Studia Calactina I – Ricerche su una città greco-romana di Sicilia: Kalè Akté – Calacte 9781407314808, 9781407344393

Nonostante il suo nome non ricorra frequentemente nelle fonti letterarie antiche, la città greco-romana di Kalè Akté - C

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Studia Calactina I – Ricerche su una città greco-romana di Sicilia: Kalè Akté – Calacte
 9781407314808, 9781407344393

Table of contents :
Front Cover
Title Page
Copyright
Dedication
PREFAZIONE
INDICE
Kalè Akté – Calacte. Primi risultati delle ricerche
INTRODUZIONE – ARCHEOLOGIA A CARONIA (SICILIA, ME)
CAP. 1. LA VICENDA STORICA DI KALÈ AKTÉ – CALACTE TRA FONTI LETTERARIE E RICERCA ARCHEOLOGICA
CAP. 2. PRIMA DI KALÈ AKTÉ: INSEDIAMENTI ARCAICI E CLASSICI NELL’AREA DEI NEBRODI CENTRO-OCCIDENTALI
CAP. 3. RICERCHE NELL’AREA URBANA I: LA CITTÀ COLLINARE
CAP. 4. RICERCHE NELL’AREA URBANA II: LA CITTÀ COSTIERA
CAP. 5. LE NECROPOLI DI KALÈ AKTÉ – CALACTE
CAP. 6. DA CALACTE A CARONIA. LE TRASFORMAZIONI DEL TARDO-ANTICO E DELL’ALTOMEDIOEVO: DALLA CITTÀ CLASSICA ALLA CITTÀ MEDIEVALE
CAP. 7. RICERCHE NEL TERRITORIO: LA CHORA CALACTINA
Approfondimenti
CERAMICHE ARCAICHE E CLASSICHE DALL’ABITATO COSTIERO. NUOVI DATI SULLA PRESENZA GRECA LUNGO LA COSTA TIRRENICA IN ETÀ COLONIALE: FU KALÈ AKTÉ UN EMPORION?
IL DECRETO ONORIFICO TARDO-ELLENISTICO DA CARONIA (SEG LIX, 1102): RINVENIMENTO E RICOSTRUZIONE DEL CONTESTO D’ORIGINE
IL DECRETO ONORIFICO TARDO-ELLENISTICO DA CARONIA (SEG LIX, 1102): PER UNA NUOVA EDIZIONE
UNA MERIDIANA GRECO-ROMANA DALLA COLLINA DI CARONIA
RITROVAMENTI MONETALI DI EPOCA GRECA NEL TERRITORIO DI CARONIA, ANTICA KALÈ AKTÉ - CALACTE
SIGILLATA ITALICA DALLA COLLINA DI CARONIA
IL PHROURION DI PIZZO CILONA
Tavole a colori

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STUDIA CALACTINA I: RICERCHE SU UNA CITTÀ GRECO-ROMANA DI SICILIA

For the last 15 years, the author has undertaken topographical studies mainly in the territory of the ancient city of Kale Akte – Calacte and more generally in the area of Nebrodi mountains (north Sicily), especially at the sites of Monte Scurzi, Apollonia and Gioiosa Guardia. He has also studied Kasmenai and Monte Turcisi, in south-eastern Sicily. In past years, the author has collaborated with the scholar G. Scibona, as well as with the Superintendence of Messina, through reports and the recovery of significant materials. He is currently deepening the study of Hellenistic bricks in Sicily, with a number of papers forthcoming.

COLLURA

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2016

Despite being mentioned only infrequently in the ancient literary sources, Kale Akte – Calacte, on the site of modern-day Caronia in the province of Messina, offers several hints that it is just as important as other, better known, ancient centres with regard to material culture, urban planning techniques, artistic and cultural expressions, handicrafts and attestations of diversified human occupation. Born as a probable “emporion” (trading post) of Zancle (Messina) at the time of that city’s colonial thrust west to found Himera, Kale Akte links its name primarily to Ducetius, who founded the city in the mid-fifth century BC. Through the prosperous middle and late Hellenistic period, coinciding with the birth of the Roman Province, Calacte became a major trade centre of the Tyrrhenian. The research conducted by the author, integrating and completing those conducted by the few other scholars to have studied the city, aims to increase the knowledge not only of Kale Akte, but also of the events and roles in the history of a typical “minor” Greek-Roman city of Sicily. This monograph is the first of a series dedicated to Kale Akte – Calacte and to the other ancient sites existing in north-central Sicily (Nebrodi Mountains).

BAR S2813

Nonostante il suo nome non ricorra frequentemente nelle fonti letterarie antiche, la città greco-romana di Kalè Akté – Calacte, nel sito dell’odierna Caronia in provincia di Messina, offre innumerevoli spunti di studio che la rendono non meno importante di altri centri antichi più noti e fin qui esplorati in maniera sistematica, quanto a manifestazioni di cultura materiale, tecniche urbanistiche, espressioni artistiche e culturali, produzioni artigianali e attestazioni di occupazione umana diversificata. Nato come probabile “emporion” di Zancle all’epoca della vicenda coloniale di quella città verso ovest a fondare Himera, Kalè Akté lega il suo nome soprattutto a Ducezio, che la fondò a metà del V secolo a.C. Vissuta la fase di maggiore prosperità nella media e tarda età ellenistica, in concomitanza con la nascita della Provincia romana, fu uno dei centri principali sulla costa tirrenica. Le ricerche condotte dall’autore, ad integrazione e completamento di quelle svolte dai pochi altri studiosi che si sono interessati al sito, intendono accrescere la conoscenza non solo di Kalè Akté, ma anche delle vicende e ruoli nella Storia di una qualsiasi città greco-romana “minore” di Sicilia. La presente monografia è la prima di una serie dedicata a Kalè Akté - Calacte e agli altri centri antichi ricadenti nella parte centro-settentrionale della Sicilia (Monti Nebrodi).

STUDIA CALACTINA I Ricerche su una città greco-romana di Sicilia: Kalè Akté – Calacte Francesco Collura con contributi di Sergio Cascella, Emiliano Arena e Benedetto Carroccio

BAR International Series 2813 B A R

2016

STUDIA CALACTINA I Ricerche su una città greco-romana di Sicilia: Kalè Akté – Calacte Francesco Collura con contributi di Sergio Cascella, Emiliano Arena e Benedetto Carroccio

BAR International Series 2813 2016

Published in 2016 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 2813 Studia Calactina I – Ricerche su una città greco-romana di Sicilia: Kalè Akté – Calacte © Francesco Collura 2016 Cover image Typical collection of materials recovered from the Kale Akte - Calacte site, from the fi fth century BC to the first century AD. The Author’s moral rights under the 1988 UK Copyright, Designs and Patents Act are hereby expressly asserted. All rights reserved. No part of this work may be copied, reproduced, stored, sold, distributed, scanned, saved in any form of digital format or transmitted in  any form digitally, without the written permission of the Publisher.

ISBN 9781407314808 paperback ISBN 9781407344393 e-format DOI https://doi.org/10.30861/9781407314808 A catalogue record for this book is available from the British Library

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A mio padre, un grande uomo.

PREFAZIONE Allo studio principale del Collura si aggiungono sette appendici (sulla ceramica arcaica; due su una nuova lettura e interpretazione di un decreto onorario di cui una a cura di Emiliano Arena; su di una meridiana solare; sulle monete dall’area calactina, insieme a Benedetto Carroccio; sulla sigillata italica, insieme a Sergio Cascella; su di un phrourion o insediamento fortificato dell’entroterra), le quali completano il quadro complessivo proposto ampliandone e precisandone i contorni soprattutto in una prospettiva storica. Quest’opera insomma, come forse questa breve introduzione ha contribuito a mettere in evidenza, è tutt’altro che una delle solite monografie dedicate da autori locali alla loro città; essa ha invece tutte le caratteristiche di un’opera di natura e di finalità scientifiche, che, aggiungendosi ai precedenti interventi di studiosi come Giacomo Scibona e Carmela Bonanno, ma di gran lunga superando i loro contributi per ampiezza di documentazione, e con ben determinata prospettiva storica, costituisce un vero e proprio modello di indagine per le tante piccole e semidimenticate realtà archeologiche della Sicilia. Di essa dobbiamo ringraziare l’autore Francesco Collura, augurandoci che quel numerale “I” che si aggiunge al titolo “Studia Calactina” sia indicativo non solo di una volontà, ma dell’effettivo proseguimento di una concreta attività di ricerca che possa gettare ancora luce su questa piccola, ma profondamente inserita nel tessuto connettivo della storia, realtà archeologica della Sicilia antica.

Con grande interesse e non senza viva curiosità ho accettato di leggere e di presentare questo bel volume curato e in gran parte scritto da Francesco Collura; l’Autore infatti, non è di professione archeologo o storico dell’antichità, ma di lui già conoscevo l’intensa attività di appassionato divulgatore su internet del patrimonio archeologico siciliano; avevo altresì avuto modo di apprezzare suoi precedenti studi, come quello informatissimo e concreto su Monte Casale – Kasmenai, anch’esso facilmente reperibile in rete. In questo volume egli tratta di un argomento che per motivi personali gli è particolarmente caro, e cioè dell’archeologia del territorio della sua città natale di Caronia in provincia di Messina, per lunga tradizione negli studi storici siciliani, a partire dall’opera del Cluverio, identificata come la sede del centro antico di Kalè Akté o Calacte, fondato dal condottiero siculo Ducezio verso il 446 a.C. come atto finale del suo secondo sfortunato tentativo di creare uno stato siculo all’interno di una Sicilia ormai fortemente ellenizzata e già praticamente, come lo sarà nei secoli successivi, caduta sotto il dominio siracusano. In questo quadro storico-topografico, forse si può spiegare il perché il movimento di Ducezio, che in un primo momento si era sviluppato nel cuore dell’isola, nel territorio tradizionale dei Siculi, intorno al venerato santuario dei gemelli Palici, si sia rivolto all’area Nord dell’isola, al mar Tirreno e all’accidentato territorio dei Nebrodi, che ancora ospitava, forse proprio a causa della difficile accessibilità, città ancora in relative condizioni di indipendenza, così come pure l’antichissimo santuario indigeno, non ancora identificato, di Engio. La vicenda di Calacte, però, a differenza di quanto avviene per esempio a Palikè, non si esaurisce con la parabola duceziana, ma prosegue la sua vita, sia pure nel silenzio pressoché totale delle fonti antiche, attraverso l’età ellenistica e romana, sviluppando una vita civica autonoma di cui sono testimonianza monete, iscrizioni, statue e costruzioni pubbliche, e trapassando senza interruzioni traumatiche in quella della moderna Caronia; questa “storia lunga” dell’area è ricostruita mettendo insieme dati provenienti dai – pochissimi – scavi ufficiali condotti nell’area ed una grande quantità di elementi raccolti dall’Autore in una diuturna e attenta opera di ricognizione di tutte le emergenze archeologiche esistenti o comunque venute fuori a seguito di interventi casuali. È inoltre grande merito dell’Autore aver individuato il precedente della fondazione duceziana in un insediamento di età arcaica e classica, posto in vicinanza del mare, laddove poi in prosieguo di tempo tornerà a collocarsi la città romana, e che forse è da attribuirsi ad un insediamento zancleo; questa importante scoperta, che fa risalire almeno al VII secolo a.C. l’interesse dei Greci per quest’area, contribuisce altresì a meglio delineare i contorni storici all’interno dei quali si colloca l’intervento duceziano. L’indagine dell’Autore si estende anche al territorio circostante, di cui ricostruisce la storia mediante estese ricerche topografiche e scoperte che vanno dal Neolitico fino alle soglie del Medioevo.

Dario Palermo Prof. Ordinario di Archeologia Classica Università di Catania

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INDICE

Kalè Akté – Calacte. Primi risultati delle ricerche Kale Akte – Calacte. First results of the research Introduzione – Archeologia a Caronia (Sicilia, ME) Introduction – Archaeology at Caronia (Sicily, Messina)

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Cap. 1. La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte tra fonti letterarie e ricerca archeologica The historical events of Kale Akte – Calacte between literary sources and archaeological research

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Cap. 2. Prima di Kalè Akté: insediamenti arcaici e classici nell’area dei Nebrodi centro-occidentali Before Kale Akte: archaic and classic settlements in the west-central Nebrodi area

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Cap. 3. Ricerche nell’area urbana I: la città collinare Research in urban area I: the hill town

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Cap. 4. Ricerche nell’area urbana II: la città costiera Research in urban area II: the maritime town

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Cap. 5. Le necropoli di Kalé Akté – Calacte The necropolis of Kale Akte – Calacte

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Cap. 6. Da Calacte a Caronia. Le trasformazioni del tardo-antico e dell’altomedioevo: dalla città classica alla città medievale From Calacte to Caronia. The transformations of late antiquity and the early Middle Ages: from the classical to the medieval city Cap. 7. Ricerche nel territorio: la chora calactina Research in the territory: the “chora calactina”

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Approfondimenti Insights Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca lungo la costa tirrenica in età coloniale: fu Kalè Akté un Emporion? Archaic and classical pottery from the maritime site. New data about the Greek presence along the Tyrrhenian coast in the colonial age: was Kale Akte an “Emporion”? Il decreto onorifico tardo-ellenistico da Caronia (SEG LIX, 1102): rinvenimento e ricostruzione del contesto d’origine The late Hellenistic honorary decree from Caronia (SEG LIX, 1102): discovery and reconstruction of the original context Il decreto onorifico tardo-ellenistico da Caronia (SEG LIX, 1102): per una nuova edizione (di Emiliano Arena) The late Hellenistic honorary decree from Caronia (SEG LIX, 1102): for a new edition (by Emiliano Arena) Una meridiana greco-romana dalla collina di Caronia A Greek-Roman sundial from the hill of Caronia

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Ritrovamenti monetali di epoca greca nel territorio di Caronia, antica Kalè Akté – Calacte (con Benedetto Carroccio) Coin finds of the Greek age in the territory of Caronia, ancient Kale Akte – Calacte (coauthor Benedetto Carroccio)

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Sigillata italica dalla collina di Caronia (con Sergio Cascella) Italian Sigillata from the hill of Caronia (coauthor Sergio Cascella)

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Il phrourion di Pizzo Cilona The “phrourion” of Pizzo Cilona

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Tavole a colori Color plates

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Kalè Akté – Calacte. Primi risultati delle ricerche Kale Akte – Calacte. First results of the research

INTRODUZIONE – ARCHEOLOGIA A CARONIA (SICILIA, ME) INTRODUCTION – ARCHAEOLOGY AT CARONIA (SICILY, MESSINA) The site of the Greek-Roman city of Kale Akte – Calacte is located in the territory of today’s Caronia, in the province of Messina (Sicily). We can assume that its “chora”, that is the geographical area pertinent to the ancient city, corresponded roughly to the extension of the modern municipal territory, and so was very large, taking into account the natural boundaries (rivers and mountain peaks), as well as the locations of the nearby cities: Apollonia (San Fratello) to the east, Amestratos (Mistretta) and Halaesa (Tusa) to the west and Kapytion (Capizzi) to the south. It was a diverse territory, with numerous creeks and an uninterrupted series of hills, mostly covered by forests in ancient times, and was a land full of resources that lent itself to profitable agricultural and forestry-pastoral use, while a long stretch of coast with a natural harbour made it possible to carry out commercial shipping trades and to take advantage of the fishery resources in production factories. Kale Akte – Calacte cannot be considered among the most important cities within the framework of Greek-Roman Sicily. We learn this from the accounts of ancient historical sources, which make no mention of the city in any of the events that affected the island in ancient times. This is reinforced from the results of field studies, which suggest the existence of a small- to mediumsized town, as were all the towns that were located in this mountainous part of Sicily. However, it is one of the most exemplary cases of settlement that survived for over 2500 years: the medieval and modern Caronia is located on the same hill that the Greek-Roman city occupied and along the same stretch of coast where once stood the classical maritime settlement. Today, as then, the city is divided into two complementary settlements, one kilometer apart as the crow flies. Although the name of Kale Akte – Calacte has not been linked with important events, the finds of the last decades have gradually highlighted its importance with regard to culture and economic activities. This volume introduced here, taking a cue from the research carried out so far by various scholars through excavations and surveys, (both edited and unedited), presents the findings from the research conducted by the author over the course of the last twenty years on the site of the ancient city and its territory. The method used consisted of a systematic survey and study of the reuse of ancient materials in modern buildings, as well as of ancient structures and materials which have brought to light, as a result of agricultural works and building excavations, or during public works such tracings of roads and other excavations that often have lost their ancient contexts. Particular attention has been paid to the acquisition of oral testimonies on site, since much precious information from discoveries reported by local citizens in the past, many of which can no longer be checked and have never been disclosed, can help to reconstruct a reliable picture of the archaeological history of the site. At the same time, we have had the opportunity to examine some ancient materials (pottery, terracotta figurines, coins) currently owned by some local people, who have found them in their farmland or in urban areas in the last century, and have attempted to reconstruct their original contexts. It is the intention of the author that this book will be the first of a series of volumes dedicated to Kale Akte – Calacte and the surrounding area, in the western part of the Nebrodi Mountains. Future volumes will be dedicated, among others, to the study of the various materials found in Caronia in the course of the research and to an analysis of the modes of human existence in ancient times in this part of Sicily, which the author considers “an island within an island”, not only because of its intrinsic and unique environmental characteristics, but also because of the manifestations of material culture, urban organization and land management. The title “Studia Calactina” is a suitable title under which to analyze every aspect and expression of an ancient city with the primary objective of the disclosure of knowledge, however acquired, as a starting point for further and more detailed studies. We have chosen to present the results of the research in a simple manner, avoiding analysis comprehensible only to scholars and focusing instead on the divulgence of knowledge, so that the acquired knowledge can become the heritage of all. The archaeological investigation, started here three decades ago, but conducted using modern methods of stratigraphic excavation, was limited in space, focusing only on limited areas of land and almost always not beyond the superficial archaeological levels. It should be noted that almost nothing has been published on the large amount of material unearthed, so the real material culture of this center remains virtually unknown. The result of this apparent lack of interest is that the name of Caronia is almost unknown in the panorama of archaeological studies, not only Italian but also Sicilian, and the few, but precious, literary references cannot be linked with what has so far been discovered and published. The exact site of the city founded by Ducezio has long remained unknown, and uncertainties remain regarding the localization of the toponym to which the literary sources of the Imperial and Byzantine ages refer, because there has never been an in-depth study of the peculiar urban organization of this city, which from the beginning of its existence was divided into two complementary settlements, one on the hill and the other on the coast, which experienced different fortunes. The volume that we introduce here obviously cannot fill all the gaps in the knowledge about this ancient center, that would necessitate the employment of significant financial and human resources to implement a systematic research. However, it introduces a number of leads for further studies that we believe are worth appropriate investigation. We refer, amongst others, to the recent

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia discovery of colonial and imported late archaic materials, which predate by more than a century the traditional founding date of the mid-fifth century BC, the time of the occupation of the maritime site by the Greeks, probably from Zancle (Messina), and suggest how and when the northern coast of Sicily was frequented from a colonial perspective beyond the information available to date; the distinction of various phases of life of the two settlements, with the one on the hill – the true political and administrative center in the Hellenistic age - becoming depopulated during the first century AD, possibly in conjunction with disastrous natural events, in favor of the maritime settlement, from which we can identify the Calacte of Imperial and proto-Byzantine age; the identification of local products (bricks, pottery, coroplastic, etc.) that characterized the late Hellenistic and early imperial phase regarding the materials in common use; the use of building technology, such as the widespread use of bricks, which has not parallel in other sites on the island but is connected to the need to build compact masonry on steep slopes and the lack of good building stone; the presence of ceramics imported from different parts of the Mediterranean (Iberian jars, eastern sigillata, etc.), which suggest that, in the late Hellenistic age, Kale Akte was a lively center from a commercial point of view and open to fashions from different backgrounds. The number of worthy study topics is countless, and the present work ultimately aims to bring our site to the attention of scholars and, at the same time, to induce an awareness in the local community, so that it preserves and values the cultural heritage it has inherited from the past.

Fig. 1. Panoramica da est del sito di Kalè Akté, odierna Caronia: collina e promontorio costiero

Il sito della città greco-romana di Kalè Akté – Calacte, il cui nome è tramandato da diverse fonti storiche quali Erodoto, Diodoro Siculo, Cicerone. Plinio e Silio Italico, si trova nel territorio dell’odierna Caronia, in provincia di Messina. A lungo ipotizzato in quest’area in base alle coordinate del geografo antico Tolomeo ed al rinvenimento, già nel XVIII e XIX secolo, di diversi materiali tra cui statue e iscrizioni, è stato identificato con certezza solo nella seconda metà del secolo scorso principalmente su base numismatica. Possiamo ipotizzare che la chora, ovvero l’area geografica di pertinenza della città antica, corrispondesse grosso modo all’estensione del moderno comune, molto esteso, tenendo conto dei confini naturali costituiti dai principali corsi d’acqua e dalle cime montuose, nonché dalla localizzazione delle città antiche più vicine, Apollonia (San Fratello) ad est e Amestratos-Halaesa (Mistretta – Tusa) ad ovest. Si trattava, allora come oggi, di un territorio molto diversificato, con numerosi torrenti ed una serie ininterrotta di alture, in gran parte coperte da boschi che nell’antichità arrivavano a lambire il mare. Un territorio ricco di risorse che si prestava ad un redditizio sfruttamento agricolo e silvo-pastorale, mentre un lungo tratto di costa con un approdo naturale permetteva di svolgere traffici commerciali per mezzo di navi e di potere sfruttare le risorse ittiche con impianti artigianali. Il toponimo καλὴ ἀκτή compare per la prima volta in Erodoto (6.22), a proposito del fallito tentativo di insediare una colonia greca da parte dei Samii, qui invitati da Zancle che desiderava fondarvi una città ionica (inizi V secolo a.C.). Alcuni secoli dopo, lo storico Diodoro Siculo (12.8.2), descrivendo l’epopea del

condottiero siculo Ducezio, riferisce della effettiva fondazione della città, nel 446 a.C., con la collaborazione del dinasta di Herbita, Archonidas, e di un gruppo di coloni corinzi e siculi. La data di fondazione e comunque l’esistenza della città a metà del secolo è peraltro confermata indirettamente nel citato passo di Erodoto, quando lo storico dice che “questa Kalè Akté, come viene chiamata, è in Sicilia, in quella parte che si affaccia sul Tirreno”. I due riferimenti letterari riportano preziose notizie sul sito per il V secolo a.C., circostanza eccezionale se si considera che questa parte della Sicilia rimane a lungo priva di menzione nei testi antichi almeno fino alle vicende di Timoleonte nella seconda metà del IV secolo a.C., escludendo un’altra fondazione sicula, quella di Halaisa del 403 a.C. riportata sempre da Diodoro. I dati archeologici attestano tuttavia un’antichissima frequentazione di questo territorio, fin dalla preistoria e poi nella fase successiva alla prima colonizzazione greca della Sicilia, che, in base ad alcuni materiali arcaici di recente rinvenimento, sembra datarsi già negli ultimi decenni del VII secolo a.C., quando sulla costa di Caronia venne probablmente creato un piccolo emporion sulla trafficata rotta commerciale tirrenica. A quell’epoca, diversi insediamenti indigeni occupavano le alture a non molta distanza dal mare, e dovettero entrare in contatto con l’insediamento greco sulla costa, che potremmo anche ipotizzare essere stato un primo tentativo di Zancle di fondare un proprio insediamento coloniale negli anni immediatamente precedenti la vera e propria fondazione di Himera nel 648 a.C. Un minuzioso lavoro di assemblaggio di notizie frammentarie, indizi da scavi ufficiali e innumerevoli

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Introduzione – Archeologia a Caronia (Sicilia, ME) rinvenimenti fortuiti, consente oggi di avere un quadro verosimile delle modalità di occupazione di questo territorio, che evidentemente apparve alle popolazioni antiche molto attraente per diversi motivi: abbondanza di risorse naturali (sorgenti idriche, legname dai boschi, cave d’argilla, ecc.), clima favorevole, terreni fertili, presenza di un ormeggio naturale e possibilità di contatto con altre popolazioni, non solo isolane, ma anche della penisola attraverso i traffici via mare. Gli abitanti dei villaggi preistorici individuati in alcuni siti di questo settore montuoso intrattenevano rapporti con quelli degli insediamenti sparsi nella parte nord-orientale dell’isola, dell’entroterra etneo, nonché con Lipari, da cui proveniva l’ossidiana, principale indizio di frequentazioni per l’Età del Rame e del Bronzo in diverse contrade. Nel corso dell’Età del Ferro, che qui, diversamente da altre parti della Sicilia, sembra avere termine molto più tardi, non prima della metà del VI secolo a.C., insediamenti sorsero sulle alture immerse nella boscaglia. Influssi culturali di tipo ellenico, provenienti sia da est (Zancle-Mylai) che da ovest (Himera), mediati dalla citata postazione greca sulla costa di Marina di Caronia, si avvertono a partire dalla fine del VII e soprattutto dopo la metà del VI secolo a.C. La fondazione di Ducezio sulla collina di Caronia, forse nel sito di uno dei tanti villaggi indigeni preesistenti, al momento attestato solo da pochi frammenti ceramici ma più che ipotizzabile per la natura stessa dei luoghi (un’altura naturalmente difesa con immediato accesso al mare), avrebbe dovuto avere importanti risvolti strategici per il popolo siculo di questa parte dell’isola, con la possibilità, per la potente città sicula di Herbita, di avere immediatamente vicino alla costa una propria postazione con la quale controllare efficacemente l’area compresa tra Nebrodi e Madonie, sottratta per il momento alle mire espansionistiche delle potenze greche di quella fase storica (Siracusa e Akragas). Le cose, in realtà, andarono diversamente: Ducezio morì qualche anno dopo, mentre Herbita fu impegnata contro Siracusa anche in occasione della decennale guerra tra questa e Atene, dalla cui parte si schierò. Un patto di non belligeranza con la colonia corinzia portò ad un’altra fondazione, quella di Halaisa, ma ormai i tempi erano cambiati: l’area nebroidea entrò sotto il pieno controllo siracusano nel corso del IV secolo a.C., soprattutto dopo la fondazione di Tyndaris all’inizio del secolo, ed è in questi anni che assistiamo alla definitiva scomparsa dell’elemento siculo, ormai assimilato in quello greco: i contesti funerari di IV secolo da alcuni siti di area nebroidea fino ad oggi oggetto d’indagine sistematica (ad esempio da Halontion, Gioiosa Guardia e Abakainon) dimostrano che quei centri erano ormai del tutto ellenizzati. Occorre dire che la ricerca archeologica in area nebroidea richiede un approccio ed una impostazione diversi rispetto ad altre aree dell’isola. Sappiamo bene l’influenza che esercitarono le colonie greche della Sicilia orientale e meridionale sulle popolazioni autoctone, attraverso una progressiva espansione verso l’interno che portò ad una completa ellenizzazione dei centri indigeni

in alcuni casi molto precoce ma comunque, in genere, non più tardi del VI secolo a.C. Invece, questo settore dell’isola mantenne a lungo una notevole autonomia e impermeabilità agli influssi culturali provenienti dall’esterno, tanto che consuetudini e espressioni di cultura materiale di tradizione protostorica rimasero in uso fino a molto tardi, talvolta fin quasi alle soglie dell’alto ellenismo. Il diverso approccio, tenuto conto delle persistenze indigene e della relativa perifericità di quest’area, eviterà in questo modo possibili errori di interpretazione degli stessi materiali rinvenuti. Si è infatti osservato, ad esempio, come le ceramiche d’impasto, modellate a mano con forme che richiamano modelli dell’Età del Ferro (ad esempio i contenitori con prese semilunate e a bugna), si continuassero ad utilizzare in contesti già ellenizzati e fino a periodi molto recenti. Lo si è constatato, in particolare, in due siti ricadenti proprio nel territorio di Caronia (contrada Arìa e soprattutto Pizzo Cilona), dove ceramiche modellate a mano sono compresenti nel medesimo contesto con materiali di produzione coloniale nel corso dell’intero V secolo a.C. e forse ancora all’inizio del successivo Per l’epoca arcaica e classica, inoltre, non si devono cercare grandi insediamenti, piuttosto piccoli abitati concentrati sulle cime di alture impervie, che sottintendono una certa frammentazione socio-politica pur nel quadro di una cultura comune e di strategie di controllo del territorio unitarie, che seppero impedire la fondazione di colonie greche. E’ probabile che la stessa Herbita, potenza sicula di queste aspre contrade, non avesse dimensioni comparabili a quelle delle città greche sulla costa. Kalè Akté non fu una città importante nel quadro dei centri greco-romani siciliani. Lo si evince dal racconto delle fonti, che non la citano in nessuna delle vicende che interessarono l’isola in antico. Lo si desume peraltro dai risultati delle ricerche sul campo, che suggeriscono l’esistenza di un abitato di dimensioni medio-piccole, come del resto furono tutti i centri ricadenti in questa parte montuosa della Sicilia. Tuttavia si tratta di uno dei più esemplari casi di insediamento sopravvissuto a se stesso nell’arco di oltre 2500 anni: la cittadina medievale e moderna di Caronia sorge infatti sulla stessa collina occupata dalla città greco-romana e nello stesso tratto di costa in cui sorgeva l’abitato marittimo di epoca classica. Oggi come allora, la città si articola in due abitati complementari, distanziati di un solo chilometro in linea d’aria. Sebbene la città classica non abbia legato il proprio nome ad eventi importanti, tuttavia, seppe esprimere il meglio che poteva sotto l’aspetto culturale (furono nativi di Kalè Akté, ad esempio, lo storico Sileno e il retore Cecilio) e commerciali ed i ritrovamenti degli ultimi decenni lo mettono gradualmente in evidenza. D’altra parte, la limitata menzione di Kalè Akté soprattutto nei testi degli autori successivi alla conquista romana della Sicilia è da giustificarsi, riteniamo, con il diverso comportamento che essa, come gran parte delle città di area nebroidea, dovettero tenere nei confronti di Roma all’epoca delle Guerre Puniche rispetto alla vicina Halaesa, che appare

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia come il principale centro di questo settore dell’isola: diversamente dalla nostra città e da altre come Apollonia o Halontion, Halaesa si consegnò spontaneamente a Roma e da ciò trasse vantaggio non solo, nel concreto, in termini di autonomia politica e fiscale, ma anche nella considerazione degli scrittori di formazione repubblicana, tra cui Diodoro Siculo e Cicerone. Un esame oggettivo dei dati archeologici a disposizione permette invece di riunire tutti i centri di quest’area in un’unica koinè che risentiva, in età medio-tardo ellenistica, della relativa vicinanza alla penisola e di una posizione vantaggiosa nel quadro delle reti commerciali antiche, mentre allo stesso tempo la relativa perifericità rispetto ai principali centri dell’epoca stimolava la formazione di un’identità originale, eredità, peraltro, di un più tardo affrancamento dalle origini sicule. E d’altra parte, non sempre il racconto delle fonti e l’esecuzione di scavi sistematici possono rendere evidente l’effettivo status di una città antica: pensiamo, ad esempio, ad Halontion (San Marco d’Alunzio), rivelatasi un municipium solo per il fortuito rinvenimento di una iscrizione e che ha rivelato occasionalmente una monumentalità nell’edilizia sia pubblica che privata che non è possibile evidenziare neppure dallo scavo, ormai reso impossibile dal sovrapporsi della città medievale e moderna su quella classica, come a Caronia. Piuttosto, occorre sottolineare come il nostro sia stato uno dei siti archeologici siciliani più trascurati dalla ricerca ed abbia pagato una scarsa attenzione locale per le testimonianze antiche, con l’inevitabile e grave conseguenza della perdita definitiva di tanti tesori storicoarcheologici. Ci si chiede, ad esempio, che fine ha fatto la bella statua ritratta da J. Houel nel ‘700 o quale sia stato il destino delle tante altre statue che dovevano adornare l’area pubblica, dei capitelli e dei fusti delle colonne che definivano gli spazi della piazza principale e di altri edifici pubblici (unico rimane per il momento il dissotterramento negli anni ’50 del secolo scorso di una statua di togato di I secolo a.C. attualmente conservata nei depositi di Tindari). O ancora quale sia stata la sorte delle iscrizioni pubbliche, solitamente apposte bene in vista su blocchi marmorei, di cui tantissimi esempi provengono dai vicini centri di Halaesa, Apollonia, Halontion (un recupero tanto sporadico quanto prezioso è quello di un’epigrafe greca di contenuto pubblico di cui tratteremo nel presente volume). Dovremmo forse pensare che nei siti di quelle altre città, dove peraltro da secoli, con maggiore cura, si è preservato l’antico considerandone adeguatamente la preziosità, esistessero documenti scritti ad memoriam e che invece, a Kalè Akté – Calacte non fosse questa la consuetudine, come se si trattasse di un luogo disabitato, svincolato da disposizioni amministrative o in cui non si riservasse gratitudine ai benefattori? Sono tante le domande che ci si è posti lavorando in queste contrade paesaggisticamente uniche, amatissima terra d’origine di chi scrive, posto contraddittorio dove alla naturale bellezza dei luoghi e alla ricchezza storica si accompagna una generalizzata indolenza nei confronti dei Beni Culturali.

Fig. 2. Statua di personaggio togato dissotterrata negli anni ’50 del secolo scorso nel corso di lavori agricoli a valle dell’abitato collinare. Depositi dell’Antiquarium di Tindari

Lo scopo del presente lavoro è quello di fare il punto sullo stato delle conoscenze riguardo a Kalè Akté – Calacte. Non è il resoconto di uno scavo archeologico ma, piuttosto, una raccolta di dati di diversa provenienza che, tra loro comparati, danno un’idea verosimile di ciò che doveva rappresentare nell’antichità una città “di provincia”, sostanzialmente nella media dei centri classici di Sicilia. Molti di questi dati sono “irripetibili”, nel senso che provengono da fonti locali ormai non più verificabili circa rinvenimenti avvenuti in passato di cui non era mai stata data notizia ma che hanno ricevuto conferme da quanto è stato posssibile verificare pur in contesti ormai del tutto cambiati. Nei decenni passati è capitato che si scavasse per opere pubbliche o private nelle campagne circostanti la cittadina moderna, un tempo area urbana di Kalè AktéCalacte, nonché in varie parti del territorio interessate da evidenze archeologiche. Nel corso di sistematiche e ripetute ricognizioni, grazie a preziose segnalazioni o alla visione diretta degli sbancamenti, purtroppo quasi tutti incontrollati, ci si è dovuti rassegnare a non potere intervenire per uno studio sistematico di quanto veniva distrutto, e ancora meno per evitare che accadesse. Una parte del lavoro è consistita quindi nel recupero di alcuni materiali da discariche, una modalità di ricerca tanto poco scientifica quanto preziosa, perché ha comunque permesso in qualche modo di tracciare indirettamente modalità insediative secolari in luoghi ben precisi. A

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Introduzione – Archeologia a Caronia (Sicilia, ME) futura memoria, si segnalano come aree di riversamento di “terreno archeologico” la mezza costa di Caronia sottostante le piazze Canale e Padre Pio, create proprio dal riempimento dei profondi valloni naturali con terreno in buona parte proveniente da scavi pubblici e privati sulla collina; la bassa vallata del fiume Caronia, dove sulle due sponde sono stati riversati materiali provenienti sia da Marina di Caronia, che da contrada Piana e aree limitrofe; la piana marittima di contrada Pantano, dove da decenni vengono smaltiti i terreni asportati da scavi edilizi nella frazione di Marina. Non si sa mai che in futuro qualche studioso interpreti come sito archeologico terreni che in realtà non lo sono. Un caso esemplare della scarsa attenzione alle testimonianze del passato riguarda la necropoli meridionale della città collinare. Possediamo solo fugaci accenni in Scibona circa il rinvenimento di corredi funerari di cui ebbe notizia nel corso dei suoi sopralluoghi in paese. Una serie di notizie personalmente recuperate e la possibilità di visionare alcuni materiali attualmente in collezioni private, consente di ipotizzare che l’area cimiteriale si sviluppasse poco fuori l’abitato antico, a partire dall’area dell’odierno Municipio verso sud. In epoca classica si doveva trattare di un’area ancora parzialmente coperta dal bosco, che progressivamente si elevava tra due ripidi pendii e lungo la quale era tracciato un sentiero che conduceva verso l’entroterra. A partire dalla fine del V secolo a.C. quest’area fu riservata a sepolture, le più recenti delle quali (III secolo a.C.) sono venute in luce a sud-est, in contrada Pozzarello-Pidoto. Se l’area tra il Municipio e Piazza Roma fu urbanizzata già a partire dal XVI secolo, le contrade Pozzarello e Pidoto sono state occupate da case solo a partire dalla seconda metà del ‘900, con un’espansione urbana molto fitta soprattutto dopo gli anni ’70. Scavando nel terreno di campagna per la costruzione di case private e, quel che più grave, di pubbliche strade e piazzette, affiorarono dalla terra innumerevoli contesti funerari ed una gran messe di reperti. Ascoltare il racconto di chi assistette a quei lavori ed ebbe modo quantomeno di recuperare qualcosa accresce il rimpianto di un’occasione mancata: ceramiche e ossa umane venivano smaltite continuamente dentro contenitori che venivano svuotati lontano dalla cittadina. Tanti ne approfittarono per accaparrarsi qualche oggetto prezioso, portato altrove e forse rivenduto. Inutile chiedersi ancora come sia stato possibile che nessuno abbia fatto segnalazioni perché si intervenisse nei modi opportuni e perché le Amministrazioni Locali di quegli anni abbiano accettato la politica del quieto vivere, senza intervenire per evitare di “danneggiare” un concittadino. Come sempre, non si è riconosciuta l’importanza di un fondamentale aspetto della cultura di una comunità, quale è la valorizzazione della propria storia, anche nella prospettiva futura dello sfruttamento economico di una risorsa liberamente disponibile. Ma questo è quanto è avvenuto, che serva almeno da lezione per il futuro. Un discorso per certi versi analogo è quello di un’altra necropoli medio-tardoellenistica esistente a valle della città collinare in contrada S. Todaro, esplorata negli anni

’50-60 da scavatori clandestini e appassionati di antichità, di cui fa un accenno volutamente relegato in nota lo stesso Scibona, i cui materiali risultano oggi dispersi. Fatto sta che Kalè Akté – Calacte è forse l’unico sito siciliano di cui non sono state indagate scientificamente le aree cimiteriali, se si esclude qualche isolata tomba esplorata ancora da Scibona a Marina di Caronia ma rimasta sostanzialmente inedita. Chi scrive ha avviato ricerche a Caronia dal periodo in cui si fecero i primi saggi archeologici sulla collina, nei primi anni ’90 del secolo scorso. I lavori pubblici che prevedevano la messa in sicurezza dell’abitato attraverso la costruzione di muraglioni di contenimento ed il contemporaneo tracciamento di una strada esterna al centro storico, prevedevano una serie di sbancamenti di notevole entità per la realizzazione delle fondamenta e per l’apertura della strada stessa, intaccando profondamente il pendio collinare. Fu quella l’occasione per eseguire, per la prima volta nell’area collinare, scavi archeologici sistematici che, seppure limitati in estensione ed ostacolati da esigenze diverse (anche dalla stessa Amministrazione Comunale, come riferiva la responsabile degli scavi), offrirono nuovi spunti di ricerca, confermando l’esistenza di un fitto abitato sulla collina, verosimilmente la Kalè Akté fondata da Ducezio, anche se i resti portati in luce non risalivano a prima della seconda metà del IV secolo a.C. In diverse occasioni fu personalmente esaminata la lunga parete scavata che, al di là dei settori indagati sistematicamente per i quali disponiamo di adeguata pubblicazione, rivelavano continuamente livelli archeologici; muretti affioranti, strati di crollo, lembi di pavimentazioni in cocciopesto e a mosaico, migliaia di frammenti ceramici di ogni epoca che purtroppo si dispersero con lo smaltimento della notevole quantità di terreno asportato (terreno di riempimento dell’odierna Piazza Padre Pio). Negli anni successivi, l’intenzione di evitare che un grande patrimonio di conoscenze andasse perso per trascuratezza e disinteresse, sono stati lo stimolo costante per acquisire informazioni, esplorare una parte significativa del vasto comprensorio di Caronia, recuperare preziosi materiali che potessero essere studiati e possibilmente esposti in un Museo locale, che ancora incredibilmente, nonostante la grandissima quantità di reperti oramai acquisiti con i saggi di scavo ed i recuperi occasionali, non ha preso vita. Alla persistente constatazione dei numerosi incontrollati interventi privati (e pubblici) di scavo in area urbana, con distruzione di contesti archeologici, per i quali non è stato possibile agire a tutela o quantomeno alla puntuale raccolta di significativi elementi di studio, ha fatto ampiamente da contraltare il recupero di una notevole messe di dati e l’acquisizione di conoscenze che, in questa occasione, si vuole mettere a disposizione di tutti, quale spunto per future ricerche e studi. Quello che qui si introduce è il primo di una serie di volumi dedicati a Kalè Akté – Calacte ed al territorio circostante, ricadente nel settore dei Nebrodi occidentali. I prossimi lavori saranno dedicati, tra gli altri,

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Del tutto inediti sono i dati esposti nel capitolo dedicato alle necropoli calactine, in particolare quella meridionale dell’abitato collinare, in area oggi interamente urbanizzata, grazie alle testimonianze raccolte da chi potè recuperare alcuni preziosi manufatti, di cui si è avuta la possibilità di prendere visione, che qui vengono presentati per la prima volta. Le stimolanti ricerche nel territorio, che appare sistematicamente frequentato dalla preistoria all’alto medioevo, sono esposte in un apposto capitolo ma, per forza di cose, sono da intendersi “work in progress”, poiché le scoperte si susseguono costantemente, aggiungendo nuovi tasselli alla comprensione delle modalità insediative e di sfruttamento economico del territorio in antico. In questo ambito, un approfondimento specifico è dedicato al sito indigeno ellenizzato di Pizzo Cilona, nell’entroterra caronese, interessantissimo insediamento d’altura che costituì un phrourion della nascente polis di Kalè Akté. La seconda parte del volume contiene alcuni approfondimenti su tematiche specifiche, per le quali si è avuto il piacere di collaborare con esperti in materia: l’edizione dei ritrovamenti di Terra Sigillata sulla collina di Caronia (Sergio Cascella); i rinvenimenti monetari di epoca greca fuori da contesti di scavo, sempre sulla collina di Caronia (Benedetto Carroccio); il riesame di un’interessante iscrizione greca rinvenuta sul piano di campagna, già studiata da Manganaro (2009, 2011) e Battistoni 2010 (Emiliano Arena). A questi, si aggiungono alcuni approfondimenti a cura di chi scrive, il primo dei quali dedicato al recentissimo rinvenimento di materiali arcaici e classici in una discarica proveniente da un vecchio scavo edilizio a Marina di Caronia, che offre interessantissimi spunti di studio sulla prima frequentazione del sito di Kalè Akté ed il suo inquadramento come probabile stazione commerciale greca di età arcaica. In ultimo si vuole fare il punto della situazione circa il significato di ricerca archeologica a Caronia. Il nostro territorio e, in generale, l’intera area dei Monti Nebrodi, paga una evidente perifericità rispetto alle principali correnti di studio e ricerca, nonostante l’indubbia importanza delle attestazioni del passato, scaglionate su un lunghissimo arco di tempo che va dalla Preistoria al Medioevo. Il risultato di questa colpevole trascuratezza è che rimangono ancora poco conosciute, rispetto al resto dell’isola, le modalità di occupazione umana, le espressioni di cultura materiale e il ruolo che questo settore, di grande importanza strategica nel quadro dei rapporti tra i centri principali e la penisola italiana, ebbe nell’antichità. Il territorio di Caronia ha ricevuto attenzione scientifica solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, quando Scibona effettuò prolungate ricognizioni sia in area urbana che nel territorio, confermando l’esistenza di due entità urbane collegate, una in collina e l’altra sulla costa e identificando un discreto numero di siti nel territorio. Tuttavia, dopo un primo sommario resoconto nel BTCGI del 1987, le sue ricerche sono rimaste in gran parte inedite. Sostanzialmente, fino agli anni ’80 del secolo scorso non

allo studio dei numerosi materiali rinvenuti a Caronia nel corso delle ricerche, con specifico riferimento a determinate classi di ceramiche di produzione locale, regionale e provenienti da diversi centri del Mediterraneo, e ad un riesame delle modalità insediative in questa parte della Sicilia, che si può considerare “un’isola nell’isola” non solo per le intrinseche e peculiari caratteristiche ambientali, ma anche per le originali espressioni di cultura materiale, di organizzazione urbana e gestione del territorio nelle diverse fasi storiche. Il titolo “Studia Calactina” riteniamo si addica ad un lavoro che intende analizzare ogni aspetto ed espressione di un centro antico con l’obiettivo prioritario della divulgazione e diffusione delle conoscenze, in qualsiasi modo acquisite e verificate, punto di partenza per ulteriori e più approfonditi studi. Non si esporranno quindi elencazioni di dati stratigrafici, comprensibili solo agli addetti ai lavori, e si eviterà di esporre i dati acquisiti con un linguaggio che in tanti scelgono volutamente accademico e specialistico, puntando prioritariamente alla diffusione delle conoscenze, perché diventino patrimonio di tutti. Questo primo volume introduce la città antica, esponendo i principali risultati delle ricerche condotte da chi scrive. Si prendono le mosse dalla ricostruzione della vicenda storica di Kalè Akté – Calacte attraverso il confronto e l’integrazione delle fonti letterarie, epigrafiche e numismatiche con i dati archeologici. Si introduce il territorio in cui insisteva la città antica con riferimento alla fase precedente la data di fondazione ad opera di Dicezio, riferendosi dell’individuazione di alcuni insediamenti indigeni d’altura, in modo da inquadrare le peculiari modalità insediative ed i rapporti tra le popolazioni autoctone ed i Greci delle colonie. Quindi si espone un primo resoconto delle ricerche condotte sia nell’area urbana (collina e piana costiera) che nel territorio, partendo da quanto di edito esiste fino ad oggi. Un capitolo è dedicato alla ricostruzione di una fase particolare e ancora poco nota quale fu il passaggio dalla città classica a quella medievale e ad una prima e del tutto inedita presentazione delle attestazioni di cultura materiale per il periodo arabo-normanno, frutto di ricognizioni lungo i pendii sottostanti la cittadella medievale.

Fig. 3. Veduta aerea del sistema collinare antistate la costa tirrenica su cui sorgeva la città antica (foto D. Piscitello)

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Introduzione – Archeologia a Caronia (Sicilia, ME) è esistita alcuna forma di archeologia preventiva, né alcun intervento di sorveglianza, in occasione delle innumerevoli opere sia pubbliche che private che, in maniera ricorrente, intaccavano contesti antichi determinandone la distruzione. I primi interventi di scavo si sono avuti a Marina di Caronia: abbiamo solo sommarie notizie di quelli eseguiti negli anni ’80 del secolo scorso nell’area della Villetta Comunale e nel cortile dell’Asilo Nido (quartieri Nunziatella-Pantano), dove lo scavo ha raggiunto solo i livelli di epoca tardoellenistica e romana imperiale, mentre del tutto inediti rimangono gli esiti di quelli eseguiti da Scibona nella parte sud-orientale della proprietà Di Noto, anche questi superficiali. Negli anni ’90, per la prima volta, alcuni saggi di scavo hanno interessato la collina in occasione di lavori pubblici, rivelando l’esistenza di un compatto abitato costruito sui pendii che ebbe la sua massima fioritura in epoca medio e tardoellenistica. Alla fine degli anni ’90, la collaborazione tra la Soprintendenza di Messina e l’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma portò alla realizzazione di un progetto di ricerca che interessò sia la città costiera che quella collinare, dove furono aperte alcune trincee di scavo, i cui esiti fortunatamente sono stati e continuano ad essere dettagliatamente pubblicati a cura di Lentini, Goransson e soprattutto Lindhagen. Lo scavo a Marina di Caronia, in c.da Pantano, venne notevolmente ampliato nell’ambito di un progetto finanziato con fondi comunitari sotto la direzione di Bonanno, di cui una (fin troppo) sintetica edizione è contenuta in un volume edito nel 2008. Tuttavia appare chiaro come l’indagine archeologica, avviata solo un trentennio fa, seppure condotta con i moderni metodi di scavo stratigrafico, sia stata fin troppo limitata nello spazio, avendo interessato strette porzioni di terreno e quasi sempre fermandosi ai livelli più superficiali. A ciò va aggiunto che quasi nulla è stato pubblicato della notevole messe di materiali recuperati, per cui è rimasta sostanzialmente sconosciuta la cultura materiale di questo centro. Il risultato di un evidente disinteresse da parte di Istituzioni e studiosi è che il nome Caronia è rimasto finora pressoché sconosciuto nel panorama degli studi archeologici non solo italiani ma anche strettamente siciliani ed i pochi ma preziosi cenni delle fonti letterarie non riescono ancora a trovare un attinente collegamento con quanto è stato scoperto e pubblicato. Sconosciuto sembra essere rimasto finora il sito esatto della fondazione di Ducezio come quello a cui ricondurre i riferimenti di età imperiale, non essendo stata approfondita la questione della peculiare organizzazione urbana di questa città, articolata fin dall’inizio in due quartieri (collinare e marittimo) che vissero alterne vicende urbanistiche. Il volume che qui si introduce non può ovviamente colmare tutte le lacune nella conoscenza di questo centro antico, essendo necessario impiegare adeguati mezzi finanziari e umani per l’auspicata realizzazione di una ricerca sistematica. Tuttavia introduce alcuni spunti di studio che si ritiene meritino

adeguato approfondimento. Accenniamo alla scoperta di materiali coloniali e d’importazione tardoarcaici che retrodatano di oltre un secolo, rispetto alla tradizionale data di fondazione a metà del V secolo a.C., l’occupazione del sito marittimo da parte di genti greche provenienti verosimilmente da Zancle, suggerendo modalità e tempi di frequentazione della costa settentrionale siciliana in prospettiva coloniale ben al di là dei dati finora acquisiti; la definizione di diverse fasi di vita dei due abitati, con quello collinare – vero centro politico e amministrativo in età ellenistica – che si spopola nel corso del I secolo d.C., forse in concomitanza di disastrosi eventi naturali, a vantaggio di quello marittimo, in cui si deve riconoscere la Calacte di età imperiale e proto-bizantina; l’identificazione di probabili produzioni locali (laterizi, coroplastica, vasellame, ecc.) che caratterizzarono la tarda età ellenistica e quella altoimperiale relativamente alla circolazione e uso dei materiali d’uso comune; gli espedienti peculiari relativi alle tecniche edilizie, con l’impiego notevole del laterizio che non trova confronti in altri siti isolani, da ricollegare sia alla necessità di costruire compatte murature su terreni in forte pendio sia alla mancanza di buona pietra da costruzione; la presenza di ceramiche d’importazione da parti diverse del Mediterraneo (vasi iberici, sigillate orientali, ecc.) che inducono a ritenere che nella tarda età ellenistica Kalè Akté fosse un centro dalla vivace attività commerciale e aperto alle correnti di gusto provenienti da contesti culturali diversi. Gli spunti di studio sono innumerevoli e tutti degni di approfondimento ed il presente lavoro si propone – in ultima analisi – di iniziare il nostro centro all’attenzione degli studiosi e, allo stesso tempo, di indurre una presa di coscienza nella stessa comunità locale affinché preservi e valorizzi il patrimonio culturale che ha ereditato dal passato. Non può non considerarsi quanto esposto una “introduzione” al sito, o meglio un resoconto preliminare delle conoscenze acquisite, utile a identificare aree d’interesse per le Istituzioni che intendessero intraprendere indagini sistematiche attraverso scavi. Si coglie l’occasione per ringraziare coloro che hanno collaborato alla preparazione di questo volume, sia lavorando attivamente su specifici contributi, sia offrendo a chi scrive puntuale occasione di confronto e di crescita: Sergio Cascella, Emiliano Arena, Benedetto Carroccio, Kristian Goransson, Aurelio Burgio, Elisa Chiara Portale, Fabrizio Sudano e Vittorio Alfieri. Un ringraziamento particolare va a Sergio Cascella, amico e persona di grande cultura e sensibilità, che ha offerto lo stimolo a mettere nero su bianco il frutto di tanti anni di ricerche appassionate, e ad Adam Lindhagen, che sta pubblicando proprio adesso un nuovo lavoro su Kalè Akté, rimasto legato a questo territorio fin dagli scavi di cui fu parte attiva a fine anni ’90, non solo per la sua altissima valenza archeologica ma anche per la bellezza dei luoghi e il calore della gente, come sempre ama ricordare. Il continuo confronto con Adam è stato costante occasione di crescita e conoscenza e di questo gli si deve dare merito e riservare gratitudine. Si ringrazia la dottoressa

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia greco-romana della Sicilia settentrionale (VI secolo a.C. – V secolo d.C.). Lo stato delle conoscenze ed alcune note inedite. Preprint 2012

Gabriella Tigano, Responsabile del Servizio Beni Archeologici della Soprintendenza BB.CC. di Messina, con la quale si è avuta occasione di confronto sulle tematiche in argomento, nonché per la disponibilità in occasione della consegna dei materiali recuperati e l’interesse mostrato verso un territorio ricco di risorse storiche e culturali ancora in buona parte sconosciute, nonché il personale della stessa Soprintendenza, in particolare il sig. F. Marcellino per la documentazione fotografica d’archivio. Ringraziamenti vanno ad alcuni concittadini di Caronia per le diverse interessanti segnalazioni, spunti per approfondimenti circa l’area urbana e il territorio della città antica, tra cui menziono A. Cuffari, S. Serio, G. Giletto, S. Buono, B. Parisi, G. Bodanza, B. Pellegrino, D. Crisà. Un pensiero affettuoso e grato, infine, è riservato senz’altro a Giacomo Scibona, che per primo seppe sollecitare chi scrive a continuare e incrementare le ricerche a Caronia, dove per tanti anni, in maniera anche avventurosa, raccolse informazioni di ogni tipo, in gran parte mai pubblicate e solo personalmente accennate, per il quale rimane il rimpianto di non avere avuto il tempo e l’occasione per elaborare insieme qualcosa di importante.

Collura, Alfieri 2012 = F. Collura, V. Alfieri, L’area archeologica di contrada Aria. Quaderni di Archeologia Nebroidea Vol. I. Santo Stefano di Camastra. Capo d’Orlando 2012, pp. 31-34 Fiore 1971 = P. Fiore, Contributo all’individuazione della zona archeologica dell’antica Calacta. Sicilia Archeologica 16, 1971, pp. 54-61 Fiore 1991 = P. Fiore, Ducezio Calacta Caronia. Palermo 1991 Kroenig 1977 = W. Kroenig, Il Castello di Caronia in Sicilia. Un complesso normanno del XII secolo. Roma 1977 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 = A.M. Lentini – K. Goransson – A. Lindhagen, Excavations at Sicilian Caronia, ancient Kale Akte, 1999-2001. Opuscula Romana 27 2002, pp.79-108 Lindhagen 2006 = A. Lindhagen, Caleacte:.production and exchange in a North Sicilian town c. 500 BC - AD 500. Lund 2006 Lindhagen 2014 = A. Lindhagen, Continuity and ChangeLongterm processes of urbanization andruralization at Kale Akte (Sicily). Preprint 2014

Caronia 2016 Francesco Collura

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CAP. 1. LA VICENDA STORICA DI KALÈ AKTÉ – CALACTE TRA FONTI LETTERARIE E RICERCA ARCHEOLOGICA THE HISTORICAL EVENTS OF RESEARCH

KALE AKTE – CALACTE BETWEEN LITERARY SOURCES AND ARCHAEOLOGICAL

Research on an ancient city always starts from the study of the available historical sources. It is that “corpus” of literary references, inscriptions and coins issued by that city which can often prove its existence in a particular location and suggest the presence of monuments, as well as cults and onomastics. The case of Kale Akte – Calacte is the most common in the framework of ancient Sicily, for which there are a number of literary sources but only a few of which are exhaustive and, in general, for the main cities. Typically, in the overwhelming majority of cases, the evidence of a non-strictly archaeological kind is rather scarce and only in rare cases allows us to reconstruct the exact topography of a city, to locate its monuments, or even to determine the exact site where once it was located. Regarding Kale Akte – Calacte we have a number of literary references (e.g. Herodotus, Diodorus Siculus, Cicero, Pliny) whose interpretation is not always clear, so that the exact location of the town has been identified with certainty only in the last century, despite various assumptions, more or less suggested by discoveries in the site, have followed since the sixteenth century, when T. Fazellus first reported ancient remains at Caronia, but having misinterpreted the data of Ptolemy, there he identified Halaesa; following him, Cluverius first suggested the correlation between Caronia and Calacte. We think that a wrong starting point, mostly based on a certain interpretation of the Greek words contained in the name of the city, kαλὴ ὰκτή (i.e. "beautiful coast" and not, more correctly, "beautiful headland" or "beautiful stretch of coast") has induced to establish that the ancient city was located only along the coast and not also on the hill behind, causing moreover the dispersion of many precious materials that, year after year, came to light in the hill, ignored and now lost forever, and the loss of important information. The relative shortage of references from the historical sources must be integrated with the data of archaeological research, which can confirm chronologies and point out cultural and economic aspects of the ancient city. In the site of Kale Akte – Calacte limited excavations have been conducted until now, whose results have been integrated by the author with systematic surveys and research carried out with different methods, allowing to reconstruct, in a reliable manner, its vicissitudes over the centuries. Today we can say with certainty that the ancient city was articulated into two complementary settlements, one on the hill and the other along the coast and that there was a frequentation of the site well before the traditional founding date in the middle of the fifth century BC reported by the ancient sources. We know with a good approximation the size of the city and we can hypothesize the location of the main monuments into the two neighborhoods, hilly and maritime. The research conducted during several years by the author, compared with the published reports on the few systematic excavations, despite the difficulties related to the overlapping between the modern town and a large part of the ancient one, has allowed to reach important conclusions about the character of this Greek-Roman city of Sicily, whose future exploration will increase. In this chapter we summarize the known ancient sources mentioning Kale Akte – Calacte, with an overview of the literary texts, published epigraphic references and city’s coin emissions, furthermore presenting for the first time a heterogeneous group of minor inscriptions whose importance consists in the fact that come surely from the site, as some stamps on bricks and especially graffiti on vessels of daily use. At the end of the list of the historical sources, we will reconstruct the history of the city integrating the information obtained from them with the archaeological evidence, which sometimes confirms the ancient texts, sometimes overcome them considerably in importance, opening up new scenarios and proposing new working hypothesis. archeologica, che ha evidenziato la ricchezza di queste città non altrimenti desumibile dai pochi riferimenti tramandati. Per la nostra città possediamo una serie di notizie di controversa importanza, tanto che il sito di Kalè Akté è stato individuato con esattezza solo nel secolo scorso, nonostante varie supposizioni, più o meno comprovate da concreti ritrovamenti sul posto, si siano susseguite fin dal ‘500, quando per primo T. Fazello individuò imponenti resti antichi a Caronia e, interpretando erroneamente i dati di Tolomeo, vi identificò Halaesa;1 a lui seguì Cluverio,2 che per primo ipotizzò la correlazione Caronia-Calacte.

Il caso di Kalè Akté – Calacte è tra i più comuni nell’ambito della Sicilia antica, dove possediamo un numero di fonti storiche soddisfacente solo in pochi casi e, in genere, per i centri più importanti; se per città come Siracusa, Agrigento, Gela o Selinunte dai testi antichi conosciamo praticamente ogni evento importante e abbiamo la descrizione perfino dei principali monumenti, nella stragrande maggioranza dei casi le testimonianze di tipo non prettamente archeologico sono piuttosto esigue e solo raramente consentono con esattezza di ricostruire la topografia di una città, di localizzare monumenti o, addirittura, di stabilire l’esatto luogo in cui essa sorgeva. Basti pensare ad alcuni grandi siti archeologici siciliani esplorati sistematicamente, come Morgantina e Ietas (Monte Iato) ad esempio, dove alla scarsità dei testi letterari si è ampiamente ovviato con la ricerca

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T. Fazello, De Rebus Siculis Decades Duae. 1558 Cluverio, Sicilia antiqua: cum minoribus insulis et adiacentibus item Sardinia et Corsica. 1619

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Basti ancora pensare che basi di partenza sbagliate, fondate principalmente su una certa interpretazione delle parole greche che compongono il nome della città, Καλὴ Ἀκτή (tradizionalmente tradotto semplicemente “bella costa” e non, più correttamente, “bel promontorio” o “bel tratto di costa”) volevano a tutti i costi stabilire che essa sorgesse esclusivamente sul litorale e non anche sulla collina retrostante, causando peraltro la perdita di numerose testimonianze che di anno in anno affioravano proprio in collina, totalmente trascurate, non riferite in alcun modo e ormai perdute per sempre. Per Kalè Akté possediamo una notizia molto importante, che solo poche città antiche hanno tramandato ai posteri: la data di fondazione. E’ Diodoro Siculo3 che la riporta, sebbene a distanza di quattro secoli, riferendo l’autore della fondazione (Ducezio) e la provenienza dei coloni che vi si stabilirono (Corinzi e Siculi). Tuttavia, per il periodo che va dal 440 a.C. (morte di Ducezio) 4 fino alla prima metà del I secolo a.C. (Cicerone), mancano del tutto i riferimenti letterari alla città, segno evidente del fatto che essa non fu direttamente coinvolta nelle vicende che interessarono l’isola in quell’arco di tempo (come invece avvenne per la vicina Halaesa), ma anche, probabilmente, conseguenza di una scarsa vitalità del centro e di una limitata autonomia politica in quella fase. D’altra parte, è solo dalla metà circa del III secolo a.C. che possediamo riferimenti epigrafici dell’esistenza dello Stato calactino (i bolli su mattoni dell’acquedotto di c.da Samperi5 e l’iscrizione con il riferimento al governo locale tradotta SEG LIX 1102).6 Ed è solo dalla fine di quel secolo che la città inizia a battere moneta con legenda ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ. Tutto ciò induce a ritenere che una fase di concreto sviluppo si sia avviata solo dopo la conquista romana della Sicilia, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C., raggiungendo il culmine nel corso del II-I secolo a.C. A partire da questa data, anche favorita da nuove strategie politiche ed economiche che coinvolsero la Sicilia da parte di Roma, Calacte (nel nome latino della città) compare sempre tra i centri siciliani degni di menzione, seppure come semplice toponimo, segno che la decadenza che progressivamente colpì la Sicilia in età imperiale non ne compromette un certo ruolo di qualche importanza nel quadro dei centri urbani isolani. Calacte compare in Cicerone7 (I secolo a.C., civitas decumana), Plinio8 (I secolo d.C., civitas stipendiaria), Tolomeo9 e Silio Italico10 (II secolo d.C.), nella Tabula Peutingeriana e nell’Itinierarium Antonini (III-IV secolo d.C.), nell’Anonimo Ravennate (VII secolo d.C.): rimane uno dei pochi centri degni di menzione in Sicilia. Non va trascurato il fatto che un riferimento alla città, anche come luogo di una certa vitalità culturale per l’età tardoellenistica e il primo Impero, è contenuto nelle opere di coloro che citano importanti personaggi letterari di quell’epoca come nativi della città, i più noti dei quali sono

Sileno (III secolo a.C.) e Cecilio (I secolo a.C.). Non ci si stupirebbe, infine, di venire a conoscenza che in età imperiale Calacte fosse un Municipium, come ad esempio si è venuto a sapere per Haluntium solo dopo il rinvenimento di un’iscrizione che cita, appunto, il Municipio degli Aluntini. E’ proprio l’esiguità di riferimenti epigrafici nel sito uno degli ostacoli ad una corretta interpretazione dello status della città nei vari secoli, dovuto ad una scarsa attenzione al recupero di queste preziose testimonianze nei decenni passati e ad una mancanza di sistematicità nelle ricerche archeologiche a Caronia. Ad oggi, sono pochi i rinvenimenti di questo tipo debitamente editi: un cippo latino dedicato a un Quinto Cecilio,11 purtroppo quasi del tutto illeggibile; alcuni bolli con nessi di lettere di non semplice interpretazione; la citata iscrizione SEG LIX 1102 rinvenuta sulla collina nelle campagne di contrada sotto S. Francesco. Davvero molto poco se si pensa alle numerose epigrafi ritrovate nelle vicine Halaesa, Apollonia e Alunzio. Una trascuratezza di fondo nei confronti delle attestazioni del passato ha portato alla dispersione o alla distruzione di importanti testimonianze storiche. Alla relativa carenza di riferimenti letterari ed epigrafici si è ovviato con la ricerca archeologica, intrapresa sistematicamente dagli anni ’80 del secolo scorso, grazie agli studi sul posto di G. Scibona12 e alle ricerche dello studioso locale P. Fiore,13 a cui sono seguiti alcuni interventi di scavo, seppure limitati in estensione, che hanno notevolmente incrementato le conoscenze e richiamato l’attenzione degli studiosi su questo sito a lungo trascurato. L’attività di ricerca svolta da chi scrive da molti anni a questa parte, di cui si espone in questa sede un primo resoconto, condotta con metodi non invasivi e basata essenzialmente nel costante controllo e catalogazione di quanto, per svariati motivi, è andato via via affiorando dal terreno, ha a sua volta integrato i dati desunti dai saggi di scavo, attraverso ricognizioni sistematiche (ancora in corso), sia nell’area urbana antica che nel territorio, studio dei riutilizzi e delle persistenze di epoca classica nella struttura della città medievale e moderna e soprattutto con il recupero preventivo e indifferibile di una notevole quantità di materiale miracolosamente preservatosi, sparso nelle campagne ai margini dell’abitato odierno e naturalmente a rischio di dispersione definitiva.14 E’ stato così possibile stabilire cronologie, individuare caratteri peculiari relativamente alle attività di sostentamento economico, identificare rapporti con l’esterno e ipotizzare, in definitiva, lo sviluppo della città nel corso dei secoli. 11

CIL X 7469 Scibona 1987 13 Fiore 1991 14 Il recupero di materiali mobili nel sito, sostanzialmente una selezione dell’enorme quantità di frammenti sparsi sul piano di campagna in quella che fu l’area urbana antica, è stato chiaramente imposto da esigenze di studio e dalla necessità di evitarne la dispersione, in terreni fortemente soggetti a fenomeni naturali (frane e dilavamenti) e sede stabile di pascolo di ovicaprini e suini, nonché possibile sede di nuovi fabbricati e altre strutture private, non trattandosi di fondi sottoposti ad alcun vincolo archeologico. Il citato materiale, comprendente una svariata tipologia di reperti (dalle iscrizioni agli elementi architettonici alle ceramiche alle monete ecc.) si trova attualmente presso i depositi della Soprintendenza BB.CC. di Messina 12

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Diodoro Siculo, 18.8.2 Diodoro Siculo, 29.1 5 Fiore 1971, Scibona 1971 6 Manganaro 2009, 2011 7 Cicerone, In Verrem 2.3.101, 2.4.49; Ad Familiares 13.37 8 Plinio, Naturalis Historia 3.91 9 Tolomeo 3.4.3 10 Silio, Punica 14.251 4

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte

Fig. 1. Carta della Sicilia centro-orientale con localizzazione dei principali centri di età classica (rielab.immagine Google Maps)

Fig. 2. Veduta da ovest della collina di Caronia e il suo prolungamento fino al mare

Di seguito si fa un sunto delle fonti conosciute riguardanti Kalè Aktè – Calacte, attraverso un excursus dei testi letterari, dei riferimenti epigrafici editi e delle attestazioni monetali, cui si aggiunge un complesso variegato di iscrizioni minori qui presentate per la prima volta la cui importanza deriva proprio dal fatto che proviene sicuramente dal sito, tra cui alcuni bolli su laterizi e soprattutto graffiti su vasi di uso quotidiano. Al termine della elencazione delle fonti storiche, si integrano i dati da esse desumibili con l’evidenza archeologica, che talvolta conferma i testi antichi, talvolta li supera notevolmente in contenuto, aprendo nuovi scenari e proponendo nuove ipotesi di lavoro. L’area in questione, ad esempio, sulla base di alcuni materiali databili al V secolo a.C. provenienti sia dal sito di Kalè Akté che da altri insediamenti sparsi nel territorio, sembra avere risentito all’inizio degli influssi commerciali provenienti da ovest (Himera), proponendo alla ricerca un nuovo

filone di studi sui canali commerciali in epoca tardoarcaica-classica tra poleis greche e abitati indigeni. Peraltro, costituisce un importante novità in grado di stimolare nuovi indifferibili studi sulla colonizzazione greca nella costa tirrenica il rinvenimento di materiali di produzione coloniale e d’importazione databili già dalla seconda metà del VII secolo a.C., che attestano l’esistenza di un insediamento subcoloniale forse creato all’epoca in cui Zancle spingeva la sua sfera di controllo verso ovest. La recettività nei confronti dell’esterno, presumibilmente agevolata dall’esistenza di un porto molto attivo,15 è attestata dalla presenza diffusa di 15 L’esistenza di un porto a Kalè Akté non è riferita da alcuna fonte prima del testo dell’arabo Edrisi. Per Halaesa, invece, Cicerone riferisce espressamente di un “porto caricatore” dove veniva esportato il grano proveniente dall’entroterra. Pertanto, solo l’indagine sul terreno ha rivelato che un approdo doveva già essere noto ai mercanti greci in transito sul Tirreno fin da epoca arcaica e che strutture portuali di un

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia particolari materiali prodotti in regioni anche lontane, ad esempio, per l’età ellenistica e altoimperiale: ceramica iberica, sigillate orientali, vasellame a vernice nera e sigillate italiche prodotte in diverse aree della penisola, ecc. Si conosce, infine, una totale riorganizzazione urbana verso la fine del I secolo d.C., con un ribaltamento dei ruoli tra quartiere collinare e quartiere marittimo: il primo, vero cuore politico e culturale della città per tutta l’epoca ellenistica, lascia il passo al secondo, che in età imperiale è la Calacte che si conosce dalle fonti, fulcro dei commerci per terra e per mare già nei secoli precedenti ed ora e fino alla definitiva scomparsa del toponimo, luogo degno di menzione e punto di sosta negli Itinerari. Solo le ricerche nel territorio, infine, possono gettare luce su un’epoca rimasta ancora molto oscura quale fu il trapasso tra l’Impero, le invasioni barbariche e l’alto medioevo bizantino che, nel volgere di alcuni secoli, vide lo spopolamento quasi totale della città a favore di una dispersione nelle campagne e poi, all’arrivo di un nuovo invasore (Arabi) il ritorno nel sito d’origine, che darà vita alla città moderna con un nuovo nome.

vissuto tra il 484 e il 430 a.C. circa, quindi contemporaneamente alla fondazione di Ducezio, sia alcuni decenni prima, come peraltro hanno confermato le recenti ricerche archeologiche.16 Il testo riveste grande importanza perché conferma la data fornita da Diodoro Siculo per la nascita della città e soprattutto avvalora l’ipotesi che qui già da tempo esistesse un insediamento, ben noto agli Zanclei e probabilmente sotto il loro controllo. In questo modo peraltro sembra smentita la tradizionale congettura circa la mancata presenza greca nel tratto compreso tra Zancle (o meglio, la sua subcolonia Mylai) e Himera; viceversa, i dati archeologici attestano la frequentazione del sito, o piuttosto, una presenza greca stabile presso Marina di Caronia, mentre la diffusione di materiali di produzione coloniale è attestata nel corso del VI e V secolo a.C. praticamente in tutti gli insediamenti indigeni finora noti sulle alture dei Nebrodi e delle Madonie. Diodoro Siculo (I secolo a.C.) – Biblioteca Storica 12.8.2; 29.1 12.8.2 - “In Sicilia scoppiò una guerra tra Siracusani e Agrigentini per le seguenti ragioni. I Siracusani avevano sconfitto Ducezio, il principe dei Siculi, e lo avevano privato di ogni carica quando egli si era fatto supplice ed aveva indicato che avrebbe fissato la sua dimora nella città dei Corinzi.” “Ma Ducezio, dopo aver trascorso un breve periodo a Corinto, infranse gli accordi, e con la scusa che gli déi gli avevano dato un responso profetico per cui egli avrebbe fondato una città sulla Bella Costa (Kalè Akté) della Sicilia, salpò per l’isola con un numero di coloni; vi parteciparono anche alcuni Siculi, tra cui Archonides, il principe di Herbita. Egli, quindi, fu occupato nella colonizzazione di Kalè Akté.” “Ma gli Agrigentini, in parte perché erano invidiosi dei Siracusani, in parte perché li accusavano di aver permesso ciò a Ducezio, che era il loro comune nemico, lasciandolo libero senza averli consultati, dichiararono guerra ai Siracusani.” “Le città della Sicilia si divisero: alcune si schierarono con gli Agrigentini, altre con i Siracusani, e vasti armamenti furono assembrati su entrambi i lati. Grande competizione fu mostrata dalle città che si erano fissate su campi opposti sul fiume Himera, e nel conflitto che ne seguì i Siracusani risultarono vittoriosi e trucidarono migliaia di Agrigentini. Dopo la battaglia, gli Agrigentini inviarono ambasciatori per discutere le condizioni della resa ed i Siracusani firmarono la pace.”

A. Fonti letterarie, epigrafiche e numismatiche a. Fonti letterarie Erodoto (V secolo a.C.) – Storie 6.22 6.22 - “Il popolo di Zancle inviò dei messaggeri nella Ionia per invitare gli Ioni a Kalè Akté (nella Bella Costa), desiderando fondare in quel luogo una città ionica. Questa Kalè Aktè, come viene chiamata, è in Sicilia, in quella parte che si affaccia sul Tirreno. A questo invito, i Sami, unici degli Ioni, assieme a fuggiaschi Milesi, si misero in viaggio.” “Durante quel viaggio, una cosa successe loro, come vi racconterò. Mentre viaggiavano verso la Sicilia, i Sami arrivarono nelle terre di Locri Epizephiri, nel periodo in cui la gente di Zankle ed il loro re, che si chiamava Scytes, stavano assediando una città siciliana che desideravano sottomettere. Venutolo a sapere, Anaxilaos, tiranno di Rhegion, che allora era in lotta con gli Zanclei, unì le forze con i Sami e li persuase ad abbandonare il loro viaggio verso Kalè Akté, per impadronirsi di Zankle, mentre questa era vuota dei suoi uomini. I Sami acconsentirono e conquistarono Zankle. Quando appresero che la loro città era stata presa, gli Zanclei tornarono per liberarla, chiamando in loro aiuto Hippocrates, tiranno di Gela, che era loro alleato. Ma Hippocrates, quando arrivò con il suo esercito in loro soccorso, mise in catene Scytes, monarca di Zankle, e suo fratello Pythogenes, per aver perso la città e li mandò via nella città di Inyx.”

29.1 - “Quando Myrichides era Arconte ad Atene, i Romani eleggevano consoli Lucius Julius e Marcus Geganius e gli Elei celebravano l’85a Olimpiade, in cui Crison di Himera vinse lo stadion per la seconda volta. In Sicilia, in quell’anno, Ducezio, il primo condottiero delle città dei Siculi, fondò la città nativa dei Calactini, e dopo che aveva insediato là numerosi coloni, mosse rivendicazioni per il comando dei Siculi, ma questo

Il racconto di Erodoto attesta il toponimo in due momenti diversi: all’inizio e poco dopo la metà del secolo, inducendo a ritenere come effettivamente esistente un abitato sia all’epoca in cui scrisse Erodoto,

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certo impegno furono realizzate in epoca romana, con l’apertura di un bacino interno per il ricovero delle navi e l’imbarco/sbarco delle merci (vedi Cap. 4).

Lindhagen 2006, Bonanno 2008. A ciò si aggiunge il rinvenimento, a Marina di Caronia, di materiali tardoarcaici da una discarica da parte di chi scrive, di cui si discuterà in seguito in questo volume

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte tentativo fu stroncato da una malattia che lo portò alla morte.” Diodoro riporta l’unica notizia in nostro possesso circa la fondazione di Kalè Akté. Dopo averla fondata, Ducezio morì prematuramente sei anni dopo. I due passi si riferiscono agli anni 446 e 440 a.C. e i riferimenti che ci interessano si inseriscono nel quadro delle vicende siciliane di quegli anni. Sappiamo quindi che Ducezio popolò la sua città con molti uomini, provenienti da Corinto in buona parte forse anche da Siracusa, ma anche da Herbita e da altri centri siculi che possiamo immaginare ricadenti nella stessa area geografica. Si trattò pertanto di una colonia mista siculogreca, la cui nascita ebbe in qualche modo ripercussioni nell’assetto politico della Sicilia. Rileva in proposito l’atteggiamento di Siracusa, che avallò la nuova fondazione di Ducezio fino ad allora considerato nemico comune dei Greci di Sicilia. Ciò fu la causa scatenante di un nuovo conflitto con Akragas, in competizione con Siracusa per la supremazia in Sicilia, che si concluse con la disfatta di quest’ultima. L’appoggio di Siracusa dato a Ducezio e, indirettamente, alla più importante città sicula della Sicilia centro-settentrionale, può essere visto come il tentativo della colonia corinzia di ampliare la propria sfera di controllo in un’area dell’isola fino ad allora rimasta sostanzialmente inaccessibile, con la possibilità di accedere alla costa tirrenica. In quest’ottica potrebbe essere vista la più tarda fondazione di Halaisa ad opera di Herbita proprio dopo avere concluso con Siracusa un trattato di pace.17

essi praticata prima che tu fossi pretore, né da te stesso stabilita nel corso dei due anni precedenti?” Verr. 2.4.49 - “…Cosa dire di più? Non fece la stessa cosa con Eupolemus di Calacta, nobile uomo, legato e intimo amico dei Luculli, un uomo che aveva servito l’esercito sotto Lucio Lucullo? Egli stava sorseggiando con lui (Verre); il resto dell’argenteria che aveva messo sul tavolo prima non aveva alcun ornamento, che del resto, se lo avesse avuto, sarebbe rimasto senza alcun ornamento; ma là vi erano anche due boccalini, di non grandi dimensioni, ma con due figure applicate in essi. Lui, come se fosse stato un commensale professionista, che non va via senza portarsi un presente, su due piedi, alla vista di tutti gli altri ospiti, staccò via le figurine”. Ad Fam. 13.37 - “Ti raccomando Ippia, figlio di Filosseno di Calacta, con una impegno maggiore del normale. La sua proprietà, come mi è stato riferito, è tenuta dallo stato per un debito non propriamente suo, contrariamente alle leggi dei Calactini. Se è così, a prescindere dalla mia raccomandazione, le circostanze stesse del caso gli dovrebbero assicurare la tua assistenza. Ma comunque sia la faccenda, ti prego di accelerare la soluzione del suo caso, e in questo come in tutte le altre questioni che lo interessano, per quanto la tua rispettabilità e la tua posizione ti consentiranno. Ciò sarebbe per me cosa apprezzabilissima”. I riferimenti di Cicerone a Calacte sono pochi ma preziosi: da essi si ricava che era civitas decumana, tenuta al versamento delle decime, non distante da Amestratos (Mistretta), probabilmente collegata alla nostra città da una strada interna, e che alcuni cittadini come Eupolemo avevano un elevato tenore di vita o, come Filosseno, possedevano uno status tale da potere contare sull’amicizia di Cicerone. Purtroppo non sono contenuti accenni alla topografia della città. Eupolemo e Filosseno citati da Cicerone dovevano essere personaggi appartenenti ad un ceto agiato presente in città, che si era arricchito verosimilmente attraverso lo sfruttamento latifondistico di vaste aree agricole presenti nell’ampia chora calactina.

Cornelio Nepote (I secolo a.C.) – Annibale 13.3 13.3 - “Delle guerre che (Annibale) condusse, molte sono rimaste alla storia: due degli storici furono persone che erano con lui sul campo e vissero con lui finché il destino lo permise: Sileno e Sosilo Lacedemone…” Sileno fu uno storico filopunico nato nel III secolo a.C. a Kalè Akté. Non sappiamo quali circostanze portarono questo personaggio al seguito dei Cartaginesi di Annibale e la sua provenienza dalla nostra città potrebbe anche suggerire un certo quadro politico esistente in una fase tumultuosa dell’isola. Il nome dello storico Sileno ricorre anche in Cicerone,18 il quale, nel definirlo “studioso accuratissimo della carriera di Annibale”, riferisce che a lui si rifà Celio Antipatro, autore di una storia della seconda guerra punica. Si identifica inoltre con Sileno, detto da Ateneo (XII, 542 A) “Callatiano” (= Calactino), l’autore di storie sicule (Σικελικώ) in almeno tre libri, di cui rimangono frammenti.

Plinio (I secolo d.C.) - Naturalis Historia 3.91; 21.14 3.91 - [88] Coloniae ibi V, urbes aut civitates LXIII. a Peloro mare Ionium ora spectante oppidum Messana civium R., qui Mamertini vocantur, promunturium Drepanum, colonia Tauromenium, quae antea Naxos, flumen Asines, mons Aetna, nocturnis mirus incendiis. crater eius patet ambitu stadia viginti; favilla Tauromenium et Catinam usque pervenit fervens, fragor vero ad Maroneum et Gemellos colles. [89] scopuli tres Cyclopum, portus Ulixis, colonia Catina, flumina Symaethum, Terias. intus Laestrygoni campi. oppida Leontini, Megaris, amnis Pantagies, colonia Syracusae cum fonte Arethusa, quamquam et Temenitis et Archidemia et Magea et Cyane et Milichie fontes in Syracusano potantur agro, portus Naustathmus, flumen Elorum, promunturium Pachynum, a quo .... fronte Siciliae flumen Hyrminum, oppidum Camarina,

Cicerone (I secolo a.C.) - In Verrem 2.3.101; 2.4.49; Ad familiares 13.37 Verr. 2.3.101 - “Per quale motivo, nel terzo anno della tua carica, ordinasti ai Calactini, abituati a consegnare sul posto le decime del loro territorio, di rimetterle in Amestratus all’esattore M. Desio? Cosa, questa, né da

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Diodoro Siculo XIV 16 Cicerone, De Divinatione I 49

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia verticis haustu atque iterum e fundo iaculantem ad sidera puppes Tauromenitana cernunt de sede Charybdim.

fluvius Gelas, oppidum Agragas, quod Agrigentum nostri dixere, [90] Thermae colonia, amnes Achates, Mazara, Hypsa, Selinuus, oppidum Lilybaeum, ab eo promunturium, Drepana, mons Eryx, oppida Panhormum, Soluus, Himera cum fluvio, Cephaloedis, Haluntium, Agathyrnum, Tyndaris colonia, oppidum Mylae et, unde coepimus, Pelorias. [91] intus autem Latinae condicionis Centuripini, Netini, Segestani, stipendiarii Assorini, Aetnenses, Agyrini, Acestaei, Acrenses, Bidini, Citarini, Drepanitani, Ergetini, Echetlienses, Erycini, Entellini, Egguini, Gelani, Galacteni, Halesini, Hennenses, Hyblenses, Herbitenses, Herbessenses, Herulenses, Halicuenses, Hadranitani, Imacarenses, Ichanenses, Iaetenses, Mutustratini, Magellini, Murgentini, Mutycenses, Menaini, Naxi, Noini, Petrini, Paropini, Phintienses, Semelitani, Scherini, Selinunti, Symaethii, Talarenses, Tissienses, Triocalini, Tyracinenses, Zanclaei Messeniorum in Siculo freto sunt.

Richiamando per molte delle città siciliane citate una peculiare caratteristica che le contraddistingueva, Silio definisce Calacte “litus piscosa”, probabilmente in riferimento al vasto tratto di mare di pertinenza, molto pescoso ai suoi tempi, che poteva alimentare anche una serie di attività economiche legate al mare. Il libro XIV costituisce una fonte inesauribile di notizie sulla Sicilia antica: in esso compaiono le città che parteciparono agli eventi descritti, alcune delle quali qui nominate per la prima volta. Nel passo in questione, Calacte compare, ad esempio, assieme alla “rocciosa” Engyon e a Coephaloedias (Cefalù) le cui acque turbolente impauriscono, mentre sembrerebbe prossimo ad Hadranum il sito, non ancora identificato, della città di Ergetium. Tolomeo (II secolo d.C.) - 3.4.3 ΚΑΛΑΚΤΑ (37.40/37.55)

21.14 - Violis honos proximus, earumque plura genera, purpureaea, luteae, albae, plantis omnes, ut olus, satae. ex his vero, quae sponte apricis et macris locis proveniunt, purpureae latiore folio, statim ab radice exeunti, carnoso solaeque Graeco nomine a ceteris discernuntur, appellatae insula et ab his ianthina vestis. e sativis maxima auctoritas luteis; genera autem Tusculana et quae marina appellatur, folio aliquanto latiore, sed minus odorata; in totum vero sine odore minutoque folio Calatina, munus autumni, ceterae veris.

Tolomeo riporta le coordinate geografiche della città, che si posiziona a poca distanza da Alesa (37.40/37.45), Aleta (?) (37,50/37.50), Herbita (37,40/37.30), dalla foce del fiume Chydas (probabilmente l’odierno Rosmarino, 37.45/38.05) e da Alontium (37.50/38.10); Apollonia non esiste più, mentre sorprende l’assenza di Amestratos. Una tale rappresentazione, limitata all’area dei Nebrodi occidentali, offre spunti di riflessione, come la presenza di una città non altrimenti conosciuta come Aleta, posta alle spalle di Calacta, e la posizione di Herbita, a sudovest di Halaesa. In realtà, sebbene siano molte le contraddizioni nella rappresentazione della Sicilia di Tolomeo, alcune delle quali sicuramente dovute a difetti di misurazione con gli strumenti dell’epoca, la sua opera è tra quelle essenziali per una ricostruzione topografica della Sicilia antica. Per quanto riguarda il territorio in cui insisteva Kalè Akté - Calacte, le notazioni di Tolomeo sono da sempre state le più importanti e corrispondono interamente a quanto è stato accertato dagli scavi archeologici.

Riportiamo l’intero brano di Plinio 3.91 riguardante le città della Sicilia per il I secolo d.C. perché in poche righe abbiamo una visione pressoché completa dei principali centri siciliani attivi in epoca altoimperiale, tra i quali significativamente compare la nostra città, seppure con un nome deformato (“Galacteni” di “Galata”). Da Plinio sappiamo che Calacte era, come Halaesa, civitas stipendiaria e non aveva mutato di molto il proprio status politico e fiscale rispetto al secolo precedente. Singolare la menzione di un particolare tipo di viola inodore e con le foglie piccole tipica dell’area calactina. Silio Italico (II secolo d.C.) – Punica 14.251 14.235-255 - Nebrodes gemini nutrit divortia fontis, quo mons Sicania non surgit ditior umbrae. Henna lucis sacras dedit ardua dextras. hie specus ingentem laxans telluris hiatum, caecum iter ad manes tenebroso limite pandit, qua novus ignotas Hymenaeus venit in oras: hac Stygius quondam, stimulante Cupidine, rector ausus adire diem, maestoque Acheronte relicto, egit in illicitas currum per inania terras. tum rapta praeceps Hennaea virgine flexit attonitos caeli visu lucemque paventes in Styga rursus equos et praedam condidit umbris. Romanos Petraea duces, Romana petivit foedera Callipolis lapidosique Engyon arvi, Hadranum Ergetiumque simul telaque superba lanigera Melite et litus piscosa Calacte, quaeque procelloso Cephaloedias ora profundo caeruleis horret campis pascentia cete, et qui correptas sorbentem

Fig. 3. Rappresentazione della Sicilia di Tolomeo da parte di L. Fries (XVI secolo)

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte quest’ultima località, da ricercarsi probabilmente nell’entroterra dell’odierna Caronia (contrada Samperi?).

Ateneo (II-III secolo d.C.) - Deipnosofisti 6.272; 12.542 6.272 - “E Cecilio, l’oratore di Cale Acte, scrisse un trattato sulle Guerre servili” 12.542 - “E Cecilio, l’oratore che viene da Cale Acte, nel suo trattato sulla Storia, dice che Agatocle il tiranno, mentre mostrava la sua coppa d’oro ai suoi compagni…”

Priscianus Caesarensis (VI secolo d.C.) - Grammatica 2.78.21 Calate Calatinus, Calacte Calactinus… Stefano di Bisanzio (VI secolo d.C.) ΚΑΛΗ ΑΚΤΗ (ΑΠΟΛΛΩΝΙΑ)

Cecilio di Calacte, il cui nome originario era Arcàgato, visse nel I secolo a.C., avendo origini da una famiglia servile. Il suo divenire uno dei più celebri oratori del mondo antico pur provenendo da una famiglia di bassa estrazione, si ritiene sia dovuto al fatto che in età giovanile venne preso con sé da qualche importante personaggio di Roma, che gli fece impartire i migliori insegnamenti. Fu probabilmente allievo di Apollodoro di Pergamo. E’ senz’altro la personalità più rappresentativa della nostra città e le diede un certo lustro negli ambienti romani che frequentò. Per avere idea dell’importanza dell’opera di Cecilio, ricordiamo come contro il noto concetto di sublime dissertato dall’autore calactino si conserva l’altrettanto celebre Trattato dello PseudoLongino “Sul Sublime”. Molto dubbia è l’attribuzione a Cecilio del cippo funerario rinvenuto a metà dell’800 a Marina di Caronia, sostenuta da alcuni.19

Anonimo Ravennate (VII secolo d.C.) - 5.23.16 Ad pelagum Tyrrenicum magnum in mari Gallico non longe ab Italia est insula quae dicitur Sicilia, in qua plurimas fuisse civitates legimus, ex quibus aliquantas designare volumus, id est: Siracusa, Catena, Tauromeni, Dianae, Tindareou, Agathinou, Calao (=Calacte), Alesa, Cepaiodo, Termis, Solantium, Panormon… Guidone (Età medievale) - 59.4 In qua videlicet nobilissima speciosissima seu opulentissima diversarum specierum atque semper tyrannica plurimae civitates fuerunt, e quibus egregias urbes subter intexni, in primam et caput ceterarum Syracusam… Cataniam… Tauromenia, Messana, Dianae, Tindareum, Acatinon, Colan (=Calacte), Abesa, Kefaludio, Thermis, Selentos, Panormum…

Tabula Peutingeriana (IV secolo d.C.) 7.1 Calacte XII

Il nome della città ricorre significativamente in alcuni documenti del tardoantico e dell’alto medioevo. Mentre Stefano di Bisanzio riporta semplicemente il nome di questa come di molte altre città della Sicilia classica, molte delle quali peraltro scomparse da tempo all’epoca in cui scriveva, le due fonti medievali dell’Anonimo Ravennate e di Guidone riportano il nome ormai corrotto di Calacte, nella fase di passaggio al centro medievale di Caronia (Calao e Colan), lungo la strada litoranea tirrenica. E’ una prova della continuità di vita del sito in un’epoca in cui i dati archeologici fanno fatica a dimostrarne l’esistenza come città.

Fig. 4. Tabula Peutingeriana: Sicilia

Pseudo Divalis Sacra di Giustiniano In Messana modia terrae triginta cum portu suo; in Tindaris quingenta; in Termis undecim; in Cephaludio quindecim milia; in Aleso sexaginta duo; in Galeate centum novem; in Acaliate trecenta (…). Necnon etiam villas quae iam ad dictas curtes attinent, quarum nomina haec sunt: Himera, Soluntina (…) Calactina…

Itinerarium Antonini (III-IV secolo d.C.) 92.4-5 Caleate A Caliate Solusapre Le due fonti geografiche della Tabula Peutingeriana e dall’Itinerarium Antonini, molto vicine nel tempo (entrambe di epoca imperiale avanzata), offrono un quadro della Sicilia di quell’epoca, molto verosimile soprattutto per ciò che riguarda la fascia costiera. La circostanza che Calacte figuri in entrambi, a fronte di molti centri antichi non più presenti, è prova di una certa importanza conservata dalla città in un’epoca che vede un progressivo spopolamento dell’isola relativamente ai centri urbani. L’esistenza di una strada che, partendo dall’itinerario costiero in corrispondenza di Calacte (“a Caliate”), giungeva ad un luogo chiamato Solusapre, descritta dall’Itinerarium Antonini, è ad oggi l’unica testimonianza letteraria dell’esistenza di 19

Questo documento, sostanzialmente un falso redatto a Montecassino nel XII secolo dall'archivista e bibliotecario Pietro Diacono, riproduce una Divalis Sacra di Giustiniano del 538 d.C. e riporta il nome della città sotto due diverse forme: Galeate e Acaliate, quest’ultima da risolversi in “a Caliate” probabilmente ad indicare una diversa area del territorio calactino. Colpisce a prima vista l’enorme area che viene rivendicata dai Benedettini in rapporto a quella di altre città siciliane, a confermare l’ampiezza del territorio facente capo alla città già in epoca romana. A prescindere dal fatto che si tratti di un testo appositamente e in modo falsifico redatto in un’epoca avanzata per rivendicare la proprietà di vaste

Fiore 1991

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia aree dell’isola, il documento ha una sua importanza poiché attesta l’esistenza dei centri citati all’epoca di Giustiniano e ne fa in qualche modo comprendere la disponibilità di terre e, quindi, la ricchezza potenziale.

tale figlio di - -]sandros (del demo) TEL. si è notoriamente / [curato] di noi, sia con le parole che con i fatti, è giusto / che si serbi ricordo [immortale di lui]; [dunque] è stato approvato [dalla città (?) - - ] che questi sia benefattore del popolo, / [affinché sia evidente] ai posteri che [il popolo, / a coloro che scelgono di beneficare] la comunità, può concedere i ringraziamenti / [e gli onori] appropriati; [si trascriva] questo aliasma su due tavole di bronzo e se ne consacri [una nel tempio di] Apollo, l’altra si dia [a - - come ricordo della benevolenza] nei confronti del popolo….”

b. Fonti epigrafiche SEG LIX 1102 (III-II secolo a.C.)20 1 [Ἐπὶ - - - Αἰσχύλο]υ ̣τοῦ Ἀπολλοδώρο[υ] [(nome del mese al genitivo)]. δεκάται Προστ(άτας) [τᾶς βουλᾶς, (ὁ δεῖνα)]ς̣ Ξενίσκου Πλη [ἔδοξε τᾶι ἁλίαι καθὰ κ]αὶ τᾶι σύγκλητωι καὶ τᾶι βουλᾶι· 5 [ἐπειδὴ ὁ δεῖνα τοῦ - - -].σάνδρου Τηλ φανερός ἐστι, ἁμῶ[ν] [- - - προνοούμενος] καὶ λόγωι καὶ ἔργωι, δίκαιον δέ [ἐστι - - - αὐτοῦ ἀθάν]α̣τ̣ον μνάμαν ποιεῖσθαι· δέδoκτα̣[ι] [οὖν τᾶι πόλει (?) - - - εὐεργ]έτ̣αν αὐτὸν εἴμειν τοῦ δάμου, [ὅπως φανερὸν ἦι] τ̣οῖς ἐπιγινομ̣έν̣ οις, ὅτι ˇ ο ˇ 10 [μος, τοῖς εὐεργετεῖν προαιρουμέν]οις τὸ κοινὸν, δύναται χάριτας [καὶ τὰς τιμὰς ἀπονέμει]ν̣ τὰς καταξίας· τὸ δὲ ἁλίασμα [ἀναγράψαι εἰς χαλκ]ώματα δύο καὶ ἀναθέμειν [τὸ μὲν ἐν τῶι ἱερῶι τοῦ Ἀ]πόλλονος, τὸ δὲ δόμειν [(τῶι δεῖνι) ὑπόμναμα τᾶς πο]τὶ τὸν δᾶμον ε[̣ὐνοίας] 15 [- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - ---] L’epigrafe, recuperata nel 2003 sul piano di campagna del versante orientale della collina di Caronia, in c.da sotto S. Francesco, non cita espressamente il nome della città. Il pezzo marmoreo, parte destra di un blocco più grande, fu a suo tempo affidata a G. Scibona, che ne fece delle fotografie da inviare a G. Manganaro per uno studio più approfondito. Successivamente è stata consegnata alla Soprintendenza BB.CC. di Messina, presso i cui magazzini attualmente si trova. Databile nel corso del III secolo a.C., l’epigrafe contiene riferimenti ad alcuni organi pubblici (assemblea popolare e senato) e ad un santuario di Apollo, oltre a riferire di due demotici esistenti nella comunità (PLE e TEL). Il blocco marmoreo doveva essere murato in un edificio pubblico, probabilmente nell’agorà, e in esso si prevedeva che del testo se ne dovesse fare copia in due tabelle bronzee, una da consegnare al benefattore e l’altra da dedicare nel santuario di Apollo, in maniera similare a quanto risulta per due tavole bronzee recentemente rinvenute nel sito di Halaisa (“Casa dei pithoi”).21 Il testo dell’epigrafe, riprendendo la versione tradotta in Arena 2016,22 dovrebbe essere il seguente:

Figg. 5-6. Epigrafe SEG LIX 1102 : foto del blocco marmoreo e ricalco a grafite

L’importanza di questo testo consiste nel riconoscere per la prima volta a Kalè Akté un’organizzazione politica in linea con quella di molte altre città della Sicilia ellenistica, governata da organi comunitari come l’assemblea popolare (synkletos) ed il senato (boulé). Si recuperano nuovi esempi di onomastica per l’epoca ellenistica (oltre Apollodoros, già menzionato nell’epigrafe funeraria di Atene IG II-III – 10291, uno Xeniskos e un Andros). Si attesta l’esistenza di demotici locali, ovvero di comunità ben definite da un appellativo che potremmo inquadrare ipoteticamente con determinati

“[Sotto l’amphipolos (?) Aischylos (?)] figlio di Apollodoros, / [nel mese - -, il giorno (?]decimo, quando era prostatas / [della boula (?) il tale figlio di] Xeniskos (del demo) PLE. / [Fu deciso dalla halia conformemente alla proposta] della synkletos e della boula. / [Poiché il 20

Manganaro 2009, 2011; Battistoni 2010; Arena 2016, a seguire Scibona 2009 22 Arena 2016 a seguire 21

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte quartieri della città (ad Halaesa ne sono stati individuati alcune decine sulla base del testo delle tabelle bronzee dalla “Casa dei pithoi”).23 Trova infine conferma l’esistenza di un santuario di Apollo, probabilmente esistente all’interno della città ma la cui localizzazione è impossibile al momento da definire (l’acropoli occupata oggi dal castello normanno?).

L’itinerario dei theorodokoi di Delfi in Sicilia è contenuto in una sezione della celebre iscrizione datata tra III e II secolo a.C.25 Essi visitavano le principali città dove era attivo il culto di Apollo. Nell’isola, l’itinerario inizia a Messana e si conclude a Lipàra, dopo avere attraversato 21 o 22 città. Il riferimento a Kalè Akté, probabilmente contenuto nel rigo 112 (Εν Κ[….]), è stato messo in dubbio da Manni (1966).26 Tuttavia, esso appare plausibile se si interpreta il percorso seguito dai messaggeri, che da Agathyrnon, dopo essere passati da una località che dovrebbe iniziare per M-, giungono nella nostra città e, dopo essere passati da altri due o tre centri dell’area nebroidea (Halontion, Apollonia, Amestratos o Herbita?), arrivano ad Halaesa, poi a Termini Imerese e infine tornano verso est a Lipàra. A Kalè Akté il culto di Apollo, probabilmente il principale, è peraltro attestato sia a livello numismatico che dall’iscrizione SEG LIX 1102.

IG II-III – 10291 (II secolo a.C.) ΑΙΣΧΥΛΟΣ ΑΠΟΛΛΩ∆ΟΡΟΥ ΣΙΚΕΛΟΣ ΑΠΟ ΚΑΛΗΣ ΑΚΤΗΣ “Eschilo (figlio) di Apollodoro, siculo di Kalè Akté” Epigrafe funeraria rinvenuta nell’agorà di Atene, datata al II-I secolo a.C.24 Si tratterebbe di un personaggio (Eschilo) originario di Kalè Akté che, forse per motivi legati ad attività di tipo commerciale, si fermò ad Atene, dove trovò la morte e venne sepolto. E’ questo uno dei due elementi attualmente conosciuti che attestano un collegamento, in epoca ellenistica, tra la nostra città e Atene, assieme alla nota emissione monetale calactina coniata ad imitazione delle dracme ateniesi di nuovo stile con testa di Atena e civetta su anfora.

IG XIV 2393 340 Bollo fittile greco di età ellenistica in nessi rinvenuto “e maceriis veteris Calactae propre Caroniam”, non interpretabile.27 IG XIV 2395 7 (III secolo a.C.) ∆(…)…Κ(…)…ΙΕ[…] ovvero: ∆ΑΜΟΣΙΟΣ ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ ΙΕΡΟΣ = “(Mattone) Pubblico dei Calactini, Sacro”

BCH 45 (1921) 1 = SGDI 2580: Itinerario dei theorodokoi di Delfi in Sicilia (Colonna IV – 90-119) ἐμ Μεσσάναι Λαρώννας Λεύκων Λαρ [ἐν Ἀβ]α̣ κ̣[αί]νωι Ἀρ— — ἐν Τ[υνδαρ]ίδι Χ— — ἐν Ταυρο[μενίωι — — —]δώρου ΑΙ— — ἐν Αἴτναι Νυμφόδ[ωρος] ἐγ Κεντορρίπο[ις] ἐγ Κατάναι Λεπτίν[ας] ἐν Συρακούσσαι Σω— — ἐν Ἐλώρω Φιλόδαμ[ος] ἐν Τυρακίωι Ἡράκλι[τος?] Κοιντευς ἐγ Καμαρίναι Θευ[— — —]ος Πασίω[νος] ἐν Ὕβλαι Παλικίων ἐν Ἐργετίωι Πυθ— — — Ἀρχέδαμος — — — ἐν Νόαις Σωσίστ[ρατος — — —]ος Μενεκρ[ατ— — —] ἐν Ἀ[γαθύ]ρ̣ν̣[ωι — — —] ἐμ Μ— — — ἐγ Κ— — — ——— ——— ——— ἐν Ἀλαίσα Διο— — — ἐν Θέρμοις Ν— — — ἐν Λιπάραι Αι— — —

Il bollo, catalogato inizialmente presso il Museo Mandralisca di Cefalù, è presente in alcuni mattoni di un acquedotto ellenistico scoperto negli anni ’60-70 del secolo scorso nell’entroterra (c.da Serralisa-Samperi).28 E’ stato inoltre individuato anche su un laterizio rinvenuto negli scavi 2003-2005 in c.da Pantano a Marina29. Fiore30 ne proponeva una traduzione in “sacro a Demetra”, che appare affatto convincente se si esamina il numero e tipo di lettere contenute nel nesso, mentre la traduzione di Scibona è quella più verosimile. Il bollo attesterebbe pertanto una produzione di mattoni della polis calactina, impiegata per la realizzazione di opere pubbliche. La specifica sacralità indicata dal termine ΙΕΡΟΣ esprimeva evidentemente la condivisione tra potere politico e religioso di opere realizzate per la comunità. Il bollo con nesso di tipo toponomastico di Kalè Akté trova confronto, in area limitrofa, con quello di Halaesa contenente le iniziali ΠΟ(ΛΙΣ) ΑΛ(ΑΙΣΙΝΩΝ) in monogramma, rinvenuto in laterizi di vario tipo e utilizzo ed attestato epigraficamente dalla nota Tabula Halaesina.31

25

Manganaro 1964 Manni 1966 Scibona 1987, p. 9 28 Scibona, 1971 29 Bonanno 2009, Tav. XIX 30 Fiore 1971 31 IG IV 352; Prestianni Giallombardo 1998 26 27

23 24

Scibona 2009 Scibona 1987

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 7. Bollo IG XIV 2395.7

Memorie su la Sicilia (di Guglielmo Capozzo, 1842, pag. 97)32 Ο ∆ΑΜΟΣ ΙΩ ΤΙΜΑΝ∆ΡΟΝ ΕΥΝΟΙΑΣ ΕΝΕΚΕΝ Lapide (dispersa e non altrimenti nota) in dialetto dorico detta proveniente da Calacte, nella quale il popolo dimostra la propria gratitudine a un Timandro per la sua benevolenza. Non è specificato esattamente da dove provenga ed è molto dubbia una sua attribuzione al territorio di Caronia (l’autore stesso colloca Kalè Akté a San Marco d’Alunzio o a Galati). Fig. 8. Epigrafe Scibona 1971

Scibona 197133 (II-I secolo a.C.) ΘΕΟΙΣ ΠΑΣΙ [Ο]Ι ΣΤΡΑΤΕΥΣΑΜΕΝΟΙ ΚΑΤΑ ΝΑΥΝ ΑΛΑΙΣΙΝΟΙ ΚΑΛΑΚΤΙΝΟΙ ΕΡΒΙΤΑΙΟΙ ΑΜΗΣΤΡΑΤΙΝΟΙ ΚΑΝΙΝΙΟΝ ΝΙΓΡΟΝ ΕΥΝΟΙΑ[Σ Ε]ΝΕΚΕ[Ν]

Fiore 198034 (I secolo d.C.?) - DIV L’iscrizione, mutila e su lastra marmorea, è riportata da Fiore senza specificarne purtroppo la localizzazione (“pezzo di lapide con le lettere DIV nel muro di una vecchia casa nella zona di Caronia”). Una recente segnalazione35 la indica come murata, fino a qualche anno fa, in una casa di Marina di Caronia nell’area di Piazza Nunziatella, successivamente asportata. Il testo “DIV”, riferito verosimilmente all’imperatore Augusto, pone quesiti circa lo status di Calacte in età imperiale per confronto con similari iscrizioni da Halaesa (CIL X 7458) e Haluntium (CIL X 7463), databili tra il 12 a.C. e il 14 d.C.36

“A tutti gli dèi, coloro che combatterono per nave degli Alesini, Calactini, Erbitani e Amestratini, (dedicarono) al coraggio e alla benevolenza di Caninio Niger”. L’iscrizione contenuta in un blocco di pietra calcarea rinvenuto nell’agorà di Halaesa fa riferimento ad una sorta di lega costituita dalle quattro città limitrofe di Halaisa, Kalè Akté, Herbita e Amestratos, che aveva conseguito una vittoria navale contro i pirati con a capo un Caninio Nigro. Le quattro città menzionate dovevano evidentemente condividere un tratto di mare esposto a incursioni, i cui limiti sono compresi tra i territori di Kalè Akté e Halaisa. Datata ad età tardoellenistica da Scibona, l’epigrafe costituisce una sostanziale prova dei rapporti che dovevano legare già da tempo città ubicate in un’area ben circoscritta dei Nebrodi, alla cui testa era la città di Halaesa. Si può supporre che un’epigrafe celebrativa con lo stesso contenuto dovesse essere esposta in ognuna delle quattro città di questa “lega”, da ritenersi forse una continuazione della symmachia in favore di Timoleonte proposta a metà del IV secolo a.C. da Halaisa.

CIL X 7469 (età imperiale) QUINTUS CA ---S PULCRI C---TER A---N---IT Titolo funerario rinvenuto a Marina di Caronia nel XIX secolo e quasi del tutto illeggibile, attualmente conservato presso il Museo A. Salinas di Palermo. Interpretato in vari modi, sembrerebbe dedicato ad un Quinto Cecilio (“Calactino” secondo Fiore).37 La prima notizia del monumento funerario è riportata nel manoscritto del canonico locale Don L. Volpe agli inizi

34

Fiore 1980 (SicArch. XIII 44, 1980) Segnalazione S. Serio 36 Facella 2006, pp.272-274 37 Fiore 1972. Vedi anche: Rocco 1974 35

32 33

G. Capozzo, Memorie su la Sicilia. 1842 Scibona 1971b (Kokalos XVII, 1971)

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte del ‘900: si riporta un disegno dell’epigrafe, evidentemente a quel tempo ancora ben leggibile, e si riferisce che venne rinvenuta nel 1846 sul letto del torrente S. Anna, presso a poco dove oggi corre la via Brin, ex SS 113. E’ probabile che il manufatto sia stato trascinato dal torrente provenendo dall’area di una necropoli in uso in età imperiale, di cui si hanno notizie in corrispondenza dell’attuale Stazione Ferroviaria. Molto dubbia è l’ipotetica attribuzione del titolo funerario al celebre retore Cecilio da parte di Fiore.

area di ritrovamento dell’iscrizione SEG LIX 1102 e come questa verosimilmente fluitati dall’alto. In una si potrebbe riconoscere una M (Tav. I n. 1), nell’altra si legge parzialmente una O o una C) (Tav. I n. 2). Una sottile lastra marmorea conservata parzialmente e probabilmente riutilizzata in epoca tardoantica per una sepoltura (come suggeriscono le incrostazioni di calce che si conservano sui bordi), recuperata in c.da sotto S. Francesco, riporta l’espressione ΧΑΙΡ[Ε] (Tav. I n. 4) al di sotto di una decorazione di difficile lettura. I primi due frammenti epigrafici, assieme all’iscrizione SEG LIX 1102, sono stati rinvenuti in un’area circoscritta, in corrispondenza e al di sotto dell’odierna piazza S. Francesco, assieme a materiali marmorei lavorati (frammenti di lastre e di cornici modanate), da riconoscersi verosimilmente come elementi decorativi di monumenti, oltre ad un piccolissimo frammento di statua in marmo. Questa constatazione induce a ritenere che l’area soprastante fosse sede di un’area pubblica (agorà?) o comunque di edifici pubblici, dal disfacimento dei quali a seguito di dilavamenti naturali e di interventi edilizi medievali e moderni, si è determinato il loro scivolamento nell’area in questione. Dall’area urbana collinare provengono alcuni bolli: uno, in tabula ansata, porta una parola che inizia per ∆Α[Μ?]−, probabile iniziale di ∆ΑΜΟΣ (= “del popolo”) o ∆ΑΜΟΝ (nome di persona) (Tav. I n. 5); un secondo piccolo bollo quadrato su manufatto di terracotta (anfora, statua fittile?) riporta la singola lettera ∆ (Tav. I n. 6); un terzo bollo su laterizio riporta la parola ΧΑΡΙ[...] e potrebbe essere datato ad epoca altoellenistica (Tav. I n. 3); un ulteriore bollo rettangolare su laterizio è quasi del tutto illeggibile e sembra di potersi riconoscere solo una I; un piccolo bollo sul fondo di un vasetto acromo riporta, infine, un nesso di lettere di cui si potrebbero riconoscere ΑΡ, Μ, Ε e Ξ (Tav. I n. 12). Un oscillum databile al III-II secolo a.C. reca incise a crudo tre lettere greche su una faccia (ΕΙΚ o ΕΥΚ) (Tav. I n. 7). Numerosi sono i graffiti su ceramiche, sempre dall’area urbana collinare, che, considerata la cronologia del corpo ceramico, coprono un arco temporale compreso principalmente tra III e I secolo a.C., rinvenuti sporadicamente sul piano di campagna sotto il centro storico di Caronia: alcuni, che riportano singole lettere greche graffite, sono interpretabili come iniziali di nomi: uno di essi, su ceramica a vernice nera di IV-III secolo a.C. contiene le due lettere congiunte in nesso ΑΡ (Artemides?) (Tav. II n. 8); un frammento di vaso a vernice rossa (II-I secolo a.C.) contiene un’iscrizione parziale su due righe: ΘΕΥ∆−/ [ ? ]ΗΜ− (Tav. II n. 12). Un frammento di sigillata italica, l’unico rinvenuto con iscrizione graffita, presenta una A isolata. Tra le altre iscrizioni frammentarie, presentate nelle immagini a seguire (Tavv. I-II), segnaliamo: - Lettera Ε in nesso con un’altra lettera (sigma lunato?) in una porzione di anfora, forse greco-italica (Tav. I n. 13); - Lettera Φ sul fondo esterno di un piatto in Campana A (Tav. II n. 2); - ??]∆Ε[ sul bordo interno di un piatto in Campana C (Tav. II n. 7);

Fiore 197238 (età imperiale) LLIIULIORUM [P]RIVATIEET [C]RESCENT[I]ANI Sigillo fittile rinvenuto in c.da Piana, ad ovest del torrente Caronia, probabilmente impiegato per contrassegnare manufatti in terracotta. Il luogo di rinvenimento, non esattamente noto, sembra coincidere con l’area dove nell’800 vennero in luce resti (mosaici e strutture murarie) ascrivibili ad una possibile villa romana, da Fiore39 localizzata in c.da Portale. Il nome Crescente è noto da altri bolli da Roma e potrebbe suggerire la proprietà di una villa e di fornaci per la produzione di laterizi appositamente contrassegnati nell’area di rinvenimento del timbro.

Fig. 9. Bollo fittile Fiore 1972

Iscrizioni inedite Instrumenta publica et domestica Alle iscrizioni in vario modo edite sopra riportate, si deve aggiungere una serie di attestazioni epigrafiche frammentarie rinvenute sporadicamente nel territorio da chi scrive, che preliminarmente vengono pubblicate in questa sede. Si tratta, tra gli altri, di tre frammenti di lastre marmoree contenenti lettere, due delle quali purtroppo non decifrabili, di alcuni bolli su laterizi, e soprattutto di numerose iscrizioni graffite su ceramiche e altri manufatti di uso quotidiano, sfortunatamente molto parziali e quindi di difficile interpretazione. I citati frammenti di lastre marmoree provengono dal versante orientale della collina, stessa 38

Fiore 1972b (SicArch XVIII-XX 1972) Fiore 1972b. Notizia del rinvenimento è contenuta in G. Lo Iacono- . Marconi, L'attività della Commissione Antichità e Belle Arti. Parte II (1835-1845) (= Quaderni del Museo Archeologico Regionale "Antonino Salinas" Supplemento, 4, 1998, p. 52). Si ringrazia la dott.ssa Elisa Chiara Portale per la cortese segnalazione 39

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia rettangolare con relativa iscrizione. Su quattro esemplari con bollo recuperati in collina, tre risultano almeno parzialmente leggibili:

− ]ΠΑ∆− sul bordo di un piatto (?) a vernice rossa (Tav. II n. 11); − ]ΠΟ[ sulla parte esterna di un piatto in Campana A (Tav. II n. 3); − ]∆ΕΙΝ[ sul fondo esterno di un piatto a vernice nera (Tav. II n. 15); − ]ΟΚΑ sul fondo esterno di un vaso in Campana C (Tav. II n. 10); - Nesso in cui si riconosce una Ε e forse le lettere Κ e Υ sul fondo esterno di un piatto in ceramica Campana A (Tav. II n. 5); - Nesso con lettere Α∆Ρ? sulla parete esterna di un piatto in Campana C; - Nesso con lettera Α con linea centrale spezzata su un vaso in Campana C (Tav II n. 9); − Μ sulla parte esterna di un vaso acromo (Tav. II n. 17); − ]ΚΟ[ sul bordo di un piatto in ceramica Campana A (Tav. II n. 4); − ∆ Α sul fondo di un piatto a vernice nera (Tav. II n. 19). Molto alta è la percentuale di iscrizioni su ceramiche di II-I secolo a.C., principalmente Campana A e C. In alcuni casi si tratta di nessi di lettere di difficile interpretazione, che potrebbero anche risolversi in espressioni legate a forme di culto. I graffiti sono generalmente apposti sulla parte esterna del piede o sul bordo di piatti o altre forme ceramiche, talvolta in maniera accurata, altre volte con modalità affrettate. Le lettere graffite sulla parte esterna di vasi da mensa potrebbero essere state apposte dall’usuale utilizzatore del piatto con significato di proprietà dell’oggetto; in nessuno degli esemplari esaminati, comunque, sembra di potersi riconoscere con sicurezza riferimenti che ne giustifichino un uso cultuale. Vale la pensa di osservare come il recupero di numerosi graffiti su ceramiche da semplici ricognizioni di superficie può suggerire una diffusa alfabetizzazione tra la popolazione locale, quantomeno nella media-tarda età ellenistica. Tutte le iscrizioni incise su instrumenta domestica sono in lingua greca. L’esistenza di epigrafi di contenuto pubblico, apposte in luoghi rappresentativi, assolveva sicuramente ad un ruolo propagandistico, espressione di un potere politico o religioso, che non necessariamente comportava la conoscenza della scrittura da parte di tutta la comunità, che poteva benissimo chiederne una lettura o interpretazione a chi possedeva un minimo di cultura. Viceversa, l’esistenza di una nutrita serie di scritture su manufatti di uso quotidiano, quali erano i vasi normalmente utilizzati per mangiare o bere, dovrebbe essere interpretata come opera di soggetti di diversa estrazione sociale, circostanza che induce a ritenere che i cittadini disponessero di un discreto grado di cultura, quantomeno quella sufficiente a scrivere il proprio nome. La fattura delle lettere incise è frequentemente accurata e conferma come la lingua correntemente parlata dal popolo fosse rimasta il greco, anche dopo secoli di dominazione romana. Di un certo interesse sono alcune anse di anfore rodie40 (Tav. I nn. 8-10) che conservano il bollo

1. Bollo rettangolare con testo in tre righe ΕΠΙ [.]ΥΧΟΚΙΑ ΕΥΣ ΠΕ∆ΑΓΕΙΤ[.]ΥΟΥ 2. Bollo rettangolare con testo in tre righe quasi del tutto illeggibile e bollo supplementare con raffigurazione stilizzata della rosa di Rodi: [ΕΠΙ ...] Λ [...] Γ?[... ...] [ΠΕ∆ΑΓΕΙΤ?]ΥΟΥ 3. Bollo rettangolare con testo in due righe ΜΑΡΣ[Υ?] ΠΑΝΑΜΟΥ Segnaliamo, sempre dalla collina di Caronia, un interessante sigillo in piombo recante il simbolo di Halaisa (nesso di una Π con le lettere Α/Λ inscritte e piccola Ο sormontante, che si risolve in ΠΟ(ΛΙΣ ΑΛ(ΑΙΣΙΝΩΝ)41 (Tav. I n. 11). Si tratterebbe di un sigillo mercantile, l’unico finora attestato a Caronia. Per quanto riguarda, infine, il materiale epigrafico proveniente dal territorio, ricordiamo innanzitutto un bordo di pithos di produzione locale con iscrizione incisa a crudo sulla faccia esterna, riportante l’espressione (Τ)ΗΣΘΕΟΓΡΙΛΜΕΝΗΣ e proveniente dal sito di un insediamento rurale ellenistico (III-II secolo a.C.) in c.da S. Miceli (propr. Giletto). L’interpretazione del testo è complessa, considerando che è verosimilmente parziale. Sembra di poterlo tradurre, molto dubitativamente, come “(pithos) dell’olivastra sacra”, circostanza che farebbe supporre anche l’esistenza, nei pressi, di un santuario rurale.

Fig. 10. Iscrizione incisa a crudo su bordo esterno di pithos da c.da S. Miceli

Dall’area prossima alla città collinare (c.da S. Todaro), infine, proviene un manufatto in terracotta con accurata iscrizione parziale graffita di epoca ellenistica (ΠΥΞ−) proveniente dall’area di strutture parzialmente affioranti, riferibili ad una fattoria o anche ad un santuario rurale42 di epoca ellenistica (Tav. I n. 14). Il termine parziale πυξ- potrebbe corrispondere alla parola πυξις (“pisside” o più genericamente “scatola di legno”) o πυξος (nome di una pianta, “bosso”). rodie sono ben attestate sulla collina di Caronia e tra i contenitori da trasporto di età ellenistica sono percentualmente inferiori solo alle anfore greco-italiche 41 Scibona, Tigano 2009 42 La posizione eminente in cui si trovano le strutture, nella parte più elevata del pianoro e di fronte alla collina di Caronia, rende plausibile al momento l’ipotesi che si tratti di un santuario rurale

40 Dei quattro esemplari con bollo, tre provengono da uno scarico probabilmente votivo contenente materiali di III-I secolo a.C. Le anfore

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte

Tav. I. Frammenti iscritti dalla collina di Caronia, area urbana: 1. Frammento di lastra marmorea con lettera Μ (?); 2. Frammento di lastra marmorea con lettera Ο (?); frammento di laterizio con bollo ΧΑΡΙ[−; 4. Lastrina marmorea con iscrizione ΧΑΙΡΕ; 5. Bollo su laterizio: ∆Α[..]; bollo su manufatto di terracotta: ∆; 7. Oscillum fittile con iscrizione a crudo ΕΙΚ o ΕΥΚ; 8-10. Bolli su anse di anfore rodie; 11. Sigillo in piombo con nesso di lettere ΠΟ−ΑΛ (ΠΟΛΙΣ ΑΛΑΙΣΙΝΟΝ); 12. Bollo su fondo di vaso acromo con nesso di lettere ΑΡΙΞ (?); Frammento di anfora greco-italica con lettere incise Ε(C?). 14. Da c.da S. Todaro: manufatto in terracotta con iscrizione incisa ΠΥΞ

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. II. Frammenti iscritti dalla collina di Caronia, area urbana: 1. Fondo di piatto a v.n. Camp. A, nesso ΕΥ; 2. Fondo di piatto a v.n. Camp. A: Φ; 3. Frammento a v.n. Camp. A: ΠΟ; 4. Frammento a v.n. [Ρ]ΚΟ; 5. Fondo di piatto a v.n. Camp. A con nesso di lettere; 6. Bordo di piatto a v.n.: ΟΥ[Ξ?]; 7. Bordo di patera a v.n. Camp. C: […]∆Ε; 8. Frammento a v.n. con nesso ΑΡ; 9. Fondo di vaso a v.n. Camp. C con nesso ΑΟΜ (?); 10. Fondo di vaso a v.n. Campana C: ΟΚΑ; 11. Bordo di piatto (?) a v.r.: ΠΑ∆; 12. Frammento di vaso a v.r. ΘΕΥ∆−/ [?]ΗΜ−; 13. Fondo di coppa skyphoide: E; 14. Fondo di coppa con lettere incise in nesso: Α[.] Μ[.]; 15. Fondo di piatto a v.n.: ∆ΕΙΝ; 16. Parete di piatto in Camp. C con nesso di lettere; 17. Fondo di vaso a v.r.: Μ; 18. Fondo di coppa skyphoideΑ; 19. Fondo di piatto a v.n.: ∆ Α; Fondo di vaso acromo: ΙΑ[Λ].

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte c. Fonti numismatiche Si conoscono cinque serie monetali emesse dalla zecca calactina. Tradizionalmente assegnate al periodo immediatamente successivo alla conquista della Sicilia da parte dei Romani, oggi si tende ad assegnare queste monete,43 come quelle delle vicine città di Apollonia e Amestratos, ad un epoca di poco più tarda (tra la fine del III e i primi decenni del II secolo a.C.). La loro circolazione sembra essersi prolungata sino alla fine dell’età repubblicana. Esemplari di zecca calactina sono stati recuperati peraltro in diversi siti dell’isola facendo supporre una discreta diffusione di valuta calactina in un’area ben definita (soprattutto Sicilia centro-orientale) entro cui si intrattenevano rapporti commerciali e culturali tra centri diversi.44 Le emissioni di Kalè Akté, da lungo tempo note, sono le seguenti: 1. Testa di Atena con elmo/Civetta su anfora 2. Testa di Dionisio/Grappolo d’uva 3. Testa di Apollo/Lira 4. Testa di Eracle/Clava 5. Testa di Ermes/Caduceo Tutte le serie riportano sul retro la legenda ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ e si accomunano a simili monetazioni di centri vicini e non. Numericamente più numerose sono le prime due emissioni, ritrovate in larga misura a Caronia e in diversi esemplari in altre città siciliane. Di notevole interesse la grande quantità di monete calactine rinvenute nel corso degli scavi eseguiti a metà degli anni 2000 nel sito di Apollonia (San Fratello),45 che suggeriscono un rapporto molto diretto tra le due città se non una marcata influenza politica ed economica di Kalè Akté su quella città limitrofa. In discreto numero anche gli esemplari rinvenuti nel sito di Halaisa,46 che attestano prevedibili stretti rapporti commerciali e politici tra le due città. Andrebbe approfondita la scelta di emettere una serie monetale, peraltro molto frequente nei rinvenimenti, a imitazione delle famose dracme di Atene di “nuovo stile” con raffigurazione di testa di Atena con elmo e civetta accovacciata su anfora, un unicum nel panorama numismatico siciliano. L’ipotesi più plausibile sembra essere quella di avere voluto la nostra città, in questo modo, incrementare i traffici commerciali immettendo in circolazione una moneta quasi indistinguibile dalla dracma ateniese, che godeva di grande considerazione nei mercati internazionali, ma potrebbe sottendere l’esistenza di accordi commerciali di qualche tipo con la stessa Atene nel corso della meda e tarda età ellenistica.47

Figg. 11a-b-c-d. Quattro delle cinque emissioni monetali di Kalè Akté (manca quella con Eracle e clava, per la verità molto rara, di cui non si dispone di immagine), databili dagli ultimi decenni del III ai primi decenni del II secolo a.C.

Le divinità raffigurate nelle cinque emissioni trovano numerosi confronti con altri siti sicelioti. Non andrebbe trascurata la circostanza che la scelta di raffigurare determinate divinità possa riflettere i culti praticati nella città, tra i quali quello di Apollo è oggi sicuramente provato dall’esistenza di un santuario ad esso dedicato, di cui si fa menzione nella già citata epigrafe SEG LIX 1102. Il culto di Apollo, tra i più attestati nel mondo greco, ebbe grande importanza nelle città ricadenti in area nebroidea: per Halaesa ed Herbita è testimoniato dal passo di Diodoro Siculo 14.16, per Agathyrnon nell’iscrizione dei theorodokoi di Delfi, sempre per Halaisa e per Kephaloidion, Amestratos, Apollonia e Halontion dalle monete. La moneta con testa di Dionisio e grappolo d’uva è sicuramente la più diffusa nel nostro sito e la più frequente nei rinvenimenti noti da altri centri. Il significato della raffigurazione del grappolo d’uva con testa di Dioniso, che trova confronti con le

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Sull’argomento, si veda tra gli altri Mannino 1986-1987 Vedi Carroccio, Collura, Ritrovamenti monbetali di epoca greca nel territorio di Caronia, antica Kalè Akté, a seguire in questo volume 45 Carbè 2009; Carbé 2011 46 Carettoni 1959, 1961 47 Varrebbe forse la pena di richiamare in proposito la φιλία di Herbita e Atene tra V e IV secolo a.C., che potrebbe essersi estesa ai centri in qualche modo controllati da quella potente città sicula, Kalè Akté compresa. L’adozione di una simile iconografia su moneta potrebbe in tal caso sottintendere rapporti di lunga data tra la nostra città e Atene anche dopo che questa parte di Sicilia era entrata nella sfera d’influenza siracusana

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia emissioni monetali di Naxos e Tyndaris, farebbe riferimento ad uno dei prodotti maggiormente esportati, ossia il vino calactino, di cui si ha conferma in epoca più tarda nell’esistenza di fornaci per la produzione di anfore vinarie del tipo Termini Imerese 151/35448 nonché alla diffusione del culto dionisiaco nel nostro sito. Il bronzo con testa di Eracle e clava trova strette analogie con quello della vicina Halontion e di Centuripe, Kephaloidion e Menaion Infine l’emissione con raffigurazione di testa di Hermes e caduceo è affine a quella di Kephaloidion, Halontion e Menaion. Da notare il ricorrere delle analogie con i centri di Kaphaloidion (Cefalù) e Halontion (San Marco d’Alunzio). La valuta calactina ebbe corso fino ad epoca tarda, probabilmente per tutta l’età repubblicana e anche all’inizio dell’Impero. I ritrovamenti numismatici di epoca ellenistica / repubblicana dal territorio di Caronia, sia da scavi sistematici che da rinvenimenti sporadici, comprendono poche emissioni di Roma e la cospicua presenza di bronzi sicelioti di III-II secolo a.C., che se da un lato suggeriscono una grande autonomia fiscale dei centri isolani nell’ambito della Sicilia romana preimperiale, dall’altro farebbero pensare a ridotti scambi commerciali con la penisola italiana e con Roma, che tuttavia sono ampiamente attestati dall’evidenza ceramica.

Tuttavia è confermata una frequentazione dell’altura già in età preistorica (semilavorati di ossidiana e selce) e quantomeno in epoca tardoarcaica (ceramiche grezze modellate a mano), da riferire probabilmente ad un modesto abitato ubicato nella parte più alta della collina, forse ancora esistente all’arrivo di Ducezio. Sulla costa, invece, i recenti scavi in contrada Pantano49 ed altri rinvenimenti fuori contesto50 hanno portato alla scoperta di livelli databili già alla fine del VII secolo a.C.51 E’ da ritenere, pertanto, che sulla rotta da Zancle a Himera esistesse una sorta di emporion o comunque uno scalo intermedio direttamente sotto il controllo della polis dello Stretto. D’altra parte, quanto riferisce Erodoto a proposito del tentativo fallito di insediare una colonia nel luogo sul Tirreno noto come “kalè akté” all’inizio del V secolo a.C. indica chiaramente che il sito era già conosciuto e materialmente controllato da Zancle. La notazione erodotea, unita ai ritrovamenti archeologici, consente di ricostruire a grandi linee la situazione tra la seconda metà del VII secolo a.C. e il 446 a.C. Quando Zancle fondò Himera nel 648 a.C. scelse il luogo più appropriato, sia da un punto di vista geografico (disponibilità di terre da coltivare) che strategico (al confine con il territorio d’influenza punica), per l’insediamento di una colonia: Himera chiudeva a ovest la lunga fascia tirrenica in vario modo rientrante nell’area di controllo della colonia calcidese. Pur nel silenzio degli Autori antichi, si potrebbe ritenere che la colonizzazione di Himera non costituì un fatto isolato nella Sicilia settentrionale, ma piuttosto è da ipotizzare un ulteriore, seppure modesto insediamento greco in un’area intermedia, dotato di un approdo ed in grado di costituire una testa di ponte a fini commerciali con le popolazioni sicule che abitavano le alture nebroidee. Possiamo quindi pensare ad un abitato coloniale di modeste dimensioni che non si sviluppò mai in forma di vera e propria polis: l’invito rivolto ai Samii di venire in queste contrade a fondare una loro città agli inizi del V secolo aveva lo scopo di dare sviluppo demografico all’insediamento portuale, che esistette quindi almeno dagli ultimi decenni del VII secolo a.C. sino all’arrivo di Ducezio con Archonidas di Herbita, il quale controllava l’intero comprensorio dei Nebrodi occidentali e parte di quello Madonita52. L’occupazione del sito già in epoca arcaica è oggi confermato dal rinvenimento fortuito, all’interno di una vecchia discarica edilizia alla periferia del moderno abitato di Marina di Caronia, di materiali greci databili nel corso dell’intero VI secolo a.C. se non prima. Rimandando, per una valutazione più completa dei recenti rinvenimenti di epoca arcaica e alto-classica,

B. Dai dati letterari all’evidenza archeologica. Per una ricostruzione della vicenda storica di Kalè Akté – Calacte Come spesso avviene per le città della Sicilia greco-romana, in particolare per quelle “minori”, i dati desumibili dalle fonti letterarie ed epigrafiche devono essere ampiamente integrati da quelli archeologici per la ricostruzione delle relative vicende plurisecolari. L’evoluzione di una città, il suo status politico ed economico, il suo effettivo inserimento in rapporti interregionali di tipo culturale o commerciale, si possono desumere solo dallo studio delle attestazioni di cultura materiale, dall’organizzazione urbana, dall’esistenza di monumenti degni d’interesse. D’altra parte, nel nostro caso, l’esiguità di scavi sistematici condotti con metodo scientifico e l’incompleta edizione dei rinvenimenti necessitano di essere integrati con lo studio di innumerevoli rinvenimenti “sporadici” di strutture e materiali, il cui esame comparato consente di ricostruire a grandi linee il quadro delle vicende di questa città nel corso di molti secoli. La data di fondazione riferita da Diodoro Siculo al 446 a.C. appare confermata da alcuni rinvenimenti isolati sulla collina di Caronia, costituiti essenzialmente da frammenti ceramici databili quantomeno all’ultimo terzo del V secolo a.C. Si tratta di ceramiche a vernice nera di produzione coloniale, tra cui alcuni riferibili a produzioni imeresi, e da pochi ma interessanti frammenti di ceramica indigena a decorazione geometrica di un tipo diffuso nell’area centrale siciliana tra VI e V secolo a.C. 48

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Bonanno 2009 Lindhagen, 2006 51 Dallo scavo 2003-2005 in c.da Pantano proviene, tra gli altri, una statuetta in stile dedalico datata alla fine del VII secolo a.C. 52 Herbita fu una delle più potenti città sicule tra il V e la prima metà del IV secolo a.C. Il sito tuttavia non è mai stato identificato con certezza (Monte Alburchia presso Gangi, Monte Altesina presso Nicosia?). Il riferimento alla città contenuto nelle fonti letterarie ed epigrafiche fa ritenere che la città sorgesse a non molta distanza da Halaisa e Kalè Akté, in una delle numerose alture comprese tra Nebrodi e Madonie che peraltro non sono ancora state esplorate sistematicamente. 50

Belvedere et alii 1993

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte all’approfondimento contenuto in questo stesso volume,53 segnaliamo che la tipologia dei materiali rinvenuti, comprendenti soprattutto anfore commerciali, ma anche abbondante ceramica attica ed esemplari di vasi corinzi e di produzione ionica, suggerisce l’esistenza di un piccolo emporion di VI-V secolo a.C. sorto nel sito di una prima frequentazione da parte dei coloni zanclei diretti verso ovest forse già a metà del VII secolo a.C. Esiste quindi una prima occupazione stabile dell’area di quella che diverrà la polis di Kalè Akté ben prima della tradizionale data di fondazione di cui in Diodoro Siculo 12.8.2 e si tratta di un insediamento propriamente greco in territorio siculo senza pretesa di espansione nel territorio a danno delle popolazioni locali. Nel 446 a.C. venne fondata la città di Ducezio sulla collina, in una posizione più consona agli standard insediativi indigeni, che preferivano siti d’altura, naturalmente difesi, sebbene a non grande distanza dalla costa. Abbiamo pochi dati per ipotizzare di che tipo di abitato si trattasse: la recente individuazione di alcuni insediamenti indigeni in questo settore dell’isola54 consente di immaginare il tipico abitato siculo come un agglomerato di dimensioni medio-piccole, in posizione arroccata e naturalmente difesa, comunque con agevole accesso al mare e quindi a possibilità di contatto con il mondo coloniale. Sino alla fondazione di Halaisa nel 403 a.C. Kalè Akté dovette costituire il principale centro del settore occidentale nebroideo dopo Herbita, caratterizzandosi sin dall’inizio per la peculiare dislocazione in due abitati complementari, uno sulla costa e l’altro sulla collina retrostante. Verso est, esistevano già da tempo altri centri siculi, il più importante dei quali era Halontion (San Marco d’Alunzio),55 e ancora più ad est, nelle estreme propaggini orientali della catena nebroidea, vigeva l’egemonia di Abakainon (odierna Tripi). Sull’epopea di Ducezio, che ha termine proprio con la fondazione di Kalè Akté e la sua morte sei anni dopo, si è discusso molto e ancora si continua a dibattere,56 per cui non pare il caso di riesaminare in questa sede le tappe del movimento di cui fu protagonista, alla cui base sta effettivamente la rivendicazione di un’identità etnica che si andava dissolvendo sotto i processi di acculturazione diretta e indiretta avviati dalle città greche. Piuttosto merita una rivisitazione l’episodio che ci riguarda direttamente, non

essendo ancora del tutto chiari i motivi e le aspettative di controparti diverse, Greci e Siculi, in occasione dell’ultima fondazione duceziana. Come sappiamo, l’alleanza tra Akragas e Siracusa riuscì ad avere la meglio sulla rivolta dei Siculi: Ducezio venne sconfitto a Nomai e decise di consegnarsi ai Siracusani, dai quali venne esiliato a Corinto.57 La decisione di inviare Ducezio in questa città sarebbe giustificata dagli stretti legami intercorrenti con Siracusa, a sua volta antica colonia corinzia. Tuttavia bisognerebbe comprendere le reali motivazioni di una tale scelta, potendosi benissimo, in quell’occasione, mettere a morte il condottiero siculo, ridurlo in schiavitù a Siracusa stessa o esiliarlo altrove. Diodoro Siculo 12 8 racconta che dopo una breve permanenza a Corinto, Ducezio, adducendo la motivazione di un responso oracolare che lo invitava a fondare una città nel “bel tratto di costa di Sicilia”, ruppe i patti e partì per l’isola con un certo numero di coloni, a cui si unirono alcuni Siculi, tra i quali Archonidas di Herbita. Un tale evento suscitò la reazione di Akragas, che incolpava Siracusa di avere lasciato libero Ducezio, per cui tra le due città scoppiò una guerra. Al di là delle diverse interpretazioni di questo passo diodoreo circa la veridicità dell’oracolo, di quale esso fosse tra i diversi consultabili in Grecia o del ruolo effettivo di Siracusa e Corinto, che chiaramente non avrebbero mai accettato di liberare il condottiero siculo sulla base di un semplice responso oracolare se non avessero avuto adeguato tornaconto da una tale decisione, qui interessa capire perché Ducezio abbia scelto proprio il sito di Kalè Akté per la sua fondazione. Alla base del ritorno di Ducezio in Sicilia e soprattutto della fondazione di una nuova città di etnia mista siculo-greca riteniamo dovesse esserci un accordo raggiunto, all’indomani della soppressione della rivolta sicula, tra Siracusa e i Siculi di questa parte di Sicilia che, in effetti, non vengono mai citati nel resoconto degli eventi in questione. Le fonti fanno intuire che lo scontro interessò solo insediamenti indigeni della parte meridionale e centro-orientale dell’isola. Non sappiamo quale coinvolgimento abbiano avuto in quella fase gli abitati autoctoni di area nebroidea e madonita, che sembrano essere rimasti sostanzialmente estranei alla vicenda. Fino ad allora, essi avevano senz’altro ricevuto un processo di ellenizzazione (parziale) indotto da contatti prettamente di tipo commerciale con le colonie della Sicilia settentrionale (Zancle, Mylai, Himera e probabilmente anche Naxos per via interna), mentre per la parte di territorio che ci interessa, un certo ruolo dovette avere la Kalè Akté arcaica creata come semplice trading post nella seconda metà del VII secolo a.C. Queste popolazioni locali, come riferisce Tucidide, vivevano “kata komas”, ovvero erano entità autonome con centri sparsi su alture, del tutto indipendenti tra loro, e pare di capire che non avessero mai maturato il concetto di fare parte di un’unica etnia. Fu Ducezio che le rese consapevoli di costituire un’unica stirpe in antitesi a quella greca. Ma è probabile che nonostante questa ideale riunificazione, esistessero comunque raggruppamenti per aree geografiche, cioè che vi fossero i Siculi dell’area

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Collura, Approfondimenti: Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca lungo la costa tirrenica in età coloniale. Fu Kalè Akté un Emporion?. Si veda inoltre: Materiali arcaici e classici (Seconda metà VII-V secolo a.C.) da Marina di Caronia (ME). Nuovi dati sulla presenza greca lungo la costa tirrenica in età coloniale. L’Emporion di Kalè Akté. Preprint 4.2015 54 Abitati indigeni ellenizzati in vita tra VI e IV secolo a.C. nel territorio di Caronia sono stati identificati ad esempio a Pizzo Cilona, in contrada Aria al confine con il territorio di S. Stefano di Camastra e in contrada L’Urmo, tutti su alture ben difese, immerse nel bosco e di dimensioni medio-piccole. Questi insediamenti cessarono di vivere entro la prima metà del IV secolo a.C. 55 Sebbene a S. Marco d’Alunzio le principali attestazioni siano di epoca ellenistica (a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C.), un saggio in profondità ha individuato livelli arcaici con ceramiche di VI-V secolo a.C. Vedi: Bonanno 2000 56 Si vedano, tra gli altri, Adamesteanu 1962, Rizzo 1970, Maddoli 1980 e più recentemente Prestianni Giallombardo 2006, Miccichè 2006 e 2011

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Diod. XI 91-92

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia iblea, quelli dell’area etnea, quelli dell’entroterra intorno a Enna e, infine, i Siculi dell’area nebroidea-madonita. Questi ultimi appaiono relativamente svincolati dagli altri per via della loro dislocazione piuttosto periferica e caratterizzata da un ambiente peculiare, dove una catena ininterrotta di alte montagne e profonde vallate fluviali imponeva modalità insediative del tutto particolari e condizionava gli stessi contatti tra insediamenti. In questo settore dell’isola, alcuni centri si distinguevano da altri “minori”, avendo nel tempo assunto un ruolo egemone su vaste aree: tali appaiono, ad esempio, gli abitati arcaici di Abakainon, Gioiosa Guardia e Halontion, oltre alla stessa Herbita. I Siculi di questa parte di Sicilia costituirono un ostacolo insormontabile alle mire espansionistiche di Akragas, Gela e Siracusa nella risalita verso il Tirreno. La citazione della sola Herbita e del suo sovrano Archonidas,58 tra i diversi Siculi che parteciparono alla fondazione della nostra città, fa intuire che era quello il centro indigeno più importante ed influente in questa parte di Sicilia e si potrebbe anche ipotizzare, come accennato, la realizzazione, tra il 450 e il 447 a.C., di un’alleanza tra la stessa Herbita e Siracusa, la prima nota tra le due città, a cui seguiranno quelle di fine V secolo a.C. e ancora del 396 a.C., tra un altro Archonidas, figlio o nipote del primo, e Dionisio I di Siracusa. Herbita doveva controllare un’ampia porzione di territorio a cavallo tra le catene montuose di Nebrodi e Madonie, dove insistevano diversi insediamenti indigeni pienamente in vita già prima della metà del V secolo a.C. I recenti rinvenimenti di materiali greci arcaici a Marina di Caronia hanno suggerito che ivi esistesse un insediamento greco con funzioni di tipo prettamente commerciale, senza pretesa di espansione nel territorio controllato dai Siculi, potendosi ipotizzare in questo caso una pacifica convivenza tra i due popoli a cui era comunque dovuta rimanere estranea Siracusa, tuttavia desiderosa da tempo di potere in qualche modo affacciarsi sul Tirreno. Fino ad allora, questa ambizione gli era rimasta preclusa dall’ostilità non solo di Herbita, ma anche di altri potenti centri siculi, tra i quali annoveriamo sicuramente Halontion e Abakainon, senza trascurare la circostanza per cui il controllo della costa tirrenica era pienamente nelle mani delle colonie calcidesi di Zancle e Himera. L’accordo che ipotizziamo tra Siracusa e Herbita, non espressamente citato da Diodoro né da altri storici antichi, dovette prevedere la nascita di una nuova città di etnia mista, la cui fondazione doveva essere affidata a Ducezio, in questo caso protagonista degli interessi sia della sua stirpe (Herbita e altri centri siculi settentrionali) sia della città greca che gli aveva concesso la grazia. Diodoro riferisce dell’arrivo nel sito di coloni corinzi, tra i quali dovevano esserci anche rappresentanti di Siracusa. La scelta proprio della collina di Caronia per la nuova fondazione, tra i tanti siti possibili, fu indotta dall’esistenza di un insediamento greco già ben conosciuto, l’unico presente, a quanto finora ne sappiamo, lungo la costa settentrionale tra Mylai e Himera, che già mezzo secolo prima aveva tentato 58

inutilmente di trasformarsi in polis su iniziativa di Zancle. In sostanza, Ducezio appare essere la parte visibile di manovre diplomatiche tra i Siculi dei Nebrodi, che non volevano sottomettersi ai Greci, e di Siracusa che tentava di trovare un vantaggioso sbocco sul Tirreno. In quest’ottica, la reazione di Akragas è comprensibile: significativa l’espressione usata da Diodoro (φθονοῦντες ovvero “invidiosi”) per capire come gli Akragantini non avessero tollerato che i Siracusani, in buona sostanza, fossero riusciti a estendere la propria sfera d’influenza nel settentrione dopo ripetuti tentativi in tal senso da parte della stessa Akragas e dopo che evidentemente la sconfitta di Ducezio aveva portato ad una situazione di stallo tra le due città greche e le popolazioni sicule. Resta infine da capire dove e come abbia vissuto, nonché il luogo in cui morì Ducezio. Diodoro 12.29 riferisce: “Ducezio, colui che fu a capo delle città sicule, fondò la città natale dei Calactini e, dopo avervi stabilito numerosi coloni, rivendicò la guida dei Siculi, ma il suo tentativo fu interrotto da una malattia e morì”. Era il 440 quando si spense, o nella stessa Kalè Akté o forse a Herbita, dove è probabile che lo abbia accolto l’amico Archonides. Dopo il 446 a.C. nel giro di pochi anni si diede da fare per popolare la sua città, invitando qui famiglie di altri centri siculi non solo di questa parte dell’isola ma forse anche dalle città interne che lo avevano sostenuto in precedenza, in modo da dare forma e consistenza all’abitato che si andava sviluppando in cima alla collina. Nei circa sei anni che gli rimasero dopo la sua ultima fondazione – racconta ancora Diodoro – tentò di ridare vita alla rivolta sicula, forse coinvolgendo per primi i centri dell’area settentrionale siciliana. Tuttavia lo storico agirino, nello stesso capitolo, fa capire che almeno nell’anno in cui morì Ducezio, tutte le città sicule erano già sottomesse a Siracusa ad eccezione di Trinakie, rimasta isolata contro Siracusa proprio perché priva della collaborazione di altre città sicule alleate, la quale dopo una strenua resistenza venne infine presa. Si comprende pertanto come l’ultimo tentativo di riscatto del popolo siculo da parte di Ducezio sia maturato in un ambiente completamente diverso da quello del ventennio passato ed in quest’ottica si comprende bene come le due ultime città menzionate a proposito della vicenda del condottiero siculo, ossia Kalè Akté ed Herbita, fossero in realtà esse stesse vincolate a Siracusa. A parere di chi scrive, il passo 12.29.1 è una forma di ulteriore celebrazione di Ducezio da parte di Diodoro Siculo, mostrato qui come indomito paladino delle genti sicule anche dopo la disfatta e il ritorno (vincolato) dall’esilio e si può concludere che in realtà non vi fu alcun tentativo concreto di rivendicazione, in un clima del tutto nuovo dove era ormai Siracusa a dettare condizioni. Nei decenni successivi alla fondazione, furono due gli eventi che potrebbero avere coinvolto, anche indirettamente, queste contrade: la spedizione ateniese in Sicilia e la sconfitta dei Greci ad opera dei Cartaginesi ad Himera nel 409 a.C. Per il primo, ipotizziamo il sostegno dei centri di quest’area a favore di Atene, quindi in prospettiva anti-siracusana, sulla base della φιλία nota da Tucidide 7.1 tra Archonidas di Herbita e la città dell’Attica, che avrebbe la sua origine ancora nell’intento di impedire il pieno controllo dell’area nebroidea-

Miccichè 2008

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte madonita da parte di Siracusa. Lo stretto legame tra Herbita e Kalè Akté non può far pensare che anche la nostra città, come altre ricadenti in questo settore, avesse una condotta diversa. E’ chiaro che la vittoria di Siracusa su Atene dovette creare o, meglio, accentuare il clima di tensione tra la città aretusea e i centri della costa settentrionale. Circa la battaglia di Himera del 409 a.C., con la vittoria dei Cartaginesi sui Greci, riteniamo che un tale decisivo accadimento dovette avere ripercussioni nell’area fino ad allora occupata dai Siculi ellenizzati della costa tirrenica, sebbene non se ne percepiscano chiaramente gli effetti da un punto di vista materiale. Altro episodio, sia prima che dopo la fondazione di Halaisa del 403 a.C., che in qualche modo interessò questo settore dell’isola, fu il ripetuto tentativo di Dionisio I di Siracusa di impossessarsi di Herbita, ma senza successo ed anzi siglando con essa trattati di pace.59 Era evidente che la potente città sicula continuò a costituire un ostacolo insormontabile alla piena espansione siracusana verso il Tirreno, che si compirà poco tempo dopo con la fondazione di Tyndaris, ad una certa distanza dal nostro territorio. La probabile presenza di truppe siracusane in quest’area, tra la fine del V e i primi decenni del IV secolo a.C. potrebbe essere suggerita dal rinvenimento di monete di Dionisio I nel territorio sia di Caronia60 che della vicina Apollonia.61 A parte i materiali mobili, soprattutto ceramiche e qualche moneta, in realtà non sono molte le testimonianze dell’abitato di fine V – prima metà IV secolo a.C. In contrada Pantano, nei pressi dell’antico porto identificabile nell’ampia depressione artificiale che caratterizza l’area omonima, al di sotto delle principali strutture portate in luce e databili alla seconda metà del III secolo a.C, negli scavi 2003-2005. sono stati rinvenuti resti assegnabili forse al IV secolo a.C. pertinenti ad un abitato preesistente, che gli archeologi che hanno eseguito le indagini ritengono parzialmente sommerso da una mareggiata disastrosa.62 A Caronia, invece, una frana che ha recentemente interessato l’area in cui sorge la palazzina delle Case Popolari, costruite negli anni ’50 del secolo scorso intaccando profondamente il pendio collinare a est del Castello, ha portato in luce due ambienti scavati nella roccia, in uno dei quali, a contatto con la parete di base, erano presenti frammenti assegnabili alla fine del V secolo a.C., tra cui sporadiche ceramiche indigene a decorazione geometrica. L’unità abitativa fu in uso sino al 330 a.C. circa, quando un evento distruttivo improvviso, con crollo delle pareti in mattoni crudi e ampie tracce di incendio, ne determinò l’abbandono: si tratta del contesto abitativo più antico finora rinvenuto in collina.63

Nella totale assenza di notizie dirette riguardanti Kalè Akté tra la fase di fondazione (Diodoro Siculo) e la fine dell’età ellenistica (Cicerone), tenendo comunque in considerazione alcuni documenti epigrafici da altri centri nei quali compare la nostra città, dobbiamo necessariamente valutare la situazione generale siciliana, quantomeno quella nota per la Sicilia centrosettentrionale, e in particolare quella di alcune città per le quali disponiamo di maggiori notizie, tra le quali Herbita e Halaisa, che rivestirono un ruolo importante nelle vicende di questa parte dell’isola. Il periodo compreso tra gli ultimi decenni del V e tutto il IV secolo a.C. è povero di informazioni non solo per Kalè Akté ma per l’intero territorio nebroideo. Le vicende principali note dalle fonti riguardano Apollonia (Monte Vecchio di San Fratello), che fu liberata ad opera di Timoleonte dalla tirannia di Leptines assieme a Engyon (Troina?) e che fu investita in primo piano dalle azioni militari di Agatocle che, di ritorno dalla Libia, nel 307 a.C., assediò e conquistò la città, sopprimendo la maggior parte degli abitanti e confiscandone i beni.64 A proposito della venuta in Sicilia di Timoleonte, è da considerare la citata symmachia delle città sicule in favore del condottiero corinzio. Possiamo presumere che tutti i centri ricadenti in area nebroidea abbiano aderito alla confederazione timoleontea promossa da Halaisa, alla quale si fa tradizionalmente risalire anche la coniazione di monete federali emesse in questa occasione che recano legenda ΣΥΜΜΑΧΙΚΟΝ. La presenza di Agatocle nel nostro territorio è invece suggerita dal rinvenimento di monete del dinasta siracusano sulla collina di Caronia (e nella vicina Apollonia), mentre non sono state finora rinvenute monete della symmachia timoleontea. Sin dalla fondazione di Ducezio sulla collina, il centro urbano di Kalè Akté si articolò in una città alta e una città bassa direttamente collegate da almeno una strada che risaliva il pendio, forse rintracciabile in una trazzera che conserva la pavimentazione in ciottoli e a tratti gradonata esistente ancora oggi tra la contrada Telegrafo e la zona del rifornimento Q8 a Marina di Caronia.65 L’abitato collinare fu il centro politico e amministrativo di Kalè Akté e quello costiero la sede dei commerci grazie al diretto accesso ai traffici marittimi e per terra. Non siamo in grado, al momento, di determinare dimensioni e popolazione dei due quartieri nei primi secoli di vita della città, sebbene si possa ipotizzare uno sviluppo parallelo che comunque nella fase ellenistica avvantaggiò soprattutto il centro collinare, similmente ad Halaisa, anch’essa comprendente un quartiere sulla costa di cui si conoscono al momento solo evidenze di età imperiale.66

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Diodoro Siculo 14.15 Un bronzo di Siracusa della serie Testa di Atena con elmo e Ippocampo è stata rinvenuta in c.da Telegrafo, nell’area dello scavo 1992: Bonanno 1993-1994 61 Carbé 2009. In particolare, si segnalano, dallo scavo, oltre a 3 bronzi di Siracusa con testa di Atena elmata e Ippocampo, databili al 405-367 a.C., 3 esemplari di zecca siculo-punica del tipo testa maschile-cavallo al galoppo, databili al 375-350 a.C. 62 Bonanno 2009 63 Vedi Cap. 3 60

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Diod. Sic. XX 56, 3-4 Si tratta di un percorso che partendo dall’area del moderno rifornimento Q8 in c.da S. Anna risaliva il ripido pendio con una larghezza di circa 1,5 metri raggiungendo l’abitato collinare in prossimità dell’odierna c.da Bastardella. Della strada originaria si conserva il tratto intermedio; quello inferiore non risulta rintracciabile a causa di ripetute frane, mentre quello superiore è stato modificato e asfaltato negli ultimi decenni 66 Scibona, Tigano 2009 65

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 12. Carta dell’area archeologica di Kalè Akté – Calacte con indicazione, in diverse tonalità, dell’area urbana e delle necropoli, con le località citate nel testo.

