Filosofia analitica della storia

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Arthur C. Danto Filosofia analitica della storia il Mulino

Arthur C. Danto è nato ad Ann Arbor nel 1924. Lau­ reatosi -in filosofia alla Columbia University, è stato Visiting Professor alla New York University e a Prin­ ceton, Fulbright Fellow in Francia fra il 1949 e -il 1950 e Fellow all'American Council of Learned Sooieties fra il 1961 e il 1962. Attualmente .insegna filosofia alla Co­ lumbia University di New York. È autore di numerose opere fra cui « Analytical Philosophy of Knowledge • (Cambridge University Press) e « Philosophy of Scien­ ce » (Meridian Books), in collaborazione con S. Morgen­ besser. È editor del « Journal of Philosophy » e colla­ boratore di molte importanti riviste internazionali, fra cui « Mind », « History and Theory » « Philosophical Stu­ dies », « Filosofia » e « Sc-ienze ».

Questo volume è presentato dall'autore come un eser­ cizio, nell'ambito della filosofia analitica Jella storia, che prende -in esame le « asimmetrie » esistenti tra le nostre asserzioni sul passato e le nostre asser­ zioni sul futuro. Non è possibile, avverte Danto, scri­ vere la storia degli eventi prima che essi siano acca­ duti, intendendo la storia come una totalità, al mo­ do dei filosofi sostanzialisti; ma neppure valgono le varie posizioni, dal fenomenismo al relativismo, che pongono in dubbio la possibilità di una conoscenza del passato. A questo fine l'autore esamina le particolari strutture delle proposizioni narrative e gli ;;chemi in cui si organizza il materiale documentario; ne vengono coinvolti alcuni fondamentali problemi, come quello del­ la spiegazione, della natura e della possioilità di leggi che si offrono allo storico, del rilievo da dare all'indi­ viduo e alle istituzioni sociali. L'opera di Danto si ad­ dentra nelle piu recenti « querelles » della metodologia storiografica e mette in discussione le tesi, spesso al­ ternative, di noti autori, quali Ayer, Hempel, Dray e Mandelbaum. Ne risulta uno stimolante invito per i no­ stri lettori, sovente ancora alle prese con l'eredità illu­ stre e controversa dello storicismo.

Arthur C. Danto

Filosofia analitica della storia

Società editrice il Mulino

Bologna

riginale: Analytical Philosophy of History, London, Cambridge •ersity Press, 1965. Traduzione di Pier Aldo Rovatti. Messa a donale di Dino Buzzetti.

© 1965 by Cambridge at the University Press, London. © 1971 by Società editrice il Mulino, Bologna. CL 27-0236-3

Introduzione all'edizione italiana di Antonio Santucci

Analisi e storia in Arthur C. Danto

I. Nelle prime pagine della Analytical Philosophy of History, Arthur C. Danto si ricorda di Burckhardt e di un suo giudizio sulla filosofia della storia. Essa è una spe­ cie di centauro, non è arte e non è neppure scienza, assomiglia alla prima e presume di dire le cose che dice la seconda. Anche Croce, nei Primi Saggi, la considerava una ricerca che «non è piu da narratori, ma da filosofi, anzi da metafisici» e non esitava a ridurre la storia sotto il con­ cetto generale dell'arte; poi, chiarita la natura del giudizio per cui l'individuale non si disgiunge dall'universale, e quindi l'identità della storia e della filosofia, l'accusa si sarebbe fatta piu precisa e avrebbe toccato la presunzione di ricavare i fatti dall'idea e di pensarli senza documenti. Tutto risolto? Le cose si complicavano quando egli asse­ gnava alla: filosofia una funzione metodologica. Allora si poneva un'alternativa tra la coerenza ai presupposti hege­ liani del siste�a e l'istanza filologica che si lega alle con­ dizioni concret;e della ricerca. Cosi Chabod metteva a con­ fronto la Storia d'Europa e le storie del regno di Napoli o dell'età barocca in Italia; e mentre l'una gli sembrava penetrata da un provvidenzialismo che regola i fatti del mondo, le altre gli parevano piu vicine alle azioni degli uomini in carne e ossa. Se una lezione bisognava trarne, era che quanti s'occupano di storia, cercano in archivi-e biblioteche il materiale che faccia comprendere il passato, ricostruendolo e raccontandolo, devono guardarsi dal· darle un senso filosofico o teologico. Certamente la distinzione crociana tra res gestae e histo­ ria rerum gestarum garantiva il lavoro dello storico. Ma

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una volta ammessa, si chiedeva Gantimori, che c'è che egli non sappia fare da solo, utilizzando e correggendo le pro­ prie esperienze? Non basta diffidare degli schemi che si so­ vrappongono agli eventi particolari e li distorcono: i so­ spetti toccano anche la metodologia e il linguaggio dei lo­ gici che vorrebbero raddrizzare quello « tutto cose» degli stor,ici di mestiere, disciplinarne il gusto e l'attitudine. Se spiegare un evento deve significare farne il caso o l'esem­ pio di una legge generale, meglio le metafore e le tautolo­ gie. Era accaduto anche a Febvre quando aveva accennato ai primi decenni del Cinquecento come all'età delle « libe­ re fedi» o delle « libere credenze»: un'etichetta piuttosto sfuggente se comprendere non è tanto e soltanto sich ein­ fuhlen, ma definire e giudicare per quanto si può. Ma ne segue per questo che il fatto storico abbia la stessa compat­ tezza e stabilità di quello naturale? O non conviene atte­ nersi alle regole del mestiere e affidarsi al « fiuto», che è acuto in alcuni e mediocre nei piu? Viene naturale citare un altro maestro degli «Annales», Mare Bloch. È lo storico che ha scritto la piu nota apologia della storia. Chi la pratica sul serio è come l'orco della fia­ ba: dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda. L'uo­ mo o gli uomini? Il plurale si addice meglio a una scienza del diverso che non il singolare, favorevole all'astrazione. Dietro le forme del paesaggio, gli arnesi e le macchine, le biblioteche e le istituzioni oi sono loro, gli uomini, e chi non riesce a distinguerli dovrà rassegnarsi a essere un ma­ novale dell'erudfaione. Arte o scienza la storia? L'interro­ gativo è vecchio, conveniva Bloch, ma non c'è nessuno che non noti una differenza tra il fresatore che usa uno stru­ mento meccanico e il liutaio che si fa guidare dalla sensi­ bilità dell'orecchio e delle dita. Non si può negare che esi­ ste un « tatto» delle parole come ne esiste uno delle ma­ ni. Perché allora si dovrebbe caricarlo di pesi insopporta­ bili, obbligarlo a una previsione del futuro che gli sfugge? Tuttavia la conoscenza della Riforma protestante o catto­ lica ci aiuta a capire il mondo attuale e sarebbe vano cer­ care di comprendere il passato quando non sapessimo nul-

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la del presente. Come potrà, piuttosto, un tale studio esse­ re mai una science d'observation? C'è un vuoto, quello che lo separa dal suo oggetto, che di fatto è colmato dalla selce tagliata dall'artigiano dell'età della pietra o da un dato lin­ guistico, dalla norma giuridica incorporata in un testo o da un rito raffigurato su una stele, ossia dai documenti che lo storico interroga con la prudenza del detective e senza la pedanteria del manualista. Bloch progettava un atelier degli storici? Certamente egli non sopportava i teorici invadenti e si affidava alle tec­ niche e ai risultati della ricerca empirica. Un discorso sul metodo da parte di chi non lo mette a prova gli sembrava inutile, né contava che a farlo fosse il filosofo tradizionale o l'analista neutrale. Anche la neutralità è sospetta quan­ do ignora di essere essa stessa un valore e il pericolo della deformazione ideologica è meglio affrontato dalla prassi del vero storico, fedele suo malgrado al documento, che non dalle « regole » del metodologo. Questo atteggiamen­ to di difesa si spiega con le vicende occorse dopo lo stori­ cismo. Bisognerebbe sostare sulle alternative a cui si è espo­ sta negli ultimi decenni la lezione di Dilthey e di Weber, entrare nel vivo di un'eredità controversa. Gli epigoni so­ no stati tentati dal relativismo o dalla trascendenza assoluta dei valori; c'è stato con Lukacs l'incontro dell'Historismus con il marxismo, a cui seguiva quello con la fenomenologm e l'analitica esistenziale; e non si può davvero trascurare la ripresa, nel contesto del nuovo positivismo e del naturali­ smo pragmatico, del dibattuto metodologico. Che ha fatto lo storico in questi frangenti? Raramente egli s'è lasciato fuorviare dal suo lavoro e s'è concesso alle profezie. Piu spesso ha cercato di migliorare gli strumenti e di familiarizzarsi con la tecnologia. Anche se dissimulato, il suo isolamento continua e può riuscire di danno alla cor­ porazione. Non bastano ad attenuarlo i prestiti che egli chiede alle varie scienze, se poi non se ne chiarisce il ruo­ lo che assumono neHa ricerca. Qui nascono i problemi che toccano l'oggetto storiografico, il tipo di spiegazione cau­ sale e condizionale, le semantiche da adottare, ecc.: tutti

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problemi che lo studioso di storia non può dichiarare irri­ levanti e che esigono un esercizio analitico. Non conta tan­ to, allora, discutere sulle giurisdizioni del sapere e sui mo­ di di fissarle. Se del merito della storia si sono occupati, con proposte volta a volta diverse, i «filosofi», niente di male: stiamoli ad ascoltare, approviamoli o smentiamoli, e soprattutto invitiamoli a chiarire gli argomenti che a loro sembrano già chiari. II. Perché la storia dovrebbe essere esclusa dalle scien­ ze? Edward H. Carr se lo domandava in una delle sue le­ zioni all'Università di Cambridge e osservava che sono spesso gli umanisti ad avanzare tale proposta. Essi voglio­ no preservarla dall'empiria, pensano ancora che le lettere forniscano la cultura ai gruppi dominanti e che la tecnica sia da riservare alle classi subalterne. Se qualcosa si deve obiettare alla frattura tra le due «culture» è che essa si regge su un pregiudizio. Dopo tutto, concludeva Carr, non s'è mai sentito che si consigli agli ingegneri di fre­ quentare i primi corsi di botanica. Questo discorso va situato e argomentato. Se esiste una boria umanistica, c'è anche una «ipoteca» positivistica sul sapere. Essa è la stessa del controllo fattuale a cui va sottoposta ogni conoscenza. Se assumiamo per vero ciò che verifichiamo e solo oiò che è verificabile ha significato, non si vede come le osservazioni sul passato possano essere si­ gnificanti. Ma che un certo evento E sia accaduto un certo numero t di anni fa nel luogo s, cosa vuol dire se non che noi sperimentiamo, qui e ora, un evento o serie di eventi E1 come la lettura di certe iscrizioni su una pietra? Il caso non differisce, notava Preti, da quello del fisico-geologo che stabilisce l'età di un minerale misurandone la radioat­ tività attuale o ne differisce solo tecnicamente. V'entra in gioco una conoscenza inferenziale che si basa su taluni do­ cumenti di cui disponiamo e sulla loro continuità con i fat­ ti che vi sono rappresentati. Quali sono i suoi limiti nella 11icerca storica? Ci sarebbe bisogno di un excursus minuzio­ so che muovesse, restando sul terreno del positivismo, dal

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progetto di una scienza con un linguaggio e una sintassi unitatiia. La scienza è un sistema di proposizioni, avvertivJl Neurath in un saggio del '32, che non vengono confrontau;; con le «esperienze vissute» o con il «mondo», ma con altre proposizioni; essa rifiuta ogni duplicato, indica nella coerenza il proprio criterio di significanza e assume il lin­ guaggio della fisica, che consta di designazioni spazio-tem­ porali e di predicati osservativi, come esemplare; dopo di che, se si deve far posto a una storia, questa è una storia «cosmica» che contiene i medesimi enunciati del sapere unificato e lascia cadere le differenze tra eventi naturali e umani. Ancora nel 1941, in un articolo comparso sulla «Phi­ losophy of Science», Edgar Zilsel assegnava alla sociologia il compito di elaborare leggi analoghe a quelle della fisica e incaricava lo storico di applicarle convenientemente. Tali leggi si conseguono con il raffronto dei sistemi culturali isolati tra loro, cosi: da verificarne le eventuali costanze o regolarità come sarebbe la precedenza dell'ordine tribale sulla formazione dello stato. Allora è chiaro che l'indagine storica non si distingue dal 1avoro dell'astronomo e del fi­ sico nel metodo, ma nell'oggetto: essa non ha, insisteva Nagel, un carattere idiografico o idiografico soltanto. Il fatto che si occupi del singolare non comporta una diffe­ renza radicale nella struttura logica delle spiegazioni fornite dalla storia e dalle scienze empiriche. Le premesse esplicati­ ve della prima, egli precisava nel «Scientific Monthly» del '52, comprendono, con gli enunciati singolar.i, un certo nu­ mero di leggi e queste possono essere di vario tipo: asser­ zioni riguardanti regolarità accertate in qualche scienza particolare o tratte dall'esperienza comune, universali o statistiche, relative a una uniformità nella successione tem­ porale o a un rapporto di coesistenza. Semmai bisogna in­ sistere sull'incompletezza di queste premesse e sul fatto che si menzionano raramente le condizioni sufficienti degli e­ venti in esame. Per questo la verità delle prime è del tutto compatibile, in una spiega�ione storica come nelle altre del-

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la condotta umana, con la falsità della conclusione e la spiegazione stessa si dice probabilistica. Sono noti gli sviluppi « liberali » del neopositivismo. Non è la singola proposizione, ma il sistema teorico nel suo insieme che si riporta a predicati osservativi. Il significato degli enunciati scientifici consiste dunque, ha notato Hem­ pel, nell'appartenenza a un sistema. Non ne segue che la spiegazione in uso nella storia si separi da quella delle scienze naturali, cessi di ricondurre l'evento a una legge. Questa è un'ipotesi generale, per cui, ogni volta che un evento del tipo C accade in un certo luogo e tempo, un evento del tipo E accadrà in un luogo e in un tempo colle­ gati in modo specifico con il luogo e il tempo dell'accadere del primo evento. Quando vogliamo spiegarci perché un evento del tipo E si ver,ifichi, dobbiamo indicarne le cause o fattori determinanti. Se ora l'asserzione che un comples­ so di eventi dei tipi C1, C2... Cn ha causato l'evento da spiegare si riporta a quella secondo cui, in accordo a certe leggi generali, un complesso di eventi del suddetto tipo è di regola accompagnato da un evento del tipo E, la sua spie­ gazione consisterà di ( 1) un complesso di asserzioni sul prodursi di certi eventi Ci, C2... Cn in certi tempi e luoghi e di (2) un complesso di ipotesi universali tali che le as­ serzioni dei due gruppi siano ragionevolmente (reasonably) confermate da prove empiriche e che dai due gruppi di as­ serzioni si possa dedurre quella relativa al prodursi dell'e­ vento E. Il primo gruppo stabilisce le condizioni determi­ nanti dell'evento da spiegare; il secondo contiene le leggi su cui si fonda la spiegazione. Questa consisterà allora nel­ la deduzione delle proposizioni che descrivono I' explanan­ dum da una classe non vuota di leggi naturali e di condizio­ ni fattuali rilevanti. Poco conta che le leggi siano implicite, né sarebbe facile formularle con precisione sufficiente e in accordo con il materiale empirico. Non c'è dubbio che, quando spieghiamo una rivoluzione con il malcontento di una popolazione in date condizioni, ci riferiamo a delle regolarità di comportamento; quasi mai, tuttavia, siamo in grado di stabilire quale forma o misura il malcontento do-

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veva assumere e quali condizioni ambientali dovevano sus­ sistere perché scoppiasse una rivoluzione; in questo, come in molti altri casi, il contenuto delle ipotesi si può ricostrui­ re approssimativamente. Piu che a una spiegazione, con­ cludeva Hempel, ci troviamo dinanzi a un explanation sketch, a un abbozzo che esige di essere « riempito » per trasformarsi in una compiuta spiegazione. Completiamo la digressione. Non c'è grande differen­ za tra spiegazione, previsione e prova, non ce n'è per quanto riguarda la struttura logica. Essa dipende, avverti­ va Popper in The Poverty of Historicism, da quello che consideriamo il nostro problema. Se lo stesso consiste nel trovare le condizioni iniziali o alcune delle leggi universali, o entrambe le cose, da cui sia possibile trarre un prono­ stico, ci s arà una spiegazione; deriviamone qualche infor­ mazione e avremo a che fare con una previsione; riteniamo problematica una delle premesse, sia una legge universale o una condizione iniziale, e parleremo di prova. Ora l'uso di ipotesi generali « falsificabili » può ben estendersi alla ricerca storica senza che se ne perda il caratteristico inte­ resse per gli eventi singolari. Occorre infatti reagire alle considerazioni totalizzanti di un Hegel e di un Marx e alla loro pretesa di formulare profezie a lunga scadenza. L'uni­ ca nozione di « tutto » da accettare è quella che, come nel caso della psicologia della forma, denota certe proprietà o aspetti della cosa per rivelarne la struttura. Invece le teorie storiche dovrebbero dirsi interpretazioni, sono simili a ri­ flettori che si proiettano sul passato e illuminano il pre­ sente. Non esiste una storia dell'umanità che determini, per mezzo delle sue leggi immanenti, i nostri problemi e il suo unico senso è quello che riusciremo a darle. Caduta l'unità del linguaggio, anche l'unità del metodo doveva rivelarsi un limite. Lo stesso « riduzionismo » di Dewey ne era toccato e la sua lezione pragmatista si sareb­ be mostrata efficace in altre direzioni. Basta tornare al Bol­ lettino 64 del Social Science Research Council, al volume miscellaneo The Socia[ Sciences in Historical Study del '54. Giustamente Paolo Rossi, presentandolo al lettore italiano,

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insisteva sull'atteggiamento collaborativo che v'era propo­ sto e attuato. Lo storico cessa di essere un collezionista di materiali su cui interviene lo scienziato sociale per derivar­ ne qualche legge. Ma per questo egli deve capire meglio la funzione delle teorie e non cedere al mito della singolarità. La non ricorrenza dell'evento è tale solo per lo scopo che si propone la ricerca storica e che la rende diversa dalla bio­ logia o dalla sociologia; il suo apparato concettuale ne vie­ ne condizionato e non va mutuato dalle altre scienze; un contatto fra le stesse è infatti efficace solo se ciascuna adat­ ta i metodi impiegati negli altri campi di ricerca alle sue esigenze originali. Qui hanno operato gli analisti che, nella complicata vi­ cenda dell'empirismo, non si sono chiusi in una scuola. Si direbbe, a proposito della teoria hempeliana della spiega­ zione, che abbiano ascoltato un po' di piu gli storici. Si è domandato Patrick Gardiner: non ne esiste un'altra accan­ to a quella di tipo causale? L'analisi deve procedere con­ testualmente e ci si accorge allora come nella storiografia la spiegazione sia piu flessibile che in altre discipline sistematiche. Se va respinta la pretesa di capire il compor­ tamento umano solo in termini non-causali, nemmeno si devono trascurare i « motivi » o le « intenzioni ». Spie­ gare l'azione di un tale riferendoci allo scopo (purpose) a cui è rivolta non è lo stesso che spiegarla con il ricorso a un evento fisico o alla situazione che l'ha prodotta. Bisogna sbarazzarsi della falsa alternativa posta dai materialisti sto­ rici e dagli idealisti, o almeno dai loro esponenti più rudi, per cui le idee degli uomini sono una specie di vapore o l'unica stoffa di cui è fatto il mondo. Sono i nostri inte­ ressi che ci spingono a considerare gli uomini nei loro tratti fisici o mentali. E cosi il fisiologo si occupa della cir­ colazione del sangue o del sistema nervoso, e lo psicologo e lo storico di come pensiamo, parliamo, sentiamo e agia­ mo: non c'è conflitto, c'è solo differenza di scopi e di pro­ spettive. Qui nascono i contrasti tra una filosofia specu­ lativa e una filosofia analitica della storia. La prima va in cerca di un suo significato universale, la seconda vuole col-

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locarla nella mappa del sapere e non sa se ciò sarà possi­ bile. Se la storia fosse scientifica al modo della fisica o del­ la biologia, non si porrebbe il problema di una « critica » separata. Chi l'ha sostenuto è un positivista e il suo avver­ sario è quello tradizionale, l'idealista, si chiami Croce o Collingwood. Ma perché essi non dovrebbero fare posto a qualche altro contendente? III. Anche Danto, docente alla Columbia University, si pone questa domanda. La filosofia sostanzialistica della sto­ ria ne persegue la totalità e sta alla storia che si limita agli eventi trascorsi come la scienza teorica alla semplice osser­ vazione. Ma il confronto le concede troppo rispetto alla seconda. I suoi sono dei rozzi tentativi e non hanno po­ tere di previsione, mentre i resoconti del passato ci pre­ sentano esemplari assai evoluti del genere. E poi, perché il lavoro degli storici consisterebbe nel procurare dei ma­ teriali alle filosofie della storia? Sarebbe come se preten­ dessimo che gli artisti operino per i loro critici futuri. Es­ si si limitano alle asserzioni, o descrizioni vere, di avve­ nimenti del passato che non presuppongono asserzioni, o descrizioni vere, del futuro. Ma è proprio qui che ci si im­ batte nell'obiezione già nota: com'è possibile porre la que­ stione se sono vere o false se sono prive di significato? Una proposizione non analitica è significante, si dice, solo quan­ do è verificabile per mezzo dell'esperienza. Per le asserzio­ ni storiche dobbiamo allora limitarci a cercare una prova, ma in tale caso esse non sono che previsioni sui risultati delle nostre procedure storiografiche. Chi indica il significato di una proposizione nel suo uso non la pensa diversamente ed è per questo che Danto si riferisce a un pragmatista come C.I. Lewis, per cui « l'attribuire una qualità obiettiva a una cosa vuol dire pre­ vedere che, se agiamo in un certo modo, avremo certe e­ sperienze ». Cos{ l'intero contenuto della nostra conoscen­ za della realtà è la verità delle proposizioni « se - alto­ ra », dove l'ipotesi sostiene qualcosa che potrebbe essere verificato da un nos'tro modo di agire e la conseguenza in-

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dica un'esperienza che, sebbene non sia attuale, è possibi­ le in rapporto al presente. Ne viene che l'asserzione del tipo « X è F», nonostante il tempo e la forma grammati­ cale in cui s'esprime, sta per una o una serie di previsioni della forma « se A allora E» tale che A designa un'azione ed E un'esperienza. Che il passato sia verificabile significa che, in qualunque momento dopo l'accadere di un fatto, c'è sempre qualcosa che è possibile esperire: ossia, come aveva già notato Dewey, l'oggetto della conoscenza stori­ ca è « un evento trascorso nella sua connessione con le co­ noscenze e gli effetti presenti e futuri». Ma si può accet­ tare, riferendoci all'espressione « la battaglia di Hastings ebbe luogo nel 1066», che tutta la nostra conoscenza con­ sista in un insieme di proposizioni condizionali riferite ad azioni future? Non basta la nozione di un oggetto tempo­ ralmente disteso che lasci sussistere qualcosa di sperimen­ tabile. Si indichi infatti con tale oggetto la stessa battaglia: gli storici resterebbero sorpresi alla notizia che è ancora in corso. Ancora Lewis introduce la pastness che gli oggetti porterebbero addosso e i cui segni restano ambigui, non si sa se sono graffi o incisioni o rughe del tempo. Ma siano questi segni resi più puri, più precisi gli indizi a cui affi­ diamo la conoscenza del passato: essi ci dicono che un e­ vento è accaduto cosi e cosi e non corrispondono alle esperienze che ne abbiamo quando andiamo alla loro ri­ cerca. L'ispezione di Danto non si ferma qui. Tocca le ragio­ ni del fenomenismo di Ayer per cui ogni asserzione che riguarda oggetti o eventi fisici deve, per essere significan­ te, trasformarsi in un'asserzione relativa a esperienze rea­ li o possibili. È tale presupposto che ci impedisce di rife­ rirci agli eventi passati e si tratterebbe di un argomento invincibile se si riuscisse a dimostrare che nessuna asserzio­ ne li riguarda. L'essere passati, dice Ayer, non è una pro­ prietà degli eventi, ma una relazione in cui gli stessi rap­ presentano uno dei termini della proposizione che vi allude. Se ne astraiamo il contenuto fattuale, non resta che la posi­ zione nel tempo della persona che la pronuncia e questa

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non ha alcuna incidenza sul primo. La verità o falsità di un enunciato che intende descrivere le condizioni meteo­ rologiche in un certo periodo non dipende dal tempo in cui viene espresso. Combinando la descrizione dell'evento in esame con il riferimento alla posizione temporale di chi parla, l'uso dei tempi dei verbi reca insieme due informa­ zioni logiche distinte che potrebbero esser date in un lin­ guaggio che ne fa a meno. Ma se va cosi, una proposizione all'indicativo sarebbe analizzabile come una congiunzione vero-funzionale di proposizioni logicamente distinte ma­ scherata da un accidente grammaticale. Ora la sua verità o falsità dipenderà dalla verità o falsità dei suoi elementi e se assumiamo, ad esempio, che Bruto afferma che Cesare è morto, tale affermazione risulterà falsa nel caso che Ce­ sare sia già morto o che non lo sia ancora. Supponiamo ancora che (A) « Cesare muore a Roma nel 44 a.C. » sia falso perché Cesare non è mai esistito o è immortale o è morto in un altro momento o luogo. Se è falso, è falsa la conseguenza e resta da chiedersi come (B), ossia la posizio­ ne nel tempo di chi parla rispetto ad (A), possa essere ve­ ro se (A) è falso. È possibile che io sia in qualche rapporto temporale con un evento che non esiste o la relazione non cade per la mancanza di un termine? Intesa la significanza come verificabilità, dobbiamo ancora capire il significato delle proposizioni temporali. Quali sono le esperienze che verificano che ciò di cui ci stiamo occupando sia passato? Ci si ritrova, nota Danto, con le difficoltà già delineate da Wittgenstein sulla possibilità di introdurre nel linguaggio la relazione tra il medesimo e ciò a cui si riferisce. Lo pos­ siamo, se l'aboutness è una relazione, inserendo nel linguag­ gio i suoi termini e ciò distrugge il rapporto tra il lin­ guaggio e il mondo. Il riferimento non è parte del linguag­ gio, ma le parti del linguaggio costituiscono uno dei ter­ mini della relazione. Analogamente l'asserire una proposi­ zione non fa parte della proposizione che si asserisce e il pragmatismo, come il fenomeqismo, si rivela lo sfortunato tentativo di assorbire tutta la realtà nell'esperienza o nel linguaggio.

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Ci sono molti passaggi nel libro di Danto che conven­ gono sulla struttura del linguaggio temporale. Poiché i predicati relativi al passato, quando sono veri per gli og­ getti presenti, ci informano su oggetti o eventi che non sono presenti, è chiaro che non possiamo trasporre le pro­ posizioni che usano tali termini in un linguaggio tempo­ ralmente neutro. La trasformazione completa di una pro­ posizione S in una T, oltre a conservare il valore di verità di S, deve esprimere la stessa informazione di S. Qui torna il rilievo humiano che da una descrizione completa delle proprietà evidenti delle cose non si possono dedurre le cau­ se. L'uso di predicati riferiti al passato presuppone infatti che le cose del mondo presente abbiano avuto delle cause ed è questo, con l'ipotesi scettica che non ci sia nessun passato, che si deve discutere. Una tale ipotesi potrebbe essere aggirata se delegassimo alle proposizioni sul passa­ to la stessa funzione che hanno i termini teorici negli enunciati scientifici. Il ruolo di « Giulio Cesare » sarebbe lo stesso di « elettrone » e « complesso edipico » in fisica e psicoanalisi: nei due casi, i termini non denotano entità reali e si limitano a organizzare l'esperienza. La presenza o l'assenza di referenti non importa e la funzione di cui sono investite tali proposizioni non fa conto della loro falsità o verità, ma della maggiore o minore efficacia. Questo strumentalismo non è solo un rifugio dagli scettici, è anche una teoria positiva. Rifugio o teoria, c'è però da dubitare che lo storico vi ricorrerà con profitto. Il problema di che ne sarebbe se il mondo fosse comincia­ to da cinque minuti o anche da meno, cosf da annullarsi nell'istante presente, non lo sfiora o l'avverte come non suo, come una specie di rebus. Piuttosto egli ha da fare con lo scetticismo mitigato, o relativismo storico, e guar­ derà meno sospettosamente ai due esercizi consigliati dal­ !'analista, che sarebbe l'esperienza del presente se non si sapesse nulla del passato e se conoscessimo anche il futu­ ro. Il primo porta a rifiutare le osservazioni di Charles Beard sul passaggio della storia come registrazione al­ la storia come realtà. Quando prendiamo E a prova di

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O lo vediamo diversamente da come lo vedremmo se non sapessimo niente di O e dunque il vedere qualcosa come evidence è già un « guardare oltre la cortina». Gli sto­ rici non considerano i documenti isolandoli da ciò che, in qualche modo, ce li fa assumere come tali: allo stesso modo, gli scienziati non riuscirebbero a interpretare certe tracce su lastre fotografiche o in camera a gas senza ricorrere a concetti che riguardano entità non osservabili. Ci imbattiamo, nel caso di Beard, nella pretesa baconiana di avvicinare la natura senza l'aiuto di teorie. È una pretesa che vuole eliminare i presupposti filosofici o morali che guidano inevitabilmente la storia e da cui la scienza sareb­ be immune. Soprattutto essa non s'accorge che la differen­ za tra le due sta nello schema con cui ciascuna organizza il proprio materiale. Se quello della storia consiste nella narrazione, dobbiamo subito togliere di mezzo l'alternati­ va con la cronaca. Le narrazioni sono sostenute da prove o non lo sono: ma si tratta di una differenza che non toc­ ca i generi e concerne invece i gradi di conferma o la quan­ tità di elementi a sostegno. La narrazione non si limita, co­ me proponeva Ranke, a descrivere ciò che è realmente acca­ duto. Essa suppone una struttura che raggruppa alcuni e­ venti e ne scarta altri come non rilevanti. Quanto poi ai criteri per i quali diciamo che un evento o un individuo sono significativi, varrà la pena consultare gli storici stessi. Gibbon ci fornisce un esempio di significatività pragmati­ ca quando biasima gli eccessi dei monarchi bizantini e li contrappone ai piu illuminati sovrani del suo tempo. Ci so­ no anche casi di significatività teorica quando si prende un fatto, come la rivoluzione di Cromwell o le lotte sociali nella Francia del secolo scorso, a prova di una dottrina generale; ce ne sono di significatività consequenziale quan­ do un evento è rilevante per certe sue conseguenze o rive­ latrice quando la narrazione è abduttiva e postula altre prove a suo sostegno. Un resoconto contiene sempre qual­ che spiegazione, ma la sua struttura non consente una de­ scrizione completa degli eventi. Resta in essa un elemento

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di arbitrarietà che si connette al nostro « provincialismo » nei riguardi del futuro. Ma che intende Danto per descrizione completa di un evento? Essa mantiene l'ordine degli eventi accaduti ed è simile a una carta geografica senza le alterazioni che subi­ scono i luoghi disegnati sulla mappa. Qui potrebbe inter­ venire un cronista ideale che sa tutto quel che avviene nel momento in cui avviene, anche nelle menti degli altri. Da un tale resoconto continuerebbero a esserne escluse tutte le descrizioni che non si possono assumere a testimonianza dell'evento perché si riferiscono al futuro. Senza ricorrere al futuro, senza andar oltre ciò che si può dire di quanto accade, appena e nel modo in cui accade, nessuno avrebbe potuto scrivere, nel 1618, che la Guerra dei Trenta Anni cominciava allora: è chiaro, infatti, che un tale nome le sarebbe stato attribuito successivamente per la sua durata. Ma la cronaca ideale non può nemmeno descrivere gli even­ ti come cause, non ammette proposizioni narrative. Non lo può, se si ammette che l'accadere di E-2 è soltanto una condizione necessaria perché E-1 sia descrivibile come cau­ sa di E-2. E inoltre, se il passato non muta, muta il nostro modo di organizzarlo. Tornando alla metafora della map­ pa, ci si accorge che i territori, ossia le strutture temporali, mutano nella misura in cui mutano i nostri criteri. Noi agiamo di continuo sul passato e vi rintracciamo volta a volta dei « precursori » con il risultato paradossale di di­ minuirne l'originalità. Che dire ancora di questa cronaca se tentassimo di vol­ gerla al futuro? Qui la proposizione narrativa che si rife­ risce a una coppia di eventi E-1 ed E-2, temporalmente or­ dinati, dovrebbe valere come una previsione. Detto altri­ menti, il cronista ideale dovrà organizzare il futuro nello stesso modo in cui gli storici di domani organizzeranno il passato. Quali sono i limiti della previsione? Si ammetta pure che E sia accaduto come previsto e ci si accorgerà co­ me alcune descrizioni che lo riguardano cadano fuori della portata linguistica della teoria T. Questo è vero di ogni teoria scientifica che deve trovare il linguaggio appropria-

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to per descrivere gli eventi, scegliendo e costruendo i ter­ mini adatti a questo scopo. Basta conoscere la posizione e il movimento di un corpo per prevederne la traiettoria, non occorre che si sappia che esso è un uovo di porcellana fat­ to apposta per la figlia maggiore dello zar Nicola. Ora ci accorgiamo che non c'è limite al numero delle strutture temporali in cui gli storici del futuro potrebbero situare l'e­ vento E. Ma con ciò non esistono due distinte classi di eventi, bensf due classi di descrizione. Cosi veniamo al pro­ blema di fondo. Noi non possiamo falsificare le proposi­ zioni che descrivono fatti accaduti. Lo potremmo se, sa­ pendo che uno dirà che abbiamo mangiato un pesce nel momento t-1, mangiassimo una mela. Invece ignoriamo ciò che gli storici di domani diranno di noi ed è per questo che non riusciamo a contraddirli. Noi non conosciamo il futuro e che il passato sia un fait accompli, come scriveva Peirce a Lady Welby, ha solo questo significato. Può darsi che lo storico trovi inutile o complicato l'e­ spediente del cronista ideale e preferisca tornare alle isti­ tuzioni dei Langlois e Seignobos. Ma esso consente a Dan­ to di dire molte cose sul tempo. Anche la discussione sul determinismo, su quello logico in particolare, ne è toccata. Da esso e dalle sue antinomie non può prescindere la nar­ razione in cui, come sappiamo, consiste la spiegazione sto­ rica. Questa ha assunto con Hempel la forma di un argo­ mento deduttivo e pone, tra le condizioni necessarie per la sua adeguatezza, l'inclusione di almeno una legge generale. Ora teniamo presenti queste tre proposizioni: ( 1) Talora gli storici spiegano gli eventi; (2) Ogni spiegazione deve includere almeno una legge generale e ( 3) Le spiegazioni fornite dagli storici non includono leggi generali. Se ne in­ generano delle tensioni che ci impediscono di affermar­ ne piu di due. Si consideri la (3) una tesi comune e l'alter­ nativa sembra porsi tra chi (A) ritiene la (2) assolutamente vera e la ( 1) assolutamente falsa e chi (B) ritiene la (2) as­ solutamente vera e la ( 1) riformulabile e resa accettabile anche se ora si presenta falsa; essa interviene ancora tra chi (C) ritiene la (1) assolutamente vera e la (2) riformulabile

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e resa accettabile anche se ora si presenta falsa e chi (D) ritiene la (1) assolutamente vera e la (2) assolutamente fal­ sa. (A) e (D) sono posizioni radicali, (B) e (C) sono modera­ te anche se resta il disaccordo sui modi della riformulazio­ ne. Seguendo questo schema, è chiaro che Hempel difende (B) quando, stando la verità di (2), mostra che la (1) è ve­ ra se si sostituisce la spiegazione con un abbozzo di spiega­ zione e cosi pure la ( 3) se si conviene che tali abbozzi non includono, ma presuppongono leggi generali. È su questo punto che si è incentrato il piu recente dibattito metodolo­ gico. Le obiezioni insistono sul fatto che le leggi possono essere probabilistiche. Se si ammettono casi in cui un even­ to E non sia stato preceduto da un evento K, nonostante che in generale se ne verifichi il collegamento, non possia­ mo dedurre da una proposizione che descrive K una pro­ posizione che descrive E. Non disponiamo cioè di fonda­ menti adeguati per l'explanandum ' ... E...' in quanto è lo­ gicamente possibile che tale proposizione sia falsa e che ' .. . K. . .' e la legge probabilistica siano vere. Ma si può an­ che supporre che la (2) non sia assolutamente falsa quando si convenga che le leggi non sono categoriali e non entrano nelle spiegazioni come le premesse maggiori nei procedi­ menti deduttivi. C'è gente che sente freddo e non accende il fuoco e c'è gente che lo sente e lo accende, senza che la seconda cosa accada a causa della prima. Eppure, che la gente accenda il fuoco quando fa freddo è un truismo a cui lo storico ricorre di frequente. Bisogna allora analizzarne le ragioni giustificative, come ha fatto Michael Scriven, o precisarne, come Nagel, il carattere generalizzante e il ruolo che le leggi statistiche hanno nella spiegazione. Si può anche passare, come nel caso di William Dray in Laws and Explanations in History, a un attacco diretto del Co­ vering Law Model. Nessuna legge è implicata nella spiega­ zione dello storico o è tale da vincolarla o, ancora, si può consentire che una legge sia vera senza che l'evento vi deb­ ba essere sussunto. Danto osserva, entrando nella disputa, che c'è di mez-

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zo un diverso atteggiamento verso la ricerca storica. Dray e Scriven sembrano accettarla com'è, Hempel vuole rifor­ marla anche se non pretende di accostarla alla fisica: gli uni respingono un modello che sembra imporsi dal di fuo­ ri alla scienza effettiva, l'altro si preoccupa di chiarire le condizioni di adeguatezza di una spiegazione. Nessuno ha però cercato di vedere se, lasciando cadere il problema del1'explanans, non ci sono degli explananda che presuppongo­ no una legge generale e se non sia possibile, quando non la presuppongono, sostituirli con altri. Si noterà allora che possiamo sussumere un evento sotto una legge solo se l'ab­ biamo incluso in una descrizione generale. Molti libri di sto­ ria contengono descrizioni che non contengono spiegazioni, ma non per questo il modello di Hempel è scorretto e sol­ tanto occorrerà ridescrivere l'evento in questione. Valga lo stesso esempio fornito da Danto con la festa nazionale mo­ negasca e con la presenza delle sole bandiere americane ac­ canto a quelle di Monaco. Qui Dray ha ragione quando os­ serva che non disponiamo di alcuna legge che connetti l'e­ vento K (il matrimonio di Ranieri III con Grace Kelly) con l'evento E (l'esposizione delle bandiere americane du­ rante la féte nationale). Ma una legge diventa possibile quando alla descrizione a dell'evento E (i monegaschi espo­ nevano bandiere americane accanto a quelle nazionali) se ne aggiunga una b (i monegaschi onoravano una sovrana americana di nascita) e e (i membri di una nazione onora­ vano una sovrana di diversa origine nazionale). Si chia­ mino b e e explanatum concreto ed explanatum astratto e si converrà, nel caso del primo, che è possibile stabilire una legge L di questo tipo: tutte le volte che una nazione ha una sovrana originaria di un'altra nazione la onorerà, nella occasione opportuna, in modo appropriato. Se diamo per noti questi altri fatti, che la principessa di Monaco non è di origine monegasca, che la féte è un'occasione per ono­ rare i sovrani di Monaco e che l'esposizione delle bandiere del paese in cui una persona è nata è un modo appropriato di festeggiarla in quanto originaria dello stesso, ne derivia­ mo e come loro conseguenza deduttiva. Cosi avremo, con-

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elude Danto, una soluzione che accontenta Hempel perché c'è una legge che sussume l'evento e che non scontenta Dray perché soltanto l'explanatum (non l'explanandum) può dedursi dall'explanans. Resistono Je obiezioni contro l'identità hempeliana tra la spiegazione e la previsione, per cui diciamo di avere spiegato un evento se, e solo se, avessimo potuto prevederlo prima che accadesse ricorrendo alla stessa legge. Esse ven­ gono da chi, come Croce o Collingwood, ne vede insidiata la libertà dell'uomo. Ora va detto che la legge L sussume una classe di casi particolari che è aperta e non omogenea; ci sono infatti molte altre cose che i monegaschi potevano fare e che sarebbero state sussunte da e ( o da b) e da L; dunque il problema è di sapere in quale descrizione l'even­ to diventa prevedibile. Le leggi implicite nelle spiegazioni storiche sono generali e consentono delle possibilità creati­ ve (creative opportunities). Al massimo si può invocare per i casi considerati una « rassomiglianza di famiglia », tale cioè che l'esatta somiglianza dei suoi membri costituisce piu l'eccezione che la regola. Ecco perché Dray è nel giu­ sto quando nota che abbiamo che fare con una classe ine­ sauribile di spiegazioni, nessuna delle quali implica real­ mente la legge, ed ecco perché, alternativamente, si può di­ re che le stesse la implicano quando si assumono con quel­ le regole di ridescrizione per cui sostituiamo la descri­ zione di un evento con una più generale. Poiché una tale spiegazione è compatibile con altri possibili eventi, di qua­ le spiegazione si tratta? Essa indica fra le classi a cui un evento come la féte monegasca potrebbe appartenere quel­ la di cui è effettivamente un elemento, escludendo altre possibilità nel senso della classe. Tuttavia questo non ci consente di stabilire quale caso si sia verificato tra quanti potevano accadere, ciò che non sarebbe importante se i membri della classe fossero omogenei. Non si deve esclu­ dere che la mente umana escogiti nuovi esempi, che solo in seguito riconosciamo appartenenti alla classe e non sono anticipabili anche se avremmo potuto farli rientrare in qualche descrizione generale. Cosi il determinista ha ragia-

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ne a metà quando dice che, se disponessimo di informazio­ ni precise sul carattere di una persona, ne prevederemmo infallibilmente il comportamento. Questo sarebbe di fatto possibile per mezzo di una descrizione generale, secondo cui un individuo generoso compirà atti generosi, ma non ne segue che si riescano a prevederli quali saranno uno ad uno. Danto si ricorda spesso di Hume. Lo scozzese metteva in guardia contro gli eventi assolutamente unici e insisteva sulle loro congiunzioni costanti, sulla legalità dell'esperien­ za. Se la spiegazione richiede un'appropriata prospettiva causale, questa resta distinta dall'evento specifico che rien­ tra nella descrizione generale. Il fascino della storia sta ap­ punto nella grande ricchezza delle azioni umane, diverse nelle varie epoche e tuttavia comprese sotto gli stessi prin­ cipi. Cosl'. la necessità vale solo a un livello di generalità che non si consegue quando si considerano gli avvenimenti storici. Le palle da biliardo di Hume sono molto simili tra loro, ma non lo sono le rivoluzioni; e se i danni delle auto sono causalmente omogenei, non è facile prevedere che cosa abbia portato un uomo come il Duca di Buckingham a cambiare parere circa il matrimonio di un principe. Che ne è allora dell'analogia tra argomenti narrativi e dedutti­ vi? Danto ammette che ci sono poche «leggi» nella storia, forse nessuna. Non ne segue che la narrazione perda in forza esplicativa e semmai viene meno l'idea che una spie­ gazione esiga, come sua condizione necessaria, di essere formulata deduttivamente. Le narrazioni non possono es­ sere costruite senza l'aiuto di leggi generali; ma se il loro ruolo è, come è, di organizzare il passato e spiegarvi i cam­ biamenti in periodi di tempo molto estesi, non c'è bisogno di trovarne una che comprenda l'intero cambiamento com­ preso dal racconto. Quando poi si ammettessero « leggi storiche » con un numero grandissimo di variabili, la loro connessione con le totalità temporali che le esemplificano non sarebbe meno libera. Esse ci informerebbero su quel che accadrà per mezzo di descrizioni molto generali e le at­ tese del filosofi sostanzialistici verrebbero deluse ripropo-

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nendosi il problema di scrivere la storia di certi eventi pri­ ma che siano avvenuti. Danto procede per tentativi, moltiplica le difficoltà ed evita le soluzioni definitive. Cosf è stato per la disputa tra Hempel e Dray sulla natura della spiegazione storica. Del primo egli discute lo schema nomologico e si preoccupa di liberarlo da una interpretazione restrittiva insistendo sul1'abbozzo che va sempre « riempito ». Giustamente se ne mette in luce il presupposto che è la tesi dell'unità del metodo scientifico, per cui le differenze tra i vari tipi di fenomeni non devono riflettersi nei diversi tipi di rap­ presentazione. In questo senso, la spiegazione si presenta sempre nella forma di un argomento inferenziale che in­ cluda almeno una legge tra le premesse dell'explanans; ciò vale per quella causale e per quella statistica, qui piu trascurata, in cui lo stesso explanans implica l'explanan­ dum solo con un elevato grado di probabilità induttiva. Nel caso della storia, osserva Danto, rimarrebbe il proble­ ma di trovare una legge storica generale per ogni narrazio­ ne molecolare. Il fatto che non si trovi non le toglie un va­ lore esplicativo, non elimina che essa faccia uso di leggi per spiegare determinati cambiamenti. Ma si tratta di leg­ gi che consentono soltanto previsioni condizionali e di por­ tata molto generale. Ci si domanda ora se la previsione, nei limiti in cui è resa possibile dall'accertamento delle uniformità del mondo umano, non distolga lo storico dalla sua indap;ine. Questa si volge al passato, lo esplora nella varietà delle sue combi­ nazioni e con ciò lo mantiene nella sua alterità. Proprio Danto, nel saggio On Historical Questioning del 1954, avvertiva di non trascurare nello studio delle analogie gli elementi che ne divergono e costituiscono l'individualità dell'evento. Qui l'invito non viene ripreso o v'appare di scorcio, mentre converrebbe approfondirlo nelle sue impli­ cazioni pragmatiche e in rapporto con la spiegazione no­ mologica. Lo sketch hempeliano suggerisce una direzione alla ricerca, bisogna vedere se a precisarla e a determinarla la «scelta» dello storico non c'entri per qualcosa.

