo stesso di voler «denazificare» l’Ucraina: una falsificazione sin grottesca ma utile a richiamare la retorica della «grande guerra patriottica». E a esorcizzare l’«Holodomor», lo «sterminio per fame» del 193233 cui contribuirono in modo decisivo le scelte e le decisioni punitive di Stalin nei confronti della popolazione ucraina (e in Ucraina questo era stato un tema importante della messa in discussione delle «verità di Stato» sovietiche)24. Nei giorni successivi l’«uso della storia» è poi martellante: in un grande comizio allo stadio di Mosca, ad esempio, Putin proclama di voler liberare la popolazione russofona dal «genocidio» perseguito da «una banda di tossici» ed evoca l’ammiraglio Ušakov, «invitto eroe» ai tempi di Caterina la Grande25. Più in generale – ha osservato Carlo Galli – vi è il tentativo di riattivare «una faglia profonda della storia russa, il mito identitario di Mosca come Terza Roma […]: inveIl «fondatore» degli slavi conteso da Mosca e Kiev, in «Corriere della Sera», 3 gennaio 2022. 23 A. Zafesova, Vlad il Terribile passa il Rubicone, l’obiettivo è ricostruire l’Urss, in «La Stampa», 22 febbraio 2022. Per una sintesi puntale degli argomenti di cui si nutre la retorica di Putin cfr. S. Fiori, «Una grande sfida per l’Occidente», intervista ad Andrea Graziosi, in «la Repubblica», 3 marzo 2022, e S. Courtois, Lenin, l’Ucraina e lo spettro di Orwell, ivi, 4 marzo 2022. 24 Cfr. G. De Rosa - F. Lomastro (a cura di), La morte della terra. La grande «carestia» in Ucraina nel 1932-33, Viella, Roma 2004; A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione sovietica 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007, pp. 331-62; E. Cinnella, Ucraina. Il genocidio dimenticato: 1932-33, Della Porta, Pisa 2015. 25 R. Castelletti, Il raduno di Putin. «Raggiungeremo i nostri obiettivi», in «la Repubblica», 19 marzo 2022.

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stita da una parte della Chiesa ortodossa e dal potere politico zarista del compito di proseguire e portare a compimento la missione al tempo stesso sacra e imperiale delle due Rome di cui si vuole erede»26. Di questa narrazione l’insegnamento della storia si fa subito strumento: due mesi dopo l’invasione dell’Ucraina il ministro dell’Istruzione annuncia che i manuali saranno integrati per comprendere gli eventi relativi all’«Operazione Militare Speciale» in corso; e la storia sarà studiata sin dalla prima elementare utilizzando anche fiabe, poemi epici e cartoni animati27. Contemporaneamente nei musei di Mosca compaiono due mostre, Nazismo ordinario sull’Ucraina e Nato. Cronaca della crudeltà28, e la ricorrenza del 9 maggio è preparata con enfasi. Nella realtà l’«apoteosi annunciata» scolora in disillusione – la «grande vittoria» non può esser proclamata – ma i toni si alzano ulteriormente. Un mese dopo 26 C. Galli, Lo Zar e il mito della Terza Roma, ivi, 22 marzo 2022. E si veda anche S. Ronchey, Putin, Cesare di Bisanzio, ivi, 24 febbraio 2022. 27 Lo riferisce Cesare Martinetti in «Nelle scuole di Lugansk insegnavano l’odio verso i russi», in «La Stampa», 27 aprile 2022, ed è solo la continuazione di un processo avviato da tempo: cfr. De Florio - Karmanova, Infanzia militarizzata cit.; cfr. inoltre G. A. Stella, La storia riscritta da Putin per i territori occupati, in «Corriere della Sera», 1° settembre 2022. 28 R. Castelletti, E i Musei di Mosca riscrivono la storia per giustificare l’operazione speciale, in «la Repubblica», 8 maggio 2022. Nell’introduzione alla prima mostra – riferisce la Castelletti – si legge: «Dopo il golpe [sic] del 2014 le autorità ucraine hanno iniziato a glorificare le idee dei leader nazionalisti e a favorire gli umori russofobi». Il «golpe» è la rivolta di piazza Majdan, nella capitale, cui è dedicata la parte sul «Ritorno del Male»: cioè sull’ascesa al potere dei «nazisti russofobi». Nelle sale si succedono reperti del Terzo Reich, atti di imputazione contro i collaborazionisti, cimeli neonazisti, tazze con svastiche (provenienti da Lugansk e Mariupol’, secondo i curatori) e un’installazione dedicata agli «angeli del Donbass», i bimbi morti in otto anni di conflitto. L’ultimo pannello è dedicato alla «operazione speciale di smilitarizzazione e denazificazione dell’Ucraina» e vi si afferma: «non c’era altra scelta, il nazismo ucraino è una versione più crudele di quello hitleriano».

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Putin inaugura la mostra Nascita di un impero, affermando che Pietro il Grande «non ha tolto nulla» agli Stati limitrofi ma, anzi, «ha riportato indietro territori storici». E aggiungendo: «a noi è toccato in sorte fare quello che faceva Pietro»29. Il giorno dopo inizia a circolare la notizia che a Mariupol’ occupata sarà cambiato il nome: si ipotizza persino che venga dedicata di nuovo a Ždanov (il ministro di Stalin che vi era nato), come era stato dal 1948 al 198930. E il 1° settembre (dopo un gelido saluto alla salma di Gorbačëv, appena scomparso), Putin vola a Kaliningrad, l’exclave nei paesi baltici, in occasione del primo giorno di scuola: «ha deciso di dare inizio di persona alle nuove lezioni propagandistiche diventate obbligatorie, le “conversazioni sulle cose importanti” che ogni settimana dovranno indottrinare fin dalle elementari i bambini russi»31. Indubbiamente è un caso estremo, quello russo, ma alla luce di esso si può comprendere meglio anche la potenziale pericolosità di altri, pur differenti processi. Su di essi torneremo, ma è utile ricordare sin d’ora che in Polonia il termine stesso di «politica della storia» si afferma nel dibattito pubblico e nei media con le elezioni parlamentari e presidenziali del 2005, che vedono affermarsi i sovranisti di Diritto e Giustizia (Lech Kaczyński accusa gli avversari di essere «negazionisti della memoria storica»)32. Una politica che diventa pratica oppressiva dopo il ritorno al potere di 29 A. Zafesova, «Lotto come Pietro il Grande»: l’ultima sfida di Putin lo Zar, in «La Stampa», 10 giugno 2022; R. Cas, Putin sale sul trono: «È come ai tempi di Pietro il Grande», in «la Repubblica», 10 giugno 2022. 30 C. Zunino, Kiev: «Aiuto, stiamo perdendo». I russi cambiano nome a Mariupol, in «la Repubblica», 11 giugno 2022. 31 A. Zafesova, Missili e dottrina. Putin sfida l’Occidente dal cuore dell’Europa, in «La Stampa», 2 settembre 2022. 32 P. Morawski, Memorie e politiche della storia in Polonia, in «pl.it. Rassegna italiana di argomenti polacchi», pp. 332-62.

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quel partito, nel 201533. In Ungheria invece sin dal 1998 è l’ascesa al potere di Viktor Orbán a scandire tempi e modalità di una narrazione che evoca le glorie millenarie del paese e la «grande Ungheria» mutilata dal Trattato di pace del Trianon, nel 1920. E ha il suo più chiaro esempio nella Casa del Terrore di Budapest34. Troveremo elementi analoghi anche in altri paesi35 e spesso queste visioni deformate del passato possono far leva su memorie radicate, sopravvissute nel silenzio e negli ambiti familiari: contrapposte alle «verità ufficiali» dei regimi comunisti e quindi considerate ancor più autentiche. Tutto ciò si intreccia poi ad altri elementi: se nel crollo del comunismo – ha annotato Maurizio Molinari – prese corpo una prima «rinascita dei nazionalismi, dal Baltico ai Balcani», saranno poi «le ferite della globalizzazione» a far emergere «identità ataviche». E «non è un caso che il sovranismo sia qui più forte»36. A un primo sguardo, dunque, sulle ceneri delle «memorie di Stato» dei regimi comunisti non ha trovato spa33 J. Sondel-Cedermas, La memoria dei Giusti e la politica della memoria in Polonia dopo il 1989, in F. Berti, F. Focardi, J. Sondel-Cedermas, Le ombre del passato. Italia e Polonia di fronte alla shoah, Viella, Roma 2018, pp. 52-3; K. Pobłocki, The Economics of Nostalgia e I. Main, How Is Communism Displayed?, in Sarkisova - Apor (a cura di), Past for the Eyes cit., pp. 181-214 e 370-400; C. Tonini, L’eredità del comunismo in Polonia, in F. Focardi - B. Groppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013, pp. 156-78. 34 Z. K. Horváth, The Redistribution of the Memory of Socialism. Identity Formations of the «Survivors»: Hungary after 1989, in Sarkisova - Apor (a cura di), Past for the Eyes cit., pp. 247-73; I. Rév, Giustizia retroattiva. Preistoria del comunismo, Feltrinelli, Milano 2005. E cfr. infra, Parte seconda, cap. VII. 35 M.-E. Ducreux, Les Tchèques et leur histoire, in A. Marès (sotto la direzione di), Histoire et pouvoir en Europe médiane, L’Harmattan, Paris 1996, p. 209. 36 M. Molinari, Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa, La nave di Teseo, Milano 2018, p. 71.

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zio e forza solo una storiografia pluralistica e critica, parte essenziale della più generale riflessione europea sul proprio passato. In contrapposizione ad essa e in connessione a pulsioni e a progetti autoritari, ha preso progressivamente corpo anche un paradigma volto a riabilitare nel suo insieme il passato nazionale, rimuovendo o attenuando responsabilità e colpe storiche. Volto a plasmare una identità omogenea segnata da una visione chiusa della propria storia e da una immagine idealizzata del «noi comune», in un misto di «eroismo e martirologio», di gloria patria e di sofferenze imposte da «altri»37. Una retorica, ha osservato Piotr Podemski, che ripropone di fatto il paradigma dominante nei secoli passati, strettamente connesso allora al formarsi degli Stati nazionali e all’infuriare dei nazionalismi. Apparentemente poco praticabile in un mondo «invaso» dalle più diverse fonti e dai più differenti strumenti di formazione e di informazione, e contrastato dalle visioni pluralistiche e critiche della storia. Contrastato dallo spirito stesso del progetto europeo. Eppure presente, e asse essenziale della politica dei paesi sovranisti38.

37 A. Marès, L’historiographie de l’Europe médiane, in Id. (sotto la direzione di), Histoire et pouvoir en Europe médiane, L’Harmattan, Paris 1996, pp. 9-26. 38 P. Podemski, La didattica della storia tra Oriente ed Occidente. La Polonia come area di confine, in Blanco - Tamanini (a cura di), La storia attraversa i confini cit., in particolare pp. 259-65.

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III.

La dissoluzione della Jugoslavia: la storia come arma da guerra

Questo uso della storia è un aspetto che non può essere ignorato o sottovalutato, nelle sue conseguenze di lungo periodo e in quelle più immediate: talora drammatiche, come nelle lacerazioni e nelle guerre che scandiscono il crollo della Jugoslavia e la nascita di nuovi Stati1. Scandiscono cioè nuove «costruzioni della nazione» e nuove narrazioni pubbliche. In quello scenario, ha osservato Dubravka Stojanović in relazione alla Serbia, la storia non si limitò a fornire miti fondativi: diventò parte dell’«arsenale di guerra», aiutò a giustificare, sostenere e poi celebrare le guerre degli anni novanta2. I due aspetti sono strettamente connessi ed è esemplare il Preambolo della Costituzione croata del 1990, redatto dallo stesso presidente (e storico) Franjo Tuđman che guiderà il paese sino al 2000. In una lunga e insistita elencazione vi si legge che «il popolo croato ha conservato nei millenni la sua indipendenza nazionale […] ha conservato 1 Cfr. almeno J. Pirjevec, Le guerre jugoslave. 1991-1999, Einaudi, Torino 2001. 2 D. Stojanović, Slow Burning: History Textbooks in Serbia 1993-2008, in A. Dimou (a cura di), «Transition» and the Politics of History Education in Southeast Europe, V&R, Göttingen 2009, p. 141; Pistan, Il ruolo dei miti e dei simboli cit.

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e sviluppato, al di là degli avvenimenti storici, in differenti forme di stato, l’idea fondamentale di un diritto storico del popolo croato alla piena sovranità statale. Ciò si manifestò: – nella nascita dei principati croati del VII secolo; – nel regno dei Croati sorto nel X secolo; – nel mantenimento della qualità di soggetto statale della Croazia durante l’unione personale croato-ungherese; – nella decisione sovrana del popolo croato nel 1527 sull’elezione del re della dinastia asburgica; – nella decisione indipendente e sovrana del Parlamento croato sulla Prammatica sanzione del 1712; – nelle decisioni del Parlamento croato nel 1848 […] in base al diritto storico e naturale del popolo croato», e così via, lungo i secoli, in riferimento continuo al «diritto nazionale, storico e naturale». Sottolineando – o «inventando» – le distanze dall’esperienza del Regno di Jugoslavia («proclamazione […] mai sanzionata dal Parlamento croato») e le conquiste di autonomia all’interno della Repubblica socialista. E concludendo: «nel rivolgimento storico che ha portato alla liberazione dal dominio comunista […] il popolo croato ha affermato liberamente nelle prime elezioni democratiche la sua millenaria indipendenza statale e la sua decisione di fondare lo stato sovrano della Repubblica croata»3. Non ci appaia troppo anomala, questa «invenzione della tradizione»: di lì a poco il Preambolo della Costituzione slovacca richiamerà «il lascito politico e culturale dei nostri antenati e le esperienze secolari delle lotte per l’indi3 Traggo il testo da D. Roksandić, La storiografia croata dopo il 1989, in G. Corni (a cura di), I muri della storia. Storici e storiografia dalle dittature alle democrazie 1945-1990, Lint, Trieste 1996, pp. 216-7; cfr. inoltre C. Pistan, Memory Engineering, Nation-Building and Minority Rights Protection in the Republic of Croatia: The «Dark Side» of the Constitution, in «Percorsi Costituzionali», 2019, 2, pp. 415-25.

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pendenza nazionale e statale», ed evocherà l’eredità spirituale e storica dei santi Cirillo e Metodio e della Grande Moravia (IX secolo d.C.)4. Ritorniamo però alla Jugoslavia in dissoluzione: in quella «invenzione della statualità croata» era ancora mantenuto il riferimento alla lotta partigiana e si basava anche su di essa (e sull’opposizione al regime collaborazionista di Ante Pavelić) «la determinazione del fondamento della sovranità statale». Ultimo e parziale filo di collegamento con la narrazione che era stata perno fondante della Jugoslavia di Tito, basata sulla «fratellanza e unità» della lotta di liberazione. Una narrazione che escludeva da sé i feroci conflitti interetnici che l’avevano attraversata e che inevitabilmente confliggeva con memorie private tenacemente resistenti. Nelle aule scolastiche della Croazia della mia infanzia, ha ricordato Nicole Janigro, «la carneficina alla quale da poco si era sopravvissuti impregnava i racconti di guerra, le testimonianze di chi aveva combattuto, era stato imprigionato e torturato – a me sono rimasti impressi soprattutto i bambini infilzati sulle baionette». In quelle aule non vi erano mai «dubbi su chi fossero i buoni e i cattivi» ma «dentro casa, a toccar certi temi, si andava incontro a gesti vaghi, silenzi sottilmente minacciosi: in una famiglia su tre la memoria era divisa»5. Nell’arena pubblica – ha 4 Traggo la citazione dal Preambolo della Costituzione slovacca, e cfr. anche A. Marès, En guise d’introduction, in Id. (sotto la direzione di), Histoire et pouvoir cit., p. 25. Sull’attenzione storiografica a questi temi dopo il 1989 cfr. P. Petruf, L’historiographie slovaque dans les années 1990-1992, ibid., pp. 211-22. 5 N. Janigro, Memorie private, celebrazioni pubbliche, in «Diario europeo», 2008, 1, pp. 42-3. Sulle difficoltà di «elaborare il lutto» su questi temi nella Jugoslavia socialista cfr. il bel documentario di Andrea Rossini, Il cerchio del ricordo (Osservatorio dei Balcani, 2007), che ripropone la discussione di architetti e scultori su differenti iniziative memoriali (a partire

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annotato Wolfgang Höpken – dominava una «memoria ufficiale» deformata e deformante, «che favoriva i partigiani ed escludeva tutti gli altri […], ed era immune al carattere etnico della guerra». Uno «strumento di legittimazione del potere politico» ma «al contempo una sorta di offerta di riconciliazione per la società […]: a volte dimenticare può essere una precondizione perché i sopravvissuti possano coesistere»6. È questa narrazione che va in frantumi nel crollo della Jugoslavia e riemergono tumultuosamente allora i traumi rimossi: a partire dalle uccisioni di decine di migliaia di persone da parte dei partigiani titini nel maggio del 1945. Quello che accompagna la liberazione dagli invasori e la presa del potere comunista, ha annotato Raoul Pupo, fu «un bagno di sangue. I primi a cadere furono gli uomini delle milizie collaborazioniste – ustaša, četnici e domobranci – che hanno invano tentato di fuggire all’avanzata dell’armata popolare di liberazione rifugiandosi in Austria assieme ai quadri del regime di Ante Pavelić e alle loro famiglie». A Bleiburg, a Kočevski Rog e in altri luoghi ancora. Le modalità della strage erano sempre le stesse, ha aggiunto Pupo: «marce della morte, fucilazioni collettive di prigionieri legati con il filo di ferro, occultamento dei cadaveri negli abissi carsici, nelle gallerie minerarie, nei fossati anticarro, nelle fosse comuni quando la natura dei terreni lo consente»7 (è in questo dal grande «fiore di cemento» del campo di sterminio di Jasenovac progettato da Bogdan Bogdanović). 6 W. Höpken, Tra politica della memoria e lutto. La Seconda guerra mondiale in Jugoslavia, in «Diario europeo», 2008, 1, pp. 32-3; cfr. inoltre Id., Guerra, memoria ed educazione in una società «divisa». Il caso della Jugoslavia, in «Passato e Presente», 1998, 43. 7 R. Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza, Roma-Bari 2021, pp. 173-4.

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quadro che si collocano anche le foibe istriane, pur nei loro tratti specifici). Sessanta-settantamila vittime, secondo le stime più prudenti, concentrate nelle prime settimane di maggio: «in parte collaborazionisti, in parte anticomunisti, in parte gente spaventata che fugge»8. Scheletri rimossi, nella Jugoslavia socialista, ma quando il regime iniziò a vacillare chi conosceva i luoghi della sepoltura iniziò ad aprire le tombe anonime. Moltissime persone parteciparono a quel processo direttamente e ancor di più indirettamente, grazie a immagini, filmati televisivi, discussioni e inchieste giornalistiche. E anche questo fu al centro della campagna nazionalistica di Franjo Tuđman in Croazia, cui la Serbia di Slobodan Milošević rispose evocando il campo di sterminio croato di Jasenovac e le vittime serbe del «genocidio ustascia» (il cui numero è aumentato a dismisura facendo arretrare sullo sfondo le altre vittime: ebrei, rom, antifascisti croati). «Gli scheletri giacenti nelle cave di pietra – ha scritto Katherine Verdery – furono le prime truppe mobilitate nelle guerre jugoslave: mobilitate per una campagna volta a riscrivere la storia recente». «Guidate da avanguardie di ossa» – ha aggiunto – le opposte armate «procedettero a smembrare la Jugoslavia»9. E da allora Jasenovac e Bleiburg sono diventati i simboli di una contrapposizione che periodicamente si rinnova10. Nel corso delle guerre degli an8 S. Petrungaro, Balcani. Una storia di violenza?, Carocci, Roma 2000, pp. 101 sgg. 9 Verdery, The Political Lives of Dead Bodies cit., pp. 99 sgg. 10 Nell’emergenza sanitaria del 2020 e con il sostegno del governo croato fu deciso di spostare da Bleiburg a Sarajevo la cerimonia annuale, officiata da un vescovo cattolico, suscitando le proteste del vescovo ortodosso serbo e della comunità ebraica di Sarajevo: G. Modolo, La messa che infiamma Sarajevo. «Un rischio ricordare quei fascisti», e G. Riva, La Gerusalemme d’Europa sempre in bilico nello scontro di mondi, in «la Repubblica», 16 maggio 2020.

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ni novanta, inoltre, le narrazioni pubbliche del secondo conflitto mondiale si rimodellano drasticamente, in un processo che continua negli anni successivi ed è influenzato dai differenti climi politici. Più «estremo», allora, con la sostanziale rivalutazione dello Stato ustascia nella Croazia di Tuđman all’insegna della «riconciliazione nazionale» («i figli dei partigiani e i figli degli ustascia»), in un clima segnato anche da distruzioni e danneggiamenti di centinaia di lapidi e monumenti alla Resistenza11. Rivalutazione attenuata e in parte modificata poi ma non messa al bando, talora evocando un «sentire comune»: «molti croati – scrive un manuale di storia – guardarono allo Stato ustascia come alla realizzazione di uno Stato nazionale a lungo desiderato ma disapprovarono gli estremi»12. In Serbia vi è invece la rivalutazione dei cetnici, i combattenti monarchici di Draža Mihajlović, sostanzialmente attendisti nei confronti degli occupanti e impegnati non di rado contro i partigiani titini. Anche in questo caso il percorso era iniziato negli anni ottanta: nella «confusione ideologica seguita alla morte di Tito», ha osservato Vladislav Marjanović, e «nella progressiva presa di distanza dall’ortodossia comunista […] il ruolo degli storici serbi nell’af11 Provocò però proteste a Zagabria la ridenominazione di piazza degli Eroi della Resistenza, trasformata in piazza dei Grandi Croati (e ritornata alla intitolazione precedente dopo la morte di Tuđman): cfr. V. Pavlacović, Flirtando con il fascismo. L’eredità ustaša e la politica croata negli anni 90, in L. Bertucelli - M. Orlić, Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento, ombre corte, Verona 2008, pp. 174205. Sulla «politica della storia» di Tuđman cfr. inoltre M. Orlić, Il passato che non passa. Cortocircuiti della memoria in Croazia, in Focardi - Groppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie cit., pp. 179-95. 12 M. Najbar-Agičić, The Yugoslav History in Croatian Textbooks, in C. Koulouri (a cura di), Clio in the Balkans. The Politics of History Education, Center for Democracy and Reconciliation in Southeast Europe, Thessaloniki 2002, pp. 232-48.

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fermarsi delle idee nazionaliste» è ancor più accentuato che altrove. E lo sarà anche in seguito: non solo in relazione alla seconda guerra mondiale, con la celebrazione dei cetnici (ridimensionandone collaborazionismo e crimini) o riabilitando come «vittime» collaboratori ancor più diretti degli occupanti13, ma risalendo all’indietro. Risalendo all’eroismo dei soldati serbi nella prima guerra mondiale, ad esempio, o alle sollevazioni ottocentesche contro i turchi, con l’elogio della «morte del martire». Ed evocando lo «spettro albanese» in un crescendo che ha un momento centrale proprio nel 1989, come s’è detto, 600° anniversario della battaglia della Piana dei Merli14: «non fu solo l’evocazione di una grande tragedia nazionale – ha osservato ancora Marjanović – ma la preparazione degli animi per la prossima resa dei conti con le altre nazionalità che vivevano nel territorio jugoslavo». Gli storici serbi non ne furono estranei: «alcuni di essi avevano non solo appoggiato ma anche ispirato questa chiamata al combattimento […] sostenendo la tesi dell’odio antiserbo delle grandi potenze e degli Stati vicini». Hanno dunque «la loro parte di responsabilità nell’esplodere delle passioni nazionaliste»15. Sullo sfondo, la costruzione di una intelaiatura mitica nella quale il «popolo serbo» sostituisce la «classe» della retorica socialista, «popolo martire» e «popolo eletto» al tempo stesso. «Nazione vittima», esposta costantemente alla minaccia 13 Cfr. M. Pisarri, La memoria delle vittime civili in Serbia, in R. Petri (a cura di), Balcani, Europa. Violenza, politica, memoria, Giappichelli, Torino 2017, pp. 75-93. 14 Si veda supra, Parte prima, cap. II. 15 V. Marjanović, L’historiographie contemporaine serbe des années 80: de la démistification idéologique à la mistification nationaliste, in Marès (sotto la direzione di), Historie e pouvoir cit., pp. 140, 165 e 170, e Id., L’histoire politisée. L’Historiographie serbe depuis 1989, ibid., in particolare pp. 283-91; cfr. inoltre Pistan, Il ruolo dei miti e dei simboli cit.