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte La fase di ripresa accertata nell’isola a seguito dell’intervento di Timoleonte si intuisce anche nei centri che ricadono nell’area dei Nebrodi occidentali, ad esempio ad Halaesa, Apollonia e Halontion. A Kalè Akté, come nelle città menzionate, essa sembra corrispondere ad una crescita sia in termini demografici che sotto l’aspetto della qualità di vita, secondo un trend che si protrae e si accentua dopo la nascita della Provincia Romana. Indicatori di questo cambiamento sono anche le caratteristiche dei materiali d’uso comune, prime tra tutte le anfore: è elevatissimo, ad esempio, il numero di contenitori da trasporto greco-italici tra la fine del IV e il II secolo a.C. osservabile tra i materiali di superficie, nonché quello proveniente da scavi sistematici, segnale di più che discreti traffici commerciali, quanto meno in entrata. La presenza di frammenti di vasi a figure rosse dagli stessi contesti, riferibili principalmente a lekanai e skyphoi, sono poi indicatori di un livello di vita relativamente alto, considerando che questi manufatti di lusso sono solitamente meno presenti nei contesti urbani rispetto a quelli cimiteriali. Indizio di una fiorente economia è l’avvio di produzioni locali di ceramiche, desumibile dall’esame macroscopico dei materiali vascolari non solo a Kalè Akté, ma anche ad Apollonia e Halaesa, tra III e I secolo a.C., circostanza legata evidentemente ad una maggiore richiesta di suppellettili da parte di un aumentata popolazione locale. Purtroppo le ipotesi circa una fase di grande prosperità della città in età ellenistica sono al momento suggerite, oltre che dall’evidenza numismatica, solo dall’esame dei materiali mobili, compresi i numerosi elementi architettonici, soprattutto in terracotta, e i lembi di raffinati stucchi e apparati murali o di mosaici pavimentali visibili un po’ ovunque in collina, poiché manca del tutto l’evidenza dei resti di monumenti ed edifici pubblici, smantellati già in età medievale o rimasti sepolti sotto il tessuto urbano del secondo millennio. La fase classica e altoellenistica è per Kalè Akté ancora archeologicamente poco conosciuta ed è attestata principalmente da materiali quasi sempre fuori contesto. In collina, gli unici resti di strutture abitative sicuramente databili quantomeno alla seconda metà del IV secolo a.C. sono un muro portato in luce nell’area di Palazzo Cangemi,67 l’ambiente venuto in luce alle spalle delle Case Popolari di cui si è detto prima e probabilmente un altro ambiente ricavato nella roccia affiorato a seguito del tracciamento di una strada rurale nell’area sottostante le stesse Case Popolari.68 A Marina di Caronia, in c.da Pantano, strutture murarie portate in luce ad un livello inferiore rispetto all’Edificio A costruito nella seconda metà del III secolo a.C. potrebbero appartenere al secolo precedente ma occorrono saggi stratigrafici per accertarne l’effettiva cronologia, non chiarita. La disposizione delle strutture abitative nella città alta fa intravedere un impianto urbano adattato alla conformazione della collina, presumibilmente di tipo pseudo-ortogonale; anche sulla costa sembra che le strutture di epoca quantomeno altoellenistica rispondessero allo stesso

piano urbano regolare riconoscibile per il periodo più tardo. Rinvenimenti di monete, principalmente di Siracusa, databili all’intero IV secolo a.C. in varie parti dell’altura, attestano non solo l’esistenza della città ma anche il suo inserimento nei canali commerciali e nelle aree di controllo politico che caratterizzano questa parte centrale della Sicilia. In ogni caso, almeno fino alla metà del III secolo a.C., sembra opportuno pensare a Kalè Akté come un centro di modeste dimensioni e con poco peso politico nelle vicende di questa parte dell’isola. Se la fondazione della città, negli intendimenti di Ducezio e del re di Herbita, avrebbe dovuto rappresentare una tappa importante negli eventi che entrambi si auspicavano per il mantenimento dell’egemonia sicula in questo territorio, la morte prematura dello stesso Ducezio pochi anni dopo la fondazione e i fatti che coinvolsero Herbita nei rapporti con Siracusa, non permisero al centro di svilupparsi ed imporsi rispetto alle altre città dell’area. I rinvenimenti archeologici, comunque, attestano la presenza urbana su parte della collina (sommità, versanti est e nord) e sulla costa ad ovest del torrente Sant’Anna (c.da Pantano). La modesta importanza di questo centro giustificherebbe – come detto – l’assenza di riferimenti letterari, nonché epigrafici e numismatici, fino al III secolo a.C. L’iscrizione SEG LIX 1102, rinvenuta sporadica sul pendio orientale della collina, contiene importanti informazioni circa l’organizzazione politica e religiosa di Kalè Akté nel III-II secolo a.C. Il blocco marmoreo iscritto, di modeste dimensioni, era probabilmente inserito nella parete di un edificio pubblico, forse all’interno dell’agorà, ubicato verosimilmente a monte del luogo di rinvenimento, nell’area compresa tra il Castello e la piazzetta di S. Francesco – via Ducezio. Similmente a molti altri centri dell’isola, anche a Kalè Akté era presente una boulè e un’assemblea popolare (synkletos), due organi di governo tipici dei centri ellenistici sicelioti. Interessante il riferimento al santuario di Apollo, presso cui sarebbe stata conservata una tabella in bronzo con lo stesso contenuto, probabilmente il principale della città in maniera simile a diversi altri centri di quest’area (Halaisa, Herbita, Apollonia, ecc.). La posizione di Kalè Akté in occasione della Prima Guerra Punica non è nota da alcuna fonte scritta. Pertanto si deve tentare di ricostruire gli eventi di quella fase per la nostra città in maniera indiretta, soprattutto attraverso le notizie che conosciamo per la vicina Halaesa ed il racconto di Dodoro Siculo dei primi anni di guerra.69 Secondo quanto riporta Diodoro, Halaesa fu la prima città siciliana a consegnarsi spontaneamente a Roma nel 263 a.C., seguita da Segesta e Halikyai (Diod. 23.4.1). In tutto, secondo lo storico, furono 67 le città che ben presto passarono dalla parte dei Romani. Halaesa avrebbe ricevuto in cambio della fedeltà a Roma lo status di civitas immunis ac libera. Tra le numerose città che si schierarono con Roma nel corso della Prima Guerra Punica dovette rientrare sicuramente Kalè Akté e lo deduciamo dal confronto tra il numero delle città menzionato da Diodoro e quello ricavabile da Cicerone a proposito delle civitates decumanae, tra le quali la nostra città è compresa. In

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Bonanno 1997-1998 Materiali frammentari a contatto con la roccia comprendevano tra gli altri un piede di skyphos a vernice nere del tipo Morel 4311c 68

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Si veda fra gli altri: Facella 2006, pp. 181-185

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Apollonia73, verosimilmente per l’esistenza di più assidui rapporti commerciali tra queste città; tuttavia, esemplari sono conservati anche a Cefalù e Termini Imerese, mentre una moneta di zecca calactina proviene dagli scavi di Morgantina.74 Di contro, per il periodo compreso tra III e II secolo a.C. i rinvenimenti monetali a Caronia, in parte inediti,75 annoverano, oltre che esemplari siracusani, quelli di diverse città siciliane, tra cui Halaisa, Halontion, Panormos, Katane, Aitna, Tauromenion, Centuripe, Agyrion, Kephaloiodion, Messana-Mamertini e Roma, oltre ad un interessante quanto sporadico bronzo della città di Erythrai nella Ionia. La varietà di provenienza delle monete finora attestate nel territorio calactino fa presumere l’esistenza di un discreto movimento commerciale, principalmente in ambito siciliano e soprattutto con l’area etnea e del messinese.

un’epoca in cui Halaesa aveva assunto ormai il ruolo di centro di riferimento per il settore centrale della costa tirrenica, almeno a partire dall’epoca della symmachia in favore di Timoleonte, l’atteggiamento da essa assunto in quell’occasione dovette fare da traino per gli altri centri di quest’area, che infatti due secoli dopo compariranno ancora tutte come civitates decumanae in Cicerone. E’ probabile che l’esito del viaggio degli ambasciatori alesini per autoconsegnarsi ai Romani abbia innescato un atteggiamento unitario nei governi di altre città nebroidee, tra cui Herbita, Amestratos, Halontion e la stessa Kalè Akté, che potrebbero avere organizzato insieme ambascerie presso la sede dei consoli romani, consegnandosi spontaneamente. Nell’area in questione, peraltro, non si ha notizie di azioni di guerra intraprese da Roma per la conquista di città ribelli. Non rileva per comprendere l’atteggiamento di Kalè Akté in occasione della Prima Guerra che fosse nativo della città quel Sileno filo-punico che fu al seguito di Annibale nella Seconda Guerra Punica, raccontandone le gesta. Non sappiamo nulla, infatti, della vita di Sileno,70 dell’ambiente in cui si formò e quali furono gli eventi che lo portarono a seguire Annibale. Il territorio in cui ricadeva Kalè Akté entrò presto nella sfera di controllo romano nel corso della Prima Guerra Punica e a ciò dovette contribuire l’atteggiamento del principale centro che vi ricadeva, Halaesa. Fino ad allora, questo settore dell’isola costituì l’area più occidentale del regno dei Mamertini, sebbene la questione di una presenza stabile sotto forma quanto meno di presidi andrebbe approfondita in considerazione dell’interesse siracusano al controllo di quest’area altamente strategica. Un fortino è stato recentemente individuato in cima al Monte Trefinaidi, al confine tra gli attuali territori comunali di Caronia e Mistretta, in posizione molto forte e panoramica.71 I materiali presenti si datano fino al III secolo a.C., comprese alcune monete siracusane e mamertine. Interessante la presenza di numerose ghiande missili in piombo in un’area circoscritta, che fa pensare al verificarsi di uno scontro armato. Dubbia risulta l’attribuzione della postazione militare a Siracusa o agli stessi Mamertini. In ogni caso, la presenza di questi ultimi è ampiamente attestata nel settore occidentale nebroideo soprattutto per la seconda metà del III secolo a.C. a livello numismatico: significativa la discreta presenza di bronzi messinesi sia da scavi sistematici che da rinvenimenti sporadici Kalè Akté inizia a coniare moneta negli ultimi decenni del III secolo a.C., in maniera analoga alle vicine città di Apollonia e Amestratos. L’emissione di ben 5 serie monetali in un arco di tempo di circa mezzo secolo suggerisce un importante mutamento nello status politico ed economico della città, molto probabilmente indotto dalla riorganizzazione della provincia siciliana da parte di Roma. La valuta calactina, in uso fino al I secolo a.C., ebbe fondamentalmente circolazione regionale: numerosi esemplari sono stati rinvenuti nei siti di Halaisa72 e

Fig. 13. Bronzo di Erythrai di rinvenimento sporadico in c.da Telegrafo. Epoca ellenistica (collezione privata)

La fase in cui Kalè Akté coniò moneta è stata la più florida per la città, che, stando ai dati archeologici finora raccolti, sembra essersi riorganizzata urbanisticamente con la ristrutturazione degli edifici abitativi: le strutture portate in luce negli scavi del 199376 e del 199977 e 2005 in contrada sotto S. Francesco e quelle scavate nel 199278 in contrada Telegrafo si datano generalmente tra III e II secolo a.C., mentre ad una fase di poco più recente apparterrebbero i tratti di strade pavimentati con ciottoli di piccole e medie dimensioni finora intercettati nelle stesse aree. Anche nel quartiere marittimo gli edifici portati in luce in contrada Pantano presentano una fase principale a partire dalla seconda metà del III secolo a.C.79 Le nuove realizzazioni mostrano tecniche edilizie peculiari: i muri sono generalmente costruiti con pietra locale (ciottoloni di arenaria sbozzati), con una bella intelaiatura di blocchi e rinzeppamenti litici; la parte centrale delle pareti e talvolta interi muri sono alzati con filari di mattonacci (dimensioni medie 50 x 34 x 8 cm.), per i quali si ipotizza 73

Bonanno 2009; Carbé 2012 Morgantina Studies II 75 Si è avuto modo di esaminare un discreto numero di monete rinvenute dai proprietari dei fondi agricoli sottostanti il centro storico di Caronia. Di particolare interesse un gruppo di monete rinvenute dal proprietario di un fondo in c.da Telegrafo (versante nord), comprendente emissioni di varie zecche siciliane e non, tutte rientranti nel periodo compreso tra IV e II secolo a.C. 76 Bonanno 1997-98 77 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 78 Bonanno 1993-94 79 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002; Bonanno 2009 74

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Un riferimento è contenuto in Ateneo Deipn. XII 542A (“kallatino”) Collura 2012b; Tigano 2012 72 Carettoni 1959, 1961 71

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte chilometri a sud,81 sia a Marina di Caronia82: la soluzione del nesso farebbe riferimento ad una produzione pubblica di mattoni, impiegati verosimilmente nella costruzione di strutture comunitarie, quale era anche il citato acquedotto. Un importante documento epigrafico che interessa parte della Sicilia con interessanti spunti toponomastici è costituito da BCH 45 (1921) 1 = SGDI 2580 (Col. IV, rr. 90-119), ovvero l’itinerario dei theorodokoi di Delfi invitati dalle città devote ad Apollo, visitate dai sacri messi probabilmente nel primo decennio del II secolo a.C. La parte della lunga iscrizione che ci interessa è quella compresa tra le righe 110 e 116, contenenti il nome delle città annoverate nell’itinerario da Agathyrnon (Capo d’Orlando) a Halaisa. Dopo la prima ne erano indicate due di cui rimane solo l’iniziale: M- e K-. In realtà, ha dato adito a incertezze anche il nome lacunoso di cui al rigo 110, interpretato da G. Manganaro83 come Assoros, mentre Plassart84 vi lesse Agathyrnon. Effettivamente parrebbe più logico pensare ad Assoros, essendo le città precedenti Ergetion e Noai, poste nella parte interna dell’isola. In questo caso, Mindicherebbe Morgantina mentre K- potrebbe anche indicare Kapytion.85 Tuttavia a parere di chi scrive resta valida l’attribuzione del rigo 110 di Plassart che a suo tempo studiò materialmente l’iscrizione. Rimarrebbero in ogni caso da assegnare altri tre nomi di città originariamente incluse nelle tre righe mancanti prima di Halaisa. Se anche il rigo 112 indicasse Kapytion e non Kalè Akté, circostanza che appare comunque discutibile, trattandosi di un centro talmente modesto che non ha restituito finora consistenti tracce di sé pur dopo sistematiche ricognizioni eseguite in passato,86 i nomi proponibili rimangono quelli di Herbita, Amestratos, Apollonia e ancora Kalè Akté, tutte città dove il culto di Apollo è attestato soprattutto a livello numismatico, oltre che toponomastico nel caso di Apollonia. Un’interessante iscrizione rinvenuta nell’agorà di Halaisa e datata al II secolo a.C.87, il cui testo è confrontabile con una nuova epigrafe proveniente dagli ultimi scavi nello stesso sito e ancora inedita88, vede accomunate in una sorta di lega le città di Halaisa, Kalè Akté, Herbita e Amestratos (oltre Kephaloidion nella nuova iscrizione). Sebbene i due testi si riferiscano a circostanze diverse, essi attesterebbero l’esistenza di una confederazione che probabilmente risaliva ai tempi di Timoleonte e che vedeva le cinque città (e forse anche la vicina Apollonia), raccolte in un’area a cavallo tra Nebrodi e Madonie, seguire le stesse strategie politiche in occasione degli eventi che interessarono l’isola tra IV e II secolo a.C. Tale lega era presumibilmente guidata da Halaisa, sebbene non sia chiaro il ruolo di Herbita quantomeno nella fase più antica. E’ possibile che le quattro o cinque (o anche più) città rifornissero in

una produzione locale. Il massiccio impiego del laterizio in edilizia, sia negli alzati murari che nelle pavimentazioni, costituisce un unicum nel quadro della Sicilia ellenistica: sebbene l’uso di questi caratteristici mattoni di grandi dimensioni sia diffuso in diversi centri della Sicilia settentrionale (Halaisa, Apollonia, Halontion, Tyndaris, Messina, ma anche a Morgantina), a Caronia diviene la regola e si protrae per diversi secoli e sino alla fine dell’età imperiale,80 molto probabilmente perché qui mancava buona pietra da costruzione. Sia in area urbana che in ambito rurale, la presenza di mattonacci frammentari, assieme al tegolame, costituisce il principale fossile guida per l’individuazione di presenze archeologiche e per una loro presunta datazione. Questi laterizi erano effettivamente ottimi elementi per costruzioni, tanto che furono reimpiegati massicciamente nelle costruzioni medievali e fino ad epoca recente.

Fig. 14. Muro in pietra con fascia verticale di mattonacci messo in luce dallo scavo 1999 in c.da sotto S. Francesco

Non sono state individuate fornaci per la produzione di laterizi di epoca ellenistica, sebbene le caratteristiche macroscopiche delle argille impiegate e la diffusa presenza di scarti di lavorazione e di manufatti ipercotti ne suggerisca l’esistenza tanto in area urbana che nell’ambito di fattorie isolate, mentre per l’età medioimperiale ne è stata individuata una in c.da Lineri, poco a sud della città, ed un’altra, per l’età imperiale avanzata, in contrada Sugherita, nei pressi della foce del fiume Caronia. Si può presumere che a partire dalla seconda metà del III secolo a.C. fossero diverse le fornaci in cui si producevano laterizi, oltre che vasellame, grazie all’ampia disponibilità di materia prima (argille, acqua e legname) e che i manufatti venissero anche esportati almeno nei centri più vicini. Da ricordare, in proposito, il ritrovamento di mattoni bollati con un nesso di lettere greche (IG XIV 2395 7), da datarsi tra III e II secolo a.C., sia nell’entroterra, pertinenti ad un importante acquedotto che convogliava le acque da sorgenti esistenti molti

81 Scibona 1987; Fiore. 1991. Un identico bollo è conservato presso il Museo Mandralisca di Cefalù. 82 Bonanno, 2009 83 Manganaro 1964 84 Plassart 1921 85 Facella 2006, pp.192-195 86 Scibona 1985 87 Scibona 1971b 88 Scibona, Tigano 2009

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La scoperta dei resti di fornaci per la produzione di mattoni di largo formato, con associazione di ceramiche di IV secolo d.C. in contrada Sugherita, ha accertato la produzione di questi caratteristici laterizi di tradizione ellenistica fino a tarda età

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia comune un piccolo esercito impiegato in operazioni a terra o per mare e condividessero organizzazione politica e forme di culto. Rinvenimenti sporadici e recuperi di privati negli anni ’70-80 del secolo scorso in occasione di scavi edilizi89 hanno consentito di individuare la principale necropoli calactina, che si sviluppava a sud della città in maniera similare a quella delle vicine Halaisa e Apollonia.90 L’area cimiteriale doveva iniziare appena fuori il settore meridionale della città (probabilmente cinto da una fortificazione successivamente ripercorsa da quella medievale), dove si forma un avvallamento e restringimento della collina (area Municipio). Da qui, a partire dagli ultimi decenni del V secolo a.C. il cimitero si estese sempre verso sud e sud-est (quartiere Pozzarello) probabilmente seguendo il percorso di una strada di collegamento con l’entroterra. I materiali abbondantemente affiorati nel quartiere Pozzarello a est e Trappeto a ovest a seguito di ripetuti e incontrollati lavori edilizi e stradali negli anni 70-90 del secolo scorso, in gran parte dispersi tranne alcuni piccoli nuclei di reperti quantomeno rimasti in possesso di privati locali, si datano tra la seconda metà del IV e la fine del III secolo a.C., epoca nella quale sembra esaurirsi l’uso di questa necropoli91. Le notizie circa il rinvenimento di materiali (statuine fittili, unguentari, lucerne, monete, ecc.) negli anni ‘50-60 del secolo scorso in c.da S. Todaro (localmente e significativamente chiamata “chianu di pupiddi”, ovvero “spianata delle statuine”),92 purtroppo oggi dispersi, suggerirebbe l’esistenza di una seconda necropoli di epoca medio-tardoellenistica a nord della città collinare. La ricognizione in quest’area ha tuttavia portato per il momento essenzialmente all’individuazione di alcune strutture ellenistiche, probabilmente fattorie, sebbene la presenza in alcuni contesti superficiali di tipici materiali di corredo funerario (unguentari) e la notizia di affioramenti di tombe con resti di inumati lungo il ciglio meridionale del pianoro, che si presenta fortemente eroso dagli agenti atmosferici, sembrerebbero confermare la

presenza di sepolture interrate probabilmente lungo la fascia pianeggiante a sud-est di S. Todaro e lungo la curvatura che questo pianoro forma con la collina di Caronia.

Fig. 15a-b. Lekane da una sepoltura portata in luce da scavi edilizi nel rione Trappeto (Caronia), seconda metà IV secolo a.C. (collezione privata)

La necropoli dell’abitato marittimo si sviluppava ad est della città, nella stretta fascia compresa tra il pedemonte e il mare. Lo scavo di alcune tombe ellenistiche da parte di Scibona93 nell’area dell’ex Rifornimento Agip ne conferma l’estensione progressiva in quella direzione probabilmente a partire dal corso del torrente S. Anna fin da epoca arcaica; inoltre, la notizia del ritrovamento di tombe di probabile epoca tardoimperiale nell’area della Stazione Ferroviaria riportata dal Volpe94 e lo scavo di un gruppo di sepolture, anch’esse databili dopo il IV secolo d.C. a poche decine di metri di distanza verso sud-est da parte di Scibona nel 1968,95 fanno ritenere che la principale necropoli della città costiera, frequentata ininterrottamente da epoca arcaica alla fine dell’età romana imperiale coprisse l’intero settore a est/sud-est della città stessa, lungo l’asse viario costiero (Via Valeria) e forse anche lungo la strada

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Una prima sintetica notizia sulla localizzazione della necropoli meridionale di Kalè Akté è contenuta in Scibona 1987 90 La disposizione delle necropoli di IV-III secolo a.C. di tutte le città d’altura in area nebroidea si presenta assai similare: oltre che a Kalè Akté, Halaisa e Apollonia, anche ad Halontion e probabilmente Amestratos la principale area cimiteriale era posizionata immediatamente a sud dell’abitato, lungo il percorso di strade che collegavano l’abitato con l’entroterra. Una tale disposizione potrebbe rivelare modalità di occupazione urbana e del territorio volutamente affini tra centri accomunati da origini molto antiche e di tipo anellenico. 91 Nel corso degli anni ’70-90 del secolo scorso, l’area delle contrade Pozzarello-Pidoto, a sud-est del centro storico, precedentemente non ancora urbanizzate, hanno registrato una rapida occupazione abitativa. I ripetuti scavi per l’installazione delle fondamenta misero in luce un’estesa area cimiteriale che, tuttavia, non venne mai studiata in quanto non segnalata in alcun modo. Da notizie recuperate localmente, si ritiene che si trattasse prevalentemente di semplici fosse terragne, alcune con incinerazione primaria. Facevano parte dei corredi alcuni materiali recuperati da privati, comprendenti principalmente vasellame, anfore, unguentari, lucerne, statuine fittili ed alcune monete, databili tra la fine del IV e la fine del III secolo a.C. Si ha notizia della messa in luce, sempre a seguito di scavi edilizi, di almeno una sepoltura sul versante opposto della collina (via Impero), con corredo comprendente, tra gli altri, una lekythos a figure rosse e due lekanai (seconda metà IV secolo a.C.). Per le necropoli calactine, vedi Cap. 5 92 Scibona 1978, p. 435

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Scibona 1987 (area dell’ex Rifornimento Agip) Manoscritto datato al 1904, in possesso della famiglia Monterosso – che si ringrazia nell’occasione, scritto dal parroco locale L. Volpe, appassionato di storia locale, dove si riportano alcune interessanti notizie di rinvenimenti archeologici avvenuti nell’800 a Caronia. 95 Scibona 2011 94

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte di collegamento con l’abitato collinare, identificabile nell’area dell’attuale stazione di Rifornimento Q8. In epoca medio e tardo ellenistica il territorio circostante la città divenne sede di numerose fattorie al centro di fondi agricoli coltivati principalmente a ulivo e vite. Le ricognizioni hanno individuato alcune aree già frequentate a scopo agricolo-produttivo a partire dal IVIII secolo a.C., che si estesero man mano che la città registrava una progressiva evoluzione demografica. Inizialmente fu sfruttata l’area intermedia tra la città collinare e quella costiera (contrade S. Todaro e S. Anna), quindi la bassa vallata del fiume (c.de Fiumara, Piana, Sugherita). A partire almeno dal III secolo a.C. insediamenti rurali si impiantarono a sud della città, nelle attuali contrade Trapesi, Lineri e soprattutto S. Miceli. Fattorie relativamente isolate vengono costruite anche ad una certa distanza dalla città, soprattutto nei settori centrale e occidentale della chora calactina: materiali ceramici assegnabili già al IV secolo a.C. sono stati osservati, ad esempio, in c.da S. Giovanni, sulle alture retrostanti la moderna frazione di Canneto di Caronia. La fase tardoellenistica e altoimperiale vede un vero e proprio boom agricolo, con attestazioni in diverse aree sia dell’entroterra che del pedemonte, che raggiungerà il culmine tra I e II secolo d.C. La prosperità di Kalè Akté nella fase medio e tardoellenistica è ampiamente attestata dai materiali presenti nel sito. Facella,96 studiando Halaesa, ha puntualizzato ad esempio come la consistente presenza di ceramica Campana A recuperata dai vecchi scavi Carettoni costituisca “un inequivocabile indicatore di scambi transmarini per il II sec. a.C. e oltre”, sebbene sollevi dubbi sull’esatta classificazione di tutti i frammenti inquadrati come “Campana A”. Sulla collina di Caronia, i frammenti di questo tipo di vasellame noti da scavi sistematici e soprattutto da ricognizioni di superficie svolte da chi scrive, sono presenti in quantità davvero elevata, ammontando a molto più di un migliaio. La notevole presenza di questo tipo di vasellame, identificato in un numero notevole di forme (soprattutto piatti-patere, ma anche coppe, coppette, ciotole, lucerne, ecc.) è effettivamente un importante indizio di commerci con la penisola, in particolare con la Campania, nel corso del II secolo a.C., così come lo è anche l’abbondante presenza di anfore greco-italiche, il tipo di contenitore vinario senz’altro più attestato a Caronia per ogni sua fase storica. Tra il 136 e il 132 a.C. e ancora tra il 102 e il 98 a.C. la Sicilia fu teatro delle Guerre Servili, i cui eventi sono raccontati ancora da Diodoro Siculo97 con riferimento ad alcune città sedi delle principali rivolte: nella Sicilia centro-orientale (tra cui Enna, Morgantina e Tauromenion) per la prima guerra servile e principalmente nella Sicilia centro-occidentale (tra cui Morgantina, Segesta, Lilibeo, Eraclea Minoa, Leontini, Paliké e Triocala) per la seconda. In realtà, lo stato di fatto che diede vita alle rivolte degli schiavi investiva l’intera isola, dove all’indomani della prima Guerra Punica si formò una classe agiata di proprietari terrieri 96 97

che aveva alle sue dipendenze masse di schiavi provenienti da diverse regioni del Mediterraneo, le cui condizioni di vita erano divenute evidentemente insostenibili. Le fonti antiche non citano centri della Sicilia settentrionale come teatro di rivolte, ma è chiaro che l’eco delle insurrezioni dovette giungere fin qui, alimentando il malcontento che tuttavia non sfociò in vere e proprie guerriglie. Ricordiamo che figlio di schiavi fu Cecilio di Calacte, che venne affrancato e si affermò negli ambienti culturali romani; non conosciamo tuttavia scritti del retore sull’argomento. Le condizioni degli schiavi possiamo immaginarle effettivamente più pesanti nell’entroterra e nella Sicilia meridionale, dove la coltivazione dei fondi, soprattutto a grano, avveniva in maniera estensiva con impiego di molta manodopera servile e dove esistevano miniere e cave di pietra, condizioni che non si proponevano in misura comparabile negli angusti territori dell’area nebroidea.

Fig. 16. Cuspide di lancia in bronzo di rinvenimento sporadico da c.da Telegrafo (collezione privata)

Per il I secolo a.C. disponiamo delle scarne notizie forniteci da Cicerone, contenute principalmente nelle Verrine ed in una lettera in cui raccomanda un personaggio calactino (Ippia). L’immagine che filtra dalle parole di Cicerone è quella di una tranquilla cittadina di provincia, con un discreto tenore di vita, che subì in maniera non troppo calamitosa la condotta di Verre. Dal racconto di Cicerone si evince l’esistenza di una strada di collegamento tra Calacte e Amestratos, probabilmente corrispondente ad una delle trazzere ancora oggi esistenti tra Caronia e Mistretta. Si conoscono alcuni personaggi di un certo status economico e sociale, ma nulla più, mentre è altamente probabile che lo stesso Cicerone abbia visitato la città più che soggiornarvi, rimanendo per questo ad Halaesa. Sicuramente l’essere una delle circa 60 civitates decumane citate nel testo, in confronto ad un gran numero di centri divenuti semplicemente ager publicus e nemmeno più degni di nota, e parimenti ad altri centri di indiscussa grande importanza in quella fase come erano ad esempio Panormus, Agrigentum, Catina, ecc. è un segno a conferma di un certo peso della nostra città nel quadro politico-economico isolano.

Facella 2006, pp. 200-201 Diodoro Siculo XXXIV-XXXV

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Purtroppo manca il conforto dei resti monumentali per comprendere quale fosse realmente lo status della città così come esso si rispecchiava nei principali edifici pubblici e privati di un tipico centro dell’epoca. Se limitati, fino ad oggi, sono stati i saggi di scavo in aree non urbanizzate, occorre considerare che il centro medievale si sovrappone in buona parte alla città classica e ne ha obliterato i monumenti più antichi. Dell’esistenza di complessi edilizi di una certa monumentalità si può ipotizzare l’esistenza nei riutilizzi di grandi blocchi di pietra calcarea in strutture medievali e successive, soprattutto nella normanna Chiesa Madre e nella piccola Chiesa di S. Antonio, oltre che nel palazzo del Castello, sebbene occorra ricordare come anche nelle strutture a carattere pubblico è molto probabile che venissero utilizzati gli onnipresenti mattonacci in cotto. Dell’esistenza di un Santuario di Apollo e di edifici per le riunioni degli organi di organi di governo (ad esempio, un bouleuterion) si ha conferma nella citata iscrizioni SEG LIX 1102. E’ una ipotesi di lavoro, fondata sulla conformazione dei luoghi e sul ritrovamento di materiali significativi nei pendii immediatamente sottostanti, che l’area pubblica, con lo spazio riservato all’agorà, potesse ubicarsi nella stretta spianata sottostante il Castello, tra piazza S. Francesco ed il tratto finale di via Ducezio. Se ne può immaginare una struttura simile a quelle di Halaesa e Solunto, di forma rettangolare con portico addossato al pendio collinare in senso nord-sud e pavimentazione in mattoni. Si tratta in ogni caso di ipotesi che potrebbero trovare conferma solo nell’esecuzione di saggi di scavo sotto l’attuale piano stradale. D’altra parte, questo settore della città moderna, solo parzialmente urbanizzato, segnava il confine – delimitato dalla fortificazione – della città medievale, che non si estese mai oltre l’attuale via Ducezio verso nord e che peraltro risulta parzialmente urbanizzata solo a partire dalla metà del secolo scorso. La struttura urbana della città rispondeva ai moduli di derivazione microasiatica ampiamente recepiti dalle città ellenistiche d’altura della Sicilia settentrionale. Si trattava, per Kalè Akté, di un impianto quantomeno pseudo-ortogonale, ben adattato alla conformazione della collina, molto simile a quello di Solunto, Halaesa e Tyndaris, scandito da almeno una strada principale (plateia) nord-sud, ripercorsa grossomodo dalla strada di origine medievale che oggi prende il nome di via Calacta – via Ducezio, che nella parte settentrionale, probabilmente ai margini dell’agorà, intersecava una strada est-ovest, di cui è stato portato in luce un tratto negli scavi del 1992 in contrada Telegrafo.98 Sul pendio orientale si allineavano ripide strade est-ovest (stenopoi) a partire dalla plateia, probabilmente incrociate da una seconda strada nord-sud a quota inferiore, mentre su quello settentrionale gli stenopoi assumevano un andamento pressoché nordsud.99

Figg. 17-18. Caronia. In alto: strutture murarie plurifase (epoca ellenistica – età imperiale) affiorate nell’area delle Case Popolari; in basso: strutture abitative portate in luce dal proseguimento degli scavi in c.da S. Francesco nel 2005

L’assunzione di certe modalità abitative e impianto urbano, nonché la scansione ipotizzata dei monumenti al suo interno, assimila la nostra città a quella koinè del medio-tardo ellenismo intravista in molti centri della Sicilia, non solo settentrionale. Agrigento, Phintias, Morgantina, Siracusa o Ietas, solo per citarne alcuni, hanno offerto un campionario completo dei contesti domestici che a Kalè Akté sono solo stati intravisti per mancanza di adeguati scavi sistematici. L’adozione, nel corso del tardo ellenismo, di ricercati e ricchi apparati parietali, con intonaci decorati e fregi in stucco, di pavimentazioni in signino o a mosaico, la presenza costante di atri e peristili, gli accorgimenti architettonici,

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Bonanno 1993-1994 Per le ipotesi relative all’impianto urbano e alla localizzazione dei principali monumenti della città collinare, vedi Cap. 3 e Appendice: Collura, Il decreto onorifico tardo-ellenistico da Caronia (SEG LIX, 1102): rinvenimento e ricostruzione del contesto d’origine 99

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte accomunano la nostra città a molte altre della Sicilia, esprimendo in maniera evidente una gusto e una certa ricchezza diffusa nella popolazione che sembrerebbe quasi sempre coincidere con il divenire la Sicilia una Provincia Romana. E’ molto probabile che l’instaurarsi di governi voluti da Roma, spinti all’adozione di efficaci misure fiscali, di ridistribuzioni di terreni,100 nonché la nascita di una classe cittadina di rango medio-alto che si era gradualmente arricchita dall’esercizio dei commerci e dalla conduzione dei terreni e da attività zootecniche, consentirono la realizzazione di importanti opere pubbliche e anche private, con fenomeni di evergetismo che si riscontrano in molti centri siciliani proprio in corrispondenza della fase medio-tardoellenistica, di cui per Kalè Akté abbiamo un accenno nella più volte citata iscrizione SEG LIX 1102 La disposizione delle strutture abitative finora portate in luce da scavi sistematici e quelle emerse ripetutamente a seguiti di lavori agricoli e fenomeni naturali lungo i pendii della collina, unita all’esame della fotografia aerea che permette di individuare preesistenze viarie nel tessuto urbano medievale, fanno ipotizzare l’esistenza di una lunga strada (plateia) che attraversava l’abitato collinare da nord a sud, incrociando una seconda plateia est-ovest poco oltre il luogo ipotizzato per l’agorà. Per l’abitato marittimo di età ellenistica si può presumere che cardine della trama viaria fosse la strada litoranea, qui a sviluppo rettilineo, su cui si innestavano strade che si allungavano in direzione della spiaggia. I dati disponibili per la ricostruzione delle modalità e qualità di vita in questa cittadina nella sua fase di maggiore sviluppo si desumono sostanzialmente dal materiale mobile proveniente dagli scavi e soprattutto da quello abbondantemente scivolato lungo i pendii collinari, strettamente affine a quello di tutti i centri ellenistici della costa tirrenica centro-settentrionale. Si annovera, solo a titolo d’esempio, la cospicua presenza di anfore greco-italiche databili dalla fine del IV al II secolo a.C. di anfore rodie, nonché di Lamboglia 2 e Dressel 1 e 2-4, che attestano un intenso commercio di vino sia in entrata che in uscita; di vasellame da mensa tipico dell’area nord-orientale dell’isola (“ceramiche dello Stretto”)101, di ceramica Campana, soprattutto dei tipi A e C, a cui si uniscono classi vascolari di probabile produzione locale, generalmente di qualità mediocre, tranne alcune classi a vernice rossa di discreta fattura.102 Ai manufatti di uso domestico si accompagnano interessanti materiali decorativi di tipo edilizio, quali frammenti di marmi. lembi di mosaici aniconici e soprattutto porzioni di intonaci e stucchi decorati databili già a patire dalla fine del III secolo a.C., alcuni dei quali

sicuramente pertinenti a dimore di un certo lusso se non addirittura ad edifici pubblici. Il centro dovette essere culturalmente molto attivo, come si deduce dal fatto che qui ebbero i natali alcuni autori famosi. Visse nel III secolo a.C. Sileno, che scrisse le gesta di Annibale e fu fonte di Polibio, mentre è del I secolo a.C. Cecilio: nato intorno al 50 a.C. da una famiglia servile: con il nome originario di Arcàgato, venne così chiamato da un Cecilio che lo liberò e lo portò a Roma, dove insegnò retorica e scrisse alcuni trattati, tra cui “Del Sublime”. Suda103 tramanda altri autori nativi di Calacte, quali Talete, retore e oratore citato da Diogene Laerzio, e Demetrio, storico citato da Dionigi di Alicarnasso. La ricerca archeologica, in particolare quella condotta attraverso ricognizioni superficiali sistematiche nell’area urbana, sia in collina che sulla costa, consente di definire l’estensione della città nella sua fase di massimo sviluppo, che sembrerebbe collocarsi tra I secolo a.C. e I secolo d.C. Per la città alta si suppone un’estensione massima di circa 9 ettari, occupando l’area definita a sud dalla moderna via Calacta pressoché in corrispondenza dell’Arco Saraceno, residuo della fortificazione medievale che potrebbe avere ripercorso un tratto di cinta di epoca classica nella parte più esposta della collina; a est il pendio sottostante la città moderna fino ad una quota di 220-210 metri s.l.m.; a nord il pendio della contrada Telegrafo fino ad una quota al momento non precisabile, ma di almeno 200 metri s.l.m.; ad ovest, infine, parte del ripido fianco collinare occidentale almeno fino alla via Telegrafo in c.da Bastardella. L’individuazione di aree occupate a intermittenza nel versante nord-occidentale in direzione delle contrade rurali di S. Anna e S. Todaro suggerisce che quest’area ospitasse caseggiati probabilmente lungo la strada di collegamento con la costa. Sembra di potersi escludere l’esistenza di una cinta muraria continua che cingesse l’intero abitato collinare, poiché in nessuna delle aree studiate si sono rintracciati resti ascrivibili a mura di fortificazione. Se ne può ipotizzare l’esistenza nella parte meridionale, la più esposta e naturalmente accessibile, tuttavia non verificabile per la sovrapposizione dell’abitato moderno. Non è frequente nell’intero Mediterraneo il caso di città prive di fortificazioni, anche in siti naturalmente muniti. Le poleis vicine, come Halaesa, Apollonia o Halontion, pur occupando alture di disagevole accesso, avevano mura in epoca greca; erano difese da fortificazioni, tra le città ellenistico-romane della Sicilia settentrionale, anche Tyndaris e Solunto, anch’esse costruite in altura. La ragione per cui proprio Kalè Akté ne fosse priva non sono chiare. Si può solo ipotizzare che all’epoca della fondazione di Ducezio l’area occupata fosse effettivamente stata delimitata da mura, successivamente smantellate e non più ricostruite quando la città si ingrandì, ipotesi peraltro non più verificabile per la sovrapposizione dell’abitato medievale e moderno. Appena fuori dal vero e proprio centro urbano collocato sulla sommità e nei ripidi fianchi della collina, erano alcuni quartieri periurbani, uno dei quali è stato

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Un indizio in tal senso è offerto dal contenuto della Tabula Halaesina Per questa classe ceramica, si veda: Bacci, Tigano 2002 102 Un primo riconoscimento di questa classe ceramica è contenuto in Bonanno 1997-1998 con riferimento ad una serie di brocche monoansate con bordo svasato rinvenute in alcune cisterne, di colore rosso vivo. Il piano di campagna corrispondente alla città antica sulla collina è disseminato di frammenti di ceramiche a pasta colore arancio e vernice rossa opaca o semilucida, databili al II-I secolo a.C. e riconducibili, per certi versi, a quella che è stata definita “presigillata”. Le forme sono diversificate: soprattutto le citate brocche, ma anche ciotole, coppette e piatti.

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Suidae Lexicon, Græce & Latine (Ed. Kusterus 1705)

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia stata accertata su base epigrafica. Per Kalè Akté non sono d’aiuto i pochi saggi stratigrafici a chiarire se il sito sia stato luogo di scontri tra le truppe di Ottaviano e quelle di Sesto Pompeo, che d’altra parte non sarebbero da escludere in considerazione dell’importanza strategica dei centri costieri sul Tirreno. Il rinvenimento sporadico di ghiande missili in piombo, di spade e pugnali frammentari in ferro o di cuspidi di lance in bronzo sulla collina, non databili con certezza, potrebbero riferirsi agli eventi di questa fase o anche dei secoli precedenti. Si segnala, tuttavia, che in un saggio di scavo sulla collina di Caronia, in c.da sotto S. Francesco (1995), che portò in luce strutture murarie databili già al III-II secolo a.C., uno dei muri appariva distrutto, ignorandosi “se a causa di uno smottamento per la natura franosa del terreno o se per motivi bellici”, segnalandosi inoltre che sullo stesso muro “è stata rinvenuta una punta di lancia di ferro”. 104 Il contesto in questione appariva inoltre livellato, impiantandosi ad una quota più elevata una nuova fase abitativa, databile tra la fine del I secolo a.C. e quello successivo. Rimaneggiamenti delle strutture abitative databili al I secolo a.C. sono stati osservati in altri scavi sulla collina.105 E’ pertanto ipotizzabile, pur con molti dubbi in attesa di ulteriori scavi in estensione, che l’abitato collinare sia stato coinvolto in scontri armati finalizzati alla presa di possesso della città. Si segnala, infine, la presenza nel nostro sito di monete di Sesto Pompeo, di cui tre da scavi ufficiali. L’abitato costiero raggiunse il suo massimo sviluppo nel corso dell’età imperiale. Originariamente si concentrava sulla riva sinistra del torrente S. Anna, in corrispondenza dell’approdo esistente nella rientranza che formava la piana, in antico molto più proiettata verso nord. Andrebbe ricercato in questo settore l’insediamento più antico, databile almeno dalla fine del VII secolo a.C., che dovette svolgere nel corso dell’epoca tardoarcaica e classica il ruolo di emporion e le cui sorti mutarono solo parzialmente tra IV e III secolo a.C. quando divenne parte della vera e propria città con sede sulla collina. Il quartiere si sviluppò in epoca ellenistica e soprattutto dopo il I secolo d.C. verso ovest, ai margini di un bacino interno facente parte del sistema portuale di epoca romana, ancora oggi identificabile in un’ampia depressione colma di acqua stagnante (il cosiddetto “Pantano”) bonificata all’inizio del ‘900. L’abitato di epoca greca doveva estendersi anche verso sud (area Stazione Ferroviaria e in parte oltre il torrente, dove negli anni ’80 sono state scavate alcune strutture nella zona della Villetta comunale);106 successivamente, l’area dell’odierna Stazione Ferroviaria venne adibita a necropoli, funzione rivestita forse sin da epoca tardoarcaica dalla fascia litoranea ad est del torrente. Neppure la città marittima sembra fosse dotata di fortificazioni, sebbene le ricognizioni nelle contrade fuori dall’attuale frazione abitata non siano state così sistematiche per poterlo affermare con certezza.

sicuramente individuato nella parte avanzata dell’altura ad est su cui sorge l’Edificio Scolastico: tratti di muri in pietra e mattonacci, resti di tegolame e ceramiche databili al III-I secolo a.C. individuati lungo il pendio sottostante l’Edificio, attestano l’esistenza, su quote diverse, di un gruppo di case, che peraltro erano posizionate a breve distanza dal limite orientale della necropoli meridionale. Un altro gruppo di case o forse singole abitazioni o fattorie, di cui sono testimonianza materiali sia edilizi che ceramici sul piano di campagna, doveva occupare nel tardo ellenismo il pendio sottostante Piazza Roma (quartiere Trappeto), in un’area precedentemente destinata a necropoli. L’idea complessiva, quindi, è che la città alta, nella sua fase di massima espansione (II-I secolo a.C.), avesse abbandonato una conformazione compatta e ben definita per allargarsi in maniera discontinua su aree fino ad allora non destinate ad occupazione abitativa, sia verso nord che verso sud. Ad epoca medio-ellenistica si data la costruzione del cosiddetto “Edificio A” portato in luce nel corso dei recenti scavi di contrada Pantano a Marina di Caronia. Il complesso si dispone in senso nord-sud, comprendendo numerosi ambienti la cui destinazione non è stata tuttavia chiarita. E’ probabile che si trattasse di un’insula abitativa con una parte avente funzioni commerciali (magazzini-botteghe) legate alla vicinanza al porto. La disposizione delle strutture fa presumere che l’intero abitato marittimo avesse un impianto regolare con isolati di case separati da strade nord-sud che si sviluppavano in direzione mare nel leggero pendio di questa ampia piana costiera.

Fig. 19. Scavi 2003-2005 in c.da Pantano. In primo piano il c.d. “Edificio A” di III secolo a.C., un’insula comprendente almeno due case con diversi ambienti, alcuni dei quali destinati ad attività commerciali.

Per l’epoca successiva alla morte di Cesare mancano del tutto informazioni dirette su questo settore della Sicilia. Nella fase di occupazione dell’isola da parte di Sesto Pompeo (43-36 a.C.), che per prima prese la parte nord-orientale della Sicilia, è probabile che le città siceliote godessero del diritto latino già concesso da Cesare nel 46 a.C. Si è cercato di individuare i municipia sulla base dell’evidenza numismatica, sebbene per alcuni centri, tra cui Haluntium, l’esistenza del municipium è

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Bonanno 1997-1998, p. 438 Potrebbe riferirsi alla stessa fase una lacuna, reintegrata dopo una distruzione, osservata in un muro portato in luce in uno dei saggi 1993 in c.da Telegrafo (Bonanno 1993-1994, p. 958) 106 Bonanno 1997-1998 105

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte Nel I secolo d.C. Calacte rientrava, come riferisce Plinio il Vecchio,107 tra le civitates stipendiarae e, pertanto, il suo status non mutò rispetto ai secoli precedenti, contrariamente alla vicina Halaesa che si ritrovò nella medesima situazione dopo essere stata una delle cinque città siciliane esenti da tributi. Strabone108 non menziona la nostra città, ma si limita a fare un quadro dell’isola che non è sicuramente quello di una regione in piena prosperità: della costa settentrionale ricorda solo Tyndaris, Halaesa e Cephaloedis come città, ma traspare dalle sue parole che questa parte della Sicilia rimane ai suoi tempi tra quelle più vitali e urbanizzate. Meriterebbe un approfondimento la notizia riportata da Fiore109 di un’iscrizione parziale su lastra marmorea riutilizzata in una struttura moderna, dove lo studioso locale vi lesse la formula “DIV”. Purtroppo non è stato possibile individuare il muro della casa in cui era reimpiegata, probabilmente oggi rivestito di intonaco nell’area del centro storico di Caronia. Il testo, seppure parziale, potrebbe fare parte di una delle consuete formule con dedica all’imperatore Augusto da parte di un municipium, come è attestato nelle epigrafi CIL X 7458 e CIL X 7463 rispettivamente da Halaesa e Haluntium. In tal caso, si andrebbe configurando un’area dell’isola in cui ricadevano diversi municipia che potrebbero anche avere ricevuto tale riconoscimento per unitarie condotte politiche in favore di Ottaviano all’epoca della guerra con Sesto Pompeo. Gli scavi archeologici più recenti hanno di molto incrementato le conoscenze sulla fase corrispondente al III secolo d.C. L’esame delle strutture abitative portate in luce tra il 1999 e il 2001 sia sulla collina che sulla costa sembrava suggerire il verificarsi di un evento traumatico naturale che colpì la città verosimilmente negli ultimi decenni del I secolo d.C. L’ipotesi di un terremoto in questa fase fu proposta dagli archeologi che eseguirono i saggi.110 Dall’esame delle strutture murarie avevano dedotto che il centro fosse stato colpito da un violento terremoto, probabilmente lo stesso che determinò il crollo di parte della città di Tyndaris a mare citato da Plinio.111 In particolare, sulla collina, la peculiare disposizione delle case lungo i ripidi pendii dovette avere conseguenze disastrose, con gravi danni strutturali agli edifici, ormai divenuti malsicuri. Tuttavia, verifiche condotte nei successivi scavi del 2003-2005 nell’abitato marittimo con tecnici specializzati, accennate nel report degli scavi,112 hanno sostanzialmente smentito il verificarsi di un sisma, riferendo il crollo delle strutture in quella fase al loro (peraltro non altrimenti spiegabile) abbandono. In ogni caso, la ricognizione di superficie nelle campagne sottostanti il centro storico di Caronia evidenzia una brusca diminuzione di materiali a partire dalla fine del I secolo a.C.: alla più che apprezzabile presenza di Sigillata italica si accompagna, ad esempio, una assai minore percentuale di frammenti di Sigillata africana A e una ridottissima presenza di sigillate africane delle altre

classi, che suggerisce il quasi totale abbandono di interi settori della collina a cavallo tra I e II secolo. D’altra parte, il recente saggio di scavo (2005), rimasto inedito, in c.da sotto S. Francesco, che ha ampliato lo scavo condotto nel 1999,113 ha portato in luce isolate strutture abitative di probabile IV-V secolo d.C. che si sovrappongono ai livelli ormai da tempo interrati di I secolo d.C., mentre rioccupazioni parziali della stessa epoca sono state osservate nell’area della citata frana presso le Case Popolari. Sembrerebbe che sulla collina, a partire dalla fine del I secolo d.C., si sia avuta una drastica contrazione abitativa, sebbene il sito non sia stato mai definitivamente abbandonato. Uno studio del confronto percentuale tra i frammenti censiti da ricognizione delle principali classi di vasellame da mensa nei primi due secoli dell’impero, ovvero sigillata italica e sigillata africana A, ha evidenziato un rapporto di quasi 9 a 1, ovvero un frammento di africana ogni 8-9 di italica.114 Se consideriamo la cronologia delle due classi ed il fatto che la sigillata africana compare in Sicilia nell’ultimo decennio del I secolo d.C. e che la forma maggiormente diffusa sulla collina è proprio una delle prime ad essere importate nell’isola (Hayes 2), si può concludere che una drastica contrazione demografica colpì la città alta a cavallo tra I e II secolo d.C. e che gli esigui ritrovamenti di sigillate africane C e D sono da riferire piuttosto ad un borgo di case isolate che insistette nell’area, mentre la popolazione si era trasferita in gran parte nella città marittima. Non abbiamo molte notizie sugli eventi che coinvolsero la Sicilia nei primi due secoli dell’età imperiale. Pertanto, l’abbandono di un centro fino ad allora vitale come fu quello collinare di Calacte deve essere interpretato rielaborando necessariamente i dati archeologici a disposizione, compresi quelli desunti dalle ricerche in altri siti di questa parte della Sicilia. Da questo punto di vista, purtroppo, gli scavi fin qui eseguiti a Caronia non risultano di grande aiuto, sebbene attestino costantemente livelli di abbandono delle strutture abitative portate in luce nel corso della seconda metà o ultimi decenni del I secolo a.C. Escludendo eventuali azioni belliche, di cui non si ha notizia per un’epoca contraddistinta da una totale pax militare, l’abbandono del centro può essere ricondotto a due sole cause: il verificarsi di un evento naturale disastroso e la scelta degli abitanti di trasferirsi nel quartiere costiero, secondo un trend che in effetti privilegiò un po’ ovunque i centri marittimi a discapito di quelli d’altura. Tuttavia non si riscontrano nel nostro caso quelle esigenze pressanti che avrebbero spinto una popolazione di almeno 3000 cittadini ad abbandonare le proprie case in collina per investire nella costruzione di nuove vicino al mare. Oltretutto, la distanza tra i due quartieri era talmente irrisoria (un solo km) che non se ne vede la ragione. Peraltro, città di questa fascia di alture come Halaesa, Haluntium e Tyndaris, sebbene registrando una certa contrazione demografica, risultano pienamente in vita in

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Plinio III 8.91 Strabone VI 5 109 Fiore 1972b 110 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 111 Plinio, Naturalis Historia II 206 112 Bonanno 2008 , p. 81 108

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Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 A seguire: Cascella, Collura, Approfondimenti: Sigillata italica dalla collina di Caronia

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia questa fase e non furono mai abbandonate a favore di un insediamento costiero. Piuttosto occorrerebbe tenere conto delle condizioni geomorfologiche del nostro sito per ipotizzare concretamente il verificarsi di uno o più eventi naturali disastrosi nel giro di qualche anno. La collina di Caronia non è una formazione di solida roccia calcarea, ma presenta terreni fortemente instabili che poggiano su un substrato di rocce lamellari di tipo argilloso. Effettivamente, il verificarsi di un terremoto, soprattutto se accompagnato ad una situazione meteorologica fortemente negativa, potrebbe avere provocato diffusi cedimenti del terreno, danneggiando irreparabilmente le strutture murarie. I muri antichi finora in luce, sia da scavi sistematici che da affioramenti a seguito di opere pubbliche o private, riferibili generalmente al I secolo d.C., presentano costantemente un’inclinazione verso l’esterno a causa della spinta della massa terrosa retrostante. Esiti di ripetute e secolari frane sono visibili nelle sezioni scavate. L’ipotesi che si avanza in questa occasione è quella di un forte sisma che compromise la stabilità delle strutture, poste su pendii marcati, in terreni instabili, suggerendo o addirittura imponendo il loro definitivo abbandono. Recenti studi su alcuni siti dell’area nord-orientale della Sicilia hanno identificato prove del verificarsi di eventi sismici nella prima età imperiale, peraltro accennati anche in alcuni testi antichi (Flegone di Tralles115 per il 17 d.C. circa nell’area dello Stretto di Messina, Plinio il Vecchio116 per il I secolo d.C. a Tyndaris). Tracce di distruzione non riferibili ad eventi bellici sono state osservate, infatti, nella necropoli di Abakainon,117 nel decumano centrale di Tyndaris118 e presso le mura di Halaesa.119 All’abbandono generalizzato delle strutture abitative nella seconda metà del I secolo d.C. sulla collina di Caronia corrispondono livelli di abbandono di uguale data nel quartiere scavato a Marina in contrada Pantano, con ripresa abitativa a partire dalla metà del secolo successivo. La coincidenza di una stasi di oltre un cinquantennio in due siti la cui morfologia è così diversa non sembrerebbe riferibile ad altra causa che non sia un evento disastroso, sicuramente non un episodio bellico di cui manca ogni testimonianza. Si accoglie senz’altro l’ipotesi di un sisma verificatosi nella seconda metà del I secolo avanzata dagli archeologi che eseguirono i saggi di scavo contemporaneamente in collina e presso la costa tra il 1999 e il 2001, mentre sarebbe necessario disporre di maggiori dettagli circa i risultati delle indagini accennati in Bonanno 2008, che peraltro non conferma neppure la possibilità di un forte terremoto per la seconda metà del IV secolo d.C., noto sia dalle fonti che da indagini eseguite in diversi siti siciliani limitrofi al nostro. Il quartiere marittimo, come detto, registra un notevole incremento demografico a partire dalla fine dell’età ellenistica e diviene il vero centro cittadino in età imperiale. Qui, saggi di scavo più o meno editi e

ricognizioni di superficie testimoniano l’esistenza di un vasto abitato in vita fino ad epoca altomedievale che copriva l’area corrispondente all’attuale quartiere della Nunziatella e si spingeva per alcune centinaia di metri verso ovest sulla piana retrostante il porto (proprietà Barna-Naselli-Di Noto). E’ in effetti questa la Calacte che compare nella Tabula Peutingeriana e nell’Itinerarium Antonini, un importante centro attraversato dalla Via Valeria e fornito di un porto molto attivo, tanto da articolarsi su un approdo costiero e un bacino interno.120 Saggi, prospezioni e ricognizioni nell’area ad ovest del quartiere della Nunziatella a Marina hanno evidenziato l’esistenza di un abitato la cui vita si protrasse fino ad età bizantina e la cui necropoli principale si sviluppava alle spalle, fino alle pendici del sistema collinare di Caronia (c.da S. Anna, area compresa tra Stazione Ferroviaria e incrocio tra SS 113 e SP 168). Anche qui comunque si sono accertati livelli di abbandono delle strutture corrispondenti agli ultimi decenni del I secolo d.C. e una consistenza demografica relativamente ridotta nel corso della prima metà del II secolo, prima di una nuova e intensa ripresa abitativa. Le ricognizioni sulla collina indicano solo una circoscritta occupazione del sito della città più antica, da ricercarsi sulla sommità e nella parte orientale dell’altura, soprattutto dopo il III secolo: non pare si trattasse di un vero e proprio borgo organizzato, quanto di case isolate costruite forse all’interno di fondi agricoli recintati. La presenza di un abitato sulla collina, seppure di ridotte dimensioni, nella media e tarda età imperiale è attestata dalla presenza sul piano di campagna di alcuni peculiari materiali di produzione regionale o prettamente locale, tra cui le piccole anfore vinarie che erano prodotte in diversi centri della Sicilia settentrionale e a Naxos, assimilabili ai contenitori del tipo “Termini Imerese 151/354”, nonché frammenti di Pantellerian ware e di lucerne africane.

Fig. 20. Scavo 2005 in contrada sotto S. Francesco: struttura muraria (al centro) pertinente ad un ambiente di avanzata età imperiale (a sinistra si conserva il piano di frequentazione in laterizi di riutilizzo), che si sovrappone a strutture di prima età imperiale interrate (a destra nell’immagine)

Calacte era adesso una città costiera ed era probabilmente dotata di un forum, forse da ricercare nell’area oggi occupata dalla medievale chiesetta della SS

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Guidoboni 1994 Plinio Naturalis Historia 2.206 117 Bottari et alii 2013 118 Bottari et alii 2008 119 Facella 2006

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Per le problematiche relative alla struttura del porto di Calacte, si veda Cap. 4 (Il porto di Calacte)

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte Annunziata.121 Ai margini del porto sorgevano edifici con funzioni commerciali, come quelli dello scavo in c.da Pantano; strutture portuali, oggi sommerse a seguito dell’arretramento della linea di costa, esistevano lungo il litorale, fuori dal centro abitato (c.da Pietra Grossa). Della città di questa fase sono state portate in luce strutture di vario tipo (magazzini, condotte idriche, cisterne), mentre si ha notizia del rinvenimento, in occasione di scavi edilizi nella seconda metà del ‘900, di ambienti abitativi con pavimenti a mosaico o in cocciopesto nell’area del quartiere della Nunziatella. Il percorso della Via Valeria coinciderebbe con quello dell’attuale via Brin, già Strada Statale 113 quando ancora questa parte della frazione di Marina di Caronia non era urbanizzata. La disposizione delle strutture fino ad oggi portate in luce dagli scavi e di altre affioranti dal terreno nella propr. Di Noto, sembrano avvalorare l’ipotesi che la città avesse un impianto regolare, con strade nord-sud che partivano dalla stessa Via Valeria, che qui assumeva un andamento rettilineo. La città occupava parte della piana estendendosi anche verso sud nella contrada S. Anna, dove dovevano esistere case di un certo lusso, come hanno suggerito alcuni significativi materiali rinvenuti in una discarica di terreno proveniente da scavi edilizi in questa zona (ceramiche di II-IV secolo, arnesi in bronzo, vetri, tessere di mosaico di colore blu). Sempre ad epoca imperiale si datano alcuni interessanti esempi di approvvigionamento idrico dell’abitato marittimo. Una cisterna, la cui prima fase si può forse fare risalire al I secolo a.C. ma che venne ampliata nei secoli successivi ed utilizzata fino ad età postmedievale, ben conservata in c.da Palme (presso il bivio per Caronia)122 captava le acque di una sorgente posta a monte e le canalizzava verso la città. Una seconda cisterna si mantiene praticamente intatta al di sotto del fabbricato di propr. Barna in c.da Pantano.123 Alle spalle di questa, lo scavo nel cortile della Scuola Materna124 degli anni ’80 ha portato in luce alcune condotte idriche in mattoni che sembrano dirigersi verso questa cisterna, dalla quale si dipartivano condutture che portavano l’acqua alle case più a valle. Il rifornimento idrico era inoltre assicurato da pozzi ricavati in ambito domestico, due dei quali, molto profondi, sono stati messi in luce dallo scavo 2003-2005 sempre in c.da Pantano.

Fig. 22. Cisterna romana, riutilizzata come cripta funeraria in età bizantina, al di sotto del caseggiato di propr. Barna

I secoli compresi tra il II e IV dell’era cristiana, in assenza di notizie dai testi antichi, non sono documentati se non dai dati archeologici. Questi attestano una ripresa delle attività nella seconda metà del II secolo d.C. dopo una fase di contrazione abitativa che sembrerebbe durare poco più di un cinquantennio. Immaginiamo un buon livello di vita dei cittadini derivante sia dall’esercizio di attività artigianali (produzione di vasellame, laterizi, metalli), sia dalla conduzione di vasti appezzamenti di terra che consentivano l’esportazione del surplus di vino e olio, sia dal sistema di esazione delle tasse per i commerci via mare gestiti dal locale porto. La vitalità di questo centro non doveva differire molto da quello di altre città costiere o direttamente collegate al mare esistenti lungo la costa tirrenica (Panormos, Therme Himerenses, Coephaledium, Halaesa, Tyndaris), tappa obbligata dei commerci che univano la penisola al nord-Africa. Le strutture portate in luce a Marina in contrada Pantano rivelano ristrutturazioni e rifacimenti rispetto agli edifici risalenti alla tarda età ellenistica. Di fianco all’Edificio A e da questo separato da un ambitus con canaletta idrica, si costruisce nella seconda metà del II secolo un thermopolium (Edificio B), non è chiaro se sui resti di un precedente fabbricato. Il complesso appare ora a prevalente destinazione commerciale: l’Edificio A ospita magazzini e probabilmente botteghe, mentre l’Edificio B comprende, come detto, una locanda. Altre strutture adiacenti, disallineate rispetto ai due edifici principali, sembrano essere magazzini. Tutto fa pensare ad un quartiere dove si svolgevano attività legate al

Fig. 21. Prospetto della parete centrale ad arcate della cisterna in c.da Palme (da C. Bonanno, Kokalos 1997-1998)

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Provengono da quest’area un tronco di colonna marmorea ed alcuni grandi blocchi pertinenti a edifici monumentali, mentre lo scavo eseguito nel 1996 per l’installazione di condutture idriche nella parte settentrionale della moderna piazzetta (Bonanno 1996-1997) ha portato al rinvenimento di alcune sepolture bizantine impiantate in un settore non occupato da strutture murarie 122 Scibona 2011 123 Bonanno 2009. 124 Scibona 1987; Bonanno 1997-1998

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia funzionamento del vicino porto ed al movimento di merci e persone connesso all’arrivo delle navi. E’ probabile che i settori della città con funzione abitativa e pubblica si trovassero altrove, più arretrati rispetto alla spiaggia. La grande quantità di materiali ceramici recuperati nel corso dello scavo in c.da Pantano, comprendenti vasellame di fabbrica locale in quantità superiori ai prodotti importati, cioè alle (sigillate africane, suggerisce una grande vivacità di questo quartiere nel corso del III e IV secolo d.C.

litoranea ad ovest del fiume, un tempo area agricola ed oggi sede di numerose abitazioni con apertura di strade senza che siano mai state eseguite verifiche preventive sulle potenzialità archeologiche. In città una brusca contrazione abitativa si registra dagli ultimi decenni del IV secolo d.C. Gli scavi eseguiti in c.da Pantano a Marina hanno accertato l’abbandono pressoché totale nel quartiere scavato, che ipoteticamente potrebbe essere riferito al verificarsi di una serie di forti fenomeni tellurici, peraltro documentati in tutta la Sicilia tra la metà del IV ed il V secolo, il più noto dei quali è quello del 365 riportato da Ammiano Marcellino 26.10.15-19.127 Gli scavatori del 1999-2001128 appurarono gli effetti di un evento disastroso, che ricondussero ad un forte sisma che dovette verificarsi appunto nella seconda metà del IV secolo, osservando peraltro che erano assenti materiali di V secolo in confronto all’abbondanza di quelli databili al secolo precedente. Una tale constatazione, tuttavia, non ha ricevuto conferma alla ripresa delle indagini nel 20032005. Al riguardo si ritiene di dovere fare alcune considerazioni. Nel periodo intercorso tra la fine della prima tranche di scavi (2001) e la loro ripresa (2003) i terreni in questione subirono una serie di interventi agricoli pressoché distruttivi, eseguiti con mezzi meccanici che intaccarono il suolo a notevole profondità, provocando l’estesa distruzione delle strutture murarie ancora interrate. E’ anche per questa ragione che l’esame delle stratigrafie risultò in seguito molto difficoltosa, mentre i muri apparivano rasati nei livelli più elevati.129 Pertanto, le indagini finalizzate ad accertare eventuali inclinazioni sospette delle strutture da riferire possibilmente ad un terremoto, furono eseguite su contesti ampiamente falsati. Invece, i primi scavi del 1999 furono condotti su contesti intatti e, a parere personale, appaiono più attendibili. Peraltro, gli esiti di uno o più terremoti disastrosi databili tutti nella seconda metà del IV secolo d.C. sono stati ampiamente accertati su una vasta area della Sicilia settentrionale, in particolare a Lipari,130 Tyndaris,131 nella villa romana di Patti,132 in quella di contrada Bagnoli a Capo d’Orlando133, mentre sono ipotizzabili anche ad Halaesa.134 Indagini su vari siti della Sicilia, anche tra loro distanti (ad esempio, Selinunte, Agrigento e Catania)135 hanno peraltro suggerito il verificarsi di ripetuti terremoti di forte intensità tra IV e VI secolo. Una

Fig. 23. Veduta aerofogrammetrica da nord dell’Edificio B (“thermopolium”) portato in luce in contrada Pantano negli anni 2000. La struttura si data al II secolo d.C. e si sovrappone a livelli di frequentazione di età ellenistica (foto: Archivio Soprintendenza BB.CC. di Messina)

Come in altre parti della Sicilia, anche nel territorio di Calacte si assiste alla nascita di ville secondo il diffuso fenomeno che interessò l’isola nella tarda età imperiale. Risale all’800 la notizia del rinvenimento, a seguito di lavori agricoli, di pavimenti a mosaico figurato a distanza dal centro abitato, oggi conservati nei depositi del Museo Salinas di Palermo dopo essere stati estirpati dalla sede originaria per motivi conservativi. Una villa marittima doveva quindi sorgere in c.da Piana, ad ovest della foce del fiume Caronia, non si sa bene in quale punto esatto, lungo la strada litoranea.125 Fiore la colloca in c.da Portale senza ulteriori dettagli circa l’esatta ubicazione.126 Rinvenimenti di materiali, principalmente di epoca romana, si sono avuti in effetti su tutta la fascia

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Guidoboni 1994; Brea 1996; Bottari 2009 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002, p. 93 129 Si rammenta come al termine di quei lavori agricoli, il terreno era letteralmente ricoperto di frammenti ceramici e larghi spezzoni di mattonacci e tegole 130 Brea 1996 131 Brea 1996 132 Voza 1990 133 Spigo 2004 134 In particolare, ad Halaesa, risulta abbandonata nel IV secolo d.C. l’area dell’agorà, dove, al di sopra di un consistente strato di interro, si insedia una necropoli. il tratto meridionale della cinta muraria, anch’essa sede di necropoli, e il c.d. basamento curvilineo (cfr. Facella 2006). L’interro che ricopre i livelli di III-IV secolo, su cui si insediano poveri fabbricati e le relative aree cimiteriali, sarebbe stato riferito alla semplice decadenza della città, ormai decentrata rispetto alla strada costiera (Wilson 1990) 135 Bottari et alii 2009 128

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Quaderni del Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas”. Suppl. 4 1998, pag. 52 126 Fiore. 1991

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La vicenda storica di Kalè Akté – Calacte tale constatazione dovrebbe aiutare a comprendere come un’economia già in ginocchio possa avere sofferto oltremisura di ripetuti eventi negativi imprevedibili, i cui effetti peraltro si avvertivano maggiormente in città, dove gli edifici si ergevano a poca distanza gli uni dagli altri, con il rischio di crolli su spazi angusti. I profondi mutamenti che si osservano nella società del tardoantico in Sicilia, sarebbero pertanto da ricondurre a cause diverse: non solo di ordine socio-economico e neppure esclusivamente legate al clima di disagio che si creò alla caduta dell’Impero ed al sopraggiungere delle invasioni barbariche. Piuttosto, queste cause furono forse aggravate da eventi naturali, quale potrebbe essere stata una serie di forti terremoti in un arco relativamente breve di tempo. A partire dalla fine dell’età imperiale, come attestato in altre aree dell’isola, si registra quindi il graduale spopolamento delle città a vantaggio di un’occupazione rurale diffusa. Nel territorio di Caronia si conoscono una serie di borghi sorti a distanza dalla città, anche di discrete dimensioni, in vita quantomeno dal IVV secolo d.C. fin quasi all’età araba (c.da Chiappe sulla costa, c.da Samperi e c.da L’Urmo nell’entroterra, c.de Contura e S. Giovanni nelle alture sopra Canneto di Caronia): tra essi andrebbe cercato il toponimo Solusapre, località menzionata dall’Itinerarium Antonini quale meta di un diverticolo stradale che partiva da Calacte.136 Contemporaneamente quella che fu la città appare adesso anch’essa un borgo, dove si insediano necropoli in aree un tempo urbanizzate. E’ il fenomeno della dispersione nelle campagne, le cui motivazioni non sono ancora del tutto chiare e sono forse legate a nuove esigenze di sfruttamento agricolo del territorio o di instabilità legata alle invasioni barbariche del dopo-Impero. Tra i siti extraurbani del tardoantico, quello che è stato possibile studiare meglio è il borgo litoraneo di contrada Chiappe, posto circa 2 km ad est del sito urbano antico. Una nota di Scibona137 informava della scoperta di uno scarico di fornace in cui si producevano anfore. In realtà, all’attività produttiva di ceramiche, comprendenti soprattutto contenitori vinari del tipo Termini Imerese 151/354, ma anche vasellame d’uso comune, si accompagnava un esteso villaggio attraversato dalla strada litoranea. I materiali abbondantemente affioranti sui terreni datano l’occupazione dell’area dal IV almeno al VI-VII secolo d.C. e sono costituiti principalmente da vasellame di produzione locale, con rade attestazioni di sigillata africana. La posizione di questa borgata era ottimale per svariati motivi: posta su un breve promontorio fiancheggiato ad est da un corso d’acqua, disponeva di un approdo naturale, formato da una scogliera a quel tempo unita alla terraferma. ed era direttamente collegata alla viabilità principale via terra. I prodotti delle fornaci locali ed il vino in esse conservato potevano così essere esportati direttamente, senza bisogno di trasporto in città. Resta da appurare quale sia stata la reale funzione di questo quartiere in vita in una fase di decadenza dell’antico centro urbano, che trova un confronto diretto con un similare insediamento costiero identificato sul lato opposto, a poca distanza dal fiume 136 137

Caronia (c.da Sugherita), dove erano attive fornaci per laterizi. Si può pensare che agglomerati di case fossero stati creati inizialmente per ospitare le famiglie degli artigiani, per un più efficiente svolgimento delle poche attività redditizie rimaste in uso nel sito di Calacte e si siano successivamente evoluti in borghi permanenti lungo la strada litoranea. Di una “Massa Furiana”, esistente nel 599 d.C., gestita da una certa Ianuaria e sotto le dipendenze della diocesi di Tindari, siamo a conoscenza dall’epistolario di Gregorio Magno (9.180-182). La localizzazione di quello che doveva essere uno degli estesi latifondi esistenti nel territorio è incerta, ma dovrebbe ricadere nell’area dell’odierno torrente Furiano, che appunto ne riprende il nome, al confine tra i territori di Caronia e AcquedolciSan Fratello. Fiore la ubicava presso l’Abbazia di San Pancrazio, lungo il versante occidentale della vallata fluviale e in posizione elevata, dove effettivamente sono i resti di probabili strutture di età bizantina.138 Lo spopolamento della città a vantaggio della dispersione nelle campagne perdura fino all’arrivo degli Arabi, quando si assiste ad un’inversione di tendenza, con la rioccupazione dell’antico sito urbano collinare, evidentemente ora ritenuto più sicuro rispetto agli insediamenti nelle campagne. In epoca arabo-normanna il sito costiero è ormai completamente disabitato,139 mentre si crea un nuovo centro sulla sommità della collina, rioccupando l’area della città classica ma in misura assai ridotta. Il nuovo toponimo Caronia (Hisn Q.r.m.n.ya, ovvero “La fortezza di Q.r.m.n.ya”) compare per la prima volta in un testo arabo della metà dell’anno 1000,140 ma c’è ragione di credere che il nuovo abitato esistesse già da almeno un secolo; a metà del XII secolo Edrisi parla di Caronia (Qaruniya) come di una nuova roccaforte con Castello e cinta muraria che occupava un sito di antichissima frequentazione.141 L’abbondante ceramica di superficie che si è riversata sul pendio orientale della collina, con invetriate di almeno X-XI secolo, suggeriscono il sito esatto della città medievale, che occupava sostanzialmente l’area dell’attuale centro storico tra il c.d. “Arco Saraceno”, porta urbica meridionale, l’area della Chiesa Madre (innalzata nel XII secolo), la via Ducezio e il quartiere chiamato “Sperone” a ovest. L’intero pendio sottostante a est e a nord, un tempo occupato dalla città greco-romana, non viene più occupato. Si tratta quindi di un modesto centro, specchio 138

Fiore 1984. Nella lettera di Papa Gregorio Magno si fa riferimento all’istituzione di un oratorio nella massa Furiana tramite una “légitima donatio” da registrarsi a Tindari 139 Il confronto tra quanto scrive Edrisi a metà del XII secolo e quanto descrive Fazello alcuni secoli dopo induce a ritenere che in epoca tardo medievale nel posto dell’area urbana antica, ormai interrata esistessero solo poche case di pescatori che gestivano una tonnara ed un edificio di culto cristiano (Chiesa dell’Annunziata), la cui datazione è incerta (chiesa di età normanna ricostruita su un modesto edificio di culto di età bizantina?) 140 Johns 2004 141 Edrisi, Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo”, meglio conosciuto come “Il libro di Ruggiero”: “Ad Al Qahruniya principia la provincia di Dimnas (Val Demone). E’ rocca antica [anzi] primitiva, presso la quale [è sorta] una fortezza nuova: il paese possiede giardini, fiumi, vigne, alberi e un porto di mare. Qui [si tende] la rete per la pesca del tonno grande. La rocca è distante all’incirca un miglio dal mare”

Fiore 1974, 1981 Scibona 1987, p. 12

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia centri siciliani che si affacciavano sul Tirreno, ora proiettati maggiormente ai traffici via mare con la penisola, ma anche a eventi naturali che presumibilmente resero malsicura l’occupazione dei ripidi pendii originariamente abitati sulla collina. Né si poté sottrarre alla decadenza che investì l’intera isola nel tardoantico, con lo spopolamento delle antiche città a vantaggio di una dispersione umana nelle campagne. Kalè Akté - Calacte è parte del vasto e non ancora completo elenco di città che parteggiarono per l’una o l’altra potenza isolana nei tumultuosi eventi che interessarono l’isola per tutta l’epoca greca, prima dell’avvento della pax introdotta dal sistema amministrativo degli imperatori di Roma. Come spesso è avvenuto per altri siti, alla carenza di informazioni desumibili dagli storici antichi o dai documenti epigrafici, deve ampiamente ovviare la ricerca su quanto è sopravvissuto del passato, disperso in migliaia di frammenti che, una volta recuperati e opportunamente analizzati, consentono di ricostruire a grandi linee la storia della città. Per Kalè Akté - Calacte, va sottolineato da chi ormai da molti anni svolge ricerche nel sito, il compito sembra peraltro meno difficile grazie al persistere del sistema ambientale originario ed alla limitata urbanizzazione degli spazi frequentati nell’antichità, per cui è possibile cogliere ancora il rapporto tra città e territorio, tra la nostra città e quelle limitrofe, o ricostruire vie di collegamento, molte delle quali in uso quasi fino ad età moderna. E’ persino possibile, ad esempio, identificare il sistema portuale, in uso da epoca antichissima, differentemente dal famoso porto caricatore di Halaesa noto dalle fonti,142 che non si è ancora riusciti a rintracciare. La limitata antropizzazione dell’ambiente antico, il permanere di un’economia prettamente agricola ed il sopravvivere del bosco dei Nebrodi consentono di immaginare la città classica come un luogo brulicante di attività umane all’interno di un paesaggio assai simile a quello attuale. Future auspicabili indagini di scavo, ancora possibili laddove i terreni rimangono campagne abbandonate, potranno aggiungere nuovi dati alla ricostruzione della storia di questa città (e di una parte dell’isola), confermando le congetture sull’urbanistica, le modalità insediative, i commerci e rapporti interregionali, nonché sulla cronologia e l’effettivo verificarsi di eventi fino ad oggi solo ipotizzabili sulla base di indizi che attendono ulteriori conferme.

della situazione demografica siciliana di quella fase storica, la cui organizzazione urbana sfrutta in parte antiche preesistenze (ad esempio, l’antica plateia nordsud, cui si sovrappone, in maniera non più rettilinea, la medievale via mastra che attraversa l’abitato dalla porta sud a quella nord). Il fervore edilizio che accompagnò la graduale ripresa abitativa della collina di Caronia comportò naturalmente lo smantellamento delle strutture più antiche, laddove ancora visibili, e il sistematico riutilizzo dei materiali da costruzione. Blocchi monumentali o semplici laterizi vennero reimpiegati in edifici abitativi, nelle chiese, nella cinta muraria. Solo l’ipotesi che questi materiali, talvolta di pregio, siano stati riutilizzati nella stessa area in cui furono estratti, può consentire di immaginare che edifici monumentali sorgessero nell’area del castello, in quella della piazzetta di S. Francesco e presso la Chiesa di S. Nicolò, dove effettivamente si osservano in gran numero nelle facciate. Il quadro generale che abbiamo oggi di questa città dall’esistenza millenaria, seppure ricostruito da frammenti di notizie e ricerche sul campo ed in attesa di future, auspicabili nuove scoperte (e interventi di scavo), non si discosta molto da quello della gran parte dei centri antichi sopravvissuti a se stessi nei secoli. Evidentemente il sito risultò molto attraente ai popoli antichi per la posizione e l’ampia disponibilità di risorse naturali. La scelta di insediare un emporion greco in epoca arcaica fu legata all’esistenza di uno dei pochi approdi naturali esistenti sulla costa tirrenica nella rotta tra Zancle e Himera, mentre la fondazione di Ducezio della metà del V secolo a.C. presenta aspetti e motivazioni ancora poco chiari e fu legata a strategie di controllo del territorio da parte dei Siculi (Archonidas di Herbita) e di Siracusa. Con le fondazioni, a poca distanza di tempo, di Halaisa ad ovest (sicula di Herbita) e Tyndaris ad est (greca di Siracusa) si creò un nuovo assetto politico nell’area nebroidea, cui i centri che vi gravitavano finirono per soggiacere: scomparve la dispersione in piccoli insediamenti autonomi su alture tipica della fase indigena e si crearono vere e proprie poleis il cui peso politico non fu uniforme, ma che seppero mantenere una certa autonomia e specificità in campo commerciale e culturale. Nei secoli successivi, Kalè Akté visse in maniera relativamente anonima, non legando il proprio nome a nessuno degli eventi più importanti che investirono la Sicilia. E forse – pur nella personale opinione che i resoconti delle fonti abbiano privilegiato solo alcuni centri politicamente legati alle potenze dell’epoca a discapito di altri – questo fu un atteggiamento voluto per assicurarsi una tranquilla sussistenza e prosperità economica: agevoli vie di accesso sia per terra che per mare ai canali commerciali esistenti e abbondanza di risorse, le consentirono di svilupparsi e di intrattenere rapporti principalmente con le città della Sicilia centrosettentrionale e centro-orientale, sebbene alcuni ritrovamenti suggeriscano un suo inserimento anche in canali ben più ampi, verso la Grecia e la penisola italiana. La trasformazione da città collinare, pur con agevole rapido accesso al mare, in vera e propria città marittima all’inizio dell’età imperiale è da riferire non solo a mutamenti organizzativi che investirono quasi tutti i

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Scibona, Tigano 2009 = G. Scibona, G. Tigano, AlaisaHalaesa. Scavi e ricerche (1970-2007). Palermo 2009

Wilson 1990 = R.J. Wilson, Sicily under the Roman Empire. The Archaeology of the Roman Province 36 BC – AD 535. Warminster 1990

SEBarc X = Sylloge Epigraphica Instrumenta inscripta IV. 2012

Barcinonensis

X.

Spigo 2004 = U. Spigo, Archeologia a Capo d’Orlando. Studi per l’Antiquarium. Milazzo 2004

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CAP. 2. PRIMA DI KALÈ AKTÉ: INSEDIAMENTI ARCAICI E CLASSICI NELL’AREA DEI NEBRODI CENTRO-OCCIDENTALI BEFORE KALE AKTE: ARCHAIC AND CLASSICAL SETTLEMENTS IN THE WEST-CENTRAL NEBRODI AREA The mountain range of the Nebrodi characterizes the central-eastern sector of the northern part of Sicily. This area appears as an uninterrupted succession of mountainous reliefs separated by deep valleys created by the numerous rivers and creeks that flow into the Tyrrhenian Sea on the northern side, while to the south they converge into the water basin of the river Simeto. Plains are very few and all located near the Tyrrhenian coast, where in some points, moreover, the mountains falls into the sea. This area preserves part of the forest coverage that distinguished it in ancient times: in Sicily this is the territory that has kept in large part the environmental and landscape characteristics of the past. Before the Greek colonization, this wide area was occupied by indigenous peoples that tradition calls Sicels (Siculi). Although the distinction between the two main pre-Greek peoples of Sicily (Sicels and Sicans) has been always followed to ascribe to one or to the other culture the many settlements identified in the central part of the Island, the practical distinction appears very inconsistent in the inland, between the mountain ranges of the Nebrodi, of the Erei and of the Madonie, where the housing techniques and the same decorative features of ceramics are almost indistinguishable. The silence of the ancient historians about the events that affected this area of Sicily, at least until the middle of the fifth century BC, and generally about the numerous indigenous settlements who did not take part in the events strictly pertinent to the Greek colonies, have not allowed to know an important piece of history of the Island, which only archaeological research can reconstruct. However, many doubts and uncertainties remain about the real events occurred. In Sicily we do not know yet the names of many cities brought to light by archaeological excavations and, conversely, we have a number of non-Greek names of settlements that have not found matching on the ground yet. We do not know what the relations between the indigenous people and the Greeks who settled along the coast and gradually penetrated inland really were. The geographical area of which we are talking about is totally neglected in the accounts of the ancient historians and only in the Hellenistic period they make a mention of it, but always with short references that do not allow to understand the real status of the cities located in this area. This part of the Island historically played a peripheral function in the events that have affected Sicily; this peripherality has remained essentially until the present day. Peculiar geomorphological features have prevented the settlements from reaching large sizes, then as now. The same environmental characteristics have also encouraged the birth and survival of small autonomous entities, created on elevated and isolated sites, generally with a subsistence economy rather than projected towards the sea and the maritime trade. After the main phase of colonization of Sicily, between the second half of the VIII and the VII century BC, we must wait until the end of this last century to observe a Greek presence of some kind in this area, of which we have concrete evidence only in the VI and V century BC. If we look at the events that affected other areas of Sicily (excluding the west, traditionally homeland of indigenous peoples, the Elymians and the Sicans, and where existed Phoenician “emporia”) we see that already a few decades after the establishment of the Greek colonies along the Ionian and the southern coast of the Island, there was a gradual penetration inland, well attested by the abundant Greek materials discovered in the indigenous sites of that area. Ancient sources report different names of indigenous towns in Sicily, both Sicels and Sicans, but they nothing report for the wide mountainous area between the Greek poleis of Zancle and Himera. In the absence of precious data only provided by the archaeological research, we could think of an unnatural isolation of this part of the Island, which not even the most strenuous opposition of a people reluctant to entertain any kind of relations with the outside world could sustain. Recent discoveries however have suggested that along the coast of today’s Caronia there was a Greek settlement, dating from the late seventh century BC, probably created by the city of Zancle along the sea route towards its subcolony Himera. A Greek “emporion” probably existed before the foundation of Kale Akte in 446 BC reported by Diodorus Siculus, The surrounding area was home to several indigenous settlements scattered on the hills between the western Nebrodi and the eastern part of the Madonie mountains, almost all disappeared in the fourth century BC. The main cities which also had an important Hellenistic and Roman phase, in addition to Kale Akte, were Herbita, an important city of the hinterland, Halaisa, Amestratos and Halontion. In this chapter the author then attempts a reconstruction of the historical events that affected this part of Sicily in the Archaic and Classical Age, describing the main existing settlements so far explored and showing how in these lands the relations between indigenous peoples and Greeks had different effects than the rest of the Island in terms of acculturation, so much so that the city here located can be considered definitively Hellenized later than elsewhere, not before the fourth century BC.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Il complesso delle alture dei Nebrodi, che raggiungono un’altezza massima di 1847 metri s.l.m. in corrispondenza di Monte Soro, caratterizza il settore centro-orientale della parte settentrionale della Sicilia. L’area si presenta come un susseguirsi ininterrotto di rilievi separati da profondi avvallamenti creati dai numerosi torrenti che sul versante settentrionale sfociano sul Tirreno, mentre a sud confluiscono verso i corpi idrici che alimentano il fiume Simeto. Pochissime le aree di pianura, tutte ai limiti della costa tirrenica, dove in più punti la montagna scende a picco sul mare. L’area conserva in buona parte la copertura boschiva che doveva contraddistinguerla peculiarmente in antico e si può dire che nell’isola è questo il territorio che più ha preservato le caratteristiche ambientali e paesaggistiche del passato. La presenza umana è attestata fin da tempi assai remoti: vale la pensa di ricordare la stazione della Grotta di San Teodoro ad Acquedolci risalente all’Epigravettiano finale, oltre 20000 anni fa.1 Molto diffuso appare il popolamento tra l’Età del Rame e quella del Bronzo, con insediamenti stanziati sia su alture che davanti al mare.2 Alla fine dell’Età del Bronzo, nuove esigenze legate alla difesa degli abitati da minacce esterne determinarono un arroccamento su siti impervi facilmente difendibili. Tra questi, quelli meglio conosciuti sono gli abitati di Gioiosa Guardia (Gioiosa Marea) ad est e di Monte Scurzi (Militello Rosmarino) nella parte centro-occidentale della catena nebroidea, ma è indubbio che numerosi dovettero essere gli insediamenti, generalmente di modeste dimensioni, sparsi sui rilievi, ancora oggi difficilmente identificabili per l’inaccessibilità di alcune aree a causa sia della ancora fitta copertura boschiva che della disagevole conformazione dei terreni. Per gli antichi, il nome Νεβρώδη (ὄρη) era riferito al sistema di alture comprendenti sia i Monti Nebrodi che le Madonie (Strabone 6.2.9; Silio Italico 14.236); Solino (5.12) ne riconduce il nome al termine νεβρός, “cervo”, ad indicare forse come a quell’epoca l’area fosse abitata da una ricca fauna oggi scomparsa. Da Tolomeo apprendiamo il nome di due soli fiumi ricadenti in questa zona: il Monalos, probabilmente coincidente con l’odierna fiumara di Pollina che segna il confine tra area nebroidea e area madonita, e il Chydas, quasi sicuramente corrispondente al fiume Rosmarino. E’ molto probabile che, sebbene Tolomeo scriva nel II secolo d.C., questo fosse il nome dei due corsi d’acqua anche nei secoli precedenti. Dalle Tabulae Halaesine,3 quantomeno per l’epoca ellenistica, conosciamo il nome di altri due corsi d’acqua ricadenti nella chora di Halaisa: l’Halaisos, corrispondente alla fiumara di Tusa, e l’Opikanos, probabilmente coincidente con l’odierno torrente Cicera. I primi accenni letterari all’area nebroidea sono contenuti rispettivamente in Erodoto (6.22) e in Diodoro Siculo (12.8) e si riferiscono entrambi al sito di Kalé Akté, prima con il fallito tentativo di fondare una colonia greca all’inizio del V secolo a.C. e poi con la vera e propria fondazione della città di Ducezio con la

collaborazione, tra gli altri, di Archonidas di Herbita, importante centro siculo il cui nome adesso per la prima volta compare nella storia. Entrambi i riferimenti, a parere di chi scrive, acquistano significato anche in relazione all’esistenza di una postazione greca isolata all’interno di un territorio non ancora ellenizzato, che come vedremo è stata individuata a Marina di Caronia.4 Esistenti quantomeno in epoca arcaica dovevano essere i centri di Agathyrnon5 e Halontion,6 come si deduce dal racconto della loro mitica fondazione. Nei siti di queste due antiche città, identificabili con le odierne cittadine di Capo d’Orlando e San Marco d’Alunzio, si conoscono materiali databili quantomeno dalla fine del VI secolo a.C. che attestano l’esistenza di abitati di ascendenza indigena. Nel territorio dell’odierna Caronia sono stati identificati diversi insediamenti di età preistorica, dislocati in siti molto diversificati tra loro. Poco distante dalla costa, in c.da Pantano (propr. Naselli), nei primi anni ’90 del secolo scorso sono stati rinvenuti livelli di frequentazione ascrivibili probabilmente all’Età del Bronzo.7 Sempre lungo la costa, in c.da Sugherita, è stata recentemente individuata da chi scrive quanto meno una frequentazione, riferibile verosimilmente all’Età del Bronzo, attestata dalla presenza di manufatti in ossidiana e selce e da radi frammenti di ceramiche d’impasto. In c.da Palme, ai margini di un corso d’acqua torrentizio, risale ad un ventennio fa la scoperta di una stazione preistorica riferibile a due distinte fasi del Neolitico, la prima della facies di Serra d’Alto e l’altra scrivibile alla Cultura di Diana.8 L’area in questione, su entrambe le sponde di un torrente, appare frequentata ben oltre il sito sottoposto a saggi, come attesta la presenza diffusa di strumenti litici in selce e ossidiana sul piano di campagna. Di rilievo è la scoperta, fatta ancora da chi scrive, di un intero villaggio databile tra la Tarda Età del Rame e la media Età del Bronzo in contrada Fiumara, ai piedi della collina di Caronia e del pianoro di S. Todaro: un esteso sbancamento eseguito per l’installazione di un capannone industriale negli anni 2000 ha profondamente intaccato il declivio che scende verso il fiume, mettendo in luce e in parte distruggendo un insediamento costituito da numerose capanne, di cui si vedevano in parete i crolli e in molti casi i piani abitabili. Le abbondanti ceramiche associate si ricollegano in buona parte alla facies di Tindari-Rodì, ma strette similitudini si riscontrano con i materiali fittili dall’area etnea occidentale, esposti presso il Museo Civico di Adrano. Notevole la presenza di strumenti litici: lame di ossidiana, strumenti in selce, manufatti in pietra scistosa. Tra i manufatti in argilla si segnalano, tra gli altri, numerosi corni fittili e rondelle utilizzate per la filatura Il villaggio pare essere stato distrutto da un evento traumatico, come dimostra uno strato continuo di terra carboniosa ben visibile per molti metri sulla parete scavata, a cui si sovrappone un livello di ghiaie che testimonia una violenta inondazione.

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Vedi Cap. 4 e Appendice I in questo volume Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica 5.8.1 6 Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 1.51.2 7 Bonanno 1993-1994 8 Bonanno 1997-1998 5

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Graziosi 1943, 1948; Vigliardi 1968 Bonanno 2000 3 Prestianni Giallombardo 1998 2

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Prima di Kalè Akté

Fig. 1. Carta della Sicilia centro-settentrionale (Nebrodi centro-occidentali) con indicazione dei principali siti menzionati nel testo (rielaborazione immagine Google Maps)

Una parziale ripresa abitativa sembra testimoniata da resti di capanne e materiali di tipo differente su un livello superiore, solo parzialmente visibile nello scavo. L’area presenta segni di occupazione ancora in epoca tardoclassica ed ellenistica (inizi IV-III secolo a.C.), attestata tuttavia dalla sola diffusa presenza di ceramiche frammentarie ma non di resti di strutture murarie. Semilavorati di ossidiana e selce rinvenuti sporadicamente attestano frequentazioni preistoriche sulla collina di Caronia (pendio nord-est), in c.da S. Miceli poco a sud di questa, in c.da Mastrostefano nell’entroterra9 e in c.da Contura nell’estremo territorio occidentale di Caronia. A Marina di Caronia la presenza di materiali in ossidiana è stata accertata in diversi punti, anche nell’area degli scavi 1999-2005 in c.da Pantano, suggerendo nel complesso l’esistenza di uno o più insediamenti dell’Età del Bronzo su una vasta area, compresa tra la piana e le prime pendici collinari. In epoca storica, l’ampio dettore di alture dei Nebrodi rientrava tra i territori occupati da popolazioni indigene che la tradizione chiama Siculi. Sebbene si sia sempre seguita la distinzione tra le due principali popolazioni pre-greche di Sicilia - Siculi e Sicani - per riferire agli uni o agli altri l’appartenenza dei numerosi insediamenti esistenti nella parte centrale e orientale

dell’isola, risulta assai labile la distinzione nella parte interna a cavallo tra le catene montuose dei Nebrodi, degli Erei e delle Madonie, dove le tecniche abitative e le stesse caratteristiche decorative delle ceramiche sono sostanzialmente indistinguibili. L’inquadramento del territorio di cui parliamo nella facies sicula non è, a parere di chi scrive, scontato come tradizionalmente si ritiene, trattandosi di un’area al confine con il complesso madonita che invece è considerato territorio sicano. Il fatto che tradizionalmente si ritenga che la città di Herbita sia da identificare lungo le alture della parte sud-occidentale dei Nebrodi, al confine con le Madonie e che questa città sia specificatamente definita sicula dalle fonti antiche,10 indurrebbe a riferire questa parte dell’isola all’area sicula. La questione, in ogni caso, non riveste importanza sotto l’aspetto pratico, poiché le popolazioni che abitavano le contrade collinari e montuose di quest’ampio comprensorio erano accomunate da tradizioni similari, di lunga ascendenza, godevano di una certa autonomia e solo in una fase avanzata della colonizzazione greca entrarono in contatto con le popolazioni elleniche, mantenendo nei confronti della nuova cultura, nei limiti del possibile, la propria specificità etnica, in molti casi fino agli inizi del IV secolo a.C.

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Scibona 1987

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Tucidide, La Guerra del Pelopponeso 7.1.4

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia L’arrivo dei colonizzatori greci sulle coste ioniche della Sicilia, dove nell’ultimo terzo dell’VIII secolo a.C. vennero fondate Zancle, Naxos, Katane, Leontinoi, Megara Hyblaea e Siracusa, fece sentire i suoi effetti in queste contrade solo nella fase in cui la colonia dello Stretto si spinse verso ovest per fondare la subcolonia di Himera, affacciata sul Tirreno a notevole distanza dalla madrepatria. Come riferisce Diodoro Siculo (13.62) Zancle fondò Himera nel 648 a.C. (240 anni prima della sua distruzione, avvenuta nel 409 a.C., più precisamente). Già in precedenza, negli ultimi decenni dell’VIII secolo a.C., aveva fondato la subcolonia di Mylai, con la quale aveva preso il totale controllo della cuspide nordorientale dell’isola e delle alture dei Peloritani con gli insediamenti indigeni che vi gravitavano, tra cui Longane. La marcia verso ovest si dovette arrestare di fronte alla resistenza di un importante centro siculo come Abakainon, posizionato nell’area di convergenza tra Peloritani e Nebrodi. Nella tratta marittima verso Himera, Zancle dovette presto entrare in contatto con gli abitati indigeni che occupavano le alture di Nebrodi e Madonie lungo il versante proiettato sulla costa. Tra questi, i più antichi finora conosciuti sono quelli già citati di Gioiosa Guardia e di Monte Scurzi, entrambi in vita dalla fine dell’Età del Bronzo, che mostrano segni di ellenizzazione rispettivamente a partire dai primi decenni e dalla metà del VI secolo a.C. Posizionato in cima al Monte Meliuso sovrastante il Golfo di Patti, l’insediamento indigeno di Gioiosa Guardia è finora quello più conosciuto, grazie agli scavi sistematici condotti nell’ultimo trentennio.11 Esistente dalla fine dell’Età del Bronzo, entrò in contatto con la cultura greca tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C., epoca alla quale si datano i più antichi materiali di produzione coloniale rinvenuti nel sito. La trasformazione da abitato capannicolo in uno organizzato in blocchi di case con pareti lineari, separati da strade e disposti ordinatamente sul pendio, si data intorno alla metà del VI secolo a.C. Da questo momento, si avverte una marcata acculturazione della popolazione locale con acquisizione di modelli di tipo prettamente greco, sia sotto l’aspetto dell’organizzazione urbana e delle modalità abitative, sia sotto l’aspetto degli usi e delle abitudini di vita quotidiana: nel centro arriva una grande quantità di vasellame di produzione coloniale, in alcuni casi di un certo pregio, mentre la presenza di anfore commerciali di diversa provenienza attesta l’inserimento del centro nei canali commerciali transmarini, probabilmente attraverso la mediazione dei mercati di Zancle e Lipari. Tuttavia è evidente la continuità d’uso di ceramiche di produzione locale realizzate secondo modelli e tecniche di derivazione protostorica sino ad epoca molto tarda. La fine dell’abitato si data tra gli ultimi anni del V e i primi anni del IV secolo a.C., in coincidenza con la fondazione, a pochi chilometri di distanza, di Tyndaris, all’interno della cui chora il territorio della città arcaica dovette rientrare. Per il settore centro-occidentale dei Nebrodi, il primo insediamento di epoca arcaica ad avere ricevuto

seppure limitate ricerche fin dagli anni ’80 del secolo scorso è quello di Monte Scurzi, al confine tra gli odierni territori di Militello Rosmarino e Sant’Agata di Militello.12 Si tratta di un’altura di forma conica, praticamente inaccessibile da ogni lato tranne che da sud, che si affaccia sulla costa tirrenica ad una distanza di circa 3 km. con un’altezza di 492 metri. Un villaggio, la cui prima fase si può collocare nel Bronzo Finale, ad oggi attestato dalla presenza di lame di ossidiana, strumenti in selce e frammenti di ceramiche d’impasto, occupò la sommità del rilievo e si ampliò nel corso dell’Età del Ferro occupando i ripidi versanti ovest e sud. L’incontro con le popolazioni greche sembra avvenire intorno alla metà del VI secolo a.C., epoca alla quale si riferiscono le più antiche ceramiche di produzione coloniale osservate nel sito. Verso la fine del VI secolo a.C. un abitato, esteso circa 2 ettari, si sviluppò secondo modelli propriamente greci, con case di forma lineare a più ambienti disposte lungo i disagevoli pendii in maniera ad essi adeguata. Tuttavia, il permanere di usi e tradizioni di derivazione preistorica si mantenne a lungo, come la copertura delle case, solo in alcuni casi con tegole di terracotta, continuandosi ad utilizzare il più economico, seppur meno efficiente, sistema della copertura con elementi deperibili. I muri degli edifici abitativi presentavano uno zoccolo in pietra e alzati in mattoni crudi; i piani abitabili erano in argilla pressata o schegge di pietra locale. La fase di massimo sviluppo dell’abitato si colloca nella prima metà del V secolo a.C., quando l’intero versante occidentale e parte di quello meridionale e di sud-est vengono occupati da edifici abitativi. Case di un certo impegno sono identificabili lungo il pendio ovest, dove i resti di muri visibili sul terreno e la presenza diffusa di tegolame consente di individuare blocchi abitativi con copertura fissa che talvolta si addossano alla roccia spianata utilizzandola come parete di fondo. Colpisce la capacità di abitare un luogo che oggi si presenta assolutamente inospitale: i fianchi scoscesi del Monte sono una distesa di rocce affioranti di assai disagevole attraversamento e una distesa di massi e pietre di ogni dimensione sono l’esito sia del progressivo sgretolamento del substrato roccioso, sia del dissolvimento delle strutture abitative arcaiche. Nonostante ciò, sono state individuate diverse unità abitative, riconoscibili da allineamenti murari e concentrazioni di mattoni crudi in disfacimento, mentre il limitatissimo interro, assieme ai continui dilavamenti del terreno, ha in molti casi consentito l’individuazione di depositi archeologici con suppellettili d’uso quotidiano. In questo modo è stato possibile accertare, senza che fossero necessari saggi di scavo, che l’abitato venne distrutto da un vasto incendio, come provano le costanti chiazze di bruciato e i frustuli carboniosi associati ai materiali abbandonati sul posto. La fine di questo abitato si data, sulla base delle ceramiche più recenti, nella seconda metà o ultimo terzo del V secolo a.C. e fu dovuta ad un evento disastroso, probabilmente un assalto dall’esterno: l’area è cosparsa di ciottoli di piccole dimensioni utilizzati come proiettili per fionde; si sono

11

12 Ricordiamo, tra gli altri, Scibona 1993; in precedenza, Brea 1958 e 1975 e soprattutto Bianco 1988

Per un primo resoconto delle ricerche a Gioiosa Guardia: Tigano et alii 2008. Si veda anche Collura 2014 (preprint)

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Prima di Kalè Akté inoltre individuati almeno due “arsenali”, comprendenti decine di questi proiettili accumulati in appositi spazi, pronti per essere usati, significativamente posti nella parte più alta del Monte, al di sopra dell’unica via d’accesso all’abitato da sud. Monte Scurzi, al di là delle peculiari caratteristiche ambientali e di tipo urbanistico, con commistione di usanze indigene e nuovi modelli

abitativi di tipo greco, offre un quadro molto verosimile delle modalità di contatto tra mondo indigeno e mondo coloniale, in particolare nelle attestazioni di cultura materiale. Infatti, ancora nell’ultima fase di vita dell’insediamento, coesistevano utensili di produzione locale, realizzati sia a mano che al tornio, assieme a prodotti d’importazione.

Figg. 2-8. Monte Scurzi. In alto: a sin. veduta dell’altura da San Marco d’Alunzio (antica Halontion) e sullo sfondo Monte Vecchio di S. Fratello (antica Apollonia); a destra, arsenale di proiettili litici sulla sommità. Al centro: a sin. strutture murarie superstiti nel settore sud-orientale; a destra, bordo di anfora punica (Ramòn T-1.4.5.1, V secolo a.C.). In basso: oinochoe acroma (fine VI), coppetta a vernice nera e skyphos (V secolo a.C.)

Le ceramiche greche presenti nel sito comprendono poche forme: soprattutto skyphoi a vernice nera, con caratteristiche (argille e vernici) talvolta

difformi dalle tipologie generalmente in uso nella fascia nord-orientale dell’isola, oltre a kylikes, lekanai, coppette, amphoriskoi e kyathoi. Assieme a queste ceramiche

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia individuato negli anni ’70 del secolo scorso in contrada Priola,13 circa 4 km a sud-ovest di Monte Scurzi e 5 km in linea d’aria dalla costa.14 La zona culmina in due cime (altezza 832 metri s.l.m.) dalla sommità semipianeggiante con fessurazioni di tipo carsico. Ricognizioni hanno permesso di individuare resti affioranti di strutture abitative (altre sono confermate dalla fotografia aerea) e materiali assegnabili ad epoca greca classica e altoellenistica, tra cui frammenti di ceramiche a vernice nera e di pithoi, mentre lavori agricoli misero in luce i resti di una casa distrutta da un incendio all’interno della quale furono recuperati un gruppo di pesi da telaio ed una moneta della zecca di Rhegion (350-270 a.C.). Il rinvenimento di ceramiche d’impasto, sebbene non sicuramente riconosciute come di tradizione indigena, potrebbe indiziare l’insediamento di una fase quantomeno altoclassica. Il sito è stato interpretato come una probabile stazione estiva per pastori provenienti da Halontion o Apollonia.15 La collocazione, in cima ad un’altura naturalmente difesa e con vista su un’ampia fetta di territorio fino al mare, farebbe piuttosto pensare ad un vero e proprio insediamento di tipo indigeno, simile a tanti altri di questo settore dei Nebrodi, di modeste dimensioni e presumibilmente in contatto con quelli coevi di Monte Scurzi e Halontion. I territori degli odierni comuni di Sant’Agata, Torrenova e Militello Rosmarino hanno offerto numerose attestazioni di occupazione umana sia per l’età pre e protostorica, sia per quella greca.16 La stessa conformazione geografica, con alture affacciate sulla costa, e ampia disponibilità di risorse naturali oltre che di fertili terreni da coltivare, ha favorito da sempre l’insediamento di gruppi umani. In epoca ellenistica e successivamente, questa doveva essere l’ampia chora di Halontion, odierna San Marco d’Alunzio, all’interno della quale doveva rientrare anche un insediamento costiero identificabile presso l’odierna Sant’Agata lungo la Via Valeria, attestato per l’epoca romana da una serie di rinvenimenti, compresa una necropoli litoranea.17 Lungo il versante più occidentale della catena Nebroidea, dove questa si collega al complesso delle Madonie, sono stati individuati alcuni siti in vita tra l’epoca tardoarcaica e classica. Nota dalle fonti è la polis di Amestratos,18 odierna Mistretta, dove alcuni rinvenimenti da aree non meglio precisate ne fanno risalire l’esistenza già al VI secolo a.C. o anche prima, nonostante le attestazioni finora note si riferiscano principalmente ad epoca ellenistico-romana.19 D’altra parte, il sito non è mai stato oggetto di indagini sistematiche né di veri e propri scavi archeologici. L’abitato antico occupava la forte altura dominata dal castello normanno e i suoi ripidi pendii, in particolare quelli nord ed est; sempre a nord è stata individuata la relativa necropoli, in un’area occupata dall’abitato moderno. Il ritrovamento di due deinoi acromi e di una

greche, erano utilizzati vasi di produzione locale, acromi, di diverse tipologie, soprattutto olle, situle e grandi ciotole biansate, assieme a vasi molto grezzi, tra cui rozze ciotole con grosso manico. Mancano del tutto le lucerne, circostanza che potrebbe suggerire che per l’illuminazione si ricorreva ancora alle tradizionali torce in legname; pochi sono i frammenti di anfore commerciali, tra cui si segnalano almeno due esemplari di anfore puniche di V secolo, circostanza che farebbe pensare ad una limitata propensione allo scambio in entrata. Questo anonimo centro, che almeno nell’ultima fase visse in concomitanza col centro indigeno ellenizzato di Halontion, posto a soli 3 km di distanza verso est e da esso separato dal corso del fiume Rosmarino, antico Chydas, mantenne sino alla fine una propria spiccata identità e un approccio limitato alla cultura greca, con la quale entrò inevitabilmente in contatto grazie alla breve distanza dal mare su cui si esercitava la rotta tra Zancle e Himera. Un approfondimento degli studi su questo sito sarebbe auspicabile per comprendere fino in fondo tempi e modi di contatto tra Indigeni e Greci in area nebroidea. La datazione dei più antichi materiali greci rinvenuti nei siti indigeni di Gioiosa Guardia e Monte Scurzi, sfalsata tra i due di oltre un cinquantennio, nonché quella ancora più tarda di qualche decennio dei siti posti ancora più ad ovest, di cui parleremo in seguito, sembra suggerire una progressiva estensione degli influssi coloniali da oriente verso occidente, evidentemente ad opera di Zancle, che si completò nel corso del VI secolo a.C. Le evidenze materiali da Gioiosa Guardia e Monte Scurzi offrono un quadro attendibile del tipo di cultura esistente nei centri siculi di area nebroidea in piena età greca, peraltro confermato dallo studio di altri insediamenti di quest’area finora inediti che meriterebbero studi sistematici. Si osserva la persistenza di usi e modelli di cultura materiale di tradizione preistorica almeno sino alla fine del V secolo a.C. Ciò appare evidente dal prolungato uso di vasellame modellato a mano, che si affianca a quello importato, probabilmente realizzato in ambito domestico per esigenze strettamente collegate agli usi del nucleo familiare. Significative e connotative appaiono due usanze: l’uso della fiaccola al posto delle più efficienti lucerne ceramiche introdotte dalle popolazioni greche e la copertura delle case, piuttosto spartane, con materiale deperibile (rami e fango). Si avvertono ancora modalità tradizionali di vita quotidiana, sebbene nuovi influssi si avvertono nell’adozione del modulo lineare per i muri delle abitazioni. In sostanza, c’è tutta l’evidenza che, in queste contrade, l’Età del Ferro sia terminata molto tempo dopo rispetto ad altri settori dell’isola e che tra la seconda metà del VI e tutto il V secolo a.C. essa si confonda con l’epoca greca arcaica e classica, dando vita, in definitiva, ad una fase del tutto originale, quasi un’epoca a sé stante nella tradizionale scansione delle diverse fasi che contraddistinguono la cultura siciliana. In territorio di Sant’Agata di Militello, un insediamento databile al V-IV secolo a.C. è stato

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Località Ciappa di Priolo - pianoro di Purrazzi Bianco 1988; Facella 2010 Scibona in Bianco 1988 16 Si veda ancora Bianco 1988 17 Facella 2010 18 Cicerone, In Verrem 3.39 19 Per una sintetica storia delle ricerche: Scibona 1992 14 15

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Prima di Kalè Akté oinochoe a decorazione geometrica nello stile di Polizzello attestano una fase di VI secolo a.C., mentre il periodo meglio documentato quantomeno nelle ricognizioni di superficie è quello tardoellenistico. Il sito si presenta come il tipico insediamento d’altura di tipo indigeno, in posizione arroccata e naturalmente difesa, con vista diretta su un’ampia porzione di territorio fino alla costa. E’ presumibile che la chora di Amestratos si sviluppasse fino al mare comprendendo la vallata della fiumara di S. Stefano e separando così quelle di Kalè Akté e Halaesa, città alle quali era collegata da percorsi interni ripetuti dalle moderne trazzere.20 Lungo il confine tra Nebrodi e Madonie e tra le odierne province di Messina, Palermo ed Enna si identificano due interessanti siti d’altura, fino ad oggi oggetto solo di indagini di superficie che tuttavia ne assegnano una cronologia relativamente alta, quantomeno al V secolo a.C. Il sito di Timpa del Grillo21 è ubicato al confine tra i territori di San Mauro Castelverde (PA) e Castel di Lucio (ME) e raggiunge un’altezza di ben 1345 metri s.l.m. ed un’ampiezza stimata di circa 13 ettari.22 L’altura è naturalmente difesa su tutti i lati e l’area abitata era protetta da una cinta fortificata. Lungo la sommità sono presenti frammenti di ceramica indigena, pertinenti per lo più a grandi contenitori e pithoi. Il sito rivestiva un’alta importanza strategica a raccordo tra l’entroterra e la costa tirrenica attraverso le vallate dei fiumi Pollina e Tusa. Peraltro, le sue dimensioni stimate sembrano distinguerlo nettamente dagli altri abitati d’altura noti in quest’area. Esso potrebbe anche corrispondere, teoricamente, al sito di Herbita, che l’interpretazione dei dati di Tolomeo e di altre fonti antiche come Tucidide e Cicerone, posiziona più vicino alla costa e alle città di Kalè Akté e Halaesa di quanto si è tradizionalmente ritenuto.

dell’insediamento non sono precisamente definite, ma sembra trattarsi più che altro di un phrourion di modeste dimensioni creato lungo le vie di collegamento tra l’entroterra ed il mare. La principale fase di questo insediamento si collocherebbe nel corso del V secolo a.C. Tornando nel Messinese, verso est, tra la linea di confine dei territori di Caronia e Mistretta si erge un sistema di alture che presenta evidenti tracce di occupazione in antico. Il punto più eminente si raggiunge in corrispondenza di Monte Trefinaidi (mt. 1166 s.l.m.), dove è stato localizzato un fortino databile tra la fine del IV ed il III secolo a.C.24 La presenza di ceramiche modellate a mano con argille grezze, tuttavia, ne fa risalire quantomeno una frequentazione ad epoca precedente, probabilmente già all’inizio del IV o piuttosto al V secolo a.C. Tutta quest’area compresa tra le odierne province di Messina, Palermo ed Enna, dove non esiste una netta distinzione tra area Nebroidea e Madonita e caratterizzata da innumerevoli alture relativamente isolate, originariamente immerse in un fitto e impenetrabile bosco ed ancora oggi difficilmente raggiungibili se non attraverso disagevoli percorsi, dovette ospitare diversi insediamenti antecedenti la nascita delle poleis di fase tardoclassica, che generalmente condivisero con queste ultime solo una fase temporale limitata prima di scomparire. La ricerca in questo settore è ancora all’inizio e mancano vaste aree da sottoporre a ricognizione e analisi, che non mancheranno sicuramente di rivelare nuovi ed ulteriori abitati indigeni relativamente ellenizzati in una porzione dell’isola che si mantenne a lungo isolata ed indipendente. Gli insediamenti indigeni fino ad oggi localizzati su alcune alture tra Nebrodi e Madonie rimasero generalmente in vita fino alla fine del V – prima metà del IV secolo a.C. per poi scomparire definitivamente. Essi dovevano fare capo a quello che era il principale centro siculo di quest’area, ovvero Herbita.25 Questa città compare nel racconto degli storici antichi a partire dalla metà del V secolo a.C., in occasione della fondazione di Kalè Akté. A quell’epoca la città era governata da Archonides, con la collaborazione del quale, assieme a Siculi di altri centri non altrimenti noti, Ducezio insediò la sua ultima fondazione. La circostanza per cui un altro Archonides, figlio o nipote del primo, un quarantennio dopo fondò poco più a ovest la città di Halaisa,26 induce a ritenere che l’intero territorio dei Nebrodi occidentali fosse da tempo sotto il controllo di questa importante città sicula, per la cui esatta localizzazione occorrerebbe tenere conto di questi riferimenti geografici. Cronologicamente parlando, il primo riferimento ad Herbita, dopo la fondazione di Kalè Akté, è contenuto in Tucidide (7.1-4) ed è riferito alla spedizione Ateniese contro Siracusa del 415 a.C. Tucidide narra di eventi a lui contemporanei e dalle sue parole si possono trarre utili notizie circa la situazione politica nell’isola con particolare riguardo alle popolazioni indigene. Il quadro che se ne ricava è quello di una frammentazione tra

Fig. 9. Veduta aerea di Timpa del Grillo (immagine Bing Maps)

Monte Ferrante23 si trova ancora più all’interno, tra gli odierni territori di Geraci Siculo (PA) e Nicosia (EN). Si tratta di un rilievo ben distinguibile che raggiunge un’altezza di 1176 metri s.l.m. Le dimensioni 20

Collura 2012 Vassallo 1996; Burgio 2012. Si ringraziano, per le informazioni su Timpa del Grillo, Aurelio Burgio e il dott. Piero Giordano, che per primo fece segnalazione del sito a S. Vassallo 22 Burgio 2012, p. 231 23 Burgio 2008, 2012 21

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Collura 2012 Bejor 1989; Facella 2006, p. 49 e segg. 26 Diodoro Siculo 14.16.1-4 25

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia comunità arroccate entro territori autonomi, che solo in occasione di particolari eventi, come fu l’impresa di Ducezio, ebbero modo di legarsi in coalizione. Tucidide riferisce che il dinasta di Herbita, Archonides I, era morto da poco e che questi era re di una parte dei Siculi di questa zona, che disponeva di un certo potere ed era amico degli Ateniesi. E’ assai probabile che l’area sicula sotto il controllo di Archonides fosse proprio quella compresa tra le Madonie e la parte centro-occidentale dei Nebrodi, rimasta sostanzialmente indipendente dal controllo greco e avulsa dalle strategie politiche che qui furono condotte in prima persona da Herbita: sarebbe questa la ragione per cui quest’area della Sicilia rimane in ombra nei resoconti letterari delle vicende belliche che caratterizzarono gli anni compresi tra l’epopea di Ducezio e la guerra tra Atene e Siracusa in Sicilia. La philìa tra Herbita e Atene doveva risalire almeno all’epoca della prima spedizione Ateniese del 427-426 a.C. se non prima e non sappiamo se avesse giocato un qualche ruolo nella partecipazione dello stesso Archonides alla fondazione di Kalè Akté del 446 a.C., magari per bilanciare il ruolo di Siracusa in quella fondazione. Fatto sta che l’accenno di Tucidide conferma il ruolo egemone coperto dalla sicula Herbita per tutta la seconda metà del V secolo a.C. in una parte dell’isola, in grado di mantenere autonomo un ampio territorio strategicamente appetibile alle potenze greche dell’epoca, che è quello prossimo alla costa tirrenica.

questa città tra il 415 ed almeno il primo terzo del IV secolo a.C.: nel 403 Dionisio I stipula un trattato di pace con Herbita, che in questo modo si assicura una certa autonomia nei confronti di Siracusa ed è pienamente libera di fondare una propria subcolonia ad Halaisa. Nella fondazione non si è visto un preciso atteggiamento anti o filo-siracusano. Alla fondazione di Halaisa presero parte tre diversi gruppi: i mistophoroi, una moltitudine di esuli siracusani e gli aporoi di Herbita, ridotti in povertà a causa della guerra contro Siracusa. In questo modo, Herbita si assicurava in maniera stabile il controllo di un ampio tratto della costa tirrenica, dove era già presente Kalè Akté, alla cui fondazione aveva partecipato alcuni decenni prima. Con la fondazione di Tyndaris del 396 a.C., peraltro, si stabilisce il quadro delle aree di influenza sul tratto compreso tra il promontorio di Kephaloidion e Messina, “spartito” da ovest a est tra Herbita, Halontion, Tyndaris e Abakainon. In ogni caso dovremmo forse pensare ad Herbita come ad una tipica città d’altura, sviluppatasi forse da un insediamento esistente nell’Età del Ferro, che proprio per la sua localizzazione logisticamente “difficile” non raggiunse mai dimensioni notevoli, un po’ come tutti i centri di area nebroidea che ebbero la stessa origine. Piuttosto, dal racconto più tardo di Cicerone, sembra che la prosperità di questa città le sia derivata dall’ampio territorio intensivamente coltivato e ricco di risorse naturali, che le permise di esercitare una certa egemonia sulle aree circostanti, fino alla costa tirrenica, e di porsi come punto di riferimento per i numerosi insediamenti di quest’area, alleati per assicurarle un controllo assoluto contro eventuali mire espansionistiche da parte delle colonie greche. Herbita fu una delle tre città della Sicilia centrosettentrionale, assieme a Enna e Assoro, che prestarono aiuto ad Entella, nonostante questa si trovasse ad una certa distanza. L’aiuto fornito da Herbita, celebrato nel Decreto C2 di Entella (= SEG 30.1117), meritevole di ricordo eterno, testimonia le possibilità economiche e logistiche di questo centro ancora intorno alla metà del III secolo a.C., epoca alla quale si datano i Decreti, prima dell’inesorabile declino descritto da Cicerone nel I secolo a.C.28 Anche i riferimenti di Cicerone forniscono indizi circa la possibile collocazione della città. La menzione di Herbita è contenuta in diversi passi delle Verrine, in associazione quasi sempre a centri della Sicilia centrale.29 Si noti in proposito il ricorrere del nome di Agyrium e di altre città della parte settentrionale degli Erei. Il sito di Herbita, centro che dovremmo considerare in vita almeno dal VI secolo a.C. e ininterrottamente fino ad epoca bizantina (il toponimo compare ancora nella Geografia dell’Anonimo

Fig. 10. Moneta di Herbita della serie Testa di Apollo / Efebo stante (340-330 a.C.)

I rapporti tra Herbita e Atene, oltre che suggeriti dal testo di Tucidide, sono confermati da un’interessante iscrizione attica (IG I³ 228):27 si tratta di un Decreto, redatto nel 385-384 a.C., che riconferma la proxenia ereditaria in favore di Archonides. Non si tratta di un primo riconoscimento, ma di una riconferma del legame instaurato ai tempi della spedizione ateniese in Sicilia, per cui si deduce che debba esistere un primo Decreto, evidentemente andato perduto o non ancora rintracciato, che assegnava già la proxenia ad Herbita. Si è discusso del valore politico del Decreto di inizio IV secolo, con il quale si volevano mantenere solidi rapporti con l'elemento siculo della Sicilia in funzione antisiracusana. La datazione al secondo decennio del IV secolo a.C. suggerisce come Herbita avesse un ruolo di prim’ordine nel quadro politico isolano anche dopo le note vicende della Guerra tra Atene e Siracusa e dopo il trattato di pace tra le due città, con Herbita centro di riferimento dell’etnia sicula. Si delinea, in questo modo, il ruolo di 27

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Ampolo, Parra 2001 Cicerone, In Verrem 2.156 (Halaesa, Catina, Tyndaris, Henna, Herbita, Agyrium, Netum, Segesta (dixerunt Halaesini…); 3.47 (Herbita, Henna, Morgantina, Assoros, Imachara, Agyrium , Aetna, Leontini(ager); 3.74 e segg.: (Agyrium e Herbita (Apronius); 3.120 e segg. (Leontini, Mutyca, Herbita, Agyrium (ager); 3.172-173 (Halaesa, Therme, Coephaledium, Amestratus, Tyndaris, Herbita, Halaesa (rifiuto del grano da parte di Verre); 4.114 (Centuripae, Agyrium, Catina, Aetna, Herbita (audistis); 5.86 e segg. (Segesta, Tyndaris, Herbita, Heraclea, Apollonia, Aluntium (navi presso Pachynum); 5.133 (Netum, Amestratus, Herbita, Henna, Agyrium, Tyndaris (spedizione navale).

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Culasso Castaldi 1995, 2003

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Prima di Kalè Akté Ravennate), non è mai stato individuato con certezza. Sono stati proposti, al riguardo, Monte Alburchia presso Gangi, Monte Altesina presso Nicosia e Nicosia stessa, tutti alle spalle dei Nebrodi. Questi siti vantano un’occupazione già nel VI secolo a.C., con una lunga fase di vita che si protrae fino al tardoantico e oltre. Purtroppo essi sono stati oggetto solo di limitate indagini, che non hanno aggiunto nulla alla questione. Un indirizzamento nell’identificazione di Herbita con Alburchia è stato dato dal rinvenimento, non meglio precisato nelle modalità e nell’esatta localizzazione, di monete di Herbita30 nei pressi di Gangi. I rinvenimenti, principalmente dalle necropoli poste sui fianchi dei questa altura, comprendenti materiali sia di produzione greca che indigena, talvolta di un certo pregio, e monete di diversa provenienza,31 renderebbero plausibile l’identificazione della città sull’Alburchia con Herbita, suggerita anche dalla lettura delle fonti, che posizionano questo centro in una fascia a cavallo tra il versante meridionale dei Nebrodi e le Madonie. Un aiuto all’individuazione del sito di Herbita potrebbe provenire, in particolare, dalla lettura di Tolomeo, che riporta le coordinate delle città così come le rilevò alla sua epoca. La trascrizione su una mappa di questi riferimenti appare molto interessante, ma va “interpretata”, a causa di erronee rilevazioni che determinano evidenti distorsioni nella carta geografica. In particolare, il rilevamento delle coordinate dell’area settentrionale della Sicilia, montuosa, ha determinato una traslazione verso nord e verso occidente dei siti di molte città. Tuttavia, se si tiene conto di questo spostamento, si possono ricavare dati importanti: Herbita è posizionata alle spalle di Cephaloedium, più esattamente tra questa e Halaesa; correggendo la distorsione, dovrebbe collocarsi a nord-ovest di Assoros e tra questa e Amestratos; allo stesso modo, tra l’altro, un’altra città nota dalle fonti ma ancora non identificata sul terreno, Imachara, sembrerebbe occupare la posizione della moderna Troina32 o piuttosto di Cerami,33 poco distante: entrambi i siti hanno restituito evidenze a partire solo dalla metà del IV secolo a.C. Tuttavia si deve ritenere, a parere di chi scrive, che il sito di questa città dovesse ricadere in un’area più prossima al Tirreno rispetto a quanto si è finora ipotizzato. Ciò non solo in considerazione della distanza che intercorreva con le due subcolonie di Kalè Akté e Halaisa, effettivamente troppo distanti e non facilmente controllabili dalle alture internate dell’Alburchia e di Nicosia, ma anche dell’efficacia nell’evitare l’avanzata di potenti città greche come Siracusa e Akragas verso la costa siciliana settentrionale, sicuramente maggiore da un sito più prossimo al Tirreno e alle città da difendere. Pertanto, volendo dare un

contributo alla questione dell’identificazione di Herbita, si propone di cercarla in uno dei pianori sommitali di alture ben difese, numerose nella fascia compresa tra Nebrodi e Madonie, con agevole e più immediato contatto con il pedemonte tirrenico, magari nel sito non ancora sistematicamente indagato di Timpa del Grillo di cui si è fatto cenno prima. Il contatto tra questo o altri siti d’altura di quest’area con la costa tirrenica era senz’altro agevolato dall’esistenza di percorsi naturali che sfruttavano le profonde vallate fluviali (fiumare di Pollina, di Tusa e di S. Stefano) e gli avvallamenti trasversali interni, lungo trazzere in uso fino ad epoca moderna. Al confine tra i territori di Caronia e S. Stefano di Camastra è stato recentemente identificato un abitato indigeno ellenizzato, principalmente attestato da rinvenimenti di tipo funerario.34 Il sito di contrada Arìa (Pizzo Governatore) è localizzato su uno stretto crinale proteso in senso nord-sud, ad un’altezza di circa 750 metri. L’intera altura, fin quasi alla costa, per tutta l’antichità apparve adatta ad un’occupazione stabile, come dimostra l’esistenza diffusa di resti di frequentazione fino ad età imperiale avanzata (c.da Contura, soprastante la frazione di Canneto di Caronia). Sulla sommità del crinale, l’insediamento tardoarcaicoclassico occupava la parte meridionale rispetto alla necropoli, dove la collina si allarga, purtroppo oggi poco indagabile per la presenza del bosco che ha ripreso il sopravvento su aree un tempo abitate e per l’esecuzione di lavori di sbancamento agricolo. Qui si segnalano resti di murature in crollo, realizzate con pietra locale e mattoni crudi, con presenza di ceramiche frammentarie sia figuline che d’impasto e di pithoi, ma si ignora l’esatta estensione ed organizzazione dell’abitato, che doveva essere comunque di modeste dimensioni. Nella parte nord, su terreni fortemente erosi da fenomeni naturali, sono affiorati contesti tombali relativi ad un gruppo di sepolture di cui non è possibile ricostruire l’esatta tipologia.35 I materiali recuperati fortuitamente da privati comprendono forme di tipo sia indigeno che greco. Di un certo interesse, tra gli altri, è un bacino in ceramica grezza con presa laterale a U capovolta, usato come cinerario, che richiama modelli di tradizione preistorica ma che, per associazione a ceramiche greche precisamente databili, si daterebbe non prima della fine del VI secolo a.C. I vasi di produzione indigena sono rappresentati, tra gli altri, da un cratere a colonnette e un’hydria, entrambi a decorazione geometrica, da una seconda hydria in ceramica grezza, da alcune oinochoai trilobate e da paterette acrome. Le ceramiche greche comprendono diverse forme, inquadrabili tutte tra l’inizio del V e l’inizio del IV secolo a.C.: skyphoi, lekythoi, kylikes, coppette, lucerne, ecc.. Di un certo pregio un alabastron in pasta vitrea policroma (disperso). Unico oggetto decorato è una piccola lekythos a figure rosse frammentaria databile nella seconda metà del V secolo a.C. In metallo è una catenina bronzea.

30 Si conoscono due sole emissioni monetali di Herbita, entrambe in bronzo e datate intorno alla metà del IV secolo a.C.: testa femminile con legenda ERBITAION ed efebo, e testa di Apollo e ancora la figura dell’efebo. Appare un’anomalia il fatto che una città così potente come doveva essere Herbita già nel V secolo a.C. non abbia emesso moneta prima dell’epoca altoellenistica. 31 Numerosi materiali da Alburchia, sostanzialmente inediti, sono esposti presso il Museo Civico di Gangi 32 Militello 1961; Scibona 1980 33 Scibona 1987b

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Alfieri, Collura 2012; Tigano 2012 Le informazioni date dallo scopritore fanno presumere l’esistenza solo di fosse terragne delimitate da blocchetti di pietra 35

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 11-17. Contrada Arìa, al confine tra gli odierni territori di Caronia e S. Stefano di Camastra. In alto, il crinale visto da sud. A seguire, materiali dall’area di necropoli (fine VI-V secolo a.C.): hydria indigena a decorazione geometrica; cratere indigeno a colonnette a decorazione geometrica; bottiglia a vernice rossa di produzione coloniale; kylix attica; lekythos a figure rosse; lucerna a vernice nera (foto 11-14 di V. Alfieri)

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Prima di Kalè Akté oltre, quantomeno a livello di rapporti commerciali, percorrendo i passaggi tra alture che mettono in collegamento la costa tirrenica con l’entroterra. Dell’insediamento di Pizzo Cilona,37 circa 3 km a sud dell’odierna Caronia, parleremo diffusamente più avanti.38 Segnaliamo per il momento l’esistenza di un abitato che occupava i pendii di un’altura naturalmente difesa, in vita probabilmente dalla fine del VI sino alla prima metà del IV secolo a.C. Qui sono stati individuati i resti di piccole abitazioni addossate alle pareti rocciose, appositamente intagliate, con muri perimetrali in pietra e mattoni crudi e coperture quasi esclusivamente in materiale deperibile. In cima all’altura si trova un edificio rettangolare (8 x 4 metri), l’unico – pare – a possedere una copertura in tegole, la cui ubicazione, assieme ai resti di ossa semicombuste e ceramiche stratificate a pochi metri di distanza, fa ritenere di uso cultuale. Di particolare interesse è la presenza di una struttura fortificata, seguibile per oltre 50 metri, ma che in origine doveva cingere l’intero abitato, realizzata in opera pseudo-isodoma; una porta, realizzata sfruttando in parte gli affioramenti rocciosi, è stata individuata ad est, nella sola area accessibile attraverso una sorta di terrapieno. La datazione della fortificazione si collocherebbe nel corso del V secolo a.C. anche in relazione ai materiali presenti nel sito, che si situano principalmente nel corso di quel secolo. Anche qui si è osservata la coesistenza di ceramiche di tipo tradizionale, modellate a mano, con manufatti di produzione coloniale, alcuni sicuramente pervenuti da Himera. L’occupazione dell’altura di Cilona rispondeva a importanti esigenze strategiche: dalla cima si ha una visuale diretta sia verso la collina di Caronia, sia verso la vallata fluviale, il sistema collinare a occidente di questa e il mare. La posizione dell’insediamento fortificato suggerisce una sua creazione da parte di qualche importante centro siculo con la necessità di un controllo sistematico del territorio e, ovviamente, il riferimento più diretto è a Herbita, che potrebbe averlo sfruttato come postazione intermedia all’epoca in cui collaborava alla fondazione di Kalè Akté. Se esistente già nel VI secolo a.C., ipotesi che sembra poco probabile, Pizzo Cilona ospitò un insediamento indigeno che entrò in contatto con il mondo coloniale non prima dell’inizio del V secolo a.C.: non si sono rinvenuti, infatti, materiali greci antecedenti quella fase. Tuttavia, la presenza, ormai accertata, di un insediamento coloniale greco a Marina di Caronia, distante pochi chilometri da Cilona e in vita almeno dalla fine del VII secolo a.C., renderebbe poco plausibile l’assenza di contatti tra i due siti per un’epoca antecedente la prima metà del V secolo a.C, entro la quale, come detto, si datano i materiali greci più antichi rinvenuti nel Pizzo. Pertanto si ritiene che l’abitato indigeno-ellenizzato possa in realtà essere stato creato non prima di quella fase e che le diffuse ceramiche d’impasto qui presenti appartengano ad un’epoca piuttosto recente, confermando l’attardamento culturale degli insediamenti gravitanti in questo settore dell’isola.

Figg. 18-19a-b. Contrada Arìa. In alto, bacino emisferico in ceramica d’impasto con presa semilunata usato come cinerario (foto di V. Alfieri). In basso, moneta in argento di Naxos (460450 a.C.)

L’insediamento di contrada Arìa, la cui estensione è per il momento solo ipotizzabile in base all’area di dispersione dei materiali, di affioramenti di strutture e della stessa conformazione dell’altura, presenta dimensioni standard per gli abitati siculi finora noti in queste contrade: grandi 1-2 ettari al massimo, posti su rilievi fortemente acclivi separati da profondi valloni ma di frequente con buona intervisibilità. Le loro dimensioni non si discostano molto da quelle degli insediamenti pre e protostorici da cui spesso derivano. Di notevole interesse il ritrovamento sporadico, nell’area compresa tra l’abitato e la necropoli, di una moneta in argento di Naxos della nota serie con testa di Dioniso e Sileno accovacciato, databile intorno alla metà del V secolo a.C., che apre nuovi orizzonti nel filone di studi sulle modalità di contatto tra indigeni e Greci in questo settore della Sicilia. Il rinvenimento della moneta di Naxos, unico finora noto in tutto questo settore della Sicilia, potrebbe essere indizio di contatti per via interna tra l’area greca etnea-ionica e queste contrade, ipotizzabili fin da epoche remote in base a strette similitudini nelle ceramiche di fase preistorica, come accennavamo prima.36 Può darsi che la penetrazione di Naxos, finora accertata lungo la vallata dell’Alcantara (abitati di Francavilla di Sicilia e Randazzo) si sia spinta 36

Strette affinità tra i materiali ceramici affiorati dallo sbancamento in c.da Fiumara e quelli rinvenuti negli insediamenti preistorici di Poggio dell’Aquila e predio Garofalo (Adrano)

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Scibona 1987 Approfondimenti: Il phrourion di Pizzo Cilona

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 20-27. Contrada L’Urmo (Caronia). Resti dell’insediamento tardoarcaico-classico con strutture murarie superstiti affioranti, pertinenti ad abitazioni poste sulla sommità e sul fianco occidentale del crinale montuoso

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Prima di Kalè Akté Con la fondazione di Kalé Akté pochi chilometri a nord, l’insediamento di Pizzo Cilona dovette entrare subito nell’area di controllo della nuova città, trasformandosi in phrourion probabilmente condiviso dalla stessa Kalè Akté e da Herbita. L’abbandono del sito entro la prima metà del IV secolo a.C. potrebbe essere legata a nuove strategie di controllo del territorio da parte della stessa Kalè Aktè, che dopo oltre un cinquantennio dalla fondazione controllava stabilmente parte dell’entroterra a margine della media vallata del fiume. In contrada L’Urmo, in cima ad uno dei crinali che si susseguono tra l’odierna Caronia ed il confine con il territorio di S. Stefano di Camastra, è stato scoperto da chi scrive un altro insediamento la cui cronologia appare problematica in considerazione della quasi totale assenza di materiali chiaramente inquadrabili ad una fase storica precisa.39 Le ceramiche presenti, infatti, per forme e caratteristiche materiali, si possono ricondurre a modelli che riportano fino all’Età del Ferro, ma i resti di strutture abitative di tipo “avanzato”, che si sono eccezionalmente conservate nonostante la forte erosione dei terreni, suggeriscono una datazione che non dovrebbe risalire oltre la fine del VI secolo a.C. o anche dopo. Sulla cima e lungo il ripido pendio occidentale dell’altura si conservano infatti numerose strutture con muri lineari e a più ambienti, realizzati in pietra e mattoni crudi. Nella parte più elevata affiorano dal terreno i resti di un edificio di un certo impegno, comprendente diversi ambienti posti su livelli successivi, mentre su un poggetto avanzato verso sud se ne individuano altri la cui posizione le fa riferire probabilmente a funzioni difensive. Sono numerose le unità abitative che si susseguono in cima e sul pendio ovest, apparentemente separate da spazi di disimpegno ma organizzate secondo uno schema regolare. Le case avevano tetti in materiale deperibile (elementi vegetali e argilla), come si deduce dalla totale assenza di tegole, e disponevano ognuna di almeno due ambienti. I materiali associati comprendono quasi esclusivamente frammenti di grandi contenitori ansati e pithoi, le cui argille sono grezze, ricche di inclusi di pietrisco locale, non facilmente databili. A produzioni greche possono riferirsi solo radi frammenti non diagnostici di ceramiche acrome, mentre è totalmente assente la ceramica a vernice nera. Un contenitore di piccole dimensioni presentava grappe di piombo con cui fu riparato in antico. L’insediamento di contrada L’Urmo sembra essere stato distrutto da un incendio, di cui si osservano ampie testimonianze nelle aree di bruciato su cui sono collassati gli alzati di mattoni crudi. Particolari circostanze naturali hanno consentito l’affioramento dei resti, comprendenti murature ancora integre e ampi nuclei di mattoni crudi in disfacimento a cui si associano sempre le tipologie ceramiche descritte. Una datazione di questo abitato, immerso nel fitto bosco che ancora oggi contraddistingue l’area, può essere per il momento assegnata dalla fine del VI alla prima metà del IV secolo a.C.

