Memorie della tecnica

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Printed  in  Italy  ­  1985 Ali  rights  in  ibis  hook  are  reserved Cadmo editore s.r.l., casella postale 6225, 00100 Roma

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« PROGETTO FORUM HUMANUM »

MEMORIE DELLA TECNICA scritti di Edoardo Albinati, Stefano Leoni Gianluca Manzi, José Monter, Giampiero Moretti P. Vijai Pillai, Rocco Ronchi, José Vidal

a cura di Gianluca Manzi

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MEMORIE DELLA

TECNICA

Coro dell'ultimo atto Dunque  fra  poco  tutto  sarà  compiuto Ogni  cosa  sarà  ferma  tra  noi Al  suo  riposo  come  un  giorno  compiuto. Conoscerà  ciascuno  una  cosa  vera. E  voi  tornerete  alle  case  con  una  pietra Sul  cuore  come  nel  pugno  una pietra vera. Domani  sopra  i  tetti  il  sole  griderà Le  grandi  opere  ignude  delle  montagne E  noi  e  voi  torneremo  al  lavoro. (da « Foglio di via » di F. Fortini)

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PREMESSA

Sorto  per  iniziativa  ài  Aurelio  Peccei,  Presidente  del  Club  di Roma  scomparso  un  anno  fa,  il  Progetto Forum Humanum intende  promuovere  fra  giovani  ricercatori  di  diverse  nazioni  e  di­ scipline  un  incontro  sulle  grandi  alternative  che  si  presentano  alla comunità  mondiale  in  questo  critico  stadio  della  sua  avventura. Fra  i  contributi  italiani  al  Progetto,  sotto  la  sigla  convenzio­ nale  di  Centro  di  Ricerca  « Abitare la Terra,  ovvero  quale soggiorno  per  l'uomo  e  come  pensarlo  in  relazione  alla  Tecnologia » si  è  riunito  un  piccolo  gruppo  di  scrittori  e  studiosi  di  filosofia  e teologia,  al  fine  di  individuare  quali  compiti  debbano  ritenersi  con­ formi  alla  dimensione  tecnologica  in  cui  attualmente  viviamo. Lo  scopo  della  ricerca  è  allora  da  una  parte  quello  dì  definire il  ruolo  proprio  dello  scrittore  e  del  pensatore  davanti  all'attuale urgenza  (a  questo  proposito  si  legga  il  primo  rapporto  del  Centro: « Un  nome  scritto  sull'acqua »,  edito  da  Lativa  nel  1984,  scritto da  Gianluca  Manzi),  dall'altra  di  riconoscere  nel  fenomeno  la  pos­ sibilità  per  una  diversa  condizione  umana. Questo  volume,  pur  testimoniando  ancora  d'un  atteggiamento  rico­ gnitivo  su  temi  propri  a  ciascun  membro  del  gruppo,  si  propone  di cogliere  quelle  premure  di  cui  bisogna  farsi  carico  prima  di  affidarsi a  indicazioni  più  semplici  e  maggiormente  confortanti.  E'  infatti previsto  un  rapporto,  con  finalità  divulgative,  che  riassuma  il  lavoro del  Centro.

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in  memoria  di  Aurelio  Peccei

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HIND SWARAJ ALLA LUCE DELLA CRITICA HEIDEGGERIANA

DELLA

MODERNITÀ

Ogni  interpretazione  è  un  dialoga  con  l'opera  e  con  il  detto.  Ogni  dialogo quindi,  non  appena  si  limita  a  ciò  che  viene  immediatamente  detto  e  resta  in esso  irrigidito,  anziché  consentire  agli  interlocutori  di  abbandonarsi  vicendevol­ mente  nella  direzione  del  luogo  in  cui  hanno  la  loro  sede  e  da.  cui  provengono le  parole  che  essi  ogni  volta  dicono,  illanguidisce  e  diventa  infruttuoso.  L'ab­ bandonarsi  nella  direzione  di  quel  luogo  è  l'anima  di  un  dialogo.  Esso  porta gli  interlocutori  nel  non­detto. Martin Heidegger

Per gli intenti di quanto segue, Hind Swaraj sarà precipuamente visto nel suo aspetto di interrogazione sulla natura della civiltà moderna, una civiltà che ha nella tecnologia il proprio segno dominante. Gran parte di ciò che verrà detto non sarà attribuibile a Gandhi in senso letterale: il testo potrà senz'altro risultare sovraccaricato di significati ad esso non intrinseci. Per quanto ho potuto ho adottato l'interpretazione in prospettiva di Martin Heidegger, e il carattere della trattazione sarà metafisico. Questo procedimento si giustifica in quanto, seppure le argomentazioni di Gandhi passino attraverso terminologie etiche e utilitaristiche, le radici del suo pensiero sono di natura puramente religiosa — e ciò in senso metafisico piuttosto che strettamente teologico. Per questo motivo le osservazioni che andremo a fare possono essere viste non solo come una ulteriore sfumatura del suo tema di fondo, bensì, malgrado il loro divergere dalle sue immediate preoccupazioni, come del tutto rientranti nella sfera del suo interesse maggiore. Questa sfera, in breve e per sommi capi, riguarda le impli-

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P-  Vijai  Pillai

cazicmi della civiltà moderna e della tecnologia per la sostanza umana. L'era moderna è contraddistinta egualmente dalla forte consapevolezza di sé in quanto nuova, e dalla sua tecnologia. Questa coincidenza non è un mero accidente impressionistico, ma riflette una fondamentale inter-relazione che può essere riscontrata lungo i percorsi tracciati dalla tecnologia. E' opinione comune che la forza propulsiva della tecnologia derivi dalla scienza moderna: tecnologia come applicazione della scienza. Andando a ritroso fino alle origini delle scienza moderna nel diciassettesimo secolo troviamo Galileo e Descartes (1). Secondo il dogma fondamentale di Galileo, il postulato sul quale poggia la sua indagine sulla natura, il Libro della Natura è scritto in numeri e dunque la sua intima struttura è matematica. E' evidente che misurabilità e manipolabilità della natura, che così fortemente caratterizzano l'assunto tecnologico, hanno origine nella convinzione che la natura sia matematicamente rappresentabile — e su questo si è fondata la metodologia. "Physis", « il prò-porte da sé una cosa », diventa la fisica matematica (2). La novità di questo approccio risiede nel fatto che per i Greci 11 termine "ta mathemata" ha un significato molto più vasto di quello puramente numerico (3). Il termine designa ciò che uno sa di una cosa prima dell'effettiva osservazione empirica di essa. Il numero costituisce solo una delle varietà di questa "ta mathemata" e prevale semplicemente in quanto forse è il più ovvio. Nell'esempio di Heidegger: se uno trova tre mele su un tavolo, ciò che egli prima di tutto sa fra le altre cose, è il numero tre, l'antecedente percezione della "treità" (4). Il centro dell'assunto di Galileo è la peculiarità che quanto della natura si offre come conosciuto prima dell'effettiva osservazione e sperimentazione è la sua struttura numerica. E' l'imputazione di questa struttura a qualunque cosa — in questo caso la na-

ti)  Wbat  is  called  Tbinking?, tt. Glenn Gray, New York, 1968, pag. 178. (2)  The  Question  concerning  Technology  and  otber  Essays, tr. William Lovitt, New York, 1977, pag. 10. (3) Ib. pp. 118-119. (4) Ib. pp. 118-119.

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Hind  Sicura] 

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tura — è questa proiezione di un modello-base, che risulta decisiva, in quanto crea un campo di ricerca operando così il distacco dalla scienza medievale, in cui le indagini rimangono più o meno separate. E' precisamente questa imposizione che costituisce l'essenza della tecnologia. Poiché è in questo modo che la natura dischiude se stessa all'alba della scienza moderna e dunque la determina, legittimamente Heidegger afferma che la tecnologia — nel senso della proiezione che schiude l'oggetto-sfera di ricerca — è fondamentalmente, vale a dire essenzialmente, anteriore alla scienza moderna (5). E ciò non è invalidato dal fatto che la tecnologia in quanto meccanizzazione è cronologicamente successiva. La scienza moderna dunque fa il suo esordio sotto l'egida rivelatrice della tecnologia. Una volta che il fondamento della natura è stato delineato in termini numerici, le elaborazioni procedurali — in conformità con esso — dovranno necessariamente pretendere esattezza. Non è una smania di precisione che muove la scienza moderna; sono piuttosto i presupposti ontologici della scienza moderna a esigere esattezza. Ed ancora: una volta che l'essenza della fisica viene determinata in termini di grandezza — di massa e di movimento — la comprensione del mutamento e la partecipazione degli eventi richiedono metodi di definizione  e delimitazione. La fluidità del mutamento richiede, per essere afferrata, una struttura fissa. Questa è la legge, cioè una scala di relazione che permetta la misurazione. Qualunque esperimento come conferma di ipotesi si rende possibile facendo riferimento a tali leggi le quali, a loro volta, vengono da esso confermate o sconfessate. Il punto che si vuole qui sottolineare è che tutti gli eventi del mondo naturale sono riconosciuti come eventi solo alla luce di tale applicabilità. Laddove questo accomodamento non è possibile, il fenomeno o evento in questione per i fisici semplicemente non esiste Galileo considerava un esperimento come una domanda posta alla na-

(5) Ib. pp. 21-22.

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P.  Vijai  Pillai

tura. Una domanda che veniva posta quantitativamente e che richiedeva una risposta nel medesimo linguaggio. Natura era solo ciò che poteva rispondere in termini matematici. La legge, nata dalla natura della proiezione iniziale, diventa così arbitro dell'esistente. La proiezione è ciò che permette di controllare un esperimento e di anticiparne il risultato, cosicché l'essenza di un esperimento può definirsi come la rappresentazione delle condizioni entro le quali la natura si comporterà in ogni dato caso. Il grado di precisione della proiezione verrà riflesso nella struttura sperimentale e nel conseguente risultato. L'espansione della ricerca — intesa come infinita moltiplicazione degli oggetti-sfera stabiliti dalla proiezione tecnologica — è isomorfica all'aumento di specializzazione entro ciascun oggetto-sfera. Una volta che l'oggetto-sfera è stato definito — per esempio quello della fisica matematica — altri se ne dischiudono per via, come dire, di esclusione. Tutto ciò che non è fìsica diventa un altro oggetto-sfera che sarà, a sua volta, delimitato da analoghi confini. La rete in ramificazione della ricerca è tenuta insieme in due modi: a livello formale, la metodologia dell'oggetto-sfera dominante — storicamente parlando ancora la fisica — viene applicata a quelli emergenti; l'estensione dei principi meccanicistici alla biologia e alla zoologia nel momento di massimo fulgore del modello newtoniano ne è un esempio. A un livello più profondo, comunque, l'intima unità di ogni ricerca risiede nel semplice e decisivo fatto che tutti gli oggetti-sfera sono proiettivi. Analogamente, l'aumento di specializzazione inerente agli oggetti-sfera è collegato con la funzione limitativa delle leggi che inducono l'aprirsi di ulteriori aree di ricerca. Si ha poi l'apoteosi dell'unità formale nella creazione delle teorie dei campi, di cui sono esempi supremi l'unificazione delle meccaniche terrestri e celesti di Newton e la teoria generale dei campi di Einstein. All'aspirazione verso una megateoria dei campi che unifichi tutti gli oggetti-sfera alludono probabilmente, sebbene in forme ancora molto lontane da una esplicita articolazione, gli sforzi di taluni ambiti come la semiotica strutturale. La specializzazione dunque, non va meramente considerata come una conseguenza della proliferazione dei dati, ma piuttosto come conseguenza della moltiplicazione degli oggetti-sfera ne-

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Hind  Swaraj

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cessar! alla ricerca in quanto tale: è proprio questo che in prima istanza genera dati. Anche l'istituzionalizzazione della ricerca, che procede di pari passo con la specializzazione, è intrinseca alle dinamiche interne della ricerca stessa. Tutte le metodologie sono determinate dai propri rispettivi modelli-base, e i risultati di queste procedure, a loro volta, articolano e chiariscono ulteriormente i modelli-base medesimi. I risultati della ricerca, dunque, retroagiscono all'infinito sulla ricerca stessa. Questo perpetuo rinvio reciproco è ciò che, da una parte, evita il frammentarsi della specializzazione in una serie di investigazioni occasionali, e dall'altra rende necessaria l'istituzionalizzazione della ricerca in quanto organizzazione di questa attività circolare. Ecco un semplice esempio della ricerca come cerchio in espansione: il ciclotrone comporta per la propria costruzione il contributo di numerosi settori della fisica. Una volta entrato in funzione, esso genera nuova ricerca dal momento che rende possibili nuovi interrogativi sulla natura dell'atomo. La nuova ricerca viene incorporata nel patrimonio di conoscenze scientifiche della generazione successiva, e così via. Dunque la ricerca, intesa sia come contenuto sia come espressione dell'attività tecnologica, è ciò che continuamente si pre-occupa dell'elaborazione del proprio modello-base. Illustrerò più avanti con quali implicazioni. La ricerca — intesa come sinonimo di tecnologia — è originata e inestricabilmente legata alla proiezione originale per via dell'imposizione del modello-base. In quanto proiezione, la ricerca è rappresentazione di qualunque cosa quello sia. Attualmente è l'uomo che opera tale proiettare e in questo senso è il soggetto della proiezione, ma essa non costituisce un atto della sua volizione, liberamente e autonomamente voluto, scelto tra altri equivalenti. Al contrario e più esattamente, l'uomo è chiamato a proiettare. Dal momento che per essere ciò che è la tecnologia dipende da questo richiamo, e poiché l'uomo è il primo chiamato ad essa, egli appartiene più radicalmente alla fonte del richiamo di chiunque successivamente, attraverso la sua mediazione, cada entro il suo dominio. Ma l'uomo è obbligato a proiettare e per il momento la domanda è: qual è la natura del soggetto

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P.  Vijai  Pillai

rappresentante? quaPè l'ontologia dell'uomo in quanto colui che proietta? La ricerca, come si è detto, delimita qualunque cosa sia conforme ai suoi propri termini. Solo ciò che è rappresentabile in questa forma esiste. Da qui l'osservazione di Heidegger che « noi arriviamo alla scienza come ricerca quando e soltanto quando la verità è stata trasformata nella certezza della rappresentazione » (6). Dal momento che l'uomo basa se stesso sulla rappresentazione, la sua soggettività è conscguentemente determinata da essa. Ciò che domina è la rappresentazione, di modo che l'uomo può essere definito come la rappresentazione che rappresenta. Essendo l'uomo colui che rappresenta in questa maniera e poiché tutto ciò che è, è solamente nella misura in cui è rappresentabile, l'uomo diventa il fondamento di tutta l'esistenza, il soggetto primario. Nel rappresentare se stesso come soggetto che rappresenta, l'uomo contemporaneamente rappresenta ciò che è rappresentato come oggetto. Il termine oggetto in questo caso non implica affatto un riconoscimento dell'autonomia di ciò che è. Esattamente il contrario. Il legame tra legge e particolarizzazione dei fatti, prima descritto in dettaglio, offre uno stretto parallelismo con questa situazione. La legge permette la definizione di fatti che vengono così definiti dal supporto e dall'opposizione alla legge stessa, e tuttavia legge e fatti, mutuamente interdipendenti, rientrano nella medesima categoria ontologica, quella della proiezione. L'oggetto ha un'analoga relazione con il soggetto che rappresenta in quanto questi rende possibile il calcolo, il controllo e la manipolazione di quello. La tensione oppositiva che permette questo è d'altra parte essa stessa generata dall'atto medesimo della rappresentazione. L'oggettivazione di tutto ciò che è e la soggettivazione dell'uomo come fondamento della rappresentazione e quindi dell'essere costituiscono il medesimo evento. L'uomo come soggetto primario è la radicale novità dalla quale traggono comune origine la modernità della nostra era e la tecno-

(6) Ib. p. 127.

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Hind  Swaraj

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logia. Il subjectum, da cui deriva la parola soggetto, è l'equivalente latino, nell'etimologia heideggeriana, del greco "hypokeimenon" che designa « ciò che sta dinnanzi » (7), ciò che è presente e dunque la base raccogliente dell'essere. Così, tutto ciò che è esiste come soggetto, sono tutti egualmente "subjecta". Quindi, il subjectum « non ha alcuna relazione speciale con l'uomo e nessuna con l'io» (8). La parola greca per ciò che si chiama "veritas" in latino e "truth" in inglese è "aletheia", che significa "disvelamento" (9). L'ego nel pensiero greco, anche quando acquisisce importanza tra i sofisti, è sempre incluso entro l'orizzonte delimitato dal rivelarsi di ciò che è presente momento per momento (10). Non è un principio universale e illimitato, ma è sempre condizionato dal contesto del disvelamento. L'ego è presente sempre insieme a ciò che è disvelato e in questo senso è un co-presente. Ciò che si disvela e ciò che rimane nascosto non dipendono dalla decisione dell'uomo, e tutta la comprensione delle cose — in quanto opposta alla rappresentazione — sta nella natura di questo reciproco rivelarsi « entro l'orizzonte di ogni particolare disvelamento ». L'io rientra, ed è limitato, in questo orizzonte. L'ego qui non ha una propria identità noumenica in quanto è sempre in relazione a una specifica rivelazione. Per i Greci, ogni essere, ogni rivelarsi, incluso quello dell'io, si origina nell'aletheia. L'uomo come subjectum, come soggetto primario, è la rivolta contro la tradizione teologica medioevale, nella quale l'essere è in relazione alla specifica collocazione imposta dal Dio Creatore della dottrina scolastica. L'uomo emancipa se stesso dall'obbligo della dottrina rivelatrice cristiana e cerca, invece, di fondare se stesso in se stesso. Ma questa libertà dal dogma medievale, per non diventare arbitraria e capricciosa, deve cercare di vincolarsi a quel qualcosa di imperativo che è il cuore della libertà. La libertà dalla dottrina me-

(7) Ib. p. 128. (8) Ib. p. 128. (9) Ib. pp. 11-12. (10) Ib. pp. 145-147.

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P.  Vijai  Pillai

dievale lascia così il posto a una libertà in cui l'imperativo che serve a preservare da una mera vaghezza è la certezza — nel senso della calcolabilità — che nasce dalla rappresentazione. L'obiettivo metafisico cartesiano era quello di « creare le premesse metafisiche per aprire l'uomo a una libertà in quanto autodeterminazione che è certa di se stessa» (11), A questo mira la formula: « ego cogito (ergo) sum ». L'uomo è in quanto pensa, vale a dire rappresenta. Per Descartes la certezza del pensare matematico è simultaneamente la certezza della determinazione di sé. La co-presenza che tanto caratterizza il pensiero greco qui trova ancora un'eco, ma con un senso enormemente diverso. Ciò che è copresente insieme all'uomo nella formulazione cartesiana è la rappresentazione. Ciò che viene co-disvelato è una richiesta di rappresentabilità fatta al mondo, la pretesa che esso sia rappresentabile. Una richiesta posta in questi termini non ha limiti. La abrogazione delle frontiere della rivelazione che delimitano tutto il disvelamento greco trasforma l'uomo in un subjectum incondizionato al quale corrisponde, nella maniera illustrata, una oggettivazione illimitata. La certezza fondamentale su cui tutto ciò si basa è l'equazione: pensare = essere; ma nel termine "cogitatio" Descartes non include solo il pensare matematico, bensì tutti i modi della volizione e dell'emozione che vengono così fatti rientrare nella categoria della rappresentazione  e quindi sono tutti ugualmente liberi dal limite (12). Il fondamento di questa certezza è effettivamente soggettivo in quanto essa è determinazione autocosciente dell'uomo, ma non è egoistica, dal momento che, come Heidegger fa notare, la certezza dell'equazione è vincolan te per ciascun io in quanto soggetto (13). La certezza vincolante dell'uno è certezza vincolante dell'altro, e questo vale ugualmente per la concomitante oggettivazione. Uomo come subjectum vuoi dire uomo come base di tutto l'essere. E' l'uomo che d'ora in avanti determina l'essenza della sua sog-

(11) Ib. p. 148. (12) Ib. p. 150. (13) Ib. p. 151.

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Hind  Swaraj

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gettività. Il contenuto di questa soggettività si accorda al modo del suo disporsi e può essere variamente definito come razionalismo matematico, nazionalismo, socialismo, secolarismo, e praticamente qualunque altro -ismo concepibile. L'estensione universale di cui sono suscettibili queste dottrine, quello che fa di esse "modi del mondo" — e quello che permette la globalizzazione dei conflitti che le contrappongono — si origina precisamente nell'assenza di limitazione implicita nell'uomo in quanto subjectum. I conflitti sono universalizzati dal momento che l'uomo è universalizzato; l'uomo in quanto subjectum esige l'incontrollata universalizzazione della sua proiezione particolare, qualunque sia la sua forma, come conferma della certezza del suo esistere. E la sostituzione del particolarizzato "Io" con il comunitario "Noi" non altera minimamente il fondamentale soggettivismo del dogma cartesiano; al contrario, non fa che renderlo maggiormente insidioso (14). Nel mondo greco, per il quale l'uomo è disvelamento e presenza, la soggettività era impossibile e dunque la dottrina dell'umanesimo — che presuppone la centralità dell'uomo — non avrebbe potuto nascere (15). Nel mondo moderno, invece, tutti gli studi tendono all'antropologico: lo studio dell'uomo come colui che rappresenta, la storia delle sue rappresentazioni e l'indagine crìtica sulle corrispondenze isomorfiche che possono di volta in volta prevalere. La libertà dell'uomo tecnologico è libertà di rappresentare all'infinito. E' un giorno fortunato quello in cui non viene proposto al nostro sguardo nauseato un ennesimo criterio per visionare il mondo. Quando il mondo esiste come rappresentazione, esso inevitabilmente esiste in una maniera ontologicamente attenuata. Questo è estremamente evidente nel contesto della tecnologia in quanto modalità produttiva nell'ambito della quale la natura è vista come un materiale grezzo. Tutto quello che è esiste in quanto ingrediente potenziale per qualcos'altro, in una concatenazione che non ha fine. Non

(14) Ib. p. 152.

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(15) Ib. p. 133. Per ulteriori osservazioni sull'antropologia vedere anche pagina 153.

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P.  Vìjai  Pillai

c'è cosa alla quale venga permesso di entrare in se stessa e restare lì, a resistere, al fine di trovare il proprio posto. L'autoassorbimento della tecnologia, la sua incessante ingestione dei propri prodotti, preclude questo circoscriversi, sola via che rende possibile l'autonomia e la potenza di ciò che è. Dal momento che tutti gli oggetti-sfera sono intimamente uniti dall'essere ugualmente proiettivi, ubiquitariamente ha il sopravvento l'omogeneità. La burocrazia per Max Weber era l'acme della razionalità carica dei suoi molteplici rischi. Fu Kafka, però, a percepire lucidamente le bizzarre implicazioni della sua essenza in autoespansione. Come per l'ineluttabile istituzionalizzazione della ricerca scientifica — dove la ricerca stessa dischiude solo spazi sempre più vasti al proprio rappresentare — la forza principale della burocrazia è la necessità di articolare all'infinito i propri procedimenti, una necessità che, analogamente alla ricerca, reclama un dominio in costante espansione e lo attua attraverso la specializzazione. Qui la nozione di razionalità come modo dell'uomo per scavalcare rapidamente uno specifico ostacolo esiste solo, ahimè, in forma di corruzione. Questo avviene perché la burocrazia non è mai un semplice mezzo; la sua logica è sempre la logica del suo labirinto. Può essere "usata" solo a patto di interiorizzarla e di lasciarsi inglobare in essa. La corruzione e altre simili accuse di presunte sistematiche disfunzioni sono infatti vitali all'espansione burocratica — come chiaramente dimostra la creazione di Squadre di Vigilanza e Nuclei Anticorruzione. Ciascuno di tali avanzamenti — tanto per citare un aspetto — incrementa l'estensione della corruzione. Le presunte distorsioni sistematiche e il sistema stesso sono legati insieme in una struttura di crescita sinergistica. Alla perdita dell'essere specifico nell'omogenizzazione si tenta di offrire una compensazione con l'attribuzione di valori. Questi però non sono altro che un'ennesima rappresentazione definita da Heidegger come l'« oggettivazione dei bisogni in quanto scopi » (16). Tutte le ideologie si basano su rappresentazioni di sé in forma di tali bisogni oggettivati e questo fa sì che essi vengano proiettati come unidò) Ib. p. 142.

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Ulna  Swara}

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ficanti universali. Le battaglie ideologiche riguardano il contenuto di questi bisogni; e mai la definizione dell'uomo che ha dei bisogni in quanto tali. E infatti una vera e propria definizione dell'uomo in termini di bisogni è proponibile solo nel contesto dell'uomo come subjectum, nel contesto dell'autorappresentazione. Così tutti i programmi riguardanti i bisogni essenziali, sebbene sacrosanti nell'intenzione, si conformano alla struttura tecnologica. Il dire che si è provata fame, o che si è conosciuto l'amore, è assai diverso dal definirsi come uno che ha bisogno di cibo o di amore. Quest'ultima affermazione è una parte di una sistematica auto-oggettivazione, mentre nella prima l'uomo è una radura nella quale fame o amore si sono rivelati. Brecht aggiungerebbe che, comunque sia, quella radura ha bisogno di nutrirsi. E' vero, ma il problema a questo punto tocca la natura del "chi" che ha fame: colui per il quale l'agricoltura è la fonte della soddisfazione delle esigenze personali e materiali? o colui per il quale essa è una parte della generale scienza di produzione in quanto tale? La fame è un'esperienza specifica, o un bisogno astratto? E quale "chi" prevalse nell'America di una volta quando il surplus di grano veniva distrutto con l'obiettivo di mantenerne il prezzo? La distinzione non è così peregrina: è essenzialmente la stessa che differenzia il personaggio centrale di tutte le tragedie dal tecnocrate la cui gloria sta nella pretesa di creare un sistema grazie al quale il dolore sia eliminato. L'eroe tragico viene illuminato dal suo confrontarsi con un fato che è presente in quanto destino, mentre le conseguenze dei ripetuti tentativi di abolire sistematicamente la sofferenza ci sono ora deprecabilmente familiari. La distinzione è tra il dolore con un volto  e quello senza faccia come il sistema che lo ha generato. L'opposizione di fondo contro i sistematici sforzi di questo genere non vuole comunque essere un "post hoc ergo propter hoc". Tutte le strategie di sviluppo hanno un doppio obiettivo. Il primo è quello di conquistare taluni traguardi oggettivi come bisogni reificati, definiti più o meno quantitativamente; l'altro, assai più importante, è il presunto fine, il proposito ultimo di tale attività. L'assunto è che quelle conquiste in qualche modo stimolino, diano "significato" a una

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P.  Vijai  Pillai

vita ontologicamente svuotata dalTomogenizzazione. Tutte le pianificazioni — nucleo della strategia dello sviluppo — postulano il calcolo edonistico utilitario, la bilancia piacere-dolore, come fulcro della natura umana — sebbene il contenuto di piacere e dolore, come nel caso dei bisogni, venga espresso con varie sfumature di definizioni. Il calcolo edonistico, inteso in questi termini, e la affiliata nozione di società come costruzione costituiscono il fondale sul quale poggia la pianificazione. Una volta messa a punto, essa procede in fermo accordo con il proprio fondamento, un sistematico progresso che, come si è visto, egualmente inevitabilmente comporta l'omogenizzazione. Lo sviluppo, inteso sistematicamente, implica omogenizzazione, e le sue aspirazioni gemelle sono dunque con esso in una relazione di intensificantesi contraddizione. Poiché lo sviluppo in quanto oggetto-sfera, come tutti gli altri oggetti-sfera, ha come carattere predominante quello di essere duramente vincolato alle elaborazioni della propria proiezione, attribuzioni valutative sulle finalità di questo processo in termini di democrazia, socialismo o che altro, sono di per sé senza senso. Non ci si deve lasciare sviare dalla disinvolta affermazione che i valori possono trovare un inserimento nelle strutture dello sviluppo. Tale "inserimento" esige sempre che il valore in questione venga proceduralmente confinato entro termini, per esempio, di quote e qualificazioni. I valori vengono così rappresentati da tali delimitazioni. La reificazione predomina in quanto è la natura funzionale della delimitazione procedurale ad avere una conseguenza sul sistema. Sono meritocratici coloro che hanno successo sulla base di qualifiche comprate? Eppure, come può articolarsi l'universalizzazione della meritocrazia se non attraverso gradi e qualificazioni? Qui, come in generale per la corruzione, il problema viene risolto con le salvaguardie dell'istituzione che servono a garantire gli standard. E il fatto che alcuni comperino le proprie qualìfiche non è una semplice questione di cinismo. Il possesso fisico del certificato riesce davvero a farli sentire autenticamente qualificati, proprio come per un intero paese l'acquisizione delle più recenti meraviglie dell'alta tecnologia contribuisce sostanzialmente a soddisfare l'aspirazione a

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Hind  Sioaraj

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sentirsi moderno. E questo, dopo tutto, era prevedibile: laddove la rappresentazione di sé avviene in termini di universali oggettivati, feticismi di questo tipo sono inevitabili. I valori tuttavia mantengono un'estrema importanza per la tecnologia nel senso che ne costituiscono la legittimazione ideologica che permette l'universalizzazione della sua proiezione. Il valore/oggettosfera della povertà, per esempio, dischiude la necessità di una tecnologia intermedia o alternativa. Esso rivela così un'altra dimensione da incorporare tecnologicamente. Un insistente lamento per un non equilibrato sviluppo può di conseguenza venire interpretato come richiesta di estensione delle strutture dello sviluppo, e non come il rimpianto — che invece lascia indifferenti — per l'assenza di valori in quanto tali. Credere che la tecnologia possa mettersi al servizio di valori intesi come entità autonome e preesistenti significa equivocare profondamente la sua portata, interpretarla come una specie di "bricolage" nel senso che Lévi-Strauss da a questo termine — un insieme di strumenti interdipendenti egualmente appropriati per un certo numero di applicazioni —, significa non cogliere la natura del dominio che la tecnologia esercita e che è radicalmente differente dalla semplice strumentalità. Ma non è neanche detto che le strutture dello sviluppo non sappiano produrre uno standard di vita quantitativamente determinato come adeguato. La fisica attualmente abbraccia una  gamma di fenomeni di gran lunga più vasta — nel senso dell'espansione del rappresentabile — che mai prima d'ora; l'evolversi della Rivoluzione Industriale del diciannovesimo secolo in Occidente ha per lo più, e malgrado la sua crisi attuale, prodotto le rappresentazioni sociali di ciò che è desiderabile. Non c'è ragione per dirsi certi che nell'insieme gli sforzi verso lo sviluppo sortiscano effetti peggiori. Le contropartite da pagare saranno inevitabili, ma ugualmente si dovrà ammettere che il prezzo dello sviluppo, per lo meno visto alla luce delle deficienze attuali può ben dirsi transitorio. Gli attacchi di carattere empirico portati allo sviluppo, quindi, non potranno mai risultargli decisivi. Prevedere allo sviluppo questo futuro non è un motivo di ottimistica esultanza; è solo la conferma che esso, come ogni ricerca,

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P­  Vijai  Pillai

incorporerà entro il suo dominio quantità sempre crescenti di fenomeni. Per ironia della sorte, ma prevedibilmente, i modelli di sviluppo che si danno definizione per contrapposizione a quelli esistenti, rivelandone le attuali lacune, servono come meccanismo di emissione di ulteriori oggetti-sfera. In quanto ribellioni contro le modalità convenzionali dello sviluppo, essi sono irrevocabilmente determinati da ciò contro cui si ribellano. Il fatto che la motivazione razionale che determina l'aumento di tali rivolte si appoggi a qualcuno dei valori rappresentati è probabilmente da collegare a un disperato desiderio di sfuggire al solipsismo del soggettivismo. Solo con l'intossicazione della lotta, e l'intensificarsi delle emozioni, si può tenere a bada l'horror vacui. Il successo, purtroppo, comporta un'oggettivazione attraverso la coalizione — con il risultato di restringere l'anello solipsistico. Omogenizzazione e culto dell'azione, impegno come propria definizione esistenziale, vanno di pari passo. Sul proliferare di gruppi di protesta di differente credo, gioiosamente acclamati come rifiuti al conformismo e come manifestazioni di libertà e coscienza sociale, regna, imperturbabile, l'uomo come subiectum. La natura proiettiva e sistematica di questi movimenti è rivelata dal loro nucleo edonistico, vale a dire dal ripudio del dolore come principio euristico. (Che le loro azioni spesso determinino grandi dolori può apparire paradossale, ma non inficia il dato iniziale, come non entra nel merito della questione il fatto che il dolore è spesso provocato dalle sofferenze altrui). L'assenza di questo principio è ciò che nel modo più chiaro distingue le loro imposta2Ìoni dalla nostra tradizionale nozione di "daya" o da quella cattolica di "caritas", entrambe traducibili come "con-passione" e dunque come comune crocefissione. Questo è possibile solo quando, come nel caso di Buddha, la sofferenza degli altri promuove il più intenso interrogarsi sulla propria esistenza, il confronto con il mistero del proprio essere. Tale confronto è impossibile per tutte le autorappresentazioni oggettivate in cui il fondamento del proprio essere è già dato per certo; chiusa la questione. Ciò che resta è "azione" — lo sforzo di cancellare gli aspetti del presente sentiti come dolore.

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Hind  Swaraj

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Gandhi, nell'Hind Swaraj e altrove, rivela grande sensibilità alle implicazioni dell'uomo come subjectum, e specialmente in riferimento all'astrazione universalistica intrinseca all'uomo in quanto soggetto primario. Le sue obiezioni alle ferrovie, ai tribunali, agli ospedali e all'istruzione si basano sul rifiuto della mobilità, della giustizia impersonale, della salute  e dell'alfabetizzazione come imperativi universali che precludono all'uomo la possibilità di confrontare se stesso con la propria essenza. Il suo sposare la segregazione naturale postula la letterale co-esistenza dell'uomo tra gli altri uomini e i manufatti umani e le forme naturali che costituiscono il loro contesto comune. E' solo in quanto coesiste con questo che l'uomo esiste veramente. Tale co-esistenza non è solo un'esistenza monadica, parallela ad altre; l'uomo è in quanto il mondo è — e viceversa. L'essere, come per i Greci — è co-disvelamento; è solo neU'alterità dell'altro che io, me stesso, mi disvelo. Confinamento e limite sono essenziali all'essere specifico. Noi vediamo che le comunità dei villaggi tradizionali esistono in uno spazio particolarizzato dalla tradizione e dalle esperienze comuni, in un tempo differenziato equilibratamente dal ritmo dell'attività e della festa, dalle memorie generazionali di valore e gioia. In un mondo dominato dall'astrazione universalizzata dei bisogni, il luogo dell'essere si riduce a un nodo di intersezione su una monotonizzata matrice di spazio-tempo. Voglio subito aggiungere, tra parentesi, ma con enfasi, che il desiderio di definire sinteticamente tali comunità come bucolicamente idilliache è l'esatto contrario del mio proposito. Tengo solo a far notare che il lirismo pastorale se ne è andato al Petit Trianon per ritrovarsi nell'era egalitaria. AI contrario, Gandhi, nel contesto di una discussione sui fini e sui mezzi, promuove l'importanza delle distinzioni ontologiche e l'inapplicabilità delle categorie universali. La questione riguarda i provvedimenti da prendere nei confronti di un ladro, e Gandhi afferma che l'azione da intraprendere verrà determinata a seconda di chi il ladro sia: se è un padre, se è forte o debole, etc. (17). Quindi, ciò che egli (17)  Hind  Swaraj  or  Indian  Home  Rttle, Ahmedabad, 1938, p. 73.