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di genocidio (e quindi giustificata nel suo estremo difendersi). Sono idee e passioni alimentate a oltranza sui banchi di scuola, ha sottolineato Dubravka Stojanović. Con immagini terribili imposte già ai bambini e con il linguaggio stesso: «i detenuti del campo di concentramento di Jasenovac – annota un manuale per quattordicenni adottato a lungo – venivano massacrati con diversi strumenti, asce, martelli, mazze e sbarre di ferro, bruciati nel forno crematorio, cotti vivi in calderoni, impiccati, torturati con la fame, la sete e il freddo, senza cibo o acqua»16. In relazione alla Croazia, invece, Falk Pingel nel 2003 preferiva proporci una più asettica nota del ministero dell’Educazione: «la Croazia è sopravvissuta nonostante per secoli interessi stranieri, culture straniere e concetti ed idee straniere di sviluppo siano servite ad opprimerla». Di qui «un atteggiamento fiero di resistenza […]. Nell’ultimo secolo gli insegnanti croati, con sacrifici personali e con entusiasmo visionario […], hanno contribuito a fare in modo che qualsiasi persona minimamente informata ci veda come un popolo civile e di cultura, che non ha mai intrapreso guerre di conquista né ha mai coltivato mire imperialistiche». Pingel concludeva: «La purezza della propria storia riluce tanto più quanto più oscure possono essere rappresentate le azioni e gli atteggiamenti degli “altri”. Fino a quando varrà questa regola non ci si può aspettare che l’educazione storico-politica contribuisca ad una comune comprensione della storia»17 (e ancor meno, va aggiunto, alla costruzione dell’Europa). 16

Stojanović, Slow Burning cit., p. 146. F. Pingel, Nazioni ed Europa nell’educazione scolastica. Come vediamo noi stessi e gli altri, in Id. (a cura di), Insegnare l’Europa. Concetti e rappresentazioni nei libri di testo europei, Fondazione Agnelli, Torino 2003, p. XX. 17

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«Noi» e «gli altri»: una contrapposizione insistita, qui e altrove, e i manuali scolastici – condizionati a lungo dalle necessarie autorizzazioni da parte dello Stato e da curricula rigidi – sono un osservatorio fondamentale. Abbiamo su questo studi eccellenti, talora frutto del lavoro «minoritario» ma prezioso svolto da istituzioni, ong, associazioni e gruppi di insegnanti per contrastare le derive nazionalistiche (dall’Istituto Eckert, attivo anche in quest’area, al Center for Democracy and Reconciliation in Southeast Europe di Salonicco o a EuroClio, con il sostegno di istituzioni europee)18. Per contrastare cioè un insegnamento volto a gettare «olio sul fuoco», per citare un volume degli anni novanta che indaga il nesso fra manuali, stereotipi etnici e violenza19. E per favorire invece approcci comparativi e pluralistici, per stimolare la comprensione dei differenti punti di vista e lo spirito critico degli studenti, spostando al tempo stesso l’attenzione dalla conflittuale storia politico-militare alla vita quotidiana, alla dimensione sociale, economica e culturale. Un lavoro le cui proposte e i cui prodotti didattici sono confinati ovunque ai margini, accettati al più fra i testi «integrativi» e facoltativi che potrebbero essere adottati dagli 18 Oltre a Koulouri (a cura di), Clio in the Balkans cit., e agli altri testi già citati, cfr. S. Petrungaro, Sui banchi di scuola in Croazia. La storia nazionale ad uso didattico e le sue rielaborazioni lungo il ’900, in «Memoria e ricerca», gennaio-aprile 2004, pp. 113-28; Id., Riscrivere la storia. Il caso della manualistica croata (1918-2004), Stylos, Aosta 2006; Dimou (a cura di), «Transition» and the Politics of History Education cit.; «Zeitgeschichte», a. XLVI, 2019, 2, The Memory of Guilt Revisited. The Slovenian Post-Socialist Remembrance, Landscape in Transition, a cura di O. Luthar e H. Uhl; T. Trošt - J. Mihajlović Trbovc, Identity Politics in History Textbooks in the Region of the Former Yugoslavia, in A. B. Balazs - C. Griessler (a cura di), The Visegrad Four and the Western Balkans, Nomos, Baden Baden 2020. 19 W. Höpken (a cura di), Öl ins Feuer? Schulbücher, ethnische Stereotypen und Gewalt in Südosteurope, Hansche Buchandlung, Hannover 1996.

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insegnanti (poco preparati essi stessi, spesso, al passaggio dal dogma al pluralismo). Molte indagini e analisi specifiche ci fanno cogliere bene lo spessore del problema, e l’esplosione nazionalistica degli anni novanta non si limita a «invadere» la storia: un manuale di geografia croato del 1999 afferma, ad esempio, che «la diaspora della nazione croata è la più grande d’Europa anche a causa della pulizia etnica della Serbia»20. Una esplosione nazionalistica che in Serbia e in Croazia segue moduli speculari e opposti: dalla Jugoslavia fra le due guerre considerata «prigione dei popoli» a una lettura della Repubblica socialista che vede nella propria etnia la vittima di sopraffazioni altrui21. Con i convergenti richiami dei curricula ministeriali alla costruzione dell’identità nazionale e del patriottismo dei ragazzi come scopo principale dell’insegnamento22. Con l’enfasi posta sulle sofferenze del proprio popolo e sulla violenza dell’avversario, con linguaggi e fotografie «estreme». Secondo il modulo narrativo – ha osservato Stefano Petrungaro – che segna la tradizione orale e la poesia epica, o il linguaggio martirologico cristiano (Calvario e Resurrezione). Con una sorta di «ossessione della memoria» e l’esaltazione del sacrificio individuale in nome della nazione. Con l’accento posto costantemente su dolori e traumi collettivi, su persecuzioni e guerre, in un continuum che lega fra loro anche epoche lontane. Non stupisce – ha aggiunto Petrungaro – incontrare «una narrazione storica romanzata e mitizzante in un manuale di ini20

Pingel, Nazioni ed Europa nell’educazione scolastica cit., p. LIII. Koulouri, Introduction, in Id. (a cura di), Clio in the Balkans, in particolare pp. 39 sgg. 22 S. Koren, Yugoslavia: A Look in the Broken Mirror. Who Is the «Other»?, ibid., p. 196. 21

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zio Novecento, risulta invece spiazzante (re-)incontrarne una molto simile nei manuali contemporanei»23. Proprio questo è il punto: le differenti analisi dei manuali degli anni novanta fanno emergere un nazionalismo ottocentesco, da nation building. E le guerre di quel decennio rendono quasi irrisolvibile la lacerazione, talora impongono il silenzio: nel 1995 l’Accordo di Erdut, volto a reintegrare in Croazia la Slavonia orientale abitata anche da serbi, sospendeva temporaneamente l’insegnamento della storia recente24. Un nodo che non può esser rimosso: aver trascurato questo tema negli Accordi di Dayton per la Bosnia ed Erzegovina – ha osservato ancora Frank Pingel – non ha portato a un nuovo inizio ma al proseguimento dello stallo attraverso l’insegnamento separato per serbi, croati e musulmani bosniaci. Si è aperto poi un processo lungo, faticoso e talora contraddittorio25, e quello stesso nodo – di grandissimo rilievo – è presente anche in Kosovo e in Macedonia26. 23 S. Petrungaro, A scuola di trauma. In Jugoslavia e poi, in «Passato e Presente», settembre-dicembre 2006, 69; Id., Sui banchi cit., p. 125. 24 S. Koren - B. Baranović, What Kind of History Education Do We Have after Eighteen Years of Democracy in Croatia? Transition, Intervention and History Education Politics (1990-2008), in Dimou (a cura di), «Transition» and the Politics of History Education cit. 25 F. Pingel, From Ownership to Intervention – or Vice Versa? Textbook Revision in Bosnia and Herzegovina, in Dimou, «Transition» and the Politics of History Education cit., pp. 252-305; cfr. ibid. anche H. Karge - K. Batarilo, Norms and Practices of History Textbook Policy and Production in Bosnia and Herzegovina, pp. 307-55; cfr. inoltre C. Jouhanneau, La gestion du passé conflictuel en Bosnie-Herzégovine: le difficile appaisement des mémoires dans un quasi-protectorat européen, in Mink - Neumayer (sotto la direzione di), L’Europe et ses passés douloureux cit., pp. 181-92. 26 Cfr. D. Kostovicova, Albanian Parallel Education System and Its Aftermath, in Dimou (a cura di), «Transition» and the Politics of History Education cit., pp. 201-15, e R. Pichler, Historiography and Politics of Education in the Republic of Macedonia (1991-2008), ibid., pp. 217-49.

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Sono naturalmente differenziati i processi successivi agli anni di guerra27, ancora segnati, soprattutto in Serbia, da significative forme di controllo e di condizionamento su curricula e manuali. E da forti elementi di continuità, ha osservato ancora Dubravka Stojanović: nella relazione mitica con il passato, nella celebrazione di valori nazionalisti e premoderni, nell’elogio del disprezzo della morte. Si legga un manuale serbo pubblicato dopo il 2001 in relazione alla prima guerra mondiale: «molti condannati a morte – notavano le stesse autorità d’occupazione – si comportarono da eroi», con «collera spirituale e disprezzo per il nemico […]. Il nemico in Serbia dovette confrontarsi con una altissima e tremenda moralità politica della popolazione, senza precedenti nella storia dell’Europa moderna. La condanna a morte perse efficacia perché non c’era paura di morire»28. Percorsi differenziati, come s’è detto. Nelle modifiche dei curricula in Croazia – hanno osservato Snježana Koren e Branislava Baranović – influisce positivamente il percorso verso l’ingresso in Europa e quindi la necessità di adeguarsi alle indicazioni comunitarie (anche a questo può esser ricondotta la parziale riformulazione dei giudizi sullo Stato ustascia) ma il processo non sembra ancora molto profondo. Più in generale all’indomani stesso dell’ingresso nell’Unione, avvenuto nel 2013, sembra fare passi all’indietro quello stesso pluralismo e quello stesso rispetto delle minoranze che ne erano stati la prima condizione29. Già nel 2009 del resto Koren e Baranović avevano visto nell’inse27

Trošt - Mihajlović Trbovc, Identity Politics in History Textbooks cit. Stojanović, Slow Burning cit., p. 147. 29 Pistan, Memory Engineering cit., p. 414; Koren - Baranović, What Kind of History Education cit., pp. 113-33. 28

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gnamento della storia «nuovi abiti e vecchi spiriti» e avevano osservato che il ministero dell’Educazione continuava a considerarlo in primo luogo uno strumento per consolidare l’identità nazionale30. Il processo è continuato sino all’oggi: nel 2020, in riferimento sia alla Croazia che alla Serbia, Tamara Trošt e Jovana Mihajlović Trbovc hanno annotato che i manuali più recenti hanno sì «ammorbidito» i toni più aggressivi, sfumato i giudizi più estremi e ridotto lo spazio dedicato a temi controversi, ma le retoriche di fondo e le modalità della «costruzione della nazione» non sono mutate: a partire dalla enfatizzazione delle sofferenze e delle sopraffazioni subite e al tempo stesso della propria superiorità rispetto all’«altro»31, con un «racconto pubblico» delle guerre degli anni novanta che il trascorrere del tempo ha temperato solo in parte. In quello stesso volume un saggio analizza i discorsi tenuti dal 2015 al 2019 dai presidenti della Croazia e della Serbia, Kolinda Grabar-Kitarović e Aleksandar Vučić: in essi, si osserva, una narrazione storica basata sui tradizionali e contrapposti moduli entra in pesante contraddizione con il comune riferimento all’Europa. Riferimento ulteriormente incrinato in Vučić da quelle buone relazioni con la Russia (anche dopo l’invasione dell’Ucraina) cui dà sostegno, di nuovo, con rivisitazioni storiche parziali. Incrinato anche dalla non sopita aspirazione alla spartizione della Bosnia ed Erzegovina32. Al 30

Ibid., pp. 113 e 129. Trošt - Mihajlović Trbovc, Identity Politics in History Textbooks cit., pp. 197-230. 32 A. Maksic, Leaders and Ethnicity in post-Yugoslav States: The Discursive Politics of Alexandar Vucic and Kolinda Grabar-Kitarovic, in Balazs - Griessler (a cura di), The Visegrad Four cit., pp. 125-49. B. Guetta, Venti di guerra nei Balcani, in «la Repubblica», 26 novembre 2021; F. Tonacci, In Bosnia torna l’incubo della guerra, ivi, 28 novembre 2011. 31

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tempo stesso nella «società civile» croata sembrano semmai crescere, dopo il 2015, i riferimenti allo Stato ustascia e l’antifascismo appare sempre più ideologia vuota, legata alla ormai lontana e vituperata Jugoslavia socialista33. Osservazioni in parte differenti ma complementari sono suggerite dalla rivisitazione della storia (o meglio, dall’uso pubblico della storia) in Slovenia, coinvolta solo per pochi giorni, nel 1991, dalle guerre di quel decennio. Anche qui nel crollo della Jugoslavia viene messa in discussione la narrazione tradizionale della guerra di liberazione e irrompe l’evocazione delle uccisioni del maggio 1945, tema già sollevato in precedenza da voci critiche: nel 1976 a parlarne per primo era stato Edvard Kocbek, rappresentante dei partigiani cattolici, intervistato da Boris Pahor e Alojz Rebula per la rivista letteraria slovena di Trieste «Zaliv» («Il Golfo»)34. Inoltre il tema della «riconciliazione» rispetto alle lacerazioni del passato era stato sollevato negli anni ottanta dalla filosofa dissidente Spomenka Hribar (espulsa nel 1985 dalla Lega dei comunisti), che nel 1990 si fa promotrice di una giusta sepoltura per tutte le vittime della seconda guerra mondiale. E che negli anni successivi criticherà però le derive di molte iniziative su questo tema, nel loro trasformarsi in una vera e propria apologia della collaborazione col nazifascismo: compiuta – in questa deformata lettura – in opposizione alla barbarie comunista e per il bene del popolo sloveno. Sono derive alimentate sin dal 1990 dalla Chiesa cattolica, che «curva» in questa direzione la cerimonia di luglio a Kočevski Rog, luogo-simbolo delle uccisioni del 33

Pistan, Memory Engineering cit., pp. 422-5. B. Pahor, Tre volte no. Memorie di un uomo libero, con M. Orlić, Rizzoli, Milano 2009, pp. 101-21. 34

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1945, cui parteciparono l’arcivescovo di Lubiana e il capo dello Stato, Milan Kučan. In essa lo Stato ammise le colpe per i massacri compiuti dai partigiani ma la Chiesa si astenne dal riconoscere le proprie responsabilità, in una totale assenza di reciprocità35. Inizia così, ha osservato Oto Luthar, un tentativo di trasformare radicalmente il paesaggio memoriale sloveno capovolgendo i ruoli fra vittime e persecutori e spostando responsabilità e colpe sul movimento partigiano36. Un percorso che ha tappe e toni diversi, iniziando dalle discussioni suscitate nel 1998 dalla mostra Il lato oscuro della luna, promosso nel Museo di storia contemporanea di Lubiana dallo scrittore Drago Jančar: mostra che dagli eccidi del dopoguerra si spingeva a considerare la violenza e i meccanismi di potere negli anni del regime, con l’idea di fondo che «all’occupazione nazifascista seguì quella comunista» (mettendo radicalmente in discussione la tradizionale immagine di Tito e del suo «socialismo dal volto umano»)37. Con un ruolo di grande rilievo dei media (strumento principale, annotava Wolfgang Höpken già alla fine degli anni novanta, di una vera e propria «ossessione della storia»)38: dalle campagne giornalistiche alla serie televisiva Testimoni, iniziata 35 M. Verginella, Political Remake of Slovenian History and Trivialisation of Memory, in «Zeitgeschichte», a. XLVI, 2019, 2, pp. 189-204. 36 O. Luthar, The Sanitation of Slovenian Memorial Landscape, ivi, pp. 261-73; B. Godeša, Slovenian Historiography in the Grip of Reconciliation, ivi, pp. 205-24. 37 M. Verginella, La Slovenia tra memorie ritrovate e memorie sottratte, in Crainz, Pupo, Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace cit., pp. 47-8; sulla riflessione più propriamente storiografica cfr. il numero monografico di «Qualestoria» sul tema Fra invenzione della tradizione e ri-scrittura del passato. La storiografia slovena degli anni Novanta, a. XXVII, giugno 1999, 1. 38 Höpken, Guerra, memoria ed educazione cit.

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nel 201439. Giungendo sino alla lapide posta dall’ambasciatore americano a Lubiana, in cui i collaborazionisti diventano «sloveni […] che cercavano pace ma non potevano evitare la guerra». O all’iniziativa con cui la Chiesa impugna con successo la condanna in absentia del 1946 nei confronti del vescovo di Lubiana Gregorij Rožman, il cui corpo è riportato in patria e sepolto solennemente nella cattedrale della capitale. O alle rivalutazioni dell’«impegno patriottico» del collaborazionismo e delle sue milizie, i domobranci, con lapidi e monumenti talora direttamente contrapposti a quelli dedicati al movimento partigiano40. Una campagna insistita, sia pur con effetti diversificati41, e su cui influiscono i differenti climi politici. A partire dal mutamento segnato nel 2004 (pochi mesi dopo l’ingresso della Slovenia in Europa) dalla vittoria della coalizione nazionalista e conservatrice guidata da Janez Janša: il nuovo ministro dell’Istruzione disse subito che l’insegnamento della storia doveva privilegiare argomenti e temi volti a dare agli studenti orgoglio nazionale e a rafforzare l’identità slovena. Si pose mano così alla revisione dei curricula, organizzando anche discussioni e seminari cui si contrapposero quelli promossi dall’Associazione degli insegnanti sloveni in collaborazione con 39 M. Pušnik, Media-Based Historical Revisionism and the Public’s Memories of the Second World War, in «Zeitgeschichte», a. XLVI, 2019, 2. 40 Provoca proteste e contrapposte iniziative del centrosinistra la cerimonia in onore dei domobranci cui partecipa nel 2013 un leader di prima grandezza come Janez Janša: su questo e sulle più generali posizioni di Janša cfr. J.-A. Dérens, Les droites tentées par la radicalisation, in D. Vidal (sotto la direzione di), Les nationalistes à l’assault de l’Europe, Demopolis, Paris 2019, pp. 95-101. 41 M. Verginella, La Seconda guerra mondiale e le memorie slovene, in «Qualestoria», 2006, 1, Confini, Resistenze, memorie.

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EuroClio42. Un panorama diversificato, dunque, in cui si inserisce anche il monumento alle vittime di tutte le guerre inaugurato nel 2017 in piazza del Congresso a Lubiana, discusso con differenti e critici accenti. Auspicato anch’esso fin dagli anni ottanta da Spomenka Hribar e voluto poi in modo particolare dal presidente Borut Pahor nella convinzione che «riconciliazione non vuol dire cambiare il passato ma cambiare il futuro»43: due monoliti vicini, di differenti forme ma sostanzialmente equivalenti, simbolo di «un’unica popolazione che nonostante i dissidi è fatta della stessa materia e poggia sulle stesse fondamenta»44. Fortemente connesse alla storia e alle lacerazioni della ex Jugoslavia le osservazioni qui fatte conducono a un tema generale, sottolineato da Antoine Marès in relazione all’intera Europa centro-orientale. Qui, ha scritto, la storia 42 P. Vodopivec, Politics of History Education in Slovenia and Slovene History Textbooks since 1990, in Dimou (a cura di), «Transition» and the Politics of History Education cit., p. 64. Cfr. ibid. anche V. Brodnik, Revision of History Curricula in the Republic of Slovenia (2006-2008), pp. 71-90. Già negli anni novanta, del resto, i manuali sloveni apparivano migliori rispetto a quelli serbi e croati anche per effetto di un maggior rinnovamento storiografico: cfr. N. Budak, Ricerca storica e redazione dei libri di testo nelle entità statali nate dalla Jugoslavia socialista, in Pingel (a cura di), Insegnare l’Europa cit.; cfr. inoltre D. Potočnik - J. Razpotnik, The Second World War and Socialistic Yugoslavia in Slovenian Textbooks, in Koulouri (a cura di), Clio in the Balkans cit., pp. 227-31. 43 M. Zajc, The Politics Memory in Slovenia and the Erection of the Monument to the Victims of All Wars, in «Zeitgeschichte», a. XLVI, 2019, 2, p. 235. 44 K. Lowe, Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della seconda guerra mondiale sulla memoria e su noi stessi, Utet, Milano 2020, pp. 157-68; Zajc, The Politics Memory cit., pp. 225-40; B. Klabjan, Politiche della memoria in Slovenia e nello spazio altoadriatico tra pratiche nazionali e intrecci internazionali, in «Qualestoria», dicembre 2021, Culture del ricordo e uso politico della storia nell’Europa contemporanea, a cura di F. Focardi e P. Lagrou, pp. 69-87.

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è «asse centrale di una strategia di sopravvivenza» proprio per la precarietà politica dei differenti paesi, per la loro ricorrente incertezza e fragilità. «Quando dei popoli non hanno avuto uno stato, come slovacchi o sloveni, devono costruirsi un passato che giustifichi il “diritto naturale” della nazione ad essere sovrana. Quando le strutture statali sono scomparse per lunghi periodi – come per i polacchi, i cechi, i croati, i serbi – la storia è il passaggio obbligato per una restaurazione dello stato. E anche quando si beneficia di una continuità statale bisogna costantemente difenderla di fronte agli appetiti imperialisti di vicini troppo potenti e troppo intraprendenti». Nulla di nuovo, ha aggiunto: la storia era già stata al centro dei processi ottocenteschi di costruzione o risveglio delle nazioni, ed era stata «messa in scena» dal teatro, dalla letteratura, dai riti patriottici45. Al nodo evocato da Marès faceva sofferto riferimento già all’indomani della seconda guerra mondiale l’ungherese István Bibó riflettendo sulla «miseria dei piccoli Stati dell’Europa centrale». Riflettendo, in altri termini, sul «nazionalismo antidemocratico», il «tratto più caratteristico dello squilibrio della psicologia politica» in quest’area, e vedendovi «la paura esistenziale per la propria comunità». «Nella continua sensazione di pericolo – affermava – è divenuta regola ciò che le democrazie conoscono solo nell’ora del vero pericolo: la riduzione delle libertà pubbliche […], l’imposizione ad ogni costo dell’ordine, o della sua apparenza, e dell’unità nazionale a scapito della libertà»46. Parole riecheggiate settant’anni dopo nelle ri45 A. Marès, L’Historiographie de l’Europe médiane comme miroir des identités nationales, in Id. (a cura di), Histoire et pouvoir cit., pp. 9-13. 46 I. Bibó, Miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale (1946), il Mulino, Bologna 1994, pp. 53-4 e 58.

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flessioni di Anton Pelinka dopo una netta affermazione elettorale di Orbán: con i toni apocalittici della sua campagna, osservava, ha fatto leva sulla convinzione profonda e diffusa che «il Paese sia sempre stato punito dalla Storia, tradito dagli altri, fossero i sovietici, gli americani, gli europei». Sull’autopercezione radicata «che l’Ungheria sia sempre oggetto di cospirazioni dirette contro di lei», perennemente a rischio47. Valgono per più versi, insomma, le osservazioni che Uilleam Blacker e Alexander Etkind premettono a un denso volume a più voci: «l’Europa è una comunità della memoria. Quando l’Unione europea ha ammesso i dimenticati cugini dei paesi post socialisti non ha considerato i differenti vissuti che avrebbero portato». Anche per questo, «nel ripensare se stessa» deve fare i conti in modo così acuto con «lo specchio deformato delle sue memorie»48.