Poco a nord della contrada L’Urmo, in contrada Coste Portale, sulla parte avanzata di una collina allungata in senso SO-NE che sovrasta la piana ad ovest del fiume Caronia, sono stati osservati frammenti di ceramiche a vernice nera e acrome databili quantomeno ad epoca altoellenistica, assieme a scarsi resti di strutture murarie. La posizione di un modesto insediamento in questo sito sarebbe giustificata non solo dalla posizione strategica a controllo della costa, ma anche dalla possibilità di sfruttamento agricolo dei pianori in cima alla serie di alture che si sviluppano in quest’area. Abbiamo parlato degli insediamenti finora noti in area nebroidea già esistenti prima della nascita di Kalè Akté come polis tramandata dalle fonti, fissando la data del 446 a.C. riportata da Diodoro Siculo 12.8 e 12.29 come spartiacque ideale sull’argomento. In realtà, il sito di Caronia risulta frequentato ed occupato molto tempo prima da genti greche, come suggeriscono i rinvenimenti di materiali databili già dalla fine del VII secolo a.C. a Marina di Caronia A parere di chi scrive, la constatazione recentemente acquisita presenta importanti implicazioni per la puntuale ricostruzione della storia di una parte dell’isola finora rimasta poco conosciuta per una serie di circostanze, prima tra tutte la mancanza di indagini sistematiche che sarebbero state stimolate da un approfondimento dei pochi dati letterari e da una maggiore considerazione delle caratteristiche geografiche di quest’area in riferimento all’ubicazione delle uniche colonie greche ricordate dalle fonti, poste ai due estremi, ovvero Mylai e Himera. Una presenza greca già alla fine del VII secolo a.C. è attestata a Caronia, presso la costa, da ritrovamenti di materiali, molti dei quali qui pubblicati per la prima volta.40 Materiali greci databili tra la fine del VII e la prima metà del V secolo a.C. (tra cui finora editi una statuina fittile in stile dedalico41 e frammenti di coppe di produzione imerese tipo Iato K480 e di ceramica attica),42 provano che il sito era frequentato ben prima della tradizionale data di fondazione di Kalé Akté nota da Diodoro. Avremmo quindi la necessità di ipotizzare l’esistenza di un insediamento propriamente greco, ubicato ad ovest del torrente S. Anna, oggi coperto, che scende lungo il quartiere della Nunziatella, e della relativa necropoli ad est di esso, area quest’ultima a lungo utilizzata per sepolture, come dimostrano i ritrovamenti di tombe ellenistiche poco più a est da parte di Scibona.43 Materiali riferibili alla prima metà del V secolo a.C. sono venuti in luce poco più a sud, nell’area della Stazione Ferroviaria, dove sulla parete scavata per il tracciamento della strada si osserva una stratificazione di tegole e di pietre in crollo tra cui sono compresi frammenti di ceramiche databili a quella fase e di anfore pseudo-chiote e corinzie B. Quest’ultimo rinvenimento, confrontato con quello di c.da Pantano e con le osservazioni di Scibona che aveva osservato sul piano di campagna della vasta proprietà Di Noto, a sud-ovest del Pantano, ceramiche

40 A seguire, Approfondimenti: F. Collura, Ceramiche arcaiche e classiche… 41 Bonanno 2008 42 Lindhagen 2006 43 Scibona 1987, p. 11

39 Si veda una relazione preliminare sulla scoperta pubblicata come preprint: F. Collura, Su un abitato tardo-arcaico recentemente individuato nell'entroterra di Caronia (Sicilia, Me). 2013

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia “almeno di IV sec. a.C.”,44 consente di ipotizzare l’esistenza di un vero e proprio abitato che le caratteristiche stesse dei materiali ceramici rinvenuti e la localizzazione sulla costa nei pressi di un buon approdo per navi, inducono a qualificare come propriamente greco. Si potrebbe pensare ad un insediamento la cui esistenza era legata proprio alla presenza di un attracco per navi, presumibilmente voluto da Zancle all’epoca in cui fondava Himera o poco dopo. Scopo di questa postazione creata dalla città dello Stretto era da un lato quello di costituire una tappa intermedia nella rotta marittima verso ovest, dall’altro una base per esercitare il commercio con i diversi centri indigeni gravitanti sulle alture retrostanti. Assieme alla statuetta in stile dedalico dai recenti scavi in contrada Pantano, anche alcuni bordi di anfore fenicio-puniche arcaiche recuperati da una discarica di materiale edilizio,45 suggeriscono la prima occupazione del sito almeno dalla fine del VII secolo. Il materiale, sia edito, sia qui pubblicato e proveniente dalla citata discarica,46 diviene numericamente più consistente a partire dall’ultimo terzo del VI secolo a.C.47 per divenire cospicuo nella prima metà del V secolo a.C.48 Questa sequenza suggerisce l’esistenza di un pur modesto abitato già nel corso del VI secolo, che, sulla base della forte presenza, tra gli altri, di anfore commerciali, si può considerare un vero e proprio emporion attivo in età tardoarcaica e altoclassica, suggerendo inoltre che la notizia riportata da Erodoto 6.22 sul fallito tentativo di insediare una colonia da parte dei Samii “a Kalè Akté” non significa che il sito rimase in quell’occasione disabitato o che lo fosse in precedenza. La collina di Caronia, dove nel 446 a.C. venne fondata Kalé Akté ad opera di Ducezio appare frequentata già in precedenza, sebbene sfugga la consistenza di una tale frequentazione. Una fase preistorica, forse riferibile alla fine dell’Età del Bronzo, è attestata dal ritrovamento, sul pendio orientale, di diversi semilavorati e strumenti in ossidiana e selce. Ad epoca probabilmente altoclassica si daterebbero alcuni frammenti di ceramiche grezze modellate a mano, tra cui si segnala una porzione di contenitore con caratteristica presa a U capovolta che trova confronti, nel territorio, con analoghi manufatti da Pizzo Cilona e da c.da Aria, questi databili, come descritto prima, verso la fine del VI secolo a.C. o all’inizio del secolo successivo. Non si sono fino ad oggi rinvenuti frammenti di ceramiche greche sicuramente assegnabili a prima del V secolo a.C. Il sito si presentava attraente per un’occupazione stabile secondo gli standard insediativi delle popolazione indigene di queste contrade, trattandosi di un’altura facilmente difendibile, a quel tempo circondata da un fitto

bosco. E’ ipotizzabile l’esistenza di un modesto abitato precedente la fondazione di Ducezio nella parte più alta del colle, oggi occupata dalla città medievale-moderna, i cui resti non sono in alcun modo rintracciabili e della quale affiorano talvolta sporadiche testimonianze a livello di manufatti mobili. Quella di Ducezio potrebbe essere l’ennesima rifondazione, come per Paliké e Menaion, su un sito già occupato, rientrante nell’area controllata da Herbita, in contatto con l’insediamento greco sulla costa. Si tratta di ipotesi di lavoro al momento suggerite dai modesti ma significativi rinvenimenti, che tuttavia giustificano in qualche modo la scelta del sito per la fondazione siculo-greca di Kalé Akté. La collina di Caronia distava circa un chilometro in linea d’aria dall’abitato greco sulla costa e ne poteva costituire la naturale acropoli nel caso in cui quell’insediamento si fosse evoluto in forma di vera e propria polis. In realtà, se guardiamo la conformazione naturale di quest’area, troviamo una straordinaria somiglianza con quella su cui venne fondata Himera: la piana occupata parzialmente dall’abitato costiero si trova anche qui ai piedi di un altopiano (contrada S. Todaro), alle spalle del quale si erge l’altura di Caronia.49 Sebbene non possiamo esserne sicuri, nell’assenza di precisi riferimenti letterari, l’insediamento di un emporion da parte di Zancle a Marina di Caronia poté essere suggerito dalla similitudine ambientale con il sito prescelto per la fondazione di Himera: entrambi disponevano di un buon approdo marittimo, entrambi sorgevano ai margini di un fiume che facilitava la penetrazione verso l’interno e, nei programmi, entrambi si sarebbero articolati in una città bassa sulla piana e una città alta sul pianoro soprastante. Tuttavia mentre Himera si sviluppò, divenendo una grande città, rappresentante della cultura ellenica in un settore dell’isola ai limiti dell’area d’influenza elimopunica, non sappiamo ancora quale fosse per l’epoca tardoarcaica e classica l’entità dimensionale del nostro insediamento. D’altra parte, lo studio delle colonie greche di Sicilia insegna che, seppure con varianti legate a situazioni contingenti, ogni colonia che creava altrove una propria subcolonia cercava di ripetere nel nuovo sito le esperienze già acquisite nella madrepatria sotto l’aspetto dell’urbanistica, se non proprio nella scelta geografica del sito stesso. Può darsi quindi che nella distante tratta verso la parte più occidentale della Sicilia lungo la costa tirrenica, Zancle avesse creato questo avamposto a metà strada, che non ebbe tuttavia sviluppo sotto l’aspetto demografico. Può darsi anche, come vedremo,50 che il sito abbia effettivamente ricevuto una prima frequentazione negli anni precedenti la stessa fondazione di Himera, come possibile luogo per insediarvi una colonia prima che venisse preferito il sito di quest’ultima. Si tratta anche qui di ipotesi che attendono conferme sostanziali, al momento suggerite dai ritrovamenti di materiali databili solo dalla fine del VII secolo a.C. a Marina di Caronia e dallo stesso passo di Erodoto che riferisce del tentativo non riuscito di

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Scibona 1987, p. 11 Anfore tipo Ramòn T-10.1.2.1 46 Vedi a seguire: Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca lungo la costa tirrenica in età coloniale: fu Kalè Akté un Emporion? 47 Di discreta consistenza la presenza di ceramiche decorate a bande di tradizione ionica e di frammenti corinzi, databili nella seconda metà del VI secolo a.C. 48 Si menziona la presenta di abbondante ceramica attica, anche figurata, nonché di numerosi esemplari di anfore da trasporto di tipo grecooccidentale 45

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La bibliografia su Himera è divenuta negli ultimi decenni molto consistente. Tra gli altri, si vedano: Himera I; Himera II; Vassallo 2005, 2010, 2012 50 A seguire: Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero…

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Prima di Kalè Akté sostenere. Pare quindi di intravedere una sorta di patto, non noto da alcuna fonte storica, che vedeva le colonie greche impegnarsi a non occupare quel territorio, nonostante l’indubbio vantaggio di trovare uno sbocco sul Tirreno ed affacciarsi a nuovi mercati. Sicuramente un ruolo importante giocarono alcune importanti città come la già descritta Herbita ad ovest e Abakainon51 ad est. Ricordiamo, in proposito, i trascorsi di quest’ultima città, sia in senso antisiracusano in favore dei Cartaginesi che in favore della stessa Siracusa: le vicende in cui fu coinvolta in occasione delle guerre intraprese da Dionisio (alleata di Magone, che stabilì le truppe nei suoi pressi), Agatocle e Ierone II (con cui strinse alleanze) fanno intendere che anche dopo l’ellenizzazione di questa parte di Sicilia, Abakainon rimase un luogo di grande importanza (Diod. 14.90, 19.65, 110). D’altra parte, dovette costituire un ostacolo insormontabile all’espansione greca (da parte di ZancleMessana) fino alla presa di mano di Dionisio che le tolse parte del territorio in occasione della fondazione di Tyndaris.

insediare una colonia greca proprio a Kalè Akté all’inizio del V secolo a.C. Il silenzio delle fonti storiche sulle vicende che interessarono questo settore della Sicilia almeno sino alla metà del V secolo a.C., e in generale sugli innumerevoli centri indigeni che non presero parte agli eventi di stretto coinvolgimento delle colonie greche, ha sottratto alla conoscenza un’importante fetta di storia dell’isola, che solo le ricerche archeologiche possono ricostruire senza tuttavia dipanare dubbi e incertezze sui reali accadimenti. D’altra parte, in Sicilia sconosciamo ancora i nomi di moltissime città portate in luce dagli scavi e, viceversa, abbiamo una serie di nomi di centri non greci noti dalle fonti che non hanno ancora trovato corrispondenza sul terreno. Non sappiamo neanche quali siano stati realmente i rapporti tra le popolazioni indigene ed i Greci che si stanziarono lungo le coste e gradualmente penetrarono verso l’entroterra. Il settore geografico di cui parliamo rimane totalmente dimenticato nei resoconti degli scrittori antichi e solo dall’età ellenistica se ne fa menzione, ma sempre con fugaci accenni che non consentono di cogliere realmente la vita delle città che vi gravitavano. Questa parte dell’isola ha storicamente rivestito una funzione periferica nelle vicende che hanno interessato la Sicilia, una perifericità che sostanzialmente si è mantenuta fino ai giorni nostri. Peculiari caratteri geomorfologici hanno impedito ai centri che vi insistevano di raggiungere grandi dimensioni, allora come oggi. Le stesse caratteristiche ambientali hanno peraltro favorito la nascita e sopravvivenza di piccole entità autonome, sorte su siti d’altura generalmente con un’economia di sussistenza, più che proiettate verso il mare ed i commerci transmarini. Prima della fase della colonizzazione greca di VIII-VII secolo a.C. non si hanno prove di contatti, ad esempio, con il mondo miceneo, ben attestati ad esempio a Lipari e nella Sicilia orientale, né con quello fenicio e neppure con il mondo etrusco, che pure intraprese contatti con buona parte dei siti costieri del Tirreno. Dopo la principale fase di colonizzazione della seconda metà dell’VIII secolo a.C., bisogna aspettare la seconda metà del secolo successivo per immaginare una presenza greca di qualche tipo in quest’area, della quale abbiamo prove certe e diffuse solo per il VI secolo. Se esaminiamo gli eventi che interessarono altri settori della Sicilia, tralasciando quello occidentale tradizionalmente sede di popolazioni autoctone (Elimi, Sicani) e di empori fenici, vediamo che già pochi decenni dopo l’insediamento delle colonie greche sulla costa ionica e in quella del Canale di Sicilia vi fu una graduale penetrazione verso l’interno, ben attestata dall’abbondante rinvenimento di materiali greci in siti indigeni della parte centrale dell’isola. Le fonti antiche riportano diversi nomi di città sicule e sicane, ma nulla è riferito per il vasto settore montuoso che prospetta sul Tirreno tra Zancle e Himera. Se non esistessero riscontri archeologici, via via sempre più frequenti, saremmo indotti a pensare ad un innaturale e poco verosimile isolamento, che neppure la più disperata e strenua opposizione da parte di una popolazione locale restia ad intrattenere rapporti con l’esterno avrebbe potuto

Fig. 28. Litra d’argento di Abakainon (420-400 a.C.)

Fig. 29. La rocca su cui sorgeva la polis siculo-greca di Halontion, odierna San Marco d’Alunzio, vista da nord (da Piano Grilli)

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La ricchezza e il prestigio di Abakainon (Tripi) in epoca classica è attestata tra l’altro dalla precoce emissione monetale in argento degli ultimi decenni del V secolo a.C., nonché dall’estensione del territorio, deducibile indirettamente dal racconto di Diodoro Siculo sulla fondazione di Tyndaris, che arrivava fino al golfo di patti a ridosso di quello del centro di Gioiosa Guardia, e sul versante meridionale, quasi fino alla valle dell’Alcantara, a contatto con l’area di influenza di Naxos. Esemplari di monete di Abakainon sono note, ad esempio, dagli scavi presso l’abitato naxio di Francavilla di Sicilia. Per Abakainon, vedi: Villard 1954 e, in ultimo, La Torre 2009

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 30-34. Monte Vecchio di San Fratello (Apollonia). Ricerche sul versante occidentale dell’altura, fuori della cittadella ellenistica fortificata: in alto, veduta dell’acropoli e del pianoro sottostante dal ciglio occidentale e strutture abitative di seconda metà IV secolo a.C. fuori dalle mura di fortificazione sul lato di sud-ovest (scavi anni 2000). In basso, resti di mattoni crudi e ceramiche di epoca classica nel settore occidentale del pianoro; ciottolo con lettera E incisa; colonna in fase di estrazione nell’area delle cave sfruttate dall’antichità ad epoca moderna (margine ovest)

Più ad ovest, un altro centro indigeno che esercitò una qualche egemonia almeno nella parte centrale dei Nebrodi è Halontion, odierna San Marco d’Alunzio. Sebbene sia nota principalmente la fase ellenistico-romana di questo centro, si può ipotizzare che si tratti di un insediamento molto antico, con molte similitudini con quello vicino di Monte Scurzi. Ritrovamenti di ceramiche greche almeno di fine VI secolo a.C. ne suggeriscono una graduale ellenizzazione che si completerà solo nella prima età ellenistica. Di Halontion si conosce una precoce emissione monetale databile intorno al 400 a.C. o ai decenni immediatamente successivi (testa di Atena con elmo e polpo), la più antica tra tutte le città della parte centro-occidentale dei Nebrodi, che ne fa presumere un ruolo di una certa importanza e prestigio in questo settore dell’isola. Anche in questo caso mancano del tutto i riferimenti letterari alle vicende che interessarono il centro prima dei cenni contenuti in Cicerone. Rimane infine da rivedere il ruolo di Apollonia (Monte Vecchio di San Fratello) in epoca greca classica. Si tratta della città greca più prossima a Kalè Akté, il cui territorio si estendeva oltre l’odierno torrente Furiano verso est. Il più antico riferimento scritto a questo centro risale all’azione di Timoleonte (342 a.C.) che lo sottrasse alla tirannia di Leptines assieme alla città di Engyon.52

Gli scavi archeologici condotti negli anni 200053 in cima al massiccio roccioso hanno interessato l’area sommitale cinta dalle fortificazioni tardo ellenistiche, occupata da un modesto abitato di impianto ortogonale di cui si sono portati in luce resti databili dalla fine del IV secolo a.C. ai primi decenni del I secolo d.C. La ricognizione eseguita sull’ampio pianoro che si sviluppa a nord di questa acropoli naturale ha tuttavia evidenziato una più ampia estensione della città, in particolare lungo il margine occidentale del Monte, peraltro sfruttato per cave di pietra dall’antichità fino ad epoca moderna. In questo settore sopravvivono resti murari e si osservano diffusamente materiali ceramici databili a partire almeno dall’inizio del IV secolo a.C., mentre sono riferibili a probabili fattorie le ceramiche di fase tardo ellenistica e romana presenti in diversi punti dell’estesa spianata sommitale. Eventi al momento non definibili determinarono una contrazione dell’abitato alla sola area più elevata probabilmente nel corso del III secolo a.C., mentre la maggior parte delle strutture portate in luce si inquadra verso la fine dell’età ellenistica. E’ escluso, per il momento, in mancanza di riscontri materiali non acquisiti dalle ricognizioni, una fase indigena e comunque un’occupazione del sito prima della fine del V secolo a.C. In realtà, i materiali di superficie suggeriscono un’occupazione anche dell’acropoli fortificata almeno già

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53

Diodoro Siculo, 16.72.2

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Bonanno 2009

Prima di Kalè Akté a metà del IV secolo a.C. non evidenziata dagli scavi, mentre meriterebbe maggiore approfondimento, tra gli altri, un’area sacra parzialmente all’aperto, di cui oggi rimangono incavi nella roccia e resti di scalinate monumentali, posta immediatamente a sud di una profonda cisterna rettangolare (pubblica?) e a margine di quella che doveva essere l’agorà nel sito in cui sorge oggi la medievale Chiesa dei Tre Santi. Il nome stesso Apollonia, evidente riferimento alla divinità greca, indurrebbe a ritenere che si tratti di una città di fondazione greca, ma a parere personale, anche in considerazione della morfologia dei luoghi, esso farebbe piuttosto pensare ad un altro caso di fondazione mista siculo-greca, tipicamente d’altura, piuttosto tarda (seconda metà o fine V secolo a.C.) non riportata dalle fonti. Il sito si trovava a metà strada tra le aree di controllo delle importanti città sicule di Herbita e Halontion e, come detto, piuttosto vicina a Kalè Akté. La circostanza per cui ebbe lo stesso tiranno di Engyon,54 da ricercare immediatamente a sud della catena nebroidea (Troina, territorio di Nicosia?), rende stimolante una ricerca finalizzata a definire motivazioni, modalità di popolamento e cronologia della fondazione di una polis in un luogo altamente strategico quale è Monte Vecchio. A dispetto della mancanza di riferimenti letterari sull’occupazione umana dell’area dei Monti Nebrodi in epoca arcaica e classica, una serie di rinvenimenti e scoperte più o meno fortuite consente oggi di dire che questo settore dell’isola fu densamente e ininterrottamente occupato dalla preistoria all’epoca, piuttosto tarda, in cui compaiono nella storia i nomi di alcuni centri che, in ogni caso, non hanno mai ricevuto né in passato, da parte degli scrittori antichi, né in età moderna da parte degli studiosi, adeguata considerazione. Certamente le caratteristiche fisiche del territorio imposero allora l’adozione di peculiari modelli abitativi (insediamenti di modeste dimensioni collocati su alture naturalmente difese e relativamente isolati per la presenza di un fitto bosco e di ostacoli naturali quali i profondi valloni che caratterizzano il versante settentrionale della catena montuosa) ed un certo isolamento rispetto al resto dell’isola, dove i processi di acculturazione greca furono più precoci e marcati. Si ritiene non vada trascurata la possibilità che postazioni coloniali intermedie, come quella della Kalè Akté arcaica, esistessero nell’ampio tratto di costa tirrenica che si sviluppava fino all’area di controllo fenicio-punica, a cui margini sorse la colonia di Himera. E’ attraverso di esse che si dovevano svolgere commerci e contatti di vario tipo con le popolazioni indigene, che tuttavia qui appaiono meno permeabili agli influssi culturali coloniali, tanto che fino ad una fase molto tarda, che possiamo collocare ancora all’inizio del IV secolo a.C., perpetuarono usi e tradizioni tipicamente anellenici, di derivazione protostorica. D’altra parte, eventuali emporia o phrouria greci insediati sulla costa dovettero avere un limitato impatto sul territorio in termini di chora coloniale, essendo stati creati esclusivamente come punti di appoggio e riferimento

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geografico, in modo da evitare conflitti con gli insediamenti siculi retrostanti. Appare peculiare, rispetto ad altre parti dell’isola, la densità abitativa in termini di numero di insediamenti e questo non solo per l’età ellenistica, per la quale disponiamo di documentazione letteraria e dei nomi di diverse città, ma anche per quella non riportata dalle fonti di epoca arcaica e classica che la ricerca sul terreno va gradualmente rivelando. E’ un fenomeno che si è ripetuto nei secoli, fino all’età medievale e moderna: innumerevoli abitati generalmente di dimensioni modeste hanno occupato sistematicamente le alture collinari soprattutto della fascia altimetrica medio-bassa e, dall’età post-medievale, anche la costa. Si osserva in questo, per l’antichità classica, la bassa incidenza dei criteri di occupazione del territorio tipici delle colonie, che ebbero come primo interesse quello di espandere la propria chora su vaste regioni, escludendo la nascita di città all’interno di esse e determinando, in molti casi, la scomparsa di insediamenti indigeni nel corso dell’età classica o altoellenistica. Qui invece nessuna polis greca ebbe modo di insediare una vera e propria subcolonia in grado di determinare concentrazioni di popolazione all’interno di un’unica, vasta area urbana. Sembra piuttosto confermata la testimonianza tucididea riferita agli insediamenti siculi di un’occupazione sparsa kata komas,55 a cui corrisponderebbe anche una limitata espansione territoriale. Inoltre, alcuni dei siti si propongono allo studio più come phrouria di qualche centro eminente (Herbita, Halontion) che come veri e propri abitati urbanisticamente organizzati. E’ solo da circa un quarantennio che l’ampio territorio montuoso e periferico dei Nebrodi ha finalmente ricevuto ricerche e saggi di scavo che, tuttavia, rimangono in buona parte limitati, incompleti e non adeguatamente pubblicati. Conosciamo da sempre i nomi delle principali città antiche di cui è nota, in ogni caso, sia dalle fonti storiche che, in buona parte, dai pochi scavi scientifici eseguiti, solo la fase ellenistico-romana.56 Un’enorme lacuna ha finora interessato l’epoca arcaica e classica, fino alla metà del IV secolo a.C., offrendo, come conseguenza, una visione relativamente distorta delle modalità di contatto tra Indigeni e Greci su un’area troppo vasta e strategica per non avere visto, d’altra parte, una presenza greca stabile di qualche tipo. La perifericità di cui avevamo parlato in precedenza si è inevitabilmente rispecchiata nello scarso interesse degli studiosi, che a lungo hanno trascurato questo settore dell’isola, già di per sé poco agevole e adatto ad una ricerca sistematica. Probabilmente crea difficoltà anche la stessa interpretazione dei materiali di produzione locale, ai quali viene assegnata una cronologia talvolta discutibile, più alta di quanto sia nella realtà. Occorre un approccio di studio diverso ed un diverso metodo di lettura dei dati, 55

Prestianni Giallombardo 2006, p. 135 Peraltro vale la pena di osservare che alcune di esse sono state identificate con sicurezza solo in tempi molto recenti: Apollonia solo dagli ultimi scavi degli anni 2000 grazie al rinvenimento in situ di alcuni esemplari delle rare monete della zecca locale, mentre resta ancora dubbia l’identificazione di Agathyrnon con l’odierna Capo d’Orlando, per non parlare di Herbita, rimasta fino ad oggi uno dei più grandi misteri dell’archeologia siciliana. 56

Diod. 16.72.6

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia poiché quest’area – si è constatato – è assimilabile solo in parte, nelle attestazioni di cultura materiale e nei tempi e modi di contatto con il mondo coloniale, ad altri settori dell’isola meglio conosciuti e oggetto di studio da lungo tempo. Per concludere, diremo che il quadro che possediamo oggi di questa parte dell’isola è ben più complesso e variegato di quanto le limitate indagini svolte in passato abbiano fin qui proposto. Ritroviamo in epoca arcaica una serie di insediamenti sparsi che sfruttavano in maniera efficiente le molte risorse naturali a disposizione ed erano in grado di autosostenersi, senza la necessità di importare prodotti alimentari o manufatti dai centri coloniali. Piuttosto si potrebbe pensare che fossero questi ultimi che vi si rivolgevano per acquisire preziose materie prime per la metallurgia o le produzioni ceramiche. In alcuni casi, sembrerebbe che i processi di acculturazione ellenica siano stati indotti dalla presenza stabile di gruppi familiari greci che si stabilirono nei centri siculi attratti dalla possibilità di svolgere proficuamente attività commerciali (un esempio in tal senso è proposto dall’abitato di Gioiosa Guardia).57 E’ probabilmente l’arrivo più o meno sporadico di gruppi di Greci che portò novità di vario genere all’interno di comunità fortemente ancorate a principi e consuetudini di lunghissima ascendenza, ad esempio introducendo il modulo lineare al posto di quello curvilineo per gli edifici abitativi, a quanto pare non prima dell’inizio del VI secolo a.C. L’esistenza di un avamposto greco a Kalè Akté almeno dalla fine del VII secolo a.C., creato in modo da evitare conflittualità con i Siculi delle alture retrostanti e attivo solo come punto di sosta per i traffici commerciali, dovette agevolare senz’altro lo scambio culturale tra i due popoli ma non influì in maniera così marcata come sarebbe avvenuto in altre parti della Sicilia, dove si osserva un maggiore impatto culturale sia sotto l’aspetto urbanistico, sia sotto quello religioso e della cultura materiale. Discorso diverso meritano i diversi insediamenti che sembrano nascere in una fase più avanzata, nel VI o all’inizio del V secolo a.C., probabilmente come phrouria di centri siculi più importanti nel tentativo di occupare stabilmente aree più vaste, anche in funzione antiellenica nel momento in cui la spinta di potenti città greche come Siracusa o Akragas mirava all’espansione verso il Tirreno. Sembrerebbero “estensioni” di Herbita, ad esempio, gli abitati individuati nel settore più occidentale dei Nebrodi, compresi quelli ricadenti nel territorio di Caronia, e le stesse poleis di Kalè Akté e Halaisa, che diversamente dagli altri insediamenti esistenti nel V secolo a.C. in queste contrade ebbero continuità di vita e si svilupparono nel corso dell’età ellenistica. Sicuramente l’evolversi ed ampliarsi delle ricerche, da eseguirsi su aree finora del tutto inesplorate, aggiungeranno nuovi dati per una più completa conoscenza delle vicende di questa parte dell’isola, che appare pienamente vitale in una fase antecedente alle prime notizie letterarie in nostro possesso per le città di epoca ellenistico-romana. Rimangono da esaminare numerose alture finora suggerite solo dall’esame della 57

fotografia aerea come possibili siti di insediamenti, ancora oggi isolate e di difficoltoso raggiungimento, in particolare quelle sparse su una vasta area compresa tra Nebrodi e Madonie dove dovrebbero ricadere alcuni importanti centri noti dalle fonti in attesa di essere identificati sul terreno.

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CAP. 3. RICERCHE NELL’AREA URBANA I:

LA CITTÀ COLLINARE

RESEARCH IN URBAN AREA I: THE HILL TOWN Archaeological research on the hill of Caronia has started only recently. The first surveys of the scholar G. Scibona date back to the 1980s, while the first excavations were carried out only in the early 1990s in conjunction with public work. The research, which continued intermittently until the mid-2000s, has focused attention on the remains of the ancient hill town, which has survived continuously for 2,500 years. Unfortunately, research on the hill is difficult because of the superposition of the medieval and modern city over most of the ancient one. The latter, however, developed widely on the east and north slopes of the hill, far beyond the today’s Caronia. The study undertaken by the author, since the early 1990s, has covered both the countryside below the modern town, once an urban area, both the center of medieval-modern Caronia, where it has been identified the persistence of the ancient urban layout and observed the special phenomenon of the re-use of classical era materials in the medieval and modern buildings. Along the slopes, a series of walls of Hellenistic-Roman age have surfaced on several occasions and in different points over the last 20 years as a result of natural phenomena (landslides) or excavation for roads or construction of buildings. An important achievement has been the recognizing, in the arrangement of the discovered ancient structure, of a regular urban layout, Hippodamian-style, very similar to that of the Greek-Roman cities of Solunto and Halaesa, set to some main streets having an orientation adapted to the shape of the hill, i.e. north–south and east–west. The early life phases of the city founded in 446 BC by the Sicel King Ducetius are currently attested by ceramics dating back to the last decades of the fifth century BC, including pottery fragments of colonial and Attic production, as well as of indigenous production. The oldest housing structures have been identified in the area of the “Case Popolari” (north-east part of the hill) and consist of the remains of two rooms dug into the rocky slope with walls built from stone and mud brick, with associated pottery from the late fifth century BC. However most of the identifiable structures and materials on the hill refer to the period following the Roman conquest of Sicily, after the middle of the third century BC. A growth phase of the city was recorded between the second century BC and the first century AD, when were restructured the residential buildings and probably was reorganized the street system, of which some sections currently known are characterized by a floor of pebbles with underground water pipes. From the beginning, Kale Akte included two settlements, one maritime and the other on the hill. The latter was the real political and cultural center of the city throughout the Hellenistic period, although it never reached a large size, in a manner similar to many of the existing hilly towns along the northern part of Sicily. Research has not led to the identification of a city wall, a very rare case in the ancient world: we can assume that only a stretch of fortification walls protected the city from the south, in the most exposed side, while the steep slopes that characterize the hill made unnecessary\ the construction of defensive structures on the east, north and west. Although each investigation on the highest part of the hill is made impossible by the modern urban texture, we suppose that the public area (agora, public buildings and other monuments) was located just north-east of the hilltop, from which certainly comes some inscriptions and other materials of a public type found on the slopes below. The phase of prosperity of Kale Akte in the late Hellenistic age is largely suggested by the materials found, including particular imported productions (Iberian ceramics, Eastern Sigillata, amphorae and other artifacts from Rhodes, Campanian pottery from the Italian Peninsula, etc.) and artifacts locally produced, such as tableware and terracotta figurines, but especially brick and tiles. On the other hand, between the last decades of the third and the beginning of the second century BC, Kale Akte began to mint coin, with five bronze emissions, among which is of particular interest that coined in the likeness of the “new style” drachmas of Athens. The local material culture appears as part of the "koine" shared by all the center of the northern part of Sicily between the late Hellenistic and the early Imperial age. Several evidence demonstrate the abandonment of the hilly town in the second half or at the end of the first century AD. Indeed, we have observed a drastic reduction in the archaeological materials since the end of the first century AD and the pottery (e.g. African red slip ware) from the second century AD is very few. A partial reoccupation of the hill seems to occur only in the Late Imperial age. The housing structures discovered as a result of systematic excavations appear abandoned in the same phase. This phenomenon can be explained in part because of new social and economic trends that favored the towns on the coast, easily connected by land and by sea to other markets, but most likely because of a traumatic event, probably an earthquake, which caused subsidences of the ground on the steep slopes, making unsafe to occupy the hill and inducing the local population to move to the maritime town. In this chapter, the author reviews the results of the excavations carried out in the hilly site over the last three decades and reports the several ancient structures brought to light as a result of natural phenomena or excavations for public or private works, unedited until now. Particular attention is dedicated to the several materials found during the surveys, currently kept in storage of the Superintendence of Messina. They cover a long period of time, from the fifth century BC until the Late Antiquity and, despite their fragmentary state, attest tastes and lifestyles of the local population. A conspicuous group of materials discovered in a modern landfill on the eastern side of the hill probably comes from a cult context. We assume that these artifacts might be pertinent to a

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia sanctuary dedicated to the goddess Demeter and maybe to Hermes, frequented between the fourth and the first century BC. From the landfill come countless Hellenistic cups and dishes, terracotta figurines, decorated disk-shaped loom weights, as well as amphorae, cooking-ware, different types of containers for different uses and also coins. Among the most important finds from the hill, finally, we report a public Greek inscription and a sundial from the second or first century BC, found in the same area from which come a group of decorated stuccos and plasters, perhaps attributable to a rich late Hellenistic house. Both the Greek inscription and the sundial will be discuss in specific chapters in this volume. mura di fortificazione e di alcuni assi stradali ortogonali. Riferisce inoltre del rinvenimento, in situ, di coppe ioniche L’interpretazione dello studioso tuttavia si è rivelata errata e le notizie circa il rinvenimento in quella località di ceramiche arcaiche furono frutto di un equivoco relativo all’esatto sito di rinvenimento.6 In un celebre contributo del 1975 Bernabò Brea7 fa un sommario resoconto dei ritrovamenti archeologici fino ad allora noti a Caronia, proponendo per la prima volta l’identificazione tra la città classica e la collina su cui insiste la moderna cittadina. Menziona il rinvenimento di tombe a sud del paese, suggerendo l’esistenza di una necropoli nella sella che congiunge la collina del centro storico con la dorsale retrostante e soprattutto chiarisce l’area di rinvenimento, nel corso di lavori agricoli, della statua di togato, oggi conservata presso l’Antiquarium di Tindari, non in contrada Cinquegrana, come da molti affermato, ma nel pendio a valle del paese moderno (c.da Telegrafo – c.da S. Anna).

Storia della ricerca archeologica La prima notizia di resti antichi nell’area dell’odierna Caronia risale a T. Fazello,1 il quale nel corso del ‘500 riferiva di avanzi ancora visibili di quella che erroneamente riteneva essere Halaesa “…i cui frammenti e le rovine antiche si vedono in massima parte presso la Chiesa dell’Annunciata intorno alla spiaggia di Caronia e si trovano tutto intorno per oltre due miglia da parte degli aratori dei campi e degli zappatori delle vigne”. L’antichità del centro era tuttavia stata richiamata nel XII già da Edrisi,2 che parla di una fortezza di nuova creazione su un sito già precedentemente occupato (“è rocca antica [anzi] primitiva, presso la quale [è surta] una fortezza nuova”). Degno di nota è il disegno di una statua di marmo ritratta nel ‘700 da Houel a Caronia,3 raffigurante una divinità mostrata a torso nudo e con un drappeggio che la copriva dai fianchi in giù, a suo dire ben conosciuta dagli abitanti del luogo. L’artista trovò la statua, ad altezza naturale, priva di testa e di mani e con il piede sinistro spezzato, scolpita in tre blocchi di marmo, in un edificio – ex scuderia, in mezzo ad altri reperti antichi di Calacte (fig. 1). Secondo Houel, la statua raffigurava Bacco o Apollo. La sua testa, come affermavano gli abitanti locali, non era andata persa; tuttavia non si riuscì a trovarla e non poté esser mostrata al pittore. E’ molto probabile che il casale in cui era conservata la statua, databile per caratteristiche stilistiche al tardo ellenismo, si trovasse sulla collina di Caronia, nella parte non ancora urbanizzata a quell’epoca. Un certo interesse presentano alcune notizie riportate in un manoscritto del 1904 redatto dal parroco locale Don. L. Volpe4, il quale si proponeva di ricostruire la storia di Caronia dalle origini ai suoi giorni. Volpe riferisce notizie di ritrovamenti soprattutto a Marina di Caronia, dove svolgeva la sua attività di parroco, ma fa cenno di scoperte anche a Caronia: “…altre necropoli si trovavano nella via Trappeto. sono trovati in altri scavi monete di oro e di argento, degli anelli, orecchine, collane d'oro, vicino al castello del Duca Pignatelli = Aragona, e pozzetti antichi incrostati di cemento rosso”. Nel 1962 D. Adamesteanu5 riconosce indizi di occupazione del pianoro di Trapesi tramite l’analisi della fotografia aerea, individuando persino il tracciato delle

1

T. Fazello De Rebus Siculis Decades Duae. Palermo 1558 El Edrisi, Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo (Il libro di Ruggero) 3 J.P. Houel, Voyage pittoresque de Sicile, de Malta et de Lipari. Parigi 1785 4 Il manoscritto originale è attualmente di proprietà della famiglia Monterosso di Caronia. Recentemente ne è stata pubblicata un’edizione a cura di G. Cangemi et alii (“Il manoscritto su Caronia del canonico Volpe Costa”). 2012 5 Adamesteanu 1962 2

Fig. 1. Statua ellenistica ritratta da J. Houel a Caronia

6

Comunicazione personale di G. Scibona, che riferiva dell’equivoco rivelatogli da Adamesteanu. 7 Brea 1975, pp. 20-21

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Fig. 2. La collina di Caronia, sito della città greco-romana, vista dalla contrada Fiumara (nord-ovest, SS 113)

Fig. 3 Localizzazione dei saggi di scavo nell’area nord-orientale della collina (contrade Telegrafo – Sotto S. Francesco)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Le prime ricerche sistematiche nel territorio di Caronia furono condotte negli anni ’70-80 del secolo scorso da G. Scibona,8 il quale per la prima volta riconobbe l’esistenza della città antica, o comunque di un suo importante quartiere, sulla collina di Caronia. Nel corso di numerosi sopralluoghi ebbe modo di identificare resti murari affioranti lungo le campagne circostanti la cittadina collinare e di esaminare una grande quantità di materiale archeologico in esse riversatosi, tra cui svariati tipi di ceramiche greco-romane e persino il braccio di una statua femminile marmorea lungo la stradella comunale che scende dalla contrada Telegrafo, che tuttavia lasciò in situ e che oggi risulta dispersa. Contemporaneamente si svolgevano le ricerche dello studioso locale P. Fiore,9 a cui si deve riconoscere la definitiva identificazione dell’antica Calacte con il sito di Caronia, sebbene in maniera forzata ne indichi l’esatto luogo sulla costa, trascurando i rinvenimenti sulla collina. Fiore presenta anche alcuni interessanti materiali, tra cui gli elementi con bollo iscritto di un acquedotto ellenistico in c.da Samperi nell’entroterra, poi riesaminati da Scibona che interpretò correttamente il nesso di lettere contenute nei bolli. Un primo quadro sintetico delle ricerche a Caronia è riportato nel BTCGI 1987 da parte di Scibona, da considerarsi ancora punto di riferimento per lo studio di questo territorio, mentre alcuni interessanti articoli di P. Fiore vengono pubblicati nella rivista Sicilia Archeologica, prima di confluire in una pubblicazione monografica che ricostruisce le vicende di CalacteCaronia dalle origini all’età moderna. I primi saggi di scavo in area urbana si svolgono negli anni ’80 a Caronia Marina, sempre in occasione di lavori pubblici. I primi scavi sulla collina di Caronia si hanno invece nel 1992 in c.da Telegrafo, nella campagna sottostante Palazzo Cangemi. Il progetto della realizzazione di muri di contenimento e del tracciamento di una strada esterna alla cittadina sul versante orientale e settentrionale prevedeva lo sbancamento di una lunga striscia di terreno, intaccato in alcuni punti fino a grande profondità. In c.da Telegrafo furono intercettate strutture antiche che furono sottoposte ad uno scavo regolare nel 1992:10 si trattava di abitazioni poste sul pendio, delimitate a nord da una strada est-ovest con piano in acciottolato e condotta idrica sottostante. La fase abitativa si poneva tra il III secolo a.C. ed il I d.C. L’anno successivo, sempre in occasione della stessa opera pubblica, strutture abitative databili alla medesima epoca furono intercettate anche in c.da sotto S. Francesco, a sud-est della contrada Telegrafo. Fino al 1995 diversi saggi interessarono l’area di cantiere, con la scoperta di muri antichi, cisterne ed il recupero di interessanti materiali, inquadrabili cronologicamente tra il IV secolo a.C. ed il I-II d.C. Queste ricerche, alla cui pubblicazione preliminare si rimanda,11 confermarono l’esistenza di un abitato sulla collina, con caseggiati disposti su terrazze

realizzate attraverso opere di contenimento. Non furono tuttavia identificati materiali che confermassero la data di fondazione di Kalè Akté ad opera di Ducezio nel 446 a.C. Nel 1999 un progetto di scavo della Soprintendenza di Messina coinvolse l’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, per conto del quale intervennero gli archeologi K. Goransson e A. Lindagen. L’occasione fu la messa in luce di strutture antiche a seguito della realizzazione di un parcheggio privato in c.da Sotto S. Francesco, a pochi metri di distanza dall’area di scavo del 1993-95, e la segnalazione di resti antichi in c.da Pantano a Marina. In entrambi i siti furono aperte trincee di scavo ed una sistematica attività di ricerca interessò sia la collina, sia la piana costiera al fine di ricostruire a grandi linee le vicende della città antica. Lo scavo in c.da sotto S. Francesco portò alla messa in luce di una cisterna di IV secolo a.C. cui si sovrapponeva una struttura muraria più tarda realizzata in bella tecnica di pietre sbozzate e mattonacci. Il saggio in c.da Pantano, invece, mise in luce un caseggiato con portico esterno e parte di un thermopolium. I dettagli di queste ricerche sono confluiti in una pubblicazione di A. Lindhagen12 che faceva seguito al report dei responsabili degli scavi del 2002.13 Di seguito, ai fini di un primo inquadramento delle evidenze archeologiche indagate in maniera scientifica, viene riportato un resoconto dei tre principali scavi eseguiti in collina, tutti nel settore nord-est di questa, preliminarmente editi in riviste scientifiche, soffermandoci soprattutto su quello condotto in contrada Telegrafo, poco a nord-ovest di Palazzo Cangemi, il più completo ed esteso tra quelli fin qui operati e, riteniamo, il più ricco di spunti di studio ai fini della conoscenza dell’organizzazione urbana della città ellenistica. Scavo 1992 in c.da Telegrafo Gli scavi archeologici eseguiti in c.da Telegrafo nel 1992 sono stati i primi ad essere eseguiti in collina, dopo che fino ad allora si erano avute esclusivamente ricerche di superficie condotte e parzialmente edite da Scibona.14 In verità, si trattò di un rinvenimento fortuito e non programmato. L’occasione fu in quel caso la realizzazione di un’opera di contenimento del pendio sottostante il quartiere settentrionale del paese ed il contemporaneo tracciamento di una strada che corresse esternamente alle case, congiungendo la contrada Canale con la parte meridionale della cittadina (c.da Croce), opera, quest’ultima, realizzata solo in parte, sul versante orientale, dove oggi si trova la strada circonvallazione che conduce da piazza Padre Pio a Piazza S. Francesco. Lo sbancamento necessario all’innalzamento di un possente muro in cemento armato provocò la messa in luce di strutture antiche, che determinarono l’intervento della Soprintendenza di Messina.

8

Scibona 1987, 1971, 1978 Le ricerche di P. Fiore, dopo alcuni articoli pubblicati nella rivista Sicilia Archeologica, confluirono nel volume Ducezio Calacte Caronia (1991) 10 Vedi appresso in questo capitolo 11 Bonanno 1997-1998 9

12

Lindhagen 2006 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 14 Scibona 1987 13

72

Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Fig. 5. Saggio 1 – Settore 2. Muro nord-sud e area di crollo sul margine orientale dell’area di scavo messo inizialmente in luce dai lavori di sbancamento (da Bonanno 1993-1994)

Fig. 4 Veduta da est della trincea di scavo (Saggio 1 - Settore 1) con in primo piano il lungo Muro 1 che prospetta (a destra nell’immagine) su una strada acciottolata con canaletta (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

Nel mese di gennaio 1992,15 nel corso di lavori sulla strada vicinale Telegrafo eseguiti da un cantiere regionale, affiorarono alcune strutture murarie. In questa zona era nota la presenza, sul terreno, di abbondanti materiali di epoca ellenistico-romana, già descritti negli anni ’70 da G. Scibona.16 Per alcuni mesi, nel tratto del tracciato della stradella, per una lunghezza di circa 90 metri, furono realizzati tre saggi di scavo. Un primo saggio fu eseguito a circa 57 metri in direzione nordovest dall’inizio della strada, che scende con forte pendio da est a ovest, dove lo sbancamento aveva evidenziato un’estesa area di crollo (pietre sbozzate, mattoni e tegole) e, in alcuni punti, resti di strutture murarie affioranti in parete. Il saggio, suddiviso in due settori, si estendeva su un’area di circa 80 mq. (20 x 3,50 m. suddivisa in due sezioni di uguale dimensione). A causa del pendio accentuato, il materiale archeologico e i numerosi frammenti di ceramica che si trovavano negli strati più superficiali non potevano essere associati alle strutture murarie localizzate, provenendo invece dall’alto a seguito di frane e dilavamenti, per cui solo i materiali trovati nei livelli più profondi potevano essere considerati indicativi per la datazione delle strutture stesse. Lo strato archeologico si raggiunse ad una profondità di circa 1,70 m. dal piano di campagna ed è stato seguito fino alla profondità di 3 metri. I materiali degli strati superficiali, sebbene misti a elementi moderni, contenevano ceramiche a vernice nera databili a partire dal IV secolo a.C. ed alcune monete: una di Kalè Akté (Testa di Hermes/Caduceo), una di Siracusa (Testa di Atena/Ippocampo, inizio IV secolo a.C.) e due della zecca di Tauromenion databili, rispettivamente, alla fine del IV e alla fine del III secolo a.C.17

In verità, i saggi eseguiti a cura di quest’ultima rimasero limitati, poiché la necessità di completare la struttura da parte dell’Amministrazione comunale portò ad una troppo rapida conclusione delle ricerche. Peraltro, mentre scavi sistematici furono condotti, per un paio di mesi, sul versante nord-est, sotto Palazzo Cangemi, resti murari e abbondanti materiali furono incontrati dalle ruspe lungo tutto il percorso dello sbancamento, con conseguente perdita di preziose informazioni circa lo sviluppo della città classica sui versanti nord-ovest e ovest. I reperti dello scavo archeologico vennero temporaneamente sistemati presso i locali di Palazzo Cangemi, dove si diede una pulitura ai manufatti e se ne approntò la catalogazione e sistemazione in cassette di legno distinte per Unità Stratigrafica. Alcuni reperti ritenuti di maggiore pregio, tra cui le monete, furono invece trasportati in altri depositi della Soprintendenza. La sistemazione a Palazzo Cangemi doveva essere provvisoria; tuttavia, i materiali sono stati pressoché dimenticati in una stanza chiusa a chiave dell’ex Museo del Bosco. Con l’autorizzazione del Sindaco e la collaborazione del personale della locale Biblioteca Comunale, si è potuto avere accesso al deposito: una piccola stanza buia e chiaramente soggetta ad un notevole tasso di umidità, con infiltrazioni di acqua dalla parete di fondo. Ne conseguiva che, in molti casi, le cassette accatastate le une sulle altre, si sono spostate dall’originaria sistemazione e frantumate, con conseguente dispersione dei frammenti per tutta la stanza. Nonostante ciò, si è avuta la possibilità di fare un esame sommario dei materiali recuperati nel 1992, rimasti inediti, comprendenti non solo molti manufatti mobili frammentari (vasellame ceramico, anfore, pesi da telaio, lucerne e oggetti in metallo), ma anche alcuni elementi architettonici (prevalentemente in terracotta), intonaci e stucchi parietali. Nello stesso ambiente sono inoltre stati sistemati un elemento di macina in pietra lavica trovato in loco e la base di una colonnina marmorea recuperata nella campagna antistante lo scavo (propr. Di Fede).

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Si riporta un sunto del report preliminarmente pubblicato in Kokalos 1993-1994 a cura di C. Bonanno, con alcune integrazioni da parte di chi scrive 16 Scibona 1987 17 Vedi Carroccio-Collura a seguire in questo volume

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 6-11. In alto: contrafforte in mattonacci lungo il Muro 1, visto da ovest; il contrafforte visto dall’alto con evidenza del crollo della parte superiore per una forte spinta naturale. Al centro: pavimentazione in laterizi dell’ambiente A1 (Settore 2), fortemente inclinato e dissestato a causa dei cedimenti di terreno; canaletta di smaltimento delle acque originariamente sotto il livello della strada. In basso: particolare del Muro 1 realizzato con filari di pietra locale sbozzata e rinzeppamenti di schegge litiche; veduta dell’area di scavo (Settore 1) da ovest (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 12-14. Pianta dell’area del Saggio 1 e ipotesi ricostruttiva delle strutture portate in luce, con la strada est-ovest su cui si affaccia la parte avanzata di un’insula. In basso, alzato del Muro 1. Rielaborazioni da Bonanno 1993-1994

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Nella parte est del settore di scavo, alla profondità di 2,10 m dal piano di campagna, affiorò in sezione, nella parete sud, un muro orientato S-N, alto 1,11 m. e spesso 80 cm, costruito a secco con cinque filari di grossi mattoni ellenistici (muro M0,18 misure 50 x 35 x 8 cm), poggianti su tre filari di pietre di medie dimensioni squadrate grossolanamente (altezza 45 cm). Sul terreno era presente il crollo dello stesso muro in mattoni, su cui poggiavano frammenti di intonaco bianco e un frammento di cornice fittile modanata. Al muro, seguiva, in direzione sud-ovest e con orientamento estovest, un muro (M4), per una lunghezza di 1,80 m. e una larghezza di 40 cm, realizzato con pietre sbozzate di medie dimensioni. A nord di M4 si trovò un’area ampia 2 x 3,15 m. lastricata con mattoni, alcuni rettangolari (50 x 35 x 8), altri quadrati (35 x 35 x 8), su alcuni dei quali si trovavano tracce di calce; il piano pavimentale era integrato, ad est, da un acciottolato di piccole pietre sconnesse. A causa del movimento franoso, il pavimento si presentava fortemente inclinato verso est e verso nord. Il lastricato era delimitato a est e ad ovest da muri, di cui si sono individuate le fondazioni, mentre la parete nord era interamente franata. La totale assenza di tegole di copertura suggerì che si trattasse di un ambiente aperto, probabilmente un’area di servizio. L’ambiente sembrò essere posteriore al resto delle strutture emerse: il suo piano pavimentale si sovrapponeva infatti ad uno spesso strato di pietrame e materiale da costruzione pertinente la prosecuzione verso N-E del muro M1 individuato nel settore ovest dello scavo. Il muro M1, in parte portato in luce nel settore orientale, proseguiva in quello a fianco per una lunghezza di circa 2,50 m. sempre in direzione sud-ovest. In un breve tratto di esso si conservavano sei filari di blocchi squadrati di pietra locale legati a secco. Procedendo verso S-O, il muro M1, per una larghezza di circa un metro, mostrava segni di distruzione, di cui si ignorano le cause: qui era stato reintegrato a secco con pietrame informe di medie e piccole dimensioni, con evidenti tracce di bruciato visibili sulle pietre. Immediatamente dopo si conservava un altro tratto dello stesso muro, via via sempre più danneggiato, che continuava ancora al di sotto della parete sud non scavata. La lunghezza complessiva dell’intero tratto di M1 portato in luce fu di m. 9,50 circa. Alla profondità di circa 1 metro dalla sommità del muro M1 è stato rinvenuto un altro muro (M2), anch’esso alzato a secco, la cui facciata nord era costituita da grossi blocchi di varie dimensioni con riempimento interno di pietrame e grossi ciottoli fluviali. Esso sembrava addossarsi ad est alla parete rocciosa e al muro M1. Per la tecnica di costruzione e per l’esecuzione più accurata del bugnato presente sul lato esterno dei blocchi, M2 sembrò essere posteriore ad M1: si è ipotizzato che esso sia stato costruito per rinforzare il precedente muro e contenere meglio la soprastante parete rocciosa. Nel settore ovest di scavo, il muro M2 si seguiva per poco più di 4 metri, mentre per i successivi 1,70 m. era crollato e successivamente reintegrato con

pietrame informe, anche qui con evidenti tracce di bruciato, per poi proseguire in direzione S-O per altri 4,60 m., con uno spessore di 90 cm e un’altezza conservata di 1,30 m. In quest’ultima sezione, si evidenziò una tecnica costruttiva diversa: i filari di blocchi irregolari erano intervallati da sottili filari di frammenti di mattoni e tegole piane disposti orizzontalmente per livellare le pietre, mentre ai lati i blocchi erano rinzeppati con schegge, piccole pietre e frammenti fittili. Nell’ultima parte visibile, alle pietre si alternavano alcuni mattoni di tipo ellenistico, secondo una tecnica mista frequentemente ravvisata a Caronia. Il muro M2 è stato complessivamente messo in luce per una lunghezza di circa 9,50 m. Ai due muri M1 e M2 si addossava una struttura in mattoni di forma quadrangolare, conservata per un’altezza di circa due metri e spessa 90 cm, composta da 21 filari di mattonacci ellenistici disposti orizzontalmente, legati con malta di calce. E’ probabile che essa sia stata costruita dopo i muri M1 e M2, avendo magari una funzione di contrafforte per gli stessi. La parte superiore di questa struttura dovette subire una distruzione, probabilmente in seguito ad uno smottamento del terreno o ad un terremoto di notevole entità, come dimostravano i numerosi mattoni frammentari sparsi intorno alla struttura in laterizi, la cui posizione, quasi perpendicolare al piano, dimostrava la violenza con cui erano crollati. A nord del muro M2 è stato trovato un acciottolato formato da pietre di varie dimensioni, che poggiava direttamente sulla roccia, osservabile per un’ampiezza di 1,50 metri; in un tratto l’acciottolato mancava del tutto e si trovarono i resti di una conduttura per il deflusso delle acque scavata nella roccia e formata da grossi mattoni, disposti in direzione SO-NE in lunghezza; la conduttura doveva essere originariamente coperta dal lastricato stradale. La strada di dirigeva verso est. Non è stato possibile determinarne l’ampiezza verso nord né seguirne tutto il tracciato. Si è soltanto messo in luce un tratto lungo 5,40 m. e largo al massimo 1,50 m. La parte più orientale era quella meglio conservata: il selciato che la rivestiva era formato da piccole pietre sbozzate e da ciottoli fluviali accostati con una tecnica accurata e poggiante direttamente sul terreno, in leggero pendio da NO a SE. Si è supposto che la stradella possa essere posteriore alle strutture murarie, trovandosi ad una quota più elevata rispetto alle fondazioni delle stesse. Complessivamente, quella scavata è la parte avanzata di un’insula prospettante su una strada est-ovest, che continua evidentemente verso sud-ovest, dove rimane interrata. E’ probabile che l’ambiente delimitato dai muri M0-M1 costituisse l’angolo nord-orientale del blocco abitativo, delimitato ad est da una strada nord-sud non intercettata dallo scavo. Circa 3 metri a ovest dal margine del saggio 1 sulla parete scavata era visibile una cisterna del tipo cosiddetto “a campana”, le cui pareti erano intonacate con un sottile strato di malta idraulica; poco distante si individuò un’altra cisterna, già distrutta in passato, di cui rimaneva solo il fondo; ancora più in basso, circa 2,50 m. in direzione nord-ovest, sulla parete si vedeva in sezione una terza cisterna, distrutta per metà durante la costruzione di una stradina privata. La

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Laddove nel report non si cita espressamente il numero progressivo di struttura muraria messa in luce, come in questo caso, si assegna una numerazione integrativa per facilità di comprensione

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare invece realizzato con pietrame informe di varie dimensioni e doveva essere intonacato, come dimostrano le tracce di intonaco bianco e rosso e un frammento di stucco con motivi di astragali in rilievo ritrovati ad ovest di esso. Il muro presentava una grossa crepa verticale forse causata dallo smottamento del terreno o da un evento tellurico. A nord-ovest del muro M3 è stato messo in luce un muro (M6) orientato E-O che continuava ad ovest sotto la parete del saggio, mentre ad est si addossava alla parete occidentale di M3: la struttura era costruita con grossi mattoni disposti orizzontalmente, di cui restavano 16 filari, legati con malta ed integrati in alcuni punti con pietre regolarmente squadrate, conservata per un’altezza di circa 1,50 metri. I muri M3 e M6 delimitavano chiaramente un ambiente di cui si è esplorato solo i settore nord-orientale. Il muro M6 appariva inclinato verso nord di circa 45 gradi, esito di un forte movimento del terreno. La ceramica trovata nei livelli più profondi, tra cui vasellame a vernice nera di tipo “Campana A” e frammenti di sigillata aretina, nonché una moneta della serie di Sesto Pompeo, suggerirono una frequentazione dell’abitato tra il III ed il I secolo a.C. Le strutture del saggio 2 presentano identico orientamento di quelle del saggio 1 e dimostrano un’organizzazione urbana regolare in questo settore della collina, con case e strade che si dispongono secondo un orientamento O/SO-E/NE. I materiali recuperati dallo scavo che è stato possibile esaminare si datano generalmente dalla fine del IV secolo a.C. al I-II secolo d.C. e solo in parte sono riferibili ai livelli di frequentazione delle strutture portate in luce. Significativa è la presenza di diversi esemplari di ceramica presigillata, ascrivibile al II-I secolo a.C., che si collega ad una buona quantità di questa classe rinvenuta nei diversi contesti di scavo a Caronia, nonché nelle ricognizioni di superficie, e potrebbe anche fare ipotizzare una produzione locale di questo tipo di vasellame, a cui si accompagnava quella a vernice rossa opaca di fabbricazione locale. La sigillata italica, rappresentata da un discreto numero di frammenti, si assegna alla fase di abbandono delle strutture, mentre le ceramiche a vernice nera di IV-III secolo a.C. provengono per la maggior parte da contesti diversi, contenuti nel terreno di riporto che si è accumulato nell’area a seguito di frane e dilavamenti continui. Tra questi sono compresi alcuni frammenti a figure rosse ed alcune parti di skyphoi a vernice nera di tipo tardo classico e altoellenistico. Di rilievo è la presenza di numerosi arnesi in bronzo: si tratta, tra gli altri, di una serie di strumenti probabilmente impiegati per la cucitura o per altri lavori di precisione; alcuni somigliano a bisturi da chirurgo. Assieme ad essi sono un anello e diversi frammenti purtroppo deteriorati, sempre in bronzo. Tra i metalli sono presenti anche alcuni chiodi in ferro. Rappresentati in discreta quantità i vetri, pertinenti ad ampolline, estremamente frammentari, di epoca altoimperiale. Tra le porzioni di anfore, si riconoscono produzioni del tardo ellenismo – inizio impero, tra cui greco-italiche, Dressel 1 e 2-4, assieme ad una probabile produzione locale caratterizzata da anse “a tortiglione”.

presenza di queste cisterne conferma che tutta quest’area era occupata dall’abitato. Circa 18 metri a sud-est del saggio 1, in posizione più elevata, è stato eseguito un secondo saggio di scavo (Saggio 2), esteso 9,50 x 3 metri. Nella parte più orientale di esso si evidenziò un’area interessata dal crollo di molti grossi frammenti di intonaco di colore bianco e rosso, poggianti direttamente su pietrame informe, pertinente probabilmente a pareti di ambienti collocati più in alto.

Figg. 15-16. In alto, Saggio 2, Muri M3 (in primo piano) – M6 visti da sud (foto: Archivio Soprintendenza di Messina); in basso: pianta dell’area del Saggio 2. (da Bonanno 1993-1994)

Nell’area NE del saggio è stata messa in luce un’area interessata da una forte concentrazione di mattoni e tegole curve frammentari, al cui centro è stato individuato un grosso frammento di cocciopesto pavimentale che ricopriva quasi totalmente un’area di 2 x 2,50 metri, chiusa da una struttura muraria in mattonacci fortemente inclinati verso nord-est, visibile in sezione nella parete sud. Nella parte nord-ovest del saggio, accanto a evidenze di crolli visibili in parete, si trovavano mattonacci frammentari crollati pertinenti ad un muro che si doveva trovare in alto nella parete sud; poco vicino era presente uno strato di terra nera con scorie di lavorazione del ferro e carbone, mentre ad una profondità di 1,70 m. dal piano di sbancamento è stato intercettato un muro (M3), orientato SE-NO, lungo circa 3 metri: sia a NO che a SE il muro continuava oltre le pareti del saggio. La parte conservata del muro M3 era alta 1,50 m e larga 0,50. La facciata orientale del muro era costituita da cinque filari di pietra locale, da identificare con la parte esterna dell’ambiente; nella parte interna il muro era

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 17-18. Locali di Palazzo Cangemi. Le casstte contenenti i materiali dallo scavo 1992 in contrada Telegrafo come nelle condizioni in cui si trovano attualmente. La forte umidità presente nell’ambiente ha provocato il deterioramento del legno e lo scivolamento delle cassette e dei materiali sul pavimento.

Sono stati raccolti in alcune cassette ampie porzioni di intonaco di colore rosso e bianco, che rivestiva le pareti sia di ambienti portati in luce che di altri posizionati a monte e crollati, nonché frammenti di cornici in stucco decorato. Tra i manufatti diversi dal vasellame si segnalano alcuni oscilla, di cui uno con raffigurazione di gorgone, molto simile ad esemplari recuperati a S. Marco d’Alunzio e databili al III-II secolo a.C., oltre a diverse ossa animali, conchiglie ed un astragalo. Numerosi, infine, i frammenti di ceramiche comuni e da fuoco: brocche, pentole, tegami, ecc., che, considerato il contesto puramente domestico, costituiscono la classe più numerosa di materiali recuperati nello scavo. Una selezione di questi oggetti, per lo più frammentari, destinati a rimanere inediti in quanto di “seconda scelta”, ma importanti ai fini dell’inquadramento della locale cultura materiale e della puntuale definizione dell’epoca di abbandono delle strutture, è riportata alla fine del capitolo come appendice del Catalogo dei materiali dalla collina.

lo spessore della parete ma alternati a formare una intercapedine in cui si ammorsavano le pietre, tecnica che doveva conferire al muro una certa solidità. Il muro presentava, peraltro, un’evidente inclinazione verso est, come altre strutture intercettate dallo scavo, testimonianza di una spinta unidirezionale determinata probabilmente da movimenti franosi o da un evento sismico. Un muro (M6) orientato nord-sud è stato scavato ad una quota superiore verso nord-ovest: esso, assieme al muro M1, delimitava una stradella in acciottolato larga circa 1,80 m. che si congiungeva ad una seconda via in discesa verso est, superato l’angolo M1-M7, dove era presente un gradino formato da un filare di grosse pietre. A sud di M1 non sono stati rimossi due ampi crolli, tra i quali è stato invece liberato un altro muro nord-sud (M2) per una lunghezza di circa 3 metri, che sembrerebbe la continuazione verso sud del muro M6, realizzato in pietra e laterizi, che per tecnica realizzativa – più povera – differiva dal muro M1. Anche il muro M2 si presenta inclinato, ma non se ne può accertare l’entità dello spostamento in quanto scavato solo superficialmente. Un crollo caotico di pietrame e laterizi tra i muri M1 e M2 ostruiva probabilmente la continuazione verso sud della stradella. Un secondo crollo era presente all’estremità meridionale di M2, presso cui è stato isolato un alzato di mattonacci fortemente dissestati. Ancora più a sud, in parete affiorava un muro (M5), realizzato in blocchi di pietra ben allineati, seguibile per circa 1,5 metri, il cui orientamento trasversale rispetto a M1 e M2 potrebbe essere dovuto alla spinta del terreno retrostante. M5 si trova ad una quota leggermente superiore rispetto ad M1 e M2. Lo scavo di questa struttura ha evidenziato un unico filare di pietre, a cui si affiancano sia alle spalle che nella parte sottostante strati di pietrame. Potrebbe trattarsi di quanto resta di una seconda strada est-ovest in corrispondenza di un gradino.

Scavi 1993-1995 in c.da Sotto S. Francesco Sempre nell’ambito dei lavori di consolidamento del centro storico, a seguito dello sbancamento realizzato sul versante nord-orientale della collina sotto l’edificio delle Case Popolari, nel febbraio 1993 fu eseguito un nuovo saggio di scavo, ampio circa 17,5 x 3 m.19 Qui furono portate in luce diverse strutture murarie poste a quote differenti, indagate solo parzialmente. Un unico ambiente, delimitato a nord-ovest dai muri M1-M7, è stato datato al III-II secolo a.C. per via del ritrovamento di un bordo di anfora greco-italica sotto una delle pietre da costruzione: il muro ovest (M1), largo 50 cm. e messo in luce per 4 metri, era alzato con blocchi di arenaria locale disposti a filari irregolari con rinzeppamenti di schegge litiche; nella parte centrale era presente un alzato di mattonacci rettangolari, disposti in lunghezza a coprire 19

Il sintetico report dello scavo, qui integrato, è contenuto ancora in Bonanno 1993-1994.

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 23-25. In alto, incrocio tra strade con piano in acciottolato nel settore nord dell’area di scavo; in basso, gradino della strada est-ovest in corrispondenza dell’angolo tra i muri M1-M7 (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

Occorre dire che lo scavo non è stato spinto fino al piano calpestabile degli ambienti, per cui si ignora la tipologia delle pavimentazioni nonché la cronologia esatta di abbandono delle strutture che, comunque, non sembra superare la fine del I secolo d.C. Si ignora inoltre l’esatta organizzazione di queste case, probabilmente pertinenti a due diversi blocchi disposti sul ripido pendio, separati dalla stradella nord-sud. Se anche il muretto M5 è pertinente ad una strada est-ovest, si potrebbe determinare ipoteticamente la larghezza dell’isolato ad est in circa 10 m. I materiali recuperati in questo scavo solo in pochi casi poterono essere associati ai piani di frequentazione. Per la maggior parte apparivano fluitati dall’alto e si collocano tra il IV secolo a.C. ed il I-II secolo d.C. Si segnala la presenza di diversi semilavorati di ossidiana e selce, probabilmente pertinenti ad un abitato di età preistorica posizionato immediatamente a monte. Anche in questa occasione si osserva la presenza diffusa di presigillata e ceramica a vernice rossa semiopaca che si ipotizzò prodotta da officine locali, nonché di brocche di medie dimensioni di una caratteristica forma a corpo globulare con collo cilindrico, bordo estroflesso, ansa a bastone con solcature verticali sulla faccia esterna e verniciatura rossa, databili a partire dal I secolo a.C. e anch’esse di produzione locale.

Figg. 19-22. Scavo 1993 in c.da sotto S. Francesco. Dall’alto in basso: settore nord dello scavo visto da ovest (in primo piano, ambiente tra i Muri M1-M7); Muro M2; parte centrale del Muro M1 in pietra e mattonacci; Muro M5 (gradone di strada?) (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 26. Pianta dell’area di scavo 1993 in c.da Sotto S. Francesco e interpretazione delle strutture portate in luce (caseggiati e strade). Rielaborazione da Bonanno 1993-1994

Nei mesi seguenti e fino al 1995, man mano che proseguivano i lavori per la realizzazione del muro di contenimento in cemento armato, altre strutture murarie sono state portate in luce. Tra queste si segnalano quelle esplorate nel 1995 pochi metri a sud del Saggio 1993 in cui sono emersi a quote diverse due muri, uno in direzione N-NE (M2), lungo 4 metri, datato al III secolo a.C., a cui si congiunge un grosso muro (M3), spesso 1,60 (M3). Questa struttura appare distrutta in un momento imprecisabile e, sul piano livellato, si impianta ad una quota molto più alta una nuova fase abitativa databile in epoca altoimperiale, con muri che definiscono un piano pavimentale in mattoni. I livelli a cui si sovrappone l’ultima fase di vita dell’abitato sono caratterizzati dalla presenza di numerose tessere lapidee, presumibilmente pertinenti ad un pavimento a mosaico in

disfacimento, di molti lembi di intonaco parietale in verde, rosso e bruno, di lastre di marmo verde e grigio e di frammenti di cornici in stucco colorato, associati a frammenti di ceramiche a vernice nera. Si può dunque presumere che l’ultima fase di vita abbia obliterato i resti di una ricca domus distrutta entro la seconda metà del I secolo a.C. Sia nel 1994 che tra la primavera e l’estate del 1995 sono state esplorate quindi altre strutture, di cui Bonanno dà un sommario e poco chiaro resoconto.20 L’esame della documentazione fotografica presso l’Archivio della Soprintendenza di Messina,21 tuttavia, 20

Bonanno 1997-1998, pp. 437-438 Si coglie l’occasione per ringraziare in proposito la dott.ssa G. Tigano, Responsabile del Servizio Beni Archeologici della Soprintendenza, per la cordiale disponibilità accordata ed il sig. F. 21

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare propone un quadro ben più complesso di quanto edito, essendosi potuti visionare i documenti relativi a diversi muri messi in luce e indagati man mano che le opere pubbliche procedevano e si realizzavano le opere di contenimento in cemento armato, non sempre riportati nella pubblicazione. A giugno 1995 si riferisce la documentazione di almeno un muro (M1) con orientamento nord-sud visibile a margine di un piano di frequentazione e di un crollo posti a est, di cui da notizia Bonanno. M1 affiora in parete per un’altezza di circa 1,5 m. e sporge sul terreno per una lunghezza di circa 1 m. A luglio 1995 si riferisce invece l’esplorazione in una stretta trincea di scavo, resa difficile dalle anguste dimensioni e dalla presenza di tiranti, dove sono stati messi in luce almeno tre muri (M2-M3-M4): M2 è realizzato con pietre di medie dimensioni, è orientato nord-sud e presenta un’evidente inclinazione verso est; su di esso si ammorsa a nord un imponente struttura muraria con prospetti in pietre di grandi dimensioni sbozzate sul faccia-vista (M3, spessore m. 1,60) in direzione est-ovest, che prosegue chiaramente sotto il terreno verso ovest. Un muretto (M4) sembra la continuazione verso nord di M2. Già in precedenza (aprile 1995) la documentazione fotografica mostra altri due muri, messi in luce sotto l’edificio delle Case Popolari e denominati M1 (nord-sud) e M3 (est-ovest), non collegati tra loro e ben realizzati con blocchi di pietra locale sbozzata e alcuni laterizi. Purtroppo non è possibile fare un quadro complessivo di quanto venuto in luce a nord e a sud dell’area di scavo del 1993, al di là del sintetico e poco chiaro report del 1997-1998. Ciò che appare evidente è che quest’area della collina era occupata da un fitto abitato che evidenzia diverse fasi di vita dal III secolo a.C. al I secolo d.C., con livelli di crollo e distruzione e sovrapposizione di strutture abitative. I muri di questo settore di abitato presentano larghezze diverse, da 0,5 a oltre 1,5 metri, probabilmente in considerazione della loro collocazione all’interno delle case (pareti esterne, interne o di contenimento). Generalmente si conservano bene in altezza, sebbene non siano stati esplorati fino alle fondazioni, ma mostrano sistematicamente evidenze di fenomeni naturali (terremoti, cedimenti del terreno) che ne hanno provocato anomale inclinazioni, di solito verso est. Nell’ultima fase di occupazione, corrispondente ai secoli I a.C. – I d.C., l’abitato appare ben organizzato, con strade di disimpegno orientate nord-sud ed est-ovest che suggeriscono un impianto regolare. Un esame sistematico delle innumerevoli strutture affioranti a seguito del profondo sbancamento su una lunghezza di quasi 100 metri avrebbe sicuramente offerto altri spunti di studio per una migliore comprensione dell’organizzazione urbana di Kalè Akté tra l’epoca ellenistica e quella altoimperiale.

Figg. 27-30. Saggi 1994-1995. In alto: imponente muro ellenistico est-ovest (M3) ammorsato ad un muro nord-sud (M2) fortemente inclinato verso est, messi in luce poco a sud dell’area di scavo 1993; al centro: planimetria dei muri M2M3; in basso: strutture tardoellenistiche-altoimperiali (Muro M1 e piano di frequentazione a sinistra) messe in luce su un livello superiore rispetto ai muri M1-M3 e muro nord-sud esplorato nell’area sottostante l’edificio delle Case Popolari (foto: Archivio Soprintendenza di Messina; planimetria a cura dell’autore)

Marcellino per il difficoltoso lavoro di recupero e riproduzione del materiale fotografico, risultato di grande utilità, pur in mancanza di precisi riferimenti testuali, ai fini della ricostruzione delle varie tappe in cui si svolsero a suo tempo le indagini archeologiche

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia datarsi, per tecnica di realizzazione, nella tarda età ellenistica (II secolo a.C.) e descrivono ambienti disposti su due livelli all’interno di un’insula abitativa. Il muro W4 è occultato da un notevole interro su cui si imposta un muro est-ovest in pietrame (K1), pertinente ad una limitata rioccupazione dell’area nella tarda età imperiale: K1 delimita a nord un ambiente la cui parete orientale è quasi interamente crollata, che riutilizzava per la pavimentazione mattoni frammentari su cui sono state osservate tracce di bruciato.

Scavi 1999-2005 in c.da Sotto S. Francesco Nei mesi di settembre-ottobre 199922 fu condotto un saggio di scavo pochi metri a sud dell’edificio delle Case popolari dopo che uno sbancamento per la realizzazione di un’area di parcheggio avevo intaccato livelli archeologici mettendo in luce strutture murarie. L’area del saggio si collocava pochi metri a sud-ovest dello scavo del 1993 e immediatamente a ovest del Saggio 1995, in un terreno in forte pendio. Fu quindi aperta una trincea di circa 13 x 4 metri in senso nord-sud. Per primo fu messo in luce un angolo tra due muri (W1 in senso nord-sud e W2 in senso est-ovest) e in seguito il muro W3 a sud-est. Quest’ultimo, costruito con una bella tecnica caratteristica delle murature ellenistico-romane della nostra città, presentava un alzato centrale in filari di mattonacci tra filari regolari di pietre squadrate con rinzeppamenti litici e si sovrapponeva ad una cisterna più antica. Questa conteneva materiali di riempimento databili dagli ultimi decenni del IV al II secolo a.C., data di probabile costruzione del muro W3. Uno strato di distruzione fu evidenziato all’angolo tra W3 e W1, caratterizzato dalla presenza di tegole in fase di crollo. Appoggiato al muro W3 era un grande pithos che, come altri materiali incontrati nello scavo, presentava evidenti tracce di bruciato. La fase di distruzione e abbandono di questa porzione di abitato è suggerita dalla cronologia dei materiali più recenti, tra i quali si segnala un piatto di forma Conspectus 20.4.1, databile nei decenni a metà del I secolo d.C. Sebbene limitato in ampiezza, lo scavo, edito in maniera molto dettagliata,23 ha offerto interessanti spunti di studio, evidenziando una fase abitativa di almeno IV secolo a.C. testimoniata al momento dalla cisterna, che sembra essere andata in disuso tra la fine del IV e i primi decenni del III secolo a.C. ed una seconda fase databile nel corso del II secolo a.C., che termina non oltre la seconda metà del I secolo d.C. a seguito di un evento distruttivo. Lo scavo di questo settore è stato brevemente ripreso nel maggio del 2005, ma i risultati non sono stati ancora pubblicati. In quell’occasione la trincea è stata allargata verso nord e verso ovest sul pendio soprastante il muro W3. E’ stato messo in luce per diversi metri il muro W1, realizzato con buona tecnica in pietre squadrate e rinzeppamenti litici, che presenta una lacuna nella parte più settentrionale, dove appare intersecato da una struttura in pietrame est-ovest di epoca posteriore; una struttura quadrangolare formata da alcuni filari di coppie di mattonacci quasi si appoggia alla parete, ma non è stato raggiunto il piano di calpestio dell’ambiente. E’ stato accertato che il muro W2 est-ovest continuava all’interno della parete e verso l’alto. Sul livello superiore è stato quindi portato in luce il proseguimento di W2, che incontra verso ovest un muro nord-sud in pietra e mattoni (W4). W2 sarebbe quindi un ampio muro divisorio che rimane tutt’ora interrato. Tutte queste strutture sembrano

Figg. 31-32. Scavi 1999-2005 in contrada sotto S. Francesco. In alto, planimetria delle strutture plurifase portate in luce e interpretazione della disposizione degli ambienti sul pendio; in basso, restituzione dell’alzato delle strutture

Nel complesso, gli scavi regolari eseguiti sulla collina di Caronia tra i primi anni ’90 e la metà degli anni 2000 in un’area tutto sommato contigua, corrispondente alla parte nord-orientale dell’altura, hanno dimostrato l’esistenza di un fitto abitato, con case regolarmente disposte sul pendio con un caratteristico sviluppo a terrazze, definite da una maglia di strade probabilmente non molto ampie ma con sviluppo lineare (nord-sud, estovest) adeguato alla conformazione della stessa collina. L’ultima fase di vita si colloca costantemente nella seconda metà del I secolo d.C. ed è preceduta da diverse fasi in cui si osservano distruzioni e ricostruzioni, mentre una riorganizzazione dell’abitato sembra di potersi osservare nel corso del II secolo a.C., epoca alla quale si possono datare diverse strutture e gli stessi piani stradali esplorati.

22 Lo scavo è stato preliminarmente pubblicato in Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 e successivamente ripreso e ampliato in Lindhagen 2006 23 Lentini, Goransson, LIndhagen 2002; Lindhagen 2006

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

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Figg. 33-40. (in questa pagina e nella precedente). 34-35. A sinistra, veduta d’insieme dell’area di scavo nel maggio 2005: a destra, dettaglio del Muro W3, già portato in luce nel corso del 1999. La struttura muraria, databile probabilmente intorno alla metà del II secolo a.C., è costruita nella parte superiore in una bella tecnica mista, che impiega conci lavorati e un alzato di mattonacci che si ammorsano ai blocchi litici; la parte inferiore, forse antecedente, è realizzata con pietre semilavorate di dimensioni inferiori e si sovrappone ad una cisterna che, in base ai materiali in essa recuperati, appare dismessa già tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. e potrebbe riferirsi ad un caseggiato esistente all’inizio del IV secolo. 36-37. Veduta d’insieme del settore meridionale del saggio e dettaglio dell’angolo tra i muri W1 e W2; 38-39. Livello 1, muri W2-W3-W4 e alzato di mattonacci a margine del muro W4 (pilastro?). 40-41. Livello 2, Muro ellenistico W11 e muro tardoimperiale K1 e resti di pavimento in mattoni di riutilizzo dell’ambiente tardo definito dal Muro K1

Francesco e la via R. Orlando, rispettivamente da sud-est a nord-ovest. L’edito riguarda i saggi del 1992 in c.da Telegrafo, del 1993 in c.da sotto S. Francesco, del 1994 nello spiazzo sottostante Palazzo Cangemi, del 1995 ancora in c.da sotto S. Francesco e l’esame di cisterne e lembi di muri messi a più riprese in luce dallo sbancamento in quegli anni. A partire dall’area sottostante via Mazzini, dove negli anni ’80 Scibona aveva esplorato una cisterna ellenistica, il terreno restituì una grande quantità di materiale archeologico assegnabile sia alla fase greco-romana che a quella medievale del sito. Crolli murari, spezzoni di pavimentazioni in cocciopesto o a mosaico aniconico, di intonaci e stucchi parietali, affiorarono ovunque, attestando come l’intero settore interessato dal cantiere coincideva con l’area centrale della città classica. Esigenze di vario tipo, non ultima la necessità di evitare frane nel terreno intaccato dalle ruspe e la conseguente messa in pericolo degli edifici soprastanti, non permisero un’indagine sistematica su tutta l’area dello sbancamento. Per comodità di studio, l’area collinare è stata suddivisa in settori, tutti posizionati appena fuori l’odierno centro abitato. Sul versante orientale sono individuati i settori A e B rispettivamente al di sotto e al di sopra della strada tracciata negli anni 90 (contrade sotto S. Francesco e sotto via Montello); a nord è l’ampio settore C (contrada Telegrafo); a nord-ovest il settore D (contrada Bastardella); a sud-ovest il settore E (via Impero nord); infine, l’area del Castello corrisponde al settore F. A loro volta, queste macroaree sono suddivise in aree più piccole laddove necessario (ad esempio, A1, A2, A3 e così via). In questo modo, la ricognizione è risultata circoscritta a precisi siti di rinvenimento e più dettagliata.

La ricognizione in area urbana Partendo dall’edito, chi scrive ha intrapreso una sistematica attività di ricerca nell’area urbana dell’antica Kalè Akté - Calacte. Lo studio è stato favorito dalla conformazione dei luoghi e dall’attuale modalità di conduzione dei fondi agricoli che occupano l’area della città classica. Soprattutto in collina, le caratteristiche dei terreni, facilmente erodibili dagli agenti atmosferici, ed i numerosi lavori di tracciamento di strade interpoderali o addirittura di scavo edilizio, hanno consentito l’affioramento in più punti di strutture antiche e di un’enorme quantità di materiale archeologico, comprendente non solo manufatti di epoca classica ma anche medievale. Si sottolinea preliminarmente in proposito che, se relativamente limitate sono state le ricerche “ufficiali” che hanno interessato la fase grecoromana del sito, del tutto assenti sono quelle relative all’importante fase medievale, in particolar modo per ciò che riguarda le attestazioni di cultura materiale, ovvero i materiali ceramici ed altre suppellettili che è stato possibile esaminare sul piano di campagna. L’esplorazione del sito collinare, seppure disagevole e complessa per la conformazione dei luoghi e l’inevitabile accumularsi di terreno in frana sui resti antichi (tanto che nella maggior parte dei casi è stato possibile studiare resti murari e piani d’uso, posti anche a 4 metri di profondità, solo dopo sbancamenti agricoli o edilizi), è stato facilitato dall’accessibilità dei fondi interessati, oggi non più coltivati. Sulla collina di Caronia, all’epoca in cui si realizzarono importanti opere pubbliche in occasione delle quali furono eseguiti i saggi del 1992-1995 di cui si è detto, lo scavo mise in luce livelli archeologici ovunque fu condotto. L’area interessata era una fascia di terreno sottostante le vie Mazzini e Montello, la Chiesa Madre, la Piazzetta S.

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare Il tracciamento di una strada interpoderale, che scende in direzione nord, all’inizio degli anni 2000, intaccò profondamente il terreno fino a una profondità massima di quasi 4 metri, mettendo in luce, e in parte distruggendo, i resti di caseggiati di epoca ellenisticoromana (aree A1-A5). Partendo da A1, a sud, la parete intaccata evidenzia diversi crolli murari pertinenti a strutture poste a monte, con materiali databili da epoca ellenistica fino ad età post-medievale. L’area A2 corrisponde alla parete scavata con altezza variabile da 2,5 a oltre 4 metri, dal piano stradale all’originario piano di campagna. Lo scavo, in questo caso, intaccò il pendio molto accentuato su cui in antico si disponevano isolati di case con ambienti disposti su livelli successivi. Nell’area A2 sono in luce 3 muri con andamento est-ovest, che delimitano due ampi ambienti più un terzo visibile all’estremità nord, interpretabile come spazio aperto (A2.3, cortile) per la quasi totale assenza di tegole visibili in parete. L’asportazione del terreno ha distrutto la parte più avanzata dell’edificio. I due ambienti coperti A2.1 e A2.2 avevano probabilmente un piano superiore, di cui si osserva in sezione parte della pavimentazione su cui è collassato il tetto di tegole. Inoltre, alle spalle, su un livello superiore, doveva essere presente un peristilio o comunque uno spazio porticato, come ha suggerito la presenza di numerosi mattoni circolari scivolati in basso a contatto con le strutture affioranti. L’ambiente A2.1, largo circa 4,5 metri, era delimitato a sud da un muro in mattoni, che il tracciamento della strada ha fatto affiorare nella parte superiore; il muro nord, in comune con l’ambiente A2.2, doveva essere in pietra di fiume sbozzata e mattoni. Entrambi i muri, ben visibili all’epoca in cui fu tracciata la strada, risultano oggi smontanti o interrati. Il percorso della strada, in senso nord-sud, ha tagliato trasversalmente i resti antichi, e in questo caso non ha intercettato il piano calpestabile dell’ambiente. Piuttosto, a mezza altezza, si osservano lembi di pavimentazione in cocciopesto con inserti di blocchetti litici di vari colori. Un grosso lembo, oggi disperso, fu spinto sul pendio sottostante ed era caratterizzato da un motivo decorativo a reticolo di tessere bianche con al centro dei quadrati blocchetti di vari colori. Sul piano pavimentale del piano superiore è collassato il tetto realizzato con tegole piane e curve. L’ambiente superiore presentava pareti intonacate di bianco con campiture in rosso ed una cornice modanata in stucco con sottolineature degli spazi in rosso, di cui sono visibili in parete molti frammenti. L’ambiente A2.2 è stato intaccato fino ad un livello sottostante le fondazioni, mettendo in evidenza il piano roccioso. Detto del muro in comune con l’ambiente A2.1, si segnala il buono stato di conservazione del muro nord, realizzato con la consueta tecnica in pietra e mattoni, conservatosi fino ad un’altezza di circa 1,5 metri nella porzione affiorante. Il muro presenta evidenti esiti di cedimento verso l’interno dell’ambiente (verso sud). Il piano calpestabile di questo ambiente, largo circa 4 metri, era in battuto e le pareti non presentano intonacatura; sulla parte settentrionale del piano è visibile il crollo di mattoni pertinente il muro nord. Anche in questo caso era presente un piano superiore, crollato quasi a contatto con

Fig. 41 Collina di Caronia: individuazione delle aree d’indagine (A-F)

Fig. 42. Collina di Caronia: individuazione delle aree d’indagine e dei microsettori (A1, A2, A3…; B1, B2, B3, ecc.) riportati nel testo

Settore A Questo settore corrisponde alla parte sottostante la strada circonvallazione sul versante orientale della collina ed è quello che si è potuto studiare meglio, sia per l’accessibilità dei fondi, sia per la migliore visibilità dei terreni e soprattutto perché interessata nell’ultimo decennio da lavori agricoli, con tracciamento di strade d’accesso e creazione di terrazzamenti, che hanno intaccato il terreno talvolta così profondamente da mettere in luce strutture murarie antiche, oltre ad una grandissima quantità di materiale archeologico di ogni tipo ed epoca. Il settore è stato suddiviso in 10 microaree di diversa grandezza, da A1 a A10, su una superficie complessiva di oltre 2 ettari, che le ricerche hanno accertato essere stato occupato in buona parte dalla città di epoca classica.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Il tratto successivo della stradella corrisponde all’area A3. Qui, l’apertura di un accesso al fondo agricolo ha portato in luce una serie di strutture murarie, la parte avanzata delle quali era già crollata in antico. I muri, realizzati con pietre sbozzate e mattoni, definiscono alcuni ambienti, almeno 4: di quello più a sud (A3.1) non è visibile la parete meridionale. Questo vano, la cui larghezza si può ipotizzare in circa 2,5 metri, era pavimentato in cocciopesto con inserti sparsi di tessere bianche e colorazione rossa sulla superficie, molto simile ad un ambiente della Casa della Cisterna ad Arco a Morgantina; le pareti presentavano un intonaco bianco e rosso, di cui affioravano dal terreno molti frammenti. Un muro in pietra e mattoni delimita a nord l’ambiente A3.1 ed incontra un muro in pietra nord-sud (M3.1) che divide i due ambienti A3.2 e A3.3, il primo dei quali interrato, il secondo quasi del tutto asportato dallo scavo. Un piccolo avanzo di muro est-ovest incontra il proseguimento del muro nord-sud delimitando un ulteriore ambiente (A3.4), del tutto distrutto dallo scavo della via d’accesso al fondo oltre il cancello. Circa 2 metri a sud di queste strutture, in parete è visibile un’altra struttura muraria interamente in pietra (M3.2), conservata per due filari, il cui andamento nordsud sembra essere il proseguimento a sud di M3.1. La tecnica costruttiva di questo muro, interamente in ciottoloni sbozzati solo nel faccia-vista, differisce da quella delle strutture poco distanti, tanto che non risulta certo se la cronologia e funzione siano le stesse nei due casi. Scendendo ancora lungo la stradella si trova l’area A4, dove una serie di scavi hanno messo in luce alcune strutture murarie in corrispondenza di un altro accesso al fondo agricolo. Qui si segnala un muro ad angolo (M4.1), oggi quasi del tutto distrutto da successivi lavori di allargamento dell’accesso, interamente in pietra, e poco a sud di questo quelli che appaiono come due ambienti ricavati nella roccia (A4.1-A4.2), dove a contatto con l’originario piano calpestabile messo in luce da un recente allargamento della stradella è stato recuperato il piede di uno skyphos forma Morel 431124 databile all’ultimo terzo del IV secolo a.C. Queste strutture facevano parte di un caseggiato cui è pertinente un lembo di muro (M4.2) messo in luce immediatamente sotto, lungo il bordo strada ed un altro breve tratto murario (M4.3) individuato a seguito di un recentissimo scavo agricolo (2014) sotto la stradella (Area A7). I materiali associati al muro M4.2 comprendono diversi frammenti di ceramica Campana C mentre quelli dal livello di abbandono affiorante a margine del muro M4.3 si datano nel corso della seconda metà del I secolo d.C. e comprendono sigillate italiche, tra cui una porzione di coppetta forma Conspectus 23.2.225 databile tra il 25 e il 75 d.C. e diversi altri frammenti della stessa classe ceramica, anche del tipo inquadrabile forse nelle sue produzioni regionali.26

la superficie di quello inferiore: i resti di questa pavimentazione, in conglomerato di calce e pietrisco, assumono in sezione una caratteristica forma arcuata, con al centro gli elementi del tetto (solenes e coppi). Le pareti del piano superiore erano rivestite da uno spesso strato di stucco bianco molto resistente, i cui frammenti sono ampiamente visibili nello scavo, affastellati lungo uno strato continuo ben evidente nella parte superiore della parete scavata. Le caratteristiche del rivestimento parietale e del pavimento fanno pensare ad un ambiente il cui utilizzo era probabilmente connesso alla presenza di acqua (impluvio?). Può darsi anche che i numerosi mattoni circolari, pertinenti a colonne, facciano parte dell’architettura di questo spazio, che potremmo interpretare come un cortile porticato con tettoie a spiovente che facevano confluire l’acqua verso una vasca. Si deve aggiungere che larghi frammenti di laterizi curvi, di grande diametro, visibili nella parte più meridionale dell’ambiente, sono probabilmente pertinenti ad una conduttura proveniente da monte. A nord dell’ambiente A2.2 si trova uno spazio aperto con pavimentazione in mattonacci rettangolari (cortile A2.3). Non si è identificata l’eventuale parete che doveva chiudere a nord questo spazio, mentre non è da escludere che proprio nella parte più settentrionale dell’Area A2 potesse esistere una strada est-ovest in pendio a delimitare questo blocco di abitazioni. I mattoni della pavimentazione di A2.3 poggiano su uno strato di calcina rossastra, che a sua volta è stesa su terreno rimaneggiato contenente materiali anteriori al III secolo a.C., tra cui il piede di una coppetta a vernice nera databile forse alla seconda metà del IV secolo a.C. ed un bordo a tesa di probabile hydria in argilla bruno-grigia con decorazione matt painted a fasce sulla parte superiore e linea ondulata sul bordo esterno, che farebbe pensare a materiali di fase indigena di V secolo a.C. Ci troviamo di fronte ad una casa costruita sul pendio, dotata di un piano superiore, la cui costruzione sembra datarsi nella media età ellenistica. Lo scavo della stradella moderna ha distrutto la parte avanzata degli ambienti e sicuramente si conservano perfettamente i muri di fondo, sotto un notevole strato di terreno. E’ probabile che questo caseggiato, facente parte di un’insula, fosse delimitato a nord da una strada in discesa, la cui esistenza è ipotizzabile, sebbene al momento non accertabile, dalla lacuna di strutture murarie nella parte a nord di A2.3. I materiali più recenti rinvenuti nello strato a contatto con i piani calpestabili di questo edificio si datano tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. (frammenti di coppe carenate tipo Hayes 8A), epoca di probabile abbandono delle strutture, sebbene nel notevole strato di interro siano presenti frammenti databili ad età imperiale avanzata e alcune ceramiche medievali, sicuramente fluitate dall’alto sull’interro. Tra gli oggetti degni di nota contenuti nella sezione, a contatto con le strutture murarie o gli strati di tegolame, si segnalano un raschiatoio rettangolare in osso, alcuni frammenti di ceramica a figure rosse, un piccolo frammento di probabile cratere attico, frammenti di sigillata italica conservanti il bollo o lembi di decorazioni.

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Morel 1981 Conspectus 1990 26 Cascella, Collura, Appendice, Caronia in questo volume 25

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Sigillata italica dalla collina di

Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 43-46. Immagini dell’Area A2 all’epoca del tracciamento della stradella campestre (1999-2000). In alto, veduta da nord della parete scavata e in primo piano i muri affioranti MA1.1 e MA2.1 in mattonacci (in dettaglio nell’immagine a destra), probabilmente pareti est-ovest di due blocchi di case separate da un ambitus largo circa 0,75 m. (i muri oggi non sono più visibili). In basso, a sinistra il muro MA2.2 in affioramento e resti di condotta idrica; a destra veduta dell’ambiente A2.2 delimitato dal muro MA2.3, visibile a destra. All’interno dell’ambiente è scivoltato il pavimento in conglomerato del piano superiore e diversi mattoni circolari, alcuni dei quali visibili nell’immagine, pertinenti ad un portico posto sul livello superiore dell’edificio.

Fig. 47. Area A2, strutture affioranti in parete (rilievo 2010).

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 48-53. In alto: Area A2, alzato del muro MA2.3 e ricostruzione ipotetica del complesso abitativo in corrispondenza dell’Area A2. Al centro: sezione e profilo ipotizzabile degli edifici in corrispondenza delle Aree A2-A3. In basso: planimetrie ipotetiche delle case A2 e A3 e alzato dei muri W1-W2-W3 della Casa A3

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Figg. 54-57. In alto:Area A2, muro MA2.3. Al centro: veduta d’insieme della parte settentrionale di A2 con il crollo del piano superiore della Casa A2, il Muro MA2.3.1 e il probabile cortile con piano in laterizi. In basso: porzioni di pavimentazione in signino dalla Casa A2, asportati in occasione del tracciamento della strada campestre

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 58-59. Area A3, muri W1-W2 e K

Ancora più avanti, nell’area A5, prima dell’allargamento della stradella era ben visibile un crollo di mattoni. Successivamente, lo scavo ha evidenziato in parete, proprio in quel tratto, resti di pavimentazione e di intonaci parietali pertinenti ad un ambiente distrutto. Il pavimento era a mosaico regolare aniconico e presentava riparazioni in antico con apposizione di strati di calce e pietrisco bianco, affiorati in gran numero dalla parete erosa. I muri interni di questo ambiente (A5.1) erano rivestite da intonaco a doppia fascia bianca e nera, molto simile a quella di una casa scavata a valle dell’agorà di Ietas (Monte Iato). Questa struttura è la più avanzata lungo la parete a margine della stradella. Più avanti è uno strato alto fino a 3 metri di terreno ricchissimo di frammenti ceramici databili principalmente tra III e I secolo a.C., comprendente, tra gli altri, molti piatti in Campana A e C, coppe skyphoidi, lucerne, oltre a frammenti di statuine fittili. La particolare concentrazione entro un’area di circa 4 metri fa pensare ad uno scarico la cui pertinenza è tuttavia dubbia (domestico o cultuale). In linea generale, lungo il percorso di questa via d’accesso a fondi agricoli posto in contrada sotto S. Francesco, sono state intercettate diverse strutture, tagliate trasversalmente, con un continuo strato archeologico che ha restituito molti materiali complessivamente databili dalla fine del V secolo a.C. al

I-II secolo d.C., alcuni sicuramente riferibili alla frequentazione delle strutture abitative, altri a contesti posti a monte difficilmente individuabili. Si coglie in questo modo l’organizzazione urbana di questa parte della città, con isolati di case costruiti lungo il pendio, intervallati presumibilmente da stradine in pendenza. Fin dall’inizio, gli ambienti abitabili erano realizzati intaccando profondamente la roccia, creando spazi lineari che erano definiti nella parte esposta da murature, come nel caso degli ambienti A4.1-A4.2. Ogni livello abitativo doveva comprendere più ambienti, collegati internamente a quelli dei livelli soprastanti e sottostanti. Per questa ragione, dovettero essere create solide strutture di contenimento delle terrazze. Per l’epoca tardo ellenistica e altoimperiale, i resti visibili suggeriscono apparati interni confortevoli, con pavimenti in cocciopesto, anche decorato, o a mosaico e pareti intonacate, talvolta arricchite da cornici e rifiniture in stucco. I tetti a spiovente erano realizzati con tegole piane e curve: si segnala la presenza di coppi colorati nella faccia esterna, principalmente in rosso, ocra e bruno. La presenza di ceramiche tardoantiche nei livelli d’interro dell’Area A2 fa ritenere, peraltro, che questo settore sia stato sporadicamente abitato, dopo una lunga fase di abbandono, tra IV e VI secolo d.C.

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 60-64. Nella pagina precedente: Area A4, Ambienti A4.1 e A4.2 e Muro M4.1. In questa pagina, pianta semplificata delle strutture a vista e ipotesi ricostruttiva degli ambienti da esse definiti; frammento di piede di skyphos tipo Morel 4311 (ultimo terzo IV secolo a.C.) dai livelli di distruzione dell’ambiente A4.2; frammento di skyphos (?) con decorazione a palmetta dall’interro.

Fig. 65. Immagine schematica della successione delle strutture affioranti tra le aree A1 e A5

L’area A6 è un fondo privato soprastante la stradella e le aree A1-A5. E’ stato possibile fare una limitata ricognizione, che ha evidenziato alcune aree di crollo e materiali databili ad epoca ellenistica, romana e medievale. Lavori agricoli nei pressi del caseggiato che insiste nel fondo, con profondi sbancamenti che hanno raggiunto il substrato roccioso, hanno intaccato strutture antiche. Il materiale di riporto è stato smaltito sul pendio sottostante la strada provinciale all’inizio del paese. Un difficoltoso lavoro di ricognizione nel terreno di risulta ha consentito il recupero di alcuni materiali e di formulare ipotesi sulle strutture abitative che sono state distrutte nello scavo. Sono stati osservati numerosi mattoni, di

forma rettangolare, quadrata e circolare, molto tegolame, oltre a pietre da costruzione. Di particolare interesse alcuni elementi di canalette idriche con giunzioni a incastro. Tra i materiali, si segnalano alcuni larghi frammenti di loutheria, uno dei quali presenta i segni di riparazioni in antico con grappe di piombo; frammenti di un’arula fittile con decorazione a dentellature; elementi architettonici in terracotta. Tra i materiali ceramici, segnaliamo diversi frammenti di sigillata italica e africana A; frammenti di ceramiche a vernice nera anche di IV secolo a.C.; la parte inferiore con piede di un calice a vernice rossa; l’ansa configurata a forma di testa umana grottesca di una lucerna; molta ceramica da cucina e

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia di crollo murario con materiali databili sino alla fine del I o primi decenni del II secolo a.C. Poco distante da questo, in parete è visibile una fossa, che si allarga nella parte bassa, realizzata nel banco calcinoso di base, colmata con terreno contenente pietre, laterizi e frammenti ceramici ellenistici. Potrebbe trattarsi di una cisterna a campana, ma non si è osservato il tipico rivestimento impermeabilizzante. Piuttosto sembrerebbe una sorta di butto o quanto è visibile di un fossato realizzato in antico per lo smaltimento delle acque reflue. Strutture in crollo affiorano in alcuni punti e la loro disposizione, unita all’esame delle diverse sezioni di scavo agricolo, fa ritenere che nell’area A7 la città si estendesse a quote più basse solo nella parte meridionale; verso nord si assiste ad una rarefazione del materiale ed all’assenza di livelli archeologici significativi anche nelle pareti ricavate dagli scavi agricoli. Il piano di campagna, come accennato, è letteralmente cosparso di frammenti ceramici, qui scivolati lentamente dall’alto. Abbondano i laterizi (mattoni, tegole) rispetto alle pietre da costruzione, che evidentemente sono sempre state riutilizzate nel corso dei secoli.

d’uso comune; frammenti di pithoi e di anfore. Le caratteristiche dei materiali, l’assenza di frammenti di intonaci o di piani pavimentali almeno in cocciopesto, fanno ritenere che l’area intaccata dallo scavo comprendesse in prevalenza ambienti di servizio, come magazzini, cucine e cortili.

Figg. 66-67. Ceramiche a vernice nera (IV-I secolo a.C.) e sigillata italica recuperati dalla discarica di materiali provenienti da scavi edilizi-agricoli nell’Area A6. La presenza di materiali che vanno dal IV secolo a.C. ad età imperiale avanzata suggerisce che quella parte di pendio collinare fu occupata per un lungo lasso di tempo, soprattutto fino al I secolo d.C. e in misura minore probabilmente nel III-V secolo d.C.

Fig. 68: Muretto affiorante nella parte sud-orientale di A7

I materiali ceramici coprono un lunghissimo arco di tempo, dalla fine del V secolo a.C. fino ad età medievale, con particolari concentrazioni in corrispondenza della fase compresa tra III secolo a.C. e I secolo d.C. Per i periodi precedenti l’epoca classica, si segnalano diversi semilavorati in ossidiana e selce ed alcuni frammenti di ceramiche d’impasto la cui cronologia è dubbia, potendo scendere fino all’inizio del IV secolo a.C. Poco numeroso è il materiale per la fase compresa tra il II secolo d.C. e l’età araba, che di per se è indizio di una scarsa frequentazione dell’area. Impossibile fare un’elencazione dei materiali recuperati, diversificati per tipologia e per epoca. Segnaliamo un gruppo di monete (circa 20), tutte di epoca ellenistica, di cui due soltanto della zecca di Kalè Akté (testa di Dioniso e grappolo d’uva)27; tra i manufatti

L’area A7 è la più vasta tra quelle indagate e si sviluppa sul pendio sottostante la stradella interpoderale. Qui sono scivolati dall’alto materiali in notevole quantità ed altri ne sono affiorati, negli anni, a seguito di lavori agricoli di terrazzamento, che in alcuni casi hanno evidenziato resti murari ed aree di crollo. Inoltre, la presenza stabile di animali al pascolo rende molto visibile il terreno. Queste condizioni favorevoli hanno permesso il recupero di molto materiale, puntualmente consegnato ed oggi nei depositi della Soprintendenza di Messina. Quest’area corrisponde alla parte periferica della città antica sul versante orientale. Si è osservato, dopo diversi scavi per terrazzamenti e tracciamento di vie d’accesso, che le case si disponevano fino ad una quota di circa 220 metri s.l.m. In particolare, uno scavo eseguito alcuni anni addietro ha intaccato, proprio a quota 220 metri, un’area

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L’esemplare più antico finora rinvenuto è un bronzo di Agatocle della serie testa di Atena con elmo corinzio / Pegaso in volo, databile alla fine del IV secolo a.C.

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare in metallo, un sigillo in piombo con nesso di lettere di Halaesa, un anellino con pietra di età medievale e arnesi vari in bronzo, ferro o piombo; manufatti in osso; frammenti di ceramiche a figure rosse, di sigillata italica e soprattutto di ceramica a vernice rossa tardo ellenistica di produzione locale o regionale.

Fig. 72. Area A7: crollo murario di mattoni e pietre messo in luce dallo scavo agricolo 2009. In base ai materiali associati si data tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C.

Tra i ritrovamenti più importanti rientra senz’altro un’iscrizione greca su blocco marmoreo che verrà trattata in due Appendici al volume.28 Una selezione dei materiali rinvenuti viene di seguito esposta in un Catalogo comprendente i materiali più significativi provenienti dalle ricognizioni. A sud di A7 si sviluppano le aree A8-A10. Si tratta di terreni parzialmente incolti utilizzati, allo stato attuale, per il pascolo di ovicaprini. In nessuna di queste aree sono stati individuate strutture in situ chiaramente identificabili nella loro disposizione, ma solo materiali edilizi in dispersione (pietre da costruzione, mattoni e tegole). L’area A8, incolta da molti decenni, ha restituito materiali assegnabili sia ad epoca classica che medievale e postmedievale. In questo settore si segnala la presenza di uno scarico di materiali ellenistici che ha restituito una notevole quantità di manufatti. Le condizioni in cui si presenta fanno ritenere che si tratti di terreno asportato molto tempo fa a monte e qui riversato: infatti, i materiali affiorano dal terreno che, eroso dai fenomeni meteorologici, ha determinato lo scivolamento verso una sorta di avvallamento che si forma al confine con l’area A7, la cui creazione è dubbio se riferire a fenomeni naturali o artificiali. L’area interessata dallo scarico si sviluppa lungo il pendio su una lunghezza di circa 15 metri dall’alto in basso e una larghezza di 4-5 metri. La gran parte delle ceramiche in esso contenute si data in un periodo compreso tra la metà del III e l’inizio del I secolo a.C., sebbene non manchino frammenti sporadici assegnabili al IV secolo a.C. Ci si è chiesti inizialmente se lo scarico sia venuto in luce in maniera naturale e sia quindi da considerare nel suo contesto originario o se piuttosto sia il risultato dell’accumulo di terreno asportato da sbancamenti, eseguiti qualche secolo fa nella parte a monte. La circostanza per cui i materiali affiorino continuamente e si trovino in abbondanza a profondità minime, in un terreno come quello della collina di Caronia dove le strutture antiche giacciono in molti casi a

Figg. 69-71. Area A7. In alto: evidenziato da contorno apposto, fossato antico, contenente materiali ellenistici, scavato nella roccia gessosa di base e messo in luce dallo scavo agricolo 2009. Al centro: lembo di mosaico aniconico in affioramento nella parte settentrionale di A7. In basso: crollo murario di epoca incerta messo in luce dallo scavo 2006 per l’impianto di una conduttura pubblica (i frammenti ceramici associati sono ellenistici tranne il fondo di un piccolo bacino (?) con invetriatura giallognola interna, verosimilmente medievale)

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Collura, Il decreto onorifico tardo-ellenistico da Caronia (SEG LIX, 1102): rinvenimento e ricostruzione del contesto d’origine; Arena, Il decreto onorifico tardo-ellenistico da Caronia (SEG LIX, 1102): per una nuova edizione

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia profondità di oltre 3 metri, e l’intrusione di sporadici manufatti moderni fa propendere senz’altro per la seconda ipotesi.

Figg. 73-76. In questa pagina: (73-74) selezione di materiali ellenistici (III-II secolo a.C.) dallo scarico nell’Area A8; (75) osso di bovino con estremità tagliate di netto e tracce di combustione dallo scarico; (77) monete recuperate, utili a datare l’ignoto contesto di provenienza (2 emissioni dei Mamertini, una di Ierone II della serie Testa di Poseidone/Tridente con delfini e una moneta dimezzata non identificabile)

La classe di vasellame maggiormente attestata in questo ricco terreno è costituita da piatti a vernice nera in Campana A di medie-grandi dimensioni e coppe skyphoidi a corpo panciuto, bordo leggermente estroflesso, anse sia orizzontali che verticali, piede ad anello o a tromba, con superfici verniciate dal nero al bruno al rosso vivo, talvolta con decorazioni sovradipinte sotto il bordo, ben rappresentate in tutta la provincia di Messina e databili nel corso del III secolo a.C. quando sostituirono gli skyphoi di tradizione classica. In realtà si sono identificate numerose forme ceramiche inquadrabili nel medio e tardo ellenismo, alcune praticamente inedite, sia a vernice nera che acrome, ma anche a vernice rossa o arancio. Alcuni fondi di piatto contengono lettere greche graffite. Tra le ceramiche a vernice nera, si segnalano frammenti con decorazioni sovradipinte, generalmente fasce di colore bianco e rosso nel bordo interno di coppe, cerchi di colore sul fondo interno del vaso, foglioline in

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare bianco o giallo lungo i bordi di vasi a margine di linee graffite. Numerosi sono i frammenti di vasellame a vernice nera iridescente, diversi dei quali assegnabili alla classe della Campana B o B-oide a pasta chiara; pochissimi i frammenti di Campana C. Numerose le lucerne di tipologie assegnabili al III-II secolo a.C., gli oscilla, molti dei quali decorati a rilievo; numerosi anche gli esemplari di coroplastica, alcuni dei quali riferibili sicuramente a statuine di divinità (Demetra/Kore, Hermes). Tra gli altri materiali ricordiamo coppette, ciotole, mortai, teglie e anfore, esclusivamente grecoitaliche e rodie. Sono state recuperate 4 monete: due di zecca mamertina degli ultimi decenni del III secolo a.C, una dimezzata di Ierone II del diffusissimo tipo con testa di Poseidone / Tridente con delfini ai lati, una dimezzata e illeggibile. Intrusioni di materiali edilizi assieme a questi reperti mobili sono costituiti da frammenti di intonaci bianchi o rossi, pezzi di cocciopesto, frammenti di tegole e di mattoni. Da segnalare la presenza di molte ossa semicombuste, principalmente di ovicaprini e suini, mentre quelle più piccole sembrano riferibili a lepri o a volatili; alcune vertebre di tonno; conchiglie (patelle, murices e bivalvi). Frustuli carboniosi possono essere riferiti a legna utilizzata per cuocere i cibi. I materiali sono molte volte in stato frammentario solo parziale; in alcuni casi è stato possibile ricostruire il vaso o associare più frammenti allo stesso oggetto. E’ dubbio che possa trattarsi di uno scarico domestico. Alcune tipologie di manufatti molto attestate, quali i frammenti di statuine, gli oscilla decorati e una nutrita serie di piatti e coppe, ma soprattutto lo stato non troppo frammentario in cui si trovano, potrebbero riferirsi ad un contesto cultuale. Si tratterebbe, nel caso di piatti e coppe, ma anche di pentolame, di utensili impiegati nei pasti rituali che poi venivano gettati in una fossa, anche interi. Peraltro si osserva che alcune porzioni di statuine di probabile divinità femminile sono assimilabili a tipologie note da contesti cultuali accertati, ad esempio nei santuari demetriaci di fase ellenistica a Morgantina29.

L’area A9, posta ancora più a sud, si sviluppa in forte pendio. Qui sono stati recuperati, tra gli altri, un frammento di coppetta con bordo ispessito e concavo di tipo imerese, databile almeno agli ultimi decenni del V secolo a.C., frammenti di ceramiche a figure rosse di IV secolo a.C. e alcuni interessanti frammenti di sigillate italiche con bollo. Da un accumulo di terra di riporto provengono numerosi frammenti di intonaco decorato di epoca ellenistica: sul fondo bianco o rosso sono applicate decorazioni floreali e pannelli a imitazione di marmi pregiati. Il ritrovamento più importante è costituito da una meridiana solare, rinvenuta riutilizzata in un muretto di terrazzamento. L’esemplare è uno dei pochi noti dalla Sicilia e si conserva in ottimo stato: manca solo dello gnomone in bronzo, di cui rimane l’attacco, e della parte sporgente delle estremità superiori dell’emiciclo. L’ultima area indagata, peraltro corrispondente alla parte più meridionale della città in base alle attuali conoscenze (i resti antichi più meridionali finora noti si trovano in Via Mazzini, sul pendio soprastante),30 è A10. Particolarità di questo fondo (propr. La Marchina) è la forte ripidità del terreno, che ha richiesto la realizzazione di numerosi muretti di contenimento già nei secoli passati, ormai in buona parte distrutti. Si tratta senza dubbio di pietra di riutilizzo proveniente da strutture antiche, classiche o medievali, in secolare disfacimento e scivolate in questa area dove sono state variamente reimpiegate. I materiali ceramici frammentari presenti sul soprassuolo, verosimilmente pervenuti dall’alto, sono costituiti da ceramiche a vernice nera tardo ellenistiche e sigillata italica, nonché, soprattutto, ceramiche medievali e postmedievali. Qui il rinvenimento più importante è stato la scoperta di un accumulo di stucchi decorati frammentari affioranti in una parete erosa. Si tratta di esemplari di cornici modanate, con sezioni separate da fasce di colore nero o rosso; di fasce a dentelli; di fasce a perline e dischetti; di decorazioni plastiche a foglia, ecc. Le cornici, variamente colorate in rosso, giallo e nero sul fondo bianco, adornavano pareti decorate con pannelli a rilievo di diversi colori: rosso, prugna, giallo, nero, ecc. Una decorazione molto particolare, posta a margine forse di una nicchia, di cui si intravede in alcuni frammenti lo spigolo esterno, presentava una serie di forme astratte di colore rosso e fucsia con elementi in verde. Un unico frammento è pertinente alla copertura di una colonnina, con perimetro poligonale. Si tratta senza dubbio di quanto resta di uno o più ambienti di grande sfarzo riferibili ad una ricca domus o anche ad un edificio pubblico verosimilmente posto a monte. La datazione di questo ricco apparato decorativo è suggerita dalla presenza dei pannelli monocromatici,

29 Lo scarico di materiali può essere, almeno in parte, riferito ad un santuario probabilmente demetriaco, in uso nel III-II secolo a.C. che andrebbe localizzato subito a monte, considerato che all’epoca in cui fu qui riversato il terreno non esistevano, su questo lato della collina, strade di comunicazione, per cui la terra asportata dovette essere riversata nel punto più vicino allo scavo. Alcune caratteristiche dei materiali contenuti nello scarico suggeriscono la sua pertinenza a stipi votive e discariche ad uso dell’edificio di culto. Prima di tutto l’abbondante quantità di coroplastica, riferibile, in alcuni casi, senza dubbio a raffigurazioni di una divinità femminile, in altri casi a statuine del tipo “tanagrine”. Numerosi sono gli oscilla di terracotta, quasi tutti decorati, mentre notevole è la presenza di resti di cibo (ossa di ovicaprini e altri animali semicombuste, gusci di patelle, vertebre di tonno, ecc.). La classe di materiali maggiormente rappresentata è costituita da piatti di varia dimensione, in molti casi con lettere graffite sul fondo esterno, prodotti soprattutto in ceramica Campana A. Altrettanto attestate in notevole misura sono le coppe skyphoidi a corpo panciuto e bordo estroflesso, con anse orizzontali o verticali (coppe “concavo-convesse”), le coppette, le ciotole, le brocche monoansate e le lucerne, mentre non mancano gli strumenti in osso (spilloni e cannule). L’esigua presenza di Campana C in confronto ai tipi A e B o B-oide fa presumere che l’attività del santuario si sia esaurita non più tardi dell’inizio del I secolo a.C. Le ceramiche da mensa descritte sono in stretto rapporto con il vasellame da cucina (pentole, tegami e simili) e le

anfore (quasi esclusivamente greco-italiche e rodie) e potrebbero costituire la testimonianza di pasti rituali che prevedevano la rottura delle suppellettili utilizzate a fine cerimonia. Da segnalare la presenza di molti frustuli carboniosi e di piani in argilla probabilmente impiegati per la cottura dei cibi. Un’altra circostanza che fa pensare a stipi votive e discariche cultuali è l’eccezionale quantità del materiale ceramico presente nel terreno, comprendente molte centinaia di frammenti entro un volume relativamente ridotto, non riconducibile ad un normale contesto domestico, mentre pochi sono i materiali edilizi, tra cui si annoverano solo alcune tegole frammentarie, piccoli pezzi di mattoni e lembi di intonaco bianco o rosso. 30 Scibona 1987, p. 11 e a seguire in questo capitolo, p. 100

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia che si possono riferire senz’altro al Primo Stile Pompeiano e quindi entro il II secolo a.C. L’intrusione, tra la fitta serie di frammenti di stucchi e intonaci, di ceramiche di varie epoche, da quella ellenistica a quella postmedievale, fa ritenere plausibilmente che anche in questo caso si tratti di terreno asportato da un contesto a monte, comunque molto tempo fa, poiché la parte superiore della parete erosa è costituita da un consistente strato di terreno accumulatosi sopra i materiali descritti.

Settore B Questo settore d’indagine è la fascia non ancora urbanizzata compresa tra la cittadina moderna e la strada circonvallazione sul versante orientale della collina. Si tratta di terreni in parte incolti da molto tempo, non tutti facilmente esplorabili a causa della notevole ripidezza e della presenza, in più punti, di una folta vegetazione. Peraltro sono stati interessati dal riversamento di materiali di epoca medievale, postmedievale e moderna che si sono stratificati a discapito di quelli più antichi. Anche qui è stata fatta una suddivisione in microaree, da B1 a B4 partendo da nord (area Case Popolari) a sud (via Mazzini). Iniziamo parlando dell’area B2, corrispondente alla trincea di scavo aperta nel 1999 e ampliata nel 2005. Qui, a seguito di uno sbancamento per la realizzazione di un’area di parcheggio privata, emersero delle strutture murarie. I lavori furono interrotti e fu affidata dalla Soprintendenza agli archeologi K. Goransson e A. Lindagen dell’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, con la supervisione di M.C. Lentini, l’indagine archeologica dei resti venuti in luce. Lo scavo in profondità condusse alla scoperta di una cisterna, che i materiali rinvenuti al suo interno, databili a partire dagli ultimi decenni del IV secolo a.C., assegnano al pieno IV secolo. La cisterna era sicuramente pertinente ad un caseggiato di cui non si sono conservati i resti. Probabilmente agli inizi del II secolo a.C. la cisterna fu obliterata e vi si costruì sopra un muro con andamento nord-sud, alzato con una bella tecnica in pietre sbozzate sul faccia vista e mattoni di grande modulo. Altri muri furono intercettati alle spalle, poco più in alto, inducendo a ritenere che si trattasse di un complesso abitativo su terrazze, il cui abbandono fu datato verso la fine del I secolo d.C. Nel maggio del 2005 lo scavo fu ripreso ed ampliato, sia verso nord che sul pendio soprastante. Sotto una spessa coltre di terreno furono portati in luce altri muri che descrivevano vani d’abitazione, ma non fu raggiunto il piano calpestabile. Nella parte a monte fu individuata la continuazione della parete est-ovest già visibile più in basso: si tratta di un unico muro che delimita a nord ambienti posti su due livelli; di quello superiore è stata messa in luce anche parte della parete di fondo. Sempre su questo livello superiore, uno spesso muro in pietrame si sovrappone alle strutture preesistenti definendo un ambiente la cui parte avanzata è crollata, originariamente pavimentato con mattoni di reimpiego. Questo ambiente si riferisce ad una seconda fase abitativa in quest’area dopo alcuni secoli di abbandono: le strutture sottostanti, infatti, sembrano esser state abbandonate tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., rimanendo interrate e, sulla base dei materiali rinvenuti, vi si sovrappose questa abitazione apparentemente isolata intorno al IV secolo d.C. Lo scavo del livello inferiore risulta meno chiaro, in attesa di una auspicata edizione. Qui è stato scavato il proseguimento del muro nord-sud già parzialmente messo in luce nel 1999. E’ costruito con una bella tecnica, a filari di pietre sbozzate con rinzeppamenti litici; nella parte più a nord vi si sovrappone una parete trasversale in pietrame. Occorre dire che lo scavo, durato circa un mese, non è stato spinto

Figg. 77-79. In alto: frammenti di intonaco decorato da una discarica moderna nell’Area A9. Al centro e in basso: frammenti di intonaci e di cornici in stucco policromo dall’Area A10

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare deterioramento delle strutture, ma soprattutto da successive opere di contenimento in gabbie di pietra e cemento.31 E’ tuttavia stato possibile, attraverso continui sopralluoghi, studiare quanto veniva messo in luce dall’avanzamento della frana, consentendo così di esaminare in maniera “naturale” strati archeologici ben riconoscibili pertinenti a fasi diverse, a partire dalla fine del V secolo a.C. almeno nell’ambiente β.

fino all’originario piano di calpestio, né tantomeno sono stati fatti saggi in profondità alla ricerca di livelli di frequentazione antecedenti la data di presunta realizzazione della strutture nel corso del III o II secolo a.C. Appare evidente che il complesso di strutture messo in luce (unico, sulla collina, ad essere lasciato a vista) nel 1999-2005 vada ricollegato a quelle indagate nel 1993 e 1995 a pochi metri di distanza (sotto l’attuale piano stradale). La visione d’insieme consente di cogliere l’organizzazione di questa parte di abitato, con case che si sviluppavano su livelli successivi lungo il pendio. Tutte le strutture portate in luce negli scavi condotti presentano caratteristiche simili, con l’adozione di una peculiare tecnica edilizia che prevedeva l’utilizzo di mattonacci a integrazione di alzati in pietra. L’allargamento dell’area di scavo verso nord e verso sud potrà in futuro chiarire quali fossero le dimensioni di queste insulae abitative, con la scoperta di strade est-ovest che separavano i blocchi di abitazione presumibilmente a cadenza regolare. L’area B1 corrisponde all’angolo tra la circonvallazione e la strada che risale verso piazza S. Francesco, in cui negli anni ’50 del secolo scorso fu costruita la palazzina delle Case Popolari. A quell’epoca fu realizzato un profondo sbancamento, che si spinse diversi metri all’interno del substrato roccioso. L’esame della parete scavata alle spalle dell’edificio, eseguito in passato, evidenziava soltanto lo spesso strato di terreno che si era accumulato nei secoli sopra la superficie rocciosa, con affioramento di frammenti ceramici di varie epoche e di laterizi. Nell’inverno del 2011 una serie di violente e insistenti piogge ha determinato il franamento, a più riprese, del terreno, mettendo incredibilmente in evidenza una serie di strutture antiche e, soprattutto, permettendo di studiare in maniera naturale una stratigrafia che mai era stato possibile analizzare sulla collina di Caronia, neppure con i più sistematici scavi ufficiali. Alle spalle delle Case Popolari, su un tratto di circa 20 metri, apparvero infatti quattro spazi o “ambienti”, due dei quali, i più settentrionali (α e β), erano ricavati nella roccia e poterono essere con sicurezza attribuiti a vani d’abitazione per la presenza di materiali a contatto con i piani di frequentazione e di strutture murarie sovrapposte al loro interno. Gli altri due (γ e δ), più meridionali, rivelarono una natura diversa: γ presentava uno strato di pietre e laterizi frammentari al di sopra di uno strato terroso che, in via del tutto ipotetica, potremmo interpretare come il tracciato di una strada. L’ambiente δ era invece un profondo butto di forma circolare, sezionato dallo scavo, al cui interno si rinvennero, assieme a molti frammenti di mattoni e tegole, materiali databili ad età romana e medievale. Della scoperta fu fatta segnalazione alla Soprintendenza di Messina in due occasioni, per via telematica, rimaste senza esito per problemi tecnici, che evidentemente non permisero di annotare la segnalazione. L’erosione graduale della parete, con ripetuto distacco di ampie porzioni di terreno contenente peraltro materiale archeologico che non si poté recuperare, è durata alcuni mesi, completandosi nella tarda primavera dell’anno successivo. Un’eventuale indagine nel sito oggi è resa del tutto impraticabile non solo dal progressivo

Fig. 80. Localizzazione dell’area delle Case Popolari con indicazione delle strutture venute in luce a seguito delle frane (α−δ)

L’ambiente β presentava una larghezza di 4 metri. Una parete di roccia ampia 2,30 m. e conservata in altezza per 1 m. circa lo separava dal contiguo ambiente α. L’entità della frana, che ha praticamente “svuotato” l’ambiente in corrispondenza delle tre pareti di roccia entro cui fu ricavato, consentì di determinarne approssimativamente le dimensioni complessive in 4 x 4 metri circa. Quest’ambiente fu realizzato intaccando la roccia fino ad una certa profondità, per cui la parete di fondo, non visibile, doveva essere interamente costituita dalla roccia di base. Le due pareti laterali e parte di quella più esterna erano realizzate parte sfruttando la stessa roccia, parte integrandola con un alzato di mattoni crudi e pietre. Il piano calpestabile era costituito da uno strato di scaglie rocciose e terra giallastra. Non sono stati rinvenuti elementi del tetto, che forse era in materiale deperibile. La perfetta conservazione dello strato più profondo, a contatto con il piano roccioso, ha consentito di individuare una prima fase di occupazione, datata presumibilmente negli ultimi decenni del V secolo a.C. in base al ritrovamento di alcuni frammenti di ceramica 31

La conformazione assunta dal terreno dopo la realizzazione dell’edificio delle Case Popolari è peculiare: lo scavo in verticale per l’innesto delle fondamenta e il successivo allargamento delle strada soprastante hanno lasciato in vista un tratto di terreno in fortissimo pendio, con materiale di prevedibile sbriciolamento proprio per la presenza di cavità artificiali e resti murari antichi in profondità. Le frane hanno ulteriormente assottigliato lo spessore del substrato naturale tra strada e edificio, rendendo peraltro impossibili futuri saggi di scavo per il rischio di crolli. Le opere di contenimento recentemente realizzate, che hanno ricoperto buona parte delle strutture antiche venute in luce, servono solo ad arginare ulteriori franamenti ma non a stabilizzare il terreno. Appare evidente tuttavia che l’intera area a sud, soprastante il sito dei saggi 1999-2005, potrebbe invece essere indagata in maniera sistematica, fornendo nuovi dati sulle modalità insediative di epoca greca e romana su questo versante della collina

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia descritto appariva sigillato da uno strato di terra compatta assieme ad un crollo di mattoni crudi e pietre. La datazione di questi materiali fa presumere che la casa, quale ne sia stata la causa, fu abbandonata improvvisamente negli ultimi decenni del IV secolo a.C. Il livello superiore era caratterizzato da un crollo di pietre squadrate e mattoni, pertinenti ad un muro nordsud che è stato individuato meglio nel settore sud, originariamente alzato con pietre e laterizi. E’ probabile che il pavimento fosse in mattoni. E’ questa la fase tardoellenistica (II-I secolo a.C.) di occupazione dell’area, impiantata su uno strato di colmatura della fase precedente costituito da terra compatta di colore giallino contenente pietrisco e pochi materiali ceramici. Appartengono allo strato superiore un muro in pietra con andamento nord-sud, conservato per due filari, a cui sembra essere pertinente il crollo di mattoni sparso nelle sezioni centrale e settentrionale dell’ambiente, ed alcuni materiali, per lo più molto frammentari: ceramiche acrome e a vernice nera, frammenti di vetro, pezzi di anfore, tegole curve anche con bordo ingrossato riferibili ad epoca altoimperiale. Una pentola con bordo ispessito era ricomponibile per metà. Da menzionare un frammento di vaso in bronzo con bordo fittamente scanalato ed un curioso oggetto in metallo di forma circolare originariamente murato, con tracce di intonacatura rossa su fondo bianco, che presentava una sorta di sigillo esagonale con tre lettere (∆Γ∆?). Appartengono alla stessa fase alcuni brani di intonaco parietale bianco e grumi di conglomerato di calce (pavimento?). Non è da escludere che i mattoni rinvenuti a contatto con il muro, purtroppo scivolati in breve tempo a causa dello sgretolamento del terreno, fossero pertinenti ad una pavimentazione piuttosto che ad una parete. Lo strato di abbandono della I fase si presentava intatto per tutta la lunghezza dell’ambiente ed era come detto caratterizzato dalla presenza diffusa di bruciato, soprattutto nel settore meridionale dove si conservano in situ i resti di elementi lignei carbonizzati. Numerose pietre di varie dimensioni costituivano il crollo di pareti sparso soprattutto nel settore nord, dove era presente anche il crollo di mattoni crudi, a sigillare uno strato ricchissimo di materiali, databili tutti nella seconda metà del IV secolo a.C. Alcuni esemplari, come detto, si datavano tuttavia ad epoca anteriore, tra i quali alcuni frammenti di ceramica decorata a motivi geometrici di fabbrica indigena ed un vaso molto frammentario (hydria?) in argilla rosata e decorazioni lineari e ondulate sul collo di colore bruno-violaceo, entrambi recuperati nel settore sud a contatto con il piano base esposto. Uno strato di terra dello spessore di circa 0,40 etri., quasi del tutto archeologicamente sterile, separava il livello di abbandono di I fase da quello successivo, a cui appartengono un lembo di muro, conservato per due filari e per una larghezza di 0,50 m. nella sezione meridionale dell’ambiente, ed uno strato di mattoni (spessore laterizi cm. 7, lunghezza e larghezza non definibili), esteso su un tratto di quasi 2 metri, riferibili ad una struttura muraria che, in base ai materiali associati, si daterebbe al II-I secolo a.C. Essa doveva essere rivestita di intonaco bianco, come indiziano i numerosi frammenti sparsi ai piedi del muro nella terra accumulatasi.

indigena decorata a motivi geometrici e di ceramica a vernice nera di produzione coloniale. Sul lato sud dell’ambiente, con estensione in tutta la superficie, un consistente strato di bruciato, con resti integri di legno carbonizzato, caratterizzava il livello a contatto della roccia. Su di esso poggiava un tegame in frammenti con il relativo coperchio. Singolare il ritrovamento di un pezzo d’osso animale (bovino) all’interno della pentola. Questi elementi erano sormontati da due grandi frammenti combacianti dell’orlo di un pithos, che sigillava tra l’altro un corno di ovi-caprino probabilmente impiegato come utensile. Circa 15 cm. dietro questo strato di bruciato su cui poggiavano le ceramiche descritte si oservò quello che potrebbe essere un muretto in pietra con andamento trasversale rispetto alla parete principale, osservabile per circa 50 cm., che potrebbe anche avere costituito il paramento visibile della parete rocciosa di fondo nella parte ovest. A fianco era una condotta idrica in terracotta grezza, inserita all’interno di una più finemente lavorata con bordo piano, che dovrebbe appartenere alla fase successiva di occupazione dell’ambiente, come desumibile dai frammenti ceramici associati, databili ad età ellenistica avanzata, e dal fatto che essa non poggiava direttamente sul piano roccioso ma sormontava su un lato lo strato di bruciato che contraddistingueva questa parte dell’ambiente. Poco più a nord si osservò un accumulo di grandi frammenti di anfora non identificabile. La tipologia di ceramiche rinvenute (terrecotte da fuoco, pithos, anfora) fa presumere che questa parte dell’ambiente servisse da cucina e da dispensa. Tuttavia si sono incontrati associati anche frammenti isolati di ceramiche a vernice nera. Il lato nord della stanza presentava caratteristiche abbastanza diverse. Qui era visibile un crollo di mattoni crudi, di fattura piuttosto grossolana, che dovevano costituire l’alzato della parete nord. Essi sigillavano una concentrazione di materiali ceramici databili complessivamente tra il 350 e il 320 a.C., tra cui skyphoi e altro vasellame da mensa, con alcuni frammenti anche decorati a figure rosse o nello stile di Gnathia. Presenti anche due pesi da telaio di forma troncopiramidale molto tozza. Anche in questo settore si trovava, a contatto con il battuto di terra giallastra, un consistente strato di bruciato. La circostanza per cui il vasellame fosse concentrato entro un’area ben precisa e fosse in gran parte ricomponibile induce a ritenere che la casa sia stata abbandonata improvvisamente, non si comprende bene per quale causa (frana, terremoto?). Le ceramiche recuperate comprendevano vasi da mensa e da toletta: tre skyphoi a vernice nera con piede ad anello, uno con piede tronco-conico tipo Morel 4311, una piccola lekythos a vernice nera quasi interamente ricomponibile, un frammento di vaso a figure rosse con sovradipinture di metà IV secolo a.C., il pomello del coperchio di una lekane con decorazione a petali sovradipinti, una bassa coppa a vernice nera, una seconda coppa, sempre a vernice nera, una coppetta monoansata acroma, una brocchetta acroma, ecc.. Un piattino a vernice nera era stato coperto e spezzato da una grossa pietra in crollo, esattamente a metà dell’ambiente. Assieme a questi era il fondo di un contenitore in ceramica piuttosto grezza e piede ad anello ed un peso da telaio. Tutto il materiale

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 81-84. Area B1 – Case Popolari. In alto: alzato e ricostruzione in pianta dell’ambiente α (linea sottile: ambiente ricavato nella roccia di fine V secolo a.C. (?); linea larga scura: strutture di epoca medio-tardoellenistica; linea larga chiara: muro di età imperiale). In basso: alzato e indicazione dei livelli di frequentazione dell’ambiente β (linea sottile: ambiente ricavato nella roccia degli ultimi decenni o fine V secolo a.C.; linea larga scura: strutture tardoellenistiche; linea larga chiara: sovrapposizioni di età postmedievale)

materiali archeologici, si costruisce una nuova abitazione con muri in pietra e mattonacci, di cui sono visibili un lembo di muro e resti crollati di laterizi (mattoni e tegole) ed una condotta idrica fittile incassata sul margine meridionale dello scavo in roccia. I materiali associati sono molto frammentari e comprendono suppellettili databili essenzialmente tra la fine del III sec. a.C. ed il I sec. d.C. III Fase (epoca medio-tardo imperiale, III-IV secolo d.C.). Non si sono rintracciati resti murari in situ, ma esclusivamente materiali da crolli, a cui sono associati molte ceramiche di varie epoche, da quella ellenistica a quella imperiale avanzata. E’ probabile che non esistessero strutture abitative in questo punto, ma ai margini e a monte, e che i materiali crollati provengano da altro contesto. IV Fase (XVII secolo?). Lembi di muri in pietra e malta di calce, visibili soprattutto nella parte centromeridionale dell’ambiente, ormai non più riconoscibile, sono forse pertinenti ad una casa (rurale?), a cui si associano materiali ceramici moderni. Immediatamente a sud dell’ambiente β è stato in un secondo tempo individuato un altro vano (β2), la cui ampiezza supera i 2 metri, ben distinguibile nella parete scavata dallo spessore del pavimento in cementizio affiorante, scomparso nella parte più meridionale in corrispondenza dello spazio γ. Il livello su cui è realizzato questo piano abitabile è analogo a quello delle strutture

Al di sopra, nel settore meridionale, affioravano due muretti, uno a ridosso di quella che doveva essere la parete rocciosa dell’ambiente di I fase e uno in pietre tenute assieme da impasto di calce e sabbia, largo circa mezzo metro, databile ad epoca post-medievale, di cui farebbe parte uno spezzone di muro costruito nella stessa tecnica anche sul limite meridionale dell’incavo nella roccia. Questo muro trasversale si trova a circa 1,5 metri dal piano roccioso di prima occupazione, non distante dal piano cementizio moderno. Qui l’indagine è stata resa difficoltosa dalla ripidezza della parete. Tuttavia, allo stesso livello, nel settore nord dell’ambiente si osservavano pezzi di mattoni e pietre con ceramiche tardo-ellenistiche e di inizio impero, Prescindendo dall’esatta attribuzione cronologica del muretto descritto, si tratterebbe dell’ultima fase di occupazione dell’area. Complessivamente, l’ambiente β rivelò una serie di fasi di occupazione e abbandono, così riassumibili: I Fase (fine V secolo a.C. – 325 a.C. circa). L’ambiente era parte di una struttura abitativa, probabilmente ampia 4 x 4 metri circa, ricavato nella roccia con pareti in pietra e mattoni crudi. L’abbandono deve essere stato improvviso, forse per un incendio, in considerazione della presenza in situ di carbone e di tutte le suppellettili domestiche, comprendenti manufatti da mensa, da dispensa e da cucina. II Fase (epoca tardoellenistica e altoimperiale). Dopo una fase di apparente abbandono, qui mostrata da un’interro di quasi mezzo metro di spessore con pochi

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia I risultati preliminari delle ricerche condotte nel 2011 alle spalle delle Case Popolari32 hanno consentito di individuare una delle fasi più antiche di Kalè Akté. I dati rimangono tuttavia parziali a causa della portata dello sbancamento edilizio eseguito negli anni ’50, che deve avere intaccato una porzione di abitato di IV secolo a.C. a cui appartengono almeno due dei quattro “ambienti” messi in luce. Se va riferito con sicurezza ad epoca tardoclassica (fine V-IV secolo a.C.) l’ambiente β, sulla base dei materiali recuperati nello strato più profondo, per analogia (stesso livello base della roccia scavata) alla stessa epoca dovrebbe riferirsi il contiguo ambiente α, dove un probabile riutilizzo nei secoli successivi ed i rimescolamenti di terreno a seguito dello scavo per la costruzione dell’edificio moderno, non hanno consentito di individuare uno strato originario di frequentazione, consentendo soltanto l’osservazione di frammenti ceramici la cui cronologia varia dall’età ellenistica a quella tardoimperiale. La vicinanza alle aree degli scavi archeologici del 1993-1995 e del 1999-2005, nonché il rinvenimento di materiali sporadici di varie epoche (frammenti di intonaco dipinto, ceramiche, tessere di mosaico) intorno alle Case Popolari, induce a ritenere che si tratti di uno dei settori della città a più lunga continuità di occupazione, almeno dalla fine del V secolo a.C. al tardoantico.

murarie di II fase, da cui è separato da ciò che resta di un muro trasversale in pietra e mattoni costruito su una sporgenza rocciosa. Lo strato di terreno sottostante il piano in cementizio ha uno spessore di 10-5 cm. sopra il substrato roccioso e non contiene frammenti ceramici ma solo frustuli carboniosi. L’ambiente α è il più settentrionale tra quelli messi in luce in parete ed è visibile su un angolo dello scavo eseguito negli anni ’50. Considerato che questo lo ha tagliato ad angolo (è l’unico di cui si può osservare il fronte est) non se ne può determinare esattamente l’ampiezza di alcun lato. L’angolo di scavo rende visibile l’ambiente per un metro sul lato ovest e per circa 1,5 su quello nord. Il riempimento ad ovest evidenzia quanto resta di un muro a contatto con la parete di roccia ed un crollo caotico di pietre e laterizi, databile ad età ellenistica inoltrata. L’erosione a seguito delle piogge dell’autunno 2011 ha messo in vista un muro (A) con andamento est-ovest in pietra e pezzi di mattoni, conservato in altezza per oltre un metro. Un secondo muro trasversale (B), con orientamento nord-sud, è conservato per due filari di pietre e si segue per circa 1 metro, prima di continuare sotto il terreno. Quest’ultimo poggia su uno strato di terra friabile con resti di bruciato, che si sovrappone al livello della roccia spianata. I materiali associati al muro B sono di età imperiale avanzata, mentre alcuni frammenti presenti nell’interstizio tra il muro A e la parete rocciosa si datano ad età medio e tardoellenistica. Sul lato nord-est dell’ambiente è ben visibile un crollo di mattoni e di tegole curve, pertinenti probabilmente al lato nord-est della stanza. L’ambiente α fu ricavato entro la roccia, intaccata per un’altezza di quasi 2 metri. Allo stato attuale si conserva la parete sud per circa mezzo metro, foderata dal muro A; la parete ovest si intuisce per una lunghezza di circa 2 metri; quella est non è determinabile, poiché su questo lato esposto doveva esistere un muro distrutto dallo sbancamento, di cui potrebbero fare parte i crolli di mattoni e tegole. I materiali a contatto con l’ultimo piano di frequentazione si datano ad età imperiale avanzata, con frammenti di pentole di produzione africana e alcuni di sigillata africana D. L’ipotesi che si avanza in questo caso è che l’ambiente in questione sia stato scavato nella roccia contemporaneamente al contiguo ambiente β (entrambi hanno il piano di frequentazione allo stesso livello altimetrico) e che sia stato occupato, con successive modifiche e ristrutturazioni, per molti secoli, forse fino al termine dell’età imperiale. Si ritiene che lo scavo nella roccia sia stato eseguito alla stessa epoca dell’ambiente β, sebbene non siano stati rinvenuti materiali anteriori al III secolo a.C.. I muri, di cui si legge molto bene l’angolo sud-ovest ed il crollo di mattoni e tegole di quello nord, furono impiantati probabilmente in epoca medio-tardo ellenistica, fase a cui si associano frammenti ceramici rinvenuti quasi a contatto con il piano di calpestio e negli interstizi del muro sud, tra cui la parte inferiore di un unguentarium. Una nuova fase abitativa interessò l’area in epoca imperiale avanzata, a cui si riferisce molto materiale ceramico, soprattutto da cucina.

Fig. 85. Ambiente β. Crollo di mattoni crudi nella parte settentrionale del vano, che sigilla i livelli di epoca altoellenistica; in basso, il substrato roccioso

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Dopo il ripetuto verificarsi delle frane che hanno messo in luce i livelli archeologici di cui trattiamo, mettendo tuttavia in pericolo la stabilità dell’edificio delle Case Popolari, sono stati eseguiti alcuni interventi di messa in sicurezza del costone roccioso, attraverso la realizzazione di muri di contenimento sia in cemento che con pietrame entro gabbie metalliche. Un proseguimento o approfondimento delle ricerche in questo settore risulta pertanto oggi difficoltoso, poiché le opere di sicurezza hanno occultato quanto rimaneva delle strutture murarie affiorate, oltre che per l’esiguità degli spazi in cui sarebbe possibile operare.