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P-  Vijai  Pillai

rifiuta è la categoria universalizzata di ladro. Se il punto in questione è un corretto responso sul fatto che qualcuno ruba, allora l'identità di colui che compie l'azione deve essere determinante per il responso. Nella legge come struttura universalizzata, invece, l'atto astratto di rubare è di per sé pregnante, e l'autore è ipostatizzato come ladro. Ciò che così viene annullata è la particolarità dell'evento che ne costituisce l'essenza significativa; l'esito è l'omogenizzazione di un nome astratto come esecutore di un atto astratto. In Gandhi il "chi" è sempre di tremenda importanza e di una forza che si fa insuperabile quando rivolta a se stesso. L'uomo rimane sempre un interrogativo, per sempre aperto. E' per questa ragione che, tra tutti coloro che possono essere storicamente considerati suoi pari, Gandhi è il meno sistematico. I sistemi sono possibili solamente per coloro che hanno trovato una volta per tutte, definitivamente, la risposta all'interrogativo dell'uomo. A costoro non resta che l'infinita adduzione di prove, prove che sono possibili, come in tutta la ricerca, solo sulla base di una predisposta convinzione. E' una triste ironia che Gandhi, per aver affermato questo, venga sottilmente o apertamente denigrato. Ma è anche prevedibile in un'epoca che considera la creazione di complesse costruzioni rappresentative come la più alta attività umana. Perché, e come, altrimenti, regnerebbe la tecnologia? Altrettanto triste e frequente è l'interpretazione di Gandhi come creatore di metodologie, siano quelle della non-violenza e della riedificazione rurale, o qualunque altra. La partecipazione di Gandhi alla vita del suo tempo fu contemporaneamente un pellegrinaggio intcriore, una esplorazione del suo esistere, e non una mera applicazione di una strategia prestabilita. E' questo insistente domandarsi su di sé che distingue la sua azione da tutti gli autosantificanti "servizi sociali" basati sulla rappresentazione. L'azione storica e la salvazione personale sono fatte della stessa essenza. E non si intende storia, si badi bene, come hegeliana locomotiva con proprio tragitto e destinazione fissi, ma storia come l'essere presente dell'uomo insieme a tutto ciò che è. Ogni decisione di Gandhi era simultaneamente l'esporre se stes-

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Hind  Swarej I

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so. Dopo tutto, che cosa ha a che fare una otite con la metafisica, dal momento che la si può curare con un dottore ed efficaci medicinali? Niente, ha a che fare — se come al solito si vuole solo fare un affare. Ma molto — se si vuole conoscere il proprio corpo nel possesso del dolore, un possesso che porta alla luce i suoi gusti e le sue inclinazioni, i suoi appetiti e le sue costrizioni. Tutto ciò naturalmente può essere estremamente sgradevole, ma per l'appunto, il pensiero di Gandhi è vulnerabilità, apertura, e non un calcolo edonistico. Per concludere, sarebbe tragico definire Gandhi sulla base del residuo reificato delle sue azioni; in esse, egli pure può essere letto come vittima del vortice tecnologico. Nell'indipendenza politica verso la quale ci ha guidato, l'India — scindendola con riluttanza ma con decisione dalla swaraj intcriore — termalmente soggettivizza la modernità definendo se stessa come entità auto-rappresentantesi nei termini della Costituzione a noi tutti familiari. L'indipendenza non fu semplicemente un'esplicita rottura con gli inglesi; fu, molto più profondamente, un simbolico rigetto del nostro passato metafisico. Fu il trionfo cartesiano in India. "Techne" è la radice greca della parola tecnologia. Come le parole "poiesis" e "episteme", essa significa un « portare alla luce », un « aprire », uno svelare, e comprende non solo il costruire ma anche l'arte e le attività mentali (18). E' un disvelamento dell'essere. La tecnologia, essere in quanto rappresentazione, è anch'essa un disvelamento. Questo, però, rivela se stesso solamente come un infinito stimolare, non permette l'ingresso dentro l'apparenza e la durata, il circoscriversi e l'autonomia, così caratteristici delle poiesis. Ciò che la tecnologia fa visibile è, nel pieno della sua logica, sempre provvisorio, sempre in transito verso l'essere qualcos'altro, sempre mancante di intrinsecità, poiché è sempre la creazione — e dunque a disposizione — dell'uomo come subiectum. Così tutto il fare diviene un « fare per » e non un « fare con » come nell'esempio di Michelangelo e del blocco di marmo.

(18) Op. cit. pp. 12-13.

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P­  Vijai  Pillai

Si è detto più sopra che la proiezione tecnologica non è determinata dalla volizione umana. E', piuttosto, una "chiamata", e l'uomo rappresenta se stesso solo in risposta a quel richiamo. E' questo il legame primario con la vita, e la ragione per cui Heidegger definisce sia l'essenza dell'uomo sia la sua libertà — così inestricabilmente intrecciate — come ciò che ascolta e ode (19). Ed ecco anche perché la tecnologia non può essere intesa come una mera costruzione umana nel senso antropologico più di quanto non lo sia come semplice strumentalità. Nella determinazione di sé come soggetto primario, nella sua imperiosa assunzione della sovranità universale, l'uomo si fa immemore di quel richiamo, smette persino di accorgersi che egli è stato chiamato a rappresentare: egli non ode più. L'uomo, in confronto a tutto il resto, è sempre in un rapporto privilegiato con ciò che chiama, anche quando il richiamo è a rappresentare, poiché è a lui che il richiamo viene. La sua sordità ad esso minaccia proprio la sua essenza rispetto a quel rapporto. Questo è il punto cruciale del rischio tecnologico: il fatale rivelarsi dell'essere come tecnologia. Ma la primaria relazione dell'uomo con la fonte del chiamare, con l'Essere fondamentalmente anteriore al suo apparire negli esseri, significa anche che l'uomo non si è totalmente esaurito nella rappresentazione (20). Questo mantiene viva la possibilità che la condizione di sordità venga sentita come un pericolo. In quanto così sentita, la via verso il ristabilirsi della primaria relazione è di nuovo aperta. Per Heidegger lo squarcio di un'autocoscienza lacerata è il luogo dove sta in attesa la libertà (21). Che cosa serve per risvegliare in noi il senso di questo pericolo? Non certo una risposta ingenua ed edonistica alla tecnologia confermando o ripudiando i suoi effetti. In entrambi i casi semplicemente (19) Ib. p. 25. (20) La distinzione fra Essere ed esseri, che implica anche l'intera questione del rivelamento e della presenza, è ovviamente, di estrema importanza nel pensiero di Heidegger. Per ragioni di spazio e tema, non mi sono addentrato nei dettagli dell'argomento. (21) A titolo d'esempio si veda,  Wbat  is  called  Thittking?, pp. 89-90.

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Hind  Sivaraj

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la si elude nella solita maniera soggettivistica ricadendo nella sua formula e fallendo il confronto con essa. Può servire forse l'osservazione dell'ipertrofia oggi così manifesta in tutti i sistemi; un'espansione di proporzioni e portata tanto grandiose che proprio la calcolabilità — che costituisce la certezza della rappresentazione di sé e di tutti gli altri — sta dando il via a un'imprevedibile capricciosità sistemica. Lo smarrimento di Kafka, ora assai diffuso, rimane la migliore promessa, il segnale che noi potremo, di nuovo, udire. (traduzione dall'inglese di Silvia Brambilla)

* II testo qui presentato è frutto di una relazione tenuta dall'autore presso l'Istituto Gandiano di Varanasi durante il seminario organizzato sull'opera di Gandhi « Hind Swaraj » fra il 19 e il 22 aprile 1982. Per le citazioni tratte dalle opere di Heidegger ci si è avvalsi delle traduzioni italiane già esistenti, ad eccezione di qualche piccolo adattamento resosi necessario per poter garantire una coerenza con il testo inglese a cui si è affidato l'autore, cui si rimanda in nota. La versione di  Che  cosa  significa  pensare? è allora quella di Ugo Ugazio e Gianni Vattimo, Milano 1978; di  Saggi  e  di­ scorsi quella di Gianni Vattimo, Milano 1976. Le citazioni tratte dall'opera di Gandhi vengono direttamente dall'inglese.

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UNA PRESENZA INQUIETANTE TREDICI TESI SUL RAPPORTO TECNICA-ARTE

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I. « Poiché l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all'essenza della tecnica e, dall'altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto » (1). Per chiarire questo passo capitale tratto dalla conclusione della famosa conferenza heideggeriana su  La  questione  della  tecnica occorre rispondere a tre cruciali domande: a) perché l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico? b) perché il confronto decisivo con essa deve avvenire nell'ambito dell'arte? e) in virtù di quale tratto infine essenza dell'arte ed essenza della tecnica sono dette da Heidegger ad un tempo affini e distinte? Solo alla luce di un simile insistente domandare potrà forse cominciare a sciogliersi il « mistero » di quel rapporto di « mascheramento » e di « preludio » che unisce in una medesima arcana costellazione l'essenza ambigua della tecnica e il gioco ap-propriante e dispropriante  àsll'Ereignis. Senza voler anticipare le conclusioni di questo articolo potremmo fin d'ora chiederci se l'opera, andando ad abitare senza nostalgia in quella  Waste  Land aperta dall'insensato dispiegarsi della tecnica, non ci prepari ad un rinnovato rapporto con la presenza non più dominato dal principio di ragione. Dove infatti la presenza ci appare nella sua desolante e tuttavia perfetta finitezza, là allora si ha l'incanto: l'ente che così ci incanta non deve più rendere ragione della sua straordinaria presenza. « Per dirla con il linguaggio della metafisica, allora, è l'ente il trascender puro  e semplice;



L'autore  dedica  questo  saggio  a  Carlo  Séni.

(1)

M. Heidegger,  Saggi  e  discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 27.

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Rocco  Ronchi

non invece l'essere (dell'ente) che solo ora, finalmente, viene e può venire legittimamente lasciato alla metafisica e ai suoi discorsi pubblici » (2). I

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II. Affermando che « l'essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico » restiamo apparentemente nelPovvietà del discorso metafisico occidentale. Heidegger stesso lo ricorda con la brutale semplicità che gli è propria quando si tratta di gettare sul tappeto le questioni fondamentali: « quando cerchiamo l'essenza dell'albero non possiamo non accorgerci che ciò che governa ogni albero non è a sua volta un albero che si possa incontrare tra gli altri alberi come uno di essi » (3). In via del tutto provvisoria Heidegger si limita dunque a ripetere il gesto fondativo  dé&'episteme occidentale, quel gesto socratico-platonico che istituisce la « forma »,  l'idea, come differente dall'ente di cui è  gbenos. Come è noto l'essenza  (Wesen) non tecnica della tecnica è rintracciata da Heidegger nel  Gestell, ovvero in quella « imposizione » che indica « la riunione  (das  Versammelnde) di quel ri-chiedere  (Stelle») che richiede, cioè pro-voca, l'uomo a disvelare il reale, nel modo dell'impiego, come "fondo" » (4). Se tuttavia Heidegger, indicando questa o quella struttura dell'ente, avesse semplicernente voluto rispondere alla domanda sulla  quidditas della tecnica, si sarebbe ancora mosso nello spazio della ratto metafisica, la cui  Leit­ frage, si sa, è proprio il  ti  esti. Non a caso Heidegger, il quale aveva provvisoriamente caratterizzato l'essenza tradizionale come  essentia (die  Wasbeit), sostiene poi, nelle pagine conclusive, che l'im-posizione è sì l'essenza della tecnica, « ma non è mai essenza nel senso del genere o della  essentia ». E aggiunge: « Se facciamo attenzione a questo, siamo colpiti da qualcosa di sorprendente: è proprio la tecnica ad esigere da noi che pensiamo in senso diverso ciò che s'intende generalmente con il termine "essenza". Ma in quale senso? » (5). Per il pensiero metafisico, insomma, è del tutto ovvio che l'essenza della tec(2) (3) (4)  (5) 

C. Sini,  Interpretazione  e  verità, Unicopli, Milano, 1983, p. 171. M. Heidegger,  Saggi  e  discorsi, cit., p. 5. Ibidem, p. 15. Ibidem, p. 23.

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Sul  rapporto  tecnica­arte

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nica non sia a sua volta qualcosa di tecnico, è invece del tutto sconcertante che non si possa parlare dell'essenza non tecnica della tecnica come dell'essenza non arborea dell'albero. Si è dunque fedeli al domandare heideggeriano se ci si interroga sul perché l'essenza della tecnica così caratterizzata metta in gioco le più solide certezze del pensiero metafisico. Ponendo la domanda sull'essenza non tecnica della tecnica Heidegger ha infatti nominato una regione della presenza che la  ratto metafisica e le sue irreali idealità pubbliche non possono più comprendere. E infatti in  Der  Satz  vom  Grund, nel capitolo dedicato al « circolo del principio di ragione », Heidegger osserva che quando il pensiero tecnico-calcolante, corrispondendo fedelmente all'appello del prìndpium  reddendae  rationis nella sua « ovvia » formulazione  (Nìhil est  sine  rattorte), s'interroga sulle ragioni del principio di ragione, ovvero su se stesso, fa un'abissale esperienza della propria impotenza (6). « Che il principio supremo — sospettava già Novalis — contenga nel suo compito il supremo paradosso? » (7). III. Perché dunque l'« essenza ambigua » della tecnica non è a sua volta una essenza metafisica nel senso della  quiddità*? Perché la questione della tecnica mette in gioco la  Leitfrage della metafisica, costituendo così l'autentica  Grundfrage del pensiero, l'ultima domanda, quella decisiva, rispetto alla quale ogni risposta in termini di ratto diviene impossible? E, soprattutto, di quale « tecnica » stiamo parlando? Della  techne greca, il cui orizzonte è ancora la  poiesis, quella produzione cioè che, al contrario della  physis (anch'essa pro-duzione, ma « nel senso più alto »), non ha  l'arche  kineseos in se stessa (come lo schiudersi del fiore), ma  en  allo? (8) Oppure stiamo parlando di qualcosa di radicalmente « moderno », qualcosa che è potuto venire alla luce solo al culmine di un destino vecchio di duemila anni? Heidegger non sembra avere dubbi in proposito: « Appunto, (6) M. Heidegger,  Der  Satz  vom  Grund, Neske, Pfullingen, 1957, pp. 25 ss. (7) Novalis,  frammenti, Rizzoli, Milano, 1976, p. 59. (8) Cfr. M. Heidegger,  Dell'essere  e  del  concetto  della  « physis ».  Arista­ tele.  Fisica  B  I, in « II Pensiero », 1958, pp. 372 ss.

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Rocco  Ronchi

e soltanto, questa (la tecnica moderna) è quella che ci preoccupa e ci muove a porre il problema circa la "tecnica" » (9). Preliminare ad ogni tentativo di rispondere alla  Grundfrage del pensiero sarà dunque la descrizione del mondo in cui la tecnica moderna dispiega la sua efficacia  (Wirkung), descrizione che s'incrocia con la desolata fenomenologia heideggeriana del mondo moderno ridotto a « non mondo ». La tesi heideggeriana è nota: « II disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello  Stellen, del "ri-chiedere" nel senso della prò-vocazione » (10). La natura è incessantemente provocata dalla tecnica a fornire quantità crescenti di energia, le quali vengono poi impiegate al solo fine d'intensificare l'apparato dedito alla consumazione dell'essente. « Questa circolarltà tra usura e consumazione è l'unico processo che caratterizza la storia di un mondo, il quale è divenuto un non mondo» (11). Ancor più famosa è la conclusione a cui Heidegger perviene: tutto ciò che ha rapporto con il disvelamento provocante assume il carattere di « fondo »  (Bestand) e « ciò che sta  (steht) nel senso del "fondo", non ci sta più di fronte come oggetto  (Gegenstand) » (12). Natura e uomo risolvono così il loro essere solo nell'essere-per-altro, nell'impiegabilità, nell'uso, perdendo ogni margine di autonomia, ogni parvenza di indipendenza. E' questa riduzione dell'uomo stesso a « materia prima », oggetto di una usura inesausta e insignificante, la lezione sconvolgente che scrittori come Karl Kraus e Ernst Junger avevano tratto dall'esperienza della Grande Guerra. Per loro, come poi per Heidegger, divenne chiaro che « gli ultimi giorni dell'umanità » erano anche l'inizio di una nuova era nella quale ogni distinzione tra pace e guerra non avrebbe avuto più senso: all'Ottimista che, con buona pace della sua coscienza, sentenzia che, come tutte le guerre, anche questa prima o poi sarebbe finita, il Criticone, portavoce di Kraus ne  Gli  ultimi  giorni  dell'uma­ nità, risponde che questa volta la guerra « non si è svolta alla super-

(9) (10)  (11)  (12) 

M. Heidegger,  Saggi  e  discorsi, cit., p. 10. Ibidem, p. 12. Ibidem, p. 63. Ibidem, p. 12.

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Sul rapporto tecnica-arte

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fide della vita... no, è imperversata dentro la vita stessa. Il fronte si è esteso a tutto il paese. E vi resterà [...] Tutto quanto era ieri, lo si sarà dimenticato; l'oggi non si vedrà e non si temerà il domani. Si sarà dimenticato che si è persa la guerra, dimenticata di averla comin­ ciata, dimenticata di averla combattuta. Ecco perché la guerra non finirà » (13). La guerra non finirà perché ormai, ricorda Heidegger. « è divenuta una sottospecie di usura dell'essente, che viene conti­ nuata in tempo di pace» (14). Perché tale usura dell'essente potesse aver luogo occorreva però che il mondo fosse già stato ridotto a ren­ iti as obìectiva, mera materia permeabile al pensiero e alla volontà d'uso. Ecco perché la « provenienza destinale » della contemporanea Vernichtung dell'essente va cercata nella moderna metafisica della soggettività o, forse, ancora più lontano nel tempo, in quella « inven­ zione dell'anima » in virtù della quale Platone poteva prendere con­ gedo dal mito (15). IV. Qual è allora, in ultima analisi, il carattere decisivo che assicura alla tecnica la sua efficacia planetaria? Indubbiamente la sua nichilistica mancanza di scopo. Essa, spiega Carlo Sini, non ha fini fuori di sé: « ciò che fa la tecnica moderna è la produzione e la ri produzione di se stessa» (16). La sua potenza dipende interamente da ciò che Max Weber chiama « libertà dai valori » o « a-valutatività » (Wertfreihcit). Ma se l'universo weberiano della razionalità formale è ancora abitato da una pluralità di dei, ovvero di valori in « lotta mortale » fra loro, il non-mondo della tecnica heideggeriana segna invece l'avvento dell'« epoca dell'assurdità compiuta, della per­ fetta assenza di senso » (das Zeitalter der vollendeten Sinnlosigkeit) (17). Ed è con l'annuncio dell'uomo folle nietzscheano che que-

(13) K. Kraus, Gli ultimi giorni dell'umanità, Adelphi, Milano, 1980, p. 598. Si veda anche R. Calasso, La guerra perpetua, ivi, pp. 758 ss. (14) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 61. (15) Facciamo qui riferimento alla suggestiva ipotesi formulata da Carlo Sini in Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, Il Saggiatore, Milano, 1981, pp. 288 ss. (16) Ibidem, p. 325. (17) M. Heidegger, Nietzsche, Neske, Pfullingen, 1961, voi. II, p. 20. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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st'epoca prende finalmente coscienza della sua sostanza nichilistica. Per questo Nietzsche è realmente per Heidegger il destino occulto del­ l'Occidente: solo attraverso una Auseinandersetzung con il pensiero nietzscheano del Wille zur Macht Heidegger potrà allora cominciare a guardare « entro l'essenza ambigua della tecnica » spostandosi dal piano meramente ontico della descrizione a quello propriamente fon­ dativo-ontologico. La nostra domanda iniziale va quindi ulteriormen­ te riformulata: perché l'essenza non tecnica della tecnica pensata co­ me Wille zur Macht mette in questione la ratio metafisica? E, innan­ zi tutto, cosa intende Heidegger per Wille zur Macht? V. Nella fortunata formula nietzscheana « volontà di potenza » la « potenza » non è, secondo Heidegger, il « voluto » (das Gewollte) di un « volere » (Wolleti) che, considerato in se stesso, sarebbe indi­ ce di una « sensazione di mancanza » (Gefuhl des Mangels). Un simi­ le « romanticismo » radicherebbe la volontà « psicologicamente » co­ me semplice « facoltà » dell'anima. Ora, osserva Heidegger, anche Nietzsche concepisce « psicologicamente » la volontà, ma rovescia, al tempo stesso, l'ordine dell'argomentazione. Qui, infatti, « in modo conforme alla migliore e più importante tradizione della filosofia te­ desca », è l'essere dell'ente im Ganzen ad essere pensato come volon­ tà. La volontà, in quanto essere dell'ente, non può allora essere ulte­ riormente determinata a partire da un ente particolare e dal suo mo­ do d'essere. Perciò non possiamo dire che la volontà è una facoltà dell'animo umano, qualcosa di psichico, perché « è l'anima ad essere qualcosa di "volontario" » (18). Quindi è la psicologia come dottri­ na delle facoltà che va « ricalcolata » a partire dalla volontà come es­ sere dell'ente. Nient'affatto sconcertante è quindi la risata di scher­ no che Nietzsche indirizza ai sostenitori e agli oppositori del libero arbitrio (« ciò che voi chiamate volontà mi sembra una chimera: non vi è affatto volontà ») (19), giacché « volontà » sta qui per la sua abi-

(18) Ibidem, voi. I, p. 47. (19) Aforisma di Nietzsche risalente all'epoca di Zarathustra citato da Heidegger in Nietzsche, voi. I, p. 48. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tuale interpretazione in chiave di facoltà. Perciò Nietzsche sarà obbligato a dare una interpretazione rinnovata del volere. Che cosa esso sia è detto appunto nella formula  Wille  zur  Macht. E' la potenza che vuole se stessa: ciò che allora muove il volere non è reattivamente « l'insoddisfazione, la ricerca di qualcosa di affatto altro, il desiderio e la fame », ma, affermativamente, « l'abbondanza... il pieno possesso... la generosità del dono... il superfluo » (20).  \Jeconomia della volontà di potenza trasgredisce dunque ogni economia ristretta al bisogno materiale e ai valori d'uso, strutturandosi come una pratica della  dépense;  « un'aspirazione vuota — scrive Georges Bataille in Sur  Nietzsche — un desiderio doloroso di struggersi senz'altra ragione che il desiderio stesso [...] di bruciare. In ciò essa è la voglia di ridere di cui ho parlato, questo prurito di piacere, di santità, di morte... Non ha più compiti da assolvere » (21). Un volere che non ha più compiti da assolvere, che come « volontà di volontà » vuole costantemente se stesso, può far pensare al « puro volere »  (reines  Wol­ len) di Schopenhauer, anch'esso indeterminato quanto al contenuto empirico. A differenza di questo puro volere la volontà di potenza nietzscheana è però sempre determinata; tuttavia essa non trae la sua determinazione dal « qualcosa » voluto, perché in tal caso, una volta raggiunto il suo scopo, la volontà si placherebbe in un non-volere. E' la volontà stessa a darsi allora la propria determinazione istituendo autonomamente una « legge » alla quale sottomettersi. Per questo Heidegger insiste lungamente nell'affermare che « volere » è sostanzialmente, per Nietzsche, un ubbidire a se stessi. Non a caso infatti la volontà di potenza in  Così  parlò  Zarathustra è chiamata in causa per la prima volta nell'aforisma intitolato « Della vittoria su se stessi » (22). Se il volere non ha altro scopo che se stesso ed è quindi indifferente ad ogni contenuto sensibile, questa legge che la volontà si da, sarà di conseguenza di natura strettamente formale: mero obbligo ad un « sempre-più di volere ». Non è difficile vedere allora co(20)  Ibidem, voi. I, p. 156. (21) G. Bataille,  Su  Nietzscbe, Cappelli, Bologna, 1980, p. 38. (22) Cfr. M. Heidegger,  Nietzsche, voi. II, p. 264.

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me il formalismo etico kantiano prepari dunque il terreno ad una volontà che vuole essere perfettamente autosufficiente, incondizionata legislatrice di se stessa, quale si annuncia in quel passo delle  Ricerche filosofiche sull'essenza­  della  libertà  umana di Schelling che Heidegger ama spesso citare: « In ultima e suprema istanza, non c'è altro essere che il volere. Il volere è l'essere originario  (Urseyn) e solo a questo si applicano i predicati di quello: assenza di fondamento, eternità, indipendenza dal tempo, affermazione di sé» (23). VI. Questa segreta solidarietà del  Wille  zur  Macht con il formalismo etico kantiano "esplode" nel paragrafo XXI del saggio  Ol­ trepassamento  della  metafisica, dove Heidegger afferma a chiare lettere che « la mancanza di scopi, quella che è essenzialmente propria della volontà di volontà, è il dispiegarsi completo dell'essenza della volontà, quale si è annunciata nel concetto kantiano della ragion pratica come volere puro. Questo volere vuole se stesso, e come volontà è l'essere. Per questo, dal punto di vista del contenuto, il volere puro e la sua legge sono formali. Esso è a se stesso l'unico contenuto in quanto forma » (24). Henri Birault ha così sostenuto che comune a Kant e Nietzsche è l'emancipazione della volontà del desiderio sensibile della felicità, l'indifferenza al contenuto empirico come causa determinante di ogni agire (25). Gli amanti di un certo Nietzsche sensuale e compiacente potrebbero obiettare a questa ascetica della volontà che in Nietzsche un sentimento di « gioia » si accompagna sempre, come « epifenomeno », ad ogni manifestazione della forza. Va però notato che questo « piacere » non si presenta mai come un fine esterno della volontà. « II piacere accompagna, ricorda Nietzsche, il piacere non muove... » (26). Esso è pienamente immanente alla

(23) Cfr. M. Heidegger,  Scbellings  Abhandlung  tiber  das  Wesen  der mettschlichen  Freìheit  (1809), Tubingen, 1971. (24) M. Heidegger,  Saggi  e  discorsi, cit., p. 58. (25) H. Bitault,  Heidegger  et  l'expérience  de  la  pensée, Gallimard, Paris, 1978, pp. 150 ss. (26) F. Nietzsche,  Opere, Adelphi, Milano, 1962 ss., voi. Vili, t. Ili, 14 (121.).

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volontà stessa, sorge quando avvertiamo un « potenziamento » del nostro volere, un « di più » di potenza. « II piacere — scrive infatti Nietzsche — è solo un sintomo del sentimento di potenza, la  coscien­ za  di  una  differenza  » (27) formalmente analoga, aggiungiamo noi, a quella « compiacenza negativa » esperita, secondo Kant, dalla « volontà buona », la quale, essendosi sottomessa incondizionatamente alla propria autonoma legge, si avverte effettivamente libera dalle proprie inclinazioni sensibili e perciò «superiore» ad esse (28). Il piacere è per Nietzsche « coscienza di una differenza » non rispetto ad altre potenze, ma rispetto al precedente  Machtquantum oltre il quale la volontà, ubbidendo all'imperativo categorico del « sempre più volere », si è voluta.  Wille  zur  Macht significa appunto, secondo Heidegger, che la volontà non trova quiete nel « potuto », ma si struttura come incessante accrescimento di se stessa: « La potenza non è potenza che per il tempo in cui rimane intensificazione della potenza e si prescrive imperativamente un più-di-potenza [...] Autooltrepassarsi è l'essenza della potenza» (29). Tutto ciò che non  è intensificazione è allora già « declino »,  Ohnmacht. Ciò che Nietzsche chiama la  vita, quindi, non può essere pensata negli schemi evoluzionistici dell'« autoconservazione »  (Selbsterhaltung), ma in quelli superomistici della « autoaffermazione »  (Selbstbehauptung), della creazione, della incessante trasfigurazione di nuove possibilità di vita. I « valori » sono allora ripensati da Nietzsche come le condizioni immanenti di questa costante elevazione della potenza. Essi garantiscono infatti la stabilizzazione del  quantum di potenza raggiunto e, al tempo stesso, « prospettano » come « punti di vista » nuove possibilità d'intensificazione. « /  valori  e  il  loro  variare — scrive Nietzsche — stanno in rapporto con la crescita ài potenza di  chi pone  i  valori » (30). Ma chi pone i valori non è una soggettività avulsa da questo cieco

(27)  Ibidem, il corsivo è mio. (28) I. Kant,  Crìtica  della  ragion  pratica, Laterza, Bari, 1971, pp. 143 e ss. (29) M. Heidegger,  Nietzsche, voi. II, p. 266. (30) F. Nietzsche,  Opere, cit., voi. Vili, t. II, 9 (39); cfr. anche voi. Vili, t. II, 11 (73).

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movimento: è la volontà di potenza stessa e il fine per cui li pone è ancora una volta se stessa. VII. Lungi dal configurarsi come il Caos dell'amorfo, il « divenire » eterniz2ato da Nietzsche con il pensiero del Ritorno dell'Uguale va allora inteso, secondo Heidegger, come « l'oltrepassamento operato dalla potenza del grado di potenza di volta in volta raggiunto » (31): incessante pro-duzione di forme sempre più complesse e, nello stesso tempo, sempre più precarie dato che questo produrre non può non implicare il momento dionisiaco della distruzione del già compiuto. Ma questo « divenire » così caratterizzato non nomina forse il dis-piego del  Gestell della tecnica, « il puro erramento  (Irrnìs) dell'usura dell'essente nell'attività che si assicura di sé ordinando tutto a partire dal vuoto dell'abbandono dell'essere »? (32) La risposta di Heidegger è chiarissima: « La forma fondamentale di manifestazione sotto la quale la volontà si installa e si realizza calcolando nel mondo della metafisica compiuta si può chiamare in una sola parola "la tecnica" » (33). Così come è stata messa fuori gioco ogni concezione psicologica della volontà, così ora occorre sgombrare il campo da ogni concezione "strumentale" della tecnica. E ciò per la stessa cogente necessità. La tecnica infatti, in quanto dispiego del  Wille  zur  Macht, non designa più una regione parziale dell'ente, ma nomina il modo in cui l'ente nella sua totalità  è  presente. E' perciò proprio quella concezione strumentale della tecnica che la comprende nell'orizzonte teleologia) della categoria di finalità che va ora de-costruita a partire dall'essenza della tecnica come  Wille  zum  Willen. Ciò significa che mentre il rappresentare metafisico vede immediatamente nella tecnica un finalismo reale, una « economia » ristretta al conseguimento di scopi definiti (soddisfazione di bisogni materiali, realizzazione di «valori» universali etc...), un pensiero « essenziale » vi legge invece, in modo sintomale, un finalismo vuoto, privo cioè di un Fine reale nel quale acquietarsi, una economia

(31) M. Heidegger,  Nietzsche, voi. II, p. 268. (32) M. Heidegger,  Saggi  e  discorsi, cit., p. 61. (33)  Ibidem, p. 52.

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retta dalla logica anti-economica dello spreco e dell'usura. Per questo il « conflitto » radicalmente nuovo che inaugura l'epoca moderna viene visto da Georg Simmel non più nella immanente dialettica formavita, che caratterizza il divenire in generale, ma nella « lotta della vita contro la forma  in  generale, contro il principio della forma » (34). Il contemporaneo è, per così dire, definito da « forme » che nel loro vorticoso rincorrersi incarnano solo l'insofferenza generalizzata per ogni stabilità. Il « tempo » proprio al dis-piego della tecnica si consolida allora, per ritornare ad Heidegger, in un « durare che si organizza piuttosto in un cambiamento continuo dove il più nuovo succede al più nuovo » (35). Per queste ragioni nessuna  Wdtanschauung totalizzante può raccogliere il senso di questa epoca, la quale, come testimonia il trionfo del  revival e Pesplosione del fenomeno "moda", può con eguai diritto ed identica insoddisfazione produrre le più disparate novità e far convivere con esse le più arcaiche forme. Quando il valore è ricalcolato come immanente condizione della volontà allora per il contemporaneo non si danno più punti di riferimento assoluti in base ai quali escludere ciò che del passato si ritiene irrilevante ed orientare la creazione del nuovo: da ciò deriva la « necessità » del revival generalizzato (in assenza di storia) e lo strapotere della moda (in assenza di autentico futuro). In un modo certamente sconcertante per una ragione ansiosa di fondazioni, la tecnica sembra così sottrarsi alla domanda del  printipium rationis (perché?) e, nel suo vuoto finalismo, accostarsi invece alla rosa del mistico Silesius: « la rosa è senza perché  (warum), fiorisce perché (weil) fiorisce ». Anche il perché del dispiegarsi planetario della tecnica sembra infatti condividere la stessa enigmatica natura di quel perché (weil) sordo ad ogni ulteriore ricerca di fronte al quale, secondo la sentenza di Goethe citata da Heidegger nella conferenza  Der  Satz  vom Grund, non possiamo far altro che arrestarci (36). Muta e impassibile di fronte al domandare della  ratto l'essenza ambigua della tecnica si (34) G. Simmel,  II  conflitto  della  cultura  moderna, Bulzoni, Roma, 1976, p. 108. Il corsivo è mio. (35) M. Heidegger,  Tempo  ed  essere. Guida, Napoli, 1980, p. 168. (36) « Come, quando, dove? - gli Dei restano muti / accontentati del weil, non domandare ;/  warutn  »  (Der  satz  vom  Grund, cit., p. 206).

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sottrae inoltre anche ad ogni giudizio di valore. Se infatti, come abbiamo visto, il valore è immanente al dispiego della volontà di volontà come sua condizione d'intensificazione, la tecnica è allora nella sua totalità dionisiacamente « al di là del bene e del male ». Per questo « restiamo sempre prigionieri della tecnica e incantenati ad essa, sia che l'accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza » (37). Vili. Se l'essenza non tecnica della tecnica è l'« irrappresentabile » per la ragione metafisica, perché allora affidare all'arte il « confronto decisivo » con essa? Per quale tratto l'essenza dell'opera può dirsi ad un tempo affine e distinta dall'essenza della tecnica, rappresentandone per così dire l'altro volto, quello che il  Gestell dispiegando la propria neutra potenza maschera e annuncia? Forse perché per parafrasare la formula di Sini, anche l'arte non ha fini fuori di sé: ciò che essa  fa è la produzione e la riproduzione di se stessa? Non è questo che intedeva, ad esempio, Paul Valéry quando scorgeva nella Danza, in « quell'incedere monumentale che  soltanto  se  stesso  ha  per  scopo », l'essenza dionisiaca dell'arte? (38) Questo « atto della pura metamorfosi », a differenza -della maggior parte dei nostri movimenti volontari, i quali sono sempre retti da « una legge dell'economia delle forze » (economia ristretta al conseguimento di scopi determinati), sembra che abbia proprio « la dissipazione stessa per oggetto », la  dépense non come mezzo, ma come fine gioioso. In ciò la danza è senz'altro analoga ai giochi dei cuccioli e dei fanciulli e a tutte quelle attività « che non hanno per scopo se non di modificare il nostro sentimento di energia, di creare un certo stato di tale sentimento », ma è da esse distinta per la presenza di un elemento gerarchico e autoritario che « consiste nell'ordinare o nell'organizzare i nostri movimenti di dissipazione» (39). E' stato proprio Nietzsche, se seguiamo il commento heideggeriano, a

(37) M. Heidegger,  Saggi  e  discorsi, cit., p. 5. (38) P. Valéry,  L'anima  e  la  danza, in  Poesie, Feltrinelli, Milano, 1980/ 4° ed., p. 181. (39) P. Valéry,  Degas,  Danza,  Disegno. Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 29 ss.

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trovare allora per questa « legge » del dispendio insensato di forze la nozione adatta: quella di « grande stile »  (der grosse Sdì). Nozione che permette a Nietzsche di far rientrare in una stessa unità sistematica le due definizioni apparentemente inconciliabili dell'arte: come « traboccare di fiorente vitalità » (40) e come dominio luminoso della forma apollinea. Se « la grandezza di un artista non si misura da "bei sentimenti" » (41), come credono « le donnette », « bensì dal grado in cui si avvicina al grande stile, dal grado in cui è capace del grande stile » (42), questo significa, commenta Heidegger, « che la misura e la legge sono poste per padroneggiare e domare il Caos e lo stato di ebbrezza » (43). L'arte del grande stile è la « grande ambizione » di « dominare il Caos che si è » costringendolo a « diventare forma: a diventare logico, semplice, matematica, legge » (44). E' dunque l'arte del grande stile, questa  dépense irriducibile tanto all'« informe » (denunciato da Nietzsche nel Wagner schopenhaueriano), quanto alla semplice riduzione della forma a recipiente di un « contenuto » spirituale, che costituisce per Nietzsche « la più trasparente » struttura della volontà di potenza, il terreno più adatto, quindi, per una comprensione dell'essere dell'ente nella sua totalità (45). E chiunque abbia un minimo di confidenza con il testo nietzscheano, ben sa che nell'area semantica del termine Wille  zur  Macht è sempre compresa una certa « leggerezza di piedi », una certa « danza »... Ora Heidegger, avendo scorto nell'im-posizione come dis-piego della volontà di volontà l'« essenza ambigua » della tecnica, è certamente più vicino a Nietzsche di quanto non creda quando situa nell'ambito dell'arte il « confronto decisivo » con la tecnica, con il suo  weil sordo al  principium  reddendae  rationis  sufficientis. Un Socrate più austero di quello raffigurato da Valéry nel suo dialogo (e forse, proprio per questo, più autenticamente socratico) non stenterebbe infatti a ravvisare nella danza, forma archetipica dell'arte del grande

(40) (41)  (42)  (43) (44) (45) 

F. Nietzsche,  Opere, cit., voi. Vili, t. II, 9 (102). Ibidem, voi. Vili, t. Ili, 14 (36). Ibidem, voi. Vili, t. Ili, 14 (61). M. Heidegger,  Nietzsche, voi. I, p. 148. F. Nietzsche,  Opere, cit., voi. Vili, t. Ili, 14 (61). Ibidem, voi. Vili, t. I, 2 (130).