47 P. Valentino, «È un Paese che si sente tradito dalla Storia», in «Corriere della Sera», 10 aprile 2018. 48 Blacker - Etkind, Introduction, in Blacker, Etkind, Fedor (a cura di), Memory and Theory in Eastern Europe cit., p. 16.

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OMBRE D’EUROPA

IV.

Shoah e Gulag: differenti Novecento?

Sin qui è stato solo sfiorato il grande tema che irrompe nel crollo della Cortina di ferro: il peso della Shoah e del Gulag nella storia del Novecento, la possibilità di fare i conti contemporaneamente con il totalitarismo nazista e quello comunista (di superare cioè memorie sin qui «incompatibili», per dirla con Tony Judt)1. Un nodo presente già all’indomani del 1989, all’avvio dell’allargamento a Est dell’Unione europea, ed esploso poi all’indomani di esso, nel 2005. Nel giro di poche ore infatti si susseguono allora due contrapposti segnali: il 10 maggio si inaugura nel cuore di Berlino il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, culmine del processo che ha sancito la centralità della Shoah nella coscienza tedesca ed europea. Il giorno prima invece Lituania ed Estonia disertano le celebrazioni moscovite del 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale: per noi, aveva detto qualche mese prima la presidente lettone Vaira Vīķe-Freiberga, quel giorno – la sconfitta del nazismo – non è un momento di gioia ma «l’infausto inizio» della dominazione sovietica. E già in precedenza Sandra Kalniete, ministro degli Esteri dello 1 T. Judt, Quando i fatti (ci) cambiano. Saggi 1995-2010, Laterza, RomaBari 2020, p. 136.

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stesso paese, aveva provocato forti proteste a Lipsia affermando che entrambi i regimi totalitari – nazismo e comunismo – «furono criminali e non dev’esser fatta differenza fra di loro per il fatto che uno di essi era schierato coi vincitori». Si può aggiungere che le famiglie di entrambe avevano avuto esperienza diretta delle persecuzioni sovietiche e che nei paesi baltici il carro bestiame evoca la deportazione in Siberia, non Auschwitz2. Fu certamente un momento traumatico, quel 9 maggio del 2005, e Régine Robin vi ha visto «l’archiviazione del paradigma antifascista»3. In realtà era la «rivelazione» del doppio significato che quel paradigma aveva avuto al di qua e al di là della Cortina di ferro: elemento propulsivo di culture democratiche e riformatrici a Occidente, e a Oriente invece ideologia e fonte di legittimazione di un potere totalitario. Era solo un aspetto di una forte «asimmetria di memorie»: la Kalniete, ha osservato Emmanuel Droit, sottolineava la sofferenza dei lettoni sotto il dominio sovietico ma non ricordava la partecipazione di centinaia di essi allo sterminio degli ebrei fra il 1941 e il 1944. E già prima, il 27 gennaio 2004, Simone Veil al Bundestag aveva detto: «La Shoah non è ancora sufficientemente riconosciuta in un certo numero di paesi dell’Est: manipolato dai regimi comunisti al potere, il ricordo delle sofferenze inflitte dall’occupante nazista ai popoli occupati ha messo in sordina il ricordo delle sofferenze inflitte agli ebrei, talora con la complicità di questi popoli […]. Nel 2 Alle drammatiche vicende della sua famiglia la Kalniete, nata appunto in Siberia, ha dedicato un libro intenso, Scarpette da ballo nelle nevi di Siberia, Scheiwiller, Milano 2005; cfr. inoltre E. Droit, Le Goulag contre la Shoah: mémoires officielles et cultures mémorielles dans l’Europe élargie, in «Vingtième Siècle», aprile-giugno 2007, 94, pp. 101-20. 3 Robin, I fantasmi della storia cit., p. 23.

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Shoah e Gulag: differenti Novecento?

momento in cui l’Europa si allarga a Est bisogna allarmarsi di queste derive perché […] toccano in profondità l’identità dell’Europa futura»4. Ricordando, naturalmente, che nella narrazione sovietica la Shoah in quanto tale non era riconosciuta5. Molti nodi vengono dunque al pettine in quel 9 maggio del 2005 che nei progetti di Putin doveva riproporre con forza il mito della «grande guerra patriottica»6. Alle diserzioni si aggiunsero le «partecipazioni ostili» della Lettonia e della Polonia: in quell’occasione, ad esempio, il leader polacco Aleksander Kwaśniewski depose fiori alle vittime dello stalinismo evocando il Patto Molotov-Ribbentrop, la spartizione della Polonia e le fosse di Katyń7. E Karel Kaplan, lo storico delle repressioni staliniane a Praga, a giusto titolo denunciava il colpevole silenzio degli intellettuali di sinistra dell’Occidente di fronte ai crimini del comunismo8. Contraddizioni, e contraddizioni in più sensi. «La Russia si scusi per i massacri» dice con decisione il presidente estone Arnold Rüütel, e al tempo stesso giustifica gli estoni che combatterono al fianco dei nazisti: «Nessuno qui è mai stato nazista. Si lottava per impedire il ritorno dell’Urss […]. Una resistenza disperata per salvare le proprie famiglie. Nazismo e comunismo avrebbero por4

Cit. in Droit, Le Goulag contre la Shoah cit. Judt, Quando i fatti cit., pp. 131-44; A. Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah, il Mulino, Bologna 2007; G. Gribaudi, La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento, Viella, Roma 2020, in particolare pp. 43-165. 6 S. Viola, La memoria dell’altra Europa, in «la Repubblica», 14 marzo 2005. 7 A. Bonanni, La strana festa dell’Europa tra bandiere e polemiche, ivi, 9 maggio 2005. 8 S. Viola, La festa amara dei popoli beffati dalla Liberazione, ivi, 1° maggio 2005. 5

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tato a esiti analoghi: i paesi baltici erano in una morsa e si sono opposti al nemico più pericoloso»9. Esplodono allora due questioni di differente segno, indebitamente intrecciate e destinate a condizionare il percorso successivo. Era ed è assolutamente fondata infatti l’esigenza di non rimuovere la drammaticità del totalitarismo comunista, di non appannare il ricordo dei crimini e delle tragedie di cui segnò anch’esso il Novecento. Al tempo stesso nei paesi post-comunisti questa esigenza – fondamentale per l’insieme dell’Europa – tendeva e tende a coniugarsi alla sostanziale rimozione o negazione della centralità della Shoah, con forme di autoassoluzione che largamente cancellano le proprie corresponsabilità in essa. Sino alla legge polacca, poi modificata, che rendeva un crimine evocarle. Sino alle cerimonie e ai monumenti dedicati nei paesi baltici a chi combatté «per la libertà» contro l’Unione Sovietica al fianco dei nazisti. Sino a musei e memoriali dedicati al Terrore e ai Genocidi in cui – a Budapest come a Vilnius – sono i regimi comunisti a occupare pienamente il campo. Sino alla sostanziale riabilitazione, intrisa di nazionalismo e di autoassoluzione, di leader ed esponenti del collaborazionismo, da monsignor Tiso in Slovacchia a Ion Antonescu in Romania o a Miklós Horthy e a László Bárdossy in Ungheria, e ad altri ancora (di Ante Pavelić in Croazia si è detto)10. Ed era sconsolante il quadro che 9 G. Visetti, I baltici chiedono l’aiuto di Bush. «La Russia si scusi per i massacri», ivi, 6 maggio 2005. 10 Droit, Le Goulag contre la Shoah cit. È una «riabilitazione» cui hanno contribuito spesso in modo decisivo storici e intellettuali emigrati negli anni del comunismo: Marès, L’historiographie de l’Europe cit.; cfr. inoltre B. Groppo, Politiche della memoria e dell’oblio in Europa centrale e orientale dopo la fine dei sistemi comunisti, in Focardi - Groppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie cit., pp. 215-43.

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Ivo Goldstein doveva tracciare una ventina di anni fa analizzando il modo in cui la storia ebraica era trattata nei manuali scolastici dell’Europa centro-orientale11. Di tendenze e pulsioni qui naturalmente si parla, connesse anche a «memorie di parte» di lungo periodo e alimentate dal risorgere dei nazionalismi: tendenze e pulsioni cui si oppongono energie intellettuali e civili di differente segno. Sono gli aspetti su cui ci interrogheremo nelle prossime pagine e cui hanno dato risposta solo in parte le istituzioni europee: certamente importanti nell’«imporre» un comune misurarsi con i drammi del Novecento («il riconoscimento dell’Olocausto è l’attuale biglietto di ingresso per l’Europa» ha annotato Tony Judt)12 ma diventate talora terreno di competizione più che di confronto fra le contrapposte narrazioni e i differenti vissuti. È del 2005 la decisione di istituire una Giornata europea della memoria della Shoah, entrata in vigore l’anno successivo nella data del 27 gennaio13: indubbiamente essa «è divenuta così la più europea delle nostre celebrazioni civili», anche se quella data è stata talora accompagnata o sostituita da altre, soprattutto a Est; e anche se non è celebrata ovunque con lo stesso rilievo (non solo a Est)14. 11 I. Goldstein, The Treatment of Jewish History in Schools in Central and Eastern Europe, in Koulouri (a cura di), Clio in the Balkans cit., pp. 350-8. 12 T. Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, Milano 2005, p. 990. 13 Faceva seguito alla Dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto del gennaio del 2000 e ad altre risoluzioni ancora: cfr. M. J. Prutsch, European Historical Memory: Policies, Challenges, and Perspectives, European Parliament, Directorate-General for Internal Policies, Bruxelles 2015, pp. 18-9; cfr. inoltre A. Sierp, Le politiche della memoria dell’Unione europea, in «Qualestoria», dicembre 2021, pp. 19-34. 14 Cfr. A. Foa, La Shoah e il permanere dell’antisemitismo, in Bolaffi Crainz (a cura di), Calendario civile europeo cit., pp. 162 sgg.

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Quella decisione era accompagnata dalla Risoluzione europea del 12 maggio del 2005 che riconosceva «la nuova tirannia» e le «immani sofferenze e ingiustizie» subite dalle nazioni rimaste al di là della Cortina di ferro. Un segnale atteso, a Est: si apriva così il percorso segnato dalla Dichiarazione del Parlamento europeo del settembre del 2008 e dalla Risoluzione dell’aprile successivo che proclamavano il 23 agosto (data del Patto Molotov-Ribbentrop) «Giornata europea delle vittime dello stalinismo e del nazismo». Una data sostanzialmente ignorata in Occidente, osservava qualche anno dopo lo storico polacco Robert Traba, perché «in alcuni ambienti della sinistra si suggerisce in modo tendenzioso che con essa si cercherebbe di cancellare dalla memoria il 27 gennaio». Eppure «se messe insieme queste due date potrebbero raccontare la pagina più tragica della storia europea»15. Un percorso decisivo ma ancora difficile, non aiutato poi da una discussa e discutibile mozione del Parlamento europeo del 19 settembre del 2019. Discutibile non per la contemporanea condanna di nazismo e comunismo ma semmai per alcune improbabili «lezioni di storia», con il nesso diretto ed esclusivo fra quel Patto e lo scoppio della seconda guerra mondiale. E discutibile, anche, per la sua stessa natura di mozione politica, esposta alla mediazione fra narrazioni che restano differenti, se non reciprocamente estranee: con la giustapposizione fra le parti in cui si insiste soprattutto sui crimini del comunismo e quelle in cui si condanna sia il nazismo sia «il revisionismo storico e la glorificazione dei collaboratori nazisti in alcuni Stati membri dell’Ue». Una mozione politica, appunto, «con15

Traba, Memorie asimmetriche cit., p. 109.

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trattata» fra le parti, non un reale passo in avanti nel confronto di memorie16. È difficile negarlo, nell’affrontare questi temi i concetti stessi di storia e di memoria vengono sfidati e messi alla prova. Autogiustificazioni e ragioni fondate si intrecciano talora strettamente, e può essere utile prendere avvio da alcune differenti e talora contrastanti chiavi di lettura che sono state proposte. Da alcune «parzialità», se si vuole. Ed è doveroso fare i conti con il lungo e colpevole oblio dell’Occidente per le sofferenze dei popoli che avevano conosciuto sia l’occupazione nazista che quella staliniana: è comprensibile, hanno osservato Uilleam Blacker e Alexander Etkind, che quei popoli sostengano ora con forza la tesi del «doppio genocidio» – nazista e comunista –, ma è meno comprensibile o accettabile che neghino il proprio coinvolgimento nelle persecuzioni antisemite. E si annoti almeno di sfuggita, con Aleida Assmann, che il Gulag, nuovamente espulso dall’orizzonte memoriale russo, è messo al centro soprattutto da paesi ex comunisti che non hanno conosciuto il Terrore degli anni trenta17. Un nodo irto, ha osservato a sua volta Emmanuel Ruben: nel 2004 l’Europa poteva allargarsi solo esigendo dai paesi dell’Est «quell’autentico lavoro di memoria che non avevano potuto fare sotto il comunismo sovietico o quello di Tito. Il che significa confessare pubblicamente che essi non furono soltanto le vittime della barbarie nazista ma (anche) i suoi principali alleati; che degli slovacchi, degli ungheresi, dei romeni, dei croati, degli ucraini si batterono 16 Per una differente lettura cfr. M. Flores, Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, il Mulino, Bologna 2020, pp. 39-48 e 111-9. 17 U. Blacker - A. Etkind, Introduction, in Blacker, Etkind, Fedor (a cura di), Memory and Theory in Eastern Europe cit., pp. 2-22; A. Assmann, Europe’s Divided Memory, ibid., pp. 25-41.

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per il Reich, con il Reich, e questo in primo luogo contro gli ebrei». Nel 2004, ha concluso Ruben, «l’Europa non pose questa condizione. Credendo di ingrandirsi non ha fatto che rinunciare ai suoi valori, fingendo di non vedere che quelli che accoglieva a braccia aperte […] restavano aggrappati a idoli del passato che non sono i nostri»18. Osservazioni unilaterali, certo, e sembrano ignorare il lento e difficile affermarsi della centralità della Shoah anche a Occidente, assieme alla lunga rimozione del collaborazionismo (non solo in Francia)19; assieme al lungo viversi unicamente come vittime anche da questa parte della Cortina di ferro (non solo nella Germania dei primi anni del dopoguerra). Si pensi poi, per quel che ci riguarda, alla perdurante rimozione o sottovalutazione dei nostri crimini in Africa e nei Balcani. O al «silenzio dell’Occidente» nei confronti dei drammi dell’Europa centro-orientale, dal Patto di Monaco del 1938 sino alla Praga invasa trent’anni dopo: lo stesso «tradimento di Jalta – osservava Bronisław Geremek nel 2000 – quando Roosevelt e Churchill consegnarono a Stalin metà del continente, non ha lasciato tracce di rammarico nelle coscienze d’Europa». In qualche modo una conseguenza, ha osservato Norman Davies, di un abito mentale che «ha sempre privilegiato la solidarietà fra i vincitori del 1945 e concesso una sorta di bonus di indulgenza ai comunisti partecipi dell’antifascismo» (anche se a Est, come s’è detto, esso è stato l’ideologia di Stato di regimi liberticidi)20. Un «bonus di indulgenza» concesso nella più o meno implicita convinzione che il comunismo 18

E. Ruben, Le cœur de l’Europe, La Contre Allée, Paris 2018, p. 84. Cfr. almeno H. Rousso, Le syndrome de Vichy 1944-198…, XX siècle, Paris 1987; R. Cazzola - G. E. Rusconi, Il «caso Austria». Dall’«Anschluss» all’era Waldheim, Einaudi, Torino 1988. 20 Traggo le citazioni da Spinelli, Il sonno della memoria cit., pp. 9 e 29. 19

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avesse comunque una giustificazione storica e morale che il nazismo non aveva. È difficile negare, a mio avviso, l’unicità della Shoah nella storia del Novecento, ma questo non può escludere la comparazione fra differenti e tragici totalitarismi: è in gioco la capacità dell’Europa di fare realmente i conti con le sue differenti memorie. Con molte ragioni nel 2005 Jorge Semprún auspicava che la realtà del Gulag fosse integrata appieno nella coscienza storica europea prima del decennale successivo: è difficile sostenere che ciò sia avvenuto. E se l’oblio della Shoah, come è stato detto, sarebbe una vittoria postuma di Hitler, l’oblio del Gulag sarebbe una vittoria postuma di Stalin21.

21 Riprendo qui le osservazioni svolte in Droit, Le Goulag contre la Shoah cit.

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V.

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Provai un senso di straniamento quasi vent’anni fa, all’indomani dell’ingresso della Lituania in Europa, visitando il Museo delle vittime del genocidio a Vilnius, in un edificio che era stato prigione politica sia della Gestapo che del Kgb. Un fortissimo senso di straniamento: in una città profondamente colpita dalla Shoah si faceva riferimento unicamente al «genocidio comunista»1, utilizzando il termine coniato dalla diaspora baltica. Un genocidio «che non è riconosciuto come tale», secondo la dizione utilizzata qui2. Con una ricostruzione di grande effetto della cella di torture ed esecuzioni del Kgb («scorre ancora il sangue delle vittime»), di fatto il «centro emotivo» del museo, ma nulla di analogo per quella nazista: in questo caso «mancano le evidenze fisiche», dissero i curatori (ma anche la cella del Kgb era stata ricostruita ex post, utilizzando oggetti e frammenti trovati altrove)3. Con grande 1 Lo stesso dépliant illustrativo, un «documento» illuminante, si riferiva solo ad esso. 2 Ibid. Una ricostruzione dell’Olocausto a Vilnius e in Lituania è invece nel Museo ebraico della città, e si veda F. Cataluccio, Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania, Humboldt Books, Piacenza 2022, pp. 48-65; cfr. inoltre J. Brokken, Anime baltiche, Iperborea, Milano 2014, in particolare pp. 139-45 e 180-2. 3 Per una più ampia descrizione cfr. J. Mark, Containing Fascism. History in Post-Communist Baltic Occupation and Genocide Museums, in Sarkisova Apor (a cura di), Past for the Eyes cit., pp. 335-69.

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spazio alla deportazione in Siberia4 e alla prosecuzione sino ai primi anni cinquanta della lotta armata dei «fratelli della foresta» contro l’Unione Sovietica5, ma con pesantissime coltri di silenzio su altri aspetti. Alcune correzioni successive non sembrano aver modificato l’impostazione di fondo, e dal 2008 ha assunto il nome di Museo delle occupazioni e delle lotte per la libertà6. Molti elementi influiscono sul modo con cui nei paesi baltici si è guardato (e si guarda) alle «due occupazioni» e ai «due genocidi», sia pur con differenze all’interno di essi. Vi è naturalmente una reazione alla lunga dominazione sovie4 Si veda anche l’opuscolo pubblicato dal Centro di ricerca lituano sul genocidio e la Resistenza, cui il museo fa capo: D. Kuoditė - R. Tracevskis (a cura di), Siberia. Mass Deportations from Lithuania to the Urss, Vilnius 2004. All’Olocausto è dedicato solo un breve riferimento iniziale, quasi fra parentesi: «Durante le occupazioni naziste e sovietiche, includendo 220 000 vittime dell’Olocausto, le perdite della popolazione lituana ammontarono al 33% rispetto al 1940. La Lituania perse un milione di persone per deportazioni, esecuzioni, incarcerazioni, assassinii della opposizione politica, emigrazioni forzate e conseguente calo della natalità. Naturalmente la Siberia fu la principale destinazione dei prigionieri lituani» (ibid., p. 2). 5 Id., The Unknown War. Armed Anti-Soviet Resistance in Lithuania in 1944-1953, Vilnius 2004. Vi si legge che più di 50 000 persone furono impegnate nella lotta armata anticomunista e di esse più di 10 000 furono uccise già nel 1944-46, più di 20 000 in totale (p. 24). A questo aspetto si riferiscono anche le donne intervistate da Dovilė Budrytė, deportate da piccole con la loro famiglia o nate nella deportazione, e ora impegnate in politica: D. Budrytė, Experiences of Political Trauma and Political Activism: A Study of Women «Agents of Memory» in Post-Soviet Lithuania, in E-C. Pettai (a cura di), Memory and Pluralism in the Baltic States, Routledge, London-New York 2011, pp. 55-74. 6 Considerazioni analoghe sono state fatte per il Museo del Nono Forte di Kaunas, sorto nel 1958 come «Museo delle vittime del fascismo» e radicalmente modificato dopo il 1991. Nel periodo nazista il Forte vide l’uccisione di un numero altissimo di ebrei, con la collaborazione delle forze militari lituane, ma fu utilizzato come luogo di detenzione anche dai sovietici sia nel 1941 che nel 1945-48. Aspetto rimosso prima del 1991 ed enfatizzato poi: cfr. Mark, Containing Fascism cit., pp. 339-40.

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tica (dal 1940 al 1941 e poi dal 1944 al 1991), assieme a una larga autoassoluzione per il sostegno dato a quella nazista: sino alla rivendicazione di quel sostegno, considerato ancor oggi necessario – o comunque giustificato – in ampie aree d’opinione. Vi è la lunga rimozione di fenomeni non marginali di collaborazione con lo sterminio degli ebrei. E vi è il rifiuto sia della retorica sovietica sulla «liberazione dal nazismo» sia della narrazione dell’Europa occidentale incentrata sull’Olocausto. Una narrazione vissuta come «esterna» e sorda alle proprie sofferenze, e solo parzialmente accettata – se non subita – nel corso degli anni soprattutto per le pressioni dell’Unione europea. Capaci di limitare le manifestazioni pubbliche più dissonanti ma inevitabilmente deboli nel modificare memorie e vissuti collettivi. Il tutto in un panorama reso più complesso dalla presenza di forti minoranze russe, soprattutto in Lettonia ed Estonia: provoca le loro accese proteste nel 2007 la rimozione dal centro di Tallin del monumento al soldato sovietico (tradizionale luogo di riferimento, il 9 maggio, degli estoni russi e di chi combatté contro i nazisti), e non mancano memorie private ancora legate al passato comunista. Con forme di «ostalgia» che sono anche qui, in primo luogo, una reazione alle incertezze e alle delusioni del presente7. Si vedano poi il Museo dell’occupazione della Lettonia, a Riga, e il Museo delle occupazioni, a Tallin, che comprendono le «due occupazioni» e le vittime di entrambe, con una equiparazione «dichiarata» dai due treni all’ingresso del Museo di Tallin: uguali ma segnati rispettivamente dalla sva7 N. Klumbytė, Memory, Identity and Citizenship in Lithuania, in Pettai (a cura di), Memory and Pluralism cit., pp. 19-37; M. Ivaškevičius, Quando avranno pescato gli amur bianchi, in Modrzejewski - Sznajderman (a cura di), Nostalgia cit.

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stica e dalla stella rossa. In realtà si va poi oltre, a Riga come a Tallin, con il sostanziale spostarsi dell’attenzione sul trauma dell’occupazione sovietica. Il principale catalogo del museo lettone fa così il bilancio di «cinquantun anni di occupazione»: «un terzo della popolazione morì in seguito ad assassinii politici, genocidi, azioni belliche, deportazioni e trattamento disumano nei Gulag o andò in esilio alla fine della guerra mondiale per fuggire dal ritorno dei sovietici. Al loro posto furono insediati cittadini provenienti da altre parti dell’Urss, che non parlavano lettone ed erano estranei alla cultura del paese. Entrambe le forze di occupazione cercarono di privare il popolo lettone del suo orgoglio nazionale e di negare, falsificare o distorcere la storia della Lettonia e i legami storici della Lettonia con l’Europa»8. Si vedano poi le parti di questo stesso museo che descrivono l’accoglienza favorevole della popolazione alle truppe di Hitler o il filmato del Museo di Tallin che elogia coloro che combatterono in Estonia al fianco dei nazisti contro la «valanga sovietica»9. Filmato consonante con alcune celebrazioni pubbliche in entrambi i paesi: a partire dalle manifestazioni del 16 marzo a Riga in onore degli ex combattenti della Legione lettone delle SS, iniziate nel 1998. Una legione che aveva avuto fra le sue file anche i membri del Commando Arājs, che nel 1941 collaborò allo sterminio di Rumbula: 25 000 ebrei provenienti soprattut8 Traggo la citazione da K. M. Platt, Occupation versus Colonization: Post-Soviet Latvia and the Provincialization of Europe, in Blacker, Etkind, Fedor (a cura di), Memory and Theory in Eastern Europe cit., p. 136. 9 Mark, Containing Fascism cit.: Mark sottolinea come questi musei tendano ad attenuare la drammaticità dell’occupazione nazista per far meglio risaltare i crimini sovietici; cfr. inoltre P. Bonnard - M. Meckl, La gestion du double passé nazi et soviétique en Lettonie. Impasses et dépassement de la concurrence entre mémoires du Goulag et d’Auschwitz, in Mink - Neumayer (sotto la direzione di), L’Europe et ses passés cit., pp. 169-80.