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IV. La dialettica kantiana segnala le aporie della ragio­ ne quando va oltre le condizioni poste dall'analitica. Ce se ne deve ricordare, avverte Danto, quando ci domandiamo chi siano gli agenti storici: gli individui, le classi, le isti­ tuzioni? Si rischia di retrocedere a polemiche antiche. Ma queste resistono se si pensa al Marrou della Connaissance historique, quando dice che« l'essere umano è il solo orga­ nismo validamente offerto dall'esperienza» o a Watkins per cui « gli uomini sono gli unici a muovere la storia ». Quel che conta è trovare qualche differenza tra le due tesi. Si potrebbe dire che la prima è ontologica e che la seconda può esserlo anche se di fatto si limita a notare che i singoli sono i soli agenti causali della storia. Se ne deve conclu­ dere che sono riduzionistiche? Danto si cimenta con l'individualismo metodologico di Watkins e ne enuclea che (a) le proposizioni relative agli individui sociali vi appaiono logicamente indipendenti da quelli sui singoli uomini, che (b) i primi sono ontologica­ mente distinti dagli esseri umani individuali anche se (c) sono causalmente dipendenti dal loro comportamento e non altrimenti, che (d) le spiegazioni del comportamento degli individui sociali non sono mai definitive a meno che non siano elaborate esclusivamente in termini di comportamen­ to individuale e che (e) la spiegazione del comportamento individuale non va mai fatta in termini di comportamento sociale. Se passiamo alla posizione contraria, sostituendo l'espressione « esseri umani individuali » con l'espressione « individui sociali » dove rispettivamente figurano, notia­ mo che (a) e (b) restano inalterati e ché il contrasto si spo­ sta su (c), (d) e (e). Se ora si sceglie tra le due, come fa Maurice Mandelbaum quando scarta la prima e sostiene che i fatti societari (societal) non sono riducibili senza re­ siduo ai pensieri e alle azioni degli individui, la parte for­ male dell'argomento diventa prevalente. Se supponiamo, egli dice, di avere un linguaggio L. in cui figurano solo ter­ mini che designano fatti sociali e un linguaggio L, i cui ter­ mini descrivono unicamente pensieri e azioni individuali, non ci sono proposizioni che possano tradursi dall'uno nel-

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l'altro senza appunto un residuo. Al solito, Danto rifor­ mula l'argomento. Ammettiamo che ci siano termini ri­ guardanti soltanto gli individui e chiamiamo I-propo­ sizioni quelle che usano tali I-predicati e S-proposi­ zioni quelle che usano un S-predicato, concernente la so­ cietà, mentre per « senza residuo» s'intenda che non è possibile tradurre le seconde nelle prime senza ammet­ tere un'altra S-proposizione. Ora i fatti societari conside­ rati in tali traduzioni consistono, a ben vedere, in regole o convenzioni che s'impongono ai singoli e ne dirigono le azioni: ma allora non si capisce dove stia l'incompatibilità con l'individualismo metodologico che non nega l'esi­ stenza di norme a cui gli uomini sono soggetti. Una coesistenza tra le due metodologie è possibile, se sono davvero tali. Basta intendersi sulla riduzione e distin­ guerla da quella filosofi.ca, che trasforma un dato gruppo di termini in un altro privilegiato. Prendiamola invece nel senso per cui si dice che le variazioni della temperatura di un gas si spiegano in rapporto a quelle dell'energia ci­ netica media delle molecole in libero movimento e quindi al comportamento meccanico degli aggregati molecolari. Se vale l'analogia, un « individualista» dovrebbe determinare le relazioni tra le proprietà della società, vista in grande, in rapporto alle proprietà tra gli esseri individuali: dove è chiaro che occorre disporre di due teorie perché ci possa essere una riduzione. Questo individualista non è legato, come l'empirista radicale, a una teoria che faccia uso sol­ tanto di predicati osservabili. Piuttosto egli teme che la teoria da lui combattuta degradi gli uomini a semplici pro­ dotti degli individui sociali. È un timore fondato? O non è vero che, se riuscissimo a spiegare il comportamento dei singoli uomini in rapporto ai processi sociali, questi sa­ rebbero meglio controllabili? La scienza non viene coltiva­ ta per diminuire il nostro potere sulle cose e l'individuali­ smo metodologico, anche se corretto, non lo aumenta per la nostra ignoranza del futuro. La nottola di Minerva sporge sulle ultime riflessioni del libro e lascia agli storici di dire come va la storia. L'analista

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non aggiunge niente e il suo compito finisce quando ne prende e ne fa prendere coscienza. Lo stesso gli accade, no­ tava Danto nella piu recente Analytical Philosophy of Knowledge, per la conoscenza in genere. È stato un lavoro utile e che ne pensa l'interlocutore indicato all'inizio? Ci sono problemi e anche soluzioni che, se si riescono a segui­ re i molti passaggi, possono toccarlo e provocarne di nuo­ vi. Tanto meglio se nasceranno, caduti i pregiudizi, dal raf­ fronto con la ricerca concreta. Da tempo, ormai, il dibat­ tito metodologico si è portato all'interno delle singole disci­ pline e si tratta di proseguirlo, seriamente, passando attra­ verso il filtro delle definizioni. Ma nemmeno vanno igno­ rati i progetti che guidano le indagini e ci mettono a dispo­ sizione un ingente materiale. Danto non vi si sofferma o forse non gli interessano. È un discorso in cui dovrebbero entrare i temi assai scomodi dei valori, delle scelte, dei condizionamenti culturali e Marx, Weber, Dewey con le loro proposte. Non c'è da scandalizzarsi dell'origine non « scientifica » della scienza. Ci sono casi in cui essa deve tenerne conto se vuole esserlo davvero. ANTONIO SANTUCCI

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Filosofia analitica della storia

Prefazione

Talora si è detto che lo scopo della filosofia non è quel­ lo di pensare o di parlare intorno al mondo, ma piuttosto quello di analizzare i modi in cui si è pensato e parlato in­ torno ad esso. Ma, dal momento che non possiamo chiara­ mente riferirci al mondo se non attraverso i nostri modi di pensare e di parlare intorno ad esso, anche se ci occupiamo soltanto di pensieri e di discorsi, è difficile poter evitare di dire qualcosa intorno al mondo. L'analisi filosofica dei no­ stri modi di pensare e di parlare diviene, alla fine, una de­ scrizione generale del modo in cui siamo costretti a conce­ pire il mondo, dato che pensiamo e parliamo proprio come facciamo. In breve, l'analisi, condotta sistematicamente, porta a una metafisica descrittiva. È impossibile sopravvalutare la misura in cui i nostri comuni modi di pensare il mondo sono storici; lo mostra, se non altro, l'immenso numero di termini del nostro lin­ guaggio, la cui corretta applicazione, anche ad oggetti con­ temporanei, presuppone un modo di pensare storico. Se in qualche epoca ci fossero stati degli uomini che avessero ve­ ramente pensato in modo non storico, lo sapremmo dal fat­ to che le nostre possibilità di comunicazione con loro sareb­ bero marginali, poiché gran parte del nostro linguaggio sa­ rebbe intraducibile nel loro. Se noi stessi tentassimo di pensare in modo non storico, dovremmo operare almeno una restrizione linguistica, dato che saremmo costretti a procedere solo con una parte del nostro vocabolario e della nostra grammatica. Dovremmo infatti limitare le descrizio­ ni a quei predicati che risultano accettabili secondo i criteri di significanza empirica. Gli empiristi, che hanno trovato si-

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Prefazione

gnilicante soltanto questo limitato vocabolario, hanno in­ contrato dei problemi a proposito della storia, che si ridu­ ce soltanto a quella naturale, secondo i criteri che essi im­ pongono. Il merito dell'empirismo è quello di essere auste­ ro ed è affrontando e risolvendo i problemi che esso fa na­ scere, che cominciamo ad intravedere i tratti del pensiero storico e quindi la struttura stessa della storia. Questo libro è un'analisi del pensiero e del linguaggio storico, presenta­ ta come un intreccio sistematico di argomenti e di chiarifi­ cazioni, le cui conclusioni formano una metafisica descritti­ va dell'esistenza storica. Non sarebbe opportuno dire di piu in una nota di pre­ fazione; con quanto dico, intendo solo spiegare in qualche modo il titolo del libro e lo spirito con cui è stato scritto. Voglio accennare infine al mio curioso punto di vista: pen­ so che la filosofia abbia delle cose da dire per proprio con­ to, che l' «analisi» { di cui faccio un uso eclettico nel senso dato a questo termine dai pittori bolognesi) sia il modo per dirle e che la distanza tra Cambridge e Saint-Germain-des­ Près non sia poi cosi astronomicamente grande come sem­ bra. La maggior parte di questo libro è stata scritta durante un congedo dalla Columbia University, nel 1961-62, con l'aiuto di una borsa di studio assegnatami dall'American Council of Learned Societies. Sono grato a entrambe que­ ste istituzioni per il loro tangibile incoraggiamento e aiuto. Miei studi precedenti sono stati incoraggiati da due borse estive del Columbia Council for Research in the Socia! Sciences. Due sezioni del libro - i capitoli VIII e XIII sono apparse precedentemente come articoli in «History and Theory» e in «Filosofia» (Torino, IV fascicolo inter­ nazionale, novembre 1962); ringrazio le redazioni di que­ ste riviste per avermi permesso di utilizzare nuovamente questo materiale 1• A tre persone vorrei riconoscere un debito intellettuale. I Nell'edizione italiana è stato inserito su indicazione dell'autore il capitolo XII, presentato come conferenza a un APA Symposium del novembre 1966 (N.d.T.).

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Prefazione

La prima è il professor William Bossenbrook, i cui corsi sulla storia alla Wayne University mi hanno risvegliato in­ sieme con un'intera generazione di studenti al mondo del­ l'intelletto. Le sue lezioni sono state le piu stimolanti alle quali abbia mai assistito, e avrei dedicato la mia vita allo studio della storia come risultava da quelle lezioni, se non mi fossi accorto che esse erano uniche. La seconda persona è il professor Ernest Nagel, il cui lavoro nel campo della filosofia della scienza e specialmente sul problema della ri­ duzione è stato per me un modello di elevato risultato fi­ losofico. Ho tratto profitto dal suo esempio e dal suo inco­ raggiamento. La terza persona è il mio stretto amico e col­ lega, professor Sidney Morgenbesser, un uomo espansivo, di ingegno e di straordinaria acutezza filosofica. La sua pie­ na osservanza dei piu rigorosi canoni di integrità filosofica è una consapevolezza per tutti coloro che lo conoscono. Il mio libro porta l'impronta di tutte e tre queste persone. Molti altri hanno stimolato il mio pensiero, talora in modi di cui essi non possono rendersi conto; se leggessero questo libro potrebbero trovarvi loro frasi o pensieri presi da una conversazione e montati qui come pezzi di un col­ lage: facendo mio ciò che ·è loro, non ho preso a prestito, ma rubato. Inoltre mi sento particolarmente obbligato nei confronti di Justus Buchler, Robert Cumming, James Gut­ mann, Judith Jarvis Thomson e John Herman Randall, a ciascuno dei quali sarò sempre grato. Le mie figlie, Eliza­ beth e Jane, mi hanno fornito esempi su esempi di spiega­ zione storica, alcuni dei quali sono rimasti nella discussio­ ne di quel tormentato argomento. Di quanto questo saggio possiede in chiarezza e rifini­ tura letteraria, sono debitore a mia moglie, Shirley Danto, il cui occhio attentissimo e il cui orecchio per la correttezza letteraria sono stati la mia guida. Dove il testo è oscuro, avrò mancato di consultarla o di ascoltarla. Ma naturalmen­ te il mio debito nei suoi riguardi è, in ogni modo, immenso. A.C.D. New York, 1964

Capitolo primo

Filosofia sostanzialistica e filosofia analitica della storia

L'espressione «filosofia della storia» comprende due ti­ pi distinti di ricerca, che chiamerò filosofi.a sostanzialistica e filosofia analitica della storia. Il primo tipo è collegato con la comune ricerca storica, nel senso che i filosofi sostan­ zialistici della storia, come gli storici, si curano di fornire resoconti di ciò che è accaduto nel passato, anche se poi si preoccupano di fare anche qualche cosa di piu. La filoso­ fia analitica della storia, invece, non ha soltanto dei punti di contatto con la filosofia: essa è filosofia, ma una filoso­ fia applicata agli speciali problemi concettuali che derivano dalla pratica della storia, come pure dalla filosofia sostan­ zialistica della storia. Quest'ultima in verità non è affatto collegata con la filosofia piu di quanto lo sia la storia stes­ sa. Il presente libro è una ricerca nel campo della filosofia analitica della storia. Analizzerò innanzi tutto ciò che la filosofia sostanziali­ stica della storia si propone oltre al fornire un resoconto del passato. Approssimativamente si può dire che, a diffe­ renza anche del piu pretenzioso comune lavoro di storia, una filosofia della storia cerca di fornire un resoconto della storia nella sua totalità. Tale caratterizzazione presenta tut­ tavia alcune difficoltà iniziali. Supponiamo di riunire tutti i comuni lavori di storia e di aggiungerne poi altri che col­ mino completamente le lacune, cosf da avere, alla fine, una completa e totale descrizione di qualsiasi cosa sia mai acca­ duta. Si potrebbe allora dire che abbiamo esibito un reso­ conto totale della storia e quindi una filosofia della storia. Di fatto, però, non avremmo ottenuto ciò: al massimo avremmo ottenuto un resoconto della totalità del passato.

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Filosofia analitica della storia

Dobbiamo perciò distinguere tra la totalità della storia e la totalità del passato, per esempio nel modo seguente: di so­ lito pensiamo che gli storici siano interessati a studiare e a scrivere resoconti molto dettagliati di particolari eventi del passato. Uso qui la parola «evento» con una certa indeter­ minatezza; la rivoluzione francese sarebbe però un chiaro esempio del tipo di evento che gli storici si occupano di stu­ diare e descrivere. Ora, vi sono necessariamente innumere­ voli eventi del cui accadimento abbiamo scarse testimonian­ ze e moltissimi altri che crediamo debbano essere accaduti, ma dei quali sappiamo ben poco oltre al fatto che debbono essere accaduti: in breve esistono molte lacune nel nostro resoconto del passato. Ma supponiamo che queste lacune siano state colmate, cosi da sapere di ogni evento mai acca­ duto quanto sappiamo della rivoluzione francese; supponia­ mo cioè di conoscere proprio tutto ciò che è avvenuto e di disporre di una Cronaca Ideale della totalità del passato: questa non sarebbe però ancora quella totalità della storia che, come ho detto, interessa i filosofi. sostanzialistici. Un simile resoconto idealmente completo della totalità del pas­ sato fornirebbe tutt'al piu i dati per una filosofia sostan­ zialistica della storia nella sua totalità. Il concetto di dato è correlativo al concetto di teoria; ne risulta quindi chia­ ramente che la filosofia sostanzialistica della storia è un ten­ tativo di scoprire un certo tipo di teoria riguardante il con­ cetto, pur non ancora chiarito, di totalità della storia. Mi at­ terrò a questa indicazione e identificherò due tipi distinti di simili teorie, quelle descrittive e quelle esplicative. Una teoria descrittiva, in questo contesto, è una teoria che cerca di mettere in evidenza un modello degli eventi che compongono la totalità del passato e di proiettare que­ sto modello nel futuro, sostenendo che gli eventi futuri ri­ peteranno o completeranno il modello rivelato dagli eventi passati. Una teoria esplicativa è invece un tentativo di spie­ gare questo modello in termini causali: insisto sul fatto che una teoria esplicativa ha la qualifica di filosofia della storia solo in quanto è connessa con una teoria descrittiva. Vi è un certo numero di teorie causali che cercano di spiegare

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gli eventi storici nei termini piu generali, giustificabili in riferimento a fattori razziali, climatici o economici. Ma que­ ste teorie sono al massimo contributi per le scienze sociali e non sono, come tali, filosofie della storia. Il marxismo è una filosofia della storia: infatti esso presenta ambedue le teorie, la descrittiva e l'esplicativa; dal punto di vista della teoria descrittiva il modello è quello della lotta di classe, in cui ogni data classe genera il proprio antagonista dalle condizioni della propria esistenza e ne viene abbattuta: «tutta la storia è storia di conflitti di classe» e la forma della storia è dialettica. Questo modello avrà vita fino a quando certe forze causali saranno operanti, e il tentativo di identificare queste forze causali con vari fattori economici costituisce la teoria esplicativa del marxismo. Marx previ­ de che il modello avrebbe avuto un limite temporale nel futuro, dato che le forze causali responsabili della sua con­ tinuità sarebbero divenute inoperanti; egli, però, non sep­ pe risolversi a dire, tranne qualche cauto cenno utopisti­ co 1, che cosa sarebbe accaduto in seguito. Ma allora, come 1 Karl Marx e Friedrich Engels, Die Deutsche Ideologie in Werke, Berlin, Dietz, 1957 ss., vol. III, trad. it. L'ideologia tedesca, Roma, Edi· tori Riuniti, 1958, p. 29. « Appena il lavoro comincia ad essere diviso eia• scuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene im­ posta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, o pescatore, o pastore, o critico, e t·ale deve restare se non vuole perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia: senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico». La riluttanza di Marx a parlare piu dettagliatamente della società senza classi era naturalmente in accordo con la sua teoria generale, secondo cui le forme di vita e di coscienza riflettono le condizioni materiali d'esistenza ( « La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all'attività materiale e a-Ile reLazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale». Ibidem, p. 22): com'è dunque possibile parlare di «idee, rappresenta2lioni, ecc. » che esisteranno secondo una forma di esistenza materiale che non si è ancora verificata? Inoltre, nella società priva di classi, gli uomini saranno in ogni caso liberati da queste cause materiali e liberi di controllare la propria vita. Si può rns1 soltanto dire che in quel momento le cose saranno «l'opposto»

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egli avverd, il termine «storia» non sarebbe piu adeguato: la storia nel senso di Marx si concluderebbe con la scom­ parsa delle lotte di classe, nel momento in cui la società divenisse priva di classi 2• E Marx proponeva soltanto una teoria della storia 3• Ad ogni modo dovrebbe essere chiaro che l'espressione «la totalità della storia» è piu ampia del­ l'espressione «la totalità dd passato», poiché comprende anche la totalità del futuro o - se importa fare questa di quel che sono ora; è possibile cioè, al massimo, una caratterizzazione negativa. Ma non è facile identificare positivamente ciò che « non-A » deve designare. Cfr. F. Engels, Der Ursprung der Familie, der Privateigen­ tums und des Staats, in Werke, cit., vol. XXI, trad. it. L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, Roma, Editori Riuniti, 1963, p. 109: « Quello che noi oggi possiamo dunque presumere circa l'ordinamento dei rapporti sessuali, dopo che sarà spazzata via la produ­ zione capitalistica, è principalmente di carattere negativo ». 2 « Ma rimosse che siano, una volta per sempre, tutte le contraddi­ zioni, siamo arrivati alla cosiddetta verità assoluta, la storia universale è finita, eppure bisogna che essa prosegua, sebbene non le resti piu niente da fare: il che è una nuova insuperabile contraddizione» (F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der Klassiscben Deutschen Philosophie, in Werke, cit., vol. XXI, trad. it. Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, i:n Marx e Engels, Opere, a cura di L. Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 1110. Chiaramente Engels parla qui di Hegel, ma la stessa « contraddizione » si presenta effettivamente anche nel suo sistema. Nella società senza classi, ossia per la storia post-rivoluzionaria, le teorie marxiste della storia non avranno applicazione. Cfr. la nota seguente. 3 Evidentemente dal punto di vista marxista la storia ammette una teoria solo in quanto gli uomini sono guidati da forze sulle quali essi non hanno alcun controllo. Ma nella società senza classi gli uomini saranno liberi dalle forze storiche e quindi « faranno » la propria storia invece di essere « fatti» da essa. Cosi « la cerchia delle condi­ zioni di vita che circondano gli uomini e che sinora li hanno dominati, passa ora sotto il dominio e il controllo degli uomini che adesso, per la prima volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della natura per­ ché, ed in quanto diventano padroni della loro propria organizzazione sociale. [ ... ] L'organizzazione sociale propria degli uomini che sinora stava loro di fronte come una necessità imposta dalla natura e dalla storia, diventa ora la loro propria libera azione. Le forze obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia passano sotto controllo degli uomini stessi. Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia [ ... ]. È questo il salto dell'umanità dal regno della necessità al regno della libertà». F. Engels, Die Entwic­ klung des Sozialismus von der Utopie zu Wissenschaft, in Werke, cit., vol. XIX, trad. it. L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, Roma, Rinascita, 1951, p. 107.

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precisazione - la totalità del futuro storico. Tornerò fra poco su questo punto. Se intendiamo nel modo che ho indicato la relazione tra storia e filosofia della storia, possiamo essere indotti a considerarla analoga a quella tra astronomia osservativa e astronomia teorica. Cosi Tycho Brahe è famoso per aver compiuto, lungo un ampio periodo di tempo, una serie di osservazioni astronomiche di un'accuratezza senza prece­ denti, relative - tra l'altro - alle posizioni dei pianeti conosciuti. Ma di queste varie posizioni non riusd a tro­ vare un modello che consentisse previsioni; fu Keplero a riuscirvi, scoprendo dopo un arduo lavoro che le posizioni dei pianeti possono essere situate su un'ellisse di cui il sole occupa uno dei fuochi. Tutto questo corrisponderebbe a quella che ho chiamata teoria descrittiva: restò a Newton il compito di spiegare perché questo particolare modello fosse valido, cioè di presentare una teoria esplicativa. Al­ l'occasione, i filosofi della storia hanno inteso il loro com­ pito in termini esattamente analoghi. Kant, per esempio, scrive: «Qualunque sia il concetto che, anche da un punto di vista metafisico, possiamo farci della libertà del volere, non v'è dubbio che le sue manifestazioni, cioè le azioni umane, sono determinate da leggi naturali universali cosi come ogni altro fatto della natura. La storia, che si propone di narrare queste manifestazioni, per quanto profondamente occulte possano essere le cause, fa tuttavia sperare di essere in grado di scoprire nel gioco della libertà umana, considerato in grandi proporzioni, un ordine per cui ciò che nei singoli individui si rivela confuso e irregolare, nella totalità della specie possa riconoscersi come sviluppo continuato e costante, anche se lento, delle sue tendenze originarie... Noi vogliamo vedere se ci riesce di trovare un filo conduttore di questa storia e voglia­ mo poi lasciare alla natura di far sorgere l'uomo che sia in grado di valutarla secondo questo principio direttivo. Cosi la natura ha prodotto un Keplero, che sottomise in maniera inattesa il corso dei pianeti a leggi determinate, e un Newton che queste leggi spiegò con una causa naturale universale» 4• 4

I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmo­ in Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, Utet, 1956, pp. 123-125. politico,

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Mantenendo questo paragone, in certo modo lusinghie­ ro, la filosofia sostanzialistica della storia avrebbe con la comune ricerca storica la stessa relazione che la scienza teo­ rica ha con l'osservazione scientifica. Vi sono stati, e forse vi sono ancora, certi settori della scienza che non sono an­ dati al di là del puro far osservazioni, del raccogliere esem­ plari e cosi via: la storia comune potrebbe essere appunto una scienza di questo genere. La filosofia sostanzialistica della storia potrebbe allora costituire un passo per portare la storia ai due ulteriori livelli (rispettivamente quello ke­ pleriano e quello newtoniano) della conoscenza scientifica. La «filosofia della storia» sarebbe cioè la scienza della sto­ ria e l'essere conosciuta come «filosofia» sarebbe semplice­ mente una curiosa sopravvivenza dell'uso piu antico del ter­ mine, secondo cui la fisica veniva chiamata un tempo «filo­ sofia naturale». Le leggi di Keplero, sebbene basate sui dati raccolti da Tycho, andarono al di là di essi, mettendo in grado gli astronomi non solo di organizzare tutte le posi­ zioni dei pianeti osservate da Tycho in un modello coeren­ te, ma di prevedere tutte le loro posizioni future e anche quelle dei pianeti sconosciuti al tempo di Keplero. Le leggi di Newton non spiegarono semplicemente i fatti noti a Tycho e a Keplero, ma (idealmente) una gran quantità di fatti ad essi sconosciuti. Analogamente si potrebbe pre­ tendere che una teoria storica veramente riuscita andasse al di là dei dati raccolti dalla storia, non solo riducen­ doli ad un modello, ma prevedendo e spiegando tutti gli eventi della storia futura. Si può allora dire che questo è il senso in cui la filosofia sostanzialistica della storia si oc­ cupa della totalità della storia, la totalità del passato e del futuro: la totalità del tempo. Gli storici, al contrario, si oc­ cupano puramente del passato e del futuro solo quando di­ venta passato. Infatti tutti i nostri dati presenti derivano dal presente e dal passato, mentre non possiamo raccoglie­ re ora dati dal futuro; e la storia consiste soltanto in que­ sto raccoglier dati. Una simile spiegazione concede troppo alla filosofia so­ stanzialistica della storia, ma decisamente troppo poco alla

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storia stessa. Anche supponendo che le .filosofie della storia mirino a ottenere qualcosa di simile alle teorie scientifiche, non si può fare a meno di concludere, avendone una certa conoscenza, che costituiscono dei rozzi tentativi di raggiun­ gere questo scopo; tanto rozzi che, veramente, anche con­ frontate con una teoria descrittiva cosi semplice come quel­ la di Keplero, le :filosofie della storia esistenti risultano in­ dicibilmente sterili e quasi senza nessun potere di previsio­ ne. Le :filosofie esplicative della storia, anche quelle che hanno esercitato la maggiore influenza, sono poco piu che programmi per teorie che non sono ancora state formulate e tanto meno provate. D'altra parte, se consideriamo i co­ muni resoconti storici ( e neppure i migliori di essi), essi si presentano, nel loro genere, come esemplari assai evoluti, che soddisfano i criteri applicabili al genere e mettono in rilievo come le :filosofie della storia falliscano miseramente nel soddisfare i criteri di una teoria scientifica. Inoltre il genere, i cui criteri sembrano esser soddisfat­ ti dai resoconti storici, non comprende, a giudicare dalle apparenze, cose simili a sequenze di registrazioni riportanti le posizioni dei pianeti in notti successive. È veramente dif­ ficile classificare un'opera come Decline and Fall of the Ro­ man Empire, del Gibbon, allo stesso modo delle osserva­ zioni di Tycho Brahe o di un qualsiasi gruppo di registra­ zioni di osservazioni scientifiche. Esiste piuttosto nella sto­ ria stessa qualcosa di simile all'attività con cui la storia co­ me totalità è messa in rapporto, nel tipo di spiegazione che stiamo esaminando. Ho ben presente l'attività che viene svolta quando gli �torici usano speciali tecniche per stabi­ lire l'autenticità di documenti e di prodotti lavorati, per datare un evento, per decidere se Walter Raleigh era ef­ fettivamente ateo o per identificare una persona. Queste attività possono utilmente essere considerate osservative; esse producono singole proposizioni, molto probabilmente vere, del tipo: «Sir Walter Raleigh non era ateo». Ma l'at­ tività storica non si esaurisce affatto qui: vi sono anche, nella storia stessa, tentativi di organizzare i fatti noti in modelli coerenti e queste organizzazioni di fatti, in certo

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modo, hanno in comune con le teorie scientifiche quasi quanto hanno in comune con esse le filosofie della storia. Naturalmente non ammettono nello stesso modo la proie­ zione nel futuro, sebbene abbiano qualche potere di previ­ sione. Un certo resoconto di ciò che è accaduto nel passato potrebbe permetterci di prevedere qualche altro fatto, rela­ tivo a quanto è accaduto, che prima d'ora era sconosciuto e una ricerca autonoma potrebbe confermare questa previ­ sione. Il fatto che l'avvenimento previsto abbia avuto luogo nel passato non toglie che si tratti di una previsione e, se si vuole, di una previsione su ciò che noi, come storici, scopri­ remo in seguito, se compiamo una ricerca: ciò è molto si­ mile al prevedere che cosa vedremo in cielo, se facciamo una certa osservazione. Cosf, se scoprissimo tre tombe di elaborato stile romano in differenti parti della Jugoslavia, conoscendo l'usanza romana di seppellire i morti ai margini delle strade, potremmo avanzare l'ipotesi che queste tombe siano situate lungo una stessa strada principale e una suc­ cessiva indagine potrebbe convalidare questa previsione. La distinzione tra osservazione e teorie ha dunque almeno un'analogia nella storia; vi possono essere grandi differenze tra resoconti storici e teorie scientifiche, ma non maggiori - come si avverte - di quelle tra le filosofie della storia e le teorie scientifiche. Inoltre è parziale e falsante pensare che il lavoro stori­ co consista soltanto nel procurare dati per le future filoso­ fie della storia (Tycho dovette trovare una teoria descritti­ va per sistemare le sue osservazioni, ma è certamente falso supporre che gli storici vedano le proprie «osservazioni» sotto questa luce): non ne consegue che gli storici non pos­ sano essere visti sotto questa luce, .ma solo che essi non la pensano cosf, non piu di come gli artisti pensino di procu­ rare dati per gli storici dell'arte, anche se risulta vero che gli artisti producono effettivamente i dati su cui lavorano gli storici dell'arte. Comunque potessimo, in un differente contesto, caratterizzare il lavoro storico, la spiegazione che stiamo considerando non lo descrive secondo gli scopi e i criteri per raggiungerli degli storici militanti; inoltre, ac-

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cettare questa spiegazione comporterebbe un rivoluziona­ mento della nostra idea della storia come disciplina con­ cettuale. Se mi capita di leggere un resoconto della Guerra dei Trenta Anni che mi induce a riflettere sulla spiegazione storica, sarebbe vero che lo storico che lo ha scritto ha sti­ molato in me una riflessione filosofica: ma questo non era nei suoi intenti quando scriveva quel resoconto. Ovviamen­ te, ci troviamo di fronte a una situazione di questo tipo: uno storico lavora con grande impegno per stabilire, dicia­ mo, un certo fatto relativo al passato, poi un altro storico utilizza questo fatto per scrivere un resoconto di un certo periodo del passato. Quest'ultimo resoconto può risultare o non risultare soddisfacente agli occhi dei suoi colleghi, ma se non risulta tale, se ne può scrivere un altro dello stesso tipo di quello che viene sostituito, che soddisfi però proprio quei criteri per cui il primo era giudicato insoddi­ sfacente. Tali resoconti (tornerò ad insistere sui criteri che i resoconti storici devono soddisfare) sono in certo modo esaurienti, nel senso che qualsiasi loro perfezionamento è ancora un prodotto che rimane nella storia. In altre paro­ le, non sembrano essere preliminari a nessun altro tipo di attività, ma solo, forse, a ulteriori resoconti dello stesso tipo e soddisfacenti gli stessi criteri. Quindi la differenza tra storia e filosofia della storia non può consistere nel fatto che la filosofia della storia, a differenza della storia, fornisce resoconti basati su detta­ gliate scoperte fattuali, poiché entrambe presentano questi resoconti. Dunque, il resoconto fornito da un filosofo del­ la storia dovrebbe essere di un tipo del tutto differente per uscire dall'ambito della storia e produrre qualche cosa che essa non produce. Ovviamente, ci aspetteremmo che fosse cosf, se esso fosse del tutto simile a una teoria scien­ tifica, poiché le teorie scientifiche sembrano appartenere a un genere diverso e soddisfare criteri diversi da quelli dei comuni esempi di resoconto storico. Ma allora la difficoltà consiste nel fatto che le filosofie della storia non sono quasi mai completamente simili alle teorie scientifiche tipiche; esse assomigliano invece, semmai, ai resoconti storici tipici,

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tranne che per le loro affermazioni sul futuro, che sono di un tipo che i resoconti storici comunemente non presen­ tano. Quest'ultima somiglianza non consiste solo nel fatto che le filosofie della storia, come i resoconti storici, pre­ sentano spesso una struttura narrativa, ma in quello che le filosofie della storia tendono tipicamente a dare interpreta­ zioni di sequenze di avvenimenti molto simili a quelle del­ la storia e completamente differenti da quelle della scienza. Le filosofie della storia fanno uso di un concetto interpreta­ tivo che, mi sembra, sarebbe molto inadeguato nella scien­ za, vale a dire di un certo concetto di «significato» (mea­ ning): esse vogliono scoprire, in una particolare accezione storicamente appropriata del termine, qual è il «significa­ to» di questo o di quell'evento. Il professor Lowith ci fornisce la seguente caratterizzazione generale della filoso­ fia sostanzialistica della storia: essa è, egli dice, «un'inter­ pretazione sistematica della storia universale secondo il principio che gli eventi e le successioni storiche sono uni­ ficate e dirette verso un significato ultimativo» 5• Come dobbiamo intendere questo particolare uso della parola «significato», che è del tutto differente dal modo in cui, per esempio, parliamo del significato di un termine, di una proposizione o di un'espressione? Grosso modo, penso, cosi: dobbiamo considerare gli eventi dotati di un «significato» in riferimento a una piu ampia struttura tem­ porale di cui essi fanno parte; ma questo non è un modo del tutto insolito di usare il termine. Pensiamo, per esem­ pio, alla considerazione critica che facciamo quando dicia­ mo che un certo episodio in un romanzo o in una comme­ dia non ha significato, che è «privo di senso». Intendiamo 5 Karl Lowith, The Meaning of History, Chicago, Chicago University Press, 1949, trad. it. Significato e fine della storia, Milano, Comunità, 1965, p. 14. Cfr. l'introduzione al volume Theories of History, a cura di Patrick Gardiner, Glencoe, Free Press, 1959, p. 77: «Ciò che hanno in comune le concezioni che vengono solitamente chiamate "filoso­ fie della storia n è il proposito di fornire una spiegazione comprensiva del processo storico che "abbia un senso" ».

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dire che esso non ·asseconda l'azione, che è superfluo e per­ ciò esteticamente non appropriato. Naturalmente, però, pos­ siamo dare questo giudizio di un particolare episodio sol­ tanto quando abbiamo dinanzi a noi l'intero romanzo o so­ lamente quando la commedia sia terminata; prima, possia­ mo solo dire che non sappiamo ancora quale possa essere il significato dell'episodio, anche se siamo convinti che es­ so giochi un ruolo nello svolgersi della trama. Successiva­ mente possiamo dire che aveva questo o quel signi:ficato (a meno che, per cosi dire, non vi sia nulla che ingrani con esso 6, che esso cioè non abbia assolutamente nessun senso e non sia altro che un difetto nella commedia ben orche­ strata). Sottolineo che solo retrospettivamente, cioè soltan­ to rispetto all'opera intera, siamo in grado di dire che un episodio ha un certo significato specifico. Ma l'informazio­ ne relativa all'opera intera è proprio quella di cui manchia­ mo quando la scorriamo per la prima volta: se allora qualcosa ci colpisce in quanto privo di signi:ficato, dobbia­ mo aspettare per vedere se questo è vero e anche se ci sembra çhe qualcosa abbia un certo significato dobbiamo aspettare per vedere se lo ha veramente. Siamo spesso co­ stretti a rivedere i nostri punti di vista su un episodio alla luce di quanto accade in seguito. Questo concetto di si­ gnificato trova applicazione anche nella storia. Adesso che la rivoluzione francese è passata possiamo dire cosa signi­ ficava il giuramento della pallacorda - evento sul quale anche coloro che vi parteciparono potrebbero essersi com­ pletamente ingannati. In questo senso, possiamo pensare che i filosofi della storia cerchino di considerare gli eventi come dotati di significato nel contesto di una totalità sto­ rica simile a una compiuta opera letteraria; in tal caso però la totalità in questione è quella della storia, comprendente il passato, il presente e il futuro. Diversamente da coloro 6 Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Basil Blackwell, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 19682, § 271, p. 126: « Qui vorrei dire: una ruota che si possa muovere senza che tutto il resto si muova insieme con essa, non fa parte della macchina».

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che hanno dinanzi a sé un intero romanzo e sono in grado di dire qual è il significato di questo o di quell'episodio, il filosofo della storia non ha dinanzi a sé la totalità della sto­ ria: al massimo ne ha un frammento, l'intero passato. Egli pensa, però, in termini di totalità storica e cerca di discer­ nere la struttura di questa totalità solo sulla base del fram­ mento di cui già dispone, cercando, nello stesso tempo, di spiegare il significato di parti di questo frammento alla luce della struttura complessiva che ha prospettato. Sono completamente d'accordo con l'affermazione di Lowith che questo modo di considerare la totalità della storia è essenzialmente teologico 7, o che comunque pre­ senta caratteristiche strutturali comuni alle interpretazioni teologiche della storia, che la considerano in toto come la conferma di un piano divino. Penso che sia istruttivo ri­ conoscere che Marx e Engels, per quanto materialisti ed esplicitamente atei, erano tuttavia portati a vedere la sto­ ria attraverso lenti essenzialmente teologiche, come se po­ tessero percepire un piano divino, ma non un essere divi­ no autore del piano. Ad ogni modo le filosofie sostanziali­ stiche della storia, per quanto è corretta la mia caratteriz­ zazione, hanno chiaramente a che fare con quello che chia­ merò profezia 8• Una profezia non è semplicemente un'as7 K. Lowith, The Meaning of History, trad. it. cit., p. 14. Non posso però accettare le ragioni, che mi sembrano retoriche, con cui Lowith giustifica questa affermazione. 8 Mutuo da Kairl Popper la distinzione tra previsione e profezia. Si veda il suo Prediction and Prophecy in the Socia/ Sciences, in Theories of History, a cura di P. Gardiner, cit., pp. 276 ss. Per « profezia» Popper intende una previsione incondizionata. Egli accetta soltanto pre­ visioni condizionate (p. es. data la condizione C allora E) o previsioni derivate da queste e mostra che gli storicisti non solo fanno previsioni incondizionate, ma le fanno anche all'interno di sistemi in cui ciò non è legittimo. Le previsioni incondizionate sono lecite solo quando sono derivate da previsioni condizionate e quindi rispetto a « sistemi bene isolati, stazionari e ricorrenti». La società però è « aperta». Non è affatto questo il senso che dò al concetto di profezia, come si vedrà. Né trovo lo storicismo assolutamente illegittimo come lo trova Popper, qui e altrove nei suoi scritti. Cfr. specialmente The Poverty of Histori­ cism, Boston, Beacon Press, 1957, trad. it. Miseria dello storicismo, Milano, L'Industria, 1954, cap. II e passim. Mi occupo in parte di questo nel cap. XII.

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serzione sul futuro, dato che quest'ultima si chiama previ­ sione: si tratta di un certo tipo di asserzione sul futuro e dirò, in un'analisi ulteriore, che è un'asserzione storica sul futuro. Il profeta parla del futuro in un modo che è appro­ priato solo per il passato o parla del presente alla luce del futuro considerato come un fait accompli; il profeta tratta il presente secondo una prospettiva che normalmente è va­ lida solo per gli storici futuri 9, per i quali gli eventi per noi presenti sono passati ed è possibile scorgerne il signi­ ficato. Proprio a questo punto voglio richiamare la mia pre­ cedente affermazione secondo cui la filosofia sostanzialisti­ ca della storia è connessa con la storia: possiamo adesso vedere che, per un certo aspetto, una filosofia della storia è simile ad un comune resoconto storico e possiamo anche capire come talora accada che le filosofie della storia ven­ gano classificate in modo errato e prese semplicemente co­ me esempi molto pretenziosi di comuni lavori storici, in una prospettiva particolarmente ampia: «Le difficoltà sol­ levate dai grandiosi modelli di un Marx, di uno Spengler o di un Toynbee... non sono tanto dovute al fatto di essere storia, quanto a quello di essere grandiosi» 10• La somiglian­ za è dovuta all'uso ingiustificato che le fìlosofìe della storia fanno di quello stesso concetto di «significato», che trova una giustificazione nell'ordinario lavoro storico. Discuterò piu avanti alcuni problemi che nascono riguardo a questa nozione di significato; per il momento basta indicare come di solito si conferisce significato agli eventi nelle discus­ sioni storiche. Possiamo, per esempio, sapere che quanto fu realizzato da un individuo B era dovuto in gran parte al­ l'influenza dell'operato di A; quando si vuol conoscere il significato storico dell'operato di A, ci si aspetta una rispo9 Per esempio, Hitler che si diede ad affermazioni come « la guerra è vinta» ai primi del 1940. Le fiduciose descrizioni del presente che I Iitler faceva alla luce di un futuro, di cui assolutamente sembrava avc.:rc una speciale intuizione, dovrebbero spiegarsi, in certa misura, con la notevole influenza che egli aveva sui pensieri della gente. 10 Dona.Id Williams, More on the Ordinariness of History, in « Journal of Philosophy», LII (1956), n. 10, p. 272.

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sta cli questo tipo: il suo significato consiste nell'aver in­ fluenzato il lavoro di B. Naturalmente questo uso del ter­ mine «significato» (significance) non ne esaurisce l'intero senso concettuale: un'opera poetica può essere significati­ va solo perché essa è intrinsecamente grande poesia. E for­ se si può dimostrare che se non usassimo il termine «signi­ ficativo» in qualche altro senso non storico, esso non po­ trebbe esser affatto usato in senso storico. Può cioè essere vero che troviamo l'operato di B intrinsecamente significa­ tivo, vale a dire un grande risultato; possiamo quindi pre­ sumere che l'episodio della vita di B, che per la prima vol­ ta lo portò a conoscenza dell'operato di A, sia molto signi­ ficativo, cioè davvero segnato dal destino. A un contempo­ raneo potrebbe essere sfuggito il significato di questo fatto, poiché le grandi opere di B non erano ancora state com­ piute; gli sarebbe mancato quello che invece noi possedia­ mo, cioè certe informazioni ricavabili solo dopo quell'oc­ casione. Solo in seguito un biografo può isolare tale episo­ dio come l'evento piu significativo della vita di B. Un con­ temporaneo avrebbe potuto non considerarlo tale: infatti avrebbe potuto pensare che non fosse degno di nota. Tra l'altro, l'opera di A può essere significativa soltanto per avere influenzato il lavoro di B. Si pensi, a questo proposito, a certi tipi comunissimi di emozioni che sono connesse sia alla memoria che alla va­ lutazione di ciò che facciamo e non facciamo, per esempio al rimpianto e al rimorso. Di solito esprimiamo convenzio­ nalmente il rimpianto dicendo: «Se solo l'avessi saputo...». Ora, l'ignoranza di cui qui ci lamentiamo è spesso una man­ canza di conoscenza del futuro, un'ignoranza che è stata eliminata dal tempo, cosf che adesso conosciamo, mentre allora non conoscevamo e, forse, non avremmo potuto co­ noscere, le conseguenze del nostro avere o non avere agi­ to. In generale vogliamo dire che se avessimo saputo al­ lora quello che sappiamo adesso, non avremmo agito come abbiamo agito. Naturalmente tali asserzioni causano delle perplessità. Se, per esempio, so che E accadrà, ne consegue che «E accadrà» è vera, in modo tale che E deve accadere;

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se E deve accadere, allora non si può far nulla per impe­ dire che accada, o per rendere falsa «E accadrà»; quindi il rimpianto è gratuito. Se, d'altra parte, posso far qualcosa per prevenire E, allora non è vero che E deve accadere; e se prevengo E, «E accadrà» è falsa, quindi non posso dire di sapere che E accadrà. Se posso fare qualcosa riguar­ do al futuro, esso non può venir conosciuto; se può es­ serlo, non posso far nulla al suo riguardo. Questo è un vec­ chio problema, che risale ad Aristotele e con cui avremo che fare piu avanti. Sto però rammentando che «Se solo l'avessi saputo...» non può essere considerata un'espressio­ ne rigorosa; se avessi saputo, non avrei potuto farci nulla. In ogni modo il compianto presuppone che non riconoscia­ mo le nostre azioni, nel momento in cui le compiamo, do­ tate del significato che in seguito attribuiamo loro, alla luce degli ulteriori eventi cui devono essere riferite. Ma questa è una visione generale dell'organizzazione storica degli eventi: gli eventi vengono continuamente ti-descritti e il loro significato ti-considerato alla luce delle successive in­ formazioni. In quanto sono in possesso di queste informa­ zioni, gli storici possono dire cose che i testimoni e i con­ temporanei non avrebbero potuto dire giustificatamente. Chiedersi il significato di un evento, Qel senso storico del termine, significa porre una domanda cui si può dare una risposta solo nel contesto di una narrazione storica; lo stesso evento avrà un significato diverso a seconda della narrazione in cui è inserito o, in altre parole, a seconda dei differenti gruppi di eventi successivi con cui può entrare in rapporto. Le narrazioni costituiscono il contesto natu­ rale in cui gli eventi acquistano un significato storico: sor­ ge a questo punto una quantità di questioni che non posso neppure sfiorare, questioni relative ai criteri di apparte­ nenza a una narrazione, per cui diciamo, rispetto a una nar­ razione S, che l'evento E è parte di S mentre E' non lo è. Ma, ovviamente, il narrare comporta l'esclusione di alcuni avvenimenti e il tacito ricorso a siffatti criteri; è altrettan1 o ovvio che possiamo fare una narrazione in cui E risulta importante, solo se siamo a conoscenza degli eventi sue-

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cessivi connessi a E; cosi, in un certo senso, possiamo fare narrazioni vere soltanto riguardo al passato; ma di questo fatto non tengono conto le filosofie sostanzialistiche della storia. Usando lo stesso concetto di significato impiegato dagli storici, i filosofi della storia cercano il significato degli eventi prima che siano avvenuti gli eventi successivi, in relazione ai quali i primi acquistano significato. Il modello che essi proiettano nel futuro è una struttura narrativa: cercano, in breve, di fare una narrazione prima che essa possa essere propriamente eseguita. E la narrazione che li interessa è naturalmente una narrazione totale, la narra­ zione della totalità della storia: ciò non vuol certo dire che tutti gli eventi entrino nella narrazione (le narrazioni, per essere tali, devono tralasciare qualcosa), ma significa, tra l'altro, che il filosofo della storia andrà alla ricerca de­ gli eventi significativi che appartengono alla narrazione del­ la totalità della storia. Il suo modo di organizzare i dati è allora proprio quello storico; però la differenza non con­ siste soltanto, come vedremo, in una certa grandiosità: es­ sa si riferisce anche, in misura notevole, a un certo tipo di affermazioni sul futuro. Esistono modi per scoprire ciò che accadrà ed esistono anche modi per descrivere storicamente ciò che accadrà: per farlo con sicurezza, conviene attendere, vedere quel che accade e poi scriverne la storia. Ma il filosofo della sto­ ria è impaziente, vuol fare adesso quello che gli storici co­ muni, com'è ovvio, sono in grado di fare soltanto in se­ guito: vuole vedere il presente e il passato nella prospet­ tiva del futuro (proprio del futuro ultimo, poiché ogni nar­ razione deve avere una fine) e pretende di poter de�crivere gli eventi in un modo che di solito non è accessibile nel momento in cui gli eventi stessi hanno luogo. Nei libri di storia incontriamo delle descrizioni (me ne occuperò a lun­ go nel corso di questo libro) espresse in una forma che è assolutamente caratteristica della storia, descrizioni che tro­ viamo abbastanza comprensibili e che consideriamo vere, ma che, pur modificandole adeguatamente nei tempi, trove­ remmo quasi incomprensibili e difficilmente credibili se fos-

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sero state espresse nel momento in cui hanno avuto luogo gli eventi che descrivono. Uno storico potrebbe scrivere: «L'autore del Neveu de Rameau nacque nel 1715». Ma pensiamo a quanto sarebbe strano che qualcuno avesse det­ to in quel preciso momento nel 1715: «L'autore del Ne­ veu de Rameau è appena nato». Sarebbe ancora piu strano se qualcuno l'avesse detto, usando il futuro, nel 1700. Co­ sa avrebbe significato una simile asserzione nel 1715 o tan­ to meno nel 1700? Certo sarebbe stato possibile prevedere che la signora Diderot avrebbe messo al mondo un enciclo­ pedista ( «Da te nascerà un enciclopedista»), per esempio sulla base del fatto che i maschi nella famiglia Diderot era­ no stati, per generazioni, dei letterati. Ma va al di là di ogni possibilità di previsioni il riferirsi, per titolo, alle poten­ ziali opere non ancora scritte di un certo autore: ciò im­ plica che si parli con ispirazione profetica, descrivendo cioè il presente alla luce di cose non ancora accadute ( «Da te nascerà un Salvatore»). Eppure i filosofi. sostanzialistici del­ la storia intendono fornire proprio simili descrizioni, che fanno riferimento in modo essenziale a eventi successivi eventi futuri rispetto al momento in cui le descrizioni ven­ gono fornite. In realtà essi cercano di scrivere la storia di ciò che accade prima che avvenga e di forn�re resoconti del passato basati su resoconti del futuro. Trovo questo aspetto della filosofia sostanzialistica del­ la storia tanto interessante quanto filosoficamente strano. I critici fanno talora un'importante distinzione tra il signi­ ficato della storia e il significato nella storia 11, per mettere in dubbio la legittimità di tutta l'opera dei filosofi. della storia. Domandarsi il significato di un evento vuol dire es­ sere disposti ad accettare un contesto in cui l'evento sia ritenuto significante: questo è «il significato nella storia», ed è legittimo richiedere tali significati. Di solito il conte­ sto in cui l'evento risulta significativo è costituito da un gruppo limitato di eventi che possono formare insieme una totalità, di cui l'evento in questione fa parte. In tal modo 11

W. H. Walsh,

p. 296 e ss.

"Meaning" in History,

in

Theories of History,

cit.,

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l'ascesa del Petrarca al Ventoux è significativa in quel gruppo di eventi che costituiscono il Rinascimento ( e forse non solo in questo contesto); ma possiamo anche chiederci il significato del Rinascimento stesso, che a sua volta richiede la specificazione di un contesto piu ampio, ecc. Esistono contesti piu o meno ampi, ma la storia come totalità è evidentemente tra tali contesti il piu ampio pos­ sibile; chiedersi allora il significato della totalità della sto­ ria significa privarsi del piano contestuale in cui tali richie­ ste sono comprensibili. Non esiste infatti un contesto piu ampio della totalità della storia, in cui l'intera storia possa essere collocata. Criticamente questo è un punto di arrivo importante, ma penso che non sia essenzialmente pregiu­ diziale per la filosofia sostanzialistica della storia. Il filoso­ fo potrebbe dire che la totalità della storia riceve il suo si­ gnificato da un contesto che non è affatto storico, per esem­ pio da un disegno divino, e continuare affermando che Dio è in ogni caso certamente fuori della storia e fuori del tem­ po; egli potrebbe inoltre far vedere, come io stesso ho già fatto, che l'attribuzione di significato storico dipende dal­ l'attribuzione di un tipo diverso e non storico di signifi­ cato: per esempio, A ha un significato storico per aver in­ fluenzato B, poiché pensiamo che il lavoro di B possa ave­ re significato in un senso del tutto diverso. Il filosofo po­ trebbe quindi continuare facendo considerare che non pos­ siamo parlare del significato storico della storia come tota­ lità, ma che il significato storico non è in nessun modo l'unico tipo di significato; potrebbe infine sottolineare che egli non intende per «storia come totalità» l'insieme di tutti gli eventi che sono accaduti e che accadranno. Forse non tutto fa parte della storia come totalità ed essa non è il contesto piu ampio possibile. Abbiamo detto che una narrazione deve tralasciare qualcosa: per esempio, secondo Hegel, nulla di quanto era accaduto in Siberia faceva parte della storia 12• Egli non negò che in Siberia fosse accaduto 12 G. W. F. Hegel, Vorlesungen uber die Philosophie der geschichte ( 1837); trad. it. Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero

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qualcosa, negò soltanto che questi avvenimenti avessero si­ gnificato nel grandioso succedersi di eventi, che si era pro­ posto di narrare. Discutendo il significato della storia nella sua totalità, Hegel disse che essa è il progressivo costituirsi dell'autocoscienza dell'Assoluto; tutto ciò che era accaduto nel corso della storia risultava significativo o insignificante rispetto a questa narrazione, ma Hegel non si domandò mai quale fosse il significato della finale autoconsapevolez­ za dell'Assoluto. Oppure, se se lo fosse chiesto, si sarebbe indirizzato verso un senso del termine «significante» del tutto diverso da quello che applicò agli ordinari eventi sto­ rici. Qualunque sia l'errore che compiono i filosofi della storia, penso che esso non si riduca semplicemente alla con­ fusione fra due accezioni del termine significato; nemmeno gli storici comuni, come ho sostenuto, non potrebbero usa­ re sempre il termine «significativo» in un modo univoco. Se non vi fosse nulla che avesse interesse da un punto di vi­ sta non storico, sarebbe senza senso dire che certe cose ( co­ me, per esempio, la pittura napoletana del XVIII secolo) hanno un interesse puramente storico. Penso tuttavia che la filosofia sostanzialistica della sto­ ria sia una concezione sbagliata che si basa su un errore fondamentale: mostrerò che è errato supporre di poter scrivere la storia degli eventi prima che siano accaduti. Poe C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1963, vol. IV, pp. 29-30: «Tro­ viamo inoltre nell'Europa Orientale la grande nazione slava... Queste popolazioni hanno costituito regni e sostenuto lotte coraggiose con va­ rie nazioni; hanno a volte agito quali truppe avanzate nella lotta fra l'Europa cristiana e l'Asia non cristiana... I Polacchi hanno persi­ no liberato Vienna, assediata dai Turchi, e una parte degli Slavi è stata acquisita alla mentalità occidentale... Tutta questa massa di popoli .non si è finora fatta innanzi come momento autonomo nella serie delle forme della ragione nel mondo. Se ciò sia per accadere nel futuro, è cosa che qui non ci riguarda, giacché nella storia abbiamo a che fare solo col passato». E ancora (Ibidem, p. 219): «Noi abbiamo considerato solo questo processo del concetto e abbiamo dovuto rinun­ ciare al gusto di descrivere piu minutamente la fortuna dei popoli, i periodi del loro rigoglio, la bellezza e grandezza degli individui, l'interesse del loro destino nel dolore e nella gioia. La filosofia ha a che fare solo con lo splendore dell'idea che si riflette nella storia del mondo».

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tremmo illustrare l'errore di questi filosofi come il tenta­ tivo di fornire resoconti temporalmente inadeguati degli eventi, di descriverli cioè in un modo che non è consentito nel momento in cui si cerca di farlo. Mi richiamo qui al fatto consueto di scrivere la storia degli eventi dopo che sono accaduti: naturalmente nessun richiamo di questo ti­ po costituisce un argomento probante e il vero problema filosofico consiste nel sapere perché questo fatto sia valido, se mai risulta tale. Gli scienziati fanno asserzioni ineccepi­ bili sul futuro e tutti quanti fanno lo stesso nella vita pra­ tica; ma quello che mi risulta sospetto è il tipo di asserzio­ ne sul futuro che i filosofi della storia fanno o che la loro attività esige che facciano. Sostengo che le loro asserzioni sul passato e sul presente sono logicamente connesse con le loro asserzioni sul futuro, per cui, se queste ultime sono illegittime, le prime non sono stringenti. Gli storici descri­ vono alcuni eventi passati in riferimento ad altri eventi, che sono futuri rispetto ad essi ma passati rispetto allo sto­ rico, mentre i filosofi della storia descrivono certi eventi passati in riferimento ad altri eventi, che risultano futuri sia rispetto ad essi sia rispeJto allo storico. Voglio insistere sul fatto che non è possibile godere di un punto di vista cognitivo che lo consenta. Farò vedere che il modo di or­ ganizzare gli eventi, che è essenziale alla storia non am­ mette proiezione nel futuro e che in questo senso le strut­ ture secondo cui si effettuano tali organizzazioni non sono simili alle teorie scientifiche. Ciò è in parte dovuto al fatto che il significato storico ,è relativo al significato non stori­ co e che quest'ultimo è qualcosa che varia col variare de­ gli interessi umani. Le narrazioni storiche non devono es­ sere relative soltanto alla posizione temporale degli storici, ma anche agli interessi non storici che essi, in quanto uo­ mini, possiedono: se questo è vero, nelle descrizioni sto­ riche è presente un fattore ineliminabile di natura conven­ zionale e arbitraria che rende troppo difficile, se non im­ possibile, parlare, come pretende il filosofo sostanzialistico della storia, circa la narrazione della totalità della storia op­ pure, all'occasione, circa la narrazione di qualunque grup-

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po di eventi. La filosofia della storia è un mostro mentale, un «centauro» come ha detto una volta Jakob Burck­ hardt 13, che non è né storia né scienza, anche se è simile alla prima e pretende di affermare cose che solo la seconda può affermare. La storia, scrive Burckhardt, coordina e la filosofia su­ bordina, per cui l'espressione «filosofia della storia» è una contraddizione in termini 14• Questo è vero in linea gene­ rale, ma ci dice molto poco sul modo in cui la storia coor­ dina, modo che la rende diversa dalla scienza, al punto che lo si avverte intuitivamente. Questo ci conduce inoltre alla filosofia analitica della storia, che ha fra i suoi scopi prin­ cipali quello di chiarificare tale forma di coordinazione. La cosa piu importante da ricordare, a tale proposito, è il fatto che gli eventi coordinati sono temporalmente distanti l'uno dall'altro, che essi sono passati o futuri l'uno rispetto all'altro, anche se sono tutti quanti già trascorsi per lo sto­ rico. Vedere se tutti questi eventi debbano essere passati per lo storico e per quale ragione: questo è il problema principale di cui questo libro intende occuparsi. Cosi, di­ scutendo la nostra conoscenza del passato, non posso fare a meno di interessarmi alla discussione sulla nostra cono­ scenza del futuro, se mai è possibile, in questo caso, par­ lare di conoscenza. In certo modo mi interesserò dunque della filosofia sostanzialistica della storia quanto della sto­ ria stessa: sosterrò che la nostra conoscenza del passato è limitata in modo significativo dalla nostra ignoranza del futuro. Il compito generale della filosofia consiste nell'iden­ tificazione dei limiti; l'identificazione di questo limite co­ stituisce il compito particolare della filosofia analitica della storia, secondo il mio punto di vista.

13 Jacob Burckhardt, Force and Freedom: Refl,ections on flistory, New York, Pantheon Books, 1943, p. 80.

14 Ibidem.

Capitolo secondo

Una caratterizzazione m1n1ma della storia

Nel capitolo precedente sostenevo che la filosofia so­ stanzialistica della storia è qualitativamente diversa dalla storia stessa: essa consiste nel proiettare nel futuro, in un modo che considero illegittimo, strutture dello stesso tipo di quelle che gli storici usano per organizzare gli eventi del passato. Per affinità di struttura tra le comuni spiegazioni storiche e le filosofie della storia e anche perché lo stesso concetto di significato storico determina il tipo di spiega­ zione che è loro proprio, saremmo portati a supporre che questi due tipi di attività siano generalmente uniformi e differiscano soltanto in quanto al campo. Infatti una co­ mune spiegazione storica copre soltanto una parte dell'oriz­ zonte che una filosofia della storia cerca di coprire, cioè la totalità della storia. Naturalmente, poi, esistono diffe­ renze di prospettiva all'interno della storia stessa: una sto­ ria del periodo del Terrore, nel 1793, copre un campo meno ampio della storia della rivoluzione francese, la qua­ le a sua volta è meno ampia di una storia della Francia, cosi come quest'ultima lo è nei confronti di una storia del­ l'Europa, ecc. La spiegazione storica piu ampia possibile è, come ho suggerito, una spiegazione della totalità del pas­ sato, che va distinta da quella della totalità della storia, og­ getto della filosofia della storia. Si sarebbe tentati di sup­ porre che vi sia soltanto un'impossibilità pratica di spie­ gare la totalità del passato, anche se vi è forse un'impos­ sibilità logica di spiegare la totalità della storia. Per vedere come tale supposizione non sia qui di fatto appropriata, occorre vedere in che modo, nel senso che io considero piu profondo, la filosofia sostanzialistica della storia è «connes-

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sa» con la storia. Piu avanti cercherò di mostrare che ogni spiegazione del passato è essenzialmente incompleta in quanto per essere completa richiederebbe la realizzazione di una condizione che non può essere assolutamente realiz­ zata. Sosterrò allora la tesi che una completa spiegazione del passato presupporrebbe una completa spiegazione del fu­ turo, in modo che non si potrebbe realizzare una spiega­ zione storica completa senza realizzare, anche, una filoso­ fia della storia: quindi, se non vi può essere una legittima filosofia della storia, non vi può essere neppure una legitti­ ma spiegazione storica completa. Parafrasando un famoso risultato della logica, diremo, in breve, che non possiamo ottenere una spiegazione storica al tempo stesso coerente e completa. In altre parole la nostra conoscenza del passa­ to è limitata dalla nostra conoscenza (o ignoranza) del fu­ turo. Questa è la connessione piu profonda tra la filosofia sostanzialistica della storia e la storia comune. Per questa ragione non si può evitare la filosofia sostanzialistica della storia se ci si interessa da un punto di vista analitico del concetto di storia, anche di quella praticata dagli storici normali. Illustrerò con un breve esempio che cosa intendo, quando affermo che una spiegazione completa di un even­ to dovrebbe comprendere tutte le descrizioni storiche vere di quell'evento. Consideriamo la nascita di Diderot nel 1 715: una spiegazione storica vera di ciò che accadde è che in quell'anno nacque l'autore del Neveu de Rameau. Ma, prima che il Neveu de Rameau fosse stato scritto, non si sarebbe potuto descrivere cosi l'evento, a meno di non fare un'affermazione riguardo al futuro, cioè a meno di non parlare profeticamente. Una simile descrizione storica, durante il periodo considerato, avrebbe logicamente pre­ supposto una proposizione appartenente alla filosofia della storia; senza di essa, però, non abbiamo una descrizione completa dell'evento registratosi nel 1715, per cui non po­ tremmo avere una descrizione storica completa, senza pre­ supporre la realizzazione di una filosofia della storia, Si trat-

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ta di una regola generale poiché vi saranno sempre descri­ zioni di eventi del 1715 che dipenderanno da descrizioni di eventi non ancora accaduti. Solo quando essi sono acca­ duti, sono possibili queste descrizioni, senza le quali la spiegazione non è completa. Ma fare questo prima che gli eventi richiesti siano accaduti è fare della filosofia della storia. Cosi, se la filosofia della storia è impossibile, sono pure impossibili le spiegazioni storiche complete; esse so­ no, allora, essenzialmente incomplete. Osserviamo che se la filosofia della storia fosse legitti­ ma, essa consentirebbe, anzi implicherebbe, certe asserzio­ ni sul passato, che altrimenti gli storici non potrebbero fare. I filosofi della storia non solo fanno asserzioni sul fu­ turo, ma anche sul passato. Cosi il «fare asserzioni sul pas­ sato» non distingue gli storici dai filosofi della storia. Que­ sta è l'ultima relazione che metterò in evidenza tra la sto­ ria e la filosofi.a della storia. Essa consiste in ciò che le loro aff_ermazioni sul passato presuppongono e quello che distingue il filosofo della storia è il fatto che le sue asser­ zioni sul passato presuppongono certe asserzioni sul futuro. Per «futuro» naturalmente intendo il «suo futuro». La ca­ ratterizzazione tanto della storia quanto della filosofia del­ la storia implica il riferimento alla situazione temporale dello storico come del filosofo della storia. Mi occuperò per ora soltanto della storia comune. Gli storici in quanto tali non si occupano degli eventi che ap­ partengono al loro futuro, almeno non come si occupano degli eventi del loro passato o, in certi casi, del loro pre­ sente, cioè quegli eventi che stanno vivendo. Possono oc­ cuparsi di questi ultimi, per esempio, nel senso di osser­ varli in attesa di quando ne scriveranno la storia, una vol­ ta che essi appartengano al passato. È il caso di Tucidide la cui famosa opera è particolarmente illuminante -ai fini del nostro discorso; egli inizia dicendo: «Tucidide atenie­ se scrisse la guerra tra i Peloponnesi e gli Ateniesi, cosi come fu combattuta tra di loro. Si accinse al lavoro appe­ na la guerra scoppiò; e previde che sarebbe stata impor-

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tante: la piu notevole tra le precedenti» 1• È chiaro che egli avverti che l'insieme di eventi che stava per vivere era «significativo», che doveva esservi un'importante narra­ zione da fare; osservò allora le cose cosi come accaddero per essere poi in grado di narrarle. Tucidide si sforzò di essere il piu preciso possibile per fare risultare ciò che realmente è accaduto; tale accuratezza gli costò considere­ vole fatica, come dice lui stesso 2, poiché non poté essere 1 Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro I, 1, tr. P. Sgroi, Na­ poli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1968: «Fu questo in effetti lo scon­ volgimento piu forte per l'Ellade e per certe zone dei paesi barbari. Potremmo anzi dire per gran parte del mondo. Quanto alla storia che precede questi avvenimenti, sono convinto che il passato dell'Ellade dalle guerre persiane a quest'ultima sia meno importante; e sulla storia ancora piu remota, data la distanza dei tempi, non era possibile otte­ nere risultati precisi: nè ritengo che tale storia abbia grande importanza, sia per le guerre, sia per altri rispetti». Quest'affermazione è stata radi­ calmente fraintesa da Spengler, il quale scrive che « la mentalità di Tucidide affatto astorica ... ci si palesa subito alla prima pagina del suo libro per l'affermazione inaudita che, prima del tempo suo (circa il 400!) nel mondo non vi era stato alcun avvenimento importante» (0. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, Miinchen, 1918-22, trad. it. Il tra­ monto dell'Occidente, Milano, Longanesi, 1957, p. 44). Tucidide non dice nulla di simile, ma solo che sulla base delle migliori testimonianze a lui note, non era accaduta nessuna guerra di cosi grandi proporzioni come quella tra Sparta e Atene. Spengler dice che « a Tucidide fu asso­ lutamente preclusa quella visione prospettica della storia di secoli che noi consideriamo ovvia nello storico quale noi lo concepiamo». (ibidem, p. 43). In verità Tucidide non ebbe un predecessore suo pari e la sua grande accuratezza, che anche Spengler ammira, conservò un signi­ ficato, come vedremo, in ogni tempo, in modo da mettere in grado gli uomini, sempre da allora in poi, di fare uso della sua opera. « Qualcuno ha detto: "Gli scrittori morti sono lontani da noi perché noi sappiamo molto piu di loro". Questo è esatto, ed essi sono proprio ciò che noi sappiamo» (T. S. Eliot, Tradition and Individual Talent, in Selected Essays: 1917-1932, New York, Harcourt Brace, 1932, p. 6). 2 Tucidide, op. cit., libro I, 22: « E quanto ai fatti veri e propri svoltisi durante la guerra, ritenni di doverli narrare non secondo le informazioni del primo venuto né secondo il mio arbitrio, ma in base alle piu precise ricerche possibili su ogni particolare, sia per ciò di cui ero stato testimone diretto, che per quanto mi venisse riferito da altri. Faticose ricerche: perché i testimoni dei singoli fatti riferivano su cose identiche in maniera diversa, ognuno secondo le sue particolari simpatie e la sua memoria». La famosa descrizione della peste ne è un chiaro esempio: « Io ne esporrò i fenomeni, e indicherò quei sintomi, la cui osservazione, fondata su una precedente conoscenza elementare, per­ metta meglio di riconoscere il male se mai torni a scoppiare. Darò tali

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testimone diretto che di una piccola parte degli eventi del­ la sua storia e fu costretto a dipendere, negli altri casi, da testimonianze indirette. Queste, però, non sempre concor­ davano, per cui era costretto, per determinare quale tra due versioni contrarie fosse corretta, a compiere le «piu precise ricerche possibili». Quest'attenzione critica gua­ dagnò a Tucidide l'onore di essere il padre della storia scientifica; ma la ragione di tale scrupolosità non stava soltanto nell'intento di stendere un resoconto corretto, anche se questa era una condizione necessaria per ciò che egli voleva ulteriormente realizzare. Tucidide voleva che il suo fosse un lavoro utile 3, ed era persuaso che non sa­ rebbe stato utile se non fosse stato vero. Per questo si preoccupò di essere corretto. Forse tutti gli storici mirano a questo, ma spesso l'utilità del loro lavoro è solo in fun­ zione di un'ulteriore ricerca storica; è utile ad altri storici interessati a quel periodo o a quegli eventi, oppure a co­ loro che pur non essendo storici sono interessati a scoprire cosa accadde. I criteri di utilità rimangono cos{ nell'area della storia stessa, ma Tucidide ricerca un altro tipo di uti­ lità, in un senso non storico. Accanto al normale obiettivo storico, nello scrivere la sua opera, egli ne ebbe un altro, non storico. Di quest'altra utilità voglio brevemente di­ scutere. Il libro di Tucidide è diretto a coloro che, nelle sue parole, vorranno sapere ciò che del passato è certo, e ac­ quistare ancora preveggenza per il futuro. Infatti il futuro si deve presentare «sotto identico o simile aspetto» 4 al spiegazioni perché anch'io ho sofferto questa malattia, e ne ho seguito il decorso su altri» (Ibidem, libro II, 48). Tra parentesi, questo illustra altrettanto bene a quale uso Tucidide pensò che la sua opera potesse essere generalmente destinata. Cfr. la nota seguente. 3 « E forse la mia storia, spoglia dell'elemento fantastico, acca­ rezzerà meno l'orecchio, ma basterà che la giudichino tale quanti vor­ ranno sapere ciò che del passato è certo, e acquistare ancora preveg­ genza per il futuro, che potrà quando che sia ripetersi, per la legge naturale degli uomini, sotto identico o simile aspetto » (Tucidide, op. cit., libro I, 22). 4 Touxu"t'a xat 1tapa1tÀ.'T)CTLa. Cioè: simile o perfettamente simile.

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passato. La sua opera deve allora essere «un possesso per ogni tempo». Da queste poche affermazioni sembrerebbe chiaro che Tucidide scrive per coloro che, stando alla mia concezione, devono essere filosofi della storia: scrive sul passato, ma solo e principalmente per fornire un'indica­ zione riguardo agli eventi del futuro che deve presentarsi «sotto identico o simile aspetto» al passato. Ma penso che il suo riferimento al futuro non sia quello che caratterizza le filosofie della storia, e l'istanza che il futuro deve pre­ sentarsi «sotto identico o simile aspetto» al passato è in realtà solo una rozza formulazione di ciò che sia­ mo tutti d'accordo nel chiamare principio di induzione. Propongo di ricostruire cosI ciò che Tucidide aveva in mente: siamo di fronte, dice Tucidide, a una guerra che avviene secondo tali e tali condizioni; condizioni simili a queste perdureranno nel futuro come sono rimaste valide per il passato, e cosI guerre simili a questa avranno luogo in futuro come hanno avuto luogo in passato. Dunque, se solo possiamo determinare tali condizioni nella presente evenienza e se in qualche occasione futura possiamo identi­ ficare condizioni simili, in tal caso possiamo attenderci che accadano eventi simili. In questo modo avremo fornito un'indicazione per gli eventi futuri simili alla guerra del Peloponneso, o che gli assomigliano abbastanza 5• Ora possiamo interpretare quanto si è detto in modo da mostrarne completamente la banalità: saremmo in gra­ do di predire la sequenza degli avvenimenti in ogni guerra che sia abbastanza simile alla guerra del Peloponneso, una volta che fossimo in possesso di una precisa descrizione del­ la guerra del Peloponneso stessa. Chi comprende x com­ prende ogni copia di x, ammesso che sia una buona copia; perché ciò sia valido il problema reale è che vi siano di 5 « Il suo metodo era induttivo. Egli citava fatti e ne derivava conclusioni. Credeva ai cicli storici e voleva aiutare la causa della civiltà mostrando come gli uomini, in date circostanze, individualmente e soprat­ tutto socialmente, avevano agito nel passato in modo giusto o sbagliato, per evitare nel futuro gli errori del passato» (G. B. Grundy, Thucydides and History of His Age, London, John Murray, 1911, p. 8).

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fatto guerre «abbastanza» simili alla guerra del Peloponne­ so, che veramente gli eventi futuri somiglino a quelli del passato, pur senza «rifletterli». Siamo per esempio a cono­ scenza di un gran numero di guerre che appartengono al nostro passato, ma al futuro di Tucidide, che presentano differenze, altrettanto notevoli delle somiglianze, con la guerra del Peloponneso. Senza dubbio Tucidide non pote­ va conoscere le guerre successive, ma deve aver avuto in­ formazioni equivalenti, se dobbiamo prenderlo alla lettera. Infatti, in definitiva, la guerra che egli ha cosf brillante­ mente descritto era futura rispetto alle molte guerre del suo passato, alcune delle quali egli presumibilmente cono­ sceva. Se quella che descrive somigliava esattamente a que­ ste altre guerre, allora dovremmo rirfiutare molte parti del­ la sua esposizione. Per esempio egli afferma che la guerra era di «grandi proporzioni», ma dice anche che «tutte le testimonianze, nelle quali le informazioni avute, nella mi­ sura in cui erano accessibili, spingono a credere, indicano che non vi è mai stato nulla di "grandi proporzioni" né nella guerra né in altro» 6• Dobbiamo effettivamente sup­ porre che nella guerra del Peloponneso vi fosse qualcosa di singolare, se è giustificata la sua affermazione che essa «era piu degna di essere raccontata di quante l'avevano preceduta». Se il futuro deve assomigliare al passato, il pas­ sato deve esser simile al futuro (dato che «assomiglia a» è una relazione simmetrica): cosi è chiaro che Tucidide non può insistere, come fa, sul fatto che fosse una guerra senza precedenti e dire anche che ogni futura guerra doveva asso­ migliarle. Ovviamente tutte le guerre si assomigliano, se le dobbiamo chiamare guerre, ma allora basta consultare i 6 Cfr. nota 1. Ancora: « Delle precedenti imprese la piu grande fu quella contro i Persiani; eppure fu rapidamente decisa in due batta­ glie navali e due terrestri... Mai infatti avevano prima le guerre spopo­ lato tante città... né si erano avuti tanti casi di gente esiliata e tanto sangue, sia per la guerra vera e propria, sia per le guerre civili. I feno­ meni che prima si riferivano per sentito dire, ma che di rado rispon­ devano ai fatti, divennero non dubbia realtà; ciò dicasi per quanto riguarda i terremoti che interessarono zone assai estese e furono di intensità assai maggiore del solito... » (Tucidide, op. cit., libro I, 23).

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dizionari o riferirsi all'uso grammaticale, per determinare le caratteristiche comuni in virtu delle quali un evento deve a ragione esser chiamato guerra, senza bisogno di stu­ diare la storia. In senso conoscitivamente rilevante, che di­ ritto aveva Tucidide di supporre che le guerre future sareb­ bero state simili a quella del Peloponneso, se quelle pas­ sate non lo erano state? Sicuramente non avrebbe potuto provarlo, perché la sola prova a sua disposizione avrebbe parlato decisamente contro la sua asserzione sulle guerre future. Come poteva supporre che le guerre future non sa­ rebbero state diverse, se lo erano state quelle del passato? Ma se questa era l'unica conclusione cui egli poteva legit­ timamente pervenire con le prove a sua disposizione, allo­ ra il suo scopo di scrivere una storia «utile» era fallito in partenza. Oppure la sua utilità avrebbe proprio l'effetto opposto a quello che Tucidide immaginava: il passato cioè sarebbe una guida assolutamente priva di utilità per il fu­ turo; quindi, in conclusione, se si avesse realmente biso­ gno di far fronte al futuro, sarebbe meglio non perdere il proprio tempo con la storia. Tuttavia, se il passato non è una guida per il futuro, che cos'è? In qualche modo, in ri­ ferimento ai nostri procedimenti induttivi, esso costituisce una guida: il problema è di vedere se Tucidide poteva in questo caso operare legittimamente per induzione. È estremamente artificiale applicare questa forzatura lo­ gica alle osservazioni di Tucidide 7• Ma egli pone esplicita­ mente la necessità di scrivere un libro utile ed è pure espli­ cito su quello che deve esserne l'uso. Si potrebbe tentare una piu adeguata ricostruzione della sua metodologia in questi termini: in accordo con una famosa parte della Re­ pubblica di Platone, Tucidide potrebbe aver assunto lo stratagemma di prendere qualcosa come l'immagine «scrit­ ta a grandi caratteri» di un'altra. Secondo quest'idea, se A 7 Per esempio, il suo mettere l'accento sulle grandi dimensioni della guerra può avere avuto il fine di mostrare che l'oggetto della sua storia era « piu grande e piu interessante di quello del suo predecessore Erodoto» (G. B. Grundy, op. cit., p. 3). Cfr. anche il caratteristico con­ trasto con la guerra persiana (dr. nota precedente).

