Non c'è più la Sicilia di una volta [5 ed.] 8858126734, 9788858126738

L'immagine della Sicilia è legata a tanti capolavori della letteratura e del cinema di ieri. Ma leggere la Sicilia

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Non c'è più la Sicilia di una volta [5 ed.]
 8858126734, 9788858126738

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i Robinson / Letture

Di Gaetano Savatteri nelle nostre edizioni:

I siciliani

Gaetano Savatteri

Non c’è più la Sicilia di una volta

Editori Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli, per la lingua italiana www.laterza.it Prima edizione febbraio 2017

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Edizione 5 6

Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2673-8

Indice

Introduzione  La Sicilia non esiste L’isola da mangiare

vii

3

Trinacria glam

22

Gli antisiciliani

33

Il presente del passato

52

Sex and the Sicily

68

Le metropoli

90

Arancine di riso

119

Approdi 144 Strani nostrani

158

Il nuovo Grand Tour

182

Esperanto siculo

200

Era di maggio

226

Epilogo  A futura memoria

249

Ringraziamenti 253 Indice dei nomi

255 ­­­­­V

Introduzione

La Sicilia non esiste

Un’isola non abbastanza isola. Giuseppe Antonio Borgese

Non ne posso più di Verga, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Guttuso. Non ne posso più di vinti; di uno, nessuno e centomila; di gattopardi; di uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. E sono stanco di Godfather, prima e seconda parte, di Sedotta e abbandonata, di Divorzio all’italiana, di marescialli sudati e baroni in lino bianco. Sono stufo di pale di fichidindia a colori accesi e quarti di manzo appesi alla Vucciria. Non ne posso più della Sicilia. Non quella reale, ché ancora mi piace percorrerla con la stessa frenesia che afferrava Vincenzo Consolo ad ogni suo ritorno. Non ne posso più della Sicilia immaginaria, costruita e ricostruita dai libri, dai film, dai quadri, dalla fotografia in bianco e nero. La memoria è tutto, dice chi ha più saggezza di me. È vero, la memoria è tutto. Ma non si può vivere di memoria. Solo di memoria. I grandi autori siciliani hanno decrittato l’isola, ne hanno fatto metafora, emblema, paradigma. Ma Verga è morto nel 1922, Pirandello nel 1936, Tomasi di Lampedusa nel 1957 e Sciascia nel 1989. Hanno lasciato pagine indispensabili per chi si avvicina alla Sicilia, per chi ci vive e perfino per chi se ne è andato. Di più: hanno lasciato pagine essenziali per tutte le donne e gli uomini che credono nelle parole scritte nei libri. Ma non è vero che la Sicilia è ancora quella di Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia. Questo è un inganno. ­­­­­VII

L’inganno di chi vuol far credere, leggendo a proprio uso Il Gattopardo, che tutto cambia perché tutto resti com’è. La Sicilia è cambiata, e molto. Ha ragione Salvatore Lupo: nel suo libro La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi spiega che è sbagliato condannare la Sicilia e il Sud «all’immobilità delle sue pietre o tutt’al più a muoversi verso una maggiore disgregazione». Questo, dice lo storico, è stato il mainstream imperante per molto tempo nel racconto del Sud. Ma, si chiede lo studioso, possiamo ancora spiegare il Mezzogiorno usando le lenti di grandi studiosi del passato come Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini o i libri di Rosario Villari e Massimo Salvadori, scritti mezzo secolo fa? Se la storiografia si aggiorna, passando per revisioni e revisionismi, riflettendo su se stessa e rimettendosi in discussione, non si capisce allora perché l’immagine della Sicilia debba invece restare inchiodata a grandi intuizioni di scrittori, artisti, registi o fotografi di ieri. Naturalmente, chi racconta oggi la Sicilia non può prescindere dai grandi del Novecento che – prendendo a spunto la Sicilia – hanno cercato di illuminare l’umanità, consegnando agli scaffali delle lettere e del cinema libri e film mai del tutto regionali. Non esiste infatti una letteratura strettamente siciliana: esiste piuttosto una letteratura europea scritta in Sicilia o sulla Sicilia. Togliendo dalle mensole i testi di Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia (solo per citare gli autori già citati) si toglie un pezzo rilevante della migliore letteratura italiana. In ogni caso, la Sicilia è cambiata. Quella reale come quella immaginaria. Ho rivisto qualche tempo fa Sedotta e abbandonata del grande Pietro Germi, con Stefania Sandrelli e Saro Urzì. Ho sorriso e ho riso. Mi sembrava però un film di mezzo secolo fa. Infatti. Sono andato a controllare: è del 1964, lo stesso anno in cui sono nato io. Nel 1974, quando ero in quinta elementare, la Sicilia era già un’altra cosa. Nel 1980, quando frequentavo il terzo anno di liceo, era un’altra cosa ancora. E infatti non me la ricordavo così, anche al netto di tutta la grottesca comicità del film. ­­­­­VIII

La Sicilia ha una proiezione molto più vasta di sé. Ci sono luoghi in Italia che hanno un’immagine più ampia di ciò che realmente sono. Nella lingua del marketing si direbbe che hanno un brand molto forte, cioè un marchio di fabbrica conosciuto e rinomato (come, per intenderci, la Ferrari o la Coca-Cola). Questa reputazione ce l’hanno in Italia diversi luoghi: Venezia, Firenze, Milano, Napoli, Roma. E la Sicilia. Il marchio di fabbrica si costruisce nel tempo, attraverso la letteratura, il cinema, il giornalismo, l’arte, la storia. E cambia anche questo nel tempo. Prendiamo Palermo: fino al 1992, anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, acme dell’attacco di Cosa Nostra allo Stato, la città era considerata la «capitale della mafia» (definizione rilanciata più o meno nel 1987 dal sindaco di allora e di oggi Leoluca Orlando, tra molte polemiche). Il numero di morti ammazzati, la durata del potere mafioso, le sue infiltrazioni sociali e politiche, la lunga permanenza di guerre e mattanze criminali, il prestigio tenebroso di Cosa Nostra, le decennali latitanze dei boss avevano disegnato il profilo più rilevante della città nella percezione interna ed esterna. Capitale della mafia. A Palermo e nel resto della Sicilia, non meno insanguinata, si combatteva una guerra tra i buoni e i cattivi, tra lo Stato e l’Antistato – magari con accordi sotterranei e nascosti tra le due parti ufficialmente in armi, come spesso avviene nelle guerre. Sotto il piombo dei killer mafiosi che stavano massacrando «i giusti» (magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, medici, cittadini inermi) era possibile produrre immaginario – cioè letteratura, film, foto – che non avesse al centro quella guerra? Dalla Sicilia poteva arrivare solo una narrazione militante: articoli, reportage, inchieste, studi, analisi non potevano che occuparsi di quello scontro. In ballo c’era la saldezza democratica di una regione, dell’Italia intera. Era giusto così, probabilmente. Fino al 1992 – usiamo questa data per comodità, perché le cose non succedono mai da un anno all’altro, con un taglio netto – la Sicilia produceva un racconto di se stessa con l’elmetto. Giornalisti, scrittori, cineasti ­­­­­IX

sia siciliani che arruolati in Sicilia dovevano essere embedded (almeno in teoria), reclutati nel fronte dei buoni contro i cattivi. In ogni caso, sinceri o in malafede che fossero, potevano descrivere solo ciò che stava succedendo. Certo, a Palermo non si moriva solo di mafia. C’erano gli incidenti sul lavoro, gli omicidi passionali, le risse, i delitti del vicinato. Ma non affioravano. Restavano confinati nelle pagine interne delle cronache locali. L’omicidio a Palermo o era mafioso o non era. E gli omicidi non mancavano. Novantotto a Palermo e provincia nel 1981, centocinquanta nel 1982, centotredici nel 1983 e così via. I cronisti di nera aggiornavano di continuo il calendario, un lungo elenco appeso alle loro spalle con i nomi, la data e il luogo di ogni morto ammazzato – lo ricordo perfettamente, nello stanzone della cronaca del «Giornale di Sicilia». Il 27 agosto 1982, il quotidiano «L’Ora» sparò (è il caso di dirlo) una copertina rossa e nera con il titolo: La morte ha fatto cento. Cento, il numero dei morti per mafia dall’inizio dell’anno a Palermo e dintorni. I due zeri del cento erano le bocche di una doppietta a canne mozze. Cosa poteva esserci di più? Niente. Eppure c’erano sempre il cibo, il sesso, la musica, l’amore. Anche nell’imperversare della mattanza, nell’infuriare delle «ammazzatine», c’era gente che comprava i cannoli, andava al mercato, lucidava la barca, si alzava presto per entrare in ufficio, si innamorava della ragazza incontrata sull’autobus. C’era una regione in guerra (eppure anche in guerra le persone continuano a vivere). Ma erano vite non narrabili, troppo minute per farne romanzo. La mafia era la misura di ogni storia. Il mafioso, l’antimafioso. Il boss, la vittima. Il vile, l’eroe. Si parlava dei nobili, se erano amici dei mafiosi. Si parlava dei ristoranti, se erano frequentati da mafiosi. Si parlava di moda, per descrivere come vestivano i mafiosi. Si parlava dei magistrati se erano nemici, o amici, dei mafiosi. Dei politici, se erano contrari o a favore dei mafiosi. L’unica declinazione possibile della Sicilia stava nella sua relazione con la mafia. Certo, c’erano anche quelli che dicevano: la Sicilia non è solo mafia. Ma appariva ­­­­­X

discorso tartufesco, buttato lì per sviare dal percorso civile obbligatorio chiunque avesse un minimo di coscienza. Qualcosa cambiò dopo le stragi del 1992. Dopo il tritolo che il 23 maggio fece saltare in aria Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Dopo l’autobomba che il 19 luglio uccise Paolo Borsellino e gli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. Dopo tutti questi morti, da Palermo e dalla Sicilia si alzò una reazione popolare. Adesso si potrà dire, alla luce del tempo trascorso, che forse era una scossa semplicemente emotiva, un movimento spontaneo e superficiale. Ma le lenzuola bianche ai balconi, i cortei e le fiaccolate per strada, le marce silenziose furono il segnale che Palermo e la Sicilia non erano più la «palude» (per ricordare una fortunata figura retorica usata da Giampaolo Pansa) immota e fangosa che tutto inghiottiva. E nemmeno il coccodrillo disegnato da Giorgio Forattini che piangeva dopo aver divorato i suoi figli. L’arresto, pochi mesi dopo, di Totò Riina, ammanettato a Palermo il 13 gennaio 1993, sia pure con le ombre e i sospetti seguiti alla sua cattura, metteva fine all’ultraventennale latitanza del capo dei capi della mafia corleonese. Qualcosa stava succedendo, qualcosa era successo. La cattura a raffica di altri latitanti illustri, i pentimenti di alcuni boss importanti, le misure repressive, i processi conclusi con condanne erano il segno che lo Stato reagiva e che in Sicilia la mafia non era più un potere assoluto, incontrastato e destinato sempre a vincere. Lasciamo stare se le cose andavano veramente così, ma certo così venivano percepite da gran parte dell’opinione pubblica. *** Poi, accade qualcosa di inedito. Nel 1994 esplode il fenomeno editoriale di Andrea Camilleri: viene pubblicato La forma dell’acqua, il primo romanzo con il commissario Salvo Montalbano (ma il balzo nelle classifiche avverrà tre anni do­­­­­XI

po). Il libro si apre con una lingua che non è italiano, che non è puro dialetto siciliano. Lume d’alba non filtrava nel cortiglio della Splendor, la società che aveva in appalto la nettezza urbana di Vigàta, una nuvolaglia bassa e densa cummigliava completamente il cielo come se fosse stato tirato un telone grigio da cornicione a cornicione, foglia non si cataminava, il vento di scirocco tardava ad arrisbigliarsi dal suo sonno piombigno, già si faticava a scangiare parole.

Un giallo siciliano. Un giallo mediterraneo. Con un cadavere ritrovato in una macchina, una donna sospettata di essere l’amante assassina – cherchez la femme – una battaglia politica e un doppio, triplo, gioco. La casa editrice Sellerio lo presentava così: Il primo omicidio letterario in terra di mafia della seconda repubblica – un omicidio eccellente seguito da un altro, secondo il decorso cui hanno abituato le cronache della criminalità organizzata – ha la forma dell’acqua («Che fai?» gli domandai. E lui, a sua volta, mi fece una domanda. «Qual è la forma dell’acqua?». «Ma l’acqua non ha forma!» dissi ridendo: «Piglia la forma che le viene data»). Prende la forma del recipiente che lo contiene. E la morte dell’ingegnere Luparello si spande tra gli alambicchi ritorti e i vasi inopinatamente comunicanti del comitato affaristico politicomafioso che domina la cittadina di Vigàta, anche dopo il crollo apparente del vecchio ceto dirigente. Questa è la sua forma. Ma la sua sostanza (il colpevole, il movente, le circostanze dell’assassinio) è più antica, più resistente, forse di maggior pessimismo: più appassionante per un perfetto racconto poliziesco. L’autore del quale, Andrea Camilleri, è uno scrittore e uno sceneggiatore che pratica il giallo e l’intreccio con una facilità e una felicità d’inventiva, un’ironia e un’intelligenza di scrittura che – oltre il divertimento severo del genere giallo – appartengono all’arte del raccontare. Cioè all’ingegno paradossale di far vedere all’occhio del lettore ciò che si racconta, e di contemporaneamente stringere con la sua mente la rete delle sottili intese. ­­­­­XII

Quella Sicilia, quella lingua, quei personaggi costituiscono il segreto del successo. Successo di pubblico, certo. Ma quanto alla critica, ai giornali, agli intellettuali, beh, lo presero con molte cautele. E con molte riserve. «Camilleri inventa una Sicilia arcaica, un’insularità quasi biologica, come se la sicilianità fosse una qualità del liquido seminale, un Dna, una separatezza che ovviamente non esiste se non come stereotipo, come pregiudizio che raccoglie, in disordine, malanni personali e banalità di ogni genere, nonne con le mutande a baldacchino e zii preti, la voracità sessuale come espressione del lirismo di un popolo, l’amicizia come retorica, l’omicidio come voce del Diritto amministrativo, la pennichella come ritorno alla natura, le melanzane e la pasta con le sarde come archetipo di una modesta ma sicura felicità. Il tutto descritto con la lascivia sentimentale di certe orrende cose di noi stessi che ci piacciono tanto, quasi fossero anacronistiche virtù, elisir da paradiso perduto». Questo scriveva nel 2000 Francesco Merlo sul «Corriere della Sera». E non era il solo. «La cifra linguistica di Camilleri è di tipo folclorico di secondo grado, nel senso che lui usa una lingua mutuata dai mezzi di comunicazione di massa. È una specie di ‘ritorno del superato’, per citare George Steiner. Non esistono più i contesti dialettali, ma il lettore si diverte di fronte a questa buffoneria che già conosce per averla ascoltata nel cattivo cinema e nelle macchiette televisive», così Vincenzo Consolo nel 2002 su «La Nuova Sardegna». E Roberto Cotroneo, nel 2000, su «L’Espresso»: «Quei libri di Camilleri sembrano così poco intellettuali da diventare libri per un pubblico che ormai detesta la letteratura come sfida, come piacere culturale, come gioco borgesiano, come labirinto». Ma al di là delle sottovalutazioni – in seguito molti dei critici della prima ora si ricrederanno, in tutto o in parte – i romanzi di Camilleri propongono la possibilità di narrare la Sicilia, anche sotto forma di noir o poliziesco, in uno spazio sociale in cui la mafia non è preminente. Delitti di rivalità politica, delitti per passione amorosa, delitti per piccoli interessi ­­­­­XIII

di bottega. Ma non di mafia. O non solo di mafia. «In effetti la mafia, intesa come totalizzante impero del male, non emerge nei racconti che vedono protagonista quel commissario Salvo Montalbano, sicilianissimo, ma davvero atipico perché lontano dallo stereotipo di uomo imbelle e rassegnato», ha scritto Francesco La Licata, cronista palermitano esperto di Cosa Nostra, in una relazione svolta a Parigi nel 2015 per un seminario all’Université Paris 8. «Non emerge nel senso che il mafioso non è mai il protagonista delle storie. Ma l’onorata società non è che non esista nelle trame, c’è ma non sta in primo piano per esplicita volontà dell’autore che dichiara apertamente di non voler contribuire al consolidamento del mito della mafia. ‘Vuoi o non vuoi, il romanzo finisce col nobilitare anche i personaggi più indegni’». Ma di Camilleri torneremo a parlare più volte, non tanto e non solo per un sentimento d’amicizia, ma perché con i suoi oltre cento libri ha delineato molteplici paesaggi della Sicilia sotto diverse luci e angolazioni. *** Dal 1992 è passato un quarto di secolo. Venticinque anni che hanno lasciato sedimentare un nuovo immaginario della Sicilia. La Sicilia del cibo e del vino. La Sicilia del sesso. La Sicilia gay. La Sicilia urbana e metropolitana. La Sicilia dell’approdo. La Sicilia fantascientifica. La Sicilia che detesta la Sicilia. Aspetti disparati e diversi che rientrano difficilmente nelle usurate categorie della «sicilitudine», della «sicilianità» o dell’«isolitudine». È vero, gli stereotipi sono forti in una terra che ne è portatrice insana. E magari si scopre che negli ultimi venticinque anni quegli stereotipi sono stati confermati o ribaltati o, comunque, usati anche in maniera esasperata, fino a diventare parodia di se stessi. Rosario Fiorello che in prima serata si presenta in televisione con coppola e marranzano gioca con il cliché del siciliano alla Tiberio Murgia (che, tra parentesi, ­­­­­XIV

era sardo) del film I soliti ignoti. Scherza con i luoghi comuni dell’omertà, del senso dell’onore, della gelosia («Carmelina, ricomponiti», diceva Murgia Ferribotte a sua sorella), secondo una consolidata tradizione iconografica che è tutta cinematografica e televisiva, come già prima di Fiorello avevano fatto in altro modo Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, magari rivolgendosi a un pubblico che a quel tempo poteva ancora credere che i siciliani fossero veramente come i due comici palermitani li rappresentavano. Percorrere la Sicilia usando solo la Baedeker compilata da Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia rischia di farci finire fuori strada o in qualche vicolo cieco. Chiunque affronti un viaggio si procura la guida turistica più recente, con i nomi e le informazioni più aggiornate. Non si vede allora per quale motivo per muoversi in Sicilia (o dentro la sua rappresentazione) si debba fare ricorso a manuali sempre validi, ma forse un po’ datati. Ho tentato di fare la controprova con la guida rossa del Touring Club sulla Sicilia del 1919. Scopro così che a Messina, in seguito al terremoto che l’ha rasa al suolo, dov’era la città vecchia c’è ora «un vasto piazzale informe sul quale cominciano a sorgere, con molta lentezza, nuovi edifici», mentre sul piano della Mosella si trovano «vastissimi accampamenti di baracche di legno, casette di uniforme tipo e costruzione in cui in gran parte abita ancora la popolazione attuale». Grazie alla mia aggiornata Touring, stampata in duecentomila copie, vengo a sapere che Palermo con i suoi 318.000 abitanti è una città di grande ricchezza d’arte, ha un clima «dolcissimo e saluberrimo, splendente di colori, lungo una riviera che è rivale per bellezza delle più celebrate del Mediterraneo, in mezzo ai boschetti d’agrumi ed a ville e giardini di incomparabile fascino, vivissima di popolo e produce nel visitatore una profonda ed indimenticabile impressione». La mia guida rossa del ’19 è attualissima sulle informazioni essenziali. Poiché desidero visitare la Valle dei Templi, la Touring mi suggerisce di prendere il treno alla stazione ­­­­­XV

centrale di Palermo che in sei ore mi porterà a Girgenti: qui la stazione ferroviaria è a due chilometri dal centro abitato lungo una strada in salita che potrò comunque comodamente percorrere con una vettura pubblica a cavalli, pagando 50 centesimi di giorno e una lira di notte. A Girgenti scenderò al Grand Hotel des Temples, 60 camere con riscaldamento, o all’Hotel Akragas, 30 camere, entrambi sulla via per i Templi ed entrambi aperti da ottobre a maggio, le stagioni in cui i forestieri del Nord Europa vengono a svernare al clima temperato del Mediterraneo. In città potrei invece trovare una camera al Belvedere o al Gran Bretagna, ma «ambedue modesti». Per cenare, la mia Touring consiglia i ristoranti Palermo e Boemia, in via Atenea. Girgenti, con i suoi 20.000 abitanti, «è una piccola città dalle vie strette, spesso tortuose e ripide, di scarso interesse proprio, che riceve però luce dagli avanzi della più antica arte dorica che tra la città e il mare formano un insieme che ha riscontro solo in Grecia». Chi potrebbe pensare di viaggiare con una guida turistica vecchia di cento anni? Rileggerla oggi ci offre uno sguardo nostalgico su chi eravamo, sulle cose perdute e su quelle guadagnate. Magari la Cappella Palatina o il tempio della Concordia, per fortuna, non sono cambiati molto. Ma è cambiato il panorama attorno, e quindi il contesto in cui sono inseriti quei monumenti. Attraversare una città di giardini e agrumeti o una città di palazzi e cemento abusivo per arrivare alla Cappella Palatina o al tempio della Concordia non è proprio la stessa cosa. Il paesaggio, urbanistico e sociale, modifica la percezione e le sensazioni di un giro turistico. Per questo dobbiamo conservare la nostra guida Touring del ’19 tra i ricordi, magari custodirla gelosamente, ma munirci subito di una mappa più aggiornata. E allora smettiamola di raccontare la Sicilia facendo sempre ricorso alla cassetta degli attrezzi fornita da Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia. Attrezzi buoni, letterariamente inossidabili, ma forse desueti dal punto di vista tecnologico. O, quanto meno, adatti per una Sicilia che ­­­­­XVI

non esiste più. Esiste, invece, la Sicilia raccontata negli ultimi venticinque anni, a partire da quel 1992 (anno più o anno meno, visto che la storia non si taglia a filo col coltello)? Forse non esiste nemmeno questa nuova Sicilia, se è vero che l’immagine che uno scrittore, un regista o un artista danno di un luogo e di un tempo è sempre trasfigurata. In fondo, siamo di fronte a una mistificazione. Letteraria. Cinematografica. Televisiva. Ma mistificazione, nuova mistificazione. Allora, forse è vero che la Sicilia non esiste. O ne esistono troppe. Che poi è un altro modo per dire che esiste più che mai. Ma non è più quella di una volta.

Non c’è più la Sicilia di una volta

L’isola da mangiare

Catania, mercoledì 2 maggio 1787. Nel nostro fondaco ci siamo trovati realmente molto male. Il vitto che poi ci poté apparecchiare il mulattiere non è stato certo ottimo. Con tutto questo, una gallina bollita nel riso non sarebbe stata disprezzabile, se il troppo zafferano non l’avesse ridotta, oltre che gialla, immangiabile. Johann Wolfgang von Goethe

Quando il commissario Montalbano, a pagina 73 del romanzo La forma dell’acqua, spalanca la porta della trattoria di Vigàta, non sa che con quel gesto sta per aprire una nuova stagione per la gastronomia siciliana, schiudendo un futuro scandito da pasta con le sarde, anelletti al forno, polpi alla palermitana, cannoli, cassate e gelo di mellone. «All’osteria San Calogero lo rispettavano, non tanto perché fosse il commissario quanto perché era un buon cliente, di quelli che sanno apprezzare. Gli fecero trovare triglie di scoglio freschissime, fritte croccanti e lasciate un pezzo a sgocciolare sulla carta da pane», scrive Andrea Camilleri nel suo primo poliziesco. Qui, lo abbiamo detto, compare per la prima volta Salvo Montalbano. Ma insieme a lui il cibo siciliano. Certo, la cucina siciliana esisteva. E da secoli, da millenni. Nella voluminosa e lussuosissima Enciclopedia della Sicilia, pubblicata nel 2006 da Franco Maria Ricci, alla voce Cucina sono dedicate quattro colonne fitte, curate dallo storico 3­­­­

dell’arte Nigel McGilchrist che – partendo «dalla scuola per cuochi di Labdaco di Siracusa al perduto testo sull’Arte della cucina di Miteco di Siracusa (V secolo a.C.)» – spiega che la gastronomia siciliana è antica quanto l’Odissea: «Tale era la reputazione della cucina siciliana nei tempi antichi che il coquus siculus venne trasformato in una caricatura consueta e familiare nelle opere dei più tardi autori della commedia classica». «È forse la più complessa cucina regionale di tutto il Mediterraneo», afferma Nigel McGilchrist. «Fondata su un’antichissima cultura agricola e marinara, è audace nei sapori, nei contrasti cromatici e nel virtuosismo delle sue forme». E ne interpreta la filosofia: «La cucina siciliana pone l’accento sull’addizione e combinazione dei sapori forti ed esclusivi (come nel caso della classica caponata), piuttosto che nella subordinazione degli elementi a un tutto unico che caratterizza quella tradizionale francese o dell’Italia settentrionale. Talvolta a deliziare è la semplicità dei suoi ingredienti, talaltra il suo sorprendente artificio». Dunque, Camilleri non scopre la cucina e la pasticceria, che esistevano da molto prima che il commissario Montalbano entrasse nella trattoria San Calogero. Camilleri fa molto di più: «inventa» la cucina siciliana come genere letterario, come elemento essenziale del racconto sulla Sicilia. Sempre nel giallo La forma dell’acqua, infatti, dopo il pranzo in trattoria, si parano davanti al lettore altri pasti e altre pietanze: a pagina 82 pasta con aglio e olio accompagnata da gamberetti a olio e limone; a pagina 100 entrano in scena i peperoni arrosto. Nei libri successivi la presenza dei piatti tradizionali della cucina siciliana si intensifica al punto che il minuzioso sito vigata.org, curato dal Camilleri Fans Club capitanato da Filippo Lupo, è riuscito a mettere insieme un menù completo con più portate – dagli antipasti al liquorino ammazzacaffè – spulciando solo i primi quindici libri di Camilleri. Da Il cane di terracotta: «Nel forno troneggiava una teglia con quattro porzioni di pasta ’ncasciata, piatto degno dell’O4­­­­

limpo, se ne mangiò due porzioni» (p. 120). «Montalbano trovò pronto in frigo il sugo di seppie, stretto e nero, come piaceva a lui. C’era o no sospetto d’origano? L’odorò a lungo, prima di metterlo a scaldare» (p. 143). «Che mi hai accattato? Ci faccio la pasta con le sardi e pi secunnu purpi alla carrettiera» (p. 234). Da La gita a Tindari: «Appena aperto il frigorifero, la vide. La caponatina! Sciavuròsa, colorita, abbondante, riempiva un piatto funnùto, una porzione per almeno quattro pirsone. Erano mesi che la cammarera Adelina non gliela faceva trovare. Il pane, nel sacco di plastica, era fresco, accattato nella matinata. Naturali, spontanee, gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida. Canticchiandole, raprì la porta-finestra doppo avere addrumato la luce della verandina. Sì, la notte era frisca, ma avrebbe consentito la mangiata all’aperto. Conzò il tavolinetto, portò fora il piatto, il vino, il pane e s’assittò» (p. 219). Miseria e nobiltà E il timballo di maccheroni dove lo mettiamo? È vero. C’era e c’è il timballo di maccheroni del Gattopardo: «L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio». Tutto qui, però. La prima cena a Donnafugata, il frac di Sedàra, l’apparizione di Angelica e via scrivendo. Perfino con tanto di errore filologico nell’accompagnare il timballo con un vino francese, lo Chablis, e per giunta bianco. Uno scivolone di gusto redarguito da Gaetano Basile, divulgatore della cucina siciliana, durante una serata dell’agosto 2015 nella 5­­­­

Valle dei Templi raccontata da Felice Cavallaro sul «Corriere della Sera». In quell’occasione, dalla prima fila del pubblico si alza Gioacchino Lanza Tomasi per spiegare le ragioni della caduta di stile: «Mio padre non ne capiva niente perché era astemio. Sapeva mangiare bene, ma beveva acqua». Sarà Luchino Visconti a correggere, al cinema, la discrepanza enogastronomica, facendo brindare Claudia Cardinale e Alain Delon con un calice di vino rosso regolamentare. Oltre al celeberrimo timballo di maccheroni, però, la letteratura siciliana mai aveva avuto il cibo al centro della scena. Poco o niente: qualche costicina di castrato nel Giorno della civetta di Leonardo Sciascia, un pezzo di formaggio pecorino nelle Conversazioni in Sicilia di Elio Vittorini. In quel suo viaggio allegorico che è «per avventura, Sicilia; solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela», Vittorini – che, in punto di morte, volle che gli portassero un cedro per annusarlo e sentire per l’ultima volta il profumo di Sicilia – parla anche di aringhe e di arance, cibi dei poveri. Mangiano poco e male i contadini e i pescatori di Giovanni Verga, mentre i personaggi di Luigi Pirandello si nutrono perlopiù di sofismi. C’era e c’è ancora, piuttosto, soprattutto a Palermo, l’epopea del pititto. Era la fame antica e atavica dei quartieri popolari della città, la fame del sottoproletariato urbano. Una fame che si trasformava in desiderio costante, canto disperato alla luna nei cunti teatrali di Franco Scaldati, Rory Quattrocchi, Gigi Burruano, Paride Benassai, Salvo Licata, che nel circuito off degli anni Settanta mettevano in scena la marginalità palermitana, la corte dei miracoli brechtiana di Rancutanu, Gnè Gnè, U Surci, figure che, trasfigurate, torneranno nell’umanità dolente di Cinico tv di Franco Maresco e Daniele Ciprì, di cui parleremo più avanti. Altro che timballi di maccheroni. Pititto, semmai. «La fame era sui marciapiedi, sui muri delle case, nelle persiane, nelle macerie, nei vestiti logori, nelle camicie smangiate», scrive Salvo Licata, cronista e cantore della Palermo nera, 6­­­­

della Città Madre e Matrigna, nel suo libro Il mondo è degli sconosciuti, pubblicato da Sellerio nel 2004, quattro anni dopo la morte dell’autore. «C’era un’espressione impietosa per bollare certi randagi, che, per una loro irriducibile idea dell’eleganza, si ostinavano a indossare una camicia consunta e non meno consunta cravatta. Era la ‘miseria in colletto’. Bisogna capire che c’era pudore della scarsezza (le ristrettezze), perché, come dice onestamente Cannamela: ‘Essere poveri non è vergogna, ma nemmeno un piacere’». Il teatro in lingua dei Travaglini, del Piccolo, del Biondo, raccontava, alla fine degli anni Settanta, la Palermo del lunghissimo dopoguerra, tanto interminabile quanto miserabile. Ma quell’epopea del pititto, narrata sotto il fascismo e durante la guerra dal poeta di strada Peppe Schiera, rinnovata da Salvo Licata, è sopravvissuta, reinterpretata alla luce di più moderni appetiti e desideri – di giustizia, di diritti, di regole – in certi libri di Aurelio Grimaldi, in certo teatro di Emma Dante, in alcuni personaggi di Vincenzo Pirrotta. Sono i nuovi e forse più pressanti appetiti raccontati da scrittori come Giosuè Calaciura e da Roberto Alajmo. C’era un abisso tra il pititto e il timballo. Il timballo stava ai piani alti dei palazzi, ma per le strade regnava il pititto. Ricordo bene Calogerino: aveva dodici anni e ogni sera faceva il posteggiatore abusivo davanti alla Trattoria Stella dell’Hotel Patria, uno dei più affascinanti e decadenti ristoranti palermitani degli anni Ottanta, ospitato nel cortile scrostato di un palazzo nobiliare di via Alloro. Calogerino, piccolo e tracagnotto, accoglieva noi clienti del ristorante – magistrati, giornalisti, mafiosi: il classico melting pot alla siciliana –, si faceva consegnare le chiavi delle auto e assicurava perfetta vigilanza. Aveva un sogno, Calogerino, me l’aveva confidato in una sera d’estate che profumava di gelsomino, munnizza e pesce spada panato: farsi assumere in un supermercato, restarvi chiuso dentro per tutta la notte e mangiare fino allo sfinimento. Il pititto sembrava iscritto nel suo Dna, 7­­­­

anche se non era né smunto né patito: generazioni di affamati prima di lui avevano modellato i suoi sogni. E le stelle non stanno a guardare Il cibo c’era al cinema. Non solo il timballo viscontiano, a ben pensarci, ma anche il pantagruelico pranzo di famiglia nel Mafioso di Alberto Lattuada oppure la tavola dei boss che nel Giorno della civetta di Damiano Damiani ricevono la supplica di Claudia Cardinale di avere notizie del marito scomparso. Ma è sempre cibo caricaturale che si fa simbologia del potere, dell’eccesso, del patto scellerato, ultima cena tribale e di clan: i cattivi mangiavano, alla faccia dei poveri digiuni. È chiaro che la Sicilia da mangiare ha cavalcato l’onda che in tutta Italia – anzi, in tutto il mondo – ha visto le cucine aprirsi alle telecamere, gli chef trasformati in maître à penser, la tavola vissuta come delizia e ossessione. E così si sono moltiplicati i libri di ricette e i libri con ricette. Nel 1998 Sellerio pubblicò la traduzione italiana del libro dell’attore americano Vincent Schiavelli, Bruculino, America, memoria dell’infanzia a New York di un ragazzino figlio di siciliani e con un nonno monsù, cioè cuoco, in una famiglia aristocratica palermitana. Vincent Schiavelli, con la sua faccia indimenticabile, resa famosa da film come Qualcuno volò sul nido del cuculo e Ghost, amava cucinare. L’ho visto entrare in casa di estranei, dirigersi verso i fornelli e accenderne uno per capire se i fuochi «tenevano il minimo». Scrisse una frase che mi capita spesso di citare: «Il cibo è cultura commestibile». Simonetta Agnello Hornby con il suo Un filo d’olio e Giuseppina Torregrossa con il suo Panza e prisenza sono venute dopo, una con i ricordi culinari e di vita di una casata nobile siciliana, l’altra con un poliziesco palermitano nei giorni del festino di Santa Rosalia. Entrambe inseriscono ricette. Simonetta Agnello Hornby bisserà il genere con il libro La cucina del buon gusto, meno strettamente siciliano, scritto con 8­­­­

la milanese Maria Rosario Lazzati che, da quindici anni, tiene corsi di cucina a Londra. E poi ci sono le autobiografie, sempre corredate di ricette, dei protagonisti. A partire da alcuni dei quattro chef a due stelle di Sicilia, Pino Cuttaia di Licata e Ciccio Sultano di Ragusa, entrambi autori di volumi che raccontano le loro storie personali e le loro ricette – quasi impossibili da realizzare in casa – che li hanno portati nel paradiso delle guide Michelin. Il principe del vino In Sicilia si mangiava, magari senza sapere di abitare già dentro la letteratura, ma non si beveva. Tomasi di Lampedusa, abbiamo scoperto, era astemio e confondeva i rossi con i bianchi, facendo cadere la scelta sui francesi. Eppure la Sicilia produceva vino, e pure tanto. Negli anni Ottanta – scrive Bruno Donati in un suo libro del 2005 che citeremo ancora in seguito – la Sicilia contava una superficie coltivata a vite di 200.000 ettari (oggi sono meno di 128.000), quasi tutta tirata a tendone per produrre le maggiori quantità possibili, e 162 cantine sociali che lavoravano l’85 per cento delle uve. Nel 1981, dai porti siciliani partirono quattro milioni e mezzo di ettolitri di vino sfuso: servivano a tagliare vini più nobili, toscani o francesi. Un fiume di vino siciliano inondava l’Europa, ma in Sicilia si beveva male. Ricordo i vini dei contadini, vino n’petra lo chiamavano, e ancora non so cosa significhi. Immagino per l’effetto che produceva: denso, abboccato, opaco, ne bastavano due bicchieri per restare impietriti sulla sedia, il sorriso ebete e l’occhio bovino a scrutare le briciole sparse sulla tovaglia. C’erano poche case vinicole, le più famose erano Tasca d’Almerita e Duca di Salaparuta – quest’ultima di proprietà pubblica della Regione Sicilia –, che producevano poche etichette. Il bianco più raffinato che poteva accompagnare le serate estive nei ristoranti di Mondello era il Corvo Colomba Platino. 9­­­­

«In Sicilia, infatti, a differenza che in altre regioni (Sangiovese per la Toscana, Nebbiolo e Barbera per il Piemonte...) mancava un vitigno di riferimento. E, senza di esso, di fatto la sua vitivinicoltura non vantava una precisa identità», scrive Bruno Donati nel suo volume Giacomo Tachis, enologo corsaro, da cui abbiamo tratto i dati sulla produzione di vino siciliano. Ci voleva un piemontese per scoprire un vitigno che facesse diventare famoso il vino siciliano nel mondo. Anzi, ci volevano due piemontesi. «Un piemontese arrivato per caso in Sicilia negli anni Sessanta – si legge in una brochure di Duca di Salaparuta che nel 2014 celebrava i trent’anni della sua etichetta Duca Enrico – e destinato a diventare uno dei più grandi enologi italiani, per far occupare al Nero d’Avola il posto che gli compete, Franco Giacosa. Innamoratosi di questo vitigno, rimase sull’isola e completò qui gli studi universitari presentando una tesi di laurea quantomeno bizzarra: ‘Le potenzialità economiche del Nero d’Avola’. Franco Giacosa capì subito che utilizzare il Nero d’Avola come semplice vino da taglio era un errore e coinvolse un altro maestro dell’enologia italiana, Giacomo Tachis, nel progetto di aprire nuove porte a questo vitigno così unico e dal fascino straordinario». L’avventura del Nero D’Avola comincia proprio nel 1984 quando Giacosa, enologo piemontese arruolato dalla casa vinicola Duca di Salaparuta, per la prima volta lo raccoglie per farne un vino nobile da bottiglia. In realtà, quell’uva esisteva in Sicilia da decenni. I contadini lo chiamavano «Calabrese», me ne ricordo pure io perché ne avevamo alcune viti piantate ad alberello nella vigna di famiglia, a Racalmuto, il paese dove affondano da circa mezzo millennio le mie radici. Forse «Calabrese» era una corruzione di calaulisi, un’antica parola dialettale che significava uva avolana, oppure veniva chiamato così perché era forte e testardo come un calabrese, o magari soltanto perché si vendeva meglio sui mercati internazionali. Vai a sapere. Il Calabrese diventò Nero d’Avola. Giacosa, quindi, lavora per anni al suo Nero d’Avola. Ci 10­­­­

crede, ma non può fare molto altro. Nel 1992 sbarca in Sicilia un altro enologo piemontese. Si chiama Giacomo Tachis, è un umanista, con una formazione classica, ha lavorato per trent’anni da Antinori, è l’uomo che ha reso celebri nel mondo il Sassicaia e il Tignanello, aprendo la competizione dei vini toscani con i grandi rossi francesi. Chiamato in Sicilia dall’allora presidente dell’Istituto regionale della vite e del vino, Diego Planeta, Tachis comincia a percorrere l’isola su e giù. Assaggia, testa, sperimenta. Bianchi, rossi, vini rozzi e vini sublimi, appunta tutto su un quadernetto scolastico Pigna 21x30, a righe. Sono vendemmie di ricerca, fin quando Tachis incontra il Nero D’Avola, il vecchio Calabrese tosto e cocciuto. Ecco che allora tutto cambia. Tachis sentenzia: «Se qualcosa di grande nascerà in Italia nei prossimi anni nascerà qui. E nascerà dal Nero d’Avola. È il principe della viticoltura siciliana». Un Nero d’Avola in purezza vince, a sorpresa, i tre bicchieri a una degustazione di enologi, malgrado la contrarietà di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food («Litigammo», ha raccontato il giornalista enogastronomico Daniele Cernilli. «Petrini non voleva assegnare un ‘tre bicchieri’ a una regione così incolta, dove mai si era prodotto un vino degno di un riconoscimento»). Comincia negli anni Novanta la «rivoluzione siciliana» del vino, targata Tachis, così la definisce ancora Bruno Donati, destinata a ottenere i suoi successi nel giro di un decennio. La guida Vini d’Italia 2005 del Gambero Rosso ha un incipit esemplare: «In un momento non certo facile per l’enologia italiana, la Sicilia continua la sua irresistibile ascesa, in termini qualitativi e di successo commerciale». La Sicilia ha finalmente il suo vino, i suoi vini. Nero d’Avola, Inzolia, Carricante, Grillo, Marsala, Grecanico, arricchiti dai Cabernet, Chardonnay, Merlot, Pinot, Sauvignon e Sirah di importazione. Ormai fa la sua figura nei calici di mezzo mondo. Tachis racconta che un giorno aprì una bottiglia di Pinot nero siciliano: «L’ho fatto provare a un mio amico, un bravissimo opinion leader californiano. Mi ha detto: ma 11­­­­

questo è un meraviglioso Borgogna. Invece, no, è un vino dell’Etna». L’alchimista delle vigne, il winemaker più famoso d’Italia, aveva inventato il vino siciliano. Prima di allora nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la Sicilia potesse competere con il Piemonte o con la Toscana. E questa novità, recente, recentissima, si è travasata nella letteratura, nella scrittura, nell’immagine di una Sicilia che offre ai visitatori la sua cart de vins, provincia per provincia, anzi, per dirla alla francese, secondo ciascun diverso terroir. Il mare colore del vino Il vino non c’era e poi ci fu. Ed è curioso che proprio nel 1992 – lo stesso anno delle stragi, della mattanza mafiosa, del punto massimo di attacco allo Stato da parte di Cosa Nostra – Tachis arrivi in Sicilia portandosi dietro la sua esperienza professionale, la sua cultura vasta, la coscienza storica del ruolo del Mediterraneo. Senza Tachis, dunque, non potrebbe esserci una Sicilia del vino e non potrebbero esserci pagine come questa, scritta nel 2007 da Giuseppina Torregrossa nel suo romanzo d’esordio, L’assaggiatrice: Sollevo la bottiglia del vino, fredda, con tutta la brina sul vetro verde, la avvicino al viso di Hamed, un brivido mi percorre, lo percorre. Verso il vino nel bicchiere, un dolce odore di pesca bianca, pompelmo, foglie di pomodoro e timo selvatico si spande nell’aria. Bevo a piccoli sorsi e le note speziate e agrumate mi sollecitano il naso e si mescolano con l’odore di maschio che insperatamente per me, vedova bianca da qualche mese, riempie la stanza.

Eppure, prima di allora, il vino era finito pure nel titolo di un libro. Ma Il mare colore del vino di Leonardo Sciascia – mare ionico, mare che riempie il finestrino del treno diretto verso l’interno della Sicilia – è colore del vino nelle parole di un bambino terribile, evocazione inconsapevole del mare 12­­­­

omerico che ubriaca, stordisce e fa perdere la rotta ai naviganti. Non è vino, è mare. La Sicilia, secondo l’elenco ufficiale dell’Istituto regionale vini e oli, oggi conta 460 cantine, una produzione di circa 5 milioni di ettolitri di vino nel 2014 (calcolato dall’Istat) e per il 2015, in base alle stime del Consorzio Sicilia Doc, il confezionamento di 28 milioni di bottiglie di vino a denominazione d’origine controllata per il mercato interno ed estero. Grandi numeri che magari affollano un po’ troppo il settore, ma che permettono di pensare alla Sicilia come un’isola da bere. La scrittura di Giuseppina Torregrossa, nata a Palermo, medico a Roma, che nelle sue pagine coniuga spesso vino, cibo e sesso – ma del neoerotismo siciliano torneremo ad occuparci – non è frutto del caso. Anzi. Quello che da più parti è stato definito il «rinascimento del vino siciliano», infatti, in Sicilia ha un volto soprattutto femminile. Per quali ragioni non saprei spiegarlo, ma è così. Naturalmente, i magazine si sono buttati a corpo morto sul fenomeno. La Sicilia delle sedotte e abbandonate, delle principessine mute, delle lupe verghiane, ora mostra ragazze e signore country style, fotografate sotto la giusta luce accanto a tralci d’uva, tini e botti. Ho davanti una foto che ho trovato sul sito della Condé Nast che pubblica «Vanity Fair», «Vogue», «Glamour» e molte altre riviste patinate di way of life. Annuncia un programma in onda su Gambero Rosso Channel dedicato a Vini, terre e donne di Sicilia: conto 26 donne, ribattezzate «le signore del vino siciliano». Alcune le riconosco: Mariangela Cambria, Josè Rallo, Marilena Barbera, Flora Mondello, Francesca Planeta, Lilly Fazio, Vinzia Di Gaetano, Carolina Cucurullo. In verità, in Italia ci sono molte signore del vino, soprattutto nelle aziende familiari. Ma in Sicilia il fenomeno si sovraccarica di significati non detti: quel genere giornalistico che va sempre alla ricerca dell’ultima gattoparda redenta, della nobildonna dedita al lavoro dei campi, del volto moderno alle prese con un mestiere antico – ma forse il mio è solo il 13­­­­

riflesso condizionato di chi intravede dappertutto stereotipi e pregiudizi – ogni volta sembra stia dicendo: vedete che novità, le donne siciliane non stanno più dietro le persiane socchiuse, ma lavorano, commerciano, salgono e scendono dagli aerei, indossano i jeans e camminano lungo i filari di viti. Cose da pazzi. Natural woman Eric Asimov, grande esperto di vini del «New York Times», assaggia un bicchiere di vino siciliano della provincia di Ragusa. Gli piace. Il 25 gennaio 2012 scrive che quel vino è «gorgeous multifaceted», che significa, più o meno, «splendido e multiforme». La produttrice è una donna di appena trent’anni, Arianna Occhipinti. Poche settimane dopo un giornalista del «NYT» va a trovarla nella sua casa ragusana a Fossa del Lupo: la fotografa mentre prepara una marmellata di fichidindia, mentre stappa una bottiglia, mentre si sporca le mani nel mosto. Natural woman è il titolo dell’articolo di Edible Selby. È la consacrazione ufficiale e internazionale di Arianna, produttrice di vini biologici e naturali. Mi chiedo se pure il «New York Times» non sia stato affascinato dal contrasto tra un’idea archetipica della donna siciliana e l’immagine di questa ragazza in jeans e maglietta che a ventidue anni, su consiglio di suo zio, dopo l’università a Milano e i viaggi in Europa sulle note di Nick Cave, compra un ettaro di terra e decide di fare il vino a modo suo. «Il vino si è addentrato nella pelle screpolata, è sceso in profondità, e la pelle non verrà mai più pulita. È l’unico tatuaggio che mi sono concessa. Sono mani diverse da quelle che avevo all’università, ma forse sono uguali nell’animo», scrive Arianna Occhipinti nel suo libro Natural woman. La mia Sicilia, il mio vino e la mia passione, pubblicato nel 2013 da Fandango. È un libro sul vino, ma è anche una storia di formazione. È la storia di una ragazza che studia lontano 14­­­­

dall’isola, che sogna un futuro da diplomatica, ma che decide di tornare in Sicilia a fare il mestiere di contadina. Magari quella di Arianna non è la storia di tutte le signore del vino siciliane. Sicuramente è la sua, personale e unica come tutte le vite. Non è nemmeno un romanzo generazionale, perché non tutte le giovani siciliane e i giovani siciliani hanno fatto scelte così radicali. Eppure dice molto sul rapporto con la propria terra. Mi chiedo: se non fosse stato «inventato» il vino siciliano, Arianna dieci anni fa avrebbe scelto di dedicarsi alle vigne e alla campagna? Lo ha fatto, comunque, e a modo suo. Cioè con uno schieramento ideologico-imprenditoriale espresso con chiarezza già a ventuno anni in una lettera inviata al grande enologo Luigi Veronelli contro «la falsa enologia appesantita da un evidente piede industriale»: «Se amate la musica c’è lo strumento, il musicista, e l’acustica. Lo strumento è il luogo dove è stata piantata la vigna. Poi c’è il musicista. Che coltiva. E poi c’è l’acustica: l’agricoltura è l’acustica. Questi sono i tre elementi che compongono l’armonia del vino». Idee chiare, rapporto con la terra, metodi naturali (o biodinamici) e, ovviamente, modernità imprenditoriale, altrimenti le bottiglie di Arianna Occhipinti non sarebbero mai arrivate a New York. E nello stesso tempo una scelta di vita radicale, come Arianna spiega, sempre nel suo libro: Vivo in un palmento. La zona di Vittoria e del ragusano è piena di queste strutture di pietra antiche come il tempo, dove una volta si pigiava il vino. Tutti quelli che non sanno ed entrano a casa mia per la prima volta, mi chiedono cosa siano quei buchi nel pavimento. Sono le vasche dove fermentava il mosto: il mio divano e il mio camino sono a due passi da quegli ombelichi della casa e forse si potrebbe obiettare che è pericoloso e che sarebbe meglio non ospitare nessuno che alza il gomito (il che rientra nella sfera dell’impossibile), ma io non posso separarmi dall’idea di stare in un posto così, che ancora sa di cantina, anche se non è una cantina. Mi piace che la mia vita si svolga al piano terra e sia immersa in quello che faccio: la vita come arte direbbero pittori e poeti. E for15­­­­

se mi piace perché tutto sembra avere una sua coerenza. Quando cammino sul pavimento di questa casa, capisco che l’appartenenza è fatta anche di suoni. Le pietre antiche come queste assorbono i passi, li respirano, ne rimandano un suono che è un’eco con dentro la terra e il suo calore. Non è poesia, è una cosa vera che tutti possono sperimentare.

Un po’ retorico? Forse. In dieci anni però l’azienda di Arianna Occhipinti, avviata con un ettaro piantato a vigna, è cresciuta di trenta volte. E questa non è retorica, è economia. Panelle al gate Avete presente Giangiacomo Feltrinelli, l’editore di successo milanese che si votò alla rivoluzione e finì dilaniato nel 1972 vicino a un traliccio di Segrate? Ora, avete presente il pane con la milza che si può mangiare per le strade e le piazze di Palermo? Ecco, dati questi due soggetti, qual è secondo voi la distanza che passa tra Giangiacomo Feltrinelli e il pane con la milza? La distanza è pari a zero. Ma che c’entra? C’entra, c’entra. Partiamo dal pane con la milza – che da ora in avanti chiameremo solo nella sua dizione autoctona di pane ca’ meusa. Gli storici del gusto dicono che la milza è un lascito degli ebrei che vivevano a Palermo nel quartiere della Meschita e macellavano le carni col metodo kasher. Non potendo, per una serie di divieti, ricevere denaro in pagamento, gli ebrei venivano stipendiati con le frattaglie di risulta. Una volta sbollentate, quelle interiora venivano rivendute ai palermitani che cominciarono ad apprezzarle. Nel 1492, per ordine di Ferdinando il Cattolico, in base all’editto voluto dall’inquisitore Torquemada, gli ebrei vennero espulsi da tutti i territori dell’impero spagnolo, Sicilia compresa. L’uso di cucinare milza e frattaglie passò allora ai cosiddetti cacciuttari palermitani che, in un calderone pieno di sugna bollente, friggevano milza, trachea, polmone e ricotta. Il pane ca’ meusa, insomma, ha un lungo passato. 16­­­­

Di Giangiacomo Feltrinelli, erede di una ricchissima famiglia di industriali milanesi, editore geniale e innovatore, non c’è bisogno di fare la storia, che appartiene alla memoria dell’Italia. Un passato recente di un’Italia ormai remota. Apparentemente, Feltrinelli e il pane ca’ meusa sono fra loro inconciliabili. Immaginate l’uomo che ha pubblicato libri come Il dottor Živago e Il Gattopardo, l’imprenditore che ha dato vita a una catena di librerie diffuse in tutta Italia, l’editore che ha portato nelle case degli italiani autori come Luciano Bianciardi, Franco Fortini, Doris Lessing, Alberto Arbasino, Jorge Luis Borges. Provate a immaginare il militante di sinistra che da una foto di Alberto Korda ha inventato l’icona di Che Guevara, passata dai manifesti degli anni Settanta alle magliette e infine sui quadranti degli Swatch. Ecco, ora pensate al pane ca’ meusa. E se non ci riuscite vi aiuta Daniele Billitteri, cronista palermitano a ventiquattro carati, ricordando, nel suo diario Cose Nostre. Homo Panormitanus, cronaca di un’estinzione impossibile, il banchetto a Porta Carbone, di fronte alla Cala, di un famoso chef di strada: Il trono di Re Baffone era fatto della tradizionale padella inclinata: nella parte alta si accumulava lo scannarozzato, nella parte bassa friggeva la saime, cioè lo strutto. E tutto attorno le mafalde da non confondere con quelle che tutti noi possiamo comprare al panificio. Era una produzione speciale di un tipo di pane unico: un taglio più piccolo rispetto al «quarto di chilo», lievitato un po’ meno per assorbire poco. Sette pani pesavano un chilo. È un tipo di produzione ancora in uso. L’unità di misura era il «mezzo pane», quello che era anche più comodo da maneggiare. E la milza? Quella stava sotto banco perché nel cacciotto se ne mette poca: massimo due fettine. Poi il polmone, e dunque, tranne specifica richiesta, lo scannarozzato (volgarmente detto trachea). Questa era la versione base. Gli optional prevedevano: scaglie di formaggio e ricotta... Nacquero in quel periodo le scuole di pensiero sull’interpretazione dei termini schietta e maritata. Molti hanno sostenuto che schietta, ovvero nubile, è la focaccia senza la ricotta, maritata l’altra, 17­­­­

perché la ricotta è come l’abito nuziale, c’è però un’interpretazione capovolta: schietta è la focaccia piena solo di ricotta ripassata nella saime, maritata è quella dove c’è la milza (cioè la «carne», la «sostanza»). Perché maritata? Perché la donna sposata, secondo la grassa ironia popolare, di carne se ne intende.

Insomma, siamo di fronte a un’eccellenza di tipo particolare. Popolare, da strada e di largo consumo, malgrado l’illustre passato, il pane ca’ meusa in teoria stride nell’accostamento con Hannah Arendt, Hans Magnus Enzensberger e Manuel Scorza, tutti autori Feltrinelli. Eppure, non si sa bene come, ma si sa bene da quando, anche il pane ca’ meusa ora è edito da Feltrinelli. Questa è una storia che va raccontata dall’inizio. Il 18 settembre 2007 un uomo risale gli scaloni del palazzo di giustizia di Palermo. Non è sereno. Deve testimoniare nel processo contro un gruppo di mafiosi che per anni gli ha imposto il pizzo, la tassa che i commercianti di Palermo sono costretti a pagare a Cosa Nostra. Sa che in aula incontrerà quegli uomini. Sa che la sera prima gli è arrivato il messaggio inequivocabile: l’invito a «comportarsi bene» davanti ai giudici. L’uomo si chiama Vincenzo Conticello. La sua famiglia da generazioni gestisce l’Antica Focacceria San Francesco, una bottega che vende pane ca’ meusa, sfincione palermitano (che non è una semplice pizza, anche se le assomiglia), pane e panelle. La Focacceria è un pezzo di Palermo: aperta nel 1834 da Antonino Alaimo, cuoco della famiglia dei principi di Cattolica che gli cedettero il piano terra del loro palazzo, dai suoi tavolini di marmo è passata la storia della Sicilia. Qui i deputati del parlamento rivoluzionario siciliano del 1848 vennero a festeggiare la prima seduta, qui nel 1860 fu portato Giuseppe Garibaldi dopo la battaglia per la conquista della città. Forse Conticello, percorrendo i corridoi di marmo del tribunale, pensa anche a questa storia, legata ormai da cinque 18­­­­

generazioni alla sua famiglia. Quando si siede a testimoniare, il pubblico ministero fa la domanda di rito, abbastanza sicuro di ricevere una risposta ambigua: «Signor Conticello, chi era l’uomo che venne a chiederle il pizzo?». Ma la risposta non è incerta né pavida: «È qui, seduto in aula. È quel signore lì, quello che ha accanto le stampelle. Allora non aveva le stampelle e se ne andò col suo ciclomotore del quale io presi il numero di targa». Quel giorno il movimento antiracket segna un punto, concreto e simbolico. Gli estorsori verranno condannati. Conticello ha puntato il dito contro i delinquenti davanti alle telecamere delle tv, in un’aula affollata di studenti, dai giovani del movimento Addiopizzo, tra i quali ci sono anche Tano Grasso, un leader dell’antiracket, e Pina Maisano, vedova di Libero Grassi, ucciso nel 1991 a Palermo per non aver voluto pagare il pizzo. Naturalmente, dopo le denunce, verrà anche il tempo triste: alcuni dipendenti di Conticello si licenziano all’improvviso, molti clienti disertano la Focacceria e la meravigliosa piazza dove si affacciano le sue vetrine. Ma la caparbietà e lo spirito imprenditoriale della famiglia Conticello non si spengono. Vincenzo Conticello gira tutta l’Italia offrendo arancine, pane ca’ meusa e cazzilli (le crocchette di patate), per mostrare che non si arrende. Coniuga il cibo da strada made in Sicily con l’impegno contro la mafia. A Palermo cambia la clientela: adesso addentare un pezzo di sfincionello diventa un gesto di impegno civile. Di successo in successo, nel diventare anche un personaggio televisivo – invitato in trasmissioni, talk show, convegni e dibattiti – Conticello trova un socio. E che socio. Nel 2011 firma un accordo con Effe 2005, la holding che coordina il Gruppo Feltrinelli. «Diversificazione», dicono i manager. Libri, e non solo. Anche meusa e panelle. L’Antica Focacceria si espande: apre nuove sedi a Milano e a Roma. Lo stile, all’interno, riproduce il mood della casa madre palermitana: mattonelle bianche alle pareti, tavoli di ferro battuto e ripiano di marmo, foto in bianco e nero della Palermo di un tempo. 19­­­­

Un tempo, diceva Sciascia, era la linea della palma e del caffè ad andare sempre più a nord. Con la Focacceria di Feltrinelli è la linea del pane ca’ meusa a risalire la penisola. Caffè e corner food by Focacceria in molte librerie di mezza Italia. Il cacciotto, la tipica padella dove si frigge la milza nello strutto, si trasforma in brand. E nel 2013 il Gruppo Feltrinelli acquisisce il 95 per cento della società, lasciando ai fratelli Vincenzo e Fabio Conticello il 5 per cento residuo. Perfino la storica sede di piazza San Francesco a Palermo, l’ultima rimasta nelle mani della famiglia, è ora della holding Feltrinelli che – dopo le due sedi di Milano e le due di Roma – progetta nuove aperture in Italia e all’estero e si piazza nel molo D dell’aeroporto di Fiumicino. Il molo D di Fiumicino è quasi interamente dedicato alle partenze dei voli per l’Europa. Ogni qual volta mi capita di andarci, confesso che mi fa una certa impressione guardare il tabellone dei voli per Berlino, Parigi, Londra, Valencia, Madrid e poi voltarmi verso la lavagna dell’Antica Focacceria e leggere: pane ca’ meusa, sfincione, arancine, pasta con le sarde. Allora, in attesa della chiamata al gate, comincio a scrutare le facce degli stranieri che si avvicinano al banco: osservo le famiglie francesi con tanti figli biondi, il tedesco rigido nel suo soprabito blu, gli spagnoli dalla ciarla rapida. Cerco di capire cosa pensano, cosa immaginano, guardando una panella o un timballo di anelletti al forno. Cerco di intui­ re come se ne prefigurino il sapore. Appena chiedono informazioni, più veloce delle ragazze e dei ragazzi in camice nero e coppola in testa, mi precipito a fornire spiegazioni: cos’è questo, cos’è quello. Poi mi sento ridicolo a fare gli onori di casa all’aeroporto, per fortuna stanno chiamando il mio volo. Non so se Giangiacomo Feltrinelli abbia mai assaggiato il pane ca’ meusa o le panelle (è possibile, visto che si trovava a Palermo nell’ottobre dell’anno in cui, nelle sale di un hotel tra Aspra e Porticello, nacque il Gruppo 63, come racconta Piero Violante in Swinging Palermo), ma è chiaro che, se il Gruppo Feltrinelli ha deciso di investire su questi prodotti, 20­­­­

al di là della «diversificazione commerciale», c’è il fatto che lo street food palermitano – un tempo patrimonio esclusivo della città – è diventato un bene esportabile e spendibile sul mercato nazionale e internazionale. Peraltro, nel caso dell’Antica Focacceria, si è caricato di «valore reputazionale», come direbbero gli esperti di marketing e di brand, per il suo significato recondito di prodotto etico, responsabile e antimafioso. Anche questo contribuisce a far digerire – con tante scuse per la metafora involontaria – il pane ca’ meusa edito da Feltrinelli.

Trinacria glam

Ci sono luoghi naturaliter cinematografici. Un luogo simile è la Sicilia. Gesualdo Bufalino

Partendo da Palermo, potrete risalire via Ernesto Basile, attraversare il cavalcavia, imboccare la statale 624, superare il bivio per Altofonte, costeggiare San Giuseppe Jato, proseguire per Camporeale e Salaparuta e a un certo punto troverete l’indicazione. Oppure potrete infilare l’autostrada per Catania, all’altezza di Villabate uscire allo svincolo per Agrigento, dopo una quindicina di chilometri prendere a sinistra al bivio di Bolognetta in direzione Marineo, proseguire ancora avanti, superare il bosco della Ficuzza, entrare a Corleone e seguire la strada provinciale 24 fino a Chiusa Sclafani. Adesso che siete arrivati in questo paese di tremila abitanti, a circa settecento metri sul livello del mare, sul lembo più meridionale dei monti Sicani, guardatevi attorno. Osservate le colline brulle, il panorama segnato in lontananza da picchi di roccia e strapiombi. Restate in silenzio a sentire il suono di questa Sicilia, interna e appartata rispetto alle usuali rotte turistiche. Tra queste case, tra queste strade né brutte né belle, c’è qualcosa che viene da lontano. Da lontanissimo. L’Academy Award of Merit è una statuetta alta trentacinque centimetri e placcata in oro a 24 carati, confidenzialmente chiamata Oscar. Viene assegnata ai migliori film, ai migliori attori e alle migliori attrici, ai migliori artisti e professionisti del cinema. È il più importante e prestigioso riconoscimento 22­­­­

dello showbiz e ogni anno si assegna a Los Angeles in una serata sbrilluccicante diffusa sulle tv di mezzo mondo. Nel 1990 l’Oscar per il miglior film straniero fu aggiudicato a un film italiano. Ecco, quella statuetta da allora è in una casa di Chiusa Sclafani. Anzi, per la precisione, in un ristorante. Non stupitevi, quindi, se in contrada Calcara, negli immediati paraggi del centro abitato del paese, trovate l’insegna «L’Oscar dei sapori». Là vicino, in una teca, è custodito l’Oscar. Non c’è finito per caso. Il ristorante, infatti, è di Totò Cascio, il formidabile bambino che Giuseppe Tornatore scelse come protagonista narrante del suo film Nuovo Cinema Paradiso. Totò Cascio non fa più l’attore. Ha recitato in altri film, ma da adulto ha rinunciato alla carriera. È rimasto a vivere nella sua Chiusa Sclafani. Prima ha aperto due supermercati e poi il ristorante dove campeggiano foto di scena del film, locandine d’epoca, mentre la filodiffusione manda spesso le note composte da Ennio Morricone per la colonna sonora. È cresciuto, ma nel suo volto resistono ancora i tratti del bambino che recitava accanto a Philippe Noiret. Ogni tanto guarda la sua statuetta o rivede il film che lo ha reso celebre. «Ma devo essere da solo – ha raccontato a Laura Anello per «La Stampa» – perché mi commuovo e piango come una fontana». Credo che quell’Oscar sia l’unico che abita la Sicilia perché Tornatore custodisce la sua statuetta a Roma (dove, qualche tempo fa, alcuni ladri entrati in casa tentarono di rubarla, ma furono arrestati in tempo). Mi sembra giusto che almeno un Oscar sia rimasto nei pressi dei luoghi in cui il film fu girato, perché Nuovo Cinema Paradiso segna il passaggio fondamentale tra il cinema sulla Sicilia e il cinema dalla Sicilia. Fino a quel momento, infatti, con l’eccezione di tre film del regista palermitano Pino Mercanti degli anni Quaranta (di argomenti siciliani e prodotti da una casa di produzione siciliana) e pochissimi altri casi, l’enorme massa di film sulla Sicilia – un centinaio dal 1945 al 1990 – era ideata, scritta e pensata fuori dalla Sicilia e praticamente mai da registi siciliani. A volte 23­­­­

autori con eccezionale spirito di finezza, ma comunque non siciliani. Sento già l’osservazione: vuoi dire che solo i siciliani possono e sanno raccontare la Sicilia? Sarei un cretino se pensassi questo, soprattutto dopo aver scagliato fulmini contro i sicilianismi. Ma siccome stiamo cercando di capire come la Sicilia e i siciliani si siano raccontati negli ultimi venticinque anni e quale immagine di sé abbiano messo a punto, diventa fondamentale segnare il momento in cui una nuova generazione di cinematografari siciliani si è affacciata alla ribalta. Tornatore è sicuramente il primo, e forse il più acclamato, di una filiera cresciuta culturalmente in Sicilia. Ecco perché Nuovo Cinema Paradiso è il discrimine tra un prima e un dopo. Nel dopo nasce il racconto cinematografico con lo sguardo interno. Quello di Tornatore, innanzitutto, non era un film sulla mafia. Eppure Peppuccio (come viene chiamato in Sicilia) aveva esordito tre anni prima con Il camorrista, storia ricalcata in parte sulla figura di Raffaele Cutolo, che individuava il nodo torbido dei rapporti tra potere e criminalità. Il suo racconto dalla Sicilia, invece, era un’epopea sentimentale del cinema. Del cinema per come era e per quello che aveva rappresentato nella piccola provincia siciliana: unica via di relazione con il mondo grande. «Tornatore – spiegava Gregorio Napoli, critico cinematografico del «Giornale di Sicilia» – riversava nel suo racconto la linfa creativa di un’originale operazione culturale volta, da un lato, al recupero di un patrimonio intellettuale che coincide, press’a poco, con l’arte del Novecento nella sua espressione più compiuta; e preoccupata, dall’altro, di rivisitare, con l’emozione che forse soltanto un isolano può avvertire, il tempo della memoria, l’età perduta delle ‘lucciole’, le piazze assolate dove le donne riempiono le brocche alla fontana, stendendo poi al sole le larghe tavole con l’estratto di pomodoro, mentre l’immancabile e struggente scemo vagabondo sguscia dai vicoli con la sua filosofia demenziale». Gregorio Napoli, critico onnivoro e minuzioso, formulava una domanda retorica: «Aria nuova nel nostro cinema? 24­­­­

Credo proprio di sì». Certo, Tornatore in qualche modo assecondava i gusti di chi ricercava la Sicilia dal passato irenico: tragica, ma compatta; povera, ma felice; ingenua, ma schietta. Una Sicilia scomparsa per sempre, se mai c’era stata. Non a caso Leonardo Sciascia, che era di un’altra generazione rispetto a Tornatore, vedendo il film si commosse – erano le sue ultime settimane di vita – ripensando al cinema della sua Racalmuto, popolato dalle stesse figure del film. I critici, in genere, accolsero tiepidamente il film, in particolare nella sua versione «lunga», che in seguito sarebbe stata tagliata di una ventina di minuti dal regista, dietro sollecitazione del produttore Franco Cristaldi, per la cosiddetta versione «internazionale». E questa versione conquistò il gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes e, qualche mese dopo, l’Oscar. E fu anche un successo di pubblico. Eppure a Tornatore fu rimproverato proprio il fatto di presentare una Sicilia carica di luoghi comuni. Commentando l’Oscar sulla «Stampa», Lietta Tornabuoni il 28 marzo 1990 insinuava che il film «magari ha avuto successo perché fornisce un’immagine dell’Italia che corrisponde esattamente allo stereotipo senza tempo americano o francese». Dove Lietta Tornabuoni vedeva lo stereotipo, Sciascia intravedeva la verità. «Se ai persiani di Montesquieu fosse avvenuto di entrare, intorno al 1930, in un cinema di paese siciliano, la loro impressione forse sarebbe stata che lo spettacolo consistesse in quel che accadeva tra gli spettatori: e specialmente tra quelli del loggione e quelli della platea», diceva lo scrittore nell’agosto 1989. «Nel film che ho ora visto, Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, ce n’è tutto un tessuto, sulla cui veridicità non solo posso testimoniare, ma il lettore può cercarne riscontro in certe mie lontane pagine (Gli zii di Sicilia)». Singolare situazione: segnalato fuori dalla Sicilia come virtuoso dello stereotipo, in Sicilia Tornatore era considerato il capostipite di una nouvelle vague siciliana. In un elegantissimo volume del 1993, La Sicilia e il cinema, Sebastiano Gesù 25­­­­

contrapponeva Tornatore e i cineasti siciliani emergenti («È la Sicilia che finalmente racconta se stessa con la macchina da presa»), ai cinematografari del Nord che avevano creato negli anni, salvo rare eccezioni, un’impostura: «Le vedute delle loro ‘cartoline isolane’ si sono barcamenate stancamente tra illibatezza e cinture di castità, tra coltelli e lupare, tra coppole e scialli, tra mafia e omertà, tra delitto passionale e duello rusticano, tra facciate di chiese e giardini d’aranci, tra processioni e banchetti, tra cugine e governanti. Una costellazione di immagini farsesche o delle più efferate: un improbabile catalogo nazional-popolare dove i siciliani stentano a riconoscersi». La novità del film di Tornatore non risiedeva nelle maschere caratteristiche – la vedova bianca, il prete censore, il proiezionista cieco, il matto del paese, il carabiniere dalla lacrima facile – che potevano apparire citazioni della filmografia sulla Sicilia. La novità stava nel racconto di una Sicilia letta in filigrana attraverso l’avventura epica del cinema, italiano e hollywoodiano. Al netto di tutto, Tornatore aveva compiuto l’operazione di usare la Sicilia come contenitore, non passivo, dell’emozione della memoria in celluloide. Lo sbarco degli americani Non c’è bisogno di citare La terra trema di Luchino Visconti per raccontare l’antico rapporto tra la Sicilia e il cinema. Leonardo Sciascia diceva: «La Sicilia è cinema». Set naturale per drammi, commedie, caricature e parodie, la Sicilia finiva sempre per essere raccontata da uno sguardo esterno, più o meno attento, più o meno stereotipato, ma esterno. Nel 1987 arrivava in Sicilia Michael Cimino per girare Il siciliano con Christopher Lambert. Doveva essere una favola mitologica sul bandito di Montelepre, ormai canonizzato dalle ballate dei cantastorie e dal bianco e nero di Francesco Rosi. Lo sbarco a Palermo delle troupe americane elettrizzava la città. Decine di comparse si mobilitavano, guidate da Enzo Castagna, factotum dello spettacolo, impresario cine26­­­­

matografico, venditore di casse da morto e, secondo le accuse della magistratura, figura legata ai boss del quartiere Noce. «Gli americani sono felici di girare film a Palermo perché qui trovano la tranquillità», mi aveva detto in un’intervista televisiva alla fine degli anni Ottanta. Aveva solo chiesto di non inquadrare le bare, esposte alle sue spalle, per evitare malevoli interpretazioni. Si mobilitavano le comparse – macellai con facce di vescovi, fruttivendoli con le facce da baroni, mafiosi di borgata con le facce di mafiosi di borgata – ma anche il bel mondo di principesse, duchi, baroni. Come avevano fatto nel 1963 per Luchino Visconti, alcuni nobiluomini e nobildonne palermitane, se convocati dalle grandi produzioni, rispolveravano dagli armadi gli abiti degli antenati e si mettevano disciplinatamente agli ordini del regista per rappresentare l’immagine di se stessi, recitando nei panni dei padri o dei nonni. Strano modo di stare davanti allo specchio. Ma non mi sottrassi nemmeno io. Quando Francis Ford Coppola nella primavera del 1990 parcheggiò davanti al Teatro Massimo la sua roulotte argentata che usava come cabina di regia per girare le scene della terza parte del Padrino, mi presentai per fare la comparsa. Mi affidarono il ruolo di giornalista e assieme ad altri colleghi – anche loro giornalisti nella vita, come sul set – ci spiegarono che dovevamo tentare di intervistare don Michael Corleone al suo arrivo al Teatro Massimo (riaperto eccezionalmente per il film dopo quasi vent’anni di chiusura), dove il figlio Anthony debuttava nella Cavalleria rusticana. Passò Al Pacino in smoking, a braccetto di Diane Keaton. La scena fu rifatta alcune volte. Dovevamo avventarci su Al Pacino e chiedere: «Mister Corleone, cos’è la mafia?». Nel film è rimasto un fotogramma grande quanto un francobollo con la mia faccia. Di quei giorni scrissi una cronaca sul «Corriere della Sera»: In un vecchio palco col Padrino era il titolo del servizio, pubblicato il 17 aprile 1990 sulle pagine degli spettacoli. 27­­­­

A sera si accendono i riflettori sul Massimo, di fronte a centinaia di persone tenute alla larga dalle transenne, per ore e ore in attesa del ciak, incuriosite e meravigliate di fronte allo spettacolo del teatro riaperto, miracolosamente, dopo diciotto anni di chiusura per restauri. Miracoli del cinema. Miracoli delle produzioni miliardarie americane e delle leggende che ormai accompagnano Francis Ford Coppola e la sua affollata troupe, da settimane impegnata a Palermo per le riprese del Padrino 3. Sulla scalinata un tappeto rosso e candele accese. Dalle auto di lusso scendono signore in lungo, eleganti: si incontrano, si salutano, tra sorrisi e baciamano. Sono le comparse, oltre trecento, chiamate da Coppola per dare vita a una delle scene-chiave di questo film. Ma quelle comparse, che recitano i fasti dimenticati della nobiltà palermitana, in realtà recitano anche se stesse. Agli ordini del regista e dei suoi aiuti si muovono obbedienti nomi illustri: Filippo Notarbartolo, Gioacchino Lanza Tomasi, Fatta del Bosco, Carpinello, Pasqualino, Bordonaro e tanti, tanti altri. La moglie dell’eurodeputato comunista Luigi Colajanni presta la sua figura a Diane Keaton per le prove luci. E ancora ci sono avvocati, architetti, medici, ingegneri e i giornalisti si sottopongono a estenuanti tour de force notturni per poter ottenere un fotogramma con la propria immagine inserita nella storia del cinema. Nella platea del Teatro Massimo, fra una pausa e l’altra, giocano a carte docenti universitari travestiti da preti, giovani rampolli dei «gattopardi» in smoking, accanto ad avvocati che indossano divise da poliziotti. Strani capannelli, sotto i lampadari del Massimo: fino alle cinque del mattino, le signore tentano disperatamente di mantenere in piedi acconciature laboriose. Per questa splendida messa in scena hanno tirato fuori i gioielli di famiglia. Meglio indossarli in una serata falsa, piuttosto che tenerli nei cassetti in attesa che il teatro venga finalmente restaurato e riaperto, chissà quando. In tutti i salotti si parla del film. È diventato un evento. E tutti tentano di poter dire: «C’ero anch’io».