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to dal ghetto della capitale, il più grande massacro compiuto con armi da fuoco dopo quello di Babij Jar10. In quel 1998 la manifestazione ebbe una ufficialità e una partecipazione delle autorità che poi sono mancate, anche per le pressioni dell’Unione europea11. Ma è proseguita comunque, talora contrastata da iniziative di opposto segno. In Estonia invece le polemiche hanno riguardato un monumento eretto nel 2002 nel cimitero di Pärnu: raffigurava un soldato con la divisa delle SS ed era dedicato a «tutti i soldati estoni che caddero nella seconda guerra mondiale per liberare la loro patria e per un’Europa libera». Per intervento del governo fu spostato in un piccolo villaggio, Lihula, modificando sia l’immagine (ora era un soldato con l’elmetto tedesco e la croce estone della libertà sul colletto) sia l’iscrizione: «Per gli estoni che combatterono nel 1940-45 contro il bolscevismo e per riconquistare l’indipendenza estone». Nel 2004 lo inaugurò il sindaco rendendo onore a chi «scelse il male minore», alla presenza di molte persone confluite qui per l’occasione. Fu rimosso quindici giorni dopo, e successivamente il governo respinse altri progetti di memoriali dell’Associazione dei combattenti estoni per la libertà. Il ministro degli Esteri Kristiina Ojuland motivò così la posizione del governo: «L’Estonia è un piccolo paese che condivide i valori europei e sta costruendo il suo futuro come paese della Nato e della Ue […]. Azioni locali inappropriate hanno spesso serie e dannose conseguenze internazionali. L’Estonia riconosce la necessità di commemorare quel che è accaduto 10

Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah cit. Il presidente lettone Guntis Ulmanis fece riferimento esplicito già allora a «considerazioni internazionali», e crescenti misure restrittive vennero negli anni successivi: Bonnard - Meckl, La gestion du double passé cit., pp. 169-80. 11

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ma deve esser fatto in modo che i mali del passato non avvelenino il futuro»12. Qualche anno prima era stato ancor più ambiguo, per dir così, l’atteggiamento di fronte alla risepoltura con gli onori militari di un comandante della Legione estone: il governo vi contribuì finanziariamente ma non vi presenziò13. E Meike Wulf e Pertti Grönholm hanno osservato che molti politici emersi negli anni novanta erano studiosi di storia coinvolti direttamente in una riscrittura nazionalistica del passato14. A preoccupazioni internazionali era esplicitamente connessa già nel 1998 l’istituzione di commissioni storiche aperte a studiosi stranieri e volte a indagare anche i crimini nazisti: non senza resistenze, perché questo minava la centralità del «genocidio comunista» e al tempo stesso la visione delle popolazioni baltiche unicamente come vittime15. La Commissione lettone inizia i suoi lavori nel 2000, mette al centro «i crimini contro l’umanità dal 1940 al 1956» e nel 2001 – prendendo le distanze dalle letture basate sui «due genocidi» – afferma di voler considerare in primo luogo l’Olocausto e il coinvolgimento dei lettoni negli eccidi. E a quello di Rumbula l’anno successivo è dedicato un memoriale16. Altri elementi vengono poi dai lavori della Com12 Mark, Containing Fascism cit., p. 356; M. Wulf, Memories in PostSoviet Estonia, in Kopeček (a cura di), Past in the Making cit., pp. 221-38. 13 Ibid. 14 M. Wulf - P. Grönholm, Generating Meaning across Generation: The Role of Historians in the Codification of History in Post-Soviet Estonia, in Pettai, Memory and Pluralism cit., pp. 75-106. 15 In quello stesso anno una circolare del ministero dell’Educazione lettone aveva precisato che gli studenti dovevano essere in grado di comprendere e impiegare il termine di Olocausto: Mark, Containing Fascism cit. 16 Bonnard - Meckl, La gestion du double passé cit., p. 176. In quell’occasione la stessa presidente Vaika Vīķe-Freiberga riconobbe che ad esso collaborarono anche cittadini lettoni.

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missione internazionale estone, il cui intento fu dichiarato esplicitamente: il presidente Lennart Meri auspicò infatti che servisse alla riconciliazione nella società estone e alla sua reintegrazione nella comunità delle nazioni. Le sue conclusioni sulla realtà dell’occupazione nazista sono molto nette, e non reticenti sul collaborazionismo: l’Estonia è stato certo un paese vittima, si osserva, ma questo non esclude atti di persecuzione. Esse appaiono dunque equilibrate e fondate, ha osservato Meike Wulf, ma rivolte in primo luogo alla comunità internazionale (e unite alla richiesta di riconoscere anche a Occidente la realtà del Gulag): ancora non condivise però da gran parte dell’opinione pubblica e dalla maggioranza degli storici estoni. E l’istituzione della Giornata europea della memoria dell’Olocausto, ha aggiunto Wulf, ha avuto poco significato per i ragazzi, perché esso è quasi assente nelle memorie familiari e nella narrazione ufficiale17. Si possono apprezzare meglio allora le dichiarazioni del 2006 dell’appena eletto presidente Toomas Hendrik Ilves, un intellettuale figlio di esuli. Ilves ricordava che non pochi estoni collaborarono anche con il regime sovietico, non solo con l’occupante nazista, e concludeva: «Bisogna studiare anche i temi che non ci piacciono, quando la colpa non è solo dei soldati degli occupanti esterni. Il collaborazionismo in Estonia è poco studiato da noi come l’occupazione del nostro paese è poco 17 Wulf, Memories in Post-Soviet Estonia cit., e osservazioni convergenti sono in Mark, Containing Fascism cit., pp. 364 sgg. Sull’istituzione del 27 gennaio come Giornata europea della memoria e sulle differenti date scelte talora da alcuni paesi cfr. Foa, La Shoah e il permanere dell’antisemitismo cit. È un segnale confortante che dal 2016 anche a Vilnius, Kaunas e altri centri della Lituania abbiano iniziato ad essere collocate alcune «Stolpersteine» (51 fra il 2016 e il 2019, e altre in seguito): le «pietre di inciampo» ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig (si veda supra, Parte seconda, cap. I) per ricordare le vittime della deportazione (debbo la segnalazione ad Adachiara Zevi).

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studiata in Russia […]. Studiare la storia e comprendere il passato è molto più importante e fecondo che combattere per dei monumenti. Questo il compito da affrontare, oggi, e nessuno può farlo per noi». Riferendo queste osservazioni ed estendendole ai conflitti di memoria interni all’Estonia, Siobhan Kattago ha osservato: «Si può sperare che l’appartenenza all’Europa […] possa essere il ponte comune fra i baltici e le loro minoranze russo-parlanti. Si può sperare che un giorno di memoria come il 9 maggio possa essere non solo il Giorno della Vittoria dell’Unione Sovietica ma anche, molto di più, un giorno per riflettere sul comune progetto europeo di una società aperta, inclusiva e postnazionale piuttosto che xenofoba e bloccata da un eterno antagonismo»18. Un percorso che in Estonia e in Lettonia sembra reso più difficile, non aiutato, dal sistema scolastico separato per i russofoni, sia pure con un unico curriculum: una sorta di «autosegregazione volontaria» – ha osservato Marija Golubeva – che tende di fatto a cristallizzare le differenti letture del passato. E ha conseguenze dirette sul modo stesso di intendere la cittadinanza19. Sono nodi e questioni che l’invasione dell’Ucraina ha fatto riemergere in modo prepotente, evocando inevitabilmente vecchi fantasmi e nuove minacce: «la fine della seconda guerra mondiale per voi italiani forse ha significato la pace, per noi altra sofferenza», dice oggi Kaja Kallas, primo ministro estone, ricalcando quasi alla lettera le di18 S. Kattago, Memory, Pluralism and the Agony of Politics, in Pettai (a cura di), Memory and Pluralism cit., pp. 139-40. 19 Non sono mancate anche qui iniziative di dialogo promosse da EuroClio, ma il cammino sembra ancora lungo: M. Golubeva, Different History, Different Citizenship? Competing Narratives and Diverging Civil Enculturation in Majority and Minority School in Estonia and Latvia, ibid., pp. 39-53.

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I paesi baltici e i «due genocidi»

chiarazioni del 2005 della presidente lettone. E prosegue: «gli estoni sono stati torturati, stuprati, la nostra cultura è stata cancellata e sostituita dalla cultura sovietica […]. Durante le deportazioni sovietiche dall’Estonia mia madre, con sua madre e sua nonna, è stata deportata in Siberia su un carro bestiame quando aveva solo sei mesi ed è stata costretta a viverci per dieci anni. Mio nonno è stato chiuso in un campo di prigionia. Quello che è successo a me è successo a migliaia di estoni […]. Nel 1922 la popolazione russa era il 3,2%, alla fine dell’occupazione sovietica il 30%. Gli estoni sono stati deportati e al loro posto sono stati fatti entrare i russi […] è stato commesso un genocidio […]. E se guardiamo la Russia vediamo che […] il 70% dei russi sostiene l’operato di Stalin […]. Vi chiediamo: perché i nazisti non possono più commettere quegli orrendi crimini? Perché sono stati condannati e processati. Se l’avessimo fatto anche con i criminali sovietici dubito che ora ci sarebbe una guerra in Ucraina»20. Molti nodi si intrecciano dunque nello scenario baltico e pongono questioni che non sembrano superabili né all’interno delle singole nazioni né con un riferimento generico a una visione europea. Considerazioni differenti ma in qualche modo convergenti ci sono suggerite poi da alcuni paesi in cui è forte il nesso fra nuovi nazionalismi, pulsioni autoritarie e «politiche della storia»: a partire dalla Polonia, che ci permette di cogliere anche alcuni tratti importanti delle opposizioni intellettuali e civili a quei progetti. E offre molti stimoli a una riflessione più generale. 20 M. Perosino, «Chi ha vissuto l’occupazione russa sa che Putin deve essere fermato», in «La Stampa», 20 giugno 2022; cfr. inoltre R. Castelletti, In Lituania con i deportati che chiedono giustizia. «Un genocidio di ottanta anni fa», in «la Repubblica», 14 giugno 2021.

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VI. Polonia: sovranismi e «politiche della storia»

«È possibile essere a un tempo vittime e carnefici?»: riguarda l’insieme delle memorie europee la domanda che nel 2000 Jan Tomasz Gross poneva al centro di Neighbors (I carnefici della porta accanto, nella versione italiana), dedicato al pogrom compiuto da polacchi a Jedwabne. «Un caso limite – annotava lo stesso Gross –: un giorno del luglio 1941 metà della popolazione di un piccolo Paese dell’Europa orientale assassinò l’altra metà»1. Un caso limite ma non unico, all’indomani dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica, e altri pogrom vi furono nell’immediato dopoguerra, talora legati al ritorno degli ebrei e al timore che rivendicassero i loro beni espropriati e usurpati2. Del sotterraneo protrarsi dell’antisemitismo anche all’in1 J. T. Gross, I carnefici della porta accanto. 1941, il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002 (ed. or. 2000), p. 8; cfr. inoltre P. Machcewicz, Jedwabne 1941. Le débat sur le conflit judéo-polonais dans le Nord-Est de la Pologne sous l’occupation nazie, in Mink - Neumayer (sotto la direzione di), L’Europe et ses passés douloureux cit., pp. 156-68. 2 Fece molto discutere ancora nel 2012 il film di Władysław Pasikowski Pokłosie (Conseguenze), che evoca appunto Jedwabne (cfr. A. Moretti, La Polonia si fa anche al cinema, in «limes», 2014, 1, pp. 86-7). Al clima che segnò il ritorno degli ebrei in Ungheria sarà dedicato nel 2017 lo splendido 1945 del regista Ferenc Török.

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terno del regime comunista testimonierà poi la campagna «antisionista» del 1968, all’indomani della guerra araboisraeliana dei «sei giorni»: essa fu utilizzata anche per colpire gli studenti e i docenti che chiedevano maggiore libertà, e in seguito ad essa abbandoneranno la Polonia molti dei trentamila ebrei che vi erano rimasti3. Un vero trauma, Neighbors, più acuto di quello provocato nel 1985 da Shoah, del regista Claude Lanzmann, che aveva messo al centro la collaborazione dei polacchi allo sterminio: attirandosi dure critiche dagli organi di regime e stimolando nell’opposizione un importante e differenziato confronto con il passato4. In Polonia, cioè nel paese più martoriato dalla guerra, dalle occupazioni nazista e sovietica, dalle deportazioni e dagli stermini – lo sottolineava con forza Gross sin dall’avvio. Un paese che ha al tempo stesso il numero più alto di «Giusti fra le nazioni»5. Alle devastazioni della seconda guerra mondiale si aggiungano le conseguenze di una più lunga storia: nel criticare il riemergere del nazionalismo, ha osservato Paolo Morawski, «si ha l’obbligo di ricordare che solo identificandosi con la nazione (anche quando la nazione era priva 3 Cfr. Contestazione a Varsavia. I documenti delle agitazioni studentesche polacche dal marzo ’68 a oggi, Introduzione di Z. Bauman, Bompiani, Milano 1969; G. Crainz, Il Sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni, con scritti di P. Kolář, W. Goldkorn, N. Janigro, A. Bravo, Donzelli, Roma 2018. 4 Si veda il ricco dossier Shoah vu de Poulogne, pubblicato da «Nouvelle Alternative», aprile 1986, 1, pp. 3-16: esso documenta, annota la rivista, «la volontà dell’opposizione di impegnarsi nel difficile confronto con i miti ereditati dal passato». La campagna di regime contro il film è condannata pur nell’emergere di posizioni differenti, talora critiche nei confronti di Lanzmann, e con un più generale interrogarsi sull’antisemitismo polacco e sui labili confini fra passività, indifferenza, impotenza. 5 Cfr. Sondel-Cedarmas, La memoria dei Giusti cit., pp. 29-62.

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di Stato) i polacchi sono riusciti tra Sette e Novecento a sopravvivere come collettività coesa»6. Dal canto suo Barbara Spinelli ha annotato: «ripetutamente scomparsa dalle carte geografiche d’Europa […] la Polonia ha dovuto fabbricarsi un’identità immaginaria, dopo le spartizioni del 1772, del 1793 e la definitiva abolizione dello Stato nel 1795, e le lotte incessanti contro le forze esterne hanno acutizzato la natura etnica del suo nazionalismo, l’ombrosa chiusura delle sue classi contadine e in particolar modo del clero cattolico, l’incapacità di incorporare il diverso e il disomogeneo nel proprio sogno collettivo […] l’identità polacca sembrò affermarsi quasi sempre all’insegna di una via crucis»7. Si leggano anche le osservazioni di Milan Kundera sulle «piccole nazioni» dell’Europa centrale, quelle «la cui esistenza può essere messa in dubbio in qualsiasi momento, e lo sanno»: l’inno polacco, aggiungeva, si apre col verso «La Polonia non è ancora perita…»8. Si ricordi, infine, che durante il regime comunista memoria e orgoglio nazionale erano state armi del dissenso: la protesta studentesca del 1968, ad esempio, è innescata dal divieto a rappresentare il dramma ottocentesco Gli avi di Adam Mickiewicz che evoca il martirio del paese sotto la dominazione russa. E si ricordi, per altri versi, la «battaglia per la verità» sulle uccisioni di migliaia di ufficiali polacchi a Katyń compiute dai sovietici nel 1940 e falsamente attribuite ai nazisti. Nel passaggio dal secondo al terzo millennio il richiamo alla memoria nazionale sembra quasi mutare di segno e 6

Morawski, Memorie e politiche della storia cit., p. 355. Spinelli, Il sonno della memoria cit., pp. 84 sgg. 8 M. Kundera, Un Occidente sequestrato ovvero la tragedia dell’Europa centrale, in «Nuovi argomenti», gennaio-marzo 1984, p. 45. 7

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di funzione. Cessa di essere una risorsa preziosa contro le «verità di Stato»: diventa, tutt’all’opposto, riserva cui attingere per dar corpo a una «politica della storia» nazionalistica, esplicitamente perseguita da Diritto e Giustizia dei fratelli Lech e Jarosław Kaczyński e da un’ampia schiera di intellettuali conservatori9. È rivelatore proprio il trauma provocato nel 2000 dal dibattito su Jedwabne e dalle stesse, importanti dichiarazioni del presidente della Repubblica Aleksander Kwaśniewski: «la Polonia di oggi ha il coraggio di guardare in faccia la verità […]. Ci siamo resi conto della nostra responsabilità nei confronti dei capitoli bui del passato […] chi ci propone di ignorarli non fa un buon servizio alla nazione. Questo atteggiamento ci porterebbe alla rovina morale […] esprimiamo il nostro dolore e la nostra vergogna […]. Per questo delitto dobbiamo chiedere perdono alle ombre dei morti e alle loro famiglie»10. Era la prosecuzione di una riflessione critica già avviata, e in contrapposizione ad essa prese corpo allora nell’area conservatrice e nazionalistica di Diritto e Giustizia – e giunse al culmine nella campagna per le elezioni del 2005, che la portò al governo sino al 2007 – una assunzione della «politica della storia» come asse non secondario dello scontro politico. E Politica storica era appunto il titolo della conferenza che fu tenuta nel 2004 da quel partito nel Museo dell’insurrezione di Varsavia appena inaugurato11. 9 Cfr. M. Kopeček, In Search of National Memory, e R. Stobiecki, Historians Facing Politics of History, in Kopeček (a cura di), Past in the Making cit. 10 Così Kwaśniewski durante la cerimonia di commemorazione che si tenne a Jedwabne nel luglio del 2001: cfr. Podemski, La didattica della storia cit., pp. 270-1; Sondel-Cedarmas, La memoria cit., pp. 51 sgg. Kwaśniewski era stato dirigente del Partito comunista e poi dell’Alleanza della sinistra democratica. 11 Morawski, Memorie e politiche della storia cit., pp. 348 sgg.

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A destra, insomma, si affermò la necessità che la politica intervenisse direttamente contro una storiografia critica che privava i polacchi «delle loro radici e del loro cuore»12. Vi è da un lato la «storia monumentale», affermava lo storico conservatore Andrzej Nowak, dall’altro «la “storia critica”: cugina del romanzo giallo – quella che ritrova cadaveri e rintraccia criminali, dovendo portare allo scoperto i peccati del nostro passato e condannarne gli autori». È in atto, proseguiva, «uno scontro tra la storia della gloria nazionale e quella della vergogna, anzi un assalto della seconda alla prima […]. La storia “critica” risulta dalla tendenza non alla verità ma alla vergogna». In questa lettura, i governi precedenti avevano favorito «una scuola del pensiero basata sul nihilismo che privava i polacchi del loro orgoglio nazionale» e rifiutava concetti importanti come storia, patria, giustizia, dovere e sacrificio. Tutto all’opposto, invece, anche la seconda guerra mondiale confermava «il valore di essere polacchi, di appartenere cioè alla comunità che […] con un eroismo comprovato […] ha passato la prova di tutte le nazioni di Europa. Il suo simbolo è stata Westerplatte», concludeva, evocando il luogo-simbolo della prima resistenza all’invasione nazista e intimando di schierarsi: Jedwabne o Westerplatte? (Jedwabne e Westerplatte gli rispondeva giustamente Paweł Machcewicz)13. Una storia solo eroica, in quella visione: Westerplatte, e poi l’insurrezione di Varsavia, il valore dei combattenti polacchi su tutti i fronti (a partire da quello 12 Traggo la citazione da Tonini, L’eredità del comunismo cit., p. 173, e a questo saggio rimando anche per altri aspetti. 13 Cit. in Stobiecki, Historians Facing Politics cit., pp. 179-92; cfr. inoltre Sondel-Cedarmas, La memoria dei Giusti cit., pp. 52-3, e Podemski, La didattica della storia cit., pp. 268-71.

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italiano di Montecassino)14, l’aiuto dato agli ebrei – con un Museo in onore dei Giusti polacchi inaugurato a Markowa nel 2016 e una Giornata nazionale per ricordarli istituita nel 201815 – e così via. L’intera riflessione critica sul passato avviata dopo il 1989 era portata dunque sul banco degli imputati e ad essa era contrapposta una «pedagogia dell’onore e dell’orgoglio nazionale». Una sorta di patriottismo da tempo di guerra che Tomasz Merta – uno degli ispiratori del programma culturale di Diritto e Giustizia – contrapponeva a un «patriottismo critico» che ha più affinità con «gli altri» piuttosto che con «noi»16. È molto ampio il coro di attori che si schiera su questo fronte sostenendo che il potere politico ha anche il compito e il dovere di proporre una visione della storia, in una sostanziale riproposizione – e sia pur con diverso segno – della «verità di Stato» dei regimi comunisti. «Ci sono importanti ragioni per non lasciare la storia agli storici – affermava Marek Cichocki – e la storia deve rimanere elemento essenziale di ogni politica»17. Una «politica della storia» che ripropone dunque la dicotomia noi/loro della cultura patriottica ottocentesca (quella stessa che abbiamo ritrovato negli Stati della ex 14 Il manuale tedesco-polacco, un importante risultato del dialogo fra differenti storiografie e memorie, annota che l’anniversario di quella battaglia è celebrato ancor oggi in Polonia e riporta il testo di una canzone che la ricorda, Il papavero rosso di Monte Cassino: cfr. «Europa. Unsere Geschichte», IV, 20. Jahrhundert bis zur Gegenwart, p. 142. 15 Sondel-Cedarmas, La memoria cit., pp. 29-62. Al Museo di Markowa come elemento della «contronarrazione» di Diritto e Giustizia rispetto a Jedwabne fa riferimento anche Joachim von Puttkamer, Dissidence-DoubtCreativity Revisiting 1983, in Laczó - Lisjak Gabrijelčič (a cura di), The Legacy of Division cit. 16 I. Main, How Is Comunism Displayed?, in Sarkisova - Apor (a cura di), Past for the Eyes cit. 17 Cfr. Stobiecki, Historians Facing Politics cit., pp. 179-92.

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Jugoslavia lacerati da guerre sanguinose). E che mira a unire il popolo polacco attorno a una visione comune del passato, escludendo nemici esterni e interni. Idea ribadita anche in seguito, e in più forme, da altri storici conservatori e da esponenti di Diritto e Giustizia. Occorre «creare e preservare la memoria storica del paese – dice nel 2014 uno di essi, Krzysztof Szczerski – e i suoi valori costitutivi andrebbero difesi con più forza […]. Dovremmo anche promuovere di più l’immagine della Polonia nel mondo […]. La storia della Polonia dal punto di vista emotivo ha due parti. Una è il ricordo del sangue, dell’ingiustizia e dei sacrifici; l’altra è la forza della nazione e della sua cultura, della nostra capacità di resistere e rinascere»18. Molte voci ed energie intellettuali erano e sono in campo per contrastare questa impostazione, ed era esplicitamente dedicato a questo anche un piccolo e intenso libro di Adam Michnik sul pogrom di Kielce del 194619. Si considerino poi le riflessioni più propriamente storiografiche: Robert Traba, ad esempio, ha sottolineato l’importanza di una «memoria polifonica» volta a «leggere» la nazione stessa e l’Europa come intreccio di influssi reciproci. Comunità pluralistiche, ha osservato in modo convergente Andrzej Walicki, arricchite dalla molteplicità delle proprie memorie. Al tempo stesso, analizzando i vissuti su cui le deformazioni nazionalistiche potevano far leva, ancora Traba ha ricordato la lunga scomparsa dello Stato polacco, fra Settecento e Novecento, e l’influenza di un romanticismo che aveva avuto il messianismo come sua for18 Cfr. L’Euro non ci conviene oggi, intervista di Andrea Tarquini a Krzysztof Szczerski, in «limes», 2014, 1, pp. 43-4. 19 A. Michnik, Il pogrom, ed. it. a cura di F. M. Cataluccio, Bollati Boringhieri, Torino 2007 (ed. or. 2006): la polemica con la «politica della storia» della destra è qui esplicita e insistita.