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 86-91. In alto: veduta dell’area di frana alle spalle delle Case Popolari dalla strada che risale verso piazza S. Francesco e dallo spazio tra l’edificio e la parete scavata. Al centro: ambiente β, condotta idrica ellenistica e muro in pietrame a contatto con la parete rocciosa; materiali in affioramento: piattino a vernice nera. In basso: ambiente α, alzato delle strutture murarie affioranti nell’angolo settentrionale della parete scavata e muro di età imperiale con mattone circolare riutilizzato

La scoperta di questo settore abitativo di Kalè Akté, resa possibile da un evento naturale come la frana invernale a distanza di un sessantennio dallo sbancamento per la costruzione delle Case Popolari, riveste un’importanza notevole per rintracciare le prime fasi di occupazione del sito. E’ la prima volta che in collina si è

avuta la possibilità di studiare, seppure in maniera così particolare e senza la necessaria esecuzione di uno scavo scientifico, una fase abitativa intatta di IV secolo a.C. e presumibilmente della fine di quello precedente, con strutture perfettamente conservate e materiali in contesto.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia β pertinenti alla dotazione normale di una casa dell’epoca: pentole e tegami, contenitori da dispensa, vasellame da mensa, vasi per la cura della persona, ecc. E’ interessante, infine, che si possa datare agli ultimi decenni del IV secolo a.C. l’abbandono delle case (sicuramente dell’ambiente β) per un evento improvviso che dovette costringere i suoi occupanti a lasciare sul posto i beni della casa. Una nuova fase insediativa potrebbe avere riutilizzato le stesse strutture della precedente, prima della realizzazione di nuovi edifici nel corso del II secolo a.C. Alla fase medio-tardo ellenistica apparterrebbe la conduttura idrica affiorante sul margine meridionale dell’ambiente. Si tratta di una condotta in terracotta con tubuli inseriti uno nell’altro, piantata in profondità quasi a contatto con la roccia di base: nello strato di terra intermedio ispezionato si sono trovati frammenti ceramici non precisamente databili, di cui comunque si esclude una cronologia alta. Verso sud, l’esame dell’area B3 non ha portato a risultati significativi, a causa della vegetazione infestante e della sovrapposizione di livelli moderni o al più postmedievali. L’ultima area, B4 (propr. Di Dino), purtroppo è stata danneggiata dallo scavo operato a suo tempo dal proprietario per la realizzazione di un parcheggio, condotto fino alla nuda roccia. E’ stato tuttavia possibile esaminare numerosi materiali edilizi asportati, soprattutto mattonacci integri, alcuni dei quali con bordo modanato, che furono conservati per un eventuale riutilizzo. Pochi frammenti ceramici osservati si riferiscono a sigillate italiche. L’area tuttavia è degna di menzione per le notizie acquisite circa l’affioramento di consistenti livelli archeologici nella prima metà del secolo scorso in occasione dei lavori di costruzione di alcuni caseggiati. In quegli anni, lo scavo condotto in profondità, comportò la distruzione di strutture murarie e la messa in luce di materiali di epoca classica: si parlava, nel colorito linguaggio locale, di moltissime “ceramine” (ceramiche), di “lumiricchie” (lucerne) e così via. Un’idea di quanto veniva in luce si può avere esaminando i materiali riutilizzati in quelle case e il terreno sottostante, dove sono confluite sul soprassuolo molte ceramiche greco-romane e si è recuperato, tra gli altri, un torso di statuetta maschile fittile. I muri di contenimento, la cui realizzazione potrebbe risalire anche al ‘700, contengono esclusivamente materiale di riutilizzo, ben evidente dall’usura sia delle pietre che dei laterizi. Poco più a sud, in via Mazzini, negli anni ’70 Scibona33 scavò una cisterna contenente materiale ellenistico (II-I secolo a.C.). Nella stessa area, un piccolo lembo di terreno risparmiato dalle costruzioni moderne evidenzia un crollo di pietre, tegole curve e materiali ceramici frammentari, tra cui sigillate italiche e ceramiche a pareti sottili, oltre a tesserine di mosaico; qui si è potuto recuperare parte di un bacino in pietra calcarea bianca, di un tipo altrove attestato a Caronia. E’ questo il contesto archeologico più meridionale sul versante orientale della collina finora noto.

Figg. 92-94. Materiali in affioramento dall’ambiente β: skyphos, collo-bordo di anfora con orlo ad echino, bordo di pithos (seconda metà IV secolo a.C.)

Potremmo benissimo assegnare alle prime generazioni dei Calactini di Ducezio lo scavo nella roccia degli ambienti rinvenuti, forse la modalità più conveniente di occupare con semplici edifici abitativi il ripido pendio collinare Molto interessante è il rinvenimento di frammenti di ceramica indigena. Si tratta di un’argilla generalmente di color beige (ma anche arancio) contenente molti minuscoli inclusi litici, ben cotta, sbiancata in superficie e decorata a bande orizzontali o curvilinee di colore bruno. Frammenti simili erano stati rinvenuti sporadicamente sul versante orientale della collina, fluitati dall’alto. Al periodo di occupazione delle case, e comunque tra la fine del V e la metà del IV secolo a.C., si riferiscono probabilmente un’anfora con orlo a echino, il pithos e diversi frammenti di ceramiche a vernice nera e acrome rinvenute nell’ambiente

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Scibona 1987, p. 11

Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 95-98. Area B4. In alto: crollo murario in affioramento e muro di contenimento di via Montello costruito con materiale di reimpiego. In basso: strato di crollo affiorante sotto una casa moderna e materiali da esso provenienti (bacino in pietra calcarea, ceramiche a vernice rossa, tessere di mosaico, I secolo a.C. – I secolo d.C.) in un vicolo di via Mazzini

Il Settore C è stato suddiviso, anche in questo caso per facilità di studio, in alcune aree, da C1 a C4 procedendo da est verso ovest. C1 si unisce all’area A6 di cui si è discusso prima, C2 corrisponde al settore indagato negli anni ’90 con alcuni interventi di scavo (area sottostante Palazzo Cangemi), C3 e C4 corrispondono a due estesi fondi, rispettivamente di proprietà Di Fede e Zito. Il settore C di studio presenta gradi diversi di lettura a causa dell’abbandono decennale di diversi terreni agricoli, con persistenza di una folta vegetazione che impedisce l’accesso ad ampie fette di terreno. L’area che ha restituito le evidenze più importanti è quella centrale (C3), corrispondente ad un unico grande fondo agricolo (propr. Di Fede) in stato di semiabbandono, dove lavori agricoli eseguiti in passato hanno messo in luce livelli archeologici e soprattutto alcune strutture murarie ed un tratto di strada in discesa verso nord. Occorre osservare preliminarmente che, a differenza dei settori A e B, in questo caso sono molto rari i materiali di epoca medievale e, più in generale, successivi al I-II secolo d.C. L’esiguità di materiali di epoca arabo-normanna ma anche postmedievale è spiegabile considerando che la cittadella medievale si estendeva fino all’area oggi corrispondente a via

Settore C Il Settore C corrisponde al pendio che si sviluppa a nord della cittadina moderna, chiamato localmente contrada Telegrafo. L’area si sviluppa lungo un dislivello che si fa meno accentuato man mano che si scende di livello; un avvallamento contraddistingue la parte centrale. Occorre dire che si tratta di un’area di recente urbanizzazione: fino ai primi decenni del ‘900, l’area sottostante a nord il castello normanno era aperta campagna, con poche isolate case. La cittadina si era infatti sviluppata verso sud, mentre su questo versante essa rimaneva sostanzialmente compresa entro il tracciato delle mura medievali. L’unica costruzione degna di nota era la piccola chiesa di S. Antonio con l’annesso convento, costruita extra-moenia intorno al XVI secolo. Un esame della facciata esterna di questo edificio rivela come per la sua realizzazione si fece ampio ricorso a materiale di reimpiego dalla città classica, tra cui grandi blocchi di calcare e ovviamente laterizi. Le case che oggi costeggiano la via R. Orlando furono costruite nel corso del ‘900. In base a quanto riferito dagli abitanti di questo quartiere si segnala come lo scavo delle fondazioni mise costantemente in luce contesti antichi ed una grande quantità di materiali, come era logico aspettarsi.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Ducezio: un muraglione, infatti, doveva svilupparsi a partire dal castello e, correndo trasversalmente verso nord-est, chiudeva il centro abitato su questo lato, dove è molto probabile che si aprisse una porta urbica e si accedesse alla strada comunicante con la costa. Si può inoltre supporre che sino al XVI secolo, la parte sottostante il castello tra le attuali vie Ducezio e via Castello non avesse accolto che poche case. E’ per questo motivo che non si è avuto lo scivolamento di materiali medievali lungo il pendio sottostante. Peraltro, l’assenza di materiali di età imperiale successivi al I-II secolo d.C., ma anche di epoca altomedievale, fa ritenere che in questo settore della città antica l’abbandono sia stato definitivo. C1 non ha restituito dati significativi ai fini di una ricostruzione dell’organizzazione urbana in questo settore. Si segnala naturalmente la presenza di materiali frammentari di epoca ellenistico-romana, ma il notevole interro e la prolungata mancanza di arature profonde non ha rivelato alcunché di rilevante. L’area C2 è stata interessata da importanti interventi di scavo nel corso degli anni ’90 del secolo scorso, che hanno rivelato la struttura urbana di epoca ellenistica e altoimperiale su questo versante. In occasione della realizzazione della piazzetta sottostante Palazzo Cangemi, nella parete scavata sotto il piano stradale di via R. Orlando, fu rinvenuto un muro alzato con grossi ciottoli legati con terra, secondo una tecnica in uso localmente fino a tutto il IV secolo a.C. La datazione di questo muretto orientato est-ovest è stata assegnata intorno alla metà del IV secolo per il rinvenimento associato di una lekythos tipo Pagenstecher.34 Poco distante fu scavata una cisterna a campana contenete materiali tardoellenistici. Alcuni saggi di scavo furono resi necessari dagli ampi sbancamenti che intaccarono profondamente il pendio per la costruzione del muro di contenimento di cui si è parlato prima.35 Lo scavo mise in luce tutta una serie di strutture murarie e crolli di pareti per diverse decine di metri. Due trincee di scavo furono aperte in corrispondenza dell’attuale strada campestre che conduce ai fondi Di Fede-Zito. Uno dei due consentì di portare in luce alcuni ambienti delimitati da muri in pietra e mattoni, definiti a monte da un robusto muro in parte realizzato con una fitta maglia di mattonacci. Uno degli ambienti, di forma quadrangolare, presentava una pavimentazione in mattoni: l’assenza di tegolame nello strato di crollo ne ha suggerito l’interpretazione come spazio aperto, probabilmente un cortile. Un secondo ambiente doveva avere pareti finemente intonacate in bianco e rosso; nello strato di crollo furono rinvenuti frammenti di una delicata cornice in stucco con decorazioni vegetali. Gli ambienti, di cui se ne individuavano almeno 3, si aprivano su una strada con andamento est-ovest, pavimentata con ciottoli, sotto la quale scorreva una canaletta idrica con pareti in laterizio. Non è sicuro che il muro nord-sud identificato al limite orientale dello scavo delimitasse una strada in discesa in senso nord-sud, anche se plausibile. Pochi metri ad est da questo saggio, fu aperta una seconda trincea, dove lo scavo in profondità incontrò due pareti ad angolo, una 34 35

delle quali alzata interamente in mattoni, con piano pavimentale in cocciopesto. Appare evidente che si trattava, nel complesso, di un quartiere con case disposte su terrazze, adattate all’andamento della collina e delimitate da strade che seguivano anch’esse la conformazione naturale del terreno, che in questo settore si dispone con curve di livello perfettamente est-ovest, rendendo possibile un impianto regolare ed allo stesso tempo pittoresco, con vista mare. Il proseguimento delle opere di contenimento verso ovest permise la messa in luce di numerose cisterne, tutte del tipo a campana, che restituirono prevalentemente materiale tardoellenistico ed erano verosimilmente pertinenti ad un fitto abitato, di cui tuttavia si intravedevano soltanto livelli di crollo.

Fig. 99. Area C. Localizzazione delle principali emergenze archeologiche

L’affioramento di piccoli lembi di murature e di una grande quantità di materiale archeologico lungo l’intera linea di cantiere non portò, comunque, a ulteriori saggi di scavo, ma rese evidente che l’intero settore immediatamente a valle dell’abitato moderno, sotto la via R. Orlando e la sottostante via Telegrafo era interessato da cospicue presenze archeologiche. Prova ne sono le diverse cisterne a campana intercettate lungo la linea di cantiere, di cui dà notizia Bonanno,36 sicura testimonianza di case affiancate di cui tuttavia non è stato possibile indagare le strutture.37

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Bonanno 1997-1998 Molto interessante risulta il sintetico resoconto del materiale recuperato dalle cisterne, realizzate nel banco roccioso con integrazioni in pietrame e rivestimento con malta idraulica, databile in genere al tardo ellenismo. In una (A/93) furono rinvenute quattro brocche monoansate a corpo globulare e vernice rossa di produzione locale, di cui due integre. Nella cisterna C/95, esplorata nell’area del Piazzale di Casa Cangemi, furono rinvenute una situla in bronzo e una coppa bitroncoconica con ansa sopraelevata e applique con foglia cuoriforme, due lucerne a voluta con ansa plastica a foglia e circa 20 brocche del consueto tipo. I materiali confluiti nelle cisterne si datano tra I secolo a.C. e I secolo d.C. e, considerando che a quell’epoca esse dovevano essere già dismesse, potrebbero riferirsi a edifici abitativi esistenti sino alla fine del II secolo a.C. La dismissione delle cisterne, peraltro, suggerisce che l’approvvigionamento idrico di questo quartiere tra il tardo ellenismo e la prima età imperiale avvenisse in maniera alternativa, forse tramite l’uso di cisterne pubbliche 37

Bonanno 1997-1998, pp. 439-440 Bonanno 1993-1994, pp. 953-967

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Fig. 100. Veduta del fronte settentrionale della collina (c.da Telegrafo) da nord con indicazione delle aree d’indagine

Figg. 101-104. Materiali sporadici rinvenuti prima degli scavi 1992 nell’area sottostante Piazza S. Francesco e attualmente custoditi presso Palazzo Cangemi (tessere musive e porzioni di cocciopesto, intonaci policromi, manufatto in ceramica)

terra e vegetazione ne avevano invaso i resti. Eseguendone una ripulitura, si è potuto accertare che si tratta di una porzione, quella avanzata, di un livello abitativo che probabilmente si sviluppa ancora verso sud, ovvero verso l’interno del fianco collinare. Infatti, il saggio archeologico eseguito al di sopra dei muri, alla ricerca di un eventuale livello superiore di strutture (profondità circa 2 metri), non aveva portato alla luce alcunché. Si tratta di un muro di fondo realizzato con tecniche diverse, dove a grandi pietre squadrate nella facciata a vista si alternano pietre di piccole dimensioni e alzati in mattoni. Questo muro principale (W) è orientato in senso pressoché est-ovest, o più precisamente E/NEO/SO, secondo una disposizione identica a quella delle strutture portate in luce nel 1992 più in alto, sotto Palazzo Cangemi. Un muretto in pietre e mattoni orientato nordsud (muro A) e visibile per una lunghezza di circa mezzo metro, sembra chiudere ad est un ambiente, di cui non si è conservato il margine settentrionale, probabilmente franato a valle. Il muro di fondo di questo spazio è costituito da pietre sbozzate, visibili al di sopra di una sezione a mattoni e, nella parte centro-occidentale, da un imponente alzato in mattoni affiancati, affiorante fino ad un’altezza di quasi 2 metri; in questa sezione, la parte bassa del muro di fondo è delimitata da una sorta di banchina in pietra. Non si è rintracciato con certezza il muro che chiudeva ad ovest questo ambiente, sebbene

Nell’Area C3 (propr. Di Fede) che si estende sul pendio sottostante piazza S. Francesco e Casa Cangemi su una sorta di cavea piuttosto pronunciata nella parte centrale che si allarga verso la parte bassa, le ricerche eseguite da chi scrive hanno evidenziato quattro contesti principali: - un edificio parzialmente visibile sulla parte orientale della proprietà in questione (Casa C3); - un tratto di strada a gradoni messo in luce da lavori agricoli nella parte occidentale (Strada C3); - uno strato di terreno ricco di materiale archeologico accumulatosi pochi metri ad ovest di questa strada; - uno scarico di materiali affiorante su una parete poco più a nord-ovest della strada C3. La Casa C3 era stata oggetto di un’indagine preliminare da parte degli archeologi negli anni ’90.38 Lo stato di abbandono in cui era stato lasciato l’edifico dopo che era venuto alla luce in occasione di lavori di scavo per la realizzazione di terrazzamenti finalizzati all’impianto di ulivi, ne aveva determinato, più che il deterioramento, un peggioramento della lettura, poiché 38

Si tratterebbe delle stesse strutture descritte a nota 8) in Bonanno 1993-1994, dove si descrivono “alcuni muretti a secco di mattonacci” e si individuano “spessi frammenti di cocciopesto pavimentale che sembrano trovarsi in situ… intonaco parietale colorato e una forte concentrazione di frammenti di ceramica”, dei quali tuttavia non si è notata traccia

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia potrebbe presumere che una parete orientata nord-sud prolunghi verso nord un muro che chiuda ad ovest la struttura, ma di essa non si sono trovate prove significative, e che una stradella nord-sud delimiti l’intero complesso in questo settore. Circa 60 metri ad ovest della Casa C3, lavori di scavo agricolo hanno messo in evidenza, in parete, un tratto di strada (Strada C3), tagliata trasversalmente dallo scavo. La strada è caratterizzata dalla presenza di scalini il cui bordo è costituito da pietre sbozzate su tutti i lati e da una pavimentazione in acciottolato formato da pietre di diversa forma e dimensione, steso direttamente sul fondo roccioso appianato. La strada, orientata in senso S/SE-N-NO, è venuta in luce a seguito dell’erosione del terreno soprastante per fenomeni meteorologici, per cui è stato possibile esplorarla per una larghezza massima di 40 cm., su una tratto complessivo di circa 4,50 metri, con un dislivello da un capo all’altro, visibile in parete, di circa 1,50 metri. Sono stati individuati 3 gradini, posti ad una distanza media di 1,20 metri. Nella parte più settentrionale, il piano stradale scivola in profondità e, presumibilmente, continua oltre, ancora interrato. Il piano in acciottolato poggia direttamente su terreno sterile, formato da un breve strato di terra soprastante la roccia. A livello stradale erano presenti alcuni materiali significativi, tra cui una moneta bronzea di probabile zecca siceliota illeggibile, conficcata sotto una delle pietre del gradino n. 2; un chiodo in bronzo; un ago, anch’esso in bronzo; ceramica a vernice nera di tipo Campana C e frammenti di ceramiche a pareti sottili. Nel terreno al di sopra della strada, provenienti presumibilmente da livelli di crollo superiori, si trovavano ceramiche a vernice nera ed una porzione di statuina fittile. La circostanza per cui l’acciottolato poggia direttamente sulla roccia e non oblitera livelli di frequentazione precedenti, fa presumere che la strada risalga alla fase iniziale di occupazione di questo settore, probabilmente già al IV secolo a.C. La parte più settentrionale della strada era coperta da elementi edilizi, soprattutto mattoni, crollati in maniera caotica sopra un ridotto strato di terra. Ciò indica che la strada era fiancheggiata da edifici, come del resto dimostra uno spesso strato di crollo visibile in parete pochi metri ad est dell’inizio della strada. Un metro ad ovest del tratto finale esaminato, dalla parete seminascosta dalla vegetazione, affiorava una discreta quantità di materiali, soprattutto ceramiche. Si tratta di frammenti di anfore e di vasellame di uso comune, in gran parte inquadrabili tra I secolo a.C. e I secolo d.C.: frammenti di Campana C e ceramiche a pareti sottili, oltre ad altri frammenti acromi assegnabili alla prima età imperiale romana. La loro affinità con i materiali incontrati a livello della strada, che si trova ad un metro di distanza, induce a ritenere che si tratti di un unico livello stratigrafico associato al momento di uso della strada stessa, appunto assegnabile alla tarda età repubblicana-inizio impero. Il fatto che non si sia incontrato un solo frammento di sigillata italica potrebbe suggerire, senza tuttavia certezza, l’abbandono della strada stessa, e quindi delle strutture abitative che la fiancheggiavano, in un settore forse periferico della città, già alla fine del I secolo a.C.

una prova della sua esistenza sia costituita da un grande crollo di mattoni e pietre affiorante proprio in corrispondenza del limite occidentale. In questo punto, l’assenza di resti murari, accertata per una larghezza di circa 1 metro, induce a ritenere che esistesse uno spazio non occupato, forse anche una strada orientata nord-sud. Ad est del muretto A, a circa 3 metri, è visibile un altro muro nord-sud (muro B), di larghezza maggiore, alzato anch’esso in pietre e mattoni. Esso formava un angolo con la porzione visibile di una parete est-ovest (W1), probabile continuazione del muro W. La parete W1 continua anche ad est del muro B, fino ad un’altezza di 2 metri circa; si conserva discretamente nella parte bassa, mentre in alto mostra evidenti segni di uno smottamento, che ha comportato un disallineamento delle pietre che lo costituiscono. Il fatto che sembri interrompersi circa 1 metro prima del muretto A potrebbe significare o che si tratta di due strutture diverse oppure che in questo tratto doveva aprirsi uno spazio o una porta, questione che non può al momento risolversi a causa della grande quantità di terra depositatasi. Ad est del muro B si è potuto accertare che il muro W1 si allunga per circa 1 metro, sia in lunghezza che in altezza. Non si è potuto chiarire se esso poggi a mezz’altezza sulla roccia o se questa ne copra la parte inferiore. Elementi di crollo provenienti da quest’area sono visibili ai piedi della parete formatasi a seguito di continui movimenti del terreno. Si tratta in sostanza della parte avanzata di un livello abitativo, visibile complessivamente per circa 8 metri, con una serie di ambienti di medie dimensioni, il cui piano originario giace sotto il piano di campagna, che si sviluppa verso l’interno con altri vani interrati ad una profondità calcolata di 2-3 metri. Pertinenti allo stesso complesso abitativo, che doveva svilupparsi su terrazze, potrebbero essere i resti appena affioranti visibili in parete circa 5 metri più in alto (mattoni quadrati parzialmente impilati e spezzoni di tegole). Non sono stati individuati materiali sicuramente associabili alle strutture descritte, anche perché non è visibile il piano di calpestio delle stesse: pochi frammenti di ceramiche a vernice nera, rossa e acrome, assieme ad una porzione di elemento architettonico fittile decorato a onde continue, indicano solo genericamente che l’area fu frequentata a partire almeno dalla fine del IV secolo a.C. fino al I d.C. La datazione del complesso può sommariamente attribuirsi in base alla tecnica costruttiva, che tuttavia potrebbe anche non esaurirsi in un’unica fase. L’uso intensivo del mattone cotto di grandi dimensioni, assegnato ad una precisa fase della città, ovvero l’epoca tardoellenistica, induce a datare le strutture al II secolo a.C., con possibili rimaneggiamenti successivi fino alla fine del I secolo a.C. Più antico sembrerebbe il muro di fondo orientale W1, in associazione al quale era tra l’altro stato trovato un fondo di skyphos a vernice nera assegnabile almeno alla fine del IV secolo a.C. Impossibile precisare una data di abbandono del complesso, anche se, significativamente, non si sono osservati frammenti di sigillata africana. A ovest il muro W sembra terminare poco oltre l’alzato di mattoni, molti dei quali sono crollati in seguito a movimenti franosi o anche ad un movimento tellurico, considerata la posizione di caduta, spesso verticale, in cui si trovano. Si

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Fig. 105. Casa C3: planimetria dei resti murari

Fig. 106-107. Casa C3: muro B; struttura in mattoni affiancati

Circa 10 metri a nord-ovest dell’area in cui è emerso il tratto di strada appena descritto era stata osservata una parete di forma ellittica, costituita nella parte bassa da roccia, sopra la quale si estendeva uno strato terroso misto a pietrame di circa mezzo metro di spessore. Questo strato era delimitato nella parte ovest dalla stessa roccia, che qui costituisce il prolungamento della parete in questa direzione. All’interno dello strato era presente una discreta quantità di materiale archeologico, prevalentemente ceramiche, in uno stato talvolta molto frammentario, talvolta parzialmente ricomponibile. Assieme a diverse brocche acrome a corpo

globulare e alto collo con manico a bastone e ad altri frammenti acromi pertinenti a scodelle e piatti, si sono trovate diverse ceramiche a vernice nera, assegnabili già al IV secolo a.C. Nel complesso, i materiali compresi nel terreno sembrano datarsi tra IV e III secolo a.C., epoca a cui appartiene una moneta siracusana di Ierone II della serie Testa di Poseidone/Tridente con delfini ivi recuperata. In quello che sembra uno scarico domestico, si segnalano, tra gli altri: alcuni bordi di anfore grecoitaliche di fine IV-III secolo a.C.; un pesetto da telaio tronco piramidale (alt. c.a 3 cm) ed uno di forma circolare; una lucerna a vernice nera di forma cilindrica

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Altre evidenze di crolli sono visibili in diversi altri punti dell’Area C3, in particolare nella parte mediana, segnalando la presenza di strutture sotterrate in tutta questa fascia. L’esplorazione sistematica di questo settore non è stata molto agevole, a causa della vegetazione, spesso costituita da intricati cumuli di rovi che rendono alcuni punti del pendio del tutto inaccessibili, e dal fatto che questi terreni non vengono arati da molti decenni. Le ceramiche di superficie non sono in realtà molto abbondanti come in altre aree della collina, e si osservano un po’ ovunque materiali di età postmedievale e moderna qui fluitati e presenti generalmente negli strati più superficiali del terreno. In ogni caso, come accennato, tra i frammenti osservati non si sono riscontrati materiali successivi alla prima età imperiale e fino al XV secolo, indizio di un totale abbandono di questo settore di abitato a partire dal I o II secolo d.C. Si menzionano: il crollo CR1, caratterizzato dalla presenza di mattoni quadrangolari e tegole, 5 metri al di sopra della casa C3; il crollo CR2, visibile su una lunghezza di circa 6 metri poco ad ovest di CR1, costituito da un misto di frammenti di tegole e di mattoni con un gran numero di ciottoli; il crollo CR3, posto 5 metri ad est della strada C3, dove un complesso di elementi edilizi, alcuni dei quali quasi integri, si estende per una larghezza di circa 4 metri al di sopra dello strato roccioso; il crollo CR4, interpretabile come la parte affiorante di un muro sporgente dalla parete, sullo stesso livello dei crolli CR1 e CR2, circa 25 metri ad ovest, ora ricoperto da terra franata. L’insieme di questi ed altri punti di crollo meno evidenti, assieme alle strutture venute in luce, consente con buona precisione di dedurre che tutta l’area, fino ad una certa quota, era occupata da un consistente abitato che costituiva la parte avanzata verso nord della città collinare. Non risulta possibile chiarire al momento fino a quale quota si sviluppasse questo quartiere di Kalè Akté, ma la ricognizione eseguita più in basso, tra le contrade Telegrafo e S. Anna, con individuazione di concentrazioni di materiali di superficie in punti diversi, suggerisce che in questo settore l’abitato divenisse meno compatto, con case “sparse” e via via slegate dal corpo urbano.

databile nella seconda metà del IV secolo a.C.; ceramiche a pasta chiara; un frammento a vernice nera con bordo decorato a puntinature pertinente probabilmente ad una pisside globulare (prima metà IV secolo a.C.) ed uno con decorazione a tralci graffiti (metà IV sec. a.C.); un pesetto (?) metallico quadrato (spessore c.a 0,5 cm); alcuni fondi di brocche con piede ad anello e corpo panciuto. Va infine osservato che la consistenza dello strato soprastante la roccia non è uniforme: mentre quello ovest è costituito da terra mista a pietre informi di medie dimensioni, l’altro è costituito da un misto molto compatto di terra e sassolini, dentro al quale sono comprese ceramiche in stato estremamente frammentario, il che sembra indicare che il deposito non si è formato in maniera omogenea. Circa la sua formazione, considerando la conformazione complessiva dell’area, con il piano di campagna che, da sopra la parete scavata, si alza lievemente verso sud, e di profondi lavori di scavo agricolo che hanno stravolto la conformazione originaria del pendio, potrebbe trattarsi di terreno accumulatosi a seguito di discarica da abitazioni poste a monte. Si segnala comunque l’assenza di materiali successivi al III secolo a.C. Nella campagna circostante sono stati individuati alcuni materiali depositatisi tra l’erba, tra cui si menzionano una porzione di colonna fittile scanalata ed un pezzo di mattone con bordo modanato, oltre ad un elemento architettonico in pietra, costituito da un grande blocco di forma parallelepipeda perfettamente lavorato (dim. 0,70 x 0,20 x 0,15 m. circa). Da quest’area proverrebbe, peraltro, la base di colonna in marmo recuperata negli anni ’90 ed attualmente conservata negli scantinati di Palazzo Cangemi. L’Area C3 è stata esplorata su tutta la sua ampiezza da est a ovest e, verso il basso, fin dove lo consentivano le condizioni (soprattutto la notevole vegetazione infestante). Appare evidente che in questo settore, eventuali strutture murarie rimangono coperte da un notevole spessore di terreno, anche di 3-4 metri, per cui è impossibile individuarne i resti se non a seguito di occasionali scavi agricoli. Le pareti scavate per realizzare una decina di terrazzamenti, alte fino a 3 metri, non hanno intaccato il terreno in maniera sufficiente a mettere in evidenza muri chiaramente definibili, ma solo alcune aree di crollo, tra le quali si segnala soprattutto quella ad est della strada C3 esplorata, ampia oltre 4 metri per quasi 1 di altezza nella parte visibile, dove un fitto strato di pietre, mattoni e tegole fa presumere l’esistenza di un edificio a brevissima distanza sotto il terreno, forse costeggiato dalla strada stessa. Tra questo strato e la strada affiora dalla parete un lembo di muro in pietra, esaminato per una larghezza di circa mezzo metro ed un’altezza di due filari. La sua disposizione rispetto alla strada lo fa considerare parte delle strutture abitative poste ad est di questa, distanti circa 4 metri. Il muretto dovrebbe costituire una parete di fondo, considerato che alle spalle compare la roccia di base. Nel complesso, tutta questa parete scavata, ad andamento leggermente curvilineo SE-NO, intaccata ben al di sotto del piano roccioso di base, rivela con continuità la presenza dell’abitato, con case e strade, nonché depositi di materiali archeologico di vario tipo.

Fig. 108. Schizzo rappresentativo della parete(in alto) e delle strutture in pianta (in basso) in corrispondenza della strada nell’area C3

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 109-114. A sinistra: Casa C3, angolo tra il muro W e il muro A; al centro e in basso, strada nord-sud a gradoni con pavimentazione in pietrame. A destra: in alto, frammenti ceramici dallo scarico a ovest della strada. I materiali si datano tra la metà del IV e la fine del III secolo a.C.; in basso: rilievo della parte iniziale (merid.) della strada nord-sud tra due gradoni

L’Area C4 corrisponde all’intero fondo di propr. Zito. Presenta una forma pressoché triangolare, delimitata dalle case sottostanti via R. Orlando a sud fino alla c.da Bastardella, la strada comunale per S. Todaro a nordovest e quella campestre sempre per S. Todaro ad est. Livelli archeologici sono individuabili in più punti, anche nel settore inferiore, dove è stato osservato uno strato di crollo nelle vicinanze della strada campestre e frammenti ceramici principalmente tardoellenistici e altoimperiali a concentrazione medio-bassa, probabilmente da scivolamento. In quest’area già Scibona aveva notato resti di crolli murari ed un braccio di statua in marmo. La ricognizione nella parte mediana e superiore del fondo, ha evidenziato una situazione imprevista: nonostante si tratti di un’area di notevole interesse archeologico, il terreno mostra una presenza di materiali inferiore alle aspettative. Anche laddove in passato erano stati eseguiti lavori di terrazzamento con intacco delle pareti, dal terreno affiorano pochi materiali. Se si eccettuano alcuni probabili crolli murari in alcuni punti, non sono molto evidenti resti significativi di strutture antiche. Si segnalano diversi mattonacci frammentari, tegole curve, spezzoni di pavimenti in cocciopesto, una porzione di

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia macina in pietra lavica, radi frammenti di intonaco bianco. Una tale circostanza, in effetti già osservata nell’area C3 dove pure sono stati rinvenuti resti murari che attestano la consistente presenza di strutture antiche interrate, può essere dovuta ad una serie di circostanze. Prima fra tutte, l’assenza di arature profonde in tempi recenti che facilitassero l’affioramento di materiali archeologici: il terreno si presenta molto compatto ed il proprietario ha segnalato che da alcuni decenni non sono stati effettuati dissodamenti di una certa entità o lavori di terrazzamento che intaccassero in maniera significativa il terreno. In secondo luogo, la forte pendenza della collina in questo punto, che non permette lavori agricoli di un certo impegno (nel fondo sono presenti quasi esclusivamente alberi di ulivo). Infine, il forte inquinamento del contesto più antico con riporti di terra contenente materiali moderni, molto evidente nella parte superiore del fondo, causato dalla costruzione delle case soprastanti dalla metà del secolo scorso. La ricognizione, comunque, ha portato al rinvenimento di materiali ceramici frammentari, assegnabili soprattutto alla tarda età ellenistica e ad età imperiale: pochi i frammenti a vernice nera, più numerosi quelli a vernice rossa locale, mentre la maggior parte è costituita da ceramiche acrome genericamente qualificabili come ellenistico-romane. Sicuramente più significativi sono alcuni materiali recuperati dal proprietario nel corso degli anni, comprendenti diverse monete, alcuni oscilla decorati, manufatti in bronzo (cuspide di lancia, chiodi, anello), lucerne, ecc. che si collocano cronologicamente tra la seconda metà del IV ed il I secolo a.C., tranne una moneta bizantina di grandi dimensioni ed una arabonormanna. Chiaramente sono solo una minima parte di quanto, nel tempo, affiorava dal terreno: il proprietario ha raccolto, di tanto in tanto, solo gli oggetti che attiravano la sua attenzione, tra cui anche alcuni mattoni rettangolari e circolari integri oggi conservati a margine della casa che insiste nel fondo. Le monete rinvenute dal proprietario sono molto interessanti e indicative della circolazione monetaria nel sito. Sono comprese 3 delle 5 emissioni calactine (Testa di Apollo/Grappolo d’uva in 2 esemplari; Testa di Atena con elmo/Civetta su anfora in 2 esemplari; Testa di Apollo/Lira in 1 esemplare). Attestate sono poi emissioni di Halontion, Halaesa, Siracusa, Katane, Panormos, ecc. oltre ad una moneta di Roma in bronzo patinata in argento. Mancano del tutto monete di età imperiale. Un esemplare in bronzo di grandi dimensioni (follis), in cui si intravede una M (valore della moneta di 40 nummi), è di età bizantina, ed un’altra, di piccole dimensioni, con lettere cufiche, è di epoca arabonormanna (XI-XII secolo). Quanto agli altri reperti, due lucerne si datano ad avanzata età ellenistica (II-I secolo a.C.); ad età ellenistica si riferiscono anche gli oscilla, mentre le ceramiche (ansa di skyphos a vernice nera, collo di unguentarium, porzione di testina fittile, ecc.) si datano tutte tra la seconda metà del IV ed il II secolo a.C. Si segnala, infine, la presenza ai margini del fondo di una tegola piana con apertura circolare, utilizzata solitamente per l’areazione degli ambienti domestici o la fuoriuscita di fumi.

Settore D Questo settore corrisponde alle contrade Telegrafo occidentale e Bastardella, caratterizzate da un accentuato pendio collinare, parzialmente urbanizzato solo a partire dai primi decenni del ‘900. Fino ad allora, quando venne realizzata la cosiddetta “Via Nuova” (via R. Orlando) che percorre questa parte di collina partendo da piazza Calacta, qui esistevano solo campagne coltivate ad uliveto. Già in occasione dei primi sbancamenti per la posa delle fondamenta di nuove case, sono testimoniati ritrovamenti di materiale archeologico in più punti. Poco più di un ventennio fa, è noto il ritrovamento di strutture murarie e pavimenti a mosaico in c.da Bastardella, quando venne costruita una casa d’abitazione, mentre un muro39 ed alcune cisterne campaniformi, datati ad età ellenistica (III-I secolo a.C.) furono individuati, nella stessa area, in occasione dei lavori per la realizzazione di opere di consolidamento e contenimento nei primi anni ’90 del secolo scorso. Appare evidente che si tratta della continuazione verso ovest dell’abitato ellenistico-romano già individuato a nord in contrada Telegrafo.

Fig. 115 Ambiente con pareti interne intonacate di rosso messo in luce in contrada Bastardella nel 1997 (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

Ricognizioni sono state condotte a più riprese in questo settore, non facilmente indagabile per via di alcune recinzioni, della vegetazione e della ripidezza del terreno in alcuni punti, tali da renderlo praticamente inaccessibile. La prima cosa che è stata accertata è l’esito di una notevole frana che ha colpito, non sappiamo in quale epoca, il costone in corrispondenza del moderno abbeveratoio in via R. Orlando. Quando fu realizzata questa strada, vennero alzati muri di contenimento che impedissero ulteriori franamenti, in un settore dove oggi si può osservare come la collina scenda in maniera assai scoscesa verso la vallata del fiume. Sullo strato di terreno esistente al di sopra della massa rocciosa messa in luce, si possono osservare alcuni resti di crolli con mattoni e pietre squadrate pertinenti a fabbricati che dovevano insistere su un terreno a quel tempo dalla morfologia diversa e meno accentuata.

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Bonanno 1997-1998, p. 437. Si trattava di una parete ad angolo che definiva un ambiente, orientato nord-sud, internamente intonacata di rosso

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare parete di terreno (di contenimento di questa), mentre il muro in blocchi regolari ne costituirebbe il paramento esterno. La ceramica (poca, per la verità) osservata in contesto è databile ad età tardo ellenistica: si segnala, tra gli altri, una larga porzione di scodella in Campana C. I muri descritti sono collocati immediatamente al di sotto delle strutture e del pavimento a mosaico messi in luce da lavori di edilizia privata cui si accennava prima. I materiali osservati nell’area immediatamente sottostante comprendono ceramiche non più antiche della fine del III secolo a.C. e fino al I secolo d.C. Dopo una netta cesura di oltre un millennio e mezzo, le ceramiche successive si datano ad età postmedievale avanzata (dal XVII secolo in poi).

Scendendo a ovest, lungo la strada che, costeggiando la collina, conduce verso il pianoro di S. Anna a nord (settore D3), sulle pareti collinari scavate si osservano materiali archeologici (ceramiche e pezzi di intonaco dipinto). Fino al 2000 era visibile in parete il profilo della parte inferiore di un pithos (fig. 119). Successivamente, scavi per l’allargamento della strada che conduce ad alcune abitazioni private, hanno messo in evidenza, sulla stessa parete, distruggendoli in parte, alcuni muretti. Uno di questi (MD3.1), all’inizio della deviazione, è sicuramente databile ad età tardoellenistica per le caratteristiche tecniche dell’alzato: pietre locali squadrate con pietrame scheggiato negli interstizi (fig. 120). Esso si conserva su due filari poggianti sulla roccia di base ed è visibile per circa un metro, ma continua sicuramente sotto la parete verso nord. Resti di questo muro, che doveva avere una lunghezza di alcuni metri, sono inoltre individuabili in alcune porzioni di pietre dello stesso tipo verso sud. Altri due muretti (MD3.2 e MD3.3), realizzati con tecnica totalmente diversa (pietrame di medie e piccole dimensioni ben allineato) sono visibili poco più a sud, su livelli differenti, e potrebbero datarsi ad epoca tardomedievale o successiva, come dimostrano i frammenti ceramici ad essi associati. In questa zona, peraltro, gli sbancamenti per la costruzione di case, hanno evidenziato la struttura di base della collina, costituita da agglomerati di roccia più o meno compatta. Un quarto muro (MD3.4) è visibile quasi a livello della strada: esso appare leggermente più avanzato e ad un livello di poco inferiore al muro ellenistico MD3.1 e potrebbe appartenere alla stessa fase di quest’ultimo. Indagini nell’area immediatamente circostante, verso il basso, dove sono visibili ampi tratti di roccia scavata per la costruzione di case, non hanno evidenziato resti murari e materiale archeologico, per cui si ritiene che i muri prima descritti appartengano a case periferiche su questo versante. Percorrendo il tratto soprastante il muro di contenimento (settore D2), sulla parete scavata si osservano altri materiali (ceramiche acrome e a vernice nera, tessere di mosaico) ed un muretto affiorante, largo circa un metro, alzato in tecnica mista, non facilmente databile ma presumibilmente di età post-classica. Continuando verso nord si giunge in un terreno coperto da folta vegetazione, dove sono visibili diversi mattoni di fattura tardo ellenistica, probabilmente precipitati dall’alto (settore D1). Le case moderne sorgono una decina di metri al di sopra. Il ritrovamento più interessante ha riguardato un lembo di muro (MD2) dalle caratteristiche del tutto assimilabili a tanti altri ritrovati a Caronia, alzato con pietre sbozzate di forma pressoché quadrangolare, con rinzeppamenti litici tra di esse, a formare una bella maglia (fig. 121). Le pietre si conservano solo per due filari, per una lunghezza di circa un metro; il muro, orientato in senso nord-sud, continuava verso nord, dove in parete, più all’interno rispetto al muro MD2, affiora in basso una struttura muraria, seguibile per circa 4 metri, realizzata con tecnica diversa (pietre di varia forma e dimensione), mentre a livello dei resti visibili sono presenti parti di tegole curve: si tratterebbe, forse, della parte interna appoggiata alla

Figg. 116-118. Area D. In alto e al centro: individuazione delle aree d’indagine e delle strutture murarie affioranti. In basso: mattone circolare e materiali frammentari sul pendio eroso in D4

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia costeggiando la torre sud-ovest del Castello e da qui, con estrema difficoltà, scendendo verso il basso tra la folta vegetazione spontanea e il terreno smottato, ha avuto esito negativo. Frane recenti, infatti, hanno asportato i resti precedentemente visibili e reso non direttamente raggiungibili quelli rimasti. Si è potuto comunque verificare che qui, sul ripido pendio, esisteva un limitato caseggiato, con almeno un edificio dotato di portico (diversi i mattoni circolari), occupato non prima della fine dell’età ellenistica, stando ai materiali ceramici presenti in situ. Intorno alla zona interessata dai (pochi) resti, il terreno è totalmente sterile: stratificazioni di rocce argillose caratterizzano tutto il versante del sotto-castello occidentale. E’ pertanto da escludere un’occupazione intensiva del versante sud-ovest della collina sottostante il castello: qui, su un terreno profondamente segnato da vicende geologiche particolari, instabile e soggetto a movimenti franosi, non fu possibile espandere la città, ma realizzare solo isolati edifici che, peraltro, richiesero la creazione di importanti opere di contenimento. La sommità, occupata dal Castello, costituiva comunque l’acropoli della città greco-romana, oggi non più indagabile. La ricognizione su tutto il pendio, peraltro, non ha consentito di individuare chiaramente materiali antichi, neppure di epoca medievale. Si sono osservati, invece, scarichi di materiali dal XIX secolo ad oggi, probabilmente frutto di lavori di ristrutturazione degli ambienti interni del Castello eseguiti a più riprese nel secolo scorso.

Al di sotto del moderno muraglione di contenimento, superabile attraverso una scalinata in ferro, sono state eseguite alcune ricognizioni di superficie che non hanno portato all’individuazione di chiari resti murari, se si escludono alcuni cumuli di pietre da crollo, ma al ritrovamento di un discreto numero di mattoni rettangolari e di materiale archeologico, tra cui ceramiche a vernice nera databili a partire dal III secolo a.C., vasi in Campana A e C e frammenti di sigillata italica; si segnala il ritrovamento di alcune porzioni di intonaco parietale di colore bianco, rosso e azzurro e di poche tesserine di mosaico bianco, mentre sono totalmente assenti materiali databili ad epoca medio-tardo imperiale e bizantina. Questo materiale, come quello, abbastanza frequente, di epoca postmedievale, potrebbe provenire dall’alto, ovvero dal settore occupato da moderne abitazioni. L’impressione è che il muro MD1 appartenga alla parte più avanzata del quartiere di nord-ovest, sviluppatosi in epoca medio e tardo-ellenistica. Lungo la strada che prosegue verso nord in direzione di contrada S. Todaro, dalle alte pareti scavate emergono molti materiali, sia ceramici che edilizi (pietre, mattoni, frammenti di intonaco). Lo scavo per l’allargamento della strada esistente da molti decenni, almeno dall’inizio del ‘900, ha esposto il terreno lungo il fianco occidentale dell’altura per notevoli altezze. Alla relativa abbondanza di frammenti ceramici e laterizi affioranti, non corrispondono tuttavia strutture murarie o crolli ben definibili, per cui si ritiene che su questo versante periferico l’abitato si facesse più rado ma insistente a quote di poco più elevate. Le ceramiche coprono un arco cronologico compreso tra il III ed il I secolo a.C. E’ da segnalare come in ripetuti sopralluoghi non si siano mai trovati frammenti di sigillata italica o africana. In ogni caso, la presenza di questi elementi, alcuni in immediata posizione di crollo, induce a ritenere che l’abitato ellenistico si estendesse su tutto il versante occidentale della collina, almeno a partire dal III secolo a.C. Tenuto conto dei ritrovamenti, considerata la morfologia del terreno, che qui si presenta con una certa pendenza, si ipotizza l’esistenza di un abitato forse di tipo non compatto ma piuttosto con gruppi di case disposte sul pendio secondo una struttura regolare, ben adattate all’andamento del terreno, che si facevano più fitte man mano che ci si sposta verso monte. Da diversi anni si osservava sopra la via R. Orlando, nell’area sotto-castello ovest (area D4), una serie di resti interessanti, apparentemente isolati nel contesto generale di questa parte del pendio collinare. Qui, infatti, la collina assume una morfologia estremamente accidentata, con pareti in fortissima pendenza che evidenziano esiti di franamenti successivi attorno alla profonda rientranza segnata dal corso di un ruscello a portata stagionale. In un’area ampia circa 10 metri, affioravano dal terreno resti edilizi di una certa consistenza assieme a materiale ceramico. Il contesto, come detto, appariva isolato, poiché il pendio ai lati dell’area in questione non evidenziava alcunché, ma esclusivamente la roccia argillosa di base messa a nudo dalle frane. Un difficoltoso sopralluogo sul posto, raggiungibile esclusivamente da uno strettissimo passaggio tra le case circa 50 metri più a nord,

Figg. 119-120. Area D3, fondo di pithos tardoellenistico visibile in sezione (oggi scomparso) e muretto MD3.1.

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare stesse mura medievali abbiano ricalcato, in parte riutilizzandole, quelle di fase classica. Nei terreni sotto via Impero sono fluitati dall’alto molti materiali di varie epoche. Si riconoscono, in particolare, ceramiche a vernice nera databili già alla seconda metà del IV secolo a.C., tra cui frammenti di skyphoi e coppette con bordo concavo e ispessito. Relativamente alla fase ellenistico-romana, i materiali più recenti sono costituiti da un discreto numero di frammenti di sigillata italica. Dopo di allora, un lungo iatus separa i materiali assegnabili al XII-XIII secolo, tra cui ceramiche invetriate policrome, protomaioliche e maioliche tardo medievali. Si segnala la presenza di una vasca litica, realizzata scavando internamente un blocco di pietra rettangolare, riutilizzata presso un’abitazione moderna come vaso per piante, di un tipo riferibile ad epoca ellenistico-romana. Il terreno della scarpata non ha evidenziato resti murari antichi. D’altra parte, le condizioni disagevoli del pendio non avrebbero permesso uno sviluppo urbano su questo versante. I materiali ritrovati, invece, suggeriscono che sia la città classica che quella medievale si sviluppassero a monte (via R. Orlando), dove il pendio si fa meno accentuato raccogliendosi in uno stretto pianoro sommitale, percorso prima dalla plateia greca e poi dalla rua mastra medievale, principale arteria stradale per ognuna delle epoche di occupazione della collina.

Fig. 121-122. Muro MD2 e materiali ellenistici da ricognizione nelle aree D1-D2

Settore E Fig. 123. Area E: vasca litica riutilizzata come vaso

Si tratta delle ripide pendici sud-occidentali sottostanti la parte avanzata di via Impero, nella parte più meridionale del centro storico di Caronia. Ricordiamo che, almeno in età medievale, le mura di difesa chiudevano a sud l’area abitata e in esse si apriva una porta, ancora oggi conservata e localmente chiamata “Arco Saraceno”. Pur in assenza di resti visibili, inglobati in buona parte in edifici moderni, si può ipotizzare che in questo settore le mura si articolassero in tratti intervallati da torrette, quantomeno negli angoli in cui il tratto estovest rientrava verso nord. E’ dubbio, tuttavia, se anche sul versante occidentale, per sua natura scosceso, corresse una cinta muraria, ma riteniamo che l’intero abitato di XIII-XIV secolo fosse difeso con elevate murature, adattate al terreno. Ipotizziamo inoltre che su questo versante meridionale, il più accessibile, anche in epoca classica dovessero esistere strutture difensive, peraltro non rintracciate in alcun settore della collina e che le

Settore F Abbiamo ricompreso in questo ultimo settore d’indagine sia l’area del Castello che buona parte del centro storico di formazione medievale, considerando che il quartiere moderno, fin quasi al c.d. Arco Saraceno, si sovrappone quasi del tutto all’area urbana di epoca grecoromana.. Di difficile ricognizione per ovvi motivi (tutta l’area è recintata e parzialmente invasa da una folta vegetazione che si fa più rada solo sul versante nordoccidentale, peraltro estremamente ripido), il terreno che si estende attorno al Castello di epoca normanna, proprietà della famiglia Castro di Palermo, potrebbe rivelare dati di estrema importanza sulla Kalè Akté di

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia epoca greca classica, ellenistica e romana. Il Castello sorge, infatti, in cima alla collina, cioè sull’acropoli dell’abitato antico, tradizionalmente destinata ad ospitare un monumento di spicco in una città classica, di norma il tempio della divinità principale (nel nostro caso, probabilmente Apollo). Ma una porzione importante dell’abitato antico doveva insistere anche sui pendii immediatamente sottostanti, oggi occupati da case lungo la strada di accesso al Castello, destinati sicuramente ad essere sede di edifici forse fin dai primi decenni di vita di Kalè Akté. In verità è proprio qui che andrebbe cercato l’abitato di V secolo a.C., quello sorto ad opera di Ducezio. E’ noto il ritrovamento di materiali antichi in più punti del rilievo (elementi architettonici in marmo e ceramiche), mentre lo stesso Castello è stato costruito, nel XII secolo, in buona parte con pietra di riutilizzo ed una quantità cospicua di mattonacci ellenistici, ben visibili dall’esterno sull’intera cortina muraria che lo circonda, dove si osservano anche inserimenti di elementi architettonici in marmo, nonché nello stesso corpo del palazzo interno e nell’architettura delle aperture. All’interno dell’area fortificata è un’ampia cisterna, oggi coperta ed inaccessibile, che si suppone possa essere antecedente la costruzione medievale. Le architetture della cappella annessa, con le tipiche volte a botte, sono in buona parte costruite utilizzando mattoni integri presumibilmente recuperati sul posto, come di provenienza locale sono due colonne, una liscia e l’altra scanalata, presenti su una delle pareti interne della chiesa.40 Il castello fu costruito quando ormai non vi era più traccia della città greco-romana. L’area in cui sorse il borgo medievale, protetto da fortificazioni che si imperniavano proprio sulla fortezza in cima al colle, doveva presentarsi in parte deserta. Fu allora conveniente riutilizzare, per le nuove costruzioni, i materiali già disponibili sul posto, ovvero blocchi di pietre squadrate e mattoni; buona parte di questi, se non quelli di maggior pregio, furono destinati alle principali costruzioni, ovvero il Castello e la Chiesa di S. Nicolò o Chiesa Madre. Il Castello con le sue pertinenze, racchiuso all’interno di una cinta muraria propria lunga 220 metri circa, occupa un’area complessiva di circa 2500 mq. La città medievale, almeno fino al XVI secolo, era compresa all’interno delle mura di difesa, la cui lunghezza può essere ipotizzata in circa 720 metri. Essa occupava pertanto un’area di poco meno di 2 ettari, sensibilmente più ridotta di quella della città classica. La struttura urbana di questo piccolo abitato, incentrata su una strada nord-sud che congiungeva le due porte urbiche e si sviluppava in maniera piuttosto regolare sul crinale, con stretti vicoli che separavano gruppi di case adattate al pendio, è sostanzialmente rimasto immutato fino ad oggi. Purtroppo, interventi di ristrutturazione delle facciate realizzati soprattutto nell’ultimo trentennio, non consentono sempre di cogliere l’antichità degli edifici, alcuni dei quali sicuramente insistenti su strutture di XIIXIII secolo. Lo stesso vale per la muraglia di fortificazione, smantellata o inglobata quasi interamente

in costruzioni moderne: di essa, sopravvive un bastione in via Pasubio ed un tratto sotto la Chiesa Madre, più volte rimaneggiato, oltre al circuito dello stesso Castello. L’indagine della spianata antistante il Castello a nord, occupata solo da qualche pino marittimo, non ha sorprendentemente rivelato alcun segno di occupazione antica: rarissimi i frammenti ceramici, come i resti di materiali edilizi (solo alcuni spezzoni di mattoni e di cocciopesto). Gli intagli per terrazzamenti mostrano un terreno assolutamente sterile su tutta la zona esaminata. L’ipotesi che si avanza al riguardo è che all’epoca della costruzione del Castello, ma anche nei secoli successivi, tutta l’area sommitale della collina sia stata prima spianata e poi colmata da terreno allogeno per un notevole spessore, eliminando sostanzialmente alla vista qualsiasi avanzo antico. Tale ipotesi assume maggiore valore se si considera che alle ricognizioni superficiali non si sono evidenziati nemmeno materiali medievali e postmedievali, facendo presumere che tali opere di interro e appianamento siano state realizzate anche in epoca piuttosto recente. Un’ulteriore evidenza in tal senso è offerta da quanto osservata pochi metri più in basso (propr. Monterosso) dove in un’alta parete scavata di fianco alle case i materiali antichi sono presenti in strati piuttosto profondi del terreno. Si rileva, in quest’area compresa tra il Castello e le case a margine di via R. Orlando, il rinvenimento, dietro le abitazioni del settore più meridionale, di resti di pavimentazione in malta di calce e di tegole curve di probabile epoca tardoellenistica visibili in parete. Pertanto, l’unica area di interesse archeologico, per ciò che riguarda l’epoca classica, che è stato possibile visitare in dettaglio per effettuare ricognizioni significative, seppure estremamente limitata in estensione, è quella sottostante il Castello a nord-ovest, dietro la chiesetta di S. Antonio e la casa di proprietà Monterosso. Il terreno è in parte coperto da una folta vegetazione, ma in alcuni punti si osservano piccoli affioramenti di pietre allineate, forse pertinenti a strutture murarie sepolte. Sono stati osservati pochi frammenti di ceramica databili ad epoca ellenistico-romana, oltre a materiali di età post-medievale. Da fonti locali, si sa del ritrovamento, in quest’area, di monete, non sappiamo di quale epoca. Verso valle sono state costruite alcune case, tra cui l’ex sede del Parco dei Nebrodi, palazzo anch’esso di proprietà Castro (precedentemente parte della c.d. “Villa Mazara”). Sulla stradina che lo fiancheggia (vico R. Orlando), all’interno di una maglia riempita in ciottoli, sono stati riutilizzati una serie di mattoni circolari di epoca ellenistico-romana. Poco oltre, dietro un muro sono accatastati elementi edilizi antichi venuti fuori in occasione di scavi nel terreno: tra essi, va segnalata un’ampia porzione di pavimento in cocciopesto. Sul terreno dietro le case, tra queste ed il castello, la sezione scavata non ha fatto osservare resti murari, ma solo frammenti ceramici non riconoscibili, ma in parte sicuramente medievali. Una visita presso la famiglia Monterosso,41 la cui abitazione si trova a metà strada tra il Castello e la 41

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Si coglie l’occasione per ringraziare la famiglia Monterosso di Caronia per la disponibilità mostrata in occasione della visita, per

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare Chiesa di S. Antonio, ha consentito di fare alcune interessanti osservazioni su questa parte dell’area sottostante il Castello. La casa Monterosso è costruita utilizzando in parte murature di epoca probabilmente tardo-medievale: fa parte di un complesso di costruzioni che comprendeva anche un monastero, a cui era annessa la Chiesa di S. Antonio, impiantate sul settore della cinta muraria che congiungeva il Castello alla porta nord. La scalinata d’accesso all’abitazione corre a margine di un poderoso interro ricco di materiale archeologico di varie epoche. I proprietari hanno raccolto alcuni reperti che periodicamente, a seguito delle piogge, affiorano dal terreno. Essi comprendono alcuni frammenti di ceramiche a vernice nera, tra cui alcune parti di skyphoi databili nella seconda metà del IV secolo a.C., porzioni di anfore, frammenti di unguentari e ceramiche da cucina; interessante un peso da telaio di forma troncopiramidale con due fori sulla faccia principale, che presenta sulla sommità un sigillo impresso con figura umana. Di età post-medievale sono un’ampolla in vetro ed un manufatto in terracotta piano scanalato, interpretabile come arnese impiegato per il lavaggio dei panni. Interessanti sono pure alcuni grandi bordi di pithoi di tipo tardoellenistico appoggiati sugli scalini esterni della casa. Questi materiali erano contenuti in uno strato di terreno presumibilmente smosso in epoche passate e proveniente dall’area del Castello, le cui mura esterne distano pochi metri da qui. Il settore a nord-est del Castello è totalmente occupato da case, la cui disposizione all’interno di una maglia viaria irregolare, fatta di strettissimi vicoli ed alcuni slarghi, rivela un’origine piuttosto antica, risalente, nell’impianto, al XIII secolo. In questa zona non sono mancati, in passato, alcuni significativi ritrovamenti, tra i quali si possono ricordare quelli avutisi nel secolo scorso in Largo Risorgimento, con l’affioramento di materiali architettonici (porzioni di capitelli) e ceramiche varie di epoca classica. Nello stesso slargo è ancora visibile un elemento di macina in pietra lavica, sistemato come parte dell’arredo urbano (!), probabilmente proveniente dalla stessa area del Castello. Inoltre, occorre accennare anche al diffusissimo riutilizzo di materiali antichi nelle case di questo quartiere, ad esempio in via Sabotino e via S. Francesco, con una ipotesi, da verificare adeguatamente, di fondazione di molte di queste case nei primi secoli di vita stessa di Caronia. Un’indagine interessante ha riguardato l’esame della morfologia di questa parte di collina: dalla piazzetta di S. Francesco verso sud si osserva un andamento pianeggiante su un’area di circa 45 x 35 metri. Si tratta dell’unica area spianata in estensione nella collina, oggi occupata appunto dalla piazzetta e dal tratto iniziale di via Ducezio, affiancato da edifici abitativi continui. Si tratta sicuramente di un livellamento artificiale che deve risalire ad epoca classica, tenuto conto che proprio qui in mezzo correva la cinta muraria medievale e non era necessario spianare il terreno per altri scopi. La posizione centrale rispetto all’estensione della città ellenistico-romana

suggerisce ancora una volta che qui potesse essere ubicata l’agorà di Kalè Akté e che questa avesse un’estensione, appunto di circa 40 x 35 metri circa e fosse caratterizzata, sui lati est e nord da imponenti opere di sostruzione purtroppo non più verificabili dopo la realizzazione delle case del rione e dello stesso Palazzo Cangemi. In conclusione, sebbene non si disponga di dati sufficienti a formulare ipotesi concrete, si ritiene ugualmente che tutta l’area circostante il Castello sia di notevole interesse archeologico, come le poche ma significative testimonianze a disposizione e le stesse conoscenze circa l’urbanistica delle città ellenistiche siciliane, lasciano supporre. Si auspica la realizzazione di ricerche mirate da parte degli Organi competenti, che superino le difficoltà imposte dal fatto che praticamente tutta la parte alta della collina sovrastata dal Castello, che d’altra parte, caso unico e raro per un bene “collettivo” qual è un monumento antico, è di proprietà privata, risulta a tutt’oggi inaccessibile. Il centro storico di Caronia, pur nell’impossibilità di consentire adeguate ricerche per la fase greco-romana, riveste un altissimo interesse globale di tipo storico e su di esso dovrebbero condursi opportuni studi di archeologia medievale, fino ad oggi ancora possibili grazie alla persistenza del tessuto urbano e di parte degli edifici più antichi a partire almeno dal XIII secolo. Si è pertanto deciso di avviare una serie di ricerche per la preliminare raccolta di informazioni di tipo materiale ai fini di futuri studi mirati ad una conoscenza della fase medievale e post-medievale della collina di Caronia. Si è ritenuto opportuno, da un lato, fare una ricognizione degli innumerevoli esempi di riutilizzo di materiali di epoca greco-romana nelle costruzioni pubbliche e private insistenti all’interno del Centro Storico, in modo da tentare di rintracciare dati di qualche interesse sull’occupazione di epoca classica della collina, attraverso la lettura, sulle facciate delle case, di quanto sopravvive della città classica; dall’altro, si sono avanzate ipotesi sull’evoluzione dell’abitato medievale dal suo impianto (X-XI secolo) all’epoca in cui la città iniziò ad espandersi oltre le mura (XVI secolo). In tutti i casi in cui le indagini archeologiche si svolgono in siti che hanno avuto continuità di vita fino ad epoca moderna, si riscontra il fenomeno del riutilizzo di materiali antichi, impiegati in vari modi, spesso totalmente differenti dallo scopo originario, prevalentemente come elementi edilizi per la costruzione di edifici pubblici e privati. D’altra parte, la possibilità di impiegare pietre, laterizi e simili immediatamente disponibili sul posto, senza necessità spesso di sottoporli ad ulteriori lavorazioni, costituiva una fonte di materie prime utilizzabili a “costo zero”. E’ un fenomeno che si nota già in epoca antica, poiché edifici ellenistici impiegavano talvolta materiali di epoca arcaica, quelli di epoca romana riutilizzano spesso elementi di età greca, ma è soprattutto in epoca bizantina ed in genere medievale, in contesti spesso contraddistinti da una generale povertà e limitatezza di risorse, che il fenomeno diviene praticamente una consuetudine. Talvolta, come materiali da costruzione, si impiegavano anche elementi architettonici provenienti da templi o altri edifici

alcune interessanti segnalazioni nonché per avere offerto la possibilità di visionare l’originale manoscritto del canonico Volpe nel quale sono contenute notizie di rinvenimenti archeologici avvenuti nell’800.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia deterioramento: crollavano i tetti e le pareti, mentre dilavamenti e frane ne provocavano il progressivo interramento, ad eccezione dei monumenti più eminenti, realizzati generalmente con materiali più durevoli. Qui a Kalè Akté, intorno al III secolo a.C., si diffuse la tendenza a costruire muri in tecnica mista, impiegando la pietra locale (frequentemente ciottoli fluviali appositamente sbozzati) e i mattoni di terracotta, prodotti localmente in officine specializzate. L’impiego dei laterizi, davvero notevole e per certi versi esemplare nell’ambito delle edilizia di età ellenistico-romana in Sicilia, non rispondeva solo ad un particolare gusto estetico in ambito architettonico, ma ovviava alla relativa scarsità di buona pietra da lavorare ed alla necessità di assicurare stabilità e compattezza alle strutture costruite sul declivio. Le case erano quindi costruite intervallando gli alzati di pietra con quelli di mattoni, che arrivavano a costituire, in alcuni casi, circa un terzo dell’intero materiale impiegato. In quasi tutti i casi di strutture di quell’epoca esaminate, la tecnica impiegata è sempre la stessa, sia a Caronia che a Marina, sia all’interno del centro urbano che nel territorio circostante, nelle numerose fattorie esistenti nella vasta chora calactina. Elementi fittili erano impiegati anche nella costruzione delle colonne che delimitavano i portici di queste abitazioni: mattoni di forma rotonda e di varia dimensione, attualmente sparsi per le campagne in ogni contesto archeologico a Caronia. Facevano eccezione alcuni edifici di spicco, principalmente di tipo pubblico, ad esempio templi o edifici presso l’agorà-foro, per i quali dovevano essere impiegati elementi di maggior pregio, soprattutto buona pietra proveniente dalle cave esistenti presso S. Marco – Halontion e San Fratello – Apollonia. E’ molto probabile che un tempio o santuario sorgesse in cima alla collina,42 ormai obliterato dal Castello, ed un altro nello stesso luogo in cui, nel XII secolo, fu realizzata la Chiesa Madre, entrambi in posizione eminente. In base agli studi condotti nel sito, è opinione personale che l’agorà, con gli edifici pubblici annessi, sorgesse nell’area dell’attuale Piazza S. Francesco – Via Ducezio. Non è un caso che la gran parte degli elementi architettonici di rilievo sia stata individuata negli edifici ancora esistenti in queste aree, che potrebbero costituire un continuum rispetto alla disposizione urbanistica della città classica. La Chiesa Madre, edificata nel XII secolo e più volte ristrutturata e modificata nei secoli successivi, offre un campionario inimitabile di riutilizzi di materiali antichi: grandi pietre calcaree squadrate, blocchi di pietra locale, marmi, mattoni, tegole, perfino lembi di cocciopesto pavimentale. L’esame delle facciate dell’edificio offre innumerevoli spunti di studio e di riflessione, anche perché fanno sorgere l’ipotesi che il riutilizzo sia forse avvenuto nello stesso sito di quegli

pubblici: rocchi di colonne, fregi, blocchi con iscrizioni, anche parti di statue, sono impiegati così come sono o rilavorati per la costruzione di muri. Possiamo accennare ad alcuni casi verificabili in centri limitrofi a Caronia, sorti a seguito dell’abbandono dell’abitato di età classica. Così, ad esempio, sui resti dell’antica Apollonia, sul Monte Vecchio di S. Fratello, la Chiesa dei Tre Santi, di età normanna, è praticamente costruita con laterizi, tegole e soprattutto blocchi di pietra squadrata, provenienti dalle fortificazioni, da case private e dal tempio che in età ellenistica sorgeva probabilmente nello stesso posto su cui è stata eretta la Chiesa. Molti blocchi litici sono inoltre stati trasportati a poca distanza, dove venne costruito il centro medievale di S. Filadelfio, tanto che in alcune Chiese sono stati recuperati alcuni blocchi contenenti epigrafi greche. Ad Halaesa, il riutilizzo di materiali antichi inizia già in età tardo antica, forse dopo gli ingenti danno arrecati alla città dal terremoto del IV secolo d.C. Gli scavi hanno evidenziato una immediata ripresa di vita, protrattasi per tutta l’età bizantina, con la costruzione di nuove ed approssimative costruzioni che impiegano il materiale disponibile sul posto: pietre squadrate, laterizi, blocchi di colonne, macine in pietra lavica, ecc. Molti elementi edilizi e marmi lavorati furono poi impiegati nella costruzione della locale Chiesa di S. Maria dei Palazzi, nonché trasportati a monte mentre nasceva la moderna cittadina di Tusa. Anche S. Marco d’Alunzio è sorta sui resti di una città di età classica, Halontion, addirittura nello stesso sito. Il fenomeno dei riutilizzi, continuato fino ad età moderna, qui si riscontra principalmente nelle facciate delle numerose chiese, dove fanno bella mostra di sé grandi blocchi di pietra e colonne. Un breve studio condotto a Caronia ha consentito l’individuazione di molti materiali “dimenticati”, peraltro solo quelli ancora visibili, ovvero una minima parte di quel tesoro costituito da elementi architettonici, blocchi inscritti e reperti di pregio che soprattutto in età arabo-normanna, ma anche in seguito, gli abitanti del posto prelevarono dai contesti d’origine per farne materiale da costruzione. In proposito, occorre ricordare che, dai dati archeologici, appare evidente come il centro collinare venne quasi del tutto abbandonato per un lungo lasso di tempo, dalla prima metà del II almeno all’VIII-IX secolo d.C. e che solo dall’XI secolo si ha una ripresa di vita “cittadina”, con la creazione di un borgo organizzato urbanisticamente, successivamente fortificato e dotato di edifici importanti. A Caronia sono stati presi in esame, soprattutto, tre importanti edifici realizzati nel corso del II millennio: il Castello, la Chiesa Madre e quella di S. Antonio. Sembra infatti che la gran parte dei materiali più “preziosi” venisse impiegata nell’erezione di edifici di culto, i più importanti di un centro medievale assieme, ovviamente, alla residenza del regnante. Ma il fenomeno è stato riscontrato in innumerevoli casi, anche in semplici case d’abitazione costruite pure in epoca recente. Dopo l’abbandono di gran parte della città collinare, dovuto probabilmente sia a fenomeni naturali sia a nuove esigenze di tipo economico e sociale, le costruzioni di epoca ellenistico-romana, ormai abbandonate, andarono incontro ad un inevitabile

42 E’ naturale pensare all’esistenza possibile di un santuario di Apollo, più o meno monumentale, quale principale luogo di culto della città, riprendendo il testo dell’iscrizione SEG LIX 1102 appresso trattata in questo volume, l’unico finora attestato su base letteraria o epigrafica a Kalè Akté, sebbene se ne ipotizzino altri, urbani o extraurbani, su base numismatica (Atena, Eracle, Dioniso, Hermes) e archeologica (Demetra/Kore)

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare edifici di età classica spogliati dei loro elementi costruttivi. La struttura muraria della chiesa impiega materiali eterogenei, sia per natura che per dimensioni e disposizione. E’ peraltro probabile che siano di reimpiego gli stessi blocchi quadrati che costituiscono il primo gradino di accesso all’edificio religioso. Agli angoli meridionali della costruzione sono reimpiegati blocchi di medie e grandi dimensioni di pietra locale o di roccia calcarea d’importazione, alternati a fasce di mattonacci di epoca ellenistico-romana più o meno integri e, frequentemente, a porzioni di tegole piane; negli interstizi sono utilizzati spezzoni di coppi e pietrame minuto. Un grande blocco calcareo con tracce di fori (cardine di porta monumentale?) è ben visibile all’angolo sud-est dell’edificio. Sulla facciata meridionale, a sinistra della porta, è riutilizzata una porzione di cocciopesto pavimentale. Centinaia di mattonacci, molti dei quali integri, sono reimpiegati su tutte le facciate della chiesa e nel campanile. Di particolare interesse è un pezzo di fregio marmoreo, forse proveniente da una lastra decorata di probabile età tardoellenistica, visibile circa 7 metri dalla base nella facciata orientale dell’edificio. Il margine di un’altra lastra marmorea scolpita sporge dalla facciata meridionale del campanile a circa 3 metri di altezza, lungo una fascia decorativa dell’alzato realizzata con pezzi di laterizi. La chiesa di S. Antonio nell’attuale piazzetta S. Francesco, in base alle notizie disponibili, fu costruita extra moenia nel corso del XVI secolo. Anch’essa mostra i segni di rifacimenti successivi, probabilmente connessi allo sviluppo di un monastero, oggi non più esistente, nel cui complesso era inserita. L’impiego di interessanti materiali antichi nelle facciate dell’edificio, sicuramente reperiti in loco, fuori dall’abitato dell’epoca, suggerisce l’esistenza in quest’area di un edificio monumentale costruito con grandi blocchi squadrati di calcare bianco d’importazione. Nei muri si osservano, come di consueto, molti mattoni, tegole frammentarie e pietre locali sbozzate. All’angolo nord-est è inserito un elemento in pietra lavica di incerta funzione, costituito da un parallelepipedo con estremità triangolare e foro. La chiesa presentava originariamente delle aperture con lato superiore ad arco in pezzi di mattoni, chiuse sistematicamente in epoca recente, probabilmente dopo che l’edificio divenne autonomo dal preesistente monastero. Il Castello venne costruito sul punto più alto della collina, in un sito che dovette ospitare monumenti della Calacte greco-romana. Anche in questo caso, per la costruzione dell’edificio si attinse abbondantemente ai resti edilizi preesistenti di epoca classica. Uno studio dettagliato del Castello di Caronia è stata fatta nel secolo scorso da W. Kroenig.43 Lo studioso osserva come nelle murature del Castello e negli accorgimenti stilistici delle aperture siano stati impiegati mattoni di largo formato (50 x 25,5 x 8,5 cm.) di presumibile epoca romana. Di particolare interesse è stato il rinvenimento di due colonne in pietra calcarea messe in luce in uno dei pilastri della cappella, prive di basi, di certa età classica. Complessivamente, appare qui evidente il diffuso ricorso 43

a materiali antichi per la costruzione della fortezza nel XII secolo, nonché per alcune modifiche e ristrutturazioni che vennero fatte nei secoli successivi. Materiali antichi si osservano sia nelle mura esterne, sia nel corpo centrale a due piani. Oltre ai numerosi mattonacci, appare ben evidente il ricorso a grandi blocchi di calcare chiaro lungo la facciata settentrionale del palazzo, a formare l’intero angolo nord-ovest del corpo originario. L’ingresso al palazzo stesso presenta un arco in mattonacci integri di reimpiego. Interessanti esempi di riutilizzo di materiali antichi si riscontrano in diverse vie del Centro Storico: in via Ducezio, a pochi metri da piazza S. Francesco, un’intera scalinata è realizzata con mattonacci ellenisticoromani; in alcune case ormai dismesse di via S. Francesco e via Sabotino si osservano nelle murature innumerevoli pietre e laterizi di antica fabbrica; lungo il vico Caprino e in una casa abbandonata alla fine di esso, i materiali reimpiegati sono svariati e all’interno di quella casa, murature, volte e nicchie interne sono quasi interamente costruite con riutilizzi; in Largo Pasubio una scalinata esterna ed un fabbricato annesso mostrano numerosi reimpieghi di laterizi e di porzioni di cocciopesto. Gli esempi da elencare sarebbero molto più numerosi se in tante case d’abitazione non si fossero rifatte negli ultimi decenni le facciate, rendendo impossibile oggi osservare come l’usanza del riutilizzo di materiali edilizi antichi sia stata la consuetudine praticamente fino al secolo scorso. In via Foscolo, al di sotto della Chiesa Madre (c.da Bastione), è un alto muro di contenimento la cui epoca di realizzazione e le tecniche costruttive adottate meriterebbero approfondimenti. Qui esiste un notevole salto di quota (oltre 6 metri) in corrispondenza del cortile della Chiesa, il cui margine orientale dovrebbe ripercorrere il percorso delle mura di fortificazione medievali su questo versante. L’alto muro, conservato in facciata per circa 10 metri di lunghezza, presenta diverse fasi costruttive, ben riconoscibili dalle diverse tecniche murarie visibili e da sporgenze diverse tra strutture successive. Nella parte settentrionale, il muro è stato ricostruito in corrispondenza dei locali della Canonica, realizzata al di sotto della Chiesa e dell’edificio di servizio annesso. Lavori di ristrutturazione della Canonica eseguiti in passato hanno portato al rinvenimento di scheletri umani, presumibilmente appartenenti a preti e nobili del luogo, sepolti, secondo l’usanza, in locali sottostanti le pavimentazioni della Chiesa, presumibilmente già a partire da età medievale. Questo cimitero si estendeva ben oltre le mura, sul declivio sottostante, in un’area rimasta libera da costruzioni almeno fino al ‘700: scheletri con vesti clericali furono dissepolti ancora nei primi decenni del ‘900 in corrispondenza di via Montello. Il muro citato, sottostante la chiesa, appare realizzato a tratti in buona tecnica, con pietre locali squadrate e blocchi di calcare, misti ai consueti mattonacci; a tratti mostra una tecnica più povera, in particolare in alcuni rifacimenti, con pietrame vario misto a pezzi di mattoni e tegole. La base del muro appare ben solida e impiantata in profondità sotto il piano stradale. E’ comunque un peccato che in occasione dei lavori di

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia realizzazione della Canonica, relativamente recenti, non siano stati eseguiti sondaggi e saggi di qualche tipo per accertare la presenza di strutture interrate e materiali di epoca classica; gli stessi scheletri rinvenuti sono stati semplicemente rimossi. Quest’area, comprendente la Chiesa, l’alto muro di sostruzione del suo cortile e la contrada Bastione, sono particolarmente interessanti per ricostruire le vicende di

un settore della città classica e medievale, a partire dalla particolare conformazione della stessa: la Chiesa, costruita lungo il margine est della mastra rua, poggia su un ripiano artificiale ben riconoscibile attraverso i salti di quota apprezzabili sui lati nord (via Garibaldi), est (via Foscolo) e sud (via Torre), ampio all’incirca 850 mq (42 x 21 m.).

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 124-135 (nella pagina precedente e in questa). Riutilizzi di materiali di epoca classica nel centro storico: (124) blocco di pietra calcarea con foro (cardine?) e mattonacci nello spigolo sud-est della Chiesa Madre; (125) lastra marmorea o capitello con rilievo (foglie d’acanto e serpentello) nella parete est della Chiesa; (126) porzione di cocciopesto nella faccia sud della Chiesa; (127) lastre marmoree con rilievo e mattonacci nel campanile della Chiesa; (128) rilievo grafico del blocco decorato a rilievo nella facciata orientale della Chiesa Madre; (129) dettaglio del muraglione medievale sottostante il cortile della Chiesa; (130) pila di mattonacci nelle murature esterne del Castello; (131) blocchi di pietra calcarea chiara in uno degli spigoli del palazzo all’interno del Castello; (132) blocchi litici e manufatto in pietra lavica nello spigolo nord-est della Chiesa di S. Antonio; (133) blocchi litici e mattonacci nella faccia est della Chiesa di S. Antonio; (134) mattoni circolari sul pavimento di vico Ruggero Orlando; (135) macina in pietra lavica in Largo Risorgimento

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia collinare. A ciò contribuiscono i dati archeologici ricavati dagli pochi scavi eseguiti e quelli desunti dalle ricognizioni sistematiche condotte in tutta l’area. Come tipico centro siculo, per la fondazione di Ducezio è verosimile che fosse stata scelta proprio la collina, in quanto luogo meglio difendibile e comunque a poca distanza dal mare. L’individuazione di livelli di occupazione di fine V secolo a.C. nell’area delle Case Popolari a Caronia e alcuni materiali di rinvenimento sporadico sul versante orientale dell’altura confermano in un certo senso i dati delle fonti circa una fondazione della polis nella metà di quel secolo, evidentemente da rintracciare nella parte più alta della collina, purtroppo oggi quasi interamente urbanizzata. Dopo la fondazione, le fonti storiche tacciono circa il destino della città, che dovette vivere sostanzialmente “all’ombra” prima di Herbita e poi di Halaisa e fece probabilmente parte della symmachia guidata da quest’ultima in favore di Timoleonte. Il silenzio delle fonti è tuttavia colmato dalle numerose testimonianze archeologiche, talvolta solo accennate, che mostrano un centro vitale e prospero per i secoli seguenti, con una fase di massima espansione, sia urbanistica che economica, tra il III ed il I secolo a.C. Nel I secolo a.C. di Kalè Akté, ora chiamata latinamente Calacte, fa cenno Cicerone, che in quanto città decumana la inquadra all’interno di un territorio omogeneo che comprendeva altre città più o meno importanti (Halaesa, Amestratos, Apollonia, Haluntium). Calacte compare tra le città stipendiarie di Plinio nel I secolo d.C., inserita ancora tra i centri dell’interno. Ma è proprio nel corso di questo secolo che si verifica un cambiamento radicale che investe tutti gli aspetti della vita della città. Eventi non ancora chiariti portarono, tra la fine dello stesso secolo e l’inizio di quello successivo, al quasi totale abbandono del centro collinare: pochi rinvenimenti di ceramiche di età imperiale avanzata e bizantina provano che il sito rimase occupato solo da pochi nuclei familiari, mentre il grosso della popolazione si trasferì verosimilmente nel quartiere marittimo. Gli scavi archeologici, ponendo il I secolo dell’era cristiana come data di abbandono di quasi tutte le strutture portate in luce, hanno verificato spesso che i muri degli edifici, anche di quelli scoperti nella frazione di Marina, presentavano fratture e smottamenti che potevano essere addebitati ad un forte evento sismico o a violente frane e cedimenti del terreno. Dopo il II secolo la collina è in gran parte spopolata e solo rovine affiorano dal terreno un tempo occupato dalla città ellenistica fino all’età araba. La città arabo-normanna si impianta sostanzialmente su un sito semi-deserto e ne riutilizza parzialmente il tracciato viario e soprattutto i materiali da costruzione, rimanendo quasi inalterata, nella sua struttura urbana, fino ai giorni nostri. E’ questo il principale problema alla ricerca archeologica a Caronia, poiché proprio il centro della città, che doveva comprendere i principali monumenti civili e religiosi della città classica, non risulta più individuabile, né occasionali lavori di ristrutturazione all’interno del centro storico hanno consentito di effettuare studi e verifiche, lasciando solo poche e incontrollate testimonianze di ritrovamenti non più verificabili. Tuttavia, nonostante i molti ostacoli e la limitatezza di scavi sistematici nella collina di Caronia, si

E’ suggestivo pensare che si tratti di un terrapieno realizzato già in antico per ospitare un qualche edifico o monumento di una certa importanza, se non proprio in età classica, magari in epoca normanna proprio per l’erezione della principale Chiesa cittadina. Che qui potesse svilupparsi un quartiere importante della città ellenistico-romana sarebbe suggerito, peraltro, dai rinvenimenti avutisi nel declivio immediatamente sottostante (aree A9-A10), comprendenti, tra gli altri, un orologio solare, blocchi architettonici in pietra calcarea, preziosi stucchi e intonaci decorati. Va infine menzionata la significativa circostanza per cui nella campagna sottostante la Chiesa ed il gruppo di case raccolte a nord di questa lungo la via Calacta e vicoli annessi (aree A7A9), si sia rinvenuta la più alta percentuale di ceramiche di epoca medievale (X-XIV secolo), comprendenti numerosi esemplari di vasellame frammentario arabo, normanno e svevo: è qui che andrebbe pertanto ricercato il nucleo originario della città medievale, possibilmente sviluppatasi inizialmente nell’area compresa tra il Castello e la Chiesa per poi estendersi via via verso sud. Un altro muro interamente realizzato con reimpieghi di materiali antichi è quello che sostiene la via Montello. Esso dovrebbe datarsi al XVIII-XIX secolo, se non prima, quale argine di contenimento del quartiere extramurario sviluppatosi fuori dalle fortificazioni medievali successivamente al XVI secolo. Il muro, la cui altezza oscilla tra i 3 e gli oltre 8 metri in corrispondenza del vallone creato dal corso di un ruscello per il quale fu previsto un apposito canale di scolo, fu realizzato in pietra locale intagliata, roccia argillosa locale a spezzoni, blocchi di calcare e innumerevoli pezzi di mattoni grecoromani, oltre a frammenti di tegole curve di epoca sia classica che medievale. La fattura del muro, che mostra epoche realizzative diverse, è generalmente scadente e gli elementi che lo costituiscono appaiono sistemati a secco o legati da malta di calce e sabbia. Questo muro doveva continuare sia a nord che a sud, oltre la via Montello, e ad esso si addossarono nel corso del XIX e XX secolo le case che prospettano su via Mazzini. La dislocazione dei riutilizzi, la loro intensità in alcune case del paese e le caratteristiche stesse di questi reimpieghi, sono un indizio di preesistenze in determinate aree. Non si può stabilire con esattezza l’epoca in cui una pietra è stata intagliata per essere utilizzata in un muro, soprattutto a Caronia dove le tecniche costruttive sono rimaste sostanzialmente immutate dall’antichità fino al secolo scorso. Tuttavia il loro impiego in associazione a materiali sicuramente antichi come i classici mattonacci greco-romani è un significativo indizio di sfruttamento di preesistenti elementi edilizi presenti sul posto. Lo dimostra il largo impiego di queste pietre squadrate nei numerosi muretti di terrazzamento ben visibili lungo il pendio sottostante, la cui epoca di realizzazione è peraltro incerta, favorita dal rotolamento secolare lungo il pendio di materiali provenienti dall’alto. Conclusioni I dati fino ad oggi acquisiti consentono di delineare un quadro abbastanza attendibile circa la cronologia, le vicende e la topografia dell’abitato

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare possono fare delle interessanti ipotesi circa la topografia, la struttura urbana e la localizzazione di alcuni monumenti della città classica. Un primo passo consiste nell’individuare il limite dell’abitato nella sua massima espansione, avvenuta nella media e tarda età ellenistica, tenendo conto dell’assenza, in questo caso, di un limite certo costituito da una cinta muraria mai rintracciata sul terreno. Per fare questo, su un carta topografica dell’area collinare si possono segnare i punti di rinvenimenti significativi, possibilmente di resti murari, e da qui individuare l’area presumibilmente occupata dall’abitato. Non va peraltro trascurata la considerazione dell’area di dispersione dei materiali, seppure condizionata dalla pendenza dei terreni, che può offrire utili indizi ai fini di una delimitazione dell’abitato. Verso sud, il ritrovamento più importante è costituito da una cisterna contenente materiale di epoca ellenistica (II secolo a.C.) al n. 71 di via Mazzini44 e dall’affioramento di materiali, sia edilizi che ceramici, databili tra il II secolo a.C. ed il I d.C., a poca distanza nella stessa strada. Ad ovest, in un settore che ha conosciuto evidenti mutamenti nella morfologia nel corso dei secoli, materiali edilizi sono stati individuati nel ripido pendio sottostante il Castello e soprattutto nella c.da Telegrafo-Bastardella, fino al tracciato della strada comunale che scende verso c.da S. Todaro. A nord, i ritrovamenti più settentrionali sono quelli relativi ad una serie di crolli murari affioranti sulle pareti del terreno scavate per la messa in opera di terrazzamenti, almeno fino a quota 200 metri s.l.m., individuati nelle proprietà Zito e Di Fede. Ad est, infine, affioramenti murari e abbondanti ritrovamenti di materiali testimoniano una certa espansione dell’abitato sul pendio sottostante la strada per piazza S. Francesco, evidenziati all’interno della proprietà Schillaci e limitrofe. Così come appare sulla carta, Kalè Akté era una città di dimensioni medio-piccole. Rimanendo nel quadro dei centri della Sicilia settentrionale, aveva, ad esempio, dimensioni molto inferiori a quelle di Tyndaris, di poco inferiori ad Halaesa e a Therme Himeraiai, mentre appare di superficie simile ad Halontion, Kephaloidion e Solunto e più grande di Apollonia. Tuttavia, si deve tenere conto che l’abitato si articolava su due quartieri collegati, uno a monte e l’altro a mare e che presumibilmente un’area d’abitato sparso di connotazione domestica/produttiva si trovava nella fascia intermedia (c.de Telegrafo-S. Anna), senza contare che quartieri periurbani tardoellenistici, la cui ampiezza è da verificare, sono stati individuati nell’altura dell’Edificio scolastico e forse nell’area di Piazza Roma - Trappeto. Sebbene del quartiere marittimo non conosciamo con esattezza le dimensioni in epoca ellenistica, se consideriamo la città nel suo insieme, comprendendo ipoteticamente anche l’area discontinuamente abitata tra costa e collina, i termini di paragone con le altre città cambiano e solo Tyndaris la supera sicuramente in superficie e, presumibilmente, in numero di abitanti. Questi ultimi possono essere ipoteticamente calcolati in base al criterio dell’occupazione delle insulae abitative 44

che potevano essere comprese all’interno della città. Assumendo come misure compatibili superfici domestiche di circa 140 mq, ovvero case che avessero un’estensione approssimativa di 12 x 12 m., nell’area considerata, escludendo una zona centrale di ampiezza compatibile con il genere di città, occupata da monumenti pubblici, si arriva ad un numero di circa 500 case. Moltiplicando questo numero per quello degli occupanti di una singola casa (5 + 1 schiavo), si arriva ad un numero di abitanti, per l’abitato collinare, di circa 3000 individui. A Marina, per l’epoca tardo ellenistica, si sono calcolate, analogamente, escludendo eventuali aree pubbliche ed edifici di tipo commerciale, circa 140 case, per un numero complessivo di 840 abitanti. Complessivamente, Kalè Akté, all’epoca della sua massima espansione (II-I secolo a.C.) poteva raggiungere quasi 4000 abitanti, ovvero quelli di una città di dimensioni medio-piccole quale doveva effettivamente essere. Ovviamente si tratta solo di ipotesi, rese sommarie dalla limitatezza di edifici abitativi regolarmente scavati nell’abitato di cui si conosce solo parzialmente la planimetria e l’ampiezza. Ma si tiene conto anche di alcuni specifici aspetti accertati in situ, come la limitata ampiezza delle strade rispetto agli altri centri menzionati e la maniera fitta con cui le abitazioni sembrano disporsi sul pendio, sviluppandosi su terrazze, a cui si aggiungono i limitati spazi da adibire, in base alla natura del terreno, ad aree aperte, come l’agorà e relative pertinenze monumentali. Gli studi svolti sulla disposizione delle strutture portate in luce, eseguiti riportando su carta i dati forniti dagli scavi archeologici e quelli desunti dalle verifiche sui resti altrimenti osservabili sul terreno, hanno consentito di individuare con buona approssimazione l’assetto urbano di Kalè Akté. Si è osservato, innanzi tutto, che gli edifici parzialmente scavati presentano tutti un medesimo orientamento, con pareti disposte con devianze di alcuni gradi rispetto al nord. In pratica, nel settore orientale della collina, i muri di fondo delle case presentano un andamento N/NO – S/SE; nelle case rintracciate nel settore settentrionale, le stesse pareti hanno un orientamento S/SO – N/NE. Presumendo che il tessuto urbano nelle aree non scavate rispecchi quello accertato, ciò significa che tutto l’abitato, con le case e le strade, si orienta rispetto al nord con una deviazione di alcuni gradi verso ovest, dove le strade che percorrono la collina in tutta la sua lunghezza, compresa quella che dovrebbe essere la plateia principale, hanno un orientamento N/NO – S/SE. I tratti di strade intercettati dagli scavi o individuati sul terreno sono fino ad oggi tre: uno, che va da sud a nord, nel saggio 1993 sotto S. Francesco45; un altro, osservato nel 1992 nello scavo sotto Casa Cangemi, orientato est-ovest46; il terzo rintracciato in c.da Telegrafo 45

Questa strada in acciottolato è stata intercettata solo per un breve tratto, affiancata da almeno una casa sul lato est, ma non se ne è potuta accertare la larghezza, che comunque doveva essere modesta. La stessa strada sembra peraltro svilupparsi, attraverso gradoni in pietra, verso il pendio e non è chiaro se possa trattarsi di un incrocio tra la strada nordsud ed un vicolo che invece scendeva in forte pendio in senso ovest-est. 46 Questa strada presentava un piano in acciottolato e se ne può ipotizzare lo sviluppo verso est (dove forse incontrava una via nord-sud

Scibona 1987

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia che scende da sud a nord di cui abbiamo dato notizia. Tutti e tre, portati in luce solo per limitate ampiezze, presentano la rotazione verso ovest a cui si è accennato prima; tutte mostrano una caratteristica pavimentazione in ciottoli e pietre informi; le prime due corrono piane o in lieve pendenza, la terza, scendendo in direzione mare, si sviluppa attraverso gradoni realizzati con blocchi di pietra locale. Tutte sembrano mostrare una larghezza piuttosto limitata (massimo 3 metri). La città doveva essere quindi scandita da alcune plateiai con andamento nord-sud e stenopoi est-ovest, tutti di limitata ampiezza. La strada principale doveva essere quella successivamente ricalcata dalla via mastra medievale che partendo dall’odierna Piazza Calacta percorreva in direzione nord tutto l’abitato per terminare oltre Piazza S. Francesco. Il suo andamento relativamente irregolare ravvisabile oggi è sicuramente frutto di sovrapposizioni di strutture a partire dalle poche case di età tardoantica e poi di epoca arabo-normanna.47

Fig. 137. Pianta del settore centro-meridionale di Solunto (rielaborazione da Wolf 2003)

Il complesso urbano calactino, a considerare le risultanze finora acquisite, in altre parole, avrebbe avuto una struttura pseudo-ortogonale, non dissimile da quella di Halaesa e di Solunto, anch’esse impiantate su colline dai pendii talvolta accentuati, con adattamenti e parziali digressioni dovute all’andamento dell’altura. La conformazione di quest’ultima si prestava ad un simile tipo di struttura, ad esclusione del versante occidentale, più irregolare. Come le due città menzionate, potrebbe avere adottato questo schema urbanistico già nel corso del IV secolo a.C. La fotografia aerea dell’abitato moderno, che rispecchia quasi fedelmente quello di epoca medievale, fa solo intuire una simile forma, soprattutto nell’andamento delle strade lunghe che percorrono il crinale da nord a sud. In proposito va senz’altro rimarcato che il centro di età arabo-normanna si impiantò su un sito in larga parte abbandonato da diversi secoli e poté sfruttare o riutilizzare solo in parte gli assetti urbani antichi, in particolare la lunga plateia (che rimase probabilmente in uso anche dopo la fase di abbandono a servizio delle case rimaste abitate) che da sud saliva verso la cima del colle, sede presunta dell’area pubblica, centro civile e religioso della città classica. Quest’ultima era con tutta probabilità ubicata nella parte alta della collina, strutturata anch’essa su livelli diversi realizzati attraverso terrazzamenti artificiali. Una simile disposizione è stata ipotizzata non soltanto considerando la struttura della nostra città, ma anche procedendo per similitudine con un sito coevo morfologicamente simile come Solunto, dove l’agorà, ubicata in posizione panoramica, sfrutta un’intera terrazza, su cui si trova anche una cisterna pubblica, e si completa con i monumenti che la sormontano sul livello superiore: teatro, odeon e ginnasio. Qui la piazza era circondata su tre lati da una stoà, come ad Halaesa; in tutte e due le città, l’area aperta era pavimentata con mattoni di terracotta. Simili espedienti potevano ben applicarsi a Kalè Akté, dove un ampio spazio che oggi si distingue per una sorta di livellamento artificiale è quello corrispondente all’area sottostante a nord-est il Castello, dove oggi sorge la chiesetta di S. Antonio, piazza S. Francesco, il tratto iniziale di via Ducezio e l’ex Giardino

Fig. 136. Ipotesi di struttura urbana pseudo-ortogonale della città collinare sulla base dei tratti di strade finora identificati con certezza (B-C-D) e del presumibile percorso della plateia nord-sud (A), che doveva raggiungere l’area pubblica (F) ipotizzata nella spianata corrispondente alle odierne piazza S. Francesco e via Ducezio al limite orientale del saggio di scavo) e verso ovest. La parte avanzata pare sia franata a valle assieme alle strutture di case ricavate sotto il suo livello. Possiamo ipotizzarne una larghezza compresa tra 2,5 e 3 metri e considerarla uno degli assi viari principali della città in quanto nodo di sviluppo di tutte le strade che scendevano verso nord. 47 La collina non rimase mai completamente spopolata per lunghi periodi e si può ipotizzare che, probabilmente a partire dal tardoantico, una serie di case siano state costruite lungo ciò che rimaneva dell’antica plateia ma in maniera casuale e caotica, determinando, con la progressiva agglomerazione di strutture abitative, una modifica del percorso, divenuto infine sinuoso come si osserva oggi

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare Mazara. E’ presumibilmente da qui che provengono due basi di colonna ritrovate una sul pendio sottostante e l’altra fino a pochi decenni fa ancora in situ48, nonché diverse pietre di calcare bianco lavorate di grandi dimensioni, provenienti da edifici monumentali, reimpiegate nella costruzione della stessa Chiesa di S. Antonio. Il ritrovamento di un’iscrizione greca, di frammenti di altre iscrizioni e di elementi architettonici in marmo o terracotta, dell’orologio solare sul versante orientale della collina, peraltro, inducono ad ipotizzare l’esistenza di monumenti pubblici su questo lato del rilievo, forse lungo la stessa plateia che conduceva all’agorà. Dietro la piazza circondata da portici potevano trovare posto, su terrazze successive, un edificio per le adunanze del governo locale (bouleuterion), forse anche un piccolo teatro e, nella parte sommitale, un santuario con gli edifici annessi (il santuario di Apollo dell’iscrizione?), oltre ad altri fabbricati a destinazione pubblica. L’area, che oggi potrebbe apparire piuttosto decentrata nella disposizione urbana assunta a partire dall’età medievale, costituiva invece, in passato, il baricentro della città, considerandone l’accertata estensione sui declivi settentrionale ed orientale. Sarebbe da ipotizzare la realizzazione di imponenti opere di sostruzione sui lati est e nord dell’agorà, considerando l’entità del pendio in quei settori. Purtroppo, verifiche materiali di queste ipotesi sono state fino ad oggi impossibili, sia perché le case moderne hanno in gran parte coperto l’area, sia perché non sono mai state eseguite indagini archeologiche in questa zona, in buona parte ancora di proprietà della famiglia Castro, che possiede anche il Castello. La recente ripavimentazione della piazzetta di S. Francesco non ha peraltro comportato uno scavo a profondità sufficienti a rintracciare il piano originario antico. Degna di menzione appare la tecnica edilizia calactina, che fa quasi esclusivamente uso di materiali reperibili in loco, in particolar modo ciottoli fluviali di arenaria largamente presenti nel territorio, sbozzati parzialmente o totalmente; in seconda istanza venivano impiegati lembi di roccia locale dalla caratteristica composizione a strati, non molto coerente e sfaldabile. Solo negli edifici monumentali sembra che venissero impiegati blocchi di calcare, principalmente provenienti dalle cave nell’area dell’antica Halontion o in quella di Apollonia: di essi rimangono numerose testimonianze nel riutilizzo in strutture medievali e post-medievali (castello, chiese e case d’abitazione). Fino a tutto il IV secolo a.C. gli alzati dei muri erano realizzati con semplice pietra locale legata con malta di terra, nonché utilizzando mattoni crudi. A partire dal III secolo a.C. si iniziano ad impiegare in maniera sempre più frequente i laterizi: caratteristici mattonacci di grandi dimensioni (mediamente 50 x 34 x 8 cm) inizialmente realizzati con argille semicotte e successivamente fabbricati in apposite fornaci che andrebbero cercate nell’area della città antica, come dimostra il costante rinvenimento di scarti di lavorazione e materiali ipercotti. Questi laterizi

continuarono ad essere impiegati nell’edilizia locale fino a tutta l’età imperiale, con officine in attività almeno fino al IV secolo d.C.49 I recenti rinvenimenti presso le Case Popolari di cui si è data notizia, preceduti peraltro da analoghe osservazioni in altri punti della collina (quartiere Bastione e Area A4), fanno luce sulle modalità abitative nel primo secolo di vita della città, quando le case venivano ricavate nella roccia, scavata fino ad una certa profondità, circostanza che assicurava una certa stabilità degli edifici in terreni a forte dislivello. La base di roccia era quindi integrata da alzati di mattoni crudi e pietrame. Le strutture scavate fino ad oggi rivelano, per il periodo compreso tra III secolo a.C. e I d.C. una consueta tecnica mista, con muri realizzati con pietra locale sbozzata nella faccia-vista alternati ad alzati di mattoni. Alcune pareti sono interamente realizzate con laterizi. I risultati degli scavi in c.da Pantano a Marina, sebbene con alcuni dubbi circa l’effettiva cronologia delle strutture portate in luce, suggeriscono che in pianura gli edifici di IV e, forse, anche di V secolo a.C. fossero interamente realizzati con ciottoli fluviali non lavorati, abbondantemente presenti nella spiaggia antistante. Risalgono al II-I secolo a.C. murature di notevole compattezza e gusto estetico realizzate con filari di pietre arenarie ben sbozzate, integrate da schegge litiche, su cui si ammorsavano filari orizzontali di mattoni con sviluppo in altezza. Da notare che una tecnica molto simile, senza laterizi, caratterizza anche l’edilizia della cittadina moderna, circostanza indotta dal susseguirsi ininterrotto di tecniche tradizionali assieme alla necessità di utilizzare i materiali disponibili in loco. Relativamente alle tecniche di copertura degli edifici, i numerosissimi laterizi frammentari sparsi nelle campagne si riferiscono principalmente a tegole piane e curve relative ad un arco cronologico che va dal III secolo a.C. al I-II d.C. Le caratteristiche dell’argilla, assai simili a quelle dei classici mattoni che caratterizzano l’edilizia calactina, fanno presumere una produzione quasi esclusivamente in loco di questi laterizi di copertura. Dai saggi di scavo sono noti elementi di tetti in fase di crollo ascrivibili principalmente all’ultimo periodo di occupazione dell’area. Le tegole piane (solenes) esaminate in tutta l’area urbana presentano alette rialzate e inclinate soprattutto a triangolo acuto, ascrivendosi prevalentemente alla fase tardoellenistica di queste produzioni. Si sono ritrovati alcuni esemplari caratterizzati da apertura circolare a lucernario. La percentuale più elevata è costituita da coppi più o meno curvi di fabbrica locale: buona parte si riferisce alla fase altoimperiale, con tegole curve caratterizzate da bordi leggermente rialzati. Una caratteristica ampiamente osservata è la presenza di coloranti sulla faccia esterna della tegola, principalmente rosso, bruno e giallino. Una semplice analisi quantitativa degli elementi esaminati suggerisce l’adozione in città di un tipo di tetto realizzato principalmente con coppi, sebbene una tale constatazione appaia più plausibile per la fase tardoellenisticaaltoimperiale dell’abitato.

48 Fiore 1991 (lo studioso ritiene che la colonna risalga ad epoca medievale)

49 Una fornace per laterizi è stata recentemente identificata in c.da Sugherita. Vedi appresso Ricerche nel territorio: la chora calactina

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 138-146. Tecniche edilizie calactine di epoca medio-tardoellenistica e altoimperiale (seconda metà III secolo a.C. – I secolo d.C.). In alto: schizzi rappresentativi della tipologia di laterizi in uso e degli esempi di impiego nelle strutture portate finora in luce. Al centro: muri con intelaiatura di mattoni e pietre sbozzate nell’area di scavo 1999-2005 (area B2, c.da sotto S. Francesco) e nella Casa C3 (area C3, c.da Telegrafo). In basso: imponente muro-contrafforte in mattoni rettangolari alzato all’interno di una struttura muraria in pietra locale sbozzata e pavimento di ambiente scoperto (cortile) in mattoni rettangolari e quadrati, portati in luce nel corso degli scavi 1992 in contrada Telegrafo (foto 145-146: Archivio Soprintendenza di Messina)

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare Sebbene spesso i saggi di scavo non siano scesi a livello dei piani calpestabili delle strutture abitative, i pavimenti delle case calactine appaiono essere, sulla base dei resti dispersi nelle campagne, quelli delle tipiche abitazioni di fase ellenistico-romana: pavimentazioni in cocciopesto semplice o decorato con intarsi litici (signinum) a formare motivi geometrici; nella casa A3 è stato rintracciato un piano in cocciopesto con intonacatura rossa. Gli ambienti di servizio (cortili, stalle, cucine) sembra fossero lasciati con piani in semplice battuto o pavimentati con laterizi. Sebbene non se ne siano rinvenuti integri in situ, è presumibile che i vani di rappresentanza avessero pavimenti a mosaico aniconico bianco o anche figurati: lacerti di medie dimensioni e infinite tessere di mosaico sparsi nelle campagne sottostanti inducono a ritenere che questo fosse il gusto locale per la tarda età ellenistica e il primo impero. La gran parte delle abitazioni calactine aveva pareti interne intonacate di bianco e rosso già a partire dal III secolo a.C. se non prima; in alcuni casi (casa A4c) al bianco era alternato il nero. Questi muri appartengono ad una fase che possiamo assegnare al III-II secolo a.C. Successivamente si impiegarono anche altre tonalità (azzurro, giallo ocra, bruno), sempre alternate in maniera relativamente semplice. Brandelli di intonaco ritrovati sporadicamente presentano decorazioni multicolori più complesse. Ad una fase compresa tra la fine del III e la fine del II secolo a.C. si assegnano due gruppi di frammenti di intonaci parietali con decorazioni complesse recuperati sul versante sud-orientale della collina, a cui si associano decorazioni plastiche in stucco, presumibilmente pertinenti una o più ricche domus. Dallo scavo 1992 in c.da Telegrafo provengono frammenti di cornici in stucco bianco con decorazioni a motivi vegetali. La scoperta, negli anni ’90 del secolo scorso, di una serie di cisterne a campana nei settori est e nord della collina,50 databili, in base ai materiali in esse rinvenuti, dalla fine del IV secolo a.C., fa luce sulle modalità di approvvigionamento dell’acqua nella parte alta della città. Un acquedotto ellenistico, forse lo stesso rintracciato nell’entroterra (c.de Piano della Chiesa – Samperi), riforniva il centro a partire da sorgenti poste a monte. Tuttavia, in corrispondenza del quartiere meridionale dell’abitato collinare, il dislivello era annullato dal fatto che da qui in poi la collina si eleva progressivamente fino all’area del Castello. Resti di condotte idriche di diversi tipi (a profilo circolare, a U, ecc.) sono stati rinvenuti sporadicamente nell’area d’abitato. D’altra parte, la città era dotata anche di un sistema di smaltimento delle acque piovane e reflue attraverso canalette sistemate sotto il piano stradale (vedi scavi eseguiti in c.da Telegrafo 1992). Ogni casa, nell’alta e media età ellenistica era probabilmente dotata di cisterne per la raccolta delle acque piovane. Si trattava di cavità nella roccia, impermeabilizzate con uno strato di malta di calce e tritume di laterizio, presumibilmente scavate al di sotto degli ambienti di servizio (il rinvenimento delle cisterne

non si è mai accompagnato al rilevamento di strutture murarie ad esse associabili). I materiali ritrovati all’interno si datano prevalentemente al II-I secolo a.C. e testimonierebbero il disuso e la conversione in discariche domestiche delle cisterne stesse già a quell’epoca. Tale circostanza suggerisce che a partire da quel periodo gli abitanti di Kalè Akté attingessero l’acqua in maniera diversa, ad esempio approvvigionandosi presso cisterne pubbliche, come a Solunto, Apollonia e Halaesa. I pochi saggi di scavo che hanno portato in luce lembi di abitato e le altre evidenze visibili a seguito di movimenti terra in diversi punti della collina, hanno suggerito in maniera evidente che anche la nostra città si dotò di un impianto regolare nel corso dell’età ellenistica. Ciò era peraltro favorito, come ad Halaesa, dalla stessa configurazione della collina: un’altura prolungata verso la costa con fianchi relativamente scoscesi che assumevano l’aspetto di un breve pianoro nella parte sommitale, la cui altezza massima è 300 metri. Una tale morfologia dovette indirizzare subito l’impianto di almeno una strada principale in senso nord-sud, collegata ai percorsi che conducevano da un lato verso il mare e dall’altro verso l’entroterra. Sui pendii si disponevano case realizzate su terrazze, in complessi (insulae) delimitate da stradine in pendenza. L’orientamento delle strade messe in luce è compatibile con l’esistenza di una maglia viaria ortogonale. La plateia principale, orientata nord-sud, è ricalcata, con variazioni dovute all’impianto disordinato di case in età medievale, dalle attuali vie Calacta e Ducezio. La disposizione delle strade del centro storico, lato est, ha la caratteristica direzione nord-sud che asseconda il pendio collinare, salendo di quota man mano che si prosegue verso nord, e dovrebbe rispecchiare a grandi linee la struttura viaria creatasi con la realizzazione delle case di XII-XIII secolo. Una tale configurazione naturale dovette essere assecondata urbanisticamente già in epoca ellenistica, come suggeriscono gli orientamenti delle strutture finora portate in luce. Sul pendio settentrionale, la strada intercettata nello scavo 1992, con andamento est-ovest, doveva costituire una delle vie che tagliavano questo settore abitativo in senso trasversale rispetto ad una o più strade orientate nord-sud, come quella, gradinata, individuata in c.da Telegrafo nella propr. Di Fede. In linea generale, è la stessa disposizione allungata e regolare della collina che ha suggerito un tale impianto così in epoca greco-romana come in età medievale e moderna. Riteniamo che una tale struttura dell’abitato, da definirsi come “pseudo-ortogonale”, risalga forse alla stessa epoca di fondazione della città o a quella delle prime generazioni successive, nella prima metà del IV secolo a.C. Se da un lato, come detto, una disposizione regolare sul pendio, avendo come riferimento la plateia nord-sud, è “suggerita” in certo modo dall’andamento affusolato della collina, dall’altro, la recente scoperta di ambienti abitativi, scavati nella roccia, di epoca classica o tardoclassica, alle spalle delle Case Popolari, orientati nord-sud come il pendio collinare consentiva in quel punto, fa presumere che i complessi abitativi di età ellenistica abbiano rispettato un simile orientamento nel

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Bonanno 1993-1994; Lentini, Goransson, Lindhagen 2002, Lindhagen 2006

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia meridionale della parete rivela l’asportazione totale del muro verso sud per almeno un altro metro. Uno strato di terra contenente frammenti ceramici di età ellenistica copre il muro per uno spessore di circa un metro. E’ stata quindi eseguita una ricognizione nella parte alta della collina, al di fuori del muro che delimita il cortile dell’Edificio Scolastico, lato ovest. Occorre dire che le ricerche sono risultate difficoltose per la notevole pendenza del terreno e per la presenza di una fitta vegetazione. Tuttavia, in una piccola area indagabile si sono potuti subito osservare i resti di un muro in pietra, al di sopra del quale è stata realizzata una piccola costruzione moderna.

corso dei secoli. Indizi di vario tipo, sia da dati di scavo che da rilevamenti di superficie, pongono tra III e II secolo a.C. un generale rifacimento dell’assetto urbano, con la ripavimentazione di strade, la ristrutturazione di case e, probabilmente, la realizzazione di alcuni edifici pubblici, come accertato nella vicina Halaesa ed anche a Solunto. In realtà, è sostanzialmente quella tardoellenistica la Kalè Akté finora portata in luce sulla collina di Caronia, che ha occultato quella di epoca tardoclassica così come la città medievale ha coperto quella greco-romana. La città collinare sembra non avesse una struttura compatta e ben definita, come avveniva in altri centri ben delimitati dal circuito delle mura di fortificazione. Rinvenimenti di crolli relativamente isolati a quote piuttosto basse, sia lungo il versante orientale che in quello settentrionale, fanno ritenere che esistesse una periferia con edifici abitativi via via scollegati dal centro. Una tale constatazione è stata fatta a valle della contrada Telegrafo fino in prossimità della c.da S. Anna, sul pendio settentrionale, dove aree di concentrazione di materiali sono indizio dell’esistenza di strutture sparse entro un’area ben definita, da ritenersi “periurbana”. Recentemente si è individuato quello che sembrerebbe un vero e proprio quartiere extraurbano sull’altura ad est di quella occupata dalla città e da questa separata dal corso di un torrente, che ha creato un profondo avvallamento. Si tratta del rilievo su cui sorge l’Edificio Scolastico, nella contrada localmente chiamata “Pidoto”. Sebbene esistessero voci circa il rinvenimento, in passato, di materiali antichi nella collina in cui sorge l’Edificio Scolastico, costruito negli anni ’50 del secolo scorso intaccando la collina sul lato nord, in realtà non si era avuta alcuna prova concreta di una frequentazione stabile della zona all’epoca in cui prosperava la città ellenistico-romana. L’occasione per aprire un nuovo capitolo delle ricerche su Kalè Akté è stata data dagli esiti di una frana verificatasi in vico Luciano Orlando, nel pendio occidentale a valle dell’Edificio, nel corso del 2010. Furono allora notati numerosi frammenti ceramici di epoca classica, pertinenti, principalmente, a vasellame da cucina e anfore che, ad un sommario esame, presentavano una cronologia compresa tra il III ed il I secolo a.C. Si trattava generalmente di vasellame di scarsa qualità con radi frammenti a vernice nera; questi, assieme ad un bordo di anfora greco-italica, consentivano di datare il materiale in epoca medio e tardoellenistica. Le ceramiche provenivano verosimilmente dall’alto ed erano fluitate a questa quota a seguito di dilavamenti. Una ricognizione lungo tutto il vicolo, per circa 10 metri fino a che si interrompe in corrispondenza di un recinto, consentì di appurare la consistenza rocciosa della parete scavata per la realizzazione di case nei primi del ‘900 e, nel tratto terminale, l’esistenza di un muretto affiorante a mezz’altezza per una lunghezza di circa 1,50 m. ed un’altezza di poco meno di un metro, realizzato con pietra locale sbozzata (fig. 147). A terra si notavano alcuni elementi di copertura in terracotta costituiti da tegole curve e piane di un tipo in uso in epoca tardoellenistica. Il muro, orientato come la stradella, in direzione N/NO-S/SE, poggia sul substrato di roccia a strati tipica della collina di Caronia. Il margine

Figg. 147-148. Area dell’Edificio Scolastico. In alto, muretto addossato alla parete di roccia messo in luce dal tracciamento della strada (vico L. Orlando) e alcuni dei mattonacci dissotterrati da lavori agricoli (in primo piano, mattone con canaletta ricavata sul lato corto)

La struttura muraria, orientata in senso pressoché est-ovest, si è potuta seguire per meno di un metro, essendo per il resto coperta da quella moderna e sembra formare un angolo con un altro muro di cui si osservano solo due elementi e che sembra proseguire sempre sotto la struttura moderna. Quest’ultima copre uno strato di terra misto a frammenti ceramici ascrivibili ad età tardoellenistica. A pochi metri di distanza sono stati sistemati alcuni mattonacci del tipo consueto, due dei quali integri. Uno di essi presenta su uno dei lati corti una “canaletta” con sbocco intermedio (fig. 148). Diversi altri

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare solleva alcune questioni circa la struttura urbana della città antica ed il suo sviluppo nel corso dei secoli. In realtà, la mancata identificazione di una cinta muraria non consente di definire con esattezza i confini urbani. Si è ipotizzato – senza tuttavia possedere prove concrete – l’esistenza di una fortificazione e di una porta urbica a sud dell’abitato, successivamente ripercorsa dalle mura medievali dove si apriva una porta urbica (“Arco Saraceno”). Una tale ipotesi è scaturita dalla considerazione che era questo il punto maggiormente esposto della collina di Kalè Akté, mentre nei versanti nord, est e soprattutto ovest, la ripidezza della collina avrebbe anche fatto considerare superflua la realizzazione di mura di difesa. Ma anche ipotizzando l’esistenza di una cinta muraria, rimane sempre la possibilità che la città, una volta che le condizioni ambientali non imponessero di abitare al di qua di strutture difensive, come in epoca tardo ellenistica, si espandesse all’esterno di esse. A Kalè Akté numerosi indizi, costituiti prevalentemente da materiali mobili, sembrano suggerire l’esistenza di nuclei abitati al di fuori del centro urbano, in particolare a nord, lungo il pendio e la strada che congiungeva il centro collinare a quello marittimo, e a sud-ovest, in c.da Trappeto, oltre che appunto nella collina dell’Edificio Scolastico. Considerata la loro vicinanza alla città, non si può parlare esclusivamente di insediamenti legati ad attività produttive (fattorie, laboratori artigiani), normalmente dislocati nel territorio a distanza dal centro urbano, ma di una sorta di piccoli quartieri di incerta organizzazione e dimensione. Tale tendenza, legata al periodo di maggiore sviluppo economico e demografico della città, si avviò probabilmente negli ultimi decenni del III secolo a.C., ma non sembra, al momento, avere avuto continuità in età imperiale. L’esistenza di quartieri extraurbani in contesti di epoca greco-romana è attestata in alcuni siti, senza una classificazione cronologica precisa. Così, a Himera, un’area fittamente occupata da abitazioni sorse in epoca tardo-arcaica ad est della città, oltre il fiume e l’area portuale (propr. Cardillo)51. A Locri un quartiere si sviluppò esternamente a ridosso delle mura, di cui facevano parte la Stoà ad U ed il santuario di Afrodite, probabilmente per esigenze legate al vicino porto52. Agglomerati extraurbani si sono scoperti fuori dalle mura a Monte Adranone53 e Entella.54 In molti altri casi, comunque, non si trattava di sobborghi residenziali, ma di complessi destinati a precise funzioni.55 Spesso si è ravvisata l’esistenza di aree artigianali sviluppatesi fuori dalle mura, mentre molto frequente è l’esistenza di santuari extra-moenia, aventi una precisa funzione legata al controllo del territorio. Ovviamente, tutto ciò presuppone l’esistenza di strutture difensive ben distinguibili, che circoscrivessero un’area fin dall’inizio destinata ad essere occupata dalla città. Circostanza,

mattonacci sono accatastati in vari punti o riutilizzati per la realizzazione di una sorta di scaletta sul terreno. Circa 10 metri più a nord si osserva inoltre uno spezzone di muro in pietra in fase di crollo, recentemente affiorato a seguito di una frana, che tuttavia non è osservabile da vicino a causa della frana stessa. La presenza di ceramiche è inoltre segnalata lungo il declivio sottostante l’Edificio Scolastico, dove sono alcuni filari di pini e fino a qualche decennio fa esisteva il giardino della Scuola. Questi ritrovamenti si aggiungono alle voci riguardanti la presenza di materiale archeologico al momento degli sbancamenti per la realizzazione dei fabbricati posti lungo la strada di accesso all’Edificio ed a ceramiche frammentarie affioranti fino a poco tempo fa poco più a monte, lungo la strada che dall’Edificio sale verso la circonvallazione La considerazione complessiva di questi ritrovamenti segnalati, alcuni dei quali ora verificati, consente di supporre l’esistenza di un gruppo di case o addirittura di un vero e proprio quartiere extraurbano di Kalè Akté, sviluppatosi in età medio-tardo ellenistica a poca distanza sia dalla città che dall’area cimiteriale che si estendeva sul lato opposto, in uso dal IV al III secolo a.C. Presumibilmente, la stessa strada che attraversava la necropoli giungeva fino a questo agglomerato di case e da qui proseguiva verso sud e l’interno. I dati a disposizione non consentono purtroppo di verificare l’estensione e le caratteristiche dell’abitato. Considerando la morfologia del luogo, si può ipotizzare che esso occupasse la parte avanzata della collina, sviluppandosi lungo il declivio con edifici terrazzati, dirimpetto al centro-città. Vale la pena rammentare che prima della realizzazione dell’Edificio Scolastico, negli anni ’50 del secolo scorso, questa collina non era stata ancora urbanizzata, come del resto gran parte della retrostante c.da Pozzarello-Pidoto. Essa appariva come un altura degradante da sud verso nord, piuttosto ripida sul versante occidentale, interamente coperta da uliveti. La realizzazione dell’Edificio comportò lo sbancamento della parte avanzata della collina per la creazione di un’area piana ed il tracciamento della strada d’accesso da sud. Non sono noti ritrovamenti archeologici in un’epoca in cui peraltro si aveva poca cura del patrimonio storico-culturale locale. L’occupazione della collina dell’Edificio Scolastico pone, peraltro, alcuni quesiti di topografia antica, trattandosi di un sito antistante quello della città, di immediato collegamento con la chora meridionale. La posizione eminente di quest’altura, la sua conformazione e morfologia, potrebbe suggestivamente fare ipotizzare l’esistenza di un santuario extraurbano, direttamente collegato alla presenza di sorgenti d’acqua che caratterizzano l’intera c.da Pozzarello e Pidoto (quest’ultimo toponimo di chiara derivazione dal greco πιδαξ, “sorgente”). Dai fianchi di quest’altura, poi, scendono due corsi d’acqua che confluiscono nel torrente S. Anna. I rinvenimenti di cui si è fatto cenno, che interessano comunque solo il versante nord-ovest della collina, in base ai materiali, suggeriscono tuttavia un’occupazione di tipo prettamente domestico e non cultuale. La scoperta di un quartiere al di fuori di quello che è stato fino adesso considerato il centro cittadino

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Allegro et alii 1997-98 Barra Bagnasco 1982 Fiorentini 1995 54 Guglielmino 2000 55 Ad Himera, ad esempio, il quartiere extraurbano in propr. Cardillo è stato qualificato come artigianale, sebbene recenti saggi abbiano accertato anche l’esistenza di un’area di culto 52 53

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia antichi e ne favoriscano la valorizzazione e divulgazione nei modi più opportuni. Attualmente l’area che potrebbe essere sottoposta a proficui scavi archeologici ammonta almeno a 4 ettari, distribuiti principalmente sui versanti nord ed est della collina, di notevole interesse archeologico in base agli affioramenti di strutture e alla presenza di notevoli quantità di materiali mobili. Fortunatamente la recente urbanizzazione ha interessato altre aree del sistema collinare su cui si sviluppa la cittadina moderna, ma come è purtroppo avvenuto anche in tempi recenti, non sono mancati interventi sia privati che pubblici che hanno irrimediabilmente intaccato e distrutto contesti antichi. Il sito meriterebbe un’attenzione maggiore nell’ambiente scientifico per le interessanti attestazioni fin qui offerte in maniera occasionale. Si auspica pertanto un maggiore interesse da parte dei soggetti competenti alla ricerca, valorizzazione e fruizione del patrimonio archeologico regionale e l’abbandono di un atteggiamento ormai superato tradizionalmente riservato alle aree più periferiche e ritenute a torto meno degne di interventi.

questa, non accertata per Kalè Akté, dove non si può neppure ipotizzare il percorso di un circuito di mura e non se ne è individuata alcuna traccia. Da questo punto di vista, ci troviamo di fronte ad un’anomalia che ha pochi confronti nel mondo classico, dove l’esigenza di dotarsi di una fortezza nasce assieme a quella di avere un’area in cui abitare. Tra i pochi esempi di polis ateichistos, ovvero prive di fortificazioni, possiamo ricordare l’anonima città di Monte Bubbonia in Sicilia e Thasos in Grecia, entrambe in vita dall’età arcaica. Per Kalè Akté si potrebbe anche ipotizzare l’esistenza di strutture difensive che comprendessero un’area ben più ampia di quella effettivamente abitata (come ad esempio a Locri o a Siracusa), le cui tracce potrebbero sopravvivere in zone non ancora indagate; oppure si potrebbe pensare ad un sistema di difesa discontinuo, organizzato in torrette e spezzoni di muri nelle parti più esposte. Entrambe queste ipotesi appaiono plausibili e trovano confronti, per cui occorrerebbero prove concrete, che allo stato attuale delle ricerche mancano. Piuttosto si dovrebbe ritenere che una prima cinta muraria dovette essere eretta all’epoca in cui fu insediata la città, nella seconda metà del V secolo a.C. Quella fortificazione potrebbe avere cinto un’area circoscritta e sarebbe divenuta superflua e quindi eliminata per consentire alla città di espandersi. Tuttavia non va sottovalutata allo stesso tempo la vicenda che condusse alla fondazione di Kalè Akté, alla quale non dovette essere estranea Siracusa, che potrebbe avere imposto di non dotare la città di strutture difensive per evitare che essa divenisse una roccaforte sicula inespugnabile. In conclusione, il quadro che si compone dalle ricerche fin qui condotte è quello di una tipica città ellenistica d’altura di media importanza, come tante ne esistettero in Sicilia. Organizzazione urbana, apprestamenti domestici, tenore di vita ed altri aspetti di una tipica polis ellenistica si colgono tutti nel nostro sito e trovano confronti non solo in area nebroidea, ma in tutta l’isola. Il suo tenore di vita, in particolare, non dovette essere di basso profilo, poiché le risorse erano abbondanti in un territorio vastissimo. Dovremmo ipotizzare l’esistenza di un ampio ceto medio che viveva dell’uso e del commercio di prodotti agricoli, zootecnici, boschivi e artigianali. La presenza, come vedremo in eseguito, di prodotti “esotici”, ovvero importati da altre aree del Mediterraneo, come il vino di Rodi, il miele o la frutta secca contenuta nei caratteristici kalathoi iberici, il vasellame di produzione orientale (in particolare, le preziose sigillate orientali), ecc. suggerisce l’esistenza di famiglie agiate, che non rinunciavano a quanto di meglio era sul mercato. Questa fase di benessere si coglie in particolare a partire dalla fine del III secolo a.C., quando peraltro Kalè Akté inizia a battere moneta, ed è senza dubbio attribuibile ad un nuovo ruolo riconosciutole nell’ambito della Provincia romana, grazie anche all’esistenza di un porto attivo sulla costa tirrenica e di un produttivo entroterra. Il sito collinare, nonostante la sovrapposizione dell’abitato medievale e moderno su buona parte dell’area urbana antica, necessita di essere sottoposto a indagini scientifiche sistematiche, che riportino in luce i resti

I materiali Molti anni di ricognizione nell’area della città antica non ancora urbanizzata hanno portato al recupero di una grandissima quantità di materiali, per lo più frammentari, oggi conservati presso i magazzini della Soprintendenza di Messina. Soprattutto nelle aree ancora sottoposte ad aratura o a lavori agricoli di terrazzamento o apertura di strade d’accesso ai fondi, l’affioramento di reperti è costante e abbondante. Si tratta naturalmente, nella maggior parte dei casi, di materiali da considerarsi fuori contesto, provenendo da monte e gradualmente scivolati verso il basso a causa di frane e dilavamenti. Tuttavia il contesto principale rimane sempre il sito della città classica, per cui il loro studio assume una notevole valenza scientifica poiché contribuisce ad attestare non solo la cronologia dell’abitato, ma anche l’esistenza di canali commerciali e di eventuali produzioni locali. Molti dei materiali rinvenuti non hanno confronti con quelli recuperati in occasione dei pochi saggi di scavo eseguiti nell’ultimo ventennio ed attestano produzioni finora ignote o inedite per il sito di Caronia. Nel corso delle ricerche sulla collina di Caronia, ai margini dell’abitato moderno, sono state rilevate diverse migliaia di reperti di ogni tipo, per la maggior parte in stato frammentario. Si tratta, come detto, di materiali relativamente fuori contesto, per i quali si è comunque annotata l’area di rinvenimento come possibile ambito di pertinenza originario. Tuttavia, sebbene nei ripidi pendii della collina si possa considerare trascurabile l’effetto delle arature del terreno effettuate nei secoli, occorre considerare altri tipo di movimento involontario dei reperti, principalmente quello naturale di scivolamento dall’alto per effetto di fenomeni naturali. L’assegnazione ad un preciso contesto abitativo è stato possibile solo nei casi in cui siano state eseguite, nell’ultimo ventennio, profonde escavazione nel terreno per lavori agricoli di terrazzamento o tracciamento di strade, o anche fenomeni naturali (frane) che hanno

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare intercettato e messo in luce murature antiche o anche i piani di frequentazione, come nel caso della parete alle spalle delle Case Popolari (Area B1) o in alcuni punti dell’Area A (A2-A3-A4). Dei materiali osservati sul piano di campagna o affiorati da pareti di terreno scavate, si è ritenuto opportuno recuperare, conservare e consegnare alle competenti Autorità gli esemplari più rappresentativi, che ammontano complessivamente a oltre 3000 pezzi, comprendenti soprattutto ceramiche e terrecotte di varie epoche, dalla greca classica alla tardo medievale, nonché altri materiali mobili tra cui monete, manufatti in metallo, in osso, in vetro, porzioni di intonaci e stucchi, ecc. Il loro studio ha consentito di cogliere un quadro significativo della cultura materiale nel corso di oltre un millennio, che probabilmente non sarebbe stato possibile avere da singoli saggi di scavo, seppure eseguiti in maniera sistematica ma limitata nello spazio. Un esempio è offerto dai rinvenimenti monetali, molti dei quali relativi ad emissioni non accertate finora nel corso di scavi archeologici, e di produzioni ceramiche di cui si ignorava l’esistenza nel sito. Peraltro, si rimane in attesa di un’edizione esaustiva di tutti i materiali recuperati nel corso dei pochi scavi sistematici fini qui eseguiti, dei quali si è avuto occasione di visionare solo una parte di quelli raccolti nello scavo 1992 in contrada Telegrafo, attualmente custoditi presso Palazzo Cangemi. Lo studio dei materiali recuperati consente di inquadrare a pieno titolo Kalè Akté – Calacte nella comune koinè che accosta tutti i centri ellenistico-romani dell’isola, con precisi confronti soprattutto con le città dell’area nord-orientale (Messina, Lipari, Mylai, Tyndaris e Halaesa) per i quali si dispone di dati sufficienti relativamente ai materiali provenienti dagli scavi o attualmente esposti nei relativi Musei. Quelli che si è ritenuto fossero più rappresentativi al fine di stabilire cronologie, modalità e consuetudini di vita e presenza di particolari produzioni finora poco attestate in Sicilia, seppure in stato talvolta estremamente frammentario, sono stati inseriti in un apposito catalogo riportato a seguire. Sebbene rinvenuti in percentuali variabili per le diverse fasi di occupazione della collina, i materiali che qui si presentano coprono un lunghissimo arco di tempo compreso tra il V secolo a.C. e l’epoca basso-medievale, con particolari concentrazioni in corrispondenza del III secolo a.C. – I secolo d.C. e del periodo compreso tra XI e XIV secolo. Tuttavia, rinvenimenti sporadici attestano una frequentazione della collina almeno dalla fine dell’Età del Bronzo (semilavorati e scarti di ossidiana e selce) e probabilmente alla fine del VI secolo a.C. (frammenti di ceramiche d’impasto). Tratteremo, comunque, solo dei materiali successivi alla nota data di fondazione della città del 446 a.C. e fino al tardoantico, riservando ad altro studio quelli non compresi in questo periodo.56

Fig. 149-150. In alto: frammento di vaso a figure rosse dal terreno di copertura delle strutture abitative nell’area A2; in basso: ceramiche a vernice nera di IV secolo a.C. dall’area A7

La prima fase di vita della città è attestata da pochi ma significativi frammenti di ceramiche di produzione coloniale e greco-continentale e da alcuni di probabile produzione indigena. Questi ultimi sono riconoscibili dalle caratteristiche dell’argilla, di colore in genere tendente al beige, su cui sono presenti motivi decorativi matt painted di tipo geometrico (linee e curve) generalmente di colore bruno o rossiccio. Sono stati rinvenuti pochissimi frammenti, due soli dei quali in contesto originario a contatto con il primo piano di uso dell’ambiente β dietro le Case Popolari (Area B1).57 A

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La tipologia dei materiali presenti sul soprassuolo comprende una casistica molto ampia e talvolta pone problemi di cronologia assoluta in assenza di precisi e immediati confronti. Pertanto si è scelto di trattare per il momento delle classi maggiormente attestate che è possibile ricondurre a canali di distribuzione già individuati in altri siti siciliani,

dove hanno anche ricevuto uno studio sistematico (ad esempio a Morgantina, Monte Iato e Termini Imerese) 57 Cat. n. 7

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia questi si aggiungono alcuni frammenti a vernice nera di produzione coloniale, uno dei quali pertinente ad una coppetta di tipo imerese,58 ed alcuni frammenti di ceramica attica, tra cui un piccolo pezzo di probabile cratere che conserva una decorazione a linee di vernice nere su fondo risparmiato dall’area A2.59 Infine si segnalano alcuni frammenti di anfore pseudo-chiote a pasta chiara di probabile produzione locrese. Si tratta di pochi ma importanti materiali che attestano l’occupazione della collina nella seconda metà del V secolo a.C. ed all’inizio del IV, confermando in un certo senso la data di fondazione riportata dalle fonti e l’esistenza dell’abitato per una fase che i (pochi) saggi di scavo fin qui eseguiti non sono riusciti a rintracciare. Il loro contesto d’origine è senza dubbio la parte sommitale della collina, dove andrebbe ricercata la città di Ducezio delle prime generazioni. Tra i materiali di epoca tardoclassica e altoellenistica si segnalano numerosi frammenti di vasi a figure rosse pertinenti a forme diverse, soprattutto lekanai, skyphoi e lekythoi, cronologicamente inquadrabili nella seconda metà del IV secolo a.C. o agli inizi del successivo, mentre a tutto il IV secolo sono riferibili diversi frammenti di ceramiche a vernice nera pertinenti ad una nutrita serie di forme (skyphoi, pelikai, lekythoi, pissidi, piattini, coppette, lucerne, ecc.). La fase maggiormente attestata è comunque quella compresa tra III e I secolo a.C., epoca alla quale andrebbero riferite anche alcune probabili produzioni locali a vernice nera e soprattutto rossa. Tipologie molto diffuse in questo periodo sono le coppe skyphoidi con piede anulare o a tromba, corpo panciuto e bordo leggermente svasato, con anse orizzontali o verticali, inquadrabili tra III e II secolo a.C., rinvenute in molte centinaia di esemplari frammentari (coppe “concavoconvesse”, spesso decorate con sovradipinture, recentemente riferite a produzioni localizzate nell’area dello Stretto, ad esempio a Messina, Lipari e Rhegion). Il tipo è ampiamente attestato in tutta l’area del messinese ed in minor misura in altri siti siciliani. Altrettanto diffusi sono i vasi in Campana A, databili dalla fine del III all’inizio del I secolo a.C., a cui si riferiscono soprattutto diverse tipologie di piatti, anche di grandi dimensioni, nonché coppe e coppette di svariata forma, tutti inquadrabili nelle classificazioni Morel. Frequente la presenza di stampigliature sul fondo interno di questi vasi, generalmente palmette o fiori stilizzati, unico tipo di decorazione presente. Altre tipologie decorative attestate per il periodo compreso tra III e II secolo a.C. sono le figure graffite e le sovradipinture (linee orizzontali, generalmente di colore bianco e rosso, file di trattini obliqui, di foglioline, di puntini, ecc.), di solito presenti su vasellame di produzione regionale ben attestato su tutta la fascia tirrenica della Sicilia. L’ipotesi che operassero in città ateliers per la produzione di vasellame d’uso comune è suggerita sia dal ricorrere di precise forme, che non hanno analogo riscontro in altri siti, sia dalle caratteristiche delle argille 58 59

impiegate. Una forma peculiare è quella della brocca a corpo panciuto e piede ad anello, con alto collo che termina con un bordo convesso e ansa a bastone che nell’attacco al bordo presenta quasi sempre una depressione circolare.60 Il tipo è notevolmente attestato a Caronia e non si conoscono esemplari con identiche caratteristiche neppure nei centri limitrofi.61 La brocca presenta generalmente una sottile verniciatura di colore rosso o bruno, più raramente nero. L’argilla è in genere ben lavorata, compatta, di colore rosa-arancio e con minuscoli inclusi di quarzite, caratteristiche queste che ricorrono nel vasellame prodotto dalle fornaci tardoantiche esistenti in contrada Chiappe sulla costa, le uniche finora note in quest’area. Alle stesse produzioni si riferiscono altre forme ceramiche, tra le quali molto diffuso è un tipo di coppa o ciotola emisferica priva di anse con bordo orizzontale rientrante, base ad anello, vernice semiopaca di colore rosso, bruno o nero,62 nonché alcuni grandi piatti con ampio bordo, caratterizzati dalle medesime caratteristiche dell’argilla e delle vernici. Questi vasi, generalmente di qualità mediocre, si datano al II-I secolo a.C. e anche oltre; in particolare, la brocca è stata rinvenuta in diversi esemplari nello scavo di alcune cisterne in contrada Telegrafo negli anni ’90 e già in quell’occasione si ipotizzò che potesse trattarsi di produzioni locali63. In generale, sono di diverso tipo i manufatti che si possono ascrivere a produzioni locali, databili a partire almeno dalla fine del III secolo a.C. Così una produzione in laboratori cittadini di statuine fittili è provata dal rinvenimento di alcune matrici frammentarie64, oltre che dalle caratteristiche stesse delle argille impiegate65. Analogamente sembrerebbero di produzione locale la maggior parte degli oscilla fittili, frequentemente decorati a stampo, rinvenuti in gran numero sulla collina. E’ attestata la produzione di loutheria frequentemente con decorazioni sulla vasca o sul sostegno, databili nel tardo ellenismo (II-I secolo a.C.). Nonostante non si siano 60

Cat. n. 158,; Tav. 2 n. 7 Frammenti riconducibili a questa forma ceramica si sono osservati solo a Monte Vecchio di S. Fratello (Apollonia) 62 Cat. n. 140; Tav. 2 n. 4 63 Bonanno, già in occasione degli scavi del 1992 e 1993 ipotizzò l’esistenza di produzioni ceramiche locali, in particolare di presigillata e di ceramica a vernice rossa. Segnalò inoltre la presenza assai diffusa di frammenti pertinenti alle brocche di cui si parla come prodotti di fabbriche locali, che datava tra il I secolo a.C. e la prima metà del I d.C. 64 Lindhagen 2006 65 Prendendo spunto dai materiali provenienti dalle fornaci tardoimperiali individuate nel litorale di Caronia (contrada Chiappe e contrada Sugherita) e dai frammenti ipercotti e scarti di lavorazione presenti sulla collina, si sono individuate le caratteristiche macroscopiche delle argille impiegate nelle produzioni esistenti in città nel corso dell’età ellenistica. Alla cottura, esse si presentano generalmente di colore rosa-arancio o arancio-bruno e contengono caratteristici inclusi costituiti da granelli di quarzite bianca e pietra scistosa di colore rosso-violaceo, di dimensioni variabili a seconda delle dimensioni e del tipo di manufatto. Presentano queste caratteristiche, in genere, i laterizi (mattoni e tegole), contenenti talvolta inclusi anche di grandi dimensioni, nonché i pithoi (compresi quelli presenti nel sito di Pizzo Cilona nell’entroterra), ma anche molti manufatti in terracotta quali oscilla, loutheria e statuine. Si ritiene che i prodotti delle fabbriche calactine avessero circolazione quasi esclusivamente locale e costituissero un’alternativa economica al vasellame comune importato, sebbene frammenti con analoghe caratteristiche si siano osservati anche nei vicini siti di Halaesa e Apollonia di Sicilia 61

Cat. n. 4 Cat. n. 5

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare ancora localizzate le fornaci, la loro esistenza è suggerita dal frequente rinvenimento di grumi di argilla concotta, scarti di fornace e ceramiche con difetti di cottura o ipercotte. Di sicura provenienza calactina è buona parte dei laterizi impiegati nell’edilizia, realizzati con argille ricche di inclusi anche di medie dimensioni, in particolare pietrisco scistoso di colore violaceo e quarzite, con argille che in cottura assumono colori che variano dal rosa-beige all’arancio acceso (le caratteristiche descritte ricorrono

nei manufatti, spesso ipercotti, di una fornace recentemente individuata sulla costa in c.da Sugherita, attiva nella tarda età imperiale). Le stesse caratteristiche presentano molti frammenti di pithoi, soprattutto per ciò che riguarda la presenza di quarzite bianca. Ipotizziamo una produzione locale anche per un tipo di lucerna con becco a incudine e caratteristico allungamento, a forma di corni, dei due lati del becco, realizzata sempre con argille molto simili a quella delle brocche descritte prima.

Figg. 151-156. In alto: a sinistra, ceramiche a vernice nera decorate dallo scarico nell’area A8 (III secolo a.C.; a destra, coppe skyphoidi con piede a tromba di probabile produzione locale dall’area A5 (III-II secolo a.C.). Al centro: a sinistra, frammenti di sigillata italica dall’area A7 (fine I secolo a.C. – I secolo d.C.); a destra, frammenti di sigillata africana A dai livelli di crollo intercettati dallo scavo agricolo 2009 nell’area A7. In basso: a sinistra, vetri tardoellenistici e altoimperiali dall’area A7; a destra, ceramiche medievali dalle aree A8-A9 (XI-XIV secolo)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia La dotazione di suppellettili nelle case calactine attingeva ampiamente ai prodotti di laboratori artigiani operanti in città, almeno a partire dal III secolo a.C. Si trattava di vasellame di uso comune che riproponeva modelli in uso in tutta la Sicilia ellenistica, talvolta con caratteri di originalità. Ma è soprattutto in età imperiale che si assiste all’impiego notevole di prodotti locali, che percentualmente superano, nei rinvenimenti, le importazioni dall’Africa. Infatti le sigillate africane, soprattutto a partire dal II-III secolo d.C., si accompagnano ampiamente a vasellame prodotto localmente, presentandosi come residuali nei contesti rurali, dove la sigillata africana risulta quasi assente. Per il periodo compreso tra III e II secolo a.C. un ricco campionario di forme ceramiche proviene da uno scarico moderno al confine tra le aree A7 e A8, probabilmente formatosi agli inizi del ‘900 quando scavi edilizi eseguiti a monte intaccarono un’area che appare essere stata un grande deposito votivo a giudicare da alcuni materiali ricorrenti quali coroplastica, oscilla figurati e vasellame fine, assieme ad ossa semicombuste. Tra i materiali ivi recuperati, segnaliamo soprattutto un notevole numero di piatti a vernice nera in Campana A e di coppe skyphoidi di tipo concavo-convesso, nonché frammenti di vasellame a decorazione sovradipinta e a vernice nera iridescente e tutta una serie di forme ceramiche pertinenti a vasi da mensa e da cucina, sia verniciati che acromi, alcuni dei quali non esattamente inquadrabili in categorie edite; numerose le lucerne, tutte di forme in uso nel III-II secolo a.C., gli oscilla e gli unguentari. Quattro le monete recuperate, due delle quali di zecca mamertina ed una di Ierone II della serie Testa di Poseidone/Tridente con delfini, in linea con la datazione della gran parte dei reperti. Rari i frammenti di Campana C, per cui si ritiene che la formazione del deposito si sia esaurita tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. Unicamente da questo scarico provengono frammenti di almeno tre sombreros del copa, ovvero di contenitori in ceramica iberica.66 Non sono stati rinvenuti altri frammenti di ceramica iberica ellenistica né sulla collina, né nell’area dell’abitato costiero. Di rilievo è la notevole presenza delle coppe concavo-convesse cui si accennava prima, le cui caratteristiche morfologiche ed il semplice repertorio decorativo, generalmente reso con motivi graffiti e sovradipinti, riconducono alla classe recentemente riconosciuta delle ”Ceramiche dello Stretto”,67 di cui era fino ad ora attestata una diffusione, sulla fascia tirrenica, fino a Tyndaris, sebbene il tipo formale trovi riscontro in altri siti siciliani, da Lilibeo ad Assoro a Siracusa. Cospicua la presenza di queste coppe, caratterizzate da “vasca profonda, profilo concavo-convesso, quasi verticale nella parte superiore; orlo appena estroflesso e per lo più assottigliato; fondo spesso ombelicato; anse di solito ad anello verticale, variamente foggiato; piede tronco-conico, modanato”,68 all’interno dello scarico di materiali ellenistici presente nell’Area A8. Queste caratteristiche coppe, che sostituirono sostanzialmente gli

skyphoi quali vasi per bere e mangiare, si datano, anche sulla base della similitudine alla forma Morel 3210¸ nel secondo quarto del III secolo a.C. ma a Caronia sembrano coprire un periodo più lungo che si protrae sino alla fine del secolo e anche oltre, talvolta con esemplari leggermente difformi da quello standard appena descritto (nel profilo della vasca, nella tipologia del piede, nella forma e orientamento dell’ansa, ecc.) e forse da ricondurre possibilmente ad imitazioni locali.69 Tra le produzioni ceramiche più “ricercate”, tipiche del medio e tardo ellenismo, attestate sulla collina di Caronia, segnaliamo quelle in Magenta ware e le coppe megaresi. Alla prima tipologia70 sono da riferire alcuni frammenti purtroppo non riconducibili a precise iconografie. In genere i frammenti presentano una verniciatura di colore rosso o beige-marrone, in alcuni casi quasi del tutto scomparsa. Considerata la diffusione di queste produzioni nell’area prossima allo Stretto (da Lipari a Milazzo a Reggio Calabria), se ne può ipotizzare una produzione locale con diffusione lungo la costa tirrenica almeno fino a Tyndaris o oltre. Per ciò che riguarda i frammenti di coppe megaresi, se ne segnalano alcuni che conservano lacerti di decorazioni di vario tipo (motivi vegetali, fasce di meandri, fasce di fiori stilizzati, ecc.). L’argilla varia dal rosa al grigiastro, la vernice dal rosso al nero. Questi vasi si diffondono in Sicilia a partire dalla metà del II secolo a.C. e ne è attestata una produzione locale a Morgantina e Tyndaris.71 Tra le ceramiche d’importazione, si segnala il rinvenimento di un significativo gruppo di frammenti di Sigillata Orientale A (ESA = Eastern Sigillata A),72 la cui area di provenienza è stata individuata in Siria, che assieme ad un rilevante numero di vasi a vernice rossa, alcuni dei quali di probabile produzione locale, anticipa nel tardo Ellenismo l’arrivo della Sigillata Italica, in gran parte di produzione centro-italica.73 La presenza di ESA sulla collina di Caronia, attestata da un discreto numero di frammenti, si inserisce nella tendenza di gusto affermatasi nel II secolo a.C. nei confronti del vasellame a vernice rossa, prototipo delle più tarde produzioni in sigillata italica. Tuttavia, rispetto alla presigillata e alla ceramica a vernice rossa di produzione locale, la ESA è da considerarsi un prodotto di lusso, per l’accuratezza delle forme e la caratteristica vernice rossa lucente che la caratterizza. Una fase di grande prosperità economica e di vivaci scambi commerciali nella città, coincidente con la tarda età ellenistica, facilitò l’arrivo di queste produzioni dall’Oriente ed è da cogliere come dato importante al fine di riconoscere il livello di ricchezza raggiunto da questa città, sostanzialmente “di periferia” ma aperta agli scambi commerciali e al recepimento delle correnti di gusto, in quella fase.