Poi, a riprese concluse, nella notte fonda di una città che ancora non aveva scoperto la transumanza della movida, bastava andare al Dag, piccolo locale al Borgo Vecchio, gestito da Alfonso Melisenda, per ritrovare Al Pacino che giocava a 28­­­­

scacchi sul soppalco: nessuno lo disturbava, muoveva i suoi pezzi fino all’alba. Più di una volta riaccompagnammo John Savage al suo albergo dopo una bevuta di troppo. Dal Dag passavano pure Talia Shire o George Hamilton. Avrei voluto conoscere Sofia Coppola, era carina, ma aveva solo diciotto anni e credo facesse vita ritirata col padre. La sovrapposizione tra cinema e realtà era imbarazzante. Giornalisti che recitavano da giornalisti, principesse che recitavano da principesse, killer che recitavano da killer. Durante le riprese di Il sole buio di Damiano Damiani, sempre tra il 1989 e il 1990, stagione di intensa attività cinematografica in Sicilia, alcune comparse che interpretavano il ruolo dei killer approfittarono di una pausa delle riprese per andare a compiere un attentato. Avevano l’alibi documentabile: ecco, signor giudice, ero sul set, stavo facendo la parte del mafioso, ma solo per ragioni di copione. Top Gun ai Quattro Canti Non era mai successo prima, ma nell’estate del 1989 il festino di Santa Rosalia si tenne due volte. La prima, come sempre, il 14 luglio. Ma ad agosto il carro trionfale che porta in processione l’immagine della santuzza ritornò sul Cassaro. Esigenze produttive, appunto. Francesco Rosi girava Dimenticare Palermo con Jim Belushi e Mimi Rogers, tratto dal libro di Edmonde Charles-Roux, storia di un giovane americano di origini siciliane, candidato a sindaco di New York, che decide di trascorrere la sua luna di miele a Palermo, città dei suoi genitori. Ma Palermo si rivelerà una città cupa e densa di minacce per l’americano, che in campagna elettorale ha appena lanciato la proposta di liberalizzare le droghe. Un’idea che non piace per niente alla mafia. Alcune scene del film si svolgevano durante il festino di Santa Rosalia. E così santuzza, carro trionfale, suonatori, luminarie e venditori di babbaluci tornarono in corso Vittorio Emanuele per questo bis. Al giornale finivamo sempre tardi 29­­­­

di lavorare, poi si andava a cena e quando ormai non restava più niente da fare qualcuno diceva: «Andiamo al festino bis?». Era sempre una delle ragazze a lanciare l’invito. Non a caso. A Palermo era sbarcato da alcuni giorni il marito di Mimi Rogers. Un certo Tom Cruise. Era proprio lui il centro dell’attrazione di amiche e colleghe. Aveva già interpretato il tenente Maverick in Top Gun e aveva recitato nei film Il colore dei soldi, Rain Man e Nato il quattro luglio. Grazie ai nostri tesserini da giornalisti e a qualche entratura nella troupe riuscivamo ad arrivare alle spalle di Rosi. Stavo a guardare quel pezzo d’uomo che col suo vocione dirigeva il cast, pensando ai suoi film che avevo visto e rivisto decine di volte. Mi voltai, mi ritrovai accanto a Tom Cruise. Ci scambiammo un sorriso, le mie amiche erano elettrizzate. Mi consolai constatando che Tom era molto più basso di me. Così era la Sicilia. Tom Cruise e Francesco Rosi, Al Pacino e Francis Ford Coppola. Mica male per una città alla periferia dell’impero, in una regione a sud del Sud dell’Europa. Poi, in sala, quando si spegnevano le luci, prevaleva la delusione: la Sicilia veniva fuori più o meno al solito modo. Funerali, omicidi, crisantemi, preti, killer, cavallerie rusticane. Il vecchio pentagramma. L’isola in sottoveste Tornatore, come abbiamo visto, aveva reso glam la Sicilia, ponendola sotto la luce della nostalgia per il luogo perduto dell’infanzia. Aveva intuito che la Sicilia riusciva a offrire una nuova immagine di sé al di là di quella della mafia o delle corna. Non era il solo. Qualcosa si stava muovendo nell’estate del 1987. Mentre Tornatore girava il suo film a Palazzo Adriano, la Sicilia veniva percorsa in lungo e in largo su una vecchia automobile dal fotografo Ferdinando Scianna, assieme a Stefano Gabbana, Domenico Dolce e la modella olandese Marpessa. I due stilisti – milanese Gabbana, siciliano di 30­­­­

Polizzi Generosa Dolce – stavano preparando la campagna pubblicitaria per la loro collezione. Fino a quel momento avevano avuto buone recensioni dai giornalisti specializzati, ora avevano creato abiti ispirati alle radici siciliane di Dolce. La scelta di Scianna, distante dalla moda, nasceva proprio dal lavoro che il fotografo aveva fatto sulla Sicilia degli anni Sessanta. Adesso, il gioco era quello di far rivivere le immagini in bianco e nero di una realtà al tramonto, se non tramontata (letti di ferro, vecchie botteghe, volti bruciati dal sole), giocando con la bellezza esplosiva di Marpessa, abbigliata con i vestiti «alla siciliana» disegnati dalla coppia di stilisti. Citazione su citazione, echi di fotografia e di cinema, Dolce e Gabbana fecero diventare di moda sottovesti nere e canottiere bianche. Di rimando in rimando, nel settembre 1994 Dolce e Gabbana chiedono a Tornatore di girare lo spot per il profumo – guarda caso – Sicily. Le musiche sono di Ennio Morricone. Il testimonial è Monica Bellucci, bellezza umbra che corrisponde però al canone della bellezza siciliana. Adesso, il gioco nemmeno tanto nascosto è di richiamare le emozioni di Nuovo Cinema Paradiso, nella sua accezione più sensuale e con un fortissimo bianco e nero (come in bianco e nero erano i fotogrammi dei baci rimontati nell’ultima scena del film) da cinema anni Cinquanta. Lo spot di trenta secondi, passato alla storia per il pescatore che addenta il polpo appena pescato, va in onda per lungo tempo sulle tv di mezzo mondo. E qualche anno dopo, ancora Tornatore ne produrrà un altro, sempre con Monica Bellucci protagonista (al punto che il film di Tornatore del 2000 Malèna provocherà nello spettatore il corto circuito tra spot e lungometraggio). Non sono un critico cinematografico, né pretendo di improvvisarmi tale. Il mio tentativo è semplicemente quello di capire come negli anni Novanta e Duemila, mandanti due stilisti che costruiscono gusti collettivi e complici due grandi architetti dell’immaginario (un fotografo e un regista), la Sicilia diventi fashion. Dolce e Gabbana, infatti, molte altre volte 31­­­­

sceglieranno la Sicilia (intesa come quintessenza dell’Italia) per i loro spot. Già qualcuno dice: ma è la solita paccottiglia di carretti decorati, maioliche azzurre, mari limpidi e facciate barocche. Forse è vero, ma la questione è che nel teatrino di cartapesta non ci sono più compare Alfio e compare Turiddu (buoni selvaggi dagli istinti primordiali), ma Colin Farrell e Laetitia Casta. Scusate se è poco. E non solo: questa sicilianità è riciclabile in tutto il mondo in termini di marketing, style e runway. Centinaia di migliaia di persone comprano e indossano le sottane che sembrano quelle delle nonne e le canottiere che sembrano quelle dei nonni, proprio quando le nonne e i nonni siciliani hanno abbandonato per sempre nell’armadio sottane e canottiere. L’oleografia si fa business.

Gli antisiciliani

La Sicilia è un’isola di merda. Roberto Vecchioni

I siciliani amano parlare e sentir parlare di se stessi, costi quel che costi. La dimostrazione di questo assunto diventa fatto concreto il 3 dicembre del 2015 nell’aula magna della facoltà di Ingegneria dell’università di Palermo. Davanti a una sala gremita di studenti e genitori, il cantautore milanese Roberto Vecchioni lancia la sua invettiva: «Credete che sia qua soltanto per sviolinare? No, assolutamente. Arrivo dall’aeroporto, entro in città e praticamente ci sono quattrocento persone su duecento senza casco e in tutti i posti ci sono tre file di macchine in mezzo alla strada e si passa con fatica. Questo significa che tu non hai capito cos’è il senso dell’esistenza con gli altri. Non lo sai, non lo conosci. È inutile che ti mascheri dietro al fatto che hai il mare più bello del mondo. Non basta, sei un’isola di merda». Boom. Le parole di Vecchioni – e il video del suo intervento – rimbalzano sulle home page dei giornali, sui siti, sulle pagine dei quotidiani, nei telegiornali. La frase incriminata («Sei un’isola di merda») fa titolo, con o senza i puntini di interpunzione del pudore. E le agenzie battono commenti e dichiarazioni di politici, mentre i social network divampano. Tutti contro Vecchioni? Innanzitutto la reazione dell’orgoglio ferito. «Non c’è niente di peggio delle banalizzazioni e delle generalizzazioni, quelle in cui, purtroppo, è caduto Vecchioni. Da un cantautore tanto apprezzato, e vincitore 33­­­­

anche di un Festival di Sanremo, ci saremmo attesi valutazioni più profonde e meno stereotipate», dichiara l’ex presidente del Senato Renato Schifani, politico palermitano, infilandoci pure quella vittoria al Festival di Sanremo che, si presume, debba portare con sé cautela e saggezza al possessore del titolo. E, naturalmente, si scatenano gli insulti su Facebook. Vecchioni viene preso a male parole: la più educata prevede il ribaltamento ad personam della sua definizione della Sicilia. Ma nella Sicilia che ama sentir parlare di sé, anche male purché se ne parli, alcuni notano che nessuno, tra il pubblico presente nell’aula magna della facoltà di Ingegneria, si è alzato per contraddire il cantautore. Addirittura, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando – il Comune offriva il suo patrocinio all’incontro organizzato all’università – difende Vecchioni: «Conferma di essere un grande amico della Sicilia e dei siciliani. Con le sue parole ci ha ricordato che la Sicilia merita molto di più e molto di meglio di ciò che ha oggi. Chi punta l’attenzione su alcune parole forti e colorite usate dal cantautore fa come chi, davanti al dito che indica la luna, si concentra sul dito». Leoluca Orlando non è l’unico. Sono molti i siciliani che si schierano dalla sua parte: giornalisti, commentatori, cittadini, opinionisti. Per riassumere un sentimento popolare, di parte dei siciliani, basti la presa di posizione di Sandra Rizza, giornalista e scrittrice, impegnata da anni sui fatti di cronaca e giudiziaria di Palermo, pubblicata sul sito ArticoloTre: Mi chiamo Sandra Rizza, ho 53 anni, vivo in Sicilia da quando sono nata e dico che quest’isola è una merda. È una merda perché è il mattatoio del sistema criminale che l’ha usata come «camera della morte» per eliminare sistematicamente tutti i suoi nemici, fino a far esplodere Falcone e Borsellino. È una merda perché da quando ho avuto la facoltà di comprendere, mi ricordo di sparatorie, ammazzatine, stragi, omicidi, scannamenti che non hanno risparmiato nemmeno i bambini, e mi rendo conto di aver trascorso tutta la mia vita in una zona di guerra. È una merda perché è l’isola del 61 a zero: il serbatoio elettorale 34­­­­

di Silvio Berlusconi e del suo braccio destro Marcello Dell’Utri, palermitano e mafioso. È una merda perché i suoi più recenti presidenti della Regione, Cuffaro e Lombardo, sono stati «dimessi» dalle inchieste per mafia, e l’ultimo Governatore, Crocetta, ha smesso di predicare la rivoluzione antimafia e si è incollato il culo alla poltrona, come il peggiore dei politicanti interessati solo alla perpetuazione del potere. È una merda perché il suo più prestigioso imprenditore, il capo di Confindustria Sicilia, da un anno è sotto inchiesta per mafia (si vedrà se a torto o a ragione) e non ha neppure ritenuto di dimettersi. È una merda perché il leader di Confcommercio Palermo, un paladino della lotta al racket, è stato arrestato per estorsione mentre intascava una tangente di 100 mila euro. È una merda perché nelle sue città, da Est a Ovest, le processioni religiose si inchinano sotto le abitazioni dei capimafia.

L’invettiva va avanti a lungo, compone un cahier de doléances noto, più o meno a memoria, ai cinque milioni di siciliani che vivono nell’isola e condiviso anche da quelli che non ci vivono più. È una merda perché qualcuno continua a scrivere sui muri di Palermo che la mafia è bella anche dopo il tritolo del ’92, l’uccisione di politici, magistrati, giornalisti, imprenditori per mano mafiosa, e la distruzione urbanistica della città che, a parte il centro storico e l’asse Politeama-Libertà, ha i palazzi più brutti d’Europa. È una merda perché alle feste, le cosiddette persone perbene ti continuano a chiedere «di chi è figlio» quello o quella, rivelando di non aver mai abiurato alla cultura tribale dei gruppi che contano. È una merda perché il figlio di un boss mafioso si aggira negli hotel di lusso a raccontare ai turisti una storia romanzata della mafia e nessuno ci trova niente di strano. È una merda perché ad ogni angolo di Palermo c’è un parcheggiatore abusivo che ti chiede il «pizzo» e se ti ribelli non sai mai come ti può finire. È una merda perché negli istituti privati, le suore costringono i bambini ad applaudire i politici corrotti che fanno avere i finanziamenti giusti. 35­­­­

È una merda perché le maestre raccontano agli alunni che la mafia ci protegge dall’Isis. È una merda perché alle manifestazioni di solidarietà per Nino Di Matteo ci vanno sempre gli stessi (pochi) illusi e li prendono pure in giro. È una merda perché i miei figli studiano con l’unica speranza di poter un giorno emigrare per vedere riconosciuti i loro meriti. È una merda perché la mancanza di opportunità ci rende tutti fatalisti e pessimisti ma quando qualcuno ci ricorda i nostri difetti diventiamo tifosi sfegatati della nostra bella Sicilia e ci manca solo che afferriamo il marranzano e cominciamo a ballare la tarantella in mezzo alle strade. È una merda per questo e tanto altro e lo sappiamo tutti e se un cantautore ubriaco, per eccesso di alcol o per semplice idiozia, ci ricorda che viviamo in questa merda possiamo pure sputargli addosso tutto il nostro disprezzo ma la merda rimane e forse è di questo che dovremmo cominciarci a preoccupare.

L’inverno dello scontento siciliano, il malpancismo continuo, il disgusto pieno della vita, l’antisicilianismo di chi vive nell’isola come ostaggio più o meno volontario, come prigioniero con una smorfia di disprezzo, finiscono per far emergere un modo di vedere la vita di un pezzo dei siciliani di Sicilia. Le parole di Vecchioni riaprono un solco antico tra chi vive nell’isola pensando che, tutto sommato, sia il migliore dei mondi possibili e chi ci vive ritenendo di stare all’inferno. Dilemma mai sopito, mai risolto: di qua gli scontenti, gli insoddisfatti, i siciliani che detestano la Sicilia, i nemici della contentezza, gli snob dal sopracciglio alzato, gli esiliati in patria; di là, invece, gli integrati, gli ingenui, gli illusi, il ventre molle, i privilegiati, gli utili idioti, la borghesia mafiosa o paramafiosa, i piritolli orgogliosi di vivere in un posto dove si può andare al mare a dicembre o stare in maniche corte a gennaio. Parafrasando Umberto Eco, la Sicilia è ancora il luogo degli apocalittici e degli integrati. E le frasi di Vecchioni, ancora una volta, solleticano questa doppia identità che, di fatto, 36­­­­

può convivere nella stessa persona, perché ogni siciliano o siciliana, a seconda delle circostanze, può credere di vivere al paradiso o all’inferno, anche se forse la Sicilia, come ogni altro luogo, è solo il nostro quotidiano purgatorio. Per onore di cronaca, è giusto dire che il discorso di Vecchioni non si conclude con l’invettiva contro «l’isola di merda». Il cantautore, nelle sue parole, stuzzica quella «sindrome del Gattopardo» che si annida nell’animo dei siciliani, anche i più avvertiti, di essere razza a parte, figlia di giganti e semidei. Vecchioni aziona la trappola psicologica dentro cui ognuno di noi siciliani, almeno una volta nella vita, è caduto. «I siciliani sono la razza più intelligente che esiste al mondo. Perché si buttano via così? Mi dà un fastidio immenso che l’isola non sia all’altezza di se stessa», continua infatti Vecchioni in quel pomeriggio del 3 dicembre 2015. «Non amo la Sicilia che rovina la sua intelligenza e la sua cultura, le sue coste. Quando vado a vedere Selinunte, Segesta e altri posti di questo tipo non c’è nessuno. Non amo questa Sicilia che si butta via, che non si difende». Insomma, ci sono tutti gli elementi per rispolverare un antico sicilianismo e per scoperchiare un antisicilianismo che percorre sottotraccia la storia culturale della Sicilia. Vecchioni però dimentica un fatto elementare: della Sicilia può parlar male solo chi è siciliano, altrimenti si rischia di accendere il permaloso orgoglio isolano. Ma ormai le cose sono cambiate. E anche in Sicilia c’è chi non ha paura di essere e mostrarsi antisiciliano, sostenendo le tesi di un intellettuale milanese. Anzi, diciamo che, dopo oltre un secolo di sicilianismo, l’antisicilianismo comincia ad essere un nuovo blasone distintivo, un lessico diverso e moderno di professare il proprio amore per l’isola parlandone male. Aborro l’isola Gli spettatori della tv lo conoscono come juventino sfegatato. Non è singolare, visto che la Sicilia è la regione dove, tradi37­­­­

zionalmente, la Juve ha il maggior numero di tifosi, subito dopo il Piemonte. E sono tantissimi. «Alzi la mano chi non ne ha uno in famiglia», scrive nel novembre 2015 sul «Giornale di Sicilia» Carlo Brandaleone, cronista esperto della squadra rosanero. «Saranno tanti, in ogni settore dello stadio. È Palermo da sempre la seconda città della ‘Signora’, è qui che il club bianconero giocò in esilio la Coppa Uefa e la finale di Supercoppa contro il Paris Saint-Germain nel 1997, è qui che Mariella Scirea volle ricordare per la prima volta il marito scomparso; è qui che almeno una volta l’anno, con le due squadre in A, sembra di vivere un derby». Ma Giampiero Mughini, assiduo frequentatore delle tribune televisive del dopopartita, è molto più che un tifoso. È un giornalista di lungo corso. Un raffinato collezionista di prime edizioni di libri del Novecento e di oggetti in stile liberty, spesso esemplari rarissimi. Uno scrittore e un intellettuale che ha creato e diretto riviste e giornali, diventando nel Sessantotto uno dei punti di riferimento culturali di quel movimento, prima di dividere le sue strade dalla sinistra militante. Giampiero Mughini è nato a Catania, da padre toscano. E a Catania si è formato nei suoi primi trent’anni di vita. Solo nel 1970, circa, si è trasferito a Roma. Alcuni giorni dopo l’intervento provocatorio di Roberto Vecchioni, Giampiero Mughini è ospite negli studi di La Zanzara, il programma di Radio 24. E col suo tono inconfondibile rincara la dose: «Vecchioni? Sulla Sicilia ha fatto benissimo». Ma come, Mughini rinnega la sua terra? «La Sicilia è la terra dove è sepolta mia madre – prosegue Mughini –. Io dico che la odio. Ma si deve capire l’intensità di questo sentimento. Guardate l’assemblea regionale siciliana, che sentimenti puoi provare?». Il disgusto di Mughini finisce per identificare la Sicilia con i suoi rappresentanti politici. La polemica però investe tutti i comportamenti sociali diffusi nell’isola. «Vecchioni – continua Mughini – non è stato ipocrita, non l’ha detto a Varese. Ha offerto i suoi sentimenti ad un pubblico che aveva di fronte e che poteva ribattere. Ma i 38­­­­

suoi sentimenti mica erano quelli di un padano. Erano quelli di un italiano che sente la Sicilia con dolore. Ogni siciliano risponde di se stesso, ma ognuno ci mette del suo in quanto a sciatteria, evasione fiscale, malcostume». Mughini non ha improvvisato la sua intemerata contro l’isola. A onor del vero, bisogna riconoscere che gli stessi concetti li aveva espressi in tempi non sospetti, almeno un anno prima dell’invettiva del cantautore milanese. Anche questa volta in diretta, ma in televisione, alla trasmissione Tiki Taka, in onda su Italia 1 nel novembre 2014. Tutto comincia con una domanda del conduttore, Pierluigi Pardo, rivolta al patron del Palermo, Maurizio Zamparini. E sono fuochi d’artificio tra l’imprenditore del Nord che è sceso in Sicilia e il giornalista siciliano che è andato al Nord. Pardo chiede a Zamparini com’è la qualità della vita a Palermo: Zamparini: È dieci volte superiore a quella di Milano, tutto il Sud ha la qualità della vita alta, Palermo ha avuto diverse dominazioni e ha una grandissima storia. Mughini: Ma come mai siamo stati milioni di meridionali a venire al Nord a cercare la vita del Nord e il lavoro del Nord? Io sono siciliano, ma sono fuggito dalla Sicilia. Zamparini: Appunto, tu sei siciliano e sei andato a Nord per cercare lavoro, se ci fosse stato il lavoro in Sicilia non credo saresti partito, così come quando finirai di lavorare penso che la tua vecchiaia la vorrai passare in una terra meravigliosa come la Sicilia. Mughini: No. Pardo: Ma come no, Giampiero? Zamparini: Mi fa specie che tu dica questo da siciliano e che tu preferisca vivere a Torino, Milano o Roma, non ti capisco. Mughini: È molto facile da capire, io quando sono andato a Parigi da ragazzo mi sono detto: era qui che dovevo nascere. Altro che il mare siciliano, si dicono un sacco di fesserie... Zamparini: Le fesserie le sta dicendo lei, io non condivido il suo pensiero ma non per questo dico fesserie. Mughini: Minimamente ho pensato a lei, mi riferivo alla retorica meridionalista, il sole, i fichidindia, gli alberi, la detesto. Zamparini: Io sono friulano, un nordista vero, ma mi creda, 39­­­­

quello che lei sta dicendo del Sud e della Sicilia, mi sorprende davvero, non capisco come lei possa parlare così quando ci sono milioni di disoccupati in Italia e un degrado diffuso in tutta Italia! Mughini: Lei i milioni di disoccupati non li rimette in moto partendo dai fichidindia.

Andate all’inferno «Visto dall’alto l’inferno degli italiani è bellissimo». Con queste parole, nell’agosto del 1992, Giorgio Bocca apriva il suo libro inchiesta L’inferno. Profondo Sud, male oscuro. Il giornalista di Cuneo, piemontese montanaro, all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, pubblica il suo viaggio nell’Italia del Sud descrivendone i vizi, raccontandone le vittime, raccogliendo le voci di magistrati, sindaci e giovani che resistono all’urto della violenza mafiosa. Ma l’inferno resta sempre inferno. «Dalla rocca di Erice – scrive Bocca – dall’aereo che scende sul mare verde e franto di Punta Raisi, dalle radure del Pollino su cui trascorrono nubi leggere fra i due mari, esso sembra disegnato per gli dèi. Alle porte di questo inferno, dentro questo inferno ti avvolgono i profumi forti dei mirti, della macchia, degli aranceti, del salso che arriva dall’Isola delle Femmine sulla strada di Palermo, dentro i calori della terra calda. Questo inferno degli italiani pieno di linfe sulfuree, di sorgenti fumanti, di lave scorrenti senza il quale noi del settentrione che ci portiamo addosso gli odori scialbi delle marcite, i gusti tenui dei pesci di lago non ci sentiremmo mediterranei, non ci sentiremmo anche noi figli della terra in cui fioriscono i limoni». Quel libro era destinato volutamente a far polemica, a partire dal titolo. I giornali e i giornalisti del Sud, compresi i siciliani, fecero le pulci a Bocca, colpevole – come spesso gli accadeva – di storpiare nomi di persone, di attribuire qualifiche sbagliate agli intervistati, di confondere luoghi. Ma contestando gli errori veniali, si voleva contestare la tesi di fondo 40­­­­

del libro: il Sud, e dentro il Sud la Sicilia, non era inferno. O quanto meno, non era solo inferno. O meglio ancora, la Sicilia non era solo mafia. Retorica antica che durava da oltre un secolo, dall’Unità d’Italia, a partire dal delitto di Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo, ex direttore generale del Banco di Sicilia, uomo della destra storica, assassinato con ventisette coltellate sul treno da Trabia a Termini Imerese il 1° febbraio 1893. Delitto di mafia, senza dubbio. E oltre agli esecutori, fu indicato come mandante il deputato nazionale palermitano Raffaele Palizzolo. Attorno al processo contro Palizzolo, celebrato in varie sedi giudiziarie italiane, trasferito per legittima suspicione a Milano e poi a Firenze, concluso con un’assoluzione per insufficienza di prove, si consolidò e organizzò il sicilianismo con la creazione del comitato Pro-Sicilia, con l’arruolamento di intellettuali e scrittori, con la fondazione, da parte della ricchissima famiglia degli imprenditori Florio, del giornale «L’Ora». La tesi di fondo, riassunta sbrigativamente, era semplice: la Sicilia è stata annessa a forza al resto d’Italia, malgrado avesse le caratteristiche di nazione; è stata saccheggiata e sfruttata; militarizzata per garantire l’ordine pubblico; ma, soprattutto, calunniata con l’invenzione della mafia. Accusando Palizzolo di mafia come mandante del delitto Notarbartolo, si finiva per mettere sotto accusa l’intera Sicilia e la sua classe dirigente. Gli storici ci perdoneranno per questa ricostruzione sommaria, ma resta il fatto che questo orgoglio isolano, culturalmente ed editorialmente proclamato, è sopravvissuto a lungo e, per certi versi, continua a sopravvivere. Un secolo dopo, a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, nella stagione delle prime grandi inchieste su Cosa Nostra e del maxiprocesso ai boss, continuava ad avere eco sui giornali, nei libri, nei commenti. La Sicilia non è solo mafia, era il ritornello. E chi sosteneva il contrario finiva per diventare nemico della Sicilia. Giorgio Bocca peraltro incarnava perfettamente il profilo 41­­­­

del colonizzatore sabaudo, del funzionario piemontese, del carabiniere settentrionale, del giornalista carico di pregiudizi che arrivava in Sicilia con lo stesso sguardo di Aimone di Chevalley, emissario del governo piemontese, che, nel Gattopardo, dalla sua carrozza scrutava la Sicilia: «Chevalley era solo; fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì il vetro per l’ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile». Irredimibile il paesaggio. Irredimibile la Sicilia. Irredimibili i siciliani. Piemontese Chevalley, piemontese Bocca. Cosa si poteva pretendere di più e di diverso da chi arrivava da così lontano? Bocca, peraltro, negli anni successivi avrebbe rincarato la dose, con alcune sue virate verso il leghismo nascente e con dichiarazioni come questa, rilasciata nel 2011 nella lunga videointervista La neve e il fuoco in cui parla dei suoi reportage al Sud: «Durante i miei viaggi c’era sempre questo contrasto tra paesaggi meravigliosi e gente orrenda, un’umanità repellente». Come a Palermo: «Una volta mi trovavo nei pressi del palazzo di giustizia. C’era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie». Bocca ammetteva che comunque la Sicilia e il resto del Sud erano territori di caccia grossa per un giornalista in cerca di notizie, ma non mostrava alcuna gratitudine verso questo immenso serbatoio di storie: «Grato? Come dire: sono grato perché vado a caccia grossa di belve. Insomma, non sei grato alle belve, fai la caccia grossa, non è che fraternizzi con le belve». Benedetto Croce alla catanese Non è piemontese Alfio Caruso. Catanese, giornalista agguerrito, per molti anni caporedattore del «Corriere della Sera», autore di libri sulla mafia, sulla Sicilia e su cronache storiche, nel 2002 Caruso pubblica per Longanesi un pamphlet dal titolo inequivocabile: Perché non possiamo non dirci mafio42­­­­

si. La quarta di copertina riassume così il senso del libro: «Cosa Nostra racchiude e sublima la zavorra che abbiamo accumulato in trenta secoli di megalomania, di vittimismo, di magniloquenza, di presunzione, di alterigia, di eccesso di intelligenza». Caruso, a ogni buon conto, premette di essere «innamorato perso della sua terra», e la sua invettiva assume la forma di una sorta di psicoanalisi individuale e collettiva, per strappare «angoscia e sofferenza» dal suo rapporto con la Sicilia. Nel racconto dei siciliani che hanno tenuto la schiena dritta e che per questo sono finiti ammazzati, Caruso individua una sparuta minoranza, rispetto alla gran maggioranza che si adegua e tira avanti. «Evidentemente non è bastato», scrive Caruso. «Quanto altro sangue dovrà essere versato prima che cinque milioni di siciliani accettino che il problema non è fuori di noi, ma dentro di noi?». Caruso non può essere accusato di piemontesismo o di leghismo. Pur avendo vissuto e lavorato al Nord, rivendica la sua sicilianità. E infatti i siciliani accettano la sferzata: il libro piace a quanti amano sentir parlar di se stessi, anche male, a condizione che lo faccia uno che conosce le cose, che per nascita e cultura non può non dirsi siciliano. Caruso può dire, come Vecchioni, che questa è un’isola di merda, perché esercita la sua critica dall’interno e non da turista o da visitatore occasionale. Caruso infatti usa il «noi» per parlare dei siciliani, si mette nel mucchio. Nel suo libro, il giornalista catanese raccoglie ed esaspera critiche, sospetti, malumori che già appartengono alla migliore letteratura siciliana, ai suoi campioni di scrittura come Pirandello, De Roberto, Brancati o Sciascia, e tira la corda all’estremo. Forza il paradosso: «Prima si è siciliani e dopo si diventa mafiosi, dunque la mafia esiste perché esistono i siciliani». E ancora: «Gli Amici e i Bravi Ragazzi non hanno inventato il peggio della Sicilia, ne sono semplicemente l’espressione più compiuta». Il frutto politico di questa concezione del mondo, secondo Caruso, è il Partito Unico Siciliano 43­­­­

(il Pus, con analogia lessicale non casuale), nel quale possono militare esponenti di destra o di sinistra, rappresentanti della società civile e di quella incivile, ma «capace al momento opportuno di amalgamare gli interessi più disparati». In definitiva: il Pus vince sempre. Probabilmente Caruso non ama Bocca, ma finisce per dargli ragione: «I giornali siciliani hanno aperto cento polemiche con i giornali di Milano, di Berlino, di Londra, di Parigi, di Stoccolma, di New York, di Los Angeles, imputati di scrivere che alla fine della giostra, alla fine del rimescolamento delle carte, la rappresentazione più forte della Sicilia è la mafia. Si sostiene che questi continentali con la puzza sotto il naso si divertono a trasformar una pagliuzza in trave. Non siamo mai sfiorati dal dubbio che gli altri ci vedono per come siamo». La Sicilia non è solo mafia? Ma è anche mafia, soprattutto mafia, dice Caruso, ricordando che «ci appelliamo all’opera di Dio – il clima della Sicilia, la bellezza della Sicilia, l’unicità della Sicilia – per dimenticare l’opera dell’uomo». E spiega: «Quando ‘Il Sole-24 Ore’ stila l’annuale classifica sulla vivibilità delle città italiane e Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Catania, Enna, Messina, Ragusa, Siracusa, Trapani si ritrovano abbonate agli ultimi posti la risposta è sdegnosa e sdegnata: il sole l’hanno calcolato? Il mare l’hanno calcolato? Il calore delle persone l’hanno calcolato? La granita con la panna l’hanno calcolata? La pasta con le sarde e il finocchio rizzo l’hanno calcolata? Che vivibilità ci può essere dove d’inverno bisogna infilarsi guanti e cappotti? Il giorno in cui vinse Bolzano il sindaco di Catania pronunciò una parola definitiva: i giornalisti che hanno preparato la graduatoria vadano a vivere a Bolzano e vediamo se dopo un anno non manifestano propositi suicidi». Abbasso la Sicilia, dunque. La Sicilia per come è, per come è diventata. E perfino oggi in cui l’emergenza mafiosa appare ridimensionata e Cosa Nostra ridotta a minori termini rispetto al passato, la furia iconoclasta degli antisiciliani 44­­­­

– dove per antisiciliani, ricordiamolo, gli stessi autori sottendono l’unico vero amore che si può avere per la Sicilia, cioè un sentimento di rabbiosa delusione e di indignato sconforto – trova nuove motivazioni. E non sarà più l’ossessione mafiosa il tratto caratteristico, semmai un’antimafia che si è fatta di volta in volta retorica o di facciata o di potere. O, più banalmente e concretamente, i disagi dell’essere siciliani: strade che cadono a pezzi, ospedali dove si muore, disoccupazione giovanile altissima, nuove emigrazioni, scuole cadenti e deficitarie, città caotiche, sporche e senza regole. Bomba o non bomba? Detestare La Sicilia. Anzi, detestare Palermo. Detestarla al punto da augurarle di essere cancellata dalle mappe geografiche con un bombardamento al napalm. È il febbraio 2010 quando Fulvio Abbate, scrittore nato e cresciuto a Palermo, ma residente (anche letterariamente) ormai da anni a Roma, con un video dal suo canale youtube, Teledurruti, lancia un provocatorio anatema. Abbate non è nuovo all’uso delle iperboli, ma quella presa di posizione contro la sua Palermo – alla quale ha dedicato più di un libro, a partire dal suo esordio nel 1990 con Zero maggio a Palermo, storia generazionale di due adolescenti degli anni Settanta, alla scoperta del mondo e affascinati da ideali rivoluzionari – diventa un piccolo casus belli. Come sempre, i commentatori sui blog si dividono: alcuni condividono, altri criticano pesantemente. Nasce una pagina facebook dedicata agli insulti contro Fulvio Abbate, le contumelie si raccolgono a grappolo. Se oggi cercate quel video non c’è più perché un attacco hacker, alcuni anni fa, ha cancellato quasi cinquemila interventi video di Abbate dal suo canale youtube. «Ho messo su youtube un video in cui mi chiedo: si può detestare un luogo che si chiama Palermo? Possono bastare poche ore per farti desiderare un bombardamento al napalm che cancelli ogni traccia di vita? E poi: chi ha reso insosteni45­­­­

bili i siciliani?», raccontava Fulvio Abbate nel marzo 2010 in un’intervista a Salvatore Ferlita per le pagine palermitane di «Repubblica». In realtà, già nel 2010, Abbate ammetteva di non saper più raccontare Palermo. O meglio ancora, di non saper più decodificare la città del presente. Dopo il suo primo romanzo del 1990 – memoria della Palermo degli anni Settanta – era tornato a parlare della sua città nel 2001. Poi, basta, tranne pochi altri accenni. «Allora, ritenevo di poter dire qualcosa sulla mia città. In questo nuovo libro parlo della Palermo di ieri, oggi devo confessare che faccio una fatica enorme a interpretarla: la guardo senza avere la cassetta degli attrezzi. Riesco insomma a parlare di Palermo facendo ricorso a una memoria di essa. Non saprei riconoscere nemmeno i volti dei politici attuali. Ho provato, poco tempo fa, a dire la mia sulla città, ma è successo un disastro». Dove la parola «disastro» contiene le reazioni al suo desiderio di vedere Palermo bombardata al napalm. Furia iconoclasta, iperbole antisiciliana all’ennesima potenza, in sintonia con la biografia visionaria di Abbate. Ma, per la verità, Fulvio Abbate non ci sta a passare per antisiciliano: «Non posso esserlo perché non sono un residente in Sicilia – spiega –, visto che me ne sono andato alla fine degli anni Settanta. Il mio rapporto con la Sicilia è genetico, perché vi sono nato, e di memoria. Ma forse è sbagliato parlare di Sicilia, il mio rapporto in realtà è solo con Palermo». E su Palermo, sulla Palermo della sua formazione politica e culturale, si accentrava nel 1990 il desiderio di Abbate che, con Zero maggio a Palermo, voleva scrivere «non un romanzo su Palermo, ma il romanzo di Palermo. Tentativo forse non riuscito, avendo scelto la storia di un giovane comunista a Palermo, vicenda non esemplare, ma probabilmente divisiva e minoritaria». Ci riprova nel 2001 con Il rosa e il nero. Palermo trent’anni dopo Mauro De Mauro, cronaca di una lunga «passeggiata» per Palermo, tenendo in filigrana il mistero della scomparsa 46­­­­

del giornalista dell’«Ora» Mauro De Mauro, rapito sotto casa il 16 settembre 1970, la cui fine non è mai stata processualmente chiarita. Nel libro, più di una volta, Abbate ammette l’impossibilità di scrivere di Palermo (o forse sarebbe meglio parlare di rifiuto?): «Quando da un quotidiano mi è stato chiesto di mettere per iscritto una guida destinata alle persone che vengono per la prima volta a Palermo, volevo dire subito di no. La chiedano semmai a chi campa, e bene, sui luoghi comuni siciliani». Si può iscrivere Fulvio Abbate nell’antisicilianismo con molteplici cautele. Delimitazione d’area: Palermo. Di tempo: la Palermo degli anni Settanta. E, fondamentalmente, l’antipanormismo di Abbate si risolve nel tentativo di omologare Palermo a una città come le altre. Eppure: «Forse, come dicono i luoghi comuni, Palermo è davvero un pezzo unico di mondo», scrive nel suo Il rosa e il nero (che sono, tra parentesi, i colori della squadra cittadina), sottolineando l’avverbio dubitativo, mettendo le mani avanti nel dire che, comunque, si tratta di luogo comune. Lo spirito antisiciliano – anzi, antipalermitano – di Abbate trova forma non tanto nei suoi libri, dove Palermo torna anche se non citata, sia pure come luogo di formazione, come luogo di crescita, di consapevolezza e quindi di fuga, quanto nei suoi video e nei social network. Il 26 ottobre 2012, alla vigilia delle elezioni regionali siciliane che decreteranno la vittoria di Rosario Crocetta e del centrosinistra alla guida del governo dell’isola, Fulvio Abbate inserisce nella sua pagina facebook un post tranchant: «Delle elezioni in Sicilia mi importa meno di mezzo, anzi, un quarto di cazzo». Nei commenti qualcuno ricorda il napalm, citando il Fulvio Abbate di due anni prima. Qualcun altro prova a smuovere la mozione degli affetti e delle radici: «Ti dovrebbe importare della nostra terra». Ma a scanso di equivoci, Abbate replica: «No, non mi importa. Me ne sono andato trent’anni fa e sto benissimo così. Una delle poche cose di cui vado fiero». 47­­­­

Malafemmena Voltare le spalle alla Sicilia è possibile, dunque. Detestare Palermo o dimenticare Palermo? Dimenticare sembra difficile, ma detestare la Sicilia è comunque un modo di prenderla in considerazione. Di amarla, addirittura. Che poi è lo sfogo di Pietrangelo Buttafuoco. Buttanissima Sicilia, urla nel 2014 il giornalista e scrittore di destra che piace alla sinistra, il sulfureo polemista di Agira, spesso controcorrente perfino quando ritrova le sue radici musulmane in Sicilia proprio mentre l’islam fa paura a tutti. Buttanissima. Che non è la stessa cosa di «isola di merda», ma ci somiglia. Buttanissima, per Buttafuoco, è l’isola che ha deluso, che ha tradito, che ha disonorato l’amore. E quell’insulto, che ricorda i canti di sdegno dialettali lanciati contro le malefemmene, gli stornelli al veleno, è un cuore gonfio di rabbia. Gli strali di Buttafuoco riguardano la Sicilia del potere, l’isola del tesoro di clientele e privilegi nascosti nei palazzi di Palermo, che danno da mangiare a migliaia di siciliani, ai burocrati con i superstipendi, ai baby pensionati d’oro, alle leggi e leggine figlie dell’autonomia regionale che ingrassano alcuni e affamano tutti gli altri. «Adesso basta. Qualcuno dica basta, perché l’autonomia sarà cosa santa e giusta ovunque ma in Sicilia no, è un flagello e trascina nel baratro l’Italia. Lì l’autonomia regionale, fonte di sprechi e burocrazia, è l’acqua che nutre l’arretratezza economica e sociale di un pezzo importante del Mediterraneo. Ed è la fogna in cui nuota la mafia», urla Buttafuoco nel suo libello che raccoglie articoli sulla e contro la Sicilia. È la fogna del potere, la Sicilia. In nessun posto come a Palermo il numero dei dipendenti pubblici lievita. A ogni legislatura corrisponde un’infornata di clienti. L’autonomia, in Sicilia, a eccezione dell’ufficio del commissario dello Stato... non ha strumenti di controllo. E non c’è quindi notizia che turbi il già disastrato status quo di un mostro burocratico-politico in cui gli enti mangiasoldi, in liquidazione da più di trent’anni, sono la testimonianza di una ca48­­­­

tastrofe socioeconomica... Senza dimenticare le varie monadi clientelari, la più famosa delle quali è quella dell’elargizione stagionale ai forestali – gestiti dalla Regione. Ma ancor peggio, e ancor più fruttuosa sul piano clientelare, è la giostra della «formazione»: un marchingegno attraverso il quale alcuni disoccupati trasformati in docenti «formano professionalmente» altri disoccupati destinati a diventare a propria volta «docenti» di nuovi disoccupati nel frattempo sopraggiunti, tutti foraggiati con i fondi racimolati nel mare delle sovvenzioni... È anche il posto, la Sicilia, dove secondo l’Istat si leggono meno libri, ma questo è solo un dettaglio, anzi, un lapsus. Rivelatore. L’autonomia consente di amministrare uno dei patrimoni culturali più sontuosi e importanti al mondo ma la Sicilia, che potrebbe campare solo di turismo e cultura, resta il luogo della desolazione, con i suoi musei sempre deserti e i siti archeologici dove bisogna aver cura di non recarsi nei giorni festivi per non trovare chiuso. Certo, questo mio è un appello – a Renzi? – e come tale è esagerato, ma ogni esagerazione è sempre troppo poco per descrivere fedelmente lo stato di abbandono in cui versa una terra meravigliosa abitata letteralmente da fantasmi, con le città sempre più abbandonate, deserte. Basta. Sono così numerosi i guai, in Sicilia, che il guaio della mafia, persino quello, viene dopo.

L’antisicilianismo furibondo di Buttafuoco però rischia di diventare speculare al sicilianismo. Opposto e assoluto, quanto il sicilianismo è stato e continua ad essere. Ne è consapevole Buttafuoco quando, in uno dei capitoli del libro, parla del Gattopardo: «Confessatelo, vedete la parola Gattopardo e vi scappa da dire: ‘Diocenescampi, basta!’. Basta, è vero, basta più. Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa è ormai un automatismo e non c’è sussiego in tema di società, costume e politica che – con gli occhi al cielo – non concluda infine ogni blabla con la smorfia definitiva: ‘Proprio così, è gattopardesco tutto ciò’». Se l’aberrazione del sicilianismo proclamava una Sicilia über alles, grande perché incompresa e incompresa perché grande, l’antisicilianismo buttafuochesco, sia pure con la sua attenzione (e maledizione) ai palazzi del potere, finisce 49­­­­

per porre una serie di interrogativi. Se la Sicilia del potere è la «fogna» del potere, allora vuol dire che da qualche parte esiste una Sicilia migliore, quella che per molti anni è stata chiamata, con definizione politico-giornalistica, la «società civile». Ma Buttafuoco non lascia dubbi: la società civile, scrive, è «ributtante». E se dunque la Sicilia del Palazzo non è migliore del resto della Sicilia, lo sguardo di Buttafuoco sembra sovrapporsi a quello di Chevalley: «Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile». Diocenescampi, basta! Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco: basta con la lettura di una Sicilia che non cambia mai, immutabile e irredimibile. Si può leggere il presente attraverso le lenti di uno scrittore morto sessant’anni fa? Forse la sua «cassetta degli attrezzi», direbbe Fulvio Abbate, non è più adeguata. È vero però che la Sicilia buttanissima di Buttafuoco non è irredimibile o immutabile: cambia. Ma cambia in peggio. Se appena ieri il problema era la mafia, oggi il vero problema è l’antimafia con i suoi eccessi, le sue passerelle, i suoi tic. Se ieri il problema era il presidente della Regione Salvatore Cuffaro – condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra –, adesso il problema è il suo successore, Raffaele Lombardo, o l’ultimo presidente, Rosario Crocetta. La Sicilia del potere può solo peggiorare, dice Buttafuoco: «Con Totò Cuffaro la Sicilia era quello che era: l’ultima ridotta democristiana. Fino alle estreme conseguenze: con il presidente della regione marchiato come ‘mafioso’ e – a oggi – persino detenuto. Con il suo successore poi, Mastro don Gesualdo, eletto nella coalizione berlusconiana (per farsi smacchiare in corso d’opera dall’onnipotente capo della sinistra antimafia, ossia il professionista Beppe Lumia), la Sicilia divenne quel che è ancora oggi: la fogna del potere. Con Rosario Crocetta, infine, eletto nell’alleanza a guida Pd, la Sicilia è solo impostura». Chissà se Giorgio Bocca avrebbe mai scritto una frase così. Buttafuoco lo fa e alle presentazioni del suo libro – o alle 50­­­­

rappresentazioni della sua trasposizione teatrale, con Salvo Piparo e Costanza Licata, per la regia di Giuseppe Sottile – si affolla un pubblico che comprende anche esponenti della classe dirigente e politica che hanno espresso quei presidenti, ai quali sono o sono stati legati e che hanno navigato a lungo nelle acque del potere siciliano. Purché si parli della Sicilia, pure se buttanissima, i siciliani accorrono. Resta da chiedersi fino a che punto possa spingersi l’antisicilianismo, dopo l’invettiva di Buttafuoco che, al momento, sembra aver raggiunto la massima temperatura possibile. Oltre c’è molto poco. Forse solo l’abbandono, la fuga e, in definitiva, l’indifferenza. La Sicilia come un luogo qualunque dove nascere, dove crescere, dove forse morire.

Il presente del passato

Appartengo totalmente alla cultura della Sicilia e alla letteratura di Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Brancati, Sciascia, Bufalino e Consolo. Andrea Camilleri

Piove o non piove? Per tutto il sabato gli organizzatori avevano scrutato il cielo di Venezia, interpellato i meteorologi. Il giorno prima un uragano aveva flagellato la laguna. Ma la sera dell’8 settembre, abbandonata ogni incertezza, il tempo era diventato bellissimo e la cerimonia del Campiello, nel cortile di Palazzo Ducale, si era svolta senza intoppi. Poche incertezze sull’esito, piuttosto. Con 110 voti, un terzo della giuria aveva assegnato il premio del 1990 a Dacia Maraini per il suo romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa, già campione di vendite. Il libro era stato pubblicato da Rizzoli nella primavera precedente. «Un padre e una figlia, eccoli lì: lui biondo, bello, sorridente, lei goffa, lentigginosa, spaventata. Lui elegante e trasandato, con le calze ciondolanti, la parrucca infilata di traverso, lei chiusa dentro un corsetto amaranto che mette in risalto la carnagione cerea». Con questo incipit, Maraini apriva uno scorcio di Settecento siciliano, età dei lumi, ma non a Palermo, dove Marianna, ragazza muta per qualcosa di misterioso e segreto che le è accaduto da bambina, si dibatte tra conformismi e desideri di ribellioni, tra matrimoni combinati e passioni d’amore, in un grande trompe l’oeil sugli splendori e le miserie dell’aristocrazia. 52­­­­

Enzo Siciliano, che recensisce il libro sul «Corriere della Sera» del 26 marzo 1990, non ha dubbi: «Dacia Maraini non ha soltanto scritto il suo libro più compiuto e determinato, ma anche un libro, un romanzo, che va di diritto a situarsi in quella tradizione dove Verga, De Roberto, Lampedusa hanno generato spirito e stile». Spirito e stile, dunque. Un’atmosfera del grande romanzo storico di ambientazione siciliana facilmente riconoscibile per il lettore. Un luogo noto, pertanto: «Le statue grottesche e stravaganti di villa Palagonia, i profumi di gelsomino e di zagara delle campagne di Bagheria, parrucche, tricorni, spadini, carrozze, tabacchiere, effluvi di cipria, nuvole di trine e merletti e sorbetti al limone, ricreano nelle pagine del romanzo un suggestivo profumo di Settecento siciliano», scrive «Tuttolibri» nell’aprile 1990. La risposta del pubblico è immediata: il libro, con 200.000 copie in poco tempo, diventa prima un best seller e poi – anche grazie al film di Roberto Faenza Marianna Ucrìa del 1997 – un long seller, destinato a una permanenza costante nelle librerie. Maraini ha tratto spunto per il romanzo dalla scoperta di una sua ava materna muta che nel Settecento trasformò la casina di campagna di Bagheria nella maestosa villa Valguarnera. La scrittrice, infatti, è figlia di Topazia Alliata, nobildonna palermitana di illustre famiglia, pittrice e gallerista che vivrà 102 anni. Eppure, fino al romanzo del 1990, le origini siciliane di Dacia Maraini erano rimaste sommerse. L’impegno a sinistra, le battaglie femministe di Maraini si sviluppavano tutte nei circoli intellettuali romani. Ora, il ritorno alla Sicilia, dopo anni di rimozione. «Sì, certo. Per molti anni ho rifiutato la Sicilia», ammette Maraini sul «Corriere della Sera» del 26 marzo. «Mi sono immersa nella realtà romana e non ho mai scritto della Sicilia, esclusione fatta per alcune lontane poesie. Adesso, invecchiando, mi è tornata la voglia di ritrovare le mie radici. Questo mio nuovo romanzo nasce da una memoria sepolta: la Sicilia per me rappresenta una maternità 53­­­­

linguistica e sensoriale, mentre Roma è il difficile presente che cambia, anche linguisticamente». Naturalmente, sui giornali si sprecano i riferimenti al Gattopardo. O all’anti-Gattopardo, se si vuole, visto che Maraini mette al centro della scena una donna ferita, al punto da restare muta, per un’umiliazione che cerca di essere sanata. La tradizione del romanzo storico, come dice Enzo Siciliano, qui subisce un cambio di prospettiva. All’assenza di figure femminili forti e positive – non lo è Angelica nel Gattopardo, non lo è La Lupa di Verga, né si può dire che lo sia L’esclusa di Pirandello – Maraini contrappone la sua Marianna Ucrìa, donna che nel suo mutismo sembra voler raccontare le donne senza voce della Sicilia e del racconto della Sicilia. Scrivilo tu, no scrivilo tu Prima di inventare il commissario Montalbano, ma anche dopo averlo inventato, Camilleri ha percorso le strade dei romanzi storici. In due sensi: in quello delle cronachette di fatti diversi di storia civile; e in quello più vasto del grande affresco a tinte piene. Rispetto ai modelli precedenti – le microstorie di Leonardo Sciascia o il romanzone alla De Roberto –, Camilleri ci ha aggiunto la sua lingua speciale, quel dialetto letterario che ormai si può ben chiamare il «camillerese». Camilleri racconta che nei primi anni Ottanta portò a Leo­nardo Sciascia alcuni documenti su un fatto accaduto nel 1848 nella sua Porto Empedocle. L’amicizia di Camilleri e Sciascia era di antica data, anche se non nutrita di una confidenza intima. «Io ero un amico di Sciascia di secondo grado», ha spiegato Camilleri. «Perché ci sono gli amici di primo grado, quelli ai quali si fanno confidenze. E io non appartenevo a questa cerchia. Ero nella cerchia immediatamente dopo, tra quelli che lo chiamavano Leonardo e non lo chiamavano Nanà, come facevano gli amici intimi». Sciascia legge i documenti. Parlano di un’azione della polizia borbonica, durante i giorni dei moti siciliani del ’48, 54­­­­

esplosi a Palermo. Attorno alla torre di Carlo V che si erge fosca e tozza all’ingresso dei moli di Porto Empedocle si raccolgono i parenti dei detenuti. Il capitano della guarnigione, incapace di gestire l’assedio esterno e la rivolta dei detenuti, lancia alcune granate nelle celle, chiude le porte e ammazza 114 prigionieri, dilaniati dalle esplosioni o soffocati dai fumi. Quei nomi vengono rimossi dalla coscienza collettiva, della strage resterà poco e niente nella memoria e nei libri di storia. Nel suo linguaggio fatto di poche parole e gesti trattenuti, Sciascia dice a Camilleri che i documenti sono interessanti, che ne può venire fuori un libro. Camilleri insiste perché lo scriva Sciascia, ma lo scrittore di Racalmuto tergiversa. «Andrea – gli fa – ma perché devo scriverlo io? Scrivilo tu». Camilleri: «Leonardo, ma io non so scriverlo come lo scriveresti tu». E Sciascia: «Ma tu perché vuoi scriverlo come lo scriverei io? Scrivilo come sai scriverlo tu». Forse in quel momento – «scrivilo come sai scriverlo tu» – nasce la lingua di Camilleri. Il saggio, infatti, ha già alcune anticipazioni del camillerese. Sciascia si preoccuperà di fare avere il manoscritto ad Elvira Sellerio che infatti lo pubblica nel 1984, con il titolo La strage dimenticata, nella collana dalla copertina verde «Quaderni della Biblioteca siciliana di storia e letteratura». È l’inizio del connubio tra Camilleri e Sellerio, destinato a cementarsi negli anni Novanta. Nella stessa collana con copertina verde Camilleri pubblicherà i suoi due libri successivi: La stagione della caccia nel 1992 e La bolla di componenda nel 1993. Camilleri usa piccoli spunti per creare i suoi racconti. Attinge a vecchi libri oppure agli atti dell’inchiesta Bonfadini, Inchiesta sulle condizioni della Sicilia, indagine parlamentare svolta tra il 1875 e il 1876. «Nascoste fra le millequattrocentoundici pagine (dico nascoste perché ora non ho più gana di andare a ritrovare il punto preciso) – precisa Camilleri nella nota conclusiva al suo romanzo La stagione della caccia – ci sono due battute fra uno dei membri della commissione e un responsabile dell’ordine pubblico di un paesino: ‘Recente55­­­­

mente ci sono stati fatti di sangue al suo paese?’. ‘No. Fatta eccezione di un farmacista che per amore ha ammazzato sette persone’. Tutto qua. È da allora che ho principiato a ragionarci sopra, su questa storia». La stessa storia si ripeterà nel 1995 per Il birraio di Preston, narrazione a piani sfalsati che prende avvio da un fatterello ritrovato tra le pieghe dell’inchiesta del 1876, ma che l’immaginazione di Camilleri dipana in un crescendo di disordini, tumulti e incendi causati dall’ostinazione del prefetto di voler inaugurare il teatro di Caltanissetta con un’opera musicale misconosciuta. Insomma, Camilleri non mollerà mai il romanzo storico, tornandoci più volte con diverse declinazioni. E nel 2001 esce, sempre per Sellerio, il pirotecnico Re di Girgenti, vita, passione e morte di Zosimo, il contadino che guidò nel 1718 una rivolta popolare nell’attuale Agrigento (ai tempi Girgenti), facendosi incoronare per brevissimo tempo re di un regno grande quanto una città. «Il gran romanzo di Camilleri, che tutti aspettavamo», dichiara il critico letterario Salvatore Silvano Nigro. L’italianista con un curriculum di tutto rispetto – ha insegnato alla New York University, all’École Normale Supérieure di Parigi, alla Normale di Pisa e a Yale – esercita la sua autorevolezza su questo libro e sugli altri romanzi storici di Camilleri (ne curerà la prefazione per i Meridiani Mondadori), per far guadagnare al narratore di Porto Empedocle, oltre ai successi di vendita, i riconoscimenti di critici e accademici che avevano snobbato il fenomeno editoriale. Contro la storia Insomma, il romanzo storico è la via maestra per essere accolti in un territorio, come direbbe Enzo Siciliano, al quale Verga, De Roberto, Lampedusa hanno dato «spirito e stile». Peraltro, per chi scrive dalla Sicilia e sulla Sicilia è molto difficile sfuggire alla trappola del passato – ci sono cascati quasi tutti. Ci sono cascato anch’io, ovviamente. Proprio con que56­­­­

sta casa editrice, nel 2005 ho pubblicato I siciliani, una sorta di guida al paesaggio umano dell’isola attraverso il racconto di persone e personaggi, reali e letterari, che hanno costruito l’immagine consolidata della Sicilia, con tutte le sue contraddizioni. Nel 1980, Vittorio Spinazzola ha scritto pagine importanti sul romanzo storico, anzi sul «romanzo antistorico» siciliano, ne ha definito caratteristiche, valori e difetti. «Una vera e propria contro-storia d’Italia, scritta a partire dall’estremo sud della Penisola, a volte acrimoniosa e risentita, altre ironica e disincantata», ha annotato nel 1995 il critico Massimo Onofri nel suo Tutti a cena da don Mariano. Dunque, dice Spinazzola, c’è un imparentamento fra De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Addirittura, un «processo imitativo» consapevole: una sfida, potremmo dire. Il canone esiste, forte, fortissimo: ciascuno lo suona a modo suo. E uno dei dati salienti del romanzo antistorico è il ruolo centrale della famiglia. «L’universo romanzesco – afferma Spinazzola – ha dunque un carattere di omogeneità accentuata, in ragione del vincolo di interdipendenza sussistente fra personaggi imparentati l’un l’altro. L’unità domestica appare però messa continuamente alla prova, sia per le pressioni disgregatrici provenienti dall’universo sociale, sia per le spinte centrifughe insorgenti fra i suoi membri». Questo non è un libro di critica letteraria, ma le osservazioni di Spinazzola servono a identificare, per grandi linee, cos’è il romanzone antistorico alla siciliana. Per capire in che misura, chi si è mosso su questa scia, innovando o ripercorrendo la tradizione, abbia tenuto conto dei riferimenti precedenti, soprattutto sulla scorta del successo editoriale del Gattopardo – libro che rivoluzionò per sempre i numeri della narrativa italiana: uscito l’11 novembre 1958, otto mesi dopo, quando vinse il premio Strega, aveva già venduto 250.000 copie, un risultato che stupì perfino Giangiacomo Feltrinelli che lo aveva pubblicato.