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ma principale20. L’influenza, anche, di quelle «verità negate» durante il regime comunista che avevano avuto il loro simbolo nelle fosse di Katyń. Simbolo potente, e capace di influire anche sul presente: nel 2010 una martellante campagna di Diritto e Giustizia attribuì a un attentato russo l’incidente aereo di Smolensk in cui persero la vita il presidente Lech Kaczyński e la moglie. Erano diretti appunto a Katyń assieme a un’ampia delegazione per celebrare il settantesimo anniversario di quell’eccidio: in questa lettura – ha osservato Dirk Uffelmann – veniva alimentata l’idea di una élite polacca di nuovo mandata a morte nella parte occidentale della Russia21. Dal canto suo Marcin Kula affermava che nella visione di Diritto e Giustizia «il dibattito sulla storia […] piuttosto che tendere a scopi conoscitivi sembra più adatto all’aula di un tribunale»: strumento politico nelle mani del governo, come lo fu nel periodo comunista. E riconosceva amaramente che quella propugnata «dai fratelli Kaczyński […] è in realtà la percezione della storia più diffusa in Polonia». Una percezione che ha «carattere agiografico» e «tinte romantiche, missionarie, vittimistiche […]: dipinge la Polonia e i polacchi come difensori della Europa cristiana e del cristianesimo […] un popolo che ha sempre lottato per l’indipendenza ed è riuscito a conquistarla». Il 20 Cfr. Traba, Der Sinn gemeinsamen Erinners cit., pp. 101-32; Stobiecki, Historians Facing Politics cit. 21 In questo modo inoltre, osservava Cezary Michalski, Lech Kaczyński entrava «nella tradizione martirologica polacca accanto al massacro di Katyn e alle numerose insurrezioni represse nel sangue», e appariva irrilevante che in quell’aereo vi fossero anche esponenti di altre forze politiche: C. Michalski, La religione di Smolensk, in «limes», 2014, 1, p. 27; D. Uffelmann, Theory as Memory Practice: The Divided Discourse on Poland’s Postcoloniality, in Blacker, Etkind, Fedor (a cura di), Memory and Theory in Eastern Europe cit., p. 105.

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paese, anche, che «per primo si è ribellato al comunismo e lo ha sconfitto»22. Una visione fortemente presente dunque – anche se in modo differenziato nelle diverse realtà geografiche e sociali del paese23 – e sostenuta da conservatorismi radicati. Provoca una dura reazione, ad esempio, la riforma dell’insegnamento della storia proposta dal governo guidato da Donald Tusk dopo il 2007: un programma volto a introdurre un approccio più libero e pluralistico, a favorire lo spirito critico degli studenti, a mettere in discussione l’apprendimento puramente mnemonico e a lasciare maggiore autonomia agli insegnanti. «Una minaccia per l’identità nazionale», secondo la destra, che contro di esso organizza scioperi di insegnanti, e sin scioperi della fame. Probabilmente, ha annotato Kula, «fra i primi scioperi della fame contro un programma scolastico, e sicuramente i primi contro l’insegnamento della storia»24. Politica della storia, dunque, come «esaltazione delle virtù nazionali» ma anche come «tentativo di controllo della narrazione storica da parte della politica»25. Con il sostegno dello stesso Istituto della memoria nazionale, guardiano dei dossier della polizia segreta comunista e organizzazione ramificata26. Protagonista di campagne strumentali 22

M. Kula, La storia ad usum populi, in «limes», 2014, 1, pp. 67-76. P. Morawski, Atlante geografico della Polonia. La storia divora la geografia, ivi. 24 Kula, La storia ad usum populi cit. Osservazioni convergenti in Podemski, La didattica della storia cit., p. 274. 25 W. Goldkorn, L’immaginario antisemita, in «la Repubblica», 2 febbraio 2018. 26 C. Tonini, L’Istituto polacco della memoria nazionale. Dai crimini «contro» la nazione polacca ai crimini «della» nazione polacca, in «Quaderni storici», agosto 2008, 128: in quella data l’Istituto è già «una potente macchina con undici sedi locali e circa 1200 dipendenti» (p. 389). Il numero dei 23

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e falsificatrici come la lustracja della prima fase, indagine ed epurazione al tempo stesso: per questa via, annotava nel 2007 Zygmunt Bauman, la memoria diventava strumento della lotta per il potere, e accuse di collaborazionismo venivano utilizzate persino contro «veri eroi e martiri della lotta contro il comunismo»27. Più in generale vita politica e civile sembravano allora «confiscate dalla guerra della memoria e la memoria confiscata dai dossier polizieschi»28. Terminata questa fase – e terminata nel 2007, come s’è detto, quell’esperienza di governo – Diritto e Giustizia continuava a sostenere con forza la propria «politica della storia» e la riprendeva con decisione ritornando al potere nel 2015: radicalizzando ulteriormente i suoi tratti più estremi e attaccando in modo durissimo i sostenitori di una visione pluralistica ed europea. Già nel 2005 del resto, ha annotato Izabella Main, i suoi leader avevano progettato un Museo della libertà che avrebbe dovuto mostrare il desiderio di libertà dei polacchi nel corso dei secoli e le battaglie condotte in suo nome, in una visione messianica del ruolo della Polonia (combattente per la libertà e vittidipendenti crescerà ancora, e non mancheranno «incidenti di percorso»: nel 2021 ad esempio dovrà esser presto revocata la nomina a direttore della sede di Breslavia di un esponente della destra filofascista e antisemita: cfr. A. Tarquini, Polonia, la retromarcia del neonazista. Si dimette il direttore dell’Istituto della memoria, in «la Repubblica», 23 febbraio 2021; Un neonazista alla guida dell’Istituto per la memoria polacca, intervista a Carla Tonini, in «Dolomiti», 16 febbraio 2021. 27 S. Montefiori, L’errore di noi europei. Fare guerra al passato, intervista a Zygmunt Bauman, in «Corriere della Sera», 10 gennaio 2007: per osservazioni convergenti cfr. anche A. Tarquini, Quei dossier usati per salvare la destra, in «la Repubblica», 14 gennaio 2007; A. Michnik, La Polonia del sospetto e quella del dialogo, ivi, 17 maggio 2007. Per queste e altre indicazioni cfr. Morawski, Memorie e politiche della storia cit. 28 A. Sofri, Per la Chiesa il colpo più duro, in «la Repubblica», 8 gennaio 2007.

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ma delle ingiustizie storiche, nazismo e comunismo inclusi). E avevano indicato come esempio di patriottismo il Museo dell’insurrezione di Varsavia, realizzato con grande attenzione agli aspetti comunicativi e spettacolari: museo che propone una visione unicamente eroica dell’insurrezione e rimuove ogni riflessione critica su di essa. Nel 2006 poi il ministro della Cultura e del patrimonio nazionale annunciò la creazione di un Museo della storia polacca che avrebbe dovuto «promuovere una educazione civile e patriottica»29: musei e monumenti, in un omaggio alla nazione che include e assolve anche gli aspetti più discutibili. E con una demonizzazione del passato comunista che cancella anche aspetti importanti. Si veda, sul primo versante, il gigantesco monumento eretto nel 2006 a Varsavia a Roman Dmowski, acceso antisemita30. E si veda, sul versante opposto, la legge del 2016 che impone di togliere a strutture pubbliche il riferimento a persone, eventi, date che evochino in qualche modo il sistema comunista: in base ad essa venivano colpite anche figure e simboli della lotta al nazismo e al fascismo internazionale, provocando forti proteste31. Sino all’«immagine shock: il pre29 I. Main, How Is Communism Displayed?, in Sarkisova - Apor (a cura di), Past for the Eyes cit., in particolare pp. 391-400. 30 D. Sassoon, Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi, Garzanti, Milano 2019, p. 53. Il monumento, voluto dall’amministrazione comunale, fu criticato fortemente da Marek Edelman, leader della rivolta del ghetto del 1943 e da altri ancora. 31 Proteste che in qualche caso portarono ad annullare quelle decisioni. Così fu ad esempio per i monumenti dedicati alla Brigata internazionale Jarosław Dąbrowski, che aveva combattuto nella guerra civile spagnola: cfr. R. Traba, The Asymmetry of Cultural Memory (Erinnerungskultur). Polish and German Problems with Dissonant Heritage, in Ż. Komar - J. Purchla (a cura di), Dissonant Heritage? The Architecture of the Third Reich in Poland, International Cultural Center, Kraków 2021, pp. 32 sgg.; cfr. inoltre Traba, Der Sinn gemeinsamen Erinnerns cit., 101-32.

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mier polacco Mateusz Morawiecki che il 17 febbraio 2018 depone un mazzo di fiori in un cimitero di guerra tedesco sulle tombe dei polacchi che nella seconda guerra mondiale collaborarono con i nazisti. Considerando i comunisti e i sovietici un pericolo maggiore. Si tratta della Brigata della Santa Croce delle forze armate nazionali (Nsz), un raggruppamento militare che nelle foreste polacche dava la caccia ai partigiani comunisti e agli ebrei». Una conseguenza diretta – continuava Wlodek Goldkorn – del ritorno al potere dell’équipe di Jarosław Kaczyński e della sua guerra alla «pedagogia della vergogna»: in questa visione «chi parla di antisemitismo polacco è “un traditore al servizio della élite cosmopolita di Bruxelles”. Era quindi l’ora di “levarsi dalle ginocchia” (lessico del potere) e mettere in atto una “politica della storia” (sempre lessico del potere)». Era necessario cioè dare ai polacchi «la sensazione che la loro nazione sia immacolata, virginale, vittima della storia. Un po’ come facevano i nazionalisti serbi negli ultimi anni del Novecento». Pochi mesi prima, del resto, il Parlamento aveva «reso omaggio a quelli che vengono romanticamente chiamati i “soldati maledetti”, i militanti della destra armata che continuarono a combattere dopo il 1945 e avevano come modello ideologico Francisco Franco»32. Glorificati in intense campagne d’opinione, rimuovendo o negando «le violenze (in alcuni casi i massacri su larga scala) commesse da questi combattenti contro i civili, soprattutto contro minoranze come ucraini e bielorussi, o ebrei»33. 32 W. Goldkorn, Così Varsavia uccide l’Europa, in «L’Espresso», 4 marzo 2018. 33 P. Machcewicz, Eroi e traditori. La «politica della storia» del partito polacco Diritto e Giustizia, in «Qualestoria», dicembre 2021, pp. 45-7; cfr. inoltre Traba, The Asymmetry of Cultural Memory cit., pp. 32-3;

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Rientrava nella «difesa dell’onore nazionale» anche la legge che puniva penalmente chiunque evocasse responsabilità polacche nella Shoah34: legge in parte modificata per le proteste internazionali, in primo luogo di Israele, ma capace comunque di creare un pesante clima di condizionamento35. Un clima che dalle celebrazioni pubbliche penetra nel «quotidiano»: qui come in Ungheria, ha osservato Sławomir Sierakowski, «il sistema scolastico sta diventando il veicolo attraverso cui passa l’identificazione con un passato tragico e glorioso. Soltanto quei progetti culturali che esaltano la nazione ricevono finanziamenti dallo Stato»36. Sono contrastati con enorme durezza invece quelli che si aprono al confronto internazionale e alla riflessione critica, e fra essi quelli che avevano preso avvio nel periodo dei governi di Piattaforma civica (2007-2015). È di grande interesse la vicenda del Museo della seconda guerra mondiale di Danzica: il progetto – ha ricordato Paweł Machcewicz, suo ideatore e primo direttore – prese corpo proprio nel J. W. Borejsza, La Resistenza in Polonia, in «Ricerche di storia politica», 2002, 1, p. 91. 34 Si leggano i commenti dei tre principali quotidiani italiani del 2 febbraio 2018, dopo la sua approvazione: G. Belardelli, Nessuna «verità di stato» può alterare i fatti, in «Corriere della Sera»; W. Goldkorn, L’immaginario antisemita, in «la Repubblica»; G. Sabbatucci, Se il potere vuole riscrivere la storia, in «La Stampa». 35 Se «i reati da essa sanzionati sono stati infine depenalizzati» rimane infatti «la sua natura intimidatoria, che rischia di condizionare la ricerca storica»: F. Berti, F. Focardi, J. Sondel-Cedarmas, Introduzione, in Le ombre del passato cit. Cfr. ibid. anche A. Barczak-Oplustil, L’emendamento alla legge polacca sull’Istituto della Memoria Nazionale del 2018, pp. 81-98; A. Tarquini, Polonia, marcia indietro sulla legge sull’Olocausto, in «la Repubblica», 27 giugno 2018. 36 Sierakowski, Orbán e Kaczyński cit., p. 267; cfr. inoltre Podemski, La didattica della storia cit.; Sondel-Cedarmas, La memoria dei Giusti cit., p. 69: A. Michnik, Il bavaglio della Polonia, in «la Repubblica», 10 marzo 2021.

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2007 a partire dal dibattito sulle espulsioni dei tedeschi all’indomani della seconda guerra mondiale37. A partire cioè dalla necessità di collocare anch’esse nel più ampio scenario degli spostamenti forzati di popolazione durante e dopo la guerra. E dalla necessità di far meglio comprendere il vissuto di un’Europa centro-orientale che aveva conosciuto sia il nazismo che il comunismo: di inserirlo cioè pienamente nella memoria europea «mettendo in luce aspetti ignorati o mal interpretati» e dando al tempo stesso spazio al vissuto quotidiano delle popolazioni. Mostrando al mondo, per dirla con Tomasz Szarota, «la sorte dei polacchi durante la seconda guerra mondiale, e ai polacchi la sofferenza e il martirio delle altre nazioni occupate, e l’esistenza di un comune movimento di Resistenza»38. Propositi che provocano il fuoco di sbarramento di un ampio fronte conservatore, concorde nel considerare il progetto di museo «privo di un punto di vista polacco», un «tradimento dell’identità polacca» e «strumento per disintegrarla» (così Jarosław Kaczyński e altri). Con condanne definitive prima ancora che fossero mossi i primi passi: agli ideatori, si sentenziò, «non importa costruire un museo sul martirio della nazione polacca o sulla gloria del suo esercito» ma «costruire un’identità europea a scapito della identità nazionale». Dal canto suo Dariusz Gawin, storico importante del fronte conservatore, criticava sin la presenza di studiosi stranieri nel comitato scientifico del museo e vedeva in quel progetto l’espressione di una corrente intellettuale volta a contestare i miti nazionali, in un «criptopacifismo» e in una sorta di «political correctness» europea volta a rimuovere le glorie militari (e mossa dall’idea che 37 38

Machcewicz, The War That Never Ends cit., pp. 7-8. Cit. ibid., p. 15.

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«non ci si debba trastullare con questo tipo di emozioni»). Non mancarono poi le «lettere dei lettori» dei quotidiani conservatori: quest’idea di museo va combattuta, scriveva uno di essi, perché rischia di «dissolvere il nostro drammatico destino negli eventi europei […] questo concetto non è solo sbagliato ma anche pericoloso per il nostro futuro». Voci importanti sostennero invece, in sintonia con l’ispirazione del museo, che l’interpretazione storica deve essere transnazionale e problematica (così Marcin Kula) e insistettero sul valore di una comparazione in cui le differenti esperienze non si annullino ma, tutt’al contrario, possano esser meglio comprese. Una discussione sull’interpretazione della storia ma al tempo stesso, ha sottolineato lo stesso Machcewicz, «sull’atteggiamento dei polacchi sui loro vicini, sul loro posto in Europa e sulla più generale idea delle relazioni fra le nazioni europee». Fu importante dunque la scelta di Donald Tusk, capo del governo dal 2007, e del suo consigliere Wojciech Duda di dare vita realmente al museo, con un impegno finanziario non indifferente. Scegliendo per esso la sede di Danzica: simbolo – con Westerplatte – della prima resistenza al nazismo e al tempo stesso della nascita di Solidarność39. Con un comitato scientifico internazionale di cui facevano parte figure come Norman Davies, Timothy Snyder, Henry Rousso, Krzysztof Pomian, Władysław Bartoszewski. Con il coinvolgimento di architetti come Libeskind e di altri intellettuali di altissimo profilo: a partire dal regista Andrzej Wajda, che offrì anche le sue memorie e davanti alla cinepresa parlò del padre, ufficiale polacco ucciso a Katyń. Con una riflessione collettiva sulle modalità della «comunicazione museale» e sull’uti39

Ibid., pp. 17-33.

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lizzo di differenti forme d’espressione, comprese quelle teatrali e cinematografiche. Con la creazione di percorsi rivolti anche ai visitatori più piccoli, con la forte attenzione ai vissuti quotidiani, con una raccolta di oggetti e documenti che assunse dimensioni inattese ed emozionanti, ed è illuminante il racconto che ne ha fatto lo stesso Machcewicz. Un racconto «triste e incoraggiante» al tempo stesso40: «triste» per l’esito della vicenda (almeno sino ad ora) ma «incoraggiante» nel «rivelare» le potenzialità pur esistenti, le possibilità reali di una storia pluralistica e comparativa. È «incoraggiante», in qualche modo, la stessa capacità del museo di resistere all’offensiva annunciata da Diritto e Giustizia prima ancora di ritornare al potere: nella convention del partito che gli affida la leadership, nel 2013, Jarosław Kaczyński dichiara che lo avrebbe cambiato radicalmente per fargli esprimere «il punto di vista polacco». Il proposito è ripetuto nel corso della campagna elettorale e dopo la vittoria di Diritto e Giustizia inizia l’offensiva finale guidata dal nuovo ministro della Cultura, Piotr Gliński: sino alla decisione di «fonderlo» con un altro museo, esistente solo sulla carta, facendo uscire di scena Machcewicz e il collettivo che l’aveva costruito41. Che iniziano allora una «corsa contro il tempo»: contrastando il progetto governativo anche sul piano legale (assieme al sindaco di 40 Lo ha annotato Pavel Kolář nel recensire il libro di Machcewicz su «Passato e Presente», settembre-dicembre 2018, 105, pp. 172-4; cfr. inoltre Assmann, Il sogno europeo cit., pp. 162-8. 41 Ritornano ora, con accentuazioni e falsificazioni ancor maggiori, le accuse del passato: presentare un «punto di vista ostile ai polacchi e alla tradizione nazionale», praticare una «pedagogia della vergogna», creare un museo «dove storici americani e inglesi ci dicono come noi polacchi dobbiamo immaginare la nostra storia», e così via: Machcewicz, The War That Never Ends cit., pp. 97-153.

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Danzica, Paweł Adamowicz), pubblicando a tempo di record il catalogo dell’esposizione42 e aprendola poi al pubblico, con un grandissimo afflusso (centomila persone nei primi due mesi, più di seicentomila nel primo anno). Nel marzo del 2017, annota Machcewicz, la prima visitatrice è una donna anziana, ultranovantenne, già staffetta dell’Armata di liberazione nazionale e prigioniera nel campo di Ravensbrück, e attiva poi nella Solidarność degli anni ottanta43. Viene di lì a poco il radicale mutamento di gestione che era stato annunciato, con cancellazioni e modifiche immediate dell’impostazione originaria e in piena coerenza con la «politica della storia» di Diritto e Giustizia44. Una vicenda «esemplare» nel quadro di una più generale stretta autoritaria45: essa vede anche la rimozione del direttore del Museo di storia degli ebrei polacchi di Varsavia, Dariusz Stola, «colpevole» di aver evocato la permanenza dell’antisemitismo nel paese46. Non ottengono lo scopo, 42 R. Wnuk, P. Machcewicz, O. Galka-Olejko, Ł. Jasiński, Museum of the Second World War. Catalogue of the Permanent Exhibition, Gdańsk 2016. 43 Machcewicz, The War That Never Ends cit., p. 2. 44 Una tesi di laurea basata su una visita al museo del 2019 annota che esso propone ora al pubblico la «celebrazione di eroi di guerra polacchi o di persone che hanno avuto un ruolo rilevante nel corso del conflitto», intrecciata a un «vittimismo che preferisce ignorare le proprie responsabilità storiche»: cfr. D. Sampò, Architettura, storia, memoria. Il Museo di Storia militare di Dresda e il Museo della Seconda Guerra Mondiale di Danzica, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, Corso di laurea in comunicazione e culture dei media, a.a. 2019-20; cfr. inoltre la Prefazione dello Steering Commitee International Federation for Public History a Machewicz, The War That Never Ends cit., pp. V-VII, e Id., Eroi e traditori cit., pp. 35-48. 45 B. Kerski, Der illiberale Geist in einer offenen Gesellschaft. Polen unter der PIS Regierung, in Id., Europäische Lektionen cit., pp. 51-8. 46 «Colpevole», ad esempio, di aver organizzato una mostra sulla campagna «antisionista» del 1968: cfr. l’intervista a Carla Tonini, Un neonazista alla guida dell’Istituto cit.; A. Applebaum, Il tramonto della democra-

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invece, gli attacchi al Centro europeo di Solidarność diretto da Basil Kerski, sorto anch’esso a Danzica in questo periodo nell’area dei vecchi cantieri navali e pensato come luogo di dialogo interdisciplinare e laboratorio di cultura civica. Volto a mantener vivi gli ideali di Solidarność collocandoli in una prospettiva europea e con un forte accento sui diritti umani. Volto, anche, a promuovere «nuove iniziative culturali e sociali […] su scala nazionale ed europea, dotate di una dimensione universale»; e a far sì che «nello spirito della rivoluzione di Solidarność il passato e il futuro della Polonia e dell’Europa si incontrino in un dialogo fecondo»47. Anche in questo caso – ha osservato Kerski – è stato centrale il ruolo del sindaco di Danzica Paweł Adamowicz, simbolo di una politica dell’accoglienza, dei diritti civili e dell’apertura alle diversità. Oggetto di campagne d’odio da parte della destra e assassinato nel gennaio del 2019. «Ci sono in Europa – osservava allora Wlodek Goldkorn – una geografia, una geopolitica e una cultura alternative alla narrazione nazionalista. Un passato che una volta riscoperto e portato alla superficie diventa […] un progetto dell’avvenire molto concreto». E, aggiungeva, «alle ultime elezioni amministrative polacche, pochi mesi fa, la divisione fra grandi centri urbani e campagne era netta: in tutti i centri urbani sopra i duecentomila abitanti hanno vinto i candidati liberali ed europeisti, nei luoghi sotto i cinquantamila abitanti hanno prevalso i sovranisti e i populisti»48. zia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo, Mondadori, Milano 2020, pp. 6-7. 47 B. Kerski - K. Koch, Preface, e B. Kerski, Solidarity Museum and an Istitution Supporting Civic Culture, in B. Kerski - K. Koch (a cura di), European Solidarity Centre Permanent Exhibition Catalogue, Gdańsk 2019, pp. 4-5 e 252-9; Assmann, Il sogno europeo cit., pp. 76-7. 48 W. Goldkorn, Danzica frontiera dell’odio, in «la Repubblica», 2 gennaio 2019; cfr. inoltre G. Buccini, I sogni (e i martiri) che incarnano l’Europa,

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Una partita aperta, e alle forze che si battono anche sul terreno culturale contro le derive nazionalistiche dovremmo prestare un’attenzione solidale molto maggiore. Anche ai percorsi dall’impatto meno forte, nell’immediato, ma proiettati nel futuro: è straordinariamente positivo, ad esempio, che abbia visto la luce di recente, dopo un percorso non agevole, un manuale di storia tedesco-polacco. Sullo sfondo vi è la lunga storia della commissione bilaterale costituita nel 1972 (resa possibile dal trattato del dicembre del 1970 che regolava i rapporti fra Germania occidentale e Polonia)49: storia che ha ovviamente una svolta decisiva dopo il 1989 e dopo il trattato del novembre del 1990 che sancisce il carattere definitivo dei confini50. Inizia di qui una attività intensa che ha una forte accelerazione nel 2007-2008, dopo la vittoria elettorale di Piattaforma civica: iniziano allora anche i lavori per un manuale comune, e dal 2016 al 2020 usciranno i quattro volumi previsti. Ci siamo chiesti qual è l’obiettivo di un insegnamento storico – ha osservato Robert Traba, che ha fatto parte di quella commissione – e abbiamo risposto che è quello di mettere in comunicazione pensieri differenti, prospettive molteplici e controverse, utilizzando le fonti più diverse e anche poco conosciute51. Obiettivo realmente perseguito, ed è esemplare l’ampio capitolo dell’ultimo volume dedicato alla seconda guerra mondiale, dalla sua incubazione sino in «Corriere della Sera», 16 gennaio 2019; W. Goldkorn, Esiste un’altra Polonia, in «la Repubblica», 14 luglio 2020; Kerski, Polnische Widersprüche, europäische Widerspiegelungen, in Id., Europäische Lektionen cit., pp. 9-19. 49 Cfr. supra, Parte seconda, cap. I. 50 Nel 1993 la Germania aprirà poi a Varsavia il Deutsches Historisches Institut: cfr. Cattaruzza - Zala, Negoziare la storia? cit.; cfr. inoltre il sito della Deutsch-Polnische Schulbuchkommission (schulbuchkommission.de). 51 Cfr. ivi, A. Grajewski, Fangen wir mit der Bildung an, intervista a Robert Traba (tratta da «Gość Niedzielny», 17 dicembre 2020, 51).