69

Tav. 2 nn. 1-2; Tav. 3 Per un inquadramento di questa classe ceramica, si veda tra gli altri Higgins 1976 71 Puppo 1995 72 Si veda, tra gli altri, per le attestazioni in Italia e in Sicilia, Malfitana et alii 2005 73 Vedi appresso Approfondimento: Collura, Cascella, Sigillata Italica dalla collina di Caronia 70

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Cat. nn. 101-103 Spadea 1986; Spigo 2002 68 Ingoglia 2009 67

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

Figg. 157-163. In alto: frammenti di ceramiche a figure rosse dall’area A7 e materiali ellenistico-romani dal terreno di colmatura delle strutture abitative nell’area A2. Al centro: frammenti ceramici dall’area A7 (IV-I secolo a.C.) e dallo scarico nell’area C3 (IVIII secolo a.C.). In basso: reperti metallici (punta di lancia in bronzo, chiodi in bronzo, ghianda missile in piombo e anello in bronzo) dall’area C4 (collezione privata) e porzioni di mosaico dall’area A7

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia In realtà occorre rilevare che la ESA non costituisce sicuramente l’unica produzione ceramica proveniente dal Mediterraneo orientale e dall’area egea. Nella mancanza di studi specifici sulle importazioni tardoellenistiche e altoimperiali in Sicilia, non è stato per il momento possibile reperire precisi confronti ai fini di un’assegnazione puntuale di numerosi frammenti74 che presentano affinità con alcune produzioni note per quell’epoca fuori dalla Sicilia e la penisola, quali, ad esempio, le ceramiche cnidie a rilievo e le stesse sigillate orientali B e C (Çandarli), a cui alcuni frammenti sembrano riferirsi. Una tale possibilità è peraltro da tenere in conto per una fase in cui la città sembra essere inserita in circuiti commerciali ad ampio raggio, come d’altra parte sembra accertato per tutta l’isola in epoca tardoellenistica e altoimperiale, di grande prosperità e vivacità commerciale. La Sigillata Italica, attestata da un buon numero di frammenti assegnabili a produzioni databili dalla fine del I secolo a.C. ai primi decenni del II d.C., si accompagna sulla collina alle classi ceramiche generalmente in uso nella fase altoimperiale, in particolare ai vasi a pareti sottili (comprese ceramiche insabbiate e con decorazioni puntinate à la barbotine) e a ceramiche da cucina. Si segnala in proposito il rinvenimento di numerosi frammenti di piatti-teglie in Pompeian red ware, prodotti in area campana nel I secolo d.C., caratterizzati da vernice rossa nella parte interna e colore beige-bruno esternamente.75 Trattandosi di contesti prettamente domestici, naturalmente molto attestata è la ceramica da cucina, con forme che coprono un ampio lasso di tempo, almeno dalla metà del IV secolo a.C. fino al tardoantico. Connessi ad attività domestiche di questo tipo sono numerosi manufatti frammentari, tra cui si segnalano soprattutto griglie fittili ed alcuni elementi di foculum con piastre laterali talvolta configurate a volto o figura umana.76 Il vasellame da fuoco di epoca greca, caratterizzato da argille con inclusi degrassanti che permettevano una lunga permanenza ad alte temperature, ripete per diversi secoli forme in uso almeno a partire da epoca tardoarcaica con poche varianti funzionali, per cui risulta

spesso difficile, trattandosi generalmente di materiali fuori contesto, assegnare precise datazioni. Sono presenti tutti i tipi principali di vasellame da cucina, ovvero pentole (chytrai), marmitte (kakkabai), tegami (lopades) e teglie (tagena), oltre ai relativi coperchi. Caratteristici e ben riconoscibili sono i bordi di tegami e marmitte con il battente interno al bordo per l’alloggiamento del coperchio. Segnaliamo il rinvenimento di una lopas con coperchio, parzialmente ricostruibile, all’interno dell’ambiente β alle spalle delle Case Popolari (ultimo terzo IV secolo a.C.): il tegame era probabilmente sul fuoco al momento dell’evento che provocò l’abbandono della casa e conteneva un osso, quanto resta del cibo che si stava cuocendo.77 Anche per l’età imperiale sono ben attestati i resti di pentole e simili, soprattutto per i primi due secoli, mentre alla fase più tarda di parziale rioccupazione del sito (IV-V secolo) sono da riferire diverse porzioni di rozze pentole e coperchi, alcune in Pantellerian ware,78 e di pentolame di produzione locale.. La ricognizione ha accertato una brusca riduzione dei materiali a partire dalla fine del I secolo d.C. Un caso esemplare è la presenza assai ridotta di sigillate africane escluso il tipo A, peraltro già in uso negli ultimi decenni del I secolo, sebbene si debba tenere conto del fatto che nel territorio di Caronia, nel corso della media e tarda età imperiale, come accennato prima, erano largamente in uso ceramiche di produzione locale assieme ai prodotti africani, che comunque sono presenti sulla collina in quantità assai inferiori rispetto all’area dell’abitato costiero. I contesti abitativi venuti in luce nel corso dei saggi di scavo appaiono peraltro abbandonati nel corso del I secolo, più esattamente nella seconda metà di questo. Lo scavo in contrada sotto S. Francesco del 2005 mise in luce strutture isolate di IV o V secolo d.C. che si sovrapponevano ai resti dell’abitato altoimperiale interrato da tempo: esse rientrano tra i pochi esempi noti di parziale rioccupazione del sito in età imperiale avanzata, documentati comunque solo sul versante orientale della collina. Si riferiscono ad una fase di parziale rioccupazione del sito collinare nel IV-V secolo d.C. alcuni esemplari di anfore di produzione locale o regionale (anfore tipo Termini Imerese 151/154) e pochi frammenti di sigillata africana, tra cui parte di una lucerna con decorazioni a matrice,79 mentre quasi del tutto assenti sono le ceramiche di metà II-III secolo d.C. Tra i rinvenimenti più frequenti dalle ricognizioni, si segnalano gli oscilla, molti dei quali decorati. Nella maggior parte dei casi si può ritenere sicuro che si tratti di pesi da telaio di forma discoidale, di gran lunga preferiti a quelli troncopiramidali di cui si sono rinvenuti pochi esemplari. Gli oscilla erano in gran parte fabbricati localmente e presentano, in molti casi, decorazioni attestate in altri siti limitrofi (ad esempio ad Apollonia, Halontion e Halaesa), quali motivi a fiore stilizzato, a volto umano, a ghirlanda, a cerchi concentrici, ecc. Non mancano esemplari con decorazioni più complesse, che potrebbero essere stati utilizzati per usi diversi dalla tessitura, ad esempio con funzione

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L’enorme quantità di materiali che è stato possibile esaminare nell’area della città antica comporterebbe uno studio sistematico e dettagliato di ogni esemplare ai fini di stabilire un puntuale inquadramento delle diverse produzioni ceramiche, assegnando precise cronologie e individuando i centri di provenienza. Si tratta di uno studio meticoloso e complesso che si auspica di potere intraprendere in futuro, per cui quanto si riporta in questa occasione è una sintesi preliminare e parziale limitata alle principali classi. Sarebbe peraltro opportuno che si pubblicassero in maniera chiara e completa i rinvenimenti da scavi sistematici, comprendendo anche le produzioni di più difficile interpretazione, soprattutto per la fase tardoellenistica, nella quale erano attive officine ceramiche praticamente in ogni centro ed era fittissima la rete di scambi che, direttamente o indirettamente, collegavano le varie parti Mediterraneo. 75 Questa classe ceramica si data a partire dal I secolo a.C. ed a Caronia dovrebbe riferirsi a contesti di età augustea e successive. Si tratta di vasellame da mensa o da cucina caratterizzata dalla presenza di un ingobbio di colore rosso nelle superfici interne di profondi piatti e relativi coperchi, con caratteristiche dell’argilla che variano a seconda delle diverse fabrics riconosciute, da riferire a centri di produzione diversi non ancora tutti identificati. Per un primo riconoscimento della Pompeian Red Ware si vedano: Goudineau 1970 e Peacock 1977 76 Cat. n. 181

77

Cat. N. 19 Pantellerian Ware. 2004 79 Cat. N. 252 78

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare almeno tre piccoli fori.84 Non è escluso che possa trattarsi di una produzione locale. A fabbriche locali possono ascriversi probabilmente alcune lucerne con becco a incudine che alle estremità si prolunga in due lunghe escrescenze,85 forse richiamanti le produzioni regionali di cui le più note sono quelle della fabbrica di Proclos Agyrios, di cui peraltro si sono rinvenuti diversi esemplari.86 A fabbriche regionali appartengono anche le lucerne con ansa plastica a forma di foglia o di cuore. Una trattazione a parte meritano i numerosi rinvenimenti di intonaci parietali, di stucchi e di brandelli di mosaico, quanto resta di apparati decorativi ormai distrutti e fuori contesto. Gli intonaci, per caratteristiche, si datano a partire dal IV-III secolo a.C. (innumerevoli le porzioni di colore bianco e rosso, con varianti comprendenti anche il giallo, azzurro, nero e prugna). La presenza di cornici in stucco, alcune di notevole valore stilistico, in diversi punti della collina attestano un gusto raffinato generalizzato negli ambienti domestici di fine Ellenismo. Segnaliamo in particolare un gruppo di frammenti dall’area A10.

apotropaica. Gli esemplari figurati sono tutti databili tra l’epoca ellenistica e quella altoimperiale80. Numerosi sono stati i ritrovamenti di unguentari frammentari, tutti inquadrabili nella classificazione Forti,81 tra i quali si distinguono diversi esemplari caratterizzati da argilla molto depurata di colore rosabeige chiaro, verniciatura interna di colore nero o bruno ed esternamente acromi con semplici decorazioni lineari dello stesso colore, corpo globulare con alto collo, rinvenuti nello scarico in A8 e databili nel corso del III secolo a.C. Questo tipo di contenitore impiegato per accogliere unguenti e profumi ebbe grandissima diffusione sia nei contesti domestici che in quelli funerari82 e cultuali di età ellenistica. Più rari appaiono gli unguentari fittili di età romana a base piana, probabilmente sostituiti da ampolle in vetro, i cui frammenti sono frequenti nel sito. Piuttosto diffusa è la presenza di coroplastica, pertinente in buona parte a statuine fittili di tipo tanagrino. Si segnalano alcune testine femminili, parti di busti e di panneggi di statuine di tipo decorativo, spesso con tracce dell’originaria colorazione superficiale. Di tipo cultuale sono sicuramente alcuni frammenti, in particolare quelli rinvenuti nello scarico in A8, pertinenti a raffigurazioni di Demetra/Kore che trovano confronto con esemplari da santuari demetriaci siciliani, tra cui quelli ellenistici di Morgantina. Un unico frammento di gorgoneion databile al III-II secolo a.C. proviene sempre dal citato scarico. Tra i manufatti in pietra, segnaliamo un minuto frammento (panneggio) di statua in marmo dall’area A2, alcuni pestelli in marmo e pietra calcarea, alcune cornici modanate in marmo o in calcare dall’area A7 (provenienti presumibilmente da strutture poste a monte) e soprattutto la parte inferiore di una statuina femminile in pietra calcarea finemente lavorata dall’area B2.83 L’uso del marmo bianco, osservato principalmente in porzioni di cornici modanate, potrebbe riferirsi a strutture pubbliche poste a monte, mentre alcuni frammenti di marmi colorati, generalmente lastre, potrebbero essere state il rivestimento di ambienti di lusso in case del tardo ellenismo o del primo impero. Per ciò che riguarda le lucerne, i materiali frammentari recuperati si datano generalmente dalla seconda metà del IV secolo a.C. al I-II secolo d.C. e si riferiscono a modelli attestati in tutti i siti siciliani. Tra gli altri ricordiamo alcune lucerne acrome su alto piede e diversi esemplari provenienti dallo scarico in A8, tutte inquadrabili tra III e II secolo a.C. Si segnalano due porzioni di lucerna di difficile confronto a causa della frammentarietà, rinvenuti entrambi sempre nel contesto medio-tardoellenistico dello scarico nell’area A8, che presentano fondo piano, cisterna di ampie dimensioni e becco di forma allungata rastremata verso l’estremità che alla base si eleva in una parete su cui sono presenti

Fig. 164. Rielaborazione grafica su una porzione di cornice in stucco da Solunto con similare decorazione a dentelli, fila di ovuli e dischetti e modanature (con aggiunta di fasce di colore rosso, prugna e nero nel nostro caso) dall’area A10

Relativamente ai mosaici, sebbene nel corso degli scavi eseguiti nella collina non si siano mai rinvenuti pavimenti in situ con questa preziosa tecnica, la loro esistenza è ampiamente attestata dalla notevole presenza di tessere sparse sul piano di campagna. Le tecniche adottate dovevano variare in funzione sia del tipo di pavimento da realizzare che delle consuetudini dell’artigiano che li realizzava, per cui le tessere presentano forme, materiale e dimensioni diverse, variando da quelle cubiche più minute a quelle

80

Per un parziale confronto con gli esemplari da Apollonia di Sicilia, cfr. Bonanno 2009, p. 57-62 Forti 1962 82 Due esemplari integri, classificabili nel tipo IIIA Forti, provengono dalla necropoli del quartiere Pozzarello. Vedi a seguire: Cap. 5. Le necropoli di Kalè Akté - Calacte 83 Cat. N. 215 81

84

Cat. n. 116 Cat. n. 221 86 Cat. n. 230 e n. 232 85

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia parallelepipede a quelle di dimensioni più grandi che spesso erano utilizzate su una base di cocciopesto. Doveva trattarsi per lo più di mosaici aniconici, sebbene il rinvenimento di piccoli lembi con tessere di colore nero e di isolati blocchetti di pietra grigia o azzurra faccia supporre l’esistenza di mosaici figurati in voga tra la tarda età ellenistica e l’altoimpero. Una categoria da studiare approfonditamente è quella delle anfore commerciali.87 Gli esemplari frammentari identificati coprono un arco di tempo che da epoca greca classica arriva fino al tardoantico. La tipologia di gran lunga più presente è costituita dalle anfore greco-italiche, diffuse tra la fine del IV ed il II secolo a.C., seguita dalle anfore Rodie, Dressel 1, Lamboglia 2 e Dressel 2-4, che insieme attestano la principale fase di vita dell’abitato collinare. Gli esemplari frammentari tuttavia corrispondono ad un gran numero di tipologie, con attestazioni di diversa provenienza da tutto il Mediterraneo, con una forte concentrazione in corrispondenza del periodo compreso tra III secolo a.C. e I secolo d.C., testimonianza di contatti e scambi commerciali che si intensificarono nella fase di maggiore prosperità economica della città. Appartengono a produzioni locali due tipi di anfore, contraddistinte dalle particolari caratteristiche dell’argilla utilizzata: quelle medio-tardoimperiali assimilabili alla forma Keay 52 o Termini Imerese 151/354 ed un tipo caratterizzato da anse a profilo tortile e collo stretto di dubbia identificazione in assenza di esemplari integri, che dovrebbero inquadrarsi nel corso del I-III secolo d.C. Segnaliamo, tra gli altri, anellini, chiodi, punte di lancia e utensili vari in bronzo, pugnali e chiodi in ferro, grappe, ghiande missili e piastre in piombo, ecc. In osso sono alcuni elementi di probabili strumenti musicali e di impugnature di coltelli, nonché un dado da gioco. Innumerevoli i frammenti di vetri, databili fin da epoca ellenistica ma soprattutto di età imperiale, le cui condizioni di estrema frammentarietà non consentono di risalire spesso alle forme: segnaliamo, tra gli altri, alcuni fondi di balsamari e parti di coppe e di calici. Riteniamo interessante la diffusa presenza di conchiglie: molti gli esemplari di ostriche, che rivelano gusti raffinati per gli abitanti del luogo, nonché i gusci di patelle, di murici e di bivalvi; sono state rinvenute anche alcune vertebre di tonno. Le patelle, in particolare, erano raccolte negli scogli e nelle pietre del bagnasciuga, dove sono ancora oggi ampiamente presenti, ed il mollusco era mangiato ed evidentemente apprezzato, a constatare dal notevole numero di gusci rinvenuto. Le conchiglie di vongole ed altri bivalvi erano probabilmente raccolte nella spiaggia ed utilizzate a scopo ludico o per la realizzazione di collane (in alcuni esemplari è presente un foro di sospensione). La presenza di diverse conchiglie della

specie Murex solo in via del tutto ipotetica potrebbe essere ascritta alla presenza di tintorie. Numerose sono infine le ossa animali, pertinenti soprattutto a ovicaprini, ma anche a bovini, suini e volatili. Molti presentano scalfiture o tagli netti a seguito di macellazione, nonché segni di combustione. Una categoria a parte, infine, è costituita dal grande numero di astragali rinvenuti, di diverse dimensioni, alcuni dei quali lavorati o con foro. Sappiamo del frequente ritrovamento di queste caratteristiche ossa animali nei contesti archeologici, utilizzate nell’antichità per vari tipi di usi, dal ludico al cultuale. I nostri esemplari solo in alcuni casi presentano tracce evidenti di utilizzo a tale finalità, ad esempio fori nella parte centrale o segni di lavorazione. In genere sono lasciati allo stato naturale e, considerato che il loro ritrovamento non risale ad un preciso contesto di scavo, se ne può ipotizzare l’uso pratico come utensile solo in parte, potendosi trattare anche di quanto resta di un animale morto rimasto sul piano di campagna successivamente all’abbandono della città.

Catalogo88 1. Semilavorati di ossidiana e selce. Età del Bronzo.89 Prov.: Area A790 2. Semilavorati di ossidiana e selce. Età del Bronzo. Prov.: Aree B1-B2 3. Frammento di bacino (?) in ceramica d’impasto con presa a U capovolta di tradizione protostorica.91 Argilla grigiastra con piccoli inclusi biancastri. VI-V secolo a.C. Prov.: Area A7 88

Sono presentati nel Catalogo i materiali più significativi provenienti esclusivamente da recuperi di superficie, fuori da attività di scavo regolare. I materiali sono riportati a prescindere dalla loro integrità a scopo esemplificativo delle cronologie attestate nel sito e delle produzioni in esso presenti. Se non altrimenti specificato, essi sono stati recuperati da chi scrive e consegnati alla competente Soprintendenza BB.CC. e sono attualmente nel depositi della stessa in attesa di una futura esposizione, se ritenuto opportuno, in una struttura museale che si auspica quanto prima venga realizzata a Caronia. 89 Sul versante orientale della collina di Caronia (aree A e B) sono stati rinvenuti diversi semilavorati o scarti di lavorazione di ossidiana e selce ma ancora nessun manufatto finito (lame, punte di freccia, ecc.). Una particolare concentrazione è stata osservata tra l’Area B2 e l’Area A7, compreso il settore scavato nel 1993 in c.da Sotto S. Francesco. La presenza di ossidiana e selce suggerisce senza dubbio l’esistenza di una stazione preistorica, forse da collegare al villaggio della tarda Età del Rame – Età del Bronzo identificato ai piedi della collina in c.da Fiumara, ubicata probabilmente in cima all’altura 90 Le aree o contesti di provenienza sono quelli descritti nella prima parte di questo Capitolo come settori d’indagine: A1, A2, A3…; B1, B2, B3…, ecc. 91 Questa tipologia di ceramica d’impasto modellato a mano, peraltro identificata in pochi esemplari nel nostro sito ma attestata in siti indigeni ellenizzati del territorio (Pizzo Cilona e Contrada Arìa), pertinente solitamente a bacini e contenitori simili con caratteristiche prese a U capovolta o a linguetta, pone problemi di identificazione cronologica. Sebbene altrove si faccia risalire tradizionalmente ad epoca protostorica, nel nostro caso costituisce un attardamento che pare prolungarsi fin quasi alle soglie dell’epoca ellenistica. Dubitativamente si è assegnata una datazione al VI-V secolo a.C. (soprattutto V secolo) per analogia con i materiali del vicino Pizzo Cilona (vedi appresso: Il phrourion di Pizzo Cilona)

87 Sulla collina di Caronia sono attestate dai frammenti numerose tipologie di anfore da trasporto. Rinviando ad altra sede uno studio sistematico delle tipologie presenti e quindi dei canali commerciali evidenziati da questi manufatti, un esame sommario dei frammenti sottoposti all’esame dello specialista A. Lindhagen ha accertato la presenza di almeno le seguenti categorie: Corinzia B; MGS II, III, IV, V, VI; con orlo a echino; greco-italiche; rodie; puniche classiche ed ellenistiche; Lamboglia 2; Dressel 1, 2-4, 7-11, 20, 21-22; Gauloise4/Pelichet 47; Tripolotana I; Termini Imerese 151/354

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare 4. Bordo di coppetta a vernice nera di produzione imerese (cfr. Himera II Tav. XXVII fig. 4-5). Orlo ispessito e concavo reclinante verso l’interno. Argilla beige-grigio. Vernice nera tendente al grigio, compatta e lucida. Seconda metà - ultimi decenni V secolo a.C. Prov.: Area A9

14. Pomello di coperchio di lekane. Parte centrale a vernice nera con rosetta a petali sovradipinti. 340-320 a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β. 15. Piccola lekythos a vernice nera, ricomposta quasi integralmente. Piede piano, bordo svasato con attacco dell’ansa a livello. 340-320 a-C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

5. Frammento di probabile cratere di produzione attica. Lembo di decorazione a linee di vernice nera su fondo risparmiato; parte interna a vernice nera lucente. Argilla di colore camoscio, esternamente rossastra al trattamento. Seconda metà V secolo a.C. Prov.: Area A2

16. Skyphos forma Morel 4311c93 a vernice nera. Corpo di forma ovoidale con sottili anse orizzontali sotto il bordo, non conservate. Piede svasato con fascia a risparmio nell’attaccatura al corpo. 340-310 a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

6. Frammento di cratere a vernice nera di produzione coloniale. Vernice esterna semilucente molto compatta; vernice interna stesa a fasce orizzontali, lucida. Fine V – inizi IV secolo a.C. Prov.: Area A2

17. Coppa forma Morel gruppo 4221 a vernice nera. Non ricomponibile integralmente. Mancante delle anse orizzontali. Piede troncoconico verniciato nella parete interna; fondo esterno risparmiato con cerchi a vernice nera. 340-320 a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

7. Frammenti di ceramica di produzione indigena con decorazioni a vernice opaca (matt painted) bruna (fr. a) e arancio (fr. b). Argilla di colore beige con numerosi minuti inclusi nerastri e micacei. Seconda metà V secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

18. Lucerna frammentaria tipo Athenian Agora Vol. IV 23D (n. 236)94 parzialmente conservata e ricomposta. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area C3

8. Frammenti di ceramica di produzione indigena con decorazioni matt painted di colore dal nerastro al brunorossastro. Argilla simile agli esemplari n. 7. Seconda metà V secolo a.C. Prov.: Area A7

19. Parte superiore di lopadion. Presa a bastoncello attaccata al bordo e alla parete; bordo con spazio interno per l’alloggio del coperchio (parzialmente conservato). Si conservano diversi frammenti di parete e fondo non ricomponibili, con evidenti tracce di affumicatura. V-IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

9. Fondo di vaso di forma aperta con piede ad anello a profilo bombato. Vernice nera interna, parte interna del piede risparmiato nella parte centrale scandita da un cerchio di vernice nera, vernice nera e bruna sul bordo interno. Argilla beige chiaro. Ultimi decenni V secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

20. Frammento di skyphos (?) a vernice bruno-nerastra con decorazione graffita: motivo a onde continue sotto doppia linea orizzontale. IV-inizi III secolo a.C. Prov: Area A7

10. Corno di ovicaprino con netta cesura orizzontale alla base, probabilmente usato come strumento da cucina.92 Pertinente a livelli di fine V-inizio IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

21. Frammenti di vaso (hydria?) con decorazioni matt painted di colore violaceo: fascia sul bordo e linee ondulate e tremule sul collo; argilla rosa-arancio a superficie ruvida. Possibile produzione indigena. Fine V – prima metà IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

11. Frammento di bordo di pisside globulare a vernice nera. Bordo risparmiato decorato a puntinature. Argilla di colore beige-giallino friabile, vernice nera compatta; parte a risparmio (puntinature) con sottile strato coprente di colore rossastro. Prima metà IV secolo a.C. Prov.: Area C3

22. Brocchetta acroma monoansata. Ceramica grezza; corpo panciuto, bordo svasato, piede ad anello. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

12. Frammento di lekythos (?) a figure rosse. Si conserva parte del volto di una figura femminile di profilo. Argilla di colore beige. Produzione siceliota. 350-320 a.C. Prov.: Area A7

23. Piccolo frammento di lekythos globulare (?) a figure rosse. Della figura, probabilmente un volto di donna di profilo, rimane parte dell’arricciatura dei capelli sulle tempie. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

13. Due frammenti di bordi di skyphoi a figure rosse. Si conserva parte della decorazione supplementare: fr. a, fascia di ovoli entro linee e una minuta porzione della decorazione principale; fr. b, fascia a onde continue. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area A7 92 Il corno è stato rinvenuto in associazione alla pentola cat. n. 19 e al bordo di un pithos, nel settore dell’ambiente probabilmente destinato a cucina/dispensa

93 94

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Morel 1981 Athenian Agora IV

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 24. Piccola ciotola mono o biansata acroma, Ceramica grezza; piede piano. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

34. Ansa di skyphos acromo. Argilla beige molto chiaro. Prima metà IV secolo a.C. Prov.: A7 35. Fondo di piccolo skyphos a vernice nera. Piede ad anello, fondo interno concavo. Vernice compatta e semilucida, argilla beige. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area C3

25. Lekane verniciata internamente, acroma all’esterno. Argilla beige chiaro molto compatta, Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

36. Pomello di lekane. Disco a vernice nera priva di decorazioni con cavità centrale; orlo acromo. Metà IV secolo a.C. Prov.: A7

26. Piattino a vernice nera. Piede ad anello con cerchio depresso nel fondo esterno acromo. Vernice evanida. Simile a Morel 1315a. Ultimo terzo IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

37. Pomello di lekane. Profilo con orlo rialzato e sporgenza inferiore. Bordo superiore acromo superiormente e verniciato inferiormente; orlo inferiore verniciato. Disco centrale a vernice nera con cerchio risparmiato alla base del bordo. Vernice compatta di buona qualità; argilla beige. Metà IV secolo a.C. Prov.: Area A7

27. Piccolo frammento di lekythos (?). Rimane un motivo a probabile palmetta stilizzata. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β. 28. Bordo di anfora commerciale con orlo a echino. Profilo dell’orlo a sezione triangolare arrotondata esternamente; alto collo cilindrico. Anse a nastro, di cui si conserva solo l’attacco. Argilla di colore beige-arancio. Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

38. Piede di skyphos a vernice nera. Profilo ad anello arrotondato con fascia di vernice nella parte interna. Fondo esterno acromo. Secondo terzo IV secolo a.C. Prov.: Area A7 39. Piede di skyphos a vernice nera. Profilo ad anello piuttosto estroflesso con base acroma e vernice sui lati esterno e interno. Fondo esterno acromo. Metà IV secolo a.C. Prov.: Area A7

29. Fondo esterno di pelike (?). Argilla rosa-beige. Vernice nera compatta sul bordo esterno del piede e nella fascia tra esso e la depressione circolare centrale lasciata a risparmio come la base del piede. IV secolo a.C. Prov.: Area A7

40. Piede di anfora domestica (?) acroma. Profilo ad anello esternamente arrotondato e piatto alla base. Argilla beige molto chiaro, porosa, con minuscoli inclusi di quarzite e mica. (Prima metà?) IV secolo a.C. Prov.: Area A7

30. Pesi da telaio. Forma troncopiramidale piuttosto tozza. Doppio foro di sospensione. Es. 1 in argilla grezza brunastra. Es. 2 in argilla ben lavorata di colore beigearancio con piccoli inclusi biancastri. IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β.

41. Frammenti di ceramiche a figure rosse di produzione siceliota96 (comprendente uno dei frammenti di cui al n. 13). Seconda metà IV secolo a.C. Prov.: A4-A7-A9

31. Parte inferiore di skyphos a vernice nera. Profilo verticale leggermente inclinato verso l’esterno. Piede ad anello con parete interna inclinata verso il fondo interamente risparmiato, nel quale sono presenti segni di tornitura a raggiera. Vernice di colore nero in alcuni punti tendente al marrone. Argilla rosa-beige molto depurata. Ultimo terzo IV secolo a.C. Prov.: Area B1 – Frana area Case Popolari, amb. β95.

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Il ritrovamento di frammenti di ceramiche a figure rosse è stato relativamente sporadico, su una vasta area che comprende l’intera collina. I frammenti recuperati si riferiscono per la maggior parte a tre tipologie vascolari: lekanai, lekythoi globulari e skyphoi. L’esemplare più antico, contenente un accenno di decorazione a meandri (?) su fondo risparmiato, è di produzione attica e proviene dall’area A2 (Cat. n. 5). Sempre dall’area A2 è un piccolo pezzo di lekythos con decorazione a reticolo, mentre dall’area A4 è un frammento contenente una decorazione ad ampia palmetta. Dall’area A9 provengono due bei frammenti, uno di lekane con motivo sul bordo a onde continue ed uno di probabile lekythos conservante parte di un pannelli a reticolo ed un girale di palmetta, assegnabili entrambi alla seconda metà del IV secolo a.C. Due piccoli frammenti dall’area A7 conservano parte di un viso femminile nella tipica raffigurazione siceliota, probabilmente su bombylioi. Un pezzo presenta nel disegno parte di una veste (?) con motivi a pennellate, mentre un bordo di skyphos con sovradipinture su un motivo a ovoli potrebbe essere di produzione apula. Ancora un altro frammento presenta un riquadro con decorazione a puntini. Di difficile interpretazione morfologica sono poi una serie di frammenti contenenti decorazioni a palmette di vario tipo, peraltro di difficile inquadramento cronologico (da tutto il IV ai primi decenni del III secolo a.C.), mentre sono da riferire a coperchi di lekanes alcuni frammenti del bordo con motivo a linee verticali. Un frammento del bordo di uno skyphos con una decorazione a onde continue è stato recuperato dalla terra di riporto estratta nel corso di uno scavo agricolo del 2008 nell’area A6. Tutti i materiali descritti sono stati rinvenuti sul versante orientale della collina. Verso nord, in c.da Telegrafo, gli unici frammenti figurati sono

32. Frammento di ceramica a figure rosse. Raffigurazione non riconoscibile (ramo di palmetta?). Per alcune caratteristiche materiali (argilla color camoscio chiaro, vernice nera compatta, relativamente opaca, internamente stesa a fasce orizzontali) simile a produzioni imeresi. Fine V – Prima metà IV secolo a.C. Prov.: Area A7 33. Frammento di coperchio di lekane. Decorazione sul bordo a onde continue; nella parte superiore, girale a vernice bianca sovradipinta. Ultimo terzo IV secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

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Nello stesso strato erano presenti almeno due altri skyphoi con le medesime caratteristiche, di cui si sono rinvenuti frammenti non ricomponibili

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare 42. Frammento di ceramica a figure rosse (skyphos?). Si conserva parte di una figura maschile con braccio e mano destri protesi verso il basso. Vernice nera compatta, argilla beige pallido. Metà IV secolo a.C. Prov.: Area A7

ricomponibili. Argilla rosata molto compatta e liscia in superficie. Linee di vernice bruno-violacea nella parte mediana. Vernice di identico colore nella parte interna del vaso. Metà III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

43. Frammenti di vaso non definibile a vernice nera. Decorazione esterna graffita: motivo continuo a girali con puntinature sovradipinte97. Metà III secolo a.C. Prov.: Area A8 - Scarico

50. Bordi di piatti a vernice nera. Profilo estroflesso e pendulo. Decorazione a linee incise e pannello con stella stilizzata a sei punte simile nel disegno a Morel 2542. III secolo a.C. Prov.: Area A7

44. Piattino frammentario a vernice nera. Argilla beige pallido, vernice tendente a scrostarsi. Nella parte interna del bordo, decorazione a linee sovradipinte in bianco e rosso e linea graffita ondulata accompagnata da puntini sovradipinti in bianco. Considerato che si conserva la parte più esterna del piatto, per stretta similarità nel tipo di argilla e di vernice ed essendo identico il luogo di rinvenimento con il reperto n. 148 si presume che entrambi facciano parte dello stesso oggetto. Possibile produzione siracusana. Fine III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

51. Piccolo sostegno in terracotta a forma di protome leonina. Argilla di colore arancio con numerosi inclusi biancastri (quarzite). Probabile produzione locale. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2009

45. Lucerna su alto piede. Acroma con tracce di bruciature sul becco. Fine IV – inizi III secolo a.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2009

53. Lucerna a vernice nera. Fondo piano, corpo di forma biconica, foro di media grandezza entro depressione circolare. Mancante di ansa e becco. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

52. Frammento di coppa skyphoide a parete verticale. Vernice esterna nera. Vernice interna rossa. Decorazione sotto il bordo interno: due linee parallele sovradipinte tra le quali è un motivo inciso a linea ondulata intercalato da foglioline sovradipinte in bianco. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

46. Fondi di coppe skyphoidi a vernice nera. Sul fondo interno, decorazione a stampo raffigurante una rosetta. Piede ad anello rialzato. Essendo identici i due stampi, è da presumere che siano stati fabbricati nella stessa officina. III secolo a.C. Prov.: Area A7

54. Coppa skyphoide parzialmente ricomposta. Piede troncoconico; corpo panciuto con bordo leggermente estroflesso (coppa “concavo-convessa”);99 ansa verticale con nodo nella parte superiore. Argilla beige chiaro. Vernice nera evanida. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

47. Frammento di bordo di bacino a vernice nera.98 Orlo con bombatura esterna. Argilla beige chiaro. Decorazione graffita (linee orizzontali) e sovradipinta (trattini trasversali). III secolo a.C. Prov.: Area A7

55. Porzione di mortarium in corrispondenza del becco e di parte del corpo. Piede ad anello. Prese laterali con incavi. Vernice rosso-bruna non uniforme. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

48. Fondi di vasi a vernice nera. Cerchi di vernice su fondo esterno risparmiato, con puntino centrale nell’esemplare c. IV secolo a.C. Prov.: Area A7

56. Applique di ansa di probabile olpe a vernice nera, configurata a testa di sileno. La figura, dalla lunga barba, è resa in maniera molto accurata. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

49. Porzione di unguentarium a corpo panciuto. Si conservano altri frammenti dello stesso esemplare non

57. Porzione di statuina fittile a soggetto femminile. Si conserva parte del busto anteriore, con braccio destro piegato sul fianco, coperto da himation. Tracce di ingubbiatura bianca. Argilla di colore arancio, ruvida, con minuscoli inclusi biancastri. Probabile produzione locale. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

stati rinvenuti tra i materiali dello scarico in C3: parte del bordo di una pisside emisferica con decorazione a puntinature, che per caratteristiche stilistiche e morfologiche si può datare alla prima metà del IV secolo a.C. ed un frammento di bordo di vasca di lekane con linee verticali. La quasi totalità del materiale in questione è ascrivibile a produzioni siceliote. Si rileva, comunque, la bassa percentuale di ceramiche a figure rosse di epoca tardoclassica e altoellenistica, attribuibile forse a diversi motivi, tra cui, ad esempio, la scarsa entità demografica ipotizzabile fino al III secolo a.C. o il modesto tenore di vita dei Calactini proprio in concomitanza con la fase di diffusione del vasellame a figure rosse. Questi fattori hanno limitato anche la presenza di ceramiche decorate nello stile di Gnathia, che ebbero la fase di maggiore sviluppo tra la fine del IV ed il III secolo a.C., attestate in rarissimi esemplari rispetto a similari produzioni locali (c.d. “Produzioni dello Stretto”) che imitano in maniera semplificata le produzioni magnogreche. 97 Decorazione similare, resa sempre con tecnica a graffito, in Carettoni 1959, p. 337 fig. 39, in strato databile tra III e II secolo a.C. 98 Il tipo è ampiamente attestato a Caronia e trova confronti con analoghi esemplari da Halaesa. In entrambi i casi sono frequentemente conservate le prese a linguetta orizzontale, che sostituiscono le normali anse

58. Volto di statuina fittile, raffigurante probabilmente una divinità femminile (Demetra / Kore?). Si conserva parte della capigliatura arricciata. Argilla di colore beigegrigio porosa. Tracce di ingubbiatura chiara. IV-III secolo a.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2009 59. Porzione di skyphos a vernice nera. Piede ad anello verniciato nelle pareti esterna e interna, acromo alla base. 99 Simile a Morel 3211a. Per confronti, vedi Bacci. Tigano 2002 vol. I pag. 201 n. 92 e 93

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Nella parte superstite del fondo, cerchio di vernice nera su fondo risparmiato. Argilla molto compatta di colore rosato; vernice lucida. Metà IV secolo a.C. Prov. Area A7

67. Testina femminile fittile. Capelli raccolti all’indietro in uno chignon. Tracce di ingubbiatura bianca. III-II secolo a.C. Prov: Area A7

60. Piede di coppa a vernice nera tipo Morel 2132a 1 configurato a forma di testa umana con capigliatura che scende sulle guance (maschera tragica). L’esemplare trova stretti confronti con un analogo vaso con piedi plastici dalla chora di Metaponto100. Vernice rovinata nella parte superiore del capo, che era quella d’appoggio del vaso. Prima metà III secolo a.C. Prov.: Area A7

68. Piccola applique fittile acroma a forma di maschera della Commedia Nuova (lo schiavo ricciuto o Oùlos Theràpon). Espressione grottesca, grande bocca spalancata. Argilla colore arancio poco compatta. III-I secolo a.C. Prov.: Area A7 69. Testina femminile fittile. Dettagli del volto resi in maniera accurata. Capelli raccolti all’indietro sormontati da una sottile corona con due fiori (?) resi in maniera semplificata. Argilla rossastra con minuscoli inclusi biancastri, di colore grigio internamente. Tracce di ingubbiatura bianca. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2014

61. Piccolo frammento di matrice fittile, possibilmente di maschera gorgonica (capigliatura?). Età ellenistica. Prov.: Area A7 62. Testina femminile fittile. Capo leggermente riverso verso sinistra; capelli raccolti e sormontati da una corona. Argilla finemente lavorata di colore rosa-beige. Tracce di ingubbiatura bianca. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico101

70. Mascherina tragica fittile. Argilla arancio-brunastra con numerosi piccoli inclusi. Possibile produzione locale. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7

63. Torso di figurina maschile nuda fittile. Argilla beige chiaro. Incrostazioni da probabile riutilizzo in epoca moderna. III-I secolo a.C. Prov.: Area B3

71. Testina fittile di divinità femminile. Capelli raccolti all’indietro sormontati da una corona a visiera.102 Argilla rosata. III-I secolo a.C. Prov.: Area A5

64. Testina femminile fittile. Capelli raccolti all’indietro con profonde pieghe (a “melone”); collo robusto. Argilla brunastra. Possibile produzione locale. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7

72. Testina femminile fittile di probabile divinità. Capelli sormontati da corona a visiera. Argilla rosa-beige. Evidenti tracce di ingubbiatura bianca. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

65. Frammento di gorgoneion (lobo dell’orecchio sinistro forato e parte della mascella gonfia nell’atto di ridere). Tracce di ingubbiatura bianca. Argilla rosa-beige depurata e molto compatta. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

73. Frammento di grande statua fittile panneggiata. Argilla beige piuttosto grezza. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico 74. Porzione inferiore di statua fittile di medie dimensioni presumibilmente raffigurante Demetra o Kore103. Si conserva il panneggio che ricopre la gamba destra leggermente piegata. Argilla rosa-arancio ben lavorata. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

66. Figurina fittile di gallo. Argilla beige. Superficie quasi interamente coperta da ingubbiatura biancogiallino. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

75. Porzione di statuina fittile di divinità femminile (Demetra?): si conserva la parte inferiore, con il panneggio che ricopre la gamba destra leggermente protesa. IV secolo a.C. Prov.: Area A7

100

Metaponto 1980, p. 17 101 La coroplastica è molto attestata nell’ambito dei materiali ellenistici. Praticamente su ogni lato della collina sono stati rinvenuti frammenti di statuine fittili, la cui cronologia spazia dal IV al II-I secolo a.C. I modelli sono dei più vari, con una netta prevalenza di figurine di tipo tanagrino, accompagnate a statuine di tipo votivo con raffigurazione di divinità femminile. Lo stato di conservazione è ovviamente parziale, per cui rilevano soprattutto diversi esemplari di testine femminili realizzate a tutto tondo o a piastra. Di grande rilievo è il rinvenimento di una nutrita serie di frammenti coroplastici tra i materiali dello scarico nell’Area A8, comprendente fino ad oggi diverse decine di frammenti. Si tratta soprattutto di raffigurazioni femminili, diverse delle quali riconducibili a modelli ellenistici di rappresentazione di Demetra/Kore, ma non mancano raffigurazioni di animali (gallo, cane, ecc.), gorgoneia, clipei decorati, pinakes, ecc., alcuni dei quali sono riportati nel presente catalogo. La presenza di questi numerosi esemplari di figurine in terracotta suggerisce ancora una volta che ci si trova di fronte ad un contesto cultuale, per il quale le statuine (non necessariamente di contenuto religioso) costituivano materiale votivo, come ampiamente accertato in tutti i santuari greci in area mediterranea. Si sottolinea, infine, che molti esemplari, per le caratteristiche dell’argilla, sembrano riferibili ad una produzione locale, peraltro suggerita anche dal rinvenimento, sia in contesto di scavo (vedi A. Lindhagen 2006) che sporadico da ricognizione, di porzioni di matrici. Per confronti, si vedano, tra gli altri: Morgantina Studies I e Hellenistic pottery 1987

76. Porzione di piccola statua fittile: parte inferiore panneggiata su base. IV-III secolo a.C. Prov.: Area C3 77. Porzione di statuina fittile: capigliatura maschile da cui fuoriesce un’ala (Hermes?). Argilla arancio-brunastra

102

Per un’iconografia similare, vedi Carettoni 1959 p. 343 fig. 45e, datata alla tarda età ellenistica 103 Le caratteristiche formali di questo e altri pezzi di coroplastica dallo scarico di materiali in A8 richiamano da vicino modelli di Demetra/Kore dai santuari ellenistici di Morgantina esposti presso il Museo di Aidone, circostanza che ha indotto a ritenere che si tratti nel nostro caso di un enorme accumulo di oggetti pertinenti ad un’area di culto, probabilmente dedicata alla coppia Demetra/Kore, in uso soprattutto nel corso del III-II secolo a.C., il cui sito dovrebbe ricadere a monte nell’area oggi coperta dal settore orientale del centro storico

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare con tracce di ingubbiatura. Possibile produzione locale. III-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

89. Frammento di statua fittile. Lettura incerta (nodo di veste con pieghe?). Argilla arancio-bruno ben lavorata, lucida in superficie. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

78. Statuina fittile raffigurante un cane probabilmente appoggiato ad una figura umana seduta, di cui si conserva parte del panneggio inferiore. L’intero gruppo è sostenuto da una base circolare. Tracce di ingubbiatura bianca; argilla rosa-beige. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

90. Frammento di probabile pinax con doppio cerchio a rilievo. Argilla rosata. Ingubbiatura bianca. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

79. Frammento decorativo fittile di forma discoidale. Si conserva parte della figura centrale (fiore) e della corona esterna di astragali. Notevoli tracce di ingubbiatura e di colorazione originaria rosa. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

91. Porzione di statua femminile fittile di media grandezza. Si conserva la parte corrispondente al ginocchio destro prominente tra i drappeggi della veste. Argilla di colore rosa-arancio, compatta, con minuscoli inclusi nerastri. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

80. Frammento fittile di pinax (si conservano due fori di sospensione) di corona (elemento circolare centrale affiancato da foglie) forse originariamente posta su una testa femminile di grandi dimensioni. Tracce di ingubbiatura bianca. Argilla rosata. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

92. Frammento di statuina femminile fittile. Parte della figura non ben riconoscibile. Tracce di ingubbiatura bianca. Argilla di colore arancio-bruno con minuscoli inclusi biancastri e grigi. Probabile produzione locale. IIIII secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico 93. Porzione di statuina femminile fittile seduta. Si conserva la parte corrispondente alle gambe nude e l’attaccatura della mano appoggiata sulla coscia sinistra. Argilla rosa-arancio. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

81. Busto di statuina fittile femminile. Tracce di ingubbiatura. Argilla rosata. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico 82. Statuina fittile: capigliatura maschile da cui si diparte probabilmente un’ala (mancante). Tracce di ingubbiatura bianca e colorazione nera. Argilla grigio-beige. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

94. Porzione di statuina fittile. Parte conservata corrispondente al busto, con veste sostenuta internamente dalla mano destra con braccio ripiegato della figura. III-II secolo a.C. Prov.: Area A5

83. Frammento di pinax (?) fittile. Si conserva sul margine superiore una fila di dischetti e perline e parte di un motivo decorativo non interpretabile. Tracce di ingubbiatura bianca. Argilla rosa-arancio. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

95. Porzione di statuina femminile fittile nuda. Modellata a mano senza resa dei dettagli: in evidenza i seni. Argilla di colore rosa-bruno con piccoli inclusi di quarzite e sabbia nerastra. Produzione locale. III-II secolo a.C. Prov.: Area A5

84. Applique di vaso a forma di testa gorgonica. Dettagli del volto resi in maniera sommaria; capigliatura a serpentelli. Argilla bruno-arancio. II-I secolo a.C. Prov.: Area A7

96. Fondo di coppa (Morel 2952a - 2953a?) a vernice nero-brunastra in Campana A. Nella parte interna: tondo centrale e cerchio esterno sovradipinti in bianco. Fine IIIII secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

85. Figurina fittile frammentaria a protome leonina. Si conserva la folta criniera e la parte superiore del volto con grandi occhi globulari. Argilla beige-arancio. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7

97. Frammento di vaso (olpe?) a vernice nera con decorazione graffita: cerchio tagliato da linee. Argilla rosa-beige; vernice quasi del tutto scrostata. III-II secolo a.C. Prov.: Area A6

86. Testa fittile di animale (cane, cavallo?) modellata a mano. Dettagli inesistenti tranne due piccoli solchi in corrispondenza delle narici. Argilla poco depurata di colore brunastro. IV secolo a.C. (?). Prov.: Area A8 – Scarico

98. Fondo di piattino a vernice nera. Nella parte interna, al centro: stampiglio a rosetta. II secolo a.C. Prov.: Area A7

87. Testina fittile femminile. Capelli raccolti in un copricapo nella parte posteriore. Argilla rosata. Tracce di ingubbiatura bianca. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7

99. Ciotole con anse angolari. Forma emisferica, fondo piano. Argilla di colore arancio, ben lavorata. Tracce di verniciatura rossastra all’esterno. Probabile produzione locale. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

88. Testina fittile femminile. Capelli interamente raccolti nell’himation. Argilla rosa-beige con piccoli inclusi biancastri. Probabile produzione locale. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7

100. Coppetta a vernice nera in Campana A, simile a Morel 2646c. Sul fondo interno: stampiglio a forma di rosetta entro una fascia circolare a rotellatura. Prima metà II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia (porta o finestra in legno?) a cui era attaccata per mezzo di chiodi, di cui restano i fori d’entrata. III-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

101. Bordo di kalathos o sombrero de copa di produzione iberica.104 Orlo a tesa orizzontale con decorazione a motivo di triangoli crescenti. Parte superiore del corpo sotto il bordo a semicerchi tra linee verticali. Argilla rosaarancio; vernice di colore violaceo (vinaccia). II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

110. Manufatto fittile di forma semiovoidale con foro sull’estremità di funzione incerta. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

102. Bordo e parte del corpo di kalathos o sombrero de copa di produzione iberica. Bordo a tesa orizzontale con decorazione a linee verticali. Parte superiore del corpo sotto il bordo a semicerchi tra linee verticali. Argilla rosaarancio, vernice di colore violaceo. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

111. Fondo di piatto in Campana A. Nella parte esterna del piede ad anello, lettere graffite: Φ e ΠΟ. La sillaba o abbreviazione ΠΟ, nota da altri graffiti su vasi dalla collina di Caronia, potrebbe riferirsi al verbo ΠΟΙΕΩ, per cui si potrebbe risolvere in “Ph[…] ha posto/scritto”. Vernice nero-brunastra; argilla brunastra. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico105

103. Parte inferiore di kalathos o sombrero de copa di produzione iberica ricomposto da diversi frammenti. Base con parte centrale rientrante. Decorazione a reticoli e semicerchi. Argilla rosa-arancio, vernice di colore violaceo. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

112. Mortarium conservato in corrispondenza del becco. Prese laterali a dischetti concavi. Argilla beige chiaro. IIII secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico 113. Frammento di grande contenitore con resti di riparazione. Fori e grappe di piombo ad unire le diverse porzioni danneggiate. III-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

104. Maniglia di foculum a forma di semidisco in corrispondenza di una delle placche d’appoggio. Argilla grezza di colore arancio-bruno. II-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

114. Sigillo in piombo con simbolo di Halaisa: lettera Π con iscritte Α e Λ sormontata da una Ο (=ΠΟ(ΛΙΣ) ΑΛ(ΑΙΣΙΝΩΝ). Epoca ellenistica. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2009

105. Coppa skyphoide “concavo-convessa”. Corpo panciuto che si restringe verso l’alto, bordo svasato. Piede a coppella con ombelicatura sul fondo esterno. Vernice interna ed esterna di colore arancio semilucida. Argilla rosa-beige ben depurata. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

115. Frammento di cratere (?) a corpo baccellato. Vernice nera compatta e semilucente interna ed esterna. Argilla beige. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

106. Presa di grande contenitore di forma ellissoidale. Argilla di colore rosa beige, grigia esternamente. II-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

116. Lucerne conservate nella parte corrispondente al becco e a parte del corpo. Cisterna di grandi dimensioni di forma pressoché cilindrica a fondo piano. Becco affusolato verso l’estremità che nella parte opposta si eleva verticalmente presentando almeno tre piccoli fori circolari. Argilla di colore brunastro. Probabile produzione locale. III-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

107. Spillone in osso. Estremità cave, modellate a baccellature. III-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico 108. Spillone e cannula in osso. Lo spillone, a corpo baccellato, è affusolato verso una delle estremità: la cannula è cava internamente ed è ricavata da un osso animale lungo lavorato esternamente. III-I secolo a.C. Prov: Area A8 – Scarico

117. Lucerna. Foro centrale di medie dimensioni contenuto entro area circolare depressa. Becco affusolato, presetta laterale. Ansa verticale mancante. Fondo piano, corpo biconcavo. Vernice rossastra sulla superficie esterna. Simile a Athenian Agora Vol. IV type 42D. Probabile produzione locale. Metà III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

109. Placca in piombo con fori. Il manufatto, di forma semirettangolare, è piegato in due ed originariamente doveva forse avvolgere un oggetto in materiale deperibile 104 Gli unici esemplari di kalathoi iberici finora individuati sulla collina provengono tutti dallo scarico di materiali in A8. Si tratta di frammenti, alcuni riferibili ad uno stesso vaso, che presentano tutti le medesime caratteristiche materiali, con argilla di colore rosato tendente all’arancio tranne un frammento, conservante una decorazione a semicerchi evanida, con argilla di colore più acceso e liscia in superficie. I manufatti a cui si riferiscono i frammenti dovrebbero essere almeno tre. La presenza di ceramica iberica ellenistica a Caronia appare significativa, soprattutto in considerazione dei pochi rinvenimenti finora editi per la Sicilia. Essa, più che suggerire l’esistenza di un canale commerciale diretto con la penisola iberica, potrebbe rivelare l’esistenza di gruppi familiari le cui condizioni economiche permettevano di fare giungere a Kalè Akté il prezioso contenuto dei vasi (miele o frutta secca), di per sé di mediocre qualità

118. Parte del bordo e del corpo di coppa-skyphoide in corrispondenza di una delle anse. Vernice nera, corpo panciuto. Decorazione sovradipinta sotto il bordo esterno: linee graffite e tratti obliqui sovradipinti. Ansa verticale scanalata centralmente con nodo nella parte superiore. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

105 Per i numerosi altri esemplari di testi graffiti su ceramiche, vedi: La vicenda storica di Kalè Akté-Calacte tra fonti letterarie e ricerca archeologica in questo volume

142

Ricerche nell’area urbana I: la città collinare 119. Parete di olpe (?) con decorazione baccellata. Argilla grigia, vernice nera evanida. Probabile Campana C. Fine II – Inizi I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

126. Brocca. Corpo panciuto, piede piano, alto collo affusolato. Argilla colore arancio, vernice rossa esterna. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

120. Manico di teglia. Forma a bastone con estremità pronunciata (a fungo). Argilla rosa-beige. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

127. Lucerna acroma. Foro di medie dimensioni entro depressione circolare. Ansa verticale; argilla di colore beige scuro, grigiastra esternamente. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

121. Fondo di piatto a vernice nera in Campana A. Nella parte interna, decorazioni stampigliate: palmette entro fascia circolare. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

128. Bordo e ansa di anfora rodia. Sulla parte superiore dell’ansa, timbro di forma rettangolare con testo su tre linee parzialmente leggibile: [ΕΠΙ ...] Λ [... ]/ Γ?[... ...] / [ΠΕ∆ΑΓΕΙΤ?]ΥΟΥ. Lateralmente, sigillo con rosa di Rodi stilizzata. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

122. Fondo di vaso (brocca?) riutilizzata come piattino. Il manufatto originario è stato rilavorato in modo da ottenere un bordo regolare. Fondo piano, argilla di colore arancio. Tracce evidenti di ingubbiatura bianca sia all’esterno che all’interno. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

129. Fondo di vaso di forma aperta a vernice nera. Nella parte interna, stampigliatura con palmette riunite da linee incise. III secolo a.C. Prov.: Area A7

123. Porzione di pentola. Bordo verticale con spazio per l’alloggiamento del coperchio. Ansa verticale separata dal bordo. Argilla brunastra; superficie esterna di colore grigio. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

130. Frammento di coppa megarese107 a vernice rossa. Decorazione parzialmente leggibile: sotto una fascia liscia sotto il bordo, tra linee orizzontali fascia di croci greche e riquadri con “x” centrale; ancora sotto, decorazione principale non riconoscibile (si intravedono cerchi e puntinature forse facenti parte di una decorazione a motivi vegetali stilizzati). Argilla di colore rosa-arancio. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

124. Piatto in ceramica Campana A. Piede ad anello, vernice di colore nero semilucente, bordo svasato. Simile a Morel forma 1314f. Conservato per metà circa. Seconda metà III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico106

131. Fondo di piatto in Campana A a vernice nera. Nella parte interna, stampigli: palmette intorno a una rosetta centrale. Fine III – II secolo a.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2014

125. Piccolo piatto conservato per due larghi frammenti combacianti. Vernice interna di colore rosso; esternamente, vernice rossa sul bordo e colature. Piede ad anello, bordo svasato. Simile a Morel forma 1314f. Probabile produzione locale. Seconda metà III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

132. Frammento di vaso acromo di forma non riconoscibile. Sul corpo, decorazione a rilievo: fiore entro cerchio. Argilla brunastra. Probabile produzione locale. II-I secolo a.C. Prov.: Area A5

106 Tra le forme ceramiche fini di epoca medio e tardoellenistica, quella più attestata è costituita da piatti (frequentemente chiamati “patere” nelle pubblicazioni scientifiche) di varia dimensione. Tra di essi prevalgono quelli in Campana A, sebbene non manchino esemplari in Campana B e C. La forma, inquadrabile puntualmente nelle classificazioni Morel 1981, è ricorrente: profilo della vasca poco profondo, piede ad anello, bordo aggettante verso l’esterno più o meno pendulo. Alla forma Morel 2264-2265. si riferiscono molti frammenti di piatti con bordo verticale e profilo quasi orizzontale. La vernice è generalmente nera o bruna, con variazioni tendenti al rosso, presente sempre nella parte interna del vaso mentre in molti casi è assente nella parte esterna. Si tratta della principale suppellettile da mensa per il consumo del cibo solido nel corso del III-I secolo a.C. In proposito, la scomparsa dello skyphos come utensile per il consumo misto di alimenti solidi e liquidi e il probabile utilizzo delle coppe skyphoidi di III-II secolo a.C. esclusivamente per bere, sono forse un indizio della variazione della dieta nel corso dell’epoca ellenistica. A ciò si aggiunga la presenza di piatti anche di dimensioni molto grandi (superiori ai 35 cm. di diametro) probabilmente usati per servire il cibo da dividere a tavola, assenti almeno fino alla tarda età ellenistica (II secolo a.C.). Sono attestati anche i piatti da pesce, nel nostro sito tutti in Campana A e non figurati, con caratteristico incavo centrale per la raccolta del sugo di preparazione. I piatti generalmente non presentano decorazioni a vernice ma solo a stampo e a incisione: si segnalano alcuni esemplari di bordi con motivi incisi a crudo (linee parallele, croci, motivi a stella) e numerosi fondi interni con stampigli (rosette, palmette e simili) e rotellature circolari. Il rinvenimento di diversi piedi di piatti con lettere e nessi graffiti nella parte esterna del fondo, probabilmente segni identificativi del possessore dell’oggetto, è significativo circa l’importanza che questa classe di vasellame domestico aveva all’interno delle case.

107

Le coppe “megaresi” decorate a rilievo sono “coppe in argilla, di forma per lo più emisferica, ricoperte di vernice variabile dal nero al grigio e al rosso-bruno, lucente od opaca, e ricavate da matrici decorate con punzoni. Le loro dimensioni variano, generalmente, da cm 5 a cm 9 di altezza e da 10 a 18 cm di diametro” (Puppo 1995). Si tratta di una particolare classe ceramica prodotta a partire dal III secolo a.C. in Attica, che trovò diffusione in Italia solo dalla seconda metà del II secolo a.C. In Sicilia è attestata in diversi centri, da Siracusa a Monte Iato, Marsala, Gela, Morgantina, Tyndaris, ecc. Il rinvenimento di matrici a Morgantina e Tyndaris suggerisce che coppe megaresi erano prodotte in queste città, probabilmente dalla fine del II o inizio del I secolo a.C. A Caronia sono stati rinvenuti alcuni frammenti la cui origine non è accertabile, potendosi trattare di produzioni siciliane o importate dal Mediterraneo orientale. Oltretutto presentano caratteristiche diverse sia per il tipo di argilla che per il colore della vernice. Un frammento a vernice nero-grigia presenta una decorazione a fila di ovoli e dardi assimilabile a quella di una coppa “delia “ da GelaManfria, un altro a vernice rosso-arancio è vicino ad un esemplare frammentario conservato presso il Museo di Urbana, Illinois, un altro ancora, a vernice nerastra, presenta motivi vegetali simili a decorazioni presenti nella produzione “tarantina”. Le coppe megaresi in ceramica erano molto probabilmente un surrogato di analoghi e più preziosi vasi in bronzo o in argento, ma in ogni caso la loro presenza, soprattutto per gli esemplari di provenienza orientale, è indice di una certa ricchezza del possidente.

143

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 133. Parte inferiore di vaso a profilo biconico (probabile lagynos). Piede ad anello. Corpo allargato nella parte inferiore che tende a restringersi notevolmente verso l’alto. Vernice esterna di colore rosso. Argilla rosaarancio. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

superiore con leggera sporgenza verso l’esterno, piede a tromba (?). Vernice interna ed esterna di colore variabile (nero, bruno, rosso, arancio), opaca e di qualità mediocre. Argilla dal beige all’arancio con inclusi di quarzite. Probabile produzione locale. Fine III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 - Scarico

134. Imboccatura di bottiglia (?). Sotto il bordo, serie di segni incisi: palmetta stilizzata (?), forme angolari, puntini. Argilla grigiastra. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

141. Peso in piombo. Forma discoidale con bordi frastagliati e pomello di presa superiore. Ellenisticoromano. Prov.: Area A2

135. Frammenti di magenta ware. Pertinenti a probabili askoi plastici. Argilla beige chiaro. Vernice evanida di colore rosso tendente all’arancio. Spessore delle pareti molto sottile. II secolo a.C. Prov.: Aree A7 – A8-Scarico

142. Tondelli di terracotta. Probabili pedine da gioco realizzate smussando frammenti di anfore o altro contenitore acromo. Diam. 2,5 cm. circa. Ellenisticoromano. Prov.: Area A7

136. Porzione di coppa skyphoide. Corpo panciuto con bordo leggermente svasato108. Ansa ad occhiello orizzontale. Vernice rossastra interna ed esterna. Argilla di colore arancio. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

143. Vasetto di forma biconica. Piede ad anello svasato. Parte inferiore acroma, superiore a vernice di colore rosso-arancio, con colature nella parte interna. Argilla beige chiaro. II-I secolo a.C. Prov.: Area A7 144. Coppa su piede. Vernice esterna nera con riflessi iridescenti; vernice interna grigiastra iridescente; piede acromo ben separato dal corpo. Argilla rossastra molto compatta. Nel fondo interno decorazione: doppio cerchio di colore prugna e marrone al cui interno è un fiore a 12 petali di colore alternato marrone e prugna; resti di ingubbiatura bianca su alcuni petali e nel pistillo. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

137. Fondo di piatto a vernice nera in Campana A. Nella parte centrale, all’interno di un doppio cerchio a rotellatura, stampigli a forma di foglioline. II secolo a.C. Prov.: Area A7 138. Ansa di anforetta. Sezione bifida con sporgenza a corno sulla parte sommitale. Superficie esterna di colore bianco, corpo interno di colore rossastro. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7

145. Piatto a vernice nera in Campana A. Bordo verticale. Vernice con riflessi metallici, argilla compatta di colore rosa-bruno. Al centro nella parte interna, disco di colore marrone entro due cerchi incisi. Simile a Morel 2284b. Fine II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

139. Ceramica da cucina: pentole, teglie e coperchio. III-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico109 140. Bordi di coppe emisferiche110. Corpo con profilo a calotta, orlo rientrante relativamente piatto nella parte

ispessimento della parete (da 0,4 a 0,8 cm. circa). Il bordo presenta spesso una variante nella quale la placca superiore si distribuisce in larghezza, mantenendo la stessa misura (1,2-1,5 cm.), tra parte interna ed esterna del vaso e diviene più obliqua. Alcuni frammenti conservati fino alla parte inferiore della vasca fanno presumere che questa non fosse profonda e che anzi tendesse a divenire piana sul fondo e che il piede fosse ad anello di media altezza. Il diametro di queste coppe, la cui funzione potrebbe essere assimilabile a quella di ciotole in sostituzione delle coppe ansate “concavo-convesse” che forse furono in uso fino ai primi decenni del II secolo a.C., è generalmente di 14-15 cm. Delle centinaia di frammenti appartenenti a questa forma, buona parte presentano una verniciatura opaca esterna e interna di colore rosso, con varianti in arancio, bruno, nerastro. La vernice è interamente coprente nella parte interna, mentre esternamente è di solito apposta a pennellate non uniformi. L’argilla è quasi sempre di colore arancio, compatta e ben depurata, di qualità similare a quella delle brocche a corpo panciuto, altrettanto diffuse e con le medesime caratteristiche riguardo alla vernice. Per entrambe le forme è identificabile una produzione locale, collocabile tra II secolo fine I secolo a.C. La presenza di queste coppeciotole in una fase compresa tra quella di diffusione delle coppe “concavo-convesse” e la produzione di quelle in sigillata italica, consente di cogliere gli usi della popolazione per ciò che riguarda il consumo di liquidi (bevande o alimenti): dallo skyphos di tradizione classica, si passa, nei primi decenni del III secolo a.C., alle coppe skyphoidi ancora con doppia ansa (orizzontale o verticale), per poi passare, nel corso del II secolo, a queste coppe-ciotole prive di ansa, caratteristica mantenuta dai similari vasi in sigillata. Tuttavia, la caratteristica dell’orlo rientrane, che pone dubbi circa un efficace funzione nell’attingere bevande, rende ipotizzabile l’uso di questo vaso soprattutto per il consumo di zuppe e simili.

108

Questo tipo di coppa, caratterizzata da corpo panciuto leggermente rastremato verso il bordo poco svasato con piede generalmente a tromba (o modanato o anche a coppella capovolta) e anse orizzontali a “occhiello”, ovvero con attaccatura al vaso del cordolo ristretta, costituisce una variante della più nota coppa “concavo-convessa” assegnata alle “Produzioni dello Stretto”. Il tipo non trova precisi confronti nella classificazione Morel. La vernice è generalmente di colore bruna, rossastra o arancio, relativamente opaca; l’argilla è di solito di colore rosa-arancio o arancio. La notevole presenza di esemplari, che appaiono essere più numerosi delle coppe “concavoconvesse” con anse verticali, assieme alle caratteristiche dell’argilla, fa presumere che si tratti di produzioni locali, diffuse tra la fine del III e il I secolo a.C. 109 La ceramica da cucina è molto presente tra i materiali dello scarico, con forme che si inquadrano tra le tipologie diffuse nel corso dell’età ellenistica in Sicilia. Ben attestati i tegami e le pentole, realizzati con argille refrattarie frequentemente annerite dal fumo. A giudicare dai frammenti, si individuano diversi manufatti anche di grandi dimensioni. 110 Si tratta di coppe-ciotole di forma emisferica tendente ad appiattirsi sul fondo, prive di anse, di cui non si è rinvenuto finora alcun esemplare integro o che permetta di risalire all’intero profilo, ma che sono notevolmente attestate nel sito collinare. I frammenti sicuramente riconducibili a questo tipo di vaso si conservano nel bordo e parte della vasca e presentano le seguenti caratteristiche: orlo rientrante, concavo nella parte interna, superiormente piano con leggera inclinazione dall’esterno verso l’interno; profilo del corpo pressoché verticale sotto il bordo, che si incurva gradualmente verso il fondo, con graduale

144

Ricerche nell’area urbana I: la città collinare

146. Frammenti di coppe skyphoidi e bacini con decorazioni sovradipinte in rosso e bianco. Riferibili alle cosiddette “Produzioni dello Stretto”. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

155. Bordo trilobato di brocchetta acroma. Attacco dell’ansa (mancante) nella parte retrostante dell’imboccatura. Argilla di colore beige-arancio con moltissimi piccoli inclusi bianchi e nerastri. Probabile produzione locale. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

147. Anfora greco-italica. Si conserva metà del bordo e parte di una delle anse. Argilla di colore beige con molti inclusi nerastri e bianchi. Bordo a sezione triangolare tendente ad avvicinarsi al collo. Seconda metà III – prima metà II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

156. Oggetti in metallo: cardine di porta (?) in piombo e chiodi in ferro. Prov.: Area A8 - Scarico 157. Ansa di brocca acroma di probabile produzione locale. Profilo a bastone ricurvo con attacco superiore sul bordo concavo del contenitore (a corpo panciuto e collo cilindrico). Striscia irregolare di vernice rossa nella parte interna del bordo. Nella parte superiore dell’ansa, vicino all’attacco, doppia placca verticale. Argilla compatta di colore arancio. II-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

148. Fondo di piatto con decorazione in rilievo nella parte interna: Nike alata seduta e rivolta verso destra mentre ripara uno scudo. Ai suoi piedi, due scudi e una lancia. Il tondo centrale è circondato da una decorazione graffita a raggi con resti di puntinature sovradipinte. Argilla beige pallido. Vernice nera interna ed esterna evanida. Figurazione identica ad un esemplare da Tyndaris.111 Fine III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

158. Ansa di brocca di produzione locale. Profilo a bastone ricurvo con attacco in corrispondenza del bordo concavo; depressione circolare nella parte superiore. Vernice brunastra stesa irregolarmente nella parte esterna del vaso (a corpo panciuto e collo cilindrico). II-I secolo a.C. Prov.: Area A7

149. Manufatto cilindrico e spillone in osso. Il primo, di ridotto spessore, potrebbe essere una pedina da gioco. Lo spillone manca di entrambe le estremità (la punta e la terminazione probabilmente a bottone). III-I secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

159. Frammento di piatto (?) in presigillata. Vernice di colore rosso-arancio. Nella parte interna, decorazione stampigliata: cerchio centrale delimitato da figura romboidale a quattro raggi alle cui estremità sono tre globetti. II secolo a.C. Prov.: Area A7-A8

150. Porzione di coppa tipo Morel 2132b 1 in corrispondenza di uno dei piedi a forma di conchiglia. Vernice brunastra interna ed esterna; nella parte interna, sul fondo, cerchi sovradipinti. III-II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

160. Frammento di vaso a vernice nera iridescente con decorazione esterna graffita e sovradipinta: su due pannelli delimitati da linee orizzontali graffite, motivi a zig-zag e a puntini tra doppie linee verticali a vernice sovradipinta (di cui rimane solo l’impronta). II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

151. Base di colonnina fittile o sostegno di loutherion. Base a echino con modanatura nella parte inferiore. Fila di globetti all’attaccatura del fusto. Argilla brunastra con molti inclusi di piccole e medie dimensioni, leggermente ipercotta all’esterno, dove assume una colorazione tendente al grigio. Probabile produzione locale. III-I secolo a.C. Prov.: Area A7

161. Frammento di coppa megarese. Vernice nera, argilla grigiastra. Sulla parete esterna, decorazioni vegetali. II secolo a.C. Prov.: Area A7-A8

152. Frammento architettonico in terracotta. Sul bordo, decorazione a onde continue a fianco di striscia a tratti obliqui incisi. Epoca medio-tardoellenistica. Prov.: Area C3 (pressi “Casa C3”)

162. Frammento di vaso a vernice nera iridescente con decorazione esterna e sovradipinta: entro pannelli definiti da linee orizzontali graffiti, motivo a linee ondulate intrecciate, a foglioline (?) e a filare di puntini sovradipinti. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

153. Chiodi in bronzo e in ferro. Epoca mediotardoellenistica. Prov.: Area A8 – Scarico 154. Coppa in ceramica Campana A. Vasca profonda con ampio bordo, assottigliato rispetto alla parete del corpo. Piede ad anello. Linea di vernice bianca sovradipinta sotto il bordo interno e doppio cerchio sovradipinto sul fondo. Simile a Morel 2952a ma con profilo della vasca più alto e convesso. Prima metà II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

163. Fondo di vaso in Campana C. Argilla di colore grigio, vernice nera interna ed esterna opaca, dissolta nella parte inferiore del piede. Seconda metà II-I secolo a.C. Prov.: Area A4 164. Manufatto in terracotta di forma rettangolare con presa (mancante) nella parte retrostante. Nella faccia esterna, lavorazione a scanalature con incavi nelle linee in rilievo in direzione alternata per ogni striscia. Argilla di colore bruno-rossiccio molto compatta, di colore grigio

111

L’esemplare esposto presso l’Antiquarium di Tyndaris, proveniente dall’Insula IV, è pertinente ad un piatto a vernice rossa in presigillata

145

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia nella parte posteriore apparentemente ipercotta. Probabile grattugia.112 Età tardoellenistica (?). Prov.: Area A7

o festone. Al centro di questa, un foro. Parete retrostante liscia con strisce di lavorazione. Probabilmente apposta con un chiodo su un mobile in legno o altro materiale deperibile. Epoca ellenistico-romana. Prov.: Area A8

165. Manufatto in terracotta di forma rettangolare con presa (mancante) nella parte retrostante. Nella faccia esterna, serie di incavi disposti a file irregolari. Argilla di colore beige-arancio compatta. Probabile grattugia. Età tardoellenistica (?). Prov.: Area A2

175. Lucerna. Profilo biconico, piede piano. Foro di alimentazione di medie dimensioni entro depressione circolare. Argilla di colore arancio di consistenza ruvida, vernice nero-brunastra evanida. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

166. Lucerna.113 Forma tronco-cilindrica leggermente rastremata in corrispondenza del piede piano. Nella parte superiore, piccolo foro di alimentazione all’interno di una coppella, su cui si innesta l’ansa a nastro. Piccola presa laterale. Mancante dell’ansa e di parte del becco. Argilla di colore grigio con incrostazioni beige. Produzione in Campana C. I secolo a.C. Prov.: Area C4. Collezione privata

176. Piccolo coperchio di pisside in Campana C. Argilla di colore grigio, porosa. Vernice nera tendente a scrostarsi. I secolo a.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2014 177. Piccoli coperchi di pissidi a vernice rossa114. III-II secolo a.C. Prov.: Area A7

167. Ciondolo in osso. Forma a linguetta o scudo con foro di sospensione sulla sporgenza superiore. Epoca ellenistico-romana. Prov.: Area A7

178. Pedina da gioco in pasta vitrea. Colore grigio-nero. Base piana e parte superiore bombata con incavo centrale. Diam. 3 cm. Prov.: Area A3

168. Pettine frammentario in osso. Si conserva la placca con l’attacco lavorato dei chiodini andati perduti. Epoca ellenistico-romana. Prov.: Area A7

179. Piccolo frammento fittile (lucerna?) con raffigurazione di putto che suona la tromba. Vernice rosso-bruno. Argilla rosa-arancio. I secolo a.C. – I secolo d.C. Prov.: Area A7

169. Frammento di bordo superiore di loutherion. Decorazione a stampo con motivo vegetale (ramo di palma). III-I secolo a.C. Prov.: Area A7

180. Moneta in bronzo della zecca di Kalè Akté. D. Testa di Dioniso; R. Grappolo d’uva e legenda ΚΑΛΑ−ΚΤΙΝΩΝ. Fine III secolo a.C. Prov.: Area A7

170. Fondo di piatto a vernice nera in Campana A. Decorazione a palmette stampigliate disposte simmetricamente a quattro all’interno di cerchi a rotellature. Vernice evanida. Argilla di colore beigegrigio. II secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico

181. Sostegno di foculum con faccia interna configurata a figura umana grottesca. I secolo a.C. – I secolo d.C. Prov.: Area A7

171. Probabili oggetti votivi: corno lavorato (si conserva solo la punta), conchiglia, tondello-sezione di osso animale. Età ellenistica. Prov.: Area A8 - Scarico

182. Dado in osso. Numeri segnati a cerchietti con puntino centrale. Ellenistico-romano. Prov.: Area A7 183. Applique di contenitore fittile: figura femminile drappeggiata con bambino in braccio. Argilla rosa-beige con strato esterno parzialmente scrostato di color crema. Ellenistico-romano. Prov.: Area A7

172. Piccolo manufatto in bronzo con doppio occhiello. Decorazione incisa sul bordo interno degli occhielli e nella parte centrale. Epoca ellenistico-romana. Prov.: Area A7

184. Bordo di loutherion. Decorazione nella parte superiore del bordo della vasca: lungo il limite interno, motivo a onde continue; separato da una linea, addobbo di tipo vegetale, con gruppi di foglioline d’edera collegate da tralci alle cui estremità sono delle puntinature (fiori stilizzati) compresi tra foglie allungate. Argilla di colore rosato con molti inclusi biancastri (quarzite). Schiaritura beige all’esterno. Probabile produzione locale. II-I secolo a.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2014

173. Orecchino (?) e anello in ferro. Prov.: Area A7 174. Applique in bronzo configurata nella faccia esterna a forma di corona d’ulivo con alla base una fascia annodata

112

Manufatti di questo tipo, con incavi nella faccia esterna e presa (a maniglia) in quella retrostante, sono stati rinvenuti in diversi esemplari nella collina. Non sono stati trovati precisi riscontri da altri siti. La funzione come probabile grattugia, in sostituzione di quelle più note in bronzo, è suggerita dalla disposizione degli intacchi, con estremità leggermente in rilievo, talvolta realizzati a crudo in senso alternato per facilitare lo sbriciolamento del materiale da grattugiare. 113 Il tipo è attestato sulla collina da altri esemplari frammentari caratterizzati tutti dallo stesso tipo di argilla di colore grigio con resti di vernice nera, per cui è plausibile un loro inquadramento nell’ambito delle produzioni in Campana C

185. Frammento di bordo di loutherion. Decorazione superstite a tralci curvilinei alle cui estremità sono dei fiori resi con puntinature. Argilla di colore rosato con 114

146

Per confronti, vedi Bacci, Tigano 2002, vol. II pag. 96 n. 66

Ricerche nell’area urbana I: la città collinare molti inclusi biancastri (quarzite). Schiaritura beige all’esterno. Probabile produzione locale. II-I secolo a.C. Prov.: Area A7

194. Piede in terracotta. Parte d’appoggio piana. Nella parte superiore, stampigli circolari che riproducono borchie, tra le quali sono resi gli spazi corrispondenti all’allacciatura. Dimensioni corrispondenti al piede di un adolescente. Probabilmente pertinente ad una statua. Ellenistico-romano. Prov.: Area A4

186. Porzione di vasca di loutherion. Bordo privo di decorazioni. Resti di riparazione in antico mediante grappe di piombo. Argilla di colore beige molto chiaro con molti inclusi biancastri. III-I secolo a.C. Prov.: Area A6 – Sbancamento agricolo 2008115

195. Parte anteriore di lucerna, mancante del becco. Nella faccia superiore, stampiglio circolare con decorazione a file di puntini separati da cerchio e globetto centrale. Argilla di colore rosa-arancio con numerosi piccoli inclusi biancastri, grigi e neri; corpo centrale di colore grigio. Fabbrica non identificabile: non si esclude una produzione locale. Età tardoellenistica. Prov.: Area A7

187. Base di colonnina (di loutherion?). Forma quadrangolare con anelli all’attaccatura della colonna. Argilla rossastra con molti inclusi anche di medie dimensioni in pietrisco rossastro e quarzite. Produzione locale. Età medio-tardoellenistica. Prov.: Area A7

196. Bacino in pietra calcarea bianca.117 Corpo emisferico con base piana distinta; prese laterali. Superficie interna perfettamente liscia; parte esterna lasciata intenzionalmente ruvida con evidenti segni si scalpellature. II-I secolo a-C. Prov.: Area B5 (Via Mazzini)

188. Frammento di decorazione architettonica fittile. Motivo decorativo a semicerchi concentrici. Argilla di colore rosso-arancio con piccoli inclusi biancastri. Età ellenistica. Prov.: Area A7 189. Ghianda missile in piombo. Ellenistico-romano. Prov.: Area C4. Collezione privata

197. Cuspide di lancia in bronzo. Prov.: Area C4 (collezione privata)

190. Bordo di anfora greco-italica. Profilo dell’orlo mediamente ribassato con rientranza sottostante. Argilla beige con piccoli inclusi nerastri di provenienza vulcanica. Produzione campana. III secolo a.C. Prov.: Area A7

198. Perline in pasta vitrea di colore violaceo, verde e azzurro. Tracce di residui metallici su una delle facce: originariamente apposte su anelli o orecchini in ferro o bronzo. Periodo ellenistico-romano. Prov.: Aree A5-A7 199. Oscillum fittile.118 Decorazione su una delle facce: entro cerchio, motivo floreale o corona d’alloro stilizzata. Argilla di colore rosa-arancio con inclusi biancastri. Probabile produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area A7

191. Porzioni di unguentaria. Verniciatura nera all’interno. Argilla di colore rosa-beige ben depurata, liscia esternamente. III secolo a.C. Prov.: Area A8 – Scarico 192. Parte superiore di lucerna. Corpo scanalato; foro di alimentazione di dimensioni medio-piccole entro depressione circolare con margine esterno rilevato, dal quale si diparte il becco (con estremità mancante), superiormente piano con margini rialzati paralleli. Argilla di colore rosa-beige verniciata esternamente in rossobrunastro. II secolo a.C. Prov.: Area A5

117

In collina sono stati rinvenuti numerosi esemplari frammentari di bacini nello stesso tipo di pietra calcarea, di colore bianco, probabilmente proveniente dalle cave di Halontion o Apollonia. Tutti presentano le medesime caratteristiche, con superficie interna liscia e parte esterna relativamente grezza, circostanza che suggerisce una loro produzione da parte di un unico laboratorio artigiano. 118 La considerevole presenza di pesi da telaio di forma discoidale (oscilla), di diverse forme e in buona parte dei casi decorati, contrasta con il numero ridotto di pesi fittili della tradizionale forma tronco piramidale o parallelepipeda. E’ una considerazione che accomuna Kalè Akté ad alcuni centri limitrofi come Apollonia e Halontion, dove altrettanto rilevante è il numero di oscilla recuperati nel corso di scavi regolari o affioranti nel piano di campagna ai margini del centro abitato. La preferenza per questo tipo di peso nei telai locali non trova al momento una giustificazione univoca. Si può solo osservare che il peso degli oscilla è generalmente superiore a quello dei classici pesi troncopiramidali, per cui i fili da tessere (lana?) erano in maggiore tensione nei telai, e già di per se questa considerazione risponde forse ad esigenze di tipo funzionale. D’altra parte l’oscillum presenta una maggiore superficie su cui apporre decorazioni, dal semplice sigillo a raffigurazioni più complesse quali fiori stilizzati, stelle, volti umani, gorgoneia, corone d’ulivo o alloro, cerchi concentrici e così via, denotando un particolare gusto della comunità anche in semplici attività domestiche quale era la produzione di tessuti. I manufatti erano prodotti localmente, come si evince dalle caratteristiche dell’argilla impiegata, utilizzando matrici solo in parte comuni a quelle impiegate nelle città vicine (ad esempio il motivo a fiore stilizzato è ampiamente attestato ad Alontion, Apollonia e Halaesa)

193. Astragali di diverse dimensioni116. Prov.: Area A7

115

Nel terreno di riporto proveniente dallo scavo agricolo-edilizio in A6 erano presenti altre porzioni di vasche di loutheria, oltre a frammenti di arule fittili, circostanza che può suggerire la funzione degli ambienti intaccati dallo sbancamento, in buona parte di servizio a giudicare dai materiali asportati 116 Sono stati molto numerosi (oltre 100) gli astragali rinvenuti nella sola Area A. Queste particolari ossa animali, il cui utilizzo è attestato nell’antichità per scopi ludici o per attività divinatorie, si presentano in dimensioni variabili, da quelli lunghi solo 2-3 cm. ad alcuni esemplari che raggiungono anche gli 8-10 cm. Non sempre è possibile riferirli al loro utilizzo pratico, potendo benissimo costituire quanto resta di animali macellati o mori per motivi naturali dopo l’abbandono della città. Sicuramente di uso pratico sono alcuni esemplari di piccole dimensioni che presentano segno di lavorazione, usura delle superfici o fori nella parte centrale.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 200. Oscilla fittili. A sin.: disco con doppio foro di sospensione con fascia centrale decorata a ovoli. A dx: disco con singolo foro di sospensione con sigillo centrale raffigurante un kantharos. Argilla ricca di inclusi litici di vario tipo. Produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area A7

209. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce: all’interno di cerchio depresso, volto maschile di profilo verso destra. Argilla rosata con molti inclusi biancastri. Probabile produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area A7

201. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce a fiore stilizzato a sei petali tra i quali si trovano globetti. Argilla di colore rosa-arancio. Colorazione sulla faccia decorata in rosso. Probabile produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area A8 – Scarico

210. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce: cerchi concentrici. Corpo di notevole spessore. Singolo foro di sospensione. Argilla rosata con molti inclusi biancastri. Probabile produzione locale. I secolo a.C. – I secolo d.C. Prov.: Area A7

202. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce di difficile interpretazione: probabile tridente o forcone sormontato da una falce (?). Singolo foro di sospensione. Argilla rosa-arancio con inclusi biancastri. Probabile produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area A8 – Scarico

211. Testina fittile, probabilmente maschera teatrale con grandi occhi e bocca ghignante. Argilla rosa-beige. Tracce di ingobbio bianco. Età ellenistica. Prov.: Area A8

203. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce a volto umano reso in maniera sommaria. Doppio foro di sospensione. Argilla di colore arancio con molti inclusi biancastri. Produzione locale. Età tardoellenistica. Prov.: Area A8 – Scarico119

213. Applique configurata a forma di testa di Helios (?). Argilla di colore arancio. Età tardoellenistica. Prov.: Area A7

212. Applique configurata a forma di maschera teatrale. Argilla brunastra. Età tardoellenistica. Prov.: Area A7

214. Probabile ansa plastica di lucerna configurata a forma di testa umana grottesca. Internamente cava in corrispondenza del punto d’attacco, a sinistra. Argilla grigia (Campana C?). Età tardoellenistica. Prov.: Area A6 – Sbancamento agricolo 2008

204. Oscillum fittile frammentario. Decorazione su una delle facce: corona d’ulivo stilizzata che circoscrive un volto con tre prominenze (?). Doppio foro di sospensione. Argilla rosa-beige con minuscoli inclusi biancastri. Probabile produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area A8 – Scarico

215. Statuina in marmo di figura femminile. Si conserva la parte inferiore: posa sensuale accentuata dal panneggio aderente che copre le gambe, sostenuto sotto l’ombelico da una cintura con borchie circolari. Nella parte posteriore, un medaglione sulla cintura trattiene la veste, che ricade ripiegata verso i piedi. Ventre nudo in cui si intravede l’ombelico. Altezza conservata: 11 cm. (originaria circa 22-25 cm compresa la base). Probabile produzione orientale. Età tardoellenistica. Prov.: Area B2. Collezione privata

205. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce: rosetta centrale entro cerchio; esternamente, fascia circolare con tritoni e volatili (?). Doppio foro di sospensione. Argilla colore arancio con molti inclusi biancastri. Produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area A8 – Scarico 206. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce: fiore entro cerchio. Singolo foro di sospensione. Argilla colore arancio con molti inclusi di pietrisco rossastro e biancastro. Schiaritura esterna. Produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area C4. Collezione privata

216. Porzione di bracciale in bronzo. Profilo a nastro. Nella parte esterna, decorazione incisa di difficile interpretazione. Epoca incerta. Prov.: Area A7 217. Conchiglie (murices, bivalvi, ostrica)120. Prov.: Area A7

207. Oscillum fittile. Decorazione su una delle facce: cerchio a sei spicchi. Doppio foro di sospensione. Argilla colore arancio con molti inclusi biancastri. Produzione locale. Età ellenistica. Prov.: Area C4. Collezione privata

120

Ammontano ad alcune centinaia gli esemplari di conchiglie rinvenute sulla collina di Caronia, talvolta in condizioni frammentarie. La classe maggiormente rappresentata è costituita dai gusci di patelle, evidentemente utilizzate come cibo. Ai gusti raffinati di facoltosi cittadini erano destinate le ostriche, di cui si sono rinvenuti numerosi gusci. Probabilmente a scopo ludico, oltre che come alimento, vanno riferite le conchiglie di bivalvi (vongole, cardias e simili). Incerta è la funzione delle conchiglie di murices, presenti in misure di diverso tipo, anche di grandi dimensioni (sappiamo che il mollusco era utilizzato nell’antichità per produrre la porpora). Sicuramente oggetto ornamentale erano, infine, le conchiglie di pecten, che talvolta conservano l’originaria colorazione rosa, per le quali si può ipotizzare anche un uso pratico come contenitore per ombretti

208. Oscillum fittile. Corpo bombato. Stampiglio centrale con raffigurazione di kantharos. Doppio foro di sospensione. Argilla di colore arancio-bruno con minuscoli inclusi biancastri. Probabile produzione locale. IV-III secolo a.C. Prov.: Area C4. Collezione privata 119

Questo tipo di oscillum, la cui decorazione è prodotta con un’unica matrice, è stato rinvenuto in tre esemplari, di cui uno frammentario, nello scarico in A8

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Ricerche nell’area urbana I: la città collinare 218. Pietra molitrice. Una delle facce perfettamente piana, l’altra leggermente bombata. Prov.: Area A7

cuore). Argilla rosa-beige. I secolo d.C. Produzione regionale. Prov.: Area A7

219. Manufatto in bronzo a doppio occhiello (uno dei quali mancante). Tondello centrale e decorazione incisa a margine. Probabile maniglia di mobile. Ellenisticoromano. Prov.: Area A7

225. Tesserine in bronzo. Dimensioni medie: 1,5 x 1,5 cm. con 1-2 mm. di spessore. Età ellenistico-romana. Prov.: Area A2124 226. Fondo di piatto-patera in ceramica Campana A. Vernice interna ed esterna di colore marrone. Sul fondo interno, quattro sigilli con palmette stilizzate in posizione non simmetrica rispetto al centro. II secolo a.C. Prov.: Area A7

220. Becchi di lucerne di forma similare: estremità a incudine con spigoli più o meno pronunciati.121 Varianti della categoria Tiegellampen. I secolo a.C. Prov.: Area A7 221. Becco di lucerna: evoluzione della tipologia con estremità a incudine con spigoli molto pronunciati.122 I secolo a.C. – I secolo d.C. Prov.: Area A7

227. Manufatto in terracotta di forma tubolare, probabile sostegno di loutherion. Decorazione: cordone con intacchi (forse a simulare una fascia di astragali); sopra, dopo una fascia priva di decorazione, banda con foglioline e girali; sopra, medaglione circolare entro cui è raffigurata una forma raggiata. Argilla beige-arancio con inclusi biancastri. Probabile produzione locale. II-I secolo a.C. Prov.: Area A7

222. Fondo di vaso a pareti sottili con sabbiatura (coppetta-bicchiere?). Piede piano. Superficie esterna rosa-bruno con riflessi iridescenti. I secolo d.C. Prov.: Area A2 223. Meridiana solare in pietra calcarea bianca. Profilo con profondo angolo rientrante al di sotto dell’emiciclo, inserito in un prolungamento della faccia verso l’esterno; al suo interno sono incise 11 linee orarie verticali e 3 linee diurne per i solstizi; il quadrante orarie è sottolineato esternamente da una fascia a rilievo, al di sotto della quale, in posizione centrale, è ricavato un simbolo cuoriforme; in alto si conserva l’attacco bronzeo dello gnomone; parte posteriore liscia e verticale. Misure: altezza 23 cm; larghezza 26 cm; spessore 9,5 cm; diametro dell’emiciclo 20 cm. II-I secolo a.C. Prov.: Area A9123

228. Frammenti di cornici in stucco: decorazione a dentelli e modanature. II-I secolo a.C. Prov.: Area A10

224. Lucerna a volute. Profilo troncocilindrico rastremato verso il piede piano. Sul disco, decorazione a conchiglia con piccolo foro di alimentazione in posizione leggermente decentrata; esternamente, fascia circolare tratteggiata. Sul piede, doppia fascia circolare nella quale sono iscritte alcune lettere greche (non interpretate). Mancante dell’ansa, probabilmente plastica (foglia o

231. Vetri. Riferibili a diversi tipi di contenitori (bicchieri, calici, ampolline, ecc.). Colorazioni diverse (giallo, verde, azzurro, blu, ecc.). Pasta vitrea comprendente all’interno piccole bolle d’aria, superfici frequentemente ruvide. Età tardoellenistica e altoimperiale. Prov.: Area A7

229. Frammento di intonaco decorato: fiori stilizzati resi con puntinature bianche, entro riquadri separati da linee di colore rosa su sfondo rosso. Intonaco steso su un impasto di calce e sabbia. III-II secolo a.C. Prov.: Area A9125 230. Anse plastiche a forma di foglia e di cuore di lucerne di produzione siciliana (Proclos Agyrios). Seconda metà I – prima metà II secolo d.C. Prov.: Area A7

232. Lucerna della fabbrica di Proclos Agyrios.126 Profilo troncocilindrico rastremato verso il piede piano. Disco depresso con decorazione a fiore stilizzato entro cerchio con lineette incise. Becco che si sviluppa tra due piccole volute. Sul piede, entro cerchio, bollo inciso: ΑΓ[Y]. Seconda metà I - prima metà II secolo d.C. Prov.: Area A7

121 Per confronti, vedi Carettoni 1959 p. 312 fig. 19, dove la lucerna con becco a incudine è datata ad età cesariana-augustea 122 Il tipo, databile presumibilmente tra I secolo a.C. e I secolo d.C., è attestato in diversi esemplari, tutti caratterizzati da argilla di colore beige-arancio depurata e dalla presenza di lunghe escrescenze ai lati dell’incudine. Non è possibile risalire all’intera forma della lucerna, che forse presenta un profilo simile alle Tiegellampen. Non si esclude, per le caratteristiche dell’argilla, una produzione locale 123 L’interessante manufatto, uno dei pochi esemplari di orologi solari finora rinvenuti in Sicilia, era stato riutilizzato, assieme a materiale di reimpiego (tra cui diversi mattonacci), in un muretto agricolo. Si presenta in buone condizioni, mancando solo dello gnomone (di cui si conserva l’attacco) e delle estremità dell’emiciclo. Il materiale utilizzato è il calcare bianco, assai simile a diversi manufatti (soprattutto macinimortai) presenti sulla collina, probabilmente estratto dalle cave delle vicine città di Apollonia o Halontion. Le dimensioni contenute non consentono di stabilire se il contesto dì origine fosse il cortile di una casa, quello di un edificio pubblico o piuttosto una piazza, che comunque dovevano trovarsi immediatamente a monte (area della Chiesa Madre)

124

Le tesserine, quasi tutte quadrangolari, prive di segni sulle superfici, sono affiorate insieme dalla parete scavata all’interno dell’ambiente meridionale della Casa A2. Se ne ignora la funzione 125 Nel terreno di una discarica moderna erano presenti molti frammenti di intonaco con decorazioni sovradipinte su fondo bianco-rosso, di cui quello in catalogo costituisce un esempio. Vedi supra per l’Area A9 126 Questo tipo di lucerna è discretamente attestato sulla collina da diversi frammenti, che fissano l’ultima fase di occupazione in forma urbana del sito. Cfr. Wilson 1998 pp. 535-536 e Bonanno 2009 pp. 5657

149

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 233. Frammento di lucerna a disco con decorazione residua: capriolo o cane. Argilla beige; vernice rossa. I secolo d.C. Prov.: Area B2

solo accennato. Funzione incerta: impugnature di strumenti in metallo (pugnale) o parti di strumento musicale. Epoca ellenistico-romana. Prov.: Area A7

234. Porzione di coppetta in sigillata italica127. Forma Conspectus 23.2.2. 25-75 d.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2014 (dal livello di distruzione/abbandono di una casa di cui lo scavo ha messo in luce il piano di frequentazione a margine di un muro)

243. Raschiatoio in osso di forma rettangolare. Epoca ellenistico-romana. Prov.: Area A2

235. Parte inferiore di bicchiere in ceramica a pareti sottili con decorazione a la barbotine. I secolo a.C. - I secolo d.C. Prov.: Area A7

244. Manufatti in pietra calcarea chiara: due pestelli conservati nella parte inferiore (la parte superiore era probabilmente curva su un lato, “a dito”) e un oggetto parallelepipedo scanalato su una faccia con sporgenza angolare, forse destinata ad essere inserita in un supporto con incavo. Epoca ellenistico-romana. Prov.: Aree A3-A7

236. Ansa e parte del corpo di lucerna a volute. Ansa plastica cuoriforme con due spicchi incisi. Produzione regionale. I secolo d.C. Prov.: Area A7

245. Porzione di coppa carenata in sigillata africana A.130 Forma Lamboglia 1a/Hayes 8a. 90-150 d.C. Prov.: Area B1

237. Anse di lucerne a disco. I secolo d.C. Prov.: Area A7

246. Bordo di bottiglia (?) a imbuto. Vernice rossa interna ed esterna evanida. Argilla beige pallido. I secolo a.C. (?). Prov.: Area B5 (via Mazzini)

238. Bordi di brocche a collo cilindrico con orlo estroflesso e verticale, esternamente scanalato128. Argilla di colore variabile dal giallino all’arancio. I secolo a.C. – I secolo d.C. Prov.: Area A7-C3

247. Frammento di placchetta in avorio probabilmente applicata originariamente su una teca. Parte posteriore liscia con solcature trasversali. Nella parte anteriore si conserva, realizzata in rilievo, parte del volto di un Sileno, di cui si riconoscono il grosso naso, la bocca carnosa e la folta barba fluente. I secolo a.C. – I secolo d.C. Prov.: Area A7 – Scavo agricolo 2009

239. Porzione di brocca in corrispondenza del bordo e dell’ansa. Orlo estroflesso e verticale, esternamente scanalato. Breve collo e corpo affusolato. Ansa a nastro esternamente scanalata. Argilla beige-arancio, porosa. I secolo a.C. – I secolo d.C. Prov.: Area C3

248. Porzione (bordo e ansa) di olla. Bordo pendulo; ansa “a orecchio” sovrapplicata appena sotto il bordo131. Ceramica di colore rosa-arancio piuttosto grezza con numerosi inclusi sabbiosi. Probabile produzione locale. Fine I secolo a.C. – Prima metà I secolo d.C.. Prov.: Area A7

240. Borchie in bronzo e ferro. L’esemplare a destra serviva probabilmente a trattenere un elemento (statua o altro) legato ad un supporto in pietra. Età ellenisticoromana. Prov.: Area A7 241. Frammenti di bacini/piatti in red Pompeian ware.129 Argilla bruna esterna. All’interno, vernice rossa coprente e semilucente. I secolo a.C. - I secolo d.C. Prov.: Area A

249. Porzioni di tegami con anse a nastro. Profilo della vasca convesso, bordo arrotondato132. Verniciatura interna rossastra quasi interamente assorbita. Argilla di colore brunastro con inclusi micacei. Seconda metà I secolo a.C. – Prima metà I secolo d.C. Prov.: Area A7

242. Strumenti in osso. Entrambi con superficie regolarizzata e taglio netto alle estremità, internamente svuotati. L’esemplare a destra presenta due fori, più uno

250. Porzione di bacino/tegame. Bordo concavo bombato esternamente. Scanalature nella parte mediana del corpo.

127

I ritrovamenti di sigillata italica nell’abitato collinare sono trattati a seguire in: F. Collura, S. Cascella, Sigillata italica dalla collina di Caronia 128 Il tipo è ampiamente diffuso sulla collina di Caronia, presente nell’intera area urbana antica, e sembra coprire un lungo arco di tempo, forse a partire dal II secolo a.C. Sebbene non si sia rinvenuto nessun esemplare integro o comunque in condizioni tali da risalire alla forma originaria del vaso, si ritiene che si tratti di una variante delle brocche di produzione locale a corpo panciuto, presenti in contesti di II-I secolo a.C. Diversi esemplari presentano una verniciatura esterna opaca di colore brunastro o rossiccio. In alcuni casi, le caratteristiche dell’argilla suggeriscono una produzione locale. 129 Sono stati rinvenuti numerosi frammenti di questa classe ceramica, la cui funzione è legate alla cucina. Si tratta di piatti o bacini a fondo piano e bordo leggermente concavo, con verniciatura interna di colore rossobrunastro liscia e semilucente. Talvolta è presente un cerchio inciso sul fondo interno. I centri di produzione di questo vasellame, di cui si conoscono alcune varianti, esportato in larga misura in tutte le province dell’Impero, sono stati localizzati lungo la costa tirrenica della penisola italiana (Etruria, area di Roma e baia di Napoli)

130

I rinvenimenti di sigillata africana A sono stati relativamente numerosi, soprattutto sul versante orientale della collina (aree A-B). La maggior parte si riferisce alle varianti delle forme Lamboglia 1-2/Hayes 8-9, inquadrabili tra gli ultimi due decenni del I e la seconda metà del II secolo a.C. La loro presenza, che contrasta con la rarità di frammenti riferibili alle altre produzioni A, nonché alle classi più tarde di sigillate africane, costituisce un dato significativo al fine di determinare la fase di abbandono della città collinare, che probabilmente si protrasse per alcuni decenni tra gli ultimi del I e i primi del II secolo d.C. 131 Per il tipo, vedi Bacci, Tigano 2002, vol. I p. 209 nn. 132-133 132 Per il tipo, cfr. gli esemplari da Messina, riportati in Bacci, Tigano 2002, vol. I p. 209 nn. 138-139. Nella stessa opera (vol. II pag. 207) si ipotizza una produzione nell’area dello Stretto. In ogni caso, sebbene prodotti sul modello della red Pompeian ware, i tegami si differenziano soprattutto per la diversa qualità della vernice rossa interna, nel nostro caso di colore tendente all’arancio e quasi interamente assorbita dal corpo ceramico del manufatto

150

Ricerche nell’area urbana I: la città collinare B. Materiali da scavo 1992 in c.da Telegrafo134

Argilla beige-arancio molto compatta con minuscoli inclusi brunastri. Per il profilo del corpo, escluso il bordo, simile a Atlante Tav. CVII n. 7 (Ostia III fig. 267). Media età imperiale. Prov.: Area A7

T1. Base di colonna in pietra calcarea bianca. Fusto che si amplia in spessore verso l’alto. Sporadico dal pendio sottostante l’area di scavo (propr. Di Fede)

251. Frammento di piatto in sigillata africana D.133 Sul fondo interno, decorazione a stampo entro cerchio (figure reticolate). IV-V secolo d.C. Prov.: Area A7

T2. Frammenti di ceramiche a vernice nera e a figure rosse. Fine IV – II secolo a.C. Dal Saggio 1 (S1) T3. Frammenti di ceramiche a vernice nera e di lekythos con decorazione a reticolo e puntini bianchi sovradipinti. Seconda metà IV secolo a.C. Da S1

252. Frammento di lucerna in sigillata africana D. Decorazione centrale non interpretabile. Nella fascia semicircolare esterna, figure geometriche (triangolo, cerchio, cuore). Simile per forma a Atlante X A1b. Fine IV-V secolo a.C. Prov.: Area A7

T4. Ceramiche di diverse categorie (a vernice nera, sigillata orientale A e sigillata italica). Dalla fine del IV secolo a.C. al I secolo d.C. Da S1.

253. Frammento di piatto-coperchio a superficie scanalata in sigillata africana. Argilla beige-arancio con numerosi minuscoli inclusi. III-IV secolo d.C. Prov.: Area A7

T5. Ceramiche a vernice nera. IV-III secolo a.C. Da S1 T6. Oscillum in terracotta. Su un lato del disco, raffigurazione di gorgoneion entro cerchio. L’iconografia è molto simile a esemplari multipli dalla vicina Halontion

254. Porzione di coppetta/patera in vetro giallo-verdino. Bordo verticale leggermente estroflesso. Patine iridescenti sulla superficie. Numerose piccole bolle nel corpo vetroso. Età imperiale. Prov.: Area A7

134

Si presentano in questa sede alcuni materiali provenienti dallo scavo eseguito nel 1992 in c.da Telegrafo (cfr. Bonanno 1993-1994). Al report dello scavo non è seguita purtroppo un’edizione dei materiali rinvenuti nei saggi. Questi sono stati in gran parte depositati presso un locale all’interno di Palazzo Cangemi e lì rimasti per quasi vent’anni in condizioni non ottimali per la conservazione, a causa delle forti infiltrazioni di umidità, che hanno provocato il deterioramento delle cassette, originariamente impilate ed oggi in gran parte distrutte e scivolate sul pavimento. Con il permesso dell’Amministrazione comunale è stato possibile visionare i materiali, fortunatamente assegnabili ai vari contesti di scavo grazie all’etichettatura su ogni esemplare (S1 – S2 per Saggio 1 e Saggio 2; tg 1-2-3 per ogni taglio, ecc.). In questa sede, per dovere di divulgazione degli esiti dello scavo, in assenza di iniziative in tal senso, vengono proposti alcuni materiali a titolo esemplificativo delle diverse fasi di occupazione dell’area. Si rileva la forte concentrazione dei frammenti in corrispondenza del I secolo a.C. – primi due terzi del I secolo d.C., momento quest’ultimo a cui corrisponde l’abbandono delle strutture con livelli di frequentazione sigillati dai crolli. I materiali recuperati, molto frammentari, comprendono una varietà di reperti di ogni tipo, dalle porzioni di intonaco (bianco e rosso) agli stucchi, alle anfore, agli strumenti in metallo, ai vetri, ai pesi discoidali (oscilla), alle diverse categorie di ceramiche, da quelle di uso comune (da cucina, da dispensa, da mensa, lucerne) a quelle, relativamente poche, per la cura del corpo e la toletta femminile (unguentari, lekanai, ecc.). Il materiale visionato non comprende gli esemplari monetali, evidentemente depositati altrove, né la coroplastica. Alla nota 19 di Bonanno 1993-1994 è solo riportato un quadro sintetico dei materiali incontrati nei livelli più profondi del Saggio 2: “…ceramica a vernice nera, tra cui prevale la forma 36 della classificazione Lamboglia della ceramica “Campana A”, databile tra il II e il I secolo a.C. e numerosi frammenti di terra sigillata aretina tra cui le forme 12 e 27 Goudineau, databili rispettivamente al 15-12 a.C. e al 10-9 a.C.; inoltre sono frequenti le anfore Dressel 1. Si segnala infine la presenza, alla profondità di m. 1,60 dal p.s. di una moneta che potrebbe essere attribuita per il peso, per il rendimento calligrafico della corona e dei tratti somatici e soprattutto delle pieghe del collo, alla serie di Sesto Pompeo: D/Testa di Giano imberbe. R/ROMA Prua a d.”. Sia i materiali di cui alla citata nota, sia quelli che è stato possibile visionare presso Palazzo Cangemi, datano la fase principale di frequentazione delle strutture tra la seconda metà del II secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C. Per cronologia assoluta, le ceramiche non sembrano datarsi oltre il secondo terzo del I secolo d.C. e sono molto rari i frammenti appartenenti ai secoli successivi, da considerarsi sporadici. Da questo punto di vista, i materiali dallo scavo 1992 in c.da Telegrafo confermano la datazione dell’abbandono dell’abitato collinare già suggerita dai riscontri quantitativi delle ricognizioni di superficie, collocabile nel corso della seconda metà del I secolo d.C.

255. Frammento di lucerna africana. Decorazione sulla spalla a foglia di palma stilizzata. Simile a Atlante tipo VIII A1. IV-V secolo d.C. Prov.: Area A7 256. Frammenti di contenitori fittili decorati esternamente con motivi incisi a crudo (linee ondulate o a zig-zag). Argilla arancio-brunastra relativamente grezza. Età bizantina. Prov.: Area A7 257. Frammenti di contenitori fittili di produzione locale con impronte di stuoia sulla parte esterna. Nella superficie, maglia di piccoli incavi. Argilla arancio-bruna di consistenza relativamente grezza, contenente minuscoli inclusi biancastri. Età altomedievale (?). Prov.: Aree A2A7 258. Patera in ottone. Corpo emisferico leggermente schiacciato alla base. Decorazione interna incisa: figura centrale di difficile interpretazione all’interno di una fascia circolare con serie di figure geometriche alternate (tre trattini verticali, angoli contrapposti, figura con globetto centrale e quattro globetti collegati). Probabile età medievale. Prov.: Area A8 259. Anellino in bronzo. Profilo a stretto nastro che si allarga in corrispondenza del castone in pietra verde. Motivo inciso nella placchetta su cui poggia il castone. Età medievale. Prov.: Area A7

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Sono pochissimi i frammenti di sigillata africana D finora rinvenuti in collina. Tra questi, alcuni presentano sul fondo interno decorazioni a stampo a figure geometriche (rettangoli a reticolo, cerchi concentrici, ecc.)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia (San Marco d’Alunzio), recuperati in contesto domestico (scavi in Vico II Farinata). III-II secolo a.C.

circolare (DOMITI con figura di Nike centrale). Argilla rosa-arancio, porosa con minuscoli inclusi biancastri. Vernice evanida di colore rosso-arancio. I secolo d.C. Da S2

T7. Parte inferiore di unguentarium. Corpo globulare, piede con base troncoconica indistinta dallo stelo. Seconda metà III – prima metà II secolo a.C. Dal Saggio 2 (S2)

T19. Coppetta in sigillata italica di probabile produzione siciliana. Priva di bollo. Piede ad anello, corpo concavo. Argilla rosa-arancio porosa con minuscoli inclusi biancastri. Vernice evanida di colore rosso-arancio di consistenza cerosa. I secolo d.C. Da S2

T8. Arnesi in bronzo: frammenti di vasetto, anello e altri oggetti non definibili. Da S2 T9. Grosso chiodo in ferro. Da S2 T10. Strumenti in bronzo: quadrangolare appuntite. Da S1

T20. Frammenti di sigillata italica. Fine I secolo a.C. – I secolo d.C. Da S2 asticciole

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sezione T21. Bordo e parte di parete di coppetta in sigillata italica di probabile produzione siciliana. Argilla rosa arancio, vernice di colore rosso vivo di consistenza cerosa. Forma simile a Conspectus 17.3.1. Età augustea. Da S2

T11. Strumenti in bronzo: asticciole a sezione circolare, probabilmente usate per cucire (quella in basso presenta un foro per il passaggio del filo). Da S1

T22. Bordo di piattello in sigillata italica. Piccola decorazione a globetto puntinato sotto l’orlo. Simile a Conspectus 23.2.2. 25-75 d.C. Da S2

T12. Lucerna. Corpo globulare schiacciato superiormente, ansa a nastro, piede piano leggermente depresso internamente e svasato. Becco mancante probabilmente a incudine. Argilla beige chiaro, tracce di vernice nera all’interno. Età tardoellenistica. Da S2

T23. Ansa di anfora Dressel 2-4. Sezione bifida e profilo angolare. Argilla rosa scuro con piccoli inclusi biancastri, scialbatura esterna beige. I secolo d.C.138

T13. Lucerna con becco a incudine ad estremità allungate135. Corpo globulare superiormente schiacciato. Piede piano depresso internamente (a coppella) e svasato. Argilla giallo-verdina, colorazione esterna bruna. Età tardoellenistica. Da S2

T24. Frammento di fregio in stucco con decorazione a palmette stilizzate. Tardo ellenismo. Da S1 T25. Frammento di fregio in stucco con decorazione a fila di ovoli e dischetti. Tardo ellenismo. Da S1

T14. Becchi di lucerne a incudine. Argilla brunorossiccia. Colorazione esterna grigiastra. Età tardoellenistica. Da S2

T26. Frammenti di anfora domestica a pasta chiara. I secolo a.C. – I secolo d.C. Da S1

T15. Fondo di bacino in pietra calcarea rosa136. Piede piano distinto dalle pareti della vasca. Da S2

T27. Conchiglia di ostrica. Da S1 T28. Astragalo. Evidenti tracce di lavorazione. Da S1

T16. Mattone con fila di fori circolari su uno dei lati lunghi. Ellenistico-romano. T17. Bordo di patera in ceramica Campana C. Profilo concavo. Argilla di colore grigio. Vernice evanida di colore bruno. I secolo a.C. Da S2

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I materiali dallo scavo comprendono numerosi frammenti di ceramiche assegnabili alla classe delle sigillate italiche. Tra queste, un cospicuo gruppo comprende esemplari con caratteristiche peculiari, sia per ciò che riguarda l’argilla e la vernice, che le distingue dalle sigillate prodotte nel centro Italia, sia per la presenza di due bolli (uno dei quali incerto) di forma circolare con dicitura DOMITI intorno a figura di Nike alata, che assegniamo ipoteticamente ad un atelier attivo in Sicilia, non esistendo finora riscontri nella penisola (vedi appresso: F. Collura, S. Cascella, Sigillata italica dalla collina di Caronia) 138 Si è ipotizzata una produzione locale di anfore Dressel 2-4 (cfr. Lindhagen 2006). In effetti, la larghissima diffusione di queste anfore vinarie in tutta l’area mediterranea, con fabrics di diverso tipo e leggere varianti nella stessa forma del contenitore, rendono plausibile l’ipotesi che esistessero officine di vasai che le producevano quantomeno nei principali centri. L’esemplare in questione non è con sicurezza assegnabile ad una fabbrica locale per via delle caratteristiche dell’argilla, ma potrebbe essere riferito ad un altro centro di produzione esistente sulla costa tirrenica della Sicilia. I numerosi altri esemplari di Dressel 2-4 rinvenuti sulla collina, peraltro, presentano caratteristiche differenti a livello macroscopico (argilla), a riprova di un più che discreto movimento commerciale in entrata

T18. Piattino in sigillata italica di probabile produzione siciliana.137 Doppio cerchio interno inciso con bollo 135

Questo tipo di lucerna, riferibile al gruppo con becco a incudine ma caratterizzate da estremità molto allungate (a “testa di lumaca”) è ampiamente attestato sulla collina di Caronia, dove in alcuni casi, per via delle caratteristiche dell’argilla, abbiamo assegnato ipoteticamente a fabbriche locali (cfr. n. 221 del catalogo). Nel contesto di scavo in esame, tuttavia, le caratteristiche macroscopiche appaiono diverse (colore beige, beige-giallino) e sembrerebbero ricondurre a produzioni dell’area interna, forse tra Morgantina e Agira (?). Si tratta, in ogni caso, di una variante delle lucerne con becco a incudine non a conoscenza da altri contesti da parte di chi scrive 136 La forma è del tutto assimilabile a esemplari in pietra calcarea bianca provenienti da diversi settori della collina, tra cui quello al n. 196 di questo catalogo

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A. Materiali da ricognizione e da recupero in contesti non sottoposti a scavo sistematico (immagini non in scala)

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Tavola 1 – Frammenti di ceramiche decorate a figure rosse, sovradipinte e graffite (metà IV – III secolo a.C.) e profili di piedi di shyphoi a vernice nera (fine V – primi decenni III secolo a.C.). Aree A e C

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Tavola 2 – Materiali dallo scarico nell’area A8 (III- inizi I secolo a.C.): 1. coppa concavo-convessa (produzione “dello Stretto”); 2. coppa skyphoide con anse orizzontali; 3. coppa carenata con anse verticali; 4. coppetta con bordo introflesso di produzione locale; 56. coppe con decorazione sovradipinta; 7. brocca di produzione locale; 8. ciotola a profilo concavo; 9. coppetta; 10. vaso a vernice nera e argilla chiara; 11. lucerna su alto piede; 12. coppa in Campana C; 13.patera a vernice nera e argilla chiara con decorazione interna graffita-sovradipinta e tondello centrale a rilievo (Nike); 14-15. ceramiche da cucina e piatti in Campana A

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Tavola 3. Materiali dallo scarico nell’area A8: piedi, bordi e anse di coppe skyphoidi concavo-convesse con prese verticali e con prese orizzontali. Se le prime sono da riferire quasi sicuramente alle cosiddette Produzioni “dello stretto”, le seconde, similari nella forma panciuta ma con anse orizzontali e piede a tromba generalmente modanato, potrebbero essere produzioni di questo settore centro-settentrionale della Sicilia (esemplari molto comuni a Caronia ma presenti anche nei siti limitrofi di Halaesa e Apollonia – San Fratello)

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Tavola 4. Oscilla fittili. In alto, i tipi attestati (A e B sembrano essere i più antichi, prevalentemente privi di decorazione tranne alcuni esemplari con sigillo). In basso alcuni dei motivi decorativi attestati (il primo in alto proviene da Rodi, come si deduce sia dal sigillo supplementare con rosa che dalla similarità dell’argilla con quella delle note anfore rodie)

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CAP. 4. RICERCHE NELL’AREA URBANA II:

LA CITTÀ COSTIERA

RESEARCH IN URBAN AREA II: THE MARITIME TOWN Archaeological research at today’s Marina di Caronia started earlier than at the hilly site, because of the supposition that the city of Calacte cited by the ancient sources had to be sought just along the coast, interpreting the Greek name kαλὴ ὰκτή in the literal sense of "beautiful coast". As early as the 1500s, the erudite Thomas Fazellus reported large ruins near the church of SS. Madonna Annunziata, a few meters from the sea. In recent times (early XX century), information about findings is contained in a manuscript of a local history loving priest, L. Volpe, but it was only in the 1970s and 1980s that systematic research started and excavations were carried out. In the 2000s, excavations have brought to light a large block of buildings in use between the Hellenistic period and the Late Antiquity in Contrada Pantano. A large building with a central courtyard and external porticus has been interpreted as a warehouse ("horreum") and another as a "thermopolium", i.e. a room similar to a modern tavern, whose business probably was closely linked to the nearby port. Nearby is a Roman cistern reused in the Byzantine period as burial crypt. Remains of walls and surface materials have been observed across a wide area in the plain that extends westward the modern city. The oldest materials so far known date the first occupation of the coastal area already at the end of the seventh century BC, suggesting that since the archaic period there was a colonial settlement probably created as an intermediate step in the sea route between the Greek colonies of Zancle and Himera. The maritime town, in fact, had its main reason for existence because of having a good sea port and being on the path of the coastal road; however, date back from the Hellenistic period the ancient structures discovered in “contrada Pantano” (excavations 1999-2005). The main phase of growth is recorded during the imperial age, concurrently with the abandonment of the hill town. Probably dates back to Imperial age the creation of an inner harbour in the area now swampy of the so-called “Pantano”, northwest of the modern town, which significantly increased the commercial activities of Calacte and secured it a long life, at least until the Byzantine age. In fact, the name Calacte that recurs in the Roman and Byzantine geographic maps refers just to the maritime settlement. Research conducted at the site are difficult because of the superposition of the modern town on the ancient one and because of significant manipulation of land for agricultural purposes. Several evidences indicate that in the Imperial age the city reached a large size, extending from the course of the stream S. Anna westward, covering a large part of the today’s "Proprietà Di Noto" in the western plain. The Greek and Roman cemetery was located towards the east and south. The city probably had a regular layout, set on a main road which coincided with the urban section of the "Via Valeria" (the coastal road) from which developed parallel north-south streets. The agora-forum was probably located in the area of today’s “Piazza Nunziatella”, from which come some architectural elements. An important infrastructure of the city was the harbour: research made by the author has allowed to reconstruct roughly its location and its structural characteristics, despite the fact that over the centuries there have been many changes in the morphology of the coast. Underwater surveys have identified the remains of a rocky submerged platform, once part of the mainland, that extended the headland towards the sea, bordering a large bay to the east, behind which the ancient city developed. The particular type of beach, consisting of large pebbles, however, caused the dismantling of the port facilities because of the wave motion. In the Imperial age was created an inner basin, joined to the sea by a channel now disappeared, which was used to receive a larger number of ships and to carry out their maintenance. After the abandonment of the city in the Byzantine age, the inner basin suffered a process of silting and became a swamp until the beginning of the last century, when the pond was drained and covered with pebbles. This fact makes impossible today to carry out investigations without performing complex excavation work. Port activity is however evidenced by frequent finds of amphorae and other materials in the seafloor off the coast. Dopo gli accenni contenuti nel manoscritto del Canonico Volpe dei primi del ‘900, 1 l’interesse nei

Il sito in cui oggi sorge l’abitato di Marina di Caronia è noto da molti secoli per le presenze archeologiche. Già nel ‘500 Tommaso Fazello ne faceva cenno (…ubi fragmenta ac veteres ruinae pro maxima parte obrutae ad aedem Annunciatae circa Caroniae littora adhuc iacent, atque in subiectis agris et vineis, ad p. fere 2 m. ubicumque effoditur, passim occurrunt). D’altra parte, per gli eruditi dei secoli passati, il luogo doveva essere di un certo interesse, essendo i resti della città antica a lungo visibili in un’area quasi priva di abitazioni. Fino a tutto l’800, infatti, qui esisteva solo un borgo di pescatori raccolto intorno alla medievale chiesetta dell’Annunziata, che la tradizione vuole eretta, per volontà della regina Costanza scampata ad un naufragio in questo tratto di mare, nel XII secolo.

1 Il Volpe, nel manoscritto del 1907, oggi conservato dalla famiglia Monterosso di Caronia, fa cenno ad alcuni interessanti ritrovamenti avvenuti negli anni precedenti nell’area di Marina di Caronia. Riferisce come nel 1840, “vicino al torrente ov’è eretta la chiesetta dedicata a SS.ma Madonna Annunziata, pochi metri dalla spiaggia calattese, fu trovato un cippo sepolcrale di marmo bianco, alto quasi un metro e centimetri 50 di larghezza” che fu consegnato al Salinas ed è oggi esposto nell’omonimo Museo di Palermo. Nel corso degli scavi fatti per la strada Messina-Palermo, a 20 metri dalla spiaggia e della chiesa riferisce del rinvenimento di sepolture con casse in mattoni rivestiti di calce, probabilmente di età imperiale avanzata; nella stessa zona venne in luce un pavimento a mosaico, forse decorato (la coincidenza nella stessa area tra il pavimento, relativo verosimilmente ad una casa d’abitazione, e le tombe, suggerisce l’impianto di una necropoli tardoantica in un settore precedentemente abitato e poi abbandonato)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia confronti del sito è stato riproposto dallo studioso P. Fiore, che in una serie di articoli sulla rivista Sicilia Archeologica diede notizia di alcuni ritrovamenti e contribuì all’identificazione di Caronia (Marina) con l’antica Calacte. Tuttavia Fiore partiva da basi in parte errate, interpretando alla lettera il toponimo greco (“bella costa”) e insistendo sulla localizzazione della città classica esclusivamente sulla costa. Inoltre riferisce di resti antichi senza darne l’esatta ubicazione, per cui risulta oggi impossibile identificare strutture e materiali che molto probabilmente sono stati inglobati nella cittadina moderna nel corso dell’ultimo trentennio.2 L’attenzione verso le antichità di Marina di Caronia risale quindi già al XVI secolo, quando il luogo era ancora quasi disabitato, insistendovi solo la piccola chiesa e qualche casa di pescatori: la visione che si ricava dalle parole del Fazello è quella di campagne coltivate cosparse di resti murari antichi e materiali in vista, che tuttavia egli scambiò erroneamente per le rovine di Halaesa. Le prime notizie più circostanziate di rinvenimenti di antichità risalgono ai primi anni del ‘900 e sono contenute in un manoscritto del citato parroco locale Volpe e nell’opera di Nicotra,3 che per certi versi attinge alle notizie fornite dallo stesso Volpe. Quest’ultimo riferisce, tra l’altro, che “nell’anno 1840, vicino al torrente ov’è eretta la chiesetta dedicata a SS.ma Maria Annunziata, pochi metri dalla spiaggia calattese, fu trovato un cippo sepolcrale in marmo bianco, alto quasi un metro e centimetri 50 di larghezza, in forma di lapide e coperchio sepolcrale (…); ai due lati del cippo si trovano scolpite un vaso a destra ed a sinistra una patera, o piatto…”. L’iscrizione venne letta dal Volpe come “QUINTUS CECILIUS CALACTENSIS ATENEO ROMANO PULCRITER VIXIT”, ma oggi appare quasi del tutto illeggibile tranne che nella prima riga dedicatoria “Quintus (Caecilius)”. Volpe riporta poi la notizia del ritrovamento, in occasione degli scavi fatti per la strada Messina-Palermo “a 20 metri dalla spiaggia e della suaccennata chiesetta”, di tombe contenenti corredi (“lucernette”, “vasi di terracotta” e monete illeggibili); nella stessa occasione fu portato in luce “un pavimento di una piccola camera ornato con mosaico, stile greco-romano” (opus signinum?). Nicotra riprende le notizie del Volpe e ne aggiunge altre interessanti su ritrovamenti avutisi sia nell’abitato costiero che sulla collina di Caronia.

Definisce l’area dei ritrovamenti “lungo il tratto di terreno che percorre dalla chiesa dell’Annunziata, dalla chiusa di Aragona, dal fondo S. Anna, presso a S. Todaro”. Riporta le prime notizie di ritrovamenti sul pianoro di S. Todaro. a quei tempi coltivato a uliveto, dove “i contadini hanno trovato dei grossi mattoni e qualche vaso antico di terra cotta”. Nell’area compresa tra “l’antica Calacta”, che identificava sulla costa, e Caronia, riferisce che coltivando le campagna si sono trovati “massicci mattoni, corsi di acqua, cisterne, ruderi di case, vasetti ed anfore di vetro e di creta, lumicini di stagno, quadretti rotondi di creta con croce in mezzo, dei marmi con faccioni di bello aspetto e fine lavoro, delle nicchie mortuarie contenenti ossa, monete di bronzo, di rame, d’argento e d’oro”. Incerto è il sito, lungo la costa o sulla collina, del ritrovamento di “sarcofagi contornati di lamine di piombo, con coperchi di marmo, istoriati da segni e figure incise, e con ossa, rottami ed anfore e monete di diverse dimensioni, e di metalli diversi, in stagno, piombo, rame, bronzo, argento ed oro”.

Fig. 1. Altare funerario dedicato ad un Quinto (Cecilio), rinvenuto nel 1840 nei pressi della chiesa della SS Annunziata (foto gentilmente fornita da F. Spatafora, Museo Archeologico Regionale A. Salinas di Palermo)

2

In Fiore 1971, lo studioso locale riferisce di alcuni ritrovamenti avvenuti tra XIX e XX secolo, in parte tratti dal manoscritto del can. Volpe. In particolare cita: “avanzi di un’antica necropoli scoperti verso il 1891, quando e dove fu costruita la stazione ferroviaria di Caronia”; “un mausoleo venuto fuori, in seguito ad una frana, nella contrada S. Anna, dedicato ad un Quinto Pulcro che visse diciotto anni (che) dovrebbe trovarsi nel Museo di Palermo”; “un magnifico capitello di marmo bianco, di stile corinzio” rinvenuto “in contrada Pantano, nell’escavazione di un pozzo”; “durante gli stessi scavi … tombe in mattoni ed una moneta di bronzo”; negli scavi fatti verso il 1870 per la strada nazionale Palermo-Messina (oggi via Brin), a venti metri dalla spiaggia e dalla chiesetta della SS Annunziata… si sono trovati sarcofaghi, sepolture, lucernette e piccole monete corrose dal tempo, oltre al pavimento di una piccola camera ornato con mosaico di stile greco-romano”; “il cippo di Quinto Cecilio calactinense, trovato nell’anno 1840 vicino al torrente presso cui è eretta la chiesetta dedicata alla SS Annunziata”. 3 Nicotra 1907, pp. 222, 224-225

A partire dagli anni ’70 lo studioso locale Fiore pubblica alcuni articoli dove individua definitivamente il sito di Calacte con l’odierna Marina di Caronia.4 Riporta l’unica notizia in nostro possesso circa la messa in luce, a 4

Se il lavoro di ricerca e raccolta di notizie svolto dal Fiore è importante in quanto pone per la prima volta, attraverso contributi più o meno scientifici l’attenzione sulle emergenze archeologiche del territorio di Caronia, rimane tuttavia l’importante lacuna costituita dal totale disinteresse nei confronti delle antichità affioranti sulla collina di Caronia, dove i ritrovamenti vengono liquidati dallo studioso come “materiale di riporto”

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera seguito di una frana nella contrada S. Anna, di un “mausoleo” dedicato a un Quinto Pulcro che visse diciotto anni”; 5 riferisce del ritrovamento in contrada Pantano (propr. Naselli o Di Noto?), in occasione dello scavo di un pozzo, di “un magnifico capitello di marmo bianco, di stile corinzio”, usato a lungo come sedile davanti alla vicina casa rurale, nonché, negli stessi scavi, di tombe in mattoni e di una moneta di epoca romana.6 A partire dal 1965 si sono svolte le importanti ricerche di Scibona, che invece ampliò l’area di studio anche alla collina di Caronia, i cui esiti confluirono in una sintesi contenuta nel BTCGI, 7 sebbene molte delle sue scoperte siano purtroppo rimaste inedite. Scibona riferisce della presenza di una ricca area di cocciame che copriva una vasta superficie ad ovest dell’abitato di Marina (propr. Naselli e Di Noto) con presenze anche di frammenti a vernice nera “almeno di IV sec. a.C.”, cura l’esplorazione di un piccolo lembo di necropoli tardo imperiale in corrispondenza dell’incrocio tra la nuova SS 113 e la SP 1688 e due saggi di scavo, uno nel margine sud-est della propr. Di Noto, dove già a poche decine di centimetri dal piano di campagna affiorarono strutture di età romana, e l’altro nel cortile della Scuola Materna, anche qui con strutture di età romana e due condutture idriche che suppone legate alla vicina cisterna (sotto l’odierno fabbricato di propr. Barna). Per primo infine riferisce dell’individuazione di una fornace per la fabbricazione di anfore vinarie tardoantiche in contrada Chiappe, a est dell’odierno abitato.9 Di incerta provenienza rimane un rilievo in marmo di Vestali di epoca romana (prima metà I secolo d.C.) conservato da molto tempo presso il Museo A. Salinas di Palermo. Lo splendido manufatto fu acquistato nel 1844 dalla Commissione di Antichità e Belle Arti dopo essere appartenuto al Principe di Raffadali e raffigura l'offerta delle Vestali che, con il capo velato, presenziano ad un rito sacro celebrato da un personaggio maschile togato (sacerdote o imperatore nelle funzioni di “Pontifex Maximus”).10 La provenienza del rilievo marmoreo è incerta, potendo provenire, in base alle annotazioni dell’epoca, da Marina di Caronia o dal territorio di Raffadali nell’agrigentino. Tuttavia, quest’ultima provenienza è ipotizzata, in verità, solo sulla base del suo originario proprietario, appunto il Principe di Raffadali, il cui nome potrebbe avere indotto in errore chi registrò in entrata il pezzo, uno dei numerosi che affluivano al Museo da tutta la Sicilia, compresa Caronia. Se effettivamente provenisse da Calacte, sarebbe un’eccezionale pezzo che, sebbene qualificato come espressione di un’arte “provinciale”, trattandosi di uno dei più significativi esempi al momento noti di questo tipo di rappresentazione, contribuirebbe a connotare la nostra città da un punto di vista artistico e culturale.

Fig. 2. Rilievo in marmo di Vestali nell’atto di celebrare un rituale sacro al cospetto di una figura maschile togato, di incerta provenienza da Marina di Caronia o dal territorio di Raffadali. Museo Archeologico A. Salinas di Palermo

Una serie di interventi di scavo ha interessato l’area marittima negli anni ’80 del secolo scorso, dettati dall’esigenza di indagare contesti antichi venuti in luce a seguito di lavori pubblici. Saggi hanno interessato l’area della Villetta Comunale 11 presso piazza Nunziatella, quella del cortile della Scuola Materna12 e il settore sudorientale della propr. Di Noto13. In tutti i casi lo scavo è stato piuttosto superficiale ed ha portato quindi al rinvenimento quasi esclusivamente di strutture di età imperiale, sebbene il terreno contenesse anche materiali di epoca greca. Tuttavia, la ricognizione eseguita da G. Scibona subito ad ovest dell’abitato moderno (proprietà di Noto) ha rivelato presenze archeologiche per un vasto settore che, tenuto conto delle segnalazioni precedenti (Volpe) e delle scoperte successive, indicavano l’esistenza di un esteso insediamento in vita da epoca arcaica ad epoca bizantina, il cui limite verso occidente non può al momento stabilirsi: contesti archeologici, infatti, affiorano dal terreno praticamente sino alla foce del fiume Caronia, distante circa 1,5 km dal quartiere della Nunziatella, e suggeriscono che l’intera piana era interessata in maniera discontinua da forme di occupazione di vario tipo, sia abitativo che produttivo. Verso est, invece, il limite appare riconoscibile nel corso del torrente S. Anna o al più presso la foce del torrente Nivale o Cinquegrana, oltre il quale si estendeva una necropoli frequentata ininterrottamente per diversi secoli, la cui estensione non è definibile a est (fino all’area della Villa Maria Giovanna?), mentre a sud sembra seguire il percorso della moderna SS 113.

5

Fiore 1971, p. 56 Fiore 1971, 58 7 Scibona 1987 8 Scibona 2011 9 Scibona 1987, pp. 11-12 10 Il rilievo in marmo bianco mostra, da sinistra a destra, Vesta seduta in trono, quattro Vestali di profilo verso destra, ai piedi delle quali sono un piccolo altare e due cippi sormontati da un ariete e un toro, e infine la figura, mutila, di Augusto quale pontefice massimo 6

11 Scavi 1982 e 1996. Notizie preliminari in Bonanno 1997-1998, pp. 428-429 12 Scavo 1983. Notizie preliminari in Bonanno 1993-1994, nota 29 13 Scibona 1987

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Da sempre si è preferito tradurre questo termine con la parola “costa, lido, spiaggia”, molto probabilmente perché si è voluta sottolineare l’esistenza della città antica esclusivamente come città marittima, prescindendo inoltre dalla peculiare conformazione della costa. In realtà, “akté” in questo caso indica un particolare luogo con caratteristiche fisiche ben precise e si dovrebbe svolgere più opportunamente in “promontorio sul mare” o ancora “tratto di costa” dalle caratteristiche ben riconoscibili, quale potrebbe essere appunto una sporgenza di terra ben visibile da chi vi proveniva via mare. In antico, il promontorio pianeggiante formato dai millenari detriti alluvionali del fiume Caronia contro le presenze rocciose ancora ben osservabili sul fondale, doveva essere più pronunciato e descrivere una baia molto più protetta di quanto appaia oggi. L’indagine subacquea nel fondale antistante l’area del “campo sportivo” (Punta Lena), 15 preceduta dall’esame della fotografia aerea, ha evidenziato la presenza di una serie di scogli di forma allungata, che si sviluppano fino ad una distanza di circa 230 metri dalla riva, con profondità che non superano i 3-4 metri. Un graduale fenomeno di erosione, tutt’ora in corso e molto evidente di anno in anno su tutto il litorale compreso tra l’area in questione e la contrada Chiappe ad est, ha sottratto terreno al promontorio, rendendolo meno evidente di quanto apparisse in passato. Su tutto il tratto di costa compreso tra Cefalù (antica Kephaloidion) e Capo d’Orlando (antica Agathyrnon) era questo l’unico approdo naturale per i naviganti greci ed uno dei pochi, in realtà, sull’intera costa settentrionale della Sicilia. La scelta di un sito con simili caratteristiche rispondeva bene alle esigenze di chi vi doveva creare un insediamento che, stando ai ritrovamenti archeologici, si daterebbe già dalla fine del VII secolo a.C. .

Figg. 3-4. Vedute aeree del promontorio di Caronia Marina rispettivamente da est e da nord (foto D. Piscitello)

Le recenti ricerche archeologiche degli anni 2000 nell’abitato costiero dell’antica Kalé Akté-Calacte14 hanno offerto nuovi spunti di studio non solo per il sito di cui parliamo, ma anche per le dinamiche dei rapporti in epoca arcaica e protoclassica tra le colonie greche e questo settore dell’isola, dove in gran parte si ignorano ancora i dettagli della presenza ellenica. Il rinvenimento di ceramiche greche di VI e prima metà del V secolo a.C. antepone l’occupazione dell’area alla fondazione di Ducezio riportata dalle fonti per la metà del V secolo. Per comprendere di che tipo di occupazione si trattasse, dovremmo immaginare come si presentava questo tratto di costa in antico. Sicuramente il termine καλὴ ἀκτή non dovette essere stato scelto a caso, né la morfologia dei luoghi come si presentano oggi può giustificare pienamente un simile termine. La parola “akté” può essere intesa in vari modi, riferiti tutti al rapporto fisico tra terra e mare.

14 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002; Lindhagen 2006; Bonanno 2008 per gli scavi ufficiali. Collura a seguire per i rinvenimenti da ricognizione

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Vedi a seguire in questo capitolo: “Il porto di Calacte”

Carta topografica dell’area di Marina di Caronia con indicazione delle località menzionate nel testo (CTR Sicilia 1:10000)

Ricerche nell’area urbana II: la città costiera

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Allo stato attuale, solo materiali mobili attestano un’occupazione dell’area antistante la baia quantomeno nel VI e V secolo a.C. e solo indagini in profondità, nei livelli sottostanti le strutture ellenistiche e romane che si trovano a poche decine di centimetri di profondità dal piano di campagna su una vasta area, potranno chiarire di che tipo di insediamento si trattasse, quale ne fossero la struttura urbana e le dimensioni.16 I materiali asportati per lavori edilizi contenuti in una discarica recentemente esaminata fuori dal moderno abitato, di cui si parlerà a seguire, comprendenti non solo materiali d’uso quotidiano, ma anche moltissime porzioni di tegole e pietre da costruzione, rivelano che i resti di un abitato di almeno V secolo a.C. giacciono ancora sotto i livelli di occupazione di età ellenistica e romana tra il quartiere della Nunziatella e la contrada Pantano. Le ricognizioni eseguite ai fini della presente ricerca nell’area dell’abitato antico non sono state sistematiche come in collina per una serie di ragioni. Oltre all’impossibilità di rilevare alcunché nell’area urbanizzata, alcuni fondi sono risultati inaccessibili, mentre la vasta proprietà Di Noto che si estende per diversi ettari a partire da contrada Pantano verso ovest risulta indagabile con risultati significativi solo parzialmente, essendo stata interessata nei decenni passati da una serie di interventi che hanno comportato la bonifica delle aree prossime alla palude, con riversamento di un notevole strato di terreno allogeno che copre in maniera compatta buona parte del fondo, coltivato ad ulivi e agrumeti ed oggi in stato di semiabbandono. Solo in alcuni tratti risulta visibile il piano di campagna originario, in particolare a est e sudest, al confine con la proprietà Naselli e la ex SS 113. Qui è stato possibile osservare molta ceramica in dispersione, soprattutto di epoca romana, nonché, in alcuni casi, strutture murarie affioranti. Anche l’indagine nell’area del porto antico, identificabile con la depressione costiera bonificata nei primi decenni del ‘900, è risultata molto difficoltosa, poiché gli interventi di risanamento hanno stravolto l’ambiente originario con opere di drenaggio verso mare e impietramento delle superfici originarie. Nonostante le difficoltà, tuttavia, si sono ottenuti risultati significativi ai fini di un inquadramento delle modalità insediative in questo settore della città antica, che conobbe una fase di grande sviluppo soprattutto nel corso dell’età imperiale e sopravvisse anche nella prima età bizantina, per essere definitivamente abbandonata in epoca araba. Ricordiamo che l’abitato di Marina di Caronia ha registrato una notevole espansione solo nell’ultimo cinquantennio. Fino agli anni ’50-60 del secolo scorso, l’area urbanizzata era di modeste dimensioni, comprendendo sostanzialmente un gruppo di case intorno alla chiesa dell’Annunziata e vari edifici sparsi lungo la strada litoranea (ex SS 113, oggi via Brin). Per il resto, si trattava di campagne coltivate ad uliveto e vigneti. Erano

le condizioni ideali per eseguire indagini archeologiche, che avrebbero rivelato importanti aspetti della città grecoromana, che solo in maniera molto limitata e discontinua ha ricevuto l’attenzione degli studiosi a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Le nuove case, tra i quartieri della Nunziatelle e del Pantano, sono state costruite su terreni di notevole interesse archeologico, quasi sempre senza indagini preventive, e risulta oggi difficoltoso fare un quadro dettagliato delle modalità insediative e dell’excursus cronologico dell’insediamento, che ebbe una lunghissima vita. Di grande aiuto alla redazione del presente studio, soprattutto per ciò che riguarda il settore oggi urbanizzato, sono alcune informazioni recuperate sul posto da coloro che rammentano i tanti lavori di scavo per la realizzazione di strade ed edifici abitativi tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso che, immancabilmente, portavano in luce contesti antichi. Nei casi più fortunati, è stato recuperato qualcosa di ciò che veniva in luce, principalmente frammenti ceramici e monete, solo una parte dei quali è stato possibile esaminare, utile indizio comunque di persistenze con relative cronologie, peraltro confermate dagli scavi archeologici più recenti, finalmente eseguiti in maniera scientifica e sistematica. Di grande importanza sono i dati desumibili dagli scavi eseguiti tra il 1999 e il 2005 in contrada Pantano, che hanno portato in luce un lembo di abitato in un’area che appare frequentata dalla fine del VII secolo a.C. e fino ad epoca altomedievale. Si rimanda alle pubblicazioni17 degli autori degli scavi per un resoconto dettagliato dei ritrovamenti. In questa sede, tuttavia, dobbiamo necessariamente farne una sintetica descrizione, poiché i dati raccolti sono tanti e tali da fornire importanti spunti di studio e consentire di cogliere le dinamiche insediative dell’intero sito lungo un arco cronologico estremamente ampio. L’area interessata dai saggi si trova all’interno della propr. Barna, subito ad ovest della ex Discoteca “Sombrero” (propr. Scrimizzi-Fava) e a nord della Scuola Materna; ad ovest, poco distante, si trova il cosiddetto “Pantano”, una depressione un tempo occupata da uno specchio d’acqua stagnante che rendeva poco salubri i terreni circostanti e che è stata prosciugata, come detto, nei primi decenni del ‘900. Il terreno di quest’area non ancora urbanizzata presentava in superficie chiare evidenze archeologiche per la presenza diffusa di cocciame di ogni tipo e di laterizi. Una prima sezione di scavo fu aperta nel 1999 da K. Goransson e A. Lindhagen, sotto la direzione di M.C. Lentini. In quell’occasione furono portate in luce strutture murarie riferibili ad almeno tre edifici: uno (Building 1), suddiviso in diversi ambienti, nella parte orientale, definito da un portico prospettante su uno spazio aperto, interpretato come horreum; un secondo (Building 2), centrale e separato dal primo, riconoscibile come thermopolium; un terzo, infine, mal conservato, nella parte nord-ovest. L’horreum fu datato nella seconda metà del III secolo a.C. per il rinvenimento di una moneta mamertina nei livelli di fondazione.

16 I saggi in profondità eseguiti in contrada Pantano sia in occasione degli scavi 1999-2001 Lindhagen-Goransson, sia in quelli più estesi del 2003-2005 Bonanno non hanno portato al rinvenimento di strutture assegnabili ad epoca arcaica o classica, ma solo di frammenti ceramici di quella fase, non riferibili con esattezza ad un determinato livello di frequentazione

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Lentini, Goransson, Lindhagen 2002; Bonanno 2008

Ricerche nell’area urbana II: la città costiera Qualche anno dopo, lo scavo fu esteso con un nuovo progetto finanziato nell’ambito del POR 20002006. Fu portato quasi interamente in luce l’edificio con portico (Edificio A) ed il thermopolium (Edificio B); altri ambienti furono scavati ad ovest e a nord di quest’ultimo, caratterizzati da fasi di vita successive e con disposizione diversa rispetto agli edifici A-B, che invece risultano perfettamente allineati in senso nord-sud e separati da un ambitus percorso da una canaletta idrica. L’edificio A si

compone di numerosi ambienti disposti attorno ad un cortile scoperto pavimentato in cocciopesto; i materiali rinvenuti all’interno dei vari ambienti suggeriscono che vi si svolgessero attività commerciali, ma anche che alcuni avessero funzione prettamente abitativa. I due edifici principali appaiono come parte di due complessi facenti parte di un’insula, verosimilmente inserita in un apparato urbano regolare, scandito presumibilmente da strade nord-sud.

Fig. 5. Planimetria delle strutture ellenistico-romane portate in luce tra il 1999 e il 2005 in contrada Pantano (rielaborazione da Bonanno-Sudano 2007 e Bonanno 2008)

Figg. 6-7. Scavo 1999 in contrada Pantano (scavo Goransson-Lindhagen). In alto, “Building 1” visto da est. In primo piano, l’ambiente tardoantico che si sovrappone in posizione trasversale alle strutture dell’edificio ellenistico-romano, quasi interamente scomparso alla ripresa degli scavi nel 2003 a seguito di lavori agricoli distruttivi. In basso, crollo di tegole di seconda metà del IV secolo d.C. lasciato in situ all’interno di “Building 1”

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 8. Aerofotogrammetria dell’area di scavo in c.da Pantano: l’Edificio A visto da nord (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera

Figg. 9-11. Vedute aerofotogrammetriche dell’area di scavo in c.da Pantano. In alto, veduta d’insieme da nord degli Edifici A e B separati da un ambitus con canaletta idrica che termina nei pressi di un pozzo. In basso, crollo non ancora rimosso di mattonacci e tegole all’interno dell’ambiente β dell’Edificio A: da notare la direzione di smottamento della parete esterna e di un alzato di mattoni all’interno dell’ambiente verso est (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

L’approvvigionamento idrico era assicurato non solo da due pozzi, rinvenuti uno all’interno dell’Edificio A e l’altro nel cortile antistante, ma anche da una cisterna, tutt’ora esistente in perfette condizioni al di sotto del caseggiato di propr. Barna, che riceveva l’acqua da sorgenti poste a monte canalizzate probabilmente attraverso le condutture scavate nel cortile della Scuola Materna e le smistava all’abitato attraverso altre canalizzazioni, di cui si sono rintracciati i resti nello

scavo. Non sono stati identificati tratti di strade, che verosimilmente andrebbero cercate subito ad est e a ovest del settore scavato. Un saggio spinto in profondità nelle indagini del 1999 all’interno dell’Edificio A portò al rinvenimento di ceramiche di V-IV secolo a.C., tra cui un frammento di probabile coppa tardo corinzia e uno di anfora di tipo Corinzio A, che furono datati all’inizio del V secolo a.C. Una lucerna con bollo CIVNDRAC, assegnabile alla

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia seconda metà del I secolo d.C. e rinvenuta immediatamente sotto il crollo del tetto, consentì di datare la distruzione dell’edificio nei primi decenni successivi al 50 d.C. Occorre dire che lo scavo del 19992001 fu condotto su contesti integri: tra questo e quello successivo del 2003-2005, pesanti lavori di “aratura” con mezzi meccanici hanno provocato non solo il

danneggiamento delle strutture ancora interrate, ma anche il rimescolamento del terreno fino ai livelli più profondi. E’ risultato quindi impossibile, in molti casi, assegnare precise cronologie ai vari piani di frequentazione degli edifici, mentre accadeva spesso di incontrare nella stessa fetta di terreno materiali tra loro distanti diversi secoli.