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è una proiezione ingrandita di B, allora le caratteristiche strutturali comuni ad A e a B possono essere piu facilmen­ te studiate in A che in B. Si presuppone naturalmente che A e B siano strutturalmente simili, ma un presupposto di questo tipo si basa sulla nostra indiscutibile accettazione del microscopio, anche se non siamo in grado di confron­ tare ad occhio nudo un'immagine ingrandita di X con X stesso. Quindi Tucidide probabilmente pensava che la guer­ ra che si stava verificando fosse di proporzioni tanto gran­ di da poter scorgere in essa un esempio amplificato del­ l'intera classe delle guerre, di modo che studiando quella guerra si sarebbero potute individuare caratteristiche strut­ turali non altrettanto facilmente visibili in esempi piu pic­ coli. Egli, in definitiva, dice, o lascia chiaramente inten­ dere, che per la sua dimensione quella guerra era «piu de­ gna d'esser raccontata» di ogni altra. Ciò potrebbe trovare giustificazione nel criterio secondo cui la scelta di un esem­ pio particolarmente chiaro di una certa cosa è giustificata se gli altri membri della classe da cui è tratto presentano le caratteristiche tipiche della classe in modo meno chiaro. La narrazione di Tucidide vuole mettere in evidenza le ca­ ratteristiche di risposte tipiche dell'umanità a situazioni tipiche, che egli pensava continuassero a presentarsi anco­ ra. Ed è proprio in tali termini che il suo lavoro da allora in poi è stato apprezzato, come egli voleva che fosse, come un «possesso per ogni tempo» e come qualcosa di piu di un puro esame di quanto accadde tra Atene e Sparta nel passato sepolto dal tempo. Potremmo dire allora che l'affermazione di Tucidide che il futuro deve assomigliare al passato e che attraverso la lucida descrizione di uno splendido esempio della classe delle guerre egli forniva una guida per le guerre future, non era un'affermazione essenzialmente temporale. Par­ lando del futuro egli non fa nessun esplicito riferimento temporale: altrettanto giustificatamente avrebbe potuto di­ re che forniva, nel senso adeguato, una guida per tutte le guerre passate, anche se forse avrebbe pensato che ciò non costituisse un valido contributo. Da uomo positivo Tucidi-

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de si deve senza dubbio essere accorto che non è possibile operare in modo utile sul passato (come Richard Taylor ha messo in evidenza, siamo tutti fatalisti riguardo al passa­ to) 8• Possiamo agire solo sul futuro ed è soltanto in questo senso che il lavoro di Tucidide avrebbe dovuto verosimil­ mente avere l'utilità voluta 9• Ma ciò è di fatto privo di im­ portanza per quanto riguarda la logica del suo ragionamen­ to, secondo la nostra interpretazione. Infatti, in realtà, egli voleva da un solo esempio (seppure un «buon» esempio), trarre conclusioni a proposito di un'intera classe; intende­ va, dalla guerra in corso, inferire conclusioni su tutte le guerre passate e future. Ma «passate e future» non aggiun­ ge nulla all'espressione «tutte le guerre». Allora Tuci­ dide fa un'affermazione sul futuro che è simile a quelle che ciascuno di noi fa quando opera una normale indu­ zione: un'affermazione, in ogni caso, di cui è sbagliato pensare che riguardi piu il futuro che il passato, poiché riguarda piuttosto una classe ed è indipendente da ogni informazione sulla disposizione temporale dei suoi membri, sia in relazione reciproca sia in relazione a chi compie l'in­ duzione. È vero che talora esprimiamo i nostri dubbi filo­ sofici sull'induzione chiedendoci «sarà il futuro simile al passato?». Ma di fatto non vi è alcuna direzione temporale nell'induzione, la quale è simmetrica riguardo al tempo; potremmo con altrettanta facilità formulare la domanda in questo modo: «sarà stato il passato simile al passato?», vale a dire, le parti del passato anteriori al periodo da cui sono stati presi i nostri esempi «saranno state simili» ad esso? Infatti gli stessi problemi relativi a elementi futuri della classe da cui è stato preso il modello, sorgono in re­ lazione a elementi della medesima classe, anteriori nel tem­ po a quelli considerati. Per esempio, non abbiamo ragioni migliori per suppor8 Richard Taylor, Fatalism, in « Philosophical Review », LXXI (1962), n. 1, pp. 56-66. 9 E naturalmente se avesse avuto l'utilità voluta, il futuro non sarebbe stato simile al passato. Segnando nelle sabbie mobili i punti in cui qualcuno è rimasto prigioniero, si spera che in futuro si possano evitare vittime almeno in quei punti.

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re che vi saranno esempi futuri di quelle che abbiamo per supporre che ve ne sono stati in precedenza e proprio co­ m'è possibile che i modelli che abbiamo siano gli ultimi, è ugualmente possibile che siano i primi. Hume ha ammes­ so una volta la possibilità logica che l'intera struttura del mondo possa cambiare, con la conseguenza che non verreb­ be mantenuta nessuna delle nostre leggi generali 10• Ma noi possiamo ammettere la possibilità equivalente che ciò sia già successo, che un cambiamento simile abbia già avuto luogo e che il mondo sia stato un tempo tanto differente da com'è ora, quanto lo sarebbe secondo la supposizione di Hume. In breve non si hanno fondamenti induttivi per escludere nessuna delle due possibilità, poiché sono pro­ prio i limiti di tali fondamenti che la possibilità prospet­ tata da Hume voleva mettere in luce. O piuttosto si han­ no soltanto fondamenti induttivi per escludere l'una o l'al­ tra possibilità, dal momento che ciascuna di esse è logica­ mente coerente. Ma i fondamenti induttivi risultano qui inadeguati. Supporli adeguati significa fare una petizione di principio. Senza andare oltre con questa serie di simmetrie pos­ siamo concludere che i processi induttivi sono invarianti ri­ spetto alla direzione, verso il passato o verso il futuro, del­ le inferenze concernenti esempi non verificati. Allora le conclusioni implicite dell'opera di Tucidide, che le moti­ vazioni umane sono dovunque e sempre le stesse, che la umanità risponde a situazioni tipiche con modalità tipiche 10 « È, per Io meno, possibile concepire un cambiamento nel corso della natura: ciò basta a provare che un tale cambiamento non è asso­ lutamente impossibile. Farsi un'idea chiara di una cosa è già un argo­ mento innegabile della sua possibilità, e basta a confutare ogni pretesa dimostrazione contro di essa». (D. Hume, A Treatise of Human Na­ ture, Oxford, 1888, trad. it. Trattato sull'intelligenza umana, Bari, Laterza, 1967, libro I, parte III, sez. VI, p. 139). Il criterio humiano di possibilità logica è l'immaginabilità: se si può immaginare il « con­ trario» di uno stato di cose S, S non è necessario. Quindi non pos­ siamo dimostrare che non avverrà un tale cambiamento e non possiamo nemmeno appellarci all'esperienza, poiché ciò costituirebbe una peti­ zione di principio. Ma la dimostrazione e l'esperienza sono i soli fonda­ menti dei nostri giudizi. I criteri di Hume sono troppo complicati per essere qui chiariti.

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prevedibili, sono indipendenti dal tempo. Perciò egli non fa affermazioni sul futuro diverse da quelle sul presente o sul passato. Naturalmente non entro qui nella questione se le sue specifiche conclusioni siano giuste o sbagliate, ma voglio soltanto insistere sulla loro indipendenza dall'ele­ mento temporale. Quindi Tucidide non cerca di fare una filosofia della storia, cosi come l'ho caratterizzata; egli co­ struisce invece una scienza sociale, almeno implicitamente, poiché intende mettere a nostra disposizione dei fatti gene­ ralissimi sul comportamento degli individui e dei gruppi nei contesti politici, fatti illustrati in modo particolarmen­ te chiaro negli eventi che narra. Naturalmente il suo lavoro rimarrebbe valido anche se questi non fossero fatti gene­ rali, anche se realmente i Greci e gli Spartani fossero si­ gnificativamente diversi da quanti li hanno preceduti o se­ guiti; infatti noi ci vediamo rispecchiati nel suo libro. La riuscita dell'esposizione di Tucidide dipende, evi­ dentemente (almeno dal suo punto di vista), dal fatto che egli ci fornisce la relazione piu accurata possibile di ciò che accadde in realtà. Allora il meno che possiamo dire è che Tucidide ha cercato un'esposizione vera degli eventi del suo passato, in parte vissuti in prima persona e in par­ te no, ma tutti vissuti dai suoi contemporanei la cui testi­ monianza viene sottoposta alla piu minuziosa verifica. Que­ sto si potrebbe affermare, anche se egli non si fosse pro­ posto l'obiettivo ulteriore di cui abbiamo discusso. Anche ammettendo che quest'ultimo abbia condizionato la scelta delle caratteristiche della guerra da mettere in evidenza, possiamo egualmente considerare le due nnalità come in qualche modo indipendenti e distinguere nella stessa opera quei caratteri che soddisfano le due descrizioni complemen­ tari «è un'opera di storia» e «è un lavoro di scienza so­ ciale». Utilizzerò l'accorgimento di Tucidide di delineare una caratteristica generale di un'intera classe presentando un «buon» esempio di quella classe, assumendo Tucidide stes­ so come esempio particolarmente buono della classe degli storici. Dirò che l'attività degli storici consiste per lo me-

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no nel cercare di fare asserzioni vere, o di fornire descri­ zioni vere, di eventi del loro passato: propongo questa co­ me caratterizzazione minima dell'attività storica, come una condizione necessaria per l'attribuzione, a un individuo, del predicato «è uno storico». Non dirò che è una condizione sufficiente poiché, come si è visto, fa anche parte del nostro criterio per attribuire a un individuo il predicato «è un fi­ losofo della storia». Forse possiamo allargare questo crite­ rio per introdurre almeno la distinzione tra storici e :filosofi della storia, dicendo che gli storici, diversamente dai filo­ sofi della storia, cercano di esibire asserzioni vere, o descri­ zioni vere, di eventi del loro passato che non presuppon­ gono logicamente asserzioni, o descrizioni, vere e tempo­ ralmente condizionate di eventi del loro futuro. Non dico che gli storici si limitino a far questo, ma vo­ glio sottolineare che qualunque altra cosa si pensi ne costi­ tuisca lo scopo, essa impone necessariamente agli storici di riuscire a fare simili asserzioni. Si potrebbe cosf dire che gli storici cercano di spiegare gli eventi del loro passato; non posso contestarlo, ma dico solo che la prima esigenza è quella di fornire una descrizione vera dell'evento da spie­ gare. Ma se uno storico A ha già dato una simile descrizio­ ne dell'evento che B intende spiegare, chiameremo B uno storico? La risposta è che ogni spiegazione di un evento esige il riferimento a un altro evento e che senza una de­ scrizione vera di quest'ultimo non possiamo spiegare l'even­ to dato; né dobbiamo trascurare che «E-2 è accaduto a cau­ sa di E-1» (supponendo che questa venga presentata come una spiegazione di E-2) è, almeno, un'asserzione vera ri­ guardo a un evento del passato di qualche storico. Lo stes­ so vale se si dice che, per spiegare un evento passato, lo storico deve compiere un atto particolare di identificazione empatica con persone implicate in quell'evento. Non met­ to in dubbio che gli storici lo possano fare e lo facciano, ma sicuramente riuscire a farlo in un modo fecondo di­ pende dall'aver prima stabilito che tale evento accadde e che esisteva la persona con cui può essere tentata un'iden­ tificazione empatica. Ma questo non si può ottenere me-

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diante l'identificazione. Ciò indica tuttavia una lacuna del­ la mia caratterizzazione, dato che si potrebbe sostenere che una persona non è un evento e che la mia caratterizzazione riguarda solo eventi del passato dello storico. Cosf correg­ gerò la mia caratterizzazione per includere tra le asserzioni vere sul passato proposizioni che riguardano eventi, perso­ ne o realtà di qualunque tipo. Questo è quanto voglio dire per il momento degli sto­ rici; non ho bisogno di insistere sul fatto che essi non rea­ lizzano mai pienamente quelli che vengono indicati come i loro scopi, ma solo sul fatto che essi cercano di farlo. Cer­ tamente si può fare quest'affermazione riguardo agli sto­ rici senza troppi rischi. Forse non chiarisce molto, almeno fino a che non forniamo ulteriori particolari sul tipo di asserzione che essi intendono fare (un'asserzione vera non è, in questo senso, un tipo di asserzione). Analogamente, potremmo dire che un filosofo della storia intende fare as­ serzioni di un certo tipo sul futuro. Ma voglio ribadire che il filosofo sostanzialistico della storia intende fare sul fu­ turo asserzioni dello stesso tipo di quelle che lo storico cer­ ca di fare per il passato. Cosf la nostra immagine del filo­ sofo sostanzialistico della storia prende forma nella misura in cui ci facciamo un'immagine piu precisa dello storico stesso. Alla fine, spero, saremo in grado di comprendere perché non è legittimo fare per il futuro lo stesso tipo di asserzione che è legittimo fare per il passato. Vi è intanto una ragione per mantenere la nostra ca­ ratterizzazione generale e non specifica degli intenti dello storico. Tale ragione consiste nel fatto che, come è stato talora osservato, non possiamo in generale fare asserzioni vere sul passato. Ma se le intenzioni dello storico sono, in generale, irrealizzabili, qualsiasi ulteriore descrizione dei suoi intenti ci offre poco vantaggio. Se non esistono gli unicorni, è inutile farsi domande dettagliate sugli unicorni, come chiedersi, per esempio, se siano feroci o miti. Mi ri­ volgo perciò alle obiezioni che si possono sollevare contro il nostro fare asserzioni vere sul passato.

Capitolo terzo

Tre obiezioni contro la possibilità della conoscenza storica

Penso che pochi di noi dubitino seriamente che gli sto­ rici riescano talora a raggiungere lo scopo minimo che ho loro attribuito, che talora - anzi, spesso e tipicamente riescano a fornirci affermazioni vere sui fatti del loro pas­ sato. Il problema è quello di sapere se siamo giustificati nel supporlo: sollevare tale problema non significa natural­ mente sollevare dubbi sulla competenza e sull'onestà degli storici. Possediamo certamente modi per distinguere l'in­ competenza o la falsità e di solito riusciamo a individuare abbastanza bene l'abuso o il cattivo uso della perizia sto­ riografica. Piuttosto il problema è di vedere se questa pe­ rizia ci permette di ottenere lo scopo minimo, per il quale ci prendiamo l'incomodo di entrarne in possesso, e se ci consente di fare affermazioni vere sui fatti del nostro pas­ sato o di decidere se le affermazioni che consente sono vere o false. Il problema è ancor piu generale: supponia­ mo infatti che si possa dimostrare che le capacità, che secondo i criteri comuni qualificano chi ne abbia padro­ nanza e ne faccia uso corretto, siano in qualche modo del tutto insufficienti a ottenere tale scopo minimo. Non è molto plausibile che si riesca a dimostrarlo, ma, se risul­ tasse possibile, ci si potrebbe impegnare a scoprire un al­ tro gruppo di capacità piu adatte di quelle comuni a rea­ lizzare quello scopo. Si è senza dubbio verificato, nella sto­ ria del pensiero, che un gruppo di tecniche considerate suf­ ficienti a conseguire un dato fine, per esempio, a risolvere un certo problema, si siano dimostrate insufficienti, cosi che si sono dovute reperire tecniche nuove e piu efficaci. Ma non voglio qui sollevare obiezioni contro gli strumenti

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storiografici comunemente accettati, bensi contro la nostra capacità, con qualsiasi gruppo di tecniche, di fare asserzio­ ni vere sul passato, al punto da rendere inutili ulteriori perfezionamenti delle tecniche già esistenti, come sarebbe­ ro inutili ulteriori perfezionamenti del compasso, se si di­ mostrasse che non si può trisecare un angolo, usando solo la riga e il compasso. Porre il problema in questa forma generale significa portare un attacco ai fondamenti della co­ noscenza storica ed è di questo che intendo ora occuparmi. Di solito non ci capita di assumere una posizione di scetticismo generalizzato circa le asserzioni che si intendo­ no riferite al passato. Possiamo mettere in dubbio questa o quell'affermazione; per esempio, possiamo avere sfiducia nella persona che la fa, o scoprire che la prova addotta a giustificazione è debole, oppure la possiamo rifiutare per­ ché risulta in conflitto con qualche altra asserzione che sia­ mo disposti ad accettare. Infatti, spesso, quest'altra asser­ zione sarà essa stessa riferita al passato: cosi possiamo ri­ fiutare l'asserzione che sir Walter Raleigh era ateo perché accettiamo come vere altre asserzioni sul comportamento di Walter Raleigh, incompatibili con l'ateismo. In tal caso siamo sempre per lo meno disposti ad accettare la naturale contraddizione dell'asserzione rifiutata, cioè che sir Walter Raleigh non era ateo - asserzione essa stessa sul passato. Possiamo a questo proposito accettare uno scetticismo ge­ neralizzato solo se, accettando una qualunque asserzione che si intenda riferita al passato, entriamo in conflitto con un'altra asserzione che siamo disposti ad accettare come vera, che esclude ogni asserzione sul passato: tale asserzio­ ne escluderebbe sia «Walter Raleigh era ateo», sia la sua naturale contraddizione. Ma ogni proposizione simile deve essere affatto generale per giustificare uno scetticismo ge­ neralizzato, deve cioè comportare l'inaccettabilità tanto di p quanto di non-p, se p è un'asserzione significativa sul passato. Per naturale contraddizione intendo la proposizio­ ne contraddittoria della proposizione che si vuole esclude­ re, un'asserzione che mantiene lo stesso soggetto, predicato

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e tempo di quella negata; cosi, per esempio, «S non era P» è la naturale contraddizione di «S era P». Enuncio ora brevemente tre distinti argomenti che, se stringenti, implicano l'impossibilità di asserzioni vere sul passato e giustificano uno scetticismo generalizzato sia ver­ so p che verso non-p, nel caso che tali proposizioni siano coniugate al passato. Tali argomenti attaccano le asserzioni che si intendono riferite al passato in tre punti differenti; il loro significato, il loro riferimento (reference) e i loro valori di verità. Non credo che nessuno di questi argomenti sia effettivamente stringente; inoltre, è facile vedere qual è il loro comune errore. Tuttavia, esaminando ciascuno di essi dettagliatamente, non ne avremo solo un vantaggio filosofico ( tali argomenti presentano infatti un interesse filosofico); ma riusciremo inoltre a mettere in evidenza diversi aspetti del concetto di storia. Questo giustificherà, come spero, la trattazione abbastanza ampia che mi pro­ pongo di riservare a questi argomenti nei prossimi capitoli. Mi limito per ora all'enunciazione e a un breve com­ mento: 1) Ogni asserzione che si intenda riferita al passato è a rigore priva di senso. In tal caso non si può porre, in li­ nea di principio, il problema della verità o falsità. Se non possiamo fare asserzioni dotate di senso sul passato, non possiamo fare asserzioni vere sul passato. Questo argomento presuppone una certa teoria del si­ gnificato (meaning); il lettore esperto riconoscerà infatti che si basa sul noto criterio di verificabilità, il quale afferma, secondo una delle sue svariate formulazioni, che una pro­ posizione non analitica è significante solo nel caso in cui sia verificabile mediante l'esperienza. Si è talora assunto questo criterio nel senso di richiedere la possibilità di espe­ rire ciò che la proposizione esprime. Ma non possiamo esperire i fatti a cui le asserzioni sul passato si intendono riferite; quindi non possiamo verificare tali proposizioni, per cui, applicando il criterio, esse risultano prive di senso. Pochi però sono cosi rigorosi o cosi eroici da sostenere questo punto di vista estremo, meno di tutti gli elaboratori

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del criterio stesso, che volevano, dopo tutto, non elimina­ re, ma spiegare la scienza empirica. Tuttavia, una versione moderata che afferma che il significato di una proposizio­ ne empirica è proprio il suo metodo di verificazione, ha conseguenze pressoché paradossali: infatti fra i metodi di verificazione delle asserzioni storiche possiamo difficilmen­ te includere l'esperienza di ciò che esse esprimono, poiché ora non possiamo farlo. Quello che invece possiamo fare è cercarne una prova; ne risulta quindi che il significato di un'asserzione storica è il processo di ritrovamento del­ la prova storica e che le asserzioni storiche possono di con­ seguenza essere interpretate come previsioni riguardo ai risultati delle procedure storiografiche. Tali procedure pre­ suppongono l'esplicitazione di certe asserzioni storiche, di cui rappresentano il significato, cioè presuppongono il fu­ turo dello storico; quindi, siccome il significato di una pro­ posizione è ciò che la proposizione indica, le asserzioni sto­ riche, quando sono dotate di senso, riguardano il futuro. Cosi non siamo in grado di fare asserzioni dotate di senso sul passato e ci troviamo nella stessa eroica posizione di prima. Si badi che anche partendo dal punto di vista piu illuminato riguardo al significato, per esempio dall'affer­ mazione che il significato di una proposizione è il suo uso, arr.iv.iamo piu o meno alle stesse conseguenze. Infatti l'uso delle previsioni consiste nel fare asserzioni sul futuro, quin­ di, ancora una volta, non possiamo usare le asserzioni sto­ riche per fare affermazioni sul passato. La tesi che le as­ serzioni storiche sono previsioni dissimulate è stata avalla­ ta, in varie forme, da pragmatisti come Peirce, Dewey e Lewis e da positivisti come A. J. Ayer 1• 1 Il primo filosofo che ha sostenuto questo punto di vista, o un punto di vista molto vicino a questo, sembra essere stato Peirce: «Non si può negare - egli scrive - che inferenze acritiche possano riferirsi al passato nella sua qualità di passato; ma secondo il pragmatismo la facoltà raziocinante finisce per riferirsi al futuro. Infatti il suo signi­ ficato si riferisce alla condotta e siccome costituisce una conclusione razionale, si riferisce alla condotta deliberata, cioè controllabile. Ma l'unica condotta controllabile è quella futura... Cosi, credere che Colombo abbia scoperto l'America si riferisce effettivamente al futuro». (C. S.

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2) Forse l'argomento 1) confonde il significato col ri­ ferimento compiendo un errore filosofico abbastanza co­ mune. Ma qui sorge un'altra difficoltà: infatti forse non vi è, o piuttosto non vi era, a proposito delle asserzioni che si intendono riferite al passato, un riferimento. È al­ meno logicamente possibile che il mondo sia stato creato appena cinque minuti fa, tutto quanto insieme con noi e con tutti i nostri ricordi, contenente tutti quei frammenti o pezzi di cose, che prendiamo come testimonianza eviden­ te di un mondo molto piu vecchio di quello che di fatto abitiamo. Tutta quanta la struttura attuale del mondo po­ trebbe essere proprio quella che è, indipendentemente dal momento in c1:1i il mondo è stato creato e il mondo, come noi lo conosciamo, non preclude l'ipotesi che sia stato crea­ to cinque minuti fa. Ma allora, se fosse cosf, le asserzioni sul passato sarebbero prive di riferimento. Perciò secondo le piu apprezzate e attuali analisi delle cosiddette «espres­ sioni di riferimento», tutte queste asserzioni sarebbero fal­ se (Russell) oppure non si porrebbe il problema della loro verità o falsità (Strawson) 2• Ma allora secondo tutte quePeirce, Collected Papers, a cura di C. Hartshorne e P. Weiss, Cam­ bridge, Mass., Harvard University Press, 1934, vol. V, § 461). Ancora: « La verità della proposizione "Cesare passò il Rubicone", consiste nel fatto che quanto piu avanti spingiamo i nostri studi archeologici e non archeologici tanto piu fortemente questa conclusione si impone alla nostra mente per sempre, oppure sarebbe cos{ se lo studio continuasse indefinitamente» (Ibidem, vol. V, § 544). 2 Secondo Russell ogni proposizione significante deve essere o vera o falsa. La sua nota teoria delle descrizioni fu costruita specificamente allo scopo di trattare le proposizioni di cui si comprendeva facilmente il significato, ma a cui non si poteva assegnare con facilità un valore di verità, per il fatto che 1) queste proposizioni sembravano richiedere l'esistenza effettiva di qualcosa come loro termine oggettivo di riferi­ mento, ma 2) tale cosa non esisteva. Piuttosto che costruire entità parti­ colari cui si riferissero proposizioni come « L'attuale re di Francia è calvo», egli le trasformò in modo che non esigessero nuove entità e che si potesse cos{ assegnare il valore « falso » alla suddetta proposizione e alla sua contraddittoria, preservando nel contempo il principio di con­ traddizione. In generale, tutte le proposizioni che hanno come soggetto un'espressione di riferimento al singolare, il cui termine di riferimento di fatto non esista, sono false. Cfr. specialmente B. Russell, Introduction to Mathematical Philosophy, London, Allen & Unwin, 19202, trad. it. Introduzione alla filosofia matematica, Milano, Longanesi, 1947, cap. XVI.

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ste analisi non potrebbe essere raggiunto lo scopo minimo dello storico di fare asserzioni vere sul passato; la maggior parte dei dissensi storici sarebbe ingiustificata poiché, a rigore, ogni volta che due storici disputassero, asserireb­ bero entrambi o una proposizione falsa o una proposizione per la quale non si porrebbe il problema della verità o fal­ sità. Ma ciò corrisponde precisamente allo scetticismo ri­ guardo a p e alla sua naturale contraddizione, quando p è un'asserzione che si intende relativa al passato 3• Questo argomento, va notato, non è rigorosamente ge­ nerale per cui implica, contro la mia caratterizzazione, una obiezione meno radicale dell'argomento 1). Infatti anche se ammettiamo che il mondo abbia cominciato ad esistere tutto quanto cinque minuti fa, potremmo egualmente fare qualche asserzione vera sul passato e cioè che il mondo ha cominciato ad esistere cinque minuti fa, come pure tutte le asserzioni che riguardano gli ultimi cinque minuti ( che in realtà sono i soli). L'argomento non può escludere tutte le asserzioni sul passato poiché ne presuppone naturalmen­ te almeno una nella sua formulazione. Tuttavia esso com­ porta talmente poche asserzioni sul passato, che il fatto che non riesca a essere perfettamente generale porta pochissi­ mo vantaggio all'operare dello storico. Quanti storici, in­ fatti, si interessano solo di ciò che è accaduto negli ultimi cinque minuti? L'argomento non richiede, ovviamente, che il mondo abbia veramente avuto inizio cinque minuti fa, ma soltan­ to che potrebbe essere cosi, stando a «tutto quello che co­ nosciamo»; potrebbe essere cosi, come potrebbe non es­ serlo. Quindi può darsi che possiamo fare asserzioni vere sul passato, come può darsi che no. Se ci riusciamo, non Poche recenti analisi filosofiche sono state discusse con maggior fervore e tutta la storia della filosofia anglo-americana potrebbe esser davvero scritta in riferimento specifico alla teoria delle descrizioni. La principale critica è stata mossa da F. Strawson, nel suo On Referring, in «Mind», LIX (1950). Considerevole è la bibliografia successiva. 3 Io distinguo tra « a dubita che p » e « a è scettico riguardo a p »: la prima espressione implica che a creda che non-p, mentre la seconda implica che a non abbia basi per scegliere tra p e non-p e rimanga in sospeso tra i due.

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possiamo saperlo, poiché qualunque prova non esclude che il mondo abbia cominciato ad esistere cinque minuti fa, cos1 che non abbiamo alcuna possibilità di sapere, sulla base di una prova, se siamo riusciti o no a fare asserzioni vere sul passato. Dunque non siamo mai in grado di sa­ pere se i nostri dissensi storici sono o non sono autentici, il che equivale a essere scettici su p e non-p, quando p si riferisce al passato. Quando infatti non siamo in grado, né possiamo esserlo in linea di principio, di dire se una pro­ posizione è vera o falsa (o né vera, né falsa), non ci tro­ viamo forse in una posizione scettica riguardo a quella pro­ posizione? A confronto del punto 1 ), pochi hanno preso sul serio questo argomento, eccetto Bertrand Russell che lo formulò e disse poi che nessuno avrebbe potuto rigorosamente so­ stenerlo. Tuttavia esso solleva in modo drammatico una serie di problemi sul tempo, sul riferimento e sulla cono­ scenza e merita un attento esame. 3) Le asserzioni storiche sono fatte dagli storici, i qua­ li hanno dei motivi per cui parlano di una certa cosa pas­ sata piuttosto che di un'altra. Non solo, ma gli storici pro­ vano certi sentimenti nei confronti delle cose passate che descrivono: alcuni di questi sentimenti possono essere esclusivamente personali, altri potrebbero essere condivisi dai membri di vari gruppi ai quali lo storico appartiene. Tali atteggiamenti inducono gli storici a mettere in eviden­ za e ad accentuare determinate cose, cioè a distorcerle. Essi poi, a causa di tutto l'insieme dei loro atteggiamenti, non riescono a individuare tali deformazioni: anche quelli che pretendono di farlo possiedono degli atteggiamenti propri e quindi una propria maniera di evidenziazione, accentua­ zione e distorsione. Non assumere atteggiamenti significa non essere uomo, ma gli storici sono uomini e non pos­ sono di conseguenza fare asserzioni perfettamente obiettive sul passato. Ogni asserzione storica in quanto derivante da imprescindibili fattori personali è una deformazione e quin­ di non ,è del tutto vera. Dunque non possiamo fare asser­ zioni sul passato che siano del tutto vere.

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Questo argomento sembrerebbe in apparenza facilmen­ te soggetto all'obiezione di essere privo di senso. Per esem­ pio che senso avrebbe dire che tutto è storto? Possiamo stabilire che una cosa ·è storta soltanto in rapporto a una cosa diritta e, se non ve ne fossero, non potremmo usare sensatamente l'espressione «storto». È un termine che ri­ chiede logicamente il suo contrario. Lo stesso vale per le deformazioni dello storico: se non abbiamo nessun'idea di come sarebbe un'asserzione non distorta sul passato, che senso possiamo attribuire all'espressione «asserzione distor­ ta»? Se poi l'abbiamo, possiamo in teoria far esempi di asserzioni non distorte per cui l'argomento è infondato. Da questa obiezione si conclude che l'argomento o è privo di senso o è sbagliato. Ma di fatto questa obiezione non è particolarmente stringente e coloro che propongono l'argomento 3) posso­ no e di solito riescono ad aggirarla facilmente: essi infatti non affermano nulla come «ogni cosa è storta», ma dicono solo che le cose di una certa classe sono storte. Vi potreb­ be allora essere una classe di cose diritte che renderebbero comprensibile l'espressione. Cosi, ancora, essi non dicono che ogni asserzione è una deformazione, ma solo che le as­ serzioni storiche Io sono. L'intera classe delle asserzioni storiche è posta a confronto con un'altra classe di asser­ zioni, presumibilmente non distorte, la classe delle asser­ zioni scientifiche. Ciò che Margaret Macdonald dice in rife­ rimento alla critica può essere abbastanza facilmente appli­ cato alla storia: «La discussione critica di un'opera è la sua interpretazione da parte di qualcuno in un momento particolare e in un determinato contesto sociale. La critica allora non ha e non può avere il carattere impersonale delle leggi rigorose applicabili indipenden­ temente dal tempo e dal luogo, proprie alla scienza e alla ma­ tematica» 4• 4 Margaret Macdonald, Some Distinctive Features of Arguments used in Criticism of the Arts, ripubblicato in Problems in Aesthetics, a cura

di M. Weitz, New York, Macmillan, 1960, p. 696.

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Quindi noi sappiamo con chiarezza quali analisi sono obiettive: quelle indipendenti dal tempo, dal luogo e dagli atteggiamenti personali di chi le compie. Ma proprio quei criteri che ci mettono in grado di sapere quando un'analisi è obiettiva, ci dicono pure quando non lo è: noi stessi non possiamo fare un'analisi dello stesso tipo di quelle che af­ fermiamo essere non obiettive, che sia essa stessa obiettiva. Infatti ogni analisi di questo tipo sarebbe relativa al no­ stro tempo, al luogo e ai nostri atteggiamenti personali e sappiamo che qualunque analisi di questo genere non è obiettiva. Le analisi storiche sono tutte di questo tipo. In una forma o in un'altra l'argomento 3) è stato di­ feso da numerosi pensatori di differenti convinzioni. Nietz­ sdie, per esempio, lo usò in un noto aforisma che fu poi concordemente citato da Freud: «La mia memoria ha det­ to che ho fatto ciò; il mio orgoglio mi dice che non posso averlo fatto. La mia memoria soccombe e il mio orgoglio rimane inflessibile» 5• L'orgoglio ha qui piegato la memo­ ria: ciò che voglio credere del passato ne distorce la ve­ rità. Ma è logicamente possibile che tutti i miei ricordi siano stati deformati dall'orgoglio, o in ogni caso dai miei atteggiamenti, dai miei desideri e dai miei sentimenti. «A quanto ne so» ciascun ricordo può essere una deformazio­ ne; cioè, non posso sapere se la mia memoria è corretta o no, per cui anche se lo è non ho modo di dirlo. Si può obiettare che sicuramente ne ho la possibilità, che posso ricorrere a una prova indipendente: ma se essa consiste nel far appello ai ricordi degli altri, che fondamento ho per dire che essi sono meno deformati dei miei? Vi sono prove di altro genere, per esempio i diari, i ritagli dei giornali e simili: ma proprio qui entra in gioco l'argomento relati­ vistico generale 3 ), per cui la mia valutazione delle testi­ monianze sarà ancora influenzata da fattori personali e s F. Nietzsche, ]enseits von Gut und Base, Leipzig, 1886, trad. it. Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 1968, libro II, § 68. La citazione di Freud si trova in Zur Psychopathologie des Alltagslebens, trad. it. La psicopatologia della vita quotidiana, Torino, Boringhieri, 1965, ·p. 125.

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cosf via. L'argomento di Nietzsche, dopo tutto, non è limi­ tato alla memoria: il mio diario può dire che ho fatto que­ sto o quello; ma io non approvo queste azioni e la mia fede nel diario svanisce, affermo che qualcun altro deve averlo scritto o che mi sono comportato in quel modo solo per apparire bravo. Questo argomento mi sembra il piu forte dei tre, no­ nostante che nell'enunciarlo i suoi principali sostenitori, Beard, Becker e Croce, siano stati influenzati dai loro par­ ticolari atteggiamenti, pregiudizi e sentimenti. Esso ha bi­ sogno di un buon «lavaggio» logico, ma contiene in fondo qualcosa di giusto e di importante; in conseguenza di que­ sto fatto modificherò la mia caratterizzazione minima del­ la storia. Mi sono già riferito a punti di vista analoghi quando ho detto che il significato storico dipende da un tipo di significato non storico e che questo dipende in lar­ ghissima parte dagli atteggiamenti e dagli interessi parti­ colari dello storico. Ne consegue che il nostro intero modo di organizzare il passato è causalmente condizionato dai nostri interessi, qualunque essi siano. Adesso, però, passo a considerare ciascuno di questi argomenti nell'ordine in cui li ho enunciati, dedicando a ognuno un capitolo.

Capitolo quarto

Verificazione, verificabilità e proposizioni temporali

Considererò adesso l'argomento 1) affrontandolo dal punto di vista di due distinte teorie, ciascuna delle quali lo implica e gli fornisce un certo sostegno filosofico. La prima è una teoria della conoscenza, la seconda una teoria del significato: naturalmente esse sono notevolmente inter­ connesse e chi accetta la prima probabilmente accetta, in una forma o in un'altra, anche la seconda e viceversa. Vale la pena tuttavia di considerarle separatamente, poiché cia­ scuna serve ad illuminare un aspetto alquanto diverso del concetto di storia e, anche se i punti che mi interessa svi­ luppare sono suscettibili di una formulazione del tutto ge­ nerale, le illustrerò riferendomi al lavoro di singoli filosofi che in passato hanno creduto bene difenderle. La teoria della conoscenza in discussione è quella di C. I. Lewis, quella del significato è dovuta a A. J. Ayer. In verità esa­ minerò diverse teorie di Ayer riguardanti il medesimo pro­ blema, le quali riflettono però dei cambiamenti nel suo programma :filosofico di fondo. Molte analisi filosofiche, scrupolose e importanti, sono state compiute sulla conoscenza empirica da quando Lewis ha scritto Mind and the World Order ( 1929), alcune delle quali dallo stesso Lewis nella sua ultima e maggiore ope­ ra An Analysis of Knowledge and Valuation. Credo che nessuno oggi accetterebbe il tipo di empirismo elaborato nella prima opera, senza apportarvi delle modificazioni mol­ to rigorose: ciò nondimeno limiterò la mia attenzione a quello che Lewis dice in Mind and the World Order, per­ ché i successivi perfezionamenti non influiscono significati­ vamente sul problema che mi interessa e perché Lewis dice

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qui una quantità di cose interessanti sulla conoscenza del passato 1• Comincerò con un'esposizione sommaria della teoria della conoscenza che Lewis propone per poi procedere alla sua specifica applicazione alla nostra conoscenza del pas­ sato. Lewis si occupa in generale delle asserzioni secondo cui x ha una certa proprietà F. Egli sostiene che quando effettivamente affermiamo che x è F, tale affermazione deve essere intesa come significante qualcosa circa azioni ed esperienze. È in questi termini che egli passa ad analiz­ zare proposizioni della forma « x è F »: «Attribuire una qualità obiettiva a una cosa significa implici­ tamente prevedere che, se agisco in un determinato modo, avrò determinate esperienze. Se la morsicassi, avrebbe un sapore dolce; se la stringessi darebbe una sensazione moderata di tenero; se la mangiassi, sarebbe digeribile e non mi avvelenerebbe; se la capovolgessi, percepirei un'altra superficie arrotondata molto si­ mile a questa... Queste e cento altre ipotetiche proposizioni costi­ tuiscono la mia conoscenza della mela che ho in mano...» 2•

In generale, «L'intero contenuto della nostra conoscenza della realtà è la verità di quelle proposizioni della forma "se-allora", in cui l'ipo­ tesi afferma che qualcosa che noi concepiamo potrebbe essere verificato da un nostro modo di agire e la conseguenza indica il contenuto di un'esperienza che, sebbene non sia reale ora e forse non lo diventi mai, rappresenta un'esperienza possibile, connessa col presente» 3• I Cfr. C. I. Lewis, Mind and the World Order, New York, Dover, 1956, pp. 148-153. Lewis affronta il problema anche in An Analysis of Knowledge and Valuation, Lasalle, III., Open Court, 1946, pp. 197-200. Per una discussione di alcuni as,petti, cfr. Evely n Masi, A Note on Lewis's Anal,.sis of the Meaning of Historical Statements, in «Journal of Philosophy», XLVI (1949), pp. 670-674; e Israel Scheffler, Verifia­ bility in History: A Reply to Miss Masi, in « Journal of Philosophy », XLVII (1950), pp. 158-166. Scheffler fa un'importante osservazione dicendo che l'analisi di Lewis riguarda il « significato intensionale» piut­ tosto che il « riferimento oggettivo», ma non mi è chiaro se lo stesso Lewis fosse consapevole della distinzione e, nel caso che lo fosse stato, se sarebbe riuscito ad adeguarla facilmente alla sua analisi. E se lasciamo cadere il « riferimento oggettivo», che ne è del « futuro»? 2 Mind and the W orld Order, cit., p. 140. 3 Ibidem, p. 142.

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Molto approssimativamente, allora, una proposizione della forma « x è F », nonostante il tempo in cui è coniu­ gata, l'uso comune e la forma grammaticale, rappresenta una previsione o, meglio, una serie di previsioni della forma « se A allora E», dove A indica un'azione ed E un'espe­ rienza. La proposizione originaria va analizzata 4 secondo queste proposizioni condizionali, l'insieme delle quali costi­ tuisce la conoscenza di ciò che la proposizione originaria affermava. Ciascuno di questi condizionali specifica un di­ stinto processo di verificazione e la proposizione origina­ ria è esaustivamente verificata quando tutti i condizionali in cui è analizzabile sono stati resi veri compiendo l'azione specificata e ottenendo l'esperienza specificata. Questo tipo di analisi del concetto di conoscenza empirica non è inso­ lito e in connessione con esso sorgono moltissimi proble­ mi, che però tralascerò per dedicarmi esclusivamente a quella parte dell'analisi di Lewis secondo cui, quando sosteniamo di conoscere qualcosa, prevediamo implicita­ mente ciò di cui faremo esperienza compiendo certe azioni e tali previsioni, sulle nostre azioni e sulle loro conseguen­ ze sul piano dell'esperienza, rappresentano « l'intero conte­ nuto della nostra conoscenza della realtà ». Supponiamo adesso che di un particolare oggetto a io dica a è F e che la proposizione « a è F » sia espressa nel momento t-1. Se a esiste in t-1 posso intervenire su a e, secondo le esperienze che mi risultano, verificare, anche solo parzialmente, la mia proposizione originaria. Suppo­ niamo ora che io ponga la mia proposizione al tempo fu­ turo e che a esista dopo t-1: anche in questo caso potrò compiere azioni e avere esperienze, cioè verificare, o verifi­ care parzialmente, o anche falsificare la mia proposizione originaria. In entrambi i casi infatti la mia asserzione ori­ ginaria era una previsione di quanto avrei fatto ed esperito. Supponiamo infine che a sia esistito prima che pronunciassi 4 O, come egli successivamente dice, « trasformata in ». Cfr. An cit., cap. VII, passim e special­ mente pp. 182-185.

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la mia proposizione, che non sia esistito oltre e che dunque la mia proposizione sia al tempo passato. Allora non pos­ so in t-1 agire su a né potrò farlo in qualsiasi momento futuro - le cose non esistono, cessano di esistere e tornano ad esistere nel senso in cui passano dal rosso al verde e di nuovo al rosso: non posso sperare di occupare in futuro la parte di tempo occupata da a. Cosf non ho alcuna possi­ bilità di verificare la mia proposizione. Certamente posso avere già compiuto su a quell'azione e avere avuto quel­ l'esperienza che, se a esistesse ancora, potrei rispettivamen­ te compiere ed esperire: avrei cosf già verificato in t-1 la proposizione che pronuncio ora al tempo passato e la veri­ ficazione avrebbe preceduto la proposizione che verifica. Ma di fatto l'asserzione secondo la quale ho compiuto tale azione e ho avuto tale esperienza è al tempo passato, per cui si presenterebbero gli stessi problemi. Queste osserva­ zioni preliminari suggeriscono dunque che le asserzioni che si intendono riferite al passato non possono essere verifi­ cate e perciò non fanno parte della nostra conoscenza della realtà. Chiunque può ribattere questo argomento, le cui re­ pliche presentano senza dubbio un carattere di artificialità, ma Lewis pensò che questa obiezione, che ha conseguenze paradossali, meritasse una risposta: «La conoscenza, si è detto, viene qui identificata con la verifi­ cazione e la verificazione avviene procedendo dal presente al fu­ turo. Allora il passato, per quanto se ne può conoscere, è trasfor­ mato in qualcosa di presente e di futuro e ci troviamo di fronte alle alternative, egualmente impossibili, che il passato non può essere conosciuto o che esso non è in realtà passato» 5•

Vediamo ora come lo stesso Lewis discute questa obie­ zione: innanzi tutto nega che sia pertinente e insiste sul fatto che le proposizioni sul passato sono verificabili e che in definitiva possiamo conoscere il passato. Ma basa que5 Mind and the World Order, cit., Knowledge and Valuation, cit., p. 197:

p. 149. Cfr. An Analysis of « Descrivendo il significato di "Cesare mori" come consistente nella futura possibile esperienza con cui lo verificheremmo, questa concezione può essere accusata di trasformare ciò che è passato in qualcosa che è esclusivamente futuro».

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st'affermazione sull'introduzione di una nuova concezione di oggetto, permettendosi una serie di asserzioni metafisi­ che che è estremamente difficile giustificare con la sua stes­ sa analisi della conoscenza. Egli dice, per cominciare, che «L'assunzione che il passato è verificabile significa che, in qua­ lunque momento dopo l'accadimento dell'evento, vi è sempre qualcosa che è concepibilmente possibile esperire, attraverso cui l'evento può esser conosciuto».

Ciò è senz'altro abbastanza innocuo; Lewis dice che la nostra conoscenza del passato è basata sull'evidenza pre­ sente, sulle cose che di fatto possiamo esperire: queste so­ no chiamate da Lewis gli «effetti» dell'evento che preten­ diamo di conoscere. Se un evento non avesse effetti op­ pure non avesse effetti presenti, non potremmo ovviamen­ te sapere che si è verificato: vi sarebbe una lacuna perma­ nente nella nostra conoscenza del passato. Questa è grosso modo la soluzione del problema proposta da Dewey: «L'oggetto [della conoscenza storica] è un evento passato nella sua connessione con le conseguenze e gli effetti presenti e fu­ turi» 6•

E ancora: «Se per caso l'evento passato non ha avuto conseguenze rile­ vabili o se l'idea che ne abbiamo non può in nessun caso far sorgere alcuna differenza, allora non vi è nessuna possibilità di effettuare un autentico giudizio» 7•

Chi non sarebbe d'accordo con ciò? Dewey in sostanza afferma che non possiamo conoscere quello che può essere 6 John Dewey, Realism without Monism or Dualism: I. Know­ ledge lnvolving the Past, in « Journal of Philosophy », XIX (1922),

p. 314. Questa è la piu compiuta affermazione deweyana di quella che può essere considerata una tesi pragmatistica generale. Critici del prag­ matismo come Blanshard, Lovejoy e Santayana non hanno mai mancato di evidenziarlo come punto vulnerabile. Per una recente discussione, cfr. Richard Gale, Dewey and the Problem of the Alleged Futurity of Yesterday, in « Philosophy and Phenomenological Research », XXII (1961), n. 4, pp. 501 ss. 7 John Dewey, The lnfluence of Darwin on Philosophy, New York, Holt, 1910, pp. 160-161.

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conosciuto solo sulla base dell'evidenza quand'essa man­ chi e assume, oltre ogni possibile obiezione, che solo sulla base dell'evidenza possiamo conoscere gli eventi del pas­ sato. Queste cose sono plausibili e ovvie, ma non devono tuttavia farci dimenticare i dubbi sollevati dall'analisi di Lewis, il quale sostiene che parlare del passato non è altro che prevedere quali esperienze si otterranno compiendo de­ terminate azioni e che tutta la nostra conoscenza è costitui­ ta da proposizioni condizionali di questo tipo. Cosi, se non intendiamo per «la battaglia di Hastings» un gruppo di azioni e di esperienze del nostro futuro - e sarebbe irra­ gionevole farlo - quale altro senso possiamo attribuire al­ l'espressione «sapere che la battaglia di Hastings ebbe luo­ go nel 1066», se tutta la nostra conoscenza consiste in un insieme di proposizioni condizionali riferite a esperienze e azioni future? Com'è possibile, ammessa tale analisi, cono­ scere il passato o qualcosa di diverso da queste proposizio­ ni condizionali? Inoltre, se non c'è la possibilità di riferirsi a eventi passati e ogni volta che la si tenta si ricava una previsione su esperienze future, com'è possibile affermare che esistono relazioni verificabili tra queste esperienze e l'evento passato? Infatti, se cerco di riferirmi all'evento passato, devo fare una previsione su esperienze future. Co­ me posso dire che queste esperienze costituiscono una pro­ va evidente di p, quando p stesso, nel caso in cui rimandi manifestamente a un evento passato, è soltanto una previ­ sione di esperienze future? Lewis deve aver avuto un vago sentore di questi pro­ blemi, poiché è proprio a questo proposito che introduce la nuova concezione di oggetto, cui prima accennavo. Sia E un evento ed {e} l'insieme dei suoi effetti in un dato momento t: secondo Lewis possiamo allora considerare E congiuntamente a {e} come un singolo oggetto esteso nel tempo, dal momento in cui si è verificato E, che possiamo chiamare t-1, al momento t. Presumibilmente questo ogget­ to, che chiamerò O, continuerà a crescere col passare del tempo, aumentando grazie ai nuovi effetti che verranno ad aggiungervisi. La battaglia di Hastings, piu gli arazzi di

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Bayeux, piu tutti gli altri suoi effetti, costituiscono un sin­ golo oggetto esteso nel tempo: sia questo O. E poiché, co­ me ha detto Lewis, «in qualunque momento posteriore al­ i'accadimento di un evento vi è sempre qualcosa... che è possibile esperire...», in questo preciso istante c'è un ef­ fetto della battaglia di Hastings temporalmente esperibile: posso perciò avere esperienza di O. Posso senz'altro chia­ mare O «la battaglia di Hastings» e affermare che ne pos­ so avere esperienza; ma certamente gli studiosi di storia inglese si scandalizzerebbero nell'apprendere che la batta­ glia di Hastings è ancora in corso; né potrebbe confortarli il fatto che n� muto il significato (il riferimento) per soste­ nere quest'affermazione. Sarebbe insensato dire che questa mattina ho visto Abramo Lincoln, se tutto quello che vo­ glio è che questa mattina ho visto una copia del discorso di Gettysburg. Cosf, a rigore, l'introduzione di O non serve. Il fatto che posso esperire O non significa che posso espe­ rire la battaglia di Hastings; vuol dire soltanto che posso aver esperienza di alcune parti dello stesso oggetto tempo­ rale di cui la battaglia di Hastings costituisce una parte già trascorsa nel tempo. E poiché non mi è possibile esperire le parti già trascorse degli oggetti temporalmente estesi, restiamo al punto di partenza: abbiamo soltanto ridescrit­ to il problema spostandolo dalla nostra conoscenza degli eventi passati a quella delle parti già trascorse degli oggetti estesi nel tempo, quando solo le parti presenti e future di tali oggetti possono essere esperite. Lewis scrive che «la totalità di tali effetti costituisce in modo abbastanza ovvio tutto l'oggetto conoscibile» 8• Ma ciò equivale a dire che la battaglia di Hastings, non essendo uno dei suoi effetti, è inconoscibile. Non solo: tutte le parti già trascorse di O sono inconoscibili, se l'evento originario è inconoscibile. E se abbiamo qualche possibilità di conoscerle, perché non possiamo conoscere l'evento originario di cui esse sono gli effetti? Solo gli effetti presenti e futuri sono conoscibili e noi rimaniamo all'oscuro sul problema della conoscenza del 8

Mind and the World Order, cit., p. 151.

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passato; o piuttosto, ne siamo illuminati; infatti la risposta è che non possiamo conoscerlo, il che è assurdo. Ancora un'osservazione. Supponiamo di aver esperien­ za di {e} e che {e} faccia realmente parte di O: con che giustificazione possiamo affermare di sapere che {e} fa parte di O, se O contiene parti già trascorse in se stesse inconoscibili? E se ogni volta che vogliamo parlare di par­ ti già trascorse la nostra asserzione risulta essere una pre­ visione di parti temporalmente posteriori, Lewis non ha lasciato spazio, nella sua teoria della conoscenza, per quelle forme di conoscenza che sono richieste dal riferimento a oggetti temporalmente estesi. Infatti in quest'analisi tale riferimento è impossibile. Ma è utile notare come Lewis si sforza di aggirare tali difficoltà; egli parla, per esempio, di «segni di passatità» (pastness) che presumibilmente gli og­ getti presenti recano e sulla base dei quali possiamo tro­ vare la maniera per riportarci alle parti temporali iniziali di oggetti estesi nel tempo, di cui gli oggetti presenti fan­ no parte. Cosf: « Il passato viene conosciuto attraverso la corretta interpreta­ zione di un dato, includente determinati caratteri che sono segni di passatità» 9.

Come dobbiamo intendere l'espressione «segni di pas­ satità»? Dobbiamo riferirla a incisioni, graffì, strisciature e in genere a segni del logorio del tempo? Oppure a iscri­ zioni datate? O semplicemente alle differenze dagli oggetti che recano segni di presenzialità? E questi che cosa sareb­ bero? Su questo punto Lewis è particolarmente evasivo: «Per gli scopi presenti sarà sufficiente notare che ovviamente certi segni identificabili devono significare la passatità della cosa presentata, altrimenti il passato non si potrebbe distinguere dal presente» 10•

Si tratta tuttavia di vedere se sulla base della teoria di Lewis siamo in grado di farlo. Viene qui in mente un analogo problema della teoria empiristica della memoria. 9

10

Ibidem. Ibidem, p. 153.

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Con quali criteri presenti e identificabili possiamo distin­ guere i ricordi dalle immagini, se pensiamo che avere un ricordo sia ritenere un'immagine? Hume suggeri che pos­ siamo farlo in base a una differenza di vivacità 11, ma è sta­ to rilevato che per gli stessi ricordi possiamo distinguere vari gradi di vivacità 12, per cui resta il problema di distin­ guere le immagini opache dai ricordi vividi. Russell sup­ pose che la differenza 13 fosse indicata da un certo «senti­ mento di passatità», qualcosa di molto analogo ai «segni di passatità» di Lewis. Non voglio qui addentrarmi nella teoria empiristica della memoria, ma indubbiamente alme­ no una parte della difficoltà deriva dalla supposizione che la memoria consista nel ritenere un'immagine, proprio co­ me, nel caso di Lewis, la conoscenza viene identificata con un'esperienza presente o con un'esperienza che sarà in qualche momento presente. Perciò possiamo esporre la co­ noscenza del passato soltanto attraverso segni presenti di passatità. Non ho alcuna idea di che cosa sia un segno di passa­ tità, ma se fossi per esempio un contraffattore di manu11 David Hume, A Treatise of Human Nature, trad. it. cit., libro I, parte I, sez. III, p. 51: « Le idee della memoria sono molto piu vivaci e forti di quelle dell'immaginazione, e la prima facoltà rappresenta gli oggetti con colori piu distinti di quelli della seconda». Cfr. anche, parte III, sez. V. Hume impiegò successivamente lo stesso criterio per distin­ guere tra « idee» e « impressioni», allo scopo di rispondere alla que­ stione: come posso dire se percepisco x o se lo penso soltanto? (Cfr. il suo lnquiry Concerning I-Iuman Understanding, Oxford, 1888, trad. it. Ricerche sull'intelletto umano e sui principi della morale, Bari, La­ terza, 1957, sez. II). 12 R. F. Holland, The Empiricist Theory of Memory, in « Mind», LXIII (1954), p. 466. 13 Bertrand Russell, The Analysis of Mind, London, Allen & Unwin, 1921, trad. it. Analisi della mente, Firenze, Giunti-Barbera, 1955, p. 142. Questo non è il solo criterio presentato da Russell: egli ricorda anche l'« ammontare del contesto». Osserviamo che i « sentimenti di passatità» vanno distinti in ricordi vicini e remoti e i « sentimenti di familiarità» in ricordi uberhaupt e immaginazioni. In ogni caso, i tenta­ tivi di Russell sono caratterizzati dall'accettare come valida la questione essenziale che interessava Hume e cioè: « Sembra che debba esistere qualche impronta o segno per poter distinguere lo stato rimemorativo della mente da quello immaginativo. Quindi arriviamo a chiederci: che cos'è quest'impronta o segno? » (Holland, op. cit., p. 465 j. Questo è anche il problema di Lewis.

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fatti etruschi, mi accerterei che le mie illecite confezioni fossero abbastanza simili agli originali, in modo che gli in­ genui direttori di museo non potessero distinguerle me­ diante i «segni di passatità». È chiaro che il poter fare una distinzione non deriva dall'osservare, come ha detto uno scrittore, che gli originali sono «punteggiati di passatità» 14. Ricorriamo invece alla differente quantità di manganese e bitume, alla presenza di vuoti d'aria, alla conoscenza del comportamento della terracotta sotto calore 15• In ogni caso il risultato è irrilevante per il nostro problema: la questio­ ne importante riguarda il prendere qualcosa che viene espe­ rito nel presente come prova di qualcosa che è passato. «Essere prova di» è un predicato relazionale a due ter­ mini e il problema riguarda qui il secondo termine della relazione. Se infatti non possiamo riferirci all'oggetto, di cui assumiamo qualcosa come prova, non si vede come sia possibile parlare in qualche modo di prova. Il fatto che Lewis non riesca ad assegnare un riferimento al pas­ sato che non ricada in un riferimento a esperienze presen­ ti e future, ci lascia nell'impossibilità di qualificare qualco­ sa come prova. Prova di che cosa? A questo non possiamo rispondere. La critica che la teoria della conoscenza di Lewis im­ plicherebbe l'inconoscibilità del passato, avrebbe a suo dire «maggiore importanza se in generale quelli che la sosten­ gono fossero disposti a dirci come il passato, che è real­ mente morto e trascorso, può essere conosciuto» 16• È forse prematuro accettare questa sfida, ma non ci possiamo esi­ mere da qualche osservazione preliminare. Supponiamo che E accada nel momento t-1; dunque, dopo questo momento nessuno può esperire E. Ciò è chia14 Bruce Waters, The Past and the Historical Past, in « Journal of Philosophy », LII (1955), pp. 253-264. 15 Cfr. per esempio An lnquiry into the Forgery of the Etruscan Terracotta Warriors in the Metropolitan Museum of Art, The Metropo­ litan Museum of Art Papers, n. 11, 1961. 16 Mind and the World Order, cit., p. 150. Cfr. An Analysis of Knowledge and Valuation, cit., p. 200, dove si fa un simile ricorso alla sfida.

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ramente presupposto nel discorso di Lewis e solleva un in­ sieme di difficoltà che rendono inutile l'introduzione di ri­ medi ad hoc, come gli oggetti temporalmente estesi e i «se­ gni di passatità». Non manca chi solleva a questo punto la tipica obiezione che gli astronomi sono di fatto testimoni di eventi che hanno avuto luogo moltissimo tempo prima del momento dell'osservazione; per esempio, le esplosioni stellari cui assistiamo ora hanno avuto luogo molto tempo fa, tanto quanto ne ha impiegato la luce per giungere a noi. Possiamo anche calcolare il tempo intercorso tra l'e­ vento e la sua osservazione. -Inoltre, è naturale parlare del­ l'osservazione di esplosioni terrestri: in realtà è naturale farlo anche se sappiamo che un certo tempo, anche se non cosi grande come nel caso delle esplosioni stellari, deve es­ sere passato dal momento in cui l'esplosione è avvenuta al momento in cui l'abbiamo osservata. Ma possiamo anche andare oltre: gli epistemologi non si stancano mai di met­ tere in evidenza che qualunque percezione, di qualunque cosa, per ragioni puramente fisiche deve verificarsi in un certo tempo, per quanto piccolo, dopo che è accaduto l'evento stesso; essi sostengono che un impulso impiega un certo tempo, per quanto piccolo, per raggiungere i centri percettivi, qualunque essi siano. Ma, se questo è vero, l'esempio dell'esplosione stellare perde parte della sua for­ za 17: infatti la sola differenza è di grado, essendo l'esplo­ sione stellare «piu passata» o a piu grande distanza di tempo dall'attimo della percezione delle comuni esplosioni terrestri, le quali a loro volta sono «piu passate» rispetto allo scoppio, diciamo, che produce un comune fiammifero nella mia mano. Allora non si tratta piu di vedere se sia possibile percepire eventi passati, ma se non sia invece possibile percepire altro che eventi passati. Cerchiamo di sistemare questi fatti nel modo migliore. Supponiamo che io oggi sia in grado, nel modo comune­ mente inteso, di assistere all'esplosione di una stella, av­ venuta moltissimi anni fa. Non sarò in grado di ripetere 17 Per esempio, Bertra:nd Russell, partout.

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domani la mia osservazione nella stessa situazione spaziale in cui avviene oggi (per esempio, dal mio osservatorio sulla Terra). Non facendolo oggi, non potrei mai piu osservare l'evento da questa posizione spaziale; forse potrei osser­ varlo domani o avrei potuto osservarlo ieri in una situa­ zione spaziale diversa, ma di fatto io sono dove sono e non ero né sarò nei luoghi in cui l'avrei percepito ieri o lo per­ cepirei domani. Questo ci dice che vi è un'area spazio-tem­ porale in cui un evento può essere percepito: E è percepi­ bile entro quest'area in diversi momenti e in diverse posi­ zioni, e per percepirlo effettivamente ci si deve trovare nella giusta posizione al momento opportuno. Posso per­ cepire E in momenti differenti, ma soltanto da posizioni differenti: ora, dire che non possiamo osservare E perché E è passato equivale a dire a) che E ha avuto luogo e b) che il momento in cui E avrebbe potuto essere osservato nel punto spaziale che occupiamo è anteriore al momento presente. Inoltre, dire che non possiamo mai osservare E equivale a dire a), b) e e) che in futuro non potremo mai raggiungere un altro punto spaziale in tempo per osservare E - cioè a causa del tempo che impieghiamo per raggiun­ gere un punto spaziale diverso da quello che adesso occu­ piamo, il momento in cui E potrebbe essere osservato da quel punto sarebbe precedente al momento in cui arrive­ remmo ad occuparlo. Si può essere all'interno dell'area temporale, ma fuori di quella spaziale o in quella spaziale e fuori di quella temporale. Cos1 uno che si fosse trovato a Strasburgo nel 1066 d. C. rappresenterebbe un esempio del primo caso, rispetto alla battaglia di Hastings; cos1 co­ me uno che si fosse trovato ad Hastings nel 1963 sarebbe un esempio del secondo. Ed è questo secondo esempio che possiamo qui applicare. Risulta inutile uno spostamento nell'area spaziale per chiunque tenti di osservare la batta­ glia di Hastings, poiché ci troviamo sempre al di fuori dell'area temporale in cui potremmo avere l'esperienza ri­ chiesta. Suppongo che con una correzione di questo tipo pos­ siamo chiarire il fatto che osserviamo solo eventi passati;

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possiamo spiegare anche il fatto che potremmo osservare, nello stesso momento, eventi che hanno avuto luogo in tempi differenti: per esempio un astronomo potrebbe os­ servare simultaneamente lo scoppio di una bomba nell'aria e un'esplosion� stellare. Non potremmo però parlarne sen­ za, naturalmente, fare astrazione da ogni «segno di passati­ tà», poiché se non osserviamo altro che eventi passati, qualsiasi cosa deve recare segni di passatità, e, seguendo Lewis, saremmo costretti a parlare di una cosa come piu carica di questi segni di un'altra. Ma ricaviamo poco van­ taggio da questa scappatoia, poiché dal fatto, se è un fatto, che non osserviamo altro che eventi passati non consegue che ora possiamo osservare qualsiasi evento passato. In ri­ guardo a certi eventi passati ci troviamo sempre al di fuori dell'area dovuta per l'osservazione; è questo il caso della battaglia di Hastings. Il problema allora è di vedere come possiamo conoscere eventi passati di cui non è possibile avere esperienza e che sono realmente «morti e trascorsi». Chiaramente li conosciamo perché abbiamo una prova evi­ dente del fatto che sono accaduti. Possiamo anche conve­ nire che siamo in grado di conoscere cose che sono acca­ dute, ma che non possiamo esperirle adesso, sulla base di qualcosa che è suscettibile di esperienza al momento pre­ sente. Ma si potrebbe dire che questa è precisamente la tesi di Lewis. Sono riuscito a fornire quell'analisi alter­ nativa che Lewis ha sfidato i suoi critici a dare? La rispo­ sta è no. Ma le difficoltà che sono emerse dall'analisi di Lewis non sono certo scaturite dalla banale affermazione che noi conosciamo il passato non osservabile solo sulla base dell'evidenza. Esse derivano piuttosto dal dire che quando faccio un'asserzione sul passato prevedo implicita­ mente le esperienze che avrò nel futuro quando e se com­ pirò determinate azioni. È vero che posso fare tali previ­ sioni implicitamente, ma sicuramente questo non esaurisce quello che faccio quando asserisco qualcosa sul passato. Il fraintendimento di Lewis consiste nel supporre che lo esau­ risca, che tutte le mie asserzioni cognitive siano espresse da proposizioni condizionali del tipo che abbiamo ravvisato.

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Riflettiamo, per un momento, sulla facilità con cui com­ prendiamo la proposizione «la battaglia di Hastings ebbe luogo nel 1066» e pensiamo a quale vivida immagine mol­ ti di noi hanno di questa battaglia; ma cerchiamo ora di pensare alle previsioni che si potrebbero fare su azioni ed esperienze future, quando facciamo una simile asserzione. Ho a disposizione in questo momento assai scarse prove evidenti e utilizzabili per rendere vera tale proposizione e non ho idea di quello che uno specialista di storia inglese produrrebbe a suo sostegno. Al massimo, suppongo, potrei prevedere che interrogando uno storico inglese sulle testi­ monianze evidenti della battaglia di Hastings egli me ne produrrebbe qualcuna: ma difficilmente posso immaginare quali. Se con tale asserzione non avessi fatto altro che pre­ vedere l'esito di tali domande, avrei un'idea assai confusa di quello che dicevo. Sarebbe stato piu o meno lo stesso che aver detto «la battaglia di Waterloo ebbe luogo nel 1815». Mi sarebbe difficile distinguere tra queste asserzio­ ni non avendo un'idea piu precisa di quale evidenza trove­ rei in un caso o nell'altro. Cosi, anche se per dire di sapere che un evento passato di quel genere è accaduto devo po­ ter addurre qualche prova evidente, sta di fatto che quan­ do dico che un evento simile è accaduto non sto sempli­ cemente prevedendo quali saranno le mie esperienze con­ seguenti alla ricerca dell'evidenza, dico piuttosto che un evento cosi e cosi è accaduto: si tratta di due cose decisa­ mente diverse. La mia asserzione riguardava la battaglia di Hastings e non ciò che si potrebbe reperire negli Archi­ vi Reali. Non ho nessuna idea al proposito, ma tutt'al piu ciò che vi si potrebbe trovare potrebbe forse costituire un'asserzione sulla battaglia di Hastings, in grado, con ipo­ tesi ottimistica, di verificarla. Ma se non mi fosse dato di parlare in modo indipendente ed autonomo di eventi pas­ sati, che cosa verrebbe verificato? Queste verifiche, presu­ mibilmente, ci mettono in condizione di sapere qualcosa sulla battaglia di Hastings, ma ciò è totalmente diverso dal sapere qualcosa circa una sua prova evidente. Avere cono­ scenza di una simile prova evidente potrebbe, per esempio,

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voler dire aver esperienza di certe pergamene. Ma certa­ mente, quando mi riferisco alla battaglia di Hastiugs non mi riferisco a delle pergamene, bensf a una scena del con­ flitto umano. Eppure, se parlandone facessi solo delle pre­ visioni, non parlerei di uomini armati, di re e di coman­ danti, ma di pezzi di pergamena e di logori arazzi. Questo modo di vedere è assolutamente inaccettabile. Infatti come potrei considerare queste cose una prova evidente della battaglia di Hastings, se tutte le proposizioni che la ri­ guardano non risultano altro che previsioni sulla mia espe­ rienza di pergamene e arazzi? Anche se tutta la conoscenza che abbiamo della batta­ glia di Hastings è in un certo senso basata su tali propo­ sizioni condizionali, non può limitarsi soltanto ad esse. Lewis è sostanzialmente corretto, quando dice che cono­ sciamo il passato soltanto perché ne abbiamo testimonian­ ze evidenti e non in altro modo; ma non ci offre il modo di parlarne, consentendoci di parlare solo di ciò su cui si basa la conoscenza che ne abbiamo. Lewis non ci offre un modo di parlare del passato che non diventi subito un mo­ do di parlare del presente e del futuro, non solo perché è fortemente condizionato dal dogma che ciò che conosciamo è solo ciò che possiamo esperire (per cui ci è impossibile conoscere il passato), dogma che lo ha spinto ad introdurre ogni sorta di entità assolutamente inaccettabili, ma piu an­ cora perché è condizionato da una teoria del significato, se­ condo cui il significato di una proposizione non analitica è costituito dall'insieme delle esperienze che lo verificano. A questo devo dunque rivolgere la mia attenzione. «Da parte mia - ha scritto Ayer nel momento di mag­ gior successo del verificazionismo - non trovo nulla di eccessivamente paradossale nella prospettiva per cui le pro­ posizioni intorno al passato sono regole per la predizione di quelle esperienze "storiche" che comunemente si ritie­ ne le verifichino, né vedo come si debba altrimenti analiz-

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zare "la nostra conoscenza del passato"» 18• E aggiunge di avere l'impressione che quelli che si sentono insoddisfatti di tale analisi si lascino prendere dalla prospettiva metafi­ sica per cui il passato è qualcosa di «obiettivamente là», «di "reale" nel senso metafisico del termine» 19• Vale tut­ tavia la pena di osservare che proprio una concezione di questo tipo sembra aver tormentato Lewis, cioè il suppor­ re che il passato, dal momento che non è «obiettivamen­ te là», non possa essere esperito e quindi non possa essere conosciuto o che, in ogni caso, noi possiamo conoscere solo ciò che è «obiettivamente là» e quindi non il passato. Neppure Ayer può esser molto lontano da questo punto di vista, dal ritenere cioè che vi debba essere qualcosa a cui si riferiscono le nostre asserzioni che dobbiamo poter espe­ rire per averne conoscenza, per cui se dobbiamo conoscere proposizioni sul passato, esse non possono realmente ri­ guardare il passato, bens{ qualcosa che possiamo esperire. Nonostante le sue spavalde dichiarazioni, Ayer abbandonò la concezione secondo cui le asserzioni sul passato non so­ no effettivamente tali, quanto piuttosto regole per asser­ zioni sul futuro. Una ragione per cui un uomo di buon senso, nonostan­ te il suo gusto per il paradosso, potrebbe determinarsi ad abbandonare questa concezione è il fatto che essa implica una revisione di quello che significa una proposizione co­ me «la battaglia di Hastings ebbe luogo nel 1066» ogni volta che la si verifica 20• Cioè, la maggior parte di noi non può ammettere che in un certo senso «la battaglia di Ha­ stings avrà luogo nel 1066» ha un significato diverso da «la battaglia di Hastings ebbe luogo nel 1066». Lo affer­ meremmo forse perché la prima proposizione potrebbe es­ sere stata verificata dall'esperienza della battaglia di Ha18 A. J. Ayer, Language, Truth and Logie, London, Gollancz, 1946', trad. it. Linguaggio, verità e logica, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 126-127. 19 Ibidem, p. 127. 20 A. J. Ayer, Tbe Problem of Knowledge, Harmondsworth, Pen­ guin Books, 1956, trad. it. Il problema della conoscenza, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 16.3.

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stings, mentre l'altra non può esserlo (sebbene pochi ad­ durrebbero questa ragione per spiegare la diversità di si­ gnificato). Ma chi direbbe che «la battaglia di Hastings eb­ be luogo nel 1066» ha un significato diverso da «la batta­ glia di Hastings ebbe luogo nel 1066»? Eppure l'analisi ve­ rificazionistica ci autorizzerebbe a dirlo: la proposizione muta il suo significato ogni volta che viene verificata. Sup­ poniamo infatti che essa sia stata assunta ad un certo mo­ mento come la previsione di una certa esperienza e che tale esperienza si sia poi effettivamente avuta: essa allora non può piu predire quell'esperienza, ma un'altra, per cui il suo significato cambia. Possiamo indulgere al nostro pregiudizio che abbia sempre lo stesso significato, solo però con l'arti­ ficio di usarla per prevedere un'esperienza che abbia luogo dopo che essa sia stata definitivamente formulata per l'ul­ tima volta: ma in molti casi è troppo tardi. «Cesare mori» non significa piu quello che significava una volta, in parte per l'interferenza delle inchieste di Marc'Antonio. Questa teoria implica perciò una radicale instabilità di significato della maggior parte delle proposizioni sul passato o alme­ no di quelle che non sono mai state verificate. In realtà, in un senso vagamente eracliteo, non potremmo mai veri­ ficare una proposizione due volte; verificheremmo invece proposizioni diverse se la diversità del significato compor­ ta la diversità della proposizione. Per cui «Cesare mori» e «Cesare mori» non sono la stessa proposizione nel caso che una delle due sia stata verificata: tuttavia è certo che le intendiamo entrambe quali asserzioni della stessa proposi­ zione e che supponiamo che quest'ultima abbia sempre lo stesso significato. Non ci aiuterebbe molto dire che si trat­ ta di usi diversi della stessa proposizione allo scopo di fare diverse asserzioni, poiché tali asserzioni non potrebbero mai avere lo stesso significato, se una non venisse mai ef­ fettivamente verificata o se esse venissero verificate con esperienze diverse. Ayer giunse ad ammettere che è sbagliato supporre che le asserzioni intorno al passato «siano traducibili in propo-

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sizioni intorno a esperienze presenti e future» 21• Egli disse che «questa conseguenza è certamente falsa» e aggiunse di non ritenere piu che «condizione necessaria della verità di una qualsiasi affermazione intorno al passato sia la verità di affermazioni di osservazione relative al presente o al futuro». Ma il problema non riguardava la verità bens{ il significato, e il suo interesse rimase rivolto a chiarire come sia possibile considerare significanti tali asserzioni, nel caso che non possiamo verificarle direttamente con un'esperien­ za di ciò cui esse si riferiscono. Egli rispose con l'introdu­ zione del concetto di «verificabilità di principio», che causò un mutamento di prospettiva. Le proposizioni sul passato non dovevano piu essere trasformate in- proposizioni sul presente e sul futuro, ma portate dal modo indicativo a quello congiuntivo. Prendiamo ora in esame questo con­ cetto. È vero che io, che ho occupato un periodo di tempo che inizia nel l 924 e che da allora continua senza interru­ zioni nella mia esistenza, non posso mai avere osservato eventi accaduti prima del 1924 o le cui aree spazio-tempo­ rali non arrivino a quella data con i loro limiti piu avan­ zati. Ma durante questo tempo ho occupato diverse posi­ zioni spaziali. Non avrei potuto osservare eventi che si svolgevano nel momento in cui mi trovavo in tali posizioni se fossi stato fuori della loro area spaziale. Trovandomi a Roma nel 1962, non mi era possibile essere testimone di quanto accadeva a New York, ma avrei potuto - com'è possibile supporre - trovarmi nel 1962 a New York an­ ziché a Roma ed allora sarei stato testimone di quanto vi accadeva. Era un fatto puramente contingente che mi tro­ vassi in un luogo piuttosto che in un altro. Lo stesso vale per quanto riguarda il tempo; avrei potuto occupare un periodo di tempo diverso da quello che ho occupato per pura contingenza. E proprio come non è assurdo supporre che potevo essere a New York invece che a Roma nel 1962, 21 A.

J.

Ayer, prefazione alla seconda edizione di Language, Truth

and Logie, trad. it. cit., p. 237.

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potrei essere stato a Roma nel 44 a. C. Proprio com'è un fatto contingente che io sia stato testimone degli eventi ac­ caduti a Roma nel 1962 piuttosto che di quelli accaduti a New York, cosi: è una pura contingenza che io non sia stato testimone di quanto accadde a Roma nel 44 a. C. e lo sia invece stato di quanto vi accadde nel 1962. Non so­ no stato effettivamente testimone degli eventi accaduti nel 44 a. C., ma potrei esserlo stato; cosi: di fatto non posso verificare per testimonianza diretta la morte di Cesare, ma potrei averla verificata se mi fossi trovato presente in quel momento: dunque la proposizione «Cesare mori» è veri­ ficabile in lineà di principio. E poiché è tale, è significante. Questa è, sommariamente, l'analisi di Ayer su tale pro­ blema 22• Tralasciamo la questione se io sarei la stessa persona di adesso nel caso che avessi vissuto nel 44 a. C. invece che ora; chiediamoci solo se questa nuova spiegazione riesce a evitare i caotici cambiamenti di significato che avevano fat­ to crollare la precedente. In un certo senso ci riesce: dob­ biamo assumere tutte le formulazioni della proposizione «Cesare morf» come relative allo stesso gruppo di espe­ rienze possibili, quelle cioè che avremmo avuto trovandoci a Roma nel 44 a. C. Ancora una volta si tratta di una tesi di trasformazione; ma invece che in una catena di propo­ sizioni condizionali la 1) Cesare morl a Roma nel 44 a. C.

deve essere trasformata in una proposizione del tipo 2) Se io fossi stato a Roma nel 44 a. C. avrei avuto espe­ rienze di-Cesare-che-muore.

Ora la 2), come vedremo, non è la completa e perfetta trasformazione della 1 ), ma ci basta per i nostri scopi pre­ senti. Si osservi che non mi riferisco alle mie esperienze presenti o future quando intendo riferirmi al passato; al contrario, posso fare a meno di riferirmi a ogni esperien22 A. J. Ayer, The Foundations of Empirical Knowledge, London, Macmillan, 1940, pp. 167-168.

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za che avrò concretamente in futuro. D'altra parte non sono ancora completamente in grado di riferirmi alla mor­ te di Cesare, sono anzi costretto a rimettermi a esperienze che avrei avuto se mi fossi trovato in un certo luogo in un certo momento. Naturalmente non dobbiamo fermarci dinanzi alla possibile obiezione secondo cui due persone diverse che esprimono la 1) non possono intendere la stes­ sa cosa, poiché la 1) viene usata, nei due casi, per espri­ mere le esperienze soggettive di chi la enuncia. Questa obiezione potrebbe essere facilmente evitata, penso, ammet­ tendo che le esperienze in questione possano essere state fatte da chiunque. Perciò una persona che si fosse trovata in quel luogo invece di un'altra avrebbe avuto le stesse esperienze; quindi a queste esperienze può indifferente­ mente fare riferimento chiunque si serva della 1 ). Possia­ mo ora considerare come migliore trasformazione (parzia­ le) della 1) la 3) Chi si fosse trovato nel luogo opportuno (ecc.) avrebbe avuto esperienze di-Cesare-che-muore.

L'espressione «esperienze di-Cesare-che-muore» è for­ se un poco artificiosa: indica le esperienze che verifichereb­ bero direttamente la proposizione «Cesare muore ora». Tra parentesi faccio notare che perciò la 3 ), a rigore, non è vera, perché non è vera per lo stesso Cesare: la «morte», come ha scritto Wittgenstein, «non è un evento della vita. La morte non si vive» 23• Ma non voglio insistere su que­ sto punto, perché mi interessa ancora il fatto che non pos­ siamo parlare della morte di Cesare, ma solo delle espe­ rienze di-Cesare-che-muore. Questa è un'espressione artifi­ ciosa, perché mancano nella nostra lingua parole che svol­ gono esattamente la funzione richiesta dall'analisi che stia­ mo considerando. Questa funzione può essere propria sol­ tanto di un linguaggio del tutto diverso da quello corren­ te e in cui i termini che comunemente si riferisèono a even23 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-pbilosophicus, London, Kegan Paul, Trench, Trubner, 1922, trad. it., Torino, Einaudi, 1964, 6.4311.

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ti e oggetti devono essere resi con termini che si riferisco­ no a esperienze. Questo spiega perché la 2) e la 3) siano solo trasformazioni parziali: «Roma» designa una specifi­ ca città fisica e una trasformazione completa sostituirebbe questo termine con l'equivalente insieme di esperienze a cui ci si dovrebbe riferire in questo nuovo linguaggio. In altre parole ci stiamo occupando del programma del feno­ menismo; questa è la ragione delle difficoltà che abbiamo incontrato nel riferirci alla morte di Cesare, cioè a un even­ to fisico. Il crollo riconosciuto del verificazionismo nella sua forma originale non significa secondo Ayer che «le proposizioni relative al passato non si possano analizzare in termini di fenomeni; poiché si può intendere implichino che certe osservazioni avrebbero avuto luogo, se si fossero realizzate certe condizioni. Il guaio è che queste condizioni non si possono mai realizzare, poiché richiedono che l'osservatore occupi nel tempo una posizione che egli ex hypothesi non occupa» 24•

Ma, come abbiamo visto, quest'ultima difficoltà non è insuperabile; tuttavia sarà utile soffermarsi a considerare ciò che effettivamente implica la trasformazione proposta. Il fenomenismo è la tesi secondo cui ogni asserzione che si intenda riferita a oggetti ed eventi fisici per essere significante dev'essere trasformabile in insiemi di asser­ zioni relative a esperienze reali e possibili. Secondo il fe­ nomenismo ogni termine è comprensibile solo se -sappiamo quali esperienze avremmo se ci trovassimo di fronte al suo designatum. Ma allora tale termine deve essere chiarito con altri termini che si riferiscono alle stesse esperienze e non si può fare nessuna asserzione significante intorno al designatum se non con questi termini. Una completa di­ scussione di questa prospettiva sarebbe qui fuori luogo, ma basta questa semplice esposizione per poter capire per­ ché non siamo in grado di riferirci agli eventi passati, in questo caso alla morte di Cesare. Ciò consegue dal fatto che, secondo il fenomenismo, non possiamo riferirci agli 24 Prefazione alla seconda edizione di Language, Truth and Logie, trad. it. cit., p. 237.

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eventi simpliciter se, per eventi, intendiamo accadimenti fisici. Infatti qualsiasi tentativo di questo tipo implica im­ mediatamente un riferimento a esperienze reali o possibili. Cosi il riferimento agli eventi passati non è impedito da qualche fatto particolare riguardante il passato. Si tratta piuttosto del fatto generale che non possiamo riferirci agli eventi intesi come accadimenti fisici e che quindi, come ov­ via conseguenza, non possiamo riferirci a eventi passati. Anche Bruto non avrebbe potuto riferirsi alla morte di Cesare, ma solo a «esperienze di-Cesare-che-muore». Que­ sto non è dunque un problema particolare delle asserzioni che si intendono riferite al passato. Non voglio indugiare sulla questione se possiamo o no, effettivamente o in linea di principio, effettuare una tra­ sformazione fenomenistica in termini riferiti solo a dati sensibili - a esperienze reali e possibili - ottenendo una asserzione manifestamente relativa all'assassinio e alla morte di Cesare. Non so se sia possibile tale trasformazio­ ne, ma poniamo di si e di esservi riusciti: non sono però sicuro di poter capire come il fenomenismo renderebbe la passatità {pastness) nella sua terminologia. Ayer ha propo­ sto di parlarne come della possibilità di aver avuto le espe­ rienze a cui ci si riferisce nella traduzione fenomenistica dell'espressione «la morte di Cesare». È possibile nel sen­ so che non è logicamente impossibile che ci trovassimo a Roma nel 44 a. C. Ma Ayer ha anche detto che le condi­ zioni per avere queste esperienze non possono essere effet­ tivamente soddisfatte, presumibilmente perché non possia­ mo occupare di fatto la necessaria posizione spazio-tempo­ rale: «esse richiedono che l'osservatore occupi nel tempo una posizione che egli ex hypothesi non occupa». Non pos­ siamo però fare a meno di sottolineare che il riferimento alla posizione nel tempo è sicuramente un riferimento alla collocazione :fisica e che, se non abbiamo mostrato come i concetti di posizione temporale e spaziale debbano essere resi in termini fenomenistici, dobbiamo supporre che al­ meno qualche concetto fisico dotato di significato non ab­ bia equivalente empirico; inoltre se certe cose non possono

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essere introdotte nel linguaggio che privilegiamo, non ab­ biamo alcuna valida ragione per accettare le prolisse locu­ zioni dei fenomenisti. Un fenomenismo parziale è filosofi­ camente privo di valore, perché parte dal presupposto che tutto ciò che ha significato nel discorso abbia significato in termini di esperienza reale o possibile. Analogamente, vi sono alcuni angoli trisecabili con la riga e il compasso; ma ciò non stabilisce un criterio generale, siccome a invali­ darlo basta la dimostrazione che vi è un angolo che non si può trisecare. Se non possiamo esprimere la posizione nel tempo con predicati fenomenistici, ciò significa il crollo completo del fenomenismo. Tuttavia continuiamo a supporre di aver ottenuto la trasformazione richiesta della morte di Cesare, e supponia­ mo anche di aver avuto cura di esprimere in linguaggio fenomenistico il riferimento alle posizioni temporali e spa­ ziali. Cosi la proposizione 4) Cesare muore a Roma nel 44 a. C. viene resa con l'altra 5) Se qualcuno potesse avere esperienze a-Roma-nel-44-a.C., allora avrebbe esperienze di-Cesare-che-muore. Fa poca differenza che la 5) risulti piu sommaria di una trasformazione completa: supporrò soltanto che essa indichi la posizione e determini la forma della trasforma­ zione completa e adeguata, comunque lunga e complessa essa sia. Il punto che ci interessa è infatti un altro e cioè che non si può dire quando la proposizione 4) sia stata pro­ nunciata, né se si riferisca a qualcosa di passato, presente o futuro ( trascurando il fatto che i Romani non avrebbero adoperato l'espressione «a. C.»); analogamente non lo si può dire della proposizione 5). La ragione di questo sta nel fatto che la 4 ), come mostra la 5), è stata espressa in una forma priva di temporalità. Quello che mi interessa è vedere come rendiamo in termini di esperienza il fatto che un dato evento è passato, problema del tutto diverso, co­ me vedremo, dal chiedersi come possiamo rendere in tali

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termini il riferimento alle posizioni spazio-temporali. In­ fatti possiamo riuscire a fare quest'ultima cosa, senza po­ ter dire se la posizione spazio-temporale cosf trasformata è passata, presente o futura. Un'obiezione che talora viene portata al fenomenismo è che la proposizione 4) potrebbe essere falsa, anche se una proposizione del tipo della 5) fosse vera. Cosf può darsi che non vi sia nessun pugnale di fronte a me anche se ho esperienze di pugnali. Tuttavia questa obiezione ha poca forza se il fenomenismo è rigoroso nel sostenere che la 5) non dice nulla che la 4) non dica, trattandosi solo di una trasformazione di quanto nella 4) è significante. Ciò nonostante possiamo a questo punto sollevare una critica analoga e forse piu efficace: osserviamo che la 4) è priva di temporalità mentre la 1) ne è provvista, per cui sarebbe un errore considerare la 5) indifferentemente come una traduzione della 1) e della 4). Infatti, dal momento che la 1) contiene un'informazione di cui la 4) è priva, la 5), se è una traduzione adeguata della 4), è una traduzione ina­ deguata della 1 ), oppure è qualcosa di piu di una trasfor­ mazione della 4), se ·è una trasformazione adeguata della 1). La 1) infatti dà informazioni che la 4) non dà e speci­ ficamente dice che l'evento cui entrambe si riferiscono ha avuto luogo nel passato. La 4) non ci dice se l'evento è ac­ caduto, sta per accadere o accadrà. Per cui la 1) potrebbe essere falsa e la 4) vera; essa potrebbe essere falsa se l'evento non fosse accaduto nel passato. Cosf se si suppone che la 5) sia un'esatta trasformazione della 4), la 1) po­ trebbe essere falsa e la 5) vera, dal momento che la 5) non contiene piu di quanto contenga la 4) di tutto quello che contiene la 1). Piu in generale, è possibile che qualsiasi proposizione temporale sia falsa, anche se la sua trasfor­ mazione fenomenistica risulta vera: a meno che non riu­ sciamo a rendere fenomenisticamente i tempi. Non si vede facilmente come potremmo rendere i tem­ pi in termini di esperienza. Si può naturalmente proporre un artificio di questo tipo: dare un equivalente di esperien-

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za al movimento attraverso il tempo 25• Perveniamo allora al 44 a. C. attraverso una serie graduale di eventi, ciascu­ no dei quali può essere reso fenomenisticamente. Certa­ mente non possiamo effettivamente occupare queste posi­ zioni nel tempo, ma questo non è logicamente impossibile per le ragioni già considerate. La difficoltà consisterebbe comunque nel compiere il primo passo tra !'adesso e il 44 a. C. Infatti esso deve dirigersi verso un evento passato, se vogliamo procedere nella direzione giusta, e il problema consiste nel sapere come indicare che il primo passo è nel­ la direzione del passato e differisce dal primo passo di un percorso temporale rivolto al futuro. Si potrebbe dire: il primo passo nella direzione del 44 a. C. Ma allora dobbia­ mo dire in qualche modo che il 44 a. C. è nel passato, il che pone una petizione di principio. Non possiamo certo sperare di poter ricorrere a un'espressione priva di tempo­ ralità. Supponiamo infatti di dire che il 44 a. C. è 2007 anni prima di ora; ma «ora» indica l'uso di un tempo pre­ sente e dovrebbe essere rimpiazzato con una data, cioè il 1963. Possiamo allora affermare che l'asserzione che il 44 a. C. è 2007 anni prima del 196.3 è vera e, in particolare, analiticamente vera. Ma ciò non ci dice che il 44 a. C. è passato: tale truismo infatti potrebbe essere stato pronun­ ziato in un momento qualsiasi, compreso il 4 3 a. C., cioè in un momento in cui gli anni in questione sarebbero stati futuri. Dobbiamo sapere quando viene pronunziata la pro­ posizione e poi se questo momento è anteriore, posteriore o coincidente con il momento in cui poniamo la questione. In tal modo non ci è possibile eliminare senza difficoltà l'informazione che la temporalità ci fornisce. Ma se allora non possiamo includere questa informazione nelle nostre trasformazioni fenomenistiche, il fenomenismo cade come prospettiva per esprimere tutto quanto è significante nel nostro linguaggio ordinario. Certo si potrebbe assumere l'eroico atteggiamento di dire che l'informazione tempora25 Per le difficoltà di questo concetto cfr. John Hospers, An Intro­ New York, Prentice-Hall, 1953, p. 442.

duction to Philosophical Analysis,

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le è priva di significato, ma ciò è irragionevole perché di­ cendo che una cosa è passata ne capiamo certamente il senso. A questo punto, come faceva l'epistemologo nella precedente discussione, il fenomenista ci sfiderà a dire co­ me possiamo capire questa informazione se non in termini di esperienza. Per adesso non cercherò neppure di rispon­ dere. Ritornerò piu tardi su questo problema, dandolo ora per risolto e confidando che le espressioni «per adesso» e «piu tardi» siano comprese, comunque esse vadano analiz­ zate. Il fenomenismo, come il verifìcazionismo, implica un attacco contro la possibilità che lo storico raggiunga il suo obiettivo minimo, dato che, se quanto abbiamo detto è corretto, non possiamo fare un'asserzione significante sul passato, che non diventi immediatamente un'asserzione su esperienze reali e possibili. Ma io mi servo proprio di que­ sto punto per portare un attacco al fenomenismo stesso. Se esso non riesce a rendere nella forma che preferisce l'in­ formazione che riceviamo dalie proposizioni temporali, ciò significa una sua sconfitta. Ma resta da chiarire lo status esatto dei tempi; farò un primo passo in questa direzione, affrontando un'altra polemica che porterà questa discussio­ ne a un esito. Il professor Ayer, i cui sforzi per analizzare le proposizioni sul passato sono stati inesauribili, ha recen­ temente presentato un'originale analisi che giustifica, se è corretta, l'affermazione che «nessun'asserzione come tale riguarda il passato» 26• Quest'affermazione, naturalmente, significherebbe ancora una volta per lo storico l'impossibi­ lità di raggiungere il suo obiettivo minimo e libererebbe il fenomenismo dalie strette in cui l'abbiamo posto. Se in­ fatti nessun'asserzione come tale riguarda il passato, dif­ ficilmente si può imputare a difetto del fenomenismo il fat­ to che esso non riesca a tradurre nel proprio linguaggio le asserzioni sul passato. Ma allora non può essere rispettata neppure la nostra caratterizzazione minima della storia, poiché non esistono proposizioni del tipo che gli storici do26 A.

J.

Ayer, The Problem of Knowledge, trad. it. cit., p. 169.

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vrebbero riuscire a formulare. Tuttavia bisogna sapere a cosa è relativa, se non al passato, una proposizione come «Cesare morf». È proprio a ciò che la nuova analisi di Ayer cerca di dare una risposta. In primo luogo Ayer ammette che quando usiamo que­ sta proposizione ci riferiamo a un evento, in questo caso alla morte di Cesare. Tuttavia non ci riferiamo a un even­ to passato, poiché gli eventi come tali non sono né passati, né presenti, né futuri. Cosf «considerando solo il contenu­ to fattuale di un'asserzione» 27, quando ci riferiamo alla morte di Cesare ci riferiamo a un evento che però non è passato, poiché evidentemente l'espressione «evento passa­ to» implica un errore di categoria. Tutto ciò solleva mag­ giore imbarazzo del dovuto, poiché non significa molto di piu che ribadire la differenza tra predicati monadici e po­ liadici, o tra proprietà semplici e relazionali. Se risulta pa­ radossale, non lo è piu dell'affermazione che nessun'asser­ zione come tale è mai relativa a qualche cosa che è prossi­ ma a qualche altra. Certo una bottiglia può essere prossi­ ma a una scatola e l'asserzione che affermasse questo sareb­ be vera: ma nel senso in cui è corretto dire che una botti­ glia è verde, non ha alcun senso dire che essa è prossima a. Come tali le bottiglie non sono prossime a o tra o in: dun­ que un'asserzione concernente il fatto che una bottiglia è prossima a una scatola è un'asserzione relativa a una botti­ glia, ma non relativa a una bottiglia «prossima a». Cose come questa infatti non esistono. Cosf, analogamente, una asserzione temporale è relativa a un evento, ma non a un evento passato. L'esser passati infatti non è una proprietà degli eventi, ma una relazione in cui gli eventi possono rap­ presentare uno dei termini. Il contenuto fattuale di tali proposizioni ha riferimento agli eventi e alle proprietà sem­ plici degli eventi. Se dalla proposizione temporale sottraia­ mo questo contenuto fattuale ci resta qualcosa che, a rigo­ re, indica la posizione nel tempo della persona che pronun­ cia la proposizione rispetto all'evento cui essa si riferisce. 21

Ibidem.

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Non possiamo impiegare nessuna caratteristica grammatica­ le del nostro linguaggio per indicare automaticamente la nostra posizione nel tempo rispetto alle cose cui ci riferia­ mo, allo stesso modo in cui i tempi (in quest'analisi) in­ dicano la relazione temporale tra noi e gli eventi cui ci ri­ feriamo 2ll. Ma quando dico che la porta è alla mia sinistra, «alla mia sinistra» non è una proprietà della porta, ma una relazione tra me e la porta. Un altro può dire di questa stessa porta che è alla sua destra; ma le asserzioni «la porta è alla mia sinistra», «la porta è alla mia destra» non sono incompatibili anche se riferite alla stessa porta nello stesso momento, posto che siano affermate da persone differenti situate in diverse posizioni spaziali rispetto alla porta. An­ che persone diverse però, supponendo che parlino della stessa porta nello stesso momento, farebbero asserzioni in­ compatibili se dicessero «la porta è di legno» e «la porta è di metallo». Analogamente vi sarebbe incompatibilità tra le proposizioni «Cesare mori nel 44 a. C.» e «Cesare rima­ se in vita per tutto il 44 a. C.», asserite da persone diverse in un momento qualsiasi. Ma «Cesare morirà nel 44 a. C.» e «Cesare mori nel 44 a. C.» non sono per nulla incompa­ tibili se pronunziate in tempi diversi o da persone diffe­ renti. In verità ci si accorge subito che se una di esse è vera dev'esserlo anche l'altra e che se una di esse è falsa anche l'altra dev'essere tale, in modo che, per definizione, lungi dall'essere incompatibili, esse sono sostanzialmente equiva­ lenti. Ne deriva allora che possiamo analizzare le proposizio28 Ma nel nostro linguaggio potremmo avere, co.sf come i tempi, gli « spazi »: in tal modo, agti studenti che imparano a coniugare i verbi, il maestro chiederebbe di dire « il presente indicativo destro », « il fu­ turo sinistro» e cosi via. Ci troveremmo allora in difficoltà nel dare una traduzione spazialmente neutra di un linguaggio cosi articolato. Di fatto abbiamo i mezzi per fornire tutte le informazioni che l'uso di tali « spazi » potrebbe consentire proprio come in una lingua priva di tempi {per esempio il cinese) saremmo in grado di dare informazioni intorno alla direzione nel tempo di ciò a cui facciamo riferimento. Stando pura­ mente alla grammatica, l'inglese non ha che due tempi distinti, ma mo­ strerò in seguito che una buona parte del nostro vocabolario è temporale, a prescindere completamente dai tempi dei verbi.

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ni temporali secondo due componenti distinte, ciascuna del­ le quali fornisce una parte diversa di informazione: l'una riguarda l'evento, l'altra la relazione tra l'evento e il mo­ mento in cui viene pronunziata l'asserzione. Perciò le tre proposizioni seguenti, pronunciate rispettivamente da Cal­ purnia, Bruto e Marc'Antonio, si riferiscono tutte allo stes­ so evento: a) Cesare morirà; b) Cesare muore ora; e) Ce­ sare morL In relazione soltanto al contenuto fattuale di queste tre asserzioni, non importa il momento in cui esse vengono pronunziate, poiché il tempo non ha alcun rap­ porto con la parte fattuale della proposizione. Le due parti di informazione fuse assieme in un'asserzione temporale so­ no «logicamente distinte», e le tre asserzioni sono equiva­ lenti: se una è vera, lo sono tutte; se una ·è falsa, sono tutte false. Se l'interpreto bene, questa è l'analisi di Ayer. Devo di­ re che nonostante la sua ingegnosità, tale analisi non è del tutto giustificata. Le tre asserzioni non sono equivalenti e le componenti d'informazione riunite nelle proposizioni temporali non sono logicamente distinte, se, con ciò, inten­ diamo «logicamente indipendenti». Se è valido, il mio ra­ gionamento comporta che non si possano con tanta preci­ sione scindere completamente le due informazioni, quella temporale e quella «fattuale», contenute nelle proposizioni temporali. Cominciamo col considerare la seguente affermazione che riporta concisamente la tesi che ho esposto: «La verità o falsità di una proposizione che si propone di de­ scrivere le condizioni meteorologiche ad una certa data è del tutto indipendente dal tempo in cui essa viene espressa. Combi­ nando la descrizione dell'evento in questione con il riferimento alla posizione temporale di chi parla, l'uso dei tempi dei verbi apporta insieme due informazioni logiche distinte. Si tratta qui di una economia di linguaggio, ma non è una cosa indispensabile, poiché ciascuna informazione potrebbe perfettamente esser data in un linguaggio che non contenesse alcun tempo dei verbi. La posizione temporale di chi parla, relativamente all'evento descritto, manifestata dall'uso del presente, del passato e del futuro dei

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verbi, potrebbe pur essa esser caratterizzata mediante l'indica­ zione esplicita della data» 29•

Ciò sembra autorizzare il punto di vista secondo cui una proposizione al modo indicativo sarebbe analizzabile come una congiunzione vero-funzionale di proposizioni lo­ gicamente distinte, congiunzione che verrebbe occultata da circostanze puramente grammaticali. Un elemento della congiunzione (A) dice qualcosa intorno a un evento E e l'altro elemento (B) dice qualcosa sulla posizione nel tem­ po di chi parla rispetto a E. Le due parti dell'informazione potrebbero essere date separatamente, e poiché supponia­ mo che i due membri della congiunzione siano logicamente indipendenti, la verità o falsità dell'uno lascia indetermina­ to il valore di verità dell'altro. Naturalmente la verità o falsità della congiunzione nel suo complesso dipenderà dal­ la verità o falsità dei suoi elementi: ciò consegue dal pre­ supposto che una proposizione al modo indicativo sia una congiunzione vero-funzionale mascherata. In particolare la congiunzione sarà falsa se uno o entrambi i suoi elementi sono falsi; in questo caso ne viene naturalmente che il va­ lore di verità di una proposizione al modo indicativo di­ penderà moltissimo dal momento in cui è pronunziata, poi­ ché questa è una delle sue condizioni di verità. Per esem­ pio, se Bruto pronunciasse la b) la sua asserzione sarebbe falsa nel caso che Cesare fosse già morto o che non lo fos­ se ancora. Dunque, supponendo che l'asserzione di Bruto sia stata fatta al tempo presente, essa risulta falsa perché è falso uno dei suoi elementi: in questo esempio è falso l'ele­ mento della congiunzione che si riferisce aila posizione nel tempo di Bruto, nel momento in cui pronunzia l'asserzio­ ne, rispetto all'evento che egli descrive. Egli esprime con inesattezza la relazione dicendo in effetti che il momento in cui la proposizione viene pronunziata è contemporaneo all'evento cui si riferisce, mentre in realtà lo segue o lo precede. Da questo punto di vista è allora chiaro che le tre proposizioni non sono equivalenti: la b) può essere falsa 29

A. J. Ayer, The Problem of Knowledge, trad. it. cit., pp 168-16'9.

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anche se la a) o la e) sono vere. Cosi le due proposizioni seguenti, anche se hanno lo stesso «contenuto fattuale», sono reciprocamente contraddittorie, se consideriamo il mo­ mento in cui vengono pronunziate: l) «Cesare morirà»; II) «No, egli è già morto». Se la a), la b) e la e) sono pro­ nunziate nello stesso momento, due di esse saranno false se una è vera. Nel caso considerato quindi l'elemento (B) è falso; dun­ que è falsa anche la congiunzione nel suo complesso. Ma naturalmente si può dire che con ciò si lascia ancora inde­ terminato il valore di verità dell'altro elemento (A), inteso come relativo alla morte di Cesare senza riferimento al tem­ po. Si potrebbe allora dire che se (A) è vero, lo è indipen­ dentemente dal momento in cui viene pronunciato e che (A) è perciò indipendente da (B). Questo è senza dubbio ciò che Ayer aveva in mente: la verità di una proposizione priva di riferimento temporale non dipende dal momento in cui viene pronunciata. Senza dubbio egli pensava a pro­ posizioni simili, affermando che nessuna proposizione come tale riguarda il passato. Ma una proposizione temporale di­ pende in grandissima misura, per il suo valore di verità, dal momento in cui viene pronunziata: ne segue dunque o che non possiamo tradurre una proposizione temporale senza riferimento al tempo o che alcune proposizioni senza rife­ rimento temporale dipendono in grandissima misura, per il loro valore di verità, dal momento in cui vengono pro­ nunziate. Cosi si deve rifiutare o una parte o l'altra del­ l'analisi di Ayer. Ma è molto difficile pensare che una pro­ posizione relativa al momento in cui viene pronunziata non dipenda da esso: sarebbe molto strano pensare che il va­ lore di verità dell'affermazione «Questa proposizione è pronunziata nel momento t-1» non dipenda dal momento in cui viene fatta. In senso non temporale non può essere vera. Anche se introduciamo la «data precisa» nella pro­ posizione stessa, non riusciamo a renderla e priva del riferi­ mento temporale e indipendente dal momento in cui viene pronunziata. Notiamo inoltre che « ... è indipendente da ...» non è

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una relazione simmetrica. Anche se l'elemento (A) è indi­ pendente da (B} non ne consegue l'inverso, perché (B) può essere e può non essere indipendente da (A) e di fatto co­ munque si può provare che non lo è. Se è cosf, non pos­ siamo fornire una parte di informazione indipendentemen­ te dall'altra, come propone l'interpretazione vero-funziona­ le. Supponiamo infatti che (A) sia falso. «Cesare muore a Roma nel 44 a. C.» potrebbe essere falsa per diverse ra­ gioni: se Cesare non fosse esistito, se Cesare fosse stato im­ mortale, se Cesare fosse morto in qualche altro momento o in qualche altro luop;o. In ogni caso supporre che la pro­ posizione sia falsa vuol dire supporre che non esiste ( senza alcun riferimento ai tempi) un evento come quello che l'as­ serzione vuole descrivere. Ora se (A) è falso, è naturalmen­ te falsa la congiunzione; ma resta da chiedersi come l'altro elemento (B) possa esser vero se (A) è falso. Com'è possi­ bile che io sia in qualche relazione temporale con un evento che non esiste? La relazione cade per la mancanza di un termine. Si può naturalmente dire che è un fatto che Cesare non sia morto nel 44 a. C., ma i «fatti in se stessi sono privi di data» e non posso considerare un'as­ serzione come pronunciata prima, dopo o contemporanea­ mente a qualcosa cui non è ragionevolmente possibile as­ segnare alcuna data. La verità di (A) è allora condizione necessaria per la verità (o, se consideriamo l'alternativa, per la verità o la falsità) di (B). Si può allora dire, se si vuole, che la verità di una proposizione temporale presup­ pone la verità di quella sua parte che può esser affermata senza riferimento al tempo. Tuttavia, una proposizione temporale può essere falsa quando la componente priva di temporalità è vera, il che mostra che le due parti non sono equivalenti. Inoltre, ci troviamo qui di fronte a una situa­ zione analoga a quella che avevamo incontrato a proposito del fenomenismo: una traduzione fenomenistica della par­ te della proposizione che può esser resa a prescindere dai tempi può essere vera e la corrispondente proposizione temporale essere falsa. Inoltre, l'informazione che ci danno

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le proposizioni temporali non si può tradurre fenomenisti­ camente. Siccome non siamo in grado di eliminare i tempi in modo che questa stessa informazione possa essere data a prescindere da essi, risulta scarsamente giustificato il punto di vista secondo cui nessuna asserzione è in quanto tale relativa al passato. Osserviamo infine che questa stessa situazione sorge se pensiamo di rendere in modo diverso le due parti dell'in­ formazione espressa da una proposizione temporale. La so­ la naturale alternativa alla congiunzione vero-funzionale cui riesco a pensare è questa: possiamo considerare i tempi co­ me operatori che formano asserzioni (statement-forming) ricavandole da altre. In quanto operatori essi non hanno alcun valore di verità loro proprio, proprio come l'opera­ tore di quantificazione (x) non è come tale né vero né falso. Ora, sia p una proposizione senza riferimento temporale e sia P un operatore temporale che abbia l'effetto di porre p al passato. Quindi, P(p) significa: «Si diede il caso che p». Ora può darsi che p sia vera e che P(p) sia vera; o che p sia falsa e che P(p) sia falsa. Ma non può darsi che p sia falsa e P(p) vera 30 e neppure, piu in generale, che p sia falsa e T(p) vera per qualsiasi valore di T, consideran­ do T un operatore variabile, che assume i tempi come pro­ pri valori. Buona parte dei problemi di cui mi sono interessato na­ sce, naturalmente, proprio dal concetto di verità: non si tratta tanto del fatto che «Cesare muore nel 44 a. C.» sia priva di temporalità, quanto del fatto che «è vero che Ce­ sare muore nel 44 a. C.» venga assunta come priva di ri­ ferimento temporale. In larga parte ciò avviene perché la verità è considerata un fatto atemporale riferito alle pro­ posizioni, per cui se «Cesare morf nel 44 a. C.» è vera, deve esserlo a prescindere dai tempi. Da questo punto di vista, il momento in cui viene pronunziata è evidentemen­ te irrilevante: se è atemporalmente vera, lo sarebbe in ogni 30 Cfr. A. N. Prior, Time and Modality, Oxford, Clarendon Press, 1957, p. 9.

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caso, sia che venisse pronunziata prima, durante o dopo il 44 a. C. Ciò rende dunque i tempi superflui. L'idea che la verità sia atemporale è tuttavia una nozione particolarmen­ te dannosa e cercherò in seguito 31 di motivarne il rifiuto. Per adesso voglio solo aggiungere poche parole sull'analisi appena esaminata. Perché Ayer vuole affermare che nessuna proposizione come tale è relativa al passato ( o, piu precisamente, che si riferisce al presente o al futuro)? Avanzo l'ipotesi che il rifiuto di considerare seriamente i tempi sia dovuto al fatto che Ayer resta assillato dalla vecchia questione della verifi­ cabilità delle proposizioni sul passato. Egli si propone di dimostrare che tale problema non deve sorgere, poiché nessuna proposizione è relativa al passato; non vi è quin­ di nessun reale problema relativo alla verificabilità delle proposizioni storiche. Poiché esse, nella sua analisi, non si riferiscono al passato, non sono minacciate dall'obiezione dell'inverificabilità in quanto relative al passato. Ayer sostiene che esse si riferiscono a eventi, ma non a eventi passati, per cui la loro verità o falsità dipende interamente da ciò che concerne (in senso atemporale) tali eventi e non dal momento in cui sono pronunziate. « Una asserzione che è verificabile quando l'evento cui si riferisce è presente, è ugualmente verificabile quand'esso è futuro o passato» 32• Ayer vuol dire che una proposizione priva di tempi, se è verificabile una volta, lo è sempre e che la sua verificabilità non è in funzione del momento in cui viene pronunziata. In verità Ayer qui sostiene che la verificabili­ tà di tali proposizioni dipende dal fatto che siano verifica­ bili in un certo momento e che una proposizione al tem­ po presente, se non è verificabile almeno una volta, cioè nel momento in cui accade l'evento cui si riferisce, non è mai verificabile. Questo è proprio il punto sul quale voglio insistere; voglio dimostrare che ciò vale per le proposizioni senza riferimento temporale, ma non prova che le pro31 Cfr. cap. VIII. 32 A. J. Ayer, The Problem of Knowledge, trad. it. cit., p. 169.

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posizioni temporali siano verificabili. La verità di una proposizione priva di riferimento temporale non garanti­ sce la verità di tutte le sue versioni temporali. Inoltre, può benissimo darsi che la verificabilità di una simile proposizione non garantisca la verificabilità di tutte le sue versioni temporali. Dopo tutto, il contenuto dichiarata­ mente verificabile di queste proposizioni è solo una parte dell'intera proposizione, secondo l'analisi dello stesso Ayer. La verificabilità di una parte non comporta la verificabilità dell'intera proposizione: la verificabilità di « l'erba è ver­ de» non comporta quella di « l'erba è verde e il Tao è purpureo». Resta ancora spazio allo scetticismo sul passato. Ma di fatto tale scetticismo è completamente indipen­ dente dalla questione su cui Ayer ha impiegato tanto tem­ po, fatica e ingegnosità nella speranza di farlo crollare; è come se egli avesse apprestato un esercito nel campo di battaglia sbagliato. Che la verificabilità delle proposizioni senza riferimento temporale non abbia nulla a che fare con il momento in cui vengono pronunziate è proprio quello che ci dovremmo aspettare, dato che la verificabilità è una questione di significato. Una proposizione va compresa in riferimento alle esperienze che occorrono per verificarla. Si può tuttavia convenire che il fatto che una proposizione sia significante, non dipende dal momento in cui viene pronunziata. Una proposizione può essere significante an­ che se, di fatto, non esiste mai, nel corso del tempo, un evento o un'entità cui essa si riferisca. Se mai c'è una cosa di cui è convinta la maggior parte dei filosofi contemporanei è il fatto che esiste una differenza tra il significato e il rife­ rimento di un termine. Se si dimostrasse che Cesare non è mai esistito, le proposizioni che si intendono riferite a Ce­ sare non diventerebbero prive di significato: le proposi­ zioni false non sono prive di significato, come non lo sono le proposizioni immaginarie. Comprendiamo Amleto tanto facilmente quanto Giulio Cesare. Posso dire che la nascita della diciassettesima figlia della novantaseiesima moglie di Cesare è celebrata una volta ogni seicento anni dagli zocco­ luti produttori di birra del Libano e questa proposizione,

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falsa quant'altre mai, è tuttavia significante e, in partico­ lare, anche verificabile. Certamente il predicato « è verifi­ cabile » non va limitato solo alle proposizioni vere; sarebbe particolarmente controproducente il fatto che l'essere vera fosse per una proposizione condizione necessaria dell'es­ sere significante; come faremmo infatti a sapere se una pro­ posizione è significante, se non ci fossimo prima accertati che è vera? E come possiamo sapere se una proposizione è vera se non sappiamo prima che cosa significa? Per le proposizioni al tempo passato, potremmo dire che sono significanti, o verificabili, solo se sapessimo prima a cosa si riferiscono realmente. Quindi attribuir loro significato presupporrebbe la conoscenza del passato. La significanza, intesa come verificabilità, è indipen­ dente dal valore di verità, dalle relazioni di riferimento e dal momento in cui le proposizioni vengono pronunziate. Ma se per significanza intendiamo verificabilità, resta il problema di come possiamo comprendere il significato del­ le proposizioni temporali. Quali esperienze verificano il fat­ to che ciò di cui stiamo parlando è passato? Questo è il problema che abbiamo trovato in Lewis, e in generale nei pragmatisti, come nel fenomenismo; si tratta del proble­ ma della definizione in termini di esperienza del tipo di informazione contenuto esclusivamente nelle parti tempo­ rali delle proposizioni, una volta che ne abbiamo sottratto il « contenuto fattuale». Non possiamo fare a meno di sentire qui il fascino della posizione kantiana, secondo cui il tempo non è un dato, ma una forma dell'esperienza, una sua pre-condizione. Gli insuccessi in cui ci siamo continua­ mente imbattuti ci riportano alle famose difficoltà che Witt­ genstein tenne in tanta considerazione nel Tractatus. Co­ me possiamo introdurre nel linguaggio la relazione tra il linguaggio e ciò cui esso si riferisce? Se il « riferirsi a » è una relazione, possiamo introdurla nel linguaggio solo in­ troducendovi i suoi termini, e ciò distrugge la relazione tra il linguaggio e il mondo. Il riferimento non è parte del linguaggio, ma le parti del linguaggio costituiscono uno dei termini della relazione di riferimento. Analogamente l'as-

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serire una proposizione non fa parte della proposizione as­ serita. Il pragmatismo, come il fenomenismo, è un tenta­ tivo di assorbire la totalità della realtà nell'esperienza o nel linguaggio. Ciò che abbiamo sperimentato come un continuo insuccesso è di fatto un limite di tale prospettiva. A questo proposito, abbastanza stranamente, si potrebbe arrivare a dire che, dopo tutto, i tempi non fanno parte delle proposizioni che enunciamo; essi potrebbero invece essere considerati come modi per asserire che una certa proposizione, è, era o sarà vera. Questo equivarrebbe a dire che la verità di una proposizione non ne fa parte. Ma qui la difficoltà è che i tempi riappaiono nelle espressioni « è vera», « era. vera» e « sarà vera». Resta allora da compiere un'analisi su di essi: un esistenzialista direbbe che essi registrano il modo in cui siamo nel mondo del tempo. Resta ancora un punto. In questa discussione ho accet­ tato l'identificazione tra significanza e verificabilità e ho mostrato che forse una parte della nostra comprensione di una proposizione riguarda il fatto di conoscere le espe­ rienze che la verificherebbero. Ayer ha detto che una pro­ posizione relativa a un evento, se può essere verificata in linea di principio nel momento in cui l'evento accade, può essere sempre verificata. Ma questo presuppone che le pro­ posizioni relative al passato debbano essere tali da poter essere verificate da un testimone dell'evento in questione. Temo che questa sia una concessione troppo grande; infatti la maggior parte e forse i più importanti tipi di proposi­ zioni che si incontrano negli scritti di storia, forniscono descrizioni di eventi, secondo le quali quegli eventi non possono essere stati testimoniati. Il fratello del Petrarca ne testimoniò l'ascesa sul Ventoux; gli storici potrebbero dire che facendolo, il Petrarca inaugurò il Rinascimento. Ma suo fratello non poteva testimoniare questo fatto. Dif­ ficilmente avrebbe potuto considerare l'evento sotto questo aspetto, non perché i suoi sensi facessero difetto, ma per­ ché non poteva in quel momento comprendere tale descri­ zione, a meno che egli non sapesse che cosa sarebbe acca-

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duto in futuro e anche che cosa gli storici avrebbero detto del significato di ciò che egli vide. Quali esperienze avreb­ be potuto verificare per lui, in quel momento, la proposi­ zione «il Petrarca inaugura il Rinascimento»? È difficile dirlo: direi piuttosto che per quanto abbia significato ades­ so, opportunamente coniugata al passato, tale proposizione sarebbe stata pressoché priva di senso nel momento in cui si verificò l'evento cui si riferisce. A rigore non vi sono esperienze che verifichino questa proposizione se qui, per verifica, intendiamo l'esperire ciò cui la proposizione si rife­ risce secondo la descrizione fornita dalla proposizione stes­ sa. Allora la verificabilità non è un criterio adeguato di significanza, almeno per queste proposizioni storiche. La loro importanza filosofica è dunque questa: se esi­ stono descrizioni vere di eventi secondo le quali quegli eventi non possono essere testimoniati, il fatto che non riusciamo ad esserne testimoni non ha la minima inferenza su questa classe di descrizioni. Infatti anche se potessimo essere testimoni di quegli eventi, non potremmo verificarli secondo queste descrizioni. Con ciò l'analisi generale delle proposizioni sul passato è stata appena iniziata.

Capitolo quinto

Linguaggio temporale e scetticismi temporali

Volendo sostenere lo scetticismo sulle proposizioni che si intendono riferite al passato, è difficile lasciarsi intimo­ rire dalla considerazione che esse sono significanti e verifi­ cabili in linea di principio. Si potrebbe dire che la loro si­ gnificanza è fuori discussione, nella misura in cui è una condizione per l'intelligibilità stessa della posizione scetti­ ca. Dopo tutto, le proposizioni immaginarie sono signifi­ canti anche se sono false e quelle che costituiscono un ro­ manzo storico sono dello stesso tipo di quelle che costi­ tuiscono un'adeguata opera storica. Lo scettico intende pro­ prio sfidarci a distinguere tra le due classi di proposizioni. Immaginiamo che vengano mescolati libri di storia e ro­ manzi storici ( o meglio romanzi di qualunque genere} e che poi ci si chieda di distinguerli attraverso criteri, suppo­ niamo, interni ai libri stessi o alle proposizioni che li co­ stituiscono: non ci aiuta la semplice etichetta «libro di sto­ ria» e neppure la presenza della parola «storia» nel titolo. Un romanziere può premettere ad un roman à clef la solita sconfessione che tutti i suoi personaggi sono inventati e che le somiglianze con situazioni reali e persone reali sono pu­ ramente casuali; un altro potrebbe scrivere «tutto ciò che dico è vero; Dio mi giudichi!». Tuttavia, il primo libro può essere vero e il secondo frutto di pura fantasia. Oppure uno potrebbe scrivere, lasciandosi trasportare dalla propria immaginazione, una mera invenzione, scoprendo successiva­ mente, con orrore, che è sacrosanta verità. Parliamo di co­ se che diventano vere, ma possiamo altrettanto facilmente parlare di cose che sono diventate vere, come gli eventi che accadono, per cosi dire, prima che siano state fatte le as-

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serzioni che li descrivono, nel caso in cui colui che parla non pensi affatto di star dicendo cose vere. Allo scettico non interessano comunque le invenzioni che diventano vere, quanto piuttosto la storia, o ciò che passa per storia, che risulta falsa. Egli sostiene che non possiamo dire se risulta tale oppure no. Ci sarebbe difficile distinguere tra i libri cosI mescolati, con un criterio simile a quello cui si richiamava Hume, quando cercava di distinguere i ricordi dalle immagini: infatti i romanzi hanno nel complesso mol­ ta maggiore vivacità delle opere di storia, per cui il crite­ rio quasi estetico della relativa mancanza di vivacità sem­ bra in qualche modo insufficiente ad attestare la verità di una narrazione. Il fatto è naturalmente che non possiamo, a prescinde­ re da particolari casi ( che interessano principalmente i logici), distinguere le proposizioni vere da quelle false solo attraverso un esame della superficie, per cosI dire, della proposizione. La verità infatti riguarda la relazione tra le proposizioni e ciò che ne costituisce il riferimento, di qua­ lunque cosa si tratti. Lo scettico, pensando che occorra ri­ portarsi in modo indipendente a ciò cui le proposizioni si riferiscono per vedere, con un esame diretto, se risultano vere, concluderà che non abbiamo la possibilità di ripor­ tarci a ciò cui le proposizioni storiche si intendono rife­ rite, per stabilire se siano vere o false. Dunque non pos­ siamo saperlo. In realtà abbiamo delle testimonianze evi­ denti su cui fondare le nostre inferenze sul passato, ma, pensando ancora alla necessità di un esame diretto, lo scet­ tico obietta che non abbiamo alcuna possibilità di scoprire in modo definitivo se le nostre inferenze sono connesse col fatto. Dunque, ancora una volta, non possiamo saperlo. A questo proposito è difficile che intervengano questioni di significanza, anche se il pragmatismo e il fenomenismo potrebbero essere in certo modo considerati come tenta­ tivi di aggirare uno scetticismo di questo ( o di altro) tipo. Se li rifiutiamo dobbiamo replicare alla forza argomentati­ va dello scetticismo. È certo che nel sollevare le sue critiche lo scettico può

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difficilmente richiamarsi al fatto che ci troviamo a una cer­ ta distanza di tempo dall'evento. Per esempio non può di­ re che non sappiamo che E è accaduto perché E è passato; non possiamo infatti asserire che E è passato senza pre­ supporre proprio quello che evidentemente mettiamo in di­ scussione. Se mai risulta qualcosa dalle discussioni prece­ denti, sappiamo che una proposizione temporale presuppo­ ne la verità di una proposizione senza riferimento tempo­ rale. Dire che E è passato significa allora presupporre già la verità di una proposizione che afferma che l'evento (in senso atemporale) ha luogo nel momento t, e che t pre­ cede il momento presente. Ma se ammettiamo che l'e­ vento E sia accaduto, che cosa può ancora sostenere lo scettico? Non possiamo dire nello stesso tempo che E è passato e che non sappiamo nulla di E, poiché sappiamo che è passato: ciò va al di là di quello che lo scettico do­ vrebbe concedere. Indicare il motivo per cui non possiamo esaminare E (in quanto passato) significa prendere per cer­ ta almeno una proposizione sul passato, cioè che E è già accaduto e che non se ne può essere testimoni. Ma se conce­ diamo tanto, è chiaro che alcune asserzioni sul passato sono legittime, anche se non possiamo essere testimoni di ciò cui si riferiscono: dunque, che cosa si deve concludere? Si­ mili considerazioni ci dicono che uno scetticismo sul pas­ sato, che presupponga proprio ciò che nega si possa dimostrare, è uno scetticismo di trascurabile interesse filo­ sofico. Ciò è ancor piu vero se teniamo presenti le consi­ derazioni esposte nel paragrafo finale del capitolo preceden­ te, secondo cui alcune fra le piu rilevanti descrizioni che si forniscono degli eventi passati sono tali che non pos­ siamo in nessun caso esaminare direttamente gli eventi cui si riferiscono, secondo le modalità che esse prevedono. Lo scetticismo lascia intatte le regole del nostro lin­ guaggio relative al significato, puntando invece contro le regole del riferimento; esso non dice che esistono cose di cui non sappiamo nulla, ma si chiede se esista un riferi­ mento per quello che diciamo o se abbiamo modo di sa­ pere che esiste. Lo scetticismo trae la sua forza dal fatto

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di lasciare l'esperienza esattamente come si trova, senza cambiare nulla; esso si chiede solo se l'esperienza sia re­ lativa a qualcosa. E poiché ciò cui l'esperienza (o il lin­ guaggio) va riferita non fa parte dell'esperienza (o del lin­ guaggio), l'esperienza (o il linguaggio) rimane intatta. Uno scetticismo relativo al passato lascierebbe intatto tutto, lascierebbe tutte le tecniche per provare le asserzioni sto­ riche cosi come sono e porrebbe domande che tagliano alla base queste tecniche e che superano nello stesso tempo la loro capacità di risposta. E poiché solo con tali tecniche possiamo rispondere a interrogativi sul passato, queste do­ mande scettiche sul passato non possono avere risposta, il che non significa che lo scetticismo sia inattaccabile, quan­ to piuttosto che il problema dello scetticismo relativo alla storia non può essere risolto dalla storia stessa. Tuttavia lo scetticismo ci rivela qualcosa sulla storia, seppure sol­ tanto un suo limite, quindi la filosofia, che si occupa dei limiti, può motivatamente prenderlo in esame. L'argomento secondo cui, per quanto ne sappiamo o possiamo saperne, il mondo può essere stato creato ex ni­ hilo cinque minuti fa, pone prima di tutto la questione di quale differenza faccia per noi il fatto che sia esistito qual­ cosa prima di allora. L'argomento suppone infatti che le cose sarebbero proprio come sono e che ci comporterem­ mo proprio come ci comportiamo, anche se il mondo in cui manteniamo questo comportamento avesse appena cin­ que minuti. Per esempio, avremmo tutti i ricordi che di fatto abbiamo, pur essendo essi per la maggior parte - tut­ ti quelli che pretendono di riferirsi ad eventi accaduti pri­ ma di cinque minuti fa - falsi 1• Gli eventi che ci sembra 1 Ci si può opporre in modo sofistico alla supposizione che esistano ricordi falsi. Se quello che sostengo di ricordare non è accaduto, sem­ plicemente non lo rammento, per cui non ne ho il ricordo. Di conse­ guenza è analiticamente vero che se a ricorda E, E è effettivamente acca­ duto. Può essere cosi, ma ciò sposta soltanto il problema: la questione è ora di sapere quali tra quelli che sembrano essere ricordi lo sono effet­ tivamente. È questo il problema al quale lo scettico vuol negare la pos­ sibilità di una risposta, che sia fondata, precisamente, su un semplice esame dei nostri ricordi apparenti. Ma allora, quale alternativa resta?

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di ricordare non sono mai accaduti; ma poiché essi costi­ tuiscono i nostri ricordi e sono considerati tali, non fareb­ be differenza se fossero in realtà tutti falsi. Continue­ remmo a considerare come nostri genitori le stesse per­ sone di prima, anche se a rigore tutte le persone al mondo, tranne i pochi appena nati, avrebbero esattamente la stes­ sa età. Resterebbero tali le differenze stilistiche tra le ope­ re d'arte che ci circondano, anche se Carcassona e Delfi avrebbero la stessa età di Levittown, e la Merode Alterpie­ ce non sarebbe piu antica delle Demoiselles d'Avignon. Le rocce conterrebbero fossili, i bronzi avrebbero la patina del­ l'antichità, vi sarebbero calzature fuori uso e pentole rotte: dovunque avremmo «segni di passatità». Ai pranzi di be­ neficenza vi sarebbero oratori nel pieno dei loro prolissi discorsi e i loro ascoltatori sarebbero stanchi proprio come se fossero stati a sentirli per ore. In particolare, poi, gli storici continuerebbero a fare il loro lavoro: in un archivio vecchio di cinque minuti uno storico dell'età di cinque mi­ nuti esaminerebbe minuziosamente documenti vecchi cin­ que minuti e trarrebbe inferenze su eventi mai accaduti. Non c'è, anzi non c'è stato, nessun passato da cui poter trarre inferenze, ma questo fatto non ha alcuna influenza sul loro comportamento, dato che essi pensano che ci sia stato un passato. Ma se questa loro supposizione è sbagliata e tutto quello che fanno non ne viene influenzato, che bi­ sogno c'è di concepire un passato reale? Che differenza fa se esso è esistito oppure no? Secondo la descrizione fatta, non vi è alcuna differenza. Non vi è differenza, per esempio, per quanto riguarda il continuare a vivere con persone che sentiamo di cono­ scere da anni, ma che di fatto non abbiamo mai visto pri­ ma: il marito torna dall'ufficio da sua moglie, dopo averla lasciata «questa mattina», ma lei non ha alcuna difficoltà nel riconoscerlo. Come scrive H. H. Price: :B chiaro che non si può esaminare ciò di cui i ricordi vogliono essere ricordi. In ogni modo, spero che non venga frainteso l'uso che faccio dell'espressione « falso ricordo».

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«Quel che importa... non è ciò che il mio passato realmente è stato o anche se ne ho avuto uno; sono solo i ricordi che ho qui e ora che importano, siano essi veri o falsi. Riconosco qual­ cosa qui e ora come rosso. In realtà stiamo supponendo che in precedenza io non abbia mai visto niente di rosso. Ma che cosa importa questo fatto? Per quanto essi siano erronei, ho ancora tutti i miei ricordi e tra essi vi sono ricordi di cose rosse. Ciò è sufficiente per farmi riconoscere la cosa che ho davanti» 2•

Consideriamo in questo contesto le macchine pensanti che vengono fornite di «memorie» sulla base delle quali so­ no in grado di eseguire certi compiti. Eseguiti tali compiti il dispositivo della memoria della macchina è esaurito e vi vengono introdotte nuove memorie. La macchina non ha mai avuto esperienza di nessuna cosa cui la memoria si ri­ ferisce, ma da un punto di vista pragmatico ciò non com­ porta nessuna differenza. Essa usa le proprie memorie nel­ lo stesso identico modo, sia che siano vere sia che siano false. A questo proposito, potremmo pensare che il mondo sia stato creato cinque minuti fa e che sia stato fornito di memorie, per cosf dire, o di cose che funzionino esattamen­ te come memorie. In esso vi sono, per esempio, delle bi­ blioteche, vi sono copie del libro del Gibbon con note che rimandano ad altri libri, anch'essi contenuti nella biblio­ teca. Cosf possiamo fare dei controlli sul Gibbon, elimi­ nare i punti contrastanti, fornire ricostruzioni diverse dalle sue, basate su altri documenti che vengono citati e cosf via. Facciamo tutto ciò proprio come se fosse esistito un im­ pero romano che declinò e cadde, infine, al tempo di Cola di Rienzo. Ma un tale impero non è esistito. Ciò nono­ stante il lavoro procede. La distinzione tra memoria e immaginazione è corri­ spondente a quella tra storia e invenzione. Ma in un mondo come quello di cui stiamo parlando ( che potrebbe facilmen­ te essere proprio il nostro mondo) tali distinzioni sarebbero per la maggior parte prive di fondamento. I nostri storici, essi stessi ignari, scriverebbero laboriose invenzioni. Tut2 H. H. Price, Thinking and Experience, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1953, p. 84.

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t�via distingueremmo ancora tra storia e invenzione, come tra memoria e immaginazione, proprio come di fatto fac­ ciamo. Un bambino potrebbe sostenere di ricordare di aver visto ieri un orso, e sua madre potrebbe dirgli che egli si è solo immaginato di aver visto un orso. Forse riesce a convincerlo, ma se il mondo esiste da soli cinque minuti, la sua memoria non risale oltre. La cosa che può farci dire che la madre ricorda mentre il bambino immagina, è che l'affermazione della madre si accorda con !'«evidenza» ac­ cessibile, mentre quella del bambino no. La spiegazione della madre è coerente, mentre quella del bambino non lo è: si può allora dire che è tale coerenza a fornirci il cri­ terio di verità, per cui consideriamo false le cose che non si accordano con quello che accettiamo. Ma si potrebbe dire che questo è proprio il modo in cui noi operiamo: ren­ dere coerenti le cose, accettare le proposizioni che si accor­ dano con quanto è già stato accettato prima, rifiutare quel­ le che non si accordano. Nel caso che accettiamo questo punto di vista, osserviamo che adesso risulta naturale dire: le asserzioni che si intendono riferite al passato sono in ef­ fetti, per quanto concerne la loro significanza conoscitiva, regole per prevedere il risultato della ricerca storica. Ac­ cettiamo o rifiutiamo le proposizioni storiche secondo che ci portino ad un'ulteriore evidenza: un documento ci porta dal Colosseo, di cui possiamo ora avere esperienza, al Pa­ lazzo Farnese, che egualmente possiamo ora esperire, e qui troviamo le pietre mancanti dal primo. La proposizione «la famiglia Farnese prese delle pietre dal Colosseo per co­ struire il proprio palazzo» serve a sistemare organicamente i due gruppi di pietre. È certo che non può esistere il pro­ blema di confrontare quest'asserzione con ciò cui essa è re­ lativa, se non fa differenza che esso sia esistito o no. L'una e l'altra possibilità sono compatibili con la ricerca storica: troviamo le pietre mancanti. Ma forse il mondo è stato creato cinque minuti fa, con certe pietre del Palazzo Far­ nese che corrispondono a certi buchi del Colosseo. A proposito dell'argomento secondo cui il mondo po­ trebbe essere stato creato cinque minuti fa, ciò che mi tur-

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ba profondamente è il fatto che ogni cosa resterebbe pro­ prio com'è, cioè come sarebbe se il mondo avesse l'età che gli attribuiamo. Quindi non è tanto il fatto di non riuscire a dimostrarne la falsità, quanto piuttosto il fatto che pare essere indifferente che esso risulti vero o falso. Ma allora la concezione che esso intende contrastare pare molto meno importante di quanto si potrebbe ovviamente pensare, poi­ ché, se si può abbandonare lasciando ogni cosa com'era, sembra difficile che possa avere un ruolo molto signi­ ficativo nel nostro schema speculativo generale. E se l'argomento scettico raggiunge solo questo risultato, ot­ tiene moltissimo: è molto importante infatti mostrare che una concezione, cui prima si attribuiva rilievo, ne ha sicu­ ramente pochissimo. Non voglio dire che non ne risulte­ rebbero differenze di ordine psicologico; è chiaro che qual­ cosa verrebbe meno nella vita degli uomini, supponendo seriamente che non vi sia stato passato. Gli storici, forse, sarebbero scarsamente motivati a seguitare, come fanno ora, nel loro minuzioso esame delle prove evidenti, ecc., se le loro asserzioni non potessero riferirsi a niente. Non avrebbe neppure molto senso mettere insieme prove di fat­ to contro gli imputati di crimini che non potrebbero mai essere stati tramati e dei quali essi non potrebbero effetti­ vamente essere colpevoli, anche se ogni cosa «quadrasse» in modo tale che, se vi fosse stato un passato, diremmo che essi sono colpevoli. Forse vi sarebbero grandi differenze di ordine psicologico, ma qui - potrebbe insistere lo scet­ tico - si ha un ulteriore esempio della grande importanza che gli uomini attribuiscono a ciò che, in ultima analisi, potrebbe «per quanto essi ne sanno» risultare un'inven­ zione. Come, per esempio, il loro credere in un dio. L'argomento non può produrre alcuna differenza nella nostra vita, ma presenta un elemento di stranezza e se po­ tessimo identificarlo saremmo in grado di scoprirne l'erro­ re. Si può cominciare in tal senso a considerare, per il con­ trasto che ne risulta, la supposizione simmetrica che il mondo potrebbe essere annientato di qui a cinque minuti. La prima considerazione da fare è che tale supposizione

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non può essere ritenuta ovviamente scettica; la proposizio, ne che non vi sarà futuro non sembra uniformarsi al tipo di quelle secondo cui non vi è stato alcun passato, non esi­ ste il mondo esterno o non esistono, forse, altre menti. Il fatto che pare verosimile che il mondo scompaia improv­ visamente, mentre non è verosimile che esso sia apparso improvvisamente, non è forse tanto facile da spiegare; ma tale supposizione, per quanto pessimistica, non sembra scettica ed è una di quelle che abbiamo quasi imparato ad accettare normalmente. Una ragione per cui non sembra filosoficamente paradossale può essere il fatto che essa, a differenza della sua simmetrica, non entra in contrasto col nostro concetto di riferimento - un'asserzione «intorno» al futuro non sembra avere lo stesso tipo di riferimento di un'asserzione intorno al passato o al presente - e neppu­ re con l'uso comune dei termini temporali. Per esempio, risulta strano supporre che tutti al mondo, tranne pochi appena nati, abbiano esattamente la stessa età, cioè cinque minuti e che questa sia l'età della maggior parte delle cose esistenti. Ma non risulta altrettanto strano supporre che tutte le persone, comunque giovani o vecchie, abbiano an­ cora esattamente cinque minuti di vita ( esclusi quei pochi che possono morire prima): le lave ardenti di Pompei in­ ghiottirono giovani e vecchi senza distinzione. Inoltre, non è cosi strano supporre che Levittown e Carcassona ro­ vinino assieme proprio tra cinque minuti e che tutte le cit­ tà rimangano ancora in piedi per questo stesso periodo di tempo, quanto lo è invece supporre che esse siano finora esistite per lo stesso periodo di tempo, cioè esattamente per cinque minuti. Possiamo ancora facilmente supporre che nessuno abbia discendenti, tranne alcuni abbastanza fortunati cui nascano figli tra pochi minuti, anche se è diffi­ cile pensare che nessuno, abbia avuto antenati, a meno che non si sia nati da pochi minuti. Vi è qualcosa, ma non è consueto, che è in relazione col futuro nello stesso modo in cui la memoria lo è con gli eventi passati, per esempio, la precognizione. Ma intanto non pare strano (in larga parte perché le asserzioni precognitive suonerebbero esse stesse

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strane) supporre che tutti gli eventi, che si prevede avven­ gano dopo i prossimi cinque minuti, di fatto non avven­ gano - anche se è molto strano supporre che nessuno de­ gli eventi che, secondo quanto ricordiamo, hanno avuto luogo prima di cinque minuti fa, abbia realmente avuto luogo. In conclusione non è affatto strano supporre falsi tutti i libri che pretendono di raccontare la storia dei pros­ simi cento anni, poiché, prima di tutto, ve ne sono pochi, se mai ve ne sono, e, in tal caso, ci aspettiamo che per loro natura siano falsi. Ma è strano supporre che tutti i libri che intendono presentare la storia degli ultimi cento anni siano falsi, poiché vi sono moltissimi libri di questo tipo, che per loro natura ci aspettiamo siano veri. Si può continuare all'infinito a moltiplicare asimme­ trie e dissonanze, ma sembra chiaro che la possibilità che non ci sia futuro non implica nessuna delle revisioni con­ cettuali imposte dalla possibilità che non vi sia stato pas­ sato. Non voglio dire che se prendessimo seriamente la pri­ ma possibilità non ne rimarremmo influenzati; sarebbe un colpo terribile alle speranze entusiastiche, alle idee, alle ambizioni e ai progetti. Ci terrificherebbe quanto la pro­ spettiva di una morte improvvisa. Non ci interessa molto il fatto che vi sia stato un tempo in cui non esistevamo, quanto ci interessa invece il fatto che vi sarà un momento in cui non esisteremo: sarei terrorizzato alla notizia che non mi restano da vivere che cinque minuti mentre, al con­ trario, rimarrei solo imbarazzato alla notizia che sono vis­ suto per soli cinque minuti. Ciò mi colpisce infatti dal pun­ to di vista teorico, ma non da quello pratico e potrei certo dire: che differenza c'è, dopo tutto? Invece la supposizio­ ne corrispondente sul futuro mi turberebbe dal punto di vista pratico e non da quello teorico, per cui dovrei essere molto stoico per dire: che differenza c'è, dopo tutto? Que­ sto fatto è difficile da accettare, ma facile da credere, men­ tre il contrario, per motivi non ancora chiariti, è facile da accettare, ma difficile da credere. Ora, non basta registrare il fatto che certe supposizio­ ni sono strane, che conducono alle tensioni concettuali che

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siamo riusciti a rivelare, mostrando che tensioni corrispon­ denti non nascono da una supposizione simmetrica. È ne­ cessaria una spiegazione e mi sembra abbastanza facile spie­ gare, almeno in modo approssimativo, il fatto che siamo in grado di adattare la supposizione che non vi sia futuro ai nostri comuni modi di pensare e di parlare e che pos­ siamo tranquillamente tollerare l'idea che il mondo e il modo in cui lo concepiamo rimarrebbero identici, anche se l'universo cessasse di esistere esattamente tra cinque minu­ ti. Ciò si spiega in parte per il fatto che, innanzi tutto, non pensiamo che il futuro abbia qualche effetto sul presente e che il presente dipenda causalmente dal futuro, poiché gli effetti non precedono nel tempo le loro cause. Al con­ trario, per usare proprio termini causali, il presente è in larghissima misura effetto del passato. Almeno questi fatti, se sono tali, sono generalmente creduti veri ed essi si ri­ flettono certamente nel linguaggio che adoperiamo per de­ scrivere il mondo. Proprio l'applicazione di certi termini e certe espressioni agli oggetti presenti comporta logica­ mente il riferimento a certi oggetti ed eventi passati, cau­ salmente in relazione con l'oggetto cui il termine o l'espres­ sione si riferisce. O meglio, dividiamo le espressioni e i termini del nostro linguaggio in tre classi, i membri di cia­ scuna delle quali sono comunemente applicabili a oggetti ed eventi presenti: a) i termini che si riferiscono al pas­ sato; b) i termini temporalmente neutri; c) i termini che si riferiscono al futuro. Per ora mi limiterò a discutere le clas­ si a) e b ). Per termine relativo al passato intenderò un termine la cui corretta applicazione a un oggetto o evento presente comporta logicamente un riferimento a qualche precedente oggetto o evento, che può essere o no causalmente relazio­ nato a quello cui il termine si riferisce. Inoltre, limiterò la mia discussione ad oggetti ed eventi causalmente relazio­ nati cui facciano riferimento i termini che si riferiscono al passato. Un termine temporalmente neutro applicato a un oggetto presente non fa riferimento a oggetti o eventi pre­ cedenti o susseguenti. Consideriamo adesso tre distinti og-

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getti 0-1, 0-2 e 0-3, nelle rispettive descrizioni temporal­ mente neutre «è un uomo», «è una macchia lucida bian­ castra» e «è un oggetto cilindrico di metallo». I criteri per applicare questi termini sono specificati in rapporto a certe proprietà evidenti dei tre oggetti, nel senso che con un semplice esame diretto si può dire se questi termini si applicano realmente o no all'oggetto in questione. Consi­ deriamo ora le tre espressioni «è un padre», «è una cica­ trice» e «è un cannone collocato qui da Francesco I dopo la battaglia di Cérisoles nel 1544» come riferite, nell'or­ dine, agli stessi oggetti. 1) Il termine «padre» è temporalmente ambiguo poi­ ché uno dei suoi usi è temporalmente neutro: ci richiamia­ mo a criteri essenzialmente sociologici quando lo applichia­ mo a qualcuno, ma questo non è l'uso primario. Qualcuno può essere, in senso temporalmente neutro_, «padre», ma noi potremmo ancora avere bisogno di sapere se è real­ mente il padre dell'individuo verso cui ha il comportamen­ to socialmente appropriato di padre. Come sappiamo, uno · può non essere padre in senso sociologico e tuttavia esserlo nel senso primario, come Talleyrand era padre di Dela­ croix, anche se non sostenne mai il ruolo di padre per De­ lacroix. Per essere padre nel senso primario bisogna che, circa nove mesi prima della nascita di un essere umano, l'individuo cosI chiamato ne abbia fecondato la madre. Na­ turalmente qui la parola «madre» non è usata nel senso temporalmente neutro di «madre per», ma secondo l'uso riferito al passato di «madre di», cioè nell'uso secondo cui la donna cosI chiamata ha realmente messo al mondo l'in­ dividuo di cui essa è madre, nel senso in cui Giocasta era madre di Edipo, ma non fu mai, o non sempre, madre per Edipo. Chiamare correttamente qualcuno padre nel senso primario implica logicamente il riferimento a un evento precedente, causalmente connesso al presente secondo prin­ cipi noti. Soltanto con un esame diretto, non si può dire se 0-1 è padre nel senso primario; naturalmente si può in­ ferire che 0-1 è un padre sulla base di altre proprietà di

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0-1, che si possono accertare con un semplice esame di­ retto. 2) Il predicato «è una cicatrice» non è temporalmente ambiguo. Se 0-2 non è stato causato da una ferita, sem­ plicemente non è una cicatrice, è soltanto simile a una ci­ catrice. Quindi descrivere qualcosa come una cicatrice im­ plica logicamente un riferimento a qualche evento prece­ dente che stia in una relazione causale evidente con l'og­ getto cosi descritto. Se le macchie lucide biancastre doves­ sero manifestarsi spontaneamente come stimmati sul corpo di una persona, verrebbero descritte come simili a cicatrici, ma non come cicatrici. «Simile a una cicatrice» è un'espres­ sione temporalmente neutra a meno che non la intendiamo come una descrizione riferita negativamente al passato, se­ condo cui la macchia non sarebbe stata causata da una fe­ rita. In questo senso «simile a una cicatrice» differisce da «padre per», poiché la seconda espressione non fa riferi­ mento positivo o negativo al passato. Colui che è padre per x può essere o non essere padre di x. 3) La terza descrizione fa ovvio riferimento a un even­ to passato e se non ci fosse stato un tale evento passato la stessa descrizione sarebbe falsa o leggendaria, come «la ru­ pe posta qui dai Titani dopo la loro vittoria su Urano». La sola differenza interessante tra questo caso e gli altri due è che non esistono leggi causali che mettono in relazio­ ne i cannoni di St.-Paul de Vence con le azioni dei monar­ chi francesi del sedicesimo secolo. È vero che si potrebbe affermare che il cannone deve essere stato messo qui da qualcuno, ma di fatto non è neppure chiaro se il cannone sia stato messo qui: potrebbe essere stato lasciato qui. Que­ sto determina naturalmente se esso deve esser chiamato monumento per la vittoria o memento della vittoria. Mi sembra che i predicati temporalmente neutri siano logicamente indipendenti dai predicati che si riferiscono al passato e infatti ho cercato di definirli in questo modo. Ma non penso di stare qui fornendo delle leggi: è chiaro che qualcuno può essere un uomo e non essere un padre, che qualcosa può essere una macchia biancastra e lucida e non

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essere una cicatrice oppure può essere un oggetto cilindrico di metallo e non essere un cannone, tanto meno un canno­ ne messo H da Francesco I dopo averlo usato. Al contrario, i predicati che si riferiscono al passato non sono indipen­ denti dai predicati temporalmente neutri: niente che non sia un uomo può essere un padre, ecc. Le relazioni di com­ posizione tta le due classi di predicati sono complesse e i problemi filosofici sono analoghi a quelli che nascono a pro­ posito delle relazioni tra le altre classi di termini, per esem­ pio, tra «è un movimento del braccio» e «è un gesto di addio», oppure tra «1è bello» e «è rosso». Ma ora, mi im­ porta unicamente sottolineare che vi è un'interessante analogia tra i termini temporalmente neutri e i termini che si riferiscono al passato, da una parte, e le proposizioni pri­ ve di tempi e quelle dotate di tempi, dall'altra. Si è visto infatti che una proposizione temporale presuppone, per es­ sere vera, una proposizione atemporale; analogamente, per­ ché un predicato relativo al passato sia vero per un oggetto presente, deve essere vero, per tale oggetto, qualche altro termine relazionato temporalmente neutro. Possiamo falsi­ ficare «è un padre» dimostrando che non vi si può appli­ care «è un uomo», ma non possiamo esser sicuri dell'ap­ plicazione di «è un padre» semplicemente perché vi si ap­ plica «è un uomo». Il nostro linguaggio è saturo di predicati che si riferi­ scono al passato e si può plausibilmente supporre che il concetto di Lewis dei segni di passatità (pastness) sia ba­ sato sulla non insolita tendenza filosofica a scambiare le ca­ ratteristiche strutturali del nostro linguaggio con le carat­ teristiche strutturali del mondo e, in particolare, a fare as­ segnamento su qualche proprietà misteriosamente assente dalle cose come ciò a cui dobbiamo riferirci quando usiamo questa parte del nostro linguaggio. Ma quando usiamo i predicati che si riferiscono al passato non ci riferiamo alle proprietà presenti delle cose, anche se in un certo senso l'applicazione di questi termini agli oggetti presenti dipen­ de dal fatto che essi abbiano certe proprietà che possiamo verificare sulla base di un semplice esame diretto. Ci rife-

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riamo piuttosto a certi oggetti ed eventi passati: la casa in cui George Washington dorm{ sembra simile a una casa normale e non c'è nessuna proprietà speciale che possiamo cercare per stabilire che vi dorm{ il primo presidente degli Stati Uniti. Se volete, non esistono simili proprietà o al­ meno non ne possiamo osservare nessuna con un esame di­ retto. I criteri per applicare questi termini sono alquanto piu complicati ed è ancora piu complicato decidere se tali termini sono veri per gli oggetti cui sono applicati. In ogni caso, poiché i predicati relativi al passato, quando sono veri per gli oggetti presenti, ci informano su eventi e oggetti che non sono presenti, è abbastanza chiaro che non possiamo trasporre completamente le proposizioni che usano tali ter­ mini in un linguaggio temporalmente neutro. Infatti la completa trasformazione di una proposizione S in una pro­ posizione T, oltre a mantenere il valore di verità di S, deve fornire la stessa informazione che S esprime. Se la non trasformabilità di un gruppo di termini in un altro gruppo di termini è il nostro criterio per distinguere i livelli di lin­ guaggio, allora le due classi di termini sono in questo caso di livelli diversi, anche se si applicano alle stesse cose, cioè a 0-1, 0-2 e 0-3. Si può dire che l'ipotesi considerata che non vi sia sta­ to un passato lascia certamente inalterato il livello di lin­ guaggio che fa uso soltanto delle espressioni temporalmen­ te neutre. Tutti questi predicati sono veri per gli oggetti presenti sia che vi sia stato sia che non vi sia stato un pas­ sato, ma è difficile dire lo stesso dei predicati dell'altro li­ vello. Non si tratta semplicemente del fatto che tutte le as­ serzioni che si intendono riferite al passato, nell'ipotesi che non vi sia stato un passato, sarebbero false, ma anche del fatto che sarebbero pure false moltissime proposizioni rela­ tive al presente e precisamente quelle che assegnano predi­ cati che si riferiscono al passato ad oggetti presenti, cioè ad oggetti che continuerebbero ad avere tutte quelle proprietà la cui presenza è accertabile con un semplice esame diretto. I due gruppi di termini di cui ci occupiamo sono formati da coppie di termini equivalenti in estensione, nel senso che

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ciascun termine di una coppia designa esattamente lo stesso oggetto che designa l'altro termine della coppia. Ma un ele­ mento di ciascuna coppia presuppone per la sua applicazio­ ne qualche fatto relativo al passato. Dunque, ogni cosa ri­ marrebbe proprio com'è, però non vi sarebbero padri, né cicatrici, né cannoni lasciati dove si trovano o postivi da Francesco I. Ma non sarebbe sparito niente: vi sareb­ bero ancora tutti gli oggetti normalmente designati da que­ sti termini, cioè uomini, macchie lucide e bianche, oggetti cilindrici e metallici. Inoltre, non sarebbero false soltanto tutte le proposizioni che impiegano predicati falsi per gli oggetti cui sono applicati, ma sarebbero false anche tutte le leggi causali presupposte nell'uso e nell'applicazione del­ la maggior parte dei nostri predicati relativi al passato; op­ pure, se non fossero false, esse sarebbero prive di senso. Passando ora ai predicati che si riferiscono al futuro, la cosa principale che ci deve colpire è la difficoltà di tro­ vare degli esempi comuni, se intendiamo per simili predi­ cati quelli che si riferiscono a qualche evento o oggetto fu­ turo. Consideriamo il predicato «è un futuro padre» appli­ cato al marito di una donna incinta. Certamente, di solito ci aspettiamo che nasca un bambino e che l'uomo diventi padre se «tutto va bene». Ma di fatto applichiamo il pre­ dicato «futuro padre» sulla base o di predicati temporal­ mente neutri o di predicati che si riferiscono al passato, che supponiamo validi per l'individuo cosf designato. Al­ lora x è futuro padre nel senso che x ha fecondato y e y non ha ancora partorito. Non occorre nient'altro: se x morisse prima della nascita del bimbo, o se y morisse o se abortisse, nondimeno x sarebbe un futuro padre. Non occorre che egli poi diventi padre; la sua qualifica di «futuro padre» non dipende logicamente da ciò che il fu­ turo porta. Inoltre, la nostra aspettativa che x diventi pa­ dre, se egli è di fatto un «futuro padre», è basata su leggi causali che sono state valide e quindi i predicati che si ri­ feriscono al futuro, nel modo in cui potremmo comune­ mente usarli, sarebbero dipendenti dalla nostra capacità di usare i predicati relativi al passato, poiché, per quanto

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riguarda le leggi causali, il futuro «deve assomigliare se non riflettere» il passato. Comunque il punto principale è che quelli che sembrano predicati relativi al futuro sono per la maggior parte facilmente trasponibili in un linguaggio relativo al passato o temporalmente neutro e che la loro applicazione a individui presenti non richiede il verificarsi di nessun ulteriore evento. Cosi se il mondo dovesse finire tra cinque minuti, nessuna proposizione che facesse uso di tali predicati nella descrizione degli oggetti presenti sarebbe falsa. Se è cosi, allora la verità di una proposizione relativa al presente non presuppone mai la verità di una proposi­ zione relativa al futuro, il che spiegherebbe perché non troviamo nessuna difficoltà nell'adattare al nostro schema concettuale l'ipotesi che, quanto prima, potrebbe non es­ serci affatto un futuro. Naturalmente vi sono delle descrizioni degli eventi pas­ sati che, se fossero state fornite nel momento in cui gli eventi stessi hanno avuto luogo o anche prima di allora, avrebbero dovuto usare predicati relativi al futuro. Ora noi possiamo riferirci a Piero da Vinci quale padre dell'uomo che dipinse la Gioconda: averlo chiamato cosf quando egli era futuro padre di Leonardo, avrebbe portato come con­ seguenza logica che suo figlio dipingesse la Gioconda. Que­ sta sarebbe stata la descrizione di un oggetto presente la cui verità sarebbe dipesa dal futuro, una descrizione, inol­ tre, tale da non poter esser in alcun modo ovvio trasfor­ mabile in espressioni relative al passato o temporalmente neutre. Infatti il dipinto in questione non era ancora esi­ stito e la descrizione ci avrebbe dato, se vera, una infor­ mazione genuina sul futuro e quindi non sarebbe stata tra­ sformabile in espressioni prive di questa parte d'informa­ zione. Ma quando si pensa alla singolarità del fatto che venga fatta un'asserzione simile, a confronto del fatto che non sarebbe affatto strano pensare alla possibilità che non vi sia un futuro, si ha un'idea - spero - di ciò che ho voluto dire prima, quando ho detto che i filosofi sostanzia­ listici della storia parlano del futuro come si parla di so-

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lito del passato. La discussione di tale stranezza deve esse­ re riservata a una successiva analisi. Naturalmente nessuna di queste considerazioni tocca l'argomento scettico che, per quanto ne sappiamo o possia­ mo sapere, il mondo potrebbe aver avuto inizio cinque mi­ nuti fa e che una simile affermazione sarebbe almeno logica­ mente possibile. Non lo tocca perché l'uso dei termini che si riferiscono al passato presuppone certe tesi riguardanti la causalità e l'argomento scettico è proprio un attacco a cer­ te concezioni della causalità, attacco che, in certo modo, ri­ sale almeno a Hume. Il punto di vista di Hume era che le cause non implicano logicamente i loro effetti e che non siamo in grado di dedurre dalle proprietà evidenti di una certa cosa i suoi effetti, né da una descrizione completa di qualche altra cosa le cause che essa deve aver avuto. Il no­ stro concetto di causa è costruito in base a certe associa­ zioni relative a ciò che di fatto è accaduto, ma non vi è alcun elemento condizionante, almeno logicamente, per queste associazioni e la presenza di una data cosa è logica­ mente compatibile col fatto che abbia avuto cause diffe­ renti da quelle che di fatto ha avuto, o, in questo caso, col fatto di non avere avuto alcuna causa. Hume scrive: «Quando escludiamo tutte le cause, le escludiamo realmente tutte, e non supponiamo già che il niente o l'oggetto stesso sia la causa dell'esistenza: nessun argomento, quindi, si può tirare dall'assurdità di queste supposizioni per provare l'assurdità di quell'esclusione. Se ogni cosa dovesse avere una causa, ne segui­ rebbe che, escluse le altre cause, dovremmo accettare l'oggetto stesso o il niente come causa. Ma il punto in questione è proprio questo: di sapere se ogni cosa debba avere, o no, una causa; e però è norma di ogni buon ragionamento non considerar ciò come concesso» 3•

In un certo senso la mia discussione ha solo esteso l'idea humiana che da una descrizione completa delle pro­ prietà evidenti delle cose non possiamo dedurne le cause. La mia estensione consiste nel mostrare l'irriducibilità dei predicati relativi al passato a quelli temporalmente neutri. 3

David Hume, Trattato sull'intelligenza umana, cit., p. 130.

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Finora ho tentato solo di dimostrare questo, unitamente al fatto che tutti i predicati naturali che sembrano riferirsi al futuro sono di fatto sostituibili con termini temporalmente neutri o relativi al passato, il che spiega la facilità con cui possiamo accettare l'ipotesi che non vi sia futuro e la dif­ ficoltà che comporta l'ipotesi che non vi sia stato passato. Ma questo non prova ancora che vi sia qualcosa di sbaglia­ to nell'ipotesi che non vi sia stato passato, se l'assumiamo come tale. Infatti l'uso dei predicati che si riferiscono �l passato presuppone che le cose del mondo presente abbia­ no avuto delle cause nel passato ed è precisamente questo che è in discussione. È difficile poter rovesciare un argo­ mento con la pura presupposizione di ciò che esso attacca. Fondamentalmente esso attacca l'idea che vi sia una con­ nessione logica tra eventi e cose, e questo lo rende logica­ mente possibile: «Non vi è alcuna impossibilità logica nell'ipotesi che il mondo esista solo da cinque minuti e che sia sorto tal quale com'è ora, con una popolazione che «ricorda» un passato del tutto irreale. Non esiste alcun legame logico necessario tra avvenimenti che hanno luogo in momenti diversi, quindi nulla di ciò che accade ora, o che può accadere in futuro, può infirmare l'ipotesi che il mondo ha cominciato ad esistere da soli cinque minuti. Ecco perché i fatti che costituiscono ciò che si chiama conoscenza del passato sono logicamente indipendenti dal passato; essi possono venire interamente scomposti in contenuti presenti che potreb­ bero teoricamente essere ciò che sono anche se nessun passato fosse esistito» 4•

La sottolineatura di «si chiama» può essere cosi spie­ gata: il contesto «...conosce a ... » - dove a denota ciò che si vuole - implica che a esiste 5• Se, allora, si potesse cor­ rettamente dire di conoscere il passato, ciò implicherebbe la realtà del passato e sarebbe incompatibile asserire che si conosce il passato e insieme asserire che ciò che si conosce 4 Bertrand Russell, An Analysis of Mind, trad. it. cit., p. 139. s Cioè quando « conosce» regge come accusativo il nome di una cosa; dico allora che questa espressione « implica l'esistenza». Analoga­ mente dico che l'espressione « a sa che p» « implica la verità», perché ne segue logicamente la verità di p.

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non è mai esistito. Lo stesso ragionamento può valere per le cicatrici: date le attuali regole d'uso, dire che qualcuno ha una cicatrice comporta che egli abbia subito una ferita. Analogamente, nel caso della conoscenza, dobbiamo parlare piuttosto di ciò che è chiamato conoscenza (ma che non è tale o almeno può non esserlo), proprio come, nel caso del­ le cicatrici, possiamo piuttosto parlare di quelle che sono chiamate cicatrici, ma che non sono (o possono non esse­ re) cicatrici. Si è detto abbastanza, credo, per mostrare che non possiamo analizzare «è una cicatrice» in un linguaggio temporalmente neutro, in «contenuti presenti»; sarebbe dunque meglio dire che se l'ipotesi che Russell avanza è corretta, ogni descrizione di macchie lucide e bianche come cicatrici sarebbe falsa 6• Ma, analogamente, ogni descrizio­ ne di cognizioni come conoscenza del passato sarebbe pari­ menti, e per simili ragioni, falsa. In breve, il mondo sareb­ be proprio com'è. Ma sarebbe differente il nostro linguag­ gio per descriverlo. Credo che queste osservazioni abbiano raggiunto il ri­ sultato positivo di mostrare che il nostro concetto di pas­ sato è connesso con quello di causalità e che il nostro con­ cetto di causalità è connesso col nostro linguaggio. Facen­ do un po' di psicologia, sarei portato a supporre che i bam­ bini comincino ad usare un linguaggio temporalmente neu­ tro e che acquisiscano poi nello stesso tempo, per cosf dire, l'uso della terminologia relativa al passato, un concetto di causa e un concetto di passato, tre cose che si apprendono in modo interdipendente. Quindi è del tutto naturale che ogni attacco al nostro concetto di passato implichi nello stesso tempo un attacco al concetto di causa e all'uso dei termini che si riferiscono al passato. «Come tutte le ipotesi scettiche - ha scritto Russell - questa è logicamente sostenibile, ma priva di interes6 Ma si osservi che « è chiamato cosi e cosi» è un predicato tem­ poralmente neutro come, per esempio, si può dire, grosso modo, che « sembra essere cosi e cosi » è neutro rispetto all'esistenza. Esso non impegna come « è cosi e cosi». « X è chiamato padre» è compatibile con « X non è padre».

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se» 7• Abbiamo invece visto, penso, che essa ha, al contra­ rio, un considerevole interesse. Resta da vedere se sia o no logicamente sostenibile 8• Mi sembra possibile fornire una certa analisi del ruolo sostenuto dalle proposizioni che si intendono riferire al passato, che l'ipotesi che non vi sia stato passato serve solo a drammatizzare. Grosso modo, l'analisi è la seguente: le proposizioni che si intendono ri­ ferite agli oggetti e agli eventi passati non devono, come abbiamo visto nelle precedenti discussioni, essere propria­ mente intese come relative alle prove evidenti addotte a loro sostegno; esse non possono neppure essere completa­ mente analizzate come insiemi di proposizioni osservative, poiché la verità di qualunque insieme di tali proposizioni non riesce a essere una condizione necessaria per la verità o falsità delle proposizioni che si intendono riferite al pas­ sato. Nondimeno tali proposizioni potrebbero svolgere, nella ricerca storica, una funzione analoga a quella soste­ nuta, nella scienza, dalle proposizioni che impiegano i co­ siddetti termini teorici e che hanno con le proposizioni osservative lo stesso tipo di relazione che hanno le propo­ sizioni considerate. Si potrebbe ora dire che il loro ruolo è principalmente quello di servire a organizzare l'esperienza presente. Se quest'analisi fosse esatta, non nascerebbe la questione se siano o no indipendentemente relative a qual­ cosa; quindi l'ipotesi della non esistenza del passato sareb­ be irrilevante e sarebbe servita solo ad attirare la nostra attenzione sul concetto sbagliato che avevamo della fun­ zione di queste proposizioni nell'economia della conoscenza umana. Un termine come «Giulio Cesare» ha nel lavoro storico un ruolo analogo a quello che «elettrone» e «com­ plesso di Edipo» hanno rispettivamente in fisica e in psica­ nalisi. Le proposizioni che impiegano questi ultimi termini 7 Bertrand Russell, An Analysis of Mind, trad. it. cit., p. 160. 8 « Ma al contrario l'ipotesi che il mondo abbia cominciato ad esi­ stere cinque minuti fa, insieme con tutta la sua popolazione dotata della memoria di un passato interamente irreale, è affai;cinante - ma insoste­ nibile». R. J. Butler, Other Dates, in « Mind», LXVII (1969), n. 269, p. 216.

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non comportano né si fondano sul fatto che essi denotino o no entità reali, sebbene inosservabili. Nell'uno e nell'al­ tro caso essi avrebbero infatti lo stesso ruolo nell'organiz­ zazione dell'esperienza. Si sa bene che esiste il problema, che è stato risolto in modo approssimativo e inaccettabile, di eliminare i termini teorici in favore di un vocabolario composto solo di termini osservativi 9• Ma non siamo auto­ rizzati, usando proposizioni che li includono, ad ammet­ tere entità non osservabili: non ha importanza il fatto che tali entità esistano o no. Il loro ruolo essenziale non è influenzato dal problema della denotazione. Se le consi­ deriamo come strumenti, non occorre che tali proposizioni ammettano valori di verità, cosf come gli altri strumenti scientifici, per esempio le provette chimiche. E come le provette, queste proposizioni sono indifferentemente va­ lide per scienziati che non concordino su questioni di on­ tologia - un disaccordo che, se volete, è un lusso intel­ lettuale, che non ha alcun peso sull'uso del vocabolario teorico nell'organizzazione dell'esperienza. Chiamerò quest'analisi la concezione strumentalistica delle proposizioni sul passato. Lo strumentalismo è soltan­ to una delle possibili posizioni assunte a proposito dei ter­ mini teorici. Una discussione completa dei problemi impli­ cati va al di là dell'obiettivo di questo lavoro e appartiene propriamente alla fìlosofìa della scienza. Nessuno strumen­ talista, che io sappia, ha mai esteso la sua analisi preferita delle teorie alle proposizioni storiche 10, ma sembra natu­ rale arrivarvi in questo contesto, anche se solo allo scopo 9 La bibliografia su questo argomento è considerevole. Per le mi­ gliori recenti discussioni, dr. specialmente C. G. Hempel, The Theore­ tician's Dilemma, in Concepts, Theories, and the Mind-Body Problem·, a cura di Feigl, Scriven e Maxwell, Minnesota Studies in the Philosophy of Science, vol. Il, University of Minnesota Press, 1958, e Israel Schef­ fler, Prospects of a Modest Empiricism, in «Review of Metaphysics», X (1958), nn. 3 e 4. 10 Con l'eccezione di Peirce i cui punti di vista sulla filosofia della storia sono già stati con cura studiati. Egli scrive: « Quando dico che un'inferenza riduttiva non è una questione di credenza, mi trovo di fronte alla difficoltà che esistono certe inferenze che, considerate dal punto di vista scientifico, sono indubbiamente delle ipottsi e che pure

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di neutralizzare la forza dell'argomento scettico e, inciden­ talmente, di mettere in rilievo una chiara analogia tra la scienza teorica e la storia - un'analogia spesso non consi­ derata nelle discussioni che pongono a confronto scienza storica e teorica. Quest'analogia ci sarà utile in seguito, qualunque posizione assumiamo, in ultima analisi, sullo strumentalismo storico inteso come analisi generale delle proposizioni storiche. Penso comunque che lo strumentalismo, come analisi parziale e funzionale delle proposizioni storiche, sia quasi certamente esatto. Per quanto riguarda l'organizzazione del presente, le proposizioni storiche svolgono effettivamente un ruolo paragonabile a quello delle proposizioni teoriche. Troviamo per esempio due drammi che mostrano sorpren­ denti somiglianze stilistiche. Postulando che siano stati scritti dallo stesso autore, li organizziamo in un solo cor­ pus. Similmente troviamo evidenti discrepanze stilistiche in due opere che si pensa formino un unico corpus; se po­ stuliamo che siano dovute a differenti autori, riorganizzia­ mo in questo modo le opere letterarie esistenti. Procedia­ mo allora alla ricerca di ulteriori parti dell'universo pre­ sente, per sostenere queste differenti organizzazioni e met­ tiamo cosi, ancora una volta, certe parti dell'universo pre­ sente in relazione con altre. Possiamo considerare, penso senza grande difficoltà, queste organizzazioni come teorie: possiamo parlare della teoria del singolo autore e della teoria del doppio autore, e ammettere che tali teorie ser­ vano, inter alia, a organizzare l'universo osservabile. Osserviamo comunque che secondo questa concezione non si esclude la possibilità che una teoria sia vera oltre che utile. Mentre guido, noto che gli strumenti indicano sono perfettamente certe da quello pratico. Per esempio: l'inferenza che Napoleone Bonaparte è vissuto effettivamente agli inizi di questo secolo, ipotesi che adottiamo per spiegare la concorde testimonianza di un centinaio di scritti biografici, i documenti storici pubblici, le tradizioni, e innumerevoli monumenti e reliquie. Sarebbe certo pura pazzia aver dubbi sulla sua esistenza ». Nondimeno essa è « abbastanza al di fuori dei compiti della scienza... È extra-scientifica ». C. S. Peirce, Collected Papers, cit., V, § 589.

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che l'automobile è surriscaldata e la batteria non carica: due dati rossi. Avanzo la teoria che si sia rotta la cinghia del ventilatore, poiché ciò spiegherebbe il fatto che la bat­ teria non è carica e l'auto surriscaldata. Questo serve senza dubbio a organizzare i dati che leggo sul cruscotto, ma è una teoria che si riduce a un fatto, quando mi accorgo, guardando sotto il cofano, che la cinghia del ventilatore è rotta 11• È semplicemente la mancanza di accesso al passato chè impedisce alle teorie storiche di ricadere in tal modo nei fatti? Infatti non ci si può non accorgere che una diffe­ renza tra le teorie storiche e i diversi tipi di teorie scienti­ fiche con cui le abbiamo messe in relazione consiste nel fatto che, mentre le cose cui si riferiscono queste ultime, se mai fossero delle entità, sarebbero singolarmente diffe­ renti dalle entità incontrate nella comune esperienza osser­ vativa, le entità postulate dalle teorie storiche sono esatta­ mente come quelle della vita di ogni giorno. Nessuno, cioè, ha osservato gli atomi, gli elettroni, le funzioni-psi, i geni, le idee sovraccariche di energia libidica, ma la vita di ogni giorno comprende, tra le altre cose, gli autori. Dunque le teorie storiche fanno uso di termini che hanno chiara ap­ plicazione a cose che sono esperibili nel presente. Non è quindi la differenza tra le entità postulate e quelle che in­ contriamo ogni giorno, ma semplicemente l'inaccessibilità conoscitiva (epistemic) delle entità storiche, che ha facili­ tato l'adito allo strumentalismo storico. Si potrebbe ora obiettare che ho cambiato terreno e che mi sono spostato da considerazioni essenzialmente rela­ tive al concetto di causalità a considerazioni riguardanti es­ senzialmente la conoscenza. Ma l'ipotesi della non esistenza del passato deriva la sua forza dal fatto che evidentemente non abbiamo alcun accesso conoscitivo al passato e quindi nessun modo autonomo di verificarlo. Se l'avessimo, avrem­ mo i mezzi per far ricadere le teorie nei fatti e, nello stesso 11 Cfr. « Le asserzioni teoriche danno una spiegazione dei fatti, ma non mediante un maggior numero di fatti». P. Herbst, The Nature of Facts, in Essays in Conceptual Analysis, a cura di A. Flew, London, Macmillan, 1956.

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tempo, la maniera di confutare empiricamente l'ipotesi del­ la non esistenza del passato. Essa sarebbe allora un'ipotesi empirica e niente di piu e sarebbe soggetta alla falsifica­ zione empirica. Dunque le considerazioni conoscitive non sono certo irrilevanti; anzi, non appena le introduciamo possiamo progettare una strategia per trattare l'ipotesi della non esistenza del passato. Per cominciare abbiamo ripiegato sullo strumentali­ smo 12 come modo di neutralizzare i problemi di riferimen­ to che nascono a proposito di certi insiemi di asserzioni, nel nostro caso asserzioni intorno al passato, i cui referen­ da sono considerati inaccessibili, anche se sono esistiti. Lo strumentalismo si propone di aggirare tutte le questioni di riferimento, mostrando che la presenza o l'assenza del rife­ rimento non ha importanza: ogni cosa resterebbe tale e quale e avremmo soltanto convertito certe proposizioni da asserzioni di fatto a strumenti di organizzazione dell'espe­ rienza e in questa seconda funzione la verità o la falsità sono rese logicamente inappropriate; vi sono soltanto, co­ me direbbe Dewey, «migliori o peggiori» strumenti di questo tipo, essendo questi valori funzione dei rispettivi risultati che due diverse proposizioni danno come strumenti di organizzazione. È possibile inoltre costruire un numero indefinito di scetticismi ad hoc, ciascuno dei quali può essere aggirato da un simile ripiegamento sullo strumenta­ lismo. Supponiamo, per esempio, che venga avanzata l'ipo­ tesi che il mondo termini esattamente cinque piedi oltre ciò che abbiamo a portata di mano 13: che esattamente cin­ que piedi oltre la posizione che occupiamo non vi sia nulla, cosicché le asserzioni deliberatamente relative all'Empite State Building, fatte da uno che si trovi al Centrai Park, 12 Naturalmente non è del tutto giusto considerare lo strumenta­ lismo una specie di rifugio in cui possiamo ritirarci per ribattere l'attacco scettico. Esso è stato originariamente presentato ed è senz'altro normal­ mente difendibile nella sua correttezza come una teoria positiva e non come una spe::cie di rifugio. 13 L'ipotesi è presa da Richard Taylor, The Justification of Memo­ ries and the Analogy of Vision, in « Philosophical Review », LXV (1956), n. 2, p. 198.

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sarebbero false perché non esisterebbe l'oggetto cui fanno riferimento. Parliamo di cose distanti da qui trenta miglia, ma non abbiamo modo di accedervi e si potrebbe quindi dire che adottiamo uno strumentalismo spaziale, evitando cosf i problemi di riferimento, riducendo l'«Empire State Building» a termine puramente teorico, in modo che le proposizioni che lo includono servano a organizzare spazial­ mente i fenomeni accessibili ( osservabili). L'inevitabile difficoltà di tali ipotesi scettiche è la loro assoluta arbitrarietà. Perché si traccia il limite dove lo si traccia e non altrove? 14• Perché si fissa il limite a cinque piedi e non a sei o a quattro? O a sette o a tre? O se, co­ me in questo caso, si vuole affermare che gli oggetti che si trovano cinque piedi al di là di ciò che abbiamo a por­ tata di mano sono inaccessibili, per il fatto che non possia­ mo toccarli e che, per quanto ne sappiamo, non esistono, perché non dire che, al momento attuale, non abbiamo al­ cun modo di sapere se esiste qualcos'altro al di fuori di quello che ora vediamo? Si potrebbe dire che anche se non tocchiamo gli altri oggetti, possiamo toccarli e sapere che esistono. Ma perché allora non possiamo muoverci e toc­ care le cose che ora si trovano cinque piedi oltre la nostra portata? Non si può dire che non esistono e che alla di­ stanza di cinque piedi non vi è piu nulla, perché ciò pone in linea assoluta una petizione di principio: come possia­ mo infatti sapere se a tale distanza vi è qualcosa oppure no? Il fatto è che siamo dove siamo e non a cinque piedi da questo punto; in particolare tocchiamo quello che toc­ chiamo e non altro, cosicché supporre l'esistenza continua­ ta di entità tangibili tra un evento tattile e un altro signi­ fica, se volete, introdurre entità teoriche allo scopo di or­ ganizzare l'esperienza; gli oggetti fisici continui servono a mostrare che anche qui ci siamo ritirati in un nuovo stru­ mentalismo. Dovrebbe allora esser chiaro che queste diffe­ renti ipotesi scettiche cadono abbastanza presto in uno scet14 R. J. Butler, Other Dates, cit., p. 16.

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ticismo fine a se stesso e che il discorso sugli oggetti in ge­ nerale è posto in forma strumentalistica 15• Nelle mie precedenti osservazioni sull'ipotesi della non esistenza del passato ho sottolineato che essa non è perfet­ tamente generale, che non esclude tutte le asserzioni sul passato, ma solo quelle che intendono riferirsi a qualcosa che è esistito o ha avuto luogo prima di cinque minuti fa. Ma ora ho messo in evidenza l'arbitrarietà della specifica­ zione dei cinque minuti. Il limite potrebbe essere stabilito in infiniti altri modi e se tutta la nostra esperienza è com­ patibile con un mondo che abbia cinque minuti è altrettan­ to compatibile con uno che ne abbia sei o sette o quanti si vuole. Se si vuole, tutta la nostra esperienza è compati­ bile con infinite ipotesi, ciascuna delle quali è incompati­ bile con le altre. Ma la giustificazione della specificazione del limite in un modo piuttosto che in un altro, certamente si può ottenere solo mediante un ricorso all'esperienza evi­ dente e, se escludiamo tale ricorso, non vi può essere nes­ suna giustificazione per un'ipotesi piuttosto che per un'al­ tra, per esempio per il fatto che il mondo abbia cominciato a esistere cinque minuti fa, piuttosto che cinque anni o cin­ que secoli fa. Ogni parte discriminante dell'esperienza evi­ dente può essere neutralizzata dall'ipotesi di un periodo di tempo piu breve di quello che essa tende a stabilire. Supponiamo di scegliere proprio l'ipotesi che il mondo abbia cominciato a esistere cinque minuti fa: osserviamo che ciò produce una divisione nella classe delle asserzioni sul passato. Se il mondo è cominciato cinque minuti fa, alcune asserzioni sul passato sono vere o false, cioè quelle relative a quanto è accaduto negli ultimi ( e soli) cinque mi­ nuti 16• Allora, o tutte le altre asserzioni, di cui mancano i referenda, sono false, o non può sorgere il problema della 15 Questo è precisamente ciò che ha fatto Lewis. Tutte le asserzioni che intendono affermare qualcosa sugli oggetti fisici devono essere tra­ sformate in insiemi di proposizioni condizionali implicanti azioni ed esperienze. 16 Quest'asserzione sarebbe inoltre accettata difficilmente anche secondo il criterio strumentalistico, poiché non serve che in misura abba­ stanza modesta a dare un'organizzazione del presente del tutto coerente.

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loro verità o falsità, oppure le questioni di verità o falsità risultano irrilevanti, poiché tali asserzioni hanno lo status di proposizioni teoriche. Continuiamo con lo strumentali­ smo storico e diciamo che alcune asserzioni devono essere analizzate strumentalmente e altre no; queste ultime sono quelle che riguardano ciò che è accaduto in un tempo mol­ to recente. Osserviamo anche che vi sarà una corrisponden­ te divisione nella classe dei predicati che si riferiscono al passato: possiamo ammettere quei predicati relativi al pas­ sato che si riferiscono a eventi e oggetti passati che sono in relazione con oggetti attualmente esistenti e sono acca­ duti o esistiti negli ultimi cinque minuti. Vi sarebbero cos{ uova genuine di tre minuti e non uova che si dicono di tre minuti; vi sarebbero alcuni padri, alcuni ricordi genuini e cosi via. Ma se spostiamo arbitrariamente il punto di inizio indietro o avanti nel tempo, facciamo variare i membri di queste classi; se lo spostassimo abbastanza lontano all'in­ dietro, tutti coloro che sono comunemente detti padri sa­ rebbero veri padri, vi sarebbero ricordi genuini, cicatrici autentiche e, certamente, cannoni realmente collocati da Francesco I. Moltissime asserzioni sarebbero effettivamen­ te relative al passato e non soltanto strumenti utili a orga­ nizzare il presente. Ma se spostiamo il limite sempre piu vicino al momento presente, abbiamo un numero sempre minore di asserzioni e di predicati autenticamente riferiti al passato. Raggiungiamo un punto in cui i soli predicati au­ tenticamente applicabili sono quelli temporalmente neutri e l'unico ruolo lasciato alle asserzioni che si intendono ri­ ferite al passato consiste nell'organizzare i dati del presen­ te. Non vi è posto se non per lo strumentalismo storico. Ma vi sono buone ragioni per non giungere a quel punto, per non portare l'origine del mondo sempre piu vicina fino ad abolire ogni passato, anche quello di cinque minuti? Non esiste nessun ostacolo di natura empirica che possa impedire agli scetticismi temporali, che, come ho detto, sono infiniti, di scivolare in uno scetticismo istantaneo? La risposta è no, poiché nessuno di essi può fondarsi su mi­ gliori prove evidenti di un altro, anche se, come ho indi-

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cato, ognuno di essi ammette alcune genuine asserzioni sul passato. Comunque, il fare questa concessione, dal momen­ to che essi non possono giustificarla, ha scarsa importanza. lo non credo che lo scetticismo istantaneo sia in ultima analisi pienamente sostenibile. In un senso chiaro e anali­ ticamente vero si potrebbe dire che esiste solo il presente, con la conseguenza che il passato non esiste, ma ciò signi­ fica poco piu dell'ovvietà che il passato non è il presente e difficilmente implica la non esistenza del passato. Inoltre, non è detto che quando parliamo del presente, parliamo di un istante. Quando indichiamo qualcosa e diciamo che esi­ ste ora, non affermiamo che la sua esistenza è, per cosi di­ re, limitata all'istante presente, poiché l'istante non ha li­ miti entro cui qualcosa possa esistere. Un istante non è un'unità di durata piu di quanto un punto sia un'unità di estensione. Penso che l'analogo spaziale dello scetticismo istantaneo sia lo scetticismo puntiforme. È difficile comun­ que poter parlare di cose che abbiano un'esistenza punti­ forme. Ciò esigerebbe che un cerchio avesse il centro e la circonferenza coincidenti l'uno con l'altra, il che semplice­ mente gli toglierebbe il carattere di cerchio. Lo scetticismo puntiforme implica che non esiste nulla e questo è scetti­ cismo assoluto. In tal modo anche lo scetticismo istantaneo è appunto uno scetticismo assoluto. Essere una cosa signi­ fica avere un'estensione e una durata; negare o l'una o l'al­ tra significa negare l'esistenza delle cose. Naturalmente accogliamo i risultati recentemente otte­ nuti 17; accettiamo infatti l'importante distinzione di Ryle tra verbi di conseguimento come «vincere» e altri verbi co­ me «correre». Per correre una corsa è necessario del tem­ po, per vincerla no: si vince in un certo momento, ma non durante un intervallo di tempo. Ma il senso della distin­ zione viene meno se tutti i verbi sono verbi di consegui­ mento e certamente bisogna aver fatto una corsa per poter dire che la si è vinta. Inoltre le corse sono vinte da quelli 17 Gilbert Ryle, The Concept of Mind, New York, Barnes & Noble, 1949, trad. it. Lo spirito come comportamento, Torino, Einaudi, 1955, pp. 150-155 e passim.

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che corrono, i quali sono entità e quindi hanno una certa durata: vi sono vincitori istantanei (e ogni vincitore lo è), ma non corridori istantanei. Un istante indica una posizio­ ne temporale, è un mezzo per misurare il tempo, ma non è, io penso, una porzione di tempo, né ha parti temporali. Gli istanti non appartengono alla serie «anno, mese, setti­ mana, giorno, ora, minuto, secondo» - non piu di quan­ to il punto appartenga alla serie «chilometro, metro, centi­ metro». Ciò si può vedere dal fatto che nulla può durare due istanti, anche se può durare due ore, due minuti o due secondi; né qualcosa può estendersi su due punti. Non ci sono punti se non ci sono lunghezze, né istanti se non ci sono durate. In questo senso, allora, il parlare di istanti presuppone le durate, per cui non è possibile assumere uno scetticismo istantaneo e sperare, cosf facendo, di sollevare dubbi sulle durate. Queste considerazioni, se sono valide, implicano l'im­ possibilità di sostenere coerentemente lo scetticismo istanta­ neo. Per quanto posso giudicarne, i miei argomenti non hanno presupposto nulla a proposito della causalità. Se si vuole, si può discutere sulla precisa durata che si attribuisce al mondo, ma non sulla questione se il mondo abbia una durata: proprio per il fatto di essere un mondo, esso deve avere una certa durata; rimane solo da sapere quale. Chi vuole affermare che la durata del mondo è di soli cinque minuti è obbligato a dire, come si è visto, che alcune asser­ zioni sul passato sono vere, quelle i cui referenti cadono entro i limiti temporali che egli ha posto. Ma possiamo chiedergli come fa a saperlo. Da questo problema non può sfuggire, poiché se dice solo che la durata da lui scelta è arbitraria, possiamo bloccarlo con l'istantaneità. Il fatto è che egli non può fare la sua scelta senza ammettere qual­ cosa come prova evidente e se ammette qualcosa, perché non ammette tutto? La questione della durata del mondo è una questione empirica, risolubile in linea di principio e se non è tale perviene allo scetticismo istantaneo che, co­ me stavo dicendo, non può essere sostenuto. Infatti il so­ stenerlo sarebbe autocontraddittorio. Non è possibile par-

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lare di un mondo istantaneo, sarebbe come affermare che vi è stato un passato, ma che non possiamo saperlo. Rima­ ne allora soltanto lo scetticismo assoluto; non mi propon­ go di discuterlo poiché esso non suscita problemi partico­ lari per la filosofia della storia. Penso che questo sia il punto al quale possiamo arri­ vare. Ora, avanzare una ipotesi sull'esatta durata da asse­ gnare al mondo significa essere disposti ad accettare un'evi­ denza empirica che sia a favore di quest'ipotesi e contro le ipotesi concorrenti. Ma il fatto che dobbiamo accettare qualcosa come evidenza empirica di questa proposizione sul passato ci conduce alle soglie del nostro terzo argomento contro la possibilità di riuscire a fare asserzioni vere sul passato. È infatti proprio qui che intervengono gli elemen­ ti relativistici: le asserzioni sul pass·ato devono essere rela­ tive a un corpo di evidenza empirica. Comunque, prima di superare questa soglia, voglio soffermarmi ancora sopra un aspetto del presente argomento. Nella misura in cui riconsideriamo la nostra valutazio­ ne sull'esatta durata da assegnare al mondo, reintegriamo un numero crescente di termini temporali e di quelle che sono accettate come leggi causali. Cosf come stanno le cose, un mondo di cinque minuti è troppo breve perché vi siano delle autentiche cicatrici. Supponiamo allora che occorra un mese perché una normale ferita diventi una cicatrice; sup­ porre che il mondo abbia un mese ci permette di avere delle cicatrici, ma non degli autentici fossili. Per ristabilire l'uso autentico del predicato riferito al passato «è un fos­ sile», bisogna dire che il mondo ha un milione di anni. Piu arretriamo, a minor prova sottoponiamo il nostro schema causale e il nostro vocabolario temporale. Se qualcuno di­ cesse: «supponiamo che il mondo abbia cominciato a esi­ stere cento milioni di anni fa», non si vede come potrem­ mo trovare quest'ipotesi molto scettica o molto interessan­ te dal punto di vista filosofico. Essa ci concede l'intera sto­ ria e buona parte della preistoria; se egli poi aggiungesse «completamente integro in tutte le sue parti», difficilmente ne rimarremmo sconcertati a meno che non sapessimo co-

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Filosofia analitica della storia

m'era il mondo a quel tempo e tale conoscenza non ve­ nisse in urto con le note leggi causali e il vocabolario tem­ porale in uso. Se si suppone che il mondo cosi integro con­ tenesse, diciamo, dei dinosauri gravidi, per accettare tale valutazione dovremmo rivedere qualche concetto causale. Ma quanto piu semplici fossero i contenuti del mondo e meno numerosi i predicati temporali occorrenti per descri­ verlo, meno imbarazzante sarebbe l'idea della sua integrità. Persino il racconto della creazione non richiede che il mon­ do abbia cominciato ad esistere; esso dice solo che il mondo è stato fatto e che sono occorsi sei giorni per rifornirlo adeguatamente. Non vi è nulla di logicamente assurdo nel­ l'idea che il mondo sia stato creato e che sia stato creato da quanto tempo si vuole. Ho solo cercato di mostrare che un'ipotesi di questo tipo, se arbitraria, cade subito nell'as­ surdità. Ma queste ipotesi non sono tutte arbitrarie e solo la possibilità di un sostegno empirico evita che cadano da un punto di vista logico. Con questo possiamo infine rivol­ gerci alla nuova serie di difficoltà che l'ammissione di un'evidenza empirica chiaramente comporta.

Capitolo sesto

Evidenza e relativismo storico

Il relativismo storico, come forma di scetticismo rela­ tiva alla nostra capacità di fare asserzioni vere sul passato, è in netto contrasto con le due forme di scetticismo che ab­ biamo ora considerato. Innanzi tutto esso è stato assunto seriamente e sostenuto attivamente da moltissimi storici militanti, alcuni dei quali molto noti. Nella costruzione del­ la ·sua prospettiva, si richiede manifestamente, a differen­ za degli scetticismi del primo tipo, che qualche asserzione sia effettivamente relativa al passato e, a differenza degli scetticismi del secondo tipo, che vi sia un passato cui tali asserzioni si riferiscono. Sul fatto che esista, o sia esistito, un passato insiste Charles Beard il quale parla di «storia come realtà passata», intendendo con questo «tutto ciò che è stato detto, fatto, sentito, pensato dagli uomini su questo pianeta dal momento in cui l'umanità ha iniziato la sua lunga carriera» 1• Naturalmente non abbiamo diretto ac­ cesso alla storia-come-realtà, ma possiamo riferirci a essa solo indirettamente attraverso l'uso della «storia come re­ gistrazione», vale a dire, documenti, simboli, monumenti, ricordi, o frammenti e parti del mondo presente che stan­ no in determinate relazioni con la storia-come-realtà. Infi­ ne Beard parla di storia-come-pensiero, che è relativa alla storia-come-realtà, ma «informata e delimitata dalla storia come registrazione» 2• Fin qui è chiaro che in questa ana1 Chavles Beard, Written History as an Act of Faith, in « The Ame­ rican Historical Review », XXXIX (1934), n. 2, p. 219. Ristampato in The Philosophy of History in Our Time, a cura di Hans Mayerhoff, New York, Anchor Books, 1959, p. 140. Citiamo da quest'ultima edizione. 2

Ibidem.

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lisi non vi è nulla di straordinario 3: si tratta infatti sem­ plicemente del modo normale di considerare l'attività del­ lo storico. In realtà Beard muove dalla spiegazione comune per sostenere che certi fattori causali, agendo sugli indivi­ dui che cercano di fare asserzioni sulla storia-come-realtà, in qualche modo impediscono loro di fare asserzioni vere ed oggettive. Comunque mi interesserò innanzi tutto solo della parte consueta della discussione di Beard, per poi pas­ sare ai fattori di relatività, sperando di mostrare che essi non sono cosf pregiudiziali come Beard e alcuni dei suoi sostenitori e critici sono stati spinti a credere. Dopo tanto tempo è un sollievo avere a che fare con un punto di vista cosf riposante per le comuni concezioni della storia, un punto di vista che sostiene che dopo tutto siamo logicamente in grado di fare asserzioni sul passato, anziché asserzioni le quali, anche se sono dirette verso il passato, in qualche modo deviano sempre dal loro bersa­ glio e toccano invece il presente o il futuro. I contempo­ ranei di Beard, i pragmatisti, hanno insistito sul fatto che le asserzioni sulla storia-come-realtà devono alla fine esse­ re analizzate come asserzioni sulla storia-come-registrazione, come se i documenti, i monumenti e cosf via fossero posti come una barriera a prova di asserzione tra noi e un pas­ sato che non potremmo nemmeno menzionare. Non sono comunque i documenti che stanno tra noi e il passato, ma essi sono proprio ciò che ci mette in grado di sapere che non potremmo cominciare a delineare il passato senza «re­ gistrazione e conoscenza, autenticate dalla critica e ordinate con l'aiuto del metodo scientifico» 4• Essi procurano i mez3 Sembra che Beard non abbia ritenuto che fosse un modo parti­ colarmente comune di considerare la storia: « Sebbene, a prima vista, questa definizione della storia possa apparire penosa a coloro che hanno scritto qualcosa intorno alla "scienza della storia" e al "metodo scien­ tifico" nella ricerca e nella costruzione storica, essa è di fatto in accordo con il piu profondo pensiero contemporaneo sulla storia ... » (ibidem). Questo è notevole sia per la concezione di Beard secondo cui la sua caratterizzazione è profonda, sia perché la storia, cosi caratterizzata, è in qualche modo incompatibile con qualsiasi uso del « metodo scientifico».

4 Ibidem.

Evidenza e relativismo storico

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zi ma non l'oggetto della ricerca storica. Ronald Butler lo espone sinteticamente: «Quando pretendiamo di conoscere un evento passato, faccia­ mo qualcosa di diverso dal puro valutarne l'evidenza diretta. In tali occasioni non pensiamo alle testimonianze evidenti come a una cortina impenetrabile: pretendiamo di guardare attraverso e oltre il diaframma... Dobbiamo tuttavia analizzare l'espressione "guar­ dare attraverso e oltre il diaframma"» 5•

Certamente si tratta di un concetto difficile da analiz­ zare, in parte almeno poiché - se posso condurre avanti la metafora, che non permette affatto di dire ciò che si vuole - è solo «guardando attraverso e oltre la cortina» che possiamo vedere il diaframma. Fuor di metafora, il co­ gliere qualcosa come testimonianza evidente significa che si è già andati oltre lo stadio del puro fare asserzioni in­ torno ad essa; considerare qualcosa come testimonianza evidente significa già fare un'asserzione su qualcos'altro, e precisamente su ciò di cui essa è assunta come testimo­ nianza evidente. Prende E come testimonianza evidente di O significa vedere E in modo diverso da come lo ve­ dremmo se non avessimo alcuna nozione di O. Allora, il vedere qualcosa come testimonianza evidente è già «guar­ dare attraverso e oltre il diaframma». A proposito delle asserzioni sul passato, considerare una cosa E come prova evidente di una di esse, significa vedere E in una determinata prospettiva temporale. Infat­ ti, solo in riferimento al passato possiamo autorizzare certe descrizioni che facciamo di ciò che vediamo. A un viaggia­ tore tornato da Milano posso domandare se ha visto la Pietà Rondanini di Michelangelo. Questo è un esempio istruttivo poiché, non molto tempo fa, coloro che vedeva­ no l'oggetto che ora viene chiamato cosf non avrebbero detto che essi avevano visto la Pietà Rondanini: fino a po­ chissimo tempo fa si credeva che essa fosse un frammento staccato dal basamento del Palazzo Rondanini a Roma, e coloro che la vedevano, la consideravano tale. Ora, nel5 R. Butler, Other Dates, cit., p. 32.

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l'ambito del vocabolario temporalmente neutro, esistono dei predicati veri di quest'oggetto, compatibili con entram­ be le descrizioni: per esempio, esso è di marmo, misura tanti centimetri nel senso del suo asse maggiore, pesa tanti chilogrammi e cosf via. Parlarne come di una pietra di fon­ dazione significa già fornirle una dimensione temporale e precisamente significa metterla in relazione con una costru­ zione precedentemente eretta. Similmente parlarne come di una statua significa metterla in relazione con un'ope­ ra di scultura compiuta in precedenza. Descriverla come una statua di Michelangelo, o meglio come l'ultima delle sue quattro Pietà conosciute, significa far uso di un predi­ cato temporale abbastanza preciso. Poiché la Pietà non venne considerata come qualcosa per cui questo predicato era vero, essa finf nel basamento del palazzo. Comunque la cosa importante è che designarla in questo modo signi­ fica connetterla col passato, vedere qualcosa di piu di un pezzo di marmo lungo tanti centimetri nel senso del suo asse maggiore. Essere in grado di considerarla come opera di Michelangelo vuol dire avere guardato attraverso e ol­ tre la cortina. Usare il nostro vocabolario temporale, non riducibile, come abbiamo mostrato, a un linguaggio tem­ poralmente neutro, significa trovarsi oltre la cortina. O, se volete, cade cosi la barriera tra il linguaggio riferito al pas­ sato e il linguaggio temporalmente neutro; ma in un lin­ guaggio temporalmente neutro non possiamo nemmeno par­ lare di ciò che consideriamo un'evidenza storica. Se mi si chiedesse una analogia piu stretta, consiglierei di paragonare gli oggetti del mondo attuale a delle parole e il loro uso storico e la loro comprensione al leggere. Non è comune pensare alle parole con cui si scrive una cosa come a una cortina di inchiostro tra noi e il signifi­ cato che esse hanno; se volete, mentre leggiamo, noi ve­ diamo attraverso e «oltre» le parole; infatti non ci occu­ piamo quasi mai delle parole in quanto oggetti fisici, cioè come segni curvi e rotondi di inchiostro asciutto. Credo che esistano tre fondamentali categorie di persone che ve­ dono solo segni quando sono posti dinanzi a un foglio

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scritto: gli analfabeti, coloro che sanno leggere ma non conoscono un alfabeto diverso e coloro che soffrono di un certo disturbo cerebrale. Il contadino siciliano che non considera una certa costruzione di pietre come una torre normanna è storicamente analfabeta: egli non sa che cosa dicono le pietre. Uno studioso di materie classiche, esami­ nando un'iscrizione etrusca, sa già che quei segni signifi­ cano qualcosa, però non sa che cosa significano: egli ha imparato a leggere i segni e, in un certo senso, si occupa in modo anormale dei segni in quanto tali. Non è facile trovare un esempio che si adatti al caso dell'uomo meno­ mato al cervello. L'esempio piu prossimo che riesco a tro­ vare è quello del filosofo che sostiene che non vediamo altro che cose presenti e quindi che non vediamo il pas­ sato, una persona in breve per cui leggere è in qualche modo un'attività incomprensibile. Non vediamo, ora, il passato; vediamo solo ciò che ci sta dinanzi; ma leggere è un'attività di interpretazione e appunto il vedere i se­ gni come parole significa già considerare la necessità di una loro interpretazione. Certamente non possiamo tra­ durre ciò di cui un libro tratta in una serie indefinitamente lunga di asserzioni sulle lettere con cui è stampato, a meno che non estendiamo il nostro concetto di «lettera» e vi in­ corporiamo proprio quei concetti che avremmo cercato di eliminare attraverso una simile traduzione. Proprio in que­ sto senso ho insistito sul fatto che il linguaggio temporale non può essere parafrasato in un vocabolario temporal­ mente neutro. Tornando adesso alla distinzione di Beard, possiamo di­ re che solo in riferimento alla «storia come realtà» si può costituire qualcosa quale «storia come registrazione». Di conseguenza è un falso schermo il chiedersi se sia possibile passare dalla «storia come registrazione» alla «storia come realtà». Infatti considerare qualcosa come «storia come registrazione» significa già aver compiuto questo passag­ gio altrimenti vedremmo soltanto delle cose. Troppo spes­ so le discussioni epistemologiche sulla storia iniziano con un falso presupposto: che siamo tutti temporalmente anal-

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fabeti. Diventa perc10 urgente chiedersi come possiamo passare dal presente al passato. La risposta è che non pos­ siamo. Non possiamo per una semplice ragione logica: in qualsiasi inferenza dai dati presenti a un fatto passato, certamente occorre tra le premesse una regola generale, un principio, una proposizione della forma «se E allora F», dove E si riferisce a un dato presente e F a un evento passato. Il problema sarebbe insolubile se per spiegare tali proposizioni potessimo ricorrere solo a ciò che è presente; infatti non le potremmo comprendere. Comunque le com­ prendiamo abbastanza facilmente e coloro che sanno at­ tribuire significato soltanto a un linguaggio temporalmente neutro, difficilmente possono spiegare questo fatto. Si può insistere, in senso kantiano, sul carattere categoriale del tempo, ma sia ciò esatto o no, penso che di fatto acquisiamo automaticamente il concetto di passato con l'acquisizione del linguaggio, che è pieno di predicati relaLivi al pas­ sato. Altrimenti non comprendo come la storia dovrebbe aver avuto inizio. È stata una grande intuizione quella di Vico di considerare l'inizio del linguaggio coincidente con l'inizio della storia: chi padroneggia il linguaggio non può vivere interamente nel presente, oppure può· farlo solo a prezzo di un particolare sforzo di volontà e, poiché dovrebbe rifiutare un'esistenza temporale piu ric­ ca, vivrebbe nel presente solo in un senso inautentico: grosso modo nel senso in cui Maria Antonietta viveva una vita arcadica al Petit Trianon a Versailles: un caso di mauvaise foi.

Queste considerazioni possono essere esposte in un al­ tro modo: è stato dimostrato, penso definitivamente 6, che non si possono fornire definizioni delle nostre varie distin­ zioni temporali senza fare almeno un tacito riferimento nei definientia, ai concetti temporali già contenuti nei defi­ nienda. Qualcuno, per esempio, potrebbe cercare di defi.ni6 Cfr. il brillante articolo di David Pears, Time, Truth, and Infe­ in « Proceedings of the Aristotelian Society », vol. LVI; ristam­ pato come cap. IX in Essays in Conceptual Analysis, cit.

rence,

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re il passato come ciò che è logicamente possibile ricordare. Ma l'uso della parola «ricordare» nell'espressione definito­ ria fa già un tacito riferimento al concetto di passatità: fa parte del significato di «ricordare» il fatto che ciò che si ricorda è passato; «ricordare», direi, è un termine riferito al passato. Cosf una definizione simile cadrebbe in un cir­ colo vizioso. Analogamente si potrebbe cercare di definire il prese_nte come ciò che di fatto si esperisce 7• Ne consegue che non si può esperire il passato o il futuro. Ma «esperi­ sce» implica una relazione tra un individuo e un experien­ dum, in particolare il fatto che il secondo venga a trovarsi di fronte al primo e ci si può trovare di fronte, nel senso che qui importa, soltanto a qualcosa di contemporaneo. Cosf la nozione del presente è, ancora una volta, già conte­ nuta nell'espressione definitoria. È vero che si potrebbe dire che è logicamente possibile esperire sia il presente che il passato, ma ciò significa, una volta che lo si è analizzato, che si potrebbe avere esperito qualcosa quand'era presente, o che si sarà in grado di esperire qualcosa quando sarà pre­ sente. Il concetto di presente è incluso nel concetto di espe­ rienza, cosi che il fatto che si possa esperire solo il presente è analiticamente necessario. Ammesso questo fatto di ordine logico e ammessa l'identificazione della conoscenza con l'e­ sperienza, diventa difficile comprendere come sia possibile conoscere il passato: il passato fa parte di ciò che non è esperito. Ma se ci domandiamo come possiamo conoscere il passato, dal momento che tutto ciò che esperiamo è il presente, presupponiamo un tipo di esperienza temporal­ mente neutro. Ho dimostrato che ciò è erroneo. Se consi­ derassimo il modo in cui effettivamente esperiamo il mon­ do, l'interrogativo veramente urgente sarebbe questo: se non conoscessimo il passato, come potremmo esperire il 7 Cfr. A.J. Ayer, The Problem of Knowledge, trad. it. cit., p. 160. Considerazioni analoghe valgono, credo, per la sua definizione deittica di « è presente»: « La nozione del presente... può essere definita in ma­ niera ostensiva ... come la classe degli eventi che sono contemporanei a questo, ove questo è un evento che decidiamo di indicare in un mo­ mento dato ».

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mondo presente cosf come lo esperiamo? Infatti, e il no­ stro linguaggio lo mostra, esperiamo sempre il mondo pre­ sente entro un contesto logico e causale che è connesso con gli oggetti e gli eventi passati e che fa quindi riferimento a oggetti ed eventi che non possiamo esperire nel momento in cui esperiamo il presente. Inoltre non vi è nessuna pos­ sibilità di ampliare, per cosf dire, il nostro concetto di pre­ sente, in modo da poterveli includere. Quando Proust espe­ risce la madeleine immersa nel thè, egli non ha esperienza anche di Tante Léonie e di Combray; egli li ricorda con una notevole chiarezza e l'intera forza del passo in cui de­ scrive tutto ciò dipende dal nostro riconoscere che queste cose non sono presenti e non lo saranno mai, che sono ir­ rimediabilmente passate e possono soltanto essere fatte riaf­ fiorare artisticamente. Ma noi non riafferriamo ciò che esperiamo nel momento in cui lo esperiamo: «riafferrare», nello specifico senso proustiano, è logicamente un termine riferito al passato. La sua esperienza della madeleine è un esempio drammatizzato di ciò che accade tipicamente e co­ munemente a coloro che hanno fatto proprio il passato in modo completo. Il suo senso di perplessità, subito dopo aver assaggiato la torta e il thè, a proposito di ciò che essi significano, è, naturalmente, particolare: si tratta di un caso in cui momentaneamente non si riesce a leggere qualcosa che si sa come leggere. Ma, ciò nonostante, questo è un modo di esperire il presente come significativo del passa­ to, anche se non si ·è assolutamente in grado di dire che cosa esso significhi. Di fatto egli ha esperito il presente alla luce del passato senza essere in grado di stabilire, per un momento di difficoltà, una connessione, sino a quando infi­ ne diventa chiaro che «il gusto era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray... quando solevo darle il buongiorno nella sua stanza da letto, mia zia Léonie soleva darmi...». In modo meno personale, na­ turalmente, e senza nessun analogo riferimento ai nostri ricordi, tutti noi potremmo avvertire lo stesso imbarazzo nel guardare i massi di pietra di Stonehenge: abbiamo espe­ rienza della nostra incapacità di leggere, ma sappiamo, nel-

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lo stesso tempo, che vi è un messaggio da decifrare. Que­ sto significa esperire il presente alla luce del passato. Vi sono due esercizi indispensabili al filosofo analitico della storia. Il primo consiste nel cercare di immaginare come sarebbe l'esperienza del presente se non si sapesse assolutamente nulla del passato. Il secondo consiste nel cercare di immaginare come sarebbe l'esperienza del pre­ sente, se conoscessimo anche il futuro. Di quest'ultimo par­ lerò in seguito; ma riguardo al primo si può almeno dire che la nostra esperienza del presente dipende in grandissi­ ma misura dalla nostra conoscenza del passato. Si ha ne­ cessariamente esperienza del presente in modo diverso, a seconda dei differenti passati che si riesce a mettere in rela­ zione con esso. Proust è pieno di esempi che lo illustrano: vi è per esempio l'incapacità di M.me Sazarin di esperire M.me de Villeparisis come una donna anziana, poiché la ri­ corda piena di fascino fatale, nel momento in cui esercitava un immenso potere erotico sopra suo padre; Marce!, inve­ ce, che non ha accesso a questo passato, non riesce ad avere esperienza di M.me de Villeparisis se non come di una donna anziana, a proposito della quale difficilmente possono sorgere delle considerazioni erotiche. Sottolineo questo fat­ to prima di rivolgermi ancora una volta a Beard. Non solo i fattori presenti tendono a distorcere le nostre asserzioni sul passato, ma anche i fattori passati tendono a distorcere la nostra esperienza del presente, cosf che, parlando libera­ mente, si potrebbe quasi dire che Marce! e M.me Sazarin non esperivano la stessa persona. Come vedremo, è tanto difficile ricavare il passato dal presente quanto collegare il futuro col presente. La Pietà Rondanini fu ricavata da una colonna greca: questa, prima della sua trasformazione, po­ teva essere considerata una colonna antica. Ma chi l'avreb­ be considerata, per esempio nel XIV secolo, come la colon­ na dalla quale Michelangelo avrebbe scolpito la Pietà Ron­

danini?

Beard e in genere i relativisti storici si lamentano dei vantaggi che godono gli scienziati e che non sono validi 11

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per gli storici. Per esempio, egli dice che, a differenza dello scienziato, lo storico non può osservare direttamente la ma­ teria di cui tratta: «egli non la può vedere oggettivamente come il chimico vede le sue provette e i suoi composti» 8• Questa è una strana lamentela: la nostra riconosciuta inca­ pacità di osservare direttamente il passato non è un difetto della storia stessa, ma una carenza che è preciso scopo del­ la storia colmare. Analogamente non è una carenza della scienza medica il fatto che la gente si ammali, ma piutto­ sto lo stato di carenza dell'esistenza umana rappresentato dalla malattia è precisamente ciò per cui abbiamo la scien­ za medica; non ne avremmo bisogno, se fossimo sempre sani. Il fatto che le città siano distanti l'una dall'altra non va considerato come un'imperfezione dei nostri sistemi di trasporto; invece, se si può dire cosf, è proprio per colma­ re questa carenza che si predispongono i sistemi di traspor­ to. Proprio perché non abbiamo direttamente accesso al passato facciamo storia: la storia deve a ciò la sua esisten­ za. È questo che la rende possibile, anziché impossibile o non necessaria. Ma, tant'è ovvio, non occorre nemmeno dimostrare il fatto che gli scienziati non abbiano accesso alla loro mate­ ria, in generale, attraverso l'osservazione diretta. È pre­ cisamente per il fatto che ciò di cui spesso si occupano non è osservabile, che gli scienziati fanno ricorso a ela­ borate teorie tecniche, e ciò che essi possono osservare non è in relazione con gli argomenti di cui trattano, piu di quanto lo sia ciò che possono osservare gli storici (meda­ glie, manoscritti, frammenti di vasi) con la loro materia. 8 Charles Beard, That Noble Dream, in « The American Historical Review », XLI (1935), n. 1, pp. 74-87, ristampato in The Varieties of History, a cura di Fritz Stern, New York, Meridian Books, 1956, p. 323 (citiamo da quest'ultima edizione). Si osservi che in questo contesto la parola « obiettivamente » è contrapposta all'espressione « vede attraverso un mezzo », e quindi vuol dire, grosso modo, « percepisce direttamente ». Piu precisamente Beard vuol dire che gli scienziati non devono inferire proposizioni relative al soggetto di cui trattano sulla base di ciò che percepiscono, poiché il soggetto viene precepitc- come tale. Del tutto diverso è il caso della storia.

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L'inosservabilità della materia trattata può essere dovuta a ragioni diverse: forse è una verità logica il fatto che non possiamo osservare il passato, mentre è soltanto contin­ gente il fatto che non possiamo osservare gli elettroni o i geni. Ma il fatto che i motivi siano di ordine logico in un caso e fattuale nell'altro non comporta nessuna differenza nella pratica comune. Vi possono essere branche della scienza in cui la materia trattata è osservabile: per esem­ pio ricordiamo determinate parti della chimica, della geo­ logia o della zoologia. Ma queste vengono considerate scienze molto elementari, a paragone, diciamo, della fisica atomica e il fatto che le scienze piu altamente sviluppate riguardino specificamente cose inosservabili, mostra, penso, che l'inosservabilità della materia trattata non è uno svan­ taggio insormontabile per la scienza o che la possibilità di accedervi direttamente non è un vantaggio decisivo. Per­ ciò, quando Beard si lamenta del fatto che «gli storici de­ vono "vedere" la realtà della storia attraverso il mezzo del­ la documentazione» e che «questo è il suo unico ricorso», non dobbiamo esser troppo compassionevoli. Questa è una caratteristica troppo comune del lavoro scientifico, per por­ re problemi speciali alla storia. Ho mostrato che senza ri­ ferirsi alla storia-come-realtà gli storici non potrebbero neanche considerare i documenti come tali. Analogamente, nella scienza, senza fare assegnamento su concetti riguar­ danti entità non osservabili, gli scienziati non potrebbero interpretare certe tracce su lastre fotografiche, o in camere a gas, o sugli oscilloscopi. Anche questo è un fatto ovvio. Occorre una considerevole preparazione teorica prima di riuscire a cogliere gli aspetti rilevanti di tali segni. Ottica­ mente possiamo essere pari allo scienziato, ma non vedia­ mo tuttavia le cose come le vede lui 9• È indubbiamente il caso dei documenti storici: se non siamo in grado di leg9 Mi riferisco qui, naturalmente, all'importante discussione sul « ve­ dere come» e sulla « cecità per l'aspetto» in L. Wittgenstein, Philo­ sophische Untersuchungen, trad. it. cit., II, XI. Cfr. anche N. R. Han­ son, Patterns of Discovery, London, Cambridge University Press, 1958, specialmente cap. I.

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gere questi documenti, non occorrono lenti, ma prepara­ zione storiografi.ca. Vi sono differenze chiare e ovvie tra la storia e la scienza, ma esse non stanno qui. Beard mette in luce un altro contrasto tra storia e scien­ za, che ci porta nel cuore delle principali posizioni relati­ vistiche. Il contrasto dipende da un senso differente dato della parola