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agli spostamenti forzati di popolazione dell’immediato dopoguerra. Secondo i criteri generali adottati, un testo sintetico ed essenziale è accompagnato da documenti che rinviano alle differenti realtà e ai diversi e opposti punti di vista, da schede e immagini significative e da domande e questioni sottoposte agli studenti. Chiamati anche a riflettere sul ruolo delle differenti memorie52.

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Europa. Unsere Geschichte, IV, Eduversum, Wiesbaden 2020, pp. 92-

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VII.

L’Ungheria di Viktor Orbán

Sono almeno in parte analoghi i processi che si sono innescati in Ungheria nella più generale disillusione del post1989. In entrambi i paesi, ha osservato Wlodeck Goldkorn, «si sono riprodotte vecchie dinamiche sociali e culturali risalenti addirittura all’Ottocento», e «la visione di una società laica, multietnica, pluriculturale è contrastata da un nazionalismo di stampo etnico»1. Sia in Polonia che in Ungheria, ha annotato dal canto suo Sergio Romano, «esistono gruppi sociali che non hanno mai smesso di considerarsi vittime di una storia ingiusta»2. E Orbán è l’unico politico vivente che chiami in causa un trattato della prima guerra mondiale, il Trattato del Trianon, facendo leva su visioni e pulsioni realmente diffuse: «un inglese non può viaggiare per l’Ungheria – scriveva Timothy Garton Ash alla vigilia del 1989 – senza sentirsi ricordare che sono state le potenze occidentali a smembrare il Paese dopo la prima guerra mondiale, dando la Transilvania alla Romania e altre regioni alla Cecoslovacchia e alla Jugoslavia»3. E un giovane sto1 W. Goldkorn, Il dissenso travolto dal passato, in «MicroMega», 2019, 6, La sinistra nel mondo a trent’anni dalla caduta del Muro, pp. 17-20. 2 S. Romano, La Polonia e il peso della storia, in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2015. 3 T. Garton Ash, Le rovine dell’impero. Europa centrale 1980-1990, Mondadori, Milano 1992, p. 206. Il testo citato è del 1988. Sulle conseguenze di

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rico può dire amaramente: «visto che con il trattato del Trianon una gran parte della nazione è rimasta fuori dallo stato, l’unico fattore che ci unisce come nazione è la sofferenza, pensare di essere vittime»4. Una prima anomalia, dunque: un trattato di più di un secolo fa nel discorso politico di oggi. E non in modo episodico: alla vigilia degli esami del 2020 Viktor Orbán faceva gli auguri agli studenti invitandoli a non dimenticare la storia e postando sulla sua pagina Facebook la carta geografica della «Grande Ungheria» precedente a quel trattato. La stessa carta che campeggia nella sede centrale del suo partito, Fidesz5. Contemporaneamente venivano resi pubblici i nuovi programmi scolastici: «esaltano il nazionalismo e assolvono l’Ungheria dall’alleanza con Hitler. Il silenzio di una democrazia ibernata è sceso sull’Ungheria» annotava Andrea Tarquini6. Certo, l’insistere sulla «patria mutilata» non porta oggi a rivendicazioni territoriali ma ad accrescere il consenso e il peso degli oltre due milioni di ungheresi che vivono al di fuori del paese7: di qui anche la concessione della «doppia cittadinanza», con un significativo «ritorno» elettorale. Ed è di fronte ad essi, in Transilvania, che Orbán esplicita per la prima volta il concetto di «democrazia illungo periodo di quel trattato cfr. almeno Á. von Klimó, Hungary since 1945, Routledge, London 2018; S. Bottoni, Per l’Ungheria il passato stenta a passare, in «limes», 2014, 5, 2014-1914. L’eredità dei grandi imperi, pp. 95-102. 4 Cit. in W. Goldkorn, Generazione anti Orbán, in «L’Espresso», 23 dicembre 2018. 5 F. Sforza, Pieni poteri, oppositori fermati e addio diritti. Così Viktor insegue il sogno dell’Orbanistan, in «La Stampa», 16 maggio 2020. 6 A. Tarquini, I 10 anni di Orbán da premier autocrate, in «la Repubblica», 8 maggio 2020. 7 Questo è anche il senso della Giornata della solidarietà nazionale celebrata il 4 giugno, anniversario della firma del trattato: Bottoni, Orbán cit., p. 227; cfr. inoltre Id., Politiche nazionali e conflitto etnico. Le minoranze ungheresi nell’Europa orientale, in «Contemporanea», 2002, 1.

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liberale»8. Eppure era l’Europa, era la cittadinanza europea il «luogo» ove superare le lacerazioni del passato. Ritorniamo però alla storia: o meglio, alla «ossessione della storia» («qui i politici vogliono vincere la prima guerra mondiale in Parlamento», per dirlo in modo ironico)9. Quella «ossessione», cioè, che caratterizza l’azione di Orbán fin da quando il suo partito va al governo, alla fine degli anni novanta. Con il finanziamento delle «celebrazioni del millennio» in onore di (santo) Stefano, primo re d’Ungheria, con il trasferimento della sua corona dal Museo nazionale all’edificio del Parlamento, con un insieme di iniziative dedicate a «grandi ungheresi». E, soprattutto, con la costruzione a Budapest della Casa del Terrore, museo-simbolo della sua visione della storia, in un luogo che era stato sede sia della polizia politica nazista che di quella comunista. Inaugurato a tamburo battente nel 2002 per farlo pesare nella campagna elettorale (poi perduta da Orbán, che ritornerà stabilmente al potere nel 2010). Non era stata molto diversa, in realtà, la visione del primo ministro eletto all’indomani del 1989, József Antall: il paese avrebbe perduto la sua sovranità con l’occupazione nazista del marzo del 1944 e l’avrebbe riconquistata solo all’atto dell’insediamento del primo governo postcomunista. L’Ungheria pertanto non poteva esser ritenuta responsabile né della Shoah né del Gulag10. 8 Poinssot, Dans la tête de Viktor Orbán cit., p. 57; F. Argentieri, Orbán guarda agli anni Trenta, in «la Lettura-Corriere della Sera», 7 novembre 2021. 9 La battuta di Jenő Menyhárt, musicista underground degli anni ottanta, è citata in Z. K. Horváth, The Redistribution of the Memory of Socialism. Identity, Formations of the «Survivors» in Hungary after 1989, in Sarkisova Apor (a cura di), Past for the Eyes cit., p. 247. 10 Ibid., pp. 264-72; I. Rév, Giustizia retroattiva. Preistoria del postcomunismo, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 54-5.

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Si veda più da vicino la «lezione di storia» della Casa del Terrore, diretta da una fedelissima di Orbán, Mária Schmidt: «Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale – si legge nella sua presentazione – l’Ungheria fece disperati tentativi per conservare la sua indipendenza e la democrazia, e manovrò per evitare il peggio, l’occupazione nazista». E poi «l’occupazione nazista, breve ma oltremodo brutale, fu sostituita da un’occupazione sovietica durata due generazioni». Concetto ribadito in più forme (e sottolineato ulteriormente dal pochissimo spazio della Casa dedicato a quella nazista): «nel 1945 l’Ungheria passò nella sfera di influenza del nuovo conquistatore, l’Unione Sovietica. Diversamente dal dominio effimero delle Croci frecciate i comunisti ungheresi arrivati nei carri armati sovietici si preparavano a rimanere a lungo […]. Il Museo vuole essere un monumento dedicato a tutti coloro che caddero vittime del terrore delle Croci Frecciate, che durò pochi mesi, o dei lunghi decenni del dominio comunista» (si noti appena di sfuggita che i «lunghi decenni» vanno ben oltre il periodo staliniano). In una prima versione – poi lievemente modificata – si poteva leggere che «durante la seconda guerra mondiale l’Ungheria si trovò in mezzo al fuoco incrociato delle dittature nazista e comunista. Il 19 marzo del 1944 nazisti occuparono l’Ungheria […] il nuovo governo collaborazionista cessò di proteggere la vita dei suoi cittadini di origine ebraica». Omettendo di ricordare, anche in questo caso, che le prime misure antiebraiche datano in Ungheria dal 1920, con i limiti posti all’accesso all’università, e proseguono con le leggi antisemite del 1938, del 1939 e del 1941. Ignorando anche – ha sottolineato István Rév – che «l’Ungheria prese parte alla guerra al fianco di Hitler non per resistere pre158

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ventivamente al comunismo o per “salvare dalla minaccia del comunismo l’Occidente accecato” ma in vista di vantaggi territoriali»11. Non ci fu solo la Ungheria vittima, ha sottolineato dal canto suo Emmanuel Ruben, ma anche un paese che «invase i propri vicini, prese parte al gran banchetto hitleriano annettendo l’orlo meridionale della Slovacchia, la Voivodina jugoslava, la Rutenia subcarpatica, la Transilvania romena, ricreando nel centro dell’Europa un piccolo impero sostanzialmente fascista […]. A Novi Sad nessuno ha dimenticato che l’esercito ungherese sterminò la quasi totalità della popolazione ebraica in maniera particolarmente feroce: annegandoli vivi, gli ebrei, nel Danubio gelato dal 21 al 23 gennaio del 1942»12. La Casa del Terrore – ha aggiunto Paweł Machcewicz – tace sul fatto che la grande maggioranza degli ebrei fu deportata con la collaborazione delle autorità ungheresi già prima della presa del potere delle croci frecciate nell’ottobre del 1944. E omette di dire che l’alleanza col Terzo Reich era volta a riconquistare i territori persi con il Trattato del Trianon13. Si legga la sofferta prosa del Sándor Márai di Volevo tacere: «in Ungheria l’odio acuto nei confronti degli ebrei ha covato sotto la cenere per un quarto di secolo: nel periodo precedente l’Anschluss esso si era manifestato nelle leggi razziali e, dopo di allora, in una convulsa e sfrenata campagna di saccheggio e rapina. Il giorno in cui le truppe d’assalto della Gestapo erano giunte sulle rive del Leita e, dopo aver annientato gli ebrei tedeschi, avevano cominciato a sterminare anche quelli au11 Traggo informazioni e giudizi da Rév, Giustizia retroattiva cit., pp. 278-309. 12 Ruben, Le cœur de l’Europe cit., p. 84. 13 Machcewicz, The War That Never Ends cit., pp. 28 sgg. Per una sintesi essenziale cfr. almeno Bottoni, Un altro Novecento cit., pp. 89-92.

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striaci, qualunque persona razionale seppe per certo che in Ungheria l’odio latente verso gli ebrei, che si era via via manifestato nell’antisemitismo istituzionalizzato, nelle leggi razziali e nell’emarginazione sociale, ora non sarebbe più potuto restare inerte […]. La stampa razzista e antisemita diede fiato alle trombe. I governi che si avvicendarono in quegli anni, sia pure con riluttanza, finirono per varare obbedienti ciò che gli aizzatori esigevano. Il fine ultimo era l’annientamento degli ebrei d’Ungheria»14. Rimuovere questi aspetti è dunque grave e più in generale – ha osservato Amélie Poinssot – nel discorso di Orbán vi è la progressiva rivalutazione della reggenza di Horthy – autoritario, antidemocratico e conservatore, con un forte richiamo alle tradizioni cristiane del paese15 (e come lui Orbán si radica soprattutto nella Ungheria contadina e tradizionalista)16. Si vedano più da vicino le differenti parti della Casa, a partire da quella «Sala delle occupazioni» che propone il messaggio centrale: è alle occupazioni straniere, è all’influenza di nazioni e poteri «estranei» che si devono i drammi del paese, vittima innocente. In questa visione la Grande Ungheria (l’«Ungheria sul trono», immagine dominante fino al primo dopoguerra) viene mutilata dai poteri occidentali nel 1920, occupata dal Terzo Reich nel marzo del 1944 e un anno dopo dall’Urss17. E non stupisce 14

S. Márai, Volevo tacere, Adelphi, Milano 2017, p. 45. Senza neppur ricordare qui i tentativi della destra più estrema di riabilitare anche László Bárdossy, il primo ministro che portò l’Ungheria in guerra al fianco di Hitler: cfr. B. Nóvé, Memorie dei tempi dell’autocrazia o autocrazia della memoria, in Modrzejewski - Sznajderman (a cura di), Nostalgia cit., p. 222. 16 Su questi aspetti rinvio a Poinssot, Dans la tête de Viktor Orbán cit., pp. 47-64, e a Bottoni, Un altro Novecento cit., pp. 49-53. 17 Cfr. Horváth, The Redistribution of the Memory cit., pp. 264-72. 15

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che proprio da qui nel 2018 Orbán abbia riproposto con forza il suo «sillogismo abituale: il popolo ungherese si è sollevato contro l’oppressore nel 1956, oggi è di nuovo oppresso [da Bruxelles] e dunque deve riprendere la sua lotta»18. Né stupiscono in questo quadro le «didascalie» della Casa sulle conversioni al comunismo di molti filonazisti, con un «cambio di casacca» raffigurato anche con immagini. Non stupisce l’accostamento nella stessa sala di filmati nazisti e comunisti19 o «l’assoluta equipollenza stabilita fra Szálasi, l’uomo fedele ai nazisti tedeschi, e il capo comunista Rákoczi, devoto di Stalin»20. Si veda infine l’ultima sala, dedicata all’«Addio», che inizia con le immagini della risepoltura di Nagy, nel 1989: l’occasione in cui un giovane Orbán conquista consensi chiedendo l’allontanamento delle truppe sovietiche (ma nel 2018 sarà poi Orbán ad allontanare la statua di Nagy dalla sua precedente e centrale collocazione)21. In quella stessa sala è raffigurata poi la partenza dall’Ungheria dell’ultima divisione sovietica, e vi è infine un frammento del filmato sull’inaugurazione della Casa (mentre già all’ingresso una targa ricorda che è stato appunto Orbán a volerla)22. Messaggi consonanti vengono poi da altre iniziative memoriali, a partire dal monumento alle vittime dell’occupazione nazista inaugurato nel luglio del 2014 nella capitale: raffigura l’arcangelo Gabriele, simbolo dell’Ungheria, 18 Poinssot, Dans la tête de Viktor Orbán cit., p. 147. Nel 2012 il corteo Pace per l’Ungheria, in polemica con Bruxelles, aveva il motto: «Non saremo una colonia». 19 Machcewicz, The War That Never Ends cit., pp. 28-9; Applebaum, Il tramonto della democrazia cit., pp. 37-43. 20 W. Goldkorn, Generazione anti-Orban, in «L’Espresso», 23 dicembre 2018. 21 Garton Ash, Le rovine dell’impero cit., pp. 296-306. 22 Rév, Giustizia retroattiva cit., p. 298.

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aggredito da un’aquila che rappresenta la Germania e ha la data del 1944 a una zampa. Un «messaggio di innocenza», contestato da vicino da un «contromonumento» realizzato da molti cittadini con oggetti e simboli della persecuzione antiebraica. Una mobilitazione condotta all’insegna del motto: «La falsificazione della storia è l’equivalente morale dell’avvelenamento dei pozzi»23. Sullo sfondo della «politica della storia» ufficiale vi è dunque una riabilitazione del regime di Horthy iniziata già nel 1993 con la sua risepoltura24 e proseguita con più forza dal 2010, dopo la vittoria di Fidesz e il ritorno al potere di Orbán, assieme a differenti progetti: con la creazione dell’Istituto Veritas, o della Commissione della memoria nazionale, e di altri istituti ancora. E con la sostanziale negazione delle proprie responsabilità storiche, facendo leva su sentimenti diffusi: purtroppo «l’Olocausto non è presente nella coscienza storica o morale di questo Paese», doveva ammettere diversi anni fa Imre Kertész25. Si colloca in questo quadro la pesante offensiva di Orbán contro le voci dissonanti. Contro l’autonomia delle università, ad esempio: con l’istituzione di un «supervisore» e con interventi successivi volti a minarne l’autonomia, o con campagne che mirano a colpire «l’illiberalismo libe23 Poinssot, Dans la tête de Viktor Orbán cit., pp. 60 sgg.; Lowe, Prigionieri della storia cit., pp. 131-40; A. De Biasi, Budapest. Il «monumento vivo» contro il revisionismo, in «Patria indipendente», 6 luglio 2017. 24 Cfr. M. Vásárhelyi, L’ombra del reggente tormenta Budapest, e A. Savioli, Non assolvete quei tre (si riferisce anche alle riabilitazioni di Antonescu in Romania e di monsignor Tiso in Slovacchia), in «l’Unità», 2 settembre 1993; cfr. inoltre G. Benda, «Des Coquelicots dans un champ de blé», in Marès (sotto la direzione di), Histoire et pouvoir cit., pp. 229-37; Nóvé, Memorie dei tempi dell’autocrazia cit., pp. 213-33. 25 Droit, Le Goulag contre la Shoah cit., p. 112.

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rale» dei docenti26. Con l’attacco alla Central European University di Soros, costretta a lasciare il paese27, e con l’offensiva contro l’Accademia ungherese delle scienze28. Un’iniziativa generale, certo, ma con un’attenzione particolare alla storia: abbiamo «dieci anni di tempo – dice nel 2016 Orbán a un suo consigliere – per educare una nuova generazione di storici»29. Distogliendoli dai «frutti di un’ideologia straniera» come gli studi di genere, e da altro ancora30. Un vero «Kulturkampf» contro università, istituzioni culturali, scuole, annotava Ágnes Heller: «con il pretesto che gli studenti li ricevono gratuitamente, i testi scolastici sono adattati alla propaganda di Fidesz, soprattutto per quanto riguarda la Storia e la Letteratura ungherese. Nelle Università lo Stato nomina un cosiddetto cancelliere, al di sopra del Rettore eletto, per gestire l’insegnamento». E parlando con un giornalista del «Corriere della Sera» ancora la Heller sbottava: «Sa che nell’ultimo manuale di storia in uso nei licei l’ultimo capitolo è dedicato a Orbán?»31. Manuali di storia segnati, naturalmente, da 26 Cfr. Bottoni, Orbán cit., pp. 226-33; E. Rosaspina, Ungheria, Orbán privatizza gli atenei per zittire il dissenso, in «Corriere della Sera», 28 aprile 2021. 27 Nel 2018 – ha ricordato il rettore della Central European University, Michael Ignatieff – comparve anche un manifesto con la foto di Soros di profilo e la frase «Non lasciamogli l’ultima risata», simile «a quello nazista del 1939 “Gli ebrei ridono di noi”»: A. Lombardi, Ignatieff: «L’arma di Viktor? Ha sfruttato il consenso per dissanguare la democrazia», in «la Repubblica», 26 maggio 2020. 28 S. Bottoni, La guerra di Orbán all’Accademia Ungherese delle Scienze, in «Passato e Presente», 2019, 107. 29 Cfr. Bottoni, Orbán cit., p. 226. 30 Krakovsky, Le populisme en Europe centrale et orientale cit., pp. 272-4. 31 Á. Heller, Orbanismo. Il caso dell’Ungheria: dalla democrazia liberale alla tirannia, Castelvecchi, Roma 2019, p. 40; P. Valentino, Orbán, in «Corriere della Sera», 25 giugno 2021.

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quella più generale lettura del Novecento che abbiamo ricordato32 e ai quali tende ad adeguarsi – ha annotato Csaba Dupcsik – un corpo docente poco portato a contrastare l’ortodossia. Anche se non mancano, ha aggiunto, «significativi gruppi di insegnanti che cercano di liberarsi di queste “tradizioni” e di utilizzare metodi innovativi»33. Per molti versi dunque questa «politica della storia» fa parte dello stesso progetto che ha portato a drastiche modifiche costituzionali e legislative, in maniera sempre più accentuata dopo il 2010: con una riscrittura della Costituzione segnata dall’impronta nazionalista e autoritaria, dal richiamo ai valori cristiani e dalla più generale ridefinizione di una «identità ungherese» fondata su orgoglio nazionale, patriottismo e «valori tradizionali», a partire dalla famiglia. Con una demolizione sempre più drastica dello Stato di diritto, delle garanzie costituzionali e dei diritti civili, e con il controllo sempre più accentuato e pervasivo di magistratura, media e istruzione34.

32 In primo luogo con la forte rivalutazione del regime di Horthy: G. Caldiron, Non è populismo, è fascismo del terzo millennio, in «MicroMega», 2019, 2. 33 C. Dupcsik, La situazione dell’insegnamento della storia contemporanea in Ungheria, in A. Cavalli (a cura di), Insegnare la storia contemporanea in Europa, il Mulino, Bologna 2005 (su quest’ultimo aspetto pp. 349-50). 34 Oltre ai testi già citati cfr. A. Schmidt, Old Fears, Layers of Democracy and Regime Changes in Hungary, in Balasz - Griessler (a cura di), The Visegrad Four cit., pp. 259-88; M. Congiu, L’Ungheria di Orbán. Rigurgiti nazionalisti e derive autoritarie, Ediesse, Roma 2014; E. Giovannini, Europa anno zero. Il ritorno dei nazionalismi, Marsilio, Venezia 2015, pp. 110-38.

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OMBRE D’EUROPA

VIII.