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La Sicilia scritta dagli stranieri «Confesso che di Domenico Campana so poco», ammetteva Corrado Augias su «Repubblica» il 23 aprile 1991, recensendo il suo romanzo L’isola delle femmine, primo capitolo della trilogia giallo-storica, ambientata a Palermo alla fine dell’Ottocento, che ha come protagonista il detective Michele Tindari. «Al centro della storia – annoterà il critico Salvatore Ferlita in un saggio sul giallo siciliano nel catalogo del Noirfest di Courmayeur del 2004 – c’è un principe a metà strada tra don Fabrizio Salina e don Corleone, recluso in un osservatorio astronomico all’Isola delle Femmine, il quale parla con la moglie morta. Campana, con una scrittura morbida, ha dato corpo a un giallo anomalo, dove ogni cosa sembra capovolgersi nel suo contrario». Ancora oggi, smanettando su internet, poche e scarne notizie affiorano su Domenico Campana, giornalista e scrittore calabrese che ha ambientato alcuni suoi libri famosi in Sicilia, e soprattutto a Palermo. I suoi libri sono ormai introvabili, malgrado abbiano avuto grande successo. Dal suo primo romanzo siciliano, La stanza dello scirocco, pubblicato da Sellerio nel 1986, una decina d’anni dopo fu tratto anche un film omonimo, sceneggiato da Suso Cecchi d’Amico e Salvatore Marcarelli, diretto da Maurizio Sciarra e interpretato da Giancarlo Giannini. Negli anni in cui gli autori siciliani, malgrado l’eco ancora viva del successo del Gattopardo, avevano abbandonato il genere del romanzo storico o antistorico, Campana adottava l’isola come scenario dei suoi romanzi. Al centro, spesso, il nodo del potere mafioso (sviscerato soprattutto nei gialli), dei grandi e piccoli affari maturati nella stagione dell’Italia nascente e della Cosa Nostra emergente. «Che la Sicilia – scriveva nel 2008 Ferlita sull’edizione palermitana di «Repubblica» – sia stata per gli scrittori isolani una sorta di botola dentro cui inesorabilmente precipitare, è cosa oramai nota. Ma che l’Isola rappresenti anche per chi 58­­­­

non vi è nato un’attrazione irresistibile, calamitando fantasie e immaginari, è un fenomeno che solo di recente sta assurgendo a simbolo. Si può ambientare una storia in Sicilia, dunque, rimanendo abbarbicati ad altre latitudini. A volte è sufficiente poter vantare un avo di origini isolane. Altre volte la suggestione, una certa prepotenza esotica, la naturale propensione affabulatoria dell’Isola, una ormai consolidata mitologia, fanno tutto il resto». Campana si muoveva dentro questa mitologia, dentro un’immagine della Sicilia desunta dalla storia e dalla letteratura, che trasformava l’isola in metafora. Metafora dell’Italia. Metafora spesso dell’Italia peggiore. È lo stesso procedimento che adotta nel 1993 il novarese Sebastiano Vassalli, nel suo romanzo Il Cigno, che racconta il delitto di Emanuele Notarbartolo dall’angolazione di Raffaele Palizzolo, il politico accusato e processato (e infine assolto) come mandante dell’omicidio. La cronaca del primo «cadavere eccellente» siciliano diventa per Vassalli una metafora del groviglio inestricabile di bene e male che pesa sull’Italia, sulla capacità di un intero Paese di conoscere la verità inconfessabile del potere ma di saperla dimenticare, per quieto vivere o per interesse. Cominciando a scriverlo nel 1991, Vassalli non può che scaricare nel libro le ansie e le angosce degli italiani che, tra il 1992 e il 1993, assistono alla fase più violenta dell’attacco mafioso ai funzionari dello Stato: le stragi, gli attentati, i morti. Quando il libro esce, cade nel momento giusto. La storia dell’Italia che si è fermata a Palermo sulle voragini delle autobombe – mentre a Milano l’inchiesta di Tangentopoli azzera i vecchi partiti – riparte dal 1893, da una Palermo dove si definisce compiutamente il grumo oscuro degli interessi politico-criminali che, un secolo dopo, continua a pesare terribilmente sull’Italia. «Questa non è la storia di un omicidio: è un fatto unico e irripetibile, la storia della rivolta dell’intera isola che riesce a far assolvere un delinquente. Anche se, liberatolo, lo di59­­­­

mentica subito, l’emargina, non lo elegge più in parlamento», spiega Vassalli, intervistato dall’«Unità» del 16 novembre 1993. All’uscita del libro, la polemica stinge immediatamente sull’impegno degli intellettuali siciliani e meridionali (partendo dal ruolo dello studioso del folklore Giuseppe Pitrè e del giornalista Edoardo Scarfoglio, capintesta della battaglia innocentista a favore di Palizzolo, difeso come vittima della macchinazione antisicilianista), e finisce per colpire Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Tomasi di Lampedusa, accusati di essere stati tiepidi, se non ambigui, rispetto alla mafia, con una frecciata postuma scagliata da Vassalli sul «Corriere della Sera»: «Avrebbero potuto impugnare il bisturi, ma la loro cultura gli ha sempre impedito di parlare in modo concreto». Ne nasce una polemica furiosa, con autori siciliani come Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo schierati in difesa di Sciascia e dell’onestà intellettuale degli scrittori di Sicilia. E, ancora una volta, Vassalli è accusato di non capire niente della Sicilia, avendone scritto da straniero, cioè da non siciliano. Il romanzo storico, ancora una volta, parla al tempo presente. La storia è femmina La famiglia, di nobili o di notabili, nel passaggio di epoca tra vecchio e nuovo: diciamo che è questa la cifra ricorrente del romanzo storico o antistorico. È, abbiamo detto, un racconto quasi sempre al maschile. Il superpersonaggio familiare, che sia il vecchio o il giovane, un Uzeda o un Salina, è al centro della scena, ne è il protagonista. Ma è un uomo. Ma già con Dacia Maraini qualcosa è cambiato. L’angolazione è femminile, spesso il punto di vista più nascosto e più in ombra. Per fare un esempio, è come se il romanzo antistorico alla siciliana degli ultimi venticinque anni non venisse più scritto dal principe Fabrizio, né tantomeno da Angelica – troppo bella, troppo sensuale –, ma da Concetta, la cugina di Tancredi, segretamente innamorata di lui, che si vede soppiantare dall’arrivo travolgente della figlia di don Calogero 60­­­­

Sedàra, ripulita e addomesticata in un collegio di Firenze. Il libro di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di destra in un successo di sinistra, svela un riposto retroscena sentimentale: Tancredi, in realtà, pur sposando Angelica, non dimentica Concetta. Sarà. Ma ora, pensate al Gattopardo scritto dal lato di Concetta: in fondo è lei a chiudere il libro di Tomasi di Lampedusa («le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo»), dando ordine alla cameriera di sbarazzarsi della pelliccia tarlata dell’alano Bendicò. L’ultima dei Salina. «Il bastardo di Mautàna racconta l’ascesa e la decadenza della casata dei Verderame, una ricca famiglia di paese, proprietaria di terre e di esistenze. Da questo sfondo emerge una serie di personaggi indimenticabili, le cui vite si annodano e si respingono, proiettate verso un destino che non privilegia nessuno»: con queste parole, nel settembre 1994, la casa editrice Anabasi presenta il romanzo di Silvana Grasso, insegnante di latino e greco al liceo classico di Gela. Siamo nel solco, dunque. Grasso usa una lingua incrostata di dialetti, vorticosa, letteraria, con echi di Vincenzo Consolo. Peraltro, proprio Consolo ha percorso in lungo e in largo la storia siciliana – nel 1992 vince il premio Strega con Nottetempo, casa per casa, romanzo corale ambientato negli anni Venti – passando dall’Ottocento al presente, attraversando nel suo Retablo (pubblicato nel 1987) il Settecento, ma ha sempre rifiutato l’etichetta del romanzo storico, scegliendo di concentrarsi semmai sul rapporto tra memoria storica e ricerca linguistica. Libri poetici, di fortissimo impatto per immagini ed emozioni, ma che volevano sfuggire al canone del romanzo storico o antistorico che sia. Consolo voleva sfuggire al feuilleton. Il romanzo perduto Settembre 2005. È quella che i francesi chiamano La Rentrée, il momento in cui gli studenti tornano a scuola e gli editori 61­­­­

pubblicano i loro romanzi di punta. «Un periodo dell’anno che in Francia viene preparato e accolto con una solennità senza paragoni nel resto d’Europa», spiega Domenico Scarpa, consulente letterario del centro studi Primo Levi. Gli scolari trovano nelle cartolibrerie libri e materiale per il nuovo anno di lezioni, i lettori trovano nelle librerie i titoli sui quali puntano gli editori. Nel settembre 2005, i lettori francesi scoprono sugli scaffali il romanzo dell’italiana Goliarda Sapienza. Scritto a metà degli anni Settanta, rifiutato dai grandi editori (Rizzoli, Mondadori, Feltrinelli), il dattiloscritto di mille pagine di L’arte della gioia è rimasto chiuso in una cassapanca dell’autrice assieme ad altri inediti. Goliarda Sapienza, nata a Catania nel 1924 da una famiglia socialista e rivoluzionaria, arrivata a Roma a sedici anni per iscriversi all’Accademia d’arte drammatica diretta da Silvio d’Amico, attrice con Luchino Visconti in Senso, a lungo compagna del regista Citto Maselli, ha una biografia complessa e, a tratti, drammatica, una vita sentimentale appassionata e scandalosa per l’Italia di quel tempo. Non vedrà mai pubblicato integralmente il suo romanzo, anche se in Italia escono altri suoi libri. L’arte della gioia sarà riscoperto solo dopo la sua morte, nel 1996, pubblicato per intero dalla piccola casa editrice indipendente Stampa Alternativa che, nel 1994, aveva diffuso in poche copie solo la prima parte del libro, a spese del curatore Angelo Pellegrino. Ma appena il romanzo esce in Francia viene acclamato come un capolavoro. «Il nuovo Gattopardo», scrive la critica. I librai lo consigliano, i recensori parlano di un libro memorabile, lasciando cadere ironie sul mondo letterario italiano che non ha saputo riconoscerlo. Tutto è straordinario in questo libro a cominciare dal titolo, L’arte della gioia, che si direbbe più adatto a un saggio filosofico. Invece si tratta proprio di un romanzo, un romanzo vero, che vi trascina e vi scombussola, un romanzo pieno di febbre e di intelli62­­­­

genza, concreto al massimo, visivo al massimo, erotico e famigliare, psicologico e politico, radicato in un’isola popolata di mandorli selvatici e di vendette. Un romanzo che ci presenta lo sguardo di una donna eccezionale sulla nostra vita, i nostri pregiudizi, la nostra attualità. Più che un romanzo, L’arte della gioia è una saga, con le grazie e le furie che appartengono a questo genere rinnovabile all’infinito, e con la vertigine che deriva dal trascorrere accelerato delle generazioni.

Queste sono le parole che aprono un’intera pagina del «Nouvel Observateur» dell’8 settembre 2005. Stampato in prima tiratura in ottomila copie, il romanzo di Goliarda Sapienza ne vende duemila il primo giorno. L’editrice Viviana Hamy appronta la ristampa. Una settimana dopo, il romanzo totalizza ventimila copie vendute. Dopo le feste natalizie, le copie sono già 76.000. «Le Monde Des Livres» titola: Sapienza, principessa eretica. Il successo in Francia spinge la casa editrice Einaudi a rilanciare il libro nel 2008, con una postfazione di Domenico Scarpa – da cui abbiamo tirato fuori queste notizie –, che analizza il romanzo e ne ricostruisce le peripezie editoriali. Un romanzone, dice Scarpa. E usa la parola in senso non denigrativo, anzi. Un romanzo popolare di ambiente siciliano. L’accostamento con Il Gattopardo è inevitabile, ma questa volta, teorizza nel 1979 la giornalista Adele Cambria dopo aver letto il dattiloscritto, la Sicilia si fa sentire con una voce di donna. Per riassumere la storia di un libro affascinante anche per l’uso della lingua, per i passaggi dalla prima alla terza persona, dal presente al passato, è meglio affidarsi al risvolto di copertina che accompagna il volume dell’Einaudi: Nel romanzo, tutto ruota intorno alla figura di Modesta: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana, una «carusa tosta» in cui si fondono carnalità e intelletto, che attraversa bufere storiche e tempeste sentimentali protetta da un infallibile talismano interiore: «l’arte della gioia». 63­­­­

Modesta nasce il primo gennaio del 1900 in una casa povera, in una terra ancora più povera. Ma fin dall’inizio è consapevole, con il corpo e con la mente, di essere destinata a una vita che va ben oltre i confini del suo villaggio e della sua condizione. Ancora ragazzina è mandata in un convento e da lì, alla morte della madre superiora che la proteggeva, in un palazzo di nobili. Qui, il suo enorme talento e la sua intelligenza machiavellica le permettono di controllare i cordoni della borsa di casa, e di convertirsi in aristocratica attraverso un matrimonio di convenienza. Tutto ciò senza mai smettere di sedurre uomini e donne di ogni tipo. Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale: Modesta è una donna capace di scombinare ogni regola del gioco pur di godere del vero piacere. Sfidando la cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva in cui vive, Modesta attraversa la storia del Novecento con quella forza che distingue ogni grande personaggio della letteratura universale.

Qualcuno ha detto che Modesta è il personaggio femminile più vivo del nostro Novecento. Non so se è così, ma certo Goliarda Sapienza ha creato una figura fortissima, disinibita, moderna, trascinante: un mondo di eros, impegno, affetti di cui Modesta è il «fuoco geometrico». Romanzone storico, dentro la storia e, per certi versi, contro la storia. Tra Londra e Fattoria Mosè Nella primavera del 2010 Giuseppe Dipasquale, direttore del Teatro Stabile di Catania, mi chiese di scrivere l’adattamento teatrale di un romanzo che avevo letto otto anni prima. Prima di accettare il lavoro andai a rileggere il libro. Ritrovai così Rosalia Inzerillo, la serva semianalfabeta della famiglia Alfallipe, composta da donne e uomini avidi o sciocchi, notabili del paese di Roccacolomba. Rosalia Inzerillo era La Mennulara, bambina raccoglitrice di mandorle nelle campagne siciliane prima di entrare a servizio, a tredici anni, nella famiglia che per anni avrebbe difeso e tiranneggiato, dissimulando i suoi veri sentimenti e costruendo in silenzio la sua vendetta postuma. 64­­­­

Non conoscevo Simonetta Agnello Hornby. Sapevo che era avvocato a Londra, dove il suo studio seguiva pro bono anche alcune vicende giudiziarie nelle quali figuravano come vittime o parte lesa donne residenti nei quartieri difficili della città. Sapevo che era originaria delle mie parti, avevo sempre sentito parlare della Fattoria Mosè, di proprietà della sua famiglia, arroccata sulla collina che guarda il mare di Agrigento e fronteggia il costone più alto della Valle dei Templi. L’impresa non era facile: il libro cominciava con la morte della protagonista, facendola rivivere nei racconti di chi la ricordava, voci pettegole o interessate che ne dicevano tutto il bene e tutto il male possibile. Come mettere in scena una storia in cui il personaggio centrale è assente perché tutto comincia con il suo funerale? Si riuscì a trovare una soluzione anche grazie ai consigli fondamentali del regista Walter Pagliaro, che costruì una macchina scenica veloce come un balletto di pupi, lontano da ogni caduta nel realismo o nel verismo. Una regia che teneva conto del ritmo e dello spirito del romanzo di Agnello Hornby. L’impresa non era facile anche perché Simonetta Agnello Hornby, con la quale avevamo soprattutto contatti via mail, nei suoi messaggi rivelava la sua anima avvocatesca, allineando chilometriche precisazioni sul testo del copione, sui dialoghi, sugli snodi (a ragion veduta, perché suo era il libro e perché firmava anche lei l’adattamento teatrale), a volte col tono un po’ perentorio che usano gli studi legali nelle loro lettere di messa in mora. Spero che Simonetta Agnello Hornby non si offenda se confesso, a distanza di molti anni, che cominciai a immaginarmi la Mennulara con la sua stessa faccia e gli stessi suoi modi. Addirittura, finii per identificare la scrittrice e il personaggio, tanto che alcuni dialoghi che non erano nel libro e che furono inseriti nel testo del copione erano direttamente ispirati alle sue mail. Simonetta Agnello Hornby era diventata Rosalia Inzerillo. O viceversa. L’estate del 2010, in cui avremmo dovuto dare la stretta 65­­­­

finale al copione, per consentire al regista di mettere assieme il cast e iniziare le prove, fu per me terribile. Due gravi lutti colpirono la mia famiglia, con tutte le conseguenze psicologiche e burocratiche che la morte si lascia dietro. Un giorno, sapendo che Simonetta Agnello Hornby si trovava a Fattoria Mosè e anche io ero da quelle parti, andai a trovarla. Volevo scusarmi per il ritardo nel lavoro e darle rassicurazioni. Ormai avevo imparato a conoscere i suoi modi, mi prefiguravo una conversazione breve e secca. Simonetta Agnello Hornby mi sorprese. Mi accolse, come è d’uso nelle antiche famiglie siciliane, a tavola apparecchiata con dolci di mandorla e caffè. «Ti ho fatto il cònsolo», annunciò. Il cònsolo è il pasto che in alcuni paesi della Sicilia vicini e familiari preparano per i parenti in lutto, ritenendo che non abbiano tempo né voglia di cucinare. Alla visita di condoglianze nella casa dove si è abbattuta la morte, gli ospiti portano biscotti secchi da colazione e pacchi di caffè in polvere: beni di sussistenza offerti per alleviare la pena, in quanto si presume che i dolenti vadano avanti sui nervi, colazioni frugali e tazze di caffè come bevanda tonica. Spizzicando biscotti di mandorla, restammo a lungo nella luce del pomeriggio a parlare di reciproci dolori. Mi pentii di aver sovrapposto la Mennulara a Simonetta: ero stato sbaragliato. Il romanzo di Simonetta Agnello Hornby lavora molto sull’immaginario del cinema sulla Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta. Da questo punto di vista, La Mennulara molto arbitrariamente può essere chiamato un romanzo nella scia della tradizione, anche se il suo svolgimento è collocato mezzo secolo fa, a partire dal 23 settembre 1963, data della morte di Rosalia Inzerillo. Ma il successo editoriale del libro sta proprio nel proporre una Sicilia quasi senza tempo. La storia collettiva in realtà c’entra poco con la storia degli Alfallipe e di Rosalia Inzerillo: i fatti esterni, i grandi eventi della Storia con la S maiuscola, restano al di fuori della grande casa di famiglia. Ma la vita di Rosalia Inzerillo finisce col sovrapporsi con la trasformazione sociale della Sicilia fra gli inizi del 66­­­­

secolo e la stagione del miracolo economico italiano. Dalla povertà contadina, umiliata e offesa, a una precaria stabilità economica raggiunta attraverso l’ingresso nella famiglia borghese accompagnata dal miglioramento culturale. E, infine, l’accumulazione di un patrimonio capace di riscattare la miseria antica e l’inferiorità di classe. La Mennulara restituisce lo scenario di una Sicilia apparentemente immobile, ma che sottotraccia cambia e si evolve. Mette al centro la famiglia Alfallipe, con il meccanismo tipico del grande romanzo storico siciliano. Ma la voce narrante, dall’aldilà, proviene dalla figura più appartata, quella che ha vissuto nell’ombra, la serva che ha imparato a leggere, ma non a scrivere, in teoria assente perfino dal tempo in cui si svolge la linea principale del romanzo. Rosalia Inzerillo è un’altra donna siciliana che parla dal passato e del passato della Sicilia.

Sex and the Sicily

La carne, ecco la vostra meta. Vitaliano Brancati

I corpi sono distesi sotto un albero di limoni in un agrumeto alla periferia di Giarre, grosso paesone a trenta chilometri da Catania, in direzione di Taormina. I cadaveri di due giovani, già devastati dalla morte, sono sdraiati l’uno accanto all’altro, mano nella mano. È venerdì 31 ottobre 1980 quando un pastore dà la notizia del ritrovamento. Il medico legale stabilisce che sono stati uccisi a colpi di pistola una decina di giorni prima. Nella tasca di uno di loro un biglietto, spappolato dall’umidità, sul quale si può ancora leggere un messaggio di addio alla vita. Non ci vuole molto tempo per identificarli. A Giarre tutti sanno che da due settimane sono scomparsi Giorgio Agatino Giammona, di 25 anni, e Antonio Galatola, di 15 anni, chiamato Toni. Tutti sanno che Giorgio e Toni sono ziti, cioè fidanzati. E tutti sanno che sono puppi – che nel dialetto catanese significa omosessuali. Anzi, Giorgio, il più grande dei due, è puppu cu’ bullu, marchiato come gay pure nei fascicoli della caserma da quando, una decina d’anni prima, è stato sorpreso in auto con un altro ragazzo e denunciato dai carabinieri. I frammenti del biglietto d’addio spingono a ipotizzare un omicidio-suicidio. I due ziti, derisi da molti per la loro relazione gay che dura da qualche mese, hanno deciso di uccidersi per sfuggire alla vergogna. E pensare che bastava spostarsi trenta chilometri lungo la costa per arrivare a Taor68­­­­

mina, storica capitale dell’amore omosessuale fin da quando il barone-fotografo Wilhelm von Gloeden, alla fine dell’Ottocento, metteva in posa i ragazzini siciliani nudi in ambientazioni neoclassiche o arcadiche in foto ad alto contenuto erotico. Quando Oscar Wilde nel 1891 decise di sfuggire dalla Gran Bretagna puritana che lo aveva condannato a due anni di lavori forzati per la sua omosessualità, lo scrittore dandy si rifugiò a Taormina da von Gloeden. E da lì mandava lettere infuocate al diciassettenne Robert Baldwin Ross: «Ho scoperto il paradiso degli innamorati, dove verremo un giorno a vivere insieme». Ma Giarre non è Taormina. E i due giovani non sono Oscar Wilde, non hanno la sua fama, il suo charme, la sua spregiudicatezza intellettuale. Giorgio e Toni sono due venditori ambulanti. E si sono innamorati. Tutto qui. Non avranno critici letterari né biografi pronti a raccontare la loro storia. A Giarre, nella Sicilia di quegli anni, sono solo due puppi: senza onore, senza dignità, da schernire alle spalle o, peggio, in faccia. Omicidio-suicidio, storia conclusa. Se non fosse per qualche dettaglio che non torna, come quella pistola calibro 7.65 rinvenuta a poca distanza dai corpi, sepolta sotto qualche centimetro di terra. Tre giorni dopo il ritrovamento dei cadaveri, in un paese che risponde con diffidenza ai giornalisti, liquidati in fretta i funerali, i carabinieri raccolgono il racconto di un ragazzino di dodici anni. Francesco Messina, nipote di Toni, dice di essere stato costretto a sparare: «Sì, li ho uccisi io. Li ho incontrati per caso più di dieci giorni fa. Mi dissero di seguirli in campagna. Giorgio estrasse la pistola. Volevano che li ammazzassi. Io dissi subito di no, tremavo come una foglia, ma loro insistettero, minacciarono di ammazzarmi se non l’avessi fatto. Mi pareva di sognare. Temevo che mi avrebbero ammazzato davvero. Allora presi la pistola, mi avvicinai e cominciai a premere il grilletto. Poi sotterrai l’arma e fuggii...». Le parole di Francesco, così come le riporta un articolo 69­­­­

della «Stampa» del 3 novembre 1980, rendono più assurda e contorta e feroce la storia di Giorgio e Toni. Ma il giorno successivo, il ragazzino ritratta tutto, dice che la confessione gli è stata estorta a schiaffi dai carabinieri: «Per la paura mi sono fatto anche la pipì addosso». Il padre conferma: «A un bambino come Francesco non riesce possibile esplodere tanti colpi di pistola calibro 7.65. Dopo il primo colpo il braccio non gli avrebbe più risposto. Invece mi si dice che sono stati esplosi sette colpi». La verità non potrà essere mai accertata. Francesco ha meno di quattordici anni, per legge non può essere incriminato né processato. Il fascicolo sulla morte di Giorgio e Toni gira per un po’ tra caserme e uffici del palazzo di giustizia di Catania, poi finisce archiviato per sempre e coperto di polvere dentro gli archivi dei casi insoluti. Anzi, in questo caso la soluzione è chiara: chiunque sia stato, Giorgio e Toni si sono fatti uccidere o si sono uccisi per la vergogna di essere gay. Spiegazione semplice, comprensibile ai più. Questa storia finisce così. Ma se da una parte sembra smentire l’affermazione di Pietrangelo Buttafuoco («La Sicilia non è omofoba e mi spingo a dire non lo è mai stata»), dall’altra racconta l’inizio di un’altra lunga storia che comincia un mese dopo la morte di Giorgio e Toni al capo opposto dell’isola, a Palermo. È qui, infatti, che Marco Bisceglia, prete omosessuale, sospeso a divinis dalla Chiesa per avere unito in matrimonio due gay (finti omosessuali, in realtà due giornalisti del settimanale di destra «Il Borghese» che avevano inscenato tutto per far scoppiare lo scandalo), costituisce il 9 dicembre il primo circolo Arcigay d’Italia. Vuole essere la risposta ai fatti di Giarre, proprio nel momento in cui la più antica associazione omosessuale italiana, Fuori!, sta per sciogliersi. Nel maggio successivo Bisceglia, assieme a Nichi Vendola, Massimo Milani, Gino Campanella e altri volontari, costituisce legalmente l’associazione. Due anni dopo, il primo congresso ufficiale dell’Arcigay si svolgerà proprio a Palermo. Ora, il fatto che il primo nucleo dell’Arcigay – la più dif70­­­­

fusa e forse influente organizzazione italiana per i diritti delle persone omosessuali – sia nato in Sicilia (non a Bologna o a Milano, ma a Palermo), magari può apparire come un controsenso. Non è questa la terra del «gallismo»? Non è questa l’isola del «dongiovannismo»? Forse però la spiegazione sta proprio qui. Dove maggiore è l’esasperazione machista, maggiore è la reazione. Il merlo maschio A proposito del «gallismo» isolano forse bisogna ricordare che, in definitiva, si tratta di un’immagine letteraria e melodrammatica che affonda la sua ragion d’essere tanto nei compari Alfio e Turiddu della Cavalleria rusticana, quanto nei libri di Brancati. Eppure proprio Brancati, con il suo «erotismo malinconico», aveva già segnato i confini disperati della sensualità e del dongiovannismo raccontando l’impotenza del bell’Antonio Magnano, portata alle estreme conseguenze in Paolo il caldo. Se Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale nel film del 1960 di Mauro Bolognini narravano il costume di Catania per trarne un’ironica satira sociale che finiva per riguardare tutta l’Italia (ma sempre si trattava di una Sicilia vista con gli occhi di chi se la immaginava così), Brancati nel suo romanzo Il bell’Antonio – ambientato negli anni Trenta e da cui il film di Bolognini è tratto – toccava il punto debole e nascosto della vuota retorica maschia del fascismo imperante. Semmai, bisognerebbe andare a rileggere un testo teatrale brancatiano, La governante, dove si raffigura il perbenismo cattolico e l’ancor più celata omosessualità femminile (spettacolo affondato dalla censura democristiana nel 1952 e messo in scena solo tredici anni dopo, quando Brancati ormai non c’era più) per intuire la sensibilità dello scrittore nato a Pachino rispetto ai temi più impronunciabili della sessualità italiana di quell’epoca. Resta il fatto che l’omosessualità, dentro la sessualità, c’era e non si diceva. La Sicilia, quindi, era tutto un fiorire di 71­­­­

reggicalze nere sulle gambe di Laura Antonelli in Malizia, di Lando Buzzanca Merlo maschio, di sbirciatine, di palpeggiamenti, di languori e scirocchi, di cameriere sexy, di baroni assatanati, di arrusi sculettanti (tra parentesi, a mo’ di glossario: arruso è la definizione dispregiativa di omosessuale in voga nella Sicilia occidentale, che a Catania e dintorni diventa puppo). Ma nel cinema. E spesso cinema di genere, B movies con bionde insegnanti del Nord che sconvolgevano le sieste di tranquilli paesi assolati. Erano narrazioni in bianco e nero, fra pizzi e merletti, sottane di seta, candide sottovesti, di una Sicilia da usare come punto estremo e radicale di un’Italia bigotta, popolata da sedotte e abbandonate e da impossibili divorzi all’italiana. Accenni, cenni, sottintesi, per parlar di sesso nell’isola dove non se ne doveva né poteva parlare, quintessenza simbolica dell’Italia che stentava a passare dalla cultura contadina e paesana a quella industriale e metropolitana. Dalla commedia alla commediaccia c’era lo spazio di un niente. Le ombre della notte «Io non sugnu né carni né pesce. Sono Mery. Mery per sempre». È il 1989, nei cinema esce il film di Marco Risi ispirato al libro-verità di Aurelio Grimaldi sulla sua esperienza di insegnante al carcere minorile di Palermo. Mery per sempre è un successo di pubblico che fa parlare di rinascita del cinema di impegno: svela la tragica condizione dei ragazzi di borgata di Palermo, le difficoltà della rieducazione carceraria, le gerarchie della cultura mafiosa. Ma, soprattutto, mette al centro della scena il dramma di una giovanissima trans – nel cinema e nella vita – interpretata da Alessandra Di Sanzo (nata Alessandro, apprendista parrucchiera in via del Corso a Roma e scoperta casualmente dal regista). Per la prima volta, dentro la rappresentazione di una Palermo marginale e violenta, appare il retroscena oscuro che in quegli anni popolava le notti di piazza Sant’Oliva, delle 72­­­­

trans che, risalendo da Borgo Vecchio verso via Libertà, si muovevano nella rambla cittadina malamente illuminata o si aggiravano in piazza San Domenico: un panorama umano di ombre notturne che tutti conoscevano ma di cui poco o niente si parlava nel dibattito pubblico. Ricordo che il «Giornale di Sicilia» mi mandò a fare un servizio in piazza Sant’Oliva mentre nel resto d’Italia cominciava ad allungarsi la lista dei decessi per Aids. Doveva essere il 1986, più o meno. Era una serata tiepida. Con qualche difficoltà, dopo avere gironzolato a lungo sotto le magnolie della piazza, riuscii a farmi dire qualcosa dalle trans con voce roca. Erano italiane, alcune avevano un forte accento siciliano. Non volevano parlare, a fatica dicevano di chiamarsi Jessica o Samantha, nomi inventati lì per lì, era chiaro. Scrissi un pezzo sulla paura dell’Aids a Palermo. L’indomani mi chiamò il centralinista del giornale: «Scendi giù, ci sono due signorine che ti aspettano». Nella sua voce c’era un di più rispetto al solito sarcasmo palermitano. All’ingresso trovai due trans, una bruna e una bionda. Parlava solo la bruna ed era piuttosto incazzata. Colleghi e tipografi passavano e ripassavano credo per scrutare la mia faccia imbarazzata. In qualche modo riuscii a calmarla, a farmi spiegare perché ce l’aveva con me: «Con quell’articolo ci hai rovinato. Ieri sera abbiamo battuto tutta la notte, ma non si è visto manco un cane. Quelle che hanno parlato con te sono delle stronze, dovevano stare zitte, era meglio per tutti. Ma a te chi ti ci portava?». Era inutile spiegarle che era un servizio di cronaca, che mi ero limitato a riportare quello che mi era stato detto. Quando dissi che facevo solo il mio mestiere di giornalista, la trans puntò il dito contro il tetto, verso il piano di sopra dove c’era la redazione. «Giornalisti? Perché non ti fai raccontare tutto dai tuoi colleghi che di notte vengono a cercarci. Giornalisti? Arrusi con la veletta, sono. Con la veletta davanti alla faccia perché non vogliono far sapere che sono arrusi». La storia fece il giro della redazione. «Arrusi con la veletta» diventò un modo di dire. Ma c’era poco da scherzare. 73­­­­

Tempo niente e ci furono i primi morti anche a Palermo, com’era inevitabile: prima furono i tossici, gli eroinomani sopravvissuti all’overdose, poi toccò agli omosessuali, più o meno dichiarati, e quindi la cosa dilagò. Nel 1988, in soli venti giorni, morirono cinque persone. La Sicilia, che non veniva considerata una delle regioni più a rischio – era ottava nella graduatoria di allarme –, scoprì di non potersi considerare indenne. Sui giornali finì la storia di un giovane palermitano, morto all’ospedale della Guadagna, che faceva la guida turistica. Aveva conosciuto una ragazza tedesca, in vacanza a Mondello. Era stato un flirt estivo. Lei era morta dopo il ritorno in Germania, lui pochi mesi dopo aveva scoperto di essere ammalato. Gay a Corleone Nino Gennaro si ammala di Aids in quegli anni. Scrittore compulsivo, autore di testi teatrali, attivista politico, Gennaro passerà alla storia contemporanea della Sicilia per essere stato il primo gay dichiarato di Corleone, anche se era molte altre cose. Nel 2000, cinque anni dopo la sua morte, Stefano Malatesta gli dedica l’ultimo dei ventinove ritratti di eccentrici siciliani contenuti nel suo Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani, un’opera che ha contribuito a riproporre il profilo degli isolani alimentati dalla pirandelliana «corda pazza». Ma forse Nino Gennaro era qualcosa di diverso da un siciliano eccentrico, tanto che Stefano Malatesta dovrà fare i conti con una contestazione. Di sicuro, il giornalista viaggiatore ha il merito di aver dato una ribalta nazionale a una persona che era conosciuta prevalentemente a Corleone e a Palermo. Malatesta racconta che a Corleone – il paese della mafia viddana, cioè contadina, e spietata di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella – Nino Gennaro, a metà degli anni Settanta, «aveva sfidato l’assetto costituito aprendo un circolo culturale dove si potevano leggere giornali di sinistra. Aveva attaccato sui muri del paese 74­­­­

manifesti con la scritta: ‘Non siamo tutti gregari di Liggio’. Aveva aiutato una ragazza a ribellarsi al padre padrone che la picchiava e a denunciarlo alla polizia». La biografia è molto più complessa, forse più drammatica: «Nino Gennaro, nasce a Corleone nel 1948, l’impegno culturale e politico, la sua lotta contro tutte le mafie, il suo essere in prima linea per l’affermazione dei diritti degli omosessuali, il suo rifiuto a vetrine e convenzioni ponendosi intenzionalmente ai margini dell’ufficialità, lo fa divenire una figura dirompente nella scena corleonese», si legge nella scheda che accompagna un documentario sulla sua vita, La fine che non ho fatto, presentato nel 2012 al Sicilia Queer Filmfest di Palermo, che a Nino Gennaro dedicava un premio. Il video di Ruben Monterosso e Federico Savonitto racconta la costituzione da parte di Gennaro di un circolo Arci a Corleone negli anni Settanta, la presa di distanza del Partito socialista per la cattiva fama che il circolo si è fatto in paese («è un circolo di drogati... si pratica l’amore libero... tendono a diseducare l’insegnamento genitoriale...»), l’organizzazione della Giornata della donna a Corleone l’8 marzo del 1975, con la reazione delle famiglie che chiusero le figlie in casa e bruciarono i volantini, le denunce contro il «tardo mafioso impero» degli uomini d’onore corleonesi. Ci sono molte cose nella vita di Gennaro che a Corleone è difficile far passare. Fin quando Nino decide di trasferirsi a Palermo. E con lui si trasferisce Maria Di Carlo, la ragazza che Gennaro ha spinto a denunciare il padre padrone, medico e maggiorente locale che la picchiava regolarmente. Sarà un’amicizia, un vero amore, che durerà fino alla morte di Nino. È infatti Maria Di Carlo che, dopo la prima edizione del libro di Stefano Malatesta, scrive all’autore col quale aveva collaborato per contestare la ricostruzione di alcuni fatti, ma soprattutto per sottrarsi allo spirito complessivo del libro: Fin dal risvolto di copertina questo fare di Nino il primo dei gay dichiarati di Corleone mi pare estremamente riduttivo, niente 75­­­­

togliendo al nostro contributo coscientemente speso per la causa omosessuale. Ma quella di Nino, a Corleone ed oltre, è stata da sempre una battaglia per l’emancipazione in senso lato da ogni forma di oppressione o di classe, familiare o sessuale e via di seguito.

Malatesta correttamente riporta la lettera di Maria Di Carlo che continua, parlando a proposito di Nino Gennaro, «della sua malattia, del suo modo di viverla, del suo farne occasione di rinascita, del suo non farsi fagocitare (sembrerà paradossale, visto che è morto) dalla morte»: Ed è per questo che sento il bisogno di precisare che con la mia, con la nostra storia, fatta invece di famiglie dilaniate, di conseguenze pagate care ancora oggi, di isolamenti, d’impegno quotidiano nel sociale, per anni ed anni e ancora ora, di credibilità costruita pezzo a pezzo, di sofferenza, di forza, di grande spirito di sopravvivenza, di tenacia, di morti di crepacuore (quella di mia madre), di aids, di lotta costante per la vita, nostra e altrui, con la nostra storia non ho voglia di divertire nessuno.

Forse ha ragione Malatesta quando ribatte dicendo che non voleva divertire, ma «ricordare un’esperienza straordinaria». È comunque evidente come ancora nell’anno 2000 il tema della sessualità in Sicilia, e dentro questo l’argomento dell’omosessualità, sia narrazione ardua, sempre in bilico tra l’eccezionalità e il luogo comune, la comprensione e l’incomprensione, il nuovo e il già visto. Cento colpi di spazzola in via Etnea «Quando sto a casa mi collego a internet. Cerco, esploro. Cerco tutto ciò che mi eccita e mi fa stare male nello stesso tempo. Cerco l’eccitazione che nasce dall’umiliazione. Cerco l’annichilimento. Cerco gli individui più bizzarri, quelli che mi inviano foto sadomaso, quelli che mi trattano da vera puttana. Quelli che vogliono scaricare. Rabbia, sperma, angosce, paure. Io non sono diversa da loro». Chi cercava il nuovo 76­­­­

romanzo erotico siciliano, il diario semiporno di un’adolescenza inquieta, lo trova in libreria l’11 luglio 2003. Tradotto in quaranta lingue, venduto in due milioni di copie, il libro scandalo pubblicato da Fazi, derubricato dai critici come furba operazione editoriale, trasformato in film nel 2005 da Luca Guadagnino, è firmato da una giovanissima Melissa P., la cui identità resterà misteriosa per qualche tempo. Diario autobiografico (o finto autobiografico) di un’adolescente catanese, Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire racconta la storia di una quindicenne infelice, oppressa dalla famiglia e dal suo ambiente, che percorre molte e diverse esperienze sessuali alla ricerca in realtà di un vero amore. Fenomeno editoriale o generazionale, il diario di Melissa P. – si scoprirà in seguito che si chiama Melissa Panarello e che ha diciotto anni – racconta una gioventù siciliana inquieta, triste e spregiudicata, che trova nelle esperienze sessuali estreme la risposta alle proprie angosce. Sullo sfondo resta Catania. Il sesso di Melissa P., diversamente da quello brancatiano, non è parlato o immaginario. È esplicito, moralmente triste e tristo. Si porta dietro un’ala di morte e di autodistruzione. Sembra tirare la corda di Paolo il caldo fino al punto di non ritorno, dove il sesso diventa disprezzo di se stessi. Ma non è il caso di analizzare criticamente un libro che fu criticamente stroncato. Semmai, è interessante sottolineare che al momento dell’uscita del libro apparve secondario il fatto che la protagonista vivesse in Sicilia e a Catania. Melissa P. sembrava non avere remore sociali, inibizioni religiose, freni culturali. Catania e la Sicilia erano il luogo dove una quindicenne poteva passare da un’orgia a un rapporto lesbo, da uno stupro simulato alla vendita del proprio corpo, nell’accettazione o quantomeno nel silenzio collettivo. La Sicilia da sessuofobica diventava sessuomane. Erano passati quattordici anni. Nel 1989 Lara Cardella faceva scandalo nella sua Licata con il libro Volevo i pantaloni, dove raccontava le censure di un paese che guardava con malizia perfino una ragazza che leccava un cono gelato. 77­­­­

Nel 2003 Melissa Panarello svelava il diario della spregiudicatezza adolescenziale di Catania, soffermandosi su lunghe scene di erotismo spinto che forse erano proprio la chiave del successo editoriale. Entrambe le autrici, in realtà, finirono per sovrapporre le loro biografie personali ai loro libri, soprattutto sul palcoscenico del Teatro Parioli dove imperava il talk serale di Maurizio Costanzo. E la domanda che rimbalzava tra gli ospiti e il pubblico del salotto di Costanzo era sempre la stessa, sia pure a condizioni invertite e opposte: nel 1989 si chiedeva a Lara Cardella se i suoi concittadini licatesi fossero veramente così retrivi, nel 2003 si chiedeva a Melissa Panarello se le sue coetanee catanesi fossero veramente così disinibite. Bimbominkia Ci si mette pure Andrea Camilleri a confondere le idee. Abituati e appassionati alle avventure del commissario Montalbano, abituati e appassionati ai racconti storici, i lettori di Camilleri nel settembre 2003 si trovano tra le mani un romanzo che li lascia interdetti. In La presa di Macallè lo scrittore di Porto Empedocle spinge sul pedale del suo pastiche linguistico dialettale ancor più di quanto avesse fatto nel precedente Il re di Girgenti. Ma il punto non è questo. Il libro, ambientato nel 1935, ha molte scene di sesso, volutamente grottesche ed esagerate: il protagonista è un bambino di sei anni, Michilino, naturalmente superdotato. «Una priapata storica», spiega il critico Salvatore Silvano Nigro nella bandella di presentazione del libro. Lo sbandamento dei fan di Camilleri è notevole, e basta rileggere alcune delle reazioni sul sito vigata.org, dove scrivono i camilleriani di lungo corso. «Il primo libro del Sommo (il Sommo è Camilleri, così ribattezzato dai suoi fan) in cui non ho riso nemmeno una volta», scrive Beppe. «Una grande delusione», dice Paola. «Le sensazioni negative sono legate in particolare alle esagerazioni, alle forzature, ad esempio l’uso che Camilleri 78­­­­

fa del sesso in questo libro», scrive Chiara. «Troppo sesso gratuito», posta Eugenio. Camilleri aveva intuito che era un libro azzardato. E per questo lo aveva tenuto nel cassetto per quattro anni prima di consegnarlo a Elvira Sellerio. «Temevo gli equivoci che avrebbe potuto ingenerare. E che puntualmente ingenerò», ha raccontato al «Venerdì di Repubblica», dieci anni dopo, sintomo di una ferita non rimarginata. «Qualcuno lo definì un romanzetto pornografico. Non lo era. La superdotazione del ragazzo discendeva casomai da Eros e Priapo di Gadda». Naturalmente, abbiamo citato solo alcuni giudizi perplessi o negativi. Ma il libro, come altri di Camilleri, andò bene nelle librerie e trovò lettori entusiasti, soprattutto tra coloro che invece snobbavano i polizieschi con Montalbano. In ogni caso, sdoganò ancor di più la possibilità di raccontare il sesso – spinto, audace, esagerato, addirittura mostruoso – anche in Sicilia. Soprattutto in Sicilia. Ma lo scopo di Camilleri è di raccontare altro: il fascismo, la sopraffazione ideologica, l’asservimento delle menti. «La presa di Macallè è un romanzo paradossale che intenzionalmente trasmoda nel troppo – scrive Nigro – ed eccede ogni misura, a partire dalla promozione a protagonista di un ‘angilu minchiutu’ di sei anni. Una parabola grottesca, che va fabulando la tragicità e la normalità abnorme della violenza. Una ‘istoria’ infine, di dolente tenerezza per una infanzia tradita». In realtà, Camilleri, nato a Porto Empedocle nel 1925, è stato il primo della sua generazione – mettendo in quella stessa generazione Leonardo Sciascia (nato a Racalmuto nel 1921); Gesualdo Bufalino (Comiso, 1920); Vincenzo Consolo (Sant’Agata Militello, 1933), solo per citarne alcuni – a raccontare esplicitamente il sesso nei suoi libri. Sesso spesso ironico e sorridente, tranne che in La presa di Macallè, appunto. «Naturalmente, per me, il sesso è molto importante, credo sia importante per tutti», spiega Camilleri a Marcello Sorgi nel libro-intervista La testa ci fa dire. «Però la mia maniera di 79­­­­

raccontarlo è sempre ironica o divertita. Siccome viviamo in un periodo nel quale il sesso è accompagnato, più di prima, da tutta una serie di discorsi (se non soddisfi la partner, se la partner non ti soddisfa), insomma, ti danno una tale quantità di obblighi, che il povero maschio francamente non si capisce come ce la faccia ancora, è un miracolo direi, allora io ho voluto per reazione descrivere il sesso dei miei libri in modo sorridente e insieme istintivo, insomma una cosa naturale. Per dire: lasciate perdere tutti questi problemi, se vi riesce. Fate l’amore in santa pace». Divertite e divertenti, le pagine hot di Camilleri sono tantissime. E sul sito del Camilleri Fans Club sono state selezionate abbastanza minuziosamente (almeno per il periodo 1994-2004) dentro una rubrica intitolata «Il Camisutra. Le pagine rosse di Camilleri», che riporta le frasi e i passaggi più scottanti nei libri del papà del commissario Montalbano. «Noi abbiamo un proverbio leggermente osceno in Sicilia, che dice: ‘La minchia non vuole pensieri’. Allora, se ci cominciano a caricare non solo di pensieri esterni socio-politici – le guerre, la criminalità, gli immigrati – ma anche di problemi privati, strettamente personali, la minchia, per tornare a quel proverbio, finisce proprio col non funzionare più», ha spiegato Camilleri. «Allora io mi diverto a fare ’ste cose, per cui uno può amare tranquillamente una capra, come succede nella Stagione della caccia, l’altro può fare all’amore di fronte ai due arrostiti vivi o qualcosa di simile». Micio porno E Micio Tempio dove lo metti? Vogliamo dimenticare il grande poeta erotico della Catania del Settecento? Eccolo, è arrivato l’erudito con il ditino alzato e il sermoncino pronto. Ha ragione, però. Domenico Tempio, detto Micio, nato nel 1750, figlio di un mercante di legna, avviato alla carriera di sacerdote alla quale si sottrasse dopo gli studi in seminario, ha scritto 80­­­­

le poesie più licenziose del suo tempo. E le ha scritte in Sicilia e in dialetto siciliano. Nici, mi vinni un nolitu di futtiri all’inglisa; già sugno infucatissimu: guarda chi minchia tisa! Lu gustu è insuppurtabili, li tasti non discordi: in chistu modu futtinu li nobili milordi.

Queste sono soltanto le prime due strofe della poesia La futtuta all’inglisa che va avanti per altre venti quartine, in uno spettacolare crescendo erotico concluso da quest’inno: Cazzu! Chi beddu futtiri, chi gustu prelibatu! Chistu è lu veru futtiri: l’Inglisi sia lodatu!

I componimenti licenziosi di Tempio alla fine ne hanno offuscato il valore complessivo. Famoso tra i suoi contemporanei, definito spesso il Parini siciliano per la sua corda civile e la sua visione riformatrice e antinobiliare, nel secolo successivo alla sua morte (nel 1820), Tempio fu ignorato. Gli studi sulla sua figura ripresero vigore solo nel secondo dopoguerra e portarono alla ripubblicazione della sua opera completa. Ma quei versi erotici erano sopravvissuti, stampati malamente e quasi clandestinamente, recitati a memoria nelle serate goliardiche, legando per sempre Micio Tempio alle sue pagine più piccanti e arditamente scurrili. Non fece scuola e oggi la poesia in dialetto siciliano sembra ignorare e aver dimenticato la carica trasgressiva di Tempio, preferendo affrontare i temi di un generico impegno civile o rinverdire rimembranze di una Sicilia contadina e rurale. 81­­­­

Omo tour Ormai il letto è in piazza anche in Sicilia. Ci sono guide ai luoghi dell’erotismo. Nel 2009 la casa editrice palermitana Arbor pubblica il reportage I giochi trasgressivi delle donne siciliane, scritto da Angela e Marco, una coppia di scambisti siciliani. Negli ultimi anni il magazine patinato più conosciuto nell’isola, «I Love Sicilia», che racconta i siciliani glamour ai siciliani che vogliono sentirsi glamour, ha dedicato più di una copertina ai vizi erotici isolani. Vediamo alcuni titoli di prima pagina del mensile: Quest’anno mi regalo un gigolò. Sono sempre di più anche in Sicilia gli accompagnatori per signora. Oppure: Sex and the Sicily. Dai parcheggi di Palermo ai privè di Catania, dagli annunci piccanti delle trapanesi ai sexy shop di Messina. C’è un’isola segreta che di notte svela un volto insospettabile. Ve la raccontiamo senza censure. E ancora: Divorzio alla siciliana – con tanto di foto di Marcello Mastroianni nei panni del barone Fefè Cefalù. L’isola prima regione del Sud per separazioni. E infine: 50 sfumature alla siciliana. Erotismo e trasgressione. Le storie vere e i giochi proibiti di un’isola che vive il sesso senza tabù. Nel 2012 il magazine aveva proposto una copertina con due mani maschili allacciate: Mai dire gay. Il prete che si confessa. I consigli per i genitori che scoprono un figlio che ama lui. Palermo timida ma non discrimina. Catania emancipata ed effervescente. I volti e le storie del mondo omosex che in Sicilia conta più di quanto immaginiate. E un test vi svela la donna che è in voi. Il tentativo di Francesco Foresta, il vulcanico fondatore del giornale morto troppo giovane nel 2015, era quello di raccontare una Sicilia chic, moderna, al passo coi tempi, libera dai luoghi comuni. E per questo, oltre che per un comprensibile obiettivo acchiappa-pubblico, dedicava attenzione al costume e alle abitudini private dei siciliani. Ebbene proprio quell’anno, parliamo del 2012, la Frommer’s, una delle più famose e diffuse guide turistiche americane con otto milioni di copie vendute, scriveva: «Sebbene fin 82­­­­

dal 1861 l’Italia ha avuto una legislazione piuttosto liberale rispetto all’omosessualità, la Sicilia resta una delle maggiori roccaforti dell’omofobia in Europa». La guida dedicata alla Sicilia sconsigliava alle coppie omo di andare in Sicilia, a meno di non scegliere Taormina, considerata una «mecca gay». Frasi di questo genere, sia pure attenuate, a tutt’oggi si possono leggere sul sito della Frommer’s, che spiega come «tradizioni e mentalità machiste siano ancora profondamente radicate nella società». Frommer’s ricorda che una delle prime associazioni gay italiane fu fondata in Sicilia nel 1980 e cita anche Rosario Crocetta. Ma lo definisce sindaco gay di Gela! I redattori di Frommer’s non sono stati ancora informati che proprio nel 2012, il 28 ottobre, pochi mesi dopo la pubblicazione della loro guida sulla Sicilia, Crocetta è stato eletto presidente della Regione. Il primo omosessuale dichiarato diventato governatore dell’isola. Che, al di là di ogni giudizio politico su Crocetta, non è poco, per una roccaforte dell’omofobia in Europa. Essere uomini (d’onore) Prima dell’elezione di Rosario Crocetta, nella discussione politica e nell’analisi del potere non c’era grande spazio per l’omosessualità. E in una terra dove il potere più oscuro e onnipresente è stato a lungo quello di Cosa Nostra, era impossibile parlare di omosessualità. Il mafioso non poteva essere gay. Il potente, di qualunque tipo, esponente della legalità o dell’illegalità, non poteva essere gay nella regione che ha esportato in tutta Italia la vulgata per cui cummannari è megghiu ’i futtiri, per ribadire la mascolinità innata del potere. Ma non è esattamente così. C’è stato un uomo d’onore omosessuale. Un ragazzo di Altarello affiliato a Cosa Nostra perché nipote di un boss. Si chiamava Leonardo Vitale: «un modesto uomo d’onore», viene definito nell’ordinanzaistruttoria del maxiprocesso a Cosa Nostra depositata l’8 novembre 1985, firmata da Antonino Caponnetto, Giovanni 83­­­­

Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Vitale fu il primo, nel 1973, a svelare i segreti di Cosa Nostra, dai nomi alla struttura organizzativa. Ma non fu creduto e venne dichiarato infermo di mente. I magistrati palermitani aprono il loro monumentale provvedimento contro Abbate Giovanni + 706 ricostruendo la vicenda processuale di Leonardo Vitale, parlando del suo pentimento, delle sue crisi mistiche e della sua morte. Vitale, infatti, fu ucciso da Cosa Nostra il 2 dicembre 1984 in via Siccheria, mentre tornava dalla messa domenicale con sua madre, per dare un segnale preciso ai pentiti Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, che già da alcuni mesi collaboravano con la giustizia. I giudici dicono che il picciotto di Altarello «aveva subito una vera e propria crisi di coscienza per i delitti compiuti e si era rifugiato nella fede in Dio», citando alcune frasi di un memoriale scritto da Vitale mentre era rinchiuso in manicomio criminale: «la mafia in se stessa è il male; un male che non dà scampo per colui che viene preso in questa morsa». Non dicono però che Leonardo Vitale era omosessuale. È un dettaglio che nulla aggiunge alla ricostruzione giudiziaria e probabilmente nell’ottica del processo rischia perfino di invalidare l’attendibilità del primo pentito che non era stato creduto, anche se aveva raccontato la verità. Nel 1993, nella sua Storia della mafia, lo storico Salvatore Lupo così descrive Leonardo Vitale, rampollo di un’antica famiglia di mafia: «È un predestinato, per quanto ben poco in lui faccia pensare all’‘ipertrofia dell’io’, al machismo e agli altri tratti culturali che l’immaginario mafiologico ripropone, per l’ennesima volta, negli anni Settanta. Si tratta di un ragazzo pieno di fragilità emotive, orfano fin da piccolo, affascinato dalla figura dello zio cui deve dimostrare di essere ‘uomo’ anche per respingere il sospetto di omosessualità che cova in se stesso». Cinque anni dopo, la questione dell’omosessualità di Vitale diventa oggetto di studio più approfondito. Il giornalista Salvatore Parlagreco, nel raccogliere materiale per il suo libro 84­­­­

dedicato alla vicenda umana di Vitale (L’uomo di vetro, pubblicato da Bompiani nel 1998), incontra psichiatri e psicologi. E incontra anche Girolamo Lo Verso, da anni impegnato nel tentativo di mettere i mafiosi sul lettino dell’analisi psicologica. Il caso clinico di Vitale finisce così in un libro a più mani, curato da Lo Verso: La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo. Vitale, si legge nel testo, ha sempre avuto terribili angosce rispetto all’identità sessuale: «Credevo di essere un pederasta e me lo sono portato sempre dietro questo pensiero... I rapporti che ho avuto con le prostitute non mi sono mai piaciuti, ma dovevo andarci, perché non andarci significava non essere uomo». Il dramma di Leonardo gira attorno alla questione dell’omosessualità: «Andavo a donne e così potevo apparire un uomo, però dentro no, continuavo a sentirmi mezzo uomo e mezza donna... Per essere uomo dovevo uccidere e fare l’amore con le prostitute». «Nel mondo antropologico in cui è vissuto Vitale l’omosessualità è un pensiero che non si può sopportare. In quel tipo di cultura non c’era niente di più sporco e disprezzato dell’omosessualità e della mancanza di coraggio (che vuol dire anche uccidere)», scrive il professor Girolamo Lo Verso. «Nella vecchia cultura siciliana e non solo siciliana, mafiosa e non solo mafiosa, l’omosessualità era uno dei peggiori orrori. Essa è anche uno dei peggiori nemici dei fondamentalismi e degli arcaismi conservatori». Per Vitale questo sarà un conflitto interiore insopportabile, che finirà per spezzarlo: «L’omosessualità sembra connettersi, dentro Vitale, alla mafia, all’uccidere, al male, allo schifo di sé». In definitiva, per Lo Verso il dramma di Vitale poteva maturare, in questi termini esasperati, soltanto in Sicilia. E in una Sicilia mafiosa. Se a rigor di statistica è difficile concepire che Leonardo Vitale sia stato l’unico omosessuale affiliato a Cosa Nostra, dobbiamo pensare allora che ci siano stati e ci siano altri mafiosi gay. All’indomani dell’arresto del capo dei capi, su un muro di Palermo apparve una scritta: «Totò Riina è frocio». 85­­­­

Più che un insulto, sembrò un grido di liberazione. Era il mese di gennaio del 1993. Molti anni dopo, il magistrato Michele Prestipino, oggi procuratore aggiunto a Roma, con una lunga esperienza a Palermo e a Reggio Calabria, racconterà in un’intervista video a Klaus Davi: «Quando stavo a Palermo sapevamo di diversi boss che frequentavano trans pur spacciandosi per super-machi». E, sempre allo stesso Davi, il pubblico ministero palermitano Lia Sava aveva raccontato di giovani boss in carcere che si scambiavano pizzini infarciti di amorosi sensi: «Caro, sei nel mio cuore. Gioia mia». «Non vorrei che si pensasse – commentava Lia Sava nel 2014 – che la mafia sia diventata tutta cuoricini. E non abbiamo la prova di una relazione sessuale. Ma devo rivelare che mi è capitato di osservare, cosa che mi ha incuriosito, delle lettere fra carcerati di mafia, maschi, appartenenti alle generazioni più giovani, che scrivono l’uno all’altro con delle espressioni particolarmente affettuose. Mi sono chiesta se in certi contesti, dietro queste espressioni così affettuose, potesse esserci anche qualcosa, magari un richiamo al discorso omosessuale. Credo che anche questo tabù alla fine l’organizzazione mafiosa non se lo ponga più». Comandare è meglio di fottere A colmare lo spazio narrativo vacante ci pensa nel 2004 uno scrittore esordiente di sessant’anni. Domenico Seminerio, insegnante di lettere al liceo classico di Caltagirone, pubblica il suo primo romanzo Senza re né regno, in una lingua veloce come un memoriale autobiografico. È la storia di Stefano Villaparva, detto «il posporo», cioè fiammifero, perché lesto ad accendersi di passione, sia sensuale che politica. Giovanissimo, bello e seducente, Stefano ha partecipato tra il ’43 e il ’44, in una Sicilia appena occupata dalle truppe anglo-americane e liberata dal fascismo, all’avventura dell’Evis, l’esercito separatista che vorrebbe fare dell’isola uno stato indipendente. Deluso e scottato dall’esperienza, Stefano si rifugia prima 86­­­­

in un paesino emiliano, dove lavora come applicato di segreteria in una scuola. Ma al ritorno in Sicilia, per le vacanze estive, finisce irretito in un intrigo politico-mafioso. Seminerio costruisce con sapienza la trama della seduzione del potere su un giovane tutto sommato ingenuo, tutto sommato ambizioso. Attraverso Stefano narra il confluire di interessi, persone e desideri sulla Democrazia cristiana, nel dopoguerra siciliano. Una malìa fondata soprattutto sull’omosessualità di alcuni potenti democristian-mafiosi dell’epoca. In un palazzo principesco di Palermo Stefano incontrerà l’onorevole. Quarantenne, elegante, ricco e componente dell’ala innovatrice del partito – rispetto ai tradizionalisti, legati agli agrari –, l’onorevole seduce il giovane ex separatista: Restai nudo e m’infilai nella vasca, di fronte a lui. Volle che mi mettessi al suo fianco. Ero stordito dal profumo, dal tepore dell’acqua, dal lusso sfrenato, dal suo invito che mi aveva colto a tradimento. Cominciò a toccarmi. Il torace, il ventre, poi sempre più giù. Che lo lasciassi fare, che lo lasciassi fare. Col solito tono dolce e imperioso. Un tocco delicato, sapiente, che mi toglieva la coscienza di quello che stava succedendo e mi librava in una grande voluttà. Chiusi gli occhi e mi abbandonai alle fantasticherie più lussuriose. Uscì dall’acqua e fece uscire anche me. Si stese su un basso lettuccio e mi invitò a prenderlo. Non l’avevo mai fatto. Ne avevo sentito parlare spesso, con esempi di Questo e di Quello, di ciò che facevano, ma non ne avevo la minima esperienza, la minima. Ormai ero lì, nudo e gocciolante. Avevo accettato di iniziare il gioco e dovevo portarlo a termine. E poi ero pronto. La novità mi eccitava. L’idea di mettere sotto un onorevole tanto potente mi diede quasi un senso di esaltazione, di superiorità. Mi inorgoglii, perfino.

Seminerio descrive una classe di notabili, aristocratici e politici rampanti priva di remore morali, ma luciferina al punto da sedurre il ragazzo che aveva sognato la rivoluzione 87­­­­

siciliana e che, di concessione in concessione, finirà per essere trascinato nel primo progetto politico-mafioso di devastazione della Sicilia che vedrà la mafia agricola e latifondista diventare imprenditrice e cittadina. È l’embrione del «sacco di Palermo», con la cementificazione della Conca d’Oro. Sullo sfondo delle elezioni nazionali del ’48 in Sicilia, Stefano si fa strumento – cosciente e consapevole – del primo accordo elettorale tra mafia e politica. La mafia omosessuale. La politica omosessuale. Il potere si fa fottere e fotte. Gli innocenti si corrompono in fretta. «Andammo a casa a notte alta. Dormii con lui. Non mi faceva più né caldo né freddo». Finirà male, naturalmente. Molto male. Seminerio con pessimismo racconta la perdita dell’innocenza, se mai la Sicilia l’ha avuta. Stefano, però, non si sente omosessuale. Non lo è. Per capire questo suo atteggiamento bisogna leggere quanto scriveva nel 2008 Giuseppe Burgio nel suo studio Mezzi maschi. Gli adolescenti gay nell’Italia meridionale. Una ricerca etnopedagogica, pubblicato da Mimesis. Burgio spiega che già nel 1861 la commissione incaricata di estendere anche al Sud il codice sabaudo del 1859, consigliava di non applicare nelle province dell’ex Regno delle Due Sicilie l’articolo 425 (che puniva i comportamenti omosessuali) perché il codice penale napoletano non prevedeva il reato di omosessualità. «Il meridione d’Italia – scrive Burgio – era infatti interessato da quel modello di pratica sessuale tra uomini per il quale Dall’Orto usa la definizione di ‘omosessualità mediterranea’. Come nota lo storico, tale modello riesce ad armonizzare il comportamento omosessuale all’interno della società, ma consegna solo agli uomini con un comportamento sessuale passivo il compito di costruire uno specifico omosessuale visto che gli agenti attivi del rapporto non si fanno carico simbolico del tipo di relazione omosessuale». Per dirla in parole più chiare: «Andare con un omosessuale rimane per l’attivo un comportamento da esercitare con discrezione, da non pubblicizzare se non con amici maschi, ma 88­­­­

nel linguaggio traspare chiaramente una concezione secondo la quale tale comportamento non è socialmente sanzionato». In questo senso, ci sono stati e possono esserci mafiosi gay che non pensano di esserlo, perché esercitano il loro potere con omosessuali dichiarati, trans e qualunque soggetto sessualmente succube. O forse le cose sono cambiate anche nella mafia, come spiegano i magistrati Michele Prestipino e Lia Sava. Arrivando al paradosso enunciato dall’avvocato Rosalba De Gregorio, che è stata legale del boss Bernardo Provenzano: «Se parliamo dei nuovi fenomeni criminali presenti oggi sul territorio, che non hanno più molto da spartire con il concetto originario di Cosa Nostra, non mi meraviglierei assolutamente se domani sentissi o leggessi che il capofamiglia, così nominato, della Sicilia o di Palermo, fosse iscritto all’Arcigay. La cosa non mi stupirebbe».

Le metropoli

Forse è la più bella di tutte le città del mondo. E la gente è contenta nelle città che sono belle. Elio Vittorini

Il sindaco. Il farmacista. L’arciprete. Il maresciallo. Il mafioso. E poi la piazza. Il bar. Il barbiere. Il circolo dei galantuomini. Il circolo operaio. La sezione della Democrazia cristiana. La sezione del Partito comunista. I notabili. I contadini. I delinquenti. Le donne. Le maledonne. Le brave donne. I picciriddi. Eccolo qui l’universo siciliano. Stretto in uno scenario che si può abbracciare con un’occhiata, il paese è il contenitore congeniale di storie, intrighi e misteri. È paese la Montelusa di Pirandello. Paese la Vigàta di Camilleri. Paese la Regalpetra di Sciascia. Il luogo dei movimenti lenti, dei caffè seduti, degli sguardi trasversali. Nel paese maturano gli omicidi, i tradimenti, i pregiudizi. Dove tutti apparentemente conoscono tutti, si nascondono i segreti più inconfessabili. Al cinema, il paese è Partinico, a colori, nel Giorno della civetta di Damiano Damiani. È Sciacca in bianco e nero in Sedotta e abbandonata o Ragusa per Divorzio all’italiana, entrambi di Pietro Germi. È, ovviamente, Bagheria (però ricostruita interamente, e fedelmente, in Tunisia) di Giuseppe Tornatore in Baària o Palazzo Adriano in Nuovo Cinema Paradiso. È Cefalù per il film di Elio Petri A ciascuno il suo. È un’immagine potente e prepotente: gli abiti di lino bianco, le chiacchiere nel salone da barba, i pettegolezzi attorno al giro 90­­­­

di zecchinetta, i balconi affacciati sullo struscio, i confessionali nelle chiese velate di penombra. Figlia spesso delle «élites paesane» – come alcuni storici definiscono i ceti acculturati isolani emergenti del secolo scorso –, la narrativa siciliana si muove nella galassia dei paesi un tempo densi di popolazione, raccolti sulle cime di colline o distesi nei valloni, lontani gli uni dagli altri. Così la Sicilia descritta dal già citato Domenico Seminerio durante un viaggio notturno del protagonista di Senza re né regno: «Non un’isola, ma un arcipelago, di tante isole quanti erano i paesi e le città. Paesi più isolati delle vere isole. Le isole almeno si potevano raggiungere da tutti i lati, per mare. Bastava una barchetta. I paesi no. Lo vedevo. Il collegamento era possibile solo mediante un’unica strada, sempre tortuosa, tra burroni e pietraie, fatta apposta per coltivare autarchie ancora feudali e ogni forma di insularità. Dell’anima. Del carattere. Della testa». Poche, pochissime, le città. La Palermo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – città delle famiglie aristocratiche, però. La Catania di Federico De Roberto – città anch’essa dei nobili. La Catania di Vitaliano Brancati – ancora un po’ paesone, con i suoi 186.000 abitanti (secondo la solita guida Touring del 1919). Nessuna di esse poteva dirsi metropoli, semmai erano città sonnacchiose, sporche, mediterranee, indolenti. E, in fondo, quasi tutte viste in retrospettiva. Tomasi di Lampedusa non racconta la Palermo bombardata e già in pieno caotico sviluppo in cui viveva, ma la città di suo nonno. De Roberto, che pure nel 1907 aveva redatto una guida di Catania, ambientava i suoi Viceré nella città a cavallo del 1861, scrivendone nel 1894. Forse solo Brancati tenta di restare nel suo tempo, anche se la sua Catania è riverbero di una giovinezza a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, prima del trasferimento a Roma. La città non si addice ai siciliani. E così non c’è il grande romanzo della guerra a Palermo, a Catania o a Messina. Non c’è il grande romanzo del dopoguerra a Palermo, a Catania o 91­­­­

a Messina. Questo non significa che non esistano memoriali, diari, inchieste, racconti o libri. Significa solo che nessun grande autore siciliano ha scritto il libro sulle città che cambiavano pelle e faccia, spesso disordinatamente e violentemente, all’indomani del 10 luglio 1943, prendendo la data dello sbarco anglo-americano come momento di conclusione del conflitto in Sicilia e inizio di una fase concitata e convulsa destinata a perdurare a lungo. Per fare alcuni esempi: sulla Napoli del dopoguerra si cimentano Curzio Malaparte nel suo La pelle, l’inglese Norman Lewis nel suo Napoli ’44, l’americano John Horne Burns nel suo libro d’esordio La galleria. E la Sicilia? Il separatismo, il banditismo, le gesta di Salvatore Giuliano, l’espansione urbanistica delle città, la distruzione a colpi di dinamite delle ville liberty, il sacco edilizio di Palermo, l’esplosione commerciale di Catania, la trasformazione topografica di Messina saranno raccontate dai giornalisti, dai politici, dalle commissioni d’inchiesta. Ma in tempo reale non diventa il cuore della narrativa siciliana, anche se questa nuova foto della Sicilia dilaniata tra città e campagna – anche dal punto di vista dello scontro mafioso-affaristico – diventerà sempre più dominante nel dibattito pubblico. Ci sarà il memorabile Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Ma il film arriverà solo nel 1962, abbastanza vicino ai fatti e quasi in diretta rispetto ai processi e alle polemiche, ma in ogni caso dodici anni dopo l’uccisione del bandito di Montelepre – ritrovato morto a Castelvetrano il 5 luglio 1950 – e a distanza di otto anni dal misterioso avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, ammazzato da una dose di stricnina dentro la sua cella nel carcere palermitano dell’Ucciardone. Un film sulla Sicilia pensato e scritto fuori dalla Sicilia, da sceneggiatori e registi non siciliani, anche se Francesco Rosi si era documentato col puntiglio di un inviato nella storia recente. Nel film c’era Palermo, ma sullo sfondo: in primo piano c’erano le montagne, le forre, Montelepre. 92­­­­

Aspettando il romanzo di Palermo Qualche tempo fa, il giornalista siciliano Giancarlo Macaluso, attento lettore delle cose di Sicilia, lanciava sul blog dipalermo.it una domanda provocatoria, dilagata nella discussione intellettuale della città che annovera molti scrittori, molti drammaturghi, molti registi: Chi racconta una città all’angolo? Chi regala parole per narrare il declino di Palermo e dunque tentare di salvarla? Chi spende la sua arte per illuminare una pattumiera che brulica di topi? Chi è pronto a scodellare al mondo, come un uppercut micidiale, il rapido e scomposto morire di un luogo che sembra scomparso, come dopo un naufragio, dalle mappe della civiltà? Lo fa la cronaca, si dirà. Ma è poca cosa. È come dare acqua e zucchero a un moribondo. Un pezzo di giornale ha il fiato corto. I quotidiani, i siti, le tv, le radio consegnano istantanee che danno la «cognizione del dolore» quotidiana; manca lo sguardo dall’alto che solo gli artisti sanno avere mettendo insieme i pezzi di un puzzle fatto di sentimenti, sensazioni e preveggenza. E niente indulgenze.

Proseguendo nel suo ragionamento, Macaluso citava Gomorra di Roberto Saviano come esempio di una narrazione possente capace di mettere al centro dell’attenzione internazionale un luogo (Napoli, Casal di Principe, la Campania) e un argomento (la camorra casalese) e si spingeva oltre: «La cosa che ci sembra incredibile è, in questo momento, l’assenza di una qualsivoglia opera con la corda civile tesa per Palermo. Tragicamente, verrebbe da dire, viviamo in una città sterile che produce sterilità». Parole che avevano suscitato molti consensi, ma anche gli stizziti commenti di chi elencava libri e racconti – magari scritti proprio dagli autori dei commenti stessi –, a dimostrazione che Palermo è stata ed è ben rappresentata in letteratura. Macaluso, nel settembre 2011, pochi giorni dopo il suo intelligente sasso nello stagno, ribadiva il concetto: 93­­­­

Ci appare banale l’affermazione che il «romanzo definitivo» su Palermo non può essere scritto perché siamo di fronte a una città viva e mutevole e perciò stesso impossibile da ingabbiare. Appunto, di definitivo c’è solo la morte. Ci accontenteremmo di una «perfezione provvisoria», limitata.

Come si vede, la questione non era e non è nuova. In realtà, il romanzo «di» Palermo non è stato ancora scritto. Problema che, sotto altri aspetti, si poneva nel 1988 anche uno storico come Orazio Cancila, al quale la casa editrice Laterza aveva affidato il compito di curare, per la collana «Storia delle città italiane», il volume su Palermo. Palermo è una delle pochissime città italiane che da secoli non si preoccupano di scrivere la propria storia. E perciò la storia della città che i palermitani conoscono riguarda quasi esclusivamente singoli avvenimenti e quel poco che la memoria collettiva, se non addirittura familiare, è riuscita a sottrarre all’oblio del tempo; una storia di episodi, di frammenti che non fanno storia, spesso filtrati dal ricordo che tende a mitizzare e a distorcere il passato.