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stile, ciò che sovente i "critici della cultura" da Ortega a Adorno, financo talvolta allo stesso Heidegger, hanno denunciato della tecnica e del suo incessante movimento d'intensificazione: la demenza. « Dopo tutto a che scopo? — si chiede, solo per un attimo, il Socrate di Valéry — basta che l'anima si ostini un poco e si neghi, per non concepire altro che la stranezza e il disgusto per tanta ridevole agitazione. Anima mia, se lo vuoi; tutto questo è assurdo» (46). E Adorno stesso, pur nella sua ansia di ritagliare all'arte uno spazio utopico sottratto all'insensatezza del mondo tecnologico, aveva dovuto riconoscere che « se uno sguardo da un'altra stella cadesse sull'arte, di certo la troverebbe di una incomprensibilità egiziana » (47). IX. La follia dell'arte è dunque il mero doppio della demenza tecnica? Producendo e riproducendo se stessa in un  ritmo la cui demonicità è ben nota a tutti i critici dell'ari  pour  l'art l'opera ripete quindi passivamente il gioco della tecnica? Le estetiche post-moderne non la condannano forse proprio a questa inesorabile metamorfosi in "moda"? L'incapacità di storia e di autentica esperienza, testimoniata a livello di costume dal generalizzato trionfo del  revival, non si trasmette forse all'opera quando questa si veda assegnato da un pensiero impotente (debole?) il compito di « rivisitare » semplicemente (aggiungendovi al massimo un pizzico di "ironia") le forme impolverate del "museo"? Ciò che rende solidale essenza della tecnica ed essenza dell'arte è dunque un medesimo fallimento, una comune bancarotta alla borsa dell'esperienza? Oppure proprio perché si consegna senza nostalgie a quell'« errare » che caratterizza l'epoca della tecnica, l'opera si installa in una dimensione del "fare" dove l'essente non è più usurato nel consumo, non è più subordinato al per-altro, ma infine lasciatoessere nella sua semplice presenza? Ci si dovrà pur chiedere insomma da dove provenga quell'incanto e quell'amore preservante che l'arte novecentesca ha sempre dimostrato per quelle "presenze" che la tecnica,

(46)

(47)

P. Valéry,  L'anima  e  la  danza, cit., p. 187.

T.W. Adorno,  Teorìa  estetica, Einaudi, Torino, 1975, p. 199.

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nel suo insensato sviluppo, prima consuma e poi abbandona. Non le presenze perfettamente evidenti al cogito sono infatti quelle che incantano, ma quelle che  ci  sono nel modo di una infinita e inquietante trascendeva: nel modo di una assenza di finalità reale (l'oggetto estetico surrealista come il  ready­made duchampiano) che è propriamente il segreto della "bellezza". X. Abbiamo visto come un certo non-sapere, un certo silenzio della ragione e delle sue sufficienti ragioni, un mutismo ostinato, accomunino la tecnica e l'arte alla mistica rosa di Silesius. Così come noi « con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora cogliere ciò che costituisce l'essere della tecnica, e con tutta la nostra estetica non custodiamo l'essere dell'arte » (48), ugualmente il botanico con tutta la sua scienza non ci può dire nulla di quella rosa o di quel tulipano selvatico che Kant, nel terzo momento dei giudizi di gusto, assume come paradigma della bellezza naturale (49). Certo il botanico sa « che cosa debba essere un fiore » quale sia il suo concetto e la sua « perfezione oggettiva », « ma quando da del fiore un giudizio di gusto, non ha riguardo a questo scopo della natura » (50).  L'economia della bellezza non sembra infatti avere altro fondamento al pari della danza di Valéry o della tecnica heideggeriana, che in una finalità vuota, priva di contenuto: finalità senza  scopo. Qui, spiega Jacques Derrida, è il « senza », questa singolare mancanza che non manca di nulla, « sans de la coupure pure », che produce il sentimento della bellezza del tulipano (51). « Sentimento di agevolazione e di intensificazione della vita » scrive Kant ancora in anticipo su Nietzsche (52). La « tacca » che la bellezza del tulipano incide sul piano della finalità, svuotan-

(48) M. Heidegger,  Saggi  e  discorsi, cit., p. 27. (49) « Invece un fiore, per esempio un tulipano, è ritenuto bello, perché nella sua percezione si nota una certa finalità, che, per quanto possiamo giudicarne, non si riferisce ad alcun scopo » (I. Kant,  Crìtica  del  giudizio, Laterza, Bari, 1970, p. 81). (50)  Ibidem, p. 74. (51) J. Derrida,  La  vérité  en  peinture, Flammarion, Paris, 1978, pp. 95 ss. (52) I. Kant,  Critica  del  giudizio, cit., p. 92.

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dola di ogni contenuto reale e lasciandola essere come « pura finalità formale », non può essere colmata in alcun modo da un pensiero ansioso di risalire dalle tracce di una mancanza alla parusia di una presenza padroneggiabile dal concetto (53). La  pulchritudo  vaga del tulipano, sottraendosi ad ogni « aderenza » concettuale, si presenta infatti paradossalmente come « une errance indéfinie, sans limite, qui se tend vers son orient mais s'en coupé plutòt qu'elle s'en prive, absolument » (54). Questo enigmatico presentarsi di una traccia pura, sciolta  (ab­soluta) cioè da ogni archeologia e da ogni teleologia della presenza piena, è ciò che Heidegger, criticando la falsificazione schopenhaueriana della dottrina kantiana del « disinteresse », chiama l'apparire  (Vin­den­Vorschein­Kommen) dell'oggetto come « puro oggetto »  (als  reiner  Gegenstand). « Questo apparire — continua Heidegger — costituisce il Bello » (55). La bellezza è dunque questa mistica rosa o questo tulipano selvatico che, sottraendosi indefinitamente ad ogni « interessata » domanda sulla sua  quiàditas o sulla sua « finalità oggettiva », rinvia esclusivamente a se stessa e al suo  che  c'è singolare e ineffabile. XI. Il « disinteresse » kantiano così reinterpretato nomina allora quel « medesimo » che nel saggio su  L'origine  dell'opera  d'arte Heidegger chiama il « porre qui la Terra » proprio dell'opera. « Porre qui la Terra significa: porla nell'Aperto come l'autochiudentesi » (56). L'opera aprirebbe un varco nel Mondo abitato da un Soggetto che si è auto-costituito a fondamento assoluto del reale. E lo apre perché lascia-essere una presenza opaca, un  che  c'è non trasfigurabile dal soggetto in significato. Ben chiaro è a Maurice Blanchot il senso di questo « lasciare » quando in  L'espace  littéraire scri-

(53) Come accade invece per quegli « utensili di pietra » ritrovati nelle « tombe antiche » per i quali, mediante inferenze ipotetiche, è possibile risalire, nonostante la loro frammentarietà, all'« intenzione », allo « scopo determinato » in vista del quale furono costruiti (cfr. I. Kant,  Critica  del  giudizio, cit., p. 81). (54) J. Derrida,  La  vérité  en  peinture, cit., p. 105. (55) M. Heidegger,  Nietzsche, voi. I, p. 130. (56) M. Heidegger,  Sentieri  interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 32.

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ve «l'opera fa apparire ciò che nell'oggetto sparisce » (57). L'opera può « glorificare » ciò che nel quotidiano commercio intramondano sparisce proprio perché capace di un rapporto reale all'oggetto come « puro oggetto », perché « disinteressata ». Ma tale capacità non è una potenza eternizzante come credono coloro che affidano all'arte il compito di riscattare apparenze in odore di tramonto. L'opera non arricchisce un reale già costituito di una ulteriore determinazione. Non rivela nulla. Piuttosto lo immiserisce perché ciò che ostenta di contro all'oggetto è la povertà di una presenza insufficiente ad essere altro da ciò che è: la presenza di questo tulipano selvatico che  c'è indifferente e sordo al principio di ragione. Per questo Heidegger dirà che quello che  è stato così tradotto nell'Aperto di un Mondo, la Terra, è però irriducibile alla dimensione del significato e «destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa» (58). E' la positività ultima del reale, il suo mero esser-cosl  (Sosein) ciò che impudicamente si presenta nelle inquietanti immagini dell'arte: quello stesso dunque contro il quale l'uomo ha lottato e deve sempre lottare per rendere razionale la propria storia. « II  cogito dunque — ha scritto infatti Enzo Paci in un appassionato libro dedicato alla fenomenologia husserliana — vive in un mondo che è già fatto così come è fatto, ed il suo compito  è di presentificarlo secondo una idea teleologica: il futuro infinito come compito di presentificazione si pone come il potere dell'uomo di trasformare il  So­ sein»(59). Scandalosamente l'opera va allora a dimorare e a rinnovare quell'inesauribile « durezza, intraducibilità, fattualità » che rende ad un tempo infinito e  infelice il compito di presentificazione (razionalizzazione) che Husserl aveva affidato al  cogito. Per questo i! giovane Lévinas, fedele tanto al detto husserliano, quanto all'imperativo iconoclasta dell'ebraismo, non potrà che condannare la pretesa dell'arte denunciandone appunto la complicità con quel  che

(57) (58) (59) ri, 1961,

M. Blanchot,  Lo  spazio  letterario, Einaudi, Torino, 1975, p. 194. M. Heidegger,  Sentieri  interrotti, cit., p. 32. E. Paci,  Tempo  e  verità  nella  fenomenologia  di  Husserl, Laterza, Bap. 111.

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Rocco  Ronchi

c'è  (il  y  a,  Sosein) che minaccia indefinitamente la vita intenzionale del soggetto. La perfezione oggettiva di quell'oggetto pubblico e irreale che è il tulipano intenzionato dal botanico, è infatti costantemente minacciata dal ritornare di  questo tulipano  qui, con la cui presenza opaca e trascendente « sempre di nuovo »  (imtner  wie­ der) siamo obbligati a misurarci. E fintantoché questo tulipano qui continuerà ad « esibirsi » nella sua bellezza e nel suo incanto, la « trascendenza primordiale » del mondo (trascendenza che è la Terra heideggerianamente intesa) non potrà mai essere tolta in una evidenza perfettamente adeguata. Al fondo di quel  che  c'è esibito, secondo Lévinas, dall'opera sentiamo perciò risuonare, senza esitazione, la eco di quell'Ex  ìst trakliano e di quell'i/  y  a rimbaudiano che, nel protocollo del seminario  Zeit  una  Sein, sono introdotti per chiarire la natura dell'inabituale  Es  gibt heideggeriano. E ciò ben sapendo di andare contro l'espressa volontà di Lévinas stesso (60). In queste espressioni neutre e impersonali Lévinas e Heidegger sentono entrambi risuonare qualcosa di demoniaco. Qualcosa si fa avanti, si produce nella presenza,  è presente (ci fa segno) senza però integrarsi nell'immanenza del mio vissuto, senza farsi  lebendige  Ge­ genwart, significato per un interpretante. Presenza demoniaca, quindi, che, pur sfuggendo ad ogni presente attuale o possibile, tuttavia inesorabilmente  c'è. Per questo nel protocollo seminariale sulla conferenza  Zeit  una  Sein è scritto che a differenza dell'abituale  Es  gibt (quello che irriflessivamente crede di nominare il banale "fatto" della pura esistenza), il  c'è poetico di Trakl, Benn e Rimbaud « non nomina l'essere disponibile di ciò che c'è, si da (es  gibt); nomina, invece, questo appunto come indisponibile, nomina quel che ci si rivolge e ci riguarda come un inquietante, il demonico  (ein  Unheimliches,  das  Dàmonische). Così con lo  Es  ist è insieme nominato il rapporto all'uomo, e questo in modo di gran lunga più intenso che nell'abituale  Es  gibt» (61). Più intenso per(60) Cfr, la prefazione alla seconda edizione di  De  l'existence  a  l'existant, Vrin, Paris, 1981/3° ed. (61) M. Heidegger,  Tempo  ed  essere, protocollo seminariale, cit., p. 143.

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Sul  rapporto  tecnica­arte

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che il rapporto all'uomo non è pensato come l'essere sempre a disposizione di una semplice-presenza, ma come l'offrirsi di qualcosa nel modo del rifiuto di sé: parvenza di finalità, finalità senza scopo. Ecco dunque che ciò che viene « glorificato » dall'opera è l'inquietante e incantevole presenza che ci ammicca da dietro le spalle dell'oggetto pubblico e irreale. Tale ammiccare non allude ad un più riposto significato (ad un significativo "privato" dell'oggetto, ad un suo valore di "evocazione" personale), ma a quel semplicissimo offrirsi della presenza che precede la partizione metafisica del reale in significati "pubblici" (il tulipano del botanico) e in immagini "private" (il tulipano dell'innamorato). Quando infatti, per un cortocircuito dell'esperienza, il dotto tulipano del botanico come quello privatissimo dell'innamorato vedono improvvisamente appassita la loro natura di trasparenti significati dell'anima, ecco che allora ciò che appare è  soltanto questo tulipano qui, questa presenza incantevole e anonima che, per la sua assenza di finalità, sgomenta l'anima (« Dopo tutto a che scopo? » si chiedeva infatti l'inquieta anima del dialogo di Valéry). XII. Al termine del saggio su  L'origine  dell'opera  d'arte, venendo a considerare « l'opera d'arte in parole: la poesia in senso stretto », Heidegger istituisce un nesso decisivo tra la terrestrità dell'opera e il linguaggio. Una domanda sorge allora spontanea: qual è il  che c'è esibito dall'opera d'arte in parole? Che cosa la poesia lasciaessere disinteressatamente come l'« autochiudentesi »? La terra dell'opera d'arte linguistica è indubbiamente a sua volta ancora linguaggio. Un linguaggio che però deve condividere il « pesantore » e l'« impenetrabilità » della pietra: la trascendenza primordiale del  Sosein. Questo linguaggio opaco e non quantìficabile è detto da Heidegger « saga »  (Sage) o « dire originario ». Il modo in cui la poesia autentica corrisponde disinteressatamente alla  Sage è detto, al termine della conferenza  In  cammino  verso  il  linguaggio,  « silenzio » (62). Ma di

(62)

M. Heidegger,  In  cammino  verso  il  linguaggio, cit., pp. 207 ss.

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Rocco  Ronchi

quale « silenzio » si tratta? Quale è quel silenzio così loquace da lasciare che il linguaggio come Linguaggio  (Sage) venga al linguaggio? Questo silenzio, come è stato generalmente rilevato, è il silenzio che investe il linguaggio quando cessiamo di usarlo come neutro mezzo di comunicazione per lasciarlo invece  apparire nella sua materialità e, quindi, nella sua  bellezza. E' ciò che, seppure in un contesto teorico affatto differente, Tzvetan Todorov, sulla scorta di alcune indicazioni di Roman Jakobson, ha chiamato l'« intransitività » del discorso poetico « in opposizione alla transitività del discorso referenziale » (63). Mentre infatti  « il discorso che si limita a far conoscere il pensiero è invisibile e perciò inesistente» (64), il discorso poetico, rendendo il linguaggio « opaco alla sgnificazione » (straniandolo, dunque, dal suo contesto d'uso abituale), si rende visibile nella sua dimensione sensibile, terrestre, di "testo". Tessuto di tracce "puro" perché as-solto da ogni servile compito di significazione di un  Logos che sia idealmente anteriore alla sua inscrizione nell'esteriorità sensibile del significante. Ma questa conversione del linguaggio transitivo in linguaggio sensibile non significa semplicemente, come facilmente si sarebbe indotti a credere, che d'ora in poi il "testo", ridotto ad artificiale gioco dei significanti, si metterà a disposizione del semiologo e delle sue ampollose tecniche decostruttive. Non può essere certo una ulteriore "apertura" all'infinità dell'interpretazione ciò che l'opera guadagna chiudendosi nel suo guscio terrestre. Il venir meno di quella Voce dell'anima che, in una assoluta presenza a sé, si presumeva parlasse ininterrottamente dietro ai segni ci prepara forse all'ascolto di un:'altra lingua: una lingua inabituale e inquietante, "illeggibile" per l'anima. Non vi è dunque, come sostiene invece un ingenuo edonismo letterario, una mera assenza di lingua od una felice "messa in scena" di significati liberati dall'autorità teologica della Voce. Piuttosto si assiste ad un raddoppiamento di lingua, ad una sua demoniaca duplicazione simile a quella che

(63) T. Todorov,  Poetica, in  Che  cos'è  lo  strutturalismo?, ISEDI, Milano, 1971, p. 113. (64) T. Todorov,  Littérature  et  signification, Larousse, Paris, 1967, p. 102.

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Lévinas ha sentito risuonare nel vuoto cicaleccio della seduzione femminile (65). Alla lingua trasudante idealità propria di un  cogito ansioso di evidenze perfettamente adeguate si sostituisce, in un gioco di pericolosa simulazione, la lingua sorda della presenza che ripete semplicemente se stessa, il proprio inaudito  c'è: « Nel bosco c'è (il y a) un uccello, il suo canto vi ferma e vi fa arrossire. / C'è  (il  y  a) un orologio che non suona. / C'è  (il  y  a) un botro con un nido di bestie bianche. / C'è  (il  y  a) una cattedrale che scende e un lago che sale. / C'è  (il  y  a) una carrozzina abbandonata nel bosco, o che scende per il sentiero correndo, adorna di nastri. / C'è  (il  y  a) una comitiva di piccoli commedianti in costume, scorti sulla strada attraverso il margine del bosco. / C'è  (il  y  a) infine, quando si ha fame e sete qualcuno che vi scaccia » (66). Il silenzio di questo  che  c'è è il silenzio di una lingua che  pare essere finalizzata all'anima, che sembra  volerle­dire qualcosa, ma che in realtà parla di altro, di un tutt'Altro che l'anima non può capitalizzare in significato. Il silenzio evocato da Heidegger come modo della corrispondenza alla  Sage è allora quello stesso silenzio che spaventava Socrate quando, paragonando scrittura e pittura, affermava come prova della loro colpevolezza che entrambe, per quanto le si interrogasse, rimanevano dinanzi al tribunale dell'anima in un « maestoso silenzio ». In questi ambigui segni l'anima non trova nessun conforto, nessuna finalità reale: trova solo un "incanto" pericoloso. Scorgendo nel silenzio l'origine della parola autentica Heidegger in  Erlàuterungen  zu  Holderlins  Dichtung non si fa perciò paladino di un semplice « tramonto del linguaggio » nel mutismo animale (67). Alla lingua "pubblica" dell'anima, come al suo  pendant dialettico: il mutismo tutto "privato" del corpo e delle sue sinestesie, si sostituisce piuttosto una lingua anonima e ossessiva: lingua di una presenza  che  c'è senza perciò essere dispo(65) Si veda a questo proposito la « fenomenologia dell'Eros » abbozzata da E. Lévinas in  Totalità  e  infinito, Jaca Book, Milano, 1980, pp. 261 ss. (66) A. Rimbaud,  Le  illuminazìoni, in  Poesie, DalTOglio, Milano, 1957 (trad. it. di C. Fusero). (67) Così interpreta G. Vattimo in  Al  dì  là  del  soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 58 ss.

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nibile per l'anima, presenza che non richiede il sapere come sua misura, eccesso di presenza che devasta l'anima. E' disponendosi all'ascolto di questa lingua che, come vedremo, ha inizio l'esodo dell'uomo nel deserto  deWEreignis (nell'incanto della dis-propriazione). XIII. Tale tramonto del linguaggio in una "scrittura" opaca al  Logos non è forse la drammatica esperienza che la ragione metafisica fa dell'essenza della tecnica moderna? Non è qui, al cospetto di un finalismo senza scopo, privo dell'afflato pneumatologico dell'anima parlante, che si radica la « crisi delle scienze europee » constata da Husserl, denunciata da Adorno, ma già profetizzata dal saggio Thamus? Non possiamo allora stupirci se è proprio nell'ambito dell'arte o, più precisamente, nell'ambito di quelle pratiche artistiche che hanno cercato di « passare il segno » liberando la traccia dalla sua inscrizione nell'economia del  Logos, che va oggi cercato il « confronto decisivo » con l'essenza della tecnica moderna. All'inizio della sua opera fondamentale Jacques Derrida non esitava a scrivere che è solo « un certo tipo di interrogazione sul senso e l'origine della scrittura » a rendere possibile « un certo tipo d'interrogazione sul senso e l'origine della tecnica » (68). Anche questo insensato dispiego del  Wille  zum Willen (che  è la tecnica) è infatti l'emergere di una scrittura orfana del padre  Logos (« autochiudentesi »), consegnata perciò ad un triste destino di « erramento », ad una demente disseminazione nei « giardini di Adone». Escludendo la traccia scritta dal sistema interno della lingua e riducendola a neutro  medium sensibile (terrestre) dell'interiorità ideale dell'anima, la strategia logocentrica della  ratto non poteva comprendere questa « scrittura » che nei termini moralistici del "disumano", del "male" o dell' "alienazione". Luogo della non presenza a sé dell'anima la tecnica, per ogni pensiero umanistico, si lega indissolubilmente alla reificazione e alla violenza. Violenza tuttavia non irriducibile perché compresa in una « strategia psico-storica » che considera il negativo, l'alienazione nel  medium sensibile (nel-

(68)

J. Derrida,  Della  grammatologia, Jaca Book, Milano, 1969, p. 11.

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la Terra), un « momento » doloroso ma necessario di un processo storico e/o psicologico che ha come fine luminoso la parusia dell'anima in una ritrovata presenza a sé (in un Mondo privo di segni e perfettamente trasparente all'anima). Tale progetto di sapore nettamente hegeliano rivive ancora nella fenomenologia husserliana dove però il compito di presentificazione totale è vissuto soltanto come idea regolatrice in senso kantiano. Ma l'opera d'arte, considerata nella sua « origine », fa saltare questa consolante ideologia pacificatoria. « Mondo e Terra — scrive Heidegger — sono sempre, e in virtù della loro stessa essenza, in contrapposizione e in lotta » (69). «Ponendo qui » la Terra come l'autochiudentesi l'opera sancisce l'irrevocabilità e l'originarietà della reificazione, della non presenza a sé e, quindi, della violenza. Essa ci costringe dunque a ripensare la tecnica nel suo rapporto all'anima. Se il « nesso tecnica-violenza non  è occasionale » l'opera d'arte Io esperisce allora sotto il profilo del  vulnus, di una ferita o di una fenditura che  già  da  sempre affetta l'integrità dell'anima: ferita non cicatrizzabile, al pari di quella inferta dall'aquila al fegato di Prometeo (70). Ma questo  vulnus, questa infinita emorragia che impedisca all'anima di chiudersi nella sua orgogliosa autosufficienza, non nomina forse anche l'essenza ek-statica dell'uomo? Non è forse proprio a questa ferita che si deve la possibilità per l'anima di aprirsi all'inquietante  che  c'è del mondo? Commentando un famoso passo  deìl'Antigone sofoclea Heidegger aveva scorto nell'esercizio della violenza da parte dell'uomo « il carattere fondamentale non solo del suo agire, ma del suo stesso essere ». Per questo Sofocle chiama l'uomo  to  deinotaton,  « ciò che vi è di più inquietante  (das  Unheimlichste) ». Questa violenza e la rovina che dal suo esercizio ineluttabilmente ne deriva per i mortali è ora indicata da Heidegger come il « luogo » stesso, l'« apertura » di cui ha bisogno la « strapotenza » della presenza per apparire come tale. Detto altrimenti è soltanto nella « crisi delle scienze europee »

(69) (70)

M. Heidegger,  Sentieri  interrotti, cit., p. 40, Cfr. C. Sini,  op.  cit., pp. 262-263.

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Rocco  Ronchi

(crisi segnata dal dominio della tecnica) e nel fallimento del progetto filosofico occidentale che appare la trascendenza primordiale della Terra; è nel sonno della ragione che balugina lo straordinario  che c'è della presenza  (Vii  y  a). Il  vulnus, la  Krisis, questa traccia che già da sempre intacca la presenza a sé dell'anima, che ne debilita la memoria costringendola a infinite riattivazioni, non è dunque dovuta ad una "infezione" proveniente dall'esterno, ad una "violenza" accidentale. Essa costituisce piuttosto il  Da del  Sein, l'« in-cidente » (Zwischen­fall) « in cui, d'un tratto, le forze della strapotenza scatenata dell'essere si liberano ponendosi in opera come storia » (71): è la cifra di quella « dis-propriazione »  (Enteignìs) mediante la quale l'Ereignis « sottrae ciò che gli è più proprio  (sein  Eigenstes) all'illimitato disvelamento » (72). Ek-sistere significa allora «essere attivamente situati nella violenza » (73), «abitare» la tecnica e la violenza estraniante della sua scrittura (la  Krisis) come il luogo ( il « ci ») in cui si è espropriati  a  favore  della  presenza da ogni memoria, da ogni presunzione di soggettività e storia. A questo esilio neU'inabituale e nell'inquietante ci invita, se adeguatamente ascoltata, l'opera. Essa, ci ha insegnato Maurice Blanchot, vaga lontano dal paese natale sedotta da una presenza che non appartiene all'anima e ai suoi discorsi pubblici. « II poema è l'esilio, ed il poeta, che gli appartiene, appartiene all'insoddisfazione dell'esilio, è sempre fuori di se stesso, fuori del suo luogo natale, appartiene all'estraneità, al di fuori senza intimità e senza limite, a quel margine che Hòlderlin definisce, nella sua follia, quando vi scorge lo spazio infinito del ritmo » (74).

(71) M. Heidegger,  Introduzione  alla  metafisica, Mursia, Milano, 1972/ 2" ed., p. 170. (72) M. Heidegger,  Tempo  ed  essere, cit., p. 124. (73) M. Heidegger,  Introduzione  alla  metafisica, cit., p. 160. « La rovina — scrive ancora Heidegger — rappresenta per lui (per l'uomo) il più profondo e ampio consenso accordato al predominante» (p. 170). (74) M. Blanchot,  op.  cit., p. 207.

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TECNICA E FILOSOFIA DELLA NATURA IL « PENSIERO DELLA PHYSIS » IN MARTIN HEIDEGGER

La più oscura di tutte le cose, anzi secondo alcuni l'oscurità stessa, è la materia. Schelling

Dei molti motivi che Heidegger sottopone alla riflessione nel suo scritto  La  questione  della  tecnica (I), uno in particolare sembra emergere con estrema chiarezza: « bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all'essenza della tecnica e, dall'altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l'arte ». Ciò, aveva premesso Heidegger, « poiché l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico» (2). Nelle considerazioni che seguiranno, cercheremo di muoverci nella dimensione indicata da Heidegger; non però trasportando la meditazione sull'essenza della tecnica nell'ambito di una qualche riflessione sull'arte, ma volgendo invece lo sguardo a ciò che, nel rapporto arte-tecnica, rischia di rimanere costantemente inavvertito e che invece, se considerato adeguatamente, può forse offrire un accesso al confronto al quale Heidegger accennava. La produzione, dice Heidegger, è il passaggio dal nascosto al disvelato; in tal senso  aletheia è il suo nome. La tecnica è un modo déH'aletheia, un "invio" dell'essere che si lascia avvicinare da quel pensiero che riesce con fatica a pronunciarne il "vero" nome:  Gestell,

(1) M. Heidegger,  La  questione  della  tecnica, 1954, tr. it. in  Saggi  e  Di­ scorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1976, pp. 5-27. (2) Ivi, p. 27.

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Giampiero  Moretti

im-posizione. A prima vista, saremmo tentati di giudicare che Heidegger riporti del tutto la questione della tecnica alla questione del disvelarsi della presenza, al movimento  dell'aletheia cioè; ma ciò è vero solo in parte, e in  un aspetto, oltrettutto, che non deve attrarre il nostro interesse esclusivo se vogliamo rimanere fermi alle premesse appena fatte. « [...] il calice d'argento non ha il movimento iniziale della pro-duzione in se stesso, ma in un altro  (en  allo), nell'artigiano e nell'artista» (3). Cos'è che ha quindi in se stesso il moto del sorgere e che, essendo tale, coappartiene in maniera tanto essenziale alla  aletheia e al suo movimento? E'  physis. Anch'essa « è una produzione, è  poiesis. La  physis è anzi  poiesis nel senso più alto » (4), in quel senso in cui, nello schiudersi di un fiore ad esempio, il movimento della pro-duzione si esibisce e si manifesta per ciò che esso è: necessità che appropria. Tutta l'opera del "secondo" Heidegger potrebbe così essere percorsa invisibilmente da un pensiero che, per la sua stessa essenza, è sempre pronto a farsi indietro piuttosto che avanti, più disposto a restare nell'ombra che invece a presentarsi con prepotenza. Questo pensiero, quest'esperienza del pensiero, prende il nome di  physis. Basterebbe soltanto accennare al fatto che, proprio nel saggio su aletheia (5), è l'improvviso comparire nella  Eròrterung heideggeriana della sentenza eraclitea (« la natura ama celarsi ») a collocare la  Eròr­ terung stessa nella sua dimensione; oppure, sarebbe sufficiente leggere la  Erlàuterung  Wie  Wenn  am  Feiertage..., ove Heidegger, celando il proprio nell'interpretazione del detto poetico di Holderlin, si incammina decisamente verso un'esperienza di ciò che la  physis dovette essere per i Greci e che ancora in qualche modo è per i poeti (6) ; oppure, ancora, ripensare da questo punto di vista le pagine

(3) Ivi, p. 9. (4) Ibidem. (5) Ivi, pp. 176-192, spec. pp. 182-185. (6) M. Heidegger,  Erldutemngen  zu  Holderlins  Dicbtung, Frankfurt 1971, pp. 49-77.

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TeCBZCa e filosofa della natura

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centrali della  Introduzione  alla  metafisica (7), in cui Heidegger tenta di tracciare il rapporto intercorrente fra  physis,  aletheia e  logos, per non parlare poi del saggio di Heidegger dedicato alla  physis in Aristotele (8). Chissà allora che proprio da una considerazione di alcune esperienze filosoficamente significative della  natura non possa scaturire anche per noi un cenno nella direzione del rapporto tecnica-arte posto da Heidegger.

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1  Riflessione  sulla  filosofìa  della  natura  in  Hegel \\ \ Mentre per Schelling ci sembra che a buon diritto possa pari larsi per quel che riguarda la filosofia della natura di uno sviluppo i interno, che ha portato con sé diversità di vedute e di risultati, tan1 to che il ruolo di quest'ultima nel sistema ormai avviato dell'idea1 lismo trascendentale del 1800 non è certo più quello dei primi scrit1 ti del 1797 o della  Weltseele del 1798, il caso di Hegel appare 1 diverso: Hegel non può fare a meno di confrontarsi con Schelling 1 e con i più importanti risultati e sviluppi delle scienze naturali del1 la sua epoca (9), ma si può forse affermare che, fin dall'inizio, e an1 che per la sua critica alla posizione schellinghiana, come cercheremo 1 di vedere meglio più oltre, per Hegel il "campo" della natura i rappresenta qualcosa di essenzialmente  estraneo. La natura è e re1 sterà per Hegel un enigma, nonostante tutti i suoi tentativi di tro1 varie un posto nel sistema. Questa è l'impressione che il lettore, (nonostante tutto, ricava dalle pagine di Hegel dedicate alla filosofia della natura, e tale impressione si rafforza ancor più se ci si accosta, dopo la lettura di Hegel, al primo Schelling, a Steffens, a Rit1

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1 (7) M. Heidegger,  Introduzione  alla  metafisica, 1935, tr. it. di G. Masi, Mino 1972, pp, 25-29, pp. 110-111 e poi da p. 134 alla conclusione. (8) M. Heidegger,  Vom  Wesen  und  Begriff  der  physis,  Aristoteles  Physik \1; ci riferiamo all'edizione, senza luogo né data, di un seminario di 53 pale, tenuto nel 1940, conservata  Re&'Universitàtsbibliotbek di Freiburg i.Br. \ (9) Cfr. a tal proposito il bel volume di O. Breidbach  Das  Organische  in \>els  Denkett, Wurzburg 1982.

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Giampiero Moretti

ter, a Gòrres, a Oken, allo stesso Treviranus. Quando Hegel af­ ferma che la natura è per lui lo spirito « der sich in seinem Anders selbst gefunden hat » (10), non dobbiamo farci ingannare; questo trovarsi dello spirito nel suo altro da sé — presentando pur sempre un tratto per Hegel "salvifico", la riflessione cioè — non ha nul­ la di tranquillizzante o di iniziatico. Si tratta, per il concetto (e per Hegel stesso), di un vero e proprio incubo, dal quale era necessa­ rio uscire al più presto, per la integrità dell'intero sistema. La "fo­ resta" in cui il concetto hegeliano improvvisamente si ritrova, ha soltanto l'aspetto terribile e misterioso che è anche delle Favole dei Grimm, ma non altrettanto il lato materno, che è sempre anche in quei racconti pronto ad aiutare ed a indicare la strada da percor­ rere. Questo perché, almeno così ci sembra, Hegel è portato dal suo sistema — che poggia sulla Logica — a non concedere che la casualità e l'arbitrio alla singola formazione vivente, individuale, ed a riconoscere un "significato" alla natura soltanto in quanto tutto or­ ganico (11). Questo dato di fatto non può essere compreso se non a partire dalla struttura stessa del sistema filosofico hegeliano, e dalla legge di quel sistema, la dialettica. Cercheremo ora di vedere come, in un luogo altamente significativo dell'opera di Hegel, avvenga un passaggio che, schematicamente e comparativamente, potremmo così descrivere: mentre in Schelling la natura, pur restando sempre stret­ tamente connessa all'Io trascendentale tramite il procedimento de­ duttivo, costantemente seguito, e grazie al concetto di costruzione (12), viene tuttavia riconosciuta — certo più negli scritti fino al 1798

(10) G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, hrsg. v. der R.-W. Akademie der Wissenschaft, Hamburg 1968 e sgg., Bd. 7, p. 178. (11) Cfr. ad es. Breidbach, op. cit., pp. 328 e sgg. Sul problema del rap­ porto fra filosofia della natura e dialettica in Hegel sono illuminanti le pagine di V. Mathieu, Filosofia della natura e dialettica, in Hegel interprete di Kant, a cura di V. Verrà, Napoli 1981, pp. 93-122. (12) Sul significato profondo della «costruzione» in Schelling e sul rap­ porto di questa con la « matematica » quale garanzia della « scientificità in filo­ sofia », cfr. il bel saggio di V. Verrà « Costruzione », scienza e filosofia in Schel­ ling, in Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Milano 1979, pp. 120-136. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che in quelli successivi — come una realtà oggettiva autonoma, indipendente in qualche modo dal pensiero, in Hegel, attraverso la messa in crisi del metodo filosofia)  complessivo di Schelling e grazie all'adozione di una dialettica  speculativa, accade che la natura venga ad essere considerata come viva solo a partire dalla "vita" del  concetto (13). In altre parole, la natura è per Hegel tale  soltan­ to  nell'Organtk, cioè nella strutturazione ordinata dei singoli momenti, e non invece nelle individualità,  perché queste individualità restano inaccessibili al concetto, al pensiero logico. Ma Hegel non ricaccia ingenuamente il casuale nell'arbitrario; la caratteristica del suo pensiero — e dell'idealismo compiuto in genere — sta invece nel mostrare come tale casualità sia la  base per una possibile organizzazione (non possiamo qui discutere l'altra prospettiva che entra ora in gioco, quella aperta dalla « conformità al fine  » e dalla « finalità » in quanto tale),  l'Organik appunto, la quale, in quanto tale, è per Hegel accessibile al concetto. Tale natura è, come dicevamo prima, una sorta di "incubo" per il quale il concetto  deve sì passare ma che esso deve anche superare; come? Identificandoselo. L'essere — il concetto dell'assoluto — identifica a sé il divenire — la natura. Per osservare un po' più da vicino come tutto ciò avviene, accostiamo  l'Introduzione di Hegel al corso di filosofia della natura svolto a Berlino nel Wintersemester 1819/20; un'esposizione relativamente "tarda" della materia, e che, in quanto tale, può forse valere come "conclusiva" per quel che riguarda la posizione di Hegel rispetto alla filosofia della natura nel suo complesso (14). «Questa introduzione — scrive Ilting (15) — si divide in tre

(13) Cfr. Breidbach, p. 333: « [La natura] è ciò che esiste dal concetto. La sua gradazione in livelli, nella sua triplicità, è ricavata dalla determinazione del concetto e non nell'evoluzione sua propria ». (14) G.W.F. Hegel,  Sul  concetto  di  filosofia  della  natura, in « II giornale di metafisica », anno IV n. 2, 1982 pp. 291 e sgg. Il testo di Hegel, inedito, è seguito da un commento molto interessante di K.H. Ilting,  II  concetto  hege­ liano  di  filosofia  della  natura, ivi, pp. 297-306. (15) K.H. Ilting, op. cit., pp. 297-8.