Slovacchia, Romania, Macedonia (del Nord)…

Molti dei nodi evocati sin qui affiorano anche nella difficile transizione di altri paesi ex comunisti: ovunque – ha osservato Michal Kopeček – e sia pure in forme diverse, il vecchio paradigma nazionale diventa il modo «per uscire dall’abisso ideologico seguito al crollo del comunismo»1. E se nella Cecoslovacchia dei primi anni novanta il presidente Václav Havel metteva in guardia dagli usi politici della storia, il premier (e poi suo successore alla Presidenza della Repubblica Ceca) Václav Klaus disegnava il profilo dello storico come intellettuale patriota e nazionalista: «il nostro nuovo Stato ha bisogno di entrare nella coscienza pubblica ceca come compimento della continuità storica […] e come qualcosa che esalta il valore plurisecolare degli abitanti del Paese […] dobbiamo sviluppare un patriottismo attivo e pratico senza il quale nessuno Stato può svilupparsi con successo»2. In questo «patriottismo attivo» rientra in Slovacchia anche la riabilitazione della Repubblica collaborazionista 1

Kopeček, In Search of National Memory cit., pp. 75-92. Ducreux, Les Tchèques et leur histoire cit., p. 209; sulle differenti memorie nella Repubblica Ceca e in Slovacchia cfr. J. Rupnik, La scissione della Cecoslovacchia, in M. Buttino - G. Rutto (a cura di), Nazionalismi e conflitti etnici nell’Europa orientale, Franco Angeli, Milano 1999. 2

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di monsignor Tiso, con la rimozione delle sue responsabilità nella Shoah; e con qualche passo molto incauto in quella direzione, come un manuale scolastico pubblicato nel 1996 con fondi pubblici che provoca anche la protesta degli storici slovacchi e prese di posizione internazionali. Con un mondo dei media che, soprattutto agli inizi, non manca di dare spazio all’agenda nazionalista, mentre fatica ad andare in onda il documentario televisivo Ama il tuo vicino, dedicato alle deportazioni di massa degli ebrei e a un pogrom compiuto da slovacchi a Topol’čany nel settembre del 1945. È trasmesso nel 2004, e l’anno successivo il sindaco del paese chiede pubblicamente scusa agli ebrei a nome del consiglio comunale (sessant’anni dopo i fatti). E poco dopo il presidente Ivan Gašparovič rivolgendosi a Israele ammette pienamente le responsabilità dello Stato autonomo slovacco nella Shoah3. Considerazioni non molto differenti sono suggerite dalla vicenda romena: con il riemergere di «un nazionalismo demagogico», per dirla con Andrei Pippidi, uno degli storici che si schierò contro di esso (e che deve però segnalare la diffusione di pulsioni analoghe fra gli stessi insegnanti)4. E con la valorizzazione del marescial3 Oltre al testo della Ducreux cfr. Petruf, L’historiographie slovaque cit., pp. 211-28; sulle molte «versioni della storia» insegnate nelle scuole slovacche nel corso del Novecento, nel mutare delle appartenenze statali, cfr. O. V. Johnson, Begetting and Remembering, in Kopeček (a cura di), In Search of National Memory cit., pp. 129-40; sulla riabilitazione di Tiso cfr. inoltre Droit, Le Goulag contro la Shoah cit., p. 113. 4 A. Pippidi, Une histoire en reconstruction. La culture historique roumaine de 1989 à 1992, in Marès (a cura di), Histoire et pouvoir cit., p. 247. Mirela-Luminița Murgescu ha annotato che il dibattito sui manuali di storia svoltosi nell’ottobre del 1999 mostrò quanto la storia nazionale fosse ancora il tallone d’Achille della società romena: M.-L. Murgescu, Romania, in Koulouri (a cura di), Clio in the Balkans cit., pp. 497 sgg.; sui tratti del dibattito storiografico e sul suo tendenziale e pur limitato modificarsi

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lo Ion Antonescu, il «conducator» che schierò il paese al fianco di Hitler e che ha avuto pubblica commemorazione anche in Parlamento. Si aggiunga, alla fine degli anni novanta, l’ostracismo a un manuale scolastico alternativo, scritto da giovani storici, che si misurava con un arco temporale ampio mettendo in discussione le narrazioni dominanti (verrà ritirato dal mercato dopo un dibattito parlamentare)5. Si aggiungano quelle iniziative memoriali che hanno la loro massima espressione nel museo di Sighet dedicato alle vittime del comunismo: museo che evoca repressioni, crimini e terrori reali ma al tempo stesso – per dirla con la prosa cruda di Tony Judt – «commemora un variegato assortimento di attivisti della Guardia di ferro e di altri fascisti e antisemiti rumeni del periodo bellico e prebellico, ora riciclati come martiri della persecuzione comunista»6. E si consideri, soprattutto, quel lungo negare responsabilità romene nella Shoah che si incrina solo con il processo che porta all’ingresso in Europa: a partire dall’istituzione di una commissione internazionale e di una Giornata della memoria delle vittime della Shoah, nel 2004, che vede ammissioni pubbliche prima mancate. L’anno successivo nel primo decennio post-comunista cfr. B. Murgescu, La storiografia romena degli anni novanta, in A. Laudiero (a cura di), Oltre il nazionalismo. Le nuove storiografie dell’Est, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2004, pp. 131-51. 5 S. Bottoni, Memorie negate, verità di stato. Lustrazione e commissioni storiche nella Romania post-comunista, in «Quaderni storici», agosto 2008, 128 (e per un giudizio sintetico sul ruolo di Antonescu si veda almeno Id., Un altro Novecento cit., pp. 92-6). 6 Judt, Dopoguerra cit., pp. 1019-20; per un giudizio più ampio e analitico cfr. G. Cristea - S. Radu-Bucurenci, Raising the Cross. Exorcising Romania’s Communist Past in Museums, Memorials and Monuments, in Sarkisova - Apor (a cura di), Past for the Eyes cit., in particolare pp. 297-303.

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«persino Iliescu, presidente uscente, in una concessione all’ambizione del proprio Paese all’ingresso nella Ue, è stato costretto ad ammettere ciò che lui stesso e i suoi colleghi avevano a lungo categoricamente negato: che anche la Romania aveva dato il suo contributo allo sterminio degli ebrei in Europa»7. A una storia (o a invenzioni della storia) di più lungo periodo rinviano poi altri nodi. Per superare l’ostracismo greco al suo ingresso nella Nato, e poi nell’Unione europea, la Macedonia ha dovuto diventare Macedonia del Nord, nel 2019, dopo un lungo contenzioso storico in cui è stato chiamato in causa anche Alessandro Magno. Ora il veto più forte al suo ingresso nella Ue viene dalla Bulgaria (connesso anche al rispetto della minoranza bulgara), e una commissione storica bilaterale è impegnata da anni per raggiungere una visione condivisa a uso dei manuali scolastici8: un lavoro talora interrotto dopo duri contrasti, alimentati anche qui dal mutare dei climi politici9. Anche in questo caso, insomma, la storia è «campo di battaglia di interpretazioni fra loro confliggenti da cui dipendono presente e futuro»10, e gli stessi, difficili rapporti con la minoranza albanese si sono riflessi in modo significativo 7

Judt, Dopoguerra cit., p. 990. Sulla radicalità di lungo periodo delle divergenze e sulle modalità del loro confliggere negli anni novanta cfr. A. Kalionski - V. Kolev, Multiethnic Empires, National Rivalry and Religion in Bulgarian History Textbooks, e N. Jordanovski, Between the Necessity and the Impossibility of a «National History», in Koulouri (a cura di), Clio in the Balkans cit. 9 B. Aleksiev, K. Pavlov, D. Vatsov, A Loaded Gun. National Populism in North Macedonia, in «Eurozine», 1° aprile 2021; S. Popov, The European Solution to the «Macedonian Question», ivi, 12 aprile 2021; E. Kaniadakis, Occhio, Europa, la Macedonia è davvero alla frutta, in «il venerdì di Repubblica», 1° luglio 2022. 10 A. Giussani, La corsa a ostacoli della Macedonia (del Nord) verso l’Europa, in «Reset», 17 giugno 2020. 8

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Slovacchia, Romania, Macedonia (del Nord)…

nell’insegnamento e nelle strutture stesse dell’ordinamento scolastico11. Più in generale, era eloquente il panorama tratteggiato una ventina di anni fa da una riflessione a più voci sull’Europa sud-orientale cui abbiamo già fatto riferimento, volta anche a proporre vie alternative e pluralistiche. Lo sguardo si allargava al lungo periodo, in primo luogo ai diversi modi di «leggere» gli imperi bizantini e ottomani, e giungeva sino all’oggi. Nell’introduzione Christina Koulouri osservava che la dimensione europea era poco presente nei manuali scolastici e sottolineava al tempo stesso l’importanza di favorire le attitudini critiche dello studente (in controtendenza rispetto alla pratica dominante), togliendo enfasi allo studio delle guerre e mettendo al centro la storia economica, sociale e culturale. Ponendo in discussione i nuovi miti etnocentrici che si stavano affermando e chiedendosi al tempo stesso, amaramente: una lettura razionale del passato può davvero competere con la retorica mitizzante e mistica del nazionalismo? La storia dei Balcani non lascia molto spazio all’ottimismo, concludeva, e si interrogava però sui contenuti possibili di una storia europea: o meglio, su quali fossero gli obiettivi dell’«insegnare storia» agli studenti europei12. 11 Cfr. R. Pichler, Historiography and Politics of Education in the Republic of Macedonia (1991-2008), in Dimou (a cura di), «Transition» and the Politics of History Education cit.; S. Petrungaro, Il confine sfuggente. Il caso dei Balcani, in Blanco - Tamanini (a cura di), La storia attraversa i confini cit. 12 Koulouri, Introduction, in Id. (a cura di), Clio in the Balkans cit., pp. 15-48; cfr. inoltre, ibid.: N. Jordanovski, The Common Yugoslav History and the Republic of Macedonia, pp. 254-60; Id., Between the Necessity and the Impossibility cit., pp. 265-75; A. Kalionski, Ottoman Macedonia in Bulgarian History Testbooks for Secondary School, pp. 276-80; D. Karakatsani, The Macedonian Question in Greek History Textbooks, pp. 289-91; B. Dimitrijević, The Macedonian Question in Serbian Textbooks, p. 292.

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OMBRE D’EUROPA

IX.

Insegnare in Europa

Nello stesso torno di tempo, e sia pur in modo molto differente, bilanci poco ottimistici venivano anche da chi comprendeva nell’analisi gli stessi manuali dell’Europa occidentale. Nel 2003, ad esempio, Falk Pingel introduceva una impegnativa indagine a più voci annotando che «l’educazione non è stata finora in primo piano tra le attività degli organi europei». È urgente predisporre nuovi testi sia all’Est che all’Ovest, aggiungeva, perché «l’Europa viene vista fondamentalmente a partire dalle varie prospettive nazionali». E «non troviamo ancora nei libri di testo quelle nozioni fondamentali sulle analogie fra le diverse regioni europee e sulle differenze che dobbiamo accettare se vogliamo vivere in pace». Era necessario dunque giungere «a un nuovo concetto ampliato d’Europa» che rinunci «all’orientamento occidentale sinora in uso» e «comprenda i nuovi elementi della multiculturalità, dei confini aperti, della coscienza globale». Per i paesi ex comunisti si parla di «ritorno all’Europa», osservava, ma «si tratta di un’annessione all’Europa occidentale o di un nuovo concetto di Europa?». La stessa domanda posta sin dal 1990, come s’è visto, da Václav Havel e da altri1. In 1

Pingel, Nazioni ed Europa nell’educazione scolastica cit., pp.

LIV-LVIII.

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quello stesso volume il saggio dedicato alla Bulgaria segnalava che era ancora presente nei manuali la denuncia dell’«egoismo europeo» (con l’incomprensione delle «aspirazioni e dei desideri dei bulgari»), la deplorazione del «traumatico destino nazionale» e sin la riproposta aspirazione all’«unificazione etnica dei bulgari, la sola in grado di garantire loro felicità e progresso»2. Si vedano anche, in quel volume, i saggi dedicati ai manuali inglesi: Keith Crawford sottolineava quanto avesse pesato l’ispirazione antieuropea degli anni di Margaret Thatcher, e Mark Engel osservava: «da un lato la Gran Bretagna è percepita come parte dell’Europa mentre dall’altro il termine stesso di “Europa” ricorre unicamente per descrivere l’Europa continentale, come è appunto abitudine in Gran Bretagna. Mancano inoltre domande su cosa sia l’Europa, quali siano le affinità e le differenze che in essa si possono riscontrare o che cosa differenzi l’Europa da altri continenti o da altre aree culturalmente omogenee». E citava poi un manuale dei primi anni novanta che annotava: «l’Europa si sta lentamente muovendo verso l’unificazione […]. Qualunque cosa abbia in serbo il futuro occorreranno grandi sforzi e spirito di tolleranza per affrontare i mutamenti che verranno». Dal canto suo John Hopkin analizzando i libri di geografia osservava: «per la maggior parte degli autori dei libri di testo […] lo studio dell’Europa “continentale” rappresenta una priorità non 2 S. Dimitrova, L’«altra» entità politica esterna e le immagini dell’Europa nei manuali di storia moderna della Bulgaria successiva al 1917, in Pingel (a cura di), Insegnare l’Europa cit. In riferimento anche ad altri paesi dell’Europa centro-orientale cfr. G. Procacci, La memoria controversa. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, AM&D edizioni, Cagliari 2003.

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determinante»3. Venivano confermate così le pessimistiche considerazioni di pochi anni prima: «all’ombra di un’immagine della storia improntata ancor sempre alla posizione dominante dell’Inghilterra nell’Europa e nel mondo», annotava Eva Kolinsky, l’adesione alla Ue è presentata come scelta «quasi forzata», in un momento di difficoltà nazionale. E quindi «interessi propri e facoltà di decisione e iniziativa devono continuare ad esistere». Se poi «presentare l’Europa significa mostrarne le molteplicità, le differenze e le somiglianze con un atteggiamento empatico per la visione degli altri Paesi», concludeva, «questa Europa i libri di storia devono ancora scoprirla»4. Difficile stupirsi troppo di quel che è avvenuto poi. Già allora dunque tutti i nodi erano stati posti in piena evidenza e naturalmente vi erano anche iniziative in controtendenza, di cui questi stessi volumi danno conto. E vi sarà anche il manuale di storia franco-tedesco il cui primo volume esce nel 2006. Sulla base del «bilancio dei lavori» tracciato da uno dei suoi autori, le difficoltà incontrate non sembrano essere state enormi (come era largamente prevedibile, data la lunga frequentazione reciproca delle due storiografie), attribuibili forse a differenti sensibilità e propensioni più che a «differenze nazionali». Dal canto 3 Cfr. K. Crawford, L’Europa nei libri di testo di storia del Regno Unito. Insegnamento e apprendimento, in Pingel (a cura di), Insegnare l’Europa cit.; M. Engel, «Un lento avvicinamento all’Europa». La dimensione europea nei testi britannici di storia contemporanea, ibid.; J. Hopkin, L’Europa nei testi di geografia inglesi, ibid. Osservazioni convergenti sono in C. C. Davies - R. Philips, L’insegnamento della storia contemporanea nel Regno Unito, in Cavalli (a cura di), Insegnare la storia contemporanea cit. 4 E. Kolinsky, Analisi dei manuali per l’insegnamento della storia in Gran Bretagna, in F. Pingel e altri, L’immagine dell’Europa nei manuali scolastici di Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna e Italia, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1994, pp. 350-4.

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suo Alessandro Cavalli ha osservato che le divergenze sembrano essere state in realtà attenuate nel testo finale anziché esposte in piena luce, «ripiegando su una piatta neutralità»: anche per questo, ha concluso, questo manuale «non ci aiuta molto»5. E risulta anche da qui il valore del manuale tedesco-polacco cui si è già fatto riferimento. Più in generale, offre molti spunti una riflessione di qualche anno fa di Markus J. Prutsch, impegnato negli uffici culturali di Bruxelles. Già in precedenza non erano mancati i riferimenti a una tradizione comune europea, ha osservato, ma solo con l’inizio del XXI secolo viene riconosciuta la necessità di definire identità e memoria storica collettiva dell’Europa come elemento centrale di una politica comune. Di sottolineare cioè l’importanza della dimensione culturale del progetto. Ne hanno fatto capire l’urgenza, ha aggiunto, la bocciatura della Costituzione europea nei referendum di Francia e Olanda, e il disincanto più generale che si stava diffondendo: nel 2005, cioè nello stesso anno in cui il 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale metteva a nudo, come abbiamo visto, divaricazioni sin lì tenute sotto traccia. Nasce in quello scenario, e in esplicita risposta ad esso, un nuovo programma culturale, The Europe for Citizens Programme, che comprende il progetto Active European Remembrance: in particolare per quel che riguarda i campi di sterminio e le deportazioni di massa durante il nazismo e lo stalinismo. Prutsch riflette poi a lungo sui «conflitti di memoria» che queste questioni hanno innescato e innescano ma osserva anche che il «ripensare il passato» non può 5 É. François, Le manuel franco-allemand d’histoire. Une entreprise inédite, in «Vingtième siècle», aprile-giugno 2007, 94, pp. 73-86; A. Cavalli, Un manuale di storia franco-tedesco, in «Mundus», 2008, 1.

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ridursi ad esse. Non può eludere il nodo di una più generale responsabilità europea: colonialismo e imperialismo, aggiungeva, non ci parlano anch’esse di Europa? E questi nodi non coinvolgono direttamente il passato di un numero sempre più alto di cittadini europei?6 Non vi sono solo le differenti memorie delle due Europe – ha osservato in modo convergente Marcello Flores – ma anche la presenza di cittadini europei o in attesa di diventarlo che hanno alle spalle memorie diverse e appartengono a una storia in cui il ruolo e l’influenza europea sono state spesso tragicamente oppressive7. Anche ad essi è necessario saper parlare. Saper insegnare. Sono di grande interesse anche altre riflessioni di Prutsch: per quanto possa sembrare attraente l’idea di una memoria europea con pratiche e contenuti condivisi, ha osservato, in realtà essa non sembra né possibile né desiderabile. Non si tratta di rendere a forza «europee» le differenti memorie8, ma di adottare criteri critici, «europei», nel misurarsi con esse nelle differenti nazioni: a 6 In modo convergente Michael Rothberg sottolineava nello stesso torno di tempo la necessità di «misurarsi con le molteplici eredità che attraversano una Europa simultaneamente postcoloniale, postsocialista, postnazional-socialista e postmigranti», indagando storie e memorie, documenti d’archivio, produzioni letterarie e cinematografiche, e così via: M. Rothberg, From Paris to Warsaw and beyond, in Blacker, Etkind, Fedor (a cura di), Memory and Theory cit., pp. 81-101. 7 Flores, Cattiva memoria cit., p. 117. 8 Sarebbe altrettanto fallimentare quella via della «mediazione» fra le differenti narrazioni, con la «minimizzazione» di contrasti e nodi irrisolti, che ha caratterizzato la Casa della storia europea inaugurata nel 2017 a Bruxelles: la sua complicata vicenda, ha osservato Aleida Assmann, evidenzia ancora una volta che «una narrazione ufficiale europea non è ancora in vista e forse non è neppure possibile» (Assmann, Il sogno europeo cit., p. 99; Id., Europe’s Divided Memory cit.); cfr. inoltre Sierp, Le politiche della memoria cit.; S. Fiori, L’Europa assalita dai vuoti di memoria, in «la Repubblica», 14 aprile 2018.

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Crainz, Ombre d’Europa

partire da quella «politica del rimorso», da quel riconoscimento delle proprie responsabilità storiche cui si è più volte fatto riferimento anche qui. Valorizzando e rafforzando molto di più le esperienze positive che pur vi sono state e vi sono, e orientandosi con più forza verso concezioni ampie dell’eredità e della cultura europea9. Osservazioni consonanti con le riflessioni che Stefan Zweig proponeva nelle sue conferenze degli anni trenta del Novecento, sempre più angosciato da quel declinare del «mondo di ieri» di cui intuiva l’epilogo. Sempre più convinto della necessità di «una disintossicazione morale dell’Europa come cura a lunghissimo termine», e al tempo stesso pessimista sulla sua reale possibilità: oggi l’Europa «è vittima di un grave perturbamento interiore […] la diffidenza reciproca si dimostra smisuratamente maggiore della sfiducia». Nell’immediato, osservava, è difficile aspettarsi una inversione di tendenza, bisogna preparare le nuove generazioni costruendo una nuova educazione e «una nuova visione della storia». Oggi in ogni nazione la storia è insegnata in modo «nazionalistico», aggiungeva, ogni colpa è sempre del «nemico». È quasi inevitabile, se la storia che si studia è una storia politica e militare, «come se quella militare fosse la sola e unica attività eroica di ciascuna nazione che sia mai stata chiesta all’umanità». È evitabile invece, se la storia che si insegna è la storia della civiltà, frutto del contributo dei diversi popoli e della circolazione delle conquiste del sapere («le grandi invenzioni, le scoperte, i progressi a livello di tradizioni, scienza e tecnica»). Di qui la necessità di «un mutamento dei programmi scolastici in ogni Stato e nazio9

Prutsch, European Historical Memory cit.

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Insegnare in Europa

ne». L’idea d’Europa, aggiungeva, «non è un sentimento primario, come lo è il sentimento patriottico, come lo è quello dell’appartenenza a un popolo». Non è originaria e istintiva ma nasce dalla riflessione: è «il frutto lentamente maturato di un pensiero elevato». Prima di «un’unione dell’Europa a livello politico, militare, finanziario», concludeva, «sembra importante realizzare quella culturale». Prendendo avvio dai giovani: «è da molto tempo che reputo necessario un patto fra gli Stati e le Università che conceda agli studenti il riconoscimento a livello internazionale di un semestre o di un anno di studi presso un ateneo straniero […]. Uno scambio siffatto, però, non dovrebbe riguardare solo le università, dovrebbe sfruttare le vacanze per allargarsi, grazie a borse di studio o scambi»10. Parole di quasi un secolo fa, e molto più di recente lo scrittore greco Petros Markarīs doveva chiedersi: «In quale Paese si insegna ai ragazzi storia europea? Cominciamo da lì, allora, dal basso, dalla scuola dell’obbligo», superando i limiti delle esperienze che pur vi sono per gli studenti universitari11. Nodi centrali e ampiamente sottovalutati, se non rimossi. Quasi assenti dal dibattito sollevato qualche anno fa in Italia dalla decisione ministeriale (poi rientrata) di non inserire la traccia di storia agli esami di maturità. Dibattito che doveva al tempo stesso ammettere carenze molto gravi nello studio della storia recente. E doveva 10 Le citazioni sono tratte da Il pensiero europeo nella sua evoluzione storica (1932), Disintossicazione morale dell’Europa (1932) e L’unificazione dell’Europa (1934), ora in S. Zweig, Appello agli Europei, Skira, Milano 2015. Su questo si veda anche A. Bolaffi, Uno sguardo verso il futuro, in Bolaffi Crainz (a cura di), Calendario civile europeo cit., pp. 496-7. 11 F. Pace, Petros Markarīs «Per salvare l’Unione bisogna mettere da parte le utopie», in «La Stampa», 25 maggio 2019.

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Crainz, Ombre d’Europa

rimpiangere lo spirito del decreto legge del 1996 di Luigi Berlinguer sull’insegnamento del Novecento nell’ultimo anno delle superiori, sottolineando al tempo stesso la necessità di significative innovazioni nel modo stesso di concepire i manuali12. C’è da sperare che in questa direzione si vada davvero, perché vi sono qui due questioni: l’importanza dell’insegnamento nella costruzione dell’Europa e il ruolo centrale che dovrebbe svolgere anche su questo terreno una rete culturale e civile transnazionale, elemento fondamentale per dar corpo a un futuro comune. Non sembrano cresciute in modo adeguato in questi anni circolarità di esperienze, capacità di dialogo fra sensibilità diverse, relazioni sempre più strette, mobilitazioni intellettuali e civili. Né è cresciuto il sostegno a chi, nei paesi «sovranisti», è impegnato a promuovere pluralismo e aperture sfidando discriminazioni, misure repressive, campagne mediatiche ostili. Eppure è un terreno decisivo.