Cancila parlava dell’assenza di letteratura storica relativamente all’ultimo secolo che si accingeva a ricostruire nel suo volume, ma identica cosa si potrebbe dire anche per la letteratura in senso lato, «ove si eccettuino – annotava Cancila – gli studi di urbanisti e mafiologi». Era dunque automatico pensare che il romanzo «di» Palermo venisse scritto, in quegli anni, negli uffici bunker del palazzo di giustizia o nelle caserme. Era (o non era?) un romanzo criminale il «rapporto dei 162», messo a punto dalla questura di Palermo nel marzo 1982, che raccontava la scalata dei corleonesi, a colpi di kalashnikov, dentro gli equilibri della Cosa Nostra palermitana. Era (o non era?) un feuilleton a puntate la «cantata» (così presentata sulle pagine del giornale «L’Ora») di Tommaso Buscetta che, dall’interno delle famiglie mafiose, nel 1984 svelava a Giovanni Falcone i riti, i personaggi, il linguaggio e le astuzie feroci degli uomini 94­­­­

d’onore. Era (o non era?) un mastodontico kolossal corale l’ordinanza-sentenza dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo che chiedeva di mandare alla sbarra del maxiprocesso Abbate Giovanni + 706 altri imputati, accusati di avere costituito un «tenebroso sodalizio» che teneva assieme picciotti, uomini d’affari, killer, principi di sangue blu, commercianti e poveracci, in una trama balzacchiana che non risparmiava alcun colpo di scena ad effetto. L’abbiamo già detto. Era impossibile pensare a un plot più crudo e granguignolesco di quello che da decenni scrivevano magistrati, poliziotti, carabinieri e giornalisti – spesso vittime, a loro volta, di una trama nera di pece –, affondato nel ventre più fetido della città, ma che non temeva di mostrarsi alla luce dei salotti nobiliari e delle ville di Mondello, dove i macellai di Cosa Nostra potevano accompagnarsi a professionisti dalle raffinate letture, sorseggiando assieme una coppa di Moët & Chandon. Cosa si poteva scrivere di più rispetto al romanzo, a questo romanzo, «di» Palermo? Il taccuino del cronista Aveva la faccia da saraceno e una penna che sapeva maneggiare come lo scalpello di uno scultore. Pippo Fava era un cronista. Ma era anche scrittore, sceneggiatore, pittore. E la sua scrittura stingeva spesso nella letteratura, nel romanzo, potremmo dire. Anche quando i suoi articoli finivano su un giornale. Tra l’estate e l’autunno del 1966, per conto del quotidiano catanese «La Sicilia», aveva solcato in lungo e in largo l’isola, partendo da Messina e finendo il viaggio nella sua Catania. Ma Pippo Fava non era di Catania, veniva da un paese incrostato di barocco in provincia di Siracusa: Palazzolo Acreide. «Paese bianco e grigio, con i colori della nostalgia, le grandi chiese, i palazzi antichi, le sue case pulite dei poveri. Cortese, dolce, amabile, gentile paese mio», scriveva Fava nel 1980, trent’anni dopo essersene andato via, per laurearsi in 95­­­­

legge e iniziare quel mestiere di giornalista che il 5 gennaio 1984 pagherà con la vita. Catania era però la sua città. La città della formazione adulta. Ma anche il luogo di perdita dell’innocenza provinciale. «Un giorno arrivai a Catania e vi restai per sempre», raccontava Fava: Bisogna dire che io venivo dalla provincia di Siracusa, anzi dalle montagne del Siracusano dove la gente è «babba», cioè ingenua, mite, silenziosa, povera, onesta, educata... anzi per codesti siracusani i catanesi hanno coniato un termine più preciso, quasi onomatopeico, cioè «babbasunazzi», che significa tanto ingenui da essere persino divertenti. Per molto tempo soffrii così una specie di complesso nei confronti dei catanesi, io ero malinconico e loro strafottenti, io garbato e loro tracotanti, io pulito e loro sporchi, nel senso che la mia pulizia appariva una goffa superstizione borghese e la loro sporcizia un’allegra spavalderia, io ero remissivo e loro rissosi, io stavo sul marciapiede ad aspettare il verde e loro passavano correndo con il rosso, arrivavano sempre prima di me. Ora sono diventato come loro, cioè pressappoco strafottente, un tantino sporco, vagamente imbroglione anche con me stesso, sicuramente rissoso, e passo sempre con il rosso perché ho scoperto che, comunque, si arriva prima.

Fava arriva a Catania quando ha vent’anni, più o meno nel 1945, matricola al primo anno di giurisprudenza. Sotto il suo sguardo ridente e acuminato, la Sicilia cambia in fretta faccia. Catania e Palermo si trasformano, diventano grandi e gonfie di strade, palazzi, interessi, soldi. Fava assiste a questa metastasi, a volte mostruosa. E la racconta: «Ecco dunque che il catanese corre per arrivare prima. Tutti corrono. Rapaci, violenti, disordinati, vocianti, ognuno per conto suo, inseguendo la vita che corre via veloce, e il catanese sempre appresso, mai distaccato d’un palmo, automobili, autobus, camion, biciclette, autotreni, moto, passanti, tutti a catafascio, da tutte le direzioni e per ogni dove, poiché il denaro è in ogni direzione. Il denaro è il padrone del mondo, con il denaro si può tutto nella vita». 96­­­­

La scrittura si adegua alla velocità della trasformazione. Le sciare di lava, i vecchi quartieri, le strade di pietra nera si sgretolano all’urto delle ruspe. «Immaginate Catania fra dieci anni – annota nel 1966 – quando il corso Sicilia, questa arteria della pubblicità e delle banche, sarà gremito tutto di palazzi, alberghi, ristoranti e la zona industriale con i venti o trenta miliardi di imminente stanziamento avrà esteso la sua area fino alle rive del Simeto, e tutte le autostrade siciliane da Palermo, da Messina e da Gela convergeranno a Cannizzaro, e i palazzi tracotanti, le ville, le bettole, i camping avranno definitivamente invaso la plaga bassa dell’Etna e la riviera fino ad Acireale. Che immensa città sarà Catania! Probabilmente la sua faccia sarà ancora più sporca, più insultante, e nelle sue strade si ruberanno cento automobili al giorno. Ma sarà l’unica vera metropoli del sud». La città di Brancati diventa quindi la metropoli di Fava. Dietro quei cantieri, quelle gru, quegli scavi si aggrumano i soldi, gli affari e il potere, che nel 1984 decideranno che Pippo Fava è un giornalista scomodo, un cronista da eliminare. Dietro quei palazzi, alberghi, ristoranti si fanno strada i ragazzi di quartiere diventati boss, cresciuti in potenza e rispettabilità. Dentro la fucina di Catania inturgidisce una Cosa Nostra piccola nel numero degli affiliati, ma grande di prestigio e in grado di annettere a sé, con le buone o con le cattive, i malacarne, i ladri, gli spacciatori, gli assassini, i rubagalline, fino a costituirne esercito. Fava è appassionato, romantico, gaudente, ma non è cieco né stupido. Coglie il mutamento del Dna genetico della città. Lo scriverà nel 1983 sul mensile «I Siciliani», che ha fondato con pochi soldi e una pattuglia di ragazzi, di carusi, che guida come faceva Boka ne I ragazzi della via Pal. Fava è saggio e spericolato, retto e incauto, capace di individuare i gangli di un potere criminale che ora ha due baricentri mafiosi, Palermo e Catania. Lì, a Palermo, i grandi capi di Cosa Nostra, qui a Catania i quattro Cavalieri dell’Apocalisse (come li ribattezza), imprenditori con cantieri in tutta la Sici97­­­­

lia che si avvalgono delle protezioni offerte dalla mafia e dei servizi accessori forniti dai boss. Un fenomeno che era stato denunciato dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto a Palermo, nell’agosto 1982, poco prima di essere ucciso assieme a sua moglie e al suo autista. «Una genesi criminale folgorante – afferma Fava nell’aprile ’83 –. Questa è una città nella quale, in pochi anni, un piccolo politico di paese può diventare governatore di un territorio, e un oscuro appaltatore di provincia può trasformarsi in un cavaliere del lavoro che fa diventare oro tutto quello che tocca, e un amabile imprenditore, amico dei buoni salotti borghesi, che fino a qualche mese fa stringeva la mano a prefetti e deputati, essere accusato di avere ucciso dalla Chiesa. Sindrome Catania». Sì, se c’è un cantore della metropoli alla siciliana – con il doppio strumento giornalistico e letterario – questo è Pippo Fava. Basta rileggere queste frasi del 1980 su Palermo e Catania, e credo che la lunghezza della citazione, con qualche inevitabile taglio, non dispiacerà a nessuno, perché la prosa di Fava è sempre vertiginosa. Catania è l’anticapitale per eccellenza come poteva essere Cartagine con Roma, Sparta contro Atene, come oggi Leningrado con Mosca, Barcellona con Madrid, Milano con Roma... Per identificare Palermo basta rovesciare l’immagine di Catania. Catania è febbrile, sfottente e allegra, e Palermo invece appare ironica e malinconica. Catania è furiosamente laboriosa in tutte le sue attività esistenziali, quindi anche nel ladrocinio, nel furto, nella truffa, nel crimine, cioè produce denaro, e invece Palermo questo denaro tende a conglobarlo dagli altri anche nel delitto. Catania è colei che corrompe, Palermo è colei che si fa corrompere. Catania corre per andare a vedere le cose, Palermo sta quieta in attesa che le cose le passino dinnanzi. Catania è nera, Palermo è bianca. Catania è popolare, Palermo nobile. Infine l’essenziale: Catania rifiuta il potere poiché lo ritiene una sopraffazione e quindi ogni suo cittadino tende a trasformare, anzi ad accomodare la legge al suo interesse personale, mentre Palermo crede nel potere, anzi nel suo diritto al potere. 98­­­­

Palermo e Catania, antagoniste, ma gemelle nella corsa verso lo sviluppo senza progresso. Catania nera («Gomorra feroce» l’aveva definita nel 1973 Pier Paolo Pasolini), contro la Palermo descritta da Fava: La città nuova che si apre dal viale fino agli immensi giardini della Favorita, ha gli splendori caotici di tutte le grandi città moderne, strade e palazzi maestosi, che all’apparenza sembrano disegnati nel segno dell’imponenza e invece costituiscono un’accozzaglia urbanistica, disordinata e soprattutto arrogante. Tutte le norme dell’urbanistica civile vi sono disprezzate: arterie che non hanno un senso e una direzione logistica, quartieri costruiti per migliaia di famiglie borghesi e però sprovvisti di qualsiasi parcheggio, carenza di servizi essenziali, acqua, fogne, scuole, ospedali, un’altra città insomma nata nel segno della prepotenza e dell’avidità. In realtà Palermo è bellissima, in modo quasi tracotante. Non esiste in tutto il sud dell’Italia una città che sia così bella, ma bella in un modo particolare, in modo sprezzante, con uno sperpero continuo ed oltraggioso di se stessa; palazzi di sovrani dove le ricchezze e le arti si sono concentrate per secoli, e subito accanto i quartieri osceni, lugubri, pavimentati di sterco, le case dove invece si sono concentrati gli elementi della miseria, i letti l’uno accanto all’altro nella stessa stanza, i pidocchi, il buio, la malattia. L’anima della città rassomiglia al suo volto. Giustamente è la capitale dell’isola poiché ne rappresenta il costume come su un palcoscenico. E si fa pagare per questo, cioè accetta di recitare il personaggio e il ruolo di capitale a patto che la mantengano, a patto che tutti gli altri sudditi accettino di pagarle la sua magnificenza e i suoi vizi. Eccola ora Palermo, dopo trent’anni di potere. Poteva essere la capitale di una nuova maniera di essere siciliani. Invece è stravolta, sfregiata, insanguinata. Il suo genio è oscurato, la sua cultura vive solo di soprassalti di ribellione, i suoi talenti dispersi, i suoi dolori mimetizzati, le sue infamie truccate, le miserie ammansite, i grandi crimini camuffati da affari, i morti identificati e seppelliti, a Palermo c’è la squadra mobile più efficace e moderna d’Italia, ma non esiste una grande iniziativa teatrale. Palermo è la città più bella del Sud, certo più ancora di Napoli e di Catania, ma la sua è una bellezza lugubre e cupa. Se gratti la terra a Napoli, la crosta 99­­­­

del tessuto sociale, subito subito sbucano lamenti musicali, accattoni e voci di rassegnata poesia. Se gratti la terra a Catania, subito si disperde un brulicare di ladri ridenti e voraci, un polverone di banconote vere e false. Gratti la terra a Palermo e, adagio, spunta il livore di un teschio.

Non c’è scrittore siciliano, in quegli anni, che sia più metropolitano e cittadino di Fava. Cittadino della metropoli alla siciliana, con i suoi guasti e i suoi eccessi, i suoi splendori e i suoi orrori. E c’entrerà anche il mestiere, quel lavoro di giornalista che nel tempo trascorso da Fava nelle redazioni era fatto di lunghe notti in tipografia, ritmi rapsodici, accelerazioni improvvise, esigenze produttive, litigi feroci, competizione esasperata, cialtroneria elegante, improvvisazione alla macchina da scrivere, virtuosismi linguistici, rapidità d’invenzione, bottiglie di whisky e sigarette senza filtro. Fava amava la città, le città. Con rabbia e intelligenza, ma con passione. Amava la Catania che lo aveva visto arrivare matricola universitaria, che lo aveva ammirato come firma del giornalismo, che infine lo avrebbe detestato e respinto con l’urto mortale di cinque proiettili calibro 7.65 sparati alla nuca. Per quella Catania Fava aveva scritto la sua canzone. Così è Catania. Splendida, geniale, sporca, volgare, affascinante, generosa, ingannatrice, urlante, maleducata, ladra, ridente, traditrice, non rassomiglia ad alcuna altra città del mondo. Io che ti amai subito, con la timidezza di chi viene col sacco dell’emigrante e viene condotto per la prima volta in un bordello, io che ti amai con la passione e la vergogna di chi è innamorato di una puttana, un giorno o l’altro ti abbandonerò. E subito non avrò più il mio cuore. Ma domani, o anche dopodomani voglio continuare a scrivere un madrigale per te. La tua bellezza e il tuo vizio, il tuo fascino e il tuo fallimento, la tua risata carnale e le tue piaghe schifose. Affacciati alla finestra!

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L’ingannevole abbaglio È placida Palermo sotto le nuvole. Rari perforano gli aerei la sfioccata coltre, s’infilano, ma quasi controvoglia, in questa sgoccigliante domenica d’aprile che assonna tutto il golfo. Poi calano sulla lontana pista. Nessun altro frastuono arriva, il rombo ed il marasma hanno lasciato le sue strade, neppure l’ululato delle molte ambulanze e delle scorte ora la traversa. Gli scatti e i morsi, gli stolzi e i sussulti della sua oscura malattia conoscono un inspiegabile letargo. Le muraglie e le cupole si staccano sui chiostri e sui giardini in un chiarore infido, morbido. Tranquillo il porto ed i bacini, semideserte le banchine, mediocre la stazza delle navi. I rimorchiatori sono fermi. Si purga dai suoi mali o altri ne prepara Palermo in questa oasi se è un’oasi che si è aperta nel suo ventre, come pare, e non un’officina di crimini e di morte intenta a un più subdolo lavoro che così si affina... Immagino soltanto o subodoro qualcosa di cui i notiziari della sera mi daranno orribile certezza? Interpellati i miei amici di qua sono simili a uomini di mare per cui nulla è imprevedibile, sono aperti a ogni segnale e catafratti a ogni male, sebbene sotto sotto amari, sebbene non rassegnati al peggio. 101­­­­

Saprò forse domani che questo splendido torpore era fitto di crude operazioni, ed anche questo abbaglio ingannevole ci ammalia... così è Palermo.

Questa poesia di Mario Luzi l’avevo scoperta in un volume di Poeti contro la mafia (sì, ci sono stati anche i poeti contro la mafia), pubblicato nel 1994 dalla casa editrice La Luna, espressione dell’Arcidonna di Palermo. Per lungo tempo i versi di Palermo ’86 sono stati uno dei pochi riferimenti, non esclusivamente giornalistici o giudiziari, per tentare di decodificare una città che avevo abitato, conosciuto, attraversato e abbandonato, ma che nessun poeta, scrittore, regista voleva rappresentare, se non sotto forma di officina criminale. Nella poesia di Luzi trovavo la domenica sgoccigliante, le navi di mediocre stazza, i chiostri, i giardini, le muraglie, e pure i segnali di crude operazioni da saper leggere come uomini di mare. C’erano, in quella poesia, le suggestioni di una città amara e complessa, forse incomprensibile o – più semplicemente – indescrivibile. Non credo sia solo una mia impressione, se è vero che Giorgio Vasta, scrittore palermitano trapiantato a Torino, ha intitolato Spaesamento un viaggio di tre giorni nella sua Palermo, «soglia evanescente, terra di nessuno nella quale pubblico e privato si fanno incerti e la loro indistinguibilità è metafora solo leggermente attenuata dell’eterna indistinguibilità locale tra legale e illegale, il perfetto oblio palermitano del discrimine tra le cose». Sì, vabbè, queste cose Vasta le scrive nel 2011. Ma prima di allora? Dov’era il romanzo della città? O delle città, se si vuole? Non c’era. Né a Palermo né a Catania. Lo cercavo. Molti lo cercavano. Magari lo cercavano pure gli editori: con tutto quello che era successo laggiù, qualcosa doveva pur venire fuori. Intanto c’erano i libri sulla mafia che riempivano le librerie, e continuavano a vendersi e a farsi leggere. Inchieste, interviste a mafiosi pentiti, atti di processi integrali. C’erano 102­­­­

i libri sul processo a Giulio Andreotti accusato di mafia e i libri contro il processo a Giulio Andreotti accusato di mafia. C’era pure il libro di Andreotti: Cosa loro. Mai visti da vicino, pubblicato nel 1995 da Rizzoli. Da leggere tenendo sul tavolo le mille pagine del volume La vera storia d’Italia, pesante un chilo e mezzo, stampato in quello stesso anno da Pironti, con tutte le carte dell’indagine della procura di Palermo assemblate da Sandro Ruotolo e Silvio Montanaro. Il romanzo forse era impossibile sotto il peso di volumi, faldoni, omicidi, lutti, funerali, scontri, sirene, scorte, militari. Vi rinuncia anche Vincenzo Consolo – «aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile» – quando racconta il sofferto ritorno del suo protagonista Gioacchino Martinez da Parigi in Sicilia e a Palermo, esule parimenti deluso dalla terra d’origine e da quella di approdo. Lo Spasimo di Palermo è forse il libro di Consolo più urlato, quasi un’invettiva. E Palermo è descritta così: «Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio». I pazzi siete voi Ci voleva un’idea. Per ricominciare a raccontare la città che non fosse solo «macello quotidiano». Con mia grande invidia – lo confesso perché la pensata mi sembrò e mi sembra ancora geniale – la trovò Roberto Alajmo. Non era un romanzo – forse anche Alajmo è convinto che non si possa raccontare Palermo o che, tutto sommato, sia inutile, nonostante i suoi libri successivi abbiano spesso al centro Palermo, compreso il suo ultimo Carne mia, pubblicato da Sellerio. Era un elenco, anzi un repertorio. Repertorio dei pazzi della città di Palermo esce per la prima volta nel 1991, per la piccola e coraggiosa casa editrice della fotografa Letizia Battaglia. Viene ripubbli103­­­­

cato da Garzanti nel 1994, con buon riscontro di lettori. Con il suo passo scanzonato e un po’ snob, Alajmo allineava i tipi strani di Palermo. E ce n’erano tanti, tantissimi. Si aggiravano per le strade, per le piazze. Ogni quartiere aveva i suoi matti, noti e in qualche modo accettati, forse perché la città non dimenticava che nel 1824 qui era nata la Real Casa dei Matti, guidata da quel matto del barone Pietro Pisani, visitata e ammirata perfino da Alexandre Dumas quale istituzione modello che credeva nel recupero di chi aveva perduto il senno. I matti raccontavano la città. Schedario di persone diventate personaggi, galleria di ritratti brevi e veloci, il repertorio di Alajmo era popolato di figure del passato e del presente, di nobili eccentrici, di spostati metropolitani, di straniti cronici. Uno aveva un negozio di videocassette ma odiava i clienti. Vendeva e affittava, ma solo i film che piacevano a lui: film d’autore o cassette porno, sulle quali sapeva dare consigli. Se il cliente insisteva per una via di mezzo, magari un filmetto da vedere il sabato sera in famiglia, veniva cacciato fuori dal negozio. Una giovane con la faccia impeciata di rossetto entrava nei negozi di ogni tipo chiedendo: «Che fa, avete rossetto?». Le rispondevano sempre di no, tanto che una volta perse la pazienza e sfasciò un negozio a colpi di ombrello. Uno era un uomo di teatro molto potente, che telefonava alle persone dicendo per prima cosa: «Scusa, ma adesso non ho tempo di parlarti». E riattaccava. Un giorno convocò d’urgenza i suoi uomini più fidati, dalla sarta ai tecnici di palcoscenico, e quando furono riuniti si alzò dal suo posto, aprì la giacca e chiese loro: «Secondo voi sono dimagrito?». E tutti in coro risposero: «Sì».

Tra i pazzi finivano anche, non citati esplicitamente ma ravvisabili e riconoscibili, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, l’imprenditore Libero Grassi ucciso dalla mafia perché non voleva pagare il pizzo, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tutti matti perché pretendevano di gover104­­­­

nare una città o perché credevano nelle regole. La città si svelava con le sue fissazioni, i suoi tic, i suoi paradossi. Tra i matti, con ironia, si infilò lo stesso Alajmo, in una riedizione del suo atlante di folli: Uno faceva collezione di storie eccentriche. Ne trovò una e la mise da parte. Poi ne trovò un’altra, e così via. Quando ne raccolse un certo numero, ne fece un libro. Ma l’uscita del libro fece sì che altre persone venissero a raccontargli le storie che conoscevano. Fu così che il collezionista ne ebbe presto parecchie altre.

All that jazz C’era un limite, naturalmente. Anzi un doppio limite. Primo: il Repertorio non era un romanzo, appunto. Secondo: la scelta di descrivere Palermo attraverso i suoi pazzi delimitava il campo all’area dell’eccentricità siciliana, filone già esplorato da Stefano Malatesta, ad esempio. Forse per questo lo scrittore Andrea Di Consoli criticava Alajmo, chiedendogli perché avesse scelto proprio i matti e quale visione del mondo esprimesse la sua selezione. Il rischio era di far passare Palermo, e la Sicilia, come una città di pazzi, veri o presunti, di pazzi che si facevano perfino ammazzare per seguire la loro pazzia. Per fortuna, l’ironia di Alajmo evitava il pericolo, ma il pericolo c’era. Almeno nella percezione di chi avesse letto il libro avendo una certa idea di Palermo. Era possibile avere in Sicilia un romanzo d’amore? Un film di amicizia tradita? Un racconto di formazione giovanile? O magari un bel giallo. Sì, uno di quei gialli con uno o due delitti, meglio ancora se con un movente piccolo piccolo che si fa grande e micidiale. «Quelli con un bel movente, quelli da scavarci dentro, come Maigret, come Marlowe, o – più realisticamente – come don Ciccio Ingravallo, per arrivare alla fine ai meccanismi elementari della psiche. Da noi, però, c’è la mafia che oscura tutto, e non concede a un detective brillante alcuna possibilità di uscire dalla routine». 105­­­­

Al piano ammezzato di via Siracusa 50, sede della casa editrice Sellerio, donna Elvira sapeva bene qual era la percezione di Palermo, l’idea della città predominante nel resto d’Italia. A Palermo ci viveva e lì dal 1969 stampava i suoi libri. Forse per questo Elvira Sellerio aveva deciso di mettere le mani avanti presentando nel 1996 il poliziesco di Santo Piazzese, I delitti di via Medina-Sidonia: «Il delitto, il duplice delitto che insanguina a Palermo nei giorni del pieno scirocco, i giardini botanici, è di quelli sani buoni e misteriosi: senza mafia». Come a dire: cari lettori, siete davanti a una cosa nuova. Siete di fronte alla possibilità di un delitto «normale» nella città «anormale». Un blues palermitano. Così è descritto il giallo di Piazzese, biologo dall’aria svagata e ironica. Un blues con un investigatore casuale, Lorenzo La Marca, docente al dipartimento di biochimica applicata dell’università di Palermo, ex sessantottino, pigro e sfaccendato, cultore del buon jazz, della birra, dei vecchi film in bianco e nero. Non so quanto La Marca assomigli a Piazzese, secondo me abbastanza, ma sicuramente il personaggio spalanca una finestra su un nuovo tipo di siciliano. Cittadino, intellettuale, metropolitano con gusti internazionali e una «sicilitudine», a voler usare questa categoria, aperta al mondo. Nelle pagine di Piazzese si ritrova a un certo punto una copia del Gattopardo, però nelle mani di una donna americana impegnata a praticare la full immersion in Sicilia. Ma la gran parte delle citazioni musicali, letterarie e cinematografiche di Lorenzo La Marca sono di altro genere e restituiscono il profilo di un palermitano magari indolente, comunque inserito nel flusso del suo tempo. Ecco, un po’ a caso, il pantheon ideale del professor La Marca-Piazzese: Peter O’Toole, Ciao Pussycat, John Wayne, Festa mobile, John Lennon, Paul McCartney, Mood Indigo, Rose Mary Clooney, Blue in Green, Charlie Haden, Ernie Watts, François Truffaut, L’uomo che amava le donne, il tenente Colombo, La Rochefoucauld, Fanny Ardant, Scandalo al sole, Jules e Jim, Lauren Bacall, Acque 106­­­­

del Sud, Il lungo addio, Robert Altman. Bene, siamo a pagina 37 del libro e non c’è ancora un solo autore siciliano tirato in ballo. Non c’è Verga, ma c’è Woody Allen. Non c’è Pirandello, ma c’è Miles Davis. Non c’è Brancati, ma Chet Baker. Insomma, la Palermo di Piazzese è metropoli. Infatti, proprio così la chiama Lorenzo La Marca: la metropoli. Il personaggio si muove dentro una topografia che, pur mantenendo fermi i punti cardinali della Vucciria, del Politeama, di Mondello, della chiesa della Martorana e di via Archirafi, spazia intellettualmente nel flusso ideologico contemporaneo – dal trotskismo al maoismo, da Benedetti Michelangeli a Jessica Rabbit. Sulla mappa della Palermo di Piazzese non si può mettere la scritta «hic sunt leones», anche se un leone c’è, ruggisce rauco rinchiuso in una gabbia di Villa Giulia. Piazzese lo cita in apertura del suo romanzo: «Quando c’è scirocco si fa sentire il leone». Io Ciccio l’ho guardato negli occhi. Era stato regalato al Comune a metà degli anni Sessanta dal cavaliere De Furlanis, e restano ancora da capire le ragioni di quel regalo. Ma erano anni ruggenti, appunto. Forse il leone di Palermo voleva essere un omaggio tardivo a Ignazio Florio, il fascinoso capitano d’industria della belle époque che aveva reso Palermo capitale di un bel mondo fatto di principesse, zar e regine – i Florio avevano un leone come simbolo di famiglia. La città però non aveva uno zoo. Approntò alla bell’e meglio una gabbia a Villa Giulia, gioiello di razionalismo giardiniero realizzato nel Settecento da Giuseppe Damiani Almeyda per conto del viceré Marcantonio Colonna e dedicato a Giulia D’Avalos, moglie del viceré, appunto. Ciccio invecchiava tristemente dentro la sua gabbia. I genitori accompagnavano i ragazzini davanti al leone che li guardava assente, magari sognando una savana mai conosciuta. Vai a sapere cosa pensa un leone. In certe serate umide d’autunno, nella redazione del «Giornale di Sicilia» in via Lincoln, di fronte a Villa Giulia, arrivava il lamento lugubre di Ciccio. Allora si fermava il tramestio delle macchine da 107­­­­

scrivere nell’ascolto di quel ruggito proveniente da un mondo esotico, sospiro o minaccia, sfogo dalle viscere oscure della città e dai suoi abissi, memoria dimenticata di terre selvagge, richiamo di foreste mai viste. Poi, sulla spinta delle proteste animaliste, Ciccio fu trasferito in uno zoo safari dalle parti di Terrasini. Aveva i reumatismi: troppi anni di umidità a bordo mare si erano incrostati nelle ossa. Dicono che gli fu messa accanto una leonessa, fece il suo dovere di re degli animali, copulò e procreò. Dovrebbero essere nati due leoncini, non so dove siano ora gli eredi di Ciccio di Villa Giulia, mi auguro per loro una vita serena e senza artrosi. C’era il leone, ma nel libro di Piazzese la città non era terra ignota e a sé stante. Lorenzo La Marca sapeva essere siciliano, ma allo stesso tempo europeo, americano, cosmopolita. Avrebbe potuto condividere gusti e ossessioni con un ingegnere di Stoccolma, con un avvocato di Edimburgo o con un commerciante di Ginevra. Ho conosciuto Piazzese al festival del giallo che da oltre dieci anni Fabrizio Quadranti organizza a Massagno, prolungamento urbanistico di Lugano, nel Canton Ticino. Io nascondevo a fatica la pudicizia del siciliano ospite per la prima volta in Svizzera (timoroso di sembrare troppo chiassoso, invadente, in definitiva meridionale), mentre Piazzese sembrava proprio a casa sua: mi consigliava piatti e ristoranti, mi spiegava la differenza tra la gente di Lugano e di Ginevra, mi parlava dei suoi precedenti viaggi per l’Europa. A me sembrava di parlare con Lorenzo La Marca, riconoscevo il tratto del palermitano colto capace di stare al mondo senza mai perdere il suo aplomb. In verità, alcuni palermitani sono autentici inglesi, ma con le vocali più aperte. Il libro di Piazzese era la dimostrazione concreta che si poteva scrivere un giallo «normale», sempre che questa parola abbia senso, anche a Palermo. Blues o jazz, I delitti di via Medina-Sidonia aprivano una possibilità. In realtà, qualche tentativo c’era già stato in passato. Con 108­­­­

grande piacere avevo letto nel 1987 il poliziesco di Silvana La Spina Morte a Palermo. Pubblicato da una piccola casa editrice milanese, La Tartaruga Nera, il giallo, scritto da questa insegnante di madre veneta e padre siciliano che aveva scelto Catania come luogo di residenza, partiva dall’omicidio di uno studioso di arte antica e di mitologia, per sviluppare una trama annidata dentro le gelosie tra accademici dell’università di Palermo e le ambizioni speculative di architetti di grido: non a caso, lo sfondo era un cupissimo Palazzo Steri a piazza Marina, un tempo tribunale dell’Inquisizione siciliana e ora sede del rettorato dell’ateneo palermitano. Alcuni personaggi erano ricalcati su persone reali e individuabili, a partire da Honorio Bustos Domecq, grande scrittore argentino cieco che citava Hume, Coleridge, Parmenide, i mistici arabi e i cabalisti: non ci voleva molto a riconoscere Jorge Luis Borges che nel 1984 era stato a Palermo per ricevere un premio (incontrò gli studenti in un’affollatissima aula magna della facoltà di Ingegneria: al suo ingresso il nome di Borges venne scandito con un tifo da curva sud. Tornato il silenzio, da dietro i suoi occhi opachi, parlò di metafore, di sogni, sillabò in italiano il verso dantesco «dolce color di oriental zaffiro», rispose alle domande. Gli chiesi: chi è Borges? «Un vecchio che ha scritto anche dei libri», rispose. L’indomani mi ritrovai citato sui giornali per la mia domanda «massimalista»). Il libro di Silvana La Spina era buono, ma ebbe diffusione limitata. Mi sembrò, al momento della lettura, un primo passo per accedere a una narrativa non esclusivamente mafiologica su Palermo e dintorni. Forse appena pochi anni più tardi avrebbe avuto maggiore successo. Silvana La Spina era al suo esordio, ha scritto poi altre cose con buoni riscontri. Raggiante Catania Jazz a Palermo, dunque. Non saltava fuori per caso, non era un capriccio di Santo Piazzese. Colpa degli americani sbarcati nel ’43 o per chissà quale altro motivo, ma il jazz, nelle 109­­­­

sue varie declinazioni, era la musica della città. Non saprei dire i nomi dei molti talenti palermitani venuti fuori negli anni Ottanta e Novanta – mio deficit musicale, non capisco niente di jazz, eppure mi piace – ma non c’era terrazza, albergo, chiostro di Palermo dove non si ascoltasse jazz. E se la memoria può ingannarmi, allora è meglio chiedere soccorso a una che di musica se ne intende: «Ai miei tempi Catania era la capitale del rock, mentre Palermo lo era del jazz». Parola della cantantessa catanese Carmen Consoli. Se lo dice lei. La scena musicale di Catania peraltro era sempre stata di rilievo. Rilievo nazionale. Senza risalire fino a Vincenzo Bellini, e senza ovviamente voler fare paragoni, di Catania erano Marcella Bella e suo fratello Gianni, con i loro successi pop. Di Catania era il guru Franco Battiato. Avevano avuto successo fuori dalla loro città, ma negli anni Ottanta – complice in qualche modo proprio Battiato – il panorama catanese era spumeggiante. Nel 1982 al festival rock di Bologna, quattro ragazzi catanesi (Mario Venuti, Tony Carbone, i fratelli Luca e Gabriele Madonia) conquistano il secondo posto, subito dietro il gruppo fiorentino Litfiba. Si fanno chiamare Denovo. «Li avevo visti suonare per la prima volta al cinema Delle Rose, in via del Bosco a Barriera», ricorda il giornalista catanese Luigi Pulvirenti nel suo romanzo D’estate i temporali che racconta la generazione delle radio, delle discoteche, della prima movida etnea, tra impegno e disimpegno. «Li avevo seguiti nel corso degli anni della gavetta, informandomi, documentandomi; trascinando i miei amici innamorati della musica punk o del nuovo rock ’n roll dei Dire Straits a quelle esibizioni clandestine». I Denovo sono la novità musicale di Catania. «Volevamo capire da dove saltasse fuori quella musica», continua Pulvirenti. «Nel mio piccolo li avevo aiutati: non c’era serata in cui io mettessi musica che non cominciasse con Animale, da Unicanisai, e non finisse con Sant’Andrea. E quando l’anno prima a Sanremo si classificarono ultimi con Ma che idea, singolo scelto per rappresentarli sul palco più importante d’I110­­­­

talia, maledissi quel mio Paese antiquato e obsoleto che non capiva la modernità di quella musica». Attenti all’ultima frase. Pulvirenti parla del Festival di Sanremo del 1988. Ne parla da Catania, in quel momento una delle frontiere musicali italiane. E maledice un Paese «antiquato e obsoleto». Qui le cose si capovolgono. Il suo personaggio – disc jockey, speaker radiofonico, giornalista in televisione – osserva il mondo da Catania e, almeno sotto il profilo del rock e della new wave, sente che la sua città è più avanti rispetto al resto d’Italia. La questione non è se lo fosse veramente o meno. Il punto è che un ragazzo di Catania di quegli anni poteva avvertire che la sua città stava al centro di un movimento musicale moderno, anzi addirittura d’avanguardia. Crollano di colpo le quinte di cartapesta con i balconi barocchi, scoprendo i woofers da centomila watt. Pulvirenti fotografa il momento in cui acquista e ascolta l’ultimo disco dei Denovo. È il 1989, è appena uscito Venuti dalle Madonie a cercar Carbone (il titolo del disco gioca sui cognomi dei componenti della band), curato da Franco Battiato, che «annunciava la possibilità della svolta. Quella di passare da un gruppo di nicchia, che valeva trentamila copie, a gruppo di successo commerciale, mantenendo intatti i presupposti del proprio discorso musicale. La mano del Maestro, che lo aveva prodotto quel disco, si vedeva, a partire dalla foto di copertina scattata in via Caronda, con loro quattro appoggiati alla Volvo bianca di Franco Battiato e la giara sul tetto: erano dieci piccole gemme di tre, quattro minuti ciascuna che sarebbe stato difficile non ascoltare e riascoltare, una, due, tre volte». A volte penso che il jazz ricalca la malinconia strascicata della parlata palermitana, quanto il rock somiglia all’accento scoppiettante e sincopato dei catanesi. Ma sono solo suggestioni, mentre è certo che la movida catanese dei caffè-concerto che anima le notti del centro storico dalla metà degli anni Ottanta è il laboratorio che seleziona nuovi talenti, in una città in cui la musica diventa la via d’accesso per connet111­­­­

tersi al mondo. E questo riguarda diverse generazioni. Luigi Pulvirenti è nato nel 1977. Domenico Trischitta, giornalista e scrittore, è nato a Catania nel 1960. Sono divisi da diciassette anni di differenza e naturalmente cambiano i loro riferimenti. Dirty Looks, Tony Hadley, Morrissey per Pulvirenti. Bob Dylan, Rolling Stones, Led Zeppelin per Trischitta. Entrambi, però, saranno tra i ventimila spettatori del concerto dei Rem del 1995 allo stadio Cibali di Catania. «Domenica 6 agosto 1995, ore 19.25», precisa Trischitta nel suo libro Una raggiante Catania. «Ad aprire il concerto sono i catanesi Flor di Marcello Cunsolo, band prodotta da Saverio, che cominciano a tastare il terreno con Re dell’Est, loro cavallo di battaglia con forti influenze anglosassoni. Mezz’ora di esibizione dinanzi al loro pubblico, probabilmente il più numeroso accorso per una loro performance. Il tramonto non tarda a venire, qualche minuto di pausa ed è la volta di uno dei gruppi più interessanti della scena internazionale, gli inglesi Radiohead. Il loro è un rock d’impatto notevole, forse è vero che ci ricordano gli U2, ma rappresentano la vera rivelazione della serata. La struggente Creep ci scalda a dovere prima del grande appuntamento». Alle 21.35 si spengono i fari. Il cantante Michael Stipe attacca le prime note di What’s the Frequency, Kenneth?. «E l’entusiasmo tra il pubblico catanese si impenna di colpo – scrive Trischitta –. Di colpo ci si dimentica dei morti ammazzati a raffica negli anni Ottanta». Anche quello di Trischitta è un romanzo di formazione che lascia intravedere la trasformazione della città: la distruzione del vecchio San Berillo, quartiere fatiscente abitato da prostitute, bordello a cielo aperto, l’emporio del sesso a pagamento più grande d’Italia, e la costruzione di San Berillo Nuovo, quartiere di edilizia popolare, ghetto criminale, periferia metropolitana. Protagonisti sono alcuni amici le cui vite finiranno per perdersi. Uno di loro è Saverio (nella realtà si chiamava Francesco Virlinzi, morto nel dicembre del 2000, a quarantun anni), l’organizzatore del concerto dei Rem: «La 112­­­­

sua perseveranza e il suo istinto di desaparecido del rock lo porteranno a realizzare il suo progetto: fare di Catania la Seat­tle d’Italia». Pure Trischitta parla dei Denovo, naturalmente: «In questa città che cominciava a macchiarsi di sangue nuovi movimenti giovanili si impadronivano della musica, e fu in quell’alchimia che mosse i primi passi un gruppo catanese che avrebbe fatto la storia del rock nazionale. Il loro pop elegante travalicava i confini nazionali e approdava in Gran Bretagna, fonte della loro musica. E già questa era una piccola rivoluzione». Trischitta ricorda gli inizi, Pulvirenti registra la fine del gruppo che si scioglie nel 1990. Proprio mentre si chiude l’avventura dei Denovo, nei pub di Catania canta una ragazzina con una stranissima voce. Si chiama Carmen Consoli. «Il più travolgente fenomeno musicale degli ultimi dieci anni», scrive Trischitta, che ha intitolato il suo libro, non casualmente, con una frase presa dalla canzone In bianco e nero. Guardo una foto di mia madre era felice avrà avuto vent’anni capelli raccolti in un foulard di seta ed una espressione svanita. Nitido scorcio degli anni sessanta di una raggiante Catania la scruto per filo e per segno e ritrovo il mio stesso sguardo.

«La musica della cantantessa catanese invade le strade della città», così Trischitta nella conclusione del suo romanzo. «E Un amore di plastica travalica le vie e gli ostacoli di Catania la Nera per giungere ovunque, nei quartieri popolari come San Berillo Nuovo o in un centrale bar di corso Sicilia... Non è più la Catania violenta degli anni Settanta. Adesso è una raggiante Catania». Trischitta e Pulvirenti, malgrado le differenze, anche generazionali, hanno tratti comuni: la musica, le radio libere, la 113­­­­

movida nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta a Catania, la pratica giornalistica. Forse non rappresentano Catania nella sua interezza e complessità, ma entrambi raccontano una città che – con i fratelli Marcella e Gianni Bella, con Franco Battiato, i Denovo, Carmen Consoli e molti altri, compresa la rivelazione Mario Biondi, il Barry White italiano – si è costruita nel tempo come luogo di sperimentazione e innovazione musicale, facendo convergere a Catania anche gruppi ed esperienze provenienti da altre città italiane. Non a caso, per molti anni Catania è stato il luogo del Sud, dopo Napoli, dove si svolgevano i più importanti concerti. Non a caso, la tappa catanese del 1995 dei Rem fu l’unico appuntamento italiano del gruppo statunitense. Un evento di cui, ancor oggi, non c’è catanese al di sopra dei quarant’anni che non abbia ricordo. La Milano del Sud, com’era stata chiamata da Guido Piovene a metà degli anni Cinquanta («Catania è città musicale», scriveva Piovene nel suo Viaggio in Italia), titolo che la città si è tenuto a lungo, pronunciandolo con orgoglio o con sarcasmo, a seconda dei momenti, a un certo punto ha sognato di diventare la Seattle d’Italia. Forse c’è riuscita, forse no. Ma sicuramente ci ha creduto e lo ha fatto credere per molto tempo. Sotto il vulcano David Leavitt non ha dubbi: «È la rappresentazione della Sicilia del ventunesimo secolo». L’autore di Ballo di famiglia, raffinato scrittore americano con studi a Yale, nell’ottobre del 2008 scrive sul «New York Times» una recensione entusiasta del libro Sicilian Tragedee di Ottavio Cappellani, appena tradotto in inglese per gli Stati Uniti. Leavitt ne coglie i tratti metropolitani e grotteschi («Un peana e allo stesso tempo una satira»), individuandone allusioni cinematografiche e letterarie: Vittorio Gassman, Gina Lollobrigida, Pietro Germi e, naturalmente, Il Gattopardo. Ma per Leavitt tutto viene centrifugato in una sorta di «sproporzione delle dimensioni». 114­­­­

Il romanzo di Cappellani, scrittore volutamente désengagé e controcorrente, nel suo Sicilian tragedi (no, non è un refuso: il titolo in italiano è proprio questo), mette in parodia una Catania pacchiana e rumorosa, popolata da una schiera di mafiosi, nobili, assessori regionali, registi e comparse, illuminati da una luce psichedelica. Sovraccariche, volgari, meschine, le maschere di Cappellani interpretano, più o meno consapevolmente, Romeo e Giulietta alla catanese, sullo sfondo del cattivo gusto contemporaneo, dove al posto del balcone di Verona ci sono le volute barocche di Palazzo Biscari. Cappellani esordisce con un romanzo italoamericano nel 2004. Chi è Lou Sciortino? si muove tra gli Stati Uniti e Catania. Ed è questa Catania che ci interessa, quella che sarà presente anche negli altri suoi libri. È una città sfinita e annichilita dai caffè-concerto, dalle feste sulle terrazze degli hotel di Ognina, di Suv e Mercedes che sgommano sulle strade di lava del centro storico. È come se la movida della scena catanese (o meglio, The Scene, come dicono gli americani), salutata alla fine degli anni Ottanta come il Rinascimento di una città, si fosse deteriorata fino a diventare la sua caricatura. Cappellani svela una città insensibile alla sua memoria e alle sue glorie, indifferente perfino davanti allo spettacolo quotidiano dell’Etna fumante, degradata e felice di esserlo, pur di alimentare le sue passioni da basso impero. Il graffio di Cappellani scoperchia una Catania che è ancora quella di Brancati, per certi versi, ma imbruttita e involgarita, addirittura affascinante nel suo kitsch tirato all’estremo. I modelli sono quelli delle telenovelas, dei talk show pomeridiani, di una provincia che aspira ad essere capitale senza mai riuscirci. Insomma, Vitaliano Brancati ed Ercole Patti messi nel frullatore e sbattuti a neve: una città nera e antica nella centrifuga della modernizzazione forzata, dove il tacco dodici dei sandali che indossa Paris Hilton si spezza sul basalto lavico della discesa di via dei Crociferi. La Catania di Cappellani è la succursale chiassosa e sudata di Beverly Hills, condita con paste di mandorle e zammù. 115­­­­

Hollywood, Palermo Nove lettere alte ventitré metri ciascuna, per una lunghezza complessiva di 170 metri. Nel mese di giugno 2001, sulla collina di Bellolampo affacciata su Palermo, che nasconde alle spalle la discarica pubblica provinciale, era stata installata una scritta gigantesca: «Hollywood». Il profilo della collina palermitana, in effetti, somiglia molto al frontone di Los Angeles dove, dagli anni Venti, campeggia uno dei simboli della città degli angeli. L’installazione era l’opera d’arte di Maurizio Cattelan per la Biennale. Rispetto a Los Angeles, la replica siciliana era addirittura più grande. «Hollywood di Maurizio Cattelan è al contempo un atto di coraggio e una fuga – un’opera d’arte toccante», commentava Harald Szeemann, direttore del dipartimento Arti visive della Biennale di Venezia, nel comunicato ufficiale che promuoveva il progetto. «Ricreando il mito di Hollywood in Sicilia, Cattelan innesca un’esplosione di interpretazioni». «È come gettare una manciata di polvere di stelle sul paesaggio siciliano. È un sogno costruito a colpi di taglia e incolla», diceva Maurizio Cattelan sempre nella nota stampa consegnata ai giornalisti. «Le immagini sono solo proiezioni del desiderio. Ho provato a sovrapporre due mondi lontani, la Sicilia e Hollywood: ho cercato di sfuocarne i confini. Hollywood non è una provocazione. Certo, è una parodia, ma anche un tributo, un omaggio. È un’opera che ci parla dei limiti delle nostre convinzioni. È come raggelare il momento in cui la verità si trasforma in allucinazione. C’è qualcosa di dolce, perverso, attraente in Hollywood: è un simbolo che subito evoca ossessioni, fallimenti e ambizioni. È un magnete per il desiderio». Una parodia, dunque. Parola di Cattelan, l’artista più controverso e più pagato d’Italia (per capirci, è quello che ha appeso al tetto cavalli con le zampe penzoloni e ha piazzato un gigantesco dito medio alzato in piazza Affari a Milano). Per sei mesi i palermitani, alzando gli occhi, vedevano la scritta 116­­­­

«Hollywood» lassù in alto. A me piaceva, mi sembrava uno scherno beffardo che ogni giorno sottolineava la distanza irraggiungibile tra Palermo e Los Angeles, tra la Sicilia e la California. D’altra parte, molti politici non ripetevano che la Sicilia doveva diventare la California d’Italia (o la Florida)? Qualche anno dopo, Piergiorgio Di Cara ci scrisse sopra un hard boiled. Hollywood, Palermo era il suo quarto libro e si apriva con una sequenza da film. «Esterno giorno. La macchina da presa inquadra un monte brullo, macchie scure di verde intenso, rare, sfondo bruno di rocce. Una scritta bianca, gigantesca: HOLLYWOOD. Un sottofondo blues struggente. La macchina da presa allarga il campo: case dagli spigoli sbrecciati come vecchi vasi. Rossi e bianchi sbiaditi. L’idea di una grande confusione. Sembra una Los Angeles messicana. È Palermo». I racconti d’esordio di Di Cara, usciti nel 2000, erano all’opposto dei gialli di Camilleri e di Piazzese. Cammina, stronzo. Sbirri a Palermo aveva la rapidità di un blitz di polizia nella notte, la durezza del fumo freddo negli uffici della questura, la paura delle pattuglie delle volanti per una chiamata radio, il linguaggio brusco di chi deve sopravvivere nella città maledetta. Erano racconti presi dalle vite reali di un poliziotto a Palermo e Di Cara sapeva scriverli come li raccontava. Piergiorgio con la sua faccia da normanno e il fisico da rugbista è infatti un vero sbirro. Non lo è diventato per tradizione familiare o tanto per avere uno stipendio: lo ha scelto, ritenendolo gesto coerente con il suo percorso di studente di sinistra, in prima linea nella stagione della Pantera – ricordate il movimento delle università e dei licei che nell’autunno 1989 dilagò in tutta Italia partendo proprio dalla facoltà di Lettere di Palermo? – che in Sicilia si colorò subito di impegno antimafia. Di Cara aveva cominciato alla squadra mobile di Palermo, l’anno successivo alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Raccontava, divertito, che i suoi colleghi (sbirri duri, da trenta sigarette al giorno) guardavano con sospetto lo studentello 117­­­­

borghese sceso dai quartieri alti per arruolarsi nella caienna del fronte più avanzato contro la mafia, dove si faticava e si poteva essere ammazzati. Ne parlavano come di uno strano: «Attenti, Di Cara ha due lauree e fa lo sbirro. Non è normale». Io passerei ore ad ascoltare Di Cara. È pieno di storie, perché è vero che le storie capitano solo a chi sa raccontarle. I poliziotti di Piergiorgio Di Cara non sono intellettuali raffinati, hanno soprattutto intuito e muscoli. E per loro la scritta «Hollywood» sulla collina di Bellolampo non è una parodia. Semmai è lo schiaffo quotidiano contro chi, ogni giorno, scava nei bassifondi della città, rivoltandone i vizi fetidi, gli aspetti torbidi. La scritta «Hollywood» illumina la città buia. «Palermo, la notte, è una città diversa». La notte il centro, da questa parte del Massimo, è un formicaio di mani a coppa che squagliano fumo o reggono bottiglie di birre grandi. Clacson. Volute di fumo denso e odoroso di grasso e carbone. Piatti di plastica curvi sotto manciate di stigghiole roventi. Musiche. Psichedelie latinoamericane. Strade lastricate di selce e mura ocra scuro affumicate, sbrecciate. E coni di luce qua e là. E oceani. Di barbe lunghe e capelli rasta. Di gote rosse e capelli biondi. Minigonne di pelle, e stivali di stoffa neri. Inquadrature che si allargano e stringono di continuo, veloci, immediate, e ondeggiano su e giù, a destra e sinistra. Effetti seppia, immagini sfocate che esplodono. E ancora musica. Sonorità arabe. Om indiani. Tamburi africani. La città della moda, sembra. Il Guggenheim del paradosso. Da quell’altra parte della strada, una motoape. Un tizio raccoglie cartoni rovistando nell’immondizia.

Non è Hollywood. Non è Los Angeles. È solo Palermo.

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Arancine di riso

L’umorismo è il sentimento del contrario. Luigi Pirandello

Fermi tutti. Già lo so che c’è in agguato un catanese pronto a dire: «Non si dice arancine, si dice arancini». Vexata quaestio, avrebbero detto i latini, che aggiunge pepe alla piccantissima rivalità tra le due città del derby alla siciliana, Palermo e Catania. Le arancine al ragù di Palermo sono tonde, quelle catanesi sono a punta. Sulla costa occidentale sono femmine, su quella orientale sono maschi. Andrea Camilleri ci ha messo il carico da undici: pur essendo della West Coast, ha intitolato un suo libro Gli arancini di Montalbano, fornendo alibi letterari alla fazione catanese. La questione potrebbe risolversi facilmente con il buon senso: ciascuno li chiami (o le chiami) come vuole, tanto sono buoni (buone) comunque. Ma sarebbe troppo facile. Troppo facile e troppo noioso. Perché West Coast ed East Coast si fronteggiano in nome della purezza lessicale: la dizione corretta è la mia, e non avrai altri arancini (o arancine) all’infuori di me. Si citano antichi vocabolari siciliano-italiano, si chiamano in causa poeti e scrittori, si ricostruisce filologia, semantica ed etimologia. Arancina da arancia, più chiaro di così? No, perché in dialetto l’arancia si chiama aranciu, al maschile, quindi arancinu è il diminutivo corretto. Insomma, da perderci la testa e pure il piacere di mangiarsele (o mangiarseli). Qui è impossibile la terzietà. Per evitare 119­­­­

accuse di pavidità lessicale, mi dichiaro: per me sono sempre state arancine, mi viene difficile chiamarle altrimenti. La querelle va avanti da lungo tempo. Pagine facebook, frecciate da un capo all’altro della Sicilia, siti gastronomici prudenti, conversioni di genere, ironie pesanti da curva sud. Quando la questione si è fatta seria, allora sono entrati in campo gli accademici. Non stiamo parlando di circoli di storia locale o di dialettologi schierati. Un giorno di febbraio del 2016 sulla spaccatura gastronomica è intervenuta l’Accademia della Crusca. Si dice arancino o arancina? Dal sito ufficiale dell’Accademia si capiva che la domanda veniva sollecitata da più parti, non solo dalla Sicilia: «Anche da Roma, Rieti, Firenze, Bologna ci pongono la stessa domanda». Non era più possibile tacere di fronte al grido di dolore che si levava da ogni parte d’Italia. E l’Accademia fu costretta ad emettere il suo verdetto. Con la -o Nel dialetto siciliano, come registrano tutti i dizionari dialettali, il frutto dell’arancio è aranciu e nell’italiano regionale diventa arancio. Del resto, alla distinzione di genere nell’italiano standard, femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si giunge solo nella seconda metà del Novecento, e molti parlanti di varie regioni italiane – Toscana inclusa – continuano tuttora a usare arancio per dire arancia. Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino nell’italiano regionale: da qui il nome maschile usato per indicare il supplì di riso. Con la -a I dizionari quindi concordano sul genere di arancino, ma le indicazioni del genere del nome che indica il frutto dell’arancio sono, come abbiamo detto, oscillanti: le due varianti arancio e arancia coesistono, con una prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola. Il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno nell’impiego formale – perché l’opposizione di genere è tipica nella 120­­­­

nostra lingua, con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal frutto. Si può ipotizzare che il prestigio del codice linguistico standard, verso cui sono sempre state più ricettive le aree urbane, abbia portato la forma femminile arancia a prevalere su quella maschile arancio nell’uso dei parlanti palermitani: essi, avendo adottato la forma femminile per il frutto, l’hanno di conseguenza usata nella forma alterata anche per indicare la crocchetta di riso: dunque, arancina.

E dunque? «Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino italianizza il modello morfologico dialettale, mentre chi dice arancina non fa altro che riproporre il modello dell’italiano standard». Sì, va bene. Ma qual è la forma più corretta? E qui Stefania Iannizzotto, che firma la dottissima riflessione linguistica, si fa un po’ cerchiobottista: «Possiamo quindi rispondere che il nome delle crocchette siciliane ha sia la forma femminile sia la forma maschile, determinata dall’uso diatopicamente differenziato». Non so spiegare cosa significhi la parola «diatopicamente», mentre capisco che l’Accademia ha fatto contenti tutti: non sbaglia nessuno. (Per non essere accusata di ponziopilatismo, Iannizzotto conclude: «Che poi maschio o femmina, a punta o rotonda, è sempre la fine del mondo!»). Risolto il dilemma linguistico (risolto un bel corno, all’indomani siti e giornali annunciavano: l’Accademia ci ha dato ragione, a seconda se scrivevano da Catania o da Palermo), qui le arancine sono evocate soltanto per la questione del riso. Il riso, cioè la risata in Sicilia. Per come è stata. Per come è. Riso amaro A un certo punto, era diventato difficile ridere in Sicilia. Ridere della Sicilia. Era difficile fare ironia sui morti ammazzati, confezionare sarcasmi sulle carneficine, allestire parodie sulla guerra siciliana. Ormai erano al tramonto Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, veri signori della parodia, che tra il 1961 e il 1965 – periodo in cui i due comici palermitani giravano 121­­­­

anche cinque film all’anno – avevano recitato in cinque pellicole con questi titoli, alcuni dei quali con record di incassi: L’onorata società (1961), I due mafiosi (1964), Due mafiosi nel Far West (1965), Due mafiosi contro Goldginger (1965) e Due mafiosi contro Al Capone (1966), costruiti anche sull’onda del successo del film del 1962, Mafioso, di Alberto Lattuada con Alberto Sordi. «I due eroi (peraltro bravissimi e sostenuti da una formidabile capacità di improvvisazione) – scriveva Vittorio Albano, critico cinematografico del giornale «L’Ora» – vengono definiti mafiosi in senso simpatico (quando non proprio affettuoso) di mattacchioni, furbacchioni o comunque di gente che la sa lunga e riesce sempre a tirarsi fuori dai guai. Mafiosi in quanto siciliani che sanno arrangiarsi, dunque. Naturalmente si trattava di scelte dei produttori che ritenevano fosse il modo più appropriato per rendere la coppia più gradita al grande pubblico, non solo siciliano. Si vede che ancora pareva lecito scherzare su un problema di cui evidentemente parecchi, soprattutto fuori della Sicilia, non avevano capito le dimensioni né la gravità». Ma dopo i massacri degli anni Ottanta sembrava impossibile riproporre la risata sul mafioso. Non era più tempo per scherzare. Eppure nel 1985 circolò a Palermo un libretto, firmato da un «Anonimo del XX Secolo». In verità, quasi tutti sapevano che l’autore era Umberto Santino, studioso e animatore del Centro di documentazione Peppino Impastato, che raccoglieva qualunque pagina stampata sul tema della mafia. Il titolo del libretto era Una modesta proposta per pacificare la città di Palermo. Si tratta di una satira drammatica, sulla falsariga di un precedente illustre di Jonathan Swift, scritta a ridosso della guerra di mafia che tra il 1979 e il 1983 aveva insanguinato il capoluogo. «Come si può convivere con il delitto in modo normale?», chiedeva l’Anonimo. E dava la soluzione: «Ponendo alcune regole di condotta che tolgano al delitto qualsia­si aura di mistero e di insondabilità. Sostituendo il 122­­­­

buio della notte con il chiarore del giorno. Mi spiego: che bisogno c’è di uccidere di nascosto, di mettere una bomba di notte, quando si può tranquillamente uccidere davanti a tutti, senza timore di farsi scoprire? Che bisogno c’è di svolgere tante indagini che non approdano a nulla, o se approdano a qualcosa mettono a repentaglio la vita del malcapitato giudice, quando si possono eliminare, con un articolo di legge, tutte le indagini, riconoscendo formalmente quello che è già riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei cittadini, e cioè il diritto di uccidere?». L’Anonimo offriva una proposta di Statuto della città di Palermo. Eccone alcuni articoli. Art. 1 – È riconosciuto nella Città di Palermo il diritto di uccidere. Tale diritto può essere esercitato da ogni cittadino, singolo o associato, secondo le modalità previste dall’art. 2 del presente Statuto. È abolito nel territorio della Città di Palermo l’art. 575 del Codice Penale, riguardante il delitto di omicidio. Art. 2 – Per esercitare il diritto di uccidere occorre presentare domanda presso l’Ufficio Assassinii di cui all’art. 3 del presente Statuto, competente a concedere la necessaria autorizzazione. Nella domanda bisogna indicare: motivazione, anche generica, dell’assassinio per il quale si chiede l’autorizzazione, nominativo della vittima o delle vittime, modalità e tempo dell’esecuzione. La domanda, redatta su apposita scheda, viene introdotta in un apposito contenitore insieme alla somma relativa alla tassa prevista dall’art. 4. Il provvedimento di autorizzazione viene emesso direttamente da un cervello elettronico che procede alla emissione dopo avere effettuato il controllo sulla regolarità della richiesta. Nei casi in cui il richiedente ritiene che il caso non rientri nella formulazione, contenuta nella scheda generale di richiesta, provvederà ad inoltrare domanda in carta libera direttamente al Servizio Casi Complessi istituito presso l’Ufficio Assassinii. Art. 3 – È istituito presso il Comune di Palermo l’Ufficio Assassinii, con il compito di concedere le autorizzazioni previste dall’art. 2. Presso il predetto Ufficio, per i casi previsti dal secondo comma 123­­­­

dell’art. 2 è istituito il Servizio Casi Complessi. Tale Servizio dovrà emettere il prescritto provvedimento di autorizzazione entro e non oltre cinque giorni dalla ricezione della domanda. In caso di mancata pronuncia entro quel termine, l’assassinio si presume autorizzato.

Lo Statuto va avanti per altri dieci articoli. Istituisce la qualifica di Assassino o Grande Assassino (i quali godono di «particolari privilegi, quali la preferenza nell’assegnazione di cariche pubbliche e rappresentative, l’esenzione dal pagamento di tasse e tributi, facilitazioni nella concessione di prestiti bancari, l’assegnazione di una pensione vitalizia, lo sconto sugli acquisti nei negozi della Città e la concessione di tessere gratuite per assistere a spettacoli pubblici»). Istituisce la categoria delle Vittime (che «non dà diritto a particolari privilegi»), quella dei Complici (che dà diritto «a esenzioni e facilitazioni»), quella dei Sudditi (che «non gode di trattamento particolare») e infine quella degli Oppositori («Data la precarietà della loro esistenza in vita non sono consentite polizze speciali di assicurazione e, tenendo conto del numero elevato dei decessi, si fa divieto di celebrare funerali di Stato per non sovraccaricare il pubblico erario ed evitare continui spostamenti delle Autorità centrali»). A fine lettura, soprattutto leggendolo nei giorni in cui era stato pubblicato, restava un retrogusto spiacevole. Era una satira contro la mafia, certo. Ma sembrava una sferzata ai palermitani, a tutti noi siciliani, muti e remissivi – se non addirittura complici – nell’infuriare della violenza di Cosa Nostra. C’era poco da ridere, è chiaro. Ma poi arrivò Roberto Benigni e trovò il coraggio che i siciliani non riuscivano più ad avere. Non mi somiglia per niente Si rideva. E i siciliani ridevano con gusto guardando Johnny Stecchino. La trama, riassunta da Paolo Mereghetti, è questa: 124­­­­

Dante (Roberto Benigni), candido autista di un pulmino per handicappati, è il sosia di un boss pentito che la mafia vuole eliminare. Attirato a Palermo dalla donna del boss (Nicoletta Braschi), che lo vuole usare come bersaglio per salvare la vita al suo uomo, viene salvato dalla sua ingenuità. La sceneggiatura, scritta a quattro mani da Benigni e Vincenzo Cerami, era indovinata. La commedia degli equivoci si snodava densa di gag. Sullo sfondo una mafia farsesca, parodia di boss pieni di tic. Il film uscì nelle sale nell’ottobre 1991 – pochi mesi dopo Cosa Nostra avrebbe dato il via alla stagione delle stragi del ’92 e forse non sarebbe più stato possibile pensare quel film. «Il divertimento è garantito – scrive ancora Albano nel suo libro La mafia nel cinema siciliano – ma più sul versante comico che su quello satirico. Sulla mafia il film si limita a graffiare in superficie, tanto che, in fondo, la mafia diventa solo un pretesto per le avventure del protagonista positivo... In un mondo assurdo e feroce come quello vissuto dal protagonista l’unica condizione per salvarsi è la diversità, cioè il rifiuto della normalità, che esclude ogni coinvolgimento». Però ci sono due o tre scene, nel film di Benigni, che raccontavano un modo di essere e di pensare di parte dei siciliani. Ad esempio, la serata al teatro in cui il pubblico benpensante si alza e se ne va per prendere le distanze dal mafioso pentito, cioè dall’infame traditore. Non era, in fondo, lo stesso atteggiamento di alcuni giornalisti, intellettuali e professionisti di Palermo di fronte alla decisione di Tommaso Buscetta di collaborare con Giovanni Falcone, mettendo nei guai tanti padri di famiglia? Avevano detto e scritto che Buscetta non era un vero uomo d’onore, che non era mai stato un padrino importante, che accusava gli altri e nascondeva le sue responsabilità, che era un burattino nelle mani di Falcone, che non poteva essere un vero mafioso perché aveva lasciato la moglie per risposarsi. E la scena in auto all’arrivo di Dante a Palermo, con il monologhetto magistralmente recitato da Paolo Bonacelli, nel 125­­­­

ruolo dello Zio, l’avvocato del boss Stecchino, è diventata in Sicilia – e anche altrove – un modo di dire. Zio: Era una bella città, ma ora è bellissima. Sole, mare, fichidindia, Empedocle, Archimede. Purtroppo siamo famosi nel mondo anche per qualcosa di negativo. Per esempio, quelle che voi chiamate «piaghe». Una terribile, e lei sa a cosa mi riferisco, è... l’Etna, il vulcano che quando si mette a fare capricci, distrugge paesi e villaggi. Ma è una bellezza naturale. Ma, c’è un’altra cosa. Questa è veramente una piaga grave che nessuno riesce a risolvere. Lei mi ha già capito... eh? È la siccità. Eh... da questa parte la terra d’estate brucia. È sicca. È una brutta cosa... Dante: Ah sì, una bruttissima cosa, l’avevo sentita, infatti. Zio: Ma è la natura, e non ci possiamo fare niente... Ma dove possiamo fare e non facciamo... perché in buona sostanza non è la natura, ma l’uomo... dov’è? È nella terza e più grave di queste piaghe che veramente diffama la Sicilia, e in particolare Palermo, agli occhi del mondo. Lei ha già capito, è inutile che glielo dica. Mi vergogno a dirlo... È il traffico. Troppe macchine. È un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici, famiglia contro famiglia. Troppe macchine...

Il discorsetto dello Zio sulla Sicilia risentiva dell’eco di tanti altri discorsi che si sentivano fare, in privato e in pubblico, da parte di chi minimizzava, cambiava argomento. Il benaltrismo, diffuso anche a sinistra, di voler spiegare che sì, la mafia c’era, ma che c’era soprattutto una questione sociale, un’antica questione meridionale. Oppure l’argomento di chi sosteneva la teoria, tecnicamente corretta, moralmente un po’ meno, che la Sicilia non era solo mafia. Ma anche molte altre cose: sole, mare, fichidindia, Empedocle e Archimede. Certo, la questione del traffico sembrava irrisolvibile. A partire dal traffico internazionale di droga di cui la Sicilia era diventata, da oltre un ventennio, raffineria e centrale di smistamento tra l’Oriente e i mercati europei e nordamericani. Il traffico, appunto. Ma c’è anche un fatto preciso dietro la battuta del film. Lo racconta Antonio Calabrò nel suo libro I mille morti di Paler126­­­­

mo, cronaca degli anni più cupi. È il mese di maggio del 1985, Leoluca Orlando è appena diventato sindaco democristiano di Palermo. Orlando e Vito Riggio, giovane capogruppo della Dc, compiono un atto di galanteria politica. I due, per buona educazione, appena eletti, vanno a trovare Salvo Lima: è pur sempre l’uomo più potente di quel partito. Cortesi, gli chiedono: «Tu che hai esperienza, ci dici qual è il problema più importante che dovremo affrontare?». E Lima, sorridente: «Il traffico». La battuta è spiazzante, carica com’è di ironia, di strafottenza ma anche di voglia di tenersi fuori da quel tempo di rinnovamento palermitano. Fa comunque velocemente il giro della città. E arriva probabilmente anche alle orecchie degli sceneggiatori di Johnny Stecchino.

Nel film Johnny, guardando il suo sosia Dante, ripeteva: «Non mi somiglia per niente». Forse nemmeno la Sicilia di Benigni e Cerami somigliava alla Sicilia vera. Ma si rideva, e lo si faceva su un tema spinoso. La critica aveva storto il naso. «Un Benigni meno sgangherato del solito, ma non ancora vero padrone del crescendo narrativo di un film», scriveva Mereghetti. Le sale dei cinema erano piene. Sicilia e mafia però restavano sullo sfondo. E infatti Morando Morandini la definiva «una commedia degli equivoci di una buffoneria irresistibile e una storia d’amore tenera e candida che non cade mai nel sentimentalismo». La superstar della Valtur È un colonnino di poche righe, in fondo alla pagina degli spettacoli del quotidiano «La Stampa», uscito domenica 27 settembre 1992. «Nuovo programma. A Karaoke su Italia 1 cantano tutti». Ecco il testo dell’articolo, siglato o.r.: Domani alle 19,55 su Italia 1 va in onda la prima puntata di Karaoke, un bizzarro show condotto da Fiorello. Rosario Fiorello, conduttore scoperto da Claudio Cecchetto dopo una lunga «gavetta» quale animatore di villaggi turistici, comincerà dunque da sta127­­­­

sera a percorrere le piazze della provincia. Karaoke, parola giapponese che significa orchestra vuota, andrà in onda quotidianamente, dal lunedì al sabato, per 102 puntate ognuna di mezz’ora circa. Funziona così: bande registrate trasmettono musiche di canzoni celebri (4 o 5 per serata), intanto sfilano su grandi schermi le vedute della piazza, del presentatore, della gente, di quanti decidono di partecipare al gioco, e, sotto queste immagini, scorrono le parole delle varie canzoni. Le lettere sono in bianco, di colpo prendono a colorarsi in azzurro: quello è il momento in cui bisogna cominciare a cantare. Insomma, l’azzurro come il segno di un direttore d’orchestra. La regia è di Franco Bianca. Registrate ad Alba le prime 6 puntate, poi ad Alassio, Santa Margherita, Pietrasanta, la carovana canora proseguirà secondo un percorso verso Sud che progressivamente si allontana dal freddo. Quando risalirà però sarà ancora inverno, in tempo perché sui grandi schermi si delinei pure il fiato di chi canta, oltre al bianco e all’azzurro delle parole da cantare. Obiettivo, raggiungere il 10% di quota d’ascolto della platea televisiva. Per Rosario Fiorello è la grande occasione.