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parti: nella prima parte Hegel cerca di descrivere la situazione in cui l'uomo si trova di fronte alla natura; nella seconda egli deriva da questa descrizione il compito da risolvere nella filosofia della natura; e nell'ultima parte egli sviluppa il concetto della natura che ne risulta ». La natura si trova fuori dell'uomo, e ad essa si oppone l'animo, l'io; è questo un dissidio che va ricondotto a quell'unità che il soggetto è (16). L'atteggiamento dell'uomo verso la natura, prosegue Hegel, è teorico o pratico: nel primo caso noi recepiamo gli oggetti della natura attraverso i sensi e li sperimentiamo come indipendenti, nel secondo noi usiamo gli oggetti naturali per scopi a noi utili, così che la natura ci sembri  in  sé  nulla, dato che è  da  noi che essa riceve la propria determinazione. « II compito è di far vedere che ciò che appare nella nostra coscienza come separato, si trova in armonia. La coscienza contiene in se stessa già tutti i momenti necessari per l'unificazione e per la separazione », è la filosofia che deve mostrarle la « realtà » delle cose e cioè « che la natura non è soltanto, secondo il mio atteggiamento teorico, l'essere, ma altrettanto il mio, e che, considerandola nel mio atteggiamento pratico come il mio, non la prendo come l'essere privo di sé, ma anche come quello che è per sé. Ecco l'unificazione e la soluzione del problema » (17). E' qui pienamente visibile l'operare della dialettica hegeliana; molto finemente Hegel ci ha mostrato che « nella cognizione teorica della natura come essere, è presupposto che la natura non è estranea a noi stessi, ma piuttosto appartiene a noi, e si vedrà inoltre che nel nostro atteggiamento pratico la natura non è considerata soltanto come appartenente a noi e quindi priva di sé, ma presupposta piuttosto come un essere per sé » (18). Tutto sembra così "risolto" in questo trasferimento dialettico (ovvero "ritrovamento" dialettico) del primo termine nel secondo e del secondo nel primo, e nella nuova unità "superiore" che ne risulta; ma c'è una "finezza" ancora maggiore: tale contrasto viene risolto a partire dalla  coscienza filosofica, la qua(16) G.W.F. Hegel,  Sul  concetto  di  filosofia  della  natura, cit., p. 291. (17) Ivi, pp. 292-3. (18) K.H. Ilting, op. cit., pp. 300-301.

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le fa sì che l'atteggiamento teorico verso la natura (cioè il considerarla come essere in sé)  fondi  e  giustifichi l'atteggiamento pratico (cioè il considerarla per noi), in modo che (attraverso lo scambio che la dialettica mette in opera) venga fondata e giustificata teoricamente la qualità di « essere per noi » della natura. Teoricamente io la considero come mia, praticamente la prendo come per sé, vale a dire: per essenza la natura  è per il soggetto. L' "in sé" della natura si scopre già come un "per sé" che è in realtà un "per noi", per l'uomo e per la sua coscienza operativa. La "contropartita" che Hegel offre a tale accentuazione del carattere dialettico del momento teorico è costituita dal fatto che il momento pratico viene condotto a riconoscere la natura come un sistema complessivo vivente e organico (19); la filosofia della natura « deve ricondurre la molteplicità delle materie al punto focale che costituisce il principio della vita; la disgregazione si deve togliere » (20). Il superamento della distinzione iniziale viene così del tutto a giorno nella sua  possibilità fondativa: la ragione pensa la natura come un tutto vivente perché la ragione stessa è la vita (non la natura, la vita delle singole parti della quale  deve anzi essere eliminata affinchè sorga la vita dell'insieme). Se la natura è ragionevole, essa «è allora la ragione incarnata » (21); la ragione concede così la vita alla natura, la coscienza riconosce tale vita, così che « la natura cessa mediante ciò di essere qualcosa di estraneo, di rigido di fronte a me, poiché la sua essenza è qualcosa di ragionevole » (22). Ma ciò non significa altro se non: la natura è stata  identi­ ficata alla "vita" della ragione. Non ci stupisce dunque più udire che « il naturale è ciò che deve tramontare, il nullo » e che questo « naturale » può essere « lasciato libero » solo quando esso è stato riconosciuto come "razionale", « la cui libertà non ha per me nulla di pauroso, poiché la sua es(19) Ilting, op. cit., p. 301, nota giustamente che Hegel si preoccupa soprattutto di chiarire l'aspetto teorico anziché quello pratico di tale  Wechsel­ verbàltnis: ma si può considerare semplicemente casuale questa posizione? (20) Hegel,  Sul  concetto..., cit., p. 293. (21) Ivi, p. 294. (22) Ibidem.

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senza è la mia» (23). Una volta che ha fatto divenire il naturale me e me il naturale, ovverosia dopo aver riconosciuto la natura (P "incubo" di cui dicevamo sopra) come l'incarnazione della ragione, la filosofia della natura ha assolto al suo compito, quello di scienza della libertà. Ora, ha perfettamente ragione Ilting nell'affermare che Hegel non va affatto in cerca di leggi naturali universalmente valide ma vuole invece offrirci « un'interpretazione del rapporto fra uomo e natura »; tuttavia, tale interpretazione non solo non ci sembra per nulla andare oltre l'interpretazione cristiano-moderna di quel rapporto, al contrario invece di quel che Ilting rinviene nella posizione hegeliana, ma ci sembra anzi radicare, fondare e giustificare metafisicamente  proprio la visione cristiano-moderna del rapporto uomonatura e che va sotto il nome di tecnica come provocazione (24). La natura viene ricondotta alla ragione: le si riconosce come essenza la ragione e la si priva di ogni tipo di "autonomia" che non sia assoggettabile ad un uso ragionevole, che non consenta cioè un uso ragionevole della stessa natura. Il che è come dire che la natura è tale solo nell'uso  razionale che la coscienza umana ne fa, ovvero nell'utilizzazione tecnica. La riconduzione a sé dell'altro si scopre come l'invito (la sua giustificazione e la sua necessità metafisica) all'utilizzo tecnico della natura. In realtà, Hegel non ha fatto altro che portare, anche nel campo della filosofia della natura, la propria critica estremamente coerente al sistema di Schelling, alla dialettica dell'identità di filosofia della natura e filosofia trascendentale. Criticati i principi della costruzione e della deduzione, così come Schelling li aveva applicati, era venuta a mancare la base stessa per una posizione, per così dire,  inter­ media, quale quella schellinghiana appunto, riguardo al problema della natura. Il concetto e la natura non possono stare  immunemente l'uno accanto all'altro: Schelling offerse a Hegel la via per il prevalere del primo, e, ai filosofi romantici della natura, quella per il "so-

(23) (24)

Ibidem. Ilting, eh., p. 302.

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pravvento" (mai però in termini di mero empirismo) della seconda. Cerchiamo brevemente di vedere come, anche in virtù di alcune osservazioni sul ruolo della dialettica in tutto questo discorso.

Intermezzo  su  Schelling  e  la  sua  posizione  del  problema  della  natura « La filosofia della natura, in Schelling, è soltanto un lato, il lato reale, del sistema della filosofia » (25). Quest'affermazione dovrebbe sempre esser tenuta presente nell'accostamento alla speculazione di Schelling; essa mette dinanzi agli occhi dell'interprete la doppia verità per cui Schelling, da un lato, non  può fin dall'inizio evitare l'esito idealistico-trascendentale della sua posizione del problema della natura mentre, dall'altro,  si  sforza in ogni modo di mantenere una equidistanza ben precisa fra l'idealismo e il meccanicismo naturalistico. Il suo tentativo di una fisica speculativa coerente ha del grandioso: ma si tratta di quell'eroismo tipico del difensore ormai stremato ed accerchiato dai nemici il quale preferisce farsi massacrare anziché arrendersi, che compie cioè il  gesto, essenziale per la proria coerenza ma sostanzialmente senza lasciare un'eredità vera e propria che non sia  l'esempio. Nessuno ha infatti proseguito il cammino intrapreso da Schelling con la stessa coerenza (al di là dei suoi continui cambi di posizione, spesso più apparenti che altro), ma tutti hanno guardato a lui come ad un capostipite, all'esploratore primo, (25) G. Sememi,  La  filosofia  della  natura  nel  pensiero  schellinghiano, in Schelling, Padova 1976, p. 21. Di Semerari si vedano ancora  Interpretaziune  di Schelling, Napoli 1958, e  Introduzione  a  Schelling, Bari 1971. Sull'opera di Schelling in generale, X. Tilliette,  Schelling.  Un  Philosophie  en  devenir, Paris 1970 e, d.s.,  Attualità  di  Schelling, Milano 1972. Inoltre, A. Bausola,  Schelling, Firenze 1975; L. Pareyson, in  Schelling, Torino 1975; W. Wieland,  Die  Anfdnge der  Schellings  Naturphilosophie  and  die  Frage  nach  der  Natur, in  Natur  und  Ge­ schichte, Stuttgart 1967; H. Holz,  Perspektive  Natur, in  Schelling, hrsg. v. H.M. Baumgartner, Freiburg-Miinchen 1975; J.L. Esposito,  Schelling's  Idealism  and philosophy  of  Nature, New Jersey 1977. Un profilo storico, limitato all'anno di uscita del volume, è in C. Siegel,  Geschichte  der  deutschen  Naturphilosophie, Leipzig 1913; interessante anche il volume  Natur,  Kunst,  Mytbos, contributi al pensiero di Schelling forniti da studiosi marxisti, Berlin 1978.

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allo scopritore di nuovi mondi, che però poi andavano riconsiderati diversamente da come lui, il primo, aveva fatto. Non intendiamo qui alludere alla ben nota difficoltà della derivazione del finito dall'indifferenziato o del molteplice dall'uno, che ci sembra in realtà "superata", almeno logicamente, dall'affermazione di Schelling della presenza del finito nell'assoluto stesso (anche se la difficoltà ricompare appena si analizzi più da presso il modo con cui tale finito è presente nell'assoluto); ma al fatto che, anche in virtù dell'indispensabile ricorso alla deduzione ed alla costruzione, la natura e l'Io vengono posti in un rapporto di scambio reciproco che contiene in sé fin dall'inizio i prodromi della propria catastrofe. L'equivalenza fra natura e Io, in Schelling, si rivela così a poco a poco come un che di  formale, richiesto dagli sviluppi necessari del sistema dell'identità, mentre, a livello  sostanziale — il che vuoi dire anche: a livello di filosofia pratica, dell'azione, e di filosofia della religione — la natura viene sempre più considerata come una realtà diversa dallo spirito, autonoma, ma in cui l'Io finisce per riconoscere il proprio passato, e che ha per scopo principale il raggiungimento della coscienza, e ciò anche se in precedenza era stato affermato che « ogni prodotto organico porta in  se  stesso la ragione della propria esistenza, giacché è causa ed effetto di se stesso » (26). La grandezza ed il dramma del tentativo schellinghiano sono forse proprio in ciò: le parti dell'organismo nel suo complesso sono viste come reali, necessarie, oggettive, indipendenti insemina dall'attività dell'Io; ma, appena appresso, viene affermato che un « concetto abita  nell'otga­ nismo stesso, e non ne può venir separato » (27), il che equivale a dire che anche nella natura c'è l'Io e che nelPIo c'è la natura. Schelling tenta  disperatamente (da qui il pathos dei suoi scritti sulla natura) di non ridurre la natura, la sua vita, all'Io; il ruolo della posizione dell'identità originaria aveva anche questo significato. « Fin tanto che

(26) Schelling,  Sui  problemi  che  una  filosofia  della  natura  deve  risolvere, introduzione a  Idee  per  una  filosofia  della  natura  come  introduzione  allo  studio di  questa  scienza, 1797, tr. it. in  Schelling, a cura di L. Pareyson, cit., p. 140. (27) Ivi, p. 141.

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io stesso sono  identico alla natura comprendo che cosa sia una natura vivente altrettanto bene quanto la mia stessa vita; [,..] ma non appena io separo me, e con me tutto l'ideale, dalla natura, non mi resta altro che un oggetto inerte, e io cesso di comprendere come sia possibile una  vita  fuori di me» (28). Schelling affonda veramente lo sguardo nell'oscuro, nella profondità della materia, che organizza se stessa, e del linguaggio simbolico, che parla all'immaginazione creatrice e non invece alla mera riflessione (29); arriva persine ad affermare  « che  l'ideale  deve  anche  a  sua  volta  scaturire  dal  reale  e  venir spiegato  a  partire  da  esso » (30). Ma resta pur sempre il fatto che l'attività produttiva della natura, inconscia, viene caratterizzata a partire da quella conscia del soggetto, che l'affinità fra le due non può essere considerata filosoficamente che a partire da questa seconda; la differenza posta da Schelling fra fisica empirica, che ha sempre a che fare con i prodotti della natura naturata, e fisica speculativa, che si occupa del principio vitale della natura naturans, della sua dinamicità in quanto tale, spinge cosi inevitabilmente questa fisica speculativa fra le braccia della filosofia trascendentale, la quale di quella dinamicità  ha la chiave: la vita dell'Io e il suo moto come applicabili analogicamente alla natura. « Non siamo  dunque  noi  che conosciamo la  natura,  bensì  la  na­ tura  è  a  priori, cioè ogni singolo fenomeno in essa è determinato in anticipo dal tutto o dall'idea di una natura in generale » (31). Paradossalmente, proprio il fatto di aver posto la natura come idea a priori, mentre evita a Schelling la strada verso l'empirismo aborrito, apre però anche la via alle critiche di Hegel: la costruzione attraverso la polarità — o duplicità originaria — viene da Hegel rigettata

(28) Ivi, p. 144.

(29) Ibidem. Per un'analisi del rapporto fra la filosofia della natura di Schelling e quella dei romantici di Heidelberg, cfr. A. Baeumler,  Von  Winckel­ mann  zu  Bachofen,  1926, tr. it. a cura di G. Moretti in  Dal  simbolo  al  mito, Milano 1983, voi. I. (30) Schelling,  Sul  concetto  della  fisica  speculativa  e  sull'organizzazione interna di  un  sistema  di  questa  scienza,  1799, tr. it. in  Schelling, cit., p. 148. (31) Ivi, p. 154.

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perché  logicamente inutile e fuorviante, esteriore; e viene invece da questi portata allo scoperto la derivazione della vita dell'organismo come un tutto dalla vita della ragione, derivazione che in Schelling era ancora formalmente mascherata. Schelling aveva sfiorato la non riducibilità del reale a razionale in  un elemento preciso e fondamentale:  la  dialettica  degli  opposti. La tendenza trascendental-speculativa del suo sistema aveva tuttavia come neutralizzato questa scoperta, rivestendone i termini in sé esplosivi con un linguaggio familiare e rassicurante: soggetto, oggetto, identità, differenza. La necessità, dettata dal sistema, di ricondurre l'alternanza della vita ad una identità, avvicina e al contempo distanzia la posizione di Schelling da quella di Hegel; il senso di questa affermazione ci si chiarirà forse meglio prestando un'attenzione maggiore alle possibili posizioni della dialettica. Ci accostiamo così ad un altro dei motivi che dimostrano palesemente la grande profondità e attualità del pensiero di Schelling. Nella filosofia della natura egli distingue tre momenti, o termini, in quella che potremmo chiamare la dialettica del divenire naturale: 1) l'identità originaria. 2) la produttività al cui interno nasce l'opposizione. 3) l'indifferenza come risultato — sempre provvisorio — del «superamento» dell'opposizione (32). L'opposizione, i cui termini sono per Schelling legati  dall'alternanza, « non può venire abolita  in  modo  assoluto:  la  condizione  del  perdurare  del  terzo  termine (di quella terza attività, ossia della natura)  è  il  continuo  perdurare dell'opposizione,  allo  stesso  modo  che,  inversamente,  il  perdurare  del­ l'opposizione  è  condizionato  dal  perdurare del  terzo  termine. [...] L'opposizione [...]  è  infinita [...],  sì  che  possono  venire  prodotti  sem­ pre  soltanto  termini  mediatori  della  sintesi,  e  non  mai  la  sintesi ultima  e  assoluta, col che non si perviene mai all'assoluto punto di indifferenza, ma sempre solo a  punti  d'indifferenza relativi, ed ogni nuova indifferenza comporta una nuova opposizione non ancora abolita [...]» (33). La lunghezza della citazione ci verrà forse per-

(32) Ivi, p. 180.

(33) Ivi, pp. 181-2.

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donata nei momento in cui osserviamo che, posta la questione in tali termini, la visione dialettica del divenire del reale e, in  questo Schelling, del tutto antitetica a quella di Hegel, il quale, com'è noto, propone sì una dialettica come legge interna, ma come tensione alla sintesi definitiva, allo sguardo assoluto, al punto di vista ultimativo. Nell'immagine prospettata da Schelling, il movimento è scandito da una crescita incessante, la cui limitazione vera e propria accadrà solo e soltanto in sede trascendentale (o, meglio: nell'aspetto trascendentale della filosofia della natura). Ma anche Hegel, nonostante quanto detto sopra, porta alla luce un aspetto della dialettica che trapasserà ad uno degli ultimi grandi romantici, Bachofen: « per quel che riguarda il presentarsi della dialettica nel mondo spirituale — afferma Hegel — e più esattamente nel campo del diritto e dell'eticità, [...] l'estremo di una condizione o di un'azione suole rovesciarsi nel suo opposto [...]» (34). Filosofia della natura romantica (della quale passiamo ora brevemente ad occuparci), legge dell'alternanza e del rovesciamento degli opposti; esse saranno la linfa vitale del sistema di simbolica della storia tracciato da Bachofen (35). Come è stato giustamente notato, « il riconoscimento dell'autonomia della natura, se, da una parte, taglia le radici a ogni possibile declinazione antropocentrica o umanistico-astratta, dall'altra implica la rivendicazione di una scienza della natura, che non nasca per mera applicazione alla natura di arbitrarie ed estrinseche proposizioni speculative » (36). Anche i filosofi romantici "minori" giocarono un ruolo primario in questa prospettiva, e proprio perché essi, in grande maggioranza, si erano lasciati ben indietro l'interpretazione idealistica della natura. Questa circostanza potrebbe ave-

(34) G.W.F. Hegel,  Enciclopedia  delle  scienze  filosofiche  in  compendio (con aggiunte a cura di L. von Hemring, K.L. Michelet, L. Boumann), parte I, La  scienza  della  logica, tr. it. a cura di V. Verrà, Utet 1981, p. 252. (35) Ci sia concesso rinviare su questo tema al già citato  Dal  simbolo  al mito, voli. I e II, e al nostro  Heidelberg  romantica.  Studio  sui  rapporti  arte­ natura  e  poesia­mito­storia  nel  Preromanticismo  e  in  J.  Górres,  F.  Creuzer,  J.  e W.  Grimm,  J.].  Bachofen, Lanciano 1984. (36) G. Semerari,  La  filosofia  detta  natura..., cit., p. 31 (nota 46).

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re un peso non secondario nella determinazione del cercato rapporto fra tecnica e filosofia della natura. Un  profilo  della  « scuola  schellinghiana » Vorremmo iniziare con una breve ma a nostro avviso utile ricognizione delle personalità che, prendendo spunto espressamente dal sistema di filosofia della natura schellinghiano oppure confrontandovisi, hanno di fatto "orbitato" nella sfera degli influssi e delle indicazioni da Schelling partecipati. Di molti, indicheremo fra parentesi l'opera con la quale essi entrarono nel dibattito filosofico (spesso proprio di filosofia della natura) in corso nella loro epoca. Ast (1778-1841; filosofo. Pubblica nel 1805 un  Handbuch  der  Aesthe­ tik); Baader (1765-1841; segnaliamo lo scritto del 1808  iJber  die Analogie  des  Erkenntnis­  una  Zeugungstriebs); von Berger (17721833; astronomo, scrive una  Philosophische  Darstellung  der  Har­ monie  des  Weltalls, nel 1808); Blasche (1776-1832; pedagogo, pubblica nel 1819 nella rivista « Isis » un lavoro che analizza l'evoluzione della filosofia della natura a partire dal 1801); Gòrres (17761848; soprattutto  Gesetze  des  Lebens, 1802,  Aphorismen  iiber  die Organonomie, 1803,  Exposition  der  Physiologie, 1805); Burdach (1776-1847; medico, scrive  l'Eugon nel 1804); K.G. Carus (17891869; medico, pubblica nel 1851  Physis.  Zur  Geschichte  des  leibli­ chen  Lebens e nel 1846  Psycbe.  Zur  Entwicklungsgeschichte  der  See­ le); Eschenmayer (1770-1852; nel 1797 pubblica  Satze  aus  der  Na­ turmetaphysik  auf  chemische  una  medizinische  Gegenstànde  ange­ wendet, poi il noto  Die  Philosophie  in  ihrem  Ubergange  zur  Nicbt­ philosophie, nel 1803); Fries (1773-1843; filosofo e studioso della natura, pubblica nel 1803 un libro su Reinhold, Fichte e Schelling); G.M. Klein (1776-1820; filosofo, scrive nel 1805  Beitràge  zum Studium  der  Philosophie  als  Wissenschaft  des  Alls); Chr. Nees von Esenbeck (1776-1858; medico, pubblica una  Naturphilosophie nel 1841); Oken (1779-1851; medico,  Die  Zeugung nel 1805 e  Vber Licht  una  Wàrme nel 1809); Rixner (1766-1838; monaco benedet-

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tino, scrive nel 1805  Aphorismen  aus  der  Philosophie); Job. Adam Schmidt (1759-1809; medico, scrive nel 1806 un saggio  ~Qber  die spekulative  lenàenz  des  Erfahrenen in una rivista diretta da Markus e da Schelling); Gotth. von Schubert (1780-1860; medico, scrive nel 1808 l'importante  Ansichten  von  der  Nachtseite  der  Naturwissen­ schaft); Steffens (1773-1845; medico, recensisce gli scritti di Schelling nella rivista di fisica speculativa e scrive nel 1801  Beiirage  zur inneren  Naturgeschichte  der  Erde)\ Stutzmann (1777-1816; insegnante, scrive nel 1806 una  Philosophie  des  Universums e nel 1808 una Philosophie  der Geschicbte der Menscbbeit); Suabedissen (1773-1835; filosofo, dal 1815 al 1818 pubblica  Die  Betrachtung  des  Menschen); Troxler (1780-1866; medico, pubblica nel 1804  Versuche  in  der organischen  Physik e nel 1807-8 gli  Elemente  der  Biosophie); JJ. Wagner (1775-1841; filosofo,  Theorie  der  Wàrme  and  des  Lichts nel 1802,  Von  der  Natur  der  Dinge nel 1803); Werner (1798-1873; medico, scrive nel 1824  Der  Parallelismus  zwischen  Nafur  una  Cul­ tur,  ein  System  der  Natur­  und  Geistesphilosophie); Windischmann (1775-1839; medico, pubblica nel 1800  Uber  den  einzig  moglichen und  einzig  richtigen  Gesicbtspunkt  aller  Naturforschung, cui seguono nel 1805  Ideen  zur  Physik}­, Winckelmann (1780-1806; medico, scrive nel 1803 una  Einleitung  in  die  dynamische  Physialo  gie); e poi ancora J.W. Ritter (1776-1810), che in così intenso colloquio — non sempre peraltro "tranquillo" — fu con Schelling attraverso i suoi Beytràge  zur  nàheren  Kenntnis  des  Galvanismus,  2 voli., 1800-2; G.R. Treviranus (1776-1837), la cui  Biologìe  oder  Philosophie  der lebenden  Natur  fùr  Naturforscher  und  Aerzte pubblicata dal 1802 è un caposaldo della filosofia della natura romantica; infine perfino H.C. Oersted (1777-1851), che entra nel dibattito con le  Ideen  zu einer  neuen  Arcbitektonik  der  Naturtnetaphysik, del 1802. Questo lungo elenco di nomi e di opere ha un solo scopo: mostrare la grande rete di rapporti che era nata dalla scoperta schellinghiana della natura come forza vivente, e che si sviluppò variamente e in maniera molto complessa attraverso tutti quegli studiosi che, in ogni caso, non si accontentavano più delle spiegazioni della corrente newtoniana e tendevano invece a sviluppare gli aspetti di ma-

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trice leibniziana dei  Metaphysiscbe  Anjangsgrùnàe  der  Naturwissen­ schaft, l'opera con cui l'ultimo Kant. — forse "saltando" lo stesso Fichte — aprì le menti dei filosofi e pensatori del periodo che va dal 1790 al 1830 (oltre che, ovviamente, con la  Critica  del  giudi­ zio) (37). Karl Gustav Carus, che l'onda del tempo risparmiò più a lungo, ebbe come il compito simbolico di congiungere questa corrente spirituale a Ludwig Klages, chimico di formazione, che nasce nel 1872, tre anni dopo la morte dello stesso Carus (mentre Bachofen e Nietzsche erano ancora vivi). Una ricerca che volesse effettivamente andare al fondo della problematica che il romanticismo ha offerto al mondo occidentale, dovrebbe studiare quella miriade di interrelazioni che sussistono fra l'approccio romantico alla filosofia della natura intesa in senso amplissimo e lo studio romantico della filologia e della scienza dell'antichità in generale (ivi compresi i primi, ma essenziali, studi di religione comparata). Purtroppo ci si è invece quasi sempre limitati ai rapporti fra l'estetica romantica e l'idealismo, quasi passando sotto silenzio che l'idealismo ha certo degli indiscutibili rapporti con il romanticismo ma che, nella sua  essenza, gli si contrappone. In questa sede, non potremo che offrire un modesto contributo alla delineazione di un profilo "morfologico" sotteso alla filosofia della natura di alcuni esponenti della scuola schellinghiana. Le scoperte scientifiche con le quali si trovarono a confrontarsi i filosofi della natura della generazione successiva a Goethe (non bisogna infatti dimenticare che a Goethe più che ad ogni altro erano cari i temi di filosofia naturale), parlavano tutte contro l'impostazione meccanicistica dell'universo. Non è questo il luogo per dimostrare nei particolari questa affermazione, peraltro ormai pressoché scontata; filosoficamente, le tre personalità più importanti in questo am-

(37) Cfr. F. Moiso,  H.C.  Oersted  filosofo  della  natura  e  la  scoperta  del­ l'elettromagnetismo, in  Romanticismo,  esistenzialismo..., cit., pp. 96-119. Cfr. ancora il già citato articolo di V. Verta contenuto nello stesso volume, p. 136 nota 48, per il rapporto fra Schelling e i  Metapbysische  Anfangsgriinde di Kant.

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Tecnica  e  filosofia  della  natura

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bito (prima di Schelling) furono Herder, lo stesso Goethe e Kant (38). Schelling, lo abbiamo visto, fa emergere al meglio la legge della polarità e dell'alternanza, ma, provenendo spiritualmente da Kant e da Fichte, le pone accanto un "nuovo" tipo di sistema concettuale, in cui una intuizione intellettuale costruisce a priori la natura. Ciò lo porterà a considerare, nel sistema dell'identità, le singole manifestazioni naturali, individualmente viventi, come « differenze quantitative » di un'indifferenza assoluta in cui il reale è identico all'ideale. Quest'ambiguità intrinseca e però  necessaria al sistema di Schelling, apre la strada da un lato alla sintesi ultima di Hegel (grazie al nuovo concetto di dialettica e alla considerazione dell'identità di reale e razionale) e, dall'altro, ai filosofi della natura romantici. Questi ultimi, con le eccezioni del caso (ad esempio Baader e per molti aspetti anche Steffens), non hanno di fatto "tollerato" vicino alla filosofia della natura una filosofia trascendentale. Da ciò, la loro considerazione assolutamente  fisica dell'arte, della morale, dello stato (cosa che, ancora con le differenze del caso, era in parte condivisa dallo stesso Schelling e da F. Schlegel, nonché da A. Mùller). Ma c'è di più. Questa presa di distanze — presente molto più nei fatti che non nelle proposizioni di principio, questo va ribadito — dall'idealizzazione della filosofia della natura, deriva, nei filosofi della scuola schellinghiana (e particolarmente in Gorres), dalla considerazione della legge della polarità come una realtà  cosmica, e dalla "fisicizzazione" simbolica di tale legge.

(38) Cfr. C. Bernoulli,  Einleitung, in  Romanesche  Nalurphilosopbie, Jena 1926, pp. IV-V  « Herder ha il merito di aver insegnato nuovamente a considerare la natura come gigantesco  organismo  complessivo; [...]  Goethe, basandosi su Herder [...], in completo disaccordo con la concezione matematica della natura, che trascura le  qualità infinitamente diverse dei fenomeni per giungere alla determinazione di relazioni puramente  quantitative, non negò mai la sensibilità naturale e normale dei sensi. [...]  Kant infine, [...] nei suoi  Meta­ physischen  Anfangsgriìnden  der  Naturivissenschaften (1786), considera la materia non come un conglomerato di atomi separati, ma come sintetica unità di due forze che si contrappongono, la  repulsione e  l'attrazione. Nella  Critica  del giudizio (1790) poi, Kant dichiarò che le sostanze organiche dovevano essere da noi costrittivamente considerate come prodotti di tendenze finalistiche immanenti e che andavano viste come un qualcosa che si produce da se stesso ».

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Giampiero  Moretti

II primo punto, per quanto riguarda Gòrres, è esposto e sostenuto negli studi sulla mitologia e sulla simbolica antiche; la stessa religiosità presente nella vita simbolica della natura, viene ritrovata nella storia, secondo l'alternanza delle sue epoche, e viene infine intravista nella  vita dell'uomo stesso, soggetto sì capace di storia, ma solo in quanto partecipe della vita del simbolo. E vita del simbolo significava:  vita  della  natura  nell'uomo. L'uomo come parto della natura; la natura ed il cosmo agiti dalla polarità  non soggetto-oggetto ma: maschio-femmina, questo il segreto dei filosofi romantici della natura. Essi non "filosofavano" sulla natura, con la pretesa magari, così facendo, di "crearla": animati dalla stessa devozione religiosa che spinse i primi uomini a darsi delle immagini sacre o a riconoscere gli dei negli elementi, essi contemplavano la natura ed erano consci di scoprirne le leggi non perché le si contrapponevano ad un livello e con metodi superiori, ma perché  le  appartenevano. Il filosofo è  della natura: le appartiene. Con ciò, si è anche accennato brevemente alla "fisicizzazione" simbolica della legge della polarità; il ritmo della vita è lo stesso che scorre sia nella natura sia nell'uomo. Ma tale affermazione doveva portare a considerare lo spirito non come un'entità contrapposta semplicemente alla natura; lo spirito — anche se ciò non può che ricavarsi implicitamente dagli scritti dei filosofi romantici della natura — era visto come un  parto  della  natu­ ra. Lo spirito? La natura nell'uomo. La contrapposizione fra spirito e natura era così risolta  simbolicamente; la natura e lo spirito si contrappongono in una polarità incessante, ma la natura è  anche la madre dello spirito; così come la notte e il giorno si alternano, ma la notte resta pur sempre la madre del giorno. La dialettica degli opposti, quella dei romantici, è una dialettica della coappartenenza degli opposti stessi. Ma non così, che essi si coappartengono logicamente o in virtù di un qualche principio razionale, né così, che sia prevista una sintesi definitiva. Si tratta di una dialettica della differenza che può "arrestarsi" solo dinanzi all'unità simbolica degli opposti; il fondo, o l'abisso, di tale unità è il  sacro e può essere raggiunto solo dalla poesia o dal pensiero che si è arrischiato alle massime altezze della metafisica. Tale fondo non è nulla

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di mistico nel senso consueto del termine, non prevede la rinuncia al mondo, perché anzi esso, come  esperienza, vive ed ha bisogno del mondo e dei  sensi. La legge di tale dialettica è una lotta che, lungi dal trovare quiete, pervade tutto il cosmo;  è questo forse un aspetto della lotta che, come Heidegger ebbe a dire, l'opera d'arte pone "in luce". Una breve riflessione potrebbe forse facilitare la comprensione di quanto finora detto. Sia Schelling che Gorres, ad esempio, considerano (almeno in un periodo della loro speculazione) la natura del finito come esistente già in Dio, e, anche se con differenze qui non analÌ2zabili, Dio come il "tutto". Ma, mentre Schelling, costretto dal sistema, deve far derivare la nascita del finito mondano da una caduta o peccato, il Gorres degli anni di Heidelberg — quelli in cui si realizzava in lui la massima compenetrazione fra filosofia della natura e studi mitico-simbolici — è lontanissimo dal farlo: per lui la natura  è assolutamente  senza  colpa, casomai, il processo "negativo" e di caduta ha inizio con l'allontanamento dell'uomo (dello spirito) dalla natura, ossia con l'uscita dello spirito dalla polarità con la natura al fine di sottomettere a sé quest'ultima. Detto ciò, ci rendiamo peraltro conto che tutta la complessa questione del romanticismo andrebbe rivista e approfondita soprattutto a livello di  filosofia  della religione: da tale prospettiva potrebbero finalmente giungere dei nuovi lumi su questo passato recente e così fondamentale del nostro Occidente. Tutti i filosofi della natura romantici, inoltre, sono pressoché concordi nel tracciare un parallelismo più che esplicito fra  inconscio e  vita; accanto a questo, v'è la ben nota ripresa dell'antichissima idea microcosmo-macrocosmo. Le due relazioni si riducono ad una sola nel momento in cui osserviamo che la vita è propria del macrocosmo quanto l'inconscio lo è del microcosmo. « La filosofia della natura romantica è dunque una  simbolica  cosmica, essa vede cioè nei cosiddetti "dati di fatto" non delle cause di altri dati di fatto ma  segni del ritmo della inconscia vita universale. [...] Metafisica fu per i romantici  "biosofia", nel senso di una  fisiognomica  dell'universo» (39). (39) Ivi, p. XIX.

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Giampiero  Moretti

Che riflessi poteva avere un tale atteggiamento verso la natura, una volta trasportato sul piano dell'utilizzazione della natura stessa da parte dell'uomo? E' facilmente comprensibile. Ogni uso tecnico  fine a  se  stesso, cioè mirante al puro sfruttamento delle risorse e non producente che un arricchimento soltanto della parte umana (microcosmica) della polarità simbolica, non poteva che esser sentito come un sacrilegio ed un peccato di  hybris. Il mondo da, ma vuole anche indietro; vuole, ad esempio, che lo si aiuti a crescere, che l'uomo metta al suo servizio la propria natura (che è come dire: il proprio spirito). Considerazioni  finali.  Su  Heidegger,  Klages  e  la  « Kulturphilosopbie » Eravamo partiti prospettando la possibilità, all'interno di un percorso heideggeriano, di rinvenire un "pensiero della  physis"', dalle radici forse più antiche; abbiamo cercato, nella massima stringatezza possibile, di procurarci un terreno di indagine andando a vedere il ruolo svolto dalla filosofia della natura (specie nel suo rapporto con la dialettica) in Hegel, Schelling e nei romantici. Evidenti limiti di spazio ci consentono semplicemente un accenno a ciò che, per essere trattato a fondo, richiederebbe più di un volume. Non rinunceremo tuttavia ad indicare, quanto meno di passaggio, l'esistenza di una via interpretativa che, per quanto ancora tortuosa e inapparente, potrebbe un giorno condurre a dare almeno  una risposta alle molte domande che concernono l'intricatissimo rapporto di Heidegger con Hegel e la prospettiva — che rischia sempre di scadere a livello di banalità acritica — di una "radice romantica" del pensiero heideggeriano. Preliminari a tali questioni — che sono peraltro  fondamentali per chiunque voglia parlare di un "dopo Heidegger", essendo tale "dopo Heidegger" null'altro che il "dopo lo scontro Hegel-Heidegger" — restano le problematiche legate al ruolo del pensiero della  physis in Heidegger e alla frattura presente nella tradizione filosofica tedesca fra idealismo e romanticismo, frattura che ha il proprio corrispettivo teorico nella scelta di una dialettica della sin-

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tesi o degli opposti. Nella  Introduzione  alla  metafisica, Heidegger ci parla dell'esperienza originaria che i Greci ebbero della  physis; Heidegger, sospinto dall'idea della differenza ontologica, distingue nettamente i fenomeni naturali, e la loro osservazione, dall'esperienza della  physis come « schiudentesi imporsi », in cui « si trovano inclusi sia il "divenire" che P "essere" », e che si caratterizza come il « pro-dursi, il portarsi fuori dalla latenza, e il recare ciò che è latente in posizione » (40). Per il Greco delle origini, dice Heidegger, la  physis è sia « lo stesso essere, in forza del quale soltanto l'essente diventa osservabile e tale rimane », sia « l'essente come tale nella sua totalità » (41). A poco a poco, dunque, anche se quasi impercettibilmente, avviene « una limitazione dell'espressione  physis nel senso del "fisico" »; « il significato di  physis si restringe per contrapposizione a techne che, dal canto suo, non designa né l'arte né la tecnica, bensì un  sapere » (42). Ci troviamo così di colpo indirizzati, almeno parzialmente, verso una delle risposte che cercavamo: il senso del nascondimento e dell'oscuro nel moto della  aletheia, del disvelarsi della presenza, sembra corrispondere al carattere di autocelamento della physis. In altre parole, la  lethe come tale, nel suo continuo sottrarsi, il sottrarsi stesso dell'essere cioè, dimora là, dove si trova la  physis intesa come forza originaria che si schiude ma del pari si sottrae: « la  physis nel senso dello schiudersi la si può riscontrare dappertutto, per esempio nei fenomeni celesti (il levar del sole), nell'ondosità marina, nel crescere delle piante,  nett'uscire  dell'animale  e  dell'uomo dal  grembo  materno. Ma la  physis come schiudentesi imporsi non designa semplicemente quei fenomeni che usiamo ancor oggi attribuire alla "natura". Questo schiudersi, questo consistere in sé di fronte al resto, non può considerarsi un processo come gli altri che noi osserviamo nell'ambito dell'essente » (43).