12 Cfr. almeno S. Fiori, Come si insegna la storia?, in «la Repubblica», 26 novembre 2019.

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OMBRE D’EUROPA

Indice dei nomi

Adamowicz, Paweł, 151, 152 Adenauer, Konrad, 61 Agliastro, Giuseppe, 83n Aleksiev, Buryan, 168n Aleksievič, Svetlana, 88 e n Alessandro Magno, 168 Alessandro III Romanov, zar di Russia, 84 Alessio II (Aleksej Michailovič Ridiger), 84n Amato, Giuliano, 14n, 40n, 47n Antall, József, 157 Antonescu, Ion, 118, 162n, 167 e n Apor, Péter, 36n, 93n, 125n, 140n, 145n, 157n, 167n Applebaum, Anne, 151n, 161n Arendt, Hannah, 67 Argentieri, Federigo, 157n Arjakovsky, Antoine, 40n Arru, Alessandra, 17 Assmann, Aleida, 23n, 30 e n, 38n, 78 e n, 82n, 121 e n, 150n, 152n 175n Baerbock, Annalena, 34 Balazs, Adam Bence, 103n, 107n Banchelli, Eva, 35n, 36n

Bandera, Stepan Andrijovič, 70, 71n Baranović, Branislava, 105n, 106 en Barczak-Oplustil, Agnieszka, 147n Bárdossy, László, 118, 160n Bartoszewski, Władysław, 68, 149 Basso, Francesca, 54n Bastasin, Carlo, 47 Batarilo, Katarina, 105n Battistini, Francesco, 89n Bauman, Zygmunt, 136n, 144 e n Bazin, Anne, 62n Becker, Wolfgang, 34 Belardelli, Giovanni, 147n Bellezza, Simone Attilio, 71n Benda, Gyula, 162n Berelowitch, Alexis, 71n, 87n Berlinguer, Luigi, 178 Berti, Francesco, 93n, 147n Bertoldi, Moreno, 43n Bertucelli, Lorenzo, 100n Bettanin, Fabio, 71n, 86n Bianchi, Federica, 55n Bibó, István, 112 e n Bieber, Florian, 16n

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Crainz, Ombre d’Europa Blacker, Uilleam, 69n, 70n, 86n, 113 e n, 121 e n, 128n, 142n, 175n Blair, Tony, 11 Blaive, Muriel, 74n Blanco, Luigi, 72n 83n, 94n, 169n Boeri, Tito, 41 e n, 42n Bogdanović, Bogdan, 98n Bohle, Dorothee, 16n Bolaffi, Angelo, 8n, 31n, 39 e n, 40n, 44n, 47, 54n, 119n, 177n Bonanni, Andrea, 48, 117n Boneschi, Marta, 78n Bonnard, Pascal, 128n-130n Borejsza, Jerzy W., 147n Bottoni, Stefano, 22n, 23n, 27n, 45n, 156n, 159n, 160n, 163n, 167n Brandes, Detlef, 73n Brandt, Willy, 62, 64 Bravo, Anna, 136n Bresolin, Marco, 49n Breton, Thierry, 47 Brodnik, Vilma, 111n Brokken, Jan, 125n Brossat, Alain, 76n Brussig, Thomas, 35n Buccini, Goffredo, 52 e n, 152n Budak, Neven, 111n Budrytė, Dovilė, 126n Bonanni, Andrea, 48 Bush, George W., 11 Buttino, Marco, 65n, 165n

Caragnano, Natasha, 51n Case, Holly, 44 e n, 45n Castelletti, Rosalba, 89n-91n, 133n Castronovo, Valerio, 39n Cataluccio, Francesco, 13n, 67n, 125n, 141n Caterina II, imperatrice di Russia, 90 Cattaruzza, Marina, 62n, 153n Cavalli, Alessandro, 164n, 173n, 174 e n Cazzola, Roberto, 122n Chiellino, Giuseppe, 51n Churchill, Winston, 64, 122 Ciampi, Carlo Azeglio, 75, 76n Cichocki, Marek, 28n, 140 Cinnella, Ettore, 90n Cirillo, santo, 97 Combe, Sonia, 76n Congiu, Massimo, 164n Cooke, Paul, 31n, 32n, 33, 35n Cordes, Miłosz J., 71n Coricelli, Fabrizio 41 e n Corni, Gustavo, 96n Cottarelli, Carlo, 48 Courtois, Stefan, 90n Crainz, Guido, 8n, 40n, 44n, 54n, 65n, 71n, 77n, 109n, 119n, 136n, 177n Crawford, Keith, 172, 173n Cristea, Gabriela, 167n Crouch, Colin, 7n, 44 e n

Caldiron, Guido, 44n 164n Cappellini, Stefano, 54n Capuzzo, Paolo, 35n Caracciolo, Lucio, 8 e n, 15, 29n, 43n

Dahrendorf, Darf, 45 Daković, Nevena, 36n D’Aniello, Fernando, 14n 79n Dante Alighieri, 40 D’Argenio, Alberto, 48

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Indice dei nomi Davies, Catherine Clara, 173n Davies, Norman, 66 e n, 77 e n, 122, 149 Deaglio, Mario, 43n Debeljak, Aleš, 18n De Biasi, Antonella, 162n De Florio, Giulia, 84n, 91n de Gaulle, Charles, 61 Delors, Jacques, Demnig, Gunter, 63, 131n Denikin, Anton Ivanovič, 84 e n Dérens, Jean-Arnault, 110n De Rosa, Gabriele, 90n Diamanti, Ilvo, 7n Dimitrijević, Bojan, 169n Dimitrova, Snezana, 172n Dimou, Augusta, 95n, 103n, 105n, 111n, 169n Disegni, Stefano, 47n Dmowski, Roman, 145 Dobrokhotov, Leonid Nikolaevič, 86, 87n Dodik, Milorad, 51n Droit, Emmanuel, 116 e n, 117n, 118n, 123n, 162n, 166n Dubček, Alexander, 72 Ducreux, Marie-Elizabeth, 93n, 165n, 166n Duda, Wojciech, 149 Dundovich, Elena, 86n Dupcsik, Csaba, 164 e n Edelman, Marek, 145n Eltchaninoff, Michel, 82n El’tsin, Boris Nikolaevič, 81, 83, 88 Engel, Mark, 172, 173n Erdoğan, Recep Tayyp, 51n

Eribon, Didier, 7n Etkind, Alexander, 69n, 70n, 86n, 113 e n, 121 e n, 128n, 142n, 175n Fabbrini, Sergio, 44n, 47, 48 e n, 49n, 52 e n, 53n Falk, Barbara J., 23n, 26n Fauri, Francesca, 39n Fedor, Julie, 69n, 70n, 86n, 113n, 121n, 128n, 142n, 175n Ferrara, Antonio, 65n Ferrera, Maurizio, 53n Ferretti, Maria, 81 e n, 86n Fini, Gianfranco, 75n Fiori, Simonetta, 90n, 175n, 178n Fischer, Joseph Martin detto Joschka, 46 Flores, Marcello, 71n, 84n, 121n, 175 e n Foa, Anna, 119n, 131n Focardi, Filippo, 93n, 100n, 111n, 118n, 147n Franceschini, Enrico, 24n Franco, Francisco, 146 François, Étienne, 174n Fubini, Federico, 47, 48 e n Fukuyama, Francis, 9n Gabanelli, Milena, 54 Gagarin, Jurij Alekseevič, 82 Galka-Olejko, Oliwia, 151n Galli della Loggia, Ernesto, 54 e n, 89n Galli, Carlo, 90, 91n Garton Ash, Timothy, 22n, 24n, 43n, 44n, 77 e n, 78, 84 e n, 155 e n, 161n

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Crainz, Ombre d’Europa Gašparovič, Ivan, 166 Gastineau, Max-Erwann, 14n Gauland, Alexander, 37 Gawin, Dariusz, 148 Gentilini, Fernando, 19 e n Gentiloni, Paolo, 47 Georgescu, Diana, 10n Geremek, Bronisław, 13, 14 e n, 122 Giani Gallino, Tilde, 29n Giantin, Stefano, 51n Giblin, Béatrice, 38n, 42 e n Giovannini, Eva, 45n, 164n Giussani, Alessio, 168n Glassheim, Egle, 73n Glenz, Ella, 34n Gliński, Piotr, 150 Glucksmann, André, 5 e n Gnesotto, Nicole, 6n, Godeša, Bojan, 109n Goethe, Johann Wolfgang von, 40 Goldkorn, Włodek, 22n, 25n, 55n, 72n, 89n, 136n, 143n, 146 e n, 147n, 152 e n, 153n, 155 e n, 156n, 161n Goldstein, Ivo, 119 e n Golubeva, Marija, 132 e n Gorbačëv, Michail Sergeevič, 92 Grabar-Kitarović, Kolinda, 107 Grajewski, Andrzej, 153n Graziosi, Andrea, 90n Grésillon, Boris, 32n, 33 e n Greskovits, Béla, 16n Gribaudi, Gabriella, 117n Griessler, Christina, 103n, 107n, 164n Grönholm, Pertti, 130 e n

Groppo, Bruno, 93n, 118n Gross, Jan Tomasz, 135 e n, 136 Guetta, Bernard, 27 e n, 28n, 48, 107n Guida, Francesco, 44n Gullotta, Andrea, 89n Habermas, Jürgen, VIII, 31n, 49 e n, 79 e n Haider, Jörg, 7, 74 Haußmann, Leander, 34 Havel, Váklav, 10, 13, 15, 16n, 21, 73 e n, 74, 165, 171 Hegedüs, Zsuzsa, 28n Heller, Ágnes, 18, 19n, 22 e n, 163 en Herzog, Roman, 63, 64, 67 Hirschhausen, Béatrice von, 33 e n Hitler, Adolf, 37, 62, 64, 88n, 123, 128, 156, 158 Höcke, Björn, 37 Holland, Agnieszka, Höpken, Wolfgang, 98 e n, 103n, 109 e n Hopkin, John, 172, 173n Horthy, Miklós, 118, 160, 162 Horváth, Zsolt K., 93n, 157n, 160n Hrebeljanović, Lazar, 17, 18 Hribar, Spomenka, 108, 111 Hussein, Saddam, 11 Iacob, Bogdan C., 22n, 26n Ignatieff, Michael, 163n Ignazi, Piero, 47 Iliescu, Ion, 168 Ilves, Toomas Hendrik, 131

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Indice dei nomi Ivaničková, Edita, 73n Ivaškevičius, Marius, 127n Jagielski, Wojciech, 77 e n Jagodziński, Andrzej, 16n Jančar, Drago, 109 Jangfeldt, Bengt, 82n Janigro, Nicole, 17, 78n, 97 e n, 136n Janša, Ivan «Janez», 110 e n Jasiński, Łukasz, 151n Jenö, Menyhárt, 157n Johnson, Owen V., 166n Jordanovski, Nikola, 168n Jouhanneau, Cécile, 105n Judt, Tony, 6 e n, 115 e n, 117n, 119 e n, 167 e n, 168n Juncker, Jean-Claude, 53n Juščenko, Viktor, 70 Kaczyński, Jarosław, 22, 28n, 68, 138, 142, 146, 148, 150 Kaczyński, Lech, 22, 92, 138, 142 en Kalionski, Alexei, 168n, 169n Kallas, Kaja, 132 Kalniete, Sandra, 115, 116 e n Kalinin, Ilya, 86n Kaniadakis, Elena, 168n Kant, Immanuel, 67 Kaplan, Karel, 117 Karakatsani, Despina, 169n Karge, Heike, 105n Karmanova, Inna, 84n, 91n Kattago, Siobhan, 132 e n Kerski, Basil, 55, 56n, 69n, 71n, 151n, 152 e n, 153n

Kertész, Imre, 162 Kis, János, 21, 27 Klabjan, Borut, 111n Klaus, Václav, 74 e n, 165 Klumbytė, Neringa, 127n Knabe, Hubertus, 37n, 63n Kocbek, Edvard, 108 Koch, Konrad, 152n Kohl, Helmut, 31, 33, 61 Kolář, Pavel, 136n, 150n Kolev, Valery, 168n Kolinsky, Eva, 173 e n Komar, Żanna, 145n Konrád, György, 77 Kopeček, Michal, 36 e n, 130n, 138n, 165 e n, 166n Köpping, Petra, 34 Koren, Snježana, 104n, 105n, 106 en Kostovicova, Denisa, 105n Kotkin, Stephen, 23 e n Koulouri, Christina, 100n, 103n, 104n, 111n, 119n, 166n, 168n, 169 e n Kowalczuk, Ilko-Sascha, 30 e n Krakovsky, Roman, 28n, 163n Krastev, Ivan, 21, 23n, 29 e n Kučan, Milan, 109 Kučma, Leonid Danylovyč, 70 Kula, Marcin, 142, 143 e n, 149 Kundera, Milan, 77 e n, 137 e n Kunštát, Miroslav,73n Kuoditė, Dalia, 126n Kuroń, Jacek, 21, 25n Kwaśniewski, Aleksander, 70, 117, 138 e n

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Crainz, Ombre d’Europa Laczó, Ferenc, 10n, 16n, 20n-23n, 29n, 30n, 33n, 36n, 44n, 77, 78n, 140n Lagrou, Pieter, 111n Lanzmann, Claude, 136 e n Laudiero, Alfredo, 167n Lazar, Marc, 28n, 43n Leggewie, Claus, 33n Le Goff, Jacques, 76n Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov), 90 Leogrande, Alessandro, 9n Leonard, Mark, 10 Le Pen, Jean-Marie, 7 e n Libeskind, Daniel, 149 Lipski, Jan Józef, 67n Lisjak Gabrijelčič, Luka, 10n, 16n, 20n-23n, 29n, 30n, 33n, 44n, 78 e n, 140n Lomastro, Francesca, 90n Lombardi, Anna, 89n, 163n Lowe, Keith, 111n, 162n Luce, Edward, 6n Luthar, Oto, 103n, 109 e n Lutomski, Pawel, 68n Machcewicz, Paweł, 69n, 88n, 135n, 139, 146n, 147, 148n, 149, 150 e n, 151 e n, 159 e n, 161n Macron, Emmanuel, 53, 54 Magatti, Mauro, 44n Magris, Claudio, 17n, 66n Main, Izabella, 93n, 140n, 144, 145n Maksic, Adis, 107n Manin, Bernard, 7 e n Márai, Sándor, 159, 160n Marès, Antoine, 93n, 94n, 97n 101n, 111, 112 e n, 118n, 162n, 166n

Marjanović, Vladislav, 100, 101 e n Mark, James, 22n, 26n, 125n, 126n, 128n, 130n, 131n Markarīs, Petros, 8 e n, 177 Maronta, Fabrizio, 86n Martinetti, Cesare, 75n, 91n Martinotti, Giampiero, 61n Mastrobuoni, Tonia, 24n, 48 Mastrolilli, Paolo, 51n Mattarella, Sergio, 76 Matvejević, Predrag, 19 e n Mauro, Ezio, 40 e n, 47, 49 e n, 87 e n, 88n, 89n Meckl, Markus, 128n-130n Medvedev, Dimitrij Anatol’evič, 85 Menyhárt, Jenő, 157n Meri, Lennart, 131 Merkel, Angela, 34 Merta, Tomasz, 140 Metodio, santo, 97 Michalski, Cezary, 142n Michnik, Adam, 16, 17n, 21, 25 e n, 55n, 67, 70, 141 e n, 144n, 147n Mickiewicz, Adam, 137 Middelaar, Luuk van, 40n Mihăilescu, Vintilă, 28 e n Mihajlović, Dragoljub «Draža», 100 Mihajlović Trbovc, Jovana, 103n, 106n, 107 e n Mihályi, Péter, 28 Milošević, Slobodan, 17, 18, 51n, 99 Miłosz, Czesław, 66 e n Mink, Georges, 62n, 71n, 74n, 105n, 128n, 135n Minniti, Marco, 51n Misiuna, Jan, 11n, 29n Mitterrand, François, 61 e n

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Indice dei nomi Mlynárik, Ján, 73 Moavero Milanesi, Enzo, 14n Modolo, Gianluca, 99n Modrzejewski, Filip, 18n, 35n, 127n, 160n Modzelewski, Karol, 25 Moeller, Robert G., 62n Molinari, Maurizio, 48, 93 e n Mongrenier, Jean-Sylvestre, 38n, 54n Montanari, Laura, 18n Montefiori, Stefano, 53n, 144n Monti, Mario, 48n Moorhouse, Roger, 66 e n, 77n Morawiecki, Mateusz, 146 Morawski, Andrea, 71 e n Morawski, Paolo, 28n, 71 e n, 92n, 136, 137n, 138n, 143n, 144 Moretti, Andrea, 135n Moscatelli, Orietta, 82n, 86n, 87n Münkler, Herfried, 14n Murgescu, Bogdan, 167n Murgescu, Mirela-Luminița, 166n Nagy, Imre, 161 Najbar-Agičić, Magdalena, 100n Napolitano, Giorgio, 76 e n Negrin, Alberto, 75n Neumayer, Laure, 62n, 71n, 74n, 105n, 128n, 135n Nóvé, Béla, 160n, 162n Nowak, Andrzej, 139 Nowicki, Joanna, 65 e n Offenstadt, Nicolas, Ojuland, Kristiina, 129

Orbán, Viktor, IX, 15, 22, 24, 27, 28n, 44, 52, 93, 113, 155-8, 160-3 Orlić, Mila, 100n, 108n Pace, Francesca, 177n Pachocka, Marta, 11n, 29n Paczkowski, Andrzej, 71n Pahor, Boris, 108 e n Pahor, Borut, 76, 111 Palumbo, Marilisa, 40n Panagiotidis, Jannis, 29n Parisi, Valentina, 67n Pasikowski, Władysław, 135n Pasquino, Gianfranco, 14n Passerini, Luisa, 56n Pavelić, Ante, 97, 98, 118 Pavlacović, Vjeran, 100n Pavlov, Konstantin, 168n Pelinka, Anton, 113 Perissich, Riccardo, 44n, 52 e n Perosino, Monica, 51n, 133n Pešek, Jiří, 73n Petracchi, Giorgio, 41 e n, 54n Petri, Rolf, 101n Petroni, Federico, 47n Petruf, Pavol, 97n, 166n Petrungaro, Stefano, 99n, 103n, 104, 105n, 169n Pettai, Eva-Clarita, 126n, 132n Philips, Robert, 173n Pianciola, Niccolò, 65n Pichler, Robert, 105n, 169n Pietro I Romanov, zar di Russia, 82, 92 Pingel, Falk, 102 e n, 104n, 105 e n, 111n, 171 e n, 172n, 173n Pippidi, Andrei, 166 e n

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Crainz, Ombre d’Europa Pirjevec, Jože, 95n Pisarri, Milovan, 101n Pistan, Carna, 18n, 95n, 96n, 101n, 106n, 108n Platt, Kevin M., 128n Pobłocki, Kapcer, 36n, 93n Podemski, Piotr, 94 e n, 138n, 139n, 143n, 147n Poinssot, Amélie, 15n, 45n, 157n, 160 e n, 161n, 162n Pomian, Krzysztof, 149 Ponso, Marzia, 31n, 35n Popov, Stefan, 168n Portnov, Andriy, 70n, 71n Potel, Jean-Yves, 76n Potočnik, Dragan, 111n Procacci, Giuliano, 172n Prodi, Romano, 75 Prutsch, Markus J., 119n, 174, 175, 176n Pupo, Raoul, 65n, 71n, 98 e n, 109n Purchla, Jacek, 145n Puri Purini, Antonio, 76n Pušnik, Maruša, 110n Putin, Vladimir Vladimirovič, VIII, 67, 71n, 81, 82, 84 e n, 85-7, 88n, 89, 90 e n, 92, 117 Puttkamer, Joachim von, 140n Radu-Bucurenci, Simina, 167n Rákosi, Mátyás, 161 Rampini, Federico, 44n Razpotnik, Jelka, 111n Rebula, Alojz, 108 Reichlin, Lucrezia, 14n Renan, Joseph-Ernest, 56

Rév, István, 93n, 157n, 158, 159n, 161n Revelli, Marco, 7n, 42, 43n Ricœur, Paul, IX, 78 Ricolfi, Luca, 7n, 42 e n Rieff, David, 78n Rifkin, Jeremy, 9, 10n Riotta, Gianni, 6n Riva, Gigi, 27n, 51n, 99n Riva, Massimo, 47, 48n, 52 e n, 55n Robin, Régine, 64n, 116 e n Roccucci, Adriano, 83, 86n Roksandić, Drago, 96n Romano, Sergio, 53n, 155 e n Romanov, dinastia, 84 Ronchey, Silvia, 91n Roosevelt, Franklin Delano, 122 Rosaspina, Elisabetta, 163n Rosenlöcher, Thomas, 35 Rossini, Andrea, 97n Rothberg, Michael, 175n Rousso, Henry, 122n, 149 Rožman, Gregorij, 110 Ruben, Emmanuel, 121, 122 e n, 159 e n Rumiz, Paolo, 17 Rupnik, Jacques, 16n, 19n, 22n, 23, 24 e n, 42n, 165n Rupprecht, Tobias, 22n, 26n Rusconi, Gian Enrico, 33n, 38n, 40 e n, 56 e n, 63n, 122n Rushdie, Salman, 20 Rutto, Giuseppe, 165n Rüütel, Arnold, 117 Sabbatucci, Giovanni, 147n Salacone, Alessandro, 83n, 86n

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Indice dei nomi Salomoni, Antonella, 117n 129n Salvati, Mariuccia, 28n, 43n Salvati, Michele, 43n Salvatici, Silvia, 65n, 71n, 109n Sampò, Delia, 151n Sarkisova, Oksana, 36n, 93n, 125n, 140n, 145n, 157n, 167n Sassoon, Donald, 145n Savioli, Arminio, 162n Schalansky, Judith, 24n Schlögel, Karl, 66 e n Schmidt, Andrea, 164n Schmidt, Mária, 158 Schneider, Peter, 50, 55 e n Schröder, Gerhard, 31, 33 Schuman, Robert, 46 Sciolla, Loredana, 28n, 43n Segatti, Paolo, 75n Semprún, Jorge, 123 Sforza, Francesca, 156n Sierakowski, Sławomir, 13 e n, 24n, 44n, 147 e n Sierp, Aline, 119n, 175n Siljak, Ana, 73n Simms, Brendan, 8n Snyder, Timothy, 63n, 65n, 69n, 89n, 149 Sofri, Adriano, 144n Sondel-Cedarmas, Joanna, 93n, 136n, 138n-140n, 147n Soros, George, 163 e n Spinelli, Barbara, 36n, 45, 46n, 73n, 74 e n, 122n, 137 e n Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili), 82-5, 123, 133, 161 Stefanini, Stefano, 48, 51n Stefano I, re d’Ungheria,

Steinbach, Erika, 68 Steinmeier, Frank-Walter, 34 Stella, Gian Antonio, 91n Stobiecki, Rafał, 138n-140n, 142n Stojanović, Dubravka, 95 e n, 102 e n, 106 e n Stola, Dariusz, 151 Storchi, Massimo, 64n Strassel, Christophe, 32n Szálasi, Ferenc, 161 Szarota, Tomasz, 148 Szczerski, Krzysztof, 141 e n Szczypiorski, Andrzej, 67 e n Sznajderman, Monika, 18n, 35n, 127n, 160n Szurek, Jean-Charles, 76n Tamanini, Chiara, 72n, 83n, 94n, 169n Tarquini, Andrea, 29n, 62n, 63n, 67n, 68n, 141n, 144n, 147n, 156n Thatcher, Margaret, 172 Ther, Philipp, 24n, 27n, 30n-32n, 73n Thibaut, Pascal, 38n Thierse, Wolfgang, 32, 34 Tiso, Jozef, 118, 162n, 166 e n Tito, Josip Broz, detto, 97, 100, 109, 121 Tonacci, Fabio, 107n Tonini, Carla, 93n, 139n, 143n, 144n, 151n Török, Ferenc, 135n Tortello, Letizia, 50n Traba, Robert, 69n, 78 e n, 120 e n, 141, 142n, 145n, 146n, 153 e n

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Crainz, Ombre d’Europa Tracevskis, Rokas, 126n Trošt, Tamara, 103n, 106n, 107 e n Trovesi, Andrea, 36n Truong, Nicolas, 49n Tuđman, Franjo, 95, 99, 100 e n Tusk, Donald, 69, 143, 149 Uffelmann, Dirk, 142 e n Uhl, Heidemarie, 103n Ulmanis, Guntis, 129n Ušakov, Fëdor Fëdorovič, 90 Vaillant, Jérôme, 33n Valentino, Paolo, 34n, 48n, 49n, 85n, 113n, 163n Valli, Bernardo, 5 e n, 62n Vannier, Sébastian, 32n Vásárhelyi, Miklós, 162n Vatsov, Dimitár, 168n Veil, Simone, 116 Verbytska, Polyna, 72n, 83n Verdery, Katherine, 18n, 99 e n Verginella, Marta, 109n, 110n Verola, Nicola, 14n Veronese, Luca, 51n Vidal, Dominique, 38n, 44n, 110n Vīķe-Freiberga, Vaira, 115, 130n Viola, Sandro, 117n Visetti, Giampaolo, 118n Vodopivec, Peter, 111n

von der Leyen, Ursula, 47 von Klimó, Árpád, 156n Vučić, Aleksandar, 51n, 107 Wajda, Andrzej, 149 Wałęsa, Lech, 10, 67 Walicki, Andrzej, 141 Wang, James, 20n Weizsäcker, Richard von, 37, 63 Werth, Nicolas, 82n Wnuk, Rafał, 151n Wojtyła, Karol, 22 Wolle, Stefan, 35n Wulf, Meike, 130 e n, 131 e n Zafesova, Anna, 89n, 90n, 92n Zagrebelsky, Gustavo, 48n, 49n Zajk, Marko, 111n Zala, Sacha, 62n, 153n Žantovský, Michael, 40 Zatterin, Marco, 48 Ždanov, Andrej Aleksandrovič, 92 Zeman, Miloš, 74 e n Zevi, Adachiara, 64n, 131n Zieja, Alan, 69n Zielonka, Jan, 10n, 16n, 26n, 45 en Zunino, Corrado, 92n Zweig, Stefan, 176, 177n

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Finito di stampare il 24 ottobre 2022 per conto di Donzelli editore s.r.l. presso Str Press s.r.l. Via Carpi, 19 - 00071 Pomezia (Roma)