Che tenerezza rivedere gli esordi di un fenomeno. L’etimologia: «Karaoke, parola giapponese che significa orchestra vuota». Il funzionamento: «Le lettere sono in bianco, di colpo prendono a colorarsi in azzurro: quello è il momento in cui bisogna cominciare a cantare». Il cronista spiega che per Rosario Fiorello «è la grande occasione». Questo giovanotto nato a Catania nel 1960, ma proveniente da Augusta, dopo una lunga esperienza da animatore nei villaggi Valtur ha fatto soprattutto radio, conducendo alcune trasmissioni per Radio Deejay. Per la Rai, nell’estate precedente, ha presentato Il Cantagiro assieme a Mara Venier. Chi segue Radio Deejay conosce bene la sua versatilità, ma per la televisione è ancora uno sconosciuto. E rischia di continuare a esserlo, perché Karaoke mica parte bene. Anzi, parte malissimo con percentuali di audience bassissime. Già le puntate delle prime registrazioni ad Alba erano state un mezzo flop, con inquadrature strette per nascondere la piazza vuota, meno di un centinaio di persone di pubblico. 128­­­­

(Tra parentesi: tre giorni dopo l’inizio del programma, a Vicoforte, cinquanta chilometri da Alba, apre il primo karaoke del Cuneese, evento che il quotidiano della Fiat celebra nelle sue cronache provinciali con un’intera paginata.) Sulle pagine liguri dello stesso giornale, negli stessi giorni, accanto a una fotina di Fiorello con la didascalia «cantante-disc jockey» viene annunciato il tour del programma ad Alassio, Santa Margherita Ligure e Lerici per registrare nuove puntate. Fiorello è appena citato (ma c’è la foto), mentre il cronista ci spiega che il primo locale a introdurre il karaoke nel Ponente è stato lo Sporting Club di Finale Ligure: «Si tratta di un sofisticato sistema elettronico dotato di microfono e amplificatori che offre la possibilità di cantare su basi musicali preregistrate, seguendo le parole delle canzoni su monitor». Sofisticato, appunto. È un flop di ascolti. Ma succede qualcosa. Così la racconterà, molti anni dopo, Rosario Fiorello a Edmondo Berselli per «L’Espresso»: «Andavamo alle 20, contro i tiggì. Okay, si chiude, finiamo le puntate già programmate. Solo che a un tratto l’audience comincia a crescere. Prima insensibilmente. Ottocentomila, un milione; poi più forte, un milione e mezzo, due milioni, due milioni e sei. A Pescara, 20 mila persone, senza la sicurezza, senza organizzazione: distruggono la piazza. A Milano, 100 mila persone in piazza del Duomo. Centomila anche a Torino. Uno stress tremendo, perché ero ostaggio del successo, non potevo nemmeno andare al ristorante senza essere assalito da frotte di aspiranti cantanti; in un cinema mi dovettero portare via altrimenti nemmeno cominciava il film». Fiorello diventa un fenomeno nazional-popolare di genere light. Anzi superlight. Il suo codino di capelli fa tendenza. Ma viene considerata una tendenza un po’ tamarra. È la televisione, baby, e non possiamo farci niente. Appena un anno dopo l’esordio, Fiorello è classificato nella categoria evasione pura, tv no-mind, «facciamo casino». Lo stesso Fiorello, si saprà 129­­­­

dopo, non è contento di quel successo da gossip-magazine e finirà per subirne conseguenze nella vita privata. Ma dietro il codino, dietro il ruolo di imbonitore di piazza, l’idolo delle pischellette cela un talento. Se ne accorge Aldo Grasso sul «Corriere della Sera» dell’ottobre 1993, sia pure con qualche cautela dotta: Fiorello, il siciliano Rosario Fiorello, è un personaggio che sembra uscito, nel bene come nel male, da un romanzo o da un film di Pier Paolo Pasolini. Quando conduce Karaoke (Italia 1, dal lunedì al sabato, ore 20,05) evoca con gaia sconsideratezza alcuni spettri della polemica dello scrittore: l’omologazione delle culture, la televisione come «momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo, la caduta di ogni differenziazione»... Il karaoke – l’ideologia inconscia e reale del karaoke – è davvero, dal punto di vista del linguaggio, la «riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa», è l’impoverimento dell’espressività, il sopravvento del codice interclassista di Eros Ramazzotti o di Vasco Rossi. Ma Fiorello – «Mi chiamo Rosario Fiorello» ha precisato – è stato ospite venerdì sera del Maurizio Costanzo Show. Ed è risultato straordinario: divertente, mai banale, affabile. Anche in quel salotto, fra scrittori affermati e scrittrici stanche di slogan pubblicitari, Fiorello era, a suo modo, superbamente pasoliniano. Ha mostrato come la sua comicità sia istintuale e non sterilizzata, come le sue imitazioni siano di una forza animalesca (il dono di natura, non mortificato, sa persino cogliere l’essenza delle canzoni di Battiato), come il suo personaggio non sia interscambiabile con un altro. Fiorin Fiorello, l’amore è bello, non perderti dietro il ritornello.

Da allora c’è voluto tempo prima che la sua comicità «istintuale» venisse fuori. C’è voluta qualche disavventura di droga, poi un matrimonio azzeccato, l’aiuto di Maurizio Costanzo e l’incontro con un impresario dello spettacolo come Bibi Ballandi, assieme a una squadra di autori e manager ormai collaudata, perché Rosario Tindaro (la famiglia lo ha chiamato così perché devota alla madonna nera di Tindari) emergesse come showman del sabato sera televisivo, come il mattatore del Più grande spettacolo dopo il week end. 130­­­­

Nelle sue serate, in televisione o in teatro, Fiorello gioca spesso con la sicilianità e con la Sicilia. Gioca con le origini. Gioca a fare il supermacho siculo con la voce di Ignazio La Russa e il gallismo portato alle estreme conseguenze. Gioca con i luoghi comuni sulla Sicilia – gelosia, omertà, espressività –, facendo finta di smentirli per poi riproporli in maniera critica. Fiorello sta alla Sicilia dei comici come Dolce e Gabbana stanno alla Sicilia della moda. Il cliché rielaborato in prêt-à-porter. Anche quando si presenta in tv con coppola e marranzano, Fiorello non sta facendo la caricatura del siciliano. Sta facendo la caricatura della caricatura del siciliano. In questo senso, direbbe qualcuno, Fiorello è postmoderno. C’è nei suoi siciliani con i baffi il sentimento del contrario, di cui parlava Luigi Pirandello. È possibile entrare in scena con baffi, coppola nera e scacciapensieri perché quel siciliano lì è morto nella realtà, esiste solo nell’immaginario costruito dai film, dal cinema, dalle vignette. Il siciliano di Fiorello è figlio del figlio del figlio della coppia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Il suo umorismo è di costume. Forse per questo Fiorello resta alla larga dagli argomenti scottanti: per modestia o per prudenza, evita la satira sulla politica, sulla mafia, sull’antimafia. Non è nel suo copione, anche se il commento sui fatti del giorno si affaccia in Edicola Fiore, rassegna stampa via web, ora proposta anche su Sky e su Tv8, girata in un bar romano di via Flaminia. Quello di Fiorello sembra piuttosto un rapporto sentimentale con la Sicilia: relazione con la terra-madre, dove ancora vive la madre di Rosario Tindaro. Nel 2009 lo intervistai per la rivista «I Love Sicilia». Un colloquio sulla Sicilia, appunto, nel quale Fiorello parlava anche di mafia e di antimafia, del fatto di essere figlio di un sottufficiale della guardia di finanza e del tempo in cui un siciliano poteva sentirsi imbarazzato ad avere un padre «sbirro». «Ma oggi la coscienza popolare in Sicilia è decisamente 131­­­­

cambiata», diceva. La nostra conversazione telefonica – lui era in Sicilia per qualche giorno di vacanza – cominciò proprio con il racconto dei suoi ritorni nell’isola: «Appena esco dall’aeroporto di Catania, sento l’odore, vedo la luce della Sicilia. Poi, mi arriva la voce di uno: minchia, arrivau Fiorello! In quel momento mi sento a casa, mi sento protetto». Fiorello piace a tutti. Piace ai siciliani, ovviamente. La sua Sicilia è simpatica, tradizionale, popolare. Gustosa. Ed è moderna. Fiorello usa disinvolto i social, manda video, twitta. La sua vena civile, in realtà, emerge molto più su questi mezzi che nella tv pubblica. A fine ottobre del 2015 un suo cinguettio accende l’allarme nazionale sul caso di Messina da giorni senz’acqua per una frana che ha interrotto la condotta: «#MessinaSenzaAcqua Intervenga subito il Governo». In poche ore ventitremila messaggi si associano alla sua protesta. Fiorello insiste in diretta video su Periscope: «Ho saputo che manca l’acqua da quattro giorni e l’ho saputo tramite i social. Se fosse stata Roma sarebbe stata una notizia da prima pagina». Pochi giorni dopo, Pietrangelo Buttafuoco sul «Foglio» ne approfitta a suo modo: «Né Mattarella, né Grasso, né Alfano. La Sicilia invoca San Fiorello». Malgrado il presidente della Repubblica, il presidente del Senato e il ministro dell’Interno siano siciliani, dice Buttafuoco, la questione messinese diventa nazionale solo per l’intervento di Rosario: Tribolarono a vuoto i siciliani. La notizia delle tubature a secco arrivava in prima pagina solo quando, congedandosi dal paradiso delle alte vette istituzionali – dopo cinque giorni – la Sicilia, non avendo più Totò Cuffaro, si affidava al vero santo di Sicilia: Rosario Fiorello. E lui, magnifico showman amato da tutti – bravo a dare emozione, buonumore, poesia e malinconia – lesto a rispondere, risulta essere oggi il risolutore nel calendario del popolo. Tribolarono i siciliani e Fiorello, dunque, asceso alla santità riconosciuta dalla vox populi (vox Dei, va da sé), senza neanche smuovere i cieli a forza di elicotteri e aerei di Stato, prontamente accorso ha 132­­­­

vieppiù accresciuto il suo credito di amore dei siciliani, applaudito dai fedeli, nella felicità di angeli, arcangeli, troni e dominazioni.

La matassa Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché... Europa, Africa, Occidente, Oriente... è proprio la posizione che è comoda. Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... siamo nati... comodi! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché... questo mare, queste spiagge... questo sole... Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... a parte questo mare, a parte queste spiagge e a parte questo sole... nulla! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché da noi è nata la civiltà! Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché da noi è nato Emilio Fede! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché... almeno Castelli... è nato altrove. Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... almeno... altrove hanno qualcuno che li difende. Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché... arabi, francesi, spagnoli, borboni... abbiamo resistito a più di mille invasioni. Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... va bene le invasioni... ma dare 61 deputati su 61 a Forza Italia... non ci avrebbero sperato neanche i borboni! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché ci adattiamo a qualunque cosa... Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché ci accontentiamo di qualunque cosa! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché... aspetta... calma... ma che fretta c’è? Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... aspetta... calma... ma che fretta c’è? Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché guardo il nostro cielo e penso che ha ispirato mille poeti. 133­­­­

Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché guardo il rubinetto secco... e mi sovvien l’eterno! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché di qualsiasi cosa... ne cogliamo sempre l’aspetto comico. Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché non prendiamo niente sul serio.

Questo dialogo tra Salvatore Ficarra e Valentino Picone, presentato nel 2003 nello spettacolo Diciamoci la verità, può essere considerato lo sketch che racchiude molti degli elementi della comicità del duo palermitano. Satira, impegno, leggerezza, autoironia. La Sicilia di Ficarra e Picone è doppia, come forse è giusto per una coppia di attori che costruisce sugli opposti le proprie gag: Ficarra cinico, Picone sentimentale; Ficarra veloce, Picone lento; Ficarra furbo, Picone tonto; Ficarra spregiudicato, Picone cauto. Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... quando vedo per la mia città carovane di turisti, quasi sempre tedeschi, in pantaloncini corti a dicembre... e dico: ma questi ad agosto come verranno? Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché ancora oggi sento dire: lascia perdere, è sempre stato così... ma chi te lo fa fare? Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché siamo ottimisti! Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché rispetto all’Europa... anche a voler essere ottimisti... siamo venti anni indietro! Ficarra: Io sono fiero perché se Dio vuole... tra vent’anni li raggiungiamo! Picone: Io mi vergogno perché... nessuno si indigna più per una Palermo-Messina iniziata quarant’anni fa e mai finita. Ficarra: Io sono fiero... perché pur di lavorare onestamente ci facciamo ancora tremila chilometri! Picone: Io mi vergogno... perché ancora oggi sento dire: ai tempi della Democrazia cristiana mangiavano, ma facevano mangiare. Ficarra: Io sono fiero... perché da noi la famiglia ha ancora un senso, alle volte due. Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... se mi ca134­­­­

pita di essere chiamato mafioso a Milano, internamente mi scatta una sensazione di potere. Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché... Falcone, Borsellino, padre Puglisi... sono siciliani. Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... Falcone, Borsellino, padre Puglisi... erano siciliani! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché Libero Grassi... ne era fiero. Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché... internamente... penso che Libero Grassi se l’è cercata! Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché mi sento di appartenere a qualcosa di grande... Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché ci mancherà sempre qualche cosa per diventare grandi... Ficarra: Io sono fiero di essere siciliano... perché è la cosa più bella che mi ha lasciato mio padre... Picone: Io mi vergogno di essere siciliano... perché è l’unico modo per farmi sentire. Ficarra: Io sono fiero di averla lasciata questa Sicilia... così un giorno potrò dire ai miei figli: lo vedi che cosa ti ho risparmiato? Picone: Io invece non la voglio lasciare questa Sicilia, non la voglio lasciare... così... perché voglio vincere!

Il duo comico è un classico. Gianni e Pinotto (alias italiano di William Abbott e Lou Costello). Stan Laurel e Oliver Hardy. Totò e Peppino. Franco e Ciccio. Ficarra e Picone, appunto. Il duo nel 1993 però nasceva come un trio, con il nome di Chiamata Urbana Urgente e la presenza di Salvatore Borrello accanto a Salvatore Ficarra e Valentino Picone, sulle tv palermitane. Soltanto nel 1998 restano in due e, su suggerimento del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, la ditta prende il nome di Ficarra & Picone, con la & commerciale. Gli anni successivi sono segnati dalle prime apparizioni su Rai Tre, poi nel 2001 il primo film, Nati stanchi. In questo lungometraggio sulla storia di due eterni adolescenti palermitani in cerca, ma non più di tanto, del «posto fisso» (tema che nel 2016 sarà declinato da Checco Zalone in Quo Vado?), Ficarra & Picone inseriscono l’argomento della mafia. I mafiosi raccontati dai 135­­­­

due comici sono sempre surreali, goffi e un po’ ridicoli, come anche nel loro film del 2009 La matassa. La comicità di Ficarra & Picone – come dimostra il duetto Io sono siciliano – entra nella questione sociale, se vogliamo chiamarla così: i «nati stanchi» non usano la comicità per svicolare, ma ne fanno uno strumento di impegno, anche antimafia, declinato e portato in scena. La satira di costume di Fiorello con Ficarra & Picone si fa anche satira politica: ad esempio, è firmato da loro lo sketch sui due avvocati, Niccolò e Angelino, parodia di Ghedini e Alfano, impegnati a scrivere leggi fantasiose per salvare dai guai Silvio Berlusconi. D’altra parte, i due comici palermitani sono nati entrambi nel 1971 e avevano circa vent’anni nel 1992, l’anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio che a Palermo segnò la formazione di più di una generazione, facendo nascere nel giro di poche settimane una coscienza emotiva, se non civile, in moltissimi giovani. Nel 1992, tanto per fare un raffronto, Fiorello aveva trent’anni, era il re del karaoke, già da alcuni anni lavorava lontano dalla Sicilia e proveniva da una piccola città della costa orientale dell’isola: un’altra storia personale, del tutto diversa. Nel 2007, sul palco del Teatro Ariston, nei giorni del Festival di Sanremo condotto da Pippo Baudo, i due comici che fino a una decina di anni prima si esibivano al cine-teatro Crystal del quartiere Pallavicino di Palermo, presentano un duetto che stanno portando in giro per l’Italia già da tre anni nel loro spettacolo Ma chi ce lo doveva dire. Iniziano parlando di zio Pino, di don Pino, di un padrino, parola che in siciliano suona parrino. Lo descrivono come un uomo di rispetto, un uomo abituato ad amare troppo, un «professionista dell’amore». A tre quarti del dialogo, viene pronunciato per intero il nome di zio Pino: padre Pino Puglisi. E la scena comica si tinge di tragico con la descrizione della traiettoria del proiettile che ha ucciso don Pino, zio Pino, parrino Pino (parrino in siciliano significa anche prete), il sacerdote assassinato da 136­­­­

Cosa Nostra nel quartiere palermitano di Brancaccio il 15 settembre 1993. Dietro lo sketch c’è un lungo lavoro di ricerca. «Ficarra e Picone si erano documentati, contattando chi ha conosciuto don Pino, tra cui chi scrive», spiega il giornalista Francesco Deliziosi, amico e biografo di Pino Puglisi, nel sito dedicato alla beatificazione del prete palermitano. E i due comici non mancano di riproporre il duetto dal tono amaro in occasione di manifestazioni organizzate da associazioni antimafia alle quali non si sottraggono. Non c’è dubbio che il passo di Ficarra & Picone, su questi temi difficili, esposti al rischio della retorica o della banalizzazione, ancor più se offerti su una scena comica, ha aperto un varco di leggerezza nelle tematiche antimafia dentro cui si è agevolmente infilato, nel 2013, Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif. Sulla ribalta quotidiana con la loro conduzione di Striscia la notizia, Ficarra & Picone mostrano di saper coniugare coe­ renza sociale (il tg satirico di Canale 5 inventato da Antonio Ricci imbastisce molte campagne di denuncia), alla levità del genere, elementi che formano anche la tessitura dei loro film. Una poetica del comico ben consapevole. Basta vedere la domanda che Mario Di Caro rivolge per «Repubblica-Palermo» ai due comici nel novembre 2014, alla vigilia dell’uscita del loro film Andiamo a quel paese. E la loro risposta. È giusto – chiede Di Caro – dire che la vostra comicità ha contribuito a cambiare l’immagine della Sicilia legata al lutto, alle sue tragedie, al sangue della mafia? «Se abbiamo contribuito – rispondono i due – è nell’ordine dell’uno per mille perché ci sono persone ben più importanti in questo percorso, come Falcone e Borsellino che hanno lasciato il segno di una Sicilia retta: prima di loro era una terra grigia, del dire e non dire. Ognuno racconta l’epoca che vive e costruisce l’immagine di un momento: Sciascia ha disegnato una Sicilia meravigliosa e dolente ma era la Sicilia dei suoi anni, Germi ha filmato una certa Sicilia con sarcasmo ma era l’isola che emergeva in quel momento storico. Noi raccontiamo una Si137­­­­

cilia che cerca un riscatto rispetto all’immagine che le è stata appiccicata. Abbiamo parlato di padre Puglisi, di Falcone e Borsellino ma anche delle triple indennità e dei falsi invalidi». I terroni Giuseppe Baglio e sua moglie Calcedonia lasciano Palermo nel 1961. Emigrano a Milano, per ragioni di lavoro, come quell’altro milione di siciliani che tra il 1951 e il 1971 abbandona l’isola per andare altrove. Giuseppe e Calcedonia chiudono la loro casa di Villa Tasca, zona in cui finisce la città e comincia la campagna arrampicata verso Monreale, portandosi dietro il figlio, un bambino di tre anni: Cataldo. Cataldo, detto Aldo, cresce a Milano. Del Nord prende i modi e l’accento, anche se torna ogni estate a trovare gli zii a Borgo Nuovo. Aldo si diploma alla scuola di mimodramma del Teatro Arsenale, comincia a fare la sua gavetta in coppia con Giovanni Storti. Quindi l’incontro artistico con Giacomo Poretti – esperienze anche per loro nei villaggi turistici – e nel 1990 la nascita del trio che dapprima si chiamerà Gallina vecchia fa buon brothers e poi, più semplicemente, Aldo, Giovanni e Giacomo. Con questo nome, i tre si presentano in televisione nell’estate del 1992 accanto a Gaspare e Zuzzurro e in un programma di Paolo Rossi, l’anno successivo in Cielito lindo di Claudio Bisio, per approdare alla grande visibilità con la partecipazione per tre stagioni consecutive a Mai dire gol della Gialappa’s Band, che satireggia sul mondo del calcio televisivo e non solo. Nel trio, Aldo ha il ruolo del siciliano, del terùn, sempre osteggiato dai due polentoni Giovanni e Giacomo. Ma l’accento sovraccaricato di Aldo non è naturale. È un artifizio artistico. Costato anche fatica. «Non è stato facile – raccontava Aldo Baglio nel 2010 a «Repubblica» –, in casa a Milano non si parlava tanto in dialetto, dunque è tutto merito delle vacanze estive in Sicilia. Anche perché dai miei cugi138­­­­

ni a Borgo Nuovo mi sentivo un estraneo col mio milanese. Ma Giovanni e Giacomo non hanno sentito ragioni. Sei un terrone? E parla palermitano! Così ho imparato. A schiaffi, aprendo e trascinando le vocali». «Miii... non ci posso credere!», con accento strascicato, è il tormentone di Aldo che interpreta il personaggio più estroverso, sempre pronto a urlare e ad arrabbiarsi. Aldo è il punto di calore del trio, rispetto agli altri due estremi più freddi del gruppo. Caratteristiche che rappresentano delle maschere, ma anche la parodia di presunti caratteri territoriali: il meridionale impulsivo e i settentrionali ragionatori. Il gioco comico spesso trova argomenti proprio nello «scontro di civiltà» tra il siciliano emigrato al Nord e i milanesi pieni di pregiudizi. In Tre uomini e una gamba infatti il trio riformula, sotto forma di sogno di Aldo, uno degli sketch teatrali più esilaranti del loro repertorio. Aldo nel ruolo del conte Dracula, ritrovandosi nella casa di due transilvani leghisti, si spaccia per il ragioniere Brambilla Fumagalli per non fare scoprire le sue origini. Ecco il testo, che naturalmente non può restituire la forza della gag: tu?

Giacomo: Senti un po’, Brambilla Fumagalli, da che parti vieni

Aldo: Beh... d’un canton di qua... dei parage. Giacomo e Giovanni (insieme): Parage??! Aldo: Com si dis? Parage. Giovanni: Un po’ francese, forse. Giacomo: Un po’ più giù della Francia. Aldo: Santa pulenta, che botta ca g’ho pres! O mia bela Madunina, che botta ca g’ho pres! Giovanni: Questo qua mi convince proprio poco poco poco... Giacomo: Anche a me... anche a me. Giovanni (sottovoce a Giacomo): Facciamoci l’inganno della cadrega. Giacomo (a Giovanni): Bravo Gino! 139­­­­

Giovanni (sempre sottovoce a Giacomo): Vai a prendere la cadrega che intanto io... Giacomo (a Giovanni): Sei scaltro come una faina. Giovanni (rivolto ad Aldo): Ehi... dottore... lì... Brambilla, venga si accomodi pure. Si serva, prenda pure una cadrega... una cadrega non si rifiuta a nessuno... Giacomo (ancora ad Aldo): Signor Fumagalli, prego... Giovanni: Si accomodi. Una bella cadreghina, eh... prego, prego... Giacomo: Fumagalli eeeh? Aldo: Sì. La cadrec... cadrec... eh eh... Aldo agguanta una mela dal tavolo e la morde. Aldo: Mmmhhh... buona questa cadrec! Giovanni: Ah, la mela sarebbe la cadrega? La cadrega è la sedia. Giacomo: Caro il mio bel ragioniere! Mentre Giovanni e Giacomo sfoderano dei coltellacci. Aldo: Stav propr dicend che... è buona... stagionatura... questa cadrec di fajg... di fajg... Quand un torna a cà vores... voré... voria... met sempr un bel cul su un bel cadrec.

L’accento siciliano come elemento comico è una delle cifre del cabaret cresciuto al Derby e a Zelig, le due cattedrali storiche dello spettacolo brillante di marca milanese. Milano è infatti una delle mete della grande emigrazione dal Sud, vecchia e nuova: quella massiccia degli anni Cinquanta e Sessanta, che spostava braccia sulla Freccia del Sud, e quella leggera di oggi, che trasferisce lauree e cervelli con i voli low cost. Nasce al Derby il «terrunciello» di Diego Abatantuono degli anni Ottanta, col suo sgangherato slang meridional-milanese. È un tipo riconoscibile e identificabile, ben radicato nell’hinterland della metropoli: il tamarro che tenta disperatamente di integrarsi con una koinè che non è più il dialetto di famiglia, ma non è ancora la lingua corrente dei nuovi milanesi. Abatantuono ha radici paterne pugliesi, è nato nel 1955 a Milano, cresciuto dalle parti di Lorenteggio, periferia sudoccidentale della città. Conosceva bene quel mondo che si portava dietro scorie di accenti e di modi di dire delle terre di provenienza. Il suo personaggio faceva leva proprio sul 140­­­­

melting pot lessicale a quei tempi ancora non realizzato che faceva coesistere Sud e Nord, con risultati surreali. Eccezzziunale... veramente è un film di Carlo Vanzina del 1982 che gioca su questo elemento, coniugandolo con il tifo calcistico per le squadre del Nord – Milan, Inter e Juventus – simboli delle città del triangolo industriale, meta della grande ondata migratoria. Ben diverso è l’uso dell’accento palermitano che esibisce Teresa Mannino agli inizi degli anni Duemila: per nulla contaminato, anzi sicilianissimo. Come è appunto sicilianissima Teresa Mannino, nata a Palermo nel 1970, figlia di un medico, laureata in filosofia nella sua città, comincia l’attività teatrale quasi per caso dopo il suo trasferimento a Milano. Scoperta dai talent scout di Zelig, dopo il rodaggio nel laboratorio al femminile Oggi le comiche, si esibisce allo Zelig Off di viale Monza e nella primavera del 2005 debutta sul palco di Zelig Circus, in onda su Canale 5. Esordisce con il personaggio di Cetti, palermitana, suo malgrado a Milano per amore, sempre in bilico tra l’indolenza siciliana e la frenesia milanese. Lo choc di una palermitana a Milano? Alla domanda del «Corriere della Sera», Teresa Mannino l’8 marzo 2005 rispondeva così: «Esatto. Così è nata Cetti: la signora con il marito milanese che non c’è mai perché lavora tanto, la chiacchierona che non trova mai nessuno con cui parlare e che decide di dedicarsi alla politica, anche se poi non ci capisce granché». «Meridionale strafatta di pragmatismo lombardo», come la definirà Riccardo Bocca sull’«Espresso» dell’8 settembre 2012, Teresa Mannino incarna la nuova emigrazione intellettuale, restia nel rinunciare ai propri tic lessicali, ma ben decisa a inserirsi nella grande città d’approdo, sia pure con la pretesa di coniugare le abitudini del Sud ai ritmi del Nord. La signora Cetti vuole diventare una sciura milanese, senza rinunciare a sé: «Qui nessuno ti rivolge la parola e io invece ho bisogno di parlare almeno nove ore al giorno». Teresa Mannino non è «terrunciella»: le sue stesse origini borghesi e il suo corso di studi la collocano nell’area dei gio141­­­­

vani laureati che si trasferiscono al Nord – non emigrati, ma traslocati –, mettendo in confronto perenne, e ironico, stili di vita e consuetudini. In un’Italia rimescolata dalle grandi epopee migratorie degli anni del boom economico, il discorso di Teresa Mannino è comprensibile a molti: tutti vengono da qualche altra parte o ci andranno, tutti continuano a spostarsi, più velocemente di prima e in modo più frammentato, lungo l’asse Sud-Nord. Si va al Nord per studiare, per lavorare, per uno stage, per seguire un amore, ma si torna spesso al Sud per il weekend, per un ponte festivo, per le vacanze o per nostalgia. Il confronto tra qui e lì è sempre sotto gli occhi, si rinnova di continuo, così come si rinnova la domanda: restare o ripartire? L’accento palermitano e borghese di Teresa Mannino è l’identità da proteggere, il nocciolo duro da custodire per poter avere uno sguardo «altro» sul luogo di residenza. L’accento è il tempo del ricordo di un’infanzia forse più libera e più innocente, rispetto alle ansie genitoriali di oggi. «Quando ero piccola – racconta Teresa Mannino nel 2016 portando in giro il suo spettacolo Sono nata il ventitré –, mi ricordo che era nell’ordine naturale delle cose che a un certo punto tua mamma ti tirasse dietro uno zoccolo. Quello che all’epoca si chiamava ‘un cornutello’ adesso è un ‘soggetto iperattivo’. Al bambino cade la merenda? Senti una che grida come un’isterica: ‘Buttala via subito, subito!’. Ai miei tempi mi dicevano: ‘Va beh, raccoglila, soffia e mangia che ti fai gli anticorpi’». E poi l’ironia sugli uomini e l’autoironia sulle donne, altri cavalli di battaglia di Teresa Mannino. L’accento siciliano – e la sicilianità che ne consegue del personaggio – non impone più un discorso esclusivamente autoreferenziale sulle origini e sull’identità. Ma suona invece come una diversa tonalità, con effetto comico, per narrare le nevrosi del presente, i vizi generazionali, i meccanismi di coppia, le dinamiche sociali che si svelano molto più simili, nel profondo, delle apparenti differenze territoriali. In questa prospettiva, appaiono lontanissimi Franco e Ciccio, che 142­­­­

negli anni Sessanta «facevano» i siciliani, oltre che esserlo autenticamente. Siamo tutti siciliani scriveva nel 1993 Pietro Folena, segretario dal 1989 al 1991 del Pci-Pds della Sicilia appena uscita dalla stagione delle stragi mafiose: «Qui nasce una nuova coscienza italiana». Può sembrare irriverente accostare un ragionamento politico fatto in un momento drammatico alla carriera di una brava cabarettista, ma proprio nel successo di Teresa Mannino possiamo rintracciare i segni di quanto diceva Folena: siamo tutti siciliani. E il tentativo di sbarco politico della Lega Nord al Sud e in Sicilia – ora che i nuovi spauracchi sono altri, gli stranieri che vengono da oltre il mare – sembra la conferma che tutti possiamo essere siciliani.

Approdi

La verde isola Trinacria, ove pasce il gregge del sole. Omero

Mentre Gianfranco Rosi saliva sul palco del Berlinale Palast, nel cuore di Potsdamer Platz, per ritirare l’Orso d’oro della sessantaseiesima edizione del festival del cinema di Berlino, 1.893 chilometri più a sud, 242 migranti provenienti da Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal, Camerun e Ghana mettevano piede sulla banchina del porto di Lampedusa. «Penso – diceva Rosi, stringendo la statuetta – a tutti quelli che hanno attraversato il mare per arrivare a Lampedusa e a quelli che non ce l’hanno fatta». Era la sera del 20 febbraio 2015: il regista italiano, con il suo film Fuocoammare – candidato del nostro Paese per entrare nella cinquina dei concorrenti all’Oscar per il miglior film straniero –, portava nel cuore dell’Europa intellettuale le immagini del dramma che da anni si svolge nelle acque e sull’isola al 35° parallelo, l’avamposto più meridionale del continente europeo. Ma probabilmente nessuno dei 242 migranti, al momento di sbarcare a Lampedusa, sapeva di appartenere ormai alla storia del miglior cinema italiano e internazionale, in un luogo d’approdo proclamato simbolo di accoglienza.

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La Croce e la Mezzaluna Strano destino quello di Lampedusa: ignorata per lunghi secoli – il primo a parlarne nel V secolo avanti Cristo fu il geografo greco Scilace di Carianda, con il nome di Lampàs –, ma comunque ponte tra l’Africa, la Sicilia e quindi l’Europa, porto salvo per naviganti e marinai mediterranei di ogni razza e religione, fin nelle sue leggende contiene la naturale vocazione all’accoglienza. A partire da quella dell’eremita che viveva in una grotta trasformata in santuario e che esercitava il doppio culto della Croce e della Mezzaluna, mostrandosi cristiano o musulmano a seconda di chi sbarcava. Mito popolare messo in dubbio dagli storici, ma sicuramente sintomatico di grande tolleranza o di grande furbizia. Comunque, sul santuario dell’isola esiste una storia – ricostruita nel libro Lampedusa di Giovanni Fragapane – troppo affascinante per non raccontarla. Si svolge in due tempi. Primo tempo. Agli inizi del Seicento, il corsaro spagnolo Alonso de Contreras racconta in una sua cronaca di avere visto a «Lampadosa» una grotta dove si trovava una tela dipinta di Madonna con Bambino: nella caverna-santuario i naviganti cristiani lasciavano viveri, vino e denaro. La stessa cosa facevano anche i musulmani, in un’altra parte della grotta dove si diceva fosse sepolto un sant’uomo musulmano. «È accertato – annotava Contreras – che tanto i Cristiani che i Turchi, depongono questi viveri affinché quando passa qualche nave, se uno schiavo riesce a fuggire, egli abbia qualcosa da mangiare fino a quando sopraggiunga una nave della propria nazione e lo prenda a bordo a secondo ch’egli sia cristiano o turco». Secondo tempo. Dopo qualche anno dal passaggio sull’isola di Contreras, la tela dipinta della Madonna con Bambino scompare dal santuario di Lampedusa. Ma nel giro di poco riappare misteriosamente a Castellaro, in Liguria. Come è arrivata fin là? Un altro corsaro, Andrea Anfossi di Castellaro, detto il Gagliardo, fatto schiavo dai pirati berberi e imbar145­­­­

cato su una nave, approfittando di una sosta a Lampedusa, sfugge al controllo dei suoi carcerieri e riesce a nascondersi dentro la caverna-santuario. Abbandonato sull’isola, Anfossi costruisce una zattera sulla quale monta come vela la tela della Madonna con Bambino. Con questa imbarcazione di fortuna riesce a risalire fino al Tirreno, approdando infine ad Arma di Taggia. La tela dipinta usata come vela, simbolo di salvezza, viene portata da Anfossi in una chiesa di Castellaro dove ancora oggi si venera la Nostra Signora di Lampedusa. Ce n’è abbastanza per tirarne fuori più di un significato legato all’attualità: l’accoglienza, il porto della salvezza, la multiculturalità, la tolleranza religiosa, la libertà. È evidente che Lampedusa irrompe nella storia coniugando il suo nome al mare, ma soprattutto alle battaglie e alle conseguenti tragedie del mare: romani contro cartaginesi, turchi contro cristiani, e così via, guerra dopo guerra. Dopo secoli di «solitudine», destinata al ruolo di bagno penale, finisce sulle prime pagine dei giornali il 15 aprile 1986 quando il leader libico Muammar Gheddafi lancia due missili SS-1 Scud contro la base americana insediata sull’isola, per ritorsione contro il bombardamento statunitense sulla Libia scattato poche ore prima. Per fortuna, i missili finiscono in mare, a due chilometri dalle coste lampedusane. Paradossalmente, l’esplosione dei due missili di fabbricazione sovietica in un tratto di mare poco distante da quei venti chilometri quadrati di territorio patrio vicinissimi all’Africa ne fece scoprire l’esistenza agli italiani. «Quest’estate vado a Lampedusa», scriveva il 29 maggio 1986 il giornalista Luca Goldoni sulla prima pagina del «Corriere della Sera». «Non è una decisione eroica. Oggi si convive con il rischio (terrorismo, dirottamenti, inquinamento alimentare, nubi radioattive) e il rischio che si corre a Lampedusa non è superiore alla media... Una Lampedusa tutta esaurita di pacifici villeggianti: mi sembra il minimo di solidarietà verso quei nostri connazionali così lontani e così soli». Goldoni fu preso in parola: l’estate successiva arrivarono sull’isola i fricchettoni, i mila146­­­­

nesi un po’ snob, gli appassionati delle vacanze intelligenti, i socialmente impegnati. Da lì a pochi anni sarebbero arrivati anche i primi barconi. Nell’immensa memoria dell’archivio dell’agenzia Ansa, la notizia più vecchia di migranti passati per Lampedusa risale al 15 settembre 1992. Arriva da Agrigento, asciutta come una breve notizia di cronaca: «Dieci extracomunitari senza documenti sono stati fermati dalla guardia di finanza a Porto Empedocle, appena sbarcati dalla motonave ‘Paolo Veronese’, proveniente dall’isola di Lampedusa. I dieci di varie nazionalità e di età fra i 18 e 26 anni sono stati accompagnati negli uffici della polizia marittima per il rimpatrio. Secondo il comando Gruppo della guardia di finanza di Agrigento sarebbero stati fatti sbarcare almeno in parte da motopescherecci nell’isola di Lampedusa per eludere i controlli». Ancora il 1992, dunque, l’anno che abbiamo preso come soglia discriminante nel racconto della Sicilia e sulla Sicilia. Eppure già da molto prima la Sicilia era diventata terra d’approdo di un flusso meno drammatico ed epocale, ma sicuramente stabile e continuo nel tempo. Attorno al 1992, però, stava cambiando tutto. E la Sicilia da terra d’emigrazione si preparava a diventare terra d’immigrazione. Arrivati dall’Ifrìqiya A Mazara del Vallo la comunità tunisina che abita la vecchia casbah araba è radicata da più di quarant’anni, in gran parte imbarcata sulla flotta peschereccia della città. Nella provincia di Trapani il cuscus di pesce è uno dei piatti tradizionali: a San Vito Lo Capo si svolge ogni anno il festival che lo celebra, mettendo a confronto cuochi di tutto il Mediterraneo. Tra gli ottomila tamil che da un quarto di secolo vivono a Palermo, gli induisti pregano Santa Rosalia, che hanno incorporato nel loro pantheon accanto alla dea Kali. Segnali di come la Sicilia sia stata da sempre luogo d’approdo. Ma tutto questo avveniva senza grandi clamori. An147­­­­

che i numeri erano apparentemente ridotti rispetto agli oltre 153.000 migranti sbarcati sulle coste italiane nel 2014 e i 139.000 approdati nel 2015 (ottantamila dei quali a Trapani, Porto Empedocle, Catania, Messina, Palermo, Lampedusa e Augusta, spesso arrivati in porto sulle motovedette che li avevano intercettati al largo – secondo i dati dell’Osservatorio sull’immigrazione di «Repubblica»). Un flusso lento e costante però investiva la Sicilia da anni. Peraltro, prima della legge Martelli del 1990 non esisteva una legislazione di riferimento sullo status di profugo, rifugiato o immigrato. Difficile avere dati attendibili prima di allora. Forse era un numero buttato un po’ a caso quello che lanciò l’allora ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin il 9 settembre 1989 davanti alla Commissione immigrazione: «Sulle coste della Sicilia sbarcano ogni anno circa 150.000 nordafricani clandestini». Centocinquantamila, cioè quanti ne continuano ad arrivare ogni anno. Forse un po’ esagerato, visto che non sappiamo da dove venisse ricavato quel numero. Di certo, i nordafricani «clandestini» non arrivavano con i barconi, ma con i pescherecci da Malta o con la nave traghetto che collegava, e ancora oggi collega, Trapani e la Tunisia. Il 27 dicembre 1988, ad esempio, l’Ansa batteva questa notizia: «Quaranta filippini sono stati bloccati da militari della guardia di finanza su un motopeschereccio mentre tentavano di sbarcare clandestinamente a Portopalo, località della costa siracusana. I filippini erano stipati nella cella frigorifera del motopeschereccio ‘Valentina’ che, proveniente da Malta, stava dirigendosi di notte verso la costa siciliana. L’imbarcazione è stata intercettata da motovedette della guardia di finanza al largo di Capo Passero. I clandestini sono stati scoperti durante l’ispezione dei militari. A Portopalo sono state intanto fermate alcune persone, presunti organizzatori del trasporto». In manette finirono il comandante e due uomini di equipaggio del peschereccio, tutti di Portopalo, tre filippini e tre catanesi. Ma gli stranieri c’erano. E molti. I tunisini facevano i pescatori, i marocchini commerciavano, gli egiziani lavoravano 148­­­­

nei ristoranti. Al primo gennaio 2014, secondo i dati Istat, in Sicilia erano presenti 162.000 stranieri, concentrati soprattutto a Palermo, Catania e Messina: una percentuale del 3,2 per cento sull’intera popolazione regionale, rispetto alla media nazionale dell’8 per cento. Tanti? Pochi? Non molti di più degli stranieri presenti in Sicilia nel 1991 che, in base alle stime dell’istituto Ispes, erano 133.000 – un numero maggiore di quanto sosteneva il ministero dell’Interno –, in gran parte nordafricani. Se i numeri, come sempre, finiscono per essere opinioni, magari hanno più peso le sensazioni. Nel 1991 l’editore palermitano Flaccovio ripubblicava un testo dello storico Francesco Giunta e dell’arabista Umberto Rizzitano, uscito per la prima volta nel 1967: Terra senza crociati raccontava il Medioevo siciliano, la conquista musulmana, l’epoca normannosveva e la nascita in Sicilia di uno Stato «frutto del concorso attivo di arabi, bizantini, ebrei, latini e gente del nord». Per i due studiosi, questo fu possibile perché il regno meridionale «rimase estraneo al movimento delle Crociate, avendo trovato una pacifica soluzione al problema dei rapporti fra gruppi etnico religiosi differenti». Al momento della nuova edizione del libro, l’editore ne spiegava la ritrovata attualità con queste parole: Maria Nadedge viene dalle Isole Mauritius, Divina dalle Filippine, Rangla dall’India, Femy dalla Nigeria. Tutto il mondo maghrebino ha preso itinerari europei, a cominciare dal vicino meridione d’Italia. Ma è soprattutto in Sicilia che questo sparso e vario esercito di emigranti ha trovato senza traumi ospitalità, lavoro e a volte famiglia. Né mai nell’isola sono insorti segni di intolleranza razziale come è accaduto e accade in altre parti d’Italia e d’Europa. Le ragioni sociali di questa generosa disponibilità vanno ricercate in quel Medioevo siciliano, per alcuni secoli esempio d’incontro e di collaborazione tra le più diverse etnie.

Non so se siano queste le ragioni storiche, né posso sapere fino a quando resisterà in Sicilia una possibile nuova 149­­­­

convivenza, perché magari i fatti già smentiscono o presto smentiranno il clima sociale di una terra senza crociate. Se non ci sono episodi clamorosi di razzismo conclamato, difficoltà di reale integrazione purtroppo ce ne sono abbastanza. Certo prevale, in libri e film sull’immigrazione, l’immagine dei siciliani brava gente. Ma non è sempre così. I fantasmi in fondo al mare Nei primi giorni del mese di gennaio del 1997 alcuni pescatori di Portopalo di Capo Passero, punta estrema sud-orientale della Sicilia, tirando su le reti di paranza piene di saraghi, sarde, polipi e gamberi, si accorsero di avere pescato un cadavere. Per non avere noie burocratiche decisero di ributtarlo in mare. La storia andò avanti per settimane. Prima i cadaveri, poi cadaveri a pezzi, infine, col passare del tempo, qualche osso umano sempre più bianco e slavato. «La sera, nei bar del paese, i pescatori si raccontavano storie dell’orrore». La notizia restò chiusa nelle chiacchiere di Portopalo. Il Canale di Sicilia è mare di naufragi, di tempeste formidabili, di sventure nautiche, i pescatori queste cose le sanno. Nessuno volle mettere in relazione il ritrovamento di quei corpi con la notizia vaga del naufragio di un’imbarcazione al largo di Portopalo nella notte di Natale del 1996. In realtà, poco si sapeva di quell’incidente: le testimonianze di alcuni sopravvissuti sbarcati in Grecia che parlavano di almeno trecento morti si scontravano con l’incredulità delle autorità italiane. Una tragedia di tali dimensioni non avrebbe potuto essere nascosta. Per questo, si parlò a lungo di un «naufragio fantasma». Nel 2001 un bravo giornalista di «Repubblica», Giovanni Maria Bellu, chiamato Giò da tutti i colleghi, comincia a indagare sulla storia. Si muove sulla base di una segnalazione: un uomo di Roma che trascorre le sue estati a Portopalo gli mostra il documento d’identità di Anpalagan Ganeshu, nato il 2 aprile 1979 a Chaukachceri, città del Nord dello Sri 150­­­­

Lanka, nella penisola del Jaffna, certamente di etnia tamil. La tessera plastificata è stata ripescata dal fondo del mare da Salvatore Lupo, un pescatore di Portopalo che ha deciso di darla al suo amico romano per sollecitare, attraverso le sue conoscenze, l’interesse di qualche giornalista. Giò Bellu fa le sue verifiche. È molto verosimile che Anpalagan Ganeshu fosse a bordo della nave affondata nella notte di Natale del 1996. Va a Portopalo a parlare con Salvatore Lupo e gli altri pescatori. Sulla punta della Sicilia, di fronte all’isolotto delle Correnti che divide il Canale di Sicilia dal mar Ionio, Lupo racconta al giornalista quello che in paese tutti sanno e che hanno tenuto sotto silenzio per evitare complicazioni che avrebbero rischiato di fermare le attività: «Quando sono comparsi tutti quei cadaveri, non c’è stato bisogno di accordarsi. Tutti sapevamo che se avessimo denunciato il ritrovamento, l’intera marineria di Portopalo sarebbe stata costretta a fermarsi. Non potevamo permettercelo». Lupo ha deciso di sgravarsi di un peso dalla coscienza. Anche lui ha ripescato un corpo, l’ha ributtato a mare come hanno fatto altri. Si è tenuto il piccolo segreto, condiviso solo con altra gente di mare. Il paese ha custodito perfino l’orrore di uno scherzo fatto da quattro buontemponi il 16 febbraio 1997 quando lasciarono davanti a una macelleria un teschio d’uomo, ripescato in mare. Una beffa di pessimo gusto che terrorizzò il macellaio al punto tale che decise di chiudere la sua attività. Dentro quel cranio, prelevato dai carabinieri e affidato sbrigativamente a un medico legale, senza alcun supplemento d’indagine, furono ritrovati due vongole e una conchiglia. Com’era possibile questa disumanità tra gente di mare, avvezza a conoscerne i pericoli e le insidie? Giò Bellu parla con alcuni paesani, dal vigile urbano allo storico locale. «Fu un atto incivile», gli dice uno. «Tutti sapevano e c’è stato sicuramente chi ha saputo e ha lasciato fare». I portopalesi non sono razzisti, spiega un altro, ma «se quei corpi non avessero avuto la pelle scura, il comportamento sarebbe stato 151­­­­

diverso. La pelle bianca avrebbe richiamato immediatamente l’esistenza di parenti in attesa e questo avrebbe risvegliato la pietà, o almeno avrebbe fatto immaginare che fossero in atto ricerche serie. Molti avrebbero temuto di essere scoperti o denunciati». L’articolo di Bellu viene pubblicato sulla prima pagina del suo giornale. E scuote le coscienze. A Portopalo molti guardano con sospetto il pescatore Salvatore Lupo, immaginando che sia lui la spia. Ma affiorano nuove informazioni, che disegnano uno scenario drammatico: il lungo viaggio dei migranti dallo Sri Lanka, la catena dei negrieri, il sistema di sfruttamento. Bellu ricostruisce, tassello dopo tassello, le esistenze di chi è rimasto sommerso, di chi si è salvato. Documenterà questo paziente ed esemplare lavoro d’inchiesta nel libro I fantasmi di Portopalo. Bellu racconta come, a un certo punto, il suo giornale decideva di finanziare una ricerca sul fondo del mare del relitto del battello maltese F174 affondato con i suoi circa trecento corpi. La sonda sottomarina, dopo vari tentativi andati a vuoto, riporta in superficie le immagini terribili di un disastro dimenticato. Il video del sarcofago adagiato sotto le acque con il suo carico di scheletri, pubblicato sul sito di «Repubblica» nel giugno del 2001, farà il giro di mezzo mondo. È la prova della strage dimenticata. A tutt’oggi è ancora laggiù (al punto Nord 35°25’28” – Est 14°54’34”), mai ripescato nonostante le ripetute promesse delle autorità italiane. Mare nostrum Non è semplice essere al centro di una migrazione epocale, lunga decenni e destinata a prolungarsi ancora per molto. La Sicilia si è trovata nella linea dei flussi per la sua posizione geografica. E ha dovuto imparare. Non c’erano precedenti utili, anche perché le antiche invasioni dell’isola, da nord o da sud, erano di segno diverso, missioni militari arabe o nor152­­­­

manne sul filo delle spade, colonizzazioni figlie di accordi politici europei. L’isola Sicilia si è riscoperta isola. E una delle sue isole minori, Lampedusa, è diventata il punto nevralgico. L’attenzione dell’Europa è tornata a concentrarsi sulla sua isola più meridionale. Anche qui, a seconda dei sindaci e delle stagioni, si sono susseguite accettazione e insofferenza, rabbia e accoglienza. Perché le cose non sono mai tutte di un colore. La percezione dell’isola è cambiata in fretta. Nel 2002 il regista Emanuele Crialese, romano di origini siciliane, gira tra Linosa e Lampedusa il suo film Respiro, con Valeria Golino. È una storia drammatica e poetica, tutta dentro i confini dell’isola che si fa prigione, pur circondata da tanto mare, per la protagonista Grazia, che si dimena senza uscita nel ristretto mondo isolano, incapace di comprenderla, fino a escogitare la propria scomparsa. Solo in mare, con l’immagine potente di una nuotata nelle acque trasparenti, Grazia sembra ritrovare la sua libertà. Crialese aveva sentito raccontare la vicenda sull’isola dove si era fermato alcuni mesi: «La storia nasce da una leggenda, che io ho ascoltato a Lampedusa, che parlava di questa donna madre di famiglia che ad un certo punto, secondo la comunità, ha dato fuori di testa. Però nessuno sull’isola mi sapeva spiegare che cosa volesse dire ‘andare fuori di testa’, anche perché non sembrava che la donna facesse delle cose particolari, ma la gente premeva per farla mandare a Milano a curarsi. Un giorno la donna è sparita dall’isola e non se ne è più avuto notizia. La comunità si è sentita in colpa e ha pregato così tanto che un bel giorno questa donna è ricomparsa. Questo è lo spunto iniziale di Respiro, io poi gli ho dato una visione più laica, cercando di dare un luogo e una spiegazione alla sua scomparsa». Nel film di Crialese il mare è sostanza viva, materia ancestrale, elemento di rinascita e di speranza. Ma l’anno dopo tutto comincia a cambiare, repentinamente e drammatica153­­­­

mente. «Il 2003 rappresenta una sorta di anno zero per Lampedusa», scrive la giornalista Valentina Loiero in Sale nero, libro che racconta la sua esperienza di cronista sull’isola e le storie personali di alcuni migranti, probabilmente il primo testo in Italia che coglie lo stravolgimento epocale del Canale di Sicilia. «L’isola rappresenta il punto di approdo più frequente per i migranti che dall’Africa vogliano raggiungere l’Italia e da lì l’Europa. I numeri lo dimostrano chiaramente: gli 8.900 arrivi del 2003 diventano 12.000 nel 2004, 15.500 nel 2005, fino ai 18.500 del 2006. Ogni anno tremila persone in più». Cambia tutto. Cambia pure lo sguardo di Crialese, il regista legatissimo a Lampedusa. «Isola bellissima, diventata, dopo quello che è successo, paesaggio esistenziale, terra di approdo e di frontiera», spiega Crialese nel luglio 2011, quando si prepara a portare alla mostra del cinema di Venezia il suo nuovo film, Terraferma, girato di nuovo alle isole Pelagie. «Nel 2002 tra Linosa e Lampedusa girai Respiro – continua Crialese –, sette anni dopo, quando sono tornato pensando al nuovo film, l’ho trovata molto diversa: il porto affollato di motovedette con cannoni e mitragliette. Un’isola militarizzata». Lampedusa non si è mai mossa. È rimasta uguale a se stessa, ma il mondo attorno attribuisce un nuovo significato, una nuova immagine, a Lampedusa e di riflesso all’intera Sicilia. Non è più la terra dell’emigrazione – quella raccontata sempre da Crialese nel suo film del 2006 Nuovomondo, che narrava l’odissea degli italiani di primo Novecento verso le Americhe – ma il luogo del sogno e dell’approdo (proprio così si intitolava un’antologia di racconti pubblicata nel 2009 da Sellerio, Il sogno e l’approdo. Racconti di stranieri in Sicilia). Il film di Crialese segue il canovaccio dei Malavoglia di Verga, nel quale mare e destino, presente e futuro, tradizione e modernità vengono travolti dalla tempesta. Ma non è tempesta di cielo e mare, quanto irruzione nella vita degli isolani di un’umanità dolente e in fuga, sfida che attiene più alla 154­­­­

pietas che al fato. «La culla della civiltà, dello scambio di merci e culture, è diventata la culla dell’inciviltà, della chiusura all’altro», dice Crialese. «Migliaia di uomini, donne, bambini continuano ad annegare nel tentativo di raggiungerci. In alto mare, lontano dalle coste di Lampedusa, ci sono cimiteri veri. Solo i pescatori sanno dove si trovano, che se lì buttano le reti tirano su ossa umane. I pescatori, la gente semplice dell’isola, abbandonati dallo Stato, hanno acquistato nuova forza e dignità. Degli eroi che ci riportano al mito». Anche per questo, dopo l’elezione a sindaca di Giusi Nicolini, decisa a fare della propria isola un esempio di accoglienza, respingendo le proteste del passato contro le «invasioni» – e grazie alle nuove misure di sorveglianza delle coste che intercettano al largo i barconi in arrivo, smistandoli verso la terra ferma – Lampedusa più volte è stata esaminata come possibile destinataria del Nobel per la pace. Forse il prestigioso premio non le verrà mai assegnato, ma è importante sapere che questa piccola isola rappresenta un esempio internazionale di accoglienza rispetto a un mondo occidentale che alza muri e chiude frontiere. Lampedusa non può chiudere la sua costa né alzare muri, perché il mare non si può fermare. Sotto il mare Alle 8,35 di giovedì 3 ottobre 2013, l’agenzia Ansa dirama un flash preceduto da due crocette, il simbolo che nelle redazioni contrassegna una notizia di rilievo. «++ Immigrazione: barcone naufraga a Lampedusa, morti ++». Il testo è stringato: «Un barcone carico di migranti è naufragato a Lampedusa, nei pressi dell’Isola dei Conigli. Secondo le prime informazioni, vi sarebbero alcuni morti». Meno di venti minuti dopo, l’agenzia ripete la stessa formula delle due crocette con ulteriori dettagli: «++ Naufragio Lampedusa: centinaia di migranti in acqua ++ Secondo le testimonianze di alcuni soccorritori del barcone naufragato vicino Lampedusa vi sarebbero ancora in acqua centinaia di 155­­­­

migranti. L’allarme del naufragio è stato dato dall’equipaggio di due pescherecci che transitavano nella zona». È chiaro che l’agenzia Ansa si muove cauta, ma la ripetizione dell’urgenza delinea i termini di una tragedia molto più vasta di quanto le parole prudenti dei due primi flash lascerebbe pensare. Un’ora dopo, sulla banchina del porto di Lampedusa ci sono già dieci corpi senza vita e settantotto persone tratte in salvo. Chi torna dal luogo dei soccorsi racconta che la barca ha preso fuoco, che a bordo c’erano almeno cinquecento persone. Alle dieci e venti, il sindaco Giusi Nicolini restituisce significato alla sfilza di numeri dei sommersi e dei salvati: «Basta! Ma che cosa aspettiamo? Cosa aspettiamo oltre tutto questo? È un orrore continuo. Se è vero che erano 500 sul barcone e in salvo già sul molo ce ne sono soltanto 130, è davvero un orrore». Dieci minuti dopo, le crocette dell’Ansa diventano tre, segno di una notizia che ha la precedenza su tutte le altre: i cadaveri recuperati sono già cinquanta. Quel 3 ottobre resterà nella memoria collettiva come la più grande tragedia del mare in tempo di pace: 366 morti, ancora in fondo al Canale di Sicilia. Ecco perché a Lampedusa e su Lampedusa si sono confrontati in molti. Davide Camarrone ha scritto per Sellerio due libri: Questo è un uomo del 2009 e Lampaduza del 2014, reportage della grande migrazione vista dall’isola. Ma soprattutto fotografi e registi hanno cercato gli strumenti per raccontare l’odissea e – dentro l’odissea – questa piccola Itaca, pietrosa e assolata. Cos’è veramente Lampedusa? Il fotografo Calogero Cammalleri, nato in Sicilia e cresciuto in Germania, ci ha provato con un progetto fotografico intitolato Lipadusa, uno degli antichi nomi dell’isola, nel quale ha cercato di fissare in un drammatico bianco e nero l’identità dell’isola e dei suoi abitanti, fermi sullo scoglio nel Mediterraneo, ma al centro di un movimento vorticoso di vite e di destini. Ci ha provato, andando in fondo al mare, lì dove si è inabissato il barcone con 366 cadaveri, il fotoreporter Francesco Zizola, in passato vincitore del World Press Photo of the 156­­­­

Year e più volte segnalato come uno dei migliori fotografi al mondo. Zizola si è immerso nel mare di Lampedusa per riprendere e fotografare il relitto adagiato su un fianco, gli oggetti sparsi sul fondo sabbioso, gli interni corrosi dall’acqua, popolati dai pesci e dal silenzio della morte e degli abissi. La profondità del silenzio, si intitola il lavoro di Zizola. E basta cercare quel video su youtube per rimanere senza parole, commossi e storditi. In silenzio.

Strani nostrani

Gesù è nato in Sicilia. Antonio Russello

Prima di Postalmarket, prima di Vestro, prima ancora dell’ecommerce, i venditori ambulanti delle mie parti giravano mezza Sicilia, paese per paese, strada per strada, a vendere biancheria, corredi da sposa, vestiti per bambini. Quando in Sicilia le donne facevano ancora vita «ritirata», la gente delle mie parti si caricava in spalla un sacco e a piedi, in moto o in auto (a seconda di possibilità e fortune) raggiungeva la clientela a domicilio. Door-to-door, i commessi viaggiatori si addentravano nei quartieri più polverosi di città lontane: lanciato il loro richiamo, le donne allora uscivano dalle case in pantofole e con la vestaglietta a fiori, saggiavano la qualità, contrattavano sul prezzo e poi, spesso di nascosto dai mariti, tornavano a casa con il loro acquisto. Un mio amico commerciante, di una famiglia di commercianti, mi racconta che suo padre cominciò così negli anni Sessanta. Arrivava con l’auto carica di biancheria e vestiti, dal megafono montato sul tettuccio dell’auto gridava il suo annuncio: «Donne, avvicinatevi alla macchina stranìa, tutto per vostra signoria». Mi affascinava quel termine: stranìa. La macchina forestiera, addirittura straniera – pure se proveniva sì e no da una cinquantina di chilometri di distanza – portava merce esotica, abiti confezionati, maglie di lana, biancheria di seta. L’auto stranìa era carica di mercanzia sconosciuta, fabbricata da mani lontane, promessa di eleganza e modernità. 158­­­­

Alla stranìa si dice pure quando ci si trova distanti da casa, magari in situazioni di solitudine e bisognosi del conforto di volti familiari. Andarsene alla stranìa, cioè in qualche posto che non ha nemmeno nome né certezza sulle carte geografiche. Un vecchio canto popolare natalizio delle mie parti dice così: «Arricugliemuni, mamma mia, picchì semu alla stranìa». Torniamo a casa, perché siamo in terre ignote. Qualcuno, alla stranìa, finisce per perdersi e non dare più notizie di sé: e allora il compatimento è massimo, immaginando che possa essere in difficoltà (malato, in carcere, povero o addirittura moribondo) senza l’aiuto della sua gente. La stranìa, dunque. Fuori e lontano dalla Sicilia, ma anche dentro la Sicilia stessa: da paese a paese, da città in città, da provincia a provincia. La Sicilia stessa è stranìa. E se ne possono trarre derivati: straniamento, stranezza, stranieri. Stranieri in patria, quelli che si sentono esuli a casa propria. Oppure lo sguardo straniato di chi la colloca sotto una luce diversa e inconsueta. Siciliani prepotenti è il titolo di un libro di racconti dello scrittore Antonio Russello di Favara, nato nel 1921, emigrato al Nord e morto a Castelfranco Veneto nel 2001, scrittore appartato e che oggi sconta un’immeritata smemoratezza. Russello in questo volume (pubblicato per la prima volta nel 1963) prova a immaginare Gesù che nasce in Sicilia, ma non riesce a trovare un Giuda. Oppure descrive i cinque milioni di siciliani che si mobilitano, risalgono a nord e conquistano senza violenza il resto d’Italia. E ancora: un tragicomico scontro nel centro di Palermo tra le carrozze trainate dai cavalli e i taxi. Storie straniate e lontane dall’iconografia classica dell’isola e dai suoi temi soliti. La città di vetro Bisogna fare un passo indietro. Perché dentro l’epopea contadina o nobiliare, la Sicilia ha espresso da molto tempo una letteratura sperimentale o d’avanguardia, a voler usare questi 159­­­­

termini. Diciamo, per restare in argomento, una letteratura straniata o stranita. Non è casuale, infatti, se nel 1963, durante la Settimana della Nuova Musica, all’Hotel Zagarella a strapiombo sul mare tra Aspra e Porticello (di proprietà dei cugini Ignazio e Nino Salvo, esattori delle tasse in Sicilia nonché uomini d’onore, ma questo è solo un risvolto di cronaca giudiziaria) si riunisce il gruppo di scrittori della neoavanguardia che dà vita al Gruppo 63. «Dunque il 2 ottobre 1963 – racconta Piero Violante nel suo Swinging Palermo – sbarcano a Palermo: Eco, Arbasino, Anceschi, Barilli, Malerba, Sanguineti, Guglielmi, Pagliarani, Filippini e altri che qui trovano i tre di Palermo, gli scrittori di una città ‘informale’: Testa, Perriera, Di Marco che la Feltrinelli aveva consacrato in un volume intitolato La scuola di Palermo». Quel convegno, aperto il 3 ottobre nell’hotel sotto Capo Zafferano, viene inaugurato con una relazione di Luciano Anceschi sulla lingua nella letteratura italiana. A fine giornata Angelo Guglielmi annuncia che il Gruppo proseguirà i suoi lavori riservatamente, senza ospiti né giornalisti. Beppe Fazio sull’«Ora» critica l’atteggiamento degli scrittori, «sprezzante e assessoriale». L’indomani, il Gruppo 63 riapre le porte. Si va avanti così per alcuni giorni, in un clima un po’ segreto da cospirazione letteraria. Ma se quel movimento di autori che dichiara la morte del romanzo, il tramonto dell’intellettuale engagé e definisce «Liale del nostro tempo» i vari Carlo Cassola, Giorgio Bassani e Vasco Pratolini, ha scelto Palermo come suo luogo fondativo, è dovuto al fatto che a Palermo pre-esiste un gruppetto di «cinesi palermitani» – così definiti da Piero Violante – che su questi temi si è già confrontato, in relazione ad esperienze di altri scrittori, come il siciliano Antonio Pizzuto, tutti decisi a sfuggire «alla morsa della decadenza nobiliare e all’inferno dell’epopea contadina». In altre parole, decisi a sottrarsi all’eredità di Verga e Tomasi di Lampedusa. I tre palermitani sono, appunto, Gaetano Testa, Michele Perriera e Roberto Di Marco. 160­­­­

Ben inseriti nei circuiti editoriali dominanti (Umberto Eco scriverà più di vent’anni dopo il best seller Il nome della rosa, Angelo Guglielmi negli anni Ottanta inventerà su Rai Tre Chi l’ha visto?, Samarcanda, Blob), gli esponenti del Gruppo 63 finiranno per dimenticare i loro vecchi amici «cinesi palermitani». Precisa Violante: «In verità sono loro, i ‘cinesi’ di Palermo, per scelta – come in varie occasioni hanno detto e scritto Perriera e Testa – a staccarsi dalle vicende del Gruppo, tutte giocate nel triangolo dell’industria culturale». Nelle rievocazioni a distanza (trentennali, quarantennali, cinquantennali del Gruppo) Palermo resta sullo sfondo. O quanto meno, restano sullo sfondo le ragioni e le relazioni che portarono gli scrittori più innovativi della loro epoca a radunarsi proprio a Palermo e non altrove. A Palermo resterà, tra gli altri, Michele Perriera, scrittore e regista. Grande ispiratore del teatro Teatès, opificio ideologico e culturale di molti attori, Perriera era un uomo acuto, immaginifico e complesso. Protetto dai suoi occhiali scuri, Perriera ha sempre scelto una letteratura di nicchia, occupandosi per anni della collana di teatro della casa editrice Sellerio. Continuo a pensare che abbia scritto le sue cose migliori quando si è confrontato con la realtà scottante di Palermo e penso alla sua toccante intervista del 1990 con il giornalista comunista Marcello Cimino, scegliendo invece per la sua scrittura una sorta di diario a margine della Sicilia, sia sotto forma di libri che di testi teatrali. Sicuramente Perriera ha costruito un’immagine di Palermo lontana dal canone tradizionale e consueto. È al di sopra delle mie capacità cercare di disegnare il profilo intellettuale di Michele Perriera, ma nel tentativo di censire le diverse immagini della Sicilia che la Sicilia ha prodotto di sé, non si può ignorare la Palermo fantascientifica che Perriera ha messo in alcuni suoi lavori. Solo nel 2015, col romanzo Anna di Niccolò Ammaniti, ambientato in una Sicilia desertificata da un virus letale, troveremo un esperimento simile a quello tentato da Perriera. 161­­­­

Già nel 1990, nel suo A presto, Perriera sposta di poco in avanti il tempo della narrazione, collocando il diario di una famiglia tra il 1992 e il 1997, sullo sfondo di una città avveniristica e densa di magie: «E la città, palcoscenico e osservatorio, è Palermo, la Palermo-rappresentazione dell’universo, come, presuntuosamente, solo chi a Palermo vive crede di sentire: metropoli e periferia, postcapitalismo e feudalesimo consustanziati». È curioso andare a leggere le pagine del diario futuro collocate attorno alla data del 19 luglio 1992 (il giorno dell’attentato in via D’Amelio nel quale resteranno uccisi il giudice Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina). «Il momento è delicato per la città – scrive Perriera, ignaro di quanto sarebbe accaduto, ma avvezzo alla violenza dei tempi – specialmente dopo la recente catena di delitti ad opera di ignoti». Nel mondo inventato da Perriera, una fantomatica Unità sanitaria statale combatte i tristi, i malinconici e i depressi come socialmente pericolosi, inducendoli al suicidio o al confino in zone in cui prevale la gioia di vivere. Il pericolo più grave è la «peste del tragico». Nel 1992 sarà tragica la nuova peste mafiosa che sconvolgerà Palermo e l’Italia. Palermo futuribile tornerà anche negli altri libri della sua trilogia fantascientifica: nel 1995 nel suo Delirium cordis Palermo è una città post-catastrofe in cui l’acqua delle fonti è turchina e vige la regola dell’assoluto silenzio per permettere ai radar di prevenire attentati; e c’è ancora Palermo nel 2004 nel romanzo Finirà questa malìa?: Spirava un forte vento, sul Belvedere, in cima a Monte Pellegrino. Ma si distinguevano nitidamente, all’orizzonte, le ventisette torri trasparenti che segnavano i confini della Città di vetro. Luccicavano come specchi rossastri tutti i palazzi che, disposti a quattro a quattro, ripetevano nell’immenso spazio la figura del quadrato. Sugli alberi, che svettavano altissimi sui quattro angoli di ogni quadrato, scintillavano come mai, mossi dal vento, i frutti colorati che, secondo una sistematica alternanza, mostravano i grappoli più tipi162­­­­

ci dei quattro punti cardinali della terra... Quella Palermo tutta di cristallo era una delle quaranta nuove città, nate in tutto il mondo per festeggiare i primi approcci dell’Unione Mondiale. La nuova Palermo, tutta rilucente, sorgeva sul Mediterraneo, non lontano dalla vecchia capitale siciliana, che era diventata zona archeologica, sede di importanti convegni e – si diceva – di segreti contatti mondiali.

Tra strane apparizioni, superstizioni e animali bionici che popolano Città di vetro, la nuova Palermo, agisce la setta degli «schiacciatori di teste» che uccide le proprie vittime in modo atroce. Fantascienza gialla, metafora del potere oppressivo così come degli incubi della mente, il romanzo finisce per confermare la difficile relazione tra Perriera e la sua città, nella quale lo scrittore dirà di vivere come «separato in casa». Eppure la sua scelta di restare a Palermo fino alla morte, nel 2010, sia pure come cittadino di un altro luogo, tutto letterario («La scrittura è la mia casa, la mia isola, la mia civiltà, il mio continente», dirà nella sua monumentale autobiografia Romanzo d’amore), sarà per Perriera una precisa opzione «periferica» da cui sviluppare una «poetica della segregazione». Vivere in Sicilia da estranei, da straniati e straniti. Così parlava Perriera, intervistato da Marcello Benfante per l’edizione palermitana di «Repubblica», in occasione dell’uscita della sua autobiografia: Palermo ha spesso fatto molto, è vero, perché valesse anche per me il famoso detto «nemo propheta in patria». E molto, forse immeritatamente, mi ha tolto. Ma moltissimo mi ha dato: non solo con l’eccezionalità e l’emblematicità della sua «natura», ma anche con la generosità con cui talvolta ha voluto assecondare il mio viatico di conoscenza e di passione. Credo di aver fatto tutto il possibile per smentire le molte persone che ritenevano indispensabile che io emigrassi. Ho sempre desiderato che qui, a Palermo, mi fosse ricambiato, almeno in parte, l’immenso amore che mi ha sempre animato verso questa città crudele e meravigliosa... Questa città induce di solito al cedimento e alla rinuncia. Se vogliamo che sia degna della sua intelligenza e della sua complessità, dobbiamo 163­­­­

scommettere sulla possibilità di non esserne schiacciati. Dobbiamo accettare la sfida della fatica e del dolore.