(40) (41) (42) (43)

M. Ivi, Ivi, Ivi,

Heidegger,  Introduzione  alla  metafisica, cit, p. 26. rispettivamente p. 26 e p. 27. pp. 27-28. pp. 25-26. Sottolineatura nostra.

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Giampiero  Moretti

Se siamo rimasti il più vicino possibile alla precisa parola heideggeriana, è perché siamo probabilmente giunti al punto di svolta di queste brevi considerazioni. Chi abbia una minima dimestichezza con la speculazione e con il linguaggio che fu proprio dei romantici, o quanto meno ricordi le considerazioni fatte sopra a proposito della filosofia della natura di derivazione schellinghiana, avrà immediatamente compreso di trovarsi di fronte, con questi testi di Heidegger, ad una somiglianzà marcata e ad un'altrettanto marcata differenza dai testi romantici. Come i romantici, Heidegger sembra delineare una concezione in fin dei conti  discendente della storia, che è qui ovviamente la storia come destino dell'essere, nel suo allontanarsi dalla grande origine (« ogni grande cosa può avere solo un grande inizio »). Ma la distinzione, che è forse più forte della somiglianzà, sta in ciò: mentre i romantici operavano secondo la legge  dell'analogia, che essi applicavano indiscriminatamente ad ogni ambito della conoscenza umana, per Heidegger l'analogia non sembra aver più alcuna importanza. E' vero che poi lo stesso Heidegger, specie nella sua riflessione sui temi della poesia e del  Geviert, rimanda continuamente il lettore a delle "parabole naturali". Ma è la concezione di fondo ad essere radicalmente mutata. E al fondo non vi è che l'origine. Mentre allora per i romantici l'origine, che è poi la natura divinizzata, attraversata cioè dall'alito divino, è una  parousia, una presenza piena dell'essere che continua a vigere avvertita o inavvertita nella storia dell'uomo (quest'ultima vista peraltro come decadenza proprio perché segnata dall'allontanarsi dall'origine), per Heidegger l'origine  si  da solo  come  assenza. Il ritrarsi dell'essere lascia le epoche storiche a se stesse. Lo stesso essere "termina", con la fine della metafisica; un'altra origine potrebbe "darsi". In questo stato di cose, assolutamente sotteso a tutta la problematica heideggeriana e invece più scopertamente presente nella speculazione romantica, troviamo la ragione anche di altre particolarità: per Heidegger non ha più ragione di essere la corrispondenza microcosmo-macrocosmo, e ciò perché il "macrocosmo" non si da mai pienamente, ma sempre si sottrae nel darsi. Di conseguenza, la stessa considerazione della storia dell'essere non può che essere ambigua, basandosi sia sul "pieno" che "sull'abis-

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Tecnica  e  filosofia  detta  natura

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so"; da un lato essa è vista come la decadenza di una pienezza originaria, dall'altro essa è pienezza — ma proprio come ritrarsi! — in ogni suo attimo. Inoltre, Heidegger ci sembra tracciare un parallelo fra il ritrarsi dell'essere nel suo darsi, fra l'essenza abissale dell'essere cioè, e l'abisso che, nella  coscienza dell'uomo, si presenta come chiamata della cura. Tale parallelo, che ha di nuovo il sapore di un'analogia  sui  generis, si rispecchia nell'attenzione per la mortalità e nella conseguente apertura dell'io alla propria essenza di mortale (che è il non-soggetto per eccellenza); tale problematica è destinata a restare qui al livello di un mero accenno e necessiterebbe di una ricerca a parte per individuare relazioni e differenze fra l'esperienza della morte dei romantici e quella heideggeriana (è appena il caso di notare che quando parliamo di romantici non ci riferiamo tanto al circolo di Jena quanto a quello di Heidelberg). Ci sembra tuttavia importante sottolineare ancora un fatto. Heidegger si spinge a negare il vigere dell'analogia come la intesero i romantici  anche nell'epoca della pienezza dell'esperienza della  pbysis. « I Greci non hanno incominciato con l'apprendere dai fenomeni della natura che cosa sia la  physis, ma viceversa: è in base a una fondamentale esperienza poetico-pensante dell'essere che ad essi si è rivelato ciò che hanno dovuto chiamare  physis » (44). Avendo ascritto il carattere della sottrazione all'essenza stessa dell'essere, è chiaro che Heidegger non può  mai attribuire assolutamente all'essere una pienezza di presenza tale da giustificare qualcosa come l'analogia. E tuttavia: cosa può significare l'esperienza poetico-pensante dell'essere che i Greci ebbero, se non un'esperienza che si radica solo e unicamente all'interno di una precisa  coappartenenza dell'essenza dell'uomo all'essenza dell'essere? E non ha forse Heidegger stesso parlato incessantemente di coappartenenza? E non ha spesso Heidegger parlato di « sacro », vale a dire del legame stesso che i romantici individuarono fra macrocosmo e microcosmo, e che è alla base dell'analogia stessa? Non sarà forse la coappartenenza il nome per questa strana e inquie-

(44) Ivi, p. 26.

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Giampiero  Morelli

tante, quanto ancora impensata, relazione analogica che si apre all'abisso e ne scorge il fondo anziché poggiare sul "pieno" della rivelazione di un essere pensato come  parousia? Siamo in grado di accennare ad una risposta a questi interrogativi soltanto se prima chiediamo che cosa, a livello di esperienza del destino dell'essere in Occidente, è accaduto nella storia spirituale tedesca che intercorre fra — alPincirca — Carus (o Bachofen) e Heidegger. Intravediamo ancor meglio tale cenno se, accanto a Heidegger, poniamo una figura la cui destinazione spirituale ha esperito, di tale  Zwischenzeit, un lato completamente diverso, anche se formalmente "identico". Intendiamo Ludwig Klages. La  Zwischenzeit che separa Carus (o Bachofen),  nella  loro  op­ posizione  all'idealismo, da Heidegger e Klages, è segnata dalla potente presenza di Nietzsche. Allorché Heidegger, nel suo corso di lezioni tenute fra il 1929 e il 1930 (45), scelse alcune fra le "mode" filosofiche allora in voga per stigmatizzare la carica di eccessiva attualità che nascondeva a suo avviso l'eccitazione di cui i tempi erano preda, egli tentò anche un commento — poco più di una battuta in realtà — della contrapposizione fra  Geist e  Seele delineata da Klages. Heidegger, che si trovò spinto forse più da fattori esterni che non da esigenze di riflessione personali a prendere posizione su alcuni contemporanei "ingombranti", lo fece nonostante i seguenti fattori: la oggettiva difficoltà dell'epoca storica, un'irrequietudine che sembrava aver privato la Germania della possibilità di una riflessione seria sulla propria situazione (difficoltà ed irrequietudini cui indubbiamente non potevano che contribuire anche la diffusione di filosofie come quella di Klages, provenienti oltretutto da un ambito non strettamente accademico); la conoscenza probabilmente non approfondita delle  sole due prime parti del  Geist  als  Widersacher  der  Seele,

(45) Lezioni pubblicate nella  Gesamtausgabe con il titolo  Grundbegriffe der  Metaphysik, Frankfurt 1983, pp. 103-107  (Vier  Deutungen  unserer  beuti­ gen  Lage:  der  Gegensatz  von  Leben  (Seele)  una  Geist  bei  Oswald  Spengler, Ludwig  Klages,  Max  Scheler,  Leopold  Ziegler).

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Tecnica  e  filosofia  della  natura

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uscite proprio in quel 1929 (46). Resta tuttavia il fatto che Heidegger non comprese che dietro il termine  Geist, in Klages, si nascondeva in realtà un'interpretazione ben precisa del concetto di volontà in tutto l'Occidente metafisico e non un mero attacco alla ragione o all'intelletto, e che, con  Seele, Klages non intendeva affatto una dimensione interna, "psichica", contrapposta ad un esterno dominato dalla tecnica, ma una vera e propria essenza simbolica dell'uomo nella sua coappartenenza originaria al mondo. Tali particolari non sono semplicemente esteriori, segnano invece l'effettiva distanza e differenza da  quell'eredità della quale invece Klages era l'ultimo, imperfetto quanto si voglia, ma esplicito portatore:  l'eredità  antiidedistica della  filosofia  della  natura  romantica. Una cosa comunque Heidegger percepisce fino in fondo già in queste sue battute contro Klages: e cioè che la filosofia di quest'ultimo « è essenzialmente determinata da  Bachofen e  Nietzsche »  (47),  e che addirittura tutta la contrapposizione fra anima e spirito va ricondotta, almeno in prima istanza, all'interpretazione della contrapposizione di apollineo e dionisiaco di Nietzsche (48). In questo preciso punto inizia, che ne siamo consapevoli o meno, la  Auseinandersetzung di Heidegger non solo con Nietzsche  e. con tutta l'eredità romantica in questi presente, ma anche con le interpretazioni che di Nietzsche e di quell'eredità erano state date dal George-Kreis, da Spengler, da Klages,  e che sarebbero state poi date da Bàumler e seguaci. E' chiaro che non è questo il luogo per discutere appieno la dimensione e la centralità dell'interpretazione heideggeriana di Nietzsche in relazione alla sviluppo di pensiero del "secondo" Heidegger. E' comunque fuor di dubbio che essa sia stata fondamentale, a dire di tutti gli studiosi, e che rivesta un ruolo primario proprio anche in rapporto ai problemi che qui abbiamo cercato di trattare. Il quadro sarà forse più completo nel momento in cui verranno pubblicate le lezioni heideggeriane relative al semestre estivo del 1929 (46) Come si evince dalla nota 2 a p. 105. (47) Ivi, p. 105. (48) Ivi, p. 107.

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Giam'pierò  Moretti

— immediatamente precedenti cioè a quelle cui qui abbiamo fatto riferimento —, dedicate all'idealismo tedesco (Fichte, Hegel, Schelling)  e  alla  philosophische  Problemlage  der  Gegenwart. Ci era qui sufficiente portare l'attenzione sulle considerazioni esposte, le quali rivestono un carattere per molti versi iniziale. Il problema dell'essenza della grecita, dell'arte e della tecnica, comincia a palesarsi a Heidegger, almeno così sembra,  anche da questo confronto con Klages e con la sua interpretazione di Nietzsche. Heidegger afferma recisamente che l'interpretazione di Klages, assieme a quella di Spengler, di Scheler e di Ziegler, erra mancando l'essenza della filosofia di Nietzsche, e poggiando invece su di una sorta di « volgare e metafisicamente molto problematica "psicologia" » (49). Ma Heidegger rimanda al contempo agli anni immediatamente successivi un'analisi approfondita del pensiero nietzscheano (analisi che andrà quasi di pari passo, non bisogna dimenticarlo, con l'interpretazione del detto poetico di Holderlin, il poeta della grande madre natura) e riconduce la questione della  Kulturphilosophie nel suo complesso ad un approfondimento in chiave ontologico-esistenziale del fenomeno della « noia » come nascosta determinazione fondamentale della situazione a lui contemporanea (50). E', a questo punto, in sede di conclusione, quanto meno lecito chiedersi se la definizione di "psicologia" data da Heidegger alla filosofia di Klages non possa rivelarsi quanto meno tiduttiva in considerazione di quanto detto sopra a proposito del significato di  Sede, sempre in Klages (51). Checché sia di ciò, un fatto ci sembra comun(49) Ivi, p. 111. (50) Ivi, pp. Ili e sgg. (51) Per un'analisi del « concetto » di anima e del suo significato in relazione alla storia della metafisica, cfr. di Carlo Sini,  Passare  il  segno, Milano 1981 e  Kinesis.  Saggio  di  interpretazione, Milano 1982. Per gli ultimi sviluppi della problematica del pensiero heideggeriano in Italia, cfr. Gianni Vattimo, Dialettica,  differenza,  pensiero  debole, contenuto in  II  pensiero  debole, Milano 1983; soprattutto l'idea di un rapporto fra pensiero della differenza e dialettica ci sembra importante, ammesso però che si tratti della dialettica degli opposti romantica e non di quella della sintesi hegeliana. Per un approccio originale ad alcuni temi fondamentali del pensiero heideggeriano sulla tecnica, cfr. M. Cacciari,  Salvezza  che  cade.  Saggio  sulla  questione  detta  tecnica  in

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Tecnica  e  filosofia  della  natura

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que certo. Esistono dei tratti straordinariamente simili nelle impostazioni di pensiero di Heidegger (dopo la conferenza sulla verità) e di Klages; ne enumeriamo solo i principali: la polemica contro l'umanismo, la "svalutazione" del platonismo e l'opposizione all'idealismo hegeliano, la critica molto dura a Schopenhauer, la ricerca di una dimensione di esperienza dell'arte oltre e fuori l'estetica, la grande ammirazione per il dire poetico (di Hòlderlin, in particolare), la critica — anche se a livelli diversi — al mondo della tecnica, l'interpretazione della volontà di potenza di Nietzsche come « volontà di volontà »; questi punti di "contatto" sono destinati a rimanere semplici curiosità nella storia del pensiero se non vengono pensati a partire da quella grande  differenza, fra i due, che segna al contempo la loro vicinanza e,  soprattutto, la loro  lontananza. La differenza è situata nell'interpretazione di Nietzsche. Per Heidegger, Nietzsche ha il significato dell'annuncio della "fine" della metafisica e del venire a giorno pieno del nichilismo; in tal senso, l'eredità romantica che il pensiero nietzscheano portava automaticamente con sé viene come decapitata del suo punto di partenza, il vigere dell'origine come  parousia e della natura come presenza simbolica di quell'origine nella storia. Per Klages, invece, Nietzsche significò la critica radicale al cristianesimo come sviamento e lotta all'orginaria esperienza dell'umanità; da qui la posizione esplicitamente anticristiana di Klages. Ma, è chiaro, Klages non sembra aver avuto alcun sentore, se non come  decadenza, dell'annuncio  nichilistico di Nietzsche, quell'annuncio per cui, invece, Heidegger trovò una conferma del  nulla  del  Da­ sein nel nulla della storia dell'essere. A partire da queste considerazioni potrà finalmente essere trovato un approccio che non fraintenda le molte espressioni "naturalistiche" di Heidegger, quelle che spesso lo fanno passare per un nostalgico delle condizioni contadine, e che dia invece una dimensione congeniale al termine coappartenenza  (Zusammengehorigkeit), che ha in . M.  Heidegger, in « II Camauro », n. 6, 1982, pp. 70-101. Ma vedi anche di E. Mazzarella:  Esistenza  storica  e  virtù  detta  terra:  uomo  e  natura  in  Karl  Lowith e  Martin  Heidegger, in  Nietzsche  e  la  storia, Napoli 1983, pp. 149-167.

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Giampiefo  Moretti

sé tanto del sentimento del destino e della dialettica degli opposti di stampo romantico; si tratta di tratti romantici "privati" della loro essenza "forte", della presenza dell'origine cioè. La questione della tecnica, dunque, potrebbe essere riproposta a partire dal senso di una "fisica" come al di qua della "metafisica" e, proprio per questo, in grado paradossalmente di rinnovare un'esperienza del sacro non come pienezza ma come assenza; esperienza che potrebbe sempre riscontrarsi nella vita dell'arte. Heidegger è diventato un interprete dell'epoca della fine della metafisica, Klages un negatore del presente; la differenza di livello e di statura teoretica fra i due sta tutta in questa diversità di dimensione. E' comunque altrettanto certo che la loro — momentanea quanto si vuole, purtuttavia esistente — vicinanza va probabilmente situata nell'accostamento a Nietzsche e all'eredità che questi portava con sé: l'antiidealismo — inteso come antihegelismo — romantico che segna il trapasso dall'epoca dei lumi, conclusasi appunto con il "solare" Hegel, a quella dell'oscuro, della quale Heidegger rappresenta la stazione di un cammino la cui prosecuzione ci è del tutto ignota.

Postilla.  Ancora  su  tecnica­natura Una delle difficoltà principali nell'approccio al pensiero di Schelling, di Heidegger e in genere di tutti i filosofi che hanno "inserito" anche il "negativo" fra i tratti propri dell'essenza dell'essere (o di Dio) è costituita dal problema della fondazione di una possibile morale. L'ambito della discussione è chiaro e lo semplifichiamo ulteriormente: se già nell'essere stesso è  presente il male, in base a cosa l'uomo potrà distinguerlo dal bene nel proprio agire nella storia, o riconoscerlo nei segni del destino? Ora, anche se di passaggio, converrà notare che tale problema viene sciolto nell'idea di "ordine della natura" o "fato" solo fintantoché la tecnica come prò-vocazione resta assolutamente subordinata alla tecnica come evocazione sacrale dell'essente a manifestarsi. Un esempio chiarirà meglio sia il senso

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Tecnica  e  filosofia  della  natura

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di questa affermazione, sia il senso e il luogo in cui il "passaggio" dall'un modo della tecnica all'altro viene a giorno (non però: nasce!) in maniera eclatante. Già sul finire del Settecento, dopo il superamento delle dottrine fisiocratiche, compaiono e prendono sempre più forza alcune dottrine economiche che usano spessissimo l'aggettivo "naturale" per indicare i rapporti di forza economici esistenti nel mercato fra offerta di mano d'opera, richiesta etc., per indicare insomma la "naturalità" del processo produttivo capitalistico nel suo complesso e allontanare così come "innaturali" (vale a dire non richieste perché ingiustificate) le pretese di chi voleva che lo stato intervenisse a migliorare e rendere più umano il quadro del capitalismo avanzato nascente. In realtà, e proprio con tale esempio, noi possiamo constatare due fatti: il primo, secondo cui l'invocazione della "naturalità" del processo capitalistico di cui sopra si rivela ingenuo (ma quanto poi?) dato che si riferisce ad una "natura" ormai colpita al cuore da una tecnica per la quale non vige già più 1* "ordine delle cose" della vecchia  physis, che anzi è quel che prima si considerava hybris a esser divenuto la regola. Il secondo fatto, altrettanto significativo anche se meno appariscente,  è la  necessità — non semplicemente psicologica ma indicante un mutamento nell'essere stesso dell'uomo — di dover conservare il termine "naturale" (cioè dettato da leggi superiori all'uomo, mentre in realtà è ormai l'uomo a dettare  la legge) per caratterizzare il rapporto dell'uomo stesso con il proprio mondo ambiente. Anche tale ambiguità — ma non è che un esempio fra i molti possibili — può forse offrire materia alla riflessione.

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IL MONDO DELLA RAGIONE NON È LA RAGIONE DEL MONDO

1. 

EQUI LIBRE  —  ET­QUI­LIBRE?

Dopo dieci anni dalla conferenza tenuta presso la sede dell'Unesco a Parigi su « Scienza, etica ed estetica », siamo ancora al punto che nel 1939 indicava Ortega y Gasset nella sua  Meditazione  sulla  tec­ nica:  « Uno dei temi che nei prossimi anni si dibatterà con più vigore è quello che investe il senso, i vantaggi, i danni e i limiti della tecnica » (1). Alla fine di questa Meditazione, Ortega offriva una serie di dati sulla vastità dello sviluppo tecnico degli ultimi tempi, con questa postilla: « Non rispondo dell'esattezza di queste citazioni. I "tecnocrati" da cui provengono sono demagoghi, dunque gente ignara dell'esattezza, poco scrupolosa e precipitosa. Ma per quanto questo quadro di dati sia caricaturale ed esagerato, non fa che rendere manifesto un fondo veritiero e indiscutibile: le possibilità quasi illimitate della tecnica materiale contemporanea. Però la vita umana non è soltanto lotta con la materia, ma anche lotta dell'uomo con la sua anima. Che quadro di dati l'Euramerica può opporre a questo come repertorio di tecniche dell'anima? In questo campo non è stata assai superiore la profonda Asia? » (2). Oggi, dopo tanti anni, i dati che Ortega portava per rendere palese la potenza della tecnica euroamericana appaiono inezie rispet-

*  Gli  autori  dedicano  lo  scritto  a  Maria  Zambrano  e  Alfons  Roig. (1) José Ortega y Gasset,  Obras  completa*, Alianza editorial - Revista de Occidente, Madrid, 1983, p. 318. (2) Ib. p. 375.

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José  Monter  ­  José  Vìàd

to a quelli che si potrebbero indicare in questo momento, e, soprattutto alle « illimitate possibilità » che nemmeno si possono prevedere. Oggi, più che allora, ciò che risalta sono « le possibilità  quasi illimitate...». C'è la diffusa consapevolezza che questo « quasi » non sia che questione di tempo; e il tempo sarà breve. La fede — poiché di fede si tratta — nella capacità della tecnica di progredire risolvendo tutti i problemi che si presentano è pressocché « cieca ». O meglio, accecata dall'evidenza con cui la tecnica si presenta. E' solo questione di demagogia? Partendo da questa situazione non è possibile gettare che un'occhiata mezzo indulgente mezzo canzonatoria sulle « tecniche dell'anima ». Chi per affinità alle « tecniche dell'anima » o ai « saperi indisciplinati » non resta abbagliato dall'onnipotenza con cui la tecnica si presenta, sente una certa vergogna, che non cessa d'essere inquietante. E' la stessa vergogna di chi, trovandosi senza saperlo nella strada che cerca, domanda come vi si arrivi. Opporsi  all'evidenza della bontà della tecnica, della sua utilità o, come si suole argomentare generalmente, della sua neutralità — si dice infatti che la tecnica è un mezzo neutro, la cui validità, bontà/malvagità, dipende dall'uso che se ne fa — comporta cadere in una sorta di anatema. Non è necessario opporsi: basta semplicemente mettere in discussione  Vevi­ denza, pretesa o tacitamente concessa. Il dibattito che Ortega annunciava sembra che, oggi come oggi, non possa muoversi altro che dall'acccttazione dell''evidenza indiscutibile. Già allora Ortega descriveva così la situazione: « L'uomo di oggi — e non mi riferisco all'individuo, ma alla totalità degli uomini — non può scegliere tra vivere nella natura o beneficiare di questa sovranatura creata dalla tecnica: sta già irrimediabilmente ascritto e collocato nella seconda, come l'uomo primitivo nel suo contorno naturale » (3). Questo per Ortega è un pericolo, perché significa che si prendono le cose seconde o sovrannaturali come naturali ed evidenti, come « ovvie »; cioè si presentano come « di per sé », come irrefutabili

(3) Ib. p. 368.

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Il mondo della ragione

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e incancellabili, « fuori discussione ». E considerarle indiscutibili significa accettarle come « ab-solute », significa accettarle come qualcosa che non necessita di un « particolare sostentamento », poiché si sostiene da  sé per i risultati che presenta. Dicevamo, dunque, che non già Popporsi, ma mettere in discussione tale evidenza significa cadere in anatema: ciò per noi non è raro. Nuotare controcorrente, dissentire, emarginarsi... in poche parole mostrare la differenza (hetero-doxia), non è soltanto difficile, ma addirittura pericoloso. Soprattutto se, come d'abitudine, l'evidenza è sostenuta da qualsivoglia tipo di potere. Sono necessari coraggio, abilità, onestà, per fare, come Kant, una dissidenza intcriore. Per prendere coscienza dei limiti del proprio strumento e non proporlo come ab-soluto. Quando Kant pubblicò nel 1793 il suo Die Religion  inner­ halb  der  Grenzen  der  blossen  Vernunft, non fece solamente una critica della religione dal punto di vista della ragione, ma, come già nel titolo, proclamava che la stessa ragione che si costituiva come tribunale o giudice aveva i suoi limiti. Risulta quanto meno curioso vedere il razionalista Kant porre dei limiti alla stessa ragione. E non poteva essere diversamente per chi, come disse Adorno, era cosciente che la ragione, pur con la sua perfezione, non arriva a comprendere tutto ciò che « è ». La realtà è « più » di quanto la ragione stessa arrivi a comprendere. Ciò di cui si tratta è questo: quello che si presenta con  l'evi­ denza de « l'esser-così », di ciò che è così e non altrimenti non solo « può/potrebbe » essere altrimenti, ma « di per sé » è già altrimenti (Anders-Sein). Cioè, si tratta di riconoscere le frontiere, la differenza. Non pretendiamo analizzare in concreto i limiti della tecnica, ma solo lasciare la prova di come la tecnica non sia « ovvia ». E precisamente per questo la tecnica è costretta a dar ragione di sé, a render conto. O, se si preferisce, è costretta a un « particolare sostentamento », non potendo nascondersi dietro il « progresso viziato » che porta, non così buono come vorrebbe apparire. In generale l'uomo resta abbagliato (e perciò accecato) dalle novità che gli si offrono e, molto meno, dalla promessa di un'immediata felicità. Da quando, per lo meno in Occidente, si è saccheggiato il mon-

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José  Monter  ­  José  Vìdal

do con la convinzione che la natura « è lì per l'uomo » e ogni attività è retta dalla sottomissione della natura  (Dominio), si è perso il senso della « differenza ». « L'altro » deve sottomettersi all'io e alla sua logica di autoconservazione (Selbst-erhaltung) (4). La sottomissione di tutto alla logica dell'autoconservazione, in definitiva alla logica  dell'identità, si è convertita nella meta e nella guida, nell'unico valido e consistente « ovvio ». Tutto perde la propria consistenza, la propria differenza, la propria qualità di fronte aU'omogenizzazione indispensabile per la sopravvivenza. E' il regno della ripetizione dello stesso (la logica) che si proietta nell'altro, che è visto non nella sua differenza e proprietà, ma nella sua possibilità di entrare nelle categorie astratte e generali. Nell'altro si vede solo ciò che si pone/proietta. E questa è l'unica maniera che la logica dell'autoconservazione ( = dominio = identità) ha di mantenersi e proporsi come indiscutibile, evidente e « ovvia ». Ciò che è evidente si costituisce inoltre come « orto-doxia »: ultima istanza che non è obbligata a render conto a nessuno e perciò non sopporta la presenza di nessun « eterodosso ». L'eterodosso suppone, secondo l'ortodosso, che ci sia qualcosa d'esterno, d'altro, fuori dall'ambito delimitato del « così e non altrimenti » (5). Questo « fuori » non ha solo un senso spaziale, non è solo lo straniero che con i suoi usi e costumi mette in discussione l'evidenza del «so-sein»; ha anche un senso ideologico: straniero è tutto ciò che, sebbene resti nell'ambito delimitato, in qualche modo ha già oltrepassato i limiti, per il mero fatto di averli riconosciuti. E così si costituisce come « differènte », come rappresentante della differenza. E questa, in quanto delimita, de-finisce e rende manifesti e con-fini, costringe l'ortodossia a rendere conto delle sue pretese. L'apologetica o è giustificazione di fronte ad altro, o è giustificazione di fronte a se stessa, quando non si

(4)  Ci. Karl Lowith, Das Verhangnis des Fortschritts, in: Kuhn - Wiedmann (Hrsg.),  Die  Philosophie  una  àie  Frage  nach  àem  Fortschritt, Munchen, 1964, pp. 28-29. Vedere anche: M. Horkheimer e T. Adorno,  Dìalektìk  der  Aufklà­ rung, Frankfurth 1981, p. 46 ss. (5) Cf. J.L.L. Aranguren,  Sabre  intagen,  identidad  y  helerodoxia, Madrid, 1981, pp. 127-137.

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Il  mondo  della  ragione

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è inconsciamente immersi nell'evidenza. L'apologetica nasce dai confini. L'ortodossia tende a convertirsi nell'unica patria. Ma appena l'uomo si adagia in essa, percepisce che non scompaiono la sua inquietudine di viandante, la sua nostalgia, la sua ansia, ciò che in tedesco si definisce « Heim-weh », dolore di non essere a casa propria. Novalis ha definito la filosofia come « Heim-weh », intendendola come ricerca di una patria nella quale l'uomo non si ritrova mai (6). Alcuni anni fa, a Darmstadt, Ortega e Heidegger discutevano sulla presenza di resti umani in ogni parte del mondo. Non si trovarono d'accordo nell'interpretazione del fatto: era perché l'uomo aveva popolate il mondo considerandolo come la sua casa e la sua patria, o perché l'uomo aveva percorso il mondo intero alla ricerca di una patria che non incontrò mai? Certamente bisogna tener presente le ragioni economiche, o tecniche delle continue migrazioni umane. Sarebbe lecito domandarsi, nonostante ciò, cosa spinga l'essere umano a partire alla ricerca del nuovo, dell'altro. Semplice curiosità? Bisogno? Disagio? Nostalgia? Quando l'uomo dimentica le sue radici nomadi e si installa come sedentario, soffre di questo oblio. L'uomo non può sfuggire alla ten: sione tra sedentarismo e nomadismo, tra piazzarsi e continuare il cammino. In una situazione sedentaria come la nostra — il mondo oggi non è che un « villaggio globale » — possono rivelarci il carattere nomade, e dunque la patria, soltanto i « veri barbari », « cioè gli esclusi, gli sfruttati, tutti quelli che proprio per la condizione di totale subumanità a cui sono ridotti, possono davvero essere quella razza di uomini che viene  da  fuori e spazza via le strutture del mondo vecchio » (7). Gli esempi di questi « veri barbari » sono innumerevoli nel nostro tempo per chi abbia ancora un olfatto non atrofizzato dal sistema-ortodossia. Dobbiamo mantenere viva la memoria degli esiliati della nostra guerra del '39, degli emigrati che, mano d'opera a poco prezzo, ricostruirono in parte l'Europa del dopoguerra... Certo) Cf. Horkheimer - Adorno, op. cit. p. 97. (7) Gianni Vattimo, //  soggetto  e  la  maschera, Milano, 1979, p. 374. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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José  Moitter  ­  José  Vidd

tamente tutto ciò non ha nulla a che fate con l'attuale nomadismo: il turismo programmato (8). Barbari erano quelli che vivevano fuori dai confini dell'Impero romano, come barbari sono quelli che vivono fuori dal limite. Fuori dal limite si può stare perché si è cacciati da coloro che de-finiscono l'ordine e il sistema di vita: pensiamo alle streghe, agli eretici, agli esiliati, ai deportati... Fuori dal limite si può stare anche quando non ci si riconosce nell'ordine e da esso si evade: pensiamo ai ricercatori di nuovi mondi, ai contrabbandieri, ai dissidenti... La trasgressione suppone conoscere e presagire ciò che c'è o non c'è al di qua e oltre il limite. E' il caso del corsaro Pasolini. La trasgressione rende palese la non evidenza di ciò che si pretende esser tale, poiché apporta qualcosa di più, di « altro », rispetto a ciò che « c'è » o si da come definitivo. Si dice che gli artisti sono i nomadi della società sedentaria. Sicuramente lo sono perché, come ha scritto Blanchot, « Ecrire commence seulement quand écrire est Papproche de ce point où rien ne se révele, où au sein de la dissimulation, parler n'est encore que l'ombre de la parole, langage qui n'est encore que son image, langage imaginaire et langage de l'imaginaire, celui que personne ne parie, murmurc de l'incessant et de Pinterminable auquel il faut imposer  silence, si l'on veut, enfin, se faire entendre » (9). Quello che Blanchot dice per la scrittura vale per ogni arte, poiché egli stesso parla delle sculture di Giacometti. Imporre il silenzio, far tacere ciò che si presenta come interminabile ripetizione, mormorio o ronzio ortodosso. Ciò che è normale non è il silenzio ma la voce incessante e ininterrotta, che con la sua modulazione pretende assicurare l'evidenza, quando ciò che realmente è evidente è il silenzio. Octavio Paz, commentando la tradizione dell'Haiku, forma poetica giapponese, rivendica « quella parte  non  detta del poema dove si trova realmente la poesia» (10). (8) A proposito dell'esilio spagnolo si veda: Vincente Lloréns,  El  exilio espanol  de  1939, Madrid, 1976. (9) M. Blanchot,  L'espace  littéraire, Parigi, 1982, p. 48. (10) Octavio Paz,  Los  signos  en  rotadón  y  otros  ensayos, Madrid, 1983, p. 240.

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Il  mondo  della  ragione

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Cristina Peri Rossi scriveva non molto tempo fa che « forse l'unica patria vera è la lingua ». Ma quando l'uomo, vittima del simbolismo del  suo linguaggio, è dominato e condizionato da esso, ciò non è vero. Già è curioso che le patrie non sempre siano accompagnate dalle lingue. Le lingue, a volte, dissimulano il silenzio: unicamente la poesia da luogo, come la musica, al silenzio; comporta i suoi silenzi e, con questi, il silenzio. Lo stesso Ortega diceva che la parola è un sacramento che è molto difficile amministrare. Il nomade deve fare i conti con i suoi silenzi e così, con la sua lingua differente, mostra il limite degli idiomi: il silenzio. Il silenzio che non è il nulla ma qualcos'altro. Il silenzio che apre la possibilità della simpatia invece del dominio. L'Occidente si è installato nella sovranaturalezza tecnologica e l'ha presa come salvezza di tutti i mali, come qualcosa di evidente, d'irresistibile, di « ovvio ».  La  ragione  tecnologica, o il logos della tecnologia, è diventata l'ortodossia del presente. Evidente, illimitata, ab-soluta, non sopporta che gli venga richiesta ragione di se stessa: « è » e perciò non ammette discussioni. Proprio l'aspetto più rappresentativo di ciò che la tecnica pretese alle sue origini, l'ozio, la liberazione dalla fatica, che conducono all'arte, al mito, alla mistica — epifanie del silenzio — è considerato dalla ragione tecnologica « ozioso », eterodossia da evitare e da tacere, in-utile. Di fronte alle promesse dell'attuale orto-doxia, come di ogni ortodossia, appaiono le parole di Ortega quando diceva: « L'uomo attuale non sa che essere, gli manca immaginazione per inventare l'argomento della sua propria vita. Perché? Ah!, ciò non compete a questo scritto. Solo ci chiediamo: cosa, nell'uomo, o che tipi di uomini sono gli specialisti del programma vitale? Il poeta, il filosofo, il fondatore di una religione, il politico, colui che scopre dei valori? Non scegliamo; ci basta avvertire che il tecnico li suppone e che ciò spiega una differenza di rango che c'è sempre stata e contro la quale è vano protestare» (11). A quanto diceva Ortega si può solo agghin-

di) Op. cit. pp. 344-345. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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J°sé  Monter  ­  José  Vidal

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gere che non si tratta di decidere se sia vano o meno protestare: la tecnologia non protesta più contro certe pretese di precedenza. La ragione tecnologica ignora semplicemente questa precedenza assoluta, così come si instaura. E se queste occupazioni, chiamiamole così, persistono è perché la ragione tecnologica conosce il suo potere di farle passare inosservate. E soprattutto persistono perché lo spirito umano, nonostante l'imperialismo, è ancora vivo. Da oltre i limiti, dalla parte dei barbari eterodossi, nomadi, « non possiamo — né probabilmente dobbiamo — aspirare a  vincere. Consoliamoci della nostra impotenza pensando che "oportet haereses esse". Siamo necessari, quanto meno, per evitare il peggio» (12). Dal dominio si passa alla simpatia.

2. 

IL  MARE  E  IL  LEGNO Al principio fu il mare e dopo venne il legno utilissimo in tutte le sue metamorfosi utilissimo tanto... che ci divenne imprenscindibile tanto... che ci fece credere stregati che non potevamo camminare sulle acque Giona Ulisse Prometeo Giobbe Gesucristo Pietro Un gioco di identificazioni per chi non crede nell'identità. Beato!

(12)

J.L.L. Aranguren, op. cit., p. 141.