Figg. 12-17. Scavi in contrada Pantano. In alto: vedute da sud dell’area di scavo in corso di indagine (2005): si eseguono saggi di approfondimento in alcuni punti (ad esempio all’interno dell’ambitus) e in ultimo si rimuove lo strato di crollo di età imperiale avanzata nell’ambiente β dell’Edificio A. Al centro: area dell’Edificio A apprestata con copertura parziale dei resti per la fruizione pubblica (non ancora avvenuta). Ambienti settentrionali dell’insula (in primo piano, ambienti ζ, ι e ν). In basso: Edificio A, apertura verso l’ambitus dell’ambiente γ con stipiti realizzati in mattoni di grande formato e condotta idrica in laterizi all’interno dell’ambiente ν

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera L’interpretazione del settore di abitato portato in luce nei recenti scavi in contrada Pantano comporta una preliminare ricostruzione delle condizioni morfologiche dell’area in antico e il riconoscimento di un bacino portuale nell’area del cosiddetto Pantano. E’ in corso da molti decenni un marcato fenomeno di arretramento della linea di costa, per cui è verosimile che il lembo di abitato indagato si trovasse a maggiore distanza dal mare ma prossimo all’area portuale. Dovevano sicuramente esistere moli protesi in mare ed un canale che collegava questo con il bacino interno, la cui estensione e le cui attrezzature non possono essere appurati dall’esame superficiale per i numerosi interventi di bonifica e messa a coltura che ne hanno sconvolto i margini.18 L’esistenza di un thermopolium, ovvero di un edificio commerciale che potremmo interpretare come una moderna taverna, nonché di magazzini e luoghi per la rivendita di merci, sono da considerare in stretto rapporto con le attività portuali, che comportavano il continuo trasporto e transito di merci e di persone. La presenza di un’area aperta, parzialmente lastricata, davanti agli edifici portati in luce dagli scavi, va vista anch’essa in questa prospettiva. Saggi in profondità hanno rivelato che le strutture murarie di III secolo a.C. si sovrappongono, talvolta ripercorrendone le fondamenta, a strutture di epoca precedente, che il livello a cui sono state rinvenute e la tecnica di costruzione, in solo pietrame, ha indotto a datare quantomeno al IV secolo a.C.,19 sebbene si attenda ancora l’esame dei materiali ceramici associati per confermarne la cronologia. In ogni caso è apparsa evidente la frequentazione dell’area in una fase molto precedente: il rinvenimento, sebbene fuori contesto, di una porzione di statuina in stile dedalico pone un terminus post quem alla fine del VII secolo a.C., mentre materiali ceramici rinvenuti sia nei saggi in profondità che nel terreno rimescolato si daterebbero dal VI al IV secolo a.C. La presenza di uno strato continuo di piccoli ciottoli tra le strutture principali ellenistico-romane e quelle individuate nei livelli sottostanti è stata interpretata dagli archeologi come esito di una violenta mareggiata, che distrusse il caseggiato di fase precedente. Tuttavia, se si tiene conto che a quell’epoca il luogo si trovava presumibilmente ad una maggiore distanza dalla costa rispetto ad oggi e che in un sito dotato di porto dovevano esistere banchine ed altre strutture a protezione dell’abitato, occorrerebbe pensare non ad una semplice, seppur violenta, mareggiata, ma ad un vero e proprio tsunami ricollegabile ad un violento terremoto avvenuto forse nel IV secolo a.C.20

Così come appaiono, gli Edifici A e B sembrano fare parte di un unico complesso edilizio, separato in due settori di probabile uguale larghezza dall’ambitus percorso dalla canaletta idrica, ma solo dopo il II secolo d.C. Prima di allora, infatti, è certa l’esistenza solo dell’Edificio A. Sebbene non esistano al momento indizi certi sull’esatta organizzazione di questa insula, se ne può ipotizzare una larghezza complessiva di circa 35 metri (il fronte settentrionale dell’Edificio A misura 17 metri), mentre non se ne può determinare in alcun modo la lunghezza: gli scavi si sono interrotti verso sud in corrispondenza di un probabile salto di livello del terreno, con la messa in luce di un secondo complesso edilizio unito al primo ma ad esso non collegato. Ai lati dell’insula di età imperiale andranno forse cercate due strade nord-sud: quella orientale dovrebbe corrispondere allo spazio aperto ad est dell’Edificio A, solo in parte visibile, sul quale si trovano tre aperture (ambienti Η, Θ e Ι). Si deve comunque tenere conto della particolare struttura della parte occidentale dell’isolato (e della sua evoluzione cronologica), che comprende l’Edificio B e gli ambienti Μ e Λ di età bizantina ma non presenta un fronte settentrionale ben definito, arrestandosi davanti allo spazio aperto occupato a più riprese da strutture che non sono mai allineate a quelle principali. Lo spazio davanti all’Edificio A in direzione mare, inoltre, è libero da costruzioni, se si esclude un muro trasversale di epoca tarda, e sembra quindi non essere stato occupato in epoca ellenistica e altoimperiale. Si ha l’impressione, pertanto, che quella scavata fosse un’area solo parzialmente occupata da edifici in epoca ellenistica e nel primo impero, che registrò un incremento edilizio solo tra II e IV secolo, forse in concomitanza con una maggiore attività del vicino porto. Le diverse fasi a cui si riferiscono le strutture portate in luce si datano a partire almeno dal IV secolo a.C.: a questo periodo sembrano riferirsi lembi di muri in ciottoli rintracciati all’interno dell’Edificio A, l’ambiente Ρ nel cortile antistante e strutture solo parzialmente indagate nel c.d. “Saggio 4” quasi al confine con la proprietà Naselli ad ovest. La costruzione dell’Edificio A è stata datata dagli archeologi del secondo scavo tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C.: in questa fase viene adottata una peculiare tecnica muraria, ampiamente attestata nell’abitato collinare, consistente nell’uso di pietre sbozzate nel faccia-vista alternate a filari di mattonacci rettangolari.21 Nella seconda metà del I secolo a.C. l’Edificio A subisce una distruzione violenta, contraddistinta anche dalla presenza di uno strato di bruciato ben isolato all’interno dell’ambiente O. Molto interessante è la concomitanza tra la distruzione e abbandono dell’edificio in contrada Pantano e quella di quasi tutte le strutture abitative finora portate in luce nell’abitato collinare: si è indotti a pensare ad un evento

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Vedi più avanti “Il porto di Calacte” Bonanno 2008, pp. 17-18 20 La cronologia di questo eventuale tsunami è collegata a quella delle strutture che lo strato di ciottoli sembra ricoprire. Si dubita in proposito che le strutture murarie individuate sotto il livelli dell’Edificio A appartengano ad una fase così alta, in assenza di dati sui materiali ad esse associate, poiché la tecnica muraria ivi accertata, in ciottoli regolarmente sbozzati, sembra sia stata adottata a Kalè Akté non anteriormente alla prima metà del III secolo a.C. 19

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La tecnica edilizia in questione, con pietre sbozzate alternate ad alzati di mattonacci, il cui uso si avvia a partire dal III secolo a.C., sembra in realtà posteriore ed assegnabile, in base a confronti con analoghe strutture scavate in collina, a non prima della seconda metà del III secolo a.C., epoca alla quale fu effettivamente datato l’edificio dai primi archeologi che scavarono nel 1999.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia traumatico, quale potrebbe essere stato un forte terremoto, di cui peraltro si ha conferma, in questa parte dell’isola, non solo nel racconto delle fonti storiche (Plinio per la città di Tyndaris), ma anche in recentissime indagini condotte ad esempio ad Abakainon (Tripi), dove sembra che le monumentali tombe della necropoli in c.da Cardusa siano crollate nello stesso periodo.22

B (thermopolium) e si ristruttura, modificandone talvolta l’organizzazione interna, l’Edificio A: alcuni ambienti vengono divisi internamente, si rialzano i piani calpestabili che in molti casi vengono pavimentati con mattoni rettangolari, quadrati e circolari e si realizza il porticato esterno, con una tettoia appoggiata a 5 colonne in laterizio. Questa terza fase di intensa frequentazione si interrompe nella seconda metà del IV secolo d.C. secondo i primi scavatori (in presumibile concomitanza con il terremoto del 365), mentre, in base alle nuove indagini del 2003-2005, si prolungherebbe fino al V secolo. Sporadiche rioccupazioni del sito tra V e VI secolo sono testimoniate dai muri di alcuni edifici, probabilmente monocellulari e disallineati rispetto alle più antiche strutture che dovevano essere in parte già interrate, pesantemente danneggiati purtroppo dai mezzi meccanici intervenuti sul terreno prima della ripresa degli scavi: si tratta di edifici che comunque appaiono costruiti con minore cura, riutilizzando materiali più antichi, dei quali non si sono potuti rintracciare i piani di frequentazione. L’ultima fase di vita si data in età bizantina (VIVII secolo), epoca alla quale appartengono due ambienti (Μ e Λ) costruiti ad ovest dell’Edificio II ormai in disuso e alla quale andrebbero riferite le sepolture all’interno della cisterna romana esistente sotto il fabbricato di proprietà Barna.23 Infine, sporadiche presenze umane nel sito ormai abbandonato sono testimoniate da due sepolture scoperte all’interno dell’ambiente I dell’Edificio A, attribuite dagli archeologi a genti di stirpe musulmana. L’area appare quindi frequentata per un lunghissimo arco di tempo, dalla fine del VII secolo a.C. al VI-VII secolo d.C., con un’occupazione sicuramente di tipo urbano almeno dal IV-III secolo a.C. alla seconda metà del IV secolo d.C. Se chiara è l’organizzazione di questo lembo di quartiere nella media e tarda età ellenistica e nel corso dell’età imperiale, resta da chiarire il tipo di occupazione in epoca arcaica, classica e altoellenistica, al momento indiziata solo da rinvenimenti di materiali mobili frammentari alcuni dei quali recuperati da limitati saggi in profondità e altri da terreno rimescolato e quindi da livelli non attendibili in senso assoluto. Da ricollegare al complesso portato in luce in proprietà Barna, distante solo 60 metri circa verso nord, sono le strutture rintracciate nel 1983 in occasione dei lavori per la realizzazione del cortile antistante la Scuola Materna, a cura della Soprintendenza di Siracusa, allora competente.24 In quell’occasione fu eseguito uno scavo su un’area ampia circa 150 mq, e furono portate in luce strutture murarie, a livello di fondazioni, consistenti in muri costruiti con grossi ciottoli di mare e mattoni, datati ad età imperiale. Furono inoltre portate in luce due condutture, orientate nord-sud e realizzate con mattoni e copertura in pietre, da collegare verosimilmente alla

Figg. 18-19. Saggi esplorativi in proprietà Fava-Scrimizzi, al confine est con la proprietà Barna in cui si sono svolti gli scavi 1999-2005. A poche decine di centimetri dal piano di campagna sono affiorati livelli archeologici e resti murari in buone condizioni. La disposizione di queste strutture è del tutto similari a quella della vicina area di scavo estensivo

Una ripresa abitativa si registra nella seconda metà del II secolo d.C., quando viene costruito l’Edificio 22

C. Bottari et alii, 2013. Gli archeologi che eseguirono i primi scavi nel 1999-2001, sulla base dell’inclinazione delle murature, accertarono l’evidenza di un possibile terremoto che aveva distrutto le strutture di prima età imperiale dell’Edificio A (Lentini, Goransson, Lindhagen 2002, p. 93). Tuttavia, le nuove ricerche del 2003-2005, mirate anche a verificare, con l’ausilio dell’Istituto di Sismologia dell’Università di Messina, se i crolli fossero stati provocati da movimenti tellurici, non ne hanno individuato le prove, riferendo i crolli stressi semplicemente all’abbandono dell’insediamento (Bonanno 2008, p. 81). Resta comunque molto dubbia la causa che avrebbe determinato l’abbandono dell’abitato di I secolo, sia in collina che sulla costa, se non riferendolo a eventi naturali. Oltretutto non sono stati riscontrati dagli specialisti chiamati ad esaminare le strutture neppure gli effetti del disastroso terremoto del 365 d.C., di cui invece si hanno prove concrete ad esempio a Tyndaris e nella villa romana di Patti.

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Bonanno 2008, pp. 73-77 Comunicazione dello scavo è stata a più riprese data da Scibona 1987, Bonanno 1993-1994 e Lentini, Goransson, Lindhagen 2002, senza tuttavia dettagli sulle strutture messe in luce e sui materiali rinvenuti 24

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera cisterna sottostante il fabbricato Barna, dalla quale dovevano partire altre condutture dirette verso le strutture recentemente scavate più a nord, probabilmente la stessa canaletta scoperta lungo l’ambitus tra gli Edifici A e B. Sembra che questa porzione di abitato fosse servita da un efficiente sistema di approvvigionamento o smaltimento delle acque che, attraverso una serie di condutture, poste anche sotto i pavimenti delle case, sfruttando la leggera pendenza del terreno, facevano defluire l’acqua in eccesso nella spiaggia antistante. Sempre negli anni ’80, quando fu eseguito il progetto di realizzazione della Villetta Comunale, 25 ad est della Chiesa dell’Annunziata, fu eseguito un saggio di scavo nella parte più prossima alla spiaggia, dove venne realizzata una piazzetta sopraelevata rispetto alla strada (via C. Colombo). Furono portate in luce diverse strutture murarie, poco profonde rispetto al piano di campagna originario, la prima fase delle quali risalirebbe ad epoca tardoellenistica e terminerebbe in epoca tardoimperiale con la costruzione di un probabile horreum. Non furono eseguiti saggi in profondità ed i materiali associati comprendevano soprattutto sigillate italiche e africane, oltre a ceramiche di produzione locale di III-IV secolo d.C. L’horreum presso la Villetta Comunale faceva probabilmente parte di una serie di strutture di servizio alle attività portuali disposte davanti alla spiaggia, che vennero realizzate in età imperiale su aree precedentemente adibite a necropoli.

Possiamo immaginare che una banchina, con murature frangiflutti, delimitasse davanti al mare una serie di edifici di cui è possibile presumere l’esistenza, in base a numerosi ritrovamenti occasionali, fino al corso del torrente Cinquegrana/Nivale, che sbocca in mare 250 metri ad est del torrente S. Anna. L’edificio scavato nel 1982, che presenta un allineamento non dissimile da quelli scavati recentemente in c.da Pantano, era posto sul margine destro del torrente S. Anna, qui attraversato probabilmente da un ponte. E’ importante ricostruire la morfologia dell’area per comprendere quale assetto doveva assumere la città in questo settore: il percorso del torrente, rimasto in vista fino agli anni ’80 del secolo scorso ed oggi interamente coperto da una strada, doveva essere superato da ponti sia in corrispondenza dell’attuale via Colombo, sia più a monte lungo l’attuale via Brin. Esso doveva costituire il naturale limite dell’abitato sul lato orientale almeno fino ad epoca altoellenistica; successivamente, nella parte più prossima al mare, dovettero essere costruiti lungo la costa edifici forse collegati alle attività portuali (magazzini e simili). Le ricerche nel quartiere Nunziatella, compreso intorno alla chiesetta della SS. Annunziata ad ovest del torrente S. Anna, sono rese difficili dalla sovrapposizione dell’abitato moderno, sviluppatosi soprattutto a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Assieme a testimonianze di ripetuti affioramenti di murature e strati di materiali archeologici in occasione della costruzione di case nella seconda metà del secolo scorso, si ha notizia 26 del rinvenimento di un muro ad angolo con resti di intonaco nelle pareti interne, ripercorso dalle strutture di una casa moderna, all’incrocio tra le vie Cicerone e Marco Polo, mentre gli scavi per il rifacimento della canonica annessa alla Chiesa portarono al rinvenimento occasionale e inedito di tombe, probabilmente di epoca tardoantica-bizantina. Quest’ultima notizia avvalora l’ipotesi che l’intera area in cui oggi insistono la chiesa e la piazza antistante, dove lavori per il rifacimento di condutture idriche portarono alla scoperta di altre quattro sepolture di probabile VI-VII secolo, 27 sia stata adibita ad area cimiteriale dopo l’abbandono come quartiere pubblico e residenziale.28 Di particolare interesse risulta l’organizzazione dell’abitato moderno in questo settore, scandito da strade nord-sud intercalate da vicoli est-ovest, quasi esattamente allineato rispetto alla disposizione delle strutture antiche finora portate in luce. E’ molto probabile che le prime case del quartiere Nunziatella, già esistenti nell’800 e raccolte attorno alla piccola Chiesa, abbiano rispettato preesistenze di epoca classica, forse ancora in parte affioranti sul piano di campagna,29 e che l’intero quartiere si sia sviluppato nei decenni successivi in maniera spontanea e regolare secondo lo stesso schema.

Figg. 20-22. Area della Villetta Comunale. In alto foto dei muri in pietrame probabilmente riferibili a magazzini e databili ad età imperiale avanzata. In basso planimetria delle strutture portate in luce (foto: Archivio Soprintendenza di Messina; planimetria rielaborata da Bonanno 1997-1998) 25

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Segnalazione S. Serio Bonanno 1997-1998 Vedi Cap. 5. Le necropoli di Kalè Akté - Calacte 29 Sia gli scavi sistematici che le ricognizioni di superficie hanno accertato che le rasature dei muri di epoca classica, in questo settore pressoché pianeggiante, si trovano spesso a pochi centimetri di profondità dal piano di campagna 27 28

Bonanno 1997-1998

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia anche diverse porzioni di mattoni crudi in disfacimento. I materiali estratti dal terreno attestano un’occupazione dell’area che si protrae sino all’età imperiale. In considerazione di analoghi rinvenimenti negli scavi di c.da Pantano si può quindi ipotizzare l’esistenza di un abitato greco di VI-V secolo a.C. in un’area di almeno 1,5 ettari. Il recupero dei materiali frammentari di cui si parla, seppure decontestualizzati (non si conosce neppure il sito esatto nell’area compresa tra la Nunziatella e il Pantano) risulta di estremo interesse per ricostruire la presenza greca non solo nel nostro sito, ma nell’intero tratto di costa tirrenica tra Mylai e Himera. Che si trattasse di un insediamento, che potremmo definire “coloniale” seppure non riconducibile ad una vera e propria polis, è suggerito dal tipo stesso di materiali, tutti di produzione greca e in buona parte d’importazione dalla madrepatria. L’abbondanza di frammenti di anfore commerciali, inquadrabili tra la metà del VI e la metà del IV secolo a.C., tra le quali si riconoscono Corinzie A, A’ e B, greco-occidentali arcaiche e classiche (“ioniomassaliote” o “pseudo-chiote” o MGS II) e numerose puniche, qualificherebbe l’abitato come una sorta di emporion la cui esistenza dovette essere legata all’esigenza di disporre di un approdo intermedio sulla rotta tirrenica fino a Himera. Non è peraltro da escludere che il sito fosse noto e in qualche modo frequentato all’epoca in cui Zancle fondava la sua subcolonia più occidentale a metà del VII secolo a.C. Figg. 23-24. Riutilizzi di materiali antichi nelle case esistenti in piazza Nunziatella: mattonacci utilizzati in una scaletta e grande blocco di calcare bianco impiegato come sedile

Nell’impossibilità di indagare un’area ormai totalmente urbanizzata, dati di un certo interesse sono stati acquisiti attraverso l’esame di alcuni materiali contenuti in una discarica di terreno asportato, tra gli anni ’70 e ’80, per la costruzione delle nuove case del quartiere (vie Marco Polo, Dandalo, dei Siculi).30 Si tratta di depositi di terreno presenti in aree di discarica nella contrada Pantano, alle spalle del Campo Sportivo. La presenza di strumenti in ossidiana suggerisce una frequentazione da epoca preistorica ma è soprattutto la presenza di ceramiche di VI secolo a.C. a gettare nuova luce sulle vicende insediative del sito, soprattutto in considerazione di analoghi rinvenimenti nel corso dei recenti scavi in contrada Pantano. Frammenti di ceramiche ioniche, corinzie e soprattutto attiche, nonché di produzione coloniale, databili in epoca tardoarcaica, attestano l’esistenza di un insediamento greco ben prima della data di fondazione di Kalé Akté. Si riferiscono ad un abitato di V o prima metà del IV secolo a.C. i numerosi resti di tegole piane a pasta chiara, identiche a quelle rinvenute presso la Stazione Ferroviaria e dello stesso tipo di altre presenti nel vicino sito di Monte Scurzi relativamente a contesti di V secolo a.C. A resti di abitazioni di probabile V-IV a.C. secolo si riferiscono 30 Per una prima presentazione dei materiali e la formulazione di ipotesi sulla prima frequentazione del sito, vedi più avanti: Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca lungo la costa tirrenica in età coloniale: fu Kalè Akté un Emporion?

Figg. 25-26. Materiali estratti dalla discarica in c.da Pantano: in alto, pietrame da costruzione e tegole piane a pasta chiara; in basso, frammenti di ceramiche

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera La complessa stratigrafia intaccata da quello scavo si riferisce comunque ad un lungo lasso di tempo, che va da epoca arcaica ad età imperiale avanzata. Tuttavia si segnala una maggiore concentrazione di materiali in corrispondenza del V-IV secolo a.C., mentre relativamente radi risultano i materiali tardoellenistici. Ad est del torrente S. Anna, di fianco alla Villetta Comunale (area discesa Erei - Farmacia), i lavori per la costruzione di locali adibiti a garages e magazzini sul ripido pendio che originariamente caratterizzava quest’area, urbanizzata a partire dagli anni ’70, evidenziarono stratificazioni di materiali ceramici di varie epoche, principalmente di età romana. Qui andrebbe cercata la necropoli più antica, di VI-V secolo a.C. che andò sviluppandosi progressivamente verso est e sud-est. Ancora più a oriente, a valle della ex SS 113 oggi via Brin, fino al tratto terminale del torrente Nivale, altri lavori edilizi sembrano avere portato all’affioramento di strutture murarie e livelli di occupazione compresi tra epoca ellenistica e imperiale.31 E’ accertata l’esistenza di un settore di necropoli di III-II secolo a.C. in corrispondenza dell’ex Rifornimento Agip, 32 probabile espansione verso est di un’area cimiteriale in uso fin dalla prima occupazione del sito. L’area di marcato pendio che si sviluppa ad est del torrente S. Anna dovette essere riservata all’inizio a scopi non abitativi, ovvero all’impianto di sepolture. E’ invece probabile che a partire da epoca tardoellenistica, con l’incremento delle attività portuali, qui siano stati costruiti edifici a servizio del porto, quali magazzini o luoghi di rivendita di merci. Un interessante ritrovamento, ai fini della delimitazione verso sud dell’area urbana, quantomeno in epoca greca classica, è stato fatto nell’area della Stazione Ferroviaria, ai bordi della strada che dalla SS 113 conduce appunto alla Stazione e quindi a Marina di Caronia. La zona era indiziata di presenze archeologiche fin dai primi anni ’90 quando, in una striscia di terreno compresa tra la SS 113 e la via d’accesso alla Stazione erano state notate tegole e radi frammenti di ceramiche, anche a vernice nera. L’azione delle piogge nel corso degli anni ha eroso fortemente il terreno, mettendo in evidenza un consistente strato di crollo di tegolame, per un’area di circa 10 x 3 metri da est ad ovest. Un fitto strato di solenes e coppi, assieme a ciottoloni e pietre informi, occupava uno spessore di quasi 1 metro su una larghezza di oltre 5 metri. I laterizi presentavano precise caratteristiche, come l’argilla beige molto chiara con numerosi minuscoli inclusi e la forma, assimilabile non solo ad analoghi materiali individuati in altri siti del messinese e databili dal V secolo a.C. alla prima metà del IV, ma anche alle tegole contenute nella discarica di cui si è detto prima. Le solenes hanno uno spessore, al centro, di meno di 1,5 cm e presentano, nella parte retrostante l’aletta laterale, il tipico incavo per l’assemblaggio in serie di elementi sul tetto. Ne sono state osservate diverse decine di pezzi nella sola faccia visibile del terreno indagato. Ad essi si associano numerosi pezzi di tegole curve dello stesso materiale beige, tranne alcuni frammenti in argilla color nocciola. 31 32

Comprese tra i laterizi erano presenti frammenti di ceramiche, tra cui si segnalano i fondi di uno skyphos a vernice nera a piede torico con banda verniciata nella parte inferiore interna del piede e di una coppa a vernice nera, databili entrambi, in base alla forma e alle caratteristiche dell’argilla e della vernice, nella seconda metà del V secolo a.C. Ad essi si aggiungono molti frammenti di anfore, tra cui alcuni esemplari di tipo “greco-occidentale” classico o “pseudo-chiota” a pasta chiara, databili nel corso del V – inizi del IV secolo a.C. I laterizi in crollo sembrano poggiare su un piano di terra compressa soprastante uno strato di terra mista a piccoli ciottoli. Pietre non lavorate, probabilmente pertinenti alle strutture murarie, si sono individuate ai margini dell’area di crollo del tegolame, ad est e a sud. Non è stato possibile individuare muri integri. I resti individuati sembrano appartenere ad una struttura abitativa, databile, in base ai materiali ritrovati, tra il V e i primi decenni del IV secolo a.C. La zona in esame si trova a circa 170 metri in linea d’aria dalla spiaggia, ai margini del torrente S. Anna, che sfocia a mare davanti alla Chiesa dell’Annunziata. Notizie non verificabili riportano del ritrovamento di ceramiche di età classica e di tombe nell’area circostante quella esaminata, avvenuti in occasione dei lavori per la costruzione della Statale 113, a sud, e della stessa Stazione Ferroviaria. Si ignora se in occasione della realizzazione dell’ampio piazzale antistante la Stazione e della strada di collegamento, tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, siano affiorati contesti archeologici riferibili a strutture abitative, mentre si ha notizia del rinvenimento di probabili sepolture tardo antiche. Il contesto in argomento, inquadrabile nel corso del V secolo a.C., costituisce al momento il più meridionale e uno dei più antichi tra quelli noti a Marina di Caronia. Esso suggerisce che in quella fase l’abitato si estendeva anche sulle basse pendici del sistema collinare di Caronia, in questo caso probabilmente lungo una via che sfruttando la breve vallata del torrente si inoltrava verso l’interno. Il rinvenimento, peraltro, appare in contraddizione con la totale mancanza di dati in occasione dei lavori per la realizzazione della variante alla SS 113, che corre pochi metri al di sopra del sito in argomento, quando non sembra siano affiorati significativi materiali antichi.33 Nell’area della Stazione Ferroviaria sono noti, fin dall’800, affioramenti di sepolture, prevalentemente entro cassa di laterizi con legante di calce, riferibili evidentemente ad età imperiale. 34 Successivi lavori di ampliamento delle strutture ferroviarie e di apertura di un piazzale negli anni ‘80 del secolo scorso hanno messo in luce livelli archeologici non meglio definibili, noti a chi scrive solo da informazioni locali (sepolture?),35 dei quali tuttavia non si ha alcuna notizia ufficiale.

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Una comunicazione personale di G. Scibona sottolineava l’assenza di livelli archeologici emersi durante la costruzione della nuova SS 113 a ovest dell’incrocio con la SP 168 34 Manoscritto can. Volpe del 1907 35 Segnalazione S. Serio

Segnalazione S. Serio, non verificabile Scibona 1987, p. 11

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 27-30. Area della Stazione Ferroviaria. Dall’alto in basso: strato di crollo di tegole affiorante in parete; esemplari di tegole piane a pasta chiara; bordo di anfora Corinzia B; bordo e ansa di anfora “greco-occidentale” classica o “pseudo-chiota”

1. Propr. Scrimizzi-Fava Il fondo venne in parte utilizzato negli anni ’70, nella porzione più prossima al mare, per la realizzazione della discoteca “Sombrero”, per la quale lo scavo fu comunque molto limitato. Non si dispone di notizie di eventuali ritrovamenti, ma è verosimile che lo scavo abbia intaccato strutture antiche, poiché l’area occupata dalla discoteca è confinante con quella dello scavo 20032005 in propr. Barna e con l’ampio edificio ellenisticoromano (Edificio A) là messo in luce. Il soprassuolo del fondo mostra abbondante presenza di materiale archeologico, principalmente frammenti di laterizi e di ceramiche acrome, soprattutto di età imperiale. A metà degli anni ‘2000, in concomitanza con gli scavi nella limitrofa propr. Barna, vennero eseguiti alcuni saggi di scavo, che misero i luce, a pochissima profondità, strutture murarie il cui orientamento è identico a quello delle strutture portate in luce nella vicina proprietà.

Si può presumere, pertanto, che l’abitato di epoca greca classica si fosse sviluppato parzialmente verso sud, ai margini del corso del torrente S. Anna, forse lungo il percorso di una strada che conduceva verso la collina di Caronia, senza tuttavia ulteriore sviluppo nel corso dell’età ellenistica e romana, quando invece l’area fu adibita a necropoli, da ricollegare a quella parzialmente esplorata poco a sud-est nell’area dell’incrocio tra SS 113 e SP 168.36 Un settore che potrà rivelare in futuro importanti testimonianze della città greco romana è quello che si estende subito ad ovest dell’odierno abitato, comprendente i fondi di proprietà Scrimizzi-Fava, Barna e famiglie Naselli, che coprono insieme una superficie di circa 2,5 ettari: l’area dovrebbe corrispondere alla parte centrale della città antica, dove andranno cercati i principali monumenti e l’agorà/foro. Si tratta di un settore ancora oggi rimasto quasi del tutto escluso dall’espansione urbana, sottoposto a vincolo archeologico e destinato ancora a parziale coltura agricola, sebbene in buona parte abbandonato alla vegetazione spontanea e a qualche isolato edifico rurale. Qui è stato possibile svolgere una proficua ricognizione, attingendo nel contempo all’acquisizione di interessanti notizie circa ritrovamenti avvenuti nei decenni passati.

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2. Propr. Barna Fino agli anni ’90 del secolo scorso il fondo era occupato solo da un modesto quanto antico casolare, collegato alla viabilità da strade campestri (ancora propr. eredi Carolina Aversa in Scibona 1987),37 al di sotto del quale era nota da tempo l’esistenza di una cisterna romana rettangolare perfettamente conservata. In seguito 37

Scibona 2011

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Scibona 1987, p. 11; Bonanno 1993-1994, p. 974, n. 29

Ricerche nell’area urbana II: la città costiera il fondo passò di proprietà e da allora diversi interventi sono stati operati, sia per l’ampliamento dell’edificio rurale, sia per la messa a coltura del terreno. Già in precedenza, immediatamente a sud venne realizzato l’edificio della Scuola Materna, relativamente al quale è noto solo il rinvenimento, nel 1983, di strutture murarie di età imperiale e condotte idriche nell’area del cortile.38 La ricognizione nel fondo antecedentemente l’avvio degli scavi nel 1999 rivelava l’abbondantissima presenza di materiale archeologico: assieme ad una grande quantità di laterizi, talvolta integri, erano presenti materiali ceramici la cui cronologia copriva un lungo periodo, almeno dal IV-III secolo a.C. fino al tardoantico, vetri, monete e strumenti in metallo, ecc. Negli ultimi anni ’90, nell’area antistante a nord il fabbricato rurale, scavi con mezzi meccanici misero in luce lembi di strutture murarie in pietra e tre probabili tombe con copertura in lastre marmoree o di calcare chiaro di forma rettangolare, orientate est-ovest e allineate da nord a sud a distanza di circa mezzo metro ciascuna. La scoperta non venne segnalata e i manufatti vennero ricoperti.39 Nel corso dei lavori di ampliamento del fabbricato, ubicato nella parte più meridionale del fondo, e in quelli di dissodamento del terreno nei primi anni 2000, furono ampiamente intaccate le strutture antiche interrate a poche decine di cm. di profondità su una vasta area. I numerosi mattoni di forma rettangolare, quadrata e circolare venuti in luce, molti dei quali perfettamente conservati, vennero recuperati ed attualmente sono collocati accanto all’edificio e in parte riutilizzati in esso. Appare evidente che l’intero fondo riveste una grandissima importanza sotto l’aspetto archeologico, corrispondendo ad un fitto abitato la cui cronologia, messa in evidenza dagli scavi regolari del 1999-2001 e 2003-2005, è suggerita dal materiale ivi presente, con frammenti che si datano anche prima della tradizionale data di fondazione di Kalè Akté a metà del V secolo a.C.

Soprintendenza era allora competente per territorio, altri lasciati presso uno dei fondi Naselli, dove attualmente si trovano (figg. 34-38).

3. Propr. famiglie Naselli La valenza archeologica del fondo di proprietà della famiglia Naselli 40 è riferita già in Scibona 1987, sebbene in quest’area i ritrovamenti si siano ripetuti per l’intero secolo scorso, trattandosi di terreni intensivamente coltivati ad uliveto e frutteto e frequentemente soggetti ad aratura. La semplice ricognizione di superficie rivela ancora oggi la presenza di molto materiale, riferibile principalmente ad età imperiale avanzata. Segnalazioni41 riferiscono che tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso lavori di scavo per l’impianto di alberi da frutta portarono alla scoperta di tombe, presumibilmente di epoca tardo-imperiale o protobizantina, al confine con la propr. Di Noto. In quell’occasione furono recuperati diversi materiali, tra cui monete, vasellame e macine in pietra lavica, alcuni portati a cura di F. Bianco a Siracusa, la cui

Figg. 31-32. Propr. Barna. Mattoni circolari e rettangolari estratti dal terreno e sistemati nell’edificio rurale ivi esistente

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Scibona 1987, p. 12 Segnalazione B. Parisi 40 Si ringrazia la dott.ssa Rosa Maria Naselli Sposito per le interessanti segnalazioni di rinvenimenti e la disponibilità in occasione della visita nel fondo di proprietà dei suoi familiari 41 Segnalazione C. Lupinello 39

Fig. 33. Moneta in bronzo di età imperiale (Commodo?) sporadica dal fondo di propr. Barna (collezione privata)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Si tratta, tra gli altri, di due elementi di macina in pietra lavica, di alcuni mattonacci integri, di un interessante elemento di canaletta idrica e di alcuni grandi blocchi parallelepipedi di pietra, due dei quali in calcare bianco. Questi misurano 1,05 x 0,58 x 0,30 m.; uno dei blocchi presenta su uno dei lati brevi un incavo a coda di pesce per l’ammorsatura con altri elementi litici. Le dimensioni di questi elementi da costruzione li fa riferire ad un edificio monumentale che verosimilmente doveva ricadere in quest’area; peraltro, altri blocchi simili sono stati recuperati anche nella parte orientale della confinante propr. Di Noto in occasione dell’escavazione di pozzi. La segnalazione più interessante tuttavia riguarda il recupero, nel corso di scavi agricoli operati negli anni ’70, di una o più statue sia nell’area del caseggiato ricadente nello stesso fondo, sia nel tratto di spiaggia antistante, che sembra siano state trasportate a Siracusa sempre a cura di F. Bianco.42

Figg. 36-38. Blocchi lapidei, mattonacci e canaletta in terracotta presso il fondo Naselli. In basso, schizzo del blocco parallelepipedo di calcare bianco con incavo a coda di pesce e di un elemento di canaletta idrica

Figg. 34-35. Elementi di macine in pietra lavica recuperate nel secolo scorso all’interno del fondo di propr. Naselli e ivi lasciate in deposito

Da scavi per l’impianto di alberi pare sia venuta in luce una statua marmorea di personaggio togato, acefala e senza braccia, mentre una statua in bronzo di piccole dimensioni (c.a 30 cm di altezza), raffigurante un personaggio femminile, venne recuperata nel fondale vicino la spiaggia davanti al fondo in argomento. Non si hanno notizie circa la sorte di questi manufatti, che gli

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Segnalazione R.M. Naselli Sposito. Si è in attesa di riscontro alla richiesta scritta di informazioni inviata da chi scrive alla Soprintendenza BB.CC. di Siracusa sull’esistenza presso i relativi depositi di materiali recuperati a Caronia negli anni in cui essa era competente prima della creazione della Soprintendenza di Messina, per cui si ignora al momento se le interessanti segnalazioni, dopo tanti anni dai presunti rinvenimenti, corrispondano a verità e quale sia stato il destino anche dei reperti dagli scavi eseguiti a Marina di Caronia prima del 1987

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera eredi Naselli riferiscono essere stati recuperati da F. Bianco. Completano la serie di materiali sparsi sul soprassuolo alcune lastre litiche, probabile copertura di tombe, mentre in alcuni punti sembra di intravedere la parte sommitale di muri in pietra e mattoni, che evidentemente giacciono a pochi centimetri di profondità nell’intera area su cui insiste il fondo agricolo. Soprattutto la parte centrale delle proprietà Naselli mostra in affioramento numerosi materiali, principalmente di età imperiale. I continui lavori di aratura hanno favorito negli anni la messa in luce di abbondante materiale ceramico, nonché di monete, in gran parte oggi disperse. Viceversa, scavi controllati per la realizzazione di palazzine d’abitazione in corrispondenza delle vie Solusapre, Erodoto e Eupolemo, con saggi eseguiti anche in profondità, non hanno stranamente portato al rinvenimento di strutture antiche o comunque, stando ai dati editi, di livelli riferibili ad epoca greco-romana ma solo, in un punto, di lame di ossidiana e ceramiche preistoriche fortemente usurate con tutta probabilità provenienti da monte. 43 Tale circostanza indurrebbe ad escludere l’estensione della città antica in questo settore più meridionale, relativamente distante dal mare, se non fosse che il soprassuolo nelle aree circostanti rivela invece presenze archeologiche di epoca classica. In via S. Anna, a sud-ovest della Scuola Elementare e della popr. Naselli, sottostante la Stazione Ferroviaria, negli anni ’80 del secolo scorso furono realizzate una serie di palazzine su terreno in leggero declivio. L’area presentava e presenta tuttora materiali in superficie assegnabili ad un ampio arco di tempo, da almeno IV secolo a.C. ad età imperiale avanzata. A quest’ultima fase si riferiscono resti di piani in conglomerato di calce affioranti in più punti, mentre non si è a conoscenza del ritrovamento di strutture murarie all’epoca in cui l’area iniziò ad essere urbanizzata. E’ pertanto dubbio se i materiali presenti si riferiscano a contesti abitativi o piuttosto ad un’area di necropoli, certamente esistente nella limitrofa zona della Stazione Ferroviaria almeno per l’età imperiale. Appare quindi incongruente, al momento, l’accertata assenza di livelli di epoca storica nel periodo in cui furono eseguiti saggi esplorativi nell’area delle attuali vie Dandalo e Eupolemo, che si trova a poche decine di metri di distanza verso nord. Dall’area in questione proviene una discarica di terreno depositata fuori dalla cittadina moderna (c.da Sugherita, nei pressi della foce del fiume Caronia) per lavori di costruzione di un edificio abitativo negli anni 2000. I materiali contenuti nel terreno comprendono, oltre a pietre da costruzione e mattonacci di tipo ellenisticoromano, soprattutto ceramiche acrome (molto consunte) e frammenti di sigillata africana, ma anche oggetti in bronzo, vetri e alcune tessere di mosaico di colore blu. La tipologia dei manufatti testimonia l’esistenza di una ricca casa in uso in età imperiale avanzata, con ambienti presumibilmente pavimentati a mosaico figurato, la cui vita non sembra protrarsi oltre la fine del IV secolo d.C.

La vasta piana che si estende ad est dell’abitato di Marina fino alla foce del fiume Caronia, in buona parte proprietà Di Noto, misura complessivamente circa 70 ettari. L’altitudine varia da 0 a 12 metri s.l.m. in corrispondenza della strada provinciale che collega la cittadina marittima alla SS 113 in c.da Sugherita. Fino ad alcuni decenni fa questo era il fiore all’occhiello dell’economia locale, per la grande produzione di agrumi che venivano esportati, con un indotto di una certa consistenza. L’impianto dell’agrumeto comportò la realizzazione di molte opere necessarie ad assicurare la continua irrigazione delle piante, tra cui il tracciamento di canalette e l’apertura di numerosi pozzi. Negli ultimi anni, per ragioni di diversa natura, i terreni sono stati sostanzialmente abbandonati, divenendo pascolo. L’area riveste un alto interesse sotto l’aspetto archeologico, come hanno dimostrato ricognizioni, indagini geomagnetiche e limitati saggi di scavo: qui si estendeva parte della città antica ai limiti del bacino portuale, oggi interrato, che dopo l’abbandono divenne una palude, dando il nome all’intera contrada (“Pantano”). Le ricognizioni sono in realtà rese complesse dall’ampiezza dell’area da ispezionare e dalla presenza di ostacoli naturali costituiti principalmente dagli stessi alberi da frutto e pini spartivento e dalla vegetazione spontanea che in pochi anni ha invaso i terreni. Ciononostante i risultati sono di grande interesse e consentono di definire, in attesa di approfondimenti che possono giungere solo dall’esecuzione di saggi di scavo, le vicende urbane dell’abitato antico in questo settore. Ricordiamo che già negli anni ’80 del secolo scorso Scibona eseguì ricognizioni nella propr. Di Noto, individuando aree di cocciame di varie epoche in superficie su una vasta zona, unitamente ad uno scavo superficiale nella parte sud-orientale del fondo che intercettò consistenti livelli di occupazione ascrivibili ad età imperiale e successiva44. Nei primi anni ’90 Bonanno curò una serie di indagini con metodi moderni, tramite carotaggi e prospezioni geomagnetiche affidati alla ditta specializzata Lerici di Roma, che accertarono una continua serie di livelli archeologici interrati con presenza di strutture murarie.45 La ricognizione condotta nell’ultimo decennio da chi scrive non è stata sistematica, ma ha interessato, per forza di cose, aree talvolta non contigue. Occorre tenere in considerazione preliminarmente che qui era ubicato il porto di Calacte, la cui estensione può essere dedotta sia dalla foto aerea, sia dalla ricognizione sul posto, sia ancora dalle informazioni reperibili sulle vicende che hanno interessato nell’ultimo secolo i terreni interessati. Così, ad esempio, si è appreso di interventi di colmatura e bonifica a cura dei proprietari Di Noto della striscia confinante con l’area bonificata nei primi decenni del ‘900, che fa intuire come l’estensione della palude formatasi dopo l’abbandono del porto fosse più estesa di quella poi delimitata da muretti di contenimento e alberi, per cui si presume che l’area del bacino portuale arrivasse a coprire un’estensione massima di 430 x 170 metri, ben riconoscibile dalla presenza di infiltrazioni d’acqua 44

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Bonanno 1993-1994

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Scibona 1987 Bonanno 1997-1998

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia nella parte interna di questi muri e sono da interpretarsi come crollo di tettoie. I muri sul piano stradale si osservano per lunghezze massime di 5-6 metri ed appaiono perfettamente allineati ai muri lunghi degli edifici portati in luce in propr. Barna, da qui distante poche decine di metri verso nord-est.

marina e dal livello altimetrico inferiore ai terreni circostanti. La parte nord-orientale della piana ospitava dunque il porto interno di Calacte. La ricognizione sul posto, in realtà, non evidenzia la preesistenza di strutture antiche per gli interventi di cui si è detto, che hanno ampiamente stravolto la conformazione originaria del sito. Un’immagine di come si presentava quest’area alla fine dell’800 rimane dagli scritti del canonico Volpe, che descrive una sorta di stagno che si riempiva di acqua piovana nei mesi freddi e si presentava come un’area umida che dava ricovero ad uccelli migratori. L’intervento di bonifica prevedeva il prosciugamento della palude tramite il tracciamento di canali e la chiusura di uno stretto accesso al mare di cui rimane memoria locale; fu quindi eseguito l’impietramento della zona prosciugata e il rialzamento e ampliamento del margine settentrionale, per impedire al mare di raggiungerla; infine furono realizzati muretti di contenimento a delimitare l’area. Il settore occidentale di quest’area depressa, meno insalubre, è stato invece lasciato incolto ed è delimitato solo da impietramenti. La particolare conformazione di questo spazio favorisce comunque lo stazionamento di acqua piovana e la probabile infiltrazione sotterranea di acqua marina, che si asciuga completamente solo nei mesi estivi. La ricognizione nella parte occidentale di questa area un tempo paludosa è stata possibile in un’unica occasione, alcuni anni fa, quando fu interamente ripulita dalla vegetazione palustre. La rilevazione sul terreno, esteso su un livello di poco inferiore a quelli circostanti, evidenziò la quasi totale assenza di materiali archeologici, che contrastava con la presenza diffusa di cocciame e laterizi verificata nei terreni adiacenti verso sud e ovest. Anche qui gli interventi passati hanno creato una striscia rialzata davanti alla spiaggia, interrotta all’estremo ovest, dove si apre una sorta di canale di accesso. E’ opinione di chi scrive che l’intera area posizionata nella parte nordorientale della propr. Di Noto, caratterizzata da un livello altimetrico inferiore rispetto ai terreni circostanti e soggetta a riempirsi d’acqua nei mesi invernali per l’esistenza di un substrato artificiale che ne impedisce il deflusso, corrispondesse all’antico bacino portuale, al quale si accedeva via mare sul lato nord-orientale. Risultati molto interessanti si sono ottenuto dall’esplorazione del settore sud-orientale della proprietà Di Noto, dove insiste un caseggiato, residenza della famiglia Crisà (“Case Salomone”), che si coglie l’occasione per ringraziare per la disponibilità in occasione dei sopralluoghi e per alcune preziose informazioni circa rinvenimenti avvenuti ormai diversi decenni fa a seguito di scavi agricoli e per l’impianto di condotte idriche. La strada che conduce dalla via Brin al caseggiato mostra diversi affioramenti riferibili a strutture murarie in gran parte orientate nord-sud. Questi “muri” sono realizzati in pietra locale (ciottoloni) sbozzati in quella che doveva essere la faccia-vista di edifici la cui disposizione non può accertarsi nei terreni ai lati della strada, radicalmente sottoposti a decennali lavori di aratura e di impianto di canalette idriche in muratura. Concentrazioni di tegolame frammentario si osservano

Figg. 39-40. Strutture murarie orientate nord-sud affioranti in proprietà Di Noto lungo la stradella di collegamento tra la via Brin e le Case Salomone. In basso, dettaglio del muro settentrionale M1

Si rammenta ancora che ad est della strada, quasi a ridosso della via Brin, Scibona eseguì negli anni ’80 del secolo scorso uno scavo, che evidenziò una compatta stratificazione archeologica riferibile principalmente ad età romana imperiale. Lo scavo, la cui estensione non è nota, fu condotto peraltro a livello superficiale, quasi un

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera A nord-est delle Case Salomone, esattamente al confine con la proprietà Naselli, è stata notata una ricca area di cocciame mista a porzioni di tegole di età imperiale e mattoni: le ceramiche si riferiscono per la gran parte ad età imperiale avanzata, con alcuni frammenti di sigillata africana ed un unico frammento a vernice nera. Immediatamente a sud di questo deposito superficiale affiora dal terreno, su un salto di quota interessato da scavi agricoli, una serie di strutture murarie plurifase, con almeno due muri realizzati con materiale di reimpiego legato con malta di calce.

saggio preliminare alla realizzazione di opere pubbliche per verificare la presenza di resti archeologici in questo settore. Esso fu poi interrato e successivamente ricoperto da terra di riporto proveniente dai terreni a sud dove nell’ultimo ventennio sono state costruiti edifici abitativi. Le “Case Salomone” sono un complesso edilizio risalente almeno all’inizio del ‘900, un tempo comprendente una casa ed un palmento, ampliati e trasformati nella seconda metà degli anni ’50. Gli edifici più antichi mostrano un sistematico riutilizzo di materiali edilizi di epoca classica, tra cui molti mattonacci di tipo ellenistico-romano. In un punto, il complesso abitativo moderno si innesta sulle probabili fondamenta di strutture romane. Circa 20 metri a nord-ovest del caseggiato, in un’area oggi coperta da una fitta vegetazione, nella metà del secolo scorso fu operato un profondo scavo per l’installazione di un pozzo. Furono allora rinvenuti numerosi grandi blocchi squadrati di pietra calcarea, verosimilmente pertinenti ad una struttura di tipo monumentale, nonché alcuni scheletri. La testimonianza degli eredi Crisà riferisce di una vasta area “vuota”, dove l’acqua veniva rapidamente assorbita, come se si trattasse di uno o più ambienti sotterranei, fino a una profondità di almeno 3-4 metri sotto il piano di campagna. I pochi materiali affiorati nel terreno smosso comprendevano ceramiche di età imperiale ed una moneta, probabilmente un sesterzio di Marco Aurelio (169-170 d.C.). L’impianto, più a monte, di altri pozzi collegati da canali sotterranei portò ancora alla scoperta di scheletri, come se tutta questa fascia ad occidente del caseggiato moderno fosse stata adibita in antico, in epoca non precisabile, a necropoli. Nella stessa area, lavori di scavo per l’installazione di un palo per il passaggio dell’energia elettrica portò al rinvenimento di muretti associati ad un piano pavimentale in cementizio. Ancora più a sud-ovest, a poca distanza dalla strada provinciale, la realizzazione di uno scavo agricolo mise in luce altri muretti e strati di crollo piuttosto superficiali. Tutti gli scavi di cui si è accennato, eseguiti a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, sono stati interrati ed oggi non è possibile eseguire alcuna verifica. Tutto questo settore della proprietà Di Noto rivela all’esame di superficie affioramenti di materiali ceramici e di laterizi, generalmente assegnabili ad età romana. Proseguendo verso nord, si arriva al confine con il “pantano”, delimitato da un lungo filare di alberi. Secondo il racconto dei Crisà, il proprietario dei terreni, considerato che l’area intermedia tra i fondi coltivati e la depressione del pantano era paludosa, eseguì interventi di colmatura con abbondanti riporti di terra: è per questa ragione che la fascia ampia circa 20 metri a contatto con l’area già bonificata nella prima metà del ‘900 non presenta affioramenti di materiali archeologici, presentandosi del tutto sterile. La testimonianza al riguardo assume una certa importanza ai fini dell’individuazione dell’antico bacino portuale, i cui margini, con relativi, ipotizzabili, muri di contenimento, banchine ed attrezzature annesse, evidentemente giacciono sotto uno strato di terreno artificiale e al momento non possono in alcun modo essere individuati.

Figg. 41-42. Proprietà Di Noto. Strutture murarie plurifase affioranti al confine con la propr. Naselli (in alto: pianta e alzato). In luce è un ambiente interamente rivestito di malta di calce, sul cui margine meridionale si osserva un crollo di mattoni

L’attenzione è stata attirata dall’intonaco che riveste il muro sul lato orientale: la ripulitura dell’area da erba infestante ha consentito di individuare l’angolo tra due muri. Le due pareti racchiudono un ambiente il cui piano è costituito da uno strato di calce e pietrisco, spesso mediamente 6-7 cm, che poggia su terreno di risulta misto a frammenti ceramici. Verso sud, la parete erosa evidenzia un fitto strato di crollo con molti mattoni, pertinente ad un terzo muro presumibilmente orientato est-ovest. Il materiale ceramico a contatto con il piano di conglomerato data l’ultima fase della struttura ad epoca

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia una zona umida non adatta ad occupazioni di alcun tipo a causa della imprevedibilità nella portata del corso d’acqua. Si rammenta che nella carta annessa al contributo di G. Scibona nel BTCGI, si segnalano ritrovamenti, uno dei quali riguarderebbe un capitello, come riferito personalmente dallo stesso Scibona. La ricognizione nella parte più ad ovest della c.da Sugherita, poco distante dal corso del fiume, non ha rivelato, all’esame superficiale, alcun materiale archeologico. Man mano che si prosegue verso est e verso il mare, il terreno mostra frammenti ceramici che divengono sempre più diffusi. Abbondanti materiali inoltre si osservano verso est, al confine con la propr. Di Noto, posta artificialmente su un livello superiore di alcuni metri. Proprio davanti alla spiaggia sono presenti strutture murarie, alcune realizzate con pietre legate con malta di calce, ed una grandissima quantità di laterizi e ceramiche accatastati sul bagnasciuga. La presenza di numerosi mattoni ipercotti fa presumere l’esistenza di una o più fornaci situate davanti al mare, che le ceramiche associate, comprendenti anfore vinarie del tipo Termini 151/354 datano alla tarda età imperiale.46 Lungo la linea di confine tra la spiaggia sassosa ed il terreno, in parte eroso dalle mareggiate, si osserva un lungo muro, conservato a tratti, che delimita il fondo agricolo e sembra essere stato realizzato in antico per proteggere la struttura produttiva ed i terreni limitrofi dalle mareggiate. Ceramiche acrome di epoca romana e porzioni di laterizi si osservano per un vasto tratto alle spalle della fornace e verso est, inducendo a ritenere che in questo punto sorgesse un vero e proprio borgo con funzioni produttive in età imperiale. Le strutture murarie comprendono due bracci orientati nord-sud, distanziati di poco meno di un metro, realizzati con grandi ciottoli sbozzati solo sul faccia-vista verso ovest legati con malta di calce. Da essi partono dei muraglioni, sempre in pietra, nelle due direzioni: quello orientale si conserva per circa 10 metri ed un’altezza massima di 1,5 metri, con elementi lapidei di mediegrandi dimensioni legati sempre con malta di calce; quello occidentale è leggibile per una lunghezza di oltre 40 metri, sebbene appaia largamente integrato in epoca recente. Un muro con andamento semicircolare affiora adiacente i due bracci nord-sud e potrebbe riferirsi ad una prima fornace. Circa 20 metri ad ovest è il sito di una seconda fornace, nella cui area è presente un’enorme quantità di laterizi, molti dei quali con difetti di cottura, nonché crolli murari e materiali ceramici databili al IV-V secolo d.C. I mattoni sono di diverse forme e dimensioni: rettangolari grandi (50 x 35 x 8/11 cm), rettangolari piccoli (35 x 20 x 8), quadrati (50 x 50 x 8/9). Le tegole (coppi) presentano tutte i bordi ispessiti, talvolta con modanature accennate sui lati brevi. Relativamente pochi i frammenti di ceramiche, pertinenti principalmente ad anfore vinarie del tipo descritto. Tra gli altri materiali, si osservano parti di macine in pietra lavica ed i frammenti di un grande dolium con segni di riparazione in antico tramite grappe in ferro e piombo.

imperiale avanzata o al tardoantico, considerata la tecnica del riutilizzo dei muri visibili. Le pareti chiudono evidentemente a sud un ambiente pavimentato con uno strato di calce e pietre, che a sua volta oblitera strutture più antiche (i muri scendono oltre il livello del pavimento). Misti al terreno e alle ceramiche erano numerose ossa di non facile attribuzione (animali o resti umani?). Non è possibile comprendere quale funzione avesse la struttura, per la quale si era ipotizzata in un primo momento la possibilità che si trattasse di una tomba di epoca bizantina. L’area superficiale circostante le citate strutture è ricchissima di materiali frammentari, in particolare di sigillata africana, oltre a frammenti anche di IV secolo a.C. Lunghe ricognizioni nella parte centrale della proprietà Di Noto hanno portato a risultati di qualche interesse, sebbene la circostanza che l’organizzazione produttiva del fondo, con il tracciamento di strade rialzate mediante riempimenti e interri, unita all’assenza di arature negli ultimi decenni, impediscano di osservare affioramenti significativi in ampie porzioni, dando l’idea di una discontinuità di occupazione. La presenza più consistente di frammenti ceramici e altri materiali archeologici, soprattutto porzioni di laterizi, si è osservata nella parte nord-orientale: si tratta prevalentemente di porzioni di mattoni e tegole, di pietre lavorate in parte riutilizzate in strutture moderne e di frammenti ceramici non sempre ben inquadrabili cronologicamente. Quasi al centro è presente un fabbricato, realizzato alla fine dell’800, che appare quasi interamente realizzato con materiali di reimpiego, in particolare mattoni e tegole talvolta ipercotti, le cui condizioni fanno presumere che siano stati recuperati in loco. Nei terreni intorno all’edificio sono stati osservati frammenti in affioramento. Poco ad est è un pozzo coperto, che riutilizza nell’apertura un bel blocco parallelepipedo di calcare bianco. Ancora più a ovest la presenza di materiali antichi diviene sempre più sporadica. Qui sono presenti una serie di case coloniche, costruite dopo la metà del ‘900, in una delle quali, davanti alla contrada Sugherita, sono stati osservati pochi materiali antichi frammentari ed un manufatto frammentario in pietra calcarea che potrebbe essere una porzione di colonna. L’impressione complessiva è che l’abitato occupasse solo la parte nord-orientale di questo settore centrale della piana, ai margini di un’area oggi incolta che potrebbe essere stata parte del bacino. Gli sbancamenti eseguiti per la realizzazione del sottopassaggio tra la strada provinciale e la ferrovia (a sud-ovest) non hanno portato alla luce nulla di significativo. L’area più occidentale della piana, non molto distante dalla foce del fiume Caronia (contrada Sugherita), ha rivelato importanti segni di occupazione in antico, con l’individuazione di strutture murarie affioranti, vaste aree di cocciame, il sito di una fornace per laterizi, tutti inquadrabili cronologicamente nel corso dell’età imperiale e, poco a est, i labili resti di una probabile stazione preistorica. Il margine ovest di questo settore in antico doveva essere parte della foce fluviale: due millenni fa, il delta non si era ancora formato nell’ampiezza che conosciamo oggi, la linea di costa doveva essere quindi più arretrata e questa doveva essere

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Vedi anche Cap. 7. Ricerche nel territorio: la chora calactina, a seguire

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera prova dell’esistenza di un insediamento probabilmente dell’Età del Bronzo situato davanti al mare. L’area compresa tra il mare e la foce del fiume Caronia nella contrada Sugherita, oltre ai descritti siti di età romana e preistorica, rivela scarse tracce archeologiche, se si escludono sporadici frammenti di ceramiche di incerta datazione. Peraltro, il terreno appare notevolmente rimaneggiato e il piano di campagna è stato sottoposto a diversi interventi nell’ultimo cinquantennio, tra i quali tracciamento di strade campestri con piano rialzato e impianto di canalizzazioni, con colmatura del terreno con materiale allogeno, per cui la ricognizione non può considerarsi attendibile. Tuttavia, l’individuazione di aree di interesse archeologico nei pochi settori non sottoposti a interventi, quali la parte più occidentale prima della foce e l’intero margine settentrionale davanti al mare, occupato solo da alberi spartivento, inducono a ritenere che l’intera piana fosse in antico sede quantomeno di piccoli abitati, di fattorie e impianti produttivi posti nell’estrema periferia della città ed a questa strettamente legati, soprattutto nel corso dell’età imperiale. Il rinvenimento di strumenti frammentari in ossidiana e selce nella parte più settentrionale della c.da Sugherita offre lo spunto per fare un breve quadro delle vicende insediative in epoca preistorica lungo la costa. Al momento, tracce evidenti di presenza umana, inquadrabili in un arco temporale non meglio definibile in assenza di scavi sistematici, ma in genere comprese tra l’Età del Rame e l’Età del Bronzo, sono registrati in più punti a non molta distanza tra loro: ai ritrovamenti editi in c.da Palme, 47 attestanti l’esistenza di un modesto abitato, avvalorati dal ritrovamento sporadico di strumenti litici su una vasta area a monte del bivio tra la SS 113 e la SP 168, si aggiungono quelli nella ex proprietà Naselli, 48 oggi urbanizzata, riferibili tuttavia a tracce di occupazione umana non riferibili con certezza all’area esplorata, quanto piuttosto a quella retrostante. Ossidiana è presente nel terreno rimaneggiato all’interno dell’area degli scavi 1999-2005 in c.da Pantano e nella discarica proveniente da uno scavo privato nella zona compresa tra il quartiere Nunziatella e la c.da Pantano di cui abbiamo parlato in precedenza. Infine, abbiamo dato notizia in uno dei capitoli del presente volume 49 della scoperta di un villaggio della tarda Età del Rame – Media Età del Bronzo in contrada Fiumara, circa 1200 metri a sud della spiaggia di contrada Sugherita. L’area interessata da presenza umana nell’arco di tempo compreso tra il III e il II millennio a.C., si distribuisce tra la pianura e le prime pendici collinari, preferibilmente nelle vicinanze di corsi d’acqua, alcuni dei quali oggi scomparsi, comprendendo – pare – una serie di piccoli insediamenti sorti probabilmente in funzione delle risorse disponibili. Non si conoscono in tutta la fascia settentrionale della Sicilia aree circoscritte con così numerose tracce di frequentazione umana riferibili a più siti, alcuni dei quali probabilmente stazioni temporanee, che dovevano essere in collegamento tra loro.

Figg. 43-44. Contrada Sugherita. In alto, anse e frammenti di parete di anfore tipo Termini Imerese 151/354 di produzione locale. In basso, porzione di dolium con resti di riparazione in antico tramite grappe in piombo e in ferro

Peculiari appaiono le caratteristiche fisiche dei laterizi, in particolare dei mattoni, realizzati con argille grezze ricchissime di inclusi litici anche di grandi dimensioni: il colore delle terre utilizzate, a fine cottura, è generalmente arancio-bruno, talvolta tendente al rosso, ed il pietrisco è di varia natura, comprendendo anche quarzite bianca. Il ritrovamento di questo impianto produttivo risulta molto interessante perché attesta la produzione di mattonacci di tradizione ellenistica in un’epoca molto avanzata: ancora nel IV secolo d.C. si producevano a Calacte questi tipici laterizi di tipologia prettamente locale anziché i mattoni standard (sesquipedali) da diversi secoli utilizzati in tutto l’Impero. L’impianto artigianale si trovava davanti alla spiaggia, su cui si riversavano i prodotti di scarto, e distava dalla città oltre un chilometro, comprendendo probabilmente magazzini e ambienti residenziali. L’area di dispersione di materiale archeologico misura oltre un ettaro, sebbene non se ne possa accertare un’ulteriore estensione verso est (propr. Di Noto) su terreni fortemente rimaneggiati per interventi agricoli. Circa 100 metri più ad est, lungo il margine del fondo agricolo prospettante sulla spiaggia sono stati osservati diversi frammenti di lame e semilavorati di ossidiana e selce e radi frammenti in ceramica d’impasto,

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Bonanno 1997-1998 Bonanno 1993-1994 49 Vedo Cap. 7. Ricerche nel territorio: la chora calactina, a seguire 48

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia La stretta fascia costiera compresa tra il quartiere Nunziatella e la contrada Chiappe, estrema periferia orientale della moderna cittadina, ha rivelato numerose prove di frequentazione umana, la cui interpretazione non è sempre immediata in mancanza di saggi di scavo, che peraltro non risultano più possibili in alcuni settori recentemente urbanizzati. L’area compresa tra il corso del torrente S. Anna e quello del torrente Cinquegrana, come accennato, fino all’incrocio tra la SS 113 e la SP 168, sembra sia stato destinato a necropoli fin da età greca e per tutta l’età imperiale. Si rammenta il rinvenimento, rimasto sostanzialmente inedito, di sepolture di epoca ellenistica esplorate da Scibona nell’area dell’ex Rifornimento Agip,50 mentre altre tombe, stavolta di età imperiale avanzata, sono state studiate sempre da Scibona poco più a monte nel 196851. Se consideriamo che anche nell’area della Stazione Ferroviaria furono rinvenute nell’800 altre tombe in casse di laterizi legati con malta di calce,52 si può definire l’estensione di questa vasta area cimiteriale posta ad est della città antica, utilizzata per un lunghissimo arco di tempo. Nella stessa zona, poco a monte dell’incrocio tra SS 113 e SP 168 (contrada Palme), è da sempre stata in vista una cisterna, 53 il cui impianto può farsi risalire probabilmente al I secolo d.C., successivamente rinnovata nel corso del II-III secolo d.C. e utilizzata almeno fino ad epoca tardo-medievale a giudicare dai frammenti ceramici sparsi in superficie. Si tratta di un serbatoio di forma rettangolare, diviso per lungo in due ambienti separati da pilastri con arcate. Le pareti interne erano rivestite da intonaco impermeabilizzante, di cui si possono osservare ancora i resti riferibili a interventi ripetuti e successivi, mentre il piano era costituito da uno spesso strato di cocciopesto. I muri sono costruiti con pietra locale e mattoni mentre il tetto, ormai crollato e di cui rimangono ben riconoscibili i punti di appoggio, era a doppia volta in cementizio. Nella cisterna confluiva l’acqua di una sorgente posta a monte, che stazionava in una vasca realizzata a contatto con la parete meridionale e poi si immetteva nel serbatoio, da cui partivano una serie di canalizzazioni. Resti di strutture murarie affioranti a ovest e a nord della cisterna si riferiscono ad ambienti di probabile età medievale. La posizione della cisterna, piuttosto decentrata rispetto alla città, posta a nord-ovest, implica che una serie di condotte andrebbero ricercate a valle, la cui funzione di deflusso dell’acqua era agevolata dal dislivello che si crea tra il serbatoio e l’abitato. La struttura idrica è bipartita dalla presenza di un muro mediano a tre arcate. Le due campate misurano circa 4,30 metri ciascuna e ognuno dei muri lunghi misura circa 17 metri. Il volume complessivo superava abbondantemente i 500 metri cubi. Nella parte meridionale, in corrispondenza del punto di arrivo dell’acqua dalla sorgente, il serbatoio era addossato al terreno mentre era parzialmente in vista sui restanti lati. Probabili aperture d’accesso dovevano essere presenti sulla parete occidentale, attualmente interrata ma, stando

ai livelli affioranti, piuttosto mal conservata. Le tecniche impiegate per la costruzione del serbatoio rivelano fasi successive di uso e restauro. La prima realizzazione dell’edificio si deve datare all’inizio dell’età imperiale (III secolo d.C.) anche per la presenza di ricorsi di grandi laterizi (mattoni delle dimensioni medie di circa 50 x 34 x 8 cm), largamente in uso in epoca ellenistico-romana a Calacte ed in altri centri della Sicilia centrosettentrionale. Il muro nord, spesso 0,95 m., è realizzato in opera cementizia, con pietre irregolari legate da malta di calce e rivestimento, nella faccia interna, di mattonelle dello spessore di 3-4 cm.; la parte esterna rivela modifiche dell’originaria struttura, con un’inzeppatura di mattonelle forse a chiusura di un’apertura o di un cedimento del muro in antico. Un filare continuo di grandi mattoni ne contraddistingue l’alzato a mezz’altezza, ad un livello tuttavia inferiore a quello degli altri due muri paralleli.

Figg. 45-46. In alto, planimetria della cisterna in contrada Palme e delle strutture murarie (M) e condotte idriche (C) circostanti; in basso, alzato della parete orientale

Al di sopra dei ricorsi di mattoni, il muro è realizzato con pietre di forma regolare. Questo muro si conserva solo parzialmente rispetto agli altri due e rivela una tecnica costruttiva diversa; la parte superiore esterna del muro, in blocchetti regolari, è pertinente ad un intervento di epoca successiva. Inoltre si osserva chiaramente uno spazio di circa 2-3 cm tra il muro stesso

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Scibona 1987, p. 11 Scibona 2011 52 Si veda il già citato manoscritto del canonico Volpe (nota 1) 53 Scibona 1987; Bonanno 1993-1994; Scibona 2011 51

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera e il fondo della vasca in conglomerato, sicuramente dovuto a cedimenti del terreno, ma che rivela una non contemporaneità tra le due strutture. La circostanza per cui la parte esterna di questo muro appaia piuttosto malandata rispetto alla faccia interna suggerisce che essa è rimasta sempre in vista, in ognuna delle epoche di utilizzo del serbatoio, come già ipotizzato da Scibona. Nella parete mediana ad arcate il corpo interno è realizzato con spezzoni di laterizi legati con abbondante malta di calce e pietrisco, mentre per il rivestimento furono impiegate mattonelle di diverse dimensioni lungo gli archi (lunghezza 40 cm, spessore 4 cm) e nella sagoma della struttura muraria (28 x 2,5 cm). I tre archi coprono l’intera lunghezza della parete ed originariamente erano interamente intonacati: si distinguono, peraltro, strati successivi di intonaco impermeabilizzante relativi a fasi diverse di utilizzo. Resti murari affioranti e parzialmente messi in luce in passati saggi di scavo, ad ovest e a nord della vasca, permettono di identificare una serie di ambienti addossati ai due principali con volta a botte. Allo stato attuale, si ignora se essi servissero di supporto alla cisterna vera e propria, magari per la progressiva decantazione e depurazione dell’acqua prima che essa fosse portata in città, o se piuttosto si tratti di costruzioni annesse alla cisterna ma successive al suo impianto o anche di case d’abitazione: i radissimi materiali ceramici e il tegolame di superficie non consentono di effettuare datazioni precise né di formulare ipotesi circa l’utilizzo di questi ulteriori ambienti. Sarebbe quindi opportuno che l’indagine archeologica sia proseguita sui versanti nord, sud ed ovest, per rimuovere l’interro che attualmente ricopre strutture in gran parte sepolte. In ogni caso, i resti di tegolame di tipica fattura medievale affioranti in superficie a nord e nord-ovest della cisterna suggeriscono l’esistenza di un caseggiato relativamente recente (XVXVI secolo?) che faceva ancora uso del serbatoio. L’edificio meriterebbe una sistematica esplorazione e valorizzazione, trattandosi di una delle cisterne romane meglio conservate in Sicilia.54 La cisterna romana in contrada Palme trova confronto, alcune centinaia di metri a nord-ovest, con quella esistente al di sotto del caseggiato di proprietà Barna in contrada Pantano. Quest’ultima ha pianta rettangolare (5,60 x 4,00 m.), copertura con volta a botte ed è realizzata con mattoni di tipo romano (pedales). Dovrebbe datarsi al I-II secolo d.C. per l’uso dei laterizi citati e della malta come legante, sebbene ne sia stata proposta una cronologia più alta, in età repubblicana55. Già in origine doveva trovarsi parzialmente sotto il livello delle strutture abitative circostanti e raccoglieva

l’acqua proveniente da monte attraverso feritoie presenti nella parte medio-alta della parete. La dismissione definitiva della cisterna dovrebbe datarsi già al V secolo d.C., considerato che in seguito (VI-VII secolo) venne utilizzata come cripta per alcune sepolture.

Fig. 47. C.da Palme. I resti della cisterna romana visti da est. Si osserva quanto resta della parete orientale, parzialmente asportata nella costruzione della stradella che corre a fianco, e il piano in cocciopesto della Camera A

Fig. 48. Cisterna di età imperiale perfettamente conservata sotto il fabbricato di propr. Barna in contrada Pantano. In primo piano le tombe bizantine impiantate dopo la dismissione della struttura idrica

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Nella stessa area occorre segnalare il saggio eseguito a metà degli anni ’90 pochi metri a nord-ovest della cisterna, che ha messo in luce i resti di un insediamento del Neolitico con due fasi di vita, uno assegnabile alla facies di Serra d’Alto e l’altro alla fase finale dello stile di Diana (Bonanno 1997-1998, 2000). L’area di dispersione di materiali preistorici è comunque ben più ampia, come suggerito dalla segnalazione di rinvenimenti in passato a opera di privati di utensili in selce e ossidiana lungo il vallone oggi percorso da strade in corrispondenza del bivio tra SS 113 e SP 168. 55 Bonanno 2008, pp. 73-77

Se la cisterna in contrada Palme doveva convogliare l’acqua verso strutture poste a nord o nordest di essa, ritenendosi poco plausibile che fosse in diretto

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia collegamento con quella di contrada Pantano, posta a una certa distanza, quest’ultima doveva probabilmente ricevere l’acqua dalle pendici della collina retrostante (contrada S. Anna), dove tutt’oggi esistono sorgenti non più sfruttate. Da queste, l’acqua veniva portata attraverso condutture (come quelle intercettate negli scavi nell’area della Scuola Materna) verso il serbatoio e da qui smistata verso i caseggiati circostanti. Per il deflusso dell’acqua erano utilizzate canalette di terracotta o condotte realizzate con mattoni, come quelle scoperte presso la stessa Scuola Materna e negli scavi 2003-2005 in proprietà Barna. Una simile rete idrica, tessuta in maniera capillare, era necessaria per rifornire la città di acqua potabile, essendo la falda idrica raggiungibile mediante pozzi allora come oggi di natura salmastra. E’ ipotizzabile che altre cisterne esistessero sia in area urbana che periurbana alla base del sistema collinare retrostante, una delle quali sembra di potersi localizzare all’interno della propr. Di Noto nei pressi delle Case Salomone.56

oggi sommerse, di cui parleremo in seguito, in contrada Pietra Grossa, possiamo farci un’idea di come fosse organizzato questo settore periferico della città, in cui lungo la stretta fascia di terreno prospettante sul mare, percorso dalla strada litoranea, dovevano essere ubicate strutture di vario tipo, prevalentemente con funzioni produttive e commerciali (impianti artigianali, fattorie, installazioni portuali forse con presenza di stabilimenti per la lavorazione del pescato), da datarsi, in base ai materiali talvolta riconosciuti sul piano di campagna, prevalentemente in età imperiale. La perlustrazione in località Chiappe, circa 2 km ad est del centro di Marina di Caronia, ha preso avvio dalla segnalazione di Scibona58 e dall’osservazione sulla parete di terreno che fiancheggia a monte la vecchia statale 113, alta fino a 2 metri, per un’ampiezza di circa 15 metri, di una consistente area di cocciame pertinente ad anfore e vasellame, misto a frammenti di tegole e pietre da costruzione, alcune delle quali crollate in gruppo, riferibili sicuramente a strutture interrate a monte. In questa zona, proprio davanti alla spiaggia, Scibona individuò nei primi anni ’80 “un’area di fornace ricchissima di frammenti di anfore, tra cui pare potersi riconoscere, come assai frequente, una forma che ricorda la Dressel 35”, databile ad età tardo imperiale. Il ritrovamento riguardò il terreno appena sottostante un gruppo di case davanti alla scogliera. Non fu individuata la fornace, probabilmente situata proprio al di sotto delle case, ma moltissimi frammenti e scarti di cottura. Il tipo di anfore riconosciuto, destinato presumibilmente a contenere vino, è stato successivamente osservato in grande quantità negli scavi eseguiti in c.da Pantano a Marina. La ricognizione nel punto indicato da Scibona, a pochi metri dal mare, dove la costa forma un breve promontorio in corrispondenza degli scogli, ha portato alla scoperta di una quantità straordinaria di frammenti di anfore e scarti di fornace, tra i quali sono compresi anche pezzi di tegole e di mattoni che forse erano parte della stessa fornace. La tipologia di anfore riconoscibili, segnalata da Scibona come simile alle Dressel 35, è in realtà pertinente ad una forma molto diffusa in epoca tardoimperiale, di produzione siciliana e presente in contesti di Roma e altri siti della Penisola. Si tratta delle piccole anfore vinarie da alcuni assimilate alle Keay 52, oggi denominate “Termini Imerese 151/354”, databili tra IV e V secolo d.C. e oltre. Si tratta di un contenitore da trasporto di piccole dimensioni, caratterizzato da corpo panciuto con piede ad anello e fondo ombelicato rientrante, con stretta imboccatura sulla quale sono applicate le anse. I luoghi di produzione di questa tipologia di anfore sono stati individuati in diversi centri della Sicilia settentrionale, tra cui, per l’appunto, Termini Imerese59, dove per la prima volta sono state riconosciute come produzione tipicamente siciliana, e Capo d’Orlando60 (Villa romana di Bagnoli). Queste anfore caratterizzano tutti i contesti tardoantichi a Caronia, essendosene rinvenute in grande quantità sia nella città marittima, sia in alcuni borghi

Fig. 49. Localizzazione delle cisterne romane identificate e delle possibili reti di approvvigionamento a partire da sorgenti tutt’ora esistenti poste a monte

Ceramiche frammentarie sono state osservate in contrada Piano Ajala mentre, poco distante, si ha notizia57 che lavori di costruzione di un fabbricato di fronte alla moderna Chiesa dell’Idria alcuni decenni fa, davanti alla spiaggia, misero in luce strutture murarie in crollo costruite con pietra locale e mattonacci ellenisticoromani. Proseguendo verso est, a monte della ferrovia che costeggia l’abitato in più punti sono stati osservati materiali archeologici, in particolare mattoni e tegole curve frammentari, spesso associati a frammenti di dolia. Se si aggiunge la probabile presenza di strutture portuali

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Scibona 1987 Belvedere et alii, 1993 60 Spigo, Ollà, Capelli 2006

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Cfr. p. 205 57 Segnalazione A. Cangemi

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera extraurbani (c.da Sugherita e c.da Samperi-La Pernice, ad esempio) ed anche nella collina di Caronia, quale principale attestazione di una rioccupazione del sito collinare nel tardoantico. La quantità di materiale ceramico presente in contrada Chiappe, all’epoca della costruzione delle case insistenti nella zona, era talmente abbondante che esso fu ampiamente utilizzato come riempimento e completamento dei muri in cemento. E’ così che, ad esempio, parti consistenti di anfore sono reimpiegate e visibili nelle murature dei fabbricati davanti al mare e in quelle di una residenza ottocentesca, ormai in rovina, posta circa 300 metri ad est del quartiere Chiappe. L’area di dispersione di materiale archeologico misura 2,5 ettari e si trova esattamente nel breve promontorio che la costa forma ad ovest dell’omonimo torrente. I materiali osservati in superficie non sembrano

risalire a prima del III-IV secolo a.C. e comprendono, oltre alle citate anfore vinarie, diverse tipologie di vasellame, dai piatti ai grandi contenitori, quasi esclusivamente di produzione locale. Radi i frammenti di sigillata africana. Le fornaci dovevano produrre non solo i contenitori da trasporto, ma tutta una serie di manufatti di uso domestico, perfettamente riconoscibili dalle peculiari caratteristiche delle argille utilizzate, di colore rosa-arancio, molto compatte e con numerosi e ben visibili inclusi sabbiosi, che nell’epoca tardoimperiale vennero ampiamente utilizzati in tutto il territorio di Caronia. Ad oggi, è questo il principale contesto produttivo individuato nel sito di Kalè Akté – Calacte ed il materiale associato costituisce il prototipo affidabile per il riconoscimento di produzioni locali di ceramiche anche per i secoli precedenti.

Figg. 50-53. Contrada Chiappe. In alto: a sinistra, veduta del piccolo promontorio da ovest; a destra, scarico della fornace sulla spiaggia. In basso: a sinistra, porzioni di anfore inglobate in strutture cementizie moderne; a destra: porzioni di pareti di anfore e tegole tardoantiche riutilizzate in un fabbricato di fine ‘800 poche decine di metri a est del sito

Le dimensioni dell’area disseminata di materiali frammentari fanno presumere l’esistenza, in età tardoantica, di un sobborgo piuttosto grande, organizzato in case d’abitazione e officine artigianali, sorto lungo la Via Valeria forse a partire da un caseggiato presente all’inizio dell’età imperiale; la strada litoranea, il cui percorso è stato pressoché ricalcato dall’ex Statale 113 (oggi via

Brin), consentiva un agevole collegamento con la città vera e propria, a circa due chilometri di distanza. Potremmo interpretare l’abitato come una sorta di mansio o statio intermedia prima di giungere alla città vera e propria, che in quella fase era in decadenza e in parte già spopolata. Qui si svolgevano attività produttive, quali la produzione di anfore per l’esportazione del pregiato vino

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia questo settore della Sicilia, non altrimenti nota dalle fonti storiche. Sembra assai probabile che il racconto di Diodoro Siculo relativo alla creazione della città ad opera di Ducezio sia da riferire ad una sorta di rifondazione sulla collina retrostante l’abitato già esistente sulla costa, quale tentativo di coabitazione tra Indigeni e Greci a cui non dovette essere estraneo l’interesse delle potenze siceliote dell’epoca. E’ da ritenere plausibile che già alla fine del VII secolo a.C. esistesse una postazione creata da Zancle a servizio di un approdo marittimo. In base ai punti di rinvenimento delle ceramiche più antiche finora note, un abitato di modeste dimensioni si sviluppava nell’area compresa tra il quartiere della Nunziatella e la contrada Pantano, appena ad ovest di un corso d’acqua (torrente S. Anna): è questa l’area che più di tutte ha rivelato una continuità di vita, a partire da epoca arcaica fino a tutta l’età imperiale e oltre. Potremmo ipotizzare che all’indomani della fondazione di Himera (648 a.C.) sia stato scelto questo sito come approdo intermedio stabile nella rotta tirrenica tra Zancle e la sua subcolonia. D’altra parte, non è da escludere che il luogo fosse noto ancora prima del 648 a.C. Si potrebbe infatti pensare che il tentativo di espandere la propria area di influenza verso ovest avesse indotto la città dello Stretto a vagliare più siti lungo la costa settentrionale siciliana e, tra essi, a scegliere infine l’area più idonea alla creazione di una grande città, in un luogo distante 170 km. Ma appare una forzatura, peraltro, ritenere che non esistesse su questa grandissima distanza alcun insediamento greco. Piuttosto andrebbe considerato l’eventuale atteggiamento dei centri indigeni preesistenti, che riuscivano ad impedire in maniera efficace lo sviluppo di una vera e propria polis in un’area morfologicamente particolare e ben controllabile. In quest’ottica, l’invito rivolto nei primi anni del V secolo a.C. da Zancle agli Ioni di Samo di venire a fondare una colonia a Kalè Akté risponde all’interesse di quella città a dare finalmente sviluppo al proprio insediamento, che fino ad allora era rimasto sostanzialmente una postazione portuale greca in area sicula.61 Esistente fin da epoca arcaica, l’abitato costiero dovette svilupparsi soprattutto a partire dalla media età ellenistica, per raggiungere la sua massima dimensione nel corso dell’età imperiale. Un centro urbano organizzato doveva necessariamente disporre di edifici pubblici e di un forum, che localizziamo ipoteticamente nell’area della moderna Piazza Nunziatella. Sebbene non siano mai stati eseguiti saggi archeologici sulle strutture interrate della chiesetta dell’Annunziata, è probabile che essa sia stata eretta, in epoca normanna, sui resti di edifici monumentali preesistenti. Purtroppo qualsiasi verifica in tale senso è resa per sempre impossibile dal fatto che l’edificio ecclesiastico originario è stato interamente demolito nel secolo scorso e riedificato ex novo. All’interno della chiesa si conserva un bel tronco di colonna marmorea con scanalature tortili di età imperiale, recuperato proprio al di sotto dell’edificio di culto,

calactino. Vale la pena osservare, inoltre, che il borgo doveva essere dotato di un approdo: gli scogli che oggi si trovano a diversi metri dalla spiaggia erano, in antico, uniti ad essa e formavano un promontorio che consentiva di accogliere navi di piccolo cabotaggio. L’osservazione del fondale antistante ha consentito infatti di individuare i segni della secolare erosione nella parte sommersa degli scogli, provocata dal pietrame continuamente smosso dal moto ondoso man mano che esso si dissolveva. Oggi si osservano i segni di questa erosione nella piattaforma rocciosa immediatamente ad ovest degli scogli, mentre un evidente fenomeno di arretramento della costa si è potuto accertare ancora nell’ultimo trentennio, per almeno 4-5 metri. In antico, gli scogli oggi posti a largo della battigia dovevano quindi essere uniti alla terraferma e formare un promontorio che dava riparo alle navi che giungevano qui per prelevare le anfore riempite del vino proveniente dai diversi centri di produzione sparsi nel territorio. Conclusioni I dati acquisiti dalle ricerche svolte nel sito della città marittima consentono di ipotizzarne a grandi linee la forma urbana, sebbene molto resti ancora da fare, con il vantaggio, tuttavia, di avere ancora a disposizione, alla data attuale, ampie aree non ancora urbanizzate in cui eseguire saggi di scavo e prospezioni con moderni metodi d’indagine. Le condizioni morfologiche dovettero consentire la realizzazione di un impianto regolare della città fin dall’inizio, impostato su una arteria viaria principale costituita dalla strada litoranea, il cui tragitto rettilineo in questo tratto è stato verosimilmente ripercorso dalla ex SS 113 – odierna via Brin. Da qui una serie di strade nord-sud definivano insulae le cui dimensioni non possono al momento essere accertate. La presenza di un bacino portuale interno imponeva all’abitato di raccogliersi nella parte interna della piana e di svilupparsi verso ovest. Inoltre comportava la presenza di tutta una serie di infrastrutture destinate ad un efficiente svolgimento delle attività di trasporto marittimo sia di merci che di persone. Nelle adiacenze del porto andranno quindi cercati soprattutto magazzini, ma anche locali per accogliere i commercianti. In questo senso, appare coerente con l’interpretazione degli archeologi che eseguirono gli scavi, la presenza di horrea e di un thermopolium nel settore indagato in contrada Pantano, posto a soli 100 metri dall’area del bacino interno e a 50 circa dalla banchina presumibilmente esistente lungo l’antica linea di costa. I ritrovamenti di materiali di cui si ha notizia, sia da scavi ufficiali che da recuperi fuori contesto, descrivono chiaramente la lunghissima frequentazione del sito. I rinvenimenti di strumenti litici in ossidiana in diversi punti dell’area pianeggiante alla base del promontorio inducono a ritenere che un insediamento fosse esistente già nel corso dell’Età del Bronzo, probabilmente collegato a quello individuato in contrada Palme, alcune centinaia di metri a sud-est. Il rinvenimento di ceramiche greche databili a tutto il VI secolo a.C. o anche prima, d’altra parte, impone una rivisitazione delle ipotesi di fondazione di Kalé Akté e probabilmente una nuova visione della presenza greca in

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Per le ipotesi elaborate al riguardo anche sulla base del ritrovamento di materiali di molto antecedenti la metà del V secolo a.C., si veda più avanti: Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca… cit.

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera mentre dalla stessa area provengono alcuni grandi blocchi parallelepipedi di calcare chiaro e numerosi mattonacci. Ricordiamo inoltre che i saggi che identificarono sepolture tardo-antiche sotto il piano della moderna piazzetta non rivelarono resti murari, inducendo a ritenere che in antico questo settore fosse aperto e privo di strutture abitative. Se questo fosse realmente il forum resta tuttavia da ipotizzare una seconda area aperta destinata a funzioni commerciali, da ricercarsi in

prossimità del porto. In base ai rinvenimenti, sia da scavi controllati (area Villetta Comunale), sia da affioramenti in occasione di lavori pubblici e di edilizia privata, in età romana il sito dell’ipotizzato forum in corrispondenza dell’attuale piazza Nunziatella non doveva più trovarsi a margine dell’abitato, ma in posizione più centrale, dopo l’espansione urbana verso est e verso sud in un area che in epoca tardoarcaica e classica dovette essere destinata a necropoli.

Figg. 54-55. Ipotesi di espansione urbana e periurbana (necropoli, insediamenti produttivi) dell’abitato marittimo: in alto dal VI al III secolo a.C.; in basso dal II secolo a.C. al IV secolo d.C.

Fin dall’originario insediamento, l’abitato si sviluppò subito ad ovest del torrente S. Anna, allargandosi progressivamente verso occidente. Ciò era imposto dalla morfologia dell’area, che ad est del torrente presenta ripidi pendii che terminano in prossimità del mare, mentre ad ovest diviene più pianeggiante, con modesti salti di livello. L’intera piana, fino alla foce del fiume Caronia, dovette essere intensamente sfruttata per una serie di attività: oltre a prestarsi bene allo sviluppo del centro abitato, la sua ampiezza consentiva di installare tutta una serie di attività produttive, sia di tipo agricolo che artigianale. Possiamo supporre che fino a tutta

l’epoca ellenistica essa fu interessata solo in limitata parte (nel settore più orientale) dall’urbanizzazione, rimanendo per il resto terreno fertile per l’impianto di colture pregiate con una serie di fattorie a controllo di fondi di piccole dimensioni. La realizzazione del bacino portuale interno nella parte nord-orientale, che ipoteticamente, in mancanza di dati certi, collochiamo all’inizio dell’età imperiale, diede impulso allo sviluppo della città, che si estese su una parte consistente della piana, riservando i terreni restanti ad attività agricole, produttive e commerciali.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Caronia, si osservano in più punti concentrazioni di materiale archeologico (principalmente frammenti di laterizi e ceramiche acrome) in un terreno che tuttavia è stato ampiamente rimaneggiato e in diversi punti colmato con terra allogena. Riteniamo che nel corso dell’età imperiale la città registrò una notevole espansione verso la piana occidentale, sviluppandosi intorno al porto interno, almeno fino a una distanza di circa 700 metri dalla Chiesa dell’Annunziata, per un’estensione complessiva stimabile in circa 20 ettari. Verso monte il suo sviluppo fu precluso dalla presenza della principale area sepolcrale di età romana, attestata più da rinvenimenti occasionali (soprattutto nell’area della Stazione Ferroviaria) che da veri e propri saggi di scavo. Resta in ultimo da analizzare la tipologia abitativa in uso nella città marittima nel lungo arco di tempo in cui essa fu in vita. Purtroppo, l’esiguità degli scavi e l’interro compatto che ricopre i resti abitativi su terreni pianeggianti, non consente di fare delle ipotesi in maniera analoga a quanto constatato nella città collinare, dove i dati dei pochi scavi sistematici sono ampiamente integrati dagli affioramenti di resti per cause naturali o a seguito di lavori pubblici e privati. A ciò si aggiunga l’insufficienza dei dati riportati nei resoconti degli scavi, che si soffermano su altri aspetti della ricerca e di frequente in maniera sommaria. I ritrovamenti sia da scavi sistematici che da ricognizioni consentono al momento solo di ipotizzare lo sviluppo urbano della città marittima. Verifiche importanti su quello che dovette essere uno dei quartieri più importanti e più antichi, corrispondente alla parte più riparata della baia, sono oggi rese impossibili dal sovrapporsi dell’abitato moderno. E’ comunque un’ipotesi che si considera attendibile quella che il primo gruppo di case della cittadina moderna, sorte intorno alla chiesa medievale dell’Annunziata, abbiano rispettato alcune preesistenze costituite da muri ancora affioranti e da percorsi stradali antichi, come suggerirebbe l’allineamento delle strutture ellenisticoromane scavate in contrada Pantano e altre affioranti nelle proprietà Naselli-Di Noto con la moderna maglia urbana dei quartieri Nunziatella e Pantano. Molto probabilmente il primo stanziamento greco occupò l’area immediatamente a ovest di un corso d’acqua (torrente S. Anna), assai favorevole all’occupazione: qui si formava un piccolo golfo in grado di assicurare riparo alle navi, mentre i terreni semipianeggianti consentivano un’agevole occupazione abitativa. Risalirebbe a quell’epoca il primo tracciamento della strada litoranea, il cui percorso sembrerebbe coincidere con quello dell’attuale via Brin. I recuperi di materiali mobili finora noti attestano un’estensione dell’insediamento di VI-V secolo a.C. verso ovest almeno fino alla propr. Barna e verso sud forse fino alla SS 113 in corrispondenza del corso del torrente S. Anna. Gli scavi sistematici in propr. Barna, in particolare, hanno attestato per la prima volta una frequentazione o occupazione stabile di almeno fine VII secolo a.C. (applique di testina femminile in stile dedalico), sicuramente esistente nel corso del VI secolo a.C. come dimostra la presenza, sia nei livelli più profondi raggiunti, sia in terreno rimaneggiato da precedenti lavori agricoli, di ceramiche arcaiche (frammenti di coppe ioniche, di

Verso est, oltre all’area cimiteriale che gradualmente si estese sui pendii retrostanti, lungo la costa troveremo altre strutture di servizio alle attività portuali, come il probabile horreum, portato in luce nell’area della Villetta Comunale, e forse cantieri dove si costruivano o riparavano navi, o ancora stabilimenti artigianali per la lavorazione del pescato. L’immagine che si ricava da una simile ricostruzione è quella di una cittadina brulicante di ogni tipo di attività economica collegata principalmente alla presenza del mare: attività di deposito e smistamento di merci in transito dal Mediterraneo verso la Sicilia e dall’entroterra di questa verso i porti della Penisola e oltre, con presenza, quindi, di numerosi edifici adibiti a magazzini; luoghi per la rivendita di ogni tipo di merce; attività ricettive (thermopolia, locali per il pernottamento); stabilimenti per la lavorazione dei prodotti ittici. Altre attività erano svolte in periferia, come la produzione di manufatti in terracotta, la trasformazione dei prodotti agricoli (frantoi e palmenti), ecc. con un continuo movimento di merci che alimentavano il mercato locale ed in parte erano destinate all’esportazione. La fase di massimo sviluppo della città marittima sembra collocarsi nel corso dell’età imperiale, ma una serie di eventi naturali ne condizionò lo sviluppo. Una cesura è stata accertata dagli scavi in c.da Pantano tra la seconda metà del I e la seconda metà del II secolo d.C., quando l’abitato sembra subire gli effetti di un evento naturale, probabilmente un terremoto, che determinò una contrazione abitativa. Una notevole ripresa è accertata tra il III e la prima metà del IV secolo d.C., fase alla quale possono ricondursi gli abbondanti materiali sparsi in superficie ad ovest della cittadina moderna su una vasta area. Il violento sisma del 365 d.C., assieme ad altri registrati nel corso della seconda metà del IV secolo d.C., determinò l’abbandono di molte strutture ed una notevole contrazione demografica, senza tuttavia comportare il totale abbandono del sito. Al V-VI secolo d.C. possono riferirsi le numerose sepolture intercettate da scavi ufficiali e non e da lavori agricoli nella stessa area un tempo occupata dall’abitato, in maniera molto simile a quanto è stato accertato nella vicina Halaesa, segno evidente di nuove e più modeste modalità insediative. A questa stessa fase è riconducibile lo sviluppo di borghi sorti a distanza dal centro città, come quello scoperto in contrada Chiappe. In ogni caso, la persistenza del toponimo Calacte, talvolta corrotto, nelle opere itinerarie/geografiche di autori tardoimperiali e bizantini, attesta l’esistenza dell’abitato come uno dei pochi degni di menzione sulla costa tirrenica, molto probabilmente per il fatto di trovarsi lungo la principale strada di collegamento della Sicilia settentrionale e disponendo di uno dei pochissimi porti rimasti in attività fino al medioevo. Risulta difficile, infine, definire l’estensione massima della città, soprattutto nel settore occidentale. Il rinvenimento di strutture murarie a seguito di scavi agricoli e la presenza intuibile di fitti livelli archeologici sotto il piano di campagna accerta la sicura estensione dell’abitato di età imperiale fino alla fascia posta circa 200 metri ad ovest delle “Case Salomone” (propr. Di Noto). Da qui, procedendo verso la foce del fiume

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera Pietra Grossa, inoltre, suggeriscono l’esistenza di diversi edifici allineati lungo il percorso della strada costiera, la cui destinazione è in parte da collegare alle attività del porto, in parte ad altre attività produttive (fattorie, stabilimenti per la lavorazione del pesce, fornaci?). La struttura urbana della città dovette essere improntata alla massima regolarità fin dall’inizio, adattandosi a quella dei terreni in cui si sviluppò. Riteniamo che la Via Valeria, che qui assumeva un percorso rettilineo ricalcato dall’odierna via Brin, fosse il vero asse portante dal quale si dipartiva una fitta maglia di strade con andamento nord-sud. Si tratta di ipotesi al momento solo suggerite dall’ortogonalità della cittadina moderna, sorta probabilmente su preesistenze di epoca classica, e dall’orientamento degli edifici finora portati in luce. Gli edifici A e B dello scavo in contrada Pantano sembrano infatti avvalorare questa ipotesi, potendosi considerare la parte avanzata verso la costa di un’insula compresa tra due strade monte-mare. I lembi di muri affioranti in alcuni punti nella campagna a ovest della frazione Marina seguono identico orientamento. Senz’altro di grande importanza ai fini di una prima conoscenza della forma urbana e delle vicende e modalità abitative della Calacte marittima è stata l’indagine di scavo in contrada Pantano, condotta tra il 1999 e il 2005. Si è trattato del primo scavo in estensione eseguito a Caronia e gli esiti sollecitano ulteriori approfondimenti, così come la necessità di ampliare l’area indagata per un completo inquadramento nella maglia urbana degli edifici portati in luce. Una sicura prima fase abitativa è al momento attestata da alcune strutture murarie messe parzialmente in luce al di sotto del cosiddetto Edificio A e sembrerebbero riferirsi a edifici di IV-III secolo a.C. L’Edificio A si daterebbe, sulla base dei materiali rinvenuti e della tecnica costruttiva adottata, all’ultimo terzo del III secolo a.C. Esemplificativa in tal senso è la tecnica con cui fu realizzato il muro esterno dell’ambiente Γ in corrispondenza dell’apertura verso quello che in età ellenistica doveva essere uno spazio aperto: blocchi di pietra locale (ciottoloni di arenaria sbozzati) alternati ad alzati di mattonacci di produzione locale (50 x 34 x 8 cm), secondo una pratica costruttiva ben attestata in entrambi i quartieri di Kalè Akté, collinare e marittimo, tra la seconda metà del III secolo a.C. e il I secolo d.C. L’abbandono dell’Edificio A si daterebbe nella seconda metà del I secolo d.C., mentre una completa ripresa abitativa si ha quasi un secolo dopo. Con la realizzazione dell’Edificio B, si crea uno stretto ambitus per cui l’apertura verso l’esterno dell’ambiente Γ diviene superflua e viene adesso tampognata. In realtà, l’organizzazione dell’intero edificio viene modificata e si provvede a costruire nuove pareti interne, riducendo l’ampiezza di alcuni ambienti. La tecnica con cui vengono ristrutturati o realizzati i muri non è molto diversa da quella con cui essi vennero alzati nel mediotardo ellenismo, basandosi sul largo impiego di pietra locale e laterizi. Se i pavimenti dell’edificio precedente erano in gran parte in semplice battuto o cocciopesto, adesso si provvede a foderarli con mattonacci.

probabile ceramica corinzia, di coppe imeresi tipo Iato K480, ecc.). Ancora recentemente, nel terreno asportato dallo scavo, chi scrive ha osservato, oltre a schegge di ossidiana, frammenti ceramici di epoca arcaica, tra cui ad esempio un bordo di coppa ionica, databile nella prima metà del VI secolo a.C. (fig. 57). E’ ancora un’ipotesi in attesa di verifiche concrete che la prima area di necropoli sia stata insediata subito ad est dello stesso torrente, davanti alla spiaggia (aree Villetta Comunale – Discesa Erei). I rinvenimenti di ceramiche di IV-III secolo a.C. in propr. Di Noto e verso via S. Anna dimostrano che in età ellenistica l’abitato si era già esteso verso ovest utilizzando i terreni della piana alluvionale corrispondente all’attuale contrada Pantano. Livelli di occupazione di II-I secolo a.C. nell’area della Villetta Comunale, infine, attestano un’espansione graduale anche verso est, ai margini della spiaggia e lungo il percorso della strada costiera, su terreni precedentemente adibiti a necropoli, stavolta non a scopo abitativo ma in funzione delle attività del porto (magazzini, officine di manutenzione, ecc.).

Fig. 56. Frammento di coppa ionica B1 (o B2) da c.da Pantano

All’abbandono della città collinare verso la fine del I secolo d.C. sembra corrispondere il periodo di massimo sviluppo dell’abitato costiero, divenuto ormai il vero centro cittadino, anche politico e culturale. A questa fase andrebbero quindi riferiti i principali monumenti che ancora attendono di essere identificati sul terreno e che il rinvenimento di materiali sporadici (grandi blocchi di calcare riferibili a edifici monumentali, di frammenti di colonne e capitelli, statue (?) suggeriscono di cercare nell’area dell’attuale Chiesa dell’Annunziata e più a ovest, nella fascia a mezza costa compresa tra le proprietà Naselli e Di Noto. In ogni caso, i rinvenimenti sia da scavi sistematici che da ricognizioni di superficie attestano la massima espansione della città tra la fine del II e il V secolo d.C., quando essa si sviluppa ampiamente verso la piana in direzione del fiume Caronia per un’estensione ipotizzabile, in base all’area di dispersione e affioramento di materiali, in oltre 30 ettari, esclusa l’area del bacino portuale che probabilmente venne aperto nel corso dell’età imperiale. Rinvenimenti di materiali sia edilizi che ceramici su una lunga fascia a margine della spiaggia, tra l’area del torrente S. Anna e la contrada

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia è una struttura in blocchetti di pietre delimitata da laterizi, di incerta datazione, mentre poco distante è un piano di mattoni rettangolari e circolari. Probabilmente a fine III secolo si realizza la canaletta di scolo delle acque che dal cortile K si dirigeva verso l’esterno dell’edificio a est, originariamente ricoperta dalla pavimentazione in mattoni US33. Va comunque tenuto conto del fatto che è questo uno dei settori maggiormente danneggiati dagli interventi di profonda “aratura” precedenti lo scavo, per cui la lettura dei resti risulta molto difficoltosa. Basti pensare che già negli scavi del 1999 fu portata in luce parte di un ambiente tardo (muri W5-W6 dello scavo GoranssonLindhagen), 63 disposto trasversalmente sopra i muri dell’Edificio A tra gli ambienti Z, E e K, che i mezzi meccanici hanno completamente distrutto nella parte est e nell’angolo ovest.

Fig. 57 Contrada Pantano. Planimetria dell’area di scavo 1999 (da Lentini, Goransson, Lindhagen 2002)

Fig. 58. Bozza ricostruttiva in 3D degli edifici portati in luce in c.da Pantano, fase di età imperiale

Interessante appare l’evoluzione dell’ambiente centrale K, che costituiva un cortile aperto attorno al quale si disponevano gli altri vani. In età ellenistica doveva avere un piano in cocciopesto che nella media età imperiale venne sostituito da un lastricato di mattoni. Rimane sul lato orientale di questo ambiente parte della pavimentazione in laterizi (US33), purtroppo assai danneggiata dagli interventi con mezzi meccanici che interessò i terreni prima dello scavo 2003-2005. Essa si daterebbe almeno alla fine del III secolo d.C. per la presenza, nella terra sottostante, di materiali dello stesso secolo, tra cui un bordo di anfora Tripolitana III. 62 In realtà, sembrerebbe che questo spazio interno di disimpegno abbia ricevuto diversi interventi di manutenzione tra la ricostruzione a fine II secolo e l’abbandono negli ultimi decenni del IV secolo: al centro 62

Figg. 59-60. Contrada Pantano. Ripresa degli scavi nel corso del 2003: in alto, veduta da sud dello scavo con in primo piano l’Edificio B; in basso, scavo all’interno dell’ambiente K con piattaforma in blocchetti di pietra cui si sovrappone quanto resta dei muri W5-W6, isolati all’interno di spezzoni di laterizi

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Verifiche post scavo a cura dell’autore

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Lentini, Goransson, Lindhagen 2002, p. 89

Ricerche nell’area urbana II: la città costiera

Figg. 61-62. Vedute aerofotogrammetriche dei resti portati in luce in propr. Barna: a sinistra, settore sud-ovest con thermopolium e ambienti occupati fino a età bizantina (a destra nell’immagine); a destra, edifici disallineati di incerta funzione a ovest del portico dell’Edificio A. (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

secondo report, considerato che nella stessa area si datano almeno al IV secolo a.C. l’ambiente P e al III-II secolo a.C. l’ambiente T, non scavati nel 1999. Resta comunque da chiarire la funzione di questi edifici, che si susseguono dal IV secolo a.C. al tardoantico, sempre in posizione trasversale rispetto agli edifici principali A e B, probabilmente perché collegati ad altri edifici presenti nel settore non scavato a nordovest che rispettavano forse l’andamento in questo tratto della linea di costa da sud-est a nord-ovest. In definitiva, ciò che appare evidente dalle ricerche in contrada Pantano è la lunga frequentazione dell’area, almeno dalla fine del VII secolo a.C. e fino alla prima età bizantina, senz’altro favorita dalla vantaggiosa posizione in una piana protetta a ridosso del porto e in stretta relazione funzionale con esso.

Di incerta interpretazione appare invece il cosiddetto Edificio B, di molto successivo all’Edificio A ma con questo perfettamente allineato. La sua interpretazione come possibile thermopolium è dovuta al rinvenimento, intorno ad una sorta di piano d’appoggio nella parte nord-est, di molta ceramica da fuoco e di cospicue tracce di bruciato. La banchina presenza peraltro una cavità interpretata come funzionale a tenere in caldo i cibi. A questo edificio si accedeva attraverso una soglia posta proprio davanti al citato ripiano, lasciando immaginare come l’avventore entrasse e si trovasse davanti una cucina in funzione. L’esatta datazione di questo edificio non è di semplice definizione, sebbene i materiali rinvenuti nei livelli più profondi ne facciano risalire una prima realizzazione nel II secolo a.C., probabilmente in stretta relazione funzionale con l’edificio dirimpetto. Dopo una fase di abbandono tra la seconda metà del I e la seconda metà del II secolo d.C., si costruisce sulle stesse fondamenta del precedente il probabile thermopolium, che viene abbandonato nella seconda metà del IV secolo, come suggerisce la cronologia dei materiali rinvenuti sotto il crollo della tettoia. Più complessa è la situazione di una serie di costruzioni scavate nell’angolo nord-ovest del saggio. Difficoltosa è la comprensione della loro planimetria e dell’avvicendarsi nel giro di alcuni secoli nella stessa area ma in posizioni leggermente diverse. A ciò si aggiungono alcune contraddizioni tra i dati editi dello scavo 1999 e di quello del 2003-2005. Gli archeologi svedesi datarono il muro W3, che farà poi parte dell’ambiente Σ, almeno al II secolo a.C., con evidenze di distruzione intorno alla metà del I secolo d.C. Ciò in base al rinvenimento di molta sigillata italica nei livelli di distruzione, mentre il manufatto più antico rinvenuto all’interno dell’ambiente è un frammento di anfora greco-italica. Nel report di Bonanno, invece, l’ambiente Σ apparterrebbe al V secolo d.C.! Propendiamo per la datazione di molto anteriore considerando che il primo scavo si svolse su contesti integri, a differenza di quello successivo. Peraltro, potrebbe anche trattarsi di un errore di esplicazione nel

I materiali E’ impossibile avere traccia di tutto il materiale mobile affiorato nel corso dei decenni nell’area della città antica. E’ noto il rinvenimento diffuso di monete, soprattutto di epoca romana, su una vasta area che dal quartiere della Nunziatella si sviluppa fino alla contrada Sugherita ad ovest. Serio 64 riporta notizia di alcuni materiali recuperati da discariche di terreno asportato nei decenni passati dall'area urbana di Marina di Caronia: si segnalano, in particolare, frammenti di ceramica attica databili all’intero V secolo a.C., 65 un’ansa di anfora greco-italica con bollo ΑΝ∆Ρ(ΟΝΟΣ?) e due frammenti di sigillata italica con bollo di L. Rasinus Pisanus e di Optatus, mentre da probabile contesto funerario proverrebbe una lucerna di III-II secolo a.C. rinvenuta nell’area della foce del torrente Nivale. I materiali provenienti dagli scavi eseguiti a più riprese, tra gli anni ’80 del secolo scorso e gli anni 2000, sono quasi del tutto inediti. Una prima selezione, assai 64 65

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Serio 2013 Alcuni frammenti sono presentati in Lindhagen 2006

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia significativa, dei materiali provenienti dallo scavo 19992001 in c.da Pantano, è stata invece pubblicata dagli scavatori e comprende materiali databili dal V secolo a.C. ad epoca tardoantica. Si segnalano, tra gli altri, un frammento di probabile coppetta corinzia e una porzione di anfora Corinzia A che potrebbero essere datati già alla fine del VI secolo a.C. Una seconda selezione, che tuttavia non comprende intere classi ceramiche fino alla media età ellenistica, è contenuta nel report degli scavi eseguiti sempre in c.da Pantano tra il 2003 e il 2005.66 Tra i materiali più antichi, è noto il rinvenimento di frammenti di coppe ioniche e di coppe tipo Iato K480,67 databili nel corso del VI secolo a.C. Tuttavia, i materiali quantitativamente più rappresentati si riferiscono all’ultima fase di occupazione stabile dell’area, tra III e IV secolo d.C., sebbene non manchino numerose attestazioni più tarde, fino alla fine del V – metà del VI secolo d.C. Delle centinaia di cassette di materiali estratti nel corso degli scavi 2003-2005, nella relativa pubblicazione è riportata una limitata selezione comprendente 189 reperti, dal vasellame alle anfore ai manufatti in metallo.68 Tra di essi, alcuni meritano di essere ricordati per la loro preziosità non solo intrinseca ma anche ai fini dello studio della cultura materiale di questo abitato tra l’epoca ellenistica e il tardoantico. Ci riferiamo, ad esempio, ad un anello in oro con castone in corniola su cui sono incise le lettere LVE, datato tra I secolo a.C. e I d.C. 69 ed all’applique con testina femminile in stile dedalico70 rinvenuta in terreno rimaneggiato, riferita alla fine del VII secolo a.C., finora l’oggetto più antico proveniente dal sito costiero. Occorre segnalare inoltre un mattone con bollo identico a IG XIV 2395.7, il cui nesso di lettere è interpretabile come “(mattone) pubblico dei Calactini. Sacro”, che conferma quanto già a suo tempo ipotizzato 71 circa una produzione su commissione pubblica di materiali da impiegare in opere dello Stato Calactino nel corso dell’età ellenistica (in particolare, un acquedotto che dall’entroterra giungeva in città, databile tra III e II secolo a.C.). Le classi vascolari di epoca ellenistica e altoimperiale presentate, comprendenti ceramiche a vernice nera, anche con decorazione sovradipinta, coppe megaresi, sigillate italiche e ceramiche da cucina, trovano puntuale riscontro con i materiali noti dalla collina di Caronia. Ampiamente attestate e recuperate in notevoli quantità sono le ceramiche databili tra III e V secolo d.C., fase di intenso utilizzo delle strutture scavate, che assieme alle importazioni dall’Africa vedono un uso considerevole e quasi superiore di manufatti di produzione locale, comprese le caratteristiche anfore tipo Termini Imerese 151/354. In generale, il materiale è stato rinvenuto in

condizioni frammentarie, seppure in molti casi ricomponibile. E’ pertanto necessario uno studio sistematico ed esaustivo, con edizione anche dei reperti di fase più antica non associati a precisi livelli d’uso e di quelli di fase ellenistico-romana assegnabili a ipotizzabili fabbriche locali, che di per sé consentano di ricostruire la lunga vita dell’abitato e di accertare canali commerciali esistenti e attività economiche locali. Appare significativo, pertanto, esporre in questa sede una serie di materiali che, seppure di rinvenimento fuori contesto, offrono importanti spunti di studio ai fini di un inquadramento della città all’interno dei canali commerciali in atto nell’antichità e, soprattutto, allo scopo di fissare una cronologia di quello che non appare essere un semplice quartiere marittimo della Kalé Akté collinare, bensì un insediamento rispetto al primo antecedente di almeno un secolo e mezzo. Fu una sorpresa, nel corso degli scavi 2003-2005 il ritrovamento di una porzione di statuina in stile dedalico, di probabile produzione coloniale, datata alla fine del VII secolo a.C. Il rinvenimento, inaspettato, propose nuove ipotesi non solo sulla nascita della nostra città, ma anche sulla effettiva presenza greca lungo la costa settentrionale della Sicilia, tradizionalmente ritenuta esclusa da tentativi di colonizzazione prima della stessa fondazione mista siculo-greca di Kalé Akté. Nel corso di quegli scavi furono rinvenuti, sia in terreno rimescolato che in alcuni saggi in profondità, 72 frammenti ceramici che, seppure non associati a resti di strutture, sembravano collocarsi in un orizzonte temporale antecedente la tradizionale data del 446 a.C. per la fondazione della città. Restiamo in attesa di uno studio sistematico e di una edizione di quei materiali che, tuttavia, hanno trovato nel frattempo un confronto nel rinvenimento fuori contesto, da parte di chi scrive, di altri materiali databili già al VI secolo a.C. Si tratta di frammenti provenienti da una discarica di terreno asportato probabilmente negli anni ’70-80 del secolo scorso per la costruzione di edifici abitativi nell’area compresa tra il quartiere Nunziatella e la contrada Pantano. I cumuli, in verità, comprendono materiali eterogenei la cui cronologia spazia dal VI secolo a.C. all’età imperiale, testimonianza di una lunga occupazione dell’area da cui provengono. I materiali più antichi, seppure molto frammentari, comprendono ceramiche corinzie, attiche e di produzione coloniale, collocabili cronologicamente tra VI e V secolo a.C. In uno dei cumuli, peraltro, sono state recuperate diverse lame di ossidiana, indizio di una frequentazione anche in epoca preistorica. Già Lindhagen, nel suo volume del 2006, aveva presentato sinteticamente alcuni frammenti da collezione privata, provenienti da una discarica contenente terreno depositato alcuni decenni fa davanti la spiaggia. Si trattava, tra gli altri, di un frammento di cratere attico contenente una parziale decorazione a vernice nera, della parte inferiore di uno skyphos di tipo corinzio con fascia decorata da filettature verticali, di un frammento di coppa Iato K480 e di un’interessante porzione di coppetta attica con decorazione stampigliata a fila di piccole civette. I

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Bonanno 2008 Non pubblicati. Comunicazione di A. Lindhagen che ha visionato alcuni materiali custoditi presso i depositi della Soprintendenza 68 Bonanno 2008, 47-58 69 Bonanno 2008, tav. XVIII n. 26 70 Bonanno 2008, tav. XVIII n. 21 71 Scibona 1971, 21-25. Circa l’interpretazione del nesso di lettere contenute nel bollo, si ritiene senz’altro accettabile, avendo lo studioso esaminato il bollo e individuato tutte le lettere del nesso, quella proposta da Scibona rispetto a quella di Fiore, per cui esso è da leggersi [ΚΕΡΑΜΟΣ] ∆ΑΜΟΣΙΟΣ ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ ΙΕΡΟΣ 67

72 Saggi limitati sono stati condotti all’interno dell’ambitus tra gli Edifici A e B e nel c.d. Saggio 4. Comunicazione F. Sudano

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera materiali si datavano chiaramente tra gli ultimi decenni del VI e tutto il V secolo a.C. Il rinvenimento di un piccolo frammento di coppa con identica stampigliatura a forma di civetta nella discarica esaminata da chi scrive fa ipotizzare che anche i materiali presentati da Lindhagen provenissero dallo stesso sito, evidentemente scavato e con materiale smaltito in due luoghi diversi alla periferia di Marina di Caronia, essendo peraltro sostanzialmente identica la cronologia dei materiali rinvenuti in entrambi.

italiche, erano presenti alcuni strumenti in bronzo e piombo impiegati per la riparazione di reti da pesca ed alcune vertebre di tonno. Relativamente abbondante è la ceramica attica, pertinente soprattutto a skyphoi, sia di tipo attico che di tipo corinzio, a vernice nera nelle due varianti a riflessi metallici o lucente, con forme inquadrabili nel corso del V secolo a.C. o anche alla fine del VI. Molto attestato è il vasellame di tradizione ionica, anche di produzione greco-orientale, caratterizzato da decorazione a bande solitamente di colore nero o rosso, inquadrabile tra la seconda metà del VI e la prima metà del V secolo a.C. Alla stessa fase appartengono tre lucerne frammentarie, mentre alcuni piccoli frammenti di ceramiche attiche figurate possono essere assegnati al pieno V secolo. 75 Alcuni minuti frammenti di ceramica corinzia non riferibili a forme precise possono essere datati anche alla seconda metà del VI secolo a.C. Un esame dettagliato di questi materiali compresi tra epoca greca tardoarcaica e altoclassica è contenuto appresso in questo volume.76 Il deposito contiene anche materiali riferibili ad un periodo compreso tra il IV secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C., tra cui si segnalano alcune coppette, skyphoi, piattini, coppe skyphoidi riconducibili a quelle dell’Area dello Stretto con decorazioni sovradipinte (“concavoconvesse”) oltre, come detto, a numerosi esemplari di anfore greco-italiche databili tra IV e II secolo a.C. Tra i contenitori da trasporto si segnalano anche esemplari di anfore puniche e Lamboglia 2 mentre un unico esemplare frammentario di anfora tipo Termini Imerese 151/354 attesta l’ultima fase di frequentazione dell’area a suo tempo scavata. Va comunque rilevato che il materiale contenuto nel terreno successivo alla fine del IV – primi decenni del III secolo a.C. è relativamente limitato in confronto a quello di V-IV secolo e ciò potrebbe essere imputabile a fattori diversi, dall’abbandono (poco probabile) del relativo sito di provenienza dopo un evento traumatico alla più probabile precedente asportazione dei livelli più superficiali di terreno, contenenti i resti dell’abitato dal III secolo a.C. in poi. Tra i materiali più recenti si menziona anche un bollo rettangolare in sigillata italica “L. TI. TI”, pertinente probabilmente ad una patera, riferibile al ceramista aretino L. Titius attivo tra il 15 a.C. e il 30 d.C.77 In ogni caso si rileva la preponderante presenza di materiale anforico, che da solo costituisce circa il 75%

Figg. 63-64.. Selezione di materiali arcaici e classici (seconda metà VI – prima metà IV secolo a.C.) dalla discarica in c.da Pantano. In alto, tra gli altri. ceramiche ioniche, attiche e calcidesi: in basso, frammenti di skiphoi attici (V secolo a.C.)

All’interno del terreno di riporto si conservavano frammenti ceramici databili soprattutto tra l’inizio del V e la seconda metà del IV secolo a.C. Pochi i materiali successivi alla metà del III secolo a.C., tra i quali si segnalano comunque diversi esemplari di anfore grecoitaliche Tra i materiali di epoca tardoarcaica e classica, oltre alle ceramiche e ad una grande quantità di frammenti di anfore commerciali, tra le quali si segnalano esemplari di contenitori punici,73 uno di Corinzia A, uno di Corinzia A’ e alcune Corinzie B, diversi di grecooccidentali (“ionio-massaliote”, “pseudo-chiote”, o MGS II) 74 , e per quella ellenistica soprattutto anfore greco-

“greco-occidentali” arcaiche e classiche, variamente comprese nella letteratura nelle classi MGS II di Vandermersch 1994, “ioniomassaliote” o “pseudo-chiote”, sebbene gli esemplari più antichi andrebbero meglio inquadrati tra le Corinzie B arcaiche o le Massaliote vere e proprie. La presenza di produzioni anforiche da Corinto, scaglionate tra gli ultimi decenni del VI e la metà del V secolo a.C. è indicativa dell’esistenza di canali commerciali ben precisi tra quella città greca e le colonie siciliane sulla costa tirrenica. 75 Si segnalano due frammenti di uno stesso cratere a colonnette, di cui si conserva parte di una decorazione principale non interpretabile e una decorazione accessoria a fascia verticale con puntinature. La datazione si colloca nel secondo terzo del V secolo a.C. 76 Approfondimenti: Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca… cit. 77 Si ringrazia per la definizione del marchio il dott. S. Cascella. Rif. bibl.: Cvarr 2000 n. 2203.1, pp. 444-445

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Di particolare interesse è il rinvenimento di alcuni bordi di anfore arcaiche databili già alla prima metà del VI secolo a.C. 74 Come verrà meglio descritto a seguire in questo volume, la categoria di anfore commerciali maggiormente rappresentata è costituita dalle

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia del totale rinvenuto nella discarica. Il periodo a cui esso si riferisce spazia dalla prima metà del VI secolo a.C. (bordi di anfora punica tipo Ramòn T-10.1.2.1) al II secolo a.C. (greco-italiche tarde e un bordo di Lamboglia 2). Tale circostanza appare indicativa per risalire al contesto di origine, probabilmente da riferire a strutture adibite a magazzini o a rivendite commerciali, sebbene la presenza di alcuni esemplari di vasellame di lusso, tra cui citiamo quelli di produzione attica a figure rosse di V secolo a.C., faccia propendere per quest’ultima ipotesi. La preponderante presenza di anfore commerciali di varie epoche, comunque, è un importante indizio in favore dell’interpretazione dell’insediamento arcaico-classico non come semplice abitato ma piuttosto quale emporion sulla rotta dei traffici marittimi tra le due colonie greche di Himera e Zancle. La ricognizione eseguita antecedentemente l’esecuzione degli scavi in proprietà Barna e Scrimizzi ha portato all’osservazione di numerosi manufatti frammentari, la cui cronologia spazia tra il V-IV secolo a.C. e l’epoca bizantina. La classe più numerosa è quella della ceramica comune di età imperiale, ma non mancano frammenti di ceramiche a vernice nera e di sigillata italica. Frequente è stato, da sempre, il rinvenimento di monete, recuperate da privati nel corso degli anni ed oggi non esaminabili. Si rileva, anche in questo caso, la prevalente presenza di denari romani. In generale, i ritrovamenti di superficie, per forza di cose, si datano prevalentemente ad età imperiale, essendo quella la fase generalmente contenuta negli strati superficiali di terreno sottoposti ad aratura. Solo in rari casi dal terreno rimescolato sono affiorati frammenti di età ellenistica e, ancora meno, di epoca greca classica. Pertanto, di seguito si descrivono solo pochi materiali da ricognizione, rinviando, per una conoscenza delle attestazioni di cultura materiale quantomeno per la fase compresa tra il III secolo a.C. e la fine dell’età romana, alle pubblicazioni di Bonanno e di Lentini, Goransson, Lindhagen, rispettivamente per gli scavi 2003-2005 e 1999-2001 in contrada Pantano.78 In particolare, nel settore corrispondente alle proprietà Barna-Scrimizzi-Fava (contrada Pantano), tra i materiali da ricognizione o rinvenuti da privati, di cui si ha notizia, ricordiamo numerosi frammenti di Campana A, di ceramica a vernice rossa anche di produzione locale, di sigillata italica, alcuni con bollo in planta pedis, di sigillata africana A e D, manufatti in metallo ed un particolare timbro fittile contenente una matrice di difficile interpretazione, con una serie di linee incise con andamento diverso, per il quale non è stato possibile trovare confronti (fig. 69a-b). Sporadici i frammenti ceramici antecedenti il IV secolo a.C., mentre la fase principale attestata corrisponde al periodo compreso tra II secolo a.C. e I secolo d.C., oltre naturalmente a quello di media-tarda età imperiale. Da terreno rimaneggiato in profondità all’esterno dell’area del saggio in propr. Barna provengono alcuni materiali assai interessanti per la loro cronologia. Si

segnalano, in particolare, diverse schegge o scarti di lavorazione di ossidiana, che attestano una frequentazione dell’area probabilmente nell’Età del Bronzo. Frammenti di fabbrica greca arcaica e classica di piccole dimensioni, riferibili tra gli altri a coppe ioniche, coppette e lucerne, confermano la presenza di genti greche per tutto il VI secolo a.C., sebbene ne sia confermato lo stazionamento già nel secolo precedente.79 Tra gli altri materiali presenti in questo fondo, come nel contiguo terreno di propr. Scrimizzi-Fava, riferibili ad un lunghissimo arco di tempo con prevedibile maggioranza di ceramiche di età imperiale, si segnalano frammenti di ceramiche a vernice nera, soprattutto in Campana A e C, di coppe megaresi decorate a rilievo, di presigillata, di sigillata orientale A, di sigillata italica e di sigillata africana. Non mancano i vetri, i manufatti in metallo e le monete, prevalentemente di età imperiale. Un’ultima considerazione riguarda la diffusa presenza di vasellame di produzione locale in tutta l’area dell’abitato antico, riferibile alla media e tarda età imperiale. L’esistenza di officine che producevano svariati tipi di contenitori, che richiamavano in parte forme e caratteri stilistici delle produzioni africane, sembra avere limitato l’importazione quantomeno del vasellame fine da mensa (sigillate), tanto che dalle ricognizioni di superficie si è osservata una netta differenza quantitativa tra produzioni locali e vasellame importato. Questa considerazione è già accennata nel report degli scavatori di contrada Pantano, seppure si resti in attesa di un esame sistematico di tutto il materiale recuperato. In particolare, si è osservato come “a partire dalla metà del IV e nel V secolo d.C. le importazioni soprattutto dall’Africa, prima molto frequenti, cominciano a diminuire, mentre aumenta la presenza di forme ceramiche e di anfore di produzione locale”.80 E’ nota l’esistenza di fornaci in piena attività al termine dell’età imperiale, come quelle di c.da Chiappe, dove si producevano, oltre alle caratteristiche anfore vinarie più volte menzionate, contenitori per la cucina e la mensa, ma altre ne dovevano esistere – in un sito ricchissimo di materia prime come argilla, acqua e legna per alimentare il fuoco – fin da epoca ellenistica, che costituirono una alternativa economica ai prodotti importati, soprattutto per ciò che riguarda il vasellame d’uso comune. Questa circostanza, per la media e tarda età imperiale, si pone in antitesi rispetto a quanto è emerso dalle ricerche nella vicina Halaesa, dove invece le importazioni di vasellame fine da mensa di produzione africana risultano molto abbondanti. Ciò potrebbe corrispondere sia a diversi livelli di disponibilità economiche tra gli abitanti delle due città, soprattutto in una fase storica di generalizzata crisi, sia al differente sviluppo che ebbe l’artigianato locale nei due siti81.

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Bonanno 2008, pp. 13, 80 e tav. XVII, fig. 21 Bonanno 2008, 45 81 Nonostante siano ormai diverse le pubblicazioni sugli scavi di Halaesa, non esistono edizioni sistematiche dei materiali né è mai stata avanzata l’ipotesi circa l’esistenza di produzioni locali, in particolare di vasellame ceramico 80

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Si vedano, in particolare, Bonanno 2008 pp. 29-58 e Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 pp. 94-105, oltre ai materiali presentati in Lindhagen 2006

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera

Fig. 65-69. Materiali da ricognizione in c.da Pantano (propr. Scrimizzi-Fava-Barna-Naselli), che attestano la lunga frequentazione dell’area almeno dal IV secolo a.C. fino al tardoantico. In alto: da sinistra a destra, frammenti di ceramiche di epoca classica, ellenistica, romana imperiale e protobizantina. A sinistra sono compresi un frammento di placchetta in bronzo con cerchielli incisi e un frammento di coppa in vetro. In basso: cardine di porta in piombo; frammenti di ceramiche ellenistiche decorate (a destra, probabile frammento di coppa megarese); timbro fittile con figura non chiaramente interpretabile, probabilmente di prima età imperiale, dalla propr. Barna (collezione privata); ansa di anfora con bollo VENI.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

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Figg. 70-79. Materiali recuperati dalla discarica in contrada Pantano. 1. Schegge e lame di ossidiana (Età del Bronzo); 2. Frammento di fondo di coppa a vernice nera con decorazione graffita nella parte interna (fine V – IV secolo a.C.); 3. Bordo di piattino con decorazione incisa prima della cottura (IV secolo a.C.); 4-6. Materiali attinenti attività marinare: amo in bronzo e strumenti in bronzo e in piombo per la riparazione di reti da pesca (V-I secolo a.C.); 7. Vertebre di tonno; 8. Bordo di anfora grecoitalica (III secolo a.C.); coppa a vernice nera a profilo concavo (IV secolo a.C.); 10 fondo di patera in sigillata italica con bollo in planta pedis L. TI. TI del ceramista aretino L. Titius (prima metà I secolo a.C.)

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera L’esame delle ceramiche prodotte nelle fornaci di contrada Chiappe, attive probabilmente a partire dal III secolo d.C. e in attività almeno fino al V, ha suggerito che qui non si producessero solo le caratteristiche anfore vinarie del tipo Termini. Tra gli scarti di lavorazione si contano centinaia di frammenti di vasellame d’uso comune (ceramica da fuoco, olle, bacini, olpi, ecc.) aventi caratteristiche ricorrenti: argille molto compatte di colore arancio, ricchissime di inclusi sabbiosi e di quarzite di vario tipo e dimensione, identiche a quelle dei frammenti presenti sul soprassuolo della piana ad ovest dell’abitato di Marina di Caronia. Sebbene non siano al momento noti i siti di altri laboratori ceramici, è ipotizzabile che nel territorio fossero attive in epoca romana altre fornaci, in quanto non è ipotizzabile che il solo atelier di contrada Chiappe riuscisse a smaltire da solo la grande richiesta di prodotti da parte non solo della città marittima, ma anche dei numerosi borghi rurali esistenti nel tardoantico, dove si incontrano analogamente frammenti con le stesse caratteristiche. Potrebbe darsi che l’altra fornace individuata in contrada Sugherita non si limitasse a produrre solo laterizi, ma anche vasellame, come potranno eventualmente rivelare in futuro ricerche sistematiche in quel sito.

passato, quando ancora non erano stati realizzati gli interventi di bonifica dei primi decenni del ‘900 che risanarono quella che era un’area di palude. Si tratta del cosiddetto “pantano”, che dà il nome all’intera contrada: fino agli inizi del XX secolo qui esisteva uno stagno con vegetazione palustre, che non si prosciugava interamente nemmeno nei mesi estivi. Il pericolo di infestazioni malariche suggerì una bonifica dell’area, realizzata attraverso l’apertura di canali di deflusso dell’acqua ed il successivo massiccio impietramento dello stagno, con un significativo innalzamento del livello; la creazione di un cordolo di pietrame davanti alla spiaggia doveva impedire inoltre alle mareggiate di raggiungere l’area prosciugata. Nonostante questi interventi, tuttavia, ancora oggi l’area si riempie d’acqua nei mesi invernali, perdurando fino alla tarda primavera. Una tale circostanza suggerisce che la parte inferiore dell’ampia cavità presenti elevate caratteristiche di impermeabilità che non consentano l’assorbimento dell’acqua in eccesso. La presenza di quest’area depressa nella parte di piana più prossima alla città antica ha da sempre fatto ipotizzare che si trattasse di un bacino portuale interno, parte di un più ampio complesso di strutture marittime a servizio di Calacte. L’indagine oggi risulta assai difficoltosa per la presenza del riporto di pietrame nella parte centro-orientale della depressione, mentre in quella occidentale si osserva uno strato di terreno misto a ciottoli quasi del tutto sterile dal punto di vista archeologico. Agli interventi di bonifica di quasi un secolo fa, si sono aggiunti, negli anni ’60, ulteriori riporti di terra e trasposizione di pietrame da parte dei proprietari del vasto fondo agricolo Di Noto, per cui occorre tenere conto delle attività umane intraprese nell’intero ultimo secolo per ricostruire la morfologia originaria di quest’area. Non sono mai state eseguite indagini archeologiche per accertare l’esistenza di strutture interrate sulla terraferma, rese peraltro molto complesse dalla presenza del notevole impietramento che ha sigillato eventuali resti antichi su un’area di oltre 4 ettari nella parte più vicina alla costa. La porzione di fondale antistante il tratto settentrionale della piana è caratterizzato da una serie di strutture rocciose naturali con andamento nord-sud, protese fino ad una distanza di oltre 250 metri dalla riva. Si tratta di almeno 27 scogliere con andamento rettilineo, di larghezza variabile tra 12 e 25 metri, separati da spazi liberi ampi 15-20 metri interamente insabbiati sul fondo. Gli scogli si trovano a profondità variabili tra 1 e 4-5 metri e, nel complesso, coprono un’area di oltre 20 ettari. Il profilo con cui si dispongono ripete grosso modo quello della terraferma, apparendo come una piattaforma che prolunga il promontorio verso nord. L’indagine subacquea 83 ha rivelato che si tratta della tipica roccia stratificata che caratterizza le scogliere di questo tratto di litorale, quasi interamente coperta da colonie di posidonie. Gli spazi tra le scogliere lineari non risultano indagabili per la presenza di sabbia. Non sono stati rilevati tagli artificiali ma solo evidenze di erosioni secolari di tipo naturale.

Il porto di Calacte Nessuna fonte di epoca classica cita il porto di Kalè Akté – Calacte. L’unico accenno, piuttosto tardo, risale a Edrisi (XII secolo), che ne menziona anche la tonnara. Per il tratto di costa in questione è noto invece il porto di Halaesa, grazie al quale peraltro la città aumentò la sua prosperità.82 L’esistenza di un porto molto antico nella baia in cui sorge oggi la frazione di Marina di Caronia è suggerita, oltre che dalla morfologia dei luoghi - sebbene essa appaia oggi diversa da quella che doveva avere in passato - anche dal passo di Erodoto riferito al fallito tentativo di insediare una colonia Samia all’inizio del V secolo a.C. in un sito dotato di un approdo naturale, come suggeriva il nome stesso del luogo. Il promontorio pianeggiante che si estende tra l’odierno quartiere della Nunziatella a Caronia Marina e la foce del fiume Caronia presenta un’ampiezza di circa 80 ettari, con livelli altimetrici che variano da 0 a 15-20 metri s.l.m., che non superano tuttavia l’altezza massima di 5 metri nell’intero settore nord-orientale. Si tratta di depositi fluviali formatisi nel corso dei millenni grazie all’apporto di sedimenti da parte del fiume Caronia, con un limitato strato di interro che ricopre quanto resta dell’antica battigia in ciottoli e sabbia, identica a quella che caratterizza l’intero tratto di costa di Caronia. Nel settore nord-orientale di questa piana è ben distinguibile un’area di forma trapezoidale che si caratterizza per un livello altimetrico inferiore rispetto ai terreni circostanti (1-2 metri rispetto a 4-5 metri), oggi meno apprezzabile che in

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Diodoro Siculo 14.16.3 (prosperità di Halaesa grazie ai traffici marittimi); Cicerone, In Verrem 2, 2, 185 (in quanto exitus maritimus, Halaesa pagava a Roma il portorium); 2.3. 171 e 192 (Halaesa è preposta per la deportatio ad aquam del grano proveniente dall’entroterra)

83 Indagine condotta personalmente con la collaborazione dei subacquei professionisti S. Ferraro e G. Lino

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 80. Veduta del promontorio di Marina di Caronia: quartiere Nunziatella e area del “Pantano”, dal Belvedere Santuzza

di eventuali moli che le secolari mareggiate avevano già distrutto, in un tratto di costa molto esposto e con forti correnti. Per tentare una ricostruzione dell’assetto del porto antico, sia relativamente alle strutture protese in mare che a quelle inerenti il bacino interno, occorre tenere conto della morfologia dell’area come appariva oltre due millenni fa, tentando dei confronti con altri similari siti portuali fin qui studiati scientificamente, come ad esempio quelli del Lechaion di Corinto e di Kyllene, sempre in Grecia. In entrambi i casi si trattava di porti articolati in moli e banchine costruite in mare e specchi d’acqua ricavati nella terraferma, collegati al mare attraverso canali. Il complesso portuale del Lechaion, 84 approdo settentrionale della città di Corinto esistente fin dall’VIII secolo a.C. e abbandonato solo nel tardoantico, era posizionato a ridosso di un promontorio a forma di ventaglio poco distante dalla città. Due moli ancora oggi visibili erano presenti nella parte più avanzata, mentre un bacino interno, accessibile tramite almeno un canale da nord-est, comprendeva uno o due spazi destinati ad ospitare le imbarcazioni. Fenomeni naturali di insabbiamento, forse collegati a violenti eventi sismici, determinarono la chiusura del canale di collegamento tra mare e vasche interne, creando la palude sopravvissuta fino ad oggi. Il porto di Kyllene 85 era invece posizionato di fianco alla città antica sulla costa occidentale del Peloponneso, nella parte più avanzata di una penisola protesa verso nord. Anche in questo caso il complesso portuale comprendeva una serie di moli

L’ipotesi che si avanza in questa sede è che si tratti di quanto resta di una piattaforma originariamente ricoperta dalla battigia, che aumentava le dimensioni del promontorio. Progressivi processi di arretramento della costa, tutt’ora in corso, hanno determinato l’erosione del substrato roccioso: il moto ondoso che smuove il fondale caratterizzato dalla presenza di ciottoli di medie e grandi dimensioni provoca, infatti, il continuo collidere di questi contro la roccia, che gradualmente si sfalda. Appare tuttavia singolare la conformazione che ha assunto la piattaforma, caratterizzata da una serie di “canaloni” tra rocce ad andamento pressoché rettilineo, la cui formazione è stata forse indotta dalla presenza in antico di aperture e moli ormai scomparsi esistenti in epoca classica. Il prolungamento verso nord della piana doveva fare apparire molto più pronunciato il promontorio sul mare, rendendolo effettivamente un sito adatto all’installazione di un porto fin da epoca molto antica, come pochi lungo la costa settentrionale siciliana. La baia raccolta a sud-est del promontorio dovette apparire favorevole alla creazione di un approdo fin dall’epoca in cui i coloni di Zancle si spinsero verso ovest, fino a fondare la subcolonia di Himera. In questo tratto il fondale risulta molto regolare, privo di affioramenti rocciosi che ne rendessero malsicuro il raggiungimento. L’area pianeggiante alle spalle della costa risultava inoltre molto favorevole alla creazione di un insediamento organizzato, a prescindere dalle circostanze che non ne favorirono lo sviluppo se non in epoca molto più tarda. Il fondale antistante la baia non ha tuttavia restituito alcuna evidenza di strutture antiche: il consistente processo di insabbiamento dei fondali degli ultimi decenni ha occultato qualsiasi elemento strutturale

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Morhange, Pirazzoli, Evelpidou, Marriner, 2012 Kyllini Harbour Project (sito web ufficiale)

Ricerche nell’area urbana II: la città costiera disposti a nord del promontorio ed uno o due bacini interni con entrate separate da nord-est e nord-ovest; un ampio specchio interno di forma pressoché quadrangolare, accessibile da nord-est, caratterizzava la porzione pianeggiante del promontorio e risulta oggi interrato. Si è supposto che fenomeni naturali, probabilmente ricollegabili al verificarsi di uno tsunami, abbiano provocato la distruzione delle strutture a mare e l’occlusione dei canali di accesso ai bacini interni, il più interno dei quali è scomparso sotto uno spesso strato di sedimenti. Entrambi i siti presentano molte affinità geomorfologiche con il promontorio di Calacte e sembrano avere vissuto le stesse vicende, con fenomeni naturali che hanno determinato l’abbandono degli apprestamenti marittimi in una fase coincidente con la crisi del tardoantico. Il tratto di costa antistante l’odierna cittadina di Caronia Marina è interessato da diversi decenni da evidenti fenomeni di erosione del litorale, che tuttavia

potrebbero risalire all’intera fase compresa tra l’epoca classica e quella moderna. Se per l’ultimo cinquantennio è percettibile un arretramento della spiaggia quantificabile mediamente in 4-5 metri nel tratto compreso tra la sponda orientale del fiume Caronia e la contrada Torre del Lauro, un caso esemplare di stravolgimento della originaria morfologia è offerto dall’area di contrada Chiappe, circa 2 km ad est del quartiere Nunziatella. Questo tratto di costa è caratterizzato da una scogliera protesa in direzione nord che in epoca classica era unita alla terraferma formando un piccolo promontorio utilizzato come approdo per navi di piccolo cabotaggio che prelevavano le anfore vinarie prodotte nelle locali fornaci, attive tra IV e V secolo d.C. L’indagine subacquea ha evidenziato nei fondali le tracce di profonde escavazioni nella roccia provocate dal continuo attrito dei ciottoli trasportati dal moto ondoso. Localmente si è osservato un arretramento della linea di costa di circa 5 metri nell’ultimo trentennio.

Fig. 81. Promontorio di Caronia: ricostruzione dell’assetto geomorfologico antico

Fig. 82-83. Porto di Kyllene (Immagine: Finnish Institute at Athens) e porto Lechaion a Corinto (da C. Morhange 2012)

La particolare natura della battigia, caratterizzata da ciottoli di ogni dimensione, ha provocato nel corso dei secoli la distruzione di qualsiasi struttura artificiale

costruita in mare. Se infatti un litorale sabbioso favorisce di solito la conservazione di eventuali strutture murarie, il forte attrito su di esse dei pesanti ciottoli delle nostre

227

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia spiagge, scaraventati dalle mareggiate più violente, ne determina un rapido deterioramento, a meno di continui interventi di manutenzione che, dopo l’abbandono della città in epoca bizantina, cessarono del tutto. Occorre infatti tenere conto delle vicende che interessarono l’abitato nel corso dei secoli per comprendere come al deterioramento delle strutture abitative, man mano che venivano abbandonate, si accompagnò anche quello delle diverse infrastrutture commerciali e produttive create nella fase di maggiore prosperità. Calacte, come altri centri dell’area nord-orientale siciliana, tra cui Halaesa e Tyndaris, dovette risentire negativamente dei violenti terremoti che interessarono l’isola nella seconda metà del IV secolo d.C. I dati archeologici confermano una marcata fase di spopolamento dell’abitato marittimo a partire da quella data, sebbene limitate rioccupazioni, almeno fino al VII secolo d.C. siano state evidenziate in più punti e soprattutto suggerite dalla diffusa presenza di sepolture in aree precedentemente abitate. Alla contrazione demografica della città dovette accompagnarsi quella delle attività umane e il graduale abbandono delle attrezzature portuali, che caddero in rovina. Allo stato attuale delle ricerche non possiamo sapere quando avvenne la dismissione delle strutture portuali. Sicuramente una contrazione delle attività marittime dovette seguire a quella dell’occupazione urbana successiva al terremoto del 365, attestata dai dati degli scavi in contrada Pantano. Il bacino interno necessitava di una manutenzione continua per evitarne l’insabbiamento e probabilmente fu il primo a risentire della riduzione delle attività commerciali. Il pressoché totale spopolamento del sito in età araba coincise verosimilmente con il totale abbandono del porto interno, che si era ormai trasformato in una sorta di palude, mentre probabilmente quello a cui si riferisce Idrisi a metà del XII secolo non doveva essere più il porto antico ma la semplice spiaggia con quanto restava dei moli, in maniera molto simile a quella ancora oggi utilizzata dai pescatori della cittadina di Marina Non sappiamo se il violento terremoto del 365 d.C. provocò effettivamente uno tsunami sulle coste settentrionali siciliane: lo scavo in contrada Pantano ha evidenziato uno strato di ciottoli probabilmente riferibili ad una disastrosa mareggiata o anche ad uno tsunami che sigillò i resti di una precedente fase abitativa, forse riferibile alla fine del IV secolo a.C.,86 ma non evidenze di tracimazione del mare verso l’abitato in corrispondenza della distruzione della seconda metà del IV secolo d.C. con ogni probabilità da riferire proprio al terremoto del 365 noto dalle fonti 87 e ad altri eventi sismici negli anni successivi. Piuttosto, la distruzione del 365 d.C. portò all’abbandono di molti settori della città, con spostamento di popolazione verso siti rurali nel territorio circostante. Il collasso economico e sociale che ne seguì condusse gradualmente ad una contrazione dei traffici marittimi e alla dismissione delle strutture portuali: fu soprattutto il bacino interno a risentire della crisi e la mancanza di regolari opere di dragaggio ne 86 87

determinarono gradualmente l’interramento ed infine la trasformazione in palude. E’ quindi probabile che il porto a cui si riferiva Edrisi fosse ormai costituito da poche banchine superstiti che accoglievano solo imbarcazioni di pescatori, mentre il sito della città antica era ormai deserto. Possiamo ipotizzare, sulla base della morfologia dei luoghi oggi riconoscibile, che il bacino interno avesse forma pressoché rettangolare, con orientamento O-NO/ESE e un’ampiezza di circa 10 ettari. E’ probabile che un canale, di larghezza sufficiente al transito di imbarcazioni di medio cabotaggio, lungo 70-80 metri, si aprisse sul lato di nord-est, immediatamente a sud dell’odierno “campo sportivo”, anche se non è da escludere che un’ulteriore passaggio potesse esistere sul lato di nordovest. I rilievi eseguiti all’interno del bacino oggi colmato hanno portato all’individuazione di pochi materiali, soprattutto frammenti di anfore da trasporto, nella parte più esterna a sud. Si segnala il rinvenimento di una porzione (superiore) di probabile bitta d’ormeggio, conservata per un’altezza di circa 40 cm (fig. 85). Del tutto sterile appare la fascia, larga circa 25 metri, colmata con terreno allogeno negli anni ’60-70 all’interno della propr. Di Noto. In questo settore e verso ovest andrebbero comunque cercati i resti di banchine di delimitazione del bacino. Il materiale archeologico di superficie risulta invece abbondante nei terreni a sud e ad ovest, fino in prossimità della spiaggia, confermando in negativo l’estensione del porto interno.

Fig. 84. Bitta d’ormeggio in pietra, erratica nell’area del porto antico (cosiddetto “pantano”)

A nord di quest’ultimo, una fascia di terraferma oggi scomparsa, poggiante su quella che appare come una piattaforma rocciosa sommersa, poteva ospitare magazzini e altre strutture connesse alle attività portuali. Il porto esterno doveva essere organizzato su una serie di moli realizzati con ciottoli di grandi dimensioni, come numerosi se ne osservano sul fondale, poggiati gli uni sugli altri senza legante o, eventualmente, in età imperiale, uniti con malta di calce. Sebbene nulla possa confermare al momento l’esatta disposizione dei moli, possiamo ipotizzare l’esistenza di strutture frangiflutti lungo la riva a nord (come nel Lechaion di Corinto) e di un molo con andamento SO-NE, collegato ad una

Bonanno 2008, p. 18 Ammiano Marcellino, 26.10.15-19

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Ricerche nell’area urbana II: la città costiera banchina d’ormeggio, sul lato orientale, a riparare le navi che giungevano da est. In proposito, è da rilevare come in passato, prima dell’insabbiamento dei fondali dell’ultimo ventennio, numerosi siano stati gli avvistamenti di anfore ed altri materiali ceramici su tutto il tratto di fondale compreso tra la spiaggia della Nunziatella e la contrada Pietra Grossa, circa 1200 metri ad est, a distanze costanti di 100-150 metri dalla riva. Ciò suggerirebbe la rotta delle navi in transito da e per Calacte, che vi giungevano o se ne allontanavano navigando a mezza costa sempre da est in modo da evitare le forti correnti che si formavano in prossimità della parte più avanzata del promontorio. Mancano molti dati per confermare le ipotesi descritte, nella totale assenza di studi scientifici sul campo. I vari team di archeologi che hanno eseguito scavi a Caronia Marina hanno sempre ipotizzato l’esistenza del porto e la sua organizzazione in apprestamenti interni ed esterni, ma non è mai stato eseguito alcun saggio per verificare la consistenza e natura degli strati sottostanti la palude interrata. La funzione stessa di molte delle strutture finora portate in luce, destinate a funzioni commerciali (magazzini-horrea) più che ad attività domestiche, inducono a ritenere che la città marittima di Calacte avesse una spiccata propensione ai traffici mercantili via mare, similmente al quartiere marittimo della vicina Halaesa, altrettanto poco indagato archeologicamente ma per il quale possediamo almeno il conforto della letteratura.88 La veduta aerea del tratto di mare ad est del quartiere Nunziatella verso la contrada Pietra Grossa evidenzia una serie di strutture affioranti dalla sabbia su un tratto di quasi 500 metri. Colpiscono, in particolare, tre forme semicircolari poste ad ovest di una struttura lineare orientata in senso SO-NE. L’area è stata sottoposta ad indagine subacquea 89 con risultati contraddittori. Le forme riconoscibili dall’alto sono una serie di scogli, posti a circa 25 metri dalla riva, su profondità variabili da 1 a 4 metri. Le tre formazioni semicircolari si trovano distanziate tra loro di circa 9 metri ed hanno una lunghezza variabile tra 50 e 70 metri. Venti metri ad est si trova una struttura, spezzata in più parti, con andamento trasversale verso nord-est, seguibile per circa 90 metri che sembra affiancare quello che resta di una piattaforma. L’esame di ciò che appare come una sorta di muraglia in grandi ciottoli appoggiata al substrato roccioso non ha chiarito definitivamente se si tratti effettivamente di strutture artificiali o piuttosto della naturale conformazione della roccia, che tuttavia in diversi punti appare verticale, come se fosse stata appositamente intagliata. Appare evidente, tenuto conto delle variazioni della costa, che nell’antichità queste strutture, che fossero naturali o realizzate dall’uomo, erano collegate alla terraferma e probabilmente erano utilizzate a servizio di attività svolte a terra. La loro disposizione, peraltro, differisce da quella di altre scogliere presenti lungo il litorale: non si conoscono altre

formazioni rocciose con andamento semicircolare né trasversale rispetto alla linea di spiaggia. Occorre infine tenere conto che in occasione di scavi fatti nei decenni passati per la costruzione di edifici privati davanti alla spiaggia, si ha notizia che in più occasioni sono stati intaccati livelli archeologici con affioramenti di materiali e anche di strutture murarie, che evidentemente erano pertinenti ad edifici, probabilmente con funzioni produttive, disposti lungo la costa e fuori dal centro città, a questa collegati dalla strada litoranea oggi ripercorsa dalla ex SS 113.

Figg. 85-87. In alto veduta dall’alto (dal belvedere Santuzza) del tratto di costa in corrispondenza della c.da Pietra Grossa, con evidenza delle strutture sommerse. Al centro, veduta satellitare dello stesso tratto di litorale (immagine PCN 2006). In basso, immagine subacquea di una delle strutture di probabile formazione artificiale

Il centro marittimo di Calacte dovette avere una spiccata propensione alle attività marittime, sia riguardo ai traffici di persone e soprattutto di merci, sia relativamente ad attività produttive che sfruttavano le risorse ittiche. Il cenno di Silio Italico (14.251) littus piscosa Calacte è un chiaro riferimento non solo all’abbondanza di pesce in questo tratto di mare, ma indirettamente all’esistenza di tutta una serie di attività

88 Diod. 14.16.3: Halaesa si arricchì grazie ai traffici via mare, oltre che per il fatto che Roma la rese esente da tributi 89 Si ringraziano, per l’approfondito sopralluogo eseguito nell’agosto 2014 con adeguata attrezzatura, ancora S. Ferraro e G. Lino

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Centuries B.C. Princeton 1970

economiche che andavano dalla semplice raccolta e immediata rivendita del pescato ai processi di trattamento e conservazione del prodotto in appositi stabilimenti, che andrebbero cercati lungo il tratto di spiaggia tra la foce del fiume Caronia e la contrada Torre del Lauro. Il rinvenimento diffuso di vertebre di tonno da diversi contesti di scavo sia sistematico che per la realizzazione di edifici privati, nonché di arnesi per la riparazione di reti, è già di per sé testimonianza di usi domestici e di attività artigiane strettamente legate allo sfruttamento delle risorse del mare.90 La prosperità della città soprattutto in età imperiale è, d’altra parte, da attribuire alla sua vantaggiosa posizione, lungo la principale strada romana di Sicilia, ed alla presenza di un porto attivo fin da epoca tardoarcaica, sebbene con alterne fasi di crescita. Se fino alla media età ellenistica esso fungeva da approdo intermedio tra Zancle e Himera, soprattutto dopo la nascita della Provincia romana la sua attività venne incrementata e le sue strutture potenziate, costituendo, assieme a quello di Halaesa, uno dei principali sbocchi sul Tirreno dei prodotti provenienti dall’entroterra siciliano e diretti verso la Penisola e verso Roma.

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90

Sulla costa tirrenica compresa tra Palermo e Milazzo non sono noti stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce, nonostante questo tratto di mare sia tradizionalmente molto pescoso. In Sicilia ne sono stati individuati numersoi, soprattutto nell’area del trapanese e del siracusano. L’unico finora noto nel settore nord-orientale della Sicilia, indagato sistematicamente, si trova proprio a Milazzo e risale alla prima età imperiale (A. Ollà, Uno stabilimento per la lavorazione del pesce a Milazzo. Primi dati. In Mylai II Scavi e ricerche nell’area urbana (19962005). 2009). Ma numerosi se ne possono ipotizzare lungo la fascia tirrenica, come d’altra parte testimoniati dalle fonti (Tindari, Cefalù e Solunto). E’ probabile che la mancanza di ricerche sistematiche lungo la costa non abbia ancora portato all’identificazione di una serie di piccoli stabilimenti disseminati lungo la spiaggia, per la cui individuazione si dovrebbe tenere anche conto di specifici materiali archeologici associati quali arnesi in metalli (ami, strumenti per la riparazione delle reti, ecc.), peraltro rinvenuti a Caronia Marina, resti ossei di pesci e anfore per il trasporto del pesce essiccato o di garum, ad esempio le note Dressel 2122. Queste ultime sono state effettivamente rinvenute nel corso degli scavi in c.da Pantano in discreto numero (A. Lindhagen 2006, pp. 6669; Bonanno 2008, p. 35)

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CAP. 5. LE NECROPOLI DI KALÈ AKTÉ – CALACTE THE NECROPOLIS OF KALE AKTE – CALACTE One of the lesser-known aspects of the ancient Kale Akte – Calacte is the exact location and organization of its necropolis during the long life of the city, including the two main districts that constituted it, on the hill and along the coast. It has been possible to get an overview of this topic based on the data so far collected: a large necropolis, frequented in the Classical and Hellenistic period (late V-III century BC), corresponding in extent to the modern neighborhood of Caronia towards the south, between the Palazzo del Municipio and the quarters Pozzarello - Pidoto - Trappeto. A second necropolis, presumably frequented between the III century BC and the late Hellenistic period, located just north of the city center, between the Contrada Telegrafo and Contrada S. Todaro. Concerns the maritime center, the cemetery area in the Classical and Hellenistic period probably extended to the east of Piazza Nunziatella, at least until the former “Rifornimento Agip”, while largely unpublished discoveries of tombs from the Imperial age were made in the last centuries towards the south-southeast, in the area between the railway station and the road SP 168. Finally, a large area occupied by Late Antique and Byzantine tombs corresponds to the same urban area in the phase of its decline, at the end of the Empire. Within this general picture of current knowledge, however, are many gaps relating to the necropolis of the first two centuries of the Empire, because there is no data for that phase for both the hilly and the maritime towns. It should be highlighted that no official research was conducted at the time when several excavations were carried out for private buildings and public infrastructures in the modern part of Caronia (1980s-1990s). In this chapter, the author has tried to reconstruct the organization of the main necropolis of the hill town, which extended south of the ancient urban area, also by collecting precious information from people who had the opportunity to see the excavations and the uncontrolled destruction of the ancient contexts. Also, there was the possibility to examine some funerary objects from that necropolis that had miraculously escaped the dispersion into private collections, which are presented for the first time in a catalogue. vicende della città classica si è proceduto, pertanto, a raccogliere il maggior numero di informazioni attraverso testimonianze dirette e l’esame di alcuni manufatti sfuggiti ad una inevitabile dispersione. Va tuttavia sottolineato come le ricognizioni condotte oggi negli stessi luoghi in cui si rinvennero le sepolture non hanno condotto sostanzialmente ad alcun risultato, a causa dell’impossibilità di cercare qualcosa che ormai non esiste più, coperto da case e strade, riuscendo soltanto ad escludere alcune aree limitrofe a quelle dei ritrovamenti e pertanto a definire i limiti delle aree sepolcrali. Il quadro sintetico che è stato possibile ricostruire allo stato attuale è il seguente: una vasta necropoli, frequentata in epoca classica-ellenistica (fine V - III secolo a.C.), si estendeva al di sotto della parte moderna di Caronia verso sud, nell’area compresa tra il Palazzo del Municipio e le contrade Pozzarello – Trappeto. Una seconda necropoli, presumibilmente frequentata tra III secolo a.C. e tardo ellenismo, andrebbe localizzata a nord e a valle del centro storico, tra le c.de Telegrafo e S. Todaro. A Marina di Caronia, l’area cimiteriale di epoca classica ed ellenistica si estendeva con ogni probabilità ad est di piazza Nunziatella, almeno fino all’ex Rifornimento Agip, mentre rinvenimenti sostanzialmente inediti di tombe di età imperiale avanzata si sono avuti a sud – sudest, nell’area compresa tra la Stazione Ferroviaria e il bivio per la ex SP 168 (via Palermo). Infine una vasta area interessata da sepolture tardoantiche e bizantine corrisponde alla piena area urbana della città marittima nella fase di decadenza alla fine dell’Impero. Se questo è il quadro generale, persistono tuttavia molte lacune relative alle necropoli dei primi due secoli dell’impero, poiché sia per l’abitato collinare che per quello costiero non si hanno notizie di rinvenimenti di sepolture relative a quella fase.

Uno degli aspetti fino ad oggi meno noti di Kalè Akté – Calacte è l’esatta localizzazione e organizzazione delle aree cimiteriali nel corso del lunghissimo arco di vita della città, con specifico riguardo all’esistenza dei due abitati complementari in collina e sulla costa. Non esistono ad oggi dati editi circa il rinvenimento di tombe ai margini dell’area urbana, se si escludono gli accenni di Scibona1 e Bernabò Brea2 circa la possibile esistenza di una necropoli di epoca classica-ellenistica, mai indagata scientificamente, a Caronia, a partire dall’area dell’odierno Municipio verso sud e di alcune sepolture ellenistiche scoperte a Marina di Caronia nell’area dell’ex Rifornimento Agip,3 assieme alla nota di Bonanno relativa a quattro sepolture di probabile età bizantina a piazza Nunziatella, sempre a Marina4. Recentemente un contributo postumo di Scibona5 riporta dell’indagine di alcune tombe tardoantiche rinvenute nel 1968 in occasione dei lavori alla variante alla SS 113 in prossimità del bivio per Caronia. Inediti rimangono i ritrovamenti di materiali di corredo funerario in contrada S. Todaro, menzionati velocemente ancora da Scibona.6 Sul rinvenimento fortuito di sepolture antiche in occasione di lavori urbani o agricoli nell’area della città antica si sono potute raccogliere numerose informazioni localmente, poiché in molti hanno assistito nei decenni passati all’affioramento di oggetti di corredo associati a scheletri umani, evento che di per sé è sempre destinato a suscitare stupore e non passa mai inosservato. Al fine di colmare una lacuna importante per la ricostruzione delle 1

Scibona 1987 Brea 1975 3 Scibona 1987 4 Bonanno 1997-1998 5 Scibona 2011 6 Scibona 1978 2

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 1. Carta archeologica con localizzazione delle aree di necropoli finora accertate e loro ipotizzata estensione

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Le necropoli di Kalè Akté – Calacte Non si può, comunque, non sottolineare anche in questo caso la totale assenza di monitoraggio delle innumerevoli attestazioni antiche che, almeno nell’ultimo cinquantennio, sono venute frequentemente in luce in occasione sia di lavori agricoli, appena fuori la cittadina moderna, sia soprattutto in concomitanza dell’intensa urbanizzazione degli ultimi decenni in alcuni settori di essa. La costruzione di nuovi edifici abitativi in aree precedentemente destinate a colture arboree e la realizzazione di diverse infrastrutture pubbliche (strade, piazze, condotte idriche, rete fognaria, ecc.) a servizio dei nuovi quartieri, hanno ripetutamente intaccato contesti antichi senza che si provvedesse a darne notizia agli Organi competenti e senza che sia stato quindi possibile fare uno studio scientifico di resti ormai distrutti o rimasti sotterrati sotto case e strade. Ricostruire la vicenda storica della città antica è pertanto compito difficile, quando, come spesso accade, si tratta di recuperare notizie che ormai non possono in alcun modo essere verificate. Per l’argomento di cui si discute, peraltro, il caso ha voluto che le aree di recente urbanizzazione ricadano esattamente nel sito delle necropoli, sia in collina che sulla costa, a meno che non ne esistano altre, come quella ipotizzata in contrada S. Todaro a metà strada tra abitato costiero e collinare, che ancora potrebbero essere oggetto di studio sistematico. E’ un patrimonio di conoscenze ormai perso che si tenta in minima parte di recuperare attraverso la raccolta di dati indiretti e l’esame, quando possibile, di qualche materiale fortunosamente recuperato da privati, che si ringraziano per averne consentito un esame ai fini del presente studio. A Marina di Caronia, dove i dati più recenti hanno confermato l’esistenza di un abitato già a partire da epoca arcaica, si può ipotizzare l’impianto di una prima area cimiteriale appena fuori l’originario insediamento, da ricercarsi verso est, oltre il corso del torrente S. Anna, o verso sud-ovest, in un’area successivamente occupata dall’abitato di età imperiale. In entrambi i casi essa si sarebbe collocata lungo il corso della strada litoranea, di cui un primo abbozzo doveva esistere già in epoca arcaica quale via di collegamento tra i vari insediamenti indigeni insistenti sulle colline retrostanti. Sepolture, databili al III-II secolo a.C., furono studiate, senza ricevere pubblicazione, ad est del quartiere Nunziatella nell’area dell’ex Rifornimento Agip.7 La loro presenza circa 280 m. verso est dal corso del torrente S. Anna, che doveva segnare il limite dell’abitato di epoca classica e altoellenistica, unita alla cronologia avanzata delle tombe rinvenute, fa effettivamente supporre che questa necropoli sia stata impiantata in una fase precoce, a pochi metri dalla spiaggia, per svilupparsi gradualmente verso est. Di rinvenimento fortuito e presumibilmente attinenti corredi funerari sono alcuni materiali affioranti dal terreno prima della recente urbanizzazione dell’area intorno al tratto finale del torrente Nivale-Cinquegrana, assegnabili anch’essi ad epoca ellenistica.8 Nel 1968 Scibona ebbe modo di studiare un gruppo di sepolture riferibili al tardoantico nell’area immediatamente ad ovest dell’incrocio tra la SS 113 e la 7 8

SP 168. Le tombe erano costruite in cassa e copertura di laterizi e gli oggetti di corredo rinvenuti si datavano nella tarda età imperiale. Le sepolture indagate erano quelle superstiti di un’area cimiteriale più vasta che i lavori di sbancamento per la realizzazione della strada avevano completamente distrutto. Questo lembo di necropoli è posto circa 100 a sud delle citate sepolture ellenistiche nell’area dell’ex Rifornimento Agip. Nel manoscritto del canonico Volpe del 19079 è contenuta la notizia del ritrovamento di tombe in cassa di laterizi intonacati di calce in occasione dei lavori per la realizzazione della strada Messina-Palermo (oggi via Brin) in prossimità della Stazione Ferroviaria. Notizie simili si hanno, molto più recentemente, per la realizzazione negli anni ’80 del secolo scorso del piazzale antistante la Stazione.10 Le caratteristiche delle sepolture, così come appaiono descritte, le collocherebbero in una fase compresa tra III e IV secolo d.C. Sembra pertanto che fin dall’inizio sia stata scelta, come sede dell’area cimiteriale dell’abitato marittimo, l’area ad est, la cui estensione, nel corso di circa un millennio, non sembra avere superato i 2,5 ettari. Riteniamo che una seconda area sepolcrale, quantomeno per i primi secoli dell’Impero, quando la città marittima raggiunse la sua massima espansione, andrebbe cercata verso sud-ovest, sempre lungo il corso della strada litoranea e forse della strada di collegamento tra l’abitato costiero e quello collinare, che doveva correre per il primo tratto a margine del torrente S. Anna. Di un certo interesse è stato il ritrovamento, a metà degli anni ’90, in una stretta trincea di scavo, di alcune sepolture di epoca bizantina (VI-VII secolo d.C.) nel corso dei lavori di riqualificazione di piazza Nunziatella, ovvero all’interno della città di epoca classica.11 Come ampiamente testimoniato ad Halaesa (vasta necropoli bizantina nell’area dell’agorà e in corrispondenza delle porte d’ingresso alla città),12 esse testimoniano l’abbandono di parte dell’abitato in epoca tardoantica, avvalorato dal ritrovamento inedito di altre sepolture assegnabili alla stessa epoca in altri punti nella stessa zona. Sepolture riferibili ad epoca tardoanticabizantina, infatti, sono affiorate in più punti all’interno di quella che fu area urbana fino al IV-V secolo d.C. Di alcune si ha notizia in occasione dei lavori di realizzazione della canonica annessa alla Chiesa della SS Annunziata; alcune sepolture, poste a poca profondità rispetto all’attuale piano di campagna, sono venute in luce in occasione di lavori agricoli all’interno della proprietà Naselli ed altre sono state intercettate all’interno della proprietà Di Noto, ancora più ad ovest, sempre in 9

L. Volpe Costa, Cenni o memorie o sunti storici sull’antica Calacta o Calatta e dell’attuale Caronia. 1907. Cap. 1.4: “Negli scavi fatti per la via Provinciale rotabile Messina – Palermo, a 20 metri dalla spiaggia di Calatta e della suaccennata chiesetta (dell’Annunziata) si sono trovate delle sepolture e dei sarcofagi, a stile greco, romano e saracinesco, in forma sbilunga costruiti di cimento, calce e mattoni grossi, ed intonacati, conservando scheletri antichi, con casse di piombo, lucernette e vasi di terra cotta e delle piccole monete corrose dal tempo e dall’umidità, e quindi irruginite ed illegibili ed indiscifrabili; si è trovato ancora colà un pavimento di una piccola camera ornato con mosaico, stile greco-romano”. 10 Segnalazione S. Serio 11 Bonanno 1997-1998 12 Vedi tra gli altri: Scibona, Tigano 2009

Scibona 1987 Segnalazione S. Serio

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia occasione di lavori agricoli. Infine, sepolture assegnabili ancora ad età bizantina vennero impiantate riutilizzando come tomba ipogeica la cisterna romana al di sotto del fabbricato di proprietà Barna. La loro disposizione entro una vasta area precedentemente occupata da edifici abitativi fa quindi ritenere che nella fase di decadenza ampie zone della città siano state abbandonate e che poveri cimiteri siano stati impiantati nelle aree rimaste libere tra i pochi caseggiati sopravvissuti. E’ un fenomeno assai simile a quello studiato, come detto, nella vicina Halaesa, dove a cimitero fu adibita la piazza del foro ormai dismesso, molti tratti di strade, perfino una delle porte urbiche.

Fig. 4. Sepolture di epoca bizantina (VI secolo d.C.?) all’interno della cisterna di età romana sotto il fabbricato in propr. Barna, che attesta la dismissione del serbatoio in una fase in cui l’intera area urbana appare semideserta

Del rinvenimento, soprattutto nei decenni a metà del secolo scorso, di tombe nell’area corrispondente all’attuale piazza della Nunziatella, alla Chiesa omonima e ai caseggiati limitrofi, si hanno localmente numerose notizie, raccolte da S. Serio, appassionato locale di cose antiche, di cui dà notizia in un volume dallo stesso recentemente pubblicato.13 Della necropoli ipotizzata a metà strada tra la città marittima e quella collinare si hanno molte segnalazioni ma quasi nessuna prova verificabile, poiché i materiali ivi rinvenuti a seguito principalmente di scavi clandestini nel corso degli anni ’50-60 del secolo scorso, non sono analizzabili in quanto attualmente dispersi. L’area interessata da quei ritrovamenti corrisponde alla parte meridionale dell’altipiano di S. Todaro, dove esso si interrompe per assumere un andamento scosceso verso la vallata del fiume Caronia. La notizia del ritrovamento di numerosi oggetti, tra cui un gran numero di statuine fittili e anche in bronzo, conferì al luogo la denominazione di “Chianu ri pupiddi”, ovvero “Pianoro delle statuine”, espressione che già nei primi del ‘900 sembra essere divenuta d’uso comune. Ricognizioni eseguite alla fine degli anni ’90 dagli archeologi Lindhagen e Goransson sembra non abbiano condotto ad alcun risultato,14 mentre quelle eseguite da chi scrive nell’ampio pianoro di S. Todaro, sulle scarpate sud e ovest e nel margine est, verso c.da S. Anna, hanno portato all’individuazione di diversi

Fig. 2-3. Tombe di epoca bizantina portate in luce nel 1996 sotto il piano stradale di Piazza Nunziatella a Caronia Marina. Si tratta di quattro sepolture realizzate con mattonacci rivestiti di malta di calce. Nell’immagine in basso la Tomba 3, l’unica conservata integralmente, contenente uno scheletro maschile di grandi dimensioni (foto: Archivio Soprintendenza di Messina)

13 Serio 2013. Si segnala, in particolare , la notizia di una sepoltura emersa negli anni ’50 in vico Sileno, contenente una piccola “phiale” in vetro e una lucerna. Negli stessi anni alcune tombe sono affiorate durante la costruzione della canonica della Chiesa dell’Annunziata. 14 Comunicazione A. Lindhagen

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Le necropoli di Kalè Akté - Calacte siti di probabili fattorie o santuari rurali di età ellenisticoromana, principalmente sulla cresta meridionale ed ai margini nord-orientali della spianata. L’unica area che appare indiziata di avere effettivamente ospitato una necropoli è quella sud-orientale, a raccordo tra S. Todaro

e la collina di Caronia, percorsa peraltro da alcune strade in acciottolato parzialmente visibili sul terreno, probabile persistenza post-medievale di antichi percorsi di collegamento tra la città collinare e quella marittima.

Fig. 5. La spianata di S. Todaro, che si sviluppa a valle della cittadina di Caronia, vista da ovest (in primo piano, la vallata del fiume Caronia). L’area occupata da una necropoli di III-I secolo a.C. corrisponderebbe al leggero declivio al centro dell’immagine e al pendio sottostante

Fiore15 accenna a questa necropoli rammentando che il nome locale “pupiddi” è da ricondursi alla grande quantità di statuette d’argilla che vi sono state rinvenute e riferisce che le sepolture sono con inumato deposto nella nuda terra o in cassa di mattoni, circostanza confermata dalla notevole quantità di laterizi presenti sul soprassuolo. Recentemente, lo scavo di una strada campestre che ha intaccato il terreno per un’altezza di circa 2 metri, ha fatto affiorare frammenti ceramici, prevalentemente acromi, riferibili a forme (piattini, coppette, unguentari) assegnabili al III-I secolo a.C. Uguale tipologia di materiali presenti in maniera estremamente frammentaria è stata osservata lungo la ripida scarpata a sud del pianoro. Una tipologia ricorrente tra il materiale ceramico presente, quale è quella dell’unguentarium, di forme assegnabili al III-II secolo a.C. fa effettivamente presumere che l’area avesse ospitato una necropoli ma risulta impossibile, al momento, determinarne l’estensione. Frammenti ceramici di fase ellenistica sono visibili nelle campagne a raccordo tra la contrada Telegrafo, sulla collina, e la spianata di S. Todaro, ma è dubbio se possano riferirsi a tombe o a contesti abitativi che probabilmente esistevano quantomeno nella parte di pendio di quota più elevata

In effetti, i risultati delle ripetute ricognizioni non appaiono tali da confermare senza dubbi in c.da S. Todaro la presenza di una vera e propria area cimiteriale organizzata a servizio di una città. Le testimonianze locali riferiscono del ritrovamento di molti materiali, comprendenti appunto figurine fittili e in bronzo, vasellame, monete, manufatti questi che effettivamente sono compatibili con una provenienza da contesti sepolcrali. Tutti questi materiali, inizialmente affiorati dal terreno a seguito di lavori agricoli, vennero in seguito cercati mediante veri e propri scavi clandestini. Tuttavia non è stato possibile prendere visione di alcun oggetto, probabilmente rivenduto in buona parte nel mercato antiquario. Scibona stesso, in una brevissima nota,16 dà notizia di alcuni oggetti in possesso del parroco locale Cangemi, che ebbe modo di visionare. Sebbene non sia possibile recuperare alcun’altra notizia circa l’esatta localizzazione di quegli scavi incontrollati (da individuare comunque, in base alle notizie disponibili, nella parte sud-orientale del pianoro) e basandosi esclusivamente sulla tipologia degli oggetti di cui si è recuperata qualche informazione e dei frammenti visibili nel soprassuolo, tenendo peraltro conto della circostanza che ad oggi non è stata individuata, per l’abitato collinare, una necropoli di età medio e tardo ellenistica, si ritiene

15

16

Fiore 1971, p. 58

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Scibona 1978

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia plausinbile potere identificare in quest’area una seconda necropoli a servizio della città collinare, la cui estensione deve essere chiarita attraverso l’esecuzione di saggi e ricognizioni sistematiche quantomeno nella parte meridionale della contrada. Quest’area cimiteriale doveva essere significativamente ubicata lungo il percorso di strade di collegamento tra la città collinare e l’abitato costiero da un lato e il fiume dall’altro. L’esistenza di una necropoli in quest’area, immediatamente a nord della città collinare e lungo la strada di collegamento con la costa, appare peraltro in linea con la disposizione delle necropoli in altri siti collinari limitrofi: ad Halaesa e Halontion, ad esempio, un’area cimiteriale di epoca ellenistica, regolarmente indagata, si trova proprio lungo il pendio a nord della città guardando verso il mare. Peraltro, entrambe queste città, come anche Apollonia, Amestratos e Tyndaris, hanno anche una necropoli meridionale, come a Caronia. Consuetudini dell’epoca suggerirono in questi siti d’altura di realizzare le necropoli a nord e a sud della città, verosimilmente lungo il percorso delle strade che le collegavano con la costa e con l’entroterra. Una vasta area cimiteriale è stata invece individuata, pur nella totale assenza di ricerche ufficiali, a sud di quella che fu l’area urbana collinare di Kalè Akté, con sviluppo a partire dalla spianata dell’odierna piazza Porta Torre, lungo la parte sommitale della collina ed i suoi fianchi fino alle c.de Pidoto e Timpone.17 Vale la pena rammentare che quest’area che si estende dall’attuale Municipio alla c.da Pidoto, fuori dal circuito delle mura medievali, iniziò ad essere interessata dallo sviluppo urbanistico solo a partire dal XVI-XVII secolo, dopo la costruzione della Chiesa della Madonna dell’Idria e che, fino alla metà del secolo scorso, l’intera area collinare compresa tra la c.da Pozzarello, la zona dell’Edificio Scolastico, Pidoto e Timpone, era aperta campagna, con piantagioni di uliveti e poche case rurali; un torrente (il cui corso è oggi coperto) scorreva all’interno del vallone che, dalla parte più alta della c.da Pidoto, scendeva verso il mare separando nettamente parte di queste colline dall’altura su cui sorgeva Kalè Akté e la Caronia medievale e rinascimentale. Le prime case moderne iniziarono ad essere costruite, a partire dalle vie Galileo e Cadorna, dopo il 1950, mentre l’intero rione Pozzarello fu occupato da costruzioni private tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Fu quella l’epoca in cui continui sbancamenti portarono al rinvenimento di una quantità eccezionale di corredi sepolcrali di cui rimane ancora oggi memoria locale. Chi assistette ai lavori di scavo riferisce in maniera colorita ma significativa di come mucchi di vasi interi e frammentari, lucerne, anforette, misti ad ossa umane, venissero raccolti in ceste per essere smaltiti altrove. In molti casi gente di passaggio recuperava gli oggetti migliori o se li faceva consegnare dai proprietari dei terreni. Nel giro di un ventennio furono costruite diverse case, realizzate strade e piazzette, senza che si considerasse l’eventualità di verificare preventivamente la presenza di antichità e se ne suggerisse lo studio ufficiale. Oggi non resta

praticamente nulla da scoprire e studiare sul campo e sono rimasti solo pochi terreni liberi in aree che tuttavia non sembrano essere stati interessati da preesistenze antiche. Le ricognizioni effettuate intorno a quest’area, anche in occasione di sbancamenti per la recente costruzione di nuove case, non ha condotto ad alcun risultato, per cui si ritiene che la necropoli abbia esaurito le sue funzioni nella seconda metà del III secolo a.C. in corrispondenza dei siti al momento accertati. Si è comunque avuta la possibilità di raccogliere una serie di importanti informazioni ed esaminare alcuni oggetti recuperati in quegli scavi, oggi conservati in collezioni private. Il collegamento, in diversi casi, tra i corredi ed i relativi luoghi di rinvenimento permette di definire a grandi linee lo sviluppo della necropoli meridionale, quantomeno nel settore più decentrato, corrispondente al rione Pozzarello. Per quello più prossimo alla città si possono fare solo ipotesi, che tuttavia presentano elementi di plausibilità. Sembra accertato che la città ellenistico-romana si estendesse verso sud fino all’odierna Piazza Calacta: sebbene all’interno del centro urbano non siano mai stati fatti saggi di scavo, i rinvenimenti nella sottostante via Mazzini ad est (resti murari e cisterna18 di epoca ellenistico-romana) ed alcuni materiali in scivolamento rinvenuti nelle campagne del versante opposto, oltre a diversi elementi di riutilizzo nelle case moderne e nello stesso Arco Saraceno, inducono a ritenere che il limite meridionale della città classica corrispondesse a quello delle fortificazioni medievali. Appena fuori l’abitato, a partire da un’area quasi pianeggiante, corrispondente al corso delle vie Roma e Idria, doveva iniziare l’area cimiteriale, già frequentata dalla fine del V secolo a.C., ovvero fin dalle prime generazioni di coloro che si stanziarono sulla collina dopo la fondazione della città ad opera di Ducezio. In proposito, si riportano le notizie circa il ritrovamento di numerose tombe all’epoca della costruzione del Municipio. Quest’ultimo occupa il sito della Chiesa della Madonna dell’Idria, costruita probabilmente nel corso del ‘500, lesionata gravemente da frane alla fine del XIX secolo e rimasta in rovina fino alla metà del secolo scorso. Le testimonianze dirette riferiscono del ritrovamento di corpi quasi mummificati e comunque ancora provvisti di vesti e di capelli. Si tratta chiaramente del rito, in uso fino all’800, di seppellire i cittadini più in vista al di sotto delle chiese. Tuttavia, si riferisce anche del rinvenimento di tipici oggetti di corredo sepolcrale di età classica, come statuine e vasetti, incompatibili con un cimitero di epoca postmedievale e moderna. Lo stesso Scibona19 riferiva di avere sentito parlare del rinvenimento di statuine di divinità femminile stante “con colomba al petto”.20 Si ritiene che lo scavo in 18

Scibona 1987, p. 11 Scibona 1987, p. 11 20 Questa tipologia di statuine, verosimilmente rappresentanti Kore, in questo caso con colomba stretta sul petto (in alternativa può tenere in mano un melograno, un fiore, ecc.) appartiene a contesti di epoca arcaica e altoclassica e costituisce un tipico ex voto nei santuari dedicati alla divinità. Non essendo possibile verificare l’esatta iconografia degli esemplari che si dicono provenire dallo scavo per la costruzione dell’odierno Municipio, si potrebbe anche pensare, più che a sepolture, 19

17 Cenni all’esistenza di questa necropoli sono contenuti in Brea 1975 e Scibona 1987

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Le necropoli di Kalè Akté - Calacte profondità per la realizzazione delle fondamenta del Municipio potrebbero aver provocato l’affioramento di tombe di epoca classica, rimaste occultate dall’impianto della Chiesa nel XVI secolo. L’ipotesi trova conferma nelle costanti similitudini riscontrate nello sviluppo delle necropoli di epoca greca, collocate appena fuori la città, spesso lungo una strada di collegamento, che anche nel nostro caso doveva esistere in questo settore. L’esame della fotografia aerea e le osservazioni sul posto rivelano che l’area compresa tra l’Arco Saraceno e Piazza Roma doveva presentare all’epoca una morfologia oggi quasi non più riconoscibile. Qui si creava un avvallamento ed una “strettoia” lungo la collina, incisa sui versanti est ed ovest dal corso di due ruscelli di cui rimane ancora oggi traccia nelle campagne sottostanti. Questa strozzatura doveva essere percorsa dalla strada che collegava la città all’entroterra, lungo il corso della quale non è da escludere potesse esistere un santuario extra moenia di controllo della chora più prossima. Ricerche nel tratto intermedio di questa necropoli (piazza Roma, area della Chiesa di S. Biagio, tratto iniziale di via Galileo) non sono oggi in alcun modo possibili, considerato che l’area è stata definitivamente occupata da case già nel XVIII secolo. Il rinvenimento di tombe più prossimo a quest’area più settentrionale di cui si ha notizia è avvenuto negli anni ’70 lungo la via Galileo, a metà percorso: uno scheletro perfettamente conservato, presumibilmente seppellito in fossa terragna, affiorò durante lavori di scavo nella strada per l’impianto della rete fognaria; non si hanno informazioni circa eventuali oggetti di corredo di questa come di altre tombe limitrofe, i cui frammenti sono stati più volte intercettati durante i lavori di scavo per costruzione di case e per l’impianto di condotte sotterranee nell’intero tratto della via Galileo.21 Nel corso degli anni ’80 furono eseguiti diversi sbancamenti, sia per lavori pubblici che per edilizia privata, nella zona compresa tra le vie Regione Siciliana e Manzoni (area piazza Campania), sul versante occidentale del torrente. In un settore ampio quasi 200 mq fu intaccata e distrutta una elevata concentrazione di sepolture, che furono letteralmente strappate dalla loro sede: ricchi corredi, comprendenti oggetti di vario tipo (vasellame a vernice nera e figurato, lucerne, statuine, monete) furono in parte distrutti ed eliminati, in parte andarono nelle mani di molte persone che presumibilmente ancora oggi li detengono.22 Al momento si è avuto modo di esaminare personalmente poca cosa (una lucerna a vernice nera, il fondo di un vaso acromo ed un’anforetta-lekythos a vernice nera da collezione privata), datando genericamente le sepolture tra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C. Resoconti più dettagliati si possiedono invece per altre aree di ritrovamento, acquisiti da persone che, in occasione di nuovi scavi per edilizia privata, ebbero modo di identificare diverse sepolture e recuperare alcuni oggetti, costituendo al momento tra le poche significative

testimonianze di aiuto alla ricostruzione scientifica del sito.23 Al momento sono note quattro aree, che consentono peraltro di definire l’estensione della necropoli nel suo settore più meridionale: 1. Via Pidoto: quattro tombe, tra loro ravvicinate e disposte in senso SE-NO, conservavano ancora gli scheletri degli inumati. Tutte, tranne una inumazione entro anfora, erano a fossa terragna ed una di esse era stata impiantata con il rito dell’incinerazione primaria (erano evidenti consistenti tracce di bruciato). In tutte è stata trovata una moneta in prossimità della testa, secondo il rito che prevedeva l’apposizione in bocca quale obolo per Caronte. In base ai materiali recuperati, le sepolture si datano tra la fine del IV e la metà del III secolo a.C. Si riporta il contenuto delle tombe come descritto dallo scopritore. Tomba T1. Corredo: grande vaso biansato a vernice nera (pelike) con decorazione a tralci incisa sotto il bordo; lekane a vernice nera; lucerna a vernice nera; moneta; Tomba T2. Corredo: alabastron a vernice nera; statuina fittile di donna panneggiata; frammenti di specchio in bronzo; unguentario; moneta; Tomba T3. Corredo: moneta; Tomba T4. Enchytrismos - inumazione infantile entro anfora (di Cnidos?). 2. Via Pidoto (nei pressi dell’Edificio Scolastico): una o due sepolture affioranti dal terreno scavato. Corredo: bassa bottiglia con piede ad anello acroma; statuina fittile di figura femminile stante; piattino acromo; frammenti di vasi a vernice nera. III secolo a.C. 3. Area via Liguria – via Lombardia: due o più sepolture con corredi per lo più frammentari sparsi nel declivio eroso dall’acqua piovana. Tra i materiali recuperati: coppa a vernice nera con decorazione sovradipinta di stile Gnathia e unguentario acromo. Fine IV- metà III secolo a.C. 4. Via Liguria: in un’area in declivio occupata da ulivi, i lavori di aratura e l’azione delle piogge avevano fatto affiorare molti frammenti ceramici sul terreno. Si ipotizzano, considerata l’estensione dell’area, diverse sepolture. Tra i materiali recuperati, un vaso biansato di forma biconica a vernice nera, una pelike a vernice nera, un unguentario. III secolo a.C. A quelle precisamente individuate si aggiunge la segnalazione circa la presenza di molti frammenti non riferibili a precisi contesti tombali su una vasta area intaccata dagli scavi nello stesso quartiere Pozzarello. L’individuazione delle diverse aree di ritrovamento, unita alle ricognizioni eseguite da chi scrive nei pochi terreni circostanti rimasti liberi da costruzioni, consente di delimitare con buona approssimazione questo settore di necropoli. Le sepolture si presentavano disposte lungo il declivio collinare che scende a forma di cavea verso l’avvallamento creato dal torrente. La principale area interessata sembra quella compresa tra le odierne vie Galilei, Regione Siciliana, Liguria, Lombardia, Vittorio Emanuele, Pidoto. Il solo terreno che ancora potrebbe conservare materiali in situ è quello alle spalle delle abitazioni di via Regione Siciliana, in forte pendio.

all’esistenza di un santuario extra moenia di V secolo a.C. che introduceva alla vera e propria area di necropoli. 21 Segnalazioni G. Bodanza, C. Lupinello 22 Numerose segnalazioni, tra cui B. Bodanza e A. Cuffari

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Numerose segnalazioni, tra cui soprattutto A. Cuffari

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia con capelli raccolti nel sakkos e rifiniture sovradipinte; una lekane con coperchio decorato a raggiera; un unguentario acromo; uno stamnos acromo. Considerato il tipo di oggetti, doveva trattarsi di un soggetto di sesso femminile con un elevato status. La tomba si data poco dopo la metà del IV secolo a.C. ed è la più antica finora nota. La sepoltura non era isolata, come dimostrava l’area di dispersione di materiali all’interno dello scavo, ma doveva fare parte di un settore periferico di necropoli che non ebbe ulteriore sviluppo. Oltretutto, le ricognizioni nell’area soprastante l’Asilo Nido hanno portato all’individuazione di materiali di provenienza prettamente domestica (ceramiche da cucina e vasellame acromo, mattoni, tegole) che dimostrerebbero che verso la tarda età ellenistica qui si impiantò un piccolo insediamento, forse un quartiere extraurbano. In ogni caso, la zona sottostante il Trappeto, piuttosto scoscesa, per la verità, ma non ancora interessata da costruzioni, potrebbe ancora proporre interessanti scoperte. Se ipotizziamo, come appare verosimile, che le tombe individuate nel rione Trappeto facciano parte della stessa area cimiteriale che si estendeva verso il rione Pozzarello e la contrada Pidoto, ci troviamo di fronte ad una vasta necropoli (oltre 16000 mq) con sviluppo simmetrico e opposto a quello della città: a partire dall’area del Municipio, essa si allargava a ventaglio lungo i declivi della collina, coprendo le aree delle attuali vie Roma e Idria, di Piazza Roma e della Chiesa di S. Biagio e da qui ancora, verso sud, le vie Virgilio e Galilei fino a tutto il quartiere Pozzarello-Pidoto. Considerando la morfologia dei terreni, immaginiamo che le sepolture fossero impiantate seguendo orizzontalmente l’andamento del pendio, affiancate e disposte su livelli successivi, come ad esempio nella necropoli ellenistica di Tripi (antica Abakainon),24 con brevi spazi di disimpegno. Potrebbe avere accolto già i defunti delle prime generazioni di Calactini, a partire dagli ultimi decenni del V secolo a.C. e almeno fino alla fine del III. La datazione della tomba di via Impero, in rapporto a quella delle sepolture del rione Pozzarello, peraltro, suggerisce, nella sua collocazione periferica ma entro il settore settentrionale dell’area, uno sviluppo progressivo da nord verso sud del cimitero. La strada che la percorreva, mettendo la città in collegamento con l’entroterra, potrebbe anche avere assunto inizialmente la funzione di “via sacra–sepolcrale”, affiancata da tombe monumentali di cui non è rimasta traccia. E’ chiaro che buona parte dell’area di necropoli sia ormai non più indagabile. Restano tuttavia alcuni spazi di terreno non ancora urbanizzati che meriterebbero di essere sottoposti a sondaggi. Segnaliamo in proposito il declivio immediatamente sottostante via Ariosto, fino in corrispondenza di un’antica strada (“Canalicchio”) che costeggia l’edificio dell’Asilo Nido; il pendio soprastante a sud via Regione Siciliana; i terreni a ovest e soprattutto a est di via Pidoto. La conformazione della collina a sud dell’area urbana antica condizionò sicuramente le tipologie sepolcrali e la stessa organizzazione della necropoli. Riteniamo che essa si sia sviluppata seguendo il percorso

Fig. 6. Mappa dei rinvenimenti di sepolture a Caronia (necropoli meridionale, contrade Trappeto, Pozzarello e Pidoto. Metà IV – seconda metà III secolo a.C.)

Sulla base dei dati a disposizione, sembra che il rito seguito per i seppellimenti fosse principalmente quello entro fosse terragne, con o senza incinerazione primaria. Non si ha notizia di tombe alla cappuccina, con tegoloni di rivestimento o entro fossa litica, ma nell’esiguità e frammentarietà delle informazioni, la circostanza non può essere ovviamente riferita all’intera area cimiteriale. I materiali di corredo comprendono oggetti tipici delle sepolture di epoca alto e medio ellenistica: alabastra e unguentari contenenti preparati per il corpo, lekanai per la toletta di soggetti femminili, lekythoi, pelikai, lucerne, figurine in terracotta, monete usate per officiare il rito relativo al pagamento del viaggio per l’aldilà. Tipologie e stili dei vasi di questo settore di necropoli si inquadrano in un periodo compreso tra la fine del IV e la metà o poco dopo del III secolo a.C., che costituisce essenzialmente la fase di utilizzo di questa parte di cimitero. A partire dagli ultimi decenni del III secolo a.C. dovette essere utilizzata un’altra area di sepoltura (Telegrafo - S. Todaro?). Dall’esame dei corredi al momento noti si può evincere uno status di vita della comunità di livello medio, mancando oggetti di gusto raffinato o di valore (ad esempio, oreficerie e vasellame a decorazione complessa di ateliers celebri), fatta eccezione per lo specchio frammentario in bronzo Un’altra area di necropoli, che andrebbe comunque collegata a quella del rione Pozzarello e costituire insieme ad essa un’unica grande area cimiteriale, è nota sul versante opposto, nel rione Trappeto, sul declivio soprastante l’edificio dell’Asilo Nido comunale. Qui (via Impero), nei primi anni ’90, a seguito di un ampio sbancamento per la realizzazione di una palazzina d’abitazione, vennero in luce numerosi materiali, purtroppo frantumati dalla ruspa e in gran parte dispersi. Un’unica tomba a fossa terragna, priva di scheletro (probabilmente a incinerazione secondaria), fu osservata da un privato prima della ripresa dei lavori. Ben riconoscibile dalla diversa consistenza del terreno, essa conteneva almeno 6 oggetti di corredo di un certo pregio: due lekythoi tipo Pagenstecher, una delle quali con raffigurazione di volatile, una lekythos di produzione siceliota con palmetta e raffigurazione di volto femminile

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Bacci, Coppolino 2009

Le necropoli di Kalè Akté - Calacte di alcune strade, la prima delle quali era quella che dalla porta urbica meridionale25 risaliva il sistema collinare retrostante diretta verso l’entroterra. Le tombe dovevano affiancarsi a questa strada principale nel primo tratto e poi a quelle di altri percorsi, di cui uno diretto verso la vallata dell’odierno fiume Caronia e un altro diretto verso sud-est. La sede scelta quale necropoli dei primi secoli di vita dell’abitato collinare di Kalè Akté rispondeva sicuramente ad alcune esigenze che ricorrono in altri siti d’altura di questo settore dell’isola. Oltre all’esistenza di strade di collegamento, l’ubicazione scelta consentiva un rapporto visuale diretto tra la città dei vivi e quella dei morti, circostanza che ricorre frequentemente per l’epoca tardoclassica - ellenistica in altri siti limitrofi quali Apollonia – San Fratello (necropoli meridionale in corrispondenza dell’attuale cimitero),26 Halontion – San Marco d’Alunzio (necropoli nord in contrada S. Marina e necropoli sud nel rione Gebbia),27 Halaesa (necropoli meridionale nelle contrade Serrabruno e Passo Maria).28 Inoltre è da ritenere che la sede dell’area cimiteriale, pianificata fin dall’inizio, tenesse conto del possibile sviluppo dimensionale della città, che non si sarebbe mai estesa verso sud oltre l’ipotizzata cinta muraria, nonostante si trattasse di terreni favorevoli all’insediamento urbano. Nulla purtroppo si può dire circa le tipologie tombali, i riti funerari e l’esistenza di monumenti che sono stati osservati in altre necropoli ellenistiche di questa parte centrale della Sicilia settentrionale, come quelle di Abakainon – Tripi (stele, epitymbia e piccoli naiskoi in contrada Cardusa),29 Kephaloidion-Cefalù (epitymbia a forma di piramide nella necropoli sud)30 e Halontion (probabili epitymbia nella necropoli di contrada S. Marina).31 Ipotizzabili analogie con l’unica necropoli ellenistica sistematicamente esplorata, almeno per un lembo, ed edita32 tra le poleis vicine alla nostra, come quella di Halontion, possono suggerire la possibile organizzazione della necropoli meridionale di Kalè Aktè, nonché i riti e le tipologie funerarie adottate per i secoli IV-II a.C. In contrada S. Marina a San Marco d’Alunzio, su un semipianoro situato a nord dell’antica area urbana, nei primi anni ’90 del secolo scorso sono stati esplorati due settori facenti parte della necropoli settentrionale dell’antica Halontion, già nota da tempo ma mai indagata scientificamente. Qui prevalgono due tipi di sepolture: dentro fossa scavata nel terreno oppure delimitata da tegole piane o mattoni, con copertura a lastre di pietra scistosa o in laterizi. I corredi, tra cui prevalgono gli unguentari, sono quasi sempre deposti ai piedi del defunto o talvolta al di sopra della testa. Diffuso è il rito

dell’obolo monetale necessario al traghettamento nell’aldilà, con deposizione di moneta tenuta principalmente nella mano del defunto. L’orientamento delle sepolture quasi sempre si adatta alla curvatura del pendio. Il rito più diffuso è l’inumazione, con il corpo adagiato sulla nuda terra. Solo in un caso è stato constatato il rito dell’incinerazione primaria. Il rinvenimento di blocchi squadrati di pietra locale, talvolta ancora in connessione tra loro, fa presumere l’esistenza di monumenti funebri. Le tombe appaiono raccolte in gruppi, forse corrispondenti a complessi familiari, con spazi liberi presumibilmente occupati da epitymbia o altre strutture di qualche monumentalità. Il lembo esplorato si data tra gli ultimi decenni del IV e la fine del III secolo a.C. Le notizie in nostro possesso riguardanti l’affioramento delle sepolture negli attuali rioni Pozzarello e Pidoto, trovano riscontro nei dati raccolti nella vicina San Marco d’Alunzio. Corrispondente è il periodo di utilizzo delle due necropoli (seconda metà IV – III secolo a.C.), mentre trova raffronto la tipologia delle tombe, con prevalenza, a quanto sembra, delle inumazioni entro fossa scavata nel terreno o delimitata da laterizi, con o senza incinerazione primaria. Anche i metodi di deposizione dei corredi sembra corrispondere (ai piedi o sopra la testa del defunto). Incerta rimane l’esistenza di monumenti funerari, che solo uno scavo sistematico avrebbe potuto accertare, considerato che l’area delle sepolture a Caronia era inevitabilmente sconvolta e illeggibile dall’azione dei mezzi meccanici. E’ comunque ipotizzabile che cippi o altri piccoli segnacoli in muratura contrassegnassero le sepolture dei soggetti di ceto più elevato, la cui monumentalità deve comunque tenere conto della morfologia dei terreni, in forte pendenza. La necropoli di età romana imperiale, relativamente alla città costiera, può essere localizzata sulla base di alcuni ritrovamenti avvenuti già nell’800. Del tutto sconosciuto rimane invece il sito del cimitero di I secolo d.C. per la città collinare, considerato che quest’ultima appare abbandonata alla fine di quel secolo. Due sono i possibili siti di questa necropoli: immediatamente a nord dell’abitato (c.de Telegrafo-S. Todaro) e immediatamente a sud, nella stessa area già occupata dalla necropoli tardoclassica (area Municipio, vie L. Orlando, Idria, Roma e Impero), similmente ad Halaesa.33 Risale al 1840 circa il rinvenimento di un cippo sepolcrale in marmo dedicato a un Quinto Cecilio,34 oggi custodito presso il Museo Archeologico “A. Salinas” di Palermo, a monte della Chiesa della SS Annunziata e a margine del corso del torrente S. Anna.35 Il cippo si daterebbe al I-II secolo d.C. e, considerate le sue dimensioni e peso, si può ritenere plausibilmente che fosse originariamente collocato nella stessa area. Fiore36 riferisce di un mausoleo (?)37 di un Quinto Pulcro

25 Pur in assenza di dati certi, si suppone che la città fosse protetta da una cortina muraria sul lato sud, l’unico esposto dell’altura naturalmente difesa sugli altri lati, in seguito ripercorso, se non parzialmente riutilizzato, dalla fortificazione di XII-XIII secolo 26 Bonanno 2008 27 Bonanno 1993-1994 28 Scibona, Tigano 2008 29 Bacci, Coppolino 2009 30 Tullio 2008, Spatafora 2009 31 Bonanno 1993-1994 32 Bonanno 1993-1994, pp. 975-984

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Area del c.d. “Colombario” e tratto SP 177 in c.da Feudo Fiore 1971, Bivona 1972, Fiore 1972 35 Località “Baglio del Duca” secondo Fiore 1971 36 Fiore 1991, p. 56 37 Potrebbe parlarsi piuttosto di un piccolo monumento funerario, probabilmente un cippo o altro segnacolo in pietra 34

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia affiorato nell’area compresa tra c.da S. Todaro e c.da S. Anna, presumibilmente a monte della Stazione Ferroviaria. Tale artefatto, con dedica ad un “Quinto Pulcro che visse diciotto anni” sarebbe affiorato in seguito ad una frana e successivamente trasportato al Museo Salinas di Palermo, sebbene lo stesso Fiore osservi che non se ne fa cenno nella pubblicazione delle iscrizioni latine del Museo stesso. Nel manoscritto del can. Volpe si menziona il rinvenimento, negli scavi fatti per l’apertura dell’allora strada provinciale MessinaPalermo, poi SS 113 e oggi via Brin, pressoché nell’area della Stazione Ferroviaria, di sepolture e sarcofagi “a stile greco, romano e saracinesca, in forma sbilunga costruiti di cimento, calce e mattoni grossi, ed intonacati, conservando scheletri antichi, con casse di piombo, lucer nette e vasi di terra cotta e delle piccole monete corrose dal tempo e dall’umidità, e quindi irruginite ed illeggibili ed indecifrabili”. Nicotra38 infine riporta la notizia di rinvenimenti di tombe presumibilmente di età imperiale, in un’area che si ricollega direttamente a quelle prima accennate: “Lungo il tratto di terreno che percorre dalla chiesa dell’Annunziata, dalla chiusa di Aragona, dal fondo S. Anna, presso a S. Todaro, per gli scavi recenti eseguiti, costruendo le vie provinciale e ferrata, in quei pressi si sono scoverti dei sarcofagi, o tombe antiche, con dentro scheletri, fiaschetti, anfore, lumignoli di creta, strati di piombo, monete antiche di rame, bronzo, argento ed oro, e qualche pavimento incastrato di mosaico, stile romano”. Le tombe ed i relativi corredi così descritti farebbero pensare ad una necropoli dell’avanzata età imperiale o anche più tarda. Le notizie che ci sono giunte fanno presumere che un’ampia area cimiteriale occupasse il declivio alle spalle della città di epoca romana, probabilmente sviluppatasi lungo il percorso sia della strada litoranea che di quella che congiungeva il quartiere marittimo con quello collinare, in risalita lungo il pendio sottostante il pianoro di S. Todaro.39 Tale necropoli sarebbe rimasta in uso fino al tardoantico. L’esistenza di cippi o altri segnacoli marmorei più o meno solenni fa ritenere che presentasse una certa monumentalità, sebbene il tipo di sepoltura più ricorrente pare fosse quello entro cassa di laterizi o pietre e copertura in mattoni o lastre litiche, con uso di legante di calce e intonacatura interna, secondo una consuetudine ben attestata in Sicilia almeno a partire dal II-III secolo d.C. Ricognizioni eseguite da chi scrive nell’area dell’ex “Cooperativa” e lungo i pendii alle spalle della SS 113 in corrispondenza della stazione di carburante Q8 non hanno portato all’individuazione di possibili sepolture, ma solo di frammenti di ceramiche e mattoni sporadici. Un recente sbancamento per il tracciamento di una strada rurale in quest’area ha intaccato il substrato roccioso senza mettere in evidenza

alcun materiale archeologico. Si ritiene pertanto che l’area cimiteriale trovi la sua massima espansione verso sud non oltre la Stazione Ferroviaria, il citato rifornimento Q8 e il tracciato della SS 113 a ovest di questo, presumendosi che si sviluppasse più a valle, a margine dell’abitato e non distante dal percorso della via Valeria sia verso est (vie Palermo e piano Ajala) che verso ovest (via S. Anna). Un approfondimento merita, in ultimo, la necropoli tardoantica e bizantina di Calacte, cui si è accennato all’inizio. I dati in nostro possesso quanto a “organizzazione”, se così si può definire, e tipologia delle sepolture richiama molto da vicino quella dei cimiteri della vicina Halaesa. A Castel di Tusa, dove era ubicato il quartiere marittimo della città alesina, è stata scavata un’ampia porzione di necropoli in uso fino al VI secolo d.C. (proprietà Purpura). Doveva trattarsi di una vasta area cimiteriale il cui uso è sicuramente da riferire alla città costiera ma che potrebbe anche essere collegata alla necropoli settentrionale della città collinare, sviluppatasi lungo il pendio settentrionale molto probabilmente seguendo il percorso di una strada di collegamento tra i due abitati. Anche vicino alla costa, le tombe sembrano allinearsi lungo una direttrice principale, evidentemente costituita dal percorso della strada litoranea (“Via Valeria”). Le tombe della necropoli di IV-VI secolo sono a cassa realizzata in muratura con blocchi di pietra e mattoni, legati con calce e terra; il letto funerario è spesso costituito da un piano di calce o cocciopesto; la copertura è in lastre di pietra o in mattoni. Numerose sono le sepolture a enchytrismos, riutilizzando anfore tra le quali prevalgono quelle di produzione regionale e in particolare i contenitori vinari del tipo Termini Imerese 151/354. La necropoli è in stretta contiguità, non meglio comprensibile anche sotto l’aspetto cronologico, con alcuni edifici, apparentemente organizzati in insulae delimitate da strade nord-sud. Gli oggetti di corredo non sono numerosi, ma attestate in discreto numero sono le lucerne in sigillata africana e le monete, databili al IV-V secolo. Pressoché allo stesso orizzonte temporale si riferiscono, a Caronia, il lembo di necropoli esplorato da Scibona nel 1968 in corrispondenza dell’incrocio tra la SS 113 e la SP 168; quello, assai limitato, davanti alla Chiesa della SS Annunziata; quello, sostanzialmente inedito, affiorato a più riprese nell’area della Stazione Ferroviaria. Già nel citato manoscritto del Volpe si riportava la notizia, riferita al XIX secolo (1891), del ritrovamento di tombe le cui caratteristiche richiamano da vicino quelle attestate sia nella vicina Halaesa che in altri siti siciliani per il tardoantico e l’epoca protobizantina. Si tratta di sepolture dove il letto funerario, stretto e allungato, è delimitato prevalentemente da laterizi di riutilizzo, con copertura in mattoni o lastre litiche e ampio uso di calce sia per il rivestimento interno che per legare gli elementi costruttivi, con radi oggetti di corredo.40

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Nicotra 1907, p. 222 Il tracciato iniziale di questa strada mare-monte andrebbe cercato lungo la cavea naturale che si sviluppa a partire dall’area in cui ricadono i capannoni dell’ex “Cooperativa” e la stazione di rifornimento Q8, nei pressi della Stazione Ferroviaria, che forse si collegava alla via Valeria non lontano dal corso del torrente S. Anna e risaliva verso la collina congiungendosi ad una strada a gradoni e piano in ciottoli tutt’oggi conservatasi per un tratto di circa 30 metri nell’alta c.da S. Anna, percorribile ancora negli anni ’50 del secolo scorso 39

40 I “fiaschetti” di cui ad esempio parla Nicotra fanno pensare alle piccole brocche acrome con doppia o singola ansa diffuse in Sicilia tra VI e VIII secolo

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Le necropoli di Kalè Akté - Calacte

Fig. 7. Localizzazione delle sepolture tardoantiche – protobizantine finora note da scavi e rinvenimenti fortuiti

Interessanti segnalazioni41 nella stessa area (piazzale della Stazione FS), per i lavori di ampliamento eseguiti negli anni ’80 del secolo scorso, riguardano l’affioramento di altre sepolture sconvolte dai mezzi meccanici, di molta ceramica di epoca romana e di anfore tarde di produzione regionale, verosimilmente utilizzate anche qui per la sepoltura di bambini. Notizie circa sepolture che, per le caratteristiche realizzative descritte, si daterebbero ad una fase molto avanzata, fino al VI-VII secolo d.C., si hanno in diversi punti dell’odierna cittadina di Marina di Caronia, costantemente all’interno di quella che almeno fino al IV secolo a.C. fu piena area urbana. Oltre ai siti indagati scientificamente,42 segnalazioni si hanno per l’area della Stazione Ferroviaria e limitrofe, per via Sileno alle spalle della chiesa dell’Annunziata, nella zona compresa tra le proprietà Naselli e Di Noto, fino alla parte più occidentale di quest’ultima (c.da Sugherita), emerse sempre a seguito di lavori agricoli o di rifacimento della rete idrica-fognaria. L’usanza di seppellire i morti in quelle che furono precedentemente aree abitate, verosimilmente a poca distanza dagli ultimi edifici ancora in uso, è ben attestata ad Halaesa, dove aree sepolcrali databili al VVII secolo vengono impiantate in varie zone della città ormai abbandonate, ad esempio all’interno dell’agoràforo, nell’area della porta urbica di sud-ovest, lungo il percorso di strade urbane.43 In particolare, all’interno di quella che fu la piazza di età ellenistico-romana, numerose tombe con cassa di laterizi e pietre si sovrappongono agli strati di distruzione degli edifici del foro a seguito di un violento terremoto avvenuto probabilmente nella seconda metà del IV secolo d.C. Qui

le sepolture, aventi tutte lo stesso orientamento (estovest), furono apprestate sopra uno spesso strato di interro, talvolta delimitate da recinti in muratura. Forse il terremoto diede il colpo di grazia alla città alesina, che già da diversi decenni attraversava una fase di decadenza: quando gli edifici crollarono e la popolazione gradualmente si spostò verso la campagna, in città rimasero solo alcuni gruppi familiari, che costruirono le proprie case riutilizzando elementi edilizi preesistenti e senza un preciso schema urbanistico, quando ormai anche la rete stradale appare dismessa e parzialmente interrata. Questi piccoli nuclei abitati probabilmente disponevano ognuno di proprie aree cimiteriali, verosimilmente create a poca distanza dalle case. A Marina di Caronia le tombe tardoantiche o altomedievali sono presenti in aree che sicuramente fino al IV secolo d.C. si possono definire pienamente urbane sulla base dei materiali ceramici ivi presenti e dei lembi di strutture affioranti, ad esempio nel quartiere della Nunziatella e in contrada Pantano. Lo stesso Volpe riporta che le sepolture scoperte nei pressi della Stazione Ferroviaria affiorarono assieme ai resti di un ambiente con pavimento a mosaico. Ovunque le tombe sembrano insistere a poche decine di centimetri di profondità dal piano di campagna, per cui è avvenuto di frequente che venissero intaccate da lavori agricoli o edilizi. E’ stato così per quelle venute in luce per lavori di rifacimento della rete fognaria davanti all’entrata della Chiesa dell’Annunziata, allineate est-ovest, apparentemente impiantate in un’area libera da costruzioni (piazzale del foro romano?). E’ singolare che i recenti scavi 2003-2005 in c.da Pantano non abbiano intercettato alcuna sepoltura in un settore che appare in gran parte definitivamente abbandonato verso la fine del IV secolo. Ai pochi edifici sicuramente rimasti in uso in epoca bizantina potrebbe

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Segnalazione S. Serio Bonanno 1997-1998; Scibona 2011 43 Scibona, Tigano 2009, pp. 45-60 42

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia riferirsi il gruppo di sepolture impiantate all’interno della cisterna ormai dismessa a quell’epoca, esistente sotto il moderno fabbricato di proprietà Barna. All’interno di questo fondo, una interessante segnalazione riferisce dell’affioramento, a seguito di lavori di movimento terra eseguiti negli anni ’90, di tre probabili sepolture orientate est-ovest, allineate tra il fabbricato stesso e l’area dello scavo 2003-2005. Ad una profondità di circa un metro vennero in luce tre lastre di marmo o pietra calcarea chiara di forma rettangolare (lunghezza c.a 2 metri, larghezza c.a 0,80 metri e spessore c.a 15 cm) con superficie perfettamente levigata, tra loro distanti circa 50 cm. Le lastre non vennero rimosse, ma immediatamente ricoperte di terra, per cui non è possibile affermare con certezza che si trattasse di sepolture. La conoscenza delle necropoli di una città di epoca classica è fondamentale per comprendere usi e consuetudini dei suoi abitanti, nonché per attestare la presenza di nuclei familiari in possesso di diversi livelli di ricchezza, attraverso il recupero di suppellettili che molto spesso erano appositamente importate per essere destinate ai riti funerari. Una lacuna importante che accomuna quasi tutti i centri antichi di area nebroidea è proprio l’esplorazione delle aree cimiteriali, per le quali non esiste alcuno studio sistematico se si esclude quello recentemente svolto per le necropoli tardoantiche di Halaesa.44 La constatazione purtroppo non stupisce per il nostro centro, dove peraltro è risultata fin troppo carente la ricerca anche in area urbana e dove per molti decenni si è continuato a costruire senza un’adeguata vigilanza proprio in aree di altissimo interesse archeologico. Ovviamente quanto riportato in questa sede è solo un primo tentativo di fare il punto sullo stato delle conoscenze. Il fine ultimo è quello di localizzare i siti e di individuare a grandi linee il rapporto tra città e necropoli, in antico molto forte e intriso di significati ancora non del tutto chiariti, nonché di porre le basi per future indagini attraverso la mappatura di aree ancora in grado di restituire materiali preziosi attraverso interventi mirati.

Fig. I. Lekane

2. Lekythos a figure rosse di produzione siceliota (fig. II). Orlo a tromba, lungo collo, corpo globulare, piede ad anello. Decorazione principale costituita da volto femminile di profilo con capelli raccolti entro sakkos variamente decorato con motivi a onda e a trattini, che lascia in vista i capelli sulla fronte e in uno chignon retrostante; orecchini a filare di perline rese con sovradipinture; collana di perline rese a sovradipintura. Sul lato opposto, conservato solo parzialmente, composizione di palmette; base del collo decorata con linee verticali a vernice nera.46 Dal quartiere Trappeto – via Impero. 350-320 a.C.

Necropoli meridionale - Catalogo dei materiali45 1. Lekane (fig. I). Coperchio decorato con motivo a raggiera reso a vernice nera su fondo risparmiato, ampio pomello con decorazione a palmetta stilizzata resa a risparmio su fondo nero; vasca con motivo a linee verticali sotto il bordo; anse orizzontali affiancate da bastoncelli. Parte interna del coperchio acroma; parte interna della vasca a vernice bruno-nerastra. Dal quartiere Trappeto – via Impero. Terzo quarto IV secolo a.C.

44

Scibona, Tigano 2009 Nel Catalogo sono presentati alcuni materiali finora inediti provenienti dalla necropoli meridionale dell’abitato collinare (quartieri Pozzarello-Pidoto e Trappeto), facenti parte di collezioni private. Si tratta di una minima parte dei materiali venuti in luce nel corso di scavi edilizi tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, in gran parte ormai dispersi in vario modo (alcuni, secondo notizie acquisite, dovrebbero essere ancora in possesso degli attuali abitanti dei quartieri in questione e si auspica di poterne prendere visione e presentarli in una prossima occasione) 45

Fig. II. Lekythos a figure rosse

3. Lekythos di tipo Pagenstecher (fig. IIIa-b) con raffigurazione di volatile su un lato e palmette stilizzate 46

La tipologia di vaso e quella decorativa sono variamente attestati da frammenti rinvenuti in diverse aree della collina (area urbana)

244

Le necropoli di Kalè Akté - Calacte sull’altro resi a vernice nera; parte inferiore del vaso compreso il piede interamente verniciati; ansa laterale acroma; orlo a tesa parzialmente verniciato. Dal quartiere Trappeto – via Impero. 350-325 a.C.47

Fig. V. Stamnos

6. Unguentarium con presette laterali (fig. VI). Corpo slanciato affusolato verso il piede, breve spalla. Acromo tranne alcune sottili fasce orizzontali a vernice nera sia sul corpo che nel collo. Assimilabile al tipo IIIA della classificazione Forti48. Dal quartiere Trappeto – via Impero. Ultimo terzo IV secolo a.C.

Fig. IIIa-b. Lekythos Pagenstecher

4. Lekythos di tipo Pagenstecher (fig. IV) parzialmente conservata, decorata con palmette stilizzate rese a vernice rossa; parte inferiore del vaso compreso il piede interamente verniciati dello stesso colore. Dal quartiere Trappeto – via Impero. 350-325 a.C.

Fig. VI. Unguentarium

Fig. IV. Lekythos Pagenstecher

7. Grande vaso a vernice nera (pelike) (fig. VII). Corpo panciuto sottolineato da lavorazione a baccellature, che si restringe verso il basso; alto collo molto largo; bordo verticale svasato estroflesso; anse bifide con treccia annodata nella parte superiore. Superficie esterna verniciata in nero tendente al rossastro. Nel collo decorazione a tralci resi mediante graffito con sovradipinture di colore rosso e nero. Forma simile a Morel 3631a 1.49 Da via Pidoto. Fine IV – prima metà III secolo a.C.

5. Stamnos con coperchio (fig. V), acromo tranne la parte inferiore a vernice nera. Doppia ansa verticale con ai lati protuberanze conoidali simmetriche; piede svasato. Corpo globulare con profilo tendente marcatamente a convergere verso il bordo a partire dall’attacco delle anse. Ampio bordo con rientranza interna per l’alloggiamento del coperchio. Dal quartiere Trappeto – via Impero. Seconda metà IV secolo a.C. 47

Questo tipo di lekythos, dalla forma semplice e decorata a figure nere, è attestata a Caronia nello scavo eseguito negli anni ’90 nell’area del piazzale sottostante Palazzo Cangemi. Vedi Bonanno 1997-1998, pp. 439-440

48 49

245

Forti 1962 Morel 1981

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

10. Lekane (fig. X). Coperchio a fasce di vernice nera e rossa con banda sottostante la presa a risparmio, sulla quale sono linee orizzontali di colore rosso. Bordo del coperchio verniciato con bande nerastre e rosse. Vasca con ampia sezione sottostante il bordo decorata con linee verticali; parte esterna a vernice nero-bruno, supporto acromo e piede a vernice nera. Anse affiancate da bastoncelli. Da via Pidoto. Fine IV secolo a.C.

Fig. VII. Pelike a vernice nera

8. Lucerna a vernice nera (fig. VIIIa-b). Interamente verniciata, corpo bombato, foro di medie dimensioni ribassato e sottolineato esternamente, fondo piano. Dall’area di via Regione Siciliana. Simile ad Agora IV Tipo 30B. 350-325 a.C. Fig. X. Lekane

11. Statuina fittile di donna panneggiata (fig. XI). Braccio destro appoggiato sul fianco, quello sinistro è disteso lungo il corpo. Mancante della testa. Resti diffusi dell’originaria ingabbiatura bianca. Inizi III secolo a.C.

Fig. VIIIa-b. Lucerna a vernice nera

9. Specchio frammentario in bronzo (fig. IX). Si conservano due porzioni a margine del bordo rialzato. Privo di decorazioni, eccetto linee incise circolari. Da via Pidoto. Fine IV – prima metà III secolo a.C.

Fig. XI. Statuina fittile

12. Alabastron fittile a vernice nera (fig. XII). Breve collo su cui si impianta un ampio bordo a tesa. Lungo il corpo, tre fasce risparmiate. Da via Pidoto. Fine IV – primi decenni III secolo a.C. Fig. IX. Specchio in bronzo

246

Le necropoli di Kalè Akté - Calacte 14. Statuina fittile di figura femminile panneggiata (fig. XIV). Mancante della testa. Resti abbondanti di ingobbio bianco. Da via Pidoto, area prossima all’Edificio Scolastico. Prima metà III secolo a.C.

Fig. XII. Alabastron fittile Fig. XIV. Statuina fittile

13. Coppa a vernice nera a decorazione sovradipinta (fig. XIII). Piede ad anello, bordo indistinto, corpo emisferico privo di anse. Internamente verniciata di nero. La decorazione esterna si articola in una serie di pannelli: quello superiore, delimitato in alto e in basso da una striscia sovradipinta di colore rosso, presenta una serie continua di motivi a semiluna di colore bianco-giallino; quello centrale, anch’esso delimitata da fasce, mostra un motivo a foglie d’ulivo stilizzate che convergono verso un fiore semplificato, reso con piccoli puntini (petali) attorno a un punto più grande; in basso, sotto la fascia centrale, fila di puntini. La vernice nella parte inferiore della vasca tende verso il rosso. Forma Morel 2575a 1. Dal quartiere Pozzarello. Prima metà III secolo a.C.

15. Unguentarium con presette laterali (fig. XV). Acromo. Corpo ovoidale appoggiato su piede piano. Breve collo con bordo ad anello svasato. Assimilabile al tipo IIIA della classificazione Forti. Dal quartiere Pozzarello. Fine IV - prima metà III secolo a.C.

Fig. XV. Unguentarium Fig. XIII. Coppa a decorazione sovradipinta

247

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 16. Vaso stamnoide a vernice nera (fig. XVI). Corpo allargato ad angolo quadro nella parte centrale, che scende restringendosi verso il piede ad anello; bordo svasato internamente verniciato; anse verticali a bastoncello. Dal quartiere Pozzarello. Prima metà III secolo a.C.

Fig. XVIII. Mortarium

19. Lucerna acroma (fig. XIX). Corpo bombato, foro di medie dimensioni ribassato e sottolineato esternamente, fondo piano. Largo beccuccio che si sviluppa dal piede verso l’estremità. Simile ad Agora IV Tipo 29A. Dal quartiere Pozzarello. 325-260 a.C.

Fig. XVI. Vaso stamnoide

17. Pelike a vernice nera (fig. XVII). Corpo panciuto che si restringe verso il basso, interrotto da una sottile risega, fino al piede ad anello. Largo collo e bordo svasato e pendulo; ansa a nastro impostata appena sotto il bordo. Forma simile a Morel 3631a 1. Dal quartiere Pozzarello. Fine IV – primi decenni III secolo a.C.

Fig. XIX. Lucerna acroma

20. Fuseruola in terracotta (fig. XX). Forma bitroncoconica con foro centrale. Dal quartiere Pozzarello. IV-III secolo a.C.

Fig. XVII. Pelike a vernice nera

18. Mortarium fittile (fig. XVIII). Bordo pendulo con prese laterali a tre incavi. Piede ad anello. Verniciato internamente e esternamente di clore rosso-brunastro in maniera poco accurata. Dal quartiere Pozzarello. Prima metà III secolo a.C.

Fig. XX. Fuseruola

248

Le necropoli di Kalè Akté - Calacte 21. Coperchio acromo (fig. XXI) di vaso di forma ignota (cinerario?). Parte superiore piana, con prima solcatura a sottolineare il margine e seconda solcatura e cordolo a definire un cerchio centrale. Parte inferiore con ampio peduncolo centrale e corona internamente concava per l’alloggiamento nel bordo del vaso. Rinvenuto in due esemplari, entrambi frammentari. Dal quartiere Pozzarello. III secolo a.C.

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22. Patera acroma (fig. XXII). Base piana, basso corpo emisferico tendente a divenire verticale nella parte superiore, breve bordo estroflesso. Dal quartiere Pozzarello. Fine IV – prima metà III secolo a.C.

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Fig. XXII. Patera

Brea 1975 = L. Bernabò Brea, Che cosa conosciamo dei centri indigeni della Sicilia che hanno coniato monete prima dell’età di Timoleonte. AIIN XX Suppl. 1975, pp. 3-52

23. Moneta in bronzo quasi del tutto illeggibile di probabile zecca siceliota (toro cozzante?). Da via Pidoto.50 IV-III secolo a.C.

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Fig. XXIII. Moneta in bronzo 50

Dalle sepolture di via Pidoto provengono tre monete in bronzo, di cui una dimezzata, rinvenute una per tomba accanto allo scheletro parzialmente conservato

Da Alunzio a S. Marco = AA. VV. Da Alunzio a S. Marco. Indagini archeologiche dal 1980 al 2000. Palermo 2006

249

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia De Miro 1988 = E. De Miro, Veder Greco. Le necropoli di Agrigento. Catalogo della Mostra (2 maggio – 31 luglio 1988). Roma 1988

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250

CAP. 6. DA CALACTE A CARONIA. LE TRASFORMAZIONI DEL TARDO-ANTICO DELL’ALTOMEDIOEVO: DALLA CITTÀ CLASSICA ALLA CITTÀ MEDIEVALE

E

FROM CALACTE TO CARONIA. THE TRANSFORMATIONS OF LATE ANTIQUITY AND THE EARLY MIDDLE AGES: FROM THE CLASSICAL TO THE MEDIEVAL CITY

At this stage of the studies on the ancient city of Calacte, the whole period following the end of the Roman Empire and until the XI century still remains largely obscure, due to the lack of research conducted for that historical phase. On the other hand, only in recent years studies for the early medieval period are intensifying in Sicily, when great political, economic and social changes involved all cities, leading to the final abandonment of many ancient centers and to the birth of new ones, if not to the radical transformation of the existing ones. The toponym Calacte, corrupted into different forms in the early Middle Ages (Calao, Colan), survived at least until the seventh century in the Ravennatis Anonymi Cosmographia. It is very likely that the town to which the historical sources of the Late Empire and of the Byzantine age refer is the maritime one, where the archaeological research of the last decades attest a proto-Byzantine phase that, instead, is still of uncertain identification on the hill, where, however, materials referable to that period have been found. The phase following the Imperial Age, also in the maritime center, is currently attested, more than by remains of houses and monuments, especially by the several graves surfaced repeatedly in various points within the urban area, showing a remarkable demographic contraction started from the beginning of the fifth century AD. We must assign to the IV-V century the birth of some rural villages placed both along the coast and in the hinterland. We do not know with certainty whether the evident dispersion of population from the city to the countryside, not only at Calacte, has been induced by the instability created by the barbarian invasions in Sicily in the fifth century. Anyway this phenomenon is confirmed in most of the Island, where the ancient cities depopulated and new urban entities were created from farmhouses or villas within large agricultural funds. For the phase between IV and VI century AD the archaeological findings give a picture of the Calacte’s territory mainly of rural type, while the maritime center survived in a manner not strictly of urban type. Also the hill, site of the Hellenistic city, seems to repopulate gradually, according moreover to the finding of locally produced pottery and amphorae (so-called “Termini Imerese 151/354” type). The landscape we see is purely rural but not poor, rather it seems to be characterized by some vivacity in production and trade and is the same offered to the new historical phase started by Arabic invasion, which lead to significant changes of political, social and economic type in the territory. Pottery present on the site seems to date the reoccupation of the hill in an urban form to the time when the Arabs take the north-east of Sicily, but until now were not found written documents proving the existence of the new town before the middle of the eleventh century. At the end of that century, the fortress of Caronia was part of the “Val Demone”, of which was the most advanced part westward. The Norman conquest of the Island, completed in 1087, gave to the village of Caronia the city status and between the end of the XI and the middle of the XII century the castle was built on the hilltop. The urban structure of the medieval town, surrounded by high walls of fortification, reveals the typical features characterizing the Arab-Norman settlements, with narrow alleys that develop from a main north-south street and has remained essentially unchanged until today, offering many hints for our understanding of the housing modes in the Middle Ages. almeno fino al VII secolo nella Cosmographia dell’Anonimo Ravennate. E’ assai probabile che la città a cui si riferisce quest’opera sia quella marittima, dove le ricerche archeologiche dell’ultimo ventennio attestano una fase proto-bizantina che, invece, risulta ancora di approssimativa individuazione sulla collina, dove comunque sono presenti materiali assegnabili a quell’epoca. Tuttavia, la fase posteriore all’età imperiale, anche nell’abitato costiero, più che dall’individuazione di resti abitativi, è al momento testimoniata soprattutto da sepolture che furono ricavate in area urbana, dimostrando una notevole contrazione demografica a partire probabilmente dall’inizio del V secolo d.C. Al IV-V secolo, peraltro, si deve riferire la nascita di alcuni borghi rurali presenti sia sulla costa che nell’entroterra. Gli abitati, generalmente di dimensioni medio-piccole, individuati in contrada Chiappe, nell’estrema periferia orientale dell’odierna Marina di Caronia, in contrada Samperi-La Pernice sulla sponda ovest del fiume Caronia a quasi 10 km dal mare o in contrada L’Urmo e in contrada Contura, su crinali

Il sito dell’odierna Caronia appare frequentato fin da epoca preistorica e ininterrottamente fino ad oggi. La presenza umana è attestata in misura diversa nel corso dei secoli, con fenomeni di contrazione ed espansione che hanno interessato, spesso in maniera divergente, il sito collinare e quello marittimo. Così, al quasi totale abbandono della collina verso la fine del I secolo d.C. ha corrisposto lo sviluppo della città marittima, che proprio in età imperiale raggiunse le sue massime dimensioni. Tuttavia, allo stato attuale degli studi, l’intero periodo successivo alla fine dell’età imperiale e fino al XII secolo, resta in gran parte oscuro, nella quasi totale assenza di studi condotti per quella fase storica. D’altra parte, è solo da alcuni anni che si stanno intensificando in Sicilia le ricerche per la fase altomedievale, quando grandi mutamenti di tipo politico, economico e sociale investono tutte le città, portando al definitivo abbandono di molti centri ed alla nascita di nuovi, se non alla radicale trasformazione di quelli preesistenti. Il toponimo Calacte, pur nelle diverse forme corrotte che assume in epoca altomedievale, sopravvive

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia internati che si protendono verso la costa ad una certa distanza verso ovest, mostrano una fase principale a cavallo tra la fine dell’età imperiale e i primi secoli dell’altomedioevo e sorsero sicuramente per una migliore gestione dei vasti latifondi esistenti lontano dalla città ormai in decadenza. Non sappiamo bene se questo spostamento di popolazione dalla città alla campagna sia stato indotto dal clima di instabilità creato dalle invasioni barbariche del V secolo. E’ un dato comunque confermato in buona parte della Sicilia, dove nel tardoantico le città si spopolano e nascono nuove entità urbane a partire da casali o ville all’interno di grandi fondi agricoli. A Marina di Caronia, la presenza di materiali riferibili al tardoantico e al VI o VII secolo d.C. si osserva sul piano di campagna nella vasta piana che si sviluppa ad ovest della cittadina moderna. La presenza in diversi punti di sepolture indica che interi settori urbani erano stati abbandonati: molto probabilmente, come ad Halaesa o a Tyndaris, gruppi di case svincolate da un preciso piano urbano, sopravvissero qua e là all’interno di recinti entro i quali veniva coltivata la terra, destinando ad area cimiteriale diversi settori della città antica, le cui strutture erano ormai in disuso da tempo. Potremmo riferire al tragico terremoto del 365 d.C. l’abbandono di molti edifici danneggiati che non vennero più rioccupati. Ad esempio, nell’area scavata recentemente in contrada Pantano,1 si daterebbero al V-VI secolo alcune strutture (ambienti λ e µ) ad ovest del grande edificio di età ellenistica e romana imperiale (Edificio A), solo sporadicamente rioccupato in quella fase, che riutilizzano materiali antichi prelevati dalle precedenti strutture ormai crollate. Esemplare in questo senso è il caso di Halaesa, dove gli scavi in estensione nella parte centrale e meridionale della città hanno consentito di cogliere in maniera evidente le trasformazioni del tardoantico. Gruppi di sepolture occupano l’area dell’agorà-forum, i piani stradali e perfino la via d’accesso dalla porta urbica. Case isolate, i cui muri sono mediocremente realizzati reimpiegando materiali edilizi e architettonici antichi, occupano in maniera disordinata, per nulla allineata al piano urbano preesistente, il lastricato del decumano, cisterne interrate, ecc.2 Evidente è la notevole contrazione demografica, considerato il numero di edifici abitativi portati in luce su una vasta area. Halaesa presenta molti punti di contatto con Calacte, essendo anch’essa organizzata su un centro collinare ed uno marittimo. Tuttavia, quest’ultimo risulta ancora oggi poco indagato3

e non è possibile stabilire se abbia registrato lo stesso notevole sviluppo dell’abitato marittimo di Calacte, D’altra parte, la città collinare sembra essere rimasta sempre il vero centro politico ed economico di Halaesa anche nel corso dell’età imperiale, contrariamente a quello di Calacte, che invece si spopolò dopo il I secolo d.C. Il periodo compreso tra la fine dell’impero romano e la prima età bizantina è caratterizzato a Caronia dalla dispersione umana nelle campagne e dalla decadenza della città, a cui tuttavia non sembra corrispondere un irreversibile impoverimento della comunità locale. Invece si ha testimonianza di attività economiche pienamente dinamiche che i rinvenimenti in diverse aree del territorio stanno via via attestando. Così, ad esempio, l’analisi delle ceramiche di uso comune ha rivelato una notevole diffusione di produzioni locali, che superano le importazioni dall’Africa. Questo dato può apparire di controversa interpretazione: potrebbe essere sintomo di una minore disponibilità finanziaria che impediva l’acquisto di merci dall’estero, ma allo stesso tempo è senz’altro prova dell’esistenza di numerosi laboratori artigiani che mettevano in commercio quanto era necessario in ambito domestico, con un notevole risparmio per la comunità e la sopravvivenza di un florido artigianato. Ancora nel IV secolo d.C. si continuano a produrre in loco i laterizi da impiegare nell’edilizia, secondo tecniche e modelli in uso dall’età ellenistica:4 una fornace per mattoni e tegole è stata individuata nella parte nord-occidentale della piana costiera (contrada Sugherita), area in parte occupata dalla città di epoca imperiale, in parte destinata ad accogliere impianti artigianali e produttivi di vario genere. Più che da strutture affioranti, solo in parte riconoscibili e di difficile interpretazione in mancanza di uno scavo sistematico, la produzione è attestata dalla presenza di numerosi mattoni ipercotti e scarti di lavorazione, mentre la datazione è suggerita dalla presenza di anfore vinarie di tipo Termini Imerese 151-354 e di vasellame di IV-V secolo d.C. Estremamente peculiare la circostanza che a quell’epoca si fabbricassero ancora mattoni di grande modulo (50 x 34 x 9 cm), gli stessi impiegati nell’edilizia calactina del medio e tardo ellenismo. Riveste particolare interesse la scoperta di una delle fornaci5 in cui venivano prodotte piccole anfore vinarie che ebbero grande diffusione tra la Sicilia e la Penisola a cavallo tra IV e VI secolo d.C. Il sito fu individuato alla fine degli anni ’70 da Scibona, che tuttavia assimilò i frammenti osservati alle anfore Dressel 35.6 Il tipo di anfora è stato per la prima volta

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Bonanno 2009. In particolare, pagg. 24-26 I più recenti scavi nella parte centro-meridionale della città collinare non hanno ancora ricevuto pubblicazione. Lo scavo ha messo in luce diverse strutture abitative, tutte realizzate con materiali edilizi di reimpiego, databili ad una lunga fase successiva al IV secolo d.C., tra le quali si menzionano alcune case costruite al di sopra del basolato del decumano centrale, con pavimento in lastre litiche o in mattoni riutilizzati, nonché nell’area di una cisterna-fontana interrata nella parte più meridionale, a poca distanza da una delle due porte urbiche. 3 L’unico settore attualmente sottoposto a scavi sistematici è quello a monte della Stazione Ferroviaria, dove è stata esplorata parte di una vasta necropoli tardo antica sorta a margine di alcuni edifici databili ad età imperiale che si sviluppano in maniera regolare lungo il pendio. Vedi in proposito Scibona, Tigano 2009

4 Si tratta dei caratteristici grandi mattoni di 50 x 34 x 8 cm, qui usati a partire almeno dalla seconda metà del III secolo a.C., presenti in strutture ellenistiche anche nelle vicine Halaesa e Apollonia, oltre che a Morgantina, e di prima-media età imperiale anche in altri siti siciliani come Centuripe e Tyndaris. Realizzati con tecniche e misure simili, a Caronia sono presenti anche mattoni di forma quadrata e circolare, usati rispettivamente per pavimentazioni e alzati di colonne 5 Differenze nelle caratteristiche delle argille di esemplari frammentari rinvenuti in diversi siti del territorio (sulla collina di Caronia, sulla piana costiera di Marina, in contrada Lineri, in contrada Samperi, ecc.) inducono a ritenere che esistessero diversi centri di produzione che attingevano a cave con materie prime di diverse qualità 6 Scibona 1987, p. 12

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Da Calacte a Caronia riconosciuto come produzione locale o regionale a Termini Imerese,7 dove è stato rinvenuto in strati datati tra la fine del IV ed il V secolo d.C. ed è stato inquadrato nel gruppo dei contenitori di piccole dimensioni di forma sferica o ovoidale a cui appartengono le note anfore tipo Ostia I 455-456 e Ostia IV 166. Esemplari sono noti anche fuori dalla Sicilia, in particolare a Roma e Cartagine.

Figg. 4-5. In alto: anfora locale da Termini Imerese (da Rizzo et alii 1993); in basso: anfora locale dagli scavi in contrada Pantano a Caronia (da Bonanno-Sudano 2006)

Successivamente una fornace è stata messa in luce a Capo d’Orlando presso la villa romana di Bagnoli8 ed altre presso Furnari-Tonnarella, mentre ne viene infine attestata la diffusa presenza, da ricondurre a fabbriche locali, tra i materiali tardoimperiali dello scavo in contrada Pantano a Caronia stessa.9 Recentemente sono stati presentati esemplari da Milazzo10 e soprattutto dalla necropoli tardoantica di Castel di Tusa.11 Le anfore prodotte in contrada Chiappe presentano una serie di caratteristiche ben riconoscibili e ripetute, sia sotto l’aspetto formale che nella materia prima impiegata. Il collo è breve e stretto, alquanto corrugato, le anse sono a cordone e si sviluppano dal collo, poco sotto il bordo più o meno svasato, all’ampia spalla; il corpo è ovoidale mentre peculiare è il fondo, con piede ad anello internamente concavo con marcata ombelicatura. L’argilla impiegata è ricchissima di inclusi sabbiosi, anche di medie dimensioni, e alla cottura assume normalmente una colorazione rosa-arancio, che 8

Spigo, Ollà, Capelli 2006 Sia per Furnari che per Caronia: Bonanno, Sudano 2006. Sebbene le anfore siano ricondotte alla fornace di contrada Chiappe, gli autori annotano che “sarebbe necessario anche esaminare qualche campione di queste anfore e confrontarlo con le nostre”, circostanza che esclude che essi abbiano preso effettivamente visione dei materiali presso la località di cui parliamo. 10 Necropoli di via Cumbo-Borgia. Cfr. Tigano 2011, p. 243 e segg. 11 Necropoli in proprietà Purpura. Molte inumazioni entro anfora erano in contenitori del tipo Termini 151/354, di altezza variabile da 0,45 a 0,60 m. e con evidenti segni di tornitura. Considerate le caratteristiche tecniche (presenza di difetti di fabbricazione, corpo ceramico depurato, compatto a frattura netta, di colore rosso arancio con inclusi micacei e di quarzo bianco), se ne è ipotizzata una produzione locale. Cfr. Scibona, Tigano 2009 9

Figg. 1-3. Scarico di fornace in contrada Chiappe. In alto, scarti di lavorazione e grumi di argilla concotta; al centro e in basso, esemplari parzialmente conservati di anfore tipo Termini Imerese 151/354 7

Belvedere, Burgio, Macaluso, Rizzo 1993

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia tuttavia tende a scurirsi e a divenire grigiastra per ipercottura, come buona parte dei frammenti dello scarico, che sono per l’appunto pertinenti a esemplari di scarto della locale fornace. La ceramica è estremamente compatta, con taglio netto in frattura. Si tratta di contenitori prodotti in serie spesso in maniera poco accurata, come dimostrano, ad esempio, i segni di dita in corrispondenza dell’attacco delle anse al corpo, talvolta piuttosto schiacciato, o alcune imperfezioni evidenti nel piede o nel corpo. Il vasellame d’uso comune (olle, pentole, boccali) fabbricato contemporaneamente nella fornace sembra collocarsi cronologicamente tra IV e V secolo d.C.

Il tipo appare chiaramente assimilabile alle anfore da Termini Imerese, sebbene di queste ultime non è nota la parte inferiore, come per quelle di Furnari, mentre è ipotizzabile per quelle di Capo d’Orlando, in base a quanto pubblicato. In effetti, in nessuno dei contesti citati sono mai stati rinvenuti esemplari integralmente conservati, ma la presenza esclusiva, nello stesso contesto di contrada Chiappe, di fondi con piede ad anello e ombelicatura assieme alle porzioni superiori come prima descritte, perfettamente conservate, caratterizzati entrambi da identiche peculiarità macroscopiche delle argille, elimina ogni dubbio in tal senso.

Figg. 6-7. Anfora tipo “Termini Imerese 151/354 (parte superiore e base) dalla fornace di contrada Chiappe. A destra profilo di esemplare ipercotto e con difetti di lavorazione

I vasti latifondi che dovevano caratterizzare il territorio nel tardo impero erano destinati a due colture in particolare: il frumento, di cui vasti campi hanno da sempre contraddistinto la media vallata del fiume Caronia e la parte occidentale dell’odierno territorio comunale (contrade Samperi-Sambuco, Morizzi, San Giovanni, ecc.) e la vite. La notevole produzione del pregiato vino da destinare all’esportazione verso la penisola e Roma richiedeva l’esistenza e la piena attività di fabbriche di anfore che lo contenessero, come per l’appunto quella individuata in contrada Chiappe.12 Esistono poche evidenze materiali della fase compresa tra la fine dell’Impero romano (476 d.C., deposizione dell’ultimo imperatore romano Romolo Augusto da parte del germanico Odoacre) e l’acquisizione della Sicilia all’Impero bizantino (535 d.C., occupazione dell’isola da parte del bizantino Belisario). I decenni contrassegnati dalle invasioni barbariche non hanno lasciato tracce evidenti di devastazioni a seguito di azioni belliche, quanto piuttosto

da riferire a eventi naturali, come potrebbe essere stata una serie di dannosi terremoti o epidemie, a cui facevano seguito limitate rioccupazioni di aree un tempo abitate. I ritrovamenti finora noti danno per la fase compresa tra IV e VI secolo d.C. un quadro del popolamento dell’area calactina principalmente di tipo rurale, sebbene il centro marittimo continui a sopravvivere seppure con modalità non propriamente urbane. Anche la collina, sede della città ellenistica, sembra gradualmente ripopolarsi, a giudicare dai rinvenimenti proprio delle citate anfore vinarie e di altre ceramiche di produzione locale cronologicamente collocabili nel tardoantico. E’ un paesaggio prettamente agrario ma non povero quello che traspare dai rinvenimenti finora noti, che anzi sembra caratterizzarsi per una certa vivacità produttiva e commerciale ed è lo stesso che si offre alla nuova fase storica avviata dall’invasione araba, che condurrà a importanti mutamenti culturali e nell’assetto di occupazione del territorio. L’unico riferimento letterario al territorio di Calacte per la fine del VI secolo è contenuta nell’Epistola IX 180-181 di papa Gregorio Magno del 599, riferita ad una Massa Furiana, da identificarsi verosimilmente

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Non si esclude peraltro l’esistenza di altre fornaci per la produzione del tipo di anfora in argomento in siti dell’entroterra, come farebbero supporre le caratteristiche lievemente diverse delle argille in esemplari rinvenuti in c.da Lineri e in c.da Samperi

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Da Calacte a Caronia nell’area dell’odierno torrente Furiano, all’interno delle competenze della diocesi di Tindari.13 Si trattava di una delle 20 massae fundorum, da considerarsi come “agglomerati di fondi rustici”, attestate in Sicilia tra l’età di Costantino e quella di Gregorio Magno.14 La Massa Furiana, detenuta da una “religiosa femina” di nome Ianuaria, potrebbe non essere stata l’unica entità latifondistica esistente nel vasto e articolato territorio di Calacte: in via ipotetica, sebbene non se ne faccia menzione nei documenti, se ne potrebbe individuare almeno un’altra nell’area interna immediatamente a est del fiume Caronia (contrade Samperi - Piano della Chiesa), dove sono numerose le attestazioni di occupazione in epoca bizantina, anche in forma di veri e propri borghi, e dove andrebbe cercata la località Solusapre citata nell’Itinerarium Antonini quale destinazione di un diverticulum, ovvero di una strada secondaria, che si sviluppava dalla via Valeria in corrispondenza o nelle vicinanze di Calacte. D’altra parte, la trasformazione del sistema agrario a partire dalla media età imperiale determinò ovunque la concentrazione di fondi rustici in grandi latifondi, da individuarsi, per l’area che ci interessa, ai margini del bosco, in terreni già messi a coltura e disboscati in antico. Dall’epistola di Gregorio Magno si evince che i fundi della Massa Furiana rendevano 10 solidi netti. Nel contempo si concedeva inoltre l’autorizzazione, da parte del vescovo di Tindari Benedictus, a istituire un oratorio tramite una legitima donatio da registrarsi a Tindari.15 L’esistenza di massae sparse nel territorio e in genere di borghi rurali anche a una certa distanza dalla città, caratterizza il periodo compreso tra V e VII secolo. La dispersione umana nella campagne impoveriva senza dubbio la città sotto l’aspetto demografico e non ne favoriva l’ulteriore sviluppo. Tuttavia quest’ultima rimaneva sempre l’entità di riferimento per il territorio, in particolare sotto l’aspetto fiscale, rimanendo in ogni caso l’agente esattore nei confronti delle grandi proprietà latifondistiche. Un altro, sebbene controverso, documento che può dare un’idea della situazione esistente non solo nel territorio calactino, ma nell’intera Sicilia, è una Divalis Sacra di Giustiniano del 538 d.C., sulla base della quale i Benedettini rivendicavano la proprietà di ampie fette di terra in ogni parte dell’isola. Il documento, rivelatosi un falso,16 ma che in ogni caso contiene dati di una certa importanza per conoscere le città esistenti a quell’epoca e la consistenza delle terre ad esse riferibili, enumera numerose località, tra le quali la nostra città, qui denominata Galeate. Per l’area centro-settentrionale dell’isola, il testo riporta: “in Cephaludio quindici milia, in Aleso sexaginta duo, in Galeate centum novem, in Acaliate trecenta…”. I moggi di terreno rivendicati dalla Chiesa di Roma appaiono qui riferiti a Calacte in due separate quantificazioni, la prima delle quali

riguarderebbe l’area più prossima alla città, quando si nomina Galeate, la seconda probabilmente l’entroterra (Acaliate = a Calacte). In ogni caso appare evidente la notevole estensione dei terreni che facevano capo alla città nel VI secolo d.C., espressione massima dell’evoluzione della chora di epoca greca dopo secoli di messa a coltura di sempre nuove aree. Stando ai dati archeologici disponibili, l’altomedioevo, intendendo la fase storica successiva alla fine dell’impero e alle invasioni barbariche, vede la contrazione demografica della città (marittima) e l’abbandono definitivo di interi settori di essa. Pur nella mancanza di dati certi che provengano da saggi di scavo o dall’esame puntuale dei rinvenimenti ceramici, possiamo collocare verso la fine dell’VIII – prima metà del IX secolo un nuovo ribaltamento nelle modalità insediative nel sito dell’antica Calacte, con l’abbandono definitivo della città costiera e la rioccupazione della collina. In particolare, si sottolinea il fatto che dagli scavi degli anni passati o dalle ricognizioni, a Marina di Caronia è attestata la diffusa presenza di ceramiche di produzione locale in uso a partire dal IV-V secolo, che si affiancano abbondantemente ai prodotti importati in sigillata africana. L’esistenza di fornaci che producevano localmente vasellame, come quelle della citata contrada Chiappe, assieme alle caratteristiche anfore vinarie, può indurre in errore nell’identificazione dei fittili, che potrebbero avere mantenuto caratteristiche immutate per lungo tempo e caratterizzare i contesti anche di VIII secolo e fino alla diffusione delle ceramiche islamiche. Pertanto, non risulta semplice fare una scansione cronologica precisa di un ampio lasso di tempo, compreso tra VI e VIII-IX secolo, e assegnare in maniera precisa una cronologia a siti in cui, in assenza di altro materiale esattamente datante, come potrebbero essere le monete, sono presenti solo queste ceramiche locali, che peraltro non appaiono molto frequenti sulla collina. Dati importanti per la fase di trapasso dall’epoca classica a quella medievale si ricavano dagli scavi in contrada Pantano a Marina di Caronia, dove, come si è detto, è attestata chiaramente una fase bizantina. Più in particolare, le strutture principali portate in luce (Edificio A e B) vengono prima danneggiate e poi abbandonate tra il IV e il V secolo d.C. Sicuramente i terremoti degli anni ’60-70 del IV secolo ne compromisero le strutture e determinarono infine l’abbandono nella prima metà del V secolo. Sopra i livelli di crollo dell’Edificio A si impiantano, probabilmente nel V secolo, alcune strutture (ambienti Υ e Ξ), non allineate ai muri della fase precedente ma rispetto a queste trasversali, delle quali non si sono purtroppo potuti indagare i piani di frequentazione; alla stessa fase sembra assegnarsi anche l’ambiente Σ nello spazio ad ovest dell’Edificio A. Queste strutture presentano una tecnica muraria relativamente povera, con ciottoli interi o parzialmente sbozzati di riutilizzo e rinzeppamenti in laterizi. Si continua inoltre ad utilizzare il pozzo antistante l’Edificio A, che appare dismesso, quando viene destinato a butto, tra VI e VII secolo. Probabilmente al VII secolo, infine, si datano due ambienti portati in luce nella parte più occidentale (λ e µ), allineati in senso nord-sud lungo il

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Fiore 1984; Vera 1999 Vera 1999 15 Caliri 2006 16 La Divalis Sacra attribuita a Giustiniano, che l'avrebbe scritta nel settembre 538 per confermare, all’indomani della conquista bizantina della Sicilia, la donazione fatta a S. Benedetto da un patrizio, Tertullo, padre di S. Placido, fu in realtà redatta a Montecassino nel XII secolo dall'archivista e bibliotecario Pietro Diacono. 14

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia muro ancora esistente dell’Edificio B. Pertinenti a questa fase di persistenza abitativa sono forse le sepolture ricavate all’interno della cisterna esistente sotto il fabbricato di propr. Barna, poche decine di metri a sud. Gli ambienti (almeno 3) della casa bizantina portata in luce, che probabilmente venne anch’essa abbandonata entro la fine del secolo, sono l’unica sopravvivenza di epoca altomedievale in questo quartiere della città marittima, assieme ad un angolo di muro (ambiente α) costruito tra i resti dei precedenti ambienti plurifase ad ovest dell’Edificio A. E’ probabile che altre costruzioni di questa fase sorgessero isolate all’interno della precedente maglia urbana ormai del tutta dismessa, a cui riferire le sepolture qua e là rinvenute su una vasta area compresa tra la Nunziatella e la contrada Pantano.

Fig. 9. Moneta bizantina sporadica dal versante orientale della collina di Caronia (area A9)

Riferibili allo stesso periodo sono diversi esemplari di piccole anfore vinarie tipo Termini Imerese 151/354 o tipo Spinella prodotte a Naxos. E’ da ipotizzare che già dalla fine dell’età imperiale e ancora di più nella critica fase delle invasioni barbariche, si sia avuto il ritorno di gruppi familiari in un sito più sicuro e che già nella successiva fase bizantina si sia creato un primo borgo, da localizzare, stando all’area dei materiali in dispersione, nella parte sommitale della collina e lungo il pendio orientale. Come è stato recentemente osservato, “il popolamento rurale in Sicilia nell’altomedioevo ed in particolare la dinamica tra insediamento accentrato e sparso sono ancora avvolti nella nebbia sia per la natura stessa della documentazione materiale e scritta, sia soprattutto per lo stato degli studi di archeologia medievale”.20 Si constata, in pratica, la poca conoscenza, dovuta alla mancanza di ricerche sistematiche sul terreno in quasi tutta l’isola, di un lungo periodo che dalla fine dell’età imperiale arriva sino alla conquista araba. Alla insufficiente conoscenza degli aspetti di cultura materiale, si accompagna la scarsità di notizie desumibili dalle fonti scritte, tanto che in molti casi i diversi centri dell’isola ricompaiono dopo diversi secoli, nelle cronache degli scrittori arabi, con un nome nuovo e completamente diverso da quello che ebbero in epoca classica. Deve comunque fare pensare la ricorrente associazione, in molti siti, tra le più tarde sigillate africane e le prime invetriate islamiche, circostanza che va interpretata non solo in termini di persistenza dei centri in questione, ma anche nel senso che perdurano fino a molto tardi produzioni ceramiche che generalmente verrebbero attribuite ad epoca anteriore, al V-VI secolo d.C. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una osservazione fatta da chi scrive – pur nell’assenza di altri dati chiarificatori come potrebbero essere i riscontri numismatici – per diversi siti rurali (ad esempio, quelli ricadenti nell’entroterra dell’alta vallata fluviale e in contrada L’Urmo), che si ritiene siano stati abbandonati presumibilmente intorno all’VII secolo d.C. alle prime avvisaglie del tentativo di occupazione araba dell’isola: in essi, alcune forme ceramiche, da riferire a produzioni locali d’imitazione, ripetono forme sicuramente riferibili ad età protobizantina ma risultano del tutto assenti le ceramiche islamiche, segno che questi borghi vennero

Fig. 8. Insediamento di contrada Pantano. Aree occupate (in grigio) dopo il IV secolo d.C. (rielaborazione da BonannoSudano 2006)

Sulla collina di Caronia è evidente una fase di abbandono, seppure non totale, a partire dalla fine del I – inizi del II secolo d.C., dovuta a concause riferibili sia al verificarsi di un evento distruttivo, probabilmente un terremoto, sia alla tendenza diffusasi in questa fase in tutti i centri d’altura della fascia settentrionale dell’isola, con spostamento di popolazione verso i siti costieri. Cala bruscamente la presenza delle caratteristiche ceramiche fini tipiche dell’età imperiale romana, ovvero le sigillate africane.17 La presenza di diversi frammenti di sigillata africana A è piuttosto da riferire all’ultima fase di vita della città. Frammenti di sigillata C, assieme ad altri materiali coevi, attestano una seppur limitata occupazione del sito, probabilmente da riferire ad alcune case rurali. Relativamente più attestata è la sigillata africana D, rinvenuta anche in associazione a strutture murarie databili probabilmente al IV-V secolo d.C. (scavo 2005 in contrada sotto S. Francesco18 e ambiente α venuto in luce alle spalle delle Case Popolari.19 17 Sono presenti quasi esclusivamente sigillate di tipo A, importate a partire dall’ultimo ventennio del I secolo d.C., oltre a pochi esemplari di sigillate africane di tarda età imperiale 18 Scavo non ancora pubblicato 19 Vedi Cap.3. Ricerche nell’area urbana. L’abitato collinare

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Molinari 1995

Da Calacte a Caronia definitivamente lasciati prima dell’islamizzazione dell’isola. In assenza di scavi sistematici, si può ipotizzare una persistenza di occupazione soltanto nell’area urbana della città costiera, seppure assai ridotta, e nella collina di Caronia, dove sono stati identificati sia materiali ceramici che monete assegnabili al periodo che va dal VI al IX secolo, comprese le prime invetriate islamiche. E’ la collina che, dopo una fase di transizione con ridotta occupazione tra il tardoantico e l’VIII secolo, sembra accogliere le comunità che abbandonano i siti rurali, ricomponendosi infine in forma urbana dopo oltre sette secoli, grazie alla sua favorevole posizione geografica. Il termine tradizionalmente utilizzato per il periodo bizantino è “incastellamento”, inteso come arroccamento in siti più agevolmente difendibili della popolazione precedentemente sparsa in insediamenti rurali. Questo fenomeno sociale e politico è attestato da alcuni autori arabi, tra cui Ibn al-Athîr21 e Al-Nuwairî,22 la cui testimonianza fa comprendere come sotto la dominazione bizantina, soprattutto a metà dell’VIII secolo, “in Sicilia fu realizzato un preciso ed organico programma di incastellamento per arginare le sempre più pressanti incursioni piratesche degli Arabi che, come è noto, culmineranno nella grande invasione di conquista dell’827”.23 L’incastellamento potrebbe comunque avere avuto motivazioni diversificate, non ultima la necessità di modificare l'assetto amministrativo e territoriale anche della Sicilia con l’istituzione del thema, che comportò cambiamenti sostanziali nella gestione del territorio, con un nuovo frazionamento delle proprietà agricole adesso non più in possesso per larga parte della Chiesa di Roma.24 In sostanza, situazioni contingenti come la paura diffusa per un’imminente invasone musulmana e novità introdotte a livello amministrativo da parte delle autorità imperiali, con ripercussioni a livello sociale, avrebbero determinato l’abbandono degli insediamenti sparsi, nati alcuni secoli prima per esigenze legate alla gestione dei vasti latifondi, ed il ritorno - nel nostro caso – in un sito già conosciuto per la sua antichità e mai definitivamente rimasto deserto. La rioccupazione in forma urbana della collina di Caronia si deve fare risalire all’epoca della presa da parte degli Arabi del settore nord-orientale della Sicilia o poco prima. Ricordiamo come non solo questo settore, ma l’intera isola si possa considerare definitivamente assoggettata ai musulmani solo nel 902 con la presa di Taormina e infine quando fu piegata l’ultima resistenza bizantina nel 965,25 quale epilogo dell’invasione avviata nell’827. Le strategie di controllo del territorio esercitate dal nuovo dominatore, soprattutto nel lungo periodo di stabilità politica compreso tra gli ultimi decenni del X e la prima metà dell’XI secolo, o anche la necessità di

abitare in un luogo più sicuro, quale poteva essere la sommità naturalmente difesa della collina, imposero il ritorno della popolazione sparsa negli abitati rurali verso il sito della città antica, che peraltro, come detto, non era mai rimasto deserto. Peraltro, ciò è confermato dai materiali presenti nei siti rurali in vita nel corso dell’età bizantina, sia sulla costa che nell’entroterra, dove la totale assenza di ceramiche arabe conferma il loro abbandono prima che il territorio si possa dire islamizzato. Non esistono documenti che attestino l’esistenza di Caronia prima della metà dell’XI secolo, quando il toponimo Hisn Q.r.m.n.ya (“la fortezza di Q.r.m.n.ya”) compare per la prima volta in un testo arabo datato alla metà dell’anno 1000 (“Kitab Gara’Ib Al-Funun WaMulah Al-Uyun”).26 L’accenno di Edrisi, invece, databile intorno alla metà del XII secolo, è riferito ad una città già esistente che, poco tempo prima, si era dotata di una fortezza. Tuttavia, il termine hisn con cui è denominata Caronia nel testo di un secolo prima, fa ritenere che opere di fortificazioni già esistessero prima della conquista normanna. Peraltro, l’anonimo autore del citato trattato sulla Sicilia sembra rifarsi, nella descrizione dei luoghi, all’opera del geografo iracheno Ibn Hawqal, che visitò la Sicilia nel 972-73. Se pertanto Q.r.m.n.ya corrisponde effettivamente alla Qaruniya di Edrisi e se quel toponimo è ripreso da Ibn Hawqal, dovremmo pensare che la nuova città dovesse esistere già nella seconda metà del X secolo e fosse già allora fortificata. Naturalmente, questi riferimenti riguardano l’abitato collinare, poiché dopo il VII o al più VIII secolo quello costiero appare sostanzialmente abbandonato, se si esclude una probabile sporadica presenza araba suggerita dalla scoperta di due sepolture con cadaveri sistemati su un fianco, secondo il rito islamico, rinvenuti sempre negli scavi di contrada Pantano.27 Alla fine dell’XI secolo, la fortezza di Caronia rientrava nel Val Demone, anzi ne costituiva la parte più avanzata ed il confine occidentale. Il nome Val Deminae compare per la prima volta in un diploma del Malaterra, per l’appunto datato alla fine dell’anno 1000, definendo il territorio dove si erano rifugiati i Cristiani all’arrivo degli Arabi. Tuttavia la consacrazione del termine a riferire uno specifico territorio si ha solo a metà del XII secolo nel Libro di Ruggero di Edrisi.28 La circoscrizione, nell’ambito del Regno di Sicilia, faceva capo alla città di Messina, rimasta sempre la principale entità urbana della parte nord-orientale della Sicilia anche nel corso del tardoantico e dell’età bizantina e ancora di più con i privilegi concessi in epoca normanna.

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J. Johns 2004 “Sesta fase” di occupazione abitativa in contrada Pantano, in Bonanno 2009, p. 26 28 Si ipotizza che il nome “Demone” derivi da quello della scomparsa città di Demenna, di ancora incerta identificazione (Piano Grilli presso S. Marco d’Alunzio?). Il termine compare per la prima volta nella forma Dimnsac riferito agli eventi del 902 in occasione della caduta di un abitato che così si chiamava, insieme a Taormina ed altre città. E’ solo alla fine dell'XI secolo che appare per la prima volta la definizione di valle Deminæ nel diploma del Malaterra 27

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“I Bizantini ristorarono ogni luogo dell’isola, munirono i castelli e i fortilizi…” 22 “Il paese fu restaurato in ogni parte dai Bizantini, i quali vi edificarono fortilizi e castelli, né lasciarono monte che non v’ergessero una rocca” 23 Modeo, Cutaia 2013 24 Molinari 1995 25 Caduta di Rometta, nei pressi di Messina, dopo un lungo assedio

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 10. Sezione della Carta elaborata da Edrisi relativa alla Sicilia e ad altre isole, comprese Sardegna e Sicilia per il “Libro di Ruggero" (“tabula rogeriana”, copia del XIII secolo. Bibliothèque nationale de France)

familiari che avevano scelto di rimanere tra le rovine della città ellenistico-romana. Nuove case pertanto si aggiunsero a quelle già esistenti, prima isolate, poi riunite in blocchi di abitazioni probabilmente collegate ad un cortile e una strada. Possiamo quindi immaginare che la nuova città si sia sviluppata gradualmente avendo come base di partenza un percorso viario “naturale”, quale doveva essere la persistenza dell’antica plateia, ormai ridotta ad un sentiero che continuava a collegare da nord a sud le case esistenti. Queste rimasero raccolte lungo il pendio meridionale, protetto dalla sommità dell’altura. In epoca araba, pertanto, esisteva un borgo, presto protetto da mura che vennero potenziate in epoca normanna. Alcune vecchie abitazioni dell’odierna Caronia presentano caratteristiche che ne fanno risalire la costruzione ad un epoca molto antica, quanto meno nel basso medioevo, sebbene alcuni espedienti costruttivi ne suggeriscano una datazione ad epoca ancora precedente. Si tratta generalmente di grandi ambienti, successivamente divisi internamente, ricavati nella roccia rimasta in vista. Una casa in via Marconi (fig. 11), nei pressi della Chiesa Madre, presenta il muro di fondo (a ovest) interamente ricavato nella roccia stratificata, intaccata per altezze fino a 3 metri e rimasta sempre a vista. La parete nord è anch’essa parzialmente scavata nella roccia, su cui si appoggia un fragile muro in pietrame senza legante che, per tecnica costruttiva, richiama esempi di età bizantina e comunque di contesto molto povero. Notevole il riutilizzo di mattonacci ellenistico-romani e di blocchi di riutilizzo nelle pareti e

La conquista normanna dell’isola, completatasi nel 1087, consegnò all’abitato di Caronia lo status di città: è quindi tra la fine dell’anno 1000 e la metà del secolo successivo che fu costruito il Castello. E’ singolare il fatto che l’area fortificata racchiudeva solo una piccola parte di quella che fu la città di età classica, ovvero la più raccolta a valle del Castello, probabilmente perché meno esposta non solo militarmente, ma anche da un punto di vista climatico, così come si era andata sviluppando nei due secoli precedenti. L’urbanistica dell’abitato medievale, la cui trama si è conservata ben riconoscibile fino ad oggi, seppure con le inevitabili mutazioni imposte dalla necessità di adattamento alle nuove esigenze di vivibilità, è impostata su una strada principale affiancata da strade minori, tra loro collegate da una maglia di stretti vicoli, che talvolta di allargano a formare piccoli cortili, oggi in gran parte occupati da case. Sembra di riconoscere in questo tessuto urbano una persistenza delle modalità di occupazione di epoca classica, quando l’abitato era scandito da alcune strade nord-sud intersecate da strade minori est-ovest in pendio: sia in epoca medievale che in età greco-romana - occorre osservare - un tale assetto era sostanzialmente assecondato e suggerito dalla morfologia dell’altura, di forma allungata con i pendii est e nord che si sviluppano in maniera regolare. La parziale rioccupazione del tardoantico dovette condizionare lo sviluppo dell’abitato collinare in età medievale, che conservò al suo interno preesistenze un tempo isolate e successivamente inglobate nei nuovi quartieri. Quando la collina venne rioccupata, dovevano già esistere abitazioni di gruppi

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Da Calacte a Caronia nella scala che conduce al piano superiore, realizzato probabilmente nel ‘700, ormai crollato. Un’altra casa a valle di vico Caprino (via Garibaldi) presenta murature interamente realizzate con mattonacci ellenistico-romani integri o parziali e pietra di riutilizzo; ancora un’altra abitazione, anch’essa abbandonata, in via Sabotino, è ricavata intaccando profondamente la roccia e mostra numerosi esempi di reimpiego di materiali antichi. In realtà sono molti i casi di studio nel tratto urbano compreso tra il Castello e la Chiesa Madre, dove le case sono disposte lungo il pendio e collegate ad una maglia di stretti vicoli con andamento irregolare, di tipica formazione medievale. Non è escluso che alcuni di questi edifici risalgano ad età medievale e che a loro volta riutilizzino preesistenze di epoca classica, quale l’esistenza di ambienti ricavati nella roccia in modo da sfruttare il pendio in maniera regolare.

seminativi, in maniera non dissimile da quanto doveva avvenire in epoca greco-romana. Volendo ricavare da questi dati la situazione urbana e demografica di due-tre secoli prima, prendendo come base il trend di crescita registrato nei Riveli successivi (nel 1607: 391 abitanti e 111 case; nel 1616: 474 abitanti e 127 case; nel 1625: 369 abitanti e 107 case; nel 1637: 597 abitanti e 121 case, per finire nel 1748: 1275 abitanti e 250 case) potremmo ipotizzare che, ad esempio, alla fine del XIII secolo Caronia contasse non più di 250 abitanti e che le case d’abitazione esistenti fossero circa 70, la gran parte delle quali si trovavano nei quartieri S. Nicola, Spiruni e Castello, vero nucleo originario della città medievale. L’area cinta dalle mura di fortificazione doveva comprendere agglomerati di case sparsi sulla sommità della collina, con ampi spazi aperti che solo successivamente sarebbero stati occupati fino ad assumere la fitta trama urbana oggi riconoscibile. Ciò non deve stupire, considerando che a quei tempi Caronia costituiva comunque una “città”: altissima era la mortalità infantile, con un’aspettativa di vita che non si discostava molto da quella di epoca classica; le case erano anguste, spesso costruite con tecniche povere e soggette a crolli e danneggiamenti continui per effetto degli eventi meteorologici. Eppure la presenza del Castello e l’essere una fortezza all’interno di un territorio vastissimo e ricco di risorse ne favorì l’esistenza e lo sviluppo.

Fig. 11. Interno della casa in via Marconi, ambiente nord. Si noti il muro in pietra locale (medievale?) che si addossa alla parete rocciosa scavata sul lato occidentale (a sinistra nella foto)

Un’idea di come doveva essere organizzata la città in epoca quantomeno tardomedievale può provenire dall’esame dei cosiddetti Riveli, periodico censimento ante litteram che raccoglieva i dati demografici e fiscali di un centro abitato, di cui si ha notizia a partire dall’inizio del ‘500.29 Per Caronia, il primo disponibile risale al 1593 e, sebbene si riferisca ad una fase già di molto posteriore alla fine del Medioevo, contiene molti dati utili a ricostruire la consistenza demografica e la struttura urbana nella suddivisione in quartieri, molti dei quali ancora oggi esistenti, sebbene modificati e ampliati. I Riveli del 1593 riportano una popolazione complessiva di soli 385 cittadini, di cui 221 maschi e 164 femmine. Le case censite sono 99 comprese in 13 quartieri, il più popoloso dei quali è quello di S. Nicola, identificabile nel rione che comprende la Chiesa Madre, con 31 case (quasi 1/3 dell’intera area urbana!), seguito da quello dello Spiruni con 13 case, strettamente collegato al primo. Segue l’elencazione delle contrade fuori città, coltivate prevalentemente a vigneti e

Fig. 12. Ipotesi di percorso delle fortificazioni di XII-XIII secolo con indicazione delle porte urbiche

Monumento di primo piano sopravvissuto dalla fase medievale di Caronia è il Castello. La fortezza che domina e contraddistingue ancora oggi il paesaggio costituisce uno dei più notevole esempi di architettura normanna in Sicilia, sia per l’ottimo stato di conservazione, agevolato dalla circostanza che essa è stata ininterrottamente abitata fino ai giorni nostri per ben otto secoli, sia per una serie di peculiarità architettoniche e strutturali che ne fanno un esempio mirabile di una

29

Per un resoconto dettagliato del contenuto dei Riveli, vedi l’interessante studio in Fiore 1991, p. 103 e segg.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia complesso e sfrutta, come pareti di fondo, tratti delle mura di cinta originarie. Sotto il pavimento, in corrispondenza della campata orientale, è un ambiente rettangolare con volta a botte, a cui si accede attraverso una scaletta di epoca posteriore. Si tratta di una cisterna, con pareti rivestite di intonaco impermeabile di cocciopesto, dove defluiva l’acqua piovana proveniente dal tetto; un’apertura quadrata nel pavimento della cappella (circa 55 cm di lato), consentiva di attingere l’acqua. .

certa fase storica nel panorama isolano. Si tratta di un palazzo a due piani inserito all’interno di una cinta muraria che si raccordava con l’intero sistema difensivo realizzato nel XII secolo. Del complesso fanno parte una cappella coeva ed altri ambienti di servizio di epoche successive, oltre ad una cisterna sotterranea di incerta datazione. Costruito durante il regno di Ruggero II (11301154), il Palazzo, inserito nella cinta muraria del complesso fortificato, era verosimilmente utilizzato dalla corte normanna come refrigerio dalla calura estiva. La più antica notizia su questa fondazione è data sempre da Edrisi che, ricordando Caronia come "rocca antica" (qal'a qadima), afferma che presso di essa era stato edificato un nuovo fortilizio, presupponendo l'impianto generale preesistente all'età normanna. Il complesso, delimitato da mura munite di torri, segue la geometria pressoché a pianta triangolare della cima dell'altura. In entrambi i lati della cinta è inserita una torre quadrata, avanzata rispetto al filo della cortina. L'ampio fronte orientale è composto da due ali di modesti annessi, di età posteriore. Il portale d'ingresso, eretto nel 1837 in forme rinascimentali, nasconde un retrostante portale a sesto acuto, più antico e di maggiori dimensioni. La torre occidentale è stata ricostruita e in parte modificata nella sua forma, in seguito ad un crollo. All'estremità sud-orientale del complesso sorge una terza torre, a lungo utilizzata come “torre dell'orologio”. Il nucleo monumentale del complesso è costituito dal palazzo del XII secolo, a due elevazioni con impianto analogo sui due livelli. Di pianta rettangolare, presenta affinità con le sale centrali dei palazzi palermitani dell'Uscibene e della Zisa, soprattutto nella disposizione interna, con la sala centrale maggiore affiancata, simmetricamente, da due vani minori. Il fronte orientale è caratterizzato dal grande portale d'ingresso, che conserva la cornice originaria a doppia ghiera. I vani di entrambi i livelli erano originariamente coperti da volte, soltanto in parte conservate. Il piano terra era destinato a deposito e ad altre funzioni di disimpegno, mentre il piano superiore era la vera e propria abitazione, caratterizzata dalla sala triloba di chiara impronta islamica con ingressi ogivali. Al piano superiore, la grande sala centrale è coperta da una volta a padiglione ribassata. Le due stanze che fiancheggiano la sala centrale differiscono notevolmente tra loro: quella meridionale è costituita da un vano rettangolare coperto da una bassa volta a padiglione intonacata; quella settentrionale è una sala costituita da un vano rettangolare, coperto da crociera, aperto per tre lati in tre grandi nicchie (iwan), le due laterali con catino a ombrello scanalato. La nicchia della parete di fondo presenta un elegante dispositivo per il passaggio dalla pianta rettangolare a quella semipoligonale del catino. All'estremità nord-orientale del complesso fortificato sorge la Cappella, databile anch’essa al XII secolo, come testimonia lo stile architettonico che richiama analoghe architetture normanne di Sicilia, costituita da un'aula tripartita in navate da arcate ogivali su semplici pilastri rettangolari e concluse da absidi semicircolari ricavate nello spessore murario. La cappella a tre navate è posta all’angolo nordorientale del

Figg. 13-15. In alto, planimetria dell’area del Castello: Palazzo e cinta muraria con torri (strutture originarie in nero, ampliamenti successivi in grigio e in bianco. Da Kroenig 1977). Al centro e in basso, vedute aeree del Castello normanno da est (ingresso) e da nord (foto D. Piscitello)

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Da Calacte a Caronia Secondo una consuetudine largamente attestata per l’epoca medievale, per la costruzione del nuovo edificio si attinse abbondantemente ai resti edilizi di preesistenze riferibili a epoca classica. Peraltro, la circostanza è ampiamente testimoniata nell’intero centro storico di Caronia, dove i muri delle case appaiono quasi interamente costruiti con materiale di riutilizzo. Kroenig osserva come nelle murature del castello e negli accorgimenti stilistici delle aperture siano stati impiegati mattoni di largo formato (50 x 25,5 (=35,5?) x 8,5 cm.) di presumibile epoca romana (le ricerche archeologiche a Caronia hanno dimostrato invece che questi mattonacci furono impiegati a partire dal III secolo a.C. e fino a tutta l’età imperiale). Di particolare interesse è stato il rinvenimento di due colonne in pietra calcarea messe in luce in uno dei pilastri della cappella: si tratta di colonne con capitello di tipo ionico, prive di basi, una con fusto scanalato e l’altra con fusto liscio, di certa età classica. Nel complesso, appare evidente il diffuso ricorso a materiali antichi per la costruzione della fortezza di XII secolo, nonché per alcune modifiche e ristrutturazioni che vennero fatte nei secoli successivi. Uno studio dettagliato del castello di Caronia è stata fatta nel secolo scorso da W. Kroenig,30 dal quale abbiamo ampiamente tratto la descrizione prima esposta Il Castello occupa la parte più alta della collina su cui sorgeva la città greco-romana. Come per altre città greche è ipotizzabile che anche in questo caso la parte più eminente dell’altura (acropoli) fosse occupata da edifici di culto e annessi (eventualmente un temenos che racchiudesse l’intera area sacra). Tuttavia, l’esplorazione dei terreni circostanti la struttura medievale non ha portato finora all’individuazione di livelli archeologici significativi ed anzi in molte aree la superficie appare archeologicamente sterile. Tale circostanza sarebbe legata ai lavori che precedettero la costruzione del castello, consistenti con ogni probabilità in ampi spianamenti della cima della collina e successivi reinterri, in modo da ricavare livelli altimetrici compatibili con l’impianto di un complesso esteso quale erano, insieme, l’edificio signorile, la cappella e i magazzini, oltre a cortili e spazi di disimpegno all’interno delle mura di fortificazione. Scavi operati a diverse profondità hanno negli anni interessato il giardino ed i cortili per l’impianto o la manutenzione di tubature idriche, elettriche e di gas. Costantemente è stato messo in luce il terreno quasi del tutto privo di frammenti, e a poca profondità il sottostante substrato roccioso; unico pezzo che potrebbe datarsi ad epoca classica è un supporto scanalato di tufo, che è stato riutilizzato per il fonte che sta nella cappella. Nel rifare la pavimentazione del vano centrale del piano terra, infine, è stata accertata l’assenza di livelli archeologici.31 Un chiarimento necessitano infine le diverse colonne marmoree a fusto liscio o scanalato di epoca classica da sempre sistemate nel cortile d’ingresso del castello, da molti ritenute provenienti da Caronia. In realtà provengono da Palermo e la famiglia Castro le

ricevette in dono, agli inizi del ‘900, da alcuni antiquari palermitani, che avevano avuto difficoltà a rivenderle a un acquirente fiorentino. Altro monumento da riferire ad epoca molto vicina alla costruzione del Castello è la Chiesa Madre (di S. Nicolò), posizionata più in basso del Castello sul pendio orientale. La chiesa è ad unica navata con campanile ed è oggi il risultato di diversi interventi di restauro e ampliamento. Non è da escludere che in origine sia stata pensata come edificio a tre navate, con absidi rivolte a nord-est, secondo caratteristiche tipiche dell’architettura religiosa di epoca normanna, in maniera similare ad analoghi edifici di culto rinvenuti, ormai a livello di fondazioni, presso il castello di Mistretta32 e nel complesso di S. Pietro Deca a Torrenova.33 Interventi successivi, forse resisi necessari a seguito di danneggiamenti per cause naturali, probabilmente modificarono la struttura settentrionale dell’edificio, con eliminazione delle absidi, e creazione di un unico grande ambiente. Le murature esterne della Chiesa reimpiegano sistematicamente elementi edilizi antichi: grandi blocchi di calcare, mattonacci, tegole piane, perfino lastre marmoree decorate.

Fig. 16. Particolare del muraglione di contenimento del cortile della Chiesa Madre, coincidente con un tratto delle fortificazioni medievali. Il muro, in cui si individuano varie fasi, è realizzato con blocchi litici di vario tipo e mattonacci ellenistico-romani riutilizzati negli interstizi

Meriterebbe uno studio la posizione dell’edificio, parzialmente incassato nel terreno sul lato occidentale, ma poggiante su un terrapieno (artificiale) prominente contenuto da un alta parete realizzata con materiali diversificati coincidente con le mura di

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Kroenig 1977 Si ringrazia vivamente per le notizie qui riportate il prof. S. Bordonali, membro della famiglia Castro proprietaria del Castello 31

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Rotolo 2012 Kislinger 2004

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia struttura ortogonale, probabilmente lungo il fianco settentrionale, più ampio. Il richiamo all’evoluzione urbanistica di queste città che ebbero una fase medievale in continuo con quella classica come a Caronia serve a richiamare l’attenzione sulle modalità con cui, anche dopo fasi di parziale abbandono, nuovi quartieri abitativi si innestarono su aree precedentemente urbanizzate. Riteniamo che in età medievale fosse dispendioso non solo procurarsi nuovi materiali da costruzione, per cui si ricorreva ampiamente al riutilizzo di quelli antichi, ma anche livellare i terreni per edificare nuove case ed eliminare totalmente le preesistenze. E’ ipotizzabile che in molti casi si sfruttassero come fondamenta le strutture antiche superstiti, rimuovendo soltanto i crolli che servivano come deposito a poco prezzo di materiale da reimpiegare. Pertanto, a Caronia come negli altri centri appena citati, è da ritenere che la struttura urbana medievale (e moderna) ripercorra a grandi linee quella più antica e ne rispetti quantomeno l’orientamento lungo i principali assi viari. Lo studio dell’organizzazione urbana di epoca medievale può servire alla ricostruzione almeno dell’assetto viario delle città antiche che, come sappiamo bene, risulta difficoltoso se non impossibile in centri a ininterrotta continuità di vita, dove non è possibile condurre scavi sistematici né ricorrere ai moderni sistemi di ricerca tramite georadar. Sulla collina di Caronia dovette rimanere ininterrottamente in uso l’asse stradale principale, corrispondente alla plateia di epoca greca, quale percorso preferenziale per attraversare da nord a sud il crinale all’epoca in cui esso rimase sede di poche case rurali. La graduale ripresa abitativa, che ipotizziamo a partire dal IV-V secolo d.C., dovette sfruttare questo asse viario, che tuttavia nei secoli subì interramenti e sovrapposizioni di caseggiati, che ne determinarono, alla lunga, la scomparsa delle caratteristiche di regolarità proprie dell’epoca classica. La sovrapposizione virtuale della mastra rua medievale su quello che si può ipotizzare essere stato il percorso della plateia-decumano porterà ad individuare i primissimi nuclei edilizi che determinarono la parziale sinuosità della strada ancora oggi esistente. Al di là delle possibili persistenze di strutture di epoca medievale all’interno del centro storico di Caronia, la ricostruzione delle vicende della città nel post antico può attingere soprattutto all’evidenza costituita dai materiali riversati fuori dall’area urbana sin dall’antichità, abbondantemente presenti sul piano di campagna sottostante l’abitato moderno. In particolare, un enorme “butto” si è creato nei secoli sul versante orientale della collina, soprattutto – per ciò che riguarda le testimonianze di epoca arabo-normanna – nel settore immediatamente sottostante il quartiere della Chiesa Madre. Notiamo infatti che, sebbene l’intero versante orientale della collina offra oggi il maggior numero di resti di cultura materiale da epoca greca classica ad età post-medievale, i materiali del periodo compreso tra X e XIV secolo appaiono concentrati in un’area ben definita, corrispondente verosimilmente al sovrastante abitato contenuto tra le odierne vie Ducezio a nord e Calacta a sud.

fortificazione medievali. Il muraglione che contiene il terrapieno sul lato est è il frutto di diversi interventi di manutenzione o addirittura ricostruzione: a settori alzati con una maglia regolare di grandi blocchi litici di varia natura (arenaria, calcare bianco, ecc.) si alternano alzati più poveri, con reimpiego di pietrame, mattonacci e tegole. Si ricorda che lavori di sistemazione dell’annessa Canonica, ricavata proprio all’interno di questo muro, portarono alla scoperta di scheletri umani, da riferire con ogni probabilità a sepolture, anche di XIII secolo, impiantate come consuetudine in passato nei terreni adiacenti l’edificio religioso. Il muraglione sottostante la chiesa è uno dei pochissimi tratti di mura di fortificazione in qualche modo sopravvissuto fino ad oggi. Queste, infatti, sono state quasi interamente inglobate in case d’abitazione moderne o smantellate per l’apertura di strade. Se ne può ricostruire il percorso sul lato orientale seguendo l’allineamento degli edifici prospettanti sulle vie Foscolo e Pasubio (dove sopravvive la base di una torre). In area nebroidea, Caronia costituisce uno dei pochi esempi di persistenza abitativa dall’epoca classica. In generale, i piccoli centri esistenti nel tratto compreso tra Cefalù e Milazzo, sono quasi tutti di fondazione medievale. Tra le cittadine odierne che traggono origine da centri di epoca greco-romana citiamo San Marco d’Alunzio (antica Halontion), Mistretta (antica Amestratos) e Troina, di cui rimane dubbio il nome antico (Engyon?). Quest’ultima occupa il sito di una città che, a partire almeno dalla fine del IV secolo a.C., si sviluppava su un’altura allungata con fianchi regolari solo verso sud. I pochi saggi di scavo hanno rintracciato in questo settore edifici di epoca soprattutto romana, compresi entro una lunga cinta muraria di III secolo a.C. L’abitato medievale si sovrappose a quello di epoca classica rispettandone anche l’urbanistica: è presumibile infatti che, come nella città medievale e moderna, uno o più lunghi assi viari orientati SO-NE attraversassero l’altura, intersecati da ripide strade ortogonali che scendevano verso il fondovalle meridionale, circostanza suggerita dalla stessa disposizione delle strutture finora portate in luce. Di più complessa definizione sono le modalità di sovrapposizione delle fasi classica – bizantina – medievale a Mistretta, dove risultano sostanzialmente assenti studi archeologici. E’ presumibile che in epoca bizantina, dopo un periodo di contrazione demografica, si sia creato un borgo ai piedi dell’aspra sommità in cui fu costruito in epoca normanna il Castello e le fortificazioni annesse, la cui struttura appare disordinata in quanto frutto di accorpamenti di case sorte seguendo le curve di livello e la morfologia del pendio. L’odierna San Marco d’Alunzio, infine, presenta un peculiare assetto urbano indotto dalla morfologia dell’altura, di forma pressoché conica: una serie di strade si sviluppano seguendo le curve di livello avvitandosi gradualmente verso la cima, collegate da innumerevoli ripidissimi vicoli. Questa è la struttura dell’abitato medievale che possiamo presumere ripercorra l’urbanistica della città greco-romana: i saggi di scavo in diversi settori della collina mostrano che le case furono costruite intaccando profondamente la roccia di base, disponendosi secondo l’andamento del pendio, per cui solo in pochi casi dovettero esistere quartieri a

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Da Calacte a Caronia di produzione ceramica, con relative fornaci, sono stati individuati a Palermo, Agrigento, Mazara, nonché a Sofiana e Piazza Armerina. Già nella seconda metà del X secolo si diffondono ceramiche caratterizzate da una ricca decorazione policroma con invetriatura, pertinenti a forme diversificate quali catini, ciotole, brocche, ecc. 34 Caratteristici sono i catini emisferici con decorazione costituita da un motivo vegetale compreso tra foglie, con motivi tratteggiati sul bordo, dove prevalgono i colori verde, bruno e giallo sotto vetrina. Tipica produzione della fine del X e XI secolo è il catino carenato con bordo arrotondato all’interno nel quale sono disegnate una o più pavoncelle, frequentemente sormontate da una decorazione a cuori concatenati.35

Fig. 17. Disegno di C. Camillani (1580) raffigurante la collina di Caronia vista dal mare. Si nota come ancora nella seconda metà del XVI secolo la città fosse interamente racchiusa entro le mura, di cui si riconosce l’andamento e la disposizione delle torri, mentre il litorale appare del tutto disabitato

Il settore sottostante piazza S. Francesco, come quello, piuttosto ampio, della contrada Telegrafo a nord, mostrando rade o nulle attestazioni di epoca arabonormanna, confermano che a quell’epoca la città aveva il suo limite proprio in corrispondenza della via Ducezio, oltre la quale esisteva solo campagna, con limitate occupazioni solo in età post-medievale, tra le quali la stessa chiesa di S. Antonio. Nell’area in questione, un “tappeto” di materiali di ogni epoca, e – per quanto interessa ai fini del presente studio – di età araba, normanna e sveva, costituisce un tesoro inestimabile ai fini della ricostruzione della cultura materiale a quell’epoca, studio che purtroppo non è mai stato intrapreso a Caronia, circostanza che, escludendo Palermo e pochi altri centri dell’isola, accomuna in effetti l’intera Sicilia, dove non ha ancora preso piede un vero e proprio filone di archeologia medievale, sebbene gli spunti di studio siano innumerevoli. Rinviando a studi futuri una disamina dettagliata delle produzioni ceramiche in uso nella nostra città tra l’epoca araba e la fine del Medioevo, di seguito si fa una rapida e non sistematica sintesi delle attestazioni ceramiche riferibili al medio-tardo Medioevo (fino alla fine del XIII secolo), utili esclusivamente al fine di ricostruire a grandi linee la consistenza demografica dell’abitato e identificare gli aspetti di cultura materiale, che comunque appaiono quasi del tutto uniformati agli altri siti siciliani che vissero nella stessa epoca. Caronia infatti non si discosta da altri centri che ebbero un’importante fase di vita in questa parte della Sicilia per ciò che riguarda le caratteristiche dei manufatti normalmente in uso nei contesti domestici e il trend delle importazioni. Piuttosto si rileva, in proposito, l’apparente assenza di produzioni locali di ceramiche, che ora appaiono quasi tutte di importazione da altre parti della Sicilia o dalla Penisola. Già nella prima metà del X secolo erano attive in Sicilia fabbriche di ceramiche invetriate di tradizione islamica, molto probabilmente a seguito dell’arrivo nell’isola di artigiani provenienti dal nord Africa. Ateliers

Fig. 18. In grigio: aree di dispersione di ceramiche medievali e post-medievali (XI-XV secolo)

Queste produzioni ceramiche di X-XI secolo sono attestate sulla collina di Caronia: la frequenza con cui si rinvengono, nell’area di discarica del pendio orientale, frammenti soprattutto di catini di produzione siciliana, attestano non solo l’esistenza della città immediatamente a monte, ma anche un certo sviluppo demografico raggiunto durante la dominazione araba. Possiamo quindi ritenere già esistente la roccaforte di Caronia tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, quale nuovo polo di aggregazione in forma urbana dopo secoli di abbandono della collina, secondo un processo che dovette avviarsi già dalla seconda metà del IX secolo. Più numerosi appaiono i frammenti riferibili alla fase normanna della città. In particolare, si sono censiti, sempre nella stessa area di ricognizione, numerosi frammenti di invetriate con decorazioni prevalentemente in verde e manganese. Come attestato in altri siti della Sicilia nord-orientale (ad esempio a Milazzo),36 sono molto diffuse, tra le ceramiche da mensa, le invetriate su ingobbio con decorazioni policrome; prevalgono, tra le 34

Si vedano, tra gli altri: Molinari 1992; Di Stefano, Cadei, Andaloro 1995; Molinari, Cassai 2010; Mangiaracina 2013 35 Mangiaracina 2013 36 Fiorilla 2011

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia forme, i catini ed i piatti a larga tesa. Si segnalano diversi frammenti di una particolare categoria di vasellame (piatti e bacini) ampiamente diffusa tra XII e XIII, la cosiddetta spiral ware, con decorazioni a spirale sul fondo disegnate in bruno o in verde, nonché frammenti di invetriate graffite di produzione nord italica. Nello stesso orizzonte si inquadrano i frammenti ceramici rivestiti di ingobbio bianco senza vetrina con decorazioni a strette fasce policrome in bruno, rosso e giallo. In questa categoria rientrano alcuni fondi di catini (?) con decorazione a reticolo entro cerchio o a motivi non interpretabili resi con tratti bruni. Tra i contenitori da trasporto rientrano un gran numero di anse a largo nastro, alcune decorate con motivi in bruno, che ebbero diffusione anche oltre il Medioevo. La diffusione delle protomaioliche nel meridione d’Italia e in Sicilia nel corso del XIII secolo trova ancora una volta riscontro sulla collina di Caronia. Si trattava in questi casi di prodotti di lusso, non più realizzati con semplice invetriatura ma con smaltatura stannifera. In Sicilia furono diversi i centri di produzione della protomaiolica, tra cui Siracusa, Caltagirone, Enna e Gela: da quest’ultimo centro deriva il tipo più conosciuto, denominato per l’appunto Gela ware. Tuttavia, i frammenti di protomaioliche presenti a Caronia mostrano di frequente caratteristiche diverse nelle argille rispetto alle produzioni gelesi, che non consentono, al momento, di stabilire da quale centro provenissero in prevalenza questi prodotti, ipotizzandone anche una provenienza dall’area di Brindisi, dalla Campania o dal nord Italia.37 Tra i materiali non vascolari, risultano ampiamente attestate anzitutto le tegole, che notoriamente in età medievale presentano diffusi vacuoli perché realizzate impastando assieme all’argilla la paglia, che in cottura scompariva lasciando il corrispondente vuoto. Le tegole di Caronia appaiono realizzate localmente, come si intuisce dalle caratteristiche dell’argilla, sono poco spesse e presentano di frequenta superficie esterna colorata di bruno o rosso. Attestati sono anche i vetri e i manufatti in metallo, tra i quali si segnalano, da recuperi sempre sul lato orientale della collina, un anellino in bronzo con castone in pietra verde ed una sorta di patera in ottone con decorazione interna incisa. Infine si segnala il rinvenimento di monete, soprattutto di epoca normanna ed una con caratteri cufici. Una semplice analisi quantitativa del materiale frammentario tardomedievale a Caronia suggerisce livelli demografici con crescita relativamente ridotta tra XI e XIII secolo. In questo periodo, l’abitato conservò dimensioni limitate che, stando all’area di dispersione dei materiali, appaiono circoscritte alla zona immediatamente a sud-est e a sud del Castello. La cinta muraria esistente quantomeno dal XII secolo doveva in realtà comprendere un’area non fittamente occupata da case, soprattutto verso sud. I materiali presenti in superficie, invece, dimostrano un notevole incremento a partire dal XIV e soprattutto XV secolo. Tipiche di questa fase sono le vere e proprie maioliche, ampiamente attestate. D’altra parte, le dimensioni raggiunte in questa fase dalla città imposero l’abbandono dei limiti segnati dalle mura di cinta: tra XV 37

e XVI secolo nuove case iniziarono ad essere costruite fuori dalle mura, soprattutto verso sud. Lo studio dei materiali successivi alla fine dell’età romana si presenta relativamente complesso a Caronia, dove le importazioni dall’Africa di ceramica fine appaiono relativamente ridotte in confronto alla diffusione di manufatti di produzione locale. Altrettanto complessa è l’interpretazione del periodo compreso tra VIII e IX secolo in mancanza di studi specifici sulle classi vascolari di questo periodo. Chi scrive ha ipotizzato un prolungamento nella produzione e utilizzo di manufatti inquadrati generalmente nella fase proto bizantina, osservandosi l’assenza di un anello di congiunzione tra le ceramiche di VI-VII secolo e quelle invetriate introdotte dagli Arabi. La constatazione trova conforto in quelle fatte da altri studiosi,38 per cui si può attestare con pochi dubbi l’attardamento e la mancanza di innovazioni nell’ambito degli utensili ceramici almeno fino alla metà del IX secolo. In quest’ottica andrebbe abbassata anche la data di abbandono di molti contesti, non solo rurali ma anche di quello “urbano” di Marina di Caronia poco prima dell’introduzione delle tipiche ceramiche invetriate di tradizione araba.

Figg. 19-20. Materiali di probabile età medievale dal versante orientale della collina di Caronia: in alto, calice in vetro blu; in basso, anellino in bronzo con castone di pietra verde

38

Uggeri 2011: “La topografia e l’archeologia della Sicilia bizantina finora sono rimaste ancorate convenzionalmente al VI e al VII secolo, trascurando che in realtà la Sicilia era ancora più intimamente legata a Costantinopoli nell’VIII e nel IX secolo, non solo militarmente ed economicamente, ma anche nella sfera culturale, religiosa e liturgica”

Per un quadro generale delle produzioni siciliane: Fiorilla 1992

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Da Calacte a Caronia

Fig. 21. Selezione di ceramiche medievali dal versante orientale della collina di Caronia (XI-XIV secolo)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 22. Selezione di ceramiche medievali dal versante orientale della collina di Caronia (XI-XIV secolo)

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Da Calacte a Caronia

Fig. 23. Selezione di ceramiche medievali dal versante orientale della collina di Caronia (XI-XIV secolo)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Rimanendo in attesa di studi sistematici che interessino gli aspetti economico-sociali e le modalità insediative in atto tra la fine dell’Impero e l’età arabonormanna in area Nebroidea e più in generale nell’intera Sicilia settentrionale, quanto è stato possibile sommariamente osservare nel territorio di CalacteCaronia può essere così sintetizzato. Una netta fase di decadenza, più sociale che economica, si osserva a partire dalla fine del IV secolo a.C. La città viene gradualmente abbandonata, pur rimanendo il punto di riferimento politico e fiscale di un ampio territorio nel quale si sviluppano borghi rurali all’interno di estesi latifondi. Una certa vivacità economica è suggerita non solo dall’esistenza del porto, seppure adesso depotenziato, ma anche dalla prosecuzione di attività artigianali non solo destinate a soddisfare i bisogni della comunità locale (ad esempio le fabbriche di laterizi come quella individuata in c.da Sugherita o di vasellame di uso comune come quella esistente in c.da Chiappe), ma anche ad alimentare alcuni traffici commerciali in uscita (ad esempio il vino locale trasportato in anfore prodotte in loco verso la Penisola). Evidente è piuttosto l’impoverimento culturale e sociale, i cui segnali sono stati ampiamente accertati da tempo nell’intera isola. Finita l’epoca delle grandi opere pubbliche e della monumentalizzazione urbana, adesso si costruisce con tecniche più povere e accontentandosi di ambienti domestici assai più spartani di quelli in uso nei primi secoli dell’impero. Le case sono costruite o più spesso ristrutturate attingendo a materiali di spoglio e, a seguito dell’abbandono di molti edifici e della loro inevitabile decadenza strutturale, a distanza di tempo nuove povere case, spesso prive di fondamenta, si sovrappongono alla maglia urbana antica senza rispettarne l’originaria organizzazione. Le case tardoantiche e bizantine non hanno intonaci alle pareti, né pavimenti di pregio (si utilizzano spesso laterizi frammentari o lastre di pietra, se non il semplice battuto). Come accertato a Tyndaris e ad Halaesa, nel tardoantico non viene più neanche utilizzata l’efficiente rete fognaria creata in epoca ellenistica e molte strade vengono chiuse. Non sembra più esistere un’autorità centrale che imponga un piano urbano come avveniva in passato ed ognuno è libero di abitare nella maniera più conveniente. L’aspetto più evidente della povertà culturale ed economica della popolazione è offerto dalle stesse caratteristiche dei manufatti d’uso comune in circolazione, in particolare le ceramiche. Escludendo il vasellame importato dall’Africa, che conserva ancora una certa qualità,39 sappiamo bene come le produzioni locali siano stilisticamente scadenti e circolino oggetti spesso con difetti di produzione che raramente si sarebbero utilizzati in passato. Ci si accontenta, pur di tirare avanti tra molti stenti. La stessa contrazione demografica andrebbe giustificata con un’alta mortalità, sia infantile che in età adulta, dovuta ad una netta involuzione nelle abitudini di vita, nella scarsa igiene, in una dieta carente di nutrienti e in molti altri aspetti che investono il vivere quotidiano, che si protrae fino al Medioevo. E’ un

elemento che ancora aspetta di essere compreso, poiché è evidente che in molti casi, come nel nostro, siano rimaste ancora ampiamente disponibili le stesse risorse naturali che avevano permesso alla città di svilupparsi e prosperare. Il fenomeno potrebbe essere spiegato ricorrendo ad analogie con alcune società moderne, ad esempio quelle di nazioni dove la povertà rimane una piaga irrisolvibile nonostante la disponibilità di risorse naturali, sfruttate in maniera inefficiente. Là si osserva una marcata disuguaglianza sociale tra una ridotta classe di ricchi ed una generalità di cittadini in estrema indigenza. Può darsi che il sistema politico instauratosi in età bizantina, a cui non dovevano essere estranei gli interessi materiali della Chiesa di allora, abbia finito con l’agevolare solo un gruppo di famiglie rimaste in possesso di estesi latifondi che dava lavoro, a condizioni evidentemente sfavorevoli, alla massa dei cittadini. La conseguenza sarebbe stata un inefficiente sfruttamento delle risorse e la permanenza della comunità in un persistente stato di indigenza. L’arrivo degli Arabi in queste contrade, profondamente cristianizzate, probabilmente non sortì effetti da questo punto di vista né mutò le condizioni in essere da molti decenni, se non quello di richiamare in un contesto “urbano” la popolazione rurale, ed è solo dall’età normanna che si assiste ad una ricrescita sociale e culturale, di cui possono essere una testimonianza nuove realizzazioni di carattere pubblico, come le opere difensive, il tracciamento di strade e la costruzione di edifici di culto. La fase di passaggio tra il periodo classico e quello propriamente medievale, a Caronia va studiata secondo un’ottica svincolata dall’abitare in città, poiché le modalità insediative non sono più prettamente urbane ma rurali. I materiali rinvenuti in situ attestano il graduale abbandono dell’abitato marittimo a partire dal V secolo, con una limitata prosecuzione fino all’VIII-IX secolo, mentre la presenza di anfore tipo Termini 151/354, di Pantellerian ware e di vasellame di produzione locale testimonia la graduale rioccupazione della collina, sebbene in forma non urbana, tra IV e VI secolo. Qui inoltre, alla fase di VI-VII secolo vanno riferiti esemplari rinvenuti di brocchette a fondo piano di un tipo ricorrente in Sicilia soprattutto in contesti funerari.40 Il sito costiero probabilmente accolse solo un piccolo villaggio di pescatori e tale rimase per molti secoli, fino ad età postmedievale. Viceversa appare diffusa la creazione di borghi a distanza dall’area un tempo urbana.41 La loro dislocazione suggerisce i motivi che determinarono queste aggregazioni di famiglie in determinate aree. Ad esempio, sulla costa in contrada Chiappe, e probabilmente anche sul lato opposto, in contrada Sugherita, borghi si svilupparono nel tardo impero lungo la strada litoranea favoriti dall’esistenza di attività industriali quali potevano essere quelle delle fornaci per la produzione di ceramiche e di laterizi. Ma è soprattutto 40

Puglisi 2000 E’ il fenomeno che Wilson definì delle agrotowns, villaggi anche di certe dimensioni che nelle aree più interne costituirono i nuovi punti di riferimento nel territorio, di fronte alla decadenza e abbandono delle città di epoca classica, soprattutto di quelle posizionate su alture (Wilson 2000) se non di totale abbandono 41

39 Le sigillate africane continuano ad arrivare in Sicilia fino al VI-VII secolo d.C. Per la circolazione di queste produzioni nell’sola, si veda: Polito 2000

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Da Calacte a Caronia nell’entroterra che si creano aggregati di case che accolsero famiglie dedite allo sfruttamento agro-pastorale di vasti latifondi. Tale secolare vocazione agricola è ben riconoscibile nell’esteso areale montano-fluviale delle contrade Samperi - Piano della Chiesa - Sambuco, a sudovest della città; nelle contrade L’Urmo, Morizzi, San Giovanni e Contura nel settore occidentale del territorio calactino, nonché in quello posto all’estremo est a margine del torrente Furiano (contrade Marescotto - Case S. Mamma).42 Le ceramiche presenti in questi siti si datano non oltre l’VIII secolo d.C. e sono totalmente assenti quelle arabo-normanne, circostanza che suggerisce l’abbandono di questi villaggi poco prima della presa di possesso da parte degli Arabi di questo territorio. Gli agglomerati rurali esistenti in età bizantina dovevano essere autosufficienti e traevano le risorse per vivere dall’uso della terra. Trazzere in parte ancora oggi esistenti collegavano queste contrade alla costa, quindi alla strada litoranea e probabilmente agli approdi marittimi esistenti nella baia di Marina di Caronia e in contrada Chiappe, grazie ai quali si esercitava un discreto commercio in entrata e in uscita. Solo ricerche sistematiche potranno chiarire quale fosse la “forma urbana” di questi villaggi e come fossero organizzati. Particolari condizioni ambientali hanno consentito finora di cogliere a grandi linee l’aspetto di uno di essi, identificato in contrada L’Urmo, a sud-est della collina di Caronia. Qui affiorano le strutture di una serie di edifici costruiti con muri in pietra e laterizi prodotti localmente, a partire forse da una fattoria esistente già in età imperiale. Queste case appaiono distanziate tra loro e si dispongono lungo un crinale che si sviluppa dalle pendici della montagna, ancora oggi sede di un fitto bosco. Due strutture di forma circolare, poste sul declivio più interno, sono di dubbia datazione mentre i muri affioranti si datano al V-VI secolo d.C. in base ai materiali associati (tegole con bordo rigonfio,43 vasellame acromo, dolia). Sul fianco occidentale il crinale si sviluppa in una cavea naturale sede di numerose sorgenti d’acqua. Terreno agricolo doveva essere l’area pedemontana e quella retrostante, oggi nuovamente ricoperta dalla boscaglia. Una trazzera fino al secolo scorso collegava ancora questo luogo apparentemente isolato con la costa. Già al IX secolo, come detto in precedenza, si dovrebbe datare la rioccupazione in forma urbana della collina di Caronia a partire dal settore orientale e sommitale dell’altura, quale esito finale di un processo di ripopolamento già avviato alla fine dell’età imperiale ed ora reso necessario anche dal clima di pericolo creato dall’invasione araba. E’ da osservare che la presenza musulmana non ha lasciato segni tangibili nel territorio, se si esclude l’introduzione di manufatti d’uso comune quale il vasellame domestico: nessuna struttura in

muratura può con certezza riferirsi ad attività religiose, culturali e politiche di tipo arabo. L’area di Caronia, come quella che da qui si sviluppa verso est, non si può definire mai concretamente islamizzata come accadde, ad esempio, da Cefalù verso ovest, mentre è la presa da parte dei Normanni che lascia segni concreti nelle architetture e in monumenti ancora oggi visibili, come le opere di fortificazione, la chiesa e il castello sulla collina. Un ultima considerazione riguarda la visione strettamente personale che chi scrive ha della fase di passaggio tra l’epoca classica e quella arabo-normanna sotto l’aspetto della cultura materiale, così come espressa dai manufatti d’uso quotidiano e dalle stesse modalità di abitare. L’ultima produzione ceramica che possiamo definire “di lusso” nei contesti tardoantichi è costituita dalle sigillate africane, ancora diffuse nel VII secolo d.C., che presentano caratteristiche stilistiche in qualche modo affini alle produzioni variamente decorate e ricercate dell’ellenismo e della prima età imperiale (presenza di decorazioni stampigliate, cura nella realizzazione del vaso, verniciatura, ecc.). Le produzioni locali che si affiancano alle sigillate già non presentano più motivi decorativi, se si eccettuano semplici linee graffite, talvolta ondulate o a zig-zag, pur mantenendo una certa raffinatezza nella modellazione del vaso e cura nella creazione di pareti regolari e di modesto spessore o di bordi caratterizzanti. A partire probabilmente dal VI secolo i contenitori di terracotta usualmente utilizzati nelle case siciliane iniziano a diventare di fattura più grossolana. Aumenta lo spessore delle pareti, divengono frequenti le imperfezioni nella modellazione, aumentano i prodotti con difetti di cottura. Si intravedono talvolta semplici decorazioni graffite, raramente dipinte. Le argille risultano spesso poco depurate. Non sembra esistere più il vasellame ceramico di lusso. E’ una situazione che si protrae sino alla diffusione delle ceramiche arabe, inizialmente importate e poi prodotte nell’isola, che presentano caratteristiche innovative come l’invetriatura o le decorazioni dipinte, suggerendo una rinascita non solo artistica ma sostanzialmente economica e sociale. Qual’era, quindi, la società che esprimeva se stessa attraverso l’uso di suppellettili tanto povere e di poco valore estetico? La società della prima età bizantina in Sicilia non era, come si è portati a pensare, estremamente povera. Le risorse agricole sfruttate nei secoli precedenti continuano ad assicurare discreti standard di vita, sebbene la campagna non abbia più l’organizzazione che aveva in età greca, con la ripartizione di piccoli fondi tra una moltitudine di conduttori. In epoca romana si sviluppa il latifondo e coloro che un tempo avrebbero posseduto un proprio appezzamento di terreno, ora lavorano come coloni in fondi agricoli detenuti da pochi grandi possidenti. La condizione di mezzadri, in ogni caso, assicurava un guadagno e permetteva alle famiglie di vivere. Le fonti storiche sono avare di riferimenti per quest’epoca, per cui non sappiamo bene quali eventi naturali abbiano colpito eventualmente l’isola (terremoti, epidemie, ecc.). In ogni caso, il numero dei siti che via via si vanno scoprendo inducono a modificare in positivo le statistiche demografiche, che in ogni caso suggeriscono

42

Fiore 1984 Si segnala la quasi totale assenza, nell’intero territorio di Caronia, delle caratteristiche tegole striate di epoca bizantina, ampiamente diffuse in altri siti siciliani. Si coglie in proposito ancora una volta il mantenimento locale di tecniche e gusti legati ai secoli precedenti, come nel caso dei mattonacci di tradizione ellenistica che a Caronia si continuano a produrre e utilizzare al posto dei comuni laterizi tipicamente romani di ridotte dimensioni ancora nel IV secolo d.C. 43

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia bizantina. Ci riferiamo ai dogmi che vietavano gli eccessi e imponevano uno stile di vita rigoroso e senza lussi. Questa visione severa della vita fu sistematicamente recepita e messa in pratica dai ceti meno abbienti, poiché qualche forma di lusso continuò ad essere esercitata dalle famiglie dominanti e dalla Chiesa stessa, che soprattutto a Costantinopoli e in alcune aree d’Italia non badava a spese per impreziosire gli edifici di culto con mosaici e architetture ricercate. Non è d’altra parte estranea la motivazione ambientale, riferendoci a contesti non più urbani ma prettamente rurali. Le città erano state sempre, infatti, il motore propulsore delle innovazioni, di gusti e tendenze culturali e artistici. Adesso, anche i principali agglomerati urbani di epoca classica dell’isola, come Siracusa, Agrigento, Messina o Palermo, erano ridotti a modesti villaggi dove neanche si riconosceva più il valore delle opere d’arte antiche, smantellate, riutilizzate o sbriciolate in apposite calcare per la produzione di calce. Venendo meno la città come punto di riferimento culturale, l’ambiente rurale, talvolta isolato e comunque inserito in un contesto ormai svincolato da ogni tendenza di gusto, doveva badare necessariamente ai bisogni primari. L’introduzione delle più ricercate ceramiche arabe a partire dal IX secolo e la loro immediata diffusione si dovrebbero cogliere come testimonianza di un cambiamento sociale e culturale. L’islamizzazione dell’isola, che da un punto di vista artistico appare evidente anche durante il regno normanno, introdusse un nuovo concetto di vita, che al pratico tornava a unire anche il piacevole: il vasellame invetriato e decorato non solo ravvivava la pratica del mangiare ma aveva effetti pratici non indifferenti: l’invetriatura di brocche e catini isolava le superfici del manufatto e rendeva più igienica l’assunzione dei cibi, un po’ come la verniciatura dei contenitori ceramici greci e di età imperiale. Peraltro, ad officine operanti sostanzialmente in ambito domestico e poco specializzate, ora si sostituivano laboratori con personale più qualificato, considerato che il manufatto, di per sé elaborato con maggiore cura, riceveva più lavorazioni per l’applicazione di decorazioni e l’invetriatura finale. Cogliere le reali motivazioni di un decadimento culturale così evidente per il periodo compreso tra VI e IX secolo in Sicilia non è semplice in mancanza di testimonianze scritte che facciano cogliere pienamente il contesto sociale di quell’epoca e di studi sistematici in materia. La cultura materiale così povera ed essenziale di questa fase, d’altra parte, non trova confronti neanche nelle più antiche culture dell’isola, poiché anche nell’Età del Rame o del Bronzo la vocazione artistica dell’uomo trovava terreno fertile nella modellazione di vasi d’impasto variamente decorati con incisioni, cordonature o colorazione delle superfici. Il lungo protrarsi di questo tipo di cultura “povera” per oltre tre secoli rende molto complesso lo studio stesso dei contesti bizantini, nella frequente assenza di altri elementi datanti come monete e iscrizioni. Non si nasconde comunque l’incompleta conoscenza, e non solo da parte di chi scrive, dei materiali precedenti il X secolo, in particolare di quelli di VIII-IX secolo, nella totale assenza di edizioni in materia,

pur sempre un sensibile calo della popolazione rispetto ai primi secoli dell’Impero. Piuttosto, la questione non è tanto economica quanto culturale e sociale. Ciò appare evidente anche dalle evidenze edilizie nei pochi siti esplorati sistematicamente, dove il principale monumento sembra adesso essere la chiesa, talvolta arricchita da marmi o mosaici, oltre a qualche isolato edificio termale. Nell’area in cui ricade Caronia le principali evidenze per l’età bizantina che abbiano ricevuto un’indagine sistematica risultano dagli scavi condotti a Piano Grilli44 presso San Marco d’Alunzio e presso Torrenova, in contrada S. Pietro Deca.45 In entrambi i siti il principale monumento è una chiesa absidata realizzata con un certo impegno, con piano interno in laterizi o lastre litiche e intonaci alle pareti. Un complesso di case private sembra gravitare intorno all’edificio di culto. A Piano Grilli l’insediamento risale all’inizio dell’età bizantina, mentre il complesso di S. Pietro Deca sorge su preesistenze di età romana. Non sono noti sistematicamente i materiali altomedievali rinvenuti negli scavi,46 mentre quelli esaminati personalmente sul piano di campagna non si discostano molto dalle analoghe produzioni diffuse nella parte nord-orientale dell’isola. Le ceramiche d’uso quotidiano di epoca bizantina sono spesso modellate a mano e si riducono ad alcune forme essenziali.47 Scompaiono i contenitori da toletta o per la cura del corpo, mentre la normale dotazione di una casa si limita a pentole per cucinare, brocche e fiaschetti per contenere acqua o vino e piatti o ciotole per mangiare, oltre alle lucerne, anch’esse molto semplificate, e ai contenitori per la conservazione delle derrate, tutti rigorosamente di semplicissima e grossolana fattura. Un vaso decorato, in effetti, non comportava necessariamente una spesa al di fuori della portata della gente comune. Ricordiamo come tra la fine dell’età ellenistica e l’alto impero le produzioni di vasellame e lucerne decorate a stampo si svolgevano in maniera standardizzata, in innumerevoli esemplari che potevano essere rivenduti a cifre irrisorie. Quindi è da escludere che la tendenza alla semplificazione sia riconducibile a motivi economici. La società di questa fase ha come obiettivo di vita l’essenziale e lo si desume, come detto, anche dalle modalità abitative, con case che dispongono di pochi ambienti, talvolta ad uso promiscuo, senza alcun espediente architettonico di tipo decorativo. I motivi che portarono la popolazione di epoca altomedievale ad una vita estremamente spartana non sono del tutto chiari e in ogni caso traggono origine già dalla fase immediatamente precedente le invasioni barbariche. Probabilmente la diffusione del Cristianesimo giocò un ruolo importante nella cultura popolare di età 44

Scibona 2011 Kislinger 2004 46 Per S. Pietro Deca a Torrenova, una prima edizione dei materiali da necropoli è contenuta in Stokl 2012 47 Essendo al momento impossibile inquadrare con precisione le produzioni ceramiche per il periodo che va dal VII al IX secolo, ravvisandosi una certa frammentazione e scollegamento dalle linee di gusto comuni, come avveniva per l’epoca classica, tra le diverse aree non solo della Sicilia ma a volte anche della stessa micro regione, possiamo trovare una prima catalogazione dei materiali in alcune pubblicazioni, tra cui: Puglisi, Sardella 1998; Danheimer 1989 45

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Da Calacte a Caronia cui fare riferimento per l’area centro-settentrionale della Sicilia, mentre per il nostro territorio si ribadisce la diffusa, se non preponderante, presenza di ceramiche di produzione locale, ben riconoscibili dalle caratteristiche dell’argilla, tra le quali si annoverano anche esemplari di contenitori con decorazione simile a quelle c.d. “a stuoia”,48 ancora poco conosciuti in Sicilia. Sembra evidente che siano ancora in numero esiguo coloro che si impegnano nell’apertura di un nuovo filone di studi archeologici, del tutto nuovo e senza precedenti, peraltro nella quasi totale assenza di riferimenti scritti che chiariscano il quadro socio-culturale di quest’epoca “di mezzo”. E’ un pezzo di storia che meriterebbe adeguato approfondimento, per comprendere le dinamiche che condussero a spostamenti di popolazione e, nel nostro caso, alla nascita del nuovo centro arabo-normanno, che appare sempre più l’esito finale del graduale ripopolamento di un sito che attraversò alterne vicende e risentì di fenomeni sia naturali che prettamente socioeconomici. In ultimo, si intende esaminare brevemente il rapporto tra città e territorio nella fase di passaggio dal tardoantico al pieno medioevo attraverso la ricostruzione della viabilità antica. Come ampiamente descritto, il periodo che va dal V al VII-VIII secolo è caratterizzato dalla dispersone umana nelle campagne con la formazione di piccoli borghi o di veri e propri abitati – seppure di modeste dimensioni, comunque da accertare – a distanza dalla città in totale decadenza. Se all’inizio quest’ultima continuò a costituire il centro di controllo politico e fiscale per quello che rimaneva in ogni modo il suo territorio, in seguito questa azione venne accentrata dalle diocesi, come appare evidente dalla citata epistola di papa Gregorio Magno del 599 d.C. nel caso della Massa Furiana, per la quale era divenuta competente la città (e diocesi) di Tindari.49 I riscontri sul terreno dicono che in epoca bizantina vaste aree sono interessate dall’occupazione umana, come sembrano suggerire i ritrovamenti sporadici di ceramiche di produzione locale genericamente assegnabili ad un ampio periodo (IV-VIII secolo) un po’ dovunque, testimonianza di uno sfruttamento agricolo piuttosto intenso su vaste aree. Viceversa dopo il IX secolo, il mancato rinvenimento di ceramiche di tradizione arabo-normanna se non entro un’area circoscritta all’immediato retroterra della nuova città collinare, induce a ritenere che si sia registrato l’abbandono di molte contrade, o quantomeno che in queste non esistessero più insediamenti stabili come nei secoli precedenti. L’esistenza di fattorie, anche a distanza dal centro abitato, è accertata nel nostro territorio almeno da epoca medio-tardoellenistica, con una vera e propria esplosione nel corso dell’età imperiale. In alcuni casi, le fattorie si trasformarono in vere e proprie ville, come quella identificata, sulla base del rinvenimento fortuito di pavimenti a mosaico, in contrada Portale, a ovest della

foce del fiume Caronia. L’esame della viabilità extraurbana risalente sicuramente ad età postmedievale, ma su percorsi molto probabilmente esistenti già in epoca classica, spinge a ritenere che in molti casi la migliore facilità di raggiungimento dei fondi coltivati non esigesse l’esistenza di fattorie o altri edifici per una permanenza prolungata, la cui esistenza avrebbe lasciato tracce sul terreno a livello di materiali di uso quotidiano come era il vasellame. Ceramiche databili al XII-XIII secolo fuori dall’area urbana sono state finora rinvenute solo in corrispondenza della bassa vallata fluviale e nel declivio a nord della collina fino alla costa, quindi in area molto prossima alla città collinare. Una serie di strade metteva in collegamento quest’ultima con il territorio, sia verso l’interno che verso la costa. Quasi tutte sono rimaste in uso fino alla metà del secolo scorso. Molte di esse conservano l’originale pavimentazione in acciottolato, tecnica in uso in area urbana già in epoca ellenistica e accertata finora per alcuni tratti in luce sulla collina di Caronia.50 La pavimentazione ancora visibile in alcune porzioni di strade è verosimilmente moderna, potendo risalire non oltre il XIX o XVIII secolo, anche se non è da escludere che il secolare utilizzo di questi tracciati viari abbia permesso la parziale conservazione del selciato originario. Sicuramente risale ad epoca classica una delle strade di collegamento mare-collina in parte ancora visibile tra le contrade Telegrafo e S. Anna, pavimentata con ciottoli di piccole e medie dimensioni e scalini in blocchi di arenaria per superare i pendii, che terminava il suo percorso in corrispondenza dell’odierno rifornimento Q8 e dell’ex Cooperativa (strada 1). Un secondo percorso antico tra città collinare e costa è quello che si sviluppa dal rione Canale a Caronia fino all’incrocio tra SS 113 e SP 168, dove corre a fianco della cisterna romana di contrada Palme, che in alcuni tratti conserva una pavimentazione a basole di roccia locale (strada 2). La strada 1 presentava un diverticolo verso ovest che si dirigeva, con piano in acciottolato, verso un fabbricato oggi in rovina identificabile come ultima evidenza del culto di S. Teodoro51. Da questo si sviluppava verso nordovest una strada in dislivello, che presenta ancora tracce di basolato in grandi lastre di roccia locale, diretta verso la contrada Fiumara (strada 4). Le strade 1, 2 e 4 terminavano il loro percorso in corrispondenza della principale arteria viaria, ovvero la strada costiera (3), la cui esistenza potrebbe risalire già ad epoca arcaica, asse portante della città marittima di epoca classica, il cui percorso sembra essere ripetuto dalla ex SS 113, che tuttavia non è chiaro in quale punto superasse il fiume: sicuramente non troppo vicino alla foce, dove il letto fluviale si allargava e richiedeva la costruzione di un ponte troppo grande. Il cosiddetto “Ponte Vecchio”, la cui datazione è stata dibattuta,52 venne costruito nel punto ottimale, laddove l’alveo del fiume si restringe ma non

48 Si tratta di alcuni frammenti di contenitori caratterizzati da largo spessore delle pareti, che nella superficie esterna presentano le impronte di una maglia di tessuto, assimilabili alla decorazione delle cosiddette ceramiche “a stuoia”. Vedi Cap. 3, n. cat. 257 49 Rizzo 2006, pp. 63-64

50

Vedi Cap. 3. Ricerche nell’area urbana… Si tratta di un piccolo edificio a due ambienti, uno dei quali utilizzato agli inizi del ‘900 come chiesa rurale (all’interno si conserva la traccia dell’altare, asportato, e un crocefisso in stucco sulla parete sud) 52 Fiore 1991. Vedi a seguire Cap. 7. Ricerche nel territorio 51

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia meridionale di V-III secolo a.C. (quartieri PozzarelloPidoto). Questa importante strada (8) doveva avere diverse diramazioni, una delle quali dovette essere la via di congiunzione con le aree agricole e produttive di contrada Lineri, che da qui doveva correre a mezz’altezza lungo il pedemonte verso le fertili contrade di SamperiSerralisa. Una seconda diramazione doveva raggiungere, proseguendo verso est, il margine sud dell’ampio pianoro di Trapesi, sede di numerosi insediamenti rurali di età ellenistico-romana, superato il quale doveva sdoppiarsi in altre due strade, una che digradava verso la costa attraverso la c.da S. Miceli e l’altra che proseguiva verso l’entroterra. Tutti questi percorsi sono ipotizzabili sulla base dei dati acquisiti attraverso il censimento delle principali aree di occupazione agricolo-produttiva di epoca ellenistico-romana53, finora identificate per l’appunto nelle vaste contrade Trapesi, Lineri e S. Miceli, che verosimilmente hanno continuato ad essere sfruttate ininterrottamente fino ad oggi. Sebbene non esistano tracce evidenti di queste strade, che non siano oggi viottoli solo in parte con fondo stradale stabile, si ritiene che abbiano mantenuto quindi la loro funzione anche in età medievale. In conclusione, la fase di passaggio da Calacte a Caronia può essere colta solo attraverso l’esame di evidenze non monumentali, ovvero i materiali mobili e le poche strutture affioranti che in associazione a questi possono essere datate. Mancano a tutt’oggi dati significativi da contesto urbano, se si escludono alcuni rinvenimenti nei recenti scavi in c.da Pantano sulla costa, mentre meriterebbero adeguato approfondimento, attraverso scavi sistematici, i numerosi siti rurali che sulla base delle ceramiche presenti mostrano fasi di vita comprese tra la fine dell’Impero e almeno il VI-VII secolo, tra i quali riteniamo meritevoli di studio quelli collocati nell’entroterra, nella media vallata del fiume Caronia (contrade Samperi – Piano della Chiesa Sambuco), in posizione molto vantaggiosa ai fini di un’efficiente sfruttamento delle risorse disponibili.54 La continuità di occupazione del sito si deve quindi intendere in maniera molto elastica, poiché nel corso dei secoli si sono registrate contrazioni e semiabbandoni, in particolare nel caso della collina, che dal II al IX secolo non ospita sicuramente un complesso propriamente urbano, quanto piuttosto un nucleo sparso di case che fa qualificare il sito pressoché come rurale. Anche il sito marittimo attraversa una fase di semispopolamento dopo il V-VI secolo, venendo definitivamente abbandonato all’epoca dell’invasione araba per motivi di sicurezza. Dopo di allora sopravvive probabilmente un piccolo borgo di pescatori e addetti alla tonnara citata da Edrisi nel XII secolo, mentre una

tanto da determinare un profondo avvallamento. La tecnica costruttiva e le caratteristiche architettoniche del ponte sono compatibili con una sua cronologia riferita ad epoca classica, sebbene il primo documento che ne faccia menzione risalga alla fine del ‘500, quando peraltro necessitava di urgente riparazione. Quantomeno in età postmedievale il ponte permetteva di superare il fiume lungo una strada il cui sviluppo si può ricostruire sulla base di alcuni tratti superstiti: una via in forte pendenza, ancora oggi esistente, scendeva a partire dal diverticolo sulla strada 1, raggiungendo la piana fluviale in corrispondenza della contrada Giardino Murato, mentre superato il fiume, risaliva attraverso la contrada Pagliarotto, dove è ancora visibile un lungo tratto di una via pavimentata nella consueta tecnica in acciottolato e scalinate in blocchi di arenaria locale.

Fig. 24. Carta delle strade di collegamento tra città e territorio esistenti in età medievale

L’antichità (ad epoca classica) delle strade 1 e 2 è ipotizzabile considerando che entrambe terminano il loro percorso in corrispondenza di lembi di necropoli di età romana della città costiera, secondo attestate consuetudini che vedevano le aree sepolcrali delle città greco-romane svilupparsi lungo le principali direttrici viarie. In direzione della vallata del fiume Caronia scendono dalla collina due strade, originariamente pavimentate con il consueto acciottolato: la strada 6 si sviluppa dalla c.da Canalicchio e con un breve percorso in forte dislivello raggiunge il corso d’acqua a mezza altezza; la strada 7 scende dalla c.da Fontanelle e si dirige verso sud congiungendosi a percorsi di risalita del fiume, lungo i quali esistevano mulini in uso nel XVIIIXX secolo. Di entrambe queste strade non è possibile accertare l’antichità ad epoca greco-romana ma se ne può ipotizzare l’esistenza in età medievale quali percorsi di collegamento tra la collina e la media vallata fluviale e l’entroterra. Verso sud-est è possibile ipotizzare, già in epoca greca, il percorso di collegamento tra la città collinare e l’entroterra a partire dalla necropoli

53

Vedi Cap. 7. Ricerche nel territorio… Si segnalano al riguardo alcuni toponimi che si ritengono significativi al fine di comprendere le modalità e la cronologia di occupazione di queste contrade interne, che pare siano state ritenute ideali per un’occupazione stabile tra il tardoantico e l’alto medioevo. In particolare le località denominate “Piano della chiesa” e “San Demetrio”, rispettivamente a nord-est e a sud-ovest dell’alto corso del fiume Caronia, sembrano indirizzare verso l’esistenza di abitati di fase bizantina, peraltro ipotizzati anche sulla base dei frammenti ceramici presenti sul soprassuolo 54

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Da Calacte a Caronia popolamento in età imperiale. Rei CretariÆ RomanÆ Favtorvm Acta 43, 2014, pp. 509-517

graduale rioccupazione si può datare solo a partire dal XVIII secolo, epoca alla quale si riferiscono alcuni edifici realizzati quali luoghi di villeggiatura all’interno di fondi coltivati. Sicuramente la ricostruzione delle vicende che portarono dalla fine di Calacte, intesa come città classica, alla nascita della Caronia arabo-normanna non può svincolarsi da quella dell’intera isola e in particolare dell’ampio settore montuoso in cui insiste, per il quale i riferimenti letterari sono assai carenti e le principali evidenze materiali riguardano complessi religiosi rimasti in vita fino ad epoca moderna per il loro intrinseco significato culturale e sociale. Se si adotta il metodo dell’esame dei resti di cultura materiale, ad esempio delle ceramiche e di altre suppellettili d’uso quotidiano, anche in questo caso, a parere di chi scrive, dovrà tenersi conto della relativa perifericità di queste contrade che, come già accertato per l’epoca arcaica, mostra una forte propensione al mantenimento di tecniche e usi di lunga tradizione, circostanza che induce a datare anche a fasi più recenti materiali che, per caratteristiche stilistiche, sono solitamente riferiti al tardoantico o ad epoca proto bizantina. Se questo è vero, molti siti rurali mostrerebbero continuità di vita ben al di là di quanto si potrebbe a prima vista sostenere e datarne l’abbandono solo in concomitanza all’arrivo degli Arabi, unico vero motivo di riaggregazione umana nella collina di Caronia.

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CAP. 7. RICERCHE NEL TERRITORIO: LA CHORA CALACTINA RESEARCH IN THE TERRITORY. THE “CHORA CALACTINA” The territory in which Kale Akte – Calacte was located roughly corresponds to that of today's Caronia. It is a very wide area (more than 130 sq km), morphologically diversified, where the plains are very small, mainly localized at the mouths of rivers and streams. Most of the territory is occupied by hills, in many cases rising suddenly to over 1000 meters, and even today is covered largely by forest. The ancient city was situated almost in the center of this area, in the northernmost part near the Tyrrhenian Sea. Before the Greek-Roman age, settlements existed in various parts of the territory. Some of them date back to the Prehistory (Copper Age - Bronze Age) and appear to be located both near the sea and inland. Some Indigenous-Hellenized settlements, generally of modest size and located in the central and western region, date back to the sixth and fifth century BC and cease to exist in the first half of the fourth century BC, concurrently with the birth and the first expansion of Kale Akte. The "chora calactina”, which is the area over which in the Greek age Kale Akte exerted its political, economic and cultural control, has evolved and expanded over the centuries. The research conducted by the author to date has led to the identification of a large number of sites, mainly referable to farmhouses created within cultivated funds: their chronology is very wide and offer an overview of the dimensional evolution of the territory through time. In fact, we see that the most ancient sites so far discovered, mainly relating to rural settlements of IV-II century BC, are mostly located near the city, within a total area of approximately 6 square kilometers. The main phase of occupation of the territory, for the purpose of economic exploitation of the land, is between the late Hellenistic period and the first two centuries of the Imperial age, when the whole central-western sector of the chora-territorium was occupied by farms or rustic villas built in areas previously occupied by forest. Concurrently with the period of decline of the city, after the fourth century AD, we see a human dispersion in the countryside and the birth of rural villages away from the city, which survived until the VII-VIII century and disappeared at the arrival of the Arabs in this part of Sicily: it was then that many areas were abandoned and there was a return of the population to the hill of Caronia. We reserve to a future work the preparation of an analytical “Carta Archeologica” (Archaeological Map) of the territory of Caronia-Calacte; here we summarize, in a preliminary way, the first results of the research carried out by the author, with a description of the main sites so far identified, describing the mode of human frequentation of the territory from Prehistory to Late Antiquity. Il territorio di Caronia, dove insistevano la città di Kalè Akté-Calacte e la sua chora, è stato sino ad oggi oggetto di parziali e discontinue ricerche archeologiche, che hanno messo in luce principalmente la fase ellenistico-romana dell’area urbana. Si deve a Scibona una prima raccolta sistematica delle evidenze nell’intero comprensorio, accertate negli anni ‘70-80 del secolo scorso e riportate in forma molto sintetica nel BTCGI.1 Gli scavi eseguiti nell’ultimo ventennio hanno interessato esclusivamente limitati settori di abitato, portando ad alcune importanti scoperte, qui rimanendo comunque un ostacolo insormontabile il sovrapporsi dell’abitato moderno sul sito di quella che era la sede della poliscivitas di epoca classica. Le esplorazioni condotte da chi scrive2 ai margini della cittadina moderna e nel territorio hanno portato all’individuazione di un rilevante numero di siti, variamente individuati dalla presenza di strutture murarie, elementi edilizi in crollo e dispersione o semplicemente aree di cocciame di diversa consistenza. Per comprendere le modalità insediative in questo territorio nell’antichità bisogna coglierne le caratteristiche ambientali, che favorirono il nascere di centri abitati o la messa a coltura e lo sfruttamento di determinate aree piuttosto che di altre. Questo settore dei Monti Nebrodi è

caratterizzato da una serie continua di rilievi che in molti casi superano i 1000 metri e si sviluppano verso nord con pendii talvolta accentuati che lasciano pochissimo spazio a pianure costiere. Una fitta rete di corsi d’acqua, alimentata da innumerevoli sorgenti, ha segnato nel tempo i fianchi di queste alture, creando valloni talvolta molto profondi. Il clima favorevole e la ricchezza di risorse naturali hanno attratto l’uomo fin da epoche remote, incoraggiando un popolamento diversificato, tanto lungo la costa quanto nelle aree più impervie e lontane da essa. Kalè Akté fu insediata a metà del V secolo a.C. in cima ad una collina poco distante non solo dal mare, ma da un preesistente insediamento greco, in vita almeno dalla fine del VII secolo a.C., che si era sviluppato a ridosso di un approdo marittimo naturale. I due centri, che sarebbero poi divenuti un’unica entità urbana a partire da epoca tardoclassica, si trovavano a poca distanza tra loro (circa 1 km in linea d’aria) ed erano separati da un’area di pendio, verso nord e verso ovest in direzione del fiume, che dovette essere la prima ad essere sfruttata a fini agricoli. I ritrovamenti di materiali in quest’area si datano in effetti a partire dalla fine del IV secolo a.C., se si esclude una concentrazione di ceramiche che coprono l’intero secolo in contrada Fiumara, non riferibili ad un preciso contesto, come si vedrà in seguito. Prima della nascita di Kalè Akté, la presenza di un gran numero di alture dalla peculiare morfologia, con ripidi pendii che ne rendevano la sommità facilmente difendibile, favorì la creazione di insediamenti di tipo indigeno, per i quali si è accertata

1

Scibona 1987 Parte delle notizie qui riportate trae spunto dalle preziose e amabili conversazioni con Giacomo Scibona, che non ha avuto modo di pubblicare, purtroppo, l’intera mole di informazioni acquisite sul posto nel corso delle ricerche condotte negli ultimi decenni del ‘900. A lui è dovuto un caloroso, postumo ringraziamento. 2

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Halaesa3 e per Tyndaris,4 la cui preparazione è in corso da parte di chi scrive. Bisogna dire che, nonostante i primi risultati siano molto incoraggianti, le ricerche nel territorio si possono considerare ancora in una fase iniziale, rimanendo da sottoporre a ricognizione vaste aree non sempre facilmente raggiungibili, soprattutto all’interno dell’articolato sistema montuoso coperto dal fitto bosco dei Nebrodi. Preliminarmente si dà segnalazione, in questa sede, dei principali ritrovamenti, in maniera necessariamente sintetica e parziale per via della continua acquisizione di nuovi dati man mano che risulta possibile esplorare nuove aree e che giungono nuove segnalazioni. I siti individuati fino ad oggi, circa un centinaio, presentano testimonianze di diverso tipo, dalla semplice concentrazione di ceramiche sul terreno alla presenza di vere e proprie strutture stabili superstiti. La maggior parte si riferisce alla fase di età romana imperiale o al più tardoellenistica (talvolta risulta difficile un preciso inquadramento cronologico per via della esclusiva presenza di materiali non datanti, quali mattoni, tegole, contenitori ceramici acromi nei siti di semplici fattorie). I siti riferibili ad epoca tardoclassica-ellenistica si concentrano nell’area più prossima alla città in tutte le direzioni ed in alcune località della parte più occidentale del territorio, al confine con il presunto territorio di pertinenza di Amestratos (Mistretta). Da sottolineare come gli insediamenti indigeni ellenizzati individuati a Pizzo Cilona, contrada L’Urmo e contrada Aria cessano di esistere agli inizi o comunque entro la metà del IV secolo a.C., evidentemente in relazione alla nascita e al primo sviluppo della città e alla presa di controllo del territorio da parte di essa. Viceversa, molti secoli dopo, si formano borghi, anche di una certa estensione, a distanza dal centro urbano, in coincidenza con la sua fase di decadenza e abbandono (IV-VII secolo d.C.) Ai fini dell’inquadramento topografico della chora calactina, necessaria è stata preliminarmente la verifica dell’estensione della città antica. Kalè Akté – Calacte non possedeva una vera e propria cinta muraria che ne definisse in maniera univoca le dimensioni.5 Altrettanto importante è l’identificazione della principale necropoli di V-III secolo a.C., estesa sulla collina meridionale di Caronia. E’ quindi stato accertato che l’abitato antico occupava la collina in cui sorge il centro storico di Caronia, fino ad una quota piuttosto bassa, ed il litorale su cui sorge oggi la frazione di Marina di Caronia, articolandosi in due quartieri complementari che registrarono fasi alterne di vita e di sviluppo.

una cronologia generalmente compresa tra la seconda metà – fine del VI e l’inizio del IV secolo a.C. I materiali di pertinenza e le caratteristiche proto-urbane rendono evidente il loro contatto con la cultura greca che, in questa parte dell’isola, doveva provenire dalle poleis greche di Zancle e Himera, rispettivamente a est e a ovest, sebbene piuttosto distanti, o anche dai centri indigeni a loro volta ellenizzati dell’entroterra. Ad ovest della città si sviluppava la vallata dell’odierno fiume Caronia (se ne ignora il nome nell’antichità), che dovette rivestire grande importanza anche ai fini del collegamento tra la città e l’entroterra quale naturale via di penetrazione. Sui due lati della foce si estende l’unica area di pianura relativamente estesa nel territorio, ma a poca distanza da essa si sviluppa il sistema montuoso, che il fiume incide in maniera evidente. I due versanti di questa vallata, originariamente coperti dal bosco, furono gradualmente sfruttati dall’uomo con la creazione di fondi agricoli e la destinazione a pascolo. I ritrovamenti lungo la vallata dimostrano, nella loro cronologia, che l’insediamento fu graduale: mentre infatti i materiali della bassa vallata si datano a partire da età ellenistica, quelli della parte più interna (contrade Mastrostefano-Samperi-Piano della Chiesa) si riferiscono quasi esclusivamente ad età imperiale e proto-bizantina. Altro settore precocemente sfruttato fu quello a sud della città, sui rilievi paralleli a quello principale e sui fertili fianchi che si sviluppano a sud del Pianoro di Trapesi (contrade Lineri e S. Miceli), dove si rinvengono ceramiche e altri materiali databili a partire almeno dal III secolo a.C. La chora, nella sua accezione di territorio di pertinenza della città e sotto il suo controllo politico, fiscale, economico e religioso, doveva essere molto vasta, sebbene non del tutto puntualmente governabile. Buona parte di essa era infatti una fitta selva impenetrabile, sostanzialmente una “terra di nessuno”. Buona parte dell’area ad ovest del torrente Buzza sino al torrente Furiano, che segnava il naturale confine con la chora della polis di Apollonia (Monte Vecchio di San Fratello), non ha rivelato fino ad oggi evidenti segni di occupazione e rimane tutt’ora in buona parte coperta dal bosco e non sfruttata a fini agricoli. Dobbiamo quindi ritenere che solo il settore a sud, sud-est e ad ovest della città, dove peraltro si concentra la quasi totalità di siti finora identificati, rientrasse nella sua diretta area d’influenza. Qui peraltro insistono alcuni insediamenti indigeni tardo arcaici, gli unici finora noti all’interno del territorio comunale di Caronia, e si rintracciano segni di frequentazione a partire da epoca tardoclassica e, ininterrottamente, fino ad epoca bizantina. L’entità dei ritrovamenti, molti dei quali richiedono approfondimenti e l’esecuzione di scavi sistematici per comprendere appieno le modalità di frequentazione, come nel caso di alcuni abitati indigeni preesistenti con le relative necropoli e di alcune probabili fattorie o ville rustiche di cui, talvolta, affiorano le strutture sul piano di campagna, richiedono ormai l’elaborazione di una vera e propria Carta Archeologica, sul modello di quelle recentemente redatte per la vicina

3

Burgio 2008 Fasolo 2014 5 Il caso di Kalè Akté è raro, non solo in Sicilia. Per tutte le poleis di questo settore dell’isola (da Halaesa ad Amestratos, Apollonia, Halontion, Tyndaris), è stato identificato, in tutto o in parte, il circuito difensivo di età ellenistica. La circostanza pone alcuni problemi nel definire il rapporto tra città e territorio, poiché non è ben interpretabile il termine della periferia urbana e l’inizio della vera e propria chora, soprattutto lungo il pendio settentrionale della collina. Solo a sud si può ipotizzare l’esistenza di una linea di fortificazioni per l’epoca greca in corrispondenza delle mura medievali, peraltro anch’esse poco conservate, oltre le quali iniziava la campagna e dove si è localizzata la prima area cimiteriale della città collinare. Fortificazioni pare non esistessero nemmeno per l’abitato costiero di ogni epoca, per cui, in mancanza di limiti naturali, non è in alcun modo possibile determinare i margini del complesso urbano in rapporto al territorio 4

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Ricerche nel territorio

Figg. 1-2. Chora calactina: in alto, veduta aerea del tratto di costa e delle colline retrostanti, in cui si evidenzia il promontorio proiettato sul mare che dette il nome alla città antica; in basso, veduta aerea della media vallata del fiume Caronia in corrispondenza del Ponte Vecchio, quasi al centro nell’immagine; in basso è la contrada Fiumara, in alto il pendio collinare di contrada Pagliarotto (foto D. Piscitello)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 3. Carta archeologica del settore intermedio tra la città collinare e quella costiera. In grigio scuro, le aree urbane e le necropoli finora accertate; in grigio chiaro le aree di concentrazione di materiali archeologici, corrispondenti a probabili strutture abitative o produttive interrate; con gli asterischi sono indicati i siti di rinvenimenti sporadici non sicuramente ricollegabili a strutture stabili

La città collinare occupava l’intera collina in cui sorge il Castello normanno, a partire dall’odierna Piazza Calacta verso nord e verso est, dove l’abitato si distribuiva ben al di là dell’estensione della città medievale e moderna, con case che si facevano via via scollegate dal centro urbano. L’abitato marittimo, che registrò la sua massima espansione nel corso dell’età imperiale, ma che ebbe le sue origini ben prima della tradizionale data di fondazione di Kalè Akté, si sviluppava principalmente dall’area del torrente S. Anna (quartiere della Nunziatella) verso ovest, occupando buona parte della moderna proprietà Di Noto fin quasi alla c.da Sugherita. La necropoli di questo centro è localizzabile ad est, lungo la strada litoranea, e a sud-est, fino alla c.da Palme.6 Riconosciuti in questi termini i limiti dimensionali dei due quartieri, resta da verificare il tipo di occupazione del tratto intermedio, oggi compreso tra le contrade Telegrafo, S. Todaro e S. Anna, dove sono numerosi i rinvenimenti di materiali di epoca classica, con maggiori concentrazioni per il periodo compreso tra III secolo a.C. e I-II secolo d.C. L’area in questione, molto vasta ma dalle caratteristiche geomorfologiche adatta da un’occupazione di tipo sia abitativo, sia produttivo, sia ancora cimiteriale, ha rivelato per prima una frequentazione umana quasi totale su tutta la superficie. Se si esclude la parte più meridionale di c.da S. Todaro, verosimilmente destinata a necropoli in età medio-tardo ellenistica, e quella più settentrionale di c.da S. Anna, che ipotizziamo sede della necropoli di età imperiale della città marittima, il resto di questo settore dovette essere destinato a fattorie, ville rustiche e 6

impianti produttivi, efficientemente collegati alle aree urbane in senso stretto. La chora di Kalé Akté nella sua massima espansione si può ricomprendere entro buona parte dell’attuale territorio centrale e occidentale di Caronia, tenendo conto dei confini naturali (vallate fluviali, rilievi) e dell’appurata esistenza di città coeve in aree limitrofe (le più vicine erano Apollonia e Amestratos rispettivamente ad est e a sud-ovest). A est una linea di confine può essere tracciata in corrispondenza del torrente Buzza, oltre il quale si estende ancor oggi il fitto bosco, mentre a ovest il limite potrebbe essere anche rappresentato dalla fiumara di S. Stefano, condivisa con la città antica di Amestratos (Mistretta). Le esplorazioni fin qui condotte, sicuramente parziali tenuto conto della vastità dell’area da prendersi in considerazione e dell’inaccessibilità di molte zone, hanno messo in evidenza una importante occupazione rurale nel corso della tarda età ellenistica – prima età imperiale, attraverso la diffusa presenza di fattorie, di cui si sono spesso conservati resti visibili sul terreno. Per la messa a coltura dei terreni si sfruttarono aree presto sottratte al bosco, che in epoca antica arrivava sicuramente a lambire la spiaggia, entro un raggio di 3-4 km dalla città. Settori di forte concentrazione rurale si sono rivelati l’intera vallata del fiume Caronia e le pendici collinari adiacenti, il pianoro di Trapesi subito a est della collina di Caronia, c.da Lineri e i pendii della c.da S. Miceli sui morbidi crinali subito a sud-ovest e sud-est della cittadina moderna. Si tratta di aree molto fertili tutte distribuite a non molta distanza dalla collina principale su cui sorgeva la città antica. La ricerca ha portato all’identificazione di siti la cui cronologia spazia dall’età preistorica al tardoantico.

Scibona 2011

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Ricerche nel territorio Appare ovvio che fino alla nascita di Kalè Akté nella metà del V secolo a.C., a prescindere dall’esistenza di un insediamento greco sulla costa a partire almeno dall’inizio del secolo precedente, i siti individuati si riferiscono a veri e propri abitati autonomi di tipo indigeno, che dobbiamo immaginare esistenti in discreto numero sulle alture di questo settore dei Nebrodi, separati fisicamente ma in contatto culturalmente tra loro e facenti capo a un centro principale che potremmo ben ipotizzare essere la sicula Herbita. Si trattava di abitati di modeste dimensioni, ubicati sulla sommità di rilievi naturalmente difendibili che entrarono in contatto con la cultura greca nel corso del VI secolo a.C. Il territorio, tuttavia, appare frequentato già da molto tempo, con una serie di stazioni o veri e propri villaggi la cui cronologia parte dall’Età del Rame e copre l’intera Età del Bronzo, mentre non si hanno a oggi attestazioni sicure per il periodo compreso tra XI e VII secolo a.C., a meno di pensare al persistere di culture tradizionalmente assegnate al Bronzo che si mantennero immutate anche nel corso dell’Età del Ferro. Ai siti segnalati da Scibona7 (c.da Mastrostefano) e a quelli editi da Bonanno8 (c.da Palme e Marina di Caronia, ex propr. Naselli), se ne sono aggiunti altri identificati da chi scrive. La collina di Caronia stessa sembra avere ospitato un insediamento in vita probabilmente verso la fine dell’Età del Bronzo, attestato fino ad oggi dalla presenza di strumenti e scarti di lavorazione in ossidiana e selce9. Ossidiana è stata rinvenuta anche in c.da S. Miceli, a sudest di Caronia, e in c.da Contura, sopra Canneto di Caronia. Ancora lame di ossidiana e strumenti in selce con frammenti molto consunti di ceramiche d’impasto, sono stati osservati in contrada Sugherita, nella parte più avanzata verso il mare, nell’interro eroso che tuttavia potrebbe essere il risultato di movimenti terra eseguiti in passato per la messa a coltura della propr. Di Noto, che comportarono lo spostamento verso la costa di una notevole quantità di materiale. In c.da Fiumara, nel corso del 2007, lavori di sbancamento per la realizzazione di un capannone industriale, che hanno intaccato in profondità un’area di medio pendio, hanno eccezionalmente portato in luce i resti di un villaggio dell’Età del Bronzo. Il sito è stato molto più tardi occupato da un insediamento (?) di età tardoclassica: lo scavo ha infatti messo in luce, negli strati più superficiali, un’area di abbondanti frammenti ceramici databili dall’inizio del IV alla prima metà del III secolo a.C. La sezione scavata, molto profonda, mostrava, su una lunghezza di circa 35 metri in senso nord-sud e di circa 20 metri sul lato nord in senso estovest, i resti di crolli di capanne, costruite con fondazioni in pietra e alzato in materiale deperibile. Il sito è localizzato all’interno e alla base della cavea naturale formata dalla collina di Caronia nel punto in cui si connette con il pianoro di S. Todaro. E’ molto probabile che il pendio soprastante, fortemente eroso,

fosse in antico attraversato da un ruscello oggi scomparso ma di cui rimane parte del letto tracciato lungo il pendio. Il fiume Caronia è distante da qui circa 300 metri, mentre la costa dista 1,5 km. Il villaggio si trovava quindi in posizione molto vantaggiosa, anche da un punto di vista climatico essendo protetto dai venti di nord-est dal sistema di alture S. Todaro – collina di Caronia. Aveva agevole accesso al mare e ai traffici che vi si svolgevano (da Lipari, ad esempio, arrivava qui la preziosa ossidiana) nonché alle risorse boschive sfruttabili a poca distanza verso sud. Doveva inoltre essere in contatto con altri insediamenti sparsi a poca distanza nella piana e nel pedemonte a est. La stratigrafia perfettamente leggibile in parete suggeriva che questo abitato della fine dell’Età del Rame – prima Età del Bronzo dovette essere distrutto da un incendio (strato continuo di bruciato con abbondanti frustuli carboniosi) e successivamente sommerso da una piena fluviale (strato di ghiaia). Una seconda fase,10 apparentemente più limitata, è attestata da altri crolli posizionati su un livello più elevato, a cui sono pertinenti diversi piani in argilla pressata. Il primo insediamento, sulla base dei materiali associati, comprendenti, oltre a innumerevoli strumenti in ossidiana, selce e pietra scistosa, ceramiche d’impasto in parte riferibili alla cultura di Rodì-Tindari, sembra essere stato in vita tra la fine dell’Età del Rame e la prima Età del Bronzo; il secondo dovrebbe datarsi fino alla media Età del Bronzo. Tra i materiali ceramici, si segnala la diffusa presenza di grandi contenitori simili a pithoi e situle, con bordi spesso decorati (cordoni plastici, intacchi, incavi circolari, ecc.) e di vasi a clessidra con vasca segnata internamente da cordoni applicati a raggiera, nonché di brocche monoansate e altri contenitori di spessore più sottile.11 Tra gli altri manufatti in argilla si menzionano diverse fuseruole, che attestano la pratica della filatura, probabilmente della lana, e alcuni corni fittili, uno dei quali con peduncoli ai lati del corno e foro passante alla base.12 Una parte consistente del sito è scomparsa a causa del profondo scavo, mentre le pareti messe in luce vanno via via subendo un graduale processo di sbriciolamento a causa degli agenti atmosferici e molte delle stratigrafia inizialmente visibili purtroppo sono interamente scomparse. La parte di abitato asportata dallo scavo ammonta a circa 700 mq, ma la conformazione della collina, con pendio digradante gradualmente verso il fiume, suggerisce che i resti interrati della parte restante giacciano ancora verso ovest, nord e soprattutto est, dove sarebbe opportuno eseguire uno scavo sistematico. 10

Una seconda fase abitativa sembra essere attestata da crolli e strati di frequentazione posizionati su un livello più elevato nella stratigrafia visibile in parete, a cui sono pertinenti materiali ceramici di stile diverso, tra cui si segnalano vasi simili a brocche monoansate e larghi frammenti di grandi contenitori con decorazione a cordoni incrociati 11 Diversi frammenti di piccoli contenitori simili a brocche o altra forma chiusa presentano superfici ben lisciate e colorate di rosso o bruno. 12 Sulla reale funzione dei corni fittili Scibona espose a chi scrive la sua opinione, che si ritiene di condividere pienamente. Si tratterebbe di simboli fallici, utilizzati in riti legati alla fertilità, che materialmente venivano portati dai partecipanti attaccati alla parte bassa del ventre, come suggerisce la presenza di un foro passante su alcuni esemplari recuperati

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Scibona 1987 Bonanno1997-1998; Bonanno 2000 9 Si segnala una concentrazione di questi materiali in c.da sotto S. Francesco, nell’area degli scavi 1993-2005 e nel pendio sottostante, che indurrebbero a ritenere che un abitato esistesse a monte, in area oggi occupata dalla cittadina moderna. 8

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 4-6. Contrada Fiumara (sito 39). In alto: veduta della parete est dello sbancamento. In sezione si osservano i resti di crolli di capanne, assegnabili ad una fase compresa tra la tarda Età del Rame e la prima Età del Bronzo. Il livello superiore, nel quale sono presenti altri resti di crolli, è riferibile ad una fase successiva, collocabile nel Bronzo Medio. In basso: materiali databili all’Età del Bronzo (corno fittile con sporgenze simmetriche e foro alla base, lame di ossidiana e frammenti di grandi contenitori con decorazioni a cordoni plastici)

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Ricerche nel territorio

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Fig. 7a-b. C.da Fiumara. Stratigrafia visibile sulla parete est con i livelli di crollo riferibili alla tarda Età del Rame – Età del Bronzo antico nello strato inferiore e al Bronzo Medio in quello superiore (disegno 2007)

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Figg. 8-10. Contrada Fiumara. Da sinistra: materiali ceramici in affioramento; lame di ossidiana; frammento di bordo di grande situla con decorazione a cordolo plastico e foro.

Figg. 11-15. Contrada Fiumara. Materiali di epoca greca (IV secolo a.C.): fondi di vasi a vernice nera; porzione di anfora MGS II; frammento di pomello di lekane con decorazione a palmette contrapposte; frammento di lekythos a figure rosse con raffigurazione di testa femminile volta a sinistra con capelli raccolti entro sakkos; frammento di grattugia in bronzo).

Il villaggio dell’Età del Bronzo doveva organizzarsi con capanne disposte sul leggero pendio, a margine di un corso d’acqua, in posizione molto favorevole considerata la prossimità della vallata fluviale e la relativa vicinanza al mare. Rimane al momento ignoto il sito della relativa necropoli. Il materiale ceramico e gli strumenti litici sono infine in associazione a moltissime ossa animali, principalmente di ovi-caprini, presenti praticamente su tutta la stratigrafia visibile. I materiali di età greca contenuti nell’interro soprastante i livelli di età preistorica comprendono vasellame a vernice nera, anche decorato (skyphoi,

coppette, lekanai, lekythoi), anfore, ceramica da cucina, pesi da telaio, ecc, nonché oggetti in metallo (chiodi, grattugia in bronzo). Nella totale assenza di resti di strutture riferibili a tale periodo, è incerto se questi materiali, per la verità abbastanza consunti, siano scivolati dall’alto o siano in contesto e, in quest’ultimo caso, se si riferiscano ad un abitato, ad un santuario o ad un’area di necropoli. Scoprire a quale contesto appartengono i materiali di epoca greca è importante, poiché si tratta delle più antiche attestazioni di occupazione del territorio al di fuori dell’area urbana per il IV secolo a.C. La tipologia del vasellame presente

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Ricerche nel territorio tra i quali sembrano ricorrenti le statuine fittili, le monete, gli unguentari e le lucerne. In base alla tipologia così descritta dei materiali, in gran parte oggi dispersi, e dei frammenti ancora presenti lungo il ripido pendio a sud del pianoro, si può datare quest’area di necropoli al III-I secolo a.C. La sua estensione non è definibile al momento: in base alle segnalazioni di ritrovamenti occasionali e a quelle di scavi incontrollati, nonché considerando le aree di dispersione di materiali ceramici verificate da chi scrive, la necropoli dovrebbe coprire principalmente il ripido pendio meridionale di S. Todaro e la sella che lo congiunge a sud-est con le attuali proprietà Passarello a valle della contrada Telegrafo. Nel vero e proprio pianoro di S. Todaro, la ricognizione nella parte centrale non ha mostrato segni evidenti di occupazione in antico, se si escludono radi frammenti erratici di ceramiche acrome e di tegole. Il rinvenimento più interessante è localizzato a sud (sito 36), nel punto in cui esso raggiunge quasi la massima altezza (m. 145 s.l.m.), di fronte ad un antico fabbricato a due stanze in rovina comprendente una chiesetta rurale, probabilmente dedicata a San Teodoro. L’area mostra l’affioramento di materiali di vario tipo: numerosi pezzi di mattoni, di tegole curve e piane, porzioni di pithoi, ecc. Un affioramento di pietre allineate in senso NO-SE, lungo complessivamente 10 metri circa, è unito ad un crollo di tegole visibili sul lato est. Muri trasversali definiscono una serie di ambienti che si sviluppano sul leggero pendio verso nord-est. Lo strato di tegole piane e curve in crollo, a ridosso del muro principale, sigillava un deposito di ceramiche acrome frammentarie e parte di un’anfora a pasta chiara di forma non definibile. Poco distante dal crollo di tegole si è accertata la presenza di un piano in acciottolato (a est) affiancato da uno strato di cocciopesto (a ovest). Il muro NO-SE forma un angolo con una parete trasversale, che sembra chiudere a sud questo ambiente.

comprende oggetti di varia funzione (ceramiche da cucina, da mensa, da toletta, da dispensa). D’altra parte sono molto radi i frammenti di tegole. Le condizioni in cui si presentano i frammenti, talvolta assai minuti, e la circostanza che siano fortemente usurati per la probabile permanenza in ambiente umido, fa plausibilmente ritenere che siano fluitati dall’alto, trascinati da frane e dilavamenti, ma sicuramente non dall’area urbana collinare, posizionata molto più in alto. La pertinenza ad un’area cimiteriale parrebbe da escludersi per l’assenza di resti ossei umani. Si potrebbe trattare, quindi, di manufatti usati in ambito domestico (una fattoria?) o anche all’interno di un santuario, da ricercarsi a monte, nell’area compresa tra la spianata di S. Todaro e i pendii della collina di Caronia. Il pianoro soprastante a est il fiume (c.da S. Todaro), da molto tempo ritenuto sede di una necropoli (localmente denominato “Chianu di Pupiddi” per numerosi rinvenimenti da scavi clandestini avutisi a metà del secolo scorso) ha rivelato invece una prevalente occupazione rurale, con una serie di probabili fattorie distribuite a semicerchio lungo i versanti sud, est e nord, mentre archeologicamente sterile appare il versante più occidentale. Si segnalano, in particolare, due interessanti insediamenti sulla cresta meridionale (Tav. I, nn. 36-37), più un’area di frammenti priva di evidenze edilizie più ad ovest (Tav. I, n. 35), probabili fattorie con muri costruiti in pietre e mattoni, a cui sono associate, tra gli altri, ceramiche acrome e anfore; almeno due nel versante nord (Tavola I, nn. 33-34) più diverse aree di dispersione di materiale (laterizi e ceramiche acrome). L’individuazione di una necropoli in questo settore, in particolare lungo il pendio meridionale di S. Todaro e nella sella a raccordo tra questo e la collina di Caronia, è legata a diffuse notizie di rinvenimenti di tombe avvenuti nel corso dell’intero secolo scorso. Si parla soprattutto di sepolture con copertura in mattonacci o tegoloni e corredi comprendenti materiali eterogenei,

Fig. 16. Stralcio Carta Archeologica. Siti area c.da Fiumara – c.da S. Todaro – c.da S. Anna (rielab. immagine PCN)

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Fig. 17. S. Todaro. Edificio sul versante meridionale (sito 36). Restituzione planimetrica delle strutture affioranti e immagini del crollo di tegole a margine del muro principale (area S2) e del muretto in pietra e mattoni crudi S1

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Ricerche nel territorio La struttura, la cui ampiezza, stando agli affioramenti, può essere calcolata in complessivi 350 mq., non sembra occupare la parte più elevata del crinale, dove non sono presenti materiali in superficie, ma disporsi sul leggero pendio settentrionale fin quasi a livello della stradella campestre che conduce verso le antenne di telefonia mobile. Non è certa la funzione di questo edificio (i materiali rinvenuti non offrono suggerimenti concreti): si può ipotizzare si tratti di una fattoria, dotata anche di fornace autonoma. La sua cronologia si collocherebbe nella media età ellenistica. Ad est, al confine con la c.da S. Anna, ampie aree di dispersione di materiali sono state osservate in più punti: proverrebbe da qui13 (Tavola I, n. 66), come già segnalato da Brea14, una statua di togato in pietra calcarea dissotterrata negli anni ’50 del secolo scorso nel corso di lavori agricoli, probabilmente la stessa che si è sempre detto provenire dall’area del moderno cimitero (c.da Cinquegrana), che all’indagine di superficie risulta in realtà archeologicamente sterile. Nel fondo in questione, si segnala la presenza sul soprassuolo di numerosi frammenti ceramici e di laterizi; da segnalare un mattone circolare su cui è incisa la base a quadrati concentrici e linea a croce di un tipico gioco da tavolo con l’utilizzo di pedine (fig. 18). Nella parte inferiore dello stesso fondo, dove il declivio si fa accidentato, si trova una sorgente d’acqua molto antica, sfruttata fino a metà del secolo scorso.

qualificabili come ville rustiche. I continui lavori di aratura di questi fondi mettono costantemente in evidenza una grande quantità di materiale archeologico su tutta la fascia di pendio sottostante la contrada Telegrafo, su cui si estendeva la città antica. Potrebbe trattarsi di frammenti scivolati dall’alto, ma la loro altissima concentrazione in determinate aree fa invece ritenere che essi siano pertinenti a strutture ancora sotterrate, che i lavori agricoli intaccano nei livelli più superficiali. Di un certo interesse potrebbe rivelarsi la vasta proprietà Passarello, subito a nord della strada campestre diretta verso S. Todaro, dove si segnalano rinvenimenti sporadici di frammenti ceramici e laterizi in più punti. Una segnalazione15 ha informato della messa in luce di muretti in pietra a seguito dei lavori di scavo per l’installazione della condotta idrica che da Caronia scende verso la frazione Marina a metà degli anni 2000. Il fiume Caronia è oltrepassato, a circa 1,6 km di distanza dalla foce, da un ponte, localmente denominato “Ponte Vecchio” o “Ponte romano”. La questione sulla sua esatta cronologia è stata da sempre dibattuta, in assenza di puntuali riferimenti letterari, che per la verità mancano per tutti i ponti romani di Sicilia, e di precisi elementi datanti. Scibona16 e Fiore17 ne hanno senza dubbi riferito la costruzione ad epoca postmedievale, sulla base di un documento del 1579 nel quale per la prima volta si cita il ponte sul fiume Caronia. La struttura si sviluppa in senso SO-NE su tre arcate, una delle quali, quella centrale, non più esistente da tempo, mentre è recentissimo (primavera 2015) il crollo anche dell’arcata occidentale. Allo stato attuale, pertanto si conserva integralmente solo l’arcata orientale, sebbene si possa ipotizzare l’esistenza di una ulteriore volta, forse ridotta, ancora più ad est, ormai scomparsa da secoli. I piloni sono realizzati con riempimento a sacco di ciottoli e calce, foderato da blocchi di pietra squadrata di varie dimensioni e provenienza. Le arcate sono realizzate con blocchi parallelepipedi. Al di sotto dell’arcata centrale è presente quanto resta di un basolato regolare, realizzato con grandi pietre di arenaria, poggiante su uno strato tenace di cementizio e ciottoli, che non è possibile datare e interpretare con certezza essendo quasi interamente ricoperto da un alto strato di pietrame. Di per sé, l’architettura di questo ponte richiama modelli di epoca romana; anche la tecnica realizzativa, con riempimento di ciottoli di medie dimensioni legati con malta di calce, è compatibile con una sua realizzazione in epoca classica. Peraltro, nel riempimento si osserva la totale assenza di qualsiasi materiale di reimpiego (ad esempio, frammenti di tegole o mattoni di età greco-romana) onnipresenti a Caronia in tutte le strutture di un certo impegno a partire dal Medioevo, come d’altra parte si può osservare anche nella facciata esterna delle murature nella parte orientale del ponte, di più recente ristrutturazione forse a seguito di un crollo, dove frammenti di laterizi antichi sono utilizzati per inzeppature tra pietre. La circostanza per cui si inizi a parlare del ponte solo nel XVI secolo, quando peraltro necessitava di urgenti interventi di restauro, è di

Fig. 18. C.da S. Anna, sito di una fattoria o villa rustica (sito 66). Mattone circolare parziale su cui è inciso un gioco da tavolo con uso di pedine (“filetto”).

Poco più a sud-est, una vasta area di laterizi e cocciame anche a vernice nera, databili al III-II secolo a.C. insiste all’interno delle proprietà Turrisi-MerlinoPassarello (Tavola I, n. 65). La zona in questione, a metà strada tra la città collinare ed il quartiere marittimo, lungo la strada di collegamento tra i due centri, andrebbe qualificata piuttosto come area periurbana, con una tipologia di insediamento misto abitativo-agricoloproduttivo e con possibile presenza di residenze 13

Comunicazione personale del proprietario del terreno da cui fu portata in luce, nel corso di lavori agricoli, la statua, acefala e raffigurante un personaggio togato. 14 Brea 1975

15

Segnalazione B. Parisi Scibona 1978 17 Fiore 1991 16

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia per sé in linea con la mancanza di testimonianze scritte relative ad altri ponti di epoca classica nell’isola. Può darsi che il ponte, come lo vediamo oggi, sia il risultato di innumerevoli interventi di manutenzione o ripristino, trovandosi la struttura ad oltrepassare un corso d’acqua che, soprattutto nell’antichità, doveva avere una maggiore portata e, nelle piene, trascinava massi di notevoli dimensioni che infrangendosi nelle murature potevano danneggiarle. La sua posizione, infine, è compatibile con

il tracciato della Via Valeria, che in questo tratto doveva incunearsi verso l’interno per oltrepassare il fiume in un punto dove le due sponde erano più ravvicinate. In ogni caso, lungo il corso del fiume, non esistono resti di altro ponte, che necessariamente doveva esserci nell’antichità, qui come su altri corsi d’acqua che interrompevano la serie ininterrotta di colline lungo il versante nord dei Monti Nebrodi.

Figg. 19-24. Ponte sul fiume Caronia. Dall’alto in basso: veduta dalla collina di Caronia; pilone orientale dell’arcata centrale crollata; resti di basolato sotto l’arcata centrale; particolare del riempimento in ciottoli e calce; dettaglio dell’arcata occidentale con struttura in blocchi parallelepipedi e riempimento in ciottoli di piccole dimensioni e calce; arcata occidentale, oggi crollata.

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edifici settecenteschi che caratterizzano il paesaggio. In una costruzione adiacente, inoltre, sono reimpiegati, negli stipiti di un’apertura, alcuni blocchi parallelepipedi di pietra calcarea lavorata secondo tecniche sicuramente molto antiche, che farebbero supporre l’esistenza di un edificio più complesso di una semplice fattoria. Da qui presumibilmente passava la strada che scendendo dalla collina di Caronia superava il Ponte Vecchio per poi risalire verso la contrada Pagliarotto sulla collina opposta, dove si segnala il sito di un’altra fattoria di età imperiale (resti murari affioranti e soprattutto laterizi e frammenti di dolia sul soprassuolo) e di una piccola necropoli rurale esplorata da Scibona nel 1977.18 La contrada Trapesi, un ampio pianoro esteso sulla piatta collina ad est di quella di Caronia (toponimo derivante dal greco τραπεζα, “piano, tavolo”), fu oggetto di studi da parte di Adamesteanu, che ivi aveva erroneamente collocato il sito della Kalé Akté di Ducezio.19 Prospezioni eseguite negli anni ’90 del secolo scorso20 e recenti ricognizioni da parte di chi scrive hanno invece rivelato la presenza di una fitta serie di insediamenti rurali che, sulla base delle ceramiche presenti e per il diffuso impiego dei laterizi come materiale da costruzione, si datano ad età tardoellenisticaprotoimperiale. Il sito di un’altra probabile fattoria è stato localizzato tra Trapesi e Cinquegrana, in posizione panoramica di fronte alla collina su cui sorgeva la città. La zona a destinazione agricola sul versante di Trapesi proseguiva verso sud-est, nelle c.de S. Miceli-S. Vito, dove sono stati identificati altri siti rurali e aree di dispersione di cocciame che comunque segnalano la frequentazione, a scopo agricolo, di questa vasta e fertile area di pendio. Uno di questi (Tavola I, n. 55) ha restituito, oltre a mattoni di tipo ellenistico, un bordo di pithos con iscrizione incisa a crudo, leggibile come (Τ)ΗΣΘΕΟΓΡΙΛΜΕΝΗΣ, databile forse al III-II secolo a.C. sulla base della tipologia del contenitore. Sempre in contrada S. Miceli, poco più a est, altri due siti sono stati identificati per la presenza sul soprassuolo di frammenti ceramici e tegolame genericamente ascrivibili ad epoca ellenistico-romana. Una struttura agricola di età romana esisteva in c.da S. Vito, a ovest di una strada campestre di antichissima frequentazione, la cui esistenza è indiziata dalla notevole presenza di laterizi e ceramiche frammentari sul soprassuolo. Sempre lungo la stessa strada, circa 200 metri più a nord, insiste un vecchio palmento che riutilizza molti materiali edilizi antichi, soprattutto mattoni, mentre sul piano di campagna sono presenti ceramiche riferibili ad epoca tardoantica. Il sito di un’altra fattoria, dotata di portico (presenza di diversi mattoni circolari) si trova in c.da Pumpolo, zona Calderazza: la struttura, databile, in base alle ceramiche osservate, alla tarda età ellenistica, si trovava in cima ad una sporgenza collinare e doveva controllare un’ampia area in declivio. Anche qui erano

Fig. 25. Bassa vallata del fiume Caronia. Ricostruzione dell’alveo fluviale in epoca classica e individuazione dei principali siti identificati

Riteniamo che il documento cinquecentesco su cui Scibona e Fiore basavano la loro datazione ad età rinascimentale non sia sufficiente ad escluderne una datazione di molto più alta, anche ad età altoimperiale. Peraltro, il ponte sul fiume Caronia presenta strette affinità costruttive con altri ponti isolani fin qui datati sicuramente ad epoca romana, tra cui quello sul fiume Rosmarino, in parte superstite tra gli odierni comuni di Sant’Agata di Militello e Torrenova. La disposizione dei siti individuati lungo la bassa vallata del fiume Caronia consente di ricostruire come nell’antichità si presentasse l’alveo fluviale e quale portata, sicuramente maggiore, dovesse avere. Ancora oggi, lungo il margine orientale, si riconosce un netto salto di livello, che costituisce il limite entro cui si dispongono le diverse aree di concentrazione di materiali archeologici. E’ da ipotizzare l’esistenza, in antico, di muri d’argine che impedissero alle piene del fiume di straripare verso i fertili fondi agricoli posti ad est, ai piedi della collina di Caronia. In questa fascia di moderato pendio sono stati identificati i siti di probabili fattorie o ville rustiche la cui fase principale sembra collocarsi nei primi due secoli dell’impero, sebbene la presenza di frammenti ceramici di almeno II secolo a.C. retrodati lo sfruttamento agricolo di queste fertili terre già in età ellenistica. Tra gli altri, si segnala il sito di c.da Giardino Murato, le cui evidenze non sono costituite solo dall’abbondante materiale ceramico presente sul soprassuolo, ma anche dai notevoli reimpieghi di materiali da costruzione, in particolare tegole e soprattutto mattonacci ellenistico-romani nei due

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Scibona 1987, p. 12 Adamesteanu 1962. Lo studioso cadde in un equivoco, scambiando in realtà il sito di Caronia con quello di un altro centro collinare siciliano da lui esplorato (comunicazione G. Scibona). 20 Bonanno 1995 19

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia presenti ricche sorgenti d’acqua e la vicinanza al bosco poteva permetterne un proficuo sfruttamento. Sul versante opposto del crinale collinare, ad ovest, in c.da Lineri, importanti scoperte sono state fatte a seguito di una disastrosa frana avvenuta nel 2010. Sono stati individuati almeno 6 siti venuti in luce proprio a seguito dei devastanti movimenti del terreno.21 Due di questi sono sicuramente pertinenti a fattorie in uso dal I al IV secolo d.C., dotate di impianti produttivi. In quella più a valle (Tav. I, n. 45), verso nord (propr. Calcavecchia, L4), sono affiorati alcuni muri in pietra e mattoni, che delimitavano ambienti probabilmente disposti su livelli differenti, uno dei quali era forse destinato a magazzino in base al ritrovamento in loco di dolia, macine e anfore. La struttura fu costruita probabilmente all’inizio del I secolo d.C. (presenza diffusa di sigillata italica, ceramiche a pareti sottili, lucerne con ansa plastica), distrutta da un incendio nel corso del II secolo d.C. e rioccupata nel III-IV secolo d.C. Consistenti resti di bruciato a contatto con un livello di distruzione comprendente molto materiale ceramico, suggeriscono che il complesso fu una prima volta distrutto, forse da un evento sismico, e definitivamente abbandonato a seguito di un incendio, anche questo provocato forse da un altro violento terremoto. I continui movimenti del terreno e l’affioramento di sorgenti d’acqua hanno irrimediabilmente portato, dopo la scoperta nel 2010, alla scomparsa di questo interessante insediamento rurale. La data di distruzione e abbandono definitivo di questo complesso si può datare nel IV secolo d.C. ed è attestata, tra l’altro, dalla presenza di una porzione di anfora tipo Termini Imerese 151/354 a contatto con uno dei muri superstiti affiorati. Per ciò che riguarda le dimensioni del complesso, i calcoli risultano difficili per l’entità dello scivolamento di materiale franoso: l’area di dispersione di materiali archeologici supera i 1700 mq, ma, confrontando le immagini post-frana con quelle antecedenti, si ipotizza che originariamente l’edificio avesse una superficie di circa 700 mq. Una seconda fattoria (Tav. I, n. 46), inquadrabile cronologicamente sempre tra I e IV secolo d.C., situata circa 300 metri a nord-est di L4 (area ex officina meccanica Todaro, L2), conserva in loco, tra i resti crollati dei muri, un cospicuo numero di dolia e anfore commerciali,22 oltre a vasellame di vario tipo, anche in bronzo. Disponeva di una fornace autonoma probabilmente per laterizi, ben visibile sul lato nord-ovest delle strutture messe in luce dalla frana e testimoniata, peraltro, dalla presenza di tegole e mattoni ipercotti, nonché dalla relativa vicinanza a giacimenti di argilla. La presenza, in uno degli ambienti del complesso, di molti scarti di lavorazione di pasta vitrea e di strumenti in piombo e ferro, induce a ritenere che qui si realizzassero anche suppellettili in vetro. La parte abitata dell’edificio doveva trovarsi nella parte centro-nord del complesso,

dove sono stati individuati lembi di pavimenti in laterizi e molto vasellame fine, compresi piatti in sigillata africana, a ridosso di un probabile cortile porticato di cui restano in situ diversi elementi discoidali di colonne in cotto. Il ritrovamento di vasellame in bronzo e di monete, qualifica questa struttura, i cui resti sono purtroppo irrimediabilmente compromessi dalla frana, come qualcosa di più di una semplice fattoria. Probabilmente il complesso aveva una forma rettangolare orientata estovest: la parte orientale doveva essere destinata a magazzino (numerosi dolia in situ in uno degli ambienti) e a laboratorio per la produzione di manufatti in vetro.23 Il complesso doveva superare i 600 mq ma l’area di dispersione di materiali raggiunge i 1000 mq, compreso il terreno separato ad est da una fenditura percorsa dall’acqua. I muri erano realizzati con pietra arenaria locale (ciottoloni sbozzati) e largo impiego di mattoni di grande modulo (50 x 35 x 8 cm), mentre le tegole erano quasi esclusivamente curve, frequentemente con bordo rigonfio o con curvature simili ad alette sui lati lunghi. Il rinvenimento di elementi architettonici in terracotta con modanature confermerebbe che l’edificio non fosse luogo esclusivo di produzione e immagazzinamento di derrate. L’eccezionale quantità di ceramiche riferibili a contenitori integri al momento dell’abbandono, le condizioni di giacitura delle tettoie in tegole, nonché la presenza di vaste aree di bruciato che hanno intaccato anche le suppellettili,24 che peraltro rivelano i segni di una lunga permanenza in ambiente umido, induce a ritenere che entrambi gli edifici citati siano stati abbandonati improvvisamente a seguito di un evento traumatico naturale (terremoto, frana). La fase di definitivo abbandono delle strutture è caratterizzata dalla presenza di piccole anfore vinarie tipo Termini Imerese 151/354. Al momento, i materiali venuti in luce testimoniano un’occupazione intensiva dell’area di contrada Lineri a partire dalla prima età imperiale, ma la presenza di frammenti sporadici di ceramiche a vernice nera, databili già al III secolo a.C., induce a ritenere che anche in precedenza la zona in questione, piuttosto vicina alla città, abbia ospitato fondi agricoli e strutture stabili di qualche tipo. L’abbandono improvviso e definitivo delle fattorie situate in c.da Lineri probabilmente nel corso del IV secolo d.C. potrebbe essere imputato agli esiti del violento sisma del 365 o anche a quelli di una frana simile, nella portata, a quella che si è verificata nel 2010, provocata dalle infiltrazioni di acque sotterranee in un terreno a matrice argillosa. I muri degli edifici messi in luce appaiono infatti letteralmente sbriciolati e difficilmente leggibili, conseguenza di movimenti del terreno forse più volte verificatisi in antico, mentre le ceramiche, dalle superfici usurate, mostrano gli effetti di una lunga permanenza in ambiente umido. 23

Delimitato da pochi lembi di muri superstiti nella parte sud-orientale, si individua un ambiente in cui il terreno conserva molti frammenti di vetri e scarti di lavorazione, assieme ad alcuni strumenti in ferro e piombo verosimilmente usati dall’artigiano. In situ è stata rinvenuta anche una moneta in bronzo estremamente corrosa in cui si riconosce solo una figura femminile stante tra le lettere S e C, probabilmente databile nel III secolo d.C. 24 Singolare come i dolia e molti altri contenitori ceramici di varia funzione presentino superfici bruciate internamente

21 Risulta difficile ricostruire la struttura e la posizione originaria degli edifici affiorati tra le crepe del terreno, poiché l’evento franoso, di grande portata, ha provocato il collasso e la traslazione di ampie fette di terreno, con spostamenti anche di oltre 50 metri verso valle. 22 Si segnalano tra le altre, oltre a contenitori vinari tipo Termini Imerese 151/354, anfore Tripolitane III e Africane piccole, complessivamente databili tra III e metà IV secolo d.C.

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Ricerche nel territorio

Figg. 26-28. Contrada Lineri: a sinistra, sito 45 (L4), prospetto di uno dei muri superstiti (A), datato al IV secolo d.C. per il rinvenimento di un’anfora tipo Termini Imerese 151/354; al centro e a destra, sito 46 (L2), prospetto di uno dei muri superstiti nella parte centrale del complesso e schizzo della stratigrafia visibile sul lato nord

Figg. 29-30. Contrada Lineri, sito 45 (L4): muro A in pietra locale, dissestato, e parte affiorante del muro B in mattoni in fase di crollo, situato su un livello superiore rispetto al Muro A

Fig. 31-36. Contrada Lineri, sito 46 (L2). Dall’alto in basso e da sinistra verso destra: fornace con rivestimento in mattoni crudi posta nel settore nord-ovest della fattoria; muro superstite in pietra locale nella parte centrale del complesso, probabilmente collegato a strutture alzate con mattonacci (vedi fig. 27); anfora tipo Termini Imerese 151/154, parzialmente ricostruibile, attestata in diversi esemplari assieme ad altre suppellettili databili ad età imperiale avanzata; deposito affiorante di ceramiche in una delle fenditure del terreno; due immagini del deposito di dolia di piccole dimensioni sistemati nella parte nord-est del complesso rurale (all’interno di alcuni dolia è ben visibile uno strato di bruciato e concotto nella parte inferiore e i contenitori sono inceneriti dall’interno; essi dovevano essere situati entro un ambiente destinato a magazzino, con tettoia, crollata sopra i contenitori)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 37. Stralcio Carta Archeologica. Siti area c.da Lineri – c.da Trapesi – C.da S. Miceli (rielab. immagine PCN)

Fig. 38. Dettaglio dell’area archeologica di c.da Lineri post frana 2010, con individuazione delle aree di dispersione di materiali archeologici e delle due fattorie di età imperiale (L2 e L4) di cui sono affiorate anche strutture murarie

Gli eventi che determinarono la distruzione e l’abbandono dei complessi rurali esistenti in questa contrada non oltre il IV secolo dell’era cristiana dovettero avere una portata drammatica, se non consentirono l’impianto di attività produttive stabili nei secoli successivi: l’esame di tutte le aree di dispersione di materiali ceramici, più numerose dei siti principali indicati in fig. 38, non ha portato finora al rinvenimento di materiali sicuramente databili ad epoca bizantina e arabo-normanna. Le numerose attestazioni di occupazione non solo in c.da Lineri, che probabilmente dovette essere sfruttata a fini agricoli fino al corso del fiume Caronia,

ma anche in c.da Trapesi e in c.da S. Miceli, databili a partire almeno dal III secolo a.C., inducono a ritenere che tutta la fascia di alture e declivi originariamente coperti dalla boscaglia che si estendeva appena a sud della città collinare e della sua necropoli, dovette essere una delle prime aree della chora calactina ad essere sfruttata a fini agricoli. E’ molto probabile che il ripido crinale su cui si sviluppa la parte moderna di Caronia, a partire da piazza Roma verso sud, escludendo il settore cimiteriale, sia stata l’originaria area agricola di Kalè Akté assieme a quella del declivio settentrionale, come dimostrano rinvenimenti sporadici di ceramiche di epoca ellenistica

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Ricerche nel territorio nelle campagne disposte lungo il pendio occidentale (c.de Fontanelle – Canalicchio e area Asilo Nido). Più a sud, il sito di un’ampia costruzione (c.a 700 mq) di probabile epoca tardorepubblicana, forse anche una villa rustica, è stato identificato in c.da Giumentaro (Tavola I, n. 30): lavori agricoli e di tracciamento di una via d’accesso a un fondo privato circa un trentennio fa hanno messo un evidenza strutture murarie visibili in sezione ed una grande quantità di mattoni di ogni forma. La struttura doveva essere dotata

di portico (mattoni di forma circolare di varie dimensioni) e possedeva una fornace autonoma per laterizi (numerosi laterizi ipercotti e resti di mattoni in argilla cruda). I muri visibili (almeno 5) descrivono ambienti pertinenti la parte occidentale della struttura e sono costruiti in pietra locale e mattoni. Un’altra probabile fattoria di piccole dimensioni è stata individuata poco più a sud-ovest, nei pressi di Pizzo Cilona, indiziata dalla presenza sul piano di campagna di mattoni e frammenti ceramici acromi.

Figg. 39-42. In alto a sinistra: Pizzo Cilona visto da nord; a destra: ipotesi di planimetria della fattoria in c.da Giumentaro (sito 30). In basso: fattoria in c.da Giumentaro: muro in pietra e laterizi; pianta dei muri M3-M4-M5 e alzato superstite del muro M1.

Pizzo Cilona25 fu sede di un insediamento indigeno ellenizzato in vita a partire dalla fine del VI secolo a.C. I materiali più antichi sono rappresentati da ceramiche grezze modellate a mano, comprendenti soprattutto contenitori emisferici con prese a bugna o a U capovolta e situle. I manufatti presentano caratteristiche che li farebbero a prima vista risalire all’Età del Ferro se non fosse che sono stati rinvenuti in associazione con altre ceramiche indigene di tipo figulino e ceramiche greche di produzione coloniale databili nel corso del V secolo a.C.26 La vicinanza alla polis di Kalè Akté

suggerisce che l’insediamento, nato come semplice abitato autonomo, sia stato successivamente trasformato in phrourion, a controllo della parte più interna della chora calactina, nella seconda metà del V secolo a.C. Appare evidente il persistere, in questo come in altri centri indigeni tardoarcaici presenti nel settore occidentale dei Nebrodi (ad esempio a Monte Scurzi, tra le odierne Sant’Agata di Militello e Militello Rosmarino), di una cultura materiale fortemente radicata alla tradizione, nonostante gli evidenti contatti con il mondo greco.

25

Vedi oltre: Il phrourion di Pizzo Cilona. Il sito è peraltro noto da tempo, seppure mai esplorato, grazie alla segnalazione di Scibona nel già citato BTCGI 1987 26 Lo stazionamento prolungato di animali da pascolo su superfici caratterizzate da un limitatissimo interro ha in alcuni casi provocato

l’affioramento di depositi di materiali lasciati in situ quale testimonianza di contesti abitativi non sempre provati da strutture murarie conservate

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 43. Stralcio Carta Archeologica. Siti area c.da Cilona – c.da Giumentaro (rielab. immagine PCN)

I materiali di produzione coloniale rinvenuti a Cilona si datano a partire dall’inizio del V secolo a.C. Si segnalano manufatti provenienti da Himera, tra cui il bordo di un bacino con presa configurata a maschera gorgonica di sicura produzione imerese27, che attestano la presenza commerciale in questo territorio di quella non troppo distante colonia greca. Altre forme ceramiche di produzione greca sono costituite da skyphoi, coppette, kylikes e anche crateri frammentari, nonché da anfore da trasporto, tra cui diverse pseudo-chiote. I materiali più recenti si datano entro la prima metà del IV secolo a.C. Ad ovest del fiume Caronia, oltre la cresta della collina che si innalza fino a Pizzo Pagano, all’interno del bosco sono presenti alcune aree prive di vegetazione, la gran parte delle quali si ipotizza abbiano ospitato nell’antichità insediamenti di vario tipo. Una fattoria è stata identificata in c.da Mastrorocco (Tav. I, n. 13): le strutture murarie, realizzate con ciottoloni, roccia locale e mattonacci di tipo ellenistico-romano, sono in parte visibili lungo il tracciato di una strada campestre, riconoscendosi perfettamente una serie di ambienti allineati in senso est-ovest su un’area di almeno 200 mq. Poche le ceramiche datanti, molto più frequenti le porzioni di grandi dolia, assegnabili genericamente ad epoca romana. Si segnala la presenza anche di mattoni circolari (portico?). La struttura, che doveva essere destinata ad un’occupazione stabile, considerata la distanza dalla città, attingeva ad una sorgente d’acqua, che ancora oggi alimenta una fontana. Frammenti ceramici sono stati osservati, infine, poco più a ovest lungo il percorso dello stesso sentiero campestre.

Fig. 44. Planimetria dei resti murari affioranti della fattoria in c.da Mastrorocco (sito 13)

I siti di due insediamenti, uno di epoca greca classica e l’altro di età imperiale-protobizantina (Tav. I, nn. 11-12), sono stati individuati 700 m. più ad ovest, sulla parte sommitale di una cresta parzialmente coperta da bosco (c.da L’Urmo).28 In particolare, la parte avanzata di questa collina, caratterizzata da fianchi estremamente ripidi soprattutto sul versante est, ha rivelato l’esistenza di un abitato indigeno, con strutture abitative di forma quadrangolare a uno o più ambienti, realizzate in pietra e mattoni crudi, ben visibili sul breve pianoro sommitale e sul pendio occidentale: i pochi materiali datanti visibili in superficie (ceramiche d’impasto e radi frammenti di anfore di produzione coloniale) daterebbero l’abitato almeno tra V e IV secolo a.C. Nella parte meridionale della stessa cresta collinare affiorano dal terreno i resti di un insediamento che, in base ai materiali ceramici presenti in situ, si data nel corso dell’età imperiale e protobizantina. Le strutture murarie, realizzate con pietre irregolari e laterizi, si dispongono, ben separate tra loro, nella parte sommitale e 28

27

Vassallo 1999

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Vedi Cap. 2, p. 59

Ricerche nel territorio Calactini. Sacro”, classificato per la prima volta in quanto depositato presso il Museo Mandralisca di Cefalù e successivamente interpretato, con risultati discordanti, da Fiore29 e da Scibona.30 In generale questa parte di entroterra ha rivelato diffuse testimonianze di occupazione umana soprattutto in età romana imperiale e nel tardoantico, con una serie di insediamenti che in alcuni casi sembrano assumere la forma di veri e propri borghi. Concentrazioni assai significative di materiali sono state osservate, ad esempio, in c.da Ciaramitaro, a Samperi, in c.da La Pernice e nel Piano della Chiesa, con abbondanti fittili assegnabili principalmente ad età imperiale avanzata. Si tratterebbe di forme di insediamento tipiche dell’epoca tardoantica, quando si assiste allo spopolamento delle città a vantaggio di una dispersione umana nelle campagne. Un’importante segnalazione riguarda la messa in luce, nel corso di lavori di sbancamento eseguiti negli anni ’90 del secolo scorso, in c.da La Pernice, di diverse tombe con povero corredo, nonché di strutture murarie e basolati (Tav. I, n. 26). Non si conoscono i dettagli di un rinvenimento noto solo da segnalazioni e in via ipotetica si suggerisce una datazione alla prima epoca bizantina. Nell’area in questione, morfologicamente interessante in quanto si tratta di un pianoro ben definito su tre lati dal corso di torrenti e da salti di quota, il materiale presente sul soprassuolo, comprendente laterizi, frammenti di vasellame e di dolia databili ad epoca tardo antica, testimonia l’esistenza di un borgo piuttosto esteso: si potrebbe ipotizzare che qui fosse ubicato un vero e proprio abitato autonomo, magari proprio quello di Solusapre, località citata esclusivamente nell’Itinerarium Antonini:31 un diverticulum dalla via Valeria metteva in collegamento Calacte con questo borgo o statio ad una distanza che effettivamente corrisponderebbe a quella che separa la c.da Samperi dalla costa.32 I ritrovamenti in quest’area, inquadrabili tutti nel corso dell’età imperiale e protobizantina, si allineerebbero con la datazione tradizionale dell’Itinerarium (IV secolo d.C. e successivi). Oltretutto Solusapre, nota solo dall’Itinerarium, avrebbe avuto una qualche importanza se si cita espressamente una strada che dalla Via Valeria si diramava verso questo centro dell’entroterra.

lungo il pendio boscoso retrostante, a controllo di una cavea naturale in cui sono numerose le sorgenti d’acqua. E’ probabile che un vero e proprio borgo si sia sviluppato a partire da una fattoria di età imperiale, in una zona internata ma ricca di risorse naturali.

Figg. 45-47. Contrada L’Urmo. In alto e al centro, strutture murarie affioranti nell’insediamento di epoca classica nella parte avanzata del crinale. In basso, strutture murarie in affioramento di epoca tardoantica nel settore meridionale

Un’area che riveste grande importanza sotto l’aspetto archeologico è quella corrispondente all’alta vallata fluviale (c.de Serralisa, Samperi, Piano della Chiesa). E’ qui che fu individuato nella seconda metà del secolo scorso un importante acquedotto di III-II secolo a.C., che probabilmente convogliava l’acqua di alcune sorgenti a monte dirigendole verso la costa. Peculiarità di questa condotta, intercettata in più punti, è l’utilizzo di canalette fittili a U con copertura in mattoni, su cui è presente talvolta un bollo rettangolare con nesso di lettere greche interpretabile come “(mattone) pubblico dei

Fig. 48. Bollo su mattone di copertura dell’acquedotto individuato in c.da Serralisa - Samperi (da Fiore 1971)

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Fiore 1971 Scibona 1971 31 It. Ant. 92,5: “A Caliate Solusapre mi(lia) p(assum) VIII 32 Fiore 1974 30

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia produzione accatastati ancor oggi davanti alla spiaggia, erano attive fornaci che producevano, tra gli altri, le tipiche anfore vinarie tipo Termini Imerese 151-154,34 molto diffuse nella costa settentrionale siciliana. Le anfore prodotte in c.da Chiappe presentano caratteristiche ben riconoscibili, sia sotto l’aspetto formale che nella materia prima impiegata. Si tratta di piccoli contenitori con collo breve e stretto con doppia ansa, corpo panciuto e piede con fondo rientrante ombelicato. L’argilla è di un caratteristico colore rosa-arancio, ricchissima di inclusi (sabbia marina e pietrisco rossastro o quarzite) con superficie relativamente ruvida, a frattura netta e suono metallico, la stessa che caratterizza altri manufatti prodotti in questa fornace (pentole, contenitori da dispensa, piatti, ecc.). La datazione di questi caratteristici contenitori è genericamente compresa tra IV e VII secolo d.C. in base ai diversi contesti di rinvenimento, non solo siciliani. Presumiamo che la fornace di c.da Chiappe fosse attiva già nel IV secolo per il rinvenimento di esemplari della stessa fabbrica in contesti del nostro territorio databili non oltre la fine di quel secolo (ad esempio, c.da Pantano e c.da Lineri) Verso i margini estremi est e ovest dell’attuale comune di Caronia si individuano alcune aree di confine che dubitativamente possono farsi rientrare all’interno del territorio direttamente controllato da Kalé Akté - Calacte. Ad est, al confine con la polis di Apollonia (Monte Vecchio di San Fratello), non sono al momento note forme di occupazione precedenti l’epoca bizantina (S. Pancrazio), se si esclude la notizia di rinvenimenti, non verificati, di ceramiche a vernice nera e monete ellenistiche nella zona di c.da Fughetto – S. Mamma. L’ampio pedemonte compreso tra quelle contrade, dove andrebbe localizzata per il VI secolo d.C. una “Massa Furiana” nota dalle fonti (epistolario di Papa Gregorio Magno),35 e la città antica, ha rivelato finora poche testimonianze di frequentazione. Sul confine opposto, a ovest, si daterebbe principalmente ad età imperiale l’occupazione della collina di c.da Contura, a Canneto di Caronia: qui, lungo il rilievo, si individuano almeno 3 siti principali (Tav. III, nn. 3-5), databili, in base ai materiali presenti, principalmente tra II e V secolo d.C.36 Il ritrovamento sporadico di semilavorati di ossidiana, peraltro, rivela una frequentazione anche in età preistorica. La collina si caratterizza per la presenza di una serie di pianori chiusi ad occidente da una cresta che si volge ripidamente ad ovest. Il principale sito (n. 5) che è stato possibile esaminare è relativo ad un edificio purtroppo distrutto da lavori di dissodamento del terreno, costruito con pietre locali sbozzate e impiego di laterizi, con materiale mobile eterogeneo (ceramiche, chiodi in ferro, vetri, frammenti di intonaco, ecc.). Le caratteristiche del tegolame, comprendente anche esemplari di tegole piane, ed il tipo di ceramiche presenti, ne attestano un uso a partire da età altoimperiale almeno fino al III-IV secolo d.C.

Figg. 49-50. In alto, resti di dolium di epoca tardoantica dall’insediamento identificato in c.da La Pernice (sito 25; in basso, scarico di fornace con anfore tipo Termini 151/354 dal sito di c.da Chiappe (58).

Nello stesso ambito cronologico, ma localizzato a molta distanza verso est, si inserisce il borgo tardoimperiale individuato sulla costa in c.da Chiappe, poco ad est di Marina di Caronia (Tavola I, n. 58). Il sito è da tempo noto per la scoperta di una fornace che produceva anfore vinarie databili al IV-V secolo d.C.33 ampiamente attestate sia all’interno dell’area urbana di Calacte che nei siti tardoantichi sparsi nel territorio. In realtà, all’attività produttiva svolta da impianti specializzati si accompagnava un vero e proprio abitato: i terreni della contrada, periodicamente arati, mettono in luce notevoli quantità di ceramiche frammentarie e pietre da costruzione su un’area relativamente estesa (circa 2 ettari), tra la ferrovia e la spiaggia. La località si trova circa 2 km ad est del quartiere Nunziatella, centro dell’odierna Marina di Caronia, e si contraddistingue come un breve promontorio sul mare, dove si allineano una serie di scogli. I materiali presenti si datano dall’età imperiale avanzata fino al V-VI secolo d.C. e presentano caratteristiche molto simili a quelle di fase più tarda di c.da Pantano e a quelle di c.da Samperi, suggerendo chiaramente una produzione locale di vasellame. Nel sito, come si desume dall’enorme quantità di scarti di

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Belvedere et alii 1993 Fiore 1984 36 L’area di dispersione di materiali antichi, quasi esclusivamente ceramici e laterizi, è molto ampia e copre interamente la sommità semipianeggiante del crinale, con possibile localizzazione di un villaggio nel ripiano più meridionale 35

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Scibona 1987; Lindhagen 2006; Bonanno 2009. Vedi inoltre Cap. 6 in questo volume

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Ricerche nel territorio

Fig. 51 Insediamento tardoantico di c.da Chiappe (sito 58). Area di dispersione di materiale archeologico e ipotesi di sviluppo dell’antica linea di costa (rielab. immagine Bing Maps)

pianura esistente nel territorio a ovest del fiume Caronia. Il sito di una probabile villa marittima nella parte più occidentale della piana fu identificato nell’800 quando, a seguito di lavori agricoli, affiorarono piani a mosaico e strutture murarie37. I mosaici vennero asportati e trasferiti presso il Museo Salinas di Palermo. Il sito di questa villa, per la quale non si dispone di altre informazioni, si trova in contrada Portale, dove si sviluppa un’area pianeggiante ai piedi delle ripide alture retrostanti. Potrebbe essere pertinente a tale complesso un sigillo fittile con dicitura “LLIIULIORUM [P]RIVATIEET [C]RESCENT[I]ANI” pubblicato da Fiore.38 Ancora più a ovest, un ulteriore sito di probabile fattoria o villa rustica è stato identificato in corrispondenza della Villa Mancusio, caseggiato nobiliare dei primi del ‘900 ormai in rovina. L’area presenta in superficie ceramiche frammentarie e laterizi databili ad età imperiale, nonché alcuni grandi blocchi litici asportati dal terreno; nei pressi dell’edificio si trova una macina in pietra lavica di epoca romana. Ad est della foce del fiume Caronia si estende

Fig. 52. C.da S. Giovanni. Crollo murario e tegolame relativo al sito 8

La disposizione delle diverse aree di concentrazione di materiali fittili nell’altura di Contura suggerisce l’esistenza di una serie di strutture abitative a contorno di fondi coltivati estesi nei pianori e nei declivi sottostanti a est, a margine del bosco tutt’oggi esistente. Sul versante opposto del torrente Canneto (c.da S. Giovanni) sono presenti alcuni siti di probabili fattorie: l’occupazione dell’area per fini agricoli è attestata a partire da epoca ellenistica, con una forte concentrazione in corrispondenza della media età imperiale (Tav. I, nn. 6-8. Fig. 42). Lavori di scavo agricolo hanno in alcuni casi messo in luce strati di crollo di strutture principalmente databili ad età imperiale. Su una vasta area sono presenti sul soprassuolo molti frammenti ceramici, anche a vernice nera, ma con prevalenza di materiali di età imperiale, comprese le sigillate africane. Sempre ad ovest di Caronia, lungo il litorale (c.da Piana) sono numerosi i rinvenimenti sporadici di materiali, soprattutto di epoca romana, riferibili a probabili fattorie o anche ville rustiche, sorte lungo la strada litoranea (Via Valeria) nell’unica area di limitata

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In proposito, abbiamo la descrizione data nei resoconti della Commissione di Antichità e Belle Arti, di cui si dà una sintesi in G. Lo Iacono - C. Marconi, L'attività della Commissione di Antichità e Belle Arti - Parte II (1835-1845) (= Quaderni del Museo Archeologico Regionale "Antonino Salinas" Supplemento, 4, 1998, pag. 52): “Nel dicembre 1844, a causa di violente piogge, vennero alla luce delle antichità, alle falde di una collina nell'ex feudo Piana, di proprietà del Duca di Monteleone, in territorio di Caronia: due muri e a poca distanza un pavimento a mosaico policromo (cavallo montato da cavaliere seguito da un cane)”. Il mosaico figurato sembrerebbe rappresentare una scena di caccia, sicuramente attribuibile ad una villa di III-IV secolo. Si rammenta inoltre che nell'inventario ottocentesco del Museo dell'Università di Palermo è registrato un "pezzo informe di mosaico in bianco e nero" rinvenuto "in Caronia". Quindi è sicuro il rinvenimento di almeno un altro mosaico bicromo, databile approssimativamente al IIII secolo d.C., a Caronia, non si sa se proveniente da area urbana (dalla città marittima) o da un’ulteriore villa suburbana (comunicazione di Elisa Chiara Portale, che si coglie occasione per ringraziare). 38 Fiore 1972. Vedi in questo volume Cap. 1, p. 19

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia un’altra area di pianura, compresa entro le contrade Sugherita-Pantano. E’ logico ritenere, sulla base delle ricerche fin qui condotte, che parte di essa (ad est) fosse occupata dalla città marittima, a partire almeno dal IV secolo a.C.39 e fino alla prima età bizantina. La parte più occidentale della piana (c.da Sugherita), invece, dovette essere destinata all’impianto di attività produttive, come stabilimenti per la lavorazione dei prodotti agricoli, fornaci, ecc.

area di dispersione di materiale ceramico ha suggerito l’esistenza di strutture, di cui si sono effettivamente individuati i resti ancora in parte affioranti dal terreno. In particolare, si segnala un muro d’argine in pietra, di cui si conservano alcuni tratti davanti alla spiaggia e i resti di una o due fornaci per laterizi. Qui sono infatti presenti in gran numero mattoni di tradizione ellenistica (dimensioni standard: 50 x 34 x 9-11), molti dei quali con difetti di cottura, nonché numerosi scarti di lavorazione. Le fornaci, con i relativi ambienti, si disponevano probabilmente su una fascia di terreno davanti alla spiaggia, dove venivano riversati i prodotti di scarto, tutt’ora visibili. La datazione di questo insediamento produttivo è suggerita ancora una volta dalla presenza di anfore tipo Termini Imerese 151/154 di produzione locale (IV-V secolo d.C.). E’ pertanto attestata, fino al termine dell’età imperiale, la produzione a Calacte di mattoni con caratteristiche rimaste immutate dall’età ellenistica, di grandi dimensioni, che costituivano una produzione originale rispetto ai caratteristici mattoni di piccole dimensioni in uso nel mondo romano. Ritornando nell’entroterra, verso sud-ovest, di notevole interesse è stata la scoperta di un fortino in cima a Monte Trefinaidi, al confine con il territorio di Mistretta40 (Tavola I, n. 1). Proprio in cima al Monte sono stati individuati resti di strutture murarie, presumibilmente riferibili ad una postazione militare a presidio dell’ampio pedemonte esteso a 360 gradi. Si segnala qui il rinvenimento di numerose ghiande missili in piombo e di anfore, nonché di monete in bronzo; i materiali si riferiscono principalmente ad un periodo compreso tra IV e III secolo a.C. Frammenti di ceramiche grezze potrebbero tuttavia attestare una frequentazione del sito quantomeno in epoca altoclassica. L’esistenza di una postazione militare in un punto altamente strategico, a cavallo tra le chorai di Kalè Akté e Amestratos, con un ampio sguardo verso l’entroterra, potrebbe riferirsi all’epoca in cui Siracusa controllava questa parte dell’isola, forse in concorso all’azione dei Mamertini. La presenza, in un’area circoscritta assai prossima alla torretta, di molti proiettili, potrebbe essere la testimonianza di uno scontro avvenuto, in base alla concomitante presenza di monete siracusane e mamertine, nella seconda metà del III secolo a.C., epoca alla quale si daterebbe l’abbandono della postazione. Più a nord, esattamente al confine tra i comuni di Caronia e S. Stefano di Camastra (Pizzo Governatore – c.da Aria, Tavola I, n. 2), sono stati casualmente rinvenuti importanti materiali in giacitura, databili tra la seconda metà del VI e l’inizio del IV secolo a.C.:41 hydriai, crateri, anfore, skyphoi, oinochoai, lekanai, lekythoi, coppette, lucerne, ecc., sia di produzione indigena che di produzione greca coloniale.42 Considerato lo stato dei materiali, integri o ricostruibili, e la loro tipologia, si tratterebbe di una necropoli al servizio di un

Figg. 53-55. C. Sugherita. In alto, veduta d’insieme dei resti del muro-argine orientale; in basso: al centro, materiali di scarto (mattoni, tegole e anfore) riversati sulla spiaggia; in basso, muri trasversali alla linea di costa in ciottolini legati con malta di calce.

Nell’area è peraltro presente una falda acquifera sotterranea, sfruttata da pozzi anche in epoca moderna. Nella parte nord-occidentale della piana, non lontano dalla foce del fiume e proprio dinanzi al mare, un’ampia

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Per un primo riferimento: Quaderni di Archeologia Nebroidea e Tigano 2012. 41 Collura, Alfieri 2012; Tigano 2012 42 Si coglie l’occasione per ringraziare per la segnalazione e la produttiva collaborazione l’archeologo Vittorio Alfieri e il sig. Sebastiano Boscia, sia per il sito di Monte Trefinaidi che per quello di contrada Arìa.

39 Scibona 1987 parla di materiali di almeno IV secolo a.C. all’interno della vasta proprietà di Noto.

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Ricerche nel territorio insediamento indigeno ellenizzato, i cui pochi resti visibili sono stati identificati poco più a sud. Tra i materiali recuperati, merita di essere segnalato un bacino in ceramica grezza con prese a U capovolta, usato per contenere le ossa del defunto. Il tipo di vaso, di chiara ascendenza protostorica, presenta strette affinità, sia per le caratteristiche della ceramica che sotto l’aspetto formale, con analoghi materiali rinvenuti a Pizzo Cilona e sulla collina di Caronia, dove si dovrebbero datare a non prima della fine del VI secolo a.C.43 Gli altri vasi di produzione indigena si inquadrano nello stile in uso nella parte centrale della Sicilia, nei siti del nisseno e dell’ennese. Per ciò che riguarda invece il vasellame di produzione coloniale, non è da escluderne una provenienza da Himera piuttosto che da Zancle o più in generale dall’area nord-orientale dell’isola, e si data dall’inizio del V ai primi decenni del IV secolo a.C. Si segnalano, infine, tra i manufatti rinvenuti, un amphoriskos in pasta vitrea e soprattutto un argento di Naxos della serie con testa di Dionisio e sileno itifallico accovacciato, databile alla seconda metà del V secolo a.C. Quest’ultimo ritrovamento riveste una certa importanza essendo l’unico noto in questa parte centrosettentrionale della Sicilia e potrebbe rivelare l’esistenza di contatti tra quest’area e il versante ionico attraverso percorsi interni.44

a metà strada tra i centri antichi di Kalé Akté e Amestratos; non si conoscono dalle fonti storiche altri centri abitati in quest’area. Per la fase più antica di questi rinvenimenti, tuttavia, occorre tenere in considerazione una presenza percepibile nel territorio della città sicula di Herbita, che una serie di interpretazioni, anche su base epigrafica,46 collocherebbero a non molta distanza dai due centri prima accennati, su questo versante dei Nebrodi. La scoperta assume una grande importanza per le implicazioni che comporta sia sotto l’aspetto dell’occupazione di aree47 che, fino a poco tempo fa, non avevano fornito prove consistenti di frequentazione antica, sia per la prova tangibile di una prevedibile commistione di culture in fase tardoarcaica e classica anche nell’area nebroidea. Il sito, per le sue caratteristiche dimensionali e topografiche, si ricollega a quello non molto distante di c.da L’Urmo, nonché all’insediamento-phrourion di Pizzo Cilona, e suggerisce l’esistenza diffusa di abitati indigeni su alture ben difendibili posti sui rilievi boscosi che caratterizzano ancora oggi il settore occidentale dei Nebrodi, presumibilmente abbandonati al nascere delle uniche poleis tramandate dalla letteratura antica in questo articolato comprensorio, ovvero Kalé Akté e Halaesa, mentre per la vicina Amestratos, anch’essa nominata nelle fonti storiche, se ne potrebbe ipotizzare una nascita in epoca arcaica proprio come villaggio siculo, che assunse la veste di vera e propria polis solo in età ellenistica.

Fig. 56a-b. Contrada Arìa (sito 2): moneta in argento della zecca di Naxos (sporadica tra l’area di necropoli e quella di abitato

Si ignorano le circostanze che hanno consentito il recupero di un discreto quantitativo di manufatti.45 La ricognizione da parte di chi scrive nel sito ha evidenziato la fortissima e progressiva erosione dell’area sommitale in cui doveva estendersi la necropoli, che potrebbe avere determinato l’affioramento di diverse sepolture realizzate nella nuda terra. La zona in cui insiste il sito di c.da Arìa si trova 43

Le ceramiche modellate a mano provenienti da c.da Aria presentano strette affinità, sia stilistiche che materiali, con analoghi manufatti provenienti da altri siti del territorio dove sembrano datarsi a non prima della fine del VI – prima metà del V secolo a.C., suggerendo la lunga persistenza, in questo settore dell’isola, di consuetudini risalenti ad epoca protostorica ben oltre l’ellenizzazione attestata dalla diffusa presenza di ceramiche di produzione coloniale 44 I materiali provenienti da c.da Arìa sono frutto di ripetuti recuperi effettuati da privati lungo uno stretto crinale soggetto ad una forte erosione, che ha messo in luce diverse sepolture. Queste, secondo le descrizioni fornite, apparivano entro semplici fosse, talvolta con delimitazioni in pietre ed a inumazione senza incinerazione 45 Parte dei corredi sono oggi esposti presso il Museo delle Ceramiche di S. Stefano di Camastra

Figg. 57-58. In alto, paesaggio collinare del settore occidentale della chora calactina; in basso, contenitore utilizzato come cinerario proveniente dalla necropoli dell’insediamento indigeno di c.da Arìa (rielab. da Tigano 2012) 46

Scibona 1971b In particolare, l’area del comune di S. Stefano di Camastra, che recentemente ha offerto importanti testimonianze di occupazione in età classica (vedi a seguire) 47

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 59-62. Insediamento di c.da Arìa. In alto: veduta del crinale collinare da sud e resti di muri in mattoni crudi affioranti in parete nell’area di abitato; in basso, materiali di produzione indigena e greca dall’area di necropoli (foto V. Alfieri)

Fig. 63. Stralcio Carta Archeologica. Siti area c.da Contura – c.da S. Giovanni – c.da L’Urmo (rielab. immagine PCN)

tipo, dal marittimo al montano. I ritrovamenti di epoca preistorica, in zone distanti tra loro, suggeriscono l’esistenza di villaggi in contatto con la parte nordorientale della Sicilia e con le Eolie. Se non è da escludere che i ritrovamenti isolati di ossidiana o selci lavorate possano riferirsi a gruppi umani transumanti, è

Nel complesso, le ricerche svolte fino ad oggi nel territorio, seppure incomplete per via dell’estensione dell’area da prendere in considerazione, forniscono un primo quadro delle modalità di insediamento e sfruttamento in una regione morfologicamente diversificata, con presenza di ambienti naturali di vario

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Ricerche nel territorio da ipotizzare tuttavia che diversi siano stati gli insediamenti nel corso dell’Età del Rame e del Bronzo tutt’ora interrati, da ricercarsi senza precisi criteri di localizzazione, in quanto venivano scelti per un’occupazione stabile sia aree di montagna, sia normali pendii collinari, sia i terreni antistanti il mare. All’arrivo di genti greche in queste contrade, che possiamo datare già nel corso del VII secolo a.C.48 quando Zancle avviò l’esplorazione di territori in cui esercitare i propri commerci e su cui insediare una propria colonia, che poi sarebbe stata creata a Himera a metà del secolo, i rapporti con gli abitati indigeni arroccati sulle alture non dovettero essere fitti e pervasivi fino a tarda età: i primi materiali greci rinvenuti fuori dall’area dell’insediamento marittimo di Marina di Caronia non si datano prima della fine del VI secolo a.C. C’è da chiedersi poi quali siano stati i rapporti tra quest’ultimo insediamento e il circondario, considerando che esso costituiva comunque una testa di ponte tra colonie greche e mondo indigeno. Tracce di cultura materiale greca fuori dall’area urbana si riscontrano, a partire dall’inizio del IV secolo a.C., nelle aree ad essa più prossime e poi gradualmente verso sud e lungo la vallata fluviale. All’indomani della nascita di Kalè Akté si rese necessario imporre l’autorità della nuova entità politica su un’area che è difficile da definire. Possiamo ritenere che i limiti della chora calactina siano stati determinati nel rispetto di altri centri ellenizzati che gravitavano in questo settore dei Nebrodi. Sicuramente ad est un confine naturale era costituito dal corso del torrente Furiano, oltre il quale si doveva sviluppare il territorio di Apollonia, città esistente, stando ai ritrovamenti soprattutto fuori dall’acropoli oggetto di scavi sistematici, dalla fine del V – inizi IV secolo a.C. Ad ovest doveva estendersi il territorio di Amestratos, città per la quale, in realtà, le attestazioni materiali finora note in area urbana non risalgono a prima della seconda metà del IV secolo a.C.49 Verso sud, l’unico centro noto, a notevole distanza, è Kapytion (Capizzi), di cui si ignora la data di nascita. Nel V secolo a.C., pertanto, Kalè Akté si trovò ad amministrare un territorio molto vasto, nel quale insistevano piccoli centri indigeni che entrarono nella sua orbita prima di scomparire nel corso del secolo successivo. Tuttavia non disponiamo ancora di dati che attestino una tangibile presenza e influenza della città prima del III-II secolo a.C. nelle aree più distanti, se si escludono alcuni materiali sporadici di probabile IV secolo verso ovest (c.da Coste Portale e c.da S. Giovanni). La nascita di fattorie all’interno di fondi coltivati o a margine di aree di pascolo si osserva soprattutto nella tarda età ellenistica e ad inizio impero. E’ molto probabile, inoltre, che molti siti che mostrano principalmente una fase assegnabile nel corso dell’età imperiale, stando ai materiali rinvenuti, risalgano anch’essi al tardo ellenismo, come quelli di probabili fattorie individuati sui due pendii collinari che

convergono nella vallata fluviale e ancora nel settore più occidentale, dove peraltro non è da escludere che il territorio della nostra città arrivasse a comprendere anche parte dell’odierna S. Stefano di Camastra, forse fino al corso del fiume omonimo (o Serravalle). Un’ultima considerazione riguarda l’epoca medievale, successiva alla presa di questa parte dell’isola da parte degli Arabi. Al di fuori della collina di Caronia, fino ad oggi non sono state rinvenute ceramiche con sicurezza riferibili al lungo periodo compreso tra IX e XIV secolo. Frammenti di XIV-XV secolo si sono invece rinvenuti sporadicamente appena a sud del centro storico di Caronia (c.da Fontanelle), in c.da Trapesi e soprattutto sul versante est di c.da Fiumara (qui forse scivolati dall’alto) e nell’area compresa tra la collina di Caronia e la costa. Al nascere del nuovo centro di Caronia nel IX secolo, cui corrisponde l’abbandono definitivo dei borghi sparsi nel territorio, pare quasi coincidere l’abbandono dei fondi agricoli su una vastissima area che non sia quella più prossima alla città. La contrazione demografica in corso a partire dalla tarda età imperiale pare avere raggiunto l’apice proprio in corrispondenza dell’arrivo degli Arabi in Sicilia. Evidentemente, i pochi coltivatori di fondi agricoli rimasti, che abitavano stabilmente la collina, preferirono forse condurre i terreni più vicini alla città, o comunque raggiungere quotidianamente le campagne più distanti senza necessità di disporre di fabbricati in cui soggiornare per lunghi periodi. Una breve digressione fuori dai confini del territorio comunale di Caronia, per la precisione in quello confinante di S. Stefano di Camastra, si ritiene opportuna in quanto dà idea delle forme di occupazione di questo settore dei Nebrodi nel corso di un lungo arco temporale e riguarda una residenza di età romana che potremmo definire anche “villa” nel senso tradizionale del termine, recentemente identificata in contrada Vocante, a cui chi scrive ha avuto modo di dedicare un parziale studio.50 Il sito si trova nell’entroterra stefanese, sul pendio della collina che fiancheggia a est il corso del torrente Serravalle o S. Stefano, dove si creano passaggi naturali tra alture che dovettero rendere il luogo, in antico, importante nodo viario tra mare e monte, a metà strada tra le odierne cittadine di S. Stefano e Mistretta (antica Amestratos). L’area appare frequentata già in epoca greca, in considerazione del rinvenimento segnalato di frammenti ceramici a vernice nera di V o IV secolo a.C. nel fondovalle e nei terreni circostanti il sito. Il complesso si daterebbe almeno dal I secolo a.C. – I secolo d.C. per la diffusa presenza sul soprassuolo di sigillata italica. Al II-III secolo d.C. risalirebbe invece un prezioso pavimento a mosaico parzialmente in vista realizzato con tessere di colore nero e bianco. La figurazione musiva prevede una fascia a motivi fitomorfi resi con tessere bianche su fondo scuro, che definiscono un tappeto con motivo a squame bipartite bianco-nere, che trova confronti, tra gli altri, con analoghi tappeti musivi presso le Terme di Caracalla a Roma e, in Sicilia, presso la Villa di Piazza Armerina e nel vano 6 della Villa di Bagnoli a Capo d’Orlando. Il mosaico appare ben conservato e potrebbe essere pertinente ad una

48 Vedi in questo volume: Approfondimenti, Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero… 49 Riferiti al sito sono alcuni materiali, tra cui una oinochoe decorata in stile Polizzello e due deinoi databili al VI secolo a.C. di cui però si ignora l’esatto luogo di rinvenimento, che potrebbero anche provenire da un centro indigeno situato nell’entroterra.

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Alfieri, Collura 2012

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia riutilizzo proveniente dalla villa.51 Rimanendo sull’argomento delle ricerche topografiche nel territorio, vogliamo fare cenno ad un breve studio di toponomastica condotto nell’area dell’odierno comune di Caronia, che ha rivelato la persistenza di molti toponimi risalenti ad epoca greca e romana, oltre che arabo-normanna. Le ricerche in quello che fu il territorio dell’antica Kalè Akté, infatti, sono state anche l’occasione per sorvolare idealmente, oltre che materialmente, le diverse contrade in cui esso è oggi suddiviso: una lunghissima serie di nomi, molti dei quali noti solo localmente o addirittura non più in uso. Essi qualificano varie parti dello stesso abitato moderno, suddiviso in rioni dal nome più o meno comprensibile e antico, con una suddivisione che ricorda per certi versi l’esistenza dei demotici utilizzati in età greca. Così, ad esempio, a Caronia esiste il quartiere del “Bastione”, dove era una sporgenza della fortificazione medievale, oggi scomparsa; la “Via Nuova”, che identifica la parte occidentale della collina dove all’inizio del ‘900 venne aperta una strada ai margini della quale nacque un intero quartiere. Alcuni toponimi cittadini richiederebbero verifiche che ne spiegassero il significato: così, sicuramente il “Lavatoio” indicava la parte più meridionale e alta del paese dove esisteva un impianto idrico con vasche; il “Trappeto” la zona dove esisteva un impianto per la lavorazione dell’olio; lo “Stradone” definiva il quartiere d’entrata al paese raggiunto e attraversato dalla strada proveniente dalla SS 113 (si tratta in questi casi di toponimi nati tutti nei primi decenni del ‘900); il “Canale” qualifica l’entrata al paese per chi viene dalla costa e si riferisce all’esistenza di un ruscello e di una fontana e delle relative condutture, oggi non più visibili; la “Chiazza” corrispondente all’attuale “piazza Calacte” era la principale del paese prima dell’apertura di piazza Roma, e così via per la “Porta Torre”, “Dietro S. Biagio”, la “Matrice”, ecc,, dal chiaro significato. Bisognerebbe invece vedere se il “Pozzarello” si chiama così per l’esistenza di un pozzo pubblico e non di semplici fontane, nell’area di campagna urbanizzata solo a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, mentre rimane dubbio anche il significato di altri toponimi ancora oggi in uso, come “Sotto le finestre”, lo “Spiruni” (riferito alla posizione esposta del luogo, sotto il Castello?), ecc. Il territorio dell’odierna Caronia dovrebbe corrispondere, grossomodo, alla chora di Kalé Akté: si tratta di un’area molto estesa (oltre 220 kmq), dove l’abitato si trova in posizione centrale rispetto alla costa, ma a notevole distanza dalle zone montuose dell’entroterra, circostanza che in passato dovette condizionare le tipologie di insediamento e sfruttamento agrario. E’ noto il susseguirsi qui di presenze umane che hanno lasciato evidenti tracce negli usi, nella lingua e nell’onomastica: greci, romani, bizantini, arabi, normanni, spagnoli, in misura diversa hanno intaccato profondamente la cultura nelle sue svariate manifestazioni. Una ricerca sulla toponomastica in

grande sala con pareti affrescate (presenza di molti frammenti di intonaco decorato sul soprassuolo). La villa si articolava su livelli successivi lungo il pendio in senso NE-SO, come appare evidente dall’affioramento di strutture murarie su quote differenti, ma non se ne può determinare l’estensione se non sulla base dell’area di dispersione di materiale archeologico, piuttosto ampia, che comprende ceramiche e altri materiali (laterizi, manufatti in metallo, vetri, ecc.) databili fino ad età bizantina.

Figg. 64-65. C.da Vocante (S. Stefano di Camastra). In alto, chiesetta bizantina con abside; in basso, pavimento a mosaico bicromo della villa di età imperiale (foto: V. Alfieri)

E’ ipotizzabile che questo fosse il sito di una fattoria attiva già in epoca ellenistica, ampliata e arricchita nel corso dell’età imperiale, quando doveva trovarsi al centro di un vasto latifondo all’interno di quello che doveva essere il territorio della città di Amestratus, da qui distante poco più di 4 km in linea d’aria e lungo una strada di collegamento tra questa e la costa. Dopo il IV secolo d.C. la villa non doveva esistere più come tale ma, come accaduto per altre residenze rurali di lusso, anche in area nebroidea (villa romana di Patti, villa di Bagnoli a Capo d’Orlando), il sito non venne abbandonato ma si formò un borgo, a servizio del quale venne edificata una chiesa. Sui resti interrati della parte più alta del complesso residenziale, infatti, venne costruita, probabilmente nel VII-VIII secolo, una piccola basilica con abside al centro di uno dei lati corti (c.a 15 x 6,5 metri), che impiegava molto materiale edile di

51

Il tipo di edificio trova confronti con la basilichetta bizantina di Rossomanno (EN), leggermente più grande di quella di contrada Vocante. Vedi Pensabene 2010, p. 23 e fig. 22

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Ricerche nel territorio medievale. Significativo il fatto che il toponimo Marascotto esiste già nei Riveli di Caronia del 1607. Nel territorio è marcata l’influenza greca dal punto di vista toponomastico. Dall’epoca della colonizzazione e per tutta l’età bizantina la lingua comunemente utilizzata in queste contrade fu il greco, anche in concomitanza con la presenza romana. Da questa lingua deriva un gran numero di termini utilizzati nel linguaggio comune e per indicare precisi luoghi nel territorio, in uso fino ad età moderna, più o meno corrotti ma facilmente individuabili. Si tratta spesso di termini legati alle caratteristiche morfologiche dei terreni o al tipo di coltivazione prevalente in antico. Nel linguaggio dialettale sono ancora oggi utilizzati termini radicati nella tradizione locale a causa del millenario uso della lingua ellenica fino ad età medievale: fanno parte di questo ampio repertorio, condiviso con altre aree della Sicilia, parole come Iazzu (giaciglio, da ιαυθµοj, luogo di riposo); Timpa (sperone roccioso, da τυµβα, tumulo, o da τυµπανον, frontone del tempio); Urio (vasca per l’irrigazione, da υδορ, acqua, o meglio υδρεια, luogo da cui attingere acqua, irrigazione); Catue (magazzino interrato o sottoscala, dal prefisso κατα (sotto, sottostante), e così via. Il dialetto locale, più in generale, è il risultato di una commistione di lingue diverse, espressione di culture che si sono avvicendate in questo luogo nel corso dei secoli. Se buona parte deriva direttamente dal latino (medievale) e dal greco classico e bizantino, molto incisiva risulta d’altra parte l’influenza francese e spagnola. Un gran numero di toponimi leggibili in una mappa del territorio di Caronia, conserva radici greche, sebbene in alcuni casi l’origine sia dubbia. Si propone, comunque, un elenco dei principali, che rimane tuttavia pur sempre suscettibile di fraintendimento. Trapesi, nome con cui si indicano alcune località caratterizzate dalla presenza di pianori. Deriva chiaramente da τραπεζα (tavolo, ripiano). Toponimo presente anche in altri comuni siciliani; Pidoto, contrada localizzata a sud del centro storico, di recente urbanizzazione. Deriva da πιδαξ (sorgente, fonte). Da questa contrada, in effetti, hanno inizio alcuni ruscelli e non si esclude la presenza di un luogo di culto legato all’acqua; Ogliara, Aglia, Agliastro, Oleastro e simili. Derivano dal termine ελαια (ulivo), e la loro diffusa presenza, ripetuta anche più volte, nel territorio, evidenzia quella che dovette essere anche in antico la principale coltura agricola praticata; Cilento, da κυλινδοs (area collinare, terreno in declivio); Mulé, da µυλη (macina, mulino); Antiva, contrada localizzata nella collina occidentale dirimpetto a quella della città, da αντι (di fronte a); Anfusa, da αµφi (intorno a); Piriano, da περι (intorno a); Pampazzo e Pampalona, da παν - παµπολυs (grande e grandissimo); Ulera, da υλη (bosco da legna); Tricchito, da τραχυs (aspro, pietroso); Pulemi, da πολεµιοs (nemico);

quest’area enorme è senza dubbio assai difficoltosa per il gran numero di toponimi e le difficoltà di interpretazione che presentano. Per molti di essi non si riesce a individuare in alcun modo l’origine e il significato, nonostante il confronto con le lingue dei popoli che vi hanno stazionato e con lo stesso siciliano. Nonostante i tentativi, ad esempio, non si è riusciti a risalire all’origine di toponimi, riferiti a monti, alture, torrenti, contrade, ecc., quali Murcignano, Brignolito, Zilio, Bastoriaca, Fau, Cucirì, Curardo, ecc. Molte contrade sono state identificate, forse a partire dal basso medioevo, con nomi di santi, talvolta corrotti: S. Anna, S. Todaro (Teodoro), S. Leo (Elia), S. Giuseppe, S. Miceli (Michele), S. Andrea, S. Cono, S. Demetrio, S. Pancrazio, S. Vito, Santuzza, ecc. Come era da aspettarsi, diverse aree del territorio conservano il ricordo di particolari colture agricole forse praticate intensivamente in antico di cui è rimasta memoria, o di alberi o piante selvatiche particolarmente prolifiche in certe zone: Fichera, Fico, Noce, Pero, Pomo e Pomiere, Castagneto, Gelso, Sorba, Patataro, Cardoneta, Mortilli, Cerro, Olmo e Urmo, Tassita, Suvarita. Numerosi toponimi conservano invece il ricordo dell’esistenza di attività produttive, il cui esercizio potrebbe anche risalire a diversi secoli addietro: Trappeto, Trappetazzo, Palmentello, Iardineddi, Pagliarotto. La grandissima disponibilità di risorse idriche nel territorio ed il loro sfruttamento è testimoniata da un numero davvero notevole di toponimi legati all’esistenza ed all’uso dell’acqua, per alcuni dei quali si può fare risalire l’origine ad età molto antica: Fontanazza, Canale, Pozzarelli, Schicciddu, Bagnara, Pantanoscuro, Pantanotto e Pantani, Piscialora, Piscialarà, Riano, Gerba, Fontana ammucchiata, Tre Fontane, Fontanelle, Riserva, ecc. nomi, alcuni dei quali ripetuti più volte in settori diversi del territorio, che esprimono con chiarezza la ricchezza d’acqua di queste contrade, percorse da un gran numero di torrenti e rivi e disseminati di pozze e pantani, e la laboriosa e millenaria opera dell’uomo per incanalarle e raccoglierle. I toponimi Piano della Chiesa, Predica e Crocitti evocano la pratica, anche nelle campagne, del culto cristiano, esercitato in chiese rurali o presso edicole votive, sebbene il primo ed il terzo nome potrebbero testimoniare preesistenze, sia come luoghi di culto che come aree cimiteriali, di epoca tardoantica. Una interessante serie di toponimi è identificabile al limite sud-est del territorio, nell’ex Feudo Marescotto, nome quest’ultimo di probabile origine medievale dell’Italia di nordest. In una mappa medievale in corrispondenza di questa contrada è indicata una “Motta”, termine che in età feudale indicava un castello costruito su una piccola altura ben difesa. In c.da Marescotto esiste il toponimo Castello, a cui si affiancano significativi nomi come Casalini e Bagnara (laghetto). Nelle vicinanze è l’Abbazia di S. Pancrazio, un monastero basiliano edificato dai bizantini durante il periodo di ellenizzazione della zona compresa tra il fiume di Tusa e il torrente di Furiano (VII secolo d.C.). Si tratterebbe di un’area, posta su alture ad una certa distanza dal mare, già frequentata in epoca romana e soprattutto nella fase tardoantica e ancora in quella

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

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Cilona, da χηλονη (tartaruga), per via della particolare conformazione dell’altura che ricorda quella di una testuggine; Laccu, da λακκος (cavità, fossa, stagno); Policara, da πολυκαρα (insediamento). Con lo stesso termine è tuttavia indicato localmente un tipo di erba; Catapuozzu, da καταπιπτω (cadere giù); Laccarà, da λευκαινω (imbiancare). Dubbio; Laparia, da λαπαρα (fianco); Fanedda, da φανερος (visibile, noto) o similmente φαινω; Filio, da φιλος (amico); Ornia, da ορνις (uccello); Ilici, da ηλικος (grande) o ελιοοµαι (esposto al sole); Canfuto, da καµπτω (piegare, curvare). Dubbio; Danaci, potrebbe derivare dall’omonima moneta persiana con cui i Greci indicavano l’obolo per Caronte nel trapasso; Innù, da ινα (dove). Dubbio; Vasano, da βαs o da βαινω (camminare). Incerto; Marauni, da µαραινω (distruggere). Dubbio; Buzza (antico Buda), da βους (bue, vacca). Incerto; Mandarano da µανδρα (recinto, stalla). Licita, da λευκος (bianco, chiaro); Mustica, da µυστικη (arcano, misterioso). Incerto; Angara, termine locale con il quale viene indicata una pietraia, molto diffuso, da αγγαροs (postazione), Incerto. Alcuni toponimi risultano di plurima origine, potendo derivare dal greco o dal latino. Così: Milianti, MIlianni, Milio, possono derivare sia dal greco µιλιον (miglio, misura) che dal latino “milium” (miglio, cereale); Ortata, Ortazzi, dal greco ορθος (diritto, ripido) o dal latino “hortus” (orto, giardino); Mulé e Molaro possono derivare dallo stesso termine (mola, macina) in greco (µυλη) e latino (“mola”); Ilici, citato come derivante da ηλικοs o ελιοοµαι, potrebbe più probabilmente trarre origine dal latino “ilex” (leccio); Riano può derivare da ρυω (scorrere) o da “rivus” (ruscello); Tribona deriverebbe dal greco τριβω (consumare, fare attrito) o dal latino “tribus” (tribù) o “tribulo” (tribolare o calpestare). Molti altri toponimi hanno una quasi sicura derivazione dal latino. In proposito va detto come questa lingua, introdotto dai Romani dopo la conquista della Sicilia nel III secolo a.C., nella nostra area venne utilizzata principalmente nei documenti ufficiali in età imperiale, più che nella lingua parlata. Tuttavia, in epoca medievale divenne la lingua ufficiale, che per corruzione e commistione con gli idiomi dei vari popoli dominatori (Normanni, Svevi, Spagnoli) dette luogo al siciliano. Iovisi o Abiovis, da IUPPITER, IOVIS (Giove, con probabile riferimento all’esistenza di un santuario dedicato alla divinità);52

Filicusi, da FILICEM (felce); Forge, da FOVEA (fossa). Dubbio; Pasqua, da PASCUUM (pascolo); Calcara, da CALCARIA (fornace da calce); Luocu, termine generico per appezzamento di terreno di proprietà, da LOCUS (podere); Calderazza, da QUARTARIUM (unità di misura agraria) o da CALDARIA (conca); Cupane, da CUPA (profondità); Trappitu, Trappitazzu da TRAPETUM (frantoio); Rube, da RUBUS (rovo); Urzuni, da URSUS (orso). Dubbio; Grimodi, da GREMIUM (grembo, cavità). Dubbio; Umedda, da HUMUS (terra, suolo); Diligita, da DILIGO (amabile). Incerto; Grumile, da GRUMUS (mucchio di terra); Lepudetri, (nome antico) da LEPUS (lepre). Incerto; Custeri, da CUSTOS (guardiano) o COSTA (fianco); Fondachelle, Fondanelle (nomi antichi) da FONS (fonte); Lenosolo (nome antico) da LENIS + SOLUM (terreno senza asperità); Nucali (nome antico), da NUX (noce). Rientra nell’ambito dei toponimi di origine latina Furiano, di chiara derivazione come latifondo appartenente ad un Furius. E’ l’unica attestazione nel nostro territorio di una massa di età imperiale, di dubbia identificazione geografica ma da collocare a margine del torrente omonimo (c.da Badetta, S. Pancrazio?). La perifericità di queste contrade rispetto alla dominazione araba, la presenza per lungo tempo dei bizantini, condivisa da buona parte del Valdemone, hanno favorito il persistere di forme toponomastiche e di termini dialettali di derivazione greca, mentre era inevitabile che anche la presenza, in epoca medievale e postmedievale, di francesi e spagnoli, abbia lasciato tracce marcate sugli idiomi locali. La denominazione, di stretta ascendenza greca e latina, di tante località sparse nel territorio può essere d’aiuto per la ricerca di testimonianze materiali antiche. Termini come Pidoto, Policare, Mandarano, Milio, Calcara, Mulé e così via, solo per citarne alcuni, potrebbero rivelarsi in futuro siti archeologici dove rinvenire strutture di tipo cultuale o produttivo o veri e propri borghi. Di altri probabili siti antichi, d’altra parte, si può ipotizzare l’esistenza in base alla denominazione che determinate contrade hanno assunto negli ultimi due secoli per via delle notizie di ritrovamenti. Così è, ad esempio, per il “Chianu di Pupiddi” (= pianoro delle statuine), nome con cui è localmente nota la contrada S. Todaro, o il piano Ciaramitaro (da “ciaramite” = frammenti ceramici) nell’entroterra. Un approfondimento meriterebbe la stessa denominazione del Monte o “Pizzo” Pagano, la cui cima domina da ovest la vallata del fiume Caronia. Il nome, aggiunto alla morfologia del luogo, di per se è evocativo e indurrebbe a pensare all’esistenza di un tempio o santuario sulla sommità dell’altura, in mezzo al bosco, a 860 metri d’altezza ma con visuale diretta sulla costa, sulla collina di Caronia e sull’ampio entroterra nebroideo. Qui sono segnalati i resti di un

52 In effetti, una segnalazione, non ancora verificata, riferisce della presenza di elementi architettonici (fusti di colonne) sul fianco orientale

del Monte Pagano, in corrispondenza della contrada localmente chiamata aggio viri (= “ab iovis”)

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Ricerche nel territorio probabile eremo, ma anche materiali di superficie più antichi, principalmente laterizi. Altro toponimo moderno da approfondire è quello relativo al “Piano della Chiesa”, che identifica la parte più meridionale della vasta contrada Samperi nell’entroterra. Sul posto e nei terreni limitrofi, Fiore e Scibona osservarono materiale ceramico di età imperiale avanzata riferibile ad “aree di abitati rurali romanobizantini”. 53 E’ probabile che ivi esistesse un piccolo edificio di culto a cui facevano riferimento i borghi esistenti in epoca tardoimperiale e bizantina, cui abbiamo fatto cenno prima, disposti lungo la via di collegamento tra la costa e l’entroterra attraverso il fianco orientale della vallata del fiume Caronia.54 Alla persistenza dei nomi antichi si accompagna quella dei paesaggi: il territorio di Caronia mantiene, infatti, in gran parte immutato l’aspetto che doveva presentare nell’antichità.55 Lo stesso bosco che caratterizza queste contrade ha eccezionalmente mantenuto in buona parte l’estensione che aveva in età romana e contraddistingue così profondamente il paesaggio che l’intera foresta che ricopre i Monti Nebrodi è nota anche come “bosco delle Caronie” e gli stessi Nebrodi sono chiamati “Caronie”. La circostanza è stata favorita dal fatto che sono stati molto limitati, nei secoli, gli interventi dell’uomo, non soltanto a livello urbano (l’intera popolazione comunale non supera oggi i 3500 abitanti) ma anche di tipo infrastrutturale. Solo opere di disboscamento eseguite precedentemente alla creazione del Parco Regionale di Nebrodi nel 1993 hanno ridotto, in alcune aree, l’estensione della macchia boschiva, ai margini della quale possiamo pertanto ancora individuare possibili aree di sfruttamento agricolo di epoca grecoromana. La circostanza per cui identifichiamo la chora calactina con il territorio che si estende a partire dal torrente Buzza verso ovest è dovuta alla constatazione per cui l’intero versante collinare a est di quel corso d’acqua è in gran parte coperto dalla foresta, oggi come allora, mentre al momento non disponiamo di segnalazioni concrete circa il rinvenimento di materiali archeologici che potrebbero attestare presenze rurali in queste contrade, magari per lo sfruttamento delle risorse boschive, che comunque non si escludono. Si tratta di una condizione estremamente favorevole per la ricerca archeologica, come ha dimostrato la frequente identificazione di siti antichi proprio in aree da tempo disboscate, presenti in maniera anomala all’interno della foresta, soprattutto a una certa distanza dalla costa (c.da Samperi e media vallata del fiume Caronia, c.da Mastrorocco, L’Urmo, ex feudo Morizzi, ecc.). Altrove si sono perfino individuati i possibili resti di un’antica centuriazione, definita non solo da recinti e muretti moderni ma anche dal tracciato di strade parallele la cui antichità andrebbe approfondita, come osservato tra le contrade S. Miceli e Fontanazza, a sud-est di Caronia (fig. 66), dove effettivamente sui

terreni coltivati si individuano di frequente materiali archeologici, sia ceramici che laterizi. Non è da escludere, considerata la vicinanza, che i fondi in questione avessero prevalente conduzione a vitigni (come oggi) per rifornire di vino le anfore prodotte nella tarda età imperiale nelle fornaci di contrada Chiappe, pronte per essere esportate, secondo scelte vantaggiose da un punto di vista dell’economia dei processi produttivi.

Fig. 66. Veduta aerea dell’area S. Miceli – Fontanazza con ipotesi di centuriazione sulla base dell’attuale suddivisione dei fondi agricoli (rielab. immagine Bing Maps)

Le ricerche recentemente condotte nel territorio della vicina Halaesa56 hanno portato a importanti risultati e trovano stretti confronti con quelle avviate da chi scrive nel territorio dell’antica Kalè Akté – Calacte. Questi due settori del comprensorio nebroideo presentano strette affinità di tipo ambientale e geomorfologico e la loro immagine attuale rispecchia con relativa fedeltà quella antica. E’ una constatazione che può estendersi, in realtà, ad un più ampio territorio corrispondente alla parte occidentale dei Monti Nebrodi e a cavallo con la parte orientale del complesso madonita, dove la ricerca archeologica potrà risultare in futuro estremamente fruttuosa, trattandosi per buona parte di terreni dove non si registrano interventi dell’uomo da molti secoli. Anzi, in alcuni casi, la natura ha ripreso possesso di porzioni di terra un tempo coltivate o occupate da strutture stabili semplici o complesse. L’individuazione di un sito antico in un paesaggio che verosimilmente rispecchia quello ad esso contemporaneo aggiunge molti dati alla comprensione del sito stesso e delle dinamiche che lo coinvolsero e ne determinarono la nascita o la fine. Per il nostro territorio non disponiamo di fonti letterarie o epigrafiche che permettano di coglierne modi e termini di occupazione e sfruttamento, come in parte si desume, ad esempio, dalle celebri Tabulae per Halaesa, dalle qual si coglie nitidamente, per l’epoca a cui si riferiscono, ovvero la media età ellenistica, quel “paesaggio mediterraneo” da tanti intuito,57 intriso di espressioni materiali della Natura, efficiente sfruttamento delle