Cinici in tv Pure i cattivi ci stanno, in Sicilia. A Palermo, per la precisione. Cattivissimi. Cinici, addirittura. Grotteschi, surreali, provocatori, sarcastici. Quanti aggettivi per provare a definire i palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco. È il 6 aprile 1992 quando, per la prima volta su Rai Tre, vanno in onda le clip girate e firmate dai due autori. Con la voce fuori campo di Maresco, i brevi video di Cinico tv (come si legge su Wikipedia) sono interviste «a personaggi alienati, folli e squallidi sullo sfondo di una Sicilia desolata. Cifra caratteristica è il particolare bianco e nero delle riprese. I soggetti sono tutti rigorosamente di sesso maschile: non vi è posto per la femminilità nello squallore e nella desolazione assoluti». Non spuntano fuori dal nulla, Ciprì e Maresco. Hanno un passato lungo dentro il cinema e dentro Palermo. Franco Maresco nei primi anni Ottanta aveva animato un cineclub nel quartiere di Brancaccio, che i giornalisti descrivono sempre «ad alta densità mafiosa». L’esperienza dura due anni, mentre tutt’attorno imperversa la guerra di mafia, poi il cineclub chiude sommerso dai debiti. Nel 1986 l’incontro con Daniele Ciprì, fotografo e cameraman di matrimoni: la coppia è formata. Cominciano con alcune tv private palermitane. La città che reinventano è apocalittica, affamata, una Palermo da day after. In qualche modo si ricollega alla letteratura del pititto, ma ancora più dura e disperata. «La coppia comica – scriveva Marcello Benfante nel maggio 2008 sull’edizione palermitana di «Repubblica», instaurando un parallelo tra Franco & Ciccio e Ciprì & Maresco – scaturiva da una Palermo viscerale e affamata, distrutta dalla guerra, dal cinismo di un potere che aveva portato la nazione tutta allo sbaraglio e al massacro. I due registi (sodalizio perfettamente complementare e simbiotico) sono figli di una Pa164­­­­

lermo un po’ più sazia, ma sempre atavicamente ossessionata dal cibo, in cui la distruzione (della memoria, del patrimonio storico, del verde, della vita, delle speranze) procedeva di pari passo alla costruzione distorta di una città altra e aliena, mostruosa e cancerosa, orrenda e tremenda». Lo sbarco nella tv nazionale finì per coincidere con la stagione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. E le immagini della Palermo di Cinico tv finivano per sovrapporsi alle immagini delle autostrade e dei palazzi devastati dal tritolo. «Una Palermo di macerie, fotografate in un bianco e nero video di risonanze arcaiche, con nuvole all’orizzonte accentuate da un semplice filtro dégradé», annota Emiliano Morreale nella sua monografia del 2003 dedicata ai due registi. I mostri di Ciprì e Maresco – stupratori, petomani, imbecilli – scatenavano risate a denti stretti, denunciando la mostruosità complessiva di Palermo e della Sicilia tutta. Altro che Sicilia glamour. Qui la Sicilia è quasi repellente. Fa ridere, ma non diverte. Dai corti, la coppia di autori passa ai lungometraggi: si scontra con la censura e le denunce per vilipendio alla religione. Ogni nuovo film è un cazzotto. «Palermo offre una sorta di anteprima del Giudizio Universale», spiega Franco Maresco, intervistato da Goffredo Fofi nel 1995 per il libro Lo zio di Brooklyn, sul film che ha lo stesso titolo. Ciprì e Maresco piacciono agli intellettuali, ma grazie alla televisione non restano un fenomeno di nicchia. E certi tormentoni dei loro video passano di bocca in bocca tra i telespettatori. Ora che Ciprì e Maresco non lavorano più in coppia si può discutere a lungo sul loro cinema «altro», dirompente e alternativo rispetto a gran parte del cinema italiano, sulla Sicilia e non solo. E si può discutere se la loro carica dissacrante permane tuttora nei lavori che in seguito hanno realizzato singolarmente come registi. Ma questi sono discorsi da gente di cinema, appunto. Non c’è però dubbio che l’irruzione delle loro clip straziate di bianco e nero sugli schermi della televisione italiana per molti anni ha rappresentato uno strap165­­­­

po forte nell’immagine della Sicilia: ha stracciato le sottovesti nere, le lenzuola stese ad asciugare, le camicie bianche dei picciotti. La Palermo di Ciprì e Maresco è post-atomica, purulenta, slabbrata. Esagerata. Al massimo grado di distanza dalla cartolina con gli arabeschi della Cattedrale e il profilo di Monte Pellegrino. Richiama le pagine di Giosuè Calaciura che esordì nel 1998 con il romanzo Malacarne, presentato – non a caso – da Goffredo Fofi come «allucinazione, cantica, dies irae, infinito gioco di specchi dove i carnefici inseguono le vittime... nel bestiario della metropoli insanguinata». E per capirlo basta leggere alcune delle righe vorticose di Calaciura, confessione in prima persona di un mafioso al suo giudice, aperta quasi a ogni capitolo dalla frase: «Signor giudice, non eravamo più niente»: Era scoppiata una guerra intestina, e per quanto ne cercassimo le strategie segrete, per quanto ci sforzassimo di immaginare i fronti e le motivazioni scatenanti riuscivamo solo a morire ammazzati come topi di cantina. Ci ammazzavamo con una allegria di lavoro ben fatto, signor giudice, e a noi non restava che constatare il decesso terribile dei nostri camerati senza più futuro. C’era chi moriva ammazzato dalle revolverate a buchi perfetti e chi dalla lupara devastante a canne mozzate, ma c’era anche chi restava ad agonizzare sotto casa con la gola squarciata e il velopendulo che vibrava all’aria dell’alba le note della sua stessa marcia funebre. Era una tale mattanza a conduzione industriale che non sapevamo quale fosse l’interruttore per spegnerla, non ne capivamo l’inizio e quindi non ne immaginavamo il termine. Signor giudice, ogni giorno c’era una tale quantità di morti ammazzati che bisognava fare l’appello, Ganascia presente, Scaduto morto deceduto, e ogni mattina si riscrivevano i registri, si sconvolgevano le mappe di quella che non era una guerra, ma uno sterminio a senso unico, nel senso che a morire eravamo solo noi. E per quanto rifacessimo i conti delle nostre forze in campo bisognava farli daccapo perché avevano ammazzato quello che teneva i registri. 166­­­­

Il riso beffardo di Ciprì e Maresco con Calaciura diventa la ballata, distorta e iperbolica, di una Sicilia macabra avviata al cupio dissolvi. C’è ben poco da ridere. Questa Sicilia non è strana, è apocalittica. Il rap di Tano Nell’autunno del 1983 arrivai a Palermo. Andai a vivere con altri studenti in una casa di corso Olivuzza. Palermo mi si presentò con i suoi capretti appesi fuori dalle macellerie, i calderoni di patate bollite, il venditore di sfincionello, la pizza carica di soffritto di cipolla, l’uomo che offriva granchi di mare e il pane dei forni abusivi che si vendeva agli angoli delle strade la domenica mattina. Corso Olivuzza era, e ancora è, la prosecuzione ideale del mercato del Capo. Ma corso Olivuzza non esiste, se non nella vulgata dei vecchi palermitani: nella mappa cittadina questa strada larga e affollata di auto parcheggiate in doppia e in tripla fila, densa di negozi e attività commerciali, dove un tempo si aprivano anche le vetrine dell’Upim, si chiama corso Camillo Finocchiaro Aprile, in memoria del carbonaro, massone e rivoluzionario che dopo l’Unità d’Italia fu più volte ministro nei governi Giolitti, Fortis e Pelloux. Per farla breve: mentre studiavo pigramente sui testi di diritto, immaginando di buttarli via non appena avessi cominciato a realizzare il mio sogno di fare il giornalista, dalla finestra al piano ammezzato della mia stanza in affitto arrivavano le note sparate di una canzone: Forza campione. Il corso Olivuzza veniva percorso per tutto il giorno dalle bancarelle montate su ruote di bicicletta dei venditori abusivi di dischi e musicassette (chi ha la mia età le ricorda ancora) che giravano sulle autoradio rubate, alimentate con una batteria di camion e amplificate a trecento watt. Quella fu la colonna sonora del mio primo anno di vita a Palermo, intervallata solo dal grido della motoape del venditore ambulante di sale fino (un refrain che ricordo a memoria: 167­­­­

«Quando mi cercate non mi trovate. Accattatevi il sale e conservatelo. Quattro pacchi mille lire»). I ragazzi di corso Olivuzza e della Zisa, di Borgo Nuovo e di Borgo Vecchio, dello Zen e di Uditore, ascoltavano la canzone e si agghindavano come il suo autore: caschetto di capelli biondi, giubbottino sportivo di raso, jeans stretti e stivaletti Camperos El Charro. Era lo stile alla Nino D’Angelo, outfit che naturalmente gli studenti e i figli della borghesia palermitana trattavano con un certo sussiego e con molto disprezzo, classificandolo nella indeterminata e sfuggente categoria del tascio nella quale possono rientrare vestiti, comportamenti e caratteri di quanti aspirano all’eleganza senza riuscirvi. Ma per chi si vestiva alla Nino D’Angelo, tanto per usare un altro termine allora in voga, quella mise era molto sbrechis, parola di cui non saprei nemmeno tentare la traduzione in italiano. L’esordio di Nino D’Angelo, cantante napoletano neomelodico – come si direbbe oggi – si era svolto proprio sotto il cielo di Palermo. Si sa che Palermo parla in dialetto, ma canta in napoletano. Lo stesso D’Angelo, anni dopo, racconterà di avere cominciato a vendere i suoi dischi a Palermo perché Napoli era fin troppo affollata di cantanti famosi come Mario Merola e altri, non c’era spazio per quel ragazzo magrolino che aveva avuto il suo primo successo un anno prima con la canzone Nu jeans e na maglietta. «Napoli è mammà, ma Palermo è come la sorella di mammà. Palermo è la zia Carmela. Palermo mi ha subito aperto le braccia», spiegherà il guaglione napoletano nel 1996, nel documentario La vita a volo D’Angelo della regista Roberta Torre. In quel documentario, Nino D’Angelo non ha più il caschetto biondo ossigenato del suo debutto: è un uomo di quarant’anni, un artista maturo che ha avuto anche i suoi riconoscimenti dal mondo artistico italiano. Ed è l’autore della colonna sonora e delle canzoni del primo musical italiano sulla mafia, pensato e girato da Roberta Torre, ambientato nei vecchi quartieri palermitani di Borgo Vecchio e della Vucciria, che segna una novità nel racconto della mafia. Tano 168­­­­

da morire esce sugli schermi cinematografici nel 1997. Ed è immediatamente una ventata di energia. «Gelosissimo delle sue quattro sorelle – scrive Paolo Mereghetti nel suo Dizionario dei film – l’uomo d’onore Tano Guarrasi aveva di fatto impedito il loro matrimonio: dopo che è stato ucciso da un killer dei corleonesi, la maggiore, Franca, accetta la proposta di Gaspare, ma il giorno della cerimonia finirà in tragedia». Ispirato alla vera storia di Tano Guarrasi, ucciso nella sua macelleria della Vucciria il 27 ottobre 1988, il musical interpretato da attori non professionisti dà corpo al «volto surreale e grottesco della mafiosità», scriverà il critico Goffredo Fofi, recensendo il film. La regista, Roberta Torre, non è siciliana, ma una milanese che da un decennio vive a Palermo, affascinata dalla materia più vitale e feroce della città: la vita quotidiana nei quartieri fatiscenti e ad alta densità mafiosa. «Il film evita i troppi cliché sull’argomento, come la retorica dei buoni e la spettacolarizzazione del crimine, per confrontarsi con la quotidianità della mafia», aggiunge Mereghetti. E Vittorio Albano, nel suo libro su La mafia nel cinema siciliano, ne parla come di «un’insolita irruzione di energia e vitalità inventiva nel panorama prevalentemente piatto e asfittico del cinema italiano del tempo». Gran merito va al lavoro del direttore della fotografia Daniele Ciprì (dell’accoppiata Ciprì & Maresco) e allo «straordinario lavoro musicale di Nino D’Angelo», sottolinea Mereghetti. «La Torre – conclude Albano – ribalta così ogni stereotipo e ogni luogo comune della mafiosità, distruggendone miti e riti, in una messa in scena da operetta o addirittura da opera dei pupi. Ne vien fuori un divertimento che, al di là delle apparenze, lascia trasparire l’amarezza e la disperazione per la ‘condanna’ di tanta gente a un certo destino, in una vita irrimediabilmente segnata che non prevede possibilità alcuna di salvezza». Per mesi, dopo aver visto il film, mi restò in testa il formidabile ’O rap ’e Tano (e la cosa riaccade ogni volta che lo riascolto), con la stessa forza e intensità che Nino D’Angelo martellava nelle mie orecchie quasi quindici anni prima, 169­­­­

quando la sua voce urlava a tutto volume dagli altoparlanti dei baracchini ambulanti che risalivano per il suk di corso Olivuzza. Cosa Nostra aveva trovato la sua versione degna di Broadway. Brigatisti alla zagara Per molte ragioni, non esclusa la presenza di Cosa Nostra quale depositaria di un enorme patrimonio di violenza e di controllo del territorio, la Sicilia è rimasta quasi del tutto indenne dal terrorismo politico degli anni Settanta. Anche se dalla Sicilia provenivano alcuni protagonisti di quella stagione. Il 7 agosto 1950 nasce a Tortorici, in provincia di Messina, da una famiglia di notabili locali, Adriana Faranda, componente della colonna romana delle Brigate Rosse che nel 1978 sequestrò e uccise Aldo Moro: cresciuta a Palermo, studi di base in un istituto religioso per ragazze della buona borghesia cittadina, Faranda nell’adolescenza frequenta a Roma le scuole superiori e qui nasce il suo impegno politico nei gruppi extraparlamentari che finirà per portarla nelle Br, da cui si allontana proprio in seguito alla decisione, da lei non condivisa, di uccidere lo statista democristiano prigioniero dei brigatisti. Pierluigi Concutelli invece fa il percorso inverso. Nato a Roma nel 1944, arriva a Palermo poco più che ventenne e si iscrive alla facoltà di Agraria. Entra in contatto con gli ambienti della destra palermitana, e in Sicilia – tra Palermo e Catania – inizia le prime esperienze di preparazione alla lotta armata: scontri violenti con militanti di sinistra, campi di addestramento paramilitari. Viene arrestato per possesso di armi da guerra, e dopo la carcerazione diventa leader del gruppo terroristico Ordine nuovo. Inseguito da provvedimenti giudiziari, entra in clandestinità. La mattina del 10 luglio 1976 uccide a Roma il giudice Vittorio Occorsio, che indagava sul terrorismo neofascista. Arrestato un anno dopo, sarà responsabile degli omicidi in carcere di due militanti di 170­­­­

destra sospettati di essere delatori. Non ha mai preso le distanze dalla lotta armata: nel 2011, dopo essere stato colpito da un ictus, gli viene sospesa la pena per gravissime ragioni di salute. Tranne questi due casi celebri alle cronache – ma ci sono stati alcuni altri siciliani, meno famosi, coinvolti in vicende di terrorismo – la Sicilia è rimasta tutto sommato appartata rispetto agli anni di piombo. D’altra parte, l’isola aveva già i suoi anni di piombo marchiati dalla violenza mafiosa, che seminava morti soprattutto a Catania e a Palermo, che non facevano notizia se paragonati all’eco martellante dei giornalieri atti di terrorismo. (Basti pensare che il corpo di Peppino Impastato, il giovane di Cinisi ammazzato da Cosa Nostra, fu ritrovato il 9 maggio 1978, il giorno in cui a Roma, in via Caetani, le Brigate Rosse lasciarono il cadavere di Aldo Moro: Impastato, dilaniato da una carica di tritolo sui binari della ferrovia, in un primo tempo fu ritenuto vittima di un attentato terroristico da lui stesso organizzato, messinscena di depistaggio messa in opera dai sicari della mafia. La notizia della sua morte passò quasi inosservata sulla stampa nazionale, concentrata sull’epilogo tragico dei 55 giorni del sequestro Moro. Il «Corriere d’informazione» titolò: Terrorista dilaniato dalla sua bomba). È quindi spiazzante il racconto di una Sicilia percorsa da fremiti di lotta armata. Il paesaggio stesso, a bassissima densità industriale, mal sembrerebbe conciliarsi con progetti rivoluzionari che nella fabbrica trovavano le loro prime fioriture o che alla fabbrica ambivano a rivolgersi, cercando connessioni con una classe operaia più mitologica che reale. Eppure due libri, abbastanza recenti, collocano in Sicilia quella stagione, o quantomeno il riverbero di un dramma che segnò una generazione di giovani italiani e italiane. Il primo, in ordine di uscita, è Il tempo materiale di Giorgio Vasta, che minimum fax pubblica nel 2009. Vasta, nato a Palermo nel 1970, residente da tempo a Torino dove insegna alla Scuola Holden e si occupa di letteratura a tempo pieno, 171­­­­

mette in scena tre ragazzini – Nimbo, Scarmiglia e Bocca – nella Palermo di fine anni Settanta che parlano, si muovono e ragionano dentro una logica ossessionata dalle Brigate Rosse: dai loro documenti, dal loro linguaggio e dalle loro azioni. Bambini-mostri, simboli della logica che pretende di creare un sistema assoluto e assolutistico, i personaggi di Vasta (ben diversi dai bambini «dialettali», quelli consueti di una Palermo lacera e sottoproletaria) si sottopongono a una scuola di prove fisiche e psicologiche, fin quando scelgono come loro vittima sacrificale un compagno di classe, il più innocuo e inoffensivo, che sequestrano e tengono prigioniero come Aldo Moro. L’innocenza infantile si fa utopia distruttiva: la riproduzione, anche e soprattutto lessicale, di quelli che i giornali definivano «deliranti comunicati» delle Brigate Rosse, messi in bocca e nelle menti di ragazzini delle scuole medie, nella città più distante dall’epicentro del terrorismo nazionale, è metafora di ogni sistema che smarrisce la relazione con il reale, l’empatia con l’essere umano, l’ironia e l’autoironia. Vasta ha spiegato a Ilaria Giannini, che lo ha intervistato per il sito Mangialibri, le ragioni dell’ambientazione a Palermo, il posto apparentemente più improbabile per un libro sugli anni del terrorismo (uno dei pochi romanzi in assoluto, in realtà, visto che su quegli anni c’è molta memorialistica e poca narrativa). Non sarei mai stato in grado di ambientarlo in un altro luogo, per due ragioni. Una drammaturgica: Palermo è periferica rispetto alla storia della lotta armata. Un’ambientazione milanese, romana, torinese o genovese avrebbe portato ad uno sviluppo diverso della storia, perché queste città sono state centrali nella lotta armata degli anni Settanta. Questi ragazzini invece avevano bisogno di partire da una periferia geografica per allucinare e desiderare il centro. Inoltre, pur non vivendo più a Palermo, è la città che conosco meglio e che sento di più, è quella che – mi verrebbe da dire – mi si muove nello stomaco. Palermo nel romanzo è due città: una è il centro storico, che nella percezione di Nimbo e dei suoi compagni è il centro preistorico e pre-linguistico, con i palermitani dialettali. 172­­­­

Poi c’è la Palermo dove Nimbo cresce, che è il set di diverse scene del romanzo ed è la città nella quale io sono cresciuto. Si tratta della zona costruita dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Settanta, una zona della città che dal punto di vista urbanistico non ha nessun elemento peculiare ed è simile, se non identica, a zone costruite negli stessi anni in altre grandi città italiane. E ancora una volta questa era una periferia utile dalla quale partire per confliggere con il centro.

È evidente che la domanda su Palermo, in teoria città incongrua rispetto al discorso sulla lotta armata, si riproporrà spesso nelle interviste che vengono rivolte a Vasta. La risposta dello scrittore è ragionata e consapevole, mentre la città che emerge dal suo racconto è veramente preistorica e popolata da una fauna di animali deformati. Elemento che tornerà anche l’anno successivo nel suo romanzo-saggio Spaesamento, racconto impossibile di una Palermo che si presenta in copertina con il profilo di un dinosauro: «Qui l’Italia si vede benissimo. Quello che hai scoperto è che l’Italia è la prosecuzione di Palermo con gli stessi mezzi. Hai scoperto, dice, che Palermo è l’Italia». Se incongrua potrebbe sembrare Palermo, ancor più spiazzante è Messina per ambientarvi la vicenda umana di due giovani – Aurora Silini e Giovanni Santatorre – che nel 1977 respirano il clima politico del tempo, con sogni astratti di partecipazione alla lotta armata. Periferici, chiusi nella città più aperta del mondo, affacciata su due mari, il Tirreno e lo Ionio, i due protagonisti del libro di Nadia Terranova Gli anni al contrario, pubblicato nel 2015, compiono il loro affrancamento dalle famiglie entrambe borghesi nella loro diversità («fascistissimo» il papà di Aurora, comunista «che odora di sconfitta» il padre di Giovanni), maturano politicamente nei gruppetti movimentisti, si innamorano, si sposano, fanno una figlia, ma si allontanano sempre di più. Giovanni, in particolare, aspira a un impegno più concreto, affascinato dall’avventura della lotta armata. In realtà, compie solo un’azione collocando una bomba in un mobilificio, ma l’attenta173­­­­

to è realizzato fuori dalla Sicilia, al di là dello Stretto. I due resteranno così sospesi, incapaci di rassegnarsi al tran tran della famiglia borghese (serrati nella loro casa in miniatura «guscio del loro scontento»), ma impossibilitati a raggiungere un nuovo equilibrio, finiranno per attraversare tutti i guasti della loro generazione. Se Vasta racconta l’Italia di quando aveva otto anni, Terranova ricostruisce un clima precedente alla sua nascita, dato che è del 1978. La Messina di Terranova è una città in formazione, mai diventata metropoli, anche urbanisticamente distante dalle grandi città sia del Sud che del Nord. È un panorama di giornate luminose, di mare «luccicante e festoso», di lampare, di barche sulla spiaggia, quanto di più straniero possa esserci rispetto alle cronache degli anni di piombo virate sempre nel bianco e nero drammatico delle foto sui giornali del tempo. Nel caso di Nadia Terranova, Messina è il luogo che condanna alla perifericità, il punto della Sicilia più proteso verso il resto dell’Europa, ma paradossalmente il più difficile da lasciare. Lo Stretto cattura ancora Ulisse e i naviganti, con canti di sirene e tempeste alimentate da Scilla e Cariddi. «Era un giorno di Fata Morgana – scrive Terranova – uno di quelli in cui la luce rende la Calabria così vicina che sembra di poterla toccare, tanto che si raccontano storie su chi, impazzendo, si è tuffato convinto di poter raggiungere a nuoto la punta del continente». Messina non ha mai avuto la forza letteraria e narrativa di Palermo o di Catania (a parte, naturalmente, che nell’alluvionale Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, clamorosamente uscito nel 1975, dopo vent’anni di gestazione, annunciato a lungo come un caso letterario, trionfo dello sperimentalismo postmoderno, ma oggi abbastanza ingiustamente trascurato). Messina, dunque, rispetto all’immagine prepotente della Sicilia è la città meno Sicilia di tutte, complici anche scelte commerciali e urbanistiche che hanno finito per renderla esclusivamente hub di approdo e partenze dei ferry-boat, 174­­­­

scalo marittimo per altre destinazioni avvertite come più autenticamente siciliane. Anche questo, contribuisce a rendere stranita la Sicilia di Nadia Terranova, che a Messina c’è nata. «Mi piace la dimensione metafisica di Messina – raccontava l’autrice nel febbraio 2015 alla «Gazzetta del Sud» – del resto come diceva Vincenzo Consolo, Messina non esiste. La storia di Aurora e Giovanni è ambientata a Messina ma potrebbe essere tale anche in una delle tante cittadine della provincia italiana e, al tempo stesso, volevo raccontare la città che amo tantissimo, che ha fatto da sfondo in alcune mie storie per ragazzi senza esserne protagonista. Volevo celebrare Messina come una città identitaria, non solo una tappa intermedia per raggiungere Catania o Palermo». I desicilianizzati A forza di stranirsi e di stranire, a forza di spaesamenti, si può perdere del tutto l’anima siciliana. Qui il discorso si fa sottile, degno di critici e studiosi. E per questo bisogna fare ricorso ai testi di chi esamina parola per parola la produzione letteraria dell’isola e sull’isola. Partiamo dall’inizio. Per capire qual è la giusta dose di sicilianità – il q.b., il quanto basta di sale raccomandato nelle ricette gastronomiche –, evitando di cucinare cose sovraccariche o assolutamente scipite, bisogna individuare cos’è e qual è il carattere siciliano contenuto in un libro, in un film, in un’immagine. Ha tentato di definirlo, in letteratura, il critico Giuseppe Traina. Nel suo saggio Siciliani ultimi, di recente pubblicazione, il docente di letteratura italiana all’università di Catania prova a schematizzare i «connotati tipici di questa famosa tradizione letteraria, al di là degli stereotipi e delle apparenze contenutistiche»: Coscienza scontrosa di un’alterità antropologica che consente allo scrittore di farsi testimone e giudice del passato e dell’oggi; an175­­­­

tistoricismo tenace, quasi sempre di matrice materialistica, talvolta proteso all’interrogativo metafisico; proiezione verso la grande cultura europea, che convive agevolmente con la scelta dell’isola e degli isolani come oggetto d’analisi; tentazione frequente del romanzo-cattedrale, affresco sociale o saga familiare, perfino epos reinventato; scrittura che procede sui sentieri sinuosi della prosa lirica o su quelli, non meno sinuosi, del ragionamento analitico in stile scabro e essenziale. Un quadro che, a ragione, è stato rubricato all’insegna della «modernità infelice».

Disegnato il quadro, Traina prova a tracciare la mappa genealogica degli scrittori siciliani di oggi. Chi sono gli avi illustri? Ci sono due fondamentali linee di discendenza. La prima è quella «lirica»: Verga-Vittorini-D’Arrigo-BonaviriConsolo. La seconda è quella «prosastica»: De RobertoPirandello-Borgese-Brancati-Sciascia. E, infine, i «grandi eccentrici o grandi incompresi», al pari di quei rami spuri delle antiche famiglie nobili, rappresentati da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Angelo Fiore, Carmelo Samonà e Gesualdo Bufalino. Secondo la tesi del saggio, gli scrittori siciliani di oggi si rifanno all’una o all’altra linea genealogica (tra parentesi: Traina mi colloca nell’asse della linea «prosastica» con discendenza diretta dal ramo sciasciano, e di questo, sinceramente, lo ringrazio). Ma Traina si spinge oltre, sostenendo che in realtà un ciclo si è chiuso e che questa ereditarietà è ormai al tramonto. Con la morte di Vincenzo Consolo nel 2012, preceduta da quattro anni di silenzio letterario, la grande pagina della tradizione letteraria siciliana si è estinta. «Fine di una tradizione», afferma il critico. Il trionfo editoriale di Camilleri, secondo Traina, è proprio il simbolo di questa tradizione bisecolare di cui l’inventore del commissario Montalbano ha «intelligentemente riusato la scorza, a scopo ludico ed evitando di accostarsi al nocciolo più profondo di essa». Bisogna riconoscere che Traina non si mette la fascia nera al braccio. Anzi, ritiene che forse l’elaborazione del lutto per la morte della grande letteratura siciliana possa portare 176­­­­

anche a qualcosa di buono e di nuovo. E cita alcuni nomi di autori, secondo lui «internazionali» e «lontani dalla Sicilia». Ad esempio, Viola Di Grado, catanese, classe 1988, che così scriveva nell’incipit del suo secondo romanzo, Cuore cavo, pubblicato nel 2013: Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa. Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e al sangue.

«Con la Di Grado – annota Traina – siamo fuori da una tradizione letteraria siciliana nella quale i ventenni d’oggi non avrebbero, obbiettivamente, alcuna ragione per riconoscersi, così come i loro coetanei di altre regioni italiane». Viola Di Grado non è l’unica. Un’altra che, per Traina, non ha «nulla di siciliano», almeno nei suoi primi libri, è Evelina Santangelo, scrittrice palermitana che però, nei suoi successivi romanzi Senzaterra e Cose da pazzi, non teme «di ripristinare un’ambientazione riconoscibilmente siciliana eppure aggiornata a una realtà plurima e multiculturale, nella quale la versatile sopravvivenza della mafia s’intreccia all’infittirsi e complicarsi nel nesso immigrazione-emigrazione». E ancora: Santo Piazzese, caso emblematico di uno scrittore «che vuole dialogare con l’Europa e con l’America contemporanee più che col passato isolano, pur non rinunciando all’analisi attenta del vissuto siciliano». Come vedete, qui siamo a un linguaggio per specialisti. E quindi ci vogliono le giuste competenze per dire se il de profundis di Traina sia fondato o meno. Certo, in alcuni casi siamo evidentemente di fronte a una letteratura siciliana che non è più tale. Dove collocarla, dunque? All’italianista docente a Catania replica un altro italianista docente a Enna. Salvatore Ferlita nel marzo 2015 recensisce il libro di Traina. 177­­­­

Verrebbe da dire che la tradizione isolana gioca brutti scherzi, non solo ai poveri autori che provano a trovare una collocazione su uno scacchiere abbondantemente occupato. Ma soprattutto, la tradizione isolana, sembra inibire in prima battuta i critici stessi, che si affannano nel tentativo di ricomporre un Dna che ogni volta si riconfigura malevolmente. Da questa faccenda potremmo ricavare una prima riflessione: è possibile che sugli scrittori e sui critici la tradizione abbia giocato un ruolo inibitorio, di fatale condizionamento? Seconda riflessione: è un caso che le prove migliori degli scrittori più recenti si debbano a quanti hanno provato a superare il peso di cotanto passato?

Ferlita scrive che le osservazioni di Traina stanno a metà «tra il necrologio e il bilancio», ammettendo in parte che probabilmente con Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo si è veramente chiusa la grande tradizione letteraria isolana. «Pietre tombali sulla contemporaneità», postilla Ferlita. L’isola letteraria desicilianizzata è la frontiera estrema, oltre la quale resta la Sicilia orfana di se stessa, una Sicilia irriconoscibile o trasparente, non più luogo identitario, ma solo un osservatorio, al pari di altri, per raccontare il presente. Sarà questo il futuro della scrittura compresa tra il 38° e il 36° parallelo? La scomparsa della Sicilia? La Sicilia non esiste, infatti «Bullshit, la Sicilia non esiste. Io lo so perché ci sono nato». La frase sta ad apertura del secondo capitolo e compare pure nella quarta di copertina. Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia è un romanzo che Feltrinelli pubblica nel 2013. L’autore è Giuseppe Rizzo, trentenne, originario di Santa Elisabetta, piccolo paese in provincia di Agrigento, poco più di 2.500 abitanti, ma anche centro con una presenza non secondaria nelle cronache di mafia di questa zona. Rizzo, giornalista con studi ed esperienze professionali fuori dalla Sicilia, oggi lavora a «Internazionale», il settimanale che traduce e ripropone i migliori pezzi della stampa di tutto il mondo. 178­­­­

Già la biografia di Rizzo si inserisce perfettamente nella scia della sua generazione, che è poi la stessa dei tre protagonisti del suo romanzo: Andrea detto Osso, Martina detta Pupetta, Marco detto Gaga. Nati e cresciuti a Lortica, paese immaginario che ricalca Santa Elisabetta, trentenni con conoscenza del mondo, figli europei dell’Erasmus, i tre decidono di tornare nel loro paese per fare uno scherzo crudele al sindaco, ma dietro la beffa c’è il tentativo di mettere in ridicolo i mafiosi del loro paese, che Rizzo descrive sempre come «i pidocchi». La vendetta dei protagonisti di Piccola guerra lampo punta contro gli spacciatori di «minchiate»: il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, un ministro della Repubblica che raccontano verità distorte. E la menzogna più gloriosa, in fondo, è quella presenza dei mafiosi che tutti vedono e nessuno ammette, l’intera comunità di Lortica decisa a dimenticare un delitto di mafia di tanti anni prima. La Sicilia di Rizzo è volutamente il contrario di quella nota e consueta. Perfino la mafia è diversa da quella retoricamente narrata negli ultimi decenni. L’intero libro, in fondo, è una beffa contro le «minchiate» sulla Sicilia, cioè il rifiuto della «genealogia» rintracciata da Traina. Perfino la lingua di Rizzo è quanto di più lontano dalla sintassi del sicilianese, semmai risente di una lingua globalizzata, rappistica, multiculturale. Pirandello fa cacare, dice Gaga. Tomasi di Lampedusa fa cacare. E Camilleri? Anche Camilleri fa cacare? Chiede l’americano. Camilleri è il male assoluto. Dovrebbero imprigionarlo e rileggergli tutti i romanzi di Montalbano fino a che non implori pietà. Bisognerebbe mettere mano alla pistola ogni volta che qualcuno dice della splendida decadenza e dell’irrimediabilità di questo posto, come fanno Camilleri Pirandello Tomasi. Bisognerebbe appiccare il fuoco, incendiare tutto, cambiare i connotati toponomastici e geografici di quest’isola, togliere i punti di riferimento agli isolani e al resto del mondo. Bisognerebbe, ecco, bisognerebbe che qualcuno si decidesse a scrivere un piccolo manuale per organizzare una guerra lampo, radere al suolo la Sicilia e resettare la mente di quelli un po’ cretini come te. 179­­­­

La furia iconoclasta del romanzo di Rizzo si scaglia contro i luoghi più frequentati dal sicilianismo letterario. A voi vi frega il clima, ci dice quando ci sediamo a tavola. Ve lo ricordate cosa diceva il principe di Salina nel Gattopardo? Io, il Gattopardo, quando qualcuno tira fuori qualche metafora del Gattopardo per spiegare la Sicilia di oggi, a me viene subito da sputare per terra. Non lo faccio, non sta bene sputare a casa degli altri, però cerco di cambiare discorso.

Tra i bersagli c’è la mafia. Non solo la mafia, però. Rizzo prende di mira anche la retorica dell’antimafia, quella che ha descritto a lungo Cosa Nostra come la più potente, più complessa e più pericolosa mafia italiana. Rizzo contesta il mafiocentrismo che ha finito per esaltare, anche in negativo, le figure degli uomini d’onore. Rizzo critica l’invincibilità della mafia, la sua perenne capacità di sopravvivere, cambiare e permeare ogni attività umana della Sicilia. Il suo obiettivo è di svelare la miseria dei mafiosi, togliendo loro gli attributi di don, di boss, di uomini d’onore. Ogni volta che si racconta la storia di uno di loro, bisognerebbe fare questa premessa: il pidocchio tal dei tali ha vissuto di merda, ha ingoiato la merda degli altri pidocchi e degli sbirri ogni giorno che il cielo l’ha mandato in terra, ha dormito in posti di merda per scappare alla merda del carcere duro, è finito in cella a spalare merda, ha finito per puzzare di merda e, ah, sì, una volta l’hanno visto guidare una macchina di lusso.

Pidocchi, dunque. Definizione che in realtà ha un’origine molto concreta nei fatti reali che, in qualche modo, ispirano il romanzo. I tre protagonisti di Piccola guerra lampo sono mossi a tornare in Sicilia da Roma, Praga e Berlino dove vivono, dopo avere appreso che il sindaco di Lortica prende le distanze da un fatto di sangue di molti anni prima, quando i fratelli Bonanno – Saro, Masi e Toni –, rientrati dal Belgio dove erano emigrati, avevano deciso di aprire un negozio di 180­­­­

fiori nel loro paese. Quell’attività infastidiva però la famiglia locale dei pidocchi, i Di Mauro, che decidono di uccidere i tre fratelli. Nell’agguato mortale si salva Toni che, per anni, inascoltato, continuerà ad accusare i Di Mauro, fin quando un pentito rivelerà che ad ammazzare i fratelli Bonanno sono stati proprio i Di Mauro. (La storia ricalca un fatto di mafia realmente accaduto a metà degli anni Novanta, a pochi chilometri dal paese di Rizzo.) Il sindaco di Lortica, infastidito dal clamore negativo, però avverte: «La storia dei Bonanno non appartiene al paese, ha dichiarato alla stampa, l’amministrazione si duole per quello che è accaduto ai due fratelli, ma sarebbe anche ora di dimenticarla quella storia». E da qui l’idea di Andrea detto Osso: «Io, non so voi, scaricherei un bel po’ di merda davanti alla casa del signor primo cittadino. Così, per finirla coi Bonanno, che sono il passato, e iniziare a parlare di merda, che è il futuro». Nella Sicilia di Rizzo, la Sicilia non è spaesata o stranita. Piuttosto, è la Sicilia feroce, ipocrita e furba di sempre. Spae­ sati, al limite, sono i tre amici ormai globalizzati che vi tornano, sicuri di avere accumulato moderne esperienze sprovincializzanti, adeguato understatement e giusto distacco, trovandosi però di fronte alla violenza primitiva di un’isola che non risparmia nessuno.

Il nuovo Grand Tour

La Sicilia è il paese delle arance, del suolo fiorito, la cui aria, in primavera, è tutto un profumo. Ma quel che ne fa una terra necessaria a vedersi e unica al mondo, è il fatto che da un’estremità all’altra essa si può definire uno strano e divino museo di architettura. Guy de Maupassant

È una bella giornata di primavera del 1787, «un pomeriggio stupendo», quando il trentottenne tedesco Johann Wolfgang Goethe sbarca a Palermo dalla nave Tartaro. L’incontro tra il grande scrittore e la Sicilia è un colpo di fulmine. «Un paese indicibilmente bello» scriverà Goethe della Sicilia, molti anni dopo, pubblicando il resoconto del suo viaggio in Italia. I sedici giorni di Goethe in Sicilia, attraversata in carrozza o in sella ai muli, costruiranno il fondamento dei viaggi futuri di numerosi intellettuali tedeschi, inglesi e francesi. Ciascuno riporterà impressioni diverse, non sempre positive, ma Goethe ha fissato un codice difficile da sovvertire: il Grand Tour in Sicilia diventa obbligatorio per qualsiasi giovane rampollo di buona famiglia europea con ambizioni artistiche, ma soprattutto Goethe costruisce la «divinizzazione» della Sicilia – quella greca e classica, magari ignorando quella miserabile e violenta del feudo –, facendo del viaggio nell’estremo Sud un’esperienza sentimentale. Oltre due secoli dopo, quando per la Sicilia sono già passati Patrick Brydone, Alexis de Tocqueville, Guy de Maupassant, Samuel Taylor Coleridge, Jean-Pierre Houël, Lord Byron, Oscar Wilde e molti altri viaggiatori illustri, si contano 182­­­­

circa sette milioni di presenze straniere all’anno, secondo i dati del 2014 dell’Agenzia nazionale per il turismo. Molti di loro si muovono, più o meno consapevolmente, nella stessa scia tracciata da Goethe. «Nostalgia della grecità, culto degli Hohenstaufen ed esotismo orientalizzante – sostiene nel 1986 Ernst Osterkamp, docente di letteratura tedesca a Berlino, parlando soprattutto del mondo germanico, durante un convegno organizzato a Palermo (i cui atti verranno poi raccolti nel volume Un paese indicibilmente bello) – continuano ad essere ancora efficaci richiami, ancorché appiattiti sul mondo illusorio dei turisti, un mondo che non tollera entro di sé nulla che non sia bello». I «grandturisti» sono diventati semplicemente turisti. Sarà vero, come sostiene Osterkamp, che cercano ancora la grecità? Certo, il patrimonio archeologico e monumentale siciliano è immenso, troppo spesso sottoutilizzato e mal valorizzato, malgrado la regione abbia il maggior numero in Italia di siti dichiarati patrimoni dell’Unesco, in una nazione che detiene il record mondiale di luoghi protetti. Eppure, al di là dei patrimoni materiali e immateriali, oltre ai templi greci, la Sicilia può sovrapporre agli itinerari di Goethe un percorso nell’arte contemporanea vasto quanto tutta l’isola, da punta a punta. Ci sono istituzioni pubbliche, come Palazzo Riso a Palermo, in piazza Bologni, che occupa uno spazio che fino a una ventina d’anni fa era una quinta vuota, un palazzo storico svuotato dai bombardamenti del ’43: ora ospita una collezione di arte contemporanea. A Castelbuono, primo avamposto delle Madonie, Laura Barreca ha ridato vita al museo civico, in un percorso virtuoso tra antico e moderno. E poi ci sono le fondazioni private, come la Puglisi-Cosentino di Catania o la Brodbeck che occupa, sempre a Catania, un migliaio di metri quadrati nel centro della città, in una vecchia struttura industriale aperta ad artisti ed esposizioni. Ma, al di là di questi casi, l’intera isola è costellata di tentativi, più o meno riusciti, di coniugare memoria e presente. Un percorso accidentato, 183­­­­

naturalmente, come spesso avviene in Sicilia. Ma comunque un Grand Tour. La vita è un terremoto Raffinato, gentile, sempre avvolto da tuniche bianche e foulard con i colori del sole, delicato nei modi, soave anche nell’educazione alla bellezza fra gli angoli aridi dell’entroterra siciliano, Ludovico Corrao aveva cercato di ricostruire la rinascita di un popolo. Nel mito di un incrocio delle civiltà occidentali e orientali, trasformando pure il terremoto del Belice in occasione di riscatto, da senatore e sindaco di Gibellina. Ma sul calare dell’esistenza, a 84 anni, è stato tradito ieri mattina nella sua camera da letto da un ragazzo del Bangladesh devoto e gentile pure lui, Saiful Islam, 21 anni, improvvisamente armatosi prima con una statuetta e poi di un coltello da cucina per sgozzarlo. Un taglio netto che ha quasi decapitato la testa, con altri fendenti a vene e polsi. Un delitto d’impeto, una furia scatenata dall’extracomunitario sull’uomo che lo aveva assunto e lo tutelava come un figlio.

Non è un semplice delittaccio di cronaca quello che Felice Cavallaro, inviato a Gibellina, racconta il 7 agosto 2001 per il «Corriere della Sera». Perché la vittima, Ludovico Corrao, è un uomo che tutto il mondo della cultura e della politica italiana conosce bene. L’esistenza di Corrao incrocia quella della Sicilia dal dopoguerra convulso e confuso, passando poi per la spericolata operazione politica del «milazzismo», che sovvertiva negli anni Cinquanta gli equilibri consolidati con l’elezione di un presidente della Regione sostenuto dai voti di comunisti, neofascisti ed ex democristiani, per arrivare all’appuntamento con la notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 quando il terremoto sconvolge la valle del Belìce. Fino a quella notte, la storia di Ludovico Corrao è quella di un brillante avvocato della provincia di Trapani che milita nelle file della Democrazia cristiana, dove viene eletto deputato regionale nel 1955. Tre anni dopo, sarà uno degli ispiratori della manovra politica che porta alla scissione dalla Dc 184­­­­

di una parte dei deputati che eleggono alla presidenza della Regione Silvio Milazzo, con l’appoggio di voti di destra e di sinistra. Assessore in quel governo, Corrao forse per troppa disinvoltura provocherà il crollo clamoroso di quell’esperienza politica, rimanendo invischiato in una complessa macchinazione, fitta di inganni e doppi giochi, passata alla storia come «la congiura dell’Hotel delle Palme». Nel 1963, dopo essere stato sindaco di Alcamo, la città in cui è nato, Corrao viene eletto alla Camera come indipendente nelle liste del Partito comunista. Nel 1965 assume la difesa di Franca Viola, la giovane donna che denuncia il suo sequestratore, rifiutando le nozze riparatrici, in un processo che è ancora oggi una pietra miliare nella strada per l’emancipazione femminile. Ma il percorso politico di Corrao, che proseguirà ancora per molto tempo come senatore comunista, ha una svolta fondamentale nel momento in cui il sisma abbatte gli antichi paesi della valle del Belìce (con l’accento sulla ì, perché invece la dicitura di Bèlice fu uno slittamento errato reso comune dalla vulgata televisiva, conseguenza indiretta del terremoto che, dopo aver cancellato intere comunità, cancellò pure la declinazione esatta del nome della vallata e del fiume che la taglia, ulteriore e beffarda perdita d’identità). Gibellina contò centoundici morti delle oltre trecento vittime del sisma. Distrutto il paese di povere case contadine abbarbicate su un costone di roccia, il centro abitato fu molto lentamente ricostruito più a valle, a venti chilometri di distanza, nel territorio di Salemi. Attorno alle baracche di prima accoglienza, destinate a ospitare per decenni le famiglie, si aprì un dibattito culturale nazionale, forse anche per il rimorso collettivo di avere ignorato in un primissimo tempo la tragedia consumata in un angolo sperduto della Sicilia. Corrao era uno degli animatori della discussione, che verteva fondamentalmente su come ricostruire il futuro e come fare i conti col passato che non c’era più. Siamo nel 1968, non dimentichiamolo. Il mondo dell’arte e dell’architettura è attraversato da correnti profonde di ricer185­­­­

ca di modernità, da suggestioni visionarie, da spinte controculturali. Tutto ciò precipita su Gibellina, anche e soprattutto attraverso il sogno, forse utopistico, di Ludovico Corrao che nel giugno del 1969 diventa sindaco di Gibellina. «Corrao, che sarebbe rimasto sindaco per quasi trent’anni, conosceva Berlino», scrive Davide Camarrone in I Maestri di Gibellina, un libro pubblicato proprio nel 2001, pochi mesi prima dell’omicidio di Corrao. «Sapeva di Hansaviertel, il quartiere che dopo la seconda guerra mondiale era stato tirato su dalle visioni architettoniche di Aalto, Gropius, Niemeyer». Il progetto di Corrao è ambizioso. Nella nuova città disegnata a tavolino negli uffici romani di un ente pubblico, senza personalità urbanistica, con l’ingenuità di debellare la mafia costruendo strade larghe in modo da mettere distanza tra gli abitanti (un concetto che i progettisti misero nero su bianco nella loro relazione), Corrao decide di inserire il segno dell’arte contemporanea come bandiera di bellezza. Gli appelli di intellettuali come Leonardo Sciascia e Renato Guttuso fecero affluire a Gibellina tanti artisti: Pietro Consagra, Alberto Burri, Mario Schifano, Andrea Cascella, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Franco Angeli. «Gli artisti offrirono il loro lavoro, e le collette, le offerte, le donazioni, fecero il resto. Non ci fu un prima e un dopo, ma un ‘insieme’. Nacquero le case, il municipio, la caserma e le strade, e l’Arte prese il posto di quel che s’era perso, e che nessuno – secondo Ludovico Corrao – avrebbe potuto restituire alla città», scrive ancora Camarrone. Dalla croce di cemento di Pietro Consagra collocata all’ingresso del paese alla chiesa di Ludovico Quaroni, le opere si stagliano in un paese di strade ampie e silenziose, di case basse e squadrate, una specie di realtà metafisica alla De Chirico. Installazioni grandiose, a volte mal comprese dagli abitanti, ormai slabbrate e decadenti, sono quel che resta del desiderio di conciliare la farraginosa burocrazia della ricostruzione con l’esigenza di dare una personalità a Gibellina Nuova. Ma l’opera più imponente e simbolica è quella che ha sigillato per 186­­­­

sempre le macerie di Gibellina Vecchia, compresse e sepolte sotto il cemento bianco del Grande Cretto di Alberto Burri, che ricopre come una pelle screpolata la collina dove si raggrumava il vecchio paese. Nel 1979 Corrao aveva convinto Burri a venire a Gibellina. Non era stato facile: l’artista arriva in Sicilia carico di diffidenze sul Sud, si aggira per la città nuova, scuote la testa, non trova il posto giusto per realizzare qualcosa, non vuole accostare una sua opera accanto a quella di artisti che non ama. «Qui non ci faccio niente di sicuro», dice. Ma quando viene portato ai ruderi della vecchia Gibellina, nella campagna silenziosa rotta solo dal gracchiare dei corvi, allora quasi si commuove. L’idea di Burri – racconta l’artista gibellinese Nicola Stabile – nasce la sera stessa, a cena: «Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento». Così nasce Il Grande Cretto di Burri, sudario che riveste i ruderi di Gibellina vecchia, opera rimasta in parte incompiuta mentre il tempo ne corrodeva i pezzi già realizzati. E in prossimità del Cretto nasce l’esperienza delle Orestiadi, volute sempre da Corrao: rappresentazioni teatrali di grande impatto scenico, con il coinvolgimento di Bob Wilson, Arnaldo Pomodoro, Emilio Isgrò, Thierry Salmon, altri artisti internazionali, con la gente di Gibellina a far da coro tragico o da attori. Un’esperienza irripetibile, e ancora mi ricordo quando si partiva da Palermo per andare a Gibellina, sulle spalle una felpa pesante perché di sera lassù fa fresco pure d’estate, per assistere ad appuntamenti che sembravano mettere quel luogo dimenticato e sepolto al centro del mondo. Non so quanto sia rimasto di tutto questo. Certo, quegli anni sono stati elettrizzanti e credo abbiano dato a molti ragazzi e ragazze della zona (figli di quei contadini che vent’anni prima avevano visto morire i propri parenti e le proprie bestie sotto lo stesso tetto crollato) la possibilità di concepire 187­­­­

un orizzonte diverso per la propria vita, confrontandosi con eccellenze artistiche di tutto il mondo. È rimasto il Cretto e tutte le altre opere di Gibellina, alcune forse incrostate di ruggine, invase dalle erbacce, fiera di una bellezza in rovina. «Gibellina, con le sue piazze e i suoi porticati grandiosi, è la dimostrazione concreta del fallimento e della presunzione di cui può essere capace l’architettura italiana. Tranne il Cretto di Alberto Burri tutto il resto è invivibile, vuoto, decadente», diceva nel 2008 al «Corriere della Sera» l’architetto Stefano Boeri. E, pochi giorni dopo l’omicidio di Corrao, Francesco Merlo sulla prima pagina di «Repubblica» esprimeva tutta la sua amarezza: Sono stato a Gibellina tante volte. La prima, subito dopo il Grande Evento, nel gennaio del 1968. Ero giovanissimo e volevo vedere e dare una mano. Ci sono tornato negli anni dell’immaginazione al potere e dei professori di architettura. A Gibellina ho imparato che anche le rovine possono andare in rovina, e che la rinascita del Belice è un miracolo sempre rimandato. E oggi che Corrao è morto e la sua utopia è stata giustamente celebrata dalla cultura, dalla politica e dalla chiesa, tutti dovrebbero andare a vedere come è ridotta la città che ha tormentato gli intellettuali siciliani, com’è più invasiva la spazzatura e come sono più tristi, tra i Consagra e i Purini, le baracche provvisorie che sono diventate ambiente e natura. Le opere commissionate da Corrao sono state mostrificate dal tempo e dall’avanzare del contesto ma non hanno il fascino dei mostri di Bagheria. Il sottosviluppo, l’arretratezza e la marginalità non sono stati riscattati ma al contrario esaltati da Samonà e da Venezia, da Pomodoro, Mendini, Salvatore, Franchina, Colla, Spagnuolo, Melotti, Cascella.

Si possono avere pareri molto diversi sull’utopia o sulla follia di Corrao, comunque la si chiami. Applaudita e criticata, l’operazione comunque ha fatto e fa discutere. Gibellina, una delle città più giovani d’Italia, ha fatto subito storia. Quelle opere, più o meno in rovina, sono ancora lì, museo all’aria aperta del contemporaneo o del fallimento del con188­­­­

temporaneo, comunque da vedere. Ed è ancora al suo posto il museo voluto da Corrao nel baglio Di Stefano, ponte ideale delle culture mediterranee, come spiegava il suo inventore. Corrao è stato ucciso proprio in una stanza-alloggio di quel museo, al centro del suo sogno fatto in Sicilia. Il devoto della bellezza Non ho mai saputo con certezza se Antonio Presti ami il mare, credo di sì anche se non ricordo di averlo mai visto in costume nell’acqua di questo angolo di Tirreno dove il mare trasparente bagna la spiaggia di ciottoli. Racconta sempre che si è svegliato presto per tuffarsi quando in spiaggia non c’è ancora nessuno, oppure che ha nuotato di notte quando tutto è buio e deserto. Per il resto del giorno, Antonio è dietro alla reception del suo Atelier sul Mare di Marina di Tusa, una ventina di chilometri a est di Cefalù, oppure alle prese con il cuoco che gli chiede indicazioni sulle pizze. Antonio sbuffa, si incazza, costretto a occuparsi di carciofini e mozzarelle come un prigioniero in cella. Sorride ironico di fronte a certe richieste dei clienti dell’hotel che sembrano non comprendere che questo è un albergo tutto particolare, un museo dove si vive, si dorme e si fa l’amore dentro opere d’arte. Antonio Presti non è un albergatore. Non ha il piglio, il puntiglio e il senso degli affari di chi alla fine dell’estate deve far quadrare i bilanci. E suppongo che perfino la parola «bilancio» gli faccia un po’ ribrezzo. È difficile definire Antonio Presti, perché lo hanno chiamato in molti modi: visionario, mecenate, scialacquatore, pazzo. Stefano Malatesta, nel suo famoso libro Il cane che andava per mare, lo collocò nella categoria della corda pazza siciliana. E ne raccontò la storia. Storia che inizia, più o meno, nel 1982, quando Antonio Presti eredita dal padre l’azienda di Santo Stefano di Camastra specializzata in materiali edilizi per le costruzioni di strade. Antonio aveva studiato ingegneria di malavoglia, preferendo i mille mestieri di un’anima inquieta: cameriere, attore, 189­­­­

centralinista di Telefono Amico. Alla morte del padre, Antonio decide di costruire nel greto del torrente Tusa un’enorme croce in memoria. Chiama Pietro Consagra, che non vuole saperne di realizzare una croce, ma che invece progetta una scultura in cemento alta diciotto metri dal titolo suggestivo: La materia poteva non esserci. Le maestranze dell’impresa di Presti vengono dirottate a costruire il monumento che diventa il primo insediamento di un parco artistico diffuso in tutta la vallata, sui primi contrafforti dei Nebrodi, per paesi e campagne, costituendo il parco artistico forse più vasto d’Europa. È un dettaglio che la scultura di Consagra sia su terreno demaniale e che Presti sarà portato a processo per costruzione abusiva – nella terra in cui l’abusivismo della villetta disegnata dal geometra trionfa impunito. Alla fine Presti sarà assolto, per quella e per altre installazioni, come la Curva gettata alle spalle del tempo di Paolo Schiavocampo, collocata a Castel di Lucio, o la gigantesca e suggestiva Finestra sul mare, enorme cornice in cemento blu piazzata sulla spiaggia di Villa Margi, realizzata da Tano Festa. Erano gli anni Ottanta quando l’enorme parco di arte contemporanea, ventuno chilometri lungo il corso del torrente Tusa, cominciò a prendere forma. Fiumara d’Arte, questo il nome del museo all’aperto ideato e realizzato dalla fantasia magniloquente di Presti, oggi è anche molte altre cose, compresa l’opera di Mauro Staccioli Piramide - 38º parallelo, un tetraedo cavo alto trenta metri, d’acciaio, su una collina di Motta d’Affermo, davanti al profilo delle isole Eolie e di fronte ai resti dell’antica città greco-sicula di Halaesa. La piramide viene aperta il 21 giugno, per il solstizio d’estate, durante una cerimonia artistica ed esoterica, con danzatori e poeti, che Antonio Presti chiama «Il rito della luce» e al quale si può partecipare indossando abiti bianchi. Una volta siamo andati con Antonio Presti, al tramonto, dentro la piramide. Abbiamo percorso il cunicolo all’interno della struttura d’acciaio che, al momento del calar del sole, 190­­­­

lascia filtrare raggi di luce che tagliano l’oscurità. L’acciaio si raffredda, scricchiola, geme, schiocca. Antonio spiega, parla di molte cose, mette assieme il vicino e il lontano: spesso non capisco, ma forse non c’è niente da capire. Alla fine e all’origine di tutto, secondo Antonio Presti, c’è solo la ricerca della bellezza, una vocazione alla bellezza che appartiene a ciascun uomo sulla terra, perfino il più cattivo. Anzi, una Devozione alla Bellezza, con tanto di maiuscole. Non so se Presti mi prende in giro, se ci crede, se ci crede ancora. Ma mi piace ascoltarlo. Antonio Presti pensa, parla e scrive più o meno così, come si può leggere sulla pagina facebook di Fiumara d’Arte: Nel nostro presente abbiamo tutti bisogno di riprenderci la Gioia di vivere, che ci è stata espropriata dalla dittatura della paura e da quell’imperialismo consumistico, oggi decadente, che ci ha portati alla depressione spirituale. Il viaggio simbolico all’interno della Piramide, quel cammino dall’oscurità alla luce, consegna Bellezza e Conoscenza a tutti i visitatori, restituendo il valore del futuro. Per riprendersi la Gioia di vivere, il popolo siciliano dovrebbe anche comprendere che non può più prendere in maniera scellerata dalla Grande Madre, la terra di Sicilia, ma che è giunto il momento di restituire a lei: attraverso l’orgoglio di essere siciliani e il diritto alla cittadinanza con la cultura e la Bellezza. Restituendo rigeneriamo e rigenerando trasformiamo, e quindi dallo stato di depressione possiamo passare a quello di gioia. Il percorso di futuro, per l’essere vivente, così come per Fiumara d’Arte, dovrà passare dunque attraverso il restituire, il rigenerare, il trasformare e infine suggellare il tutto con il ringraziamento.

Sinceramente, non mi basta mettere Antonio Presti nel catalogo dei matti e degli stravaganti siciliani. Certo, è anche questo. Ma Presti è uno che, negli stessi anni in cui Ludovico Corrao ci provava in provincia di Trapani, ha cercato di restituire nuova arte al territorio siciliano, ricco di arte antica. Lo ha fatto a modo suo, finendo alla sbarra degli imputati davanti a pretori e giudici che volevano abbattere le opere 191­­­­

che faceva costruire, perché abusive, lasciando però in piedi le brutture delle casette di cemento sabbioso costruite sulle coste siciliane, anch’esse abusive. E sempre, quando ripenso a questa storia, mi viene in mente quel consigliere comunale di Agrigento che, per difendere gli abusi edilizi – realizzati dai cosiddetti «abusivi di necessità», quale eufemismo! – sosteneva che i veri manufatti abusivi agrigentini erano i Templi, perché negli archivi degli uffici comunali non risultavano licenze o concessioni rilasciate ai greci antichi che li avevano innalzati. Dagli anni Novanta, Presti si è dedicato al suo albergo di Marina di Tusa, dove molte stanze sono concepite e arredate da artisti. Ogni camera dell’Atelier sul Mare divenne così un’opera d’arte: «Quella di Nagasawa – scrive Malatesta – era foderata completamente in ottone, compresi il pavimento, il soffitto e il letto. Quando uno entrava le lastre di ottone vibravano sotto i piedi e in estate non si poteva aprire la finestra perché un raggio di sole avrebbe trasformato la stanza in un inceneritore. C’era una camera dedicata a Pasolini e ideata dal poeta Dario Bellezza, molto trash e arte povera e un’altra molto richiesta di Michele Canzoneri con le vetrate simili a quelle bellissime che ha fatto per il Duomo di Cefalù e una vasca accanto al letto, dove le coppie rotolavano facendo l’amore». C’è una camera che è un cilindro nero, con un letto rotondo che gira su se stesso, aperta solo da una botola in alto che si spalanca sul cielo stellato. Un’altra è dedicata al poema Lunaria di Vincenzo Consolo, con stelle e pareti blu, listata di legno come un bosco di querce. Un’altra ancora è foderata di monitor accesi che rimandano la risacca del mare, una teoria di finestre sigillate: solo una può aprirsi per affacciarsi sul mare vero, così vicino da poterlo toccare e sentire. A volte certe stanze inquietano, altre stupiscono o stordiscono. Ma perfino le stanze in teoria «comuni» sono zeppe di quadri e tele e sculture, tanto che sembra di stare nel magazzino di un museo. Non credo esista un altro albergo così, e quando mio figlio era bambino si divertiva a passare qual192­­­­

che giorno in questa Disneyland dell’arte contemporanea che nasconde sorprese in ogni corridoio. «Sono qui per stupirmi – recitano i versi di una poesia di Antonio Presti – Con lo stupore si inizia e anche con lo stupore si termina. E tuttavia non è un cammino vano...». Se Presti è il matto siciliano, allora sono matti pure i suoi ospiti. E in effetti, è difficile incontrare clienti ordinari nel suo albergo speciale. Ma ridurre tutto alla corda pazza mi sembra poca cosa. Una semplificazione, un luogo comune. Nel resto d’Italia e del mondo i mecenati sono persone visionarie, generose, ambiziose o velleitarie. In Sicilia, non si sa bene perché, sono matti da legare. O forse il perché si capisce: se il presupposto è che la Sicilia è terra di interessi particolari, di ambizioni spropositate, di cosche e di famiglie, spesso mafiose, ecco che il mecenate non può che essere pazzo, perché contraddice la natura della Sicilia. E il pazzo, si sa, è destinato alla resa. Ci sono molti precedenti, d’altra parte. Ad Agrigento corre e ricorre una frase pronunciata in dialetto quando ci si trova davanti a qualcuno stralunato e fuori posto o quando ci si sente abbandonati: «Pare l’inglese scordato ai Templi». La frase, entrata nel linguaggio comune, diventata quasi proverbio, ricorda e riassume la storia di sir Alexander Hardcastle. Arrivato nel 1921 ad Agrigento, questo capitano della British Navy che aveva partecipato alle battaglie coloniali dell’impero inglese e alla prima guerra mondiale, quando scende dal treno di fronte al mare africano ha 49 anni. Uomo d’azione, archeologo per passione, con un buon patrimonio, Hardcastle compra una villa a duecento metri dal tempio della Concordia e si lancia in un’impresa ciclopica: riscoprire, ricostruire e valorizzare le rovine greche della Valle dei Templi. Rimette in piedi colonne crollate, innalza porzioni di templi come quello di Eracle, dispone nuovi scavi, acquista terreni, abbatte costruzioni recenti. Per dodici anni, attingendo alla propria ricchezza, con l’aiuto di alcuni studiosi locali e con qualche piccolo contributo dello Stato italiano, sir Alexander 193­­­­

«inventa» la Valle dei Templi così come oggi la conosciamo. Non si limita a disegnare il parco archeologico, ma vi porta elettricità e rete idrica. Finisce sulla prima pagina del «Times» di Londra. Ma nel 1929 il crollo di Wall Street fa fallire la banca dove sir Hardcastle ha depositato tutta la sua ricchezza. Senza più soldi, l’ex uomo di mare britannico cerca di vendere la sua villa allo Stato italiano per recuperare un po’ di denaro. Ma alla miseria si sovrappone la depressione: Hardcastle si aggira sperduto per i templi che ha riportato in vita, l’abito sgualcito, lo sguardo smarrito. Viene ricoverato nel manicomio di Agrigento, il più grande e il più degradato d’Europa, dove muore qualche mese dopo, il 27 giugno 1933. Povero e pazzo. La sua tomba è nel cimitero agrigentino di Bonamorone, da dove si scorge il profilo dei Templi. L’epilogo crepuscolare di sir Alexander Hardcastle si adatta perfettamente alla parabola del mecenate che impazzisce, per troppa bellezza o perché, in fondo, la Sicilia non premia né incoraggia i generosi. Ma non tutti i mecenati siciliani sono pazzi o sono destinati a diventarlo. Forse sono soltanto dei siciliani a modo loro. La città di tufo Sono passate da poco le sette del mattino di quel sabato 23 gennaio. Uno scricchiolio, poi il boato e la polvere nel quartiere Calvario di Favara. La vecchia casa della famiglia Bellavia è andata giù di colpo. Le urla, le sirene, i soccorsi. Giuseppe Bellavia, muratore, con il volto coperto di sangue, urla il nome dei suoi figli. Da quel cumulo di pietre sfarinate e travi marcite, vengono estratti i corpi di Marianna, 14 anni, e della sua sorellina Chiara, 3 anni. I vigili del fuoco scuotono la testa, non c’è più niente da fare: le bambine sono morte. Sopravvivono, malgrado ferite e fratture, Giuseppina, la moglie di Bellavia, e il loro figlio Giovanni, di 12 anni, ricoverati entrambi in ospedale. 194­­­­

Il crollo svela nei tg della sera all’opinione pubblica nazionale l’esistenza di Favara, grosso paesone di oltre trentamila abitanti a pochi chilometri da Agrigento. I cronisti raccontano di un centro storico fatiscente e abbandonato, abitato in gran parte da famiglie bisognose. Favara nel disegno della mappa del centro antico tradisce le sue origini arabe: stradine strette, vicoli e cortili simili a quelli di una qualsiasi casbah mediterranea. Ma se il vecchio nucleo del paese è praticamente desertificato, in compenso la pianta urbanistica di Favara è cresciuta scomposta e in buona parte abusiva. Qui regna il paesaggio dell’incompleto: case senza intonaco esterno, cresciute in fretta, con i piani superiori senza infissi né finestre, i pilastri alti verso il cielo per future e improbabili elevazioni. Da un’indagine del 2010, risultava l’esistenza di 2.250 abitazioni costruite in difformità, totale o parziale, dalle leggi edilizie. Ma l’impatto visivo è più devastante di quanto raccontino i numeri. Favara si è espansa negli ultimi quarant’anni senza alcun controllo. Cemento, conci di tufo, strade senza fognature, devastazione del verde pubblico e privato: per uno studente di architettura, un giro a Favara dovrebbe essere obbligatorio per imparare come non si costruisce una città a misura d’uomo. Secondo un articolo pubblicato nel 2010 sul sito Favaraweb, la città – famosa per la sua produzione di agnelli pasquali di pasta di mandorle ripieni di pistacchio, veri capolavori di pasticceria – ha una disponibilità di case (prime e seconde, abusive e condonate) che potrebbero accogliere quasi centomila persone, per una popolazione che non arriva nemmeno a un terzo. Favara ha una mafia antica e, in certi momenti della sua storia, agguerrita. Ha una concentrazione di aziende edilizie, spesso piccole società di capimastri diventati imprenditori, di gran lunga superiore alla media nazionale: 623 imprese, una ogni cinquanta abitanti. Alla fine degli anni Ottanta, il momento del grande boom edilizio, Favara registrava più di tremila società edili, cioè una ogni dieci abitanti, un numero che aveva insospettito anche la superprocura antimafia. 195­­­­

Il prodotto di queste contraddizioni si rivela micidiale la mattina del 23 gennaio 2010: nel paese col più alto numero di muratori e imprenditori edili, le vecchie case crollano mentre quelle nuove si affacciano su quartieri improvvisati, lungo strade senza asfalto, in un labirinto di vie e piazze senza manco un nome. Il mio amico Peppe Piscopo, vulcanico giornalista-libraio-insegnante, mi ha raccontato che quando era vicesindaco e assessore alla Toponomastica del Comune di Favara gli bruciarono la macchina. Peppe non riusciva a capire le ragioni dell’attentato: cosa aveva fatto di così grave da meritare quella minaccia? Gli sussurrarono che verosimilmente aveva sbagliato a dare nomi e numeri civici ad alcune strade che fino ad allora non esistevano nemmeno sulle mappe. Ma non erano i nomi scelti da Peppe a scatenare la reazione di qualche violento, non era la sensibilità puramente toponomastica di chi avrebbe preferito la propria strada intestata a Platone piuttosto che a Socrate. La verità era più semplice: una strada senza nome né numeri civici rende invisibili i suoi abitanti. E li rende inafferrabili soprattutto per ufficiali giudiziari, medici fiscali, esattori delle tasse, vigili urbani e ogni altra autorità dello Stato. Peppe aveva sbagliato perché aveva dato un indirizzo a chi non voleva averne. Nel giorno dei funerali delle due bambine, il vescovo di Agrigento Francesco Montenegro si rifiutò di celebrare le esequie, scegliendo invece di stare tra la gente in preghiera nella chiesa Madre. Appena poche settimane prima aveva mandato una lettera alla Protezione civile, dopo la frana di Giampilieri in provincia di Messina, per segnalare la situazione di pericolo in alcuni centri storici dei paesi agrigentini, come Favara, appunto. «Chiedo al Signore – aveva scritto Montenegro – che non arrivi mai il momento di dovermi rifiutare di celebrare funerali ‘previsti’ o ‘preannunciati’, perché quel giorno, se mai dovesse arrivare, il mio posto – da agrigentino – sarà tra la nostra gente a pregare, ma non me la sentirò di parlare». Una facile premonizione per chi, come il 196­­­­

vescovo, conosceva bene a quale ritmo crollassero da tempo le vecchie case negli antichi paesi della sua diocesi. Il mio non è accanimento contro Favara. Per me Favara, come alcuni altri posti della Sicilia, è ferita aperta, dolore civile, rabbia e vergogna. Ecco, quel 23 gennaio 2010 la morte di Marianna e Chiara, due bambine morte per il crollo della loro casa, già segnalata altre volte come pericolante, abitata malgrado fosse inagibile, con la famiglia Bellavia in attesa da sempre di un alloggio popolare, mi sembrò la morte di un’intera città che si era estesa come una metastasi, dimenticando se stessa, il suo passato e i suoi cittadini più deboli. Non sapevo, non potevo immaginare, che proprio in quei giorni, a poche centinaia di metri da dove erano morte sotto le macerie Marianna e Chiara, qualcuno stava scommettendo sul rilancio di una città che per me era ormai irredimibile e perduta. Il notaio Andrea Bartoli e sua moglie Florinda Saieva, siciliani che hanno vissuto a lungo fuori dalla Sicilia, proprio in quei mesi del 2010 stavano ristrutturando alcuni vecchi edifici in una zona del centro storico di Favara chiamata «i sette cortili», suggestivo sistema di corti collegate fra di loro sulla falsariga delle medine mediorientali. Il 25 giugno 2010, cinque mesi esatti dopo il crollo di casa Bellavia, Andrea e Florinda avrebbero inaugurato Farm Cultural Park. Cos’è? Molte cose assieme. Farm Cultural Park è museo, installazione permanente, residenza per artisti, progetto culturale per bambini, parco urbano di arte contemporanea, work in progress, aggregazione serale, food and drink. Consiglio di cercare le foto o di andare sul sito della Farm per averne idea. Da alcuni anni, nel centro storico di Favara, accanto alla vecchietta seduta fuori dalla porta, è facile incontrare l’hipster che rolla le sue sigarette di tabacco, mentre i turisti si sorprendono a scoprire, a meno di venti chilometri dalla Valle dei Templi, una cittadella di arte contemporanea, con fortissime venature di pop art. Qui, tra artisti e architetti di tutto il mondo che ormai dal 2010 popolano Favara, è facile 197­­­­

assistere alla presentazione di un libro, alla proiezione di un film di nicchia, a un reading di poesie in inglese. Qualcuno osserverà che in Toscana di esperienze di questo tipo ce ne sono molte, disseminate tra i colli e i borghi più belli d’Italia. Verissimo, ma la Farm non è a Capalbio o a Cortona. La Farm è a Favara, con tutto quel che precede e consegue. La presenza della Farm a Favara, in Sicilia, ha un valore e un’incidenza pari alla vista del fiore sbocciato nel deserto. Tra le mille cose che mi affascinano di Farm Cultural Park ce n’è una che amo per la sua arditezza: all’interno di un giardino pensile, Bartoli e sua moglie hanno fatto installare una piscina rossa che sul fondo ha ben stampigliate quattro grandi lettere che rappresentano il cosiddetto «esortativo popolare siciliano»: SUCA. Credo che la traduzione non sia necessaria. Ma la cosa che più mi affascina è che, attorno a questo progetto, Bartoli è riuscito a raccogliere finanziatori e mecenati di tutto il mondo, soprattutto americani, facendo dei sette cortili di Favara un fenomeno che è già al centro dei radar delle più prestigiose riviste di arte, dei grandi musei di mezzo mondo e di tutti coloro che si occupano di contemporaneo. Il notaio Bartoli è nato a Catania, sua moglie Florinda è invece di Favara e pratica il mestiere di avvocato. Il racconto della loro scelta di trasferirsi a Favara e di fondare questa specie di astronave del futuro, è ammaliante: «A Favara ci sono arrivato per amore – ha raccontato Andrea Bartoli alla rivista «Freetime Sicilia» –, perché è la città di mia moglie. Quando stava per nascere Carla, la nostra primogenita, ci siamo chiesti cosa fare della nostra vita e se volevamo veramente farla crescere in questo posto. Abbiamo affittato una casa a Parigi, dove siamo rimasti per due anni e mezzo, un’esperienza formidabile, bellissima e formativa. Tornavamo a Favara a turno, più volte ogni mese, perché qui c’era il nostro lavoro. Ci siamo chiesti se potevamo andare avanti così, vivendo fuori e costruendo la nostra vita su un ponte tra una città europea e la Sicilia, oppure tornare. Il fatto che quella vita ci costringes198­­­­

se di fatto a vivere separati, ci ha convinti a tornare. E l’idea che stando a Favara ci saremmo annoiati a morte dopo sei mesi, ci ha convinti a realizzare qualcosa che fosse stimolante per noi e per le nostre bambine, ma non solo...». Un sogno, l’idea di costruire un luogo ideale e stimolante per i propri figli – e per i figli degli altri – e una certa ambizione nel voler cambiare il mondo si sono incrociate con le opportunità immobiliari offerte dal centro storico di Favara, dove bastavano poche migliaia di lire per acquistare edifici vetusti o disabitati. Andrea Bartoli e Florinda Saieva hanno pensato di approfittarne. E così è nata Farm Cultural Park, oggi il luogo più visitato della provincia di Agrigento, subito dopo la Valle dei Templi che nel 2014 aveva contato oltre seicentomila presenze. Non è un caso che il leader a cinque stelle Beppe Grillo, quando viene in Sicilia, dove il suo movimento ha ottimi risultati elettorali, porti ad esempio il notaio Andrea Bartoli come simbolo della Sicilia che può cambiare, con l’impegno personale dal basso. Di certo, il notaio Bartoli e sua moglie avevano, come altri mecenati siciliani, mezzi e soldi per avviare il proprio progetto che oggi trova sponsor e attenzione in mezzo mondo. Ma, sicuramente, Farm Cultural Park è uno dei casi, abbastanza unici in Sicilia, di iniziative culturali non assistite da contributi pubblici o regionali, spesso invece destinati a sagre di paese, fantasmatiche associazioni sulle tradizioni popolari o comitati di amici degli amici di qualche politico. E basterebbe solo questo per fare di Farm Cultural Park un luogo eccezionale nella Sicilia della casta con le sarde.