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Il'mondo  della  ragióne

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Ulisse Dicono che ci avviciniamo all'era dell'acquario. Forse questo ci porterà a riconsiderare il nostro rapporto con il mare. Nell'età antica il mare non perse mai il suo carattere minaccioso. Per l'uomo mediterraneo le rotte del mare erano qualcosa di più che una necessità, nonostante i pericoli che vi incombevano. L'astuzia per fronteggiarli fu elevata a qualità suprema nella persona dell'errante Ulisse. Il mare era la vita per l'uomo mediterraneo; le sue minacce non potevano essere che una sfida per l'intelligenza umana. C'è un momento significativo per antonomasia. Ulisse riesce a evitare l'isola delle sirene prima di entrare nello stretto di Scilla e Cariddi. Non ci interessa che il mito esprima la realtà fisica di una corrente marina tempestosa e pericolosa. Ulisse voleva ascoltare il canto delle sirene senza soccombere stregato. Conosceva la sua attrazione irresistibile. Ma voleva comunque continuare il suo viaggio. Sembra che seguì i consigli di Circe, maga che trasformava gli uomini in animali, dai cui artifizi Ulisse si salvò con l'aiuto di Kermes. Circe ed Ulisse divennero amici. Ulisse apprese molto da Circe. Ulisse ascolterà il canto delle sirene, ma senza governare la barca: i rematori con le orecchie tappate di cera, non udirono i canti né i suoi ordini quando gridando ordinò che lo sciogliessero dall'albero a cui si era fatto legare per non seguire l'incanto di quelle voci. Nulla ci  è detto di quello che Ulisse raccontò ai suoi rematori. Anche vinto il mistero continua ad essere intrasferibile. Le sirene sconfitte, realmente furono private del loro canto? Non continuiamo forse a parlare di loro? (13) Ulisse raggiunse il suo scopo. Mise in marcia un meccanismo che gli permise di continuare la sua rotta fino ad Itaca. Il meccanismo è perfetto: ottiene di portare a termine l'obiettivo prefissato. Ma a che prezzo? Al prezzo di creare uno iato, una tensione tra il deside-

(13) Sul silenzio delle sirene si veda: Franz Kafka,  Tutti  i  racconti, Milano, 1983, voi. II, pp. 152-153.

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José Monter - José Vidd

rio risvegliato dal canto e la realizzazione di questo desiderio. Certo così si esaudisce un altro desiderio, passare a largo. E a prezzo di restare legato all'albero della nave, di restare legato al meccanismo che lo porta avanti. Non dimentichiamo che questo stesso meccanismo non è costituito solo da oggetti: comprende anche uomini. I rematori fanno parte di questo meccanismo. Ancora oggi? Giona Giona è il fuggitivo dalla trascendenza. Non vuole sentir parlare di missioni, di profeti, di vocazioni, non vuole moralizzare né condannare, non vuole salvare niente e nessuno. Per questo sale sulla barca — meccanismo e salvagente — che lo porti per mari, oceani, abissi. Non si tratta di nessuna rischiosa danza sull'abisso, come quella idi Nietzsche con la sua vita. Sulla barca si abita sicuri, si mangia e si dorme, si gioca e si lavora, ignorando, dimenticando e uccidendo la paura dell'abisso oceanico. Sicuri... Fino al giorno in cui le acque e i venti, Nettuno ed Eolo, ci fanno dubitare della sicurezza del meccanismo-barca. Allora, persa la sicurezza, il destino di Giona fu la balena. L'uomo e l'animale non si distinguono più. Ci convertiamo in un cetaceo minaccioso e prepotente, un mammifero pieno di grasso che ride delle piccole barche, dei poveri pescatori e degli arpioni. Per l'uomo che oggi fugge, che ha già preso coscienza delle sue insicurezze, l'unica uscita sarà quella della prepotenza cetacea, che si apre il cammino a morsi assassini e da il colpo di grazia con la sua coda piana e livellatrice? Non ci sembra ancora abbastanza assurdo che il pesce grande mangi quello piccolo? Quando H. Melville scrisse  Moby  Dick,  or  thè  whale ebbe la sensazione ohe la vita fosse come la balena bianca, fascinosa e terribile e che sempre si concluda, per ciò che riguarda l'uomo, con una sconfitta senza possibile redenzione. Raccontano che Giona finì col predicare la conversione nella città di Ninive e che i niniviti si pentirono e fecero penitenza dei loro peccati. Ed ecco nell'acroma la possibile redenzione. Nell'intento per i nostri tempi vale la  Whale  song: www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il  mondo  detta  ragione

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« Oh, la vecchia e strana balena immersa tra i venti e le tempeste nella sua casa oceanica, dove la forza fa la legge! Sarà un gigante poderoso regina dei mari incommensurabili ». Il mare  e la meditazione rimangono uniti per sempre. Giobbe Giobbe è un caso diverso, è il contrappunto della nostra saga del legno e del mare. Giobbe non ebbe alternative. Giobbe non fugge e la tormenta lo raggiunge in pieno, ad Auschwitz, nei gulag, nel Salvador, nel Nicaragua, alla frontiera Iran-Irak o in quella tra l'Angola e il Sudafrica. Giobbe è anche un turco senza lavoro a Francoforte. Un adolescente spagnolo a New York. Giobbe non conobbe né barche né abissi oceanici, conobbe solo la polvere e il fango. Giobbe toglie le ragioni a tutti quelli che lo contemplano. In qualche momento di forza e lucidità, non avendo più niente da perdere, osa rispondere, la più radicale risposta-protesta alla vita. Ha già perso tutte le battaglie. Ha guadagnato una libertà sconosciuta e quasi pericolosa, irrazionale fino all'insolenzà blasfema. Nonostante ciò è convinto che Dio sarà dalla sua parte, altrimenti Egli stesso perderebbe la guerra. Giobbe è un rematore della barca di Ulisse. I tuoni assordanti di tanta battaglia gli hanno fatto scoppiare le orecchie. E non sente più alcun canto di sirena, alcuna musica attraente e seduttrice che gli venga da fuori. Legato mani e piedi mantiene gli occhi aperti e limpidi. E' l'unico che guarda in faccia senza abbassare lo sguardo, perché la ragione è dalla sua parte anche se gli viene negata. Lo sottomettono, ma il suo cuore non è schiavo di nessuno, piange soltanto per la moglie e per i figli. Tra l'abbandono e il grido, Giobbe spera cocciutamente nell'impossibile miracolo. Giobbe è il più eterno degli uomini. L'eterno impaziente! E ha ragione.

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José  Monter  ­  José  Vidal

Gesucristo Gesù Cristo non è l'astuto Ulisse, sebbene come Ulisse finisce inchiodato a un legno, questa volta a forma di croce. Ma il legno non è una tavola di salvezza. Fu una condanna. Si immaginò che la croce non fosse di legno nobile e vergine. Bastarono due vecchie travi abbandonate, inadatte alle impalcature. Noi non sappiamo veramente chi fu Gesù Cristo. Ha una certa somiglianzà con Giobbe, o con il pesce piccolo tritato nello stomaco del grande cetaceo. Senza cessare di essere quello « davanti al quale si volta il viso » per apprensione, piaga di carne viva, è allo stesso tempo colui che viene dall'altra parte, dall'altra riva del mare, colui che  viene da Itaca. Sembra uno dei nostri « rifiuti », un sottoprodotto, uno scarto, o un lavoro ben fatto e rifinito che porta il timbro di una razionale, conveniente e necessaria estirpazione del tumore maligno dal corpo sociale. Una depurazione per una maggiore purificazione, omogeneizzazione, formalizzazione. Inspiegabilmente però non si è potuto risolvere il mistero della sua persona. Nonostante l'aver mescolato Cristo con interessi a lui alieni nel corso della storia, non è scomparsa l'attrazione per la sua persona. Né sono stati sufficienti tutti gli studi di critica letteraria e storica, tesi a far di Gesù Cristo qualcosa di innocuo come la memoria di un Socrate. Viene dall'altra riva e per questo non è assimilabile. Permette soltanto un dialogo personale, a volte innamorato, a volte tragico, impressionista ed espressionista, classico e romantico. Alcuni mistici, alcuni artisti, alcuni savi e alcuni poveri conoscono questo dialogo. Gesù Cristo non conobbe la tecnica, l'arte e la religione che oggi noi conosciamo, non conobbe le nostre ultime astuzie nel viaggio tra Scilla e Cariddi... Cristo, venendo dall'altra riva ci parlò di cose strane, del buon padre che ci fa tutti fratelli e dello spirito di amore infinito con cui egli ci amò. Con questi dati sarebbe possibile trovare la seguente risposta sullo schermo del personal computer:  « I  do  not  know  how  I  bave  to  do  ». Lo stupore del computer aumenterebbe con il dato che Cristo dopo essere stato schiodato dalla croce risuscitò.

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Il  mondo  della  ragione

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Prometeo II povero Prometeo ha sopportato tutta la svariata gamma delle identificazioni umane fino ad essere eletto protomartire del santuario laico (Marx dixit). Se Gesù Cristo fu condannato dagli uomini Prometeo fu condannato dagli dei dell'Olimpo per la sua filantropia, per la sua condiscendenza, per la sua debolezza verso l'umano. Volle compensare la fragilità della natura umana, dotandola delle tecniche ingegnose che l'avrebbero portata a dominare la natura. Cos'era la vita umana senza il fuoco? Prometeo rubò il fuoco a Efesto trasportando la fiamma su una canna e lo donò agli uomini. Poi il legno e i boschi avrebbero esteso il luminoso messaggio dell'utilità. Infatti il fuoco non solo sarebbe stato utilissimo, ma inoltre sarebbe stato strumento decisivo per differenziare l'utile dall'inutile. Il fuoco fece le selve penetrabili. Nelle fucine separò i metalli dalle loro scorie. Rese commestibili alimenti difficilmente digeribili. Rese utilizzabile la polvere trasformandola in mattoni. Rese modellabile il metallo. Energia decana delle energie. Cambio qualitativo nel perfezionamento dei ferramenti e delle armi. Col fuoco l'uomo apprese anche a purificarsi liberandosi dell'inutile, dell'asociale, di ciò che era fuori dal sistema. Con il fuoco si estirpò l'eterodossia. E con il fuoco si attaccò l'ortodossia nella storia spagnola di questo secolo. Il fuoco come l'azione umana si sa dove comincia, ma non dove finisce. La sua portata sfugge spesso al controllo. Il fuoco  decide troppo inappellabilmente. Consacrata l'era tecnica, è logico che molti vedano in Prometeo un modello d'identificazione. La sua epopea fu continuata nel sogno e nella fatica della costruzione della torre di Babele, un'impresa che perse immediatamente il suo perché e il suo senso, quello cioè di raggiungere il ciclo, non ottenendo altro che l'ossessivo perfezionamento dei meccanismi e delle tecniche (14). Forse l'impresa di liberare l'uomo si compirà quando seguiremo l'invito di A. Gide di uccidere

(14)

F. Kafka, op. cit. pp. 154-156.

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l'aquila alla quale tanto generosamente abbiamo sacrificato il nostro fegato. La fiducia nel progresso era la sua aquila (15). Il nostro secolo non è arrivato ad odiare Prometeo, ma ha dato inizio ad un processo di disidentificazione. Dove si vide filantropia, vediamo oggi feticismo. Congediamoci da Prometeo incatenato alla sua roccia nel Caucaso, fossilizzato, pietrificato come certi arbusti, fatto roccia di fronte al mare inarrestabile. Questo mare è il mistero che non si risolve. Sì, il legno diventerà pietra prima che il mare cessi di interrogarci. Pietro e il sarto di Ultn « Frattanto la barca, già di molti stadi lontana da terra, era sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario. Ma alla quarta vigilia della notte Gesù andò verso loro,  camminando sul  mare. E i discepoli vedendolo camminare sul mare si turbarono e dissero: E' un fantasma! E dalla paura gridarono. Ma subito Gesù parlò loro e disse: State di buon animo, son io, non temete! E Pietro gli rispose: Signore se sei tu comandami di venire sulle acque. Ed egli disse: Vieni! E Pietro smontato dalla barca, camminò sulle acque ed andò verso Gesù» (Matteo 14, 24-29). Il  sarto  di  Ulm  (1592) « Vescovo, so volare », il sarto disse al vescovo. « Guarda come si fa! » E salì, con arnesi che parevano ali, sopra la grande, grande cattedrale. Il vescovo andò innanzi. « Non sono che bugie, non è un uccello, l'uomo: (15) Cf. A. Gide,  Le  Promethée  mal  enchotné, Paris, 1920.

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Il  mondo  detta  ragione

mai l'uomo volerà », disse del sarto il vescovo. « II sarto è morto », disse al vescovo la gente. « Era proprio pazzia. Le ali si sono rotte e lui sta là, schiantato sui duri, duri selci del sagrato ». « Che le campane suonino. Erano solo bugie. Non è un uccello, l'uomo: mai l'uomo volerà », disse alla gente il vescovo.

B. Brecht

« Ma vedendo il vento ebbe paura; e cominciando a sommergersi gridò: Salvami Signore! E Gesù, stesa subito la mano, lo afferrò e gli disse: O uomo di poca fede, perché hai dubitato? Ma appena salirono sulla barca si prostrarono innanzi a lui dicendo: veramente tu sei il Figlio di Dio» (Matteo 14, 30-33). Veramente l'uomo non è fatto per volare? Veramente non è fatto per camminare sulle acque? 3. 

PROMETEO  LIBERATO « Essere interamente, essere del tutto, cioè essere semplice creatura, semplice figlio di Dio ». Marfa Zambrano,  El  hombre y  lo  divino, Massico 1955, p. 294

Come si può parlare di « creazione » senza restare emarginati nell'ambito del privato, del religioso, irrilevante nella sfera pubblica? Né Galileo, né Keplero, agli inizi della scienza moderna, né Goethe, amante della scienza, né Einstein, né Heisenberg, massimi rappresentanti della nuova fisica, cessarono di contemplare la natura come crea-

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José  Monter  ­  José  Vidal

zione di Dio. Non sarà questo un messaggio nascosto, colmo di speranza, per una nuova impostazione del rapporto soggetto/oggetto, spirito/natura, antinomie sulle quali si incantò e disincantò la modernità? E' necessario passare attraverso la professione di fede religiosa, di questa o quell'altra ortodossia, per recuperare la dimensione della natura come creazione? Non sarà possibile che  II  cantico  dette creature di Francesco d'Assisi, con il suo esplicito « lodato mio signore », diventi l'amoroso fischio del « pastore dell'essere » di Martin Heidegger, che si asteneva dal pronunciare il nome di Dio? Heidegger certamente ricorda la tenerezza per gli elementi cosmici, nel modo di un « lasciar essere » che spera nella possibile epifaniateofania. Parlare della realtà come creatura, come espressione di una creazione, destinata alle mani dell'uomo, creatura tra le creature, più per una carezza che per uno sfruttamento; percepire accanto all'utile della realtà la sua dimensione simbolica, non come cose differenti, ma come dimensioni quantitative e qualitative di una medesima realtà porterebbe tutto ciò una luce in grado di aiutare a scappare dal tunnel del sistema stabilito di dominio uomo-natura, tante volte già denunciato? Non saranno capaci la filosofia e l'estetica oltre alla teologia, di risvegliare questo senso creaturale o creazionale? E se ne sono capaci, in quali montagne si sono rifugiati i loro discepoli che non appaiono nelle nostre città? Non possiamo dare per esaurito il mito del progresso indefinito, inteso come progresso tecnico. Ci furono dei momenti nei quali pensammo con R. Garaudy che non tutto ciò che era tecnicamente possibile fosse umanamente desiderabile. Però quella critica all'impero della ragione tecnologica ebbe appena il tempo di fissarsi. La proliferazione universale del computer e la rivoluzione dell'informatica hanno prodotto una revitalizzazione di quella fede nel progresso. Ma tra la macchinizzazione, l'elettronica e i microprocessori non c'è soluzione di continuità. Non è ancora valida la diagnosi che Heidegger faceva della tecnica moderna, così come del totale sviluppo dell'Europa occidentale, come « machinale Oekonomie », cioè come « la calcolabilità adeguata alle macchine di

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Il  mondo  della  ragione

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ogni agire e pianificare » (16)? La conseguenza è chiara. Quando la macchina computer rifiuta il nostro dato o la nostra domanda, non indirizza questi dati e queste domande soltanto verso ciò che la macchina può assimilare e a cui può rispondere? Ma se una luce non cessa di essere luce per mancanza di occhi che la contemplino, una domanda non cessa di essere domanda  inquietante per l'uomo per mancanza di macchine che le rispondano. In onore dell'esattezza dell'oggettività e dell'efficacia amputiamo la realtà, la riduciamo ad un  si­ stema  di  oggetti e ci sottomettiamo all'inesorabile legge della funzionalità (17). Ogni pretesa di oggettività è un'astrazione, l'oblio di poter essere di più e in ultima analisi qualcosa di molto soggettivo. Sarà impossibile offrire qualche alternativa a queste diagnosi? Se la polarizzazione si stabilisce tra l'oggetto e il soggetto, sarà difficile sfuggire all'imperativo della dominazione e della funzionalizzazione di tutto, uomo compreso. Solo il personale libererà il personale (Schelling). L'uomo deve misurarsi con le cose che non considera più animate da buoni o cattivi spiriti. Rispetto agli altri esseri umani, ha conosciuto l'amicizia, ma anche l'inimicizia. E oggi ci ritroviamo armati gli uni contro gli altri. Abdicare all'idea del dominio sembra un'alba che non spunta mai. Certamente una cosa è la scienza e un'altra la tecnica. Ciò nonostante oggi c'è una considerevole percentuale di lavori scientifici che si pongono al servizio del predominio di certi popoli su altri, di certi uomini su altri. « La liberazione della scienza dal progetto bellico implicherebbe una rottura radicale epistemologica, con l'interpretazione arcaica del dominio » (18). Bisogna essere più radicali di quella celebre petizione di R. Follereau: « Un giorno di guerra per la pace ». Per quella rottura epistemologica non bastano le spese che si farebbero in un giorno per gli armamenti, anche se oggi possiamo (16) Citazione tratta da W. Kern, in  Christlicher  Claude  in  moderner Gesellschaft, Freiburg i. Br. 1982, voi. XXII, p. 23. (17) J. Baudrillard,  Le  système  àes  objets, Parigi, 1968. (18) L. Echevarrìa,  La  carrera  de  armamento!  y  la  pobreza ne  El  Correo de  la  Unesco,  72, (1984) 34.

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pentirci di non aver ascoltato quella petizione. Forse sarebbe stata un'azione simbolica dagli effetti progressivi. S'è detto che la Bibbia inaugurò questa interpretazione arcaica del dominio con l'ordine di «dominare e sottomettere» la terra (Gen. 1, 28), ma conobbe anche la critica culturale nel racconto della costruzione della torre di Babele (Gen. 11, 1-9). Lo stesso accade nel mito di Prometeo. Il mito canta il progresso tecnico umano e allo stesso tempo la condanna di Prometeo parla di un prezzo. Ogni progresso tecnico ha un prezzo umano? Non è data all'uomo la possibilità di inaugurare un nuovo modo di relazione con il mondo e con gli altri uomini? Se potessimo annunciare una nuova era, un nuovo rinascimento, senza che questo significhi regressione alcuna se non nel senso di ri-creazione, di « memoria ricreativa », il motivo centrale non sarebbe allora la bella natura con le sue forme esterne e le sue leggi interne contemplata, scrutata, rappresentata e manipolata dall'uomo, misura di tutte le cose. Perché non far rinascere, piuttosto che la prospettiva  naturale, la dimensione  creaturale­creazionale, che non mancò in nessun aspetto del rinascimento storico che conosciamo? La creazione è il nome della realtà che non esclude l'altro nome che l'età moderna pronunciò con maggior frequenza: natura. Creazione è l'espressione di qualcuno, è un atto d'amore. Creazione è la realizzazione dell'uomo oltre il lavoro meramente produttivo. Creazione è il segreto, mai interamente formulato, dell'artista. Creazione è un fare emozionato fino al dolore, sopportato con muto godimento. L'architettura moderna nelle mani di Le Corbusier, che oltre all'arte e all'umanità portava con sé molto lavoro scientifico e tecnico, dallo stesso veniva definita come atto di amore verso il prossimo. Ebbene, quell'atto di amore che suppone la creazione sarà poi un'eredità incancellabile nella creatura. Manteniamo coscientemente l'ambiguità della parola creatura per ciò che riguarda la natura in quanto opera di Dio, secondo chi crede, per l'artificiale o culturale in quanto opera degli uomini, così come per le creature, i bambini, i figli degli uomini. Nella lingua catalana, castigliana e italiana, la parola creatura ha un'accezione per cui è sinonimo di piccolo, di bambino. E' pronun-

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data frequentemente in un contesto di tenerezza, delicatezza, fragilità e appoggio effettivo ed affettivo. Non è un simile contesto che si cerca per dimenticare l'era arcaica del dominio? « II lupo pascolerà con l'agnello, il bambino giocherà con il serpente... », sognava il profeta Isaia. E il tecnocrate si siederà a tavola con i poeti. L'utopia è il nostro compito! José Caos nel corso che tenne in Messico sul tema « Storia della nostra idea del mondo », nel 1967, alla fine delle sue lezioni, fornì questa conclusione: « La storia dell'idea del mondo è la progressiva e imminente estinzione di questa idea; la sostituzione di un mondo, che  ha  idea del mondo con un mondo che  non  ha  idea del mondo» (19). Questa constatazione deve diventare un imperativo categorico per il nostro tempo? Se, tra Democrito e Piatone, il  fisico Heisenberg sceglie Piatone perché le unità minime della materia non sono oggetti fisici, ma forme, strutture o idee, di cui solo si può parlare senza equivoci con il linguaggio matematico (20), sarà il  filosofo attuale, necessariamente postidealista, che si rassegnerà a non avere idea del mondo? « L'uomo, misura di tutte le cose » può essere un'idea valida. Ciò nonostante obbedire in un modo assoluto all'imperativo di  uma­ nizzare il nostro mondo non ha fatto altro che imprigionare il mondo, per mano del boia umano. E se l'uomo abdicasse dall'essere la misura e accettasse, per esempio, l'« essere » come « misura senza misura » di tutte le cose, se stesso compreso? Questo è l'orizzonte verso cui guardava la ragione poetica dell'ultimo Heidegger. Non saranno le aberrazioni architettoniche delle nostre città, così come la passione inutile per la velocità, segni del non saper « stare in casa » dell'uomo, del non saper farsi la casa e il cammino, perché in definitiva non ha nemmeno intravisto il suo « abitare nella casa dell'essere », come il modo adeguato di abitare la terra? Sebbene l'essere fosse irriducibile a un'idea, Heidegger aveva la sua idea del

(19) II corso è edito dalla Fondazione di Cultura Economica, Messico 1973. La citazione è presa dalla pagina 744. (20) W. Heisenberg,  Naturgesetz  und  Struktur  der  Materie, in  Schritte uber  Grenzen, Munchen, 1971.

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mondo e questo includeva una forma di sentirlo e di viverlo, in quella sua casa di Friburgo ai margini della Foresta Nera. Che portata può avere l'idea del mondo come creazione-creatura? Forse sarebbe un'espressione più concreta della stessa intuizione che Heidegger volle indicare come « memoria dell'essere », ed è da questo orizzonte che qui la si propone. Maria Zambrano già alluse a questo. La parola, ora più che mai, la cediamo agli artisti, e tra questi ai poeti. Che essi proseguano il loro lavoro di creazione. Che essi ci insegnino il modo di trattare la materia e gli strumenti. Che essi cambino il nostro sguardo sulla natura e l'umano. Che essi ci svelino la sinestesia delle arti, delle conoscenze. Perché è lo spirito umano quello che sente, si esprime e apprende in essi. Che essi ci ricordino che ogni opera rimanda a un operaio, come ogni poema rimanda a un facitore (poiein). Che infine divenga patente la dimensione simbolica della realtà, in modo che ogni oggetto ci dia la sua utilità, ma che ci possa rimandare e ci faccia presenti alle persone che ebbero, hanno o avranno qualcosa a che vedere con esso. Non solo il lavoro umano non può essere trattato come mercanzia, ma nemmeno il prodotto deve perdere l'impronta personale di quelle persone che la sua presenza ci ricorda e la cui solidarietà simbolizza. Non si tratta di una nuova morale e ancor meno di un nuovo diritto. La possibilità per una nuova etica non sorge dalla reiterazione degli imperativi etici, ma da un nuovo sentimento-pathos, una nuova forma di sentire e contemplare la vita. In definitiva la crisi etica del nostro tempo non bisognerebbe porla al livello dell'estetica? Non è forse l'estetica la dimensione in cui  l'atto  creatore non perde il pathos  creaturale, in cui l'entusiasmo o l'ispirazione portano il ricordo del gratuito, o del dono ricevuto, sebbene non si indovini da dove? E a partire da questo nuovo modo di sentire e di sentirsi, che nuovo dialogo « inter pares » può stabilirsi tra la tecnica, e la scienza implicata con essa, e la teologia, la filosofia, l'arte? Non si chiede un'elemosina per i « saperi indisciplinati ». Qui si propone una sfida  per la razionalità. Jean Landrière sistematizzò in un libro,  La sfida  della  razionalità, le ripercussioni della razionalità scientifico-tec-

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Il  mondo  della  ragione

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nica sulla cultura, l'etica e l'estetica. Ora proponiamo una sfida  per la razionalità, sempre maggiore della ragione tecnologica. Ci sia permesso citare alcune parole di Heisenberg a questo proposito: « Anche oggi possiamo apprendere da Goethe che non dobbiamo subordinare a un solo organo, quello dell'analisi razionale, tutti gli altri organi; che è molto meglio captare la realtà con tutti gli organi che ci sono dati, con la sicurezza che solo allora la realtà potrà darci il riflesso dell'essenziale, dell' "uno, buono, vero". Speriamo che nel futuro questo obiettivo possa essere raggiunto » (21). A coloro che scartano quest'orientamento e questa rivendicazione, tacciandoli di neoplatonismo cristiano, chiediamo: è per questo meno urgente la sfida che qui gettiamo? Anche se la filosofia non potesse cambiare lo stato attuale del mondo, almeno non cesserà di porre domande. E questa è un'enorme speranza.

Pentecoste Un'icona  per  soluzione La soluzione che i cristiani credono storicamente iniziata viene descritta nel racconto della Pentecoste negli Atti degli Apostoli. In questo racconto cristiano è data la comprensione di tutte le lingue, di tutti gli uomini, nello spirito dell'amore. E' la risposta storica e utopica al racconto biblico della torre di Babele con la sua confusione delle lingue. Ma non è questo nell'icona che ci interessa. L'icona rappresenta la discesa dello Spirito Santo in forma di lingue di fuoco, simbolo anche questo dell'amore, sugli Apostoli riuniti con Maria, madre di Gesù. Il cerchio che compongono conduce il nostro sguardo verso il centro e verso il basso, dove si apre per presentarci la figura di un personaggio regale, che sta per uscire da dietro un'inferriata e offrirci i suoi doni. (21) W. Heisenberg,  « Goethe... », in op. cit.

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Si tratta del Cosmo (22). Con la discesa dello spirito dell'amore ci viene annunciata la liberazione del Cosmo o del mondo. Il Cosmo è liberato dalla prigione nella quale era stato gettato dal predominio umano. Recuperiamo un mondo che non fu la casa dell'uomo, ma il suo bottino di guerra, il suo prigioniero di guerra nella supremazia. Se il mondo non è la casa dell'uomo, questo non vuoi dire che sia la sua prigione. Il mondo non è la prigione da cui l'uomo deve scappare, come tanti gnostici ci hanno proposto; piuttosto è il mondo ad essere prigioniero dell'uomo, e solo l'uomo, con uno spirito diverso, potrà forzare la prigione per ricevere come regalo molto di più di ciò che aveva preteso conquistare come bottino. Sapienza di un'icona! (traduzione dal castigliano di Marco Lodoli e Doriana Sonora)

(22)

P.N. Evdokìmov,  Teologia  della,  bellezza, Roma, 1982, p. 313.

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DOVE NATURALMENTE ANALOGIA ED ERMENEUTICA DI FRONTE AL SIGNIFICATO

«Die  Welt  ist  fori...» Paul Celan

I. Un passo del  De  interpretatione di Aristotele può essere considerato la chiave di volta della concezione del rapporto fra linguaggio e realtà che da sempre sorregge il pensiero occidentale. Tale passo recita: ...i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell'anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. ...suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti (1).

Troviamo qui sanciti i due principi che resteranno sottesi alla semantica filosofica fino alla loro esplicita tematizzazione e al tenta tivo di fondarli che avranno luogo nel '900. Tali principi possono essere così enunciati: a) la realtà precede il linguaggio; b) il linguaggio simboleggia — o significa — la realtà (2). Il primo postulato determina la realtà — la realtà extralingui-

(1) Aristotele,  De  interpretatione, 16a4 ss. Trad. it. di Giorgio Colli in Aristotele,  Opere, Roma-Bari 1973, voi. 1, p. 51. (2) Quando si parla di realtà non intendiamo riferirci ad una realtà  agget­ tiva piuttosto che a una realtà  ideale; per realtà intendiamo la dimensione extralinguistica, sia essa da considerarsi ideale o reale, destinata a fornire un senso ai nomi e alle proposizioni del linguaggio, cioè la dimensione del  significato.

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stica — come prioritaria dal punto di vista ontologico rispetto alla dimensione linguistica. Il significato è inteso come già da sempre costituito e del tutto indipendente dalla sua espressione linguistica. Nondimeno il linguaggio — ecco il secondo postulato — significa la realtà; lo statuto ontologico subordinato che gli viene assegnato dal primo postulato svuota d'altra parte di rilevanza teoretica l'elaborazione e la fondazione delle modalità secondo cui questo rapporto di: significazione viene in essere. In altre parole, il linguaggio viene in origine considerato senz'altro in grado di seguire la realtà nel suo articolarsi, significandola, senza che peraltro venga posto il problema delle condizioni di questa possibilità. Appare chiaro da quanto si è detto che i principi su cui si basa la semantica di Aristotele e della tradizione filosofica occidentale, lungi dall'essere dei principi primi in senso filosofia), cioè condizioni di possibilità postulate in sede teoretica per impedire il ricorso a processi  ad  injinitum, possono assai meglio essere caratterizzati come evidenze del senso comune. Le conseguenze di questo equivoco sulla filosofia possono probabilmente essere apprezzate solo nel nostro secolo, nel corso del quale la  svolta  linguistica del pensiero ha restituito alla questione del significato la dignità di problema filosofia). E' proprio su tale problema che intendiamo svolgere nelle pagine che seguono alcune considerazioni in ordine a una sua ricostruzione critica, senza peraltro pretendere di impegnarci in discussioni filologiche né di restituire alla verità storica il pensiero dei filosofi a cui faremo riferimento. II. Abbiamo visto dunque come in Aristotele il linguaggio sia concepito come una codificazione estrinseca di una realtà originariamente indipendente da tale codificazione e tale da poter essere immediatamente riottenuta mediante l'analisi della proposizione  e la determinazione delle referenze. Tuttavia, proprio perché la significatività del linguaggio è senz'altro presupposta, non ci si pone il problema di una decodificazione completa, cioè di una fondazione di tale significatività. A ciò si deve se anche la riflessione metafisica si innalza verso principi sempre più astratti e generali senza preoccuparsi di ri-

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Analogia  ed  ermeneutica

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condurre i propri concetti linguistici alle loro condizioni di senso, nella presupposizione che ogni significato si lasci esprimere linguisticamente in modo adeguato e diretto. Su queste basi semanticamente ingenue la nozione di partecipazione può essere assunta a cardine dell'intera metafisica classica, da quella platonica e aristotelica a quella neoplatonica, senza che venga posto il problema della eventuale reciproca incompatibilità, dal punto di vista dell'espressione linguistica, dei differenti livelli partecipativi. Solo con il neoplatonismo cristiano di Dionigi la filosofia si confronta per la prima volta con il problema dei limiti del linguaggio nelTesprimere un significato trascendente: è il momento della  vìa  re­ motionis della teologia negativa. Non a caso in Dionigi l'impossibilità di nominare Dio va congiunta con l'improponibilità, dal punto di vista ontologico, di un rapporto di partecipazione fra creato e Creatore, dovuta all'alterila assoluta di questo, come non a caso in Tommaso d'Aquino l'ammissione di tale partecipazione si collega all'individuazione del nome adeguato di Dio nella nozione di  Esse (3), Infatti la nozione metafisica di partecipazione ha un suo riscontro linguistico diretto mediante il quale il linguaggio può seguire l'articolazione della gerarchla ontologica, anche se ciò può avvenire soltanto finché un rapporto di partecipazione sussiste; ciò che esprime linguisticamente tale rapporto è la predicazione analogica: il fulcro della semantica tradizionale è appunto l'analogia.

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III. In qualche momento della storia della filosofia si è dunque riscontrata una mancanza del rapporto di partecipazione fra due differenti livelli della gerarchia ontologica tale da portare con sé l'impossibilità per il linguaggio di passare dall'uno all'altro mediante la semplice messa in opera del meccanismo dell'analogia. Ciò ci permette di osservare come, là dove invece tale rapporto di partecipazione

1 (3) Sullo stretto rapporto che in Tommaso e in Dionigi lega la dottrina della partecipazione al problema del nome divino si veda il saggio di Rosa Padellare de Angelis,  L'influenza  del  pensiero  neoplatonico  sulla  metafisica  di  S.  Tom­ maso  d'Aquino, Roma 1981, pp. 53-102.

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sussiste, l'utilizzazione analogica del linguaggio è già sempre in atto e costituisce anzi il fondamento stesso della sua  facultas  significanti. Già con la più semplice delle proposizioni aventi la forma soggetto-predicato, infatti, possiamo trovarci di fronte all'espressione linguistica di un rapporto di sussunzione o sintesi ontologica, all'espressione cioè dell'esistenza, fra enti collocati su differenti piani di dignità ontologica, di una relazione di partecipazione che viene significata nella proposizione dalla copula. Ciò significa che il soggetto e il predicato della proposizione si collocano anch'essi su differenti livelli categoriali: ciò che permette quindi di rendere in forma proposizionale, dunque manifestamente estensiva, un rapporto che invece è sostanzialmente intensionale non è altro che l'utilizzazione della funzione analogica per significare l'articolarsi dei rapporti partecipativi fra i vari piani della piramide ontologica. L'analogia assegna infatti alla copula la funzione di marcare e nello stesso tempo di mediare la differenza di ordine categoriale fra il soggetto e il predicato: è appunto grazie all'analogia che la proposizione realizza la sua funzione significativa. Quanto si è detto intende mostrare come la predicazione analogica non sia semplicemente un espediente al quale si ricorre quando le normali categorie appaiono riduttive nei confronti del significato da esprimere. Al contrario, la stessa struttura predicativa del nostro linguaggio si fonda sull'analogia, nel senso che condizione di possibilità di tale struttura e della sua funzione significativa è la possibilità di mediare e mettere in relazione reciproca i diversi livelli categoriali su cui soggetto e predicato si collocano. D'altra parte il fatto che lo stesso predicato significhi in modo analogicamente differente — e non portebbe essere altrimenti — quando lo si attribuisca a soggetti categorialmente distinti fra loro indica che la relazione analogica si pone come unica garante della conservazione di comuni condizioni di senso in tali differenti casi. Con ciò però essa ottiene l'effetto di dispensare proprio dalla ricerca e dal recupero di tali condizioni — è questo dunque il fondamento non colto dell'atteggiamento ingenuo che individuammo nel succitato passo di Aristotele —, coinvolgendo in tale mancanza di giustificazione semantica l'intero apparato con-

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cettuale di cui il linguaggio si serve. IV. E' qui che il nostro tentativo di cogliere in tutte le sue forme l'azione sotterranea dell'analogia nel nostro linguaggio perviene al suo punto di vista più originario. Abbiamo visto infatti come già nel dominio dei concetti mentali, cioè di quei significati ai quali i concetti e le categorie del linguaggio si riferiscono direttamente, l'analogia assolve il compito di rendere possibile l'espressione linguistica dei rapporti fra i vari livelli partecipativi. Ma ciò che è ancora più importante notare è che la stessa formazione dei concetti avviene secondo modalità nelle quali l'analogia da una parte gioca un ruolo fondamentale, ma dall'altra dimostra la propria incapacità di garantire quel riferimento al significato che dovrebbe giustificare la pretesa del linguaggio di trasferire tale significato all'interno dell'orizzonte categoriale mediante il concetto (4). L'analogia è dunque alla base anche della concetrualizzazione: in tale processo però la sua funzione si configura in modo molto differente dalla funzione per cui legittima l'espressione linguistica dei rapporti di partecipazione fra i generi all'interno dell'orizzonte categoriale. La formazione del concetto, infatti, è un processo che non si svolge interamente all'interno di tale orizzonte, come avviene per l'attribuzione di un predicato a un soggetto. L'attribuzione di un nome a un fenomeno dato nell'esperienza antepredicativa presenta infatti un momento categoriale che è appunto quello del nome-concetto che su base analogica sintetizza e individua il fenomeno nelle sue caratteristiche invarianti e prelude alle successive sussunzioni che saranno espresse dall'attribuzione ad esso di predicati sempre più generali.

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(4) Qualora d'altra parte si voglia accorciare a sua volta al concetto mentale un corrispondente ontologico diretto, ammettendo la tesi della realtà degli universali, bisogna allora osservare come nella filosofia antica e medievale, in cui appunto tale realtà generalmente è ammessa, quello che noi stiamo esaminando come il problema semantico dell'analogia, cioè come il problema della relazione fra la categoria e il suo significato precategoriale, si pone invece come il problema ontologico del  prìncipium  individuationis, cioè il problema parallelo del rapporto fra l'universale e l'individuale che la dottrina della partecipazione non riesce a spiegare.

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A ben vedere però tale sintesi categoriale non è legittima in quanto il fenomeno non è con ciò strappato alla sfera precategoriale in cui si manifesta originariamente: fra le dimensioni precategoriale e categoriale non sussiste dunque quel rapporto di partecipazione alla cui espressione mediante la funzione analogica si può legittimamente pretendere. Se d'altra parte è vero che l'analogia resta l'unico mezzo attraverso il quale il concetto linguistico può pretendere di farsi portatore di un significato appartenente alla dimensione precategoriale, tale concetto deve essere inteso allora come la proiezione analogica, non altrimenti giustificata, sull'orizzonte categoriale di oggetti o fenomeni che rimangono al di là di tale orizzonte. Tali fenomeni pertanto, pur dovendo costituire in qualche modo la condizione di senso delle categorie linguistiche, restano inesprimibili e incategorizzabili. L'analogia dunque non è solo alla base della struttura predicativa del nostro linguaggio, avendo la funzione di mediare fra i vari livelli partecipativi all'interno dell'orizzonte categoriale, ma è alla base della stessa concettualizzazione, con la pretesa di legittimare il trasferimento, operato dal concetto, del significato dalla dimensione precategoriale a quella categoriale. Essa si pone dunque come il fondamento stesso dell'assunto secondo cui il linguaggio significa la realtà. L'analogia però può sì legittimare la significatività del linguaggio finché resta all'interno dell'orizzonte categoriale, dal momento che ' concetti linguistici trovano i loro significati diretti, cioè i concetti mentali, già costituiti all'interno di tale orizzonte; essa fallisce però questo scopo quando il significato si manifesta come originariamente radicato nella dimensione precategoriale. Con ciò si può spiegare come mai nella filosofia antica il problema di una fondazione della semantica e la necessità di attribuire al linguaggio una valenza analogica per giustificare la sua pretesa di rendere in modo adeguato un significato affiorino solamente in un caso estremo come quello del nome di Dio e dei suoi predicati. Il fatto che la riflessione ontologica si sviluppi all'interno dell'orizzonte categoriale contribuisce infatti ad ammorbidire gli effetti di quella separazione di livelli categoriali che, qualora fosse stata problematizzata, avrebbe posto tematicamente la questione della loro resa lin-

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guistica e della fondazione di questa resa nell'analogia. Il problema dei limiti del linguaggio e delle condizioni di esprimibilità dell'esprimibile si pone infatti prepotentemente ogniqualvolta le dimensioni del precategoriale e del metacategoriale si affacciano all'orizzonte del pensiero, V. Ciò avviene con l'acquisizione alla filosofia del punto di vista trascendentale, in quanto il problema delle possibilità e dei limiti della nostra conoscenza, che tale punto di vista pone, implica i problemi paralleli delle condizioni di questa possibilità e della definizione di questi limiti, con l'indicazione di ciò che li oltrepassa. Le vitali implicazioni lìnguisiche di tali questioni non vengono subito tematizzate, ma emergono chiaramente nelle  impasse* in cui si vede costretto Husserl nel tentativo di fondare la sua filosofia trascendentale radicandola da una parte nel terreno delle evidenze precategoriali, dall'altra facendola derivare dalla psicologia fenomenologica come scienza dell'io trascendentale (5). Questo tentativo di trascendere sia verso l'alto che verso il basso l'orizzonte categoriale viene infatti vanificato proprio dal venir meno degli strumenti linguistici e concettuali e della loro pretesa di fungere, mediante l'analogia, anche al di fuori di tale orizzonte. Il tentativo di Husserl di radicare la filosofia, con una nuova estetica trascendentale, nel mondo-della-vita  (Lebenswelt), in quel terreno di evidenze antepredicative su cui si fonda la costruzione categoriale, fallisce proprio per l'inattingibilità di tale dimensione. La categoria infatti, nonostante l'occultamento a cui sottopone il fenomeno, è anche l'unica forma in cui esso può venire a datità, cioè, in termini husserliani, come riempimento parziale di un significato, sicché dell'oscura vita percettivo-coscienziale che costituisce la dimensione precategoriale affiora solamente la parte già categorizzata o categorizzabile. (5) Sulla distinzione in Husserl fra il piano dell'evidenza originaria e quello delle formazioni categoriali nella costruzione scientifica, si veda: Angela Ales Bello,  L'aggettività  come  pregiudizio.  Analisi  di  inediti  husserliani  sulla  scienza, Roma 1982,

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L'intrascendibilità dell'orizzonte categoriale si manifesta d'altronde anche nell'aporetico statuto epistemologia) che Husserl è costretto ad assegnare alle  Geisfeswissenschaften e in particolare alla psicologia fenomenologica. Infatti, come si era rivelata inattingibile la dimensione precategoriale, così l'analogia è incapace di attribuire ai concetti linguistici quella valenza metacategoriale indispensabile quando si voglia fare oggetto di scienza l'io trascendentale, cioè la sorgente stessa di ogni tematizzazione e categorizzazione, il  limite  del  mondo. Dunque il trascendentalismo di Husserl, pur nella consapevolezza della differenza fra le dimensioni categoriale ed extracategoriale, soggiace ancora alla pretesa ingenua di stabilire fra queste sfere una relazione categorialmente mediabile. Questa pretesa è sintomo peraltro di un'aporia teoretica non facilmente superabile: se infatti da una parte abbiamo presupposto la priorità ontologica dell'extracategoriale, e non potendo d'altra parte il linguaggio trascendere mediante l'analogia l'orizzonte categoriale per fondare nel significato extracategoriale la sua significatività, dobbiamo allora considerare infondata la pretesa dell'analogia di garantire adeguate condizioni di senso ai concetti linguistici. Proprio quest'incapacità dell'analogia, non rilevata dalla filosofia tradizionale, segna quello iato fra la realtà e il linguaggio per cui questo viene a determinarsi come una costruzione categoriale sovrapposta alla realtà e tale da non poterla cogliere, da non poterla — appunto — significare. Questa impossibilità per la categoria di aderire originariamente al suo significato, impossibilità tale che essa sembra piuttosto nasconderlo che rivelarlo, costituisce il vero problema di una semantica filosofica. VI. La soluzione che nel  Tractatus  logico­philosophicus Wittgenstein tenta di dare a tale questione è la più radicale e l'ultima possibile quando si vogliano tenere per fermi i principi su cui si fonda la tradizionale impostazione del problema semantico. Il Tractatus può infatti essere letto come un tentativo di costruire un linguaggio tale da non presentarsi rispetto alla realtà come una sovrapposizione categoriale, ma capace piuttosto di  toccare la realtà stessa. Ciò comporta l'eliminazione dal linguaggio sensato della funzione sintetico-analogica

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e delle sue espressioni, cioè il concetto e la struttura proposizionale predicativa, in favore di una concezione del linguaggio rigorosamente estensionale, a cui corrisponde una omologa ontologia che fornisce a tale linguaggio le condizioni di senso. 1 E' dunque possibile leggere nel Tractatus l'estremo tentativo del 1 pensiero di costruire una semantica filosofica, cioè di dare un'adeguata fondazione ontologica alla pretesa del linguaggio di significare. La t radicalità di questo tentativo porta necessariamente con sé la determinazione definitiva dei limiti al di là dei quali il linguaggio diviene insensato: il silenzio in cui si chiude il Tractatus non è dunque una I agnostica sospensione del giudizio sulle possibilità del linguaggio, ma la conseguenza più coerente di una posizione teoretica che rifiuta al I linguaggio ogni valore significativo quando lo si utilizzi per esprimere realtà ontologicamente sovraordinate al terreno a cui il linguaggio stesso attinge le proprie condizioni di senso. ] Abbiamo visto sopra come l'analogia sia alla base della pretesa di considerare dotati di senso, e tali cioè da esprimere adeguatamente i loro oggetti, concetti che in realtà non hanno alcun contatto con la dimensione precategoriale in cui tale senso dovrebbe radicarsi. 1 Tali concetti si configurano infatti come sovrapposizioni categoriali costruite mediante l'astrazione della componente invariante di fenomeni che in sé si sottraggono decisamente ad ogni concettualizzazione, Wittgenstein al contrario rifiuta questa pseudofondazione meramente analogica della significatività dei concetti linguistici. Egli postula nel Tractatus un dominio di elementi costitutivi logicamente semplici, che chiama  oggetti: gli oggetti costituiscono il fondo ontologico ultimo e sostanziale destinato a fornire un significato diretto e determinato ai nomi del linguaggio. Per parte sua ognuno di tali nomi, dal momento che anch'essi sono logicamente semplici, non può pretendere di avere una funzione sintetica, cioè di raccogliere sotto 1 di sé più oggetti, ma significa in modo originario il suo oggetto e  toc­ \  ca così, nel suo significato, la realtà. 1 Questo rapporto immediato fra l'elemento semplice linguistico e la sua controparte ontologica costituisce l'unica condizione su cui il linguaggio può fondare la sua pretesa di avere un senso. Tale rappor-

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to non solo non può essere ricondotto al rapporto che intercorre fra un concetto e ciò che gli è sussunto, perché come abbiamo visto questo è un rapporto analogico e non diretto, ma non può essere assimilato neppure al rapporto che normalmente si intende intercorrere fra un nome proprio e il suo significato. Infatti tale significato non è mai logicamente semplice nel senso inteso da Wittgenstein, e quindi il nome proprio che lo significa si configura già come una sintesi tale da preludere a successive sussunzioni a concetti più generali. In questo senso l'attribuzione del nome rappresenta un forma incoativa di concettualizzazione, e come tale basata sull'analogia e priva di reali fondamenti di senso. II rifiuto da parte di Wittgenstein dell'analogia e della semantica arbitraria su di essa fondata ha naturalmente il suo corrispondente ontologico nel rifiuto di una ontologia gerarchicamente ordinata e fondata sulla nozione di partecipazione. L'ontologia del Tractatus è anzi rigorosamente orizzontale ed estensiva e i mondi possibili che ne derivano non sono caratterizzati dalla subordinazione del più particolare al più generale, ma dalla coordinazione di elementi complanari: i  fatti del mondo wittgensteiniano sono le possibili connessioni degli oggetti fra loro in  nessi fattuali, e compito del linguaggio è raffigurare tali fatti mediante l'istituzione fra i nomi nella proposizione delle stesse relazioni che sussistono fra gli oggetti nel fatto. Date queste premesse, è evidente che la proposizione acquista una struttura del tutto diversa da quella predicativa. Mentre nella tradizionale forma a soggetto-predicato la proposizione era rivolta a esprimere i rapporti fra i vari generi all'interno della gerarchla ontologica, coerentemente con la nuova concezione del fatto come nesso di oggetti essa viene a constare di nomi in connessione diretta. Il suo stesso rapporto di significazione con il fatto non è qualcosa che si possa esprimere con una nuova proposizione, ma deve mostrarsi nella proposizione stessa. Ciò perché, dal momento che il mondo, che fornisce alla proposizione le sue condizioni di senso, consta solo di fatti, anche la proposizione deve avere una forma fattuale. In questo modo tutti i rapporti formali o strutturali o interni ai fatti e agli oggetti vengono esclusi dal campo del dicibile in quanto si trat-

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ta di rapporti che trascendono il piano fattuale del mondo, che è l'unico che fornisce senso ai nomi e alle proposizioni del linguaggio. Analogamente vengono destituite di senso le proposizioni metalinguistiche, perché viziate anch'esse dalla pretesa di dire quanto già deve mostrarsi nelle proprietà formali del simbolo linguistico (6). Infine vengono dichiarate insensate tutte le proposizioni della metafisica, dell'etica, dell'estetica e della religione a causa dell'impossibilità di attribuire un significato ai loro simboli. Wittgenstein colloca tali questioni nella dimensione del Mistico  (das  Mystische), nella dimensione cioè di quei problemi trascendentali di cui nel mondo, come mero insieme estensivo di fatti, non è questione. E poiché il linguaggio non è altro che mero insieme estensivo di proposizioni, delle sole proposizioni sensate, il Mistico appartiene alla sfera dell'indicibile: esso mostra  sé, e « su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere » (7).

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VII. Ritornando ora ai cardini della semantica aristotelica quali li individuammo in apertura, è possibile osservare come Wittgenstein non li rifiuti, ma anzi li assuma tentando di dare loro quella fondazione che Aristotele non fornisce e che renda definitivamente ragione delle condizioni di senso del linguaggio individuandone possibilila e limiti. Per ciò che concerne l'assunto della priorità ontologica della realtà sul linguaggio, Wittgenstein lo accetta senz'altro: per lui infatti l'esistenza di un fondo sostanziale di elementi logicamente sempiici non è solamente la condizione che garantisce un significato, una controparte oggettiva ai nomi e alle proposizioni del linguaggio. La presupposizione di un tale dominio ontologico di significati è anche e soprattutto sintomo di una opzione teoretica fondamentale che si contrappone ad una concezione del tutto opposta dei rapporti fra lin-

(6) Wittgenstein introduce la sua ideografia  (Begriffsschrift) proprio affin1 che queste proprietà formali risultino evidenti senza bisogno di ricorrere a pro1 posizioni che le enuncino. (7) Ludwig Wittgenstein,  Tractatus  logico­pbilosophicus, sez. 7. Trad. it. di Amedeo G. Conte, Torino 19792, p. 82.

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guaggio e realtà, mai esplicitamente formulata ma che Wittgenstein per primo sembra avvertire chiaramente, pur rifiutandola. Tale concezione escluderebbe il ricorso alla dimensione extralinguistica per decidere del senso di nomi e proposizioni, facendo piuttosto del significato il prodotto di una costituzione che avviene all'interno dell'orizzonte linguistico (8): ma su ciò torneremo fra poco. Anche il secondo assunto circa la facoltà del linguaggio di significare la realtà è accolto da Wittgenstein, pur venendo da questi rigorosamente ricondotto quanto alla sua validità all'unico livello di realtà in corrispondenza del quale il rapporto fra l'elemento semplice ontologico e la sua controparte linguistica è immediato. Wittgenstein destituisce dunque di senso ogni sovrapposizione categoriale fondata sull'analogia. Come abbiamo visto, proprio la radicalità con cui Wittgenstein pone il problema delle condizioni di senso degli enunciati linguistici implica una soluzione altrettanto radicale circa il venir meno di queste condizioni: la fondazione delle possibilità del linguaggio implica la definizione dei suoi limiti. E se il problema dell'incapacità del linguaggio di esprimere contenuti trascendenti il piano delle sue condizioni di senso non è nuovo nella storia della filosofia, tale incapacità è portata da Wittgenstein alle estreme conseguenze sulla base di una concezione della trascendenza che include ogni livello di realtà sovraordinato a quello meramente fattuale del mondo, e di una concezione del linguaggio che solo su questo livello trova le sue condizioni di senso.

(8) « Se il mondo non avesse una sostanza, l'avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall'essere un'altra proposizione vera. Sarebbe allora impossibile progettare un'immagine del mondo (vera o falsa) » (Ludwig Wittgenstein,  Traciatus  logico­philosophicus, sezz. 2.0211-2.0212. Trad. it. cit., p. 7). Wittgenstein individua qui nella sostanza del mondo la condizione della possibilità per la proposizione di avere un senso, cioè di riferirsi effettivamente ad un significato extralinguistco. Se infatti il mondo non avesse una sostanza, la significatività delle proposizioni del linguaggio dovrebbe allora intendersi fondata su altre proposizioni da assumersi come assiomi. Ciò comporterebbe il venir meno del mondo come significato precedente il linguaggio, conseguenza che Wittgenstein non accetta.

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Per dotare la proposizione di senso Wittgenstein è dunque costretto a ricondurre il linguaggio alla medesima fondazione ontologica del mondo, trasformando la proposizione in un fatto significativo, in un mero modello logico della situazione che essa rappresenta, e annullando così quella categorialità che costituisce la specificità della funzione linguistica rispetto alla realtà (9). Tale specificità continua, d'altra parte, ad essere affidata all'analogia e alle sue espressioni nonostante la loro dichiarata insensatezza. Sono questi probabilmente i principali fattori che determineranno l'abbandono, da parte di Wittgenstein, della impostazione del Tractatus; ma ormai la strada tracciata da Aristotele è stata percorsa fino in fondo, e ha condotto ad un punto morto. L'indispensabilità dell'analogia, e della concettualizzazione che ne è espressione, nella funzione linguistica, e d'altra parte l'intranscendibilità dell'orizzonte categoriale in direzione di una fondazione ontologica della significatività dei concetti linguistici qualificano la presunta priorità della dimensione ontologica nel rapporto fra questa e la dimensione linguistica come una pretesa infondata, in quanto sulla sua base non è possibile instaurare un tale rapporto. Il capovolgimento di tale priorità resta dunque l'unica via da battere e da percorrere fino alle estreme conseguenze. Vili. Queste conseguenze non si possono arrestare alla riproposizione su base linguistica di un rapporto di priorità rispettoso della specificità tanto del dominio linguistico che di quello ontologico: abbiamo visto infatti come una giustificazione del rapporto fra linguaggio e realtà più radicale di quella fornita dall'analogia imponga la rinuncia alla fondazione autonoma di uno di questi due domini, in alternativa.

(9) Questa specificità, pur nella priorità dell'elemento ontologico su quello linguistico, era salvaguardata dall'analogia,  grazie  a cui il concetto linguistico si poneva come sintesi categoriale del molteplice antepredicativo. Ma quando, 1 di fronte all'incapacità dell'analogia di legittimare tale sintesi, si pone l'esigenza di una giustificazione più radicale della relazione fra linguaggio e realtà, la fon1 dazione autonoma di uno di questi domini viene necessariamente meno: in questo caso è appunto il linguaggio ad essere ricondotto definitivamente alla struttura fattuale del mondo.

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Dunque il resistere della categorialità del linguaggio di fronte al tentativo di Wittgenstein di ricondurre la fondazione del linguaggio stesso alla mera dimensione fattuale del mondo implica immediatamente il venir meno della fonda2Ìone oggettiva della dimensione dei significati, e il loro venire piuttosto a configurarsi come proiezioni extralinguistiche di quella categorialità che a sua volta si è rivelata ineliminabile dalla funzione linguistica e tale anzi da costituirne l'essenza: e con ciò abbiamo appunto capovolto il principio della precedenza della dimensione del significato rispetto a quella linguistica. A tale principio può essere ricondotta l'ontologizzazìone subita, nel corso della storia del pensiero, da problemi che solo un rivolgimento del pensiero alle radici della questione linguistica permette di affrontare sul piano semantico. D'altra parte in questa nuova prospettiva il problema semantico si pone non più come il problema del rapporto fra linguaggio e realtà intesi come dimensioni separate e la cui soluzione consisterebbe nel giustificare  Vadaequatio  sermoni*  et  rei. Il problema semantico si configura piuttosto come il problema della chiarificazione del modo in cui la realtà si costituisce a partire dal concetto linguistico all'interno dell'orizzonte categoriale, che si rivela ora come  Spielraum unico e intrascendibile. La questione riguardante la sfera precategoriale, infatti, ha senso solo finché si ammette questa sfera come indipendente dal e precedente il linguaggio, che appunto questo si intende con il termine precategoriale. Tale questione si svuota però di senso nel momento in cui l'orizzonte categoriale si manifesta come l'orizzonte trascendentale ultimo e più originario, all'interno del quale si costituiscono sia il mondo che la soggettività in quanto  significati. In questo senso il problema semantico trapassa allora in quello ermeneutico. IX. L'ermeneutica, infatti, si pone consapevolmente all'interno dell'orizzonte categoriale e assume anzi la categorialità del linguaggio come suo dato originario. Proprio per questo il suo compito, il compito dell'interpretazione, non è quello di riportare alla luce un'ipotetica realtà a cui la categoria si sia sovrapposta nascondendola (è que-

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sto, come abbiamo visto, il presupposto della semantica fondata sull'analogia), ma quello di realizzare una comprensione che non pretenda di ricorrere a giustificazioni trascendenti l'ordine dato e che si realizzi dunque all'interno di tale ordine. Nella prospettiva ermeneutica il significato non è un contenuto dato una volta per tutte da recuperare e trasmettere, ma il prodotto di una costituzione che avviene secondo modalità tecniche, cioè funzionali e tali da autofondarsi. In questo senso la circolarltà dell'ermeneutica deriva direttamente dall'intrascendibilità dell'ordine categoriale. Tale intrascendibilità, che impedisce agli enunciati di radicarsi in un significato extralinguistico non costituisce però più un fattore di esclusione, non implica cioè l'insensatezza di questi enunciati: essa è piuttosto da intendersi inclusivamente, dal momento che qualunque enunciato ha senso in quanto trova le condizioni di tale senso nel gioco di rapporti interno all'orizzonte categoriale. Tale intrascendibilità però proprio per questo è definitiva e tale da non poter neppure essere posta realmente come problema: in questa prospettiva infatti non esiste il problema della trascendibilità dell'orizzonte categoriale inteso come il problema della possibilità per un enunciato di avere il proprio significato al di fuori di tale orizzonte; è proprio al suo interno, infatti, che i significati si costituiscono come tali. Se dal sentimento dell'impotenza dell'analogia a significare poteva ancora nascere l'idea del linguaggio come gabbia contro i cui limiti accanirsi, il capovolgimento del rapporto di priorità della realtà sul linguaggio ce lo rivela come orizzonte aperto e illimitato al cui interno siamo sospesi. Alla concezione metafisica del significato, della cui trascendenza la differenza fra precategoriale e categoriale costituiva la scansione, si sostituisce nella prospettiva ermeneutica la sua infinita produzione che il commercio linguistico esige e di cui la parola è rappresentante. Il silenzio, che costituiva la soglia del misticismo e l'unica risposta all'ottimismo ingenuo dell'analogia, è visto qui come  astensione, come rifiuto, di non teologica stoltezza, della logica del mondo. Solo la metafora, che un  pathos eroico poteva spinge-

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re alla ricerca del passaggio a nord-ovest verso la dimensione del significato attraverso i ghiacci dell'analogia, è ancora utilizzabile a fini pedagogici, come un gioco di costruzioni. La concezione ermeneutica del linguaggio è definitivamente laica. Essa non prevede differenze di ordine, o di  valore, nel linguaggio come nel significato, e il grido del moralista che vi si oppone contribuisce anch'esso, nell'era della tecnica, a far girare il mondo. Nell'era della tecnica non si esce dalla tecnica, né vi è un dopo che non sia già stato  futuro. E' per questo che « la cultura del progresso deve avere il suo poeta epico in anticipo » (10). Il poema epico non ha allora come compito la delimitazione, ma l'imitazione: I

Vo dove ogni altra cosa, Dove naturalmente Va la foglia di rosa E la foglia d'alloro (11).

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(10) Ludwig Wittgenstein,  Pensieri  diversi, trad. it. di Michele Ranchetti, Milano 1980, p. 29. (11) Giacomo Leopardi,  Imitazione, w. 10-13; in  Canti, XXXV.

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L'ORSO DI KLEIST

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II noto racconto di Kleist  II  teatro  delle  marionette, a cui breveniente ci riferiamo, appare suddiviso in due parti di cui è difficile a prima vista cogliere la connessione. Nella prima parte, lo straordinario ballerino C... s'ingegna di dimostrare al narratore della vicenda, che ha incontrato per caso, come nella danza delle marionette ci sia più grazia che nella danza delle persone in carne e ossa; proprio perché la natura meccanica e non spirituale delle marionette, da cui s'immagina possa esser rimosso anche « l'ultimo resto di spirito », preserva la bellezza dei loro movimenti dall'affettazione che comporta un sentimento o una volontà umana. i

— E il vantaggio che questa marionetta avrebbe sui danzatori vivi e veri? — II vantaggio? Anzitutto, egregio amico mìo, un vantaggio negativo: essa non farebbe mai movimenti affettati (1).

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\ II narratore della vicenda, soggetto un po' riluttante della maieu1 tica di C..., dapprima si stupisce come « si possa racchiudere più 1 grazia in un fantoccio meccanico che nell'edificio del corpo umano », 1 poi è gradatamente conquistato dall'argomentazione paradossale del 1 suo interlocutore e giunge ad ammettere di conoscere bene « quali 1 disordini provochi la coscienza nella grazia naturale »; recando egli i stesso l'esempio di un giovinetto che « aveva perso..* la sua innocenjza per una semplice osservazione». Il ragazzo «sulla cui persona al! i

1 (1) Heinrich von Kleist,  II  teatro  delle  marionette, trad. it. di Leone Traverso, Genova 1982, pag. 13- Tutte le citazioni seguenti sono tratte dal telo medesimo. I corsivi sono miei. i

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lora era diffusa una grazia meravigliosa », chinandosi un giorno ai asciugarsi un piede davanti a uno specchio, aveva colto in quel gesti la magnifica spontaneità di un'opera d'arte, e compiaciuto aveva tee tato di ripeterlo — ma invano. Egli arrossì e alzò il piede una seconda volta...; ma il tentativo, com'era facile prevedere, fallì. Smarrito, egli alzò il piede la terza, la quarta e lo alzò anche forse la decima volta: inutilmente! Egli non fu in grado più di riprodurre lo stesso movimento. Che dico? i movimenti che faceva erano tanto comici che io faticavo a ritenere le risa. Da quel giorno... una incomprensibile trasformazione si operò nel giovine. [...] Un'invisibile e inafferrabile potenza sembrava stendersi come una rete di ferro sul libero giucco dei suoi gesti e dopo un anno non si poteva più scoprire in lui alcuna traccia della leggiadria, che usava prima deliziare gli occhi degli uomini che lo circondavano.

A questo punto, quando l'argomento metafisico del racconti sembra già essersi sufficientemente delineato, Kleist con grande mae stria introduce una variazione a prima vista non omogenea col discoi so precedente, che anzi ne scompiglia il dualismo inevitabile sinor pronunciato. II signor C... racconta di un nobiluomo livone, presso cui ui giorno si era trovato ospite, che aveva figli appassionati alla scherma Specialmente il più anziano, rientrato dall'Università, faceva il virtuoso e mi porse, una mattina ch'ero nella sua stanza, un fioretto. Tirammo: ma accadde che io gli fossi superiore;  e  s'aggiungeva  la  passione a  confonderlo; quasi ogni colpo ch'io tiravo, imbroccava e alla fine il suo fioretto volò in un angolo.

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Un poco risentito, il giovane invita C... a misurarsi con un ve

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ro maestro, e tra le risate dei fratelli lo conduce allo stabbio, dov sta un orso « ritto sulle zampe di dietro, appoggiato col dorso a ui palo, a cui era legato, la zampa destra alzata pronta al colpo; era que sto il suo modo di tenersi sulla guardia ». C... è sconcertato, poi spinto dai continui inviti dell'ospite a ti rare coll'orso, cerca di colpirlo; ma l'orso para infallibilmente le su

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botte e, soprattutto, non abbocca mai alle finte.

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...mi gettai col mio fioretto sull'animale; l'orso fece un movimento brevissimo della zampa e parò il colpo. Tentai di sviarlo con delle finte; l'orso non si moveva. (...) Non solo l'orso come il primo schermidore del mondo, parava tutti i miei colpi; alle finte (cosa in cui  nessuno  schermitore  del  mon­ do  lo  imita) non badava nemmeno: gli occhi negli occhi, come se ci potesse leggere la mia anima, m'affrontava, levata la zampa pronta al colpo, e quando i miei colpi non erano portati sul serio, non si muoveva.

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E' soprattutto questo secondo momento del racconto, che per ora abbandoniamo, dove l'orso schermitore è preso a figura di quella grazia che « compare sempre più raggiante e imperiosa »... « nella misura in cui nel mondo organico la riflessione si fa più debole e oscura », a interessarci, poiché la figura dell'animale come « mediatore privilegiato » attraversa tutto il pensiero, specie della modernità, e l'uomo vede nelle bestie « la sagoma di un destino che ci riguarda » (2) con una frequenza che nella letteratura contemporanea si è fatta impressionante; da una riflessione sulla frequenza di queste apparizioni animali cercheremo poi in tutti i modi di ricollegarci alla prima parte del racconto e alle sue conclusioni. L'animale è dunque, e specie nella modernità, cioè nell'epoca della fine della convivenza naturale dell'uomo colle bestie, una presenza sfuggente e enigmatica; può essere oggetto di derisione come di culto; all'animale s'infligge una violenza, ovvero è l'animale stesso a perpetrarla (anche se oggi tale proporzione è assolutamente sbilanciata, dacché « la natura non fa più paura », e al lupo viene concessa semmai una briciola d'ironica pietà); in breve, la sua alterila posta a confronto col discorso e colla presenza umana è per il pensiero al tempo stesso fonte di timore e di attrazione. Proprio mentre storicamente gli animali si congedano dalla vita degli uomini, diventano « intrusi » (3) nell'esperienza comune, Pesi-

1 (2) Giacomo Debenedetti, //  romanzo  del  Novecento, Milano 1975, pag. 86. \ (3) L'artista Pino Pascali diceva: « Gli animali mi piacciono perché \ sembrano degli intrusi ».

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genza del confronto coll'animale (eventualmente col primitivo, vai* a dire il supposto stadio di maggiore prossimità coll'animale) si mi sura nella letteratura moderna col desiderio di travolgimento dellì « cultura » in nome di un sapere della salvezza più intimo e assoluto La verità non è mai compimento, realtà, figura artistica, bensì il primarlo, il pensiero o, espresso in termini storico-religiosi: il « sapere della salvezza» che precede sempre la figura, cioè l'arte e la «cultura » (4)

scrive il pittore di animali Franz Mare. Pare, nella sua ricerca d artista astratto, che negli animali governi una legge unica e antica invece « delle molte leggi segrete che, oggi, costituiscono per il no stro occhio la nuova iridescenza del mondo » (5). Il sapere della sai vezza, la legge e unica e antica che muove le sue creature senza chi queste ne abbiano coscienza, è dunque l'antisapere o il non-sapere che nel racconto di Kleist più direttamente viene chiamato « grazia > o « innocenza » (la « grazia » cioè che accomuna misteriosamente l'or so alla marionetta, la natura e l'arbitrio meccanico). Pure, l'esigenza di un tale contradditorio sapere, il sapere fon dato sul non-sapere, cioè un sapere infondato, viene in luce nella mo dernità al culmine massimo del sapere come incontro storico-sistema tico del mondo, e al momento del suo declino, quando all'avvenuti crisi del sapere del mondo (« tutto si è fatto estraneo, incompren sibile »), gli animali intesi come esemplari residui di « mondità », pos sono divenire gli astratti e intermittenti segnali di un mondo che noi è più saputo da alcuno, che si è, diremmo così, ritratto alla sapienza Per questo l'astrazione in arte si pone come un'esigenza assolutamen te realista (i cavalli, il « Cane di fronte al mondo » di Franz Mare) Ma se è ovvio che un tale non-sapere come condizione storici data ha una valenza del tutto negativa, poiché non è concepibile col tivare una nuova innocenza nella pura estraneità, o insistere in un'inu

/ (4) Franz Mare, J  cento  aforismi.  La  seconda  vista, trad. it, Milani 1982, pag. 57. (5)  Ivi, pag. 63.

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inanità per cui spesso si finisce per patteggiare politicamente — com'è altrimenti possibile che un sapere infondato, non-culturale, possa condurre a una salvezza che per  essere  umana  deve  essere  culturale, cioè comunicabile e condivisibile? E inoltre: in che modo gli animali possono essere viatico a quel destino che sembrano mutamente condividere, come capire il passaggio allarmante delle bestie senza vedervi soltanto una fila di orme del mondo passato? La natura è da sempre l'ambiguo punto d'incontro dell'uomo con le forze che egli sottomette e che lo sovrastano (« She stoops to conquer »,  Sottomessa  per  sopraffare, è il titolo di una commedia di Goldsmith che presuppone un assoluto naturale nella donna) ; ciò appare quanto mai chiaro nel seguente passo di Lévi-Strauss:

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...la natura è precultura ed è anche sottocultura; ma essa è soprattutto il terreno sul quale l'uomo può sperare di entrare in contatto con gli antenati, gli spiriti e gli dei. Nella nozione di natura v'è dunque una componente « sovrannaturale », e questa « sovra-natura » è tanto incontestabilmente sopra la cultura, quanto la natura stessa è sotto di essa (6).

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In questa scomoda posizione, cioè tra natura e sovra-natura, il discorso prettamente culturale dell'uomo sembra essere tagliato fuori dal bene della grazia che egli trova sempre troppo in basso o troppo in alto. Per un paradosso solo apparente, la perdita di confidenza con la materia ha coinciso con la perdita dell'assiduita col divino, in segreta connessione tra loro più ancora che con l'umano.

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Solo un Dio potrebbe misurarsi in questo campo con la materia: e questo è il punto in cui i due estremi dell'anello del mondo si congiungono (7).

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Può dunque l'uomo spezzare quest'anello, o entrare magicamente nel suo circolo (una volta che abbia smarrito il codice allegorico, (6) Claude Lévi-Strauss,  Anthropologie  strutturale  deux, trad. it. Milano 1978, pag. 362. (7) Kleist, op, cit., pag. 17.

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che gli permetteva di percorrere in su e in giù sensatamente le gerarchie dell'universo), quando è la sua medesima essenza culturale a negargli l'accesso? La ricerca in questo senso costituisce la più alta tensione della modernità. E' « un volere driadico di essere-altro » (8) che scuote la lingua alle radici e vuole spiantarla, rimuoverla come un ostacolo che sbarra la strada al ritorno all'innocenza. Dietro l'espressione metaforica dell'avanguardia, di « trovare una lingua nuova », si vela l'ansia di un puro sorpassamento, di arrivare a « essere senza la lingua » — che è lo sbocco finale dell'avanguardia. Il sentiero del linguaggio che attraversa il mondo ha però bordi ben distinti, che è difficile cancellare; c'è dunque chi si è rapportato all'animale tenendo, per così dire, i piedi nel linguaggio, appoggiandosi al suo steccato — oltre il quale le bestie formavano una speeie di muto 200 di simboli. Una di queste maniere è quella barocca e orfica, gioiosa di Bataille — di « consumazione splendente » della vita: Mi rappresento coperto di sangue, spezzato ma trasfigurato  e  d'ac­ cordo  col  mondo, insieme come una preda e una mascella del tem-

po che uccide senza fine e senza fine è ucciso (9).

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Qui, piuttosto che l'annuncio di una nuova temporalità che, come vedremo, conclude il racconto di Kleist, assistiamo piuttosto alla proiezione nel passato delle figure — sognate — dell'immediatezza: l'arcaico, il barbaro, il primitivo; e all'immersione in una cieca ciclicita del tempo senza-tempo. Un'altra maniera, strumentale e irrevocabilmente « umana » pur nell'ìnumanesimo, è quella che utilizza la figura animale come allegoria di una purezza aggressiva e devastatrice, di una im-mediata crudeità — che non a caso elegge a suoi araldi una bella schiera, da armamentario decadente, di carnivori: veltri, giaguari, ghepardi. Di so-

(8) Mare, op. cit., pag. 84. (9) Georges Bataille,  La  pratica  della  gioia  davanti  alla  morte, in  Crìtica dell'occhio, tr. it. Rimini 1972, pag. 290.

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lito a questa banda sanguinosa, riunita con un gusto che sempre sta tra Caligola e D'Annunzio, si annette un senso di guida, di punto di passaggio necessario — la strage — verso un'imprecìsata sacertà. In questo ambito gli esempi si sprecano, e sono quasi sempre proiezioni spettacolari e popolari, quadretti votivi del nichilismo. Vaneggiamento della forza nell'orrore quotidiano. Dicevamo invece che il vero impaccio dell'uomo è il linguaggio che non serve alla terra né al ciclo. « Non angelis, non inferioribus animalibus necessarium fuit loqui » (10), scrive Dante a significare che il sovrannaturale come il naturale sono non-culturali, perciò non linguistici. Ora, è dato all'uomo di essere non-Iinguistico? Cioè di cancellare la sua essenza linguistica? Se l'essenza dell'animale è precedente al linguaggio, alla « distinzione » del linguaggio umano (quando l'animale « parla », p.e. il serpente tentatore o l'asina di Balaam, « angelus in illa et dyabolus in ilio taliter operati sunt », sono un angelo e un diavolo a parlare per bocca loro, e a redere « distinta » e intelligibile la loro voce, « ...sic ut vox inde resultavit distincta tamquam vera locutio ») (11), come può l'uomo calarsi in questa dimensione senza semplicemente ammutolire? Come si può, in altre parole, riscattare il « peccato originale dello spirito linguistico » — secondo Benjamin, il fatto che la parola debba comunicare sempre qualcosa fuori di sé —, avvicinandosi all'innocenza dello spirito non-linguistico animale, che solo parla « la lingua muta e senza nome, residuo del verbo creatore di Dio », di cui « l'intera natura è traversata »? (12). Questo è il tema della poesia contemporanea. Il linguaggio può « smemorarsi in un grido » (13) — il grido, quell'espressione prelinguistica, non grammaticale, che rompe il di(10) Dante,  De  vulgari  eloquentia,  \, II. (11)  Ibid. (12) Walter Benjamin,  Sulla  lingua  in  generale  e  sulla  lingua  degli  uo­ mini, in  Angelus  Novus, tr. it. Torino 1976, pagg. 65-67. (13) Giuseppe Ungatelo,  Tuffo  ho  perduto, in  Vita  d'un  uomo, Milano 1979, p. 199.

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scorso, distrugge la memoria umana e riconduce alla quiete animale. La condizione della bestia è di vivere in assenza di memoria, in un assoluto presente la cui attualità perpetuamente si rinnova in un atto nuovo e purissimo: la zampa dell'orso schermitore che si alza a parare un affondo del signor C..., e resta immobile alla sue finte. Vive k bestia giorno dopo giorno senza memoria nelle sue mammelle, il fiore suo nella luce il declivio tace e viene distrutto (14).

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Così scrive il poeta Gottfried Benn. Se, dunque, l'animale giace nel mondo smemorato (seppure una memoria esiste, quella che gli etologi chiamano  imprinting), allora la qualità del linguaggio che impedisce e ci separa dall'innocenza, è la memoria. Ma distruggendo la memoria in nome dell'innocenza da riguadagnare, non distruggeremo l'essenza più intima dell'uomo? Eppure tale sembra il compito della poesia. Ho molto da fare, oggi: Bisogna uccidere fino in fondo la memoria Bisogna che l'anima si pietrifichi (15).

Così Anna Achmatova. La letteratura del secolo è in gran parte il progetto mancato di questa distruzione, un tentativo di giungere al silenzio, oppure a una tale originarietà del dire dove non si dia più distinzione alcuna dal « discorso naturale » della lingua puramente autentica perché puramente materna; la lingua volgare  « quam  sine  omni  regida nutricem imitantes accipimus » (16), delle fonti poetiche. Ma l'avvicinarsi alle fonti del linguaggio, movimento che è stato spesso condotto in modo letteralmente archeologico, non poteva trovare nell'assoluta smemoratezza animale che un'ulteriore figurazione simbolica, di (14) Gottfried Benn,  Icaro, in  Morgue, trad. it. di Ferruccio Masini, Torino 1971, p. 79. (15) Anna Achmatova,  La  sentenza, in  Poema  senza  eroe, trad. it. di Carlo Riccio, Torino 1966, p. 45. (16) Dante, op. cit., 1, I.

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quella distanza che ci consegna a essere « spettatori sempre », « e sempre di rimpetto ». Riprendendo in qualche modo il concetto dantesco, Rilke figura l'emarginazione del linguaggio umano in una condanna contemplativa di ciò che le creature angeliche e bestiali  sono da sempre e in cui da sempre sono salvi, e solo i morti possono diventare: l'Aperto.

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Quello che c'è di fuori, lo sappiamo soltanto dal viso animale; perché noi, un tenero bambino già lo si volge, lo si costringe e riguardare indietro e vedere figurazioni soltanto e non l'aperto ch'è sì profondo nel volto delle bestie. Libero da morte. Questa la vediamo noi soli; il libero animale ha sempre il suo tramonto dietro a sé. E dinanzi ha Iddio; e quando va, va in eterno come vanno le fonti (17).

Se c'è invece un luogo dove la coscienza simbolica sublimata della distanza dall'animale entra in crisi, e lo stesso simbolo si fa così contraddittorio da incutere spavento, questo è nell'opera di Franz Kafka. Qui l'uomo letteralmente si trasforma in animale e perde ogni connotato: « Hanno capito una sola parola? »

chiede il procuratore ai genitori di Gregorio Samsa, mentre questi si sforza di rabbonirlo da dietro la porta che con le zampine sta cercando di aprire: «Questa era la voce di un animale» (18).

Altrove è invece la bestia ad acquistare la lingua umana. Laddove l'animale pareva « un uomo privo di lingua », Kafka inventa un

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(17) Rainer Maria Rilke,  Ottava  Elegia, in  Elegie  duinesi trad. it. di Enrico e Igea de Portu, Torino 1978, pag. 49. 1 (18) Franz Kafka,  La  metamorfosi, in  Racconti, trad. it. di Rodolfo Paoli, Milano 1970, pp. 168-169.

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cane linguistico  (Indagini  di  un  cane} e una scimmia linguistica  (Una relazione  per  un'accademia). Il protagonista del lungo e involuto racconto  Indagini  dì  un  cane, alla cui enorme complessità qui si può solo accennare, è un cucciolo tormentato da questioni metafisiche. Si rovescia così la situazione canonica: stavolta l'animale è dotato di coscienza, non solo, ma di una coscienza robustissima, invadente, con una smania ragionativa addirittura avvocatesca. Il cucciolo vuole indagare sui veri limiti della natura canina e rompere così l'omertà animale. Noi resistiamo a tutte le domande, persine alle nostre, da quei baluardi del silenzio che siamo (19).

Eppure, nonostante sia il primo a infrangere una legge animale, quella del silenzio, il cucciolo è scandalizzato e insieme affascinato dall'apparizione notturna di una banda di cani cantanti, inventori di un inspiegabile ballo e di una musica animale. Agli occhi del ragionevole cucciolo, l'arte sguaiata dei cani cantanti rimane un mistero, per quanto irresistibile, come alle orecchie degli uomini risulta incomprensibile, ma per questo più dolce, la voce, P« arte non premeditata » degli animali canterini. Sono dunque i cani cantanti, i veri « animali » del racconto — la verità melodiosa del creato? Oppure in quell'« arte » intravediamo un che di umano camuffato che la inquina, e fa anche di quei cani i traditori della razza? Quei cani trasgredivano la legge [...], avevano deposto ogni pudore, quei disgraziati, e facevano l'atto più ridicolo e nello stesso tempo più indecente: camminavano ritti sulle zampe posteriori. Vergogna! (20)

Strano esempio di moralismo bestiale, quello del cucciolo! Dal punto di vista della dignità animale, è pur vero che questi cani artisti che scimmiottano l'andatura eretta dell'uomo sono uno scandalo. Alla stessa stregua le scimmie così prossime all'uomo da condivider-

(19) Kafka,  Indagini  di  un  cane, in op. cit., p. 473, (20)  Ivi, p. 464.

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ne la libertà dei gesti, che in apparenza le affranca dalla muta passivita animale, sono le più schiave e impure tra le bestie. Ma nonostante il suo intrinseco moralismo, il cucciolo aspira alla libertà. Vorrebbe interrogare le generazioni precedenti: « la loro memoria non era ancora sovraccarica come la odierna, era ancora facile indurii a parlare... » (21). Lo lasciano insoddisfatto tutti gli autematismi della condizione animale; anche l'eterno ritorno di fame e di cibo, e poi di nuovo fame e di nuovo cibo, gli sembra un'odiosa imposizione dell'abitudine. Ma nel momento in cui decide di ribellarsi alla natura, digiunando per ore e ore, fino a vomitare sangue e a sentire prossima la fine, ecco che il « canto » di un altro cane lo sottrae alla morte, egli si rizza sulle zampe e non può fare a meno di correre via.

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Sembrava esistesse soltanto per me quella musica sublime... e già volavo, spinto dalla melodia, con balzi stupendi (22).

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Da quel giorno il cucciolo, considerando insufficiente il linguaggio dei cani (in questo caso: il linguaggio umano), si dedica allo studio della musica dei cani.

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Non è facile accostarsi a questa scienza, la si considera particolarmente difficile e preclusa alla folla aristocratica (23).

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Si potrebbe dire a questo punto che il linguaggio mette a morte l'uomo, mentre la « musica » della voce animale lo resuscita (letteralmente: lo ri-mette al mondo)? 1 Eppure anche gli animali parlanti di Kafka hanno la loro radice nel silenzio. « Noi siamo quelli che il silenzio schiaccia » (24). A dar 1 voce a questo silenzio è solo l'uomo, nominando l'animale, prestanI dogli una lingua che è un peccato perché differisce la presenza anima1 le, di per sé muta. Essenzialmente perché non può spiegare, quindi 1 annunciare, la sua presenza, l'apparizione dell'animale è sempre sgo(21)  (22)  (23)  (24) 

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meritante, inspiegabile. Così è, per esempio, nelle brevi narrazioni di Federigo Tozzi (Bestie), forse l'unico caso di scrittura di un italiano dove con le bestie non si dia un incontro semplicemente empatico, o favolistico, o allegorico, ma dove questa muta presenza è tanto sconcertante da risultare spesso del tutto slegata dal contesto dov'essa appare. Ma tale incongruenza è appunto costitutiva, come dicevo, dell'apparire dell'animale, che ha sempre il carattere dell'« irrompere », dello « sbucare all'improvviso » in un contesto affatto diverso. Mare descrive così quest'irruzione: Sotto, a sinistra, correva una coppia di conigli bianchi dagli occhi rossi. Non so come sia arrivata nel quadro. Ad esso ho però voluto dare questo titolo: «II fremito del coniglio» (25).

Anche nelle prose di Tozzi la bestia « arriva » non si sa come, appare generalmente in coda alla narrazione, spesso sembra che lo scrittore ve l'abbia aggiunta a forza, per suscitare sconcerto. Non vi è legame, neppure simbolico, tra il narrato, in genere di carattere esistenziale, e l'animale che lo interrompe di colpo. Non può che seguirne sgomento. Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non scappasse. Allora guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai

una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna (26). /

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Qual è la ragione di questa vergogna? Forse l'inanità simbolica

dell'animale, che non gli permette alcuno sviamento dal suo destino, e in cui vediamo un possesso irriflesso della verità, è per noi un motivo di vergogna? L'ideale perfezione della bestia può far sfigurare ogni umana abilità (nel racconto di Kleist, è satireggiata dal signor C... la malagrazia dei ballerini; poi è lo stesso C... a sbuffare invano duellando con l'orso); anche se all'ombra e in nome di quella perfezione, piuttosto, si è trasformata la barbarie mitica in barbarie storica, con un salto (25) Mare, op. cit., p. 76. (26) Federigo Tozzi,  Bestie, Milano 1979, p. 79.

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che non è poi così imprevedibile, nelle varie forme di naturalismo politico, culto della biologia ecc.; queste sì ragioni di vergogna. Ma dicevamo, che la si consideri o meno simbolo di una violenza inflitta o da infliggere (i poveri rospi massacrati in mille modi, di cui scrive Tozzi, il cui mormorio risuona lungo le prode del fiume come un rimprovero), quella dell'animale è una presenza difficilmente tollerabile. Nel noto racconto di Sheridan Le Fanu,  II  te  verde, una scimmia con la semplice, silenziosa presenza conduce il protagonista alla follia e al suicidio. La vergogna che inerisce alla presenza animale proviene dal suo essere muta. E' intollerabile una presenza che non si presenti secondo la modalità della lingua. Gli animali che ci confondono sono « baluardi del silenzio », l'orso schermitore sta così silenzioso e « serio » di fronte al suo sfidante che questi perde la calma, « prova vergogna » della sua inutile agitazione (lo stesso era accaduto al suo precedente avversario, il giovane nobiluomo livone: « s'aggiungeva la passione a confonderlo »). Nell'incertezza e nell'inspiegabilità della figura animale, che si da all'esperienza in modo incontrollabile, si estingue il culto della « presenza » (in termini psicologici: della « coscienza ») come un bene linguistico inalterabile; anzi diremmo che l'animale stesso  è un'alterazione del linguaggio, che lo compromette definitivamente. Cosi si chiariscono due modalità della presenza, l'una linguistica, illusoria, che equivale nel racconto di Kleist, all'affettazione del ragazzo conscio della propria bellezza; l'altra non-Iinguistica, muta, altrettanto illusoria perché nella sua essenza negativa, in-dimostrabile, che per venire alla dimostrazione ha bisogno di essere chiamata da una lingua che la distrugge — come la grazia del giovane che si rivela e si perde per sempre in un istante di coscienza. Per questa natura ibrida, la figura dell'animale può diventare un comodo ma modesto veicolo per la rappresentazione dell'alterila, rappresentazione ironica perché sempre intonata a una distanza (quella che nella favola medievale, del lupo sciocco, della volpe astuta ecc., veniva rapidamente colmata dal senso allegorico).

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Inoltre, è la stessa estraneità iconica dell'animale nel mondo moderno, dove è bandito dagli spazi della nostra vita, a farci balenare la sua come un'alterità ironica, a rendere la sua apparizione un evento per forza mostruoso, o grottesco, o patetico. L'im-mondità dell'animale può anche significare il contrario di quello cui eravamo abituati a credere (l'essere-il-mondo dell'animale nell'aperto di Rilke, immensamente più accreditato alla salvezza dell'umano fronteggiare-ilmondo col linguaggio); al contrario, in un mondo tutto preso dall'umano, cioè dal linguaggio, l'animale è im-mondo nel senso che è non-mondo — un escluso che ispira sentimento patetico. Un superumanesimo linguistico ha rovesciato dunque la realtà come un guanto. D'altronde,  La  metamorfosi di Kafka può essere letto come la disavventura di un povero insetto. Il rischio dell'incamminamento vizioso nel terreno della rappresentazione simbolica del non-simbolico è tanto originario che infieia questo scritto come probabilmente qualsiasi altro discorso che inanella metalinguaggio per « dire » il linguaggio — come se l'innocenza potesse scaturire da una doppia falsità. E ha la stessa origine il rischio di chiudere in un'alterità ironica la presenza animale come semplice non-mondo — antico sogno della volontà di dominio della lingua. L'apparire dell'animale nella scrittura avviene nel modo di una traduzione linguistica delPoriginarietà animale, cioè della differenza di ciò che di per sé è indifferente, la voce dell'animale stesso. Quando l'animale scompare dal mondo, là dove si potrebbe coglierne la voce, esso straordinariamente riappare nella scrittura dove la sua presenza è differita in uno stemma allegorico di cui nemmeno più possediamo il senso. Lo smarrimento che ne segue ha spesso un effetto comico. Quale purezza, dunque, può essere raggiunta attraverso il linguaggìo se questo al limite estremo può arrivare a creare, della coscienza dell'incoscienza, una figura simbolica, la bestia, misurando un abisso piuttosto che colmarlo? Che senso ha dunque la presenza della bestia nella scrittura, se non quello di fare da comparsa in un teatro dove i vizi umani recitano con becchi e code posticce, sotto maschere orecchiute? Eppure come notava Debenedetti, nei racconti di Tozzi come

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L'orso  di  Kleist

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altrove, il senso della bestia eccede qualsiasi codice di emblemi. Le bestie significano intenzioni diverse della vita, noi non sappiamo precisamente quali, a meno che accettiamo i significati convenzionali della favolistica o dell'araldica, o non ci appaghiamo dei piaceri o del disgusto o dello sgomento che ci da la loro vista... (27).

Come dunque raccapezzarsi con questa eccedenza di senso laddove si manifesta come assoluta mancanza di senso, in ciò che per essere irriconoscibile e inspiegabile attenta alla memoria umana nella sua cura essenziale, quella di preservare i codici? Qui, finalmente, può soccorrerci il racconto di Kleist, e forse illuminarsi la relazione tra le due fasi del racconto. L'elemento che accomuna la marionetta e l'orso nella medesima grazia è la mancanza di una memoria. Da questo punto di vista la tecnica dell'orso schermitore è assolutamente arbitraria quanto il movimento puramente aleatorio della marionetta. Non c'è memoria che raccolga i movimenti dell'uno o dell'altra in ordine a un sapere, che pregiudicherebbe la purezza e la grazia dei movimenti stessi. Dunque il punto d'incontro tra l'animale e il fantoccio è in una tecnica la cui essenza è dell'essere senza-memoria (il che è un modo possibile di pensare l'essenza stessa della tecnica). Ma in cosa può riguardare l'umano questa tecnica la cui essenza è tutta negativa (l'assenza di memoria), questa innocenza come mutilazione dello spirito, che accomuna la marionetta e l'orso nella medesima astrazione? Qual è dunque la relazione tutta moderna tra animalità e astrazione, che Mare intuiva contrapponendo « animalizzazione » a « naturalizzazione » — vale a dire animale a natura — e che ne  II  teatro  dette  marionette forma, a ben pensarci, l'eccedenza della metafora dell'orso schermitore? Se l'astrazione (leggi: la smemoratezza) è un semplice fattore d'inumanità, come vuole una tradizione critica del novecento, allora perché la letteratura ha preso a partorire disumane creature, uomini

(27)

Debenedettì, op. cit, p. 85.

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che perdono il senno e la lingua, diventano automi, si mutano in insetti — e non per metafora? (Tozzi voleva scrivere una novella i cui protagonisti fossero « burattini di legno »). Esiste un luogo del linguaggio in cui esso è libero della sua facolta di differenza — cioè di riferire a una memoria il discorso —; e questo è il luogo della tecnica stessa del linguaggio, dove il linguaggio è smemorato per essenza. In questo luogo, che è del tutto negativo nel suo fondamento, può manifestarsi la presenza alla stessa stregua in cui si manifesta, metaforicamente sia ben chiaro, nell'apparizione dell'animale o nel movimento della marionetta: solo che in questi la negatività è costitutiva e non può essere praticata. La pratica di quel luogo smemorato è appunto la « difficile scienza » della musica dei cani, l'arte di tenersi nell'infondatezza della disciplina. Chi ha pratica di questa disciplina meramente tecnica del linguaggio, il poeta, di luì Piatone dice che abbia « voce di cicale », Keats che sia un «camaleonte» (animale smemorato e senza stile); e tanti altri ne hanno scritto che la sua lingua somiglia a quella degli uccelli. E' dunque la poesia il luogo della smemoratezza della lingua, dove liberamente opera una tecnica che sola può considerarsi « oggetto », « patrimonio », « memoria » del poeta. « Memoria della tecnica » significa per il poeta frequentare il luogo dimenticato della lingua dove questa si offre al libero gioco della tecnica, e di cui la tecnica rappresenta l'unico sapere, senza residui. La sola memoria del poeta è dunque la tecnica, come modo di tenersi nell'arbitrio della lingua e delle sue forme finite. Lo stesso è per l'orso che ogni momento « guarda gli occhi negli occhi, come se ci potesse leggere l'anima ». Lo spirito moderno ha tentato molti diversi accessi a quel luogo: « noi dobbiamo fare il viaggio intorno al mondo e vedere se si trovi forse qualche ingresso dal di dietro » (28). Per questo fine superiore non si è fatto altro che congiurare contro il linguaggio (a favore del grido e del silenzio) e contro la memoria (a favore dell'astra-

(28) Kleist, op. cit., p. 14.

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L'orso  di  Kleist

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zione). Il nichilismo e la lotofagia sono i due figli illegittimi dell'impresa, di cui noi siamo a nostra volta i figli illegittimi; ma il figlio che porta il nome del padre non è ancora nato. Così nella modernità l'aspirazione alla tecnica è divenuta culto dello stile e tecnicismo; la rimozione dell'« ultimo resto di spirito » ha mutato la scrittura in un ancora più rigido esercizio, di anime pietrificate; e la smemoratezza è stata, ed è tuttora, venduta come una droga contro i tormenti della storia. Già abbiamo visto l'uso simbolico che si è fatto della « barbarie » bestiale. C'è chi ha fin troppo goduto delP« oscuramento e indebolimento della riflessione ». Eppure in un'era in cui la tecnica e il suo pensiero senza-memoria diventano un'esperienza corrente, non si può che immaginare una « difficile arte » come conservazione e cura di questa smemoratezza, un'arte che continuamente interroga l'infondatezza della tecnica.

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— Dunque — dissi io un po' distratto — dovremmo gustare di nuovo dall'albero della conoscenza, per ricadere nello stato di innocenza? — Certamente — rispose — questo è l'ultimo capitolo della storia del mondo (29).

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(29)  Ivi, p. 25. Confronta anche il saggio di G. Franck a prefazione dell'op. cit. di F. Mare, quello di G. Agamben a prefazione de  II  fanciullino di G. Pascoli (Milano, 1982), le voci  Natura/cultura (E. Leach),  Animale (J. Barrau) e  Voce (C. Bologna)  dell'Enciclopedia  Einaudi.

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LA RICERCA DEL FATALE I

I TACCUINI DI BRAQUE

La spititualité contro l'idéalité. Le perpétuel contre l'éternel.

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GJB.

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Nei taccuini di Georges Braque (1917-1952), raccolti con il titolo di  Le  jour  et  la  nuit (1), troviamo scritto:

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Détruire toute idèe pour arriver au fatai.

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Per arrivare a ciò che ci è destinato è necessario distruggere ogni idea. Ma come possiamo liberarci dalle idee se ci atteniamo alla fatalità?

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Le fatalisme n'est pas, comme on le croit, un état passif.

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II fatalismo,  le  fatai, come più concretamente si esprime la lingua francese, vive dunque secondo Braque di un'accezione molto più ricca di quella che abitualmente riteniamo nei nostri discorsi, con valenza quasi sempre negativa. In tale accezione, ben lungi da una rinuncia a conoscere se stessi, ci conforta Braque, si nasconde il principio stesso del riconoscimento. A rechercher le fatai, on se découvre soi-mème. Da queste indicazioni risulta che l'idea, a differenza del fata-

I \ \ (1)  Le  jour  et  la  nuit, Levallois 1952. Tutte le citazioni che seguiranno 1I sono tratte da questo volume.

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Gianluca  Manzi

lismo sin'ora incontrato, non viene semplicemente ignorata, ma annullata. Il fatalismo a cui allude Braque non è un nuovo  ismo  (« Tous les  ismes sont des constructions »), non misconosce le idee, quanto « met les idées en échec ». Scacco per cui o trovano una posizione,  si realizzano, o vengono eliminate; in entrambi i casi spariscono. La critica di Braque quindi non si rivolge all'idea tout court, ma all'uso ideale dell'idea, che a partire da un certo momento l'umanità sembra aver inesorabilmente favorito. 2.

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Avec la Renaissance, l'idéalité a remplacé la spiritualité.

In un celebre studio di Edmund Husserl su  La  crisi  delle  scien­ ze  europee, il filosofo individua in questo nuovo corso dell'umanità un rivoluzionamento dei suoi compiti, sulla base dell'evolu2Ìone di quella scienza filosofica sorta in Grecia. La cultura extra-scientifica, — scrive Hussetl — la cultura non ancora sfiorata dalla scienza, è un compito e un'operazione dell'uomo nella finitezza. L'orizzonte infinitamente aperto in cui egli vive non si è ancora dischiuso; i suoi fini, le sue azioni, la sua attività e le sue evoìuzioni, la sua motivazione personale, di gruppo, nazionale, mitica, tutto si muove nella dimensione del mondo finito e controllabile. In quest'ambito non esistono i compiti infiniti, i prodotti ideali il cui campo di lavoro è la loro stessa infinità, la quale, per la coscienza di coloro che la indagano ha appunto il modo d'essere di un campo di compiti infinito (2).

Ciò che allora Braque contesta nei suoi taccuini è la legittimità di un tale compito. Assumendosi compiti infiniti, ideali piuttosto che reali, l'umanità si sarebbe preclusa l'esperienza della verità per votarsi ad un'infinita verosimiglianza. Ora II faut choisir: une chose ne peut pas étre a la fois vraie et vraisemblable.

(2) Edmund Husserl,  La  crisi  delle  scienze  europee  e  la  fenomenologia trascendentale, trad. it. E. Filippini, Milano 1983, p. 337.

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I  taccuini  di  Braque

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E' evidente che in questa scelta non si decide della priorità fra verità e verosimiglianza, il che sarebbe assurdo, essendo per tutti la verità un fine molto più nobile della verosimiglianza; bensì di quale interpretazione dare a questa parola, verità, e conscguentemente del ruolo dell'uomo nel mondo. Ed è per questo che la ricerca del fatale ci si era preannunciata come una promessa di identità. *

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Le commun est vrai le setnblable est faux: Trouillebert ressemble a Corot, mais ils n'ont rien de commun.

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In che senso due cose possono essere simili senza avere niente di comune? In che senso una delle due è una copia, « un sosie »? Nel senso che per essere comuni non basta che si rassomiglino, anzi è del tutto inessenziale, ma che condividano la stessa origine, lo stesso destino.

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La vérité existe; on n'invente que le mensonge.

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\ i \

II problema è allora come essere partecipi di quella verità che è  già un fatto? O in altre parole, come far esperienza del presente? C'est l'imprévisible qui crée l'événement.

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Così come l'uomo non può prevedere la sua nascita, ed imprevedibilmente trova una data condizione, un dato mondo, allo stesso modo è da questa "casualità" che il suo compito deve attendersi la sua verità, quella verità che lo riconcilia a quella realtà che è già presente, e che ad esempio già incontra in sé come corpo, come animalità.  '  ­  •  . \ La presunta separazione dell'anima dal corpo, o analogamente per ciò che concerne il mondo del sensibile dal sovrasensibile e così 1 via, riposa su quest'iniziale duplicità dell'uomo: che come animale, 1 come corpo, è gettato come gli altri esseri nella verità, o come più precisamente direbbe Rilke  nell'Aperto, giacché la verità a questo 1 livello si confonde con la stessa esistenza, mentre spiritualmente ne le esiliato. Tanto che spesso gli animali, come nelle leggende, nelle -.

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Gianluca Manzi

fiabe o nei miti, diventano, una volta dotati di parola, dunque di spi­ rito, gli autentici testimoni della nostra realtà, o almeno gli intermeSolo nel minimo di attività, quando la volontà si riduce ad una semplice sorveglianza, quando la nostra mente indebolita dall'ostilità del mondo, dall'indifferenza dell'Aperto, si abbandona al puro ascol­ to del corpo, l'uomo sembra ritrovare quella condizione di animale parlante, l'incanto senza previsione del presente. Ma di quel presente che sulla soglia della materialità ostruisce con l'inesperienza diurna quella che sarebbe la libertà evasiva della memoria. Cos'è allora che impedisce allo spirito di accedere a quell'impre­ vedibilità con cui la realtà continuamente ci anticipa, e ci ossessiona nel sogno? 4. La conscience est la mère du vice.

L'idealismo considerando la conoscenza come una capacità infi­ nita, come la coscienza della realtà attraverso un'attività ideale, avreb­ be sottratto lo spirito alla sua realtà, costringendoci ad un'opera di verosimiglianza, di pantomima della vita. Non riuscendo mai la co­ scienza ad essere totale, la verità che accomuna il mondo e lo spirito si fa maggiormente latitante. Poiché più noi mimiamo idealmente la realtà più l'imperfezione diventa infinitamente grande. La parcelliz­ zazione delle scienze in discipline sempre più specializzate alla ricerca di un fondamento comune, constatata dallo stesso Husserl, non sareb­ be quindi una deviazione dalle aspirazioni originarie della filosofia, bensì un'inevitabile appendice. Grazie a questa continua approssima­ zione della verità l'uomo non riesce mai ad essere presente, a ricono­ scersi singolo oltre il soggetto, disperdendosi così nell'infinito ri­ mando di quell'esperienza di cui pur vive il creato. Peu de gens peuvent se dire: je suis là. Ils se cherchent dans le passe et se voient dans l'avenir.

Per quest'uomo che lavora idealmente per l'uomo, la propria www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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I  taccuini  di  l&raque

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morte e quella degli altri non può che segnare un'impiegabile interruzione della ricerca, e mai la cifra di un'irriducibilità delle cose e delle persone a sé,

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Esperienza e conoscenza, o meglio, esperienza e coscienza si oppongono allora inevitabilmente; tale opposizione però non è dialet-

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tica, poiché l'esperienza non sviluppandosi per un processo di vero-

\ \

simiglianza, esclude ogni verifica che non sia la miracolosità del suo darsi.

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La vérité n'a pas de contraire,

\

1 \ \ \ ì

Affinchè lo spirito possa perciò contemplare l'« estranea » (3) verità del mondo, esso deve prima di tutto diventare estraneo a sé, trasformandosi nella verità della contemplazione, deve cioè, parafrasando una definizione di W. Benjamin, farsi  il  luogo della contemplazione degli esseri in quanto contemplabili. Solo diventando  persona, \ quindi cosa spirituale, esso si pone sullo stesso piano degli enti, fuo\ ri perciò di quella conoscenza che in quanto coscienza è sempre "cat\ tiva coscienza": ossessione per quell'animalità che minaccia Pinauten\  licita del nostro spirito con le sue orrende gratuità, come un istinto 1 bestiale, un'eco della barbarie come preistoria nel segno. \

\ \ \

II tuo corpo sa essere un nodo. Lo guardo e vedo attraverso; prendo dai buchi le cose che sfumano senza lasciarti. Le osservo come corpo stesso, ricomposto e immemoriak. Questo è il mobilio notturno di \\ \\

\ (3) « Da questo atteggiamento universale, ma mitico-pratico, si distacca \ decisamente l'atteggiamento "teoretico", non pratico in tutti i sensi, Patteggia\ mento del  thaumazein a cui i grandi pensatori della prima fase conclusiva 1 della filosofia greca, Piatone e Aristotele, fanno risalire l'origine della filosofia. 1 L'uomo è preso dalla  passione per una considerazione e per una conoscenza del 1 mondo che si stacca da tutti gli interessi pratici e che, nell'ambito circoscritta Ideile sue attività conoscitive e nei tempi ad esse dedicati, non persegue e non I produce altro che pura teoria. In altre parole: l'uomo diventa uno spettatore Idisinteressato, un osservatore del mondo nel suo complesso, diventa un filosofo; o meglio: su questa base la sua vita si apre alla motivazione, che è possibile soltanto in quest'atteggiamento, per nuovi fini o metodi di pensiero, per cui \orge la filosofia ed egli diventa un filosofo» (corsivo nostro). Edmund Husserl, p. cit., p. 343.

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Fourier, le ombre azzurre e le voci d'orda (4).

L'ambizione della coscienza è infatti quella di sostituirsi all'ori­ gine, alla verità, di riprodurre sia pure idealmente l'esperienza, rifiu­ tandosi in tal modo di considerare l'uomo come un « oggetto », seb­ bene nobile, di quest'esperienza. Il presunto desiderio di contem­ plazione nasconde, come ci racconta il testo biblico, e come ci auto­ rizza a pensare il fenomeno della tecnologizzazione in epoca idealista, il desiderio di trasformarsi in Dio, di pianificare l'imprevedibile, per il quale non basta il semplice dominio attraverso il nome. Il nome infatti pur eleggendo l'uomo fra le creature a testimone del creato, non lo rende capace di produzione, bensì di chiamare alla presenza ciò che è. Non è allora un caso che la scienza moderna abbia costrui­ to, a differenza di quella antica, il suo sapere su un metodo tutt'altro che descrittivo, quanto invece su quello sperimentale, « grammatica­ le », di cui la funzionalizzazione del linguaggio è un'implicita con­ seguenza. Ma proprio questa ricerca di "fedeltà" ad una presenza mai perfettamente riproducibile, l'ha condotta alla sua dispersione babelica, ad una solitudine "dialettale". La questione è perciò come dare allo spirito nuovamente lo sta­ tuto delle cose, come disporsi a questa fatalità?

5. Le désespérant éternel.

L'uomo, anche al di là della coscienza, è dunque una presenza infelice. Presente come animale, come esistente, non può comunque accedere liberamente alla realtà dello spirito, che proprio in quanto realtà è imprevedibile. E' per questo che il diaframma dello spirito, contrariamente al mondo volontaristico dell'idealismo, è segnato dal­ la rinuncia. La stessa possibilità dell'erramento ideale ci mostra che l'uomo è continuamente nella condizione di perdere la sua presenza

(4) In: Pietro Fortuna, Grande Fondo Malampia, catalogo edito da Giu­ liana De Crescenzo in occasione di una mostra del pittore, Roma, giugno 1980. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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I  taccuini  di  Braque

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spirituale, di rifiutare  un  nome  proprio, come leggenda della sua identità. Decadendo da ciò che già è, e che ci anticipa fatalmente nella coscienza, spesso miticamente con « voci d'orda », l'uomo si trova a vanificare la realtà del mondo delle idee: i nomi, con cui lo spirito resosi sensibile ci fa partecipi del reale che comunque esperiamo come corpo.

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Sensation, révélation.

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Ed è solo dall'abisso di questa  disgrazia, dalla disperazione, che possiamo, persa ogni pretesa sullo spirito, aspettarci la riconciliazione col presente. Ecco perché più si giace in uno stato di povertà, quella che ad esempio colpisce chi si trova involontariamente escluso o emar\ ginato dalla « comunità scientifica », più si è prossimi alla salvezza, 1 ad una reintegrazione dell'uomo nella sua forma spirituale. Nell'mdi1 genza infatti non solo il mondo, ma anche lo spirito, ci raggiunge per \ la sua gratuità, può esserci  fatale. Ma il fatale a sua volta ci indica \ che sia può accadere ovunque, sia ci è dato riconoscerlo come nostro i solo dopo aver annullato ogni progetto. E' in questo  « raddoppia1 mento della distanza » (J.L. Marion) che si gioca l'autenticità dei i compiti. \ Se cioè l'idealità crea costantemente un'emorragia nel presen1 te, il compito dell'uomo è quello di rimarginare la ferita che la co1 scienza apre nella presenza dandogli un nome. Quest'opera di sutu1 ra però non può essere in alcun modo provocata, per evitare di rica1 dere nello spazio utopico della coscienza (« Une utopie est un mythe I dont on prévoit les conséquences. On se trompe. »), deve anch'essa essere un  avvenimento. Il che significa che quell'idea per sposarsi 1 alla realtà deve esserne originariamente  destinata, deve essere pre\ sente. Per questo nella parola  fatale noi usualmente riconosciamo un \ certo destino, un attimo risolutivo. 1

Le fatai met les idées en échec, le fortuit les déroute.

Il fortuito ricuce così lo strappo fra il fatale e l'ideale, trasformando l'idea in un'ipotesi di presenza; deviando e sconcertando

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Gianluca  Mani

il progetto dell'idealità nel « détail », nella « circostance »... I I

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Le présent, la circostance.

in un appuntamento improvviso con la presenza. E attraversi quest'inessenzialità dello spirito ci troviamo rimandati al senso stes so della presenza come fatalità, come esistenza.

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C'est le fortuit qui nous révèle l'existence.

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Pur dunque non potendo, come si è detto, in alcun modo pre ordinare « la fortuna », questi « lampi di presenza » (R. Ronchi),  < evidente che per essere in grado di riconoscere o di restare fedel al dono di presenza, è opportuno distrarsi dal futuro. Avoir la téle libre: le concepì obnubilo. Ce n'est pas a la suite de profondes méditations que l'homme a bu dans le creux de sa main. (De la main au verte, en passant par la coquille).

Ridursi in un primo tempo a una fragile esistenza (« Avoir 1 téte libre: étre présent ») come quella che consuma le sculture d Giacometti. In questa condizione i lampi penetreranno e persuade ranno il nostro essere con una fenomenale chiarezza. Attenersi pò a queste rivelazioni è il compito finito di questa comunità reale Mentre infatti la cultura per la comunità scientifica è qualcosa sem pre in sviluppo, infinita, La culture engendre la mostruosité.

e crea degli esseri costantemente incompiuti; la cultura per il fata lismo significa, più coerentemente all'etimologia, l'amministrazioni di un culto. In altre parole cultura significa una celebrazione delli presenza in sua assenza, secondo ciò che la presenza ha fatto pen sare di sé. L'espoir contre l'ideai. La costance contre ITiabitude. La foi contre les convinctions.

Speranza che la presenza si presenti e che illuminandoci del su