Esperanto siculo

Un populo diventa poviru e servu quannu ci arrobbanu la lingua addutata di patri: è persu pi sempri. Ignazio Buttitta

Minchia bionda. Minchia rossa. Minchia tosta. Niente di volgare, per carità. Sono i nomi delle tre etichette di una birra artigianale prodotta a Messina dalla ditta Sikania e immesse nel mercato nel 2015. La campagna di lancio è annunciata sul sito con questa petizione di principio: «Minchia» non è soltanto un’esclamazione. «Minchia» non soltanto è un modo di dire. «Minchia» esprime un modo di essere siciliani. Il termine «Minchia» racchiude in una parola un mondo e una cultura che ha radici molto profonde.

Minchia, dunque. Da bere, a base di luppolo e con gradazione alcolica da 5 a 7 volumi. Presentata all’Expo di Milano, la birra in tre versioni ha un nome che non passa inosservato. «Non mi è sembrata una scelta volgare creare questo marchio: il sostantivo fa parte della nostra storia – ha spiegato il titolare Nino Amato –, l’idea è nata anche per dare impulso all’esportazione a livello nazionale ed estero. Produciamo 1.200 litri di birra al giorno. E, per ora, sono soprattutto i locali siciliani nel mondo a richiedercela». Anche Minchia è un brand, dunque. Più dei templi greci, 200­­­­

più delle chiese arabo-normanne, più del barocco. Perché entra nel linguaggio quotidiano, si fa strada come intercalare di rabbia o di stupore. È una parola nota, diffusa e accettata. Fuori dalla Sicilia ha perfino perduto la sua connotazione originaria volgare. In televisione la parola «minchia» è diventata accettabile anche in prima serata e in fascia protetta per i minori, a differenza dell’omologo termine, più largamente usato in tutta Italia, che ancora può urtare la sensibilità di un certo tipo di telespettatore. (In realtà quel termine lo pronunciò Cesare Zavattini per la prima volta in un programma di Radio Rai il 25 settembre 1976: «E adesso dirò una parola che finora alla radio non ha mai detto nessuno... cazzo!».) Insomma, la minchia è ampiamente sdoganata, come suol dirsi. Al Festival di Sanremo del 1994 Giorgio Faletti si presenta con una canzone, recitata con un forte accento siciliano. Signor tenente, scritta dallo stesso Faletti, è una ballata amara che ricorda le stragi di Palermo, di cui l’eco è ancora viva due anni dopo. Per sei volte, Faletti ripete la frase: «Minchia, signor tenente». È un carabiniere che parla al suo comandante del disagio di stare dentro una divisa dopo aver saputo della morte degli uomini di scorta di Falcone e Borsellino, alle prese con uno stipendio misero e il bisogno di giustizia. La canzone arriverà seconda in classifica, segnando la prima metamorfosi del compianto Faletti, da comico di Drive in ad autore di testi impegnati, molto prima di diventare scrittore di best seller. Certo, la canzone fa discutere. E non tanto per quel «minchia» più volte reiterato, facilmente digerito dalla platea e dal pubblico a casa. Siamo in Italia e non appena Faletti ha finito di cantare esplode la solita trita polemica: canzone di destra o di sinistra? Militarista o impegnata? Roberto Vecchioni, colui che nel 2015 inveirà contro la Sicilia «di merda», postilla da professore sulla «Stampa»: «Una canzone è di destra se descrive un certo sentimento con parole ovvie, mirando a suscitare sentimenti nel modo più facile e scontato». Roberto D’Agostino, osservatore di costumi e esperto di musica, a quel tempo non ancora fondatore del 201­­­­

sito di gossip politico Dagospia, entra nel merito della canzone: «È un recitativo, e dunque la parola dovrebbe volare. Invece... Ad esempio, l’uso della cadenza sicula: porta al macchiettismo». Ma l’autore televisivo genovese Antonio Ricci, amico di Faletti, che ha portato a Drive in nei panni del vigilante Vito Catozzo, dà il giudizio definitivo: «Faletti di destra? Belin, non si può. La sua è una posizione pasoliniana». Pasoliniano, che significa sempre tutto e niente. Minchia, signor tenente. Anzi, belin. Faletti era di Asti. A una cena di amici milanesi, qualche tempo fa, c’era un tipo che voleva dimostrare a tutti i costi come la parola «minchia» sia ormai pronunciata più frequentemente in Piemonte e in Lombardia che in Sicilia. Non ho dati scientifici per confermare o smentire la tesi, che comunque avrebbe le sue buone ragioni sociologiche. Se è vero che negli anni della Grande Emigrazione si sono insediati nel triangolo industriale duecentocinquantamila siciliani, portatori di molti vizi, di molte virtù e anche di moltissime parole (tra cui la parola in questione), non è strano che ormai abiti stabilmente nel linguaggio parlato del Nord, anche e soprattutto fra i più giovani. E non è cosa recente. Luciana Littizzetto è di Torino e nel 1993 si presenta alla trasmissione Cielito Lindo di Rai Tre col chiodo di pelle nera, facendo diventare tormentone comico la battuta «Minchia Sabbry!», pronunciata con accento siculcalabrese, destinata a diventare il titolo del suo primo libro pubblicato l’anno successivo da Sperling & Kupfer. Littizzetto intercetta il termine probabilmente nella fase emergente dell’uso corrente, ripresentandolo in veste comica. Nello stesso tempo, ripetendolo, lo rende sempre più accettabile: al Nord la parola si svuota della carica dirompente e volgare che in Sicilia continuerà ad avere e forse ancora ha. Ci vorrà il commissario Montalbano di Luca Zingaretti, qualche anno dopo, per trasformarlo in un’interiezione innocente che si può pronunciare anche davanti ai bambini che seguono le avventure del poliziotto più famoso di Vigàta. 202­­­­

Montalbano sono Davanti al numero civico 63 di via Roma, sul corso principale di Porto Empedocle, c’è un lampione. Appoggiata al palo, c’è la statua di bronzo di un uomo con i baffi e i capelli pettinati all’indietro. Al visitatore che chiede informazioni viene risposto: «È il commissario Montalbano». Il turista di passaggio osserva meglio la statua alta un metro e ottanta, ci gira attorno, nota la camicia col colletto aperto, la giacca a tre bottoni, la postura dell’uomo. E non riconosce il commissario Montalbano. Nella sua testa, il poliziotto di Vigàta ha la faccia e la corporatura di Luca Zingaretti. «Non gli somiglia per niente», pensa. Scatta una foto e se ne va. Nel 2008 il comune di Porto Empedocle, città natale di Andrea Camilleri, ribattezzata Vigàta nella trasfigurazione letteraria (potenza di un’invenzione: in alcuni cartelli stradali, sotto il nome di Porto Empedocle, è riportato anche quello di Vigàta) decise di onorare il personaggio creato da Camilleri. L’amministrazione lanciò un bando di idee al quale parteciparono molti artisti. La scelta cadde sul maestro Giuseppe Agnello di Racalmuto, scultore e docente all’Accademia delle Belle Arti di Palermo, autore nella sua città della statua di bronzo a Leonardo Sciascia, collocata su un marciapiede della piazza, come un paesano tra i suoi paesani. A Giuseppe Agnello la domanda ballava in testa da tempo: che faccia ha Salvo Montalbano? Nei suoi libri Camilleri non lo descrive, tranne spiegare che nel 1968 aveva diciotto anni. Al momento di scegliere l’attore per la fiction televisiva, Camilleri aveva spiegato al produttore Carlo Degli Esposti che nella sua fantasia Montalbano aveva una certa somiglianza con il regista Pietro Germi, con baffi e capelli fitti. Ma Luca Zingaretti, l’attore che renderà celebre il personaggio televisivo, è calvo e non ha i baffi. Bel problema per Agnello. Realizzare una statua con il volto di Zingaretti avrebbe finito per trasformare l’opera in bronzo in una sorta di monumento all’attore (per altro un po’ 203­­­­

funebre e malaugurante). Dopo aver parlato con Camilleri, che gli aveva fornito il suo identikit, il maestro Agnello ha tirato fuori una statua che somiglia molto a Pietro Germi e poco a Luca Zingaretti. In definitiva, esistono due Montalbano. Uno che abita le pagine dei libri e il corso principale di Porto Empedocle, l’altro che vive nella fiction al punto da imporsi nella memoria degli spettatori della serie televisiva, italiani e stranieri. Qual è il vero Montalbano? Nella targa accanto alla statua non c’è alcuna specifica: «Omaggio al commissario Montalbano di Andrea Camilleri. Scultura in bronzo opera di Giuseppe Agnello». Forse bisognerebbe dire qualcosa in più. Ma si rischierebbe di ripetere l’assurdità che per molti anni, proprio su questa stessa via Roma, accompagnava la targa sotto la statua di Luigi Pirandello. Nato per caso nel territorio di Agrigento, da una famiglia empedoclina, Pirandello era stato «scippato» a Porto Empedocle per una serie di coincidenze (l’epidemia di colera in città, il trasferimento precauzionale della madre nella casa di campagna, il fatto che la contrada Caos ricadesse nel territorio dell’allora Girgenti). Così, per celebrare il premio Nobel nato nel comune limitrofo e rivale, sotto la statua del drammaturgo gli empedoclini avevano apposto questa targa: «A Luigi Pirandello, la sua seconda città natale pose». Camilleri rideva divertito raccontando la storia di Pirandello che, pirandellianamente, aveva due città natali, quasi che veramente si possa nascere in posti diversi. La questione si ripropone per Montalbano. Che non solo ha due volti diversi – nella statua e nel film – ma anche due luoghi «natali» diversi: la Vigàta dei libri coincide con Porto Empedocle in provincia di Agrigento, mentre quella televisiva ricade nella provincia di Ragusa. Pure la lingua di Montalbano e dei suoi compagni di avventura è diversa: più stretta al dialetto nei romanzi, più allargata all’italiano «sporco» nella fiction televisiva. Entrambe però hanno contribuito grande204­­­­

mente a far accettare termini e locuzioni siciliane: taliare per guardare, spiare per chiedere, inzertare per indovinare. Se la lingua di Camilleri sia dialetto puro o inventato, parlata o letteraria, siciliana o camillerese, popolare o borghese, è discussione ampia e articolata, affidata a critici e glottologi. Non si può affrontare in poche righe, ci sono interi volumi e saggi che ne disquisiscono. Ma è certo che libri e fiction hanno globalizzato il siciliano di Camilleri. Il 6 maggio 1999 su Rai Due viene trasmesso il primo episodio, Il ladro di merendine, realizzato dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, per la regia di Alberto Sironi. I romanzi sono già un successo di classifica, ma questo non assicura il consenso vasto del pubblico. Il prodotto risulterà troppo barocco e letterario? È il timore del dirigente Rai Stefano Munafò che sa di andarsi a scontrare, nella stessa serata televisiva, con un altro poliziesco in onda su Canale 5 con Enrico Montesano: «Il confronto con Mediaset non è la nostra unica preoccupazione», spiega Munafò a Fulvia Caprara della «Stampa». La giornalista avverte le cautele della Rai e, infatti, scrive: «Un film, insomma, che non punta dritto al cuore delle grandi platee, ma cerca di sfruttare al meglio il fenomeno letterario». I dati di ascolto del giorno dopo sono sorprendenti, forse per la stessa Rai. Il ladro di merendine vince il match con 5.251.000 spettatori, contro i 4.430.000 che hanno seguito su Canale 5 Il segreto del vecchio pistolero con Enrico Montesano. «Due poliziotti a confronto – spiega Alessandra Comazzi nella sua rubrica di critica televisiva sulla «Stampa» dell’8 maggio – ma il confronto risulta improponibile, impari, perfino ingiusto». Il fatto di avere una fiction tratta da best seller (considerato, fino a poche ore prima della messa in onda, uno svantaggio) ora si trasforma in vantaggio, «a parziale smentita – scrive Aldo Grasso sul «Corriere della Sera» – di quella credenza che annovera gli spettatori televisivi fra il popolo dei non-lettori». Alessandra Comazzi si sofferma sull’italo-siculo della fiction, uno dei suoi punti di forza: «Il problema della lingua di 205­­­­

solito viene risolto dagli sceneggiati in modo approssimativo: qualcuno parla con accento regionale, quasi sempre sbagliato e gli altri rispondono a pera, tanto vale parlare tutti in italiano. Qui no, qui l’italo-siculo è attendibile. Quello di Zingaretti-Montalbano, e anche degli altri, non è più un accento, ma una trasposizione orale della forma scritta». «Montalbano sono!», con il verbo alla fine – come in latino –, diventa il refrain della fiction, riproposto nei trailer dei nuovi episodi e delle ricorrenti repliche in tv (a proposito: le avventure del commissario rappresentano uno dei pochi casi di prodotto televisivo che ad ogni replica fa record di ascolti, con il paradosso che l’episodio La gita a Tindari nel 2013 ha avuto in replica più di 8 milioni di telespettatori, rispetto ai 7 milioni che nel 2001 avevano seguito la prima visione tv). Abbiamo già visto che per Vincenzo Consolo, scrittore in una lingua densa e raffinata anche nella ricerca di termini dialettali, «la cifra linguistica di Camilleri è di tipo folklorico di secondo grado, nel senso che lui usa una lingua mutuata dai mezzi di comunicazione di massa». Secondo Consolo, nei romanzi di Camilleri «il lettore si diverte di fronte a questa buffoneria che già conosce per averla ascoltata nel cattivo cinema e nelle macchiette televisive». Un «italiano bastardo», ha scritto lo stesso Camilleri in uno dei suoi romanzi. Una lingua inventata («mescidata», dicono i critici militanti), dove il dialetto si smussa, diventa comprensibile, attraverso il contesto o i sinonimi. «In un giallo ci sono già troppi enigmi perché se ne aggiungano anche di linguistici», dice Camilleri. Il vigatese ha il pregio di essere sonoro e seducente. Seducente nel libro, perché impone al lettore non siciliano di decodificare e fare proprio il codice linguistico; sonoro nel film, perché lo spettatore vi ritrova un’identità esotica della quale deve impossessarsi. Non è dialetto, non è italiano: è il vigatese, appunto. Paolo Mauri su «Repubblica» del 14 luglio 1998 individuava proprio nella lingua il segreto della seduzione del commissario Montalbano: 206­­­­

Uno dei motivi del successo di Andrea Camilleri e del commissario Montalbano è indubbiamente quel suo italiano «sporco», reinventato a misura di un dialetto che ha già alle spalle una carriera letteraria e nella sua variante più grottesca e comica, anche cinematografica. Montalbano che «talia il ralogio», cioè che guarda l’orologio è un tardivo cugino del gaddiano commissario Ingravallo e onora, per così dire, l’illustre parentela. Per dirla in breve l’italiano «sporco» corrisponde al parlato di gran parte del paese ormai da molto tempo: per ragioni culturali e ambientali la lingua si piega e s’adatta e prende sapori particolarissimi variando e inventando un po’ come accade alla cucina regionale, insidiata dai fast food, così come l’italiano vero è insidiato dagli «attimini» della lingua artificiale dei nuovi «preziosi ridicoli».

Sporco o parlato, bastardo o mescidato, il siciliano del commissario Montalbano si è imposto come lingua televisiva, forse con i suoi stereotipi o fissandone altri, più nuovi rispetto a quelli del cinema degli anni Sessanta e Settanta – ricordate il film di Lina Wertmüller Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto? «Bottana industriale», gridava Giancarlo Giannini, mozzo siciliano e comunista, contro la ricca borghese milanese Mariangela Melato, prima del coup de foudre. Ebbene, frasi ricorrenti come «Montalbano sono», «di pirsona pirsonalmente» e così via sono andate a formare una nuova isola letteraria, abitata dai lettori e dagli spettatori. E la cosa si ripete per il prequel del giovane Montalbano, interpretato da Michele Riondino, che si presenta nei jingles delle interruzioni pubblicitarie con il categorico invito: «Nun cangiati canali». E vai con gli spot. Shakespeare è messinese Il 4 febbraio 1927, sul giornale «L’Impero», il giornalista Santi Paladino sosteneva che quello di William Shakespeare fosse uno pseudonimo dietro cui si nascondevano i letterati italiani Michelangelo o Giovanni Florio, o entrambi: prova 207­­­­

evidente nei molteplici riferimenti italiani nella sua opera. Infatti, si parla di Italia in quindici lavori sui trentasette attribuiti al Bardo inglese. Questione lunga e complessa è la biografia di Shakespea­ re, sulla quale gli studiosi si confrontano da secoli. Non è questo il posto giusto per riassumerla, ma arriviamo al punto che ci interessa. Una ventina di anni fa, il professore in pensione e giornalista Martino Iuvara rimetteva insieme tutti gli indizi sull’italianità di Shakespeare ed esponeva la sua tesi. Secondo Iuvara, il 23 aprile 1564 nasce a Messina Michelangelo Florio, dal pastore calvinista Giovanni Florio e dalla nobildonna Guglielma Crollalanza. Per la sua fede religiosa, sotto la minaccia dell’Inquisizione, il giovane Michelangelo viene allontanato da Messina e dopo varie permanenze nel Nord Italia, arriva in Inghilterra. E qui cambia il suo nome, diventando William Shakespeare. Non inventa niente, in real­tà si limita a mettere al maschile il nome della madre (Guglielma diventa William) e a tradurne in inglese il cognome (Crolla diventa shake e Lanza, cioè Lancia, diventa speare). A sostegno della sua ipotesi, Iuvara dice che Florio era autore di una commedia, andata dispersa, intitolata Troppu traffico ppi nenti, scritta in siciliano e ambientata a Messina, antecedente alla shakespeariana Molto rumore per nulla (Much Ado for Nothing); aggiunge che Shakespeare descrive la Sicilia come solo un geografo o un abitante avrebbe potuto fare; afferma che il commediografo inglese conosceva l’italiano e infine evidenzia che i tratti somatici del Bardo erano mediterranei, tanto che un suo contemporaneo fece riferimento alle origini italiane di Shakespeare. Per Iuvara, la soluzione del mistero è racchiusa nell’archivio dei libri e documenti di Shakespeare che però la Corona inglese custodisce gelosamente, impedendone l’accesso agli studiosi. L’ipotesi suggestiva ha ispirato romanzi e pure una traduzione in siciliano del testo di Much Ado for Nothing, riadattata da Andrea Camilleri in Troppu trafficu ppi nenti e messa in scena dal regista Giuseppe Dipasquale, in un percorso inver208­­­­

so a quello che in realtà sarebbe accaduto secondo Martino Iuvara. Dall’inglese al dialetto, dunque. Proprio questo mi interessa, appunto, molto più che le origini natali di William Shakespeare. Perché una sera di qualche tempo fa sono andato al Teatro Quirino di Roma a vedere l’Otello. Non era la tragedia del messinese William Shakespeare, ma una rilettura del palermitano Luigi Lo Cascio, regista e attore reso celebre dalla sua interpretazione di Peppino Impastato nel film I cento passi di Marco Tullio Giordana, regista e autore teatrale. Sapevo cosa mi aspettava, perché avevo letto alcune recensioni e interviste sullo spettacolo. Quando si sono spente le luci nel teatro pieno di pubblico, ho detto fra me e me: «Adesso vediamo che succede». Ecco, in sala, la voce potente di Vincenzo Pirrotta-Otello. M’u mpresti u fazzulettu, pi faùri? Chiddu ca iu ti desi comu pignu d’amuri. ’Un vogghiu chistu, no. Unn’è la stissa cosa.

Dopo una ventina di minuti, due signore davanti a me si sono alzate per andare via. Una ha detto all’altra: «Questo non è l’Otello, non capisco niente». Temevo l’emorragia del pubblico in sala. I tre attori – Lo Cascio, Pirrotta, Giovanni Calcagno – parlavano in siciliano, ricostruivano i tormenti di Otello, la sua solitudine, la sua follia d’amore, in un dialetto ben scandito, ritmato da endecasillabi e settenari. Soltanto la Desdemona di Valentina Cenni usava un italiano pulito e cristallino, leggero quanto un vetro soffiato rispetto all’asperità del dialetto usato da Lo Cascio per la sua riscrittura di Shakespeare. I miei timori erano errati. Tranne le due signore filate via, il resto della sala del Quirino restava inchiodato alla poltrona. Cercavo di scrutare i volti dei miei vicini. Pensavo: «Capiscono? Non capiscono? Sono tutti siciliani? Non credo». 209­­­­

Gli amici romani accanto a me ogni tanto, in un sussurro, mi chiedevano la traduzione di una parola, di una locuzione, di un dettaglio, mentre Lo Cascio-Iago ordiva la sua tela di risentimento. L’amuri? L’amuri esisti sulu ntà testa scunchiuruta d’a razza stravacanti di li pirduti amanti, sulu ddà intra, dintr’a lu pinzeru. L’amuri è l’illusioni d’aviri nu vuccuni d’infinitu pagatu cu du liri. È l’infinitu a purtata di manu p’i cristiani ca sunnu mort’i fami. L’odiu ’nveci è ’nfinitu pi ddaveru, mai si sudisfa e mancu si sazìa.

Lo spettacolo ha girato l’Italia, è andato nei teatri delle grandi città e delle cittadine del Nord: magari qualche altra signora (o signore) a un certo punto è andata via scocciata, ma in realtà gli spettatori hanno seguito e applaudito, aiutati anche dal fatto che la storia di Otello, Iago e Desdemona la conoscono più o meno tutti. Non era la prima volta che assistevo a pièces in siciliano al di fuori dalla Sicilia. Ma c’era qualcosa di nuovo, da qualche tempo. Prima gli spettacoli in dialetto consumati lontano dalla Sicilia apparivano come un ammiccamento al residente fuori dall’isola (alla stregua dei cantanti e gruppi folk che andavano, e continuano ad andare, negli Stati Uniti, in Canada, in Belgio o in Argentina per rispolverare le nostalgie degli emigrati), oppure una specie di esperimento antropologico di approssimazione a idiomi in via di estinzione. Di fatto, attorno al dialetto rappresentato al di fuori della Sicilia si raccoglievano siciliani d’esportazione, cultori di lingue morenti o appassionati di esperienze etniche. A un certo punto la cosa è cambiata. Non so dire quando 210­­­­

né perché. Ma, di certo, molto ha contribuito il teatro. Un teatro potente e d’autore, scritto in un dialetto vivo, trasformato in lingua artistica. E questo, paradossalmente, è stato possibile grazie ad autori che non sono siculoparlanti di natura. Per intenderci, Luigi Lo Cascio non è Ignazio Buttitta, il grande poeta dialettale che scriveva, recitava e incarnava un siciliano vissuto e parlato come lingua madre. Luigi Lo Cascio, nell’introduzione al libro pubblicato da Mesogea con il testo del suo Otello, sostiene di avere avuto un approccio al dialetto palermitano «da forestiero». Dico da forestiero perché, bisogna riconoscerlo, per molti palermitani il dialetto non è la lingua madre. È altresì un idioma che si acquisisce per immersione secondaria, non per galleggiamento primordiale e amniotico. Lingua d’impareggiabile acutezza e prepotenza, viene usata solo quando è necessario recitare il proprio senso di appartenenza, la propria adesione, a una cultura considerata insuperabile quanto a scaltrezza e astuzia.

Il dialetto siciliano diventa lingua artistica proprio per mezzo di autori come Lo Cascio, che non sono nati «dentro» il dialetto per ragioni di età, di estrazione sociale, di scolarizzazione. Diventa musica con Mario Incudine, con Lello Analfino e i Tinturia, con i Qbeta e con molti altri che, dal rap al pop, ormai usano il dialetto come lingua musicale in una terra, la Sicilia, che nei suoi strati sociali più popolari continua a cantare e ascoltare i neomelodici napoletani, ispiratori di film e romanzi, come il Belluscone di Franco Maresco o il libro Festa di piazza di Gian Mauro Costa. Non ho gli strumenti adeguati per capire e spiegare perché il napoletano sia da sempre antica e consueta lingua artistica – in teatro, in musica e al cinema –, al punto da coincidere con la melodia italiana per eccellenza, rispetto al dialetto siciliano che, al netto di alcune eccezioni, è stato consumato quasi esclusivamente all’interno della Sicilia stessa. Forse ha avuto peso il giudizio di Luigi Pirandello, che di dialetto se 211­­­­

ne intendeva (la sua laurea in filologia a Bonn era sulla «parlata di Girgenti», definita «incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni» della Sicilia); in dialetto aveva scritto alcune commedie, ma nel 1909 proclamava che «una letteratura dialettale, insomma, è fatta per restare entro i confini del dialetto»: posizione che influenzò buona parte dei grandi autori siciliani. Chi ha ammazzato don Luigi? Dicono che bisogna uccidere i padri per diventare adulti. Quasi un secolo dopo quell’articolo del 1909 contro il teatro dialettale, un pugno di teatranti siciliani decide di ammazzare don Luigi Pirandello. Lo fa con la giusta ferocia contro un genitore tanto ingombrante, ma anche con il rispetto dovuto a un premio Nobel. Solo dopo quest’omicidio, si apre «una parabola teatrale dirompente che dall’ultimo decennio del ’900 ha rilanciato le quotazioni della Sicilia come terra di teatro», spiega la storica del teatro Stefania Rimini nel suo saggio Le maschere non si scelgono a caso. L’arma del delitto, naturalmente, è il dialetto siciliano. Proprio quel dialetto che Pirandello, pur praticandolo, riteneva inadeguato per costruirvi sopra un teatro siciliano, in polemica col suo amico Nino Martoglio che a quel sogno ci aveva creduto fino al fallimento dell’esperienza. Stefania Rimini fa anche i nomi degli assassini di Pirandello: Emma Dante, Davide Enia, Spiro Scimone e Francesco Sframeli, Tino Caspanello e Vincenzo Pirrotta, più altri complici a vario titolo. La miopia espressa da Pirandello a proposito della possibilità di esistenza di un teatro siciliano oggi è diventata lungimiranza: la scena si è trasformata in laboratorio di nuove scritture, il dialetto ha superato i confini dell’isola e si è imposto nel continente e in Europa, al di là della «conoscenza delle parole»... Il dialetto è insieme rivendicazione identitaria e cifra di una onomatopea del 212­­­­

sentire... L’ombra di Pirandello non pesa più come una minaccia incombente, ma è la scintilla che riscalda e illumina una moderna utopia teatrale.

«Io penso siciliano», racconta un artista come Vincenzo Pirrotta, che sulla scena usa il corpo come voce e la voce come corpo. Cresciuto alla scuola del maestro puparo palermitano Mimmo Cuticchio, Pirrotta ha vissuto pure lui l’immersione in un dialetto vero e verace prima di trasformarlo in musica narrativa. In una certa fase della sua vita, infatti, dopo gli anni di studio e le stagioni sul palcoscenico, si ritira in un borgo di pescatori, attraversa i vicoli della casbah dei mercati di Palermo, frequenta i quartieri più popolari. È alla ricerca del «lessico dell’anima»: modi di dire, parole, gesti colti nell’osservazione del reale. Quelle parole, meditate sul pentagramma dei testi classici, andranno a depositarsi nella cassa delle meraviglie che Pirrotta riapre al momento di scrivere e interpretare i suoi spettacoli. Allora il dialetto esplode, supera i limiti della comprensibilità immediata e diventa tutt’uno con la fisicità possente dell’autore-attore, con la sua voce capace di scarti improvvisi e repentini. Ma, per capire, bisogna sentirlo e vederlo. Solo così diventa chiaro perché un francese o un tedesco possano emozionarsi a sentire il cunto di Vincenzo Pirrotta. Nel 2001, una sconosciuta compagnia teatrale siciliana parte da Palermo e oltrepassa lo Stretto per candidarsi al Premio Scenario, uno dei più prestigiosi nel mondo del teatro emergente. Il gruppo Sud Costa Occidentale presenta mPalermu di Emma Dante, uno spettacolo spiazzante che vince il concorso. Si apre così la stagione felice dell’autrice siciliana che, in meno di dieci anni, la porterà alla Scala di Milano per la regia della Carmen, opera diretta dal maestro Daniel Barenboim. Con la trilogia sulla famiglia siciliana di mPalermu, Vita mia e Carnezzeria, Emma Dante impone il suo modo di concepire il teatro. Training e prove faticosissime, al limite dell’e213­­­­

sasperazione fisica, costituiscono il calvario preparatorio al quale Dante sottopone i suoi attori. La lingua diventa tutt’uno con l’azione fisica sulla scena. E quella lingua, ancora una volta, è il dialetto. Nel libro a più voci Emma Dante. Palermo dentro, Andrea Porcheddu le chiede conto dell’uso di un dialetto molto forte e connotato: «Non c’è un forte rischio di sicilitudine in tutto questo?». Emma Dante risponde così: Sì, c’è il rischio, ma chi se ne frega. Io devo fare i conti, e i conti li posso fare solo in dialetto... Io sto parlando questa lingua, e non me ne posso inventare un’altra. Soprattutto se ancora non ho capito questa lingua che cazzo sta dicendo. Io non capisco il dialetto dei miei spettacoli, ancora non ho capito bene cosa vuole dire questo dialetto del mio teatro: quando lo capirò comincerò a fare teatro borghese.

Non la capiscono nemmeno gli spettatori, ma non importa. C’è qualcosa che supera la comprensione immediata. Qualcosa di difficile da definire. «Qual è l’elemento misterioso – si chiede la scrittrice Elena Stancanelli, grande amica di Emma, nel suo contributo a Emma Dante. Palermo dentro – il fantomatico 7X (l’ingrediente mai rivelato nella ricetta della Coca-Cola) che rende i suoi spettacoli sensuali e commoventi, esilaranti e importanti, toccanti anche per chi non riesce a decifrare una sola parola del dialetto siciliano?». Emma Dante dice di non capire il dialetto che usa. Ma è, ovviamente, una formula retorica. Sto cercando una lingua. Non è vero che non conosco il dialetto che scrivo, altrimenti non lo potrei scrivere. Ma questo dialetto mi spiazza, mi sorprende, perché è una lingua molto aperta alle contaminazioni e alle impurità, elastica e viva, tanto che alcune parole sono intraducibili in italiano. Non esistono sinonimi di molte parole dialettali che uso nei miei spettacoli, e quindi se devo tradurle faccio fatica. In questo senso dico che non conosco questo mio dialetto; cioè non lo conosco nella traduzione in italiano. Faccio un esempio con la frase che è all’inizio di mPalermu: «chi fa, arapemo ’sta finestra?». Quel «chi fa» cambia tutto. La traduzione letterale sa214­­­­

rebbe: «che fa, la apriamo questa finestra?». Ma «che fa» non vuol dire niente. Invece quel «chi fa» in dialetto racchiude un sentimento molto preciso che è: «se non apriamo questa finestra è la fine, perché moriamo soffocati». Come fai a tradurlo in italiano? Per questo dico che mi spiazza il dialetto, perché è un mondo assolutamente segreto per me, perché ha in sé il segreto; in qualche modo è inaccessibile.

In realtà, come tutti gli artisti di parole, Emma Dante reinventa una lingua. E il dialetto, forse perché non abbastanza codificato, si presta a dilatazioni e torsioni. Risultato: «Quel palermitano è diventato un codice della scena italiana – scrive Andrea Porcheddu –. Forse con Emma la Sicilia ha davvero toccato un apice linguistico: non c’è solo Camilleri, insomma (che peraltro di Emma è stato maestro in Accademia). Affiancandosi al veneziano, al napoletano, ora la lingua di Palermo parla al cuore di tutti, in ogni città d’Italia». #Escile Lucia Javorčeková è una modella slovacca di 25 anni, con le curve e le misure giuste, infatti posa indossando modelli di intimo. Fino all’estate del 2015 Lucia, che a Bratislava ha un marito e un figlio, non conosceva quasi una parola di italiano e di certo non conosceva l’abitudine tutta meridionale, e in particolar modo siciliana, di trasformare alcuni verbi intransitivi al transitivo. Eppure qualcuno deve averle spiegato perché, a partire più o meno dal mese di settembre, sotto le sue foto postate sul profilo facebook – immagini nelle quali la bella ragazzona slovacca lasciava intravedere le sue auree coordinate, 93-60-90 – molti fan cominciavano a inserire un hashtag apparentemente oscuro: #escile. Qualcuno, soprattutto, deve averle spiegato che l’hashtag era abbreviazione di una frase più articolata, pronunciata in una forma dialettale imborghesita e italianizzata, che per esteso suona così: «esci le minne». Traduzione morbida: mostra il seno. Lucia ha così potuto scoprire che lo stesso hashtag era 215­­­­

già piovuto addosso alle foto di una sua collega altrettanto prorompente, Emily Ratajkowski, nata nel 1991 a Londra, cresciuta in California, modella per Yamamay e nel cast di alcuni film accanto a Zac Efron e Ben Affleck. Forse Emily non ha capito o non ha voluto capire, deludendo i suoi seguaci italiani. Non ha ascoltato l’invito e non «le ha uscite». Lucia, che invece aveva capito e voleva capire, ha raccolto la sfida. E la sua foto a seno nudo, accompagnata da #escile, ha avuto un milione di like. Lucia Javorčeková, subito ribattezzata «mozzarellona» o «santalucia», grazie al suo successo tutto social ha intrapreso un tour promozionale in Italia, in discoteche e locali, all’insegna del suo nuovo slogan, #escile, appunto. Davanti ai suoi fan non ha fatto altro che rispettare l’impegno, ma dal vivo. Nell’ottobre del 2015 due inviati del programma Le Iene sono andati a trovarla a Bratislava, dove Lucia ha spiegato di aver capito benissimo il significato di #escile, come ha immediatamente mostrato davanti alle telecamere per la gioia di grandi e piccini. È evidente che tutte queste storie di modelle mozzafiato e mozzarellone sono cose da cultura pop. Anzi, da sottocultura social, direbbe qualche accademico con la puzza sotto il naso. Però, forse, ci aiutano a capire come il siciliano, soprattutto nelle sue forme non pure e viziate dall’uso quotidiano, sia diventato un esperanto comprensibile a varie latitudini. L’errore di usare il verbo intransitivo «uscire» in forme transitive – probabilmente derivato dall’italianizzazione del dialetto, che invece prevede l’uso transitivo per il verbo nesciri – si è allargato a dismisura, a volte consapevolmente o a volte inconsapevolmente. «Esci i documenti dal cassetto», «esci i libri dallo zaino», sono frasi ripetute anche in luoghi dove in teoria sarebbero vietatissime, dagli studi legali all’università, dagli uffici pubblici alle banche. Luoghi in cui, sia pure per dovere professionale, l’uso corrente dell’italiano dovrebbe essere consueto e frequente. Chi per primo ha inventato #escile deve averlo coniato direttamente dal siciliano (o dal sicilianese, se non voglia216­­­­

mo attribuire dignità linguistica a questo dialetto corrotto), o deve averlo copiato dallo slang, che prevede numerose altre forme intransitive/transitive: scendere il cane, scendere le chiavi, entrare il bucato, salire la spesa, uscire la pistola e così via. L’hashtag così congegnato fa pensare proprio a un gioco goliardico, a uno scherzo ben riuscito di far diventare virale la formula sintetizzata di una frase grammaticalmente scorretta, ma di uso abbastanza comune (quantomeno in Sicilia e in altre parti del Sud Italia) in forma ironica e divertita. Non sappiamo se chi ha inserito la prima volta #escile sotto le foto di Emily e Lucia avesse idea che sarebbe diventato uno slogan di grande diffusione (ma sicuramente era consapevole di trattare con una formula suggestiva e abbastanza enigmatica, tale da non svelare subito il suo sottotesto), tuttavia ci piacerebbe sapere cosa hanno pensato Emily e Lucia leggendolo, prima che venisse loro spiegato il significato. Altra nota a margine. L’hashtag, dopo l’exploit di Lucia Javorčeková, ha conosciuto un altro percorso virale nel mondo universitario. Studentesse di diversi atenei italiani ritenuti centri di eccellenza – dalla Bocconi alla Statale di Milano, dalla Luiss al Politecnico milanese – hanno postato sulle pagine spotted delle loro facoltà (cioè i profili facebook dove girano i pettegolezzi degli studenti, gli inviti per le feste, le richieste di incontrarsi e conoscersi: in forma anonima, naturalmente) foto di generosi décolleté con la scritta #escile e il nome dell’università, scritti direttamente sulla pelle. La sfida è dilagata tra le studentesse italiane, e subito si è aperto il dibattito: autoironia o volgarità? Questione che qui interessa pochissimo, almeno non quanto il fatto che l’hashtag in sicilianese impazzi proprio tra le facoltà milanesi. Quanto pesa la presenza nelle università del Nord di studenti meridionali, e siciliani in particolare, nel veicolare le nuove forme di dialettizzazione? Una domanda che sarebbe interessante girare a statistici e linguisti, in attesa che qualcuno sappia dire con certezza se, oltre alla linea della palma, risalga al Nord anche la linea di #escile. 217­­­­

Bagheresi e baarioti A meno di venti chilometri da Palermo, lungo la costa orientale, c’è Bagheria, 55.000 abitanti, settanta metri sul livello del mare, città espansa da un abusivismo edilizio che ha soffocato le dimore settecentesche dove villeggiavano le famiglie nobili palermitane. Bagheria è un centro storicamente di alta mafia – qui passarono parte della loro latitanza Totò Riina e Bernardo Provenzano –, ma allo stesso tempo è una città che ha espresso nomi importanti della cultura nazionale: il pittore Renato Guttuso, il poeta Ignazio Buttitta, la scrittrice Dacia Maraini, il fotografo Ferdinando Scianna, il regista Giuseppe Tornatore. Legati fra loro da vincoli di amicizia, al di là delle età e delle generazioni, sono i figli di un rinascimento fiorito alle porte di Palermo. Bagheria nel dialetto siciliano suona Baarìa. E i suoi abitanti, i bagheresi, in siciliano sono baarioti o bagarioti. Ma queste definizioni, fuori da Bagheria, assumono altro significato. Dalle mie parti, nell’Agrigentino, baaria è sinonimo di confusione, di gran baccano. Abbastanza corrispondente a quanto avviene nella parlesia napoletana, la lingua in codice usata a Napoli fin dall’Ottocento dagli artisti e dai musicisti tra di loro per non farsi intendere da altri: in questo gergo la parola bagaria, a seconda dei casi, può voler dire divertimento, caos, gesto sciocco o guaio. Nel mio dialetto, peraltro, dire baarioto a qualcuno non ne indica la provenienza, ma un modo di fare e di atteggiarsi un po’ guascone e prepotente, avvezzo a vantarsi. Credo dipenda dal fatto che da Bagheria venivano molti carrettieri che giravano in lungo e in largo la Sicilia: su quei carretti colorati a tinte accese, con un mestiere nomade, non passavano inosservati e per sapersi destreggiare per le strade dell’isola sviluppavano propensione alla discussione accesa, alla rissa, alla guapperia. Baarioto è dunque cosa ben diversa da bagherese. Oggi che Bagheria è cresciuta in popolazione ospitando molti nuovi residenti che hanno scelto di abitarci perché meno cara di 218­­­­

Palermo, ma a distanza ravvicinata dalla grande città, la differenza sembra consistere nel fatto che bagherese è chi vive a Bagheria, mentre baarioto è chi può rivendicare nascita e stirpe a due passi dalla Villa Palagonia, con i suoi mostri di pietra. Alla fine del 2005 Giuseppe Tornatore, baarioto da generazioni, comincia a pensare a un film che racconti un’epopea familiare dentro l’epopea di un intero paese siciliano. Nasce così Baarìa, kolossal prodotto da Medusa con decine di attori, trentamila comparse, lunghi mesi di lavorazione, un budget superiore ai venti milioni di euro, un set in Tunisia dove vengono ricostruiti il corso principale e le case di Bagheria, con le trasformazioni subite in quasi un secolo di storia. «Il film della mia vita», dice Tornatore, e questa frase è il sottotitolo del libro-intervista scritto con Pietro Calabrese che accompagnò l’uscita del film nel settembre 2009. «Io – spiegava Tornatore – avevo scritto la sceneggiatura tutta in baarioto, il dialetto di Bagheria. Mi era venuta così, d’istinto, non sarei riuscito a scriverla diversamente... Mentre scrivevo, non potevo che usare il dialetto, perché quel codice linguistico è nel mio Dna, nella mia memoria, nell’anima dei protagonisti, nelle storie che vivono. Molti personaggi sono inventati, ma moltissimi altri sono realmente esistiti, li ho conosciuti, o me ne ha parlato mio padre: come potevo farli parlare in italiano? Mi sarebbe sembrato innaturale: pertanto, quando ho scritto, mi sono fatto prendere la mano dal dialetto». Ai dirigenti di Medusa, assieme alla sceneggiatura originale, viene presentata anche una versione tradotta in italiano. Ma la questione si ripropone al momento di girare il film. In quale lingua devono recitare gli attori? Un problema non da poco, come ricorda Tornatore. A un certo punto, affrontando il problema con la Medusa, presi il coraggio a due mani e proposi: «Sentite, io penso che questo film debba essere girato in dialetto...». Dire che sbiancarono è poco. Il mio amico Spedaletti sbottò: «Ma che vuoi fare L’albero degli 219­­­­

zoccoli in Sicilia?». Lo guardai: «Bè, un poco ti sei avvicinato all’idea». «Ma perché, Peppuccio? È pericoloso! E poi che facciamo, usciamo con i sottotitoli così a vederlo non ci va nessuno?». Aveva ragione. Tutte le volte che si è fatto un film in dialetto con i sottotitoli in italiano, non importa di quale regione, non ha mai funzionato. Mai. Primo, perché gli italiani rifiutano i sottotitoli; secondo, perché un film italiano, girato in un dialetto italiano, che esce con i sottotitoli in italiano, sembra in tal modo comunicare un certo disprezzo per quel particolare vernacolo, e questo, credo, non lo faccia funzionare.

La soluzione trovata da regista e produzione è una costosa e laboriosa doppia versione del film: una in presa diretta nel dialetto stretto baarioto, l’altra doppiata in italiano o nel siciliano cinematografico. «Tipo Nuovo Cinema Paradiso – diceva Tornatore alla vigilia dell’uscita in sala di Baarìa –. Così, la versione in dialetto uscirà solo in Sicilia e in tutti i mercati esteri con i consueti sottotitoli che ciascun Paese utilizza per la diffusione delle pellicole straniere. L’altra versione, in italiano, uscirà da Reggio Calabria a Bardonecchia, ma senza sottotitoli». In Sicilia la versione originale, la stessa che sarà vista in Francia, negli Stati Uniti, in Giappone o in Venezuela. Nel resto d’Italia una versione addolcita e smussata. Al punto tale che viene da chiedersi se la Sicilia sia una regione straniera dove si parla la stessa lingua che, sia pure con i sottotitoli, viene compresa nel resto del mondo. In realtà, facendo leva sulle differenze alle quali abbiamo accennato, il film suona in bagherese nella penisola continentale italiana, in lingua baariota nell’isola e all’estero. Ma chi ha visto entrambi gli adattamenti e capisce il baarioto sa la forza dell’originale. Il bagherese cinematografico non restituisce sfumature, violenza e espressività del baarioto stretto. Provate a confrontare, nelle due lingue, la scena di Salvatore Ficarra che va in farmacia a chiedere a quel grandissimo attore che è Gigi Burruano il veleno per uccidersi. In bagherese è molto divertente, ma in baarioto è amara e irresistibile. 220­­­­

Ho provato a fare un esperimento con un’altra scena del film. Peppino Torrenuova, il protagonista interpretato da Francesco Scianna, è appena tornato dalla Russia dopo un viaggio organizzato dal Partito comunista per i suoi funzionari. Ma è taciturno, meditabondo. Nella sera della festa di San Giuseppe, durante una passeggiata per il corso, l’amico Onofrio gli chiede com’era l’Unione Sovietica. E Peppino risponde: «Ho visto cose terrificanti». Questa la frase doppiata in bagherese, ascoltata nei cinema della penisola. Le parole di Peppino Torrenuova sono allo stesso tempo troppo vaghe e troppo precise. Vaghe perché «cose terrificanti» significa tutto e niente. Troppo precise, perché attribuiscono a Peppino, comunista siciliano negli anni Cinquanta, una capacità critica, uno spirito di osservazione e un distacco dalla patria del comunismo mondiale abbastanza inverosimili. Peppino giunge a conclusioni che per gran parte dei comunisti italiani saranno chiare solo dopo il rapporto Krusciov su Stalin, dopo la primavera di Praga soffocata dai carri armati, dopo lo strappo berlingueriano dall’Urss. Un po’ troppo, no? Ma rivediamo la stessa scena in baarioto. È sempre la sera della festa, Peppino Torrenuova passeggia silenzioso accanto al suo amico. E alla domanda su com’è l’Unione Sovietica, risponde: «Nofriu, vitti cùosi c’arrìzzanu ’i carni...». Letteralmente: ho visto cose che fanno accapponare la pelle. In baarioto cambia tutto. Non sappiamo cosa abbia visto Peppino: il suo giudizio non è su questo, ma su ciò che ha provato. Forse non ha visto niente – durante un viaggio organizzato dal Pci in accordo con le autorità sovietiche è probabile che gli abbiano mostrato solo quello che faceva comodo ai russi – ma ne ha comunque ricavato una sensazione da brivido. Terrificante non è la realtà delle cose, ma la reazione di Peppino. Siamo un passo indietro rispetto alla coscienza critica e politica, perché il baarioto mantiene la frase nel campo del pensiero personale percosso dal dubbio, turbato dall’inquietudine. 221­­­­

In bagherese la frase è banalmente oggettiva, in baarioto è drammaticamente soggettiva. A Renato Guttuso fecero una domanda: lei è bagherese o baarioto? Rispose così: «Non so quale sia la differenza, ma io sono baarioto». La stessa domanda, nel settembre 2011, è stata rivolta dal giornalista Tano Gullo di «Repubblica» a Ferdinando Scianna. E il fotografo precisava: «Anche io. Ma forse so perché: bagherese riecheggia una definizione italiana, omologabile, baarioto ribadisce quel concetto di unicità». Il bagherese come omologazione dell’esperanto baarioto. Chi ha lingua passa il mare, si dice in Sicilia. La lingua come ponte per superare ogni ostacolo, differenza, confine. Il bagherese parla agli italiani, il baarioto può parlare a tutti. Il manoscritto impossibile Alla fine del 1968 un bracciante agricolo semianalfabeta di Chiaramonte Gulfi decide di battere su una vecchia Olivetti la propria autobiografia. Pagina dopo pagina per molti anni – c’è chi dice sette, c’è chi dice tre, c’è chi dice per tutta la vita, fino a pochi giorni prima della sua morte nel 1981 – l’uomo, giorno dopo giorno, al riparo dagli sguardi dei familiari, stende su fogli senza margini, a interlinea zero, con punti e virgola che dividono ogni parola dall’altra, in una lingua impastata di siciliano e italiano, il proprio romanzo individuale. Ne vengono fuori 1027 pagine dattiloscritte che, dopo la morte del suo autore, restano in un cassetto. Fin quando, nel 1999, non vengono inviate all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. L’anno successivo quello zibaldone vince il Premio Pieve-Banca Toscana. L’autobiografia di Vincenzo Rabito viene alla luce come un’opera monumentale, per la testardaggine e la tenacia della sua compilazione. Ma dentro quel dattiloscritto c’è molto di più. Vincenzo Rabito, classe 1899, ha voluto lasciare nero su bianco testimonianza della sua «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» vita. La motivazione del premio dice: «Vivace, irruenta, non 222­­­­

addomesticabile, la vicenda umana di Rabito deborda dalle pagine della sua autobiografia. L’opera è scritta in una lingua orale impastata di sicilianismo, con il punto e virgola a dividere ogni parola dalla successiva. Rabito si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia, con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da poter essere paragonata a un Gattopardo popolare». Eppure, c’è un problema: la lingua e la scrittura di Rabito risultano intraducibili, addirittura incomprensibili. «Il capolavoro che non leggerete», dice uno dei giurati del premio. Dovranno passare sette anni prima che una versione ridotta e resa leggibile, lasciandone comunque intatta la lingua potente e straordinaria di Rabito, venga pubblicata da Einaudi, curata da Evelina Santangelo e Luca Ricci, con il titolo Terra matta. «Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita su molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare». Questo è l’esordio fulminante e straniante del romanzo di una vita. Il libro è un successo, viene trasposto sulla scena teatrale da Vincenzo Pirrotta e diventa un film di Costanza Quatriglio. Quella lingua incanta. Ma che lingua è? Non è italiano, non è siciliano. È una lingua unica: il rabitese. «Nessuno certamente – ha spiegato nel gennaio 2008 Giovanni Rabito, figlio di Vincenzo, durante un convegno a Chiaramonte Gulfi – gli aveva insegnato i segni ortografici, per esempio, né come si usano, o la grammatica, o come si mette insieme 223­­­­

correttamente una frase o un periodo, o come si racconta con ordine e via discorrendo. Tutto questo deve aver costituito una scoperta continua e una delle fonti di quell’intenso piacere intellettuale che deve aver necessariamente provato nello scrivere. Alberto Asor Rosa, mi pare, ha già notato una specie di impeto sperimentale nella scrittura di mio padre, come di un esploratore che si butta disperatamente alla scoperta di un territorio sconosciuto e strada facendo ne traccia la mappa, marcando i punti più salienti per non perdersi, e provando persino ad arrivare ai confini più estremi, finché non sopraggiunge la morte a interrompere il suo avventuroso tentativo». Se le lingue di Camilleri e o di Consolo sono elaborazione letteraria sul calco del dialetto, possiamo dire che quella di Rabito è invece una lingua spontanea e non mediata? Forse no, come spiega il figlio Giovanni: «Lui normalmente parlava il dialetto chiaramontano corrente, quello dei coetanei col suo livello di cultura o di mia madre, un po’ più arcaico certamente del nostro – noi figli, intendo, che appartenevamo ormai a una generazione già abbondantemente contaminata dall’italiano scolastico e televisivo – ma tutto sommato si può dire che il suo linguaggio apparteneva alla nostra stessa categoria. Il suo era infatti un eloquio assai ordinario, molto efficace quando era necessario ma sempre semplice e mai ricercato». Vincenzo Rabito sceglie invece per la scrittura un’altra lingua, che non è più il suo dialetto, ma che non è ancora l’italiano: ne viene fuori «una sorta di Finnegans Wake siculproletaria». C’è un precedente abbastanza simile, in verità, ma più esile nel formato e con alcune varianti siculo-americane. È il toccante libro La spartenza di Tommaso Bordonaro, contadino semianalfabeta di Bolognetta emigrato negli Stati Uniti, che anche lui con una lingua personalissima raccontava del lacerante distacco dalla Sicilia («Dolorosa e straziande è stata la spartenza», perché ancor più amara di una semplice partenza). Ma torniamo a Rabito. Davanti alla sua Olivetti, in silenzio e all’insaputa dalla famiglia, Vincenzo si confrontava con 224­­­­

qualcosa di nuovo. Possiamo dire che «inventava» o «scopriva», pagina dopo pagina, il suo linguaggio, usando gli strumenti che aveva a disposizione: la licenza elementare presa a 35 anni, una vocazione di narratore orale, parole rubate al Conte di Montecristo (unico libro che avesse mai letto), orecchiate dalla radio o dalla tv, sottratte alle conversazioni dei figli o di altri che avessero nozioni grammaticali e sintattiche più ortodosse. L’impasto linguistico – o il pastiche – è sensazionale: la parola distorta e contorta, riassume sonorità antiche e allo stesso tempo inedite. E nelle righe di Terra matta sembra di risentire il ticchettio della macchina da scrivere, il tasto premuto con un solo dito, parola dopo parola, senza virgole né punti né a capo: epopea di un diseredato che, a nome di tutti i diseredati, conquista la sua lingua per comunicare agli altri. E questa lingua è veramente un esperanto nuovo e complesso e coinvolgente. È la lingua dei poveri, di quelli che non hanno mai avuto «coccio della lettera», come si dice dalle mie parti, cioè capacità o possibilità di saper leggere le carte scritte che portavano sempre e solo cattive notizie: tasse, leva, prigione. All’italiano severo della legge superiore, Rabito contrappone il suo lessico personale e familiare che si fa universale.

Era di maggio

Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Giovanni Falcone

Nato il 23 maggio, c’era scritto sulla copertina di «I Love Sicilia», numero 21, primavera 2007. In primo piano, la foto di un ragazzo dagli occhi azzurri. Sullo sfondo, leggermente sfocata, l’immagine celebre di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino scattata da Tony Gentile. In questo modo il mensile fondato da Francesco Foresta ricordava i primi quindici anni dalle stragi. Roberto Puglisi, cronista abile nel dare conto delle emozioni, era andato a casa di Leandro Scandaglia, nato la sera del 23 maggio 1992, come altri quarantatré bambini palermitani venuti alla luce proprio nel giorno che entrò nella storia sotto l’urto di cento chili di tritolo. Ha quindici anni Leandro Scandaglia. È nato a Palermo il 23 maggio del ’92 con altri quarantatré compagni di volo e di culla. Una spolverata di vita. Un dono delle cicogne al cospetto della morte. Incapace di compensare il gusto amaro del lutto. Ma forse in grado di consegnare una illusione di zucchero – di quelle forme friabili e finissime che si mettono sulla torta del buon compleanno – da mescolare alle lacrime. «Da bambino sentivo parlare spesso di Giovanni Falcone. Pensavo che fosse un mio parente, uno zio. Ho chiesto spiegazioni e mi hanno spiegato tutto». Leandro somiglia a Harry Potter, però senza occhialini. Per raccontare i suoi primi quindici anni, ha voluto solo il cronista nella sua stanza. Papà e mamma si sono delicatamente 226­­­­

rintanati in cucina, nella casa di via Lenin Mancuso. Un altro nome crivellato che attraversa il cammino. Le coincidenze sanno compiere fantastici giochi di prestigio. Perché questa incursione nella cameretta di un adolescente che non ricorda e non sapeva? Cosa potrebbe dire Harry Potter? Quale magia saprebbe escogitare per cacciare via le streghe di quel 23 maggio, impossibile da cancellare? Forse solo una. Respirare e basta. Accarezzare col suo esserci le macerie di un giorno condannato altrimenti per sempre alla signoria della tristezza. Mentre Giovanni Falcone moriva, qualcuno nasceva. Un vagito contro il pianto sulla strada per Capaci.

Ben poco poteva raccontare Leandro Scandaglia del 1992. Di più potevano raccontare i suoi genitori che passarono quella sera di travaglio «con un occhio al televisore e alla strage». Ma anche questo significa nascere a Palermo il 23 maggio del 1992: restare agganciati a una data luttuosa, segno della sconfitta dello Stato, ma allo stesso tempo inizio di una possibile rinascita. La bizzarria del caso voleva che Leandro abitasse in via Lenin Mancuso, il nome del poliziotto di scorta del giudice Cesare Terranova, entrambi uccisi a Palermo da Cosa Nostra il 25 settembre 1979. Leandro compie il suo compleanno nel giorno in cui Palermo ricorda la strage di Capaci, con manifestazioni ogni anno più commemorative, mentre inevitabilmente si allontana il dolore della memoria. Palermo, come Leandro, resta agganciata a quella data, a quell’anno. La riprova, se si vuole, sta nel fatto che nel palazzo di giustizia palermitano si trascina un processo sulla «trattativa» che punta a svelare gli accordi segreti tra uomini di Cosa Nostra e uomini dello Stato risalenti proprio al 1992. Un’inchiesta e un processo che hanno fatto scrivere molti altri libri, per sviscerare gli aspetti torbidi di quella vicenda, capace anche a distanza di decenni di riaprire vecchie ferite e nuovi scontri politici. Trattativa sì o no? La questione ha occupato per mesi le pagine dei giornali, smuovendo giornalisti come Marco Travaglio e registi come 227­­­­

Sabina Guzzanti (pronti a dimostrare l’esistenza della trattativa, con saggi e film), o storici e studiosi come Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca (decisi a negare l’esistenza della trattativa o quantomeno a dichiararne l’irrilevanza processuale). Il 1992 segna il prima e il dopo, il momento fondativo della vittoria o della sconfitta dello Stato sulla mafia. Pure in questo libro, non a caso, è stato scelto il 1992 per fissare il punto di partenza di un ragionamento. Perfino una parte della classe dirigente siciliana si è selezionata nel sangue e nel martirologio culminato nel 1992 con le stragi di Palermo. Al punto tale da definire gli assetti istituzionali degli anni Dieci del Duemila con l’elezione alla presidenza della Repubblica di Sergio Mattarella – fratello di Piersanti, il presidente della Regione Sicilia ucciso il 6 febbraio 1980 – e con l’elezione a presidente del Senato di Piero Grasso, il giudice a latere del maxiprocesso costruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con il pool antimafia dei magistrati palermitani. Gli anni di piombo siciliani – quelli dei Mille morti di Palermo, come ben racconta Antonio Calabrò nel suo libro, rassegna ragionata di ammazzamenti e ammazzatine siciliane dal 1979 al 1992 – hanno segnato un confine etico che ha deciso carriere e successi politici, ma ancor meglio l’identità istituzionale di una parte d’Italia che è diventata preminente. Palermo e la Sicilia – l’Italia intera – si arrovellano attorno a quell’anno. Anno di mafia e di stragi a Palermo, di arresti e di manette a Milano. Sky gli ha dedicato una serie televisiva che si intitola proprio 1992, ambientata nella Milano di Tangentopoli, ma costellata da echi e rimandi palermitani. Quando finirà il 1992? Cronologia Per Leandro, che ormai ha ventiquattro anni, e per tutti quelli che non c’erano o che non ricordano, provo a mettere giù una breve cronologia dei fatti del 1992 relativi a Palermo, 228­­­­

aiutandomi con le informazioni offerte dal sito Misteri d’Italia, diretto da Sandro Provvisionato, giornalista che da anni si occupa con competenza dei grandi fatti oscuri di cronaca nera e giudiziaria. 30 gennaio – La Cassazione conferma il «teorema Buscetta» sull’unicità di Cosa Nostra e conferma gli ergastoli per i boss mafiosi condannati nel maxiprocesso. 12 marzo – A Mondello, la località balneare di Palermo, viene ucciso Salvo Lima, eurodeputato DC, andreottiano. 4 aprile – Agrigento. Assassinio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli. 23 maggio – Palermo. Strage di Capaci. Una carica di esplosivo uccide Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta, i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. 19 luglio – Palermo. Strage di via D’Amelio. Un’autobomba uccide Paolo Borsellino, procuratore aggiunto, e cinque uomini della sua scorta, i poliziotti Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano, Walter Cosina e Claudio Traina. 21 luglio – Catania. Agguato mortale per l’ispettore di polizia Giovanni Lizzio. 17 settembre – Palermo. Omicidio di Ignazio Salvo, ex proprietario delle esattorie siciliane, legato a Salvo Lima. 3 dicembre – Palermo. A seguito delle accuse rivoltegli da alcuni pentiti si uccide Domenico Signorino che, con Giuseppe Ayala, aveva sostenuto la pubblica accusa nel maxiprocesso a Cosa Nostra. 23 dicembre – Viene arrestato Bruno Contrada, numero uno del Sisde in Sicilia, accusato da un gruppo di pentiti di essere complice della mafia. 15 gennaio 1993 – Arrestato a Palermo Totò Riina, capo dei capi di Cosa Nostra.

Naturalmente questa rapida cronologia non tiene conto delle dimissioni del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, dell’elezione del nuovo presidente Oscar Luigi Scalfaro sull’onda emotiva della strage di Capaci, dell’arresto di 229­­­­

Mario Chiesa a Milano e dell’avvio dell’inchiesta Mani Pulite, che travolgerà presto il Partito socialista e la Democrazia cristiana. Ma già i fatti di Palermo offrono il quadro di un ritmo incalzante di eventi tragici e terribili. Per Leandro quell’anno sarà indimenticabile, anche se ne ricorda ben poco. Ma per tanti altri ragazzi, un po’ più grandi, diventerà l’anno di passaggio, il drammatico salto dall’età dell’innocenza all’età adulta. Linea d’ombra segnata dal sangue che, ancora oggi, viene raccontata in modi diversi ma, quasi sempre, come un momento di consapevolezza collettiva di cosa fosse Palermo e cosa fosse diventata la Sicilia. È ovvio che chi c’era, come testimone di quei giorni, ne ha memoria vivida – c’ero anche io, nella chiesa di San Domenico mentre Rosaria, vedova dell’agente Vito Schifani, lanciava la sua invettiva «mafiosi vi perdono, ma inginocchiatevi», e vi assicuro che era difficile non avere le lacrime agli occhi; così come c’ero nella cattedrale di Palermo quando, dopo la strage di via D’Amelio, i colleghi dei poliziotti uccisi presero a schiaffi e a male parole le più alte cariche dello Stato, a partire dal presidente della Repubblica, e vi assicuro che ribolliva il sangue dalla rabbia per quei ragazzi saltati in aria, perché nessuno li aveva veramente protetti. Ma, al netto dei ricordi e dei sentimenti, cosa ha prodotto nel tempo la memoria di quell’anno, di quella lunga stagione spaventosa che non era cominciata né si è esaurita nel 1992? A distanza di tanti anni, i ragazzi del ’92 sono tornati a quel tempo e a quei luoghi, facendoli diventare altra cosa rispetto a chi li visse in presa diretta con consapevolezza adulta. Un sessantesimo di secondo La sera del 27 marzo 1992 la redazione del «Giornale di Sicilia» manda un fotografo a coprire, come si dice in gergo, un convegno all’ex Hotel Trinacria (lo stesso in cui Tomasi di Lampedusa ambienta la morte del principe di Salina). È un appuntamento legato anche alla presentazione della can230­­­­

didatura del giudice Giuseppe Ayala nelle liste del Partito repubblicano: a sostegno dell’ex pubblico ministero ci sono due suoi amici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Non è un evento di prima grandezza, ma solo un fatto di routine. Il quotidiano palermitano se ne occupa anche perché il condirettore del giornale coordina l’incontro. Il fotografo a cui tocca il compito di documentare la serata ha meno di trent’anni, fa il reporter da poco tempo, ha cominciato solo nel 1989, ma a Palermo si fa esperienza in fretta. Si chiama Tony Gentile, il fotografo. Facciamo parlare lui: «A volte puoi trovare la foto di una vita in un banale e noioso convegno. Ma bisogna coprire la notizia, ci sono personaggi che interessano la cronaca nazionale, e poi il mio giornale me lo ha commissionato. A un tratto, mentre un relatore parla, i due amici Giovanni e Paolo si avvicinano, bisbigliano qualcosa, e scoppiano in una fragorosa quanto imbarazzante risata. Non dura tanto, il tempo di un salto davanti a loro e scattare. Un sessantesimo di secondo è sufficiente per catturare un pezzo di storia». Un ricordo contenuto nel bel libro, di cui diremo tra poco, dedicato agli anni palermitani di Tony. Gentile torna in redazione, dopo aver sviluppato le foto. Il capocronista guarda la foto di Falcone e Borsellino, seconda di quattro scatti consecutivi: «Bravo, è carina, magari la usiamo un altro giorno». Sul giornale l’indomani appare un’altra foto, scattata dallo stesso Gentile durante il convegno. Meno di due mesi dopo, Falcone resta ucciso nell’attentatuni di Capaci. Gentile si ricorda di quella foto, la manda all’agenzia con la quale collabora: Paolo Borsellino ha raccolto il testimone dal suo amico Giovanni, si affanna nelle indagini, sente che il tempo scorre veloce, troppo veloce. E 57 giorni dopo la morte di Falcone, domenica 19 luglio, in via D’Amelio, Cosa Nostra fa saltare in aria Borsellino e la sua scorta. Il 20 luglio, in prima pagina su alcuni quotidiani nazionali come «Corriere della Sera» e «La Stampa», c’è la foto di Tony Gentile, scattata quattro mesi prima. Diventa subito un’icona. «Furono proprio le persone ad appropriarsene – ricorda 231­­­­

Gentile –, rendendola una icona, fotocopiandola, stampandola su magliette, diffondendola ovunque come un simbolo di lotta alla mafia». Ci sono molte ragioni per cui una foto diventa un simbolo, non sempre legate alla sua perfezione estetica. Vi contribuiscono il momento storico, la forza emotiva, il significato recondito. Secondo il grande fotografo Ferdinando Scianna, una delle ragioni sta anche nella riconoscibilità dell’immagine, che ne evoca altre che già esistono nella nostra memoria. In una bella conversazione a Milano con Gentile, organizzata nel 2015 dalla Fondazione Trame di Lamezia Terme, Scianna sosteneva che la foto di Falcone e Borsellino richiamava un dettaglio dell’Ultima cena di Leo­ nardo da Vinci. La foto di Gentile racconta in un solo scatto il 1992, l’amicizia di due uomini dello Stato e la loro morte per mafia a distanza ravvicinata. Nel libro curato da Giuseppe Prode La guerra, una storia siciliana, Tony Gentile ha raccolto le sue immagini della Sicilia nei paraggi di quell’anno. E ha voluto che le foto, compresa la più famosa, venissero introdotte da un racconto scritto da Davide Enia, autore e protagonista del teatro di narrazione. Il primo suono è in dialetto. È ripetuto da mio padre in continuazione, in un’ossessione circolare. Il dialetto è il palermitano. Il primo suono è s’asciucò. L’aria è straziata da sirene, mio padre è il mondo in frantumi, il tempo trasuda sangue. È Palermo, è il 1992 e questo è tutto.

Comincia così il testo di Enia che nel 1992 aveva diciotto anni. Ed è il racconto di cosa significhi crescere a Palermo, con il primo morto ammazzato incontrato a sei anni tornando da scuola. È un racconto pieno di immagini, sogni, amori, pensieri. Un brano toccante in cui tutti i fatti precipitano verso il gorgo di un pomeriggio di maggio. Poi sento che mio padre mormora qualcosa, ma è più un rantolo che altro. Sussurra s’asciucò, e lo ripete ancora e ancora e ancora. 232­­­­

Gli prendo la testa e la poggio sul mio petto, lo abbraccio e gli accarezzo la nuca. Senza dire nulla. Dalla sua bocca, un guaito disperato. «La mafia s’asciucò a Giovanni Falcone». E un senso di disperazione semplice e inconsolabile si impossessa di tutto. In tinello c’è la radio accesa. Arrivano le prime notizie. La voce del giornalista è rotta dall’emozione. Le sue parole hanno lo stesso andamento di quei soldati che, dopo un bombardamento, poggiano i passi sopra brandelli di carne morta. Il piede diventa un macigno quando è costretto ad affondare dentro i resti di altri essere umani. Ma questa è la guerra. Parole che feriscono solo ad essere pronunciate. Il giudice Giovanni Falcone è stato ammazzato dalla mafia in un attentato con una bomba in autostrada, sono morti con lui la moglie e gli agenti di scorta.

In coda al libro, Enia e Gentile conversano con Alessandra Galloni. «Da bambini – dice Enia – noi crescemmo per strada e uno degli aspetti più sintomatici del clima malato di quel periodo era il fatto che per tutti era ‘normale’ che potesse scapparci il morto, era ‘normale’ che le pistole sparassero nelle piazze. C’era una guerra, tutto qui, noi bambini non ne avevamo idea e ci giocavamo dentro. Così, con una naturalezza estrema, il linguaggio che apprendemmo fu quello della violenza». La mafia uccide solo d’estate In una sera d’estate del 2012, su un lettore dvd che fa le bizze, si blocca e riparte a singhiozzi, finisco di vedere il film al quale sta lavorando da mesi Pierfrancesco Diliberto. È una copia grezza, in alcuni punti ci sono cartelli neri con una scritta – scena funerali di dalla Chiesa, televisione con immagini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Allora, che te ne 233­­­­

pare?», mi chiede Pierfrancesco. È rimasto per tutto il tempo a scrutare le mie reazioni, soffrendo e contorcendosi quando il dvd si inceppava e ripartiva solo a pugni. Sono spiazzato. Emozionato e spiazzato. Conosco Pier­ francesco da quando era ragazzino, nel 1988 avevo lavorato con suo padre Maurizio per un documentario sulla valle del Belìce e a volte ci portavamo dietro questo sedicenne col suo passo ciondolante e un po’ svogliato. L’avevo ritrovato, anni dopo, come personaggio televisivo nelle Iene con il nomignolo di Pif e autore della trasmissione cult di Mtv Il testimone. Ora, il primo film. E che film. «Non so se sarà un successo, il pubblico è capriccioso – gli dico –, ma hai fatto una grande cosa: è il primo vero film sulla nascita della coscienza antimafiosa di un’intera generazione». Non ci voleva molto a capire che Pif aveva fatto un buon lavoro, non sono particolarmente esperto di cinema. Ma la verità era che il film di Pif ribaltava lo schema classico dell’agiografia televisiva sugli eroi martiri buoni e sui mafiosi belve crudeli. Qui, attraverso lo sguardo di un bambino, Pif riusciva a mostrare Carlo Alberto dalla Chiesa, Boris Giuliano e Rocco Chinnici da un’angolatura molto intima e umana, mentre Totò Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano venivano descritti come dei macellai goffi e ignoranti, in definitiva ridicoli. Sanguinari, ma ridicoli. La storia di Arturo, il protagonista del film La mafia uccide solo d’estate, si intreccia fin dalla nascita ai fatti di mafia. Le prime scene raccontano il suo concepimento nella stessa sera, nello stesso momento e nello stesso edificio di viale Lazio a Palermo in cui un commando mafioso semina strage per eliminare il boss Michele Cavataio (10 dicembre 1969, cinque morti). Non sorprende più di tanto, se pensiamo a Leandro che nasce mentre muore Falcone. Il resto della vita di Arturo si svolge e si intreccia con una Palermo segnata da attentati, omicidi, autobombe, nel disinteresse apparente della città, che osserva indifferente e alza le spalle. Alle domande candide di Arturo, vengono offerte risposte rassicuranti o minimiz234­­­­

zanti. «Ma la mafia ucciderà anche noi?», chiede Arturo a suo padre. «Tranquillo. Ora siamo d’inverno? La mafia uccide solo d’estate». Palermo va avanti, digerendo i suoi morti. E Arturo cresce, non sapendo o facendo finta di non sapere. È un abitante di quella «palude» raccontata da Giampaolo Pansa che, a metà degli anni Ottanta, nei giorni dell’apertura del maxiprocesso a Cosa Nostra, provava a descrivere la Palermo ignava che stava a guardare dal balcone la guerra tra la mafia e lo Stato per stabilire il vincitore. «Tanto si ammazzano fra di loro», dice qualcuno nel film. E lo dicevano in tanti a Palermo. Solo nel 1992 Arturo aprirà gli occhi: davanti al cadavere di Salvo Lima, l’uomo politico per il quale lavora Flora, la ragazza di cui è innamorato. Davanti alla strage di Capaci. Davanti ai funerali rabbiosi in cattedrale per i cinque agenti di scorta di Paolo Borsellino dilaniati dall’esplosivo. E su quelle immagini, abilissima integrazione tra le riprese reali d’epoca e gli inserti della fiction cinematografica, Arturo e Flora prendono coscienza e diventano adulti. Pierfrancesco Diliberto è nato nel 1972, nell’annus horribilis era un ventenne forse distaccato e cinico come molti suoi coetanei di Palermo, avvezzi ai morti e alle cronache grondanti piombo della città che, ormai sempre più amaramente, era chiamata un tempo «felicissima». Il suo film è la narrazione ironica – ma con alcuni pugni allo stomaco – di una città e di una generazione che improvvisamente veniva scagliata nel cuore nero di una lotta ultradecennale tra Stato e Antistato, nella quale sembrò che stesse per vincere Cosa Nostra. «Credo che ci siano volute le stragi per far capire ai ventenni di allora, come me, cos’era la mafia a Palermo», diceva Pierfrancesco nell’autunno 2013, intervistato da me per «I Love Sicilia», alla vigilia dell’uscita del film. «Fino a quel momento, nonostante i morti e gli attentati, l’antimafia era una cosa che riguardava piccole minoranze. Nella mia famiglia, come in moltissime altre, quando ero bambino, si diceva: si ammazzano fra di loro, a noi non ci riguarda. Da una parte i 235­­­­

giudici e i poliziotti, dall’altra i mafiosi: era una guerra loro, privata. Ma dopo il ’92, dopo la sconcerto per la morte annunciata di Borsellino, allora si capì che bisognava reagire». Il film fu un successo. Il presidente del Senato Piero Grasso, magistrato antimafia a Palermo negli anni tragici, commentò: «È il film sulla mafia più bello che abbia mai visto». Quasi cinque milioni di incasso nelle sale, David di Donatello e Nastro d’Argento a Pif come miglior regista esordiente, e uno spin-off che nel 2016 è diventato serie tv per la Rai. Un film è un film e ricostruisce «qualcosa – scrive Anna Bisogno, docente di cultura della comunicazione, nel libro Novantadue, l’anno che cambiò l’Italia, curato da Marcello Ravveduto per Castelvecchi – della realtà sociale e del clima culturale entro cui, in un momento dato, si situa e si svolge la quotidianità; ed è del tutto plausibile attribuire una speciale ‘eloquenza’, sotto questo profilo, alle storie di grande successo, quelle più efficaci nel ‘convocare’ una larga comunità di spettatori, che presta loro ascolto e, presumibilmente, vi si riconosce». Ma, al di là del film, cosa resta della generazione del 1992? «Certo, dopo ci sono stati Cammarata e Cuffaro», commenta Pif, parlando dell’ex sindaco di Palermo Diego Cammarata e dell’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro, condannato per favoreggiamento alla mafia. «E allora uno si chiede: dov’è finita tutta quella gente che era scesa in piazza? Per chi ha votato? Ma il problema è sempre quello: incazzarsi una volta è facile, ma rimanere incazzati per vent’anni è faticoso. È difficile fare ogni giorno la lotta alla mafia». Sentire mafioso È difficile combattere contro la mafia. Ma era ancora più difficile accorgersi della sua esistenza, se si era cresciuti in alcuni posti della Sicilia. E poi lo dicevano tutti: la mafia non esiste. Lo dicevano giudici, politici, cardinali. Lo dicevano i mafiosi stessi. Gerlando Alberti, boss del traffico di stupefacenti, esclamava stupito: «Mafia? Cos’è? Marca di formaggi?». Nel 236­­­­

1989 un gruppo di docenti di psicologia di Palermo raccoglieva una serie di saggi sotto il titolo Il sentire mafioso. Percezione e valutazione di eventi criminosi nella pre-adolescenza. In questo e in altri studi, il professor Franco Di Maria e i suoi colleghi spiegavano che «il sentire mafioso è una modalità di costruzione della mentalità che appartiene all’orizzonte di saturazione di un pensiero che non riesce ad accettare la diversità, a valorizzare l’Altro, a vivere la cultura di gruppo come forma di relazione e di organizzazione del proprio Sé». Se così stanno le cose, allora «lo scontro con il sentire mafioso, in senso psicologico, è scontro tra la matrice familiare e la fondazione del senso di comunità». Per dirla in parole poverissime: chi cresce in clima di mafia deve rompere traumaticamente con la cultura familiare per diventare cittadino a pieno titolo. In fondo, è la stessa dinamica del film di Pif. Rompere con la famiglia, diventare adulti, a Palermo e in Sicilia significava rompere con la cultura familiare mafiosa o quantomeno complice, nei silenzi e nelle omissioni. Ecco perché il romanzo di formazione siciliano, e maggiormente palermitano, passa attraverso le guerre di mafia per raccontare il superamento della linea d’ombra tra l’adolescenza e la maggiore età. E la ricorrenza decennale delle guerre di mafia (la prima guerra di mafia della fine degli anni Sessanta, la seconda guerra di mafia agli inizi degli anni Ottanta, la stagione delle stragi dei primi anni Novanta) ha offerto a più generazioni la possibilità di forgiarsi nel sangue e nel piombo di Cosa Nostra. Estate 1982, che estate – io e Antonio su un motorino che svalanga, le bocche serrate per non ingoiare i tafani, i capelli a filtrare il vento (li portavamo scompigliati)... Un’estate da dimenticare, diranno tanti – troppe campane a lutto, le cronache sempre a un passo dalla verità, i giornalisti e i fotografi d’assalto a spiare come i casteldaccesi respiravano – ma non per noi, quell’estate (sedici anni io, Antonio diciassette) era sentirsi nel pieno di un film d’azione, la seconda guerra di mafia segnava di croci il calendario di agosto – una guerra da libro di storia come i conflitti mondiali, le guerre d’indipendenza, i genocidi colonia237­­­­

li! – nell’aria il racconto corale di famiglie sterminate, le auto e le motociclette a tessere trappole nella caccia all’uomo; tre morti al giorno, era sentirsi vivi in mezzo a eventi che avrebbero marchiato Casteldaccia, Bagheria, Altavilla – i giornalisti li posero ai vertici di un recinto di bestie, il «triangolo della morte»!

Giorgio D’Amato è di Bagheria e aveva veramente sedici anni nell’estate del 1982. Trent’anni dopo i ricordi, composti con documenti giudiziari e la storia dell’amicizia di due ragazzi, diventano il suo romanzo L’estate che sparavano, pubblicato da Mesogea. Omicidi, strangolamenti, lupare bianche, quindici morti in pochi giorni nel cosiddetto «triangolo della morte» compongono il truculento sfondo nel quale si muovono i due protagonisti. La morte come gioco diventerà una certa consapevolezza che raggiunge il culmine in una manifestazione antimafia di studenti che però poco lascia, se non «il piacere di avere saltato una giornata di scuola dentro una pagina di calendario». In realtà, la mattanza mafiosa divide le vite dei due amici quando Antonio decide di lasciare Bagheria e la sua «gente malata che non muore mai, ma nemmeno guarisce». La mafia in casa Sentire mafioso nella famiglia di mafia. Famiglia di sangue, da distinguere dalla famiglia creata per giuramento con la santina bruciata nella mano e la formula di rito: «Giuro di essere fedele a Cosa Nostra, se dovessi tradire le mie carni devono bruciare, come brucia questa immagine». Nel 2007 Giacomo Cacciatore, giornalista e scrittore nato in Calabria ma residente da sempre a Palermo, pubblica per Einaudi il suo secondo romanzo Figlio di Vetro. Nel precedente, L’uomo di spalle, aveva raccontato di un ragazzino di sette anni che accompagna il padre alla Vucciria e non lo rivedrà mai più perché l’uomo, piccolo delinquente, è stato inghiottito dalla lupara bianca mafiosa: il romanzo sviscera il rapporto morboso che da quel momento si scatena tra madre e figlio. Nel nuovo libro, Cac238­­­­

ciatore mette al centro sempre un bambino, Giovanni, nove anni nel 1977 – la stessa età dell’autore –, figlio di un poliziotto venduto a Cosa Nostra. Il bambino scoprirà col tempo la doppia vita del padre, una doppia vita anche sentimentale perché l’uomo ha due famiglie e figli diversi da due donne. Il percorso del racconto si snoda dalla prima guerra di mafia alla strage di Capaci («L’autostrada non sembra più un’autostrada. È un pesce che si è capovolto sul vassoio. Ha sparso viscere da uno squarcio, ha sbalzato tutto quello che ci stava sopra. Sul tronco di un albero si è attaccato un rettile. Guardi meglio, è la carcassa di una macchina. Ci sono altri relitti, coperti con teli che hanno il colore delle divise dei soldati in guerra. Un elicottero sorvola la zona»). Sentire mafioso. Dentro la famiglia. Fuori dalla famiglia. «Da tempo mi arrovello – confessava l’autore a Salvatore Ferlita per «Repubblica», all’uscita del romanzo – sulla struttura della famiglia siciliana: sul suo essere nido, luogo di sano sviluppo per i figli, focolare per le buone relazioni tra coniugi, oppure scatola chiusa che genera mostri». Ricordate cosa scrivevano gli psicologi palermitani? Scontro tra matrice culturale e fondazione del senso di comunità. «Quello che ho cercato di fare nel romanzo – spiegava Cacciatore – è stato una sorta di parallelismo tra la cosca e la famiglia naturale. I meccanismi non sono simili nei risultati, ma spesso in una famiglia sbagliata ci scappano i morti, diciamo così, psicologici. Cosa accade, mi sono chiesto a un certo punto, quando in una famiglia qualcuno non dice la verità: cosa ne deriva? Attenzione però: non voglio avallare una sorta di perversa equazione cosca uguale nido familiare. In certi casi, però, le convergenze non sono poche». Di nuovo Arturo Si chiama Arturo il personaggio di Pif, alter ego di se stesso, ispirato al nome del figlio di due amici di Pierfrancesco. Si chiama Arturo anche il personaggio di Corrado Fortuna (at239­­­­

tore palermitano, esordiente nel film del 2002 di Paolo Virzì My name is Tanino) nel suo primo romanzo, Un giorno sarai un posto bellissimo, che esce nel 2014 per Baldini & Castoldi. Titolo ricalcato su quanto Paolo Borsellino disse nei primi giorni di luglio del ’92 a Rosaria Schifani, vedova dell’agente Vito, ucciso a Capaci – frase riportata nel libro Vi perdono ma inginocchiatevi scritto con il giornalista Felice Cavallaro: «Questa terra diventerà bellissima. Non bisogna abbandonare la Sicilia perché questa terra diventerà bellissima». Quel ’92 torna nel romanzo di Fortuna come una delle date cruciali, in un andirivieni tra prima e dopo lungo trent’anni. L’età dei protagonisti del romanzo, Arturo Buonocuore e Lorenzo Riccobono, ricalca quella dell’autore, nato nel 1978, sedici anni nel 1992: tra Arturo e Lorenzo, quest’ultimo figlio di un notabile mafioso, un’amicizia che risale alle scuole elementari e l’amore comune per Silvia. Non faccio che pensare alle parole che Lorenzo mi ha detto ieri: «Ha detto Silvia che domani ti chiama». Questo 23 maggio 1992 me lo ricorderò per tutta la vita: ieri la perquisizione a casa di Lorenzo, che se ne andrà oggi, chissà per quanto, poi il pianto dirotto a casa dei miei.

Vent’anni dopo, nel tempo reale del libro, Arturo, Lorenzo e Silvia, si ritrovano di nuovo assieme a Palermo. Saldano il conto con il passato, aggravato in Lorenzo dal fatto di essere figlio di un mafioso, andando a risolvere un mistero che è la chiave della trattativa tra Stato e mafia: dov’è finito il piatto d’argento, regalato da un potente politico democristiano ex presidente del Consiglio, per il matrimonio dei genitori di Lorenzo? (Un elemento preso a prestito dal processo per mafia a Giulio Andreotti. Gli inquirenti cercarono a lungo un vassoio d’argento regalato da Andreotti all’ex esattore mafioso Nino Salvo per il matrimonio della figlia: avrebbe dovuto essere una delle prove che il senatore a vita conosceva bene Nino e Ignazio Salvo). 240­­­­

Romanzo di passaggio anche questo, ma con l’agrodolce dell’occasione mancata. Quando eravamo piccoli, questa città era stupenda. O almeno sembrava stupenda. Ma solo perché eravamo piccoli. Dopo le bombe e le stragi del ’92, io mi sono perso gli anni migliori. Gli anni dei lenzuoli bianchi appesi in tutti i balconi della città, gli anni delle fiaccolate, della rabbia e della resistenza dei palermitani, della famosa primavera: deve essere stata una stagione bellissima... Ma quanto è durata? Questo posto è ritornato quello di quando eravamo piccoli, con la differenza che non si spara più a cazzo di cane, in giro per le strade. Ma mi sembra che alla fine ai palermitani piaccia così la città, coperta da uno strato di polvere e sale, come Cartagine rasa al suolo dai Romani. Perché nulla possa nascere sulle ceneri della nostra sconfitta.

La linea d’ombra si lascia dietro le ombre di una giovinezza perduta. I ragazzi del ’93 «Quello che mi colpisce è che, nonostante i risultati delle classifiche, è come se io non esistessi. Vengo sistematicamente ignorato». Si lamentava così Alessandro D’Avenia, sulle pagine del «Giornale». Era il 2013, aveva già venduto un milione di copie, in diciannove Paesi, del suo primo romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue, best seller Mondadori, e anche il suo secondo libro, Cose che nessuno sa, aveva scalato le classifiche. Eppure. «In questo momento – sbottava D’Avenia – ho due libri nei primi venti e c’è come paura ad avvicinarmisi troppo. Paura che sia costruito a tavolino. Troppo comodo. Scomodo è scoprire che sono davvero un professore di liceo che si fa il mazzo. Se tu oggi racconti vite di ragazzi fai un tipo di letteratura che non è nemmeno da prendere in considerazione. Potremmo rivedere anche questo concetto, quello della letteratura per ragazzi? Cos’è, un peccato? E siamo sicuri che racconti solo di ragazzi?». 241­­­­

Ma lasciamo da parte lo sfogo di un emarginato di successo. In quell’intervista di maggio 2013, il professor D’Avenia, insegnante di lettere in un liceo privato di Milano, bello, biondo e palermitano, racconta che sta scrivendo un nuovo romanzo: «Uscirà il prossimo anno, ambientato a Palermo nei primi anni ’90, quando c’erano le camionette coi sacchi di sabbia che sembrava Beirut. Con la morte di Borsellino, che veniva tutte le domeniche a messa nella mia parrocchia, e di padre Puglisi, il mio insegnante di religione, vissute da molto vicino». Sedici mesi dopo, infatti, arriva nelle librerie Ciò che inferno non è. Ancora una storia di ragazzi, di adolescenti sulla linea d’ombra («Che ne sanno i ragazzi di come si diventa uomini? Che ne sanno delle istruzioni per l’uso della notte, delle ombre, delle tenebre?»), nella lingua di D’Avenia che piace tanto a lettori e lettrici, ma fa storcere il naso agli intellettuali. Ma c’è qualcosa in più. Il protagonista del romanzo, Federico, studente modello del liceo classico Vittorio Emanuele II di Palermo, somiglia molto, troppo, ad Alessandro D’Avenia. E padre Pino Puglisi, il prete di Brancaccio, ucciso il 15 settembre 1993, è proprio lui, chiamato dai suoi studenti 3P. D’Avenia è nato nel 1977 a Palermo, ha frequentato il Vittorio Emanuele, ha conosciuto don Pino che per quindici anni, fino alla morte, ha sempre insegnato nel liceo classico affacciato sul giardino della cattedrale. «Era scritto nella mia carne – spiegava D’Avenia nel novembre 2014 ad Annarita Briganti di «Repubblica-Milano» – avendo vissuto in prima persona quella meravigliosa e tragica estate del 1993. Padre Puglisi era il professore di religione della mia scuola. Quando all’inizio del quarto anno non tornò in classe perché il 15 settembre gli avevano sparato, nella mia vita ci fu uno spartiacque». Ancora una volta, nello scrittore in teoria più lontano dal genere mafiologico, i misfatti di Cosa Nostra a Palermo segnano la transizione dall’adolescenza inconsapevole all’amarezza della maturità, collettiva e quindi politica. Strano 242­­­­

destino, ma in realtà per niente strano: l’autore di libri considerati light, narratore della sempiterna metamorfosi adolescenziale, custodisce un cuore tragico e tinto di nero. La cosa si spiega soltanto con il luogo di nascita: Palermo, la Sicilia, realtà fosche, capaci di incanalare la scrittura di D’Avenia negli argini di un dramma collettivo. Collettivo e urticante per i cattolici, come cattolico è D’Avenia, vicino all’Opus Dei: appena quattro mesi prima dell’omicidio a Palermo di don Pino, papa Giovanni Paolo II aveva lanciato dalla Valle dei Templi di Agrigento il suo anatema contro la mafia: «Dio ha detto una volta: non uccidere! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio». L’invettiva di papa Wojtyła del 9 maggio 1993, scagliata subito dopo avere incontrato i genitori del giudice Rosario Livatino – ucciso ad Agrigento il 21 settembre 1990 – aveva scosso le coscienze del popolo mafioso. Alcuni uomini d’onore si erano sentiti turbati da quelle parole e, pressati da famiglie, mogli, sorelle, avevano deciso di abbandonare Cosa Nostra e collaborare con la giustizia. L’esecuzione di padre Puglisi fu interpretata anche come una risposta della mafia alle parole del pontefice, una sorta di vendetta contro il papa che non si faceva i fatti suoi. Tutto ciò non poteva passare liscio sulla pelle di chi aveva sedici anni nel 1993. Non poteva lasciare indifferenti Alessandro D’Avenia e i suoi coetanei. Anzi, era proprio questa gioventù borghese, a volte figlia di compromessi e privilegi, iscritta nelle migliori scuole, predestinata nei mestieri e nelle professioni, jeunesse dorée di una città cieca e complice; proprio questa gioventù si sentiva chiamata in causa. Abituata a vivere in un’enclave da «misfatto bianco», a poche centinaia di metri dai quartieri miseri e disperati, la gio243­­­­

ventù della Città Bianca – come avrebbe detto Salvo Licata – dopo il 1992 si trovò costretta a fare i conti con la Città Nera. E così, quegli anni diventano, anche per Alessandro D’Avenia, che non vuole smarrire la sua poetica dell’innocenza perduta, gli anni della coscienza drammatica di fronte alla violenza e al male. Il male di una città («luce sui tetti e lutto nelle vie») che non salvava nessuno, nemmeno i nipoti dei nipoti dei nipoti dei normanni con gli occhi azzurri e i capelli biondi. E il libro di D’Avenia spiega che Palermo può anche essere attraversata da fremiti adolescenziali, ma che resta il luogo cruciale «del coraggio e della speranza». Mai neutra, mai neutrale. L’antimafia sanno tutto Girava una battuta a Palermo, molti anni fa, a racchiudere l’impotenza e la rassegnazione di ogni siciliano: «La mafia ponno (possono) tutto, la gente non lo sanno, la polizia lo sanno». Tutto poteva la mafia, la gente lo ignorava, anche se lo intuiva, lo Stato lo sapeva, ma non faceva nulla. Questa sorta di sillogismo, si scontrò nel 1982 con la nascita dell’articolo 416-bis del codice penale, approvato con legge del Parlamento nel settembre di quell’anno, appena venti giorni dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo. Il disegno di legge che istituiva il reato di «associazione a delinquere di stampo mafioso» portava la firma di Pio La Torre, segretario regionale del Pci siciliano, assassinato a Palermo il 30 aprile del 1982. Insomma, se esisteva il reato di mafia, esisteva la mafia. E chi, fino ad allora, ne aveva negato l’esistenza, parlando di mafia come comportamento culturale o predisposizione antropologica o sentimento sociale, non poteva più ignorare che la mafia era anche e soprattutto un reato da codice penale. Ma ci vollero altri dieci anni prima che quella norma del codice penale venisse sancita e vidimata da una sentenza della Cassazione, quella del 30 gennaio 1992 che confermava la 244­­­­

sentenza del maxiprocesso a Cosa Nostra, istruito e preparato dal pool di magistrati di Palermo guidato dal giudice Antonino Caponnetto e formato da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Per la prima volta, il sistema giudiziario italiano accertava l’esistenza di una struttura unitaria, verticistica e piramidale chiamata Cosa Nostra che a Palermo e in Sicilia aveva deciso omicidi, gestito affari e inquinato la vita pubblica dell’isola. Quella sentenza segnò il 1992, il destino tragico di molte persone (la Cosa Nostra di Totò Riina reagì con le sue stragi), la prospettiva di comprensione delle mafie. Diciamo che in quel decennio, tra il 1982 e il 1992, si è strutturata e rafforzata l’antimafia – sociale e istituzionale – che oggi conosciamo. Movimenti politici, dibattiti nelle scuole, apparati di polizia, sezioni specializzate della magistratura nascono in quel torno di anni. E proprio in quegli anni si struttura (o, meglio, viene definito) il cosiddetto «potere dell’antimafia», denunciato da Leonardo Sciascia in un suo articolo del gennaio 1987 sul «Corriere della Sera», sotto un titolo diventato slogan: «I professionisti dell’antimafia». Sciascia se la prendeva con l’allora – e ancora – sindaco di Palermo Leoluca Orlando e con il giudice Paolo Borsellino, promosso a capo della procura della Repubblica di Marsala per i suoi meriti nelle indagini contro la mafia. Obiettivi probabilmente sbagliati a quel tempo, ancor più dopo la tragica fine di Paolo Borsellino, dilaniato dal tritolo mafioso nel pomeriggio di domenica 18 luglio 1992: ma Sciascia individuava un problema. Oggi sono in molti a rievocare quell’articolo di Sciascia di fronte all’involuzione dell’antimafia. Un’antimafia che ha svelato giudici incorruttibili in pubblico, ma corrotti in privato; imprenditori carichi di retorica legalitaria, ma spregiudicati nel condurre i propri affari; giornalisti coraggiosi davanti alle telecamere, ma meschini dietro le quinte. E la questione è già al centro di alcuni libri, come quello del giornalista Giacomo Di Girolamo Contro l’antimafia; come il saggio dell’ex 245­­­­

presidente della Commissione parlamentare antimafia, Francesco Forgione, I tragediatori che prende a prestito la parola dialettale buona a definire coloro che recitano una parte interpretandone in realtà un’altra; oppure come il saggio del docente universitario Costantino Visconti, «La mafia è dappertutto» Falso!. Volumi che assieme a molti articoli, come quelli del giornalista Attilio Bolzoni di «Repubblica», hanno contribuito a demolire e demistificare la genuinità di una certa antimafia declamata. Questione complessa, difficile da risolvere in poche parole. Senza entrare nel merito (che meriterebbe ben altro approfondimento), qui a noi interessa verificare se la torsione dell’antimafia rinnovi uno degli stereotipi classici del racconto della Sicilia. Il luogo comune del trasformismo, in soccorso del vincitore: male nazionale che in Sicilia si fa patologia. In questo caso, si dovrebbe ammettere che Tomasi di Lampedusa aveva ragione e che la Sicilia, sui fatti fondamentali, è sempre e ancora quella in cui tutto cambia affinché nulla cambi. E infatti, in molti commenti sul tema, è stato tirato fuori il paradosso di casa Salina per dimostrare che si è davanti al solito vecchio gattopardismo applicato al lato più debole dell’isola, al fianco più esposto e sensibile, quello stesso che aveva fatto credere di avere raggiunto e segnato confini irrevocabili e che invece si svela ancora come la terra dell’impostura. Forse, più semplicemente, la spiegazione è stata offerta dallo storico della mafia Salvatore Lupo: «La mafia non è più quella di un tempo, non è detto che quella di ora sia meno pericolosa. Ma di sicuro non si potrà combattere con lo stesso sistema, anche perché un movimento che si irrigidisce e tende a istituzionalizzarsi come tutte le strutture che istituzionalizzano a sua volta pone dei problemi». E il primo dei problemi è la sua stessa sopravvivenza. «Le istituzioni straordinarie – ha spiegato Lupo davanti alla Commissione parlamentare antimafia nel dicembre 2015 – che non corrispondono alla nostra tradizione giuridica, nate in 246­­­­

periodo di straordinarietà, uscite da quel periodo di straordinarietà hanno come primo obiettivo quello di giustificare se stesse. Mi dispiace, Max Weber diceva questo e forse non era un babbeo». Insomma, la mafia si è gattopardescamente modificata (ed è quello che fanno da sempre le mafie, da quando esistono), mentre l’antimafia è rimasta uguale a se stessa, finendo per recitare una parte sempre più svuotata di significati. C’è pure da dire che nel momento in cui i movimenti sociali minoritari, magari robusti e influenti, ma ristretti, si fanno pensiero corrente e maggioritario, finiscono per annacquarsi. Per fare un paragone banale: l’intensità e l’integrità dei primi cristiani che nella Roma pagana venivano buttati in pasto ai leoni, non possono che diluirsi quando il cristianesimo diventa comune a moltissimi, spesso rodato attraverso riti collettivi, diffusi e largamente condivisi. L’antimafia che si fa potere, tra malcostume, eccessi, vizi privati e pubbliche virtù, che dà identità e forza a politici, giornalisti, magistrati e imprenditori, laddove non risulti camuffamento vero e proprio di antichi e nuovi legami e connivenze verso Cosa Nostra, si fa certamente preferire, se proprio a questa scelta si fosse costretti, alla mafia che sparava e uccideva facendo saltare col tritolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Traccia comunque un terreno più avanzato di scontro. Certifica l’indicibilità nel discorso pubblico della mafia. Postula che la figura del mafioso, nella letteratura, nella fiction o nel cinema, non possa più avere un’aurea positiva. Può sembrare poco, ma è moltissimo rispetto ad alcuni decenni fa. E questo è merito di un’antimafia che è riuscita a diventare convenzione ampia e diffusa. Dentro la convenzione è maturato l’inganno. Mi auguro che chi predica bene e razzola male, prima o poi venga scoperto e riceva la condanna che merita. Così come penso che le pratiche antimafie, perfino quelle un po’ retoriche, abbiano fatto del bene alla coscienza collettiva. In ogni caso, è meno devastante vivere in mezzo agli impostori 247­­­­

che agli assassini, almeno la vita mi darà il tempo per masticare le mie delusioni. A partire dalla delusione che un’antimafia vecchia e sclerotizzata finisca per dare ragione a un assunto («se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi») che suona sempre come una condanna all’immutabilità della Sicilia.

Epilogo

A futura memoria

Se la memoria ha un futuro. Leonardo Sciascia

Confesso. Ho esordito con una bugia. O, più semplicemente, un’esagerazione. Non possiamo fare a meno di Verga, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Guttuso e dei tanti altri autori e artisti del passato. Senza di loro saremmo più poveri, più fragili e più deboli nell’interpretare il presente. E saremmo anche meno attrezzati a capire la Sicilia contemporanea. Il viaggio che abbiamo condotto fin qui, infatti, svela che chiunque si accosti all’isola deve fare i conti – anche oggi – con un immaginario pre-esistente e prepotente. E lo fa litigandovi, detestandolo o rielaborandolo. Sciascia raccontava di aver mal sopportato Pirandello – l’ombra di Pirandello –, proprio perché gli pareva che in Sicilia il pirandellismo si trovasse in natura, allo stato spontaneo. Il Nobel di Girgenti aveva infatti messo sotto la propria lente un paesaggio sociale che già esisteva sotto la luce del sole della sua città, della sua provincia e dell’intera Sicilia, fino a trarne metafora della condizione umana universale. Lo stesso Sciascia finì per farvi i conti, in alcuni luminosi saggi sull’opera di Pirandello. Dunque, non voglio sembrare così stolto da pensare di voler buttare via niente di quanto è stato scritto, dipinto e rappresentato della Sicilia. Rimane però il sospetto che fare ricorso, ad ogni piè sospinto, a questi grandi nomi del passato, anche recente, sia una sorta di alibi. 249­­­­

Faccio un esempio forse banale, ma credo utile. Più di una volta davanti ai mali dell’isola (l’isola-senza, ha detto qualcuno: senza lavoro, senza acqua, senza treni, senza soldi, senza diritti), ho sentito amministratori pubblici, politici, giornalisti e studiosi affannarsi a spiegare che, è vero, la Sicilia è terra martoriata, ma in compenso è la patria di Vittorini, di Brancati, di Quasimodo e di tutti gli altri nomi illustri. Le glorie del passato usate per giustificare le deficienze di oggi. Questo è veramente insopportabile. E dovremmo ribellarci. Perché sono certo che gli abitanti della città di Pirandello, costretti da sempre a vivere con un’erogazione idrica intermittente e a singhiozzo, obbligati a trascorrere le loro estati, e anche gli inverni, adattandosi ai rubinetti a secco anche per dieci giorni consecutivi; sono certo che pur di avere la loro razione minima – veramente minima – di cinquanta litri di acqua al giorno, rinuncerebbero volentieri a una delle novelle di Pirandello. Una sola novella cancellata da ogni antologia e libro, in cambio del diritto all’acqua che in teoria dovrebbe essere insopprimibile in ogni angolo del mondo e che, in questa parte occidentale di mondo, appare una negazione scandalosa e intollerabile. Sono convinto che perfino Pirandello, se ciò fosse possibile, sarebbe disposto a sacrificare una delle sue novelle per concedere ai suoi concittadini un diritto sacrosanto. Ma visto che questo non è possibile né pensabile, perché allora tirare in ballo Pirandello (o Sciascia o Verga o Bufalino) per sostenere che i disagi di molti cittadini di oggi dovrebbero essere compensati dal lustro di pochi concittadini di ieri? È una sorta di promessa di paradiso al contrario: non collocato nell’aldilà del futuro, ma nell’aldiqua del passato. A parte il fatto che la nascita, in un luogo specifico, di un talento o di un genio, non è detto che sia merito del posto in cui quel fiore è sbocciato. Certo, ci sono condizioni storiche e culturali che in certi momenti producono bellezza, arte e virtù, ma la Sicilia dell’Ottocento e del Novecento non può essere paragonata all’Atene di Pericle o alla Firenze dei Me250­­­­

dici. Anzi, paradossalmente, la concentrazione di scrittura e rappresentazione della Sicilia degli ultimi due secoli è proprio la conseguenza, o la reazione, a una situazione di disagio, deprivazione e sofferenza generali e collettive. Anche per queste ragioni, o casualità, Leopardi poteva venir fuori dal «natio borgo selvaggio» di Recanati, così come Henry Beyle, in arte Stendhal, poteva nascere in una gretta Grenoble e Sciascia poteva maturare in una Racalmuto carica di miseria e contraddizioni. Ho chiesto a Camilleri come spieghi il fatto che, nel giro di pochi chilometri (nel triangolo Agrigento, Racalmuto, Porto Empedocle), nella provincia più povera d’Italia, ritualmente agli ultimi posti nelle classifiche della vivibilità, con il minor reddito pro capite, abbiano trovato linfa e ragioni tre talenti come Pirandello, Sciascia e lo stesso Camilleri. Andrea mi ha risposto con una battuta, arrochita dal fumo di sigarette: «Perché scrivere non costa niente». In realtà, credo che proprio nelle terre dove la pianta umana cresce più stentamente e tenacemente, il narratore trovi il punto di osservazione privilegiato per raccontarne l’esistenza. Più prosaicamente, la Sicilia ha prodotto nel tempo grandi giornalisti (molti dei quali, troppi, hanno i nomi di vittime della mafia: Cosimo Gristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mario Francese, Pippo Fava, Beppe Alfano), perché è un contenitore straordinario di storie. Il giornalismo, in primo luogo, racconta storie: laddove queste sono eccezionali, complesse, tragiche e difficili, selezionano una generazione di giornalisti coraggiosi e speciali. La stessa cosa, saltando qualche gradino, può dirsi della letteratura. Ma la letteratura, il cinema e le arti non possono che riflettere – anche – il presente. Nessuno oggi penserebbe mai di parlare di Milano usando ancora Alessandro Manzoni come unità di misura. E la Roma attuale è più aderente al Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo o alla Grande bellezza di Paolo Sorrentino piuttosto che ai versi di Giuseppe Gioac251­­­­

chino Belli, di Trilussa e perfino alla Dolce vita di Federico Fellini. Com’è possibile che altre città e regioni d’Italia riescano a trovare la loro narrazione contemporanea, mentre la Sicilia – malgrado gli sforzi di raccontarla – resta sempre ancorata a un armamentario di suggestioni appartenenti al passato? Credo che questo sia diventato un alibi, appunto. L’alibi di quanti, per varie ragioni, trovano più comodo dire che nulla mai cambia, che la Sicilia è immodificabile, irredimibile, immota, e quindi è inutile o velleitario ogni tentativo di modificarne l’essenza e, di risulta, l’immagine esterna ed interna. I primi promotori di questa Sicilia immutabile sono spesso i siciliani: non tutti, ma alcuni. E, in particolare, coloro che a vario titolo hanno maggiori responsabilità (e interessi specifici) nel voler descrivere una Sicilia che, anche se nuova, al fondo resta sempre e comunque quella dei gattopardi, dei fichidindia, delle granite, delle coppole, delle baronessine e dei viceré. Ecco, la Sicilia come genere. La Sicilia «girata» sullo sfondo di un eterno film western dove i cattivi prevalgono sempre e i buoni alla fine sono i soliti vinti. Parafrasando le parole scritte sessant’anni fa da uno scrittore che sento maestro di parole e di cose, provo così a descrivere la Sicilia al tempo presente: «Ho tentato di raccontare qualcosa della storia di una terra che amo, e spero di aver dato il senso di quanto vi sia forte il desiderio di libertà e di giustizia, cioè di ragione».

Ringraziamenti

Questo libro è nato per una specie di «sentimento del contrario». Qualche tempo fa la casa editrice Laterza, e in particolare Lia Di Trapani, mi ha proposto di scrivere una sorta di seguito ideale del mio saggio I siciliani, pubblicato nel 2005, nel quale raccontavo storie di donne e uomini per definire, semmai esista, un’identità dell’isola. Ho tergiversato a lungo, fino ad esasperare la pazienza di Lia, perché mi sembrava di dover attraversare un territorio talmente dissodato da me e da altri autori (che lo hanno fatto con grande competenza), al punto da risultare esausto. Eppure le conversazioni e le sollecitazioni hanno seminato qualcosa. Mi sono reso conto che non era più possibile continuare a tornare negli stessi luoghi senza farli diventare dei luoghi comuni e abusati. E mi sono chiesto se non fosse possibile cercare di raccontare una nuova Sicilia, a volte popolare, a volte raffinata, evitando la trappola del passatismo che finisce per glorificare molte cose buone, ma anche alcune «buone cose di pessimo gusto». Ci ho provato, non pretendo di essere stato esaustivo. Questa non è un’enciclopedia e non ha ambizioni di completezza: per questo non tutti gli autori e artisti siciliani recenti vi sono citati. Mi scuso con gli assenti, ma l’omissione di alcuni nomi non implica alcun giudizio sfavorevole. Ho solo tentato di individuare, sulla base delle mie conoscenze che sono largamente frammentarie, testi e opere che tracciassero linee di tendenza: è molto probabile che molto mi sia sfuggito. Un lavoro di questo tipo comporta il contributo di tante 253­­­­

persone, essenziali per aver dato un consiglio, un suggerimento, l’indicazione giusta sulle fonti o per avere letto e riletto il testo alla ricerca di errori. E così, in ordine sparso, sperando di non dimenticare nessuno, mi piace dire grazie a Valentina Alferj, Filippo Lupo, Salvatore Ferlita, Giuseppe Rizzo, Silvia Tessitore, Carlo Degli Esposti, Marco Camilli, Giancarlo Macaluso, Margherita Gigliotta, Maria Teresa Ciancio, Sergio Troisi, Laura Barreca, Stefania Agnello, Lillo Garlisi, Luigi Galluzzo, Giuseppe Dipasquale, Valeria Contadino, Gaetano Restivo, Giuseppe Prode, Giovanni Taglialavoro, Roberto Andò, Andrea Bartoli, Giuseppe Veneziano, Vincenzo Pirrotta, Domenico Trischitta, Fulvio Abbate, Salvatore Lupo, Salvatore De Mola, Amelia Bucalo Triglia, Tommaso Casini, Salvatore Picone, Gigi Restivo, Carolina Italiano.

Indice dei nomi

Bacall, Lauren, 106. Bagarella, Leoluca, 74, 234. Baglio, Aldo (Cataldo), 135, 138-140. Baglio, Calcedonia, 138. Baglio, Giuseppe, 138. Baker, Chet, 107. Ballandi, Bibi, 130. Barbera, Marilena, 13. Barenboim, Daniel, 213. Barilli, Renato, 160. Barreca, Laura, 183, 254. Bartoli, Andrea, 197-199, 254. Bartoli, Carla, 198. Basile, Gaetano, 5. Bassani, Giorgio, 160. Battaglia, Letizia, 103. Battiato, Franco, 110-111, 114, 130. Baudo, Pippo, 136. Bella, Gianni, 110, 114. Bella, Marcella, 110, 114. Bellavia, famiglia, 194, 197. Bellavia, Chiara, 194, 197. Bellavia, Giovanni, 194. Bellavia, Giuseppe, 194. Bellavia, Giuseppina, 194. Bellavia, Marianna, 194, 197. Bellezza, Dario, 192. Belli, Giuseppe Gioacchino, 251-252. Bellini, Vincenzo, 110. Bellu, Giovanni Maria, detto Giò, 150152. Bellucci, Monica, 31. Belushi, Jim, 29. Benassai, Paride, 6. Benedetti Michelangeli, Arturo, 107. Benfante, Marcello, 163-164. Benigni, Roberto, 124-125, 127.

Aalto, Alvar, 186. Abatantuono, Diego, 140. Abbate, Fulvio, 45-47, 50, 254. Abbate, Giovanni, 84, 95. Abbott, William, detto Gianni, 135. Affleck, Ben, 216. Agnello, Giuseppe, 203-204. Agnello, Stefania, 254. Agnello Hornby, Simonetta, 8, 65-66. Alaimo, Antonino, 18. Alajmo, Roberto, 7, 103-105. Albano, Vittorio, 122, 125, 169. Alberti, Gerlando, 236. Alfano, Angelino, 132, 136. Alfano, Beppe, 251. Alferj, Valentina, 254. Allen, Woody, 107. Alliata, Topazia, 53. Altman, Robert, 107. Amato, Nino, 200. Ammaniti, Niccolò, 161. Analfino, Lello, 211. Anceschi, Luciano, 160. Andò, Roberto, 254. Andreotti, Giulio, 103, 240. Anello, Laura, 23. Angeli, Franco, 186. Anile, Alberto, 61. Antonelli, Laura, 72. Arbasino, Alberto, 17, 160. Archimede, 126. Ardant, Fanny, 106. Arendt, Hannah, 18. Asimov, Eric, 14. Asor Rosa, Alberto, 224. Augias, Corrado, 58. Ayala, Giuseppe, 229, 231.

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Berlusconi, Silvio, 35, 136. Berselli, Edmondo, 129. Bianca, Franco, 128. Bianciardi, Luciano, 17. Billitteri, Daniele, 17. Biondi, Mario, 114. Bisceglia, Marco, 70. Bisio, Claudio, 138. Bisogno, Anna, 236. Bocca, Giorgio, 40-42, 44, 50. Bocca, Riccardo, 141. Boeri, Stefano, 188. Bolognini, Mauro, 71. Bolzoni, Attilio, 246. Bonacelli, Paolo, 125. Bonaviri, Giuseppe, 176. Bordonaro, Tommaso, 28, 224. Borges, Jorge Luis, 17, 109. Borgese, Giuseppe Antonio, vii, 176. Borrello, Salvatore, 135. Borsellino, Paolo, xi, 34, 84, 104, 135, 137-138, 162, 201, 226, 228-229, 231-233, 235-236, 240, 242, 245, 247. Brancati, Vitaliano, 43, 52, 68, 71, 91, 97, 107, 115, 176, 250. Brandaleone, Carlo, 38. Braschi, Nicoletta, 125. Briganti, Annarita, 242. Brydone, Patrick, 182. Bucalo Triglia, Amelia, 254. Bufalino, Gesualdo, 22, 52, 60, 79, 176, 178, 250. Burgio, Giuseppe, 88. Burns, John Horne, 92. Burri, Alberto, 186-188. Burruano, Gigi, 6, 220. Buscetta, Tommaso, 84, 94, 125, 229. Buttafuoco, Pietrangelo, 48-51, 70, 132. Buttitta, Ignazio, 200, 211, 218. Buzzanca, Lando, 72. Byron, George Gordon, 182.

Camarrone, Davide, 156, 186. Cambria, Adele, 63. Cambria, Mariangela, 13. Camilleri, Andrea, xi-xiv, 3-4, 52, 5456, 78-80, 90, 117, 119, 176, 179, 203-208, 215, 224, 251. Camilli, Marco, 254. Cammalleri, Calogero, 156. Cammarata, Diego, 236. Campana, Domenico, 58-59. Campanella, Gino, 70. Cancila, Orazio, 94. Canzoneri, Michele, 192. Caponnetto, Antonino, 83, 245. Cappellani, Ottavio, 114-115. Caprara, Fulvia, 205. Carbone, Tony, 110. Cardella, Lara, 77-78. Cardinale, Claudia, 6, 8, 71. Carlo V, imperatore del Sacro romano impero, 55. Carpinello, 28. Caruso, Alfio, 42-44. Cascella, Andrea, 186, 188. Cascio, Totò, 23. Casini, Tommaso, 254. Caspanello, Tino, 212. Cassola, Carlo, 160. Casta, Laetitia, 32. Castagna, Enzo, 26. Catalano, Agostino, xi, 162, 229. Cattelan, Maurizio, 116. Cavallaro, Felice, 6, 184, 240. Cave, Nick, 14. Cecchetto, Claudio, 127. Cecchi d’Amico, Suso, 58. Cenni, Valentina, 209. Cerami, Vincenzo, 125, 127. Cernilli, Daniele, 11. Charles-Roux, Edmonde, 29. Chevalley, Aimone di, 42, 50. Chiesa, Mario, 230. Chinnici, Rocco, 234. Ciancio, Maria Teresa, 254. Cimino, Marcello, 161. Cimino, Michael, 26. Ciprì, Daniele, 6, 164-167, 169. Clooney, Rose Mary, 106. Colajanni, Luigi, 28.

Cacciatore, Giacomo, 238-239. Calabrese, Pietro, 219. Calabrò, Antonio, 126, 228. Calaciura, Giosuè, 7, 166-167. Calcagno, Giovanni, 209.

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Coleridge, Samuel Taylor, 109, 182. Colla, Ettore, 188. Colonna, Marcantonio, 107. Comazzi, Alessandra, 205. Concutelli, Pierluigi, 170. Consagra, Pietro, 186, 188, 190. Consoli, Carmen, 110, 113-114. Consolo, Vincenzo, vii, xiii, 52, 60-61, 79, 103, 175-176, 178, 192, 206, 224. Contadino, Valeria, 254. Conticello, Fabio, 20. Conticello, Vincenzo, 18-20. Contorno, Totuccio, 84. Contrada, Bruno, 229. Coppola, Francis Ford, 27-28, 30. Coppola, Sofia, 29. Corrao, Ludovico, 184-189, 191. Cosina, Walter Eddie, xi, 162, 229. Cossiga, Francesco, 229. Costa, Gian Mauro, 211. Costanzo, Maurizio, 78, 130. Costello, Lou, detto Pinotto, 135. Cotroneo, Roberto, xiii. Crialese, Emanuele, 153-155. Cristaldi, Franco, 25. Crocetta, Rosario, 35, 47, 50, 83. Crollalanza, Guglielma, 208. Cruise, Tom, 30. Cucurullo, Carolina, 13. Cuffaro, Salvatore, 35, 50, 132, 236. Cunsolo, Marcello, 112. Cuticchio, Mimmo, 213. Cutolo, Raffaele, 24. Cuttaia, Pino, 9.

Davi, Klaus, 86. Davis, Miles, 107. De Cataldo, Giancarlo, 251. De Chirico, Giorgio, 186. De Filippo, Peppino, 135. De Furlanis, 107. Degli Esposti, Carlo, 203, 205, 254. De Gregorio, Rosalba, 89. Deliziosi, Francesco, 137. Dell’Utri, Marcello, 35. Delon, Alain, 6. De Mauro, Mauro, 47, 251. De Mola, Salvatore, 254. Denovo, 110-111, 113-114. De Roberto, Federico, 43, 52-54, 5657, 91, 176. Di Cara, Piergiorgio, 117-118. Di Carlo, Maria, 75-76. Di Caro, Mario, 137. Di Cillo, Rocco, xi, 229. Di Consoli, Andrea, 105. Di Gaetano, Vinzia, 13. Di Girolamo, Giacomo, 245. Di Grado, Viola, 177. Di Lello, Giuseppe, 84, 245. Diliberto, Maurizio, 234. Diliberto, Pierfrancesco, detto Pif, 137, 233-237, 239. Di Marco, Roberto, 160. Di Maria, Franco, 237. Di Matteo, Nino, 36. Dipasquale, Giuseppe, 64, 208, 254. Dire Straits, 110. Dirty Looks, 112. Di Sanzo, Alessandra, 72. Di Trapani, Lia, 253. Dolce, Domenico, 30-31, 131. Domecq, Honorio Bustos, 109. Donat-Cattin, Carlo, 148. Donati, Bruno, 9-11. Dylan, Bob, 112.

D’Agostino, Roberto, 201. dalla Chiesa, Carlo Alberto, 98, 233234, 244. Dall’Orto, Giovanni, 88. D’Amato, Giorgio, 238. Damiani, Damiano, 8, 29, 90. Damiani Almeyda, Giuseppe, 107. d’Amico, Silvio, 62. D’Angelo, Nino, 168-169. Dante, Emma, 7, 212-215. D’Arrigo, Stefano, 174, 176. D’Avalos, Giulia, 107. D’Avenia, Alessandro, 241-244.

Eco, Umberto, 36, 160-161. Efron, Zac, 216. Empedocle, 126. Enia, Davide, 212, 232-233. Enzensberger, Hans Magnus, 18. Faenza, Roberto, 53.

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Falcone, Giovanni, xi, 34, 83-84, 94, 104, 125, 135, 137-138, 201, 226229, 231-234, 245, 247. Faletti, Giorgio, 201-202. Faranda, Adriana, 170. Farrell, Colin, 32. Fatta del Bosco, 28. Fava, Pippo, 95-100, 251. Fazio, Beppe, 160. Fazio, Lilly, 13. Fellini, Federico, 252. Feltrinelli, Giangiacomo, 16-17, 20, 57. Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico, re di Spagna, 16. Ferlita, Salvatore, 46, 58, 177-178, 239, 254. Fiandaca, Giovanni, 228. Ficarra, Salvatore, 133-137, 220. Filippini, Enrico, 160. Fiore, Angelo, 176. Fiorello, Rosario Tindaro, xiv-xv, 127132, 136. Flor, 112. Florio, famiglia, 41, 107. Florio, Giovanni, 207-208. Florio, Ignazio, 107. Florio, Michelangelo, 207-208. Fofi, Goffredo, 165-166, 169. Folena, Pietro, 143. Forattini, Giorgio, xi. Foresta, Francesco, 82, 226. Forgione, Francesco, 246. Fortini, Franco, 17. Fortis, Alessandro, 167. Fortuna, Corrado, 239-240. Fragapane, Giovanni, 145. Francese, Mario, 251. Franchi, Franco, xv, 121, 131, 135, 142, 164. Franchina, Nino, 188.

Garlisi, Lillo, 254. Gaspare (Nino Formicola), 138. Gassman, Vittorio, 114. Gennaro, Nino, 74-76. Gentile, Tony, 226, 231-233. Germi, Pietro, viii, 90, 114, 137, 203204. Gesù, Sebastiano, 25. Gheddafi, Muammar, 146. Ghedini, Niccolò, 136. Giacosa, Franco, 10. Gialappa’s Band, 138. Giammona, Giorgio Agatino, 68-70. Giannice, Maria Gabriella, 61. Giannini, Giancarlo, 58, 207. Giannini, Ilaria, 172. Gigliotta, Margherita, 254. Giolitti, Giovanni, 167. Giordana, Marco Tullio, 209. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 243. Giuliano, Boris, 234. Giuliano, Salvatore, 92. Giunta, Francesco, 149. Gloeden, Wilhelm von, 69. Goethe, Johann Wolfgang von, 3, 182183. Goldoni, Luca, 146. Golino, Valeria, 153. Gramsci, Antonio, viii. Grassi, Libero, 19, 104, 135. Grasso, Aldo, 130, 132, 205. Grasso, Piero, 228, 236. Grasso, Silvana, 61. Grasso, Tano, 19. Grillo, Beppe, 199. Grimaldi, Aurelio, 7, 72. Gristina, Cosimo, 251. Gropius, Walter, 186. Guadagnino, Luca, 77. Guarnotta, Leonardo, 84, 245. Guarrasi, Tano, 169. Guazzelli, Giuliano, 229. Guevara, Ernesto, detto el Che, 17. Guglielmi, Angelo, 160-161. Gullo, Tano, 222. Guttuso, Renato, vii, 186, 218, 222, 249. Guzzanti, Sabina, 228.

Gabbana, Stefano, 30-31, 131. Gadda, Carlo Emilio, 79. Galatola, Antonio, detto Toni, 68-70. Galloni, Alessandra, 233. Galluzzo, Luigi, 254. Ganeshu, Anpalagan, 150-151. Garibaldi, Giuseppe, 18.

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Li Muli, Vincenzo, xi, 162, 229. Litfiba, 110. Littizzetto, Luciana, 202. Livatino, Rosario, 243. Lizzio, Giovanni, 229. Lo Cascio, Luigi, 209-211. Loi, Emanuela, xi, 162, 229. Loiero, Valentina, 154. Lollobrigida, Gina, 114. Lombardo, Raffaele, 35, 50. Lo Verso, Girolamo, 85. Lumia, Beppe, 50. Lupo, Filippo, 4, 254. Lupo, Salvatore, viii, 84, 151-152, 228, 246, 254. Luzi, Mario, 102.

Haden, Charlie, 106. Hadley, Tony, 112. Hamilton, George, 29. Hamy, Viviana, 63. Hardcastle, Alexander, 193-194. Hardy, Oliver, 135. Henninck, Marpessa, 30-31. Hohenstaufen, famiglia, 183. Houël, Jean-Pierre, 182. Hume, David, 109. Iannizzotto, Stefania, 121. Impastato, Peppino, 122, 171, 209, 251. Incudine, Mario, 211. Ingrassia, Ciccio, xv, 121, 131, 135, 142, 164. Isgrò, Emilio, 187. Islam, Saiful, 184. Italiano, Carolina, 254. Iuvara, Martino, 208-209.

Macaluso, Giancarlo, 93, 254. Madonia, Gabriele, 110. Madonia, Luca, 110. Maisano, Pina, 19. Malaparte, Curzio, 92. Malatesta, Stefano, 74-76, 105, 189, 192. Malerba, Luigi, 160. Mannino, Teresa, 141-143. Manzoni, Alessandro, 251. Maraini, Dacia, 52-54, 60, 218. Marcarelli, Salvatore, 58. Maresco, Franco, 6, 164-167, 169, 211. Martinez, Gioacchino, 103. Martoglio, Nino, 212. Maselli, Citto, 62. Mastroianni, Marcello, 71, 82. Mattarella, Sergio, 132, 228. Maupassant, Guy de, 182. Mauri, Paolo, 206. McCartney, Paul, 106. McGilchrist, Nigel, 4. Medici, famiglia, 250-251. Melato, Mariangela, 207. Melisenda, Alfonso, 28. Melotti, Fausto, 188. Mendini, Alessandro, 188. Mercanti, Pino, 23. Mereghetti, Paolo, 124, 127, 169. Merlo, Francesco, xiii, 188. Merola, Mario, 168. Messina, Francesco, 69-70.

Javorčeková, Lucia, 215-217. Keaton, Diane, 27-28. Korda, Alberto, 17. Labdaco di Siracusa, 4. La Licata, Francesco, xiv. Lambert, Christopher, 26. Lanza Tomasi, Gioacchino, 6, 28. La Rochefoucauld, François de, 106. La Russa, Ignazio, 131. La Spina, Silvana, 109. La Torre, Pio, 244. Lattuada, Alberto, 8, 122. Laurel, Stan, 135. Lazzati, Maria Rosario, 9. Leavitt, David, 114. Led Zeppelin, 112. Lennon, John, 106. Leonardo da Vinci, 232. Lessing, Doris, 17. Levi, Primo, 62. Lewis, Norman, 92. Licata, Costanza, 51. Licata, Salvo, 6-7, 244. Liggio, Luciano, 74-75. Lima, Salvo, 127, 229, 235.

259

Milani, Massimo, 70. Milazzo, Silvio, 185. Miteco di Siracusa, 4. Mondello, Flora, 13. Montanaro, Silvio, 103. Montenegro, Francesco, 196. Monterosso, Ruben, 75. Montesano, Enrico, 205. Montinaro, Antonio, xi, 229. Morandini, Morando, 127. Moro, Aldo, 170-172. Morreale, Emiliano, 165. Morricone, Ennio, 23, 31. Morrissey, Steven Patrick, 112. Morvillo, Francesca, xi, 229. Mughini, Giampiero, 38-40. Munafò, Stefano, 205. Murgia, Tiberio, xiv-xv.

Pasqualino, 28. Patti, Ercole, 115. Pellegrino, Angelo, 62. Pelloux, Luigi, 167. Pericle, 250. Perriera, Michele, 160-163. Petri, Elio, 90. Petrini, Carlo, 11. Piazzese, Santo, 106-109, 117, 177. Picone, Salvatore, 254. Picone, Valentino, 133-137. Pif, vedi Diliberto, Pierfrancesco. Piovene, Guido, 114. Piparo, Salvo, 51. Pirandello, Luigi, vii-viii, xv-xvi, 6, 43, 54, 57, 60, 90, 107, 119, 131, 176, 179, 204, 211-213, 249-251. Pirrotta, Vincenzo, 7, 209, 212-213, 223, 254. Pisciotta, Gaspare, 92. Piscopo, Peppe, 196. Pitrè, Giuseppe, 60. Pizzuto, Antonio, 160. Planeta, Diego, 11. Planeta, Francesca, 13. Platone, 196. Pomodoro, Arnaldo, 186-188. Porcheddu, Andrea, 214-215. Poretti, Giacomo, 135, 138-140. Pratolini, Vasco, 160. Presti, Antonio, 189-193. Prestipino, Michele, 86, 89. Prode, Giuseppe, 232, 254. Provenzano, Bernardo, 74, 89, 218, 234. Provvisionato, Sandro, 229. Puglisi, Pino, 135-138, 242-243. Puglisi, Roberto, 226. Pulvirenti, Luigi, 110-113. Purini, Franco, 188.

Napoli, Gregorio, 24. Nicolini, Giusi, 155-156. Niemeyer, Oscar, 186. Nigro, Salvatore Silvano, 56, 78-79. Noiret, Philippe, 23. Notarbartolo, Emanuele, 41, 59. Notarbartolo, Filippo, 28. Occhipinti, Arianna, 14-16. Occorsio, Vittorio, 170. Omero, 144. Onofri, Massimo, 57. Orlando, Leoluca, ix, 34, 104, 127, 245. Osterkamp, Ernst, 183. O’Toole, Peter, 106. Pacino, Al, 27-28, 30. Pagliarani, Elio, 160. Pagliaro, Walter, 65. Paladino, Mimmo, 186. Paladino, Santi, 207. Palizzolo, Raffaele, 41, 59-60. Panarello, Melissa, detta Melissa P., 77-78. Pansa, Giampaolo, xi, 235. Pardo, Pierluigi, 39. Parini, Giuseppe, 81. Parlagreco, Salvatore, 84. Parmenide, 109. Pasolini, Pier Paolo, 99, 130, 192.

Qbeta, 211. Quadranti, Fabrizio, 108. Quaroni, Ludovico, 186. Quasimodo, Salvatore, 250. Quatriglio, Costanza, 223. Quattrocchi, Rory, 6. Rabito, Giovanni, 223-224. Rabito, Vincenzo, 222-225.

260

Radiohead, 112. Rallo, Josè, 13. Ramazzotti, Eros, 130. Ratajkowski, Emily, 216-217. Ravveduto, Marcello, 236. Rem, 112, 114. Renzi, Matteo, 49. Restivo, Gaetano, 254. Restivo, Gigi, 254. Ricci, Antonio, 137, 202. Ricci, Franco Maria, 3. Ricci, Luca, 223. Riggio, Vito, 127. Riina, Totò, xi, 74, 85, 218, 229, 234, 245. Rimini, Stefania, 212. Riondino, Michele, 207. Risi, Marco, 72. Rizza, Sandra, 34. Rizzitano, Umberto, 149. Rizzo, Giuseppe, 178-181, 254. Rogers, Mimi, 29-30. Rolling Stones, 112. Rosi, Francesco, 26, 29-30, 92. Rosi, Gianfranco, 144. Ross, Robert Baldwin, 69. Rossi, Paolo, 138. Rossi, Vasco, 130. Ruotolo, Sandro, 103. Russello, Antonio, 158-159.

Scandaglia, Leandro, 226-228, 230, 234. Scarfoglio, Edoardo, 60. Scarpa, Domenico, 62-63. Schiavelli, Vincent, 8. Schiavocampo, Paolo, 190. Schiera, Peppe, 7. Schifani, Renato, 34. Schifani, Rosaria, 230, 240. Schifani, Vito, xi, 229-230, 240. Schifano, Mario, 186. Scianna, Ferdinando, 30-31, 218, 222, 232. Scianna, Francesco, 221. Sciarra, Maurizio, 58. Sciascia, Leonardo, vii-viii, xv-xvi, 6, 12, 20, 25-26, 43, 52, 54-55, 60, 79, 90, 137, 176, 178, 186, 203, 245, 249-251. Scilace di Carianda, 145. Scimone, Spiro, 212. Scirea, Mariella, 38. Scorza, Manuel, 18. Selby, Edible, 14. Sellerio, Elvira, 55, 79, 106. Seminerio, Domenico, 86-88, 91. Sframeli, Francesco, 212. Shakespeare, William, 207-209. Shire, Talia, 29. Siciliano, Enzo, 53-54, 56. Signorino, Domenico, 229. Sironi, Alberto, 205. Socrate, 196. Sorgi, Marcello, 79. Sorrentino, Paolo, 251. Sottile, Giuseppe, 51. Spampinato, Giovanni, 251. Spedaletti, Mario, 219. Spinazzola, Vittorio, 57. Stabile, Nicola, 187. Staccioli, Mauro, 190. Stancanelli, Elena, 214. Steiner, George, xiii. Stendhal (Henry Beyle), 251. Stipe, Michael, 112. Storti, Giovanni, 135, 138-140. Sultano, Ciccio, 9. Swift, Jonathan, 122. Szeemann, Harald, 116.

Saieva, Florinda, 197-199. Salmon, Thierry, 187. Salvadori, Massimo, viii. Salvatore, Anna, 188. Salvemini, Gaetano, viii. Salvo, Ignazio, 160, 229, 240. Salvo, Nino, 160, 240. Samonà, Carmelo, 176, 188. Sandrelli, Stefania, viii. Sanguineti, Edoardo, 160. Santangelo, Evelina, 177, 223. Santino, Umberto, 122. Sapienza, Goliarda, 62-64. Sava, Lia, 86, 89. Savage, John, 29. Savonitto, Federico, 75. Scaldati, Franco, 6. Scalfaro, Oscar Luigi, 229.

261

Tachis, Giacomo, 10-12. Taglialavoro, Giovanni, 254. Tempio, Domenico, detto Micio, 80-81. Terranova, Cesare, 227. Terranova, Nadia, 173-175. Tessitore, Silvia, 254. Testa, Gaetano, 160-161. Tocqueville, Alexis de, 182. Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, viiviii, xv-xvi, 9, 49, 52-53, 56-57, 6061, 91, 160, 176, 179, 230, 246, 249. Tornabuoni, Lietta, 25. Tornatore, Giuseppe, 23-26, 30-31, 90, 218-220. Torquemada, Tomás de, 16. Torre, Roberta, 168-169. Torregrossa, Giuseppina, 8, 12-13. Totò (Antonio De Curtis), 135. Traina, Claudio, xi, 162, 229. Traina, Giuseppe, 175-179. Travaglio, Marco, 227. Trilussa (Carlo Alberto Salustri), 252. Trischitta, Domenico, 112-113, 254. Troisi, Sergio, 254. Truffaut, François, 106. U2, 112. Urzì, Saro, viii. Vanzina, Carlo, 141. Vassalli, Sebastiano, 59-60. Vasta, Giorgio, 102, 171-174. Vecchioni, Roberto, 33-34, 36-38, 43, 201.

Vendola, Nichi, 70. Venezia, Francesco, 188. Veneziano, Giuseppe, 254. Venier, Mara, 128. Venuti, Mario, 110. Verga, Giovanni, vii-viii, xv-xvi, 6, 52-54, 56, 107, 154, 160, 176, 249250. Veronelli, Luigi, 15. Villaparva, Stefano, 86-88. Villari, Rosario, viii. Viola, Franca, 185. Violante, Piero, 20, 160-161. Virlinzi, Francesco (Saverio), 112. Virzì, Paolo, 240. Visconti, Costantino, 246. Visconti, Luchino, 6, 26-27, 62. Vitale, Leonardo, 83-85. Vittorini, Elio, 6, 90, 176, 250. Watts, Ernie, 106. Wayne, John, 106. Weber, Max, 247. Wertmüller, Lina, 207. White, Barry, 114. Wilde, Oscar, 69, 182. Wilson, Bob, 187. Zalone, Checco, 135. Zamparini, Maurizio, 39. Zavattini, Cesare, 201. Zingaretti, Luca, 202-204, 206. Zizola, Francesco, 156-157. Zuzzurro (Andrea Brambilla), 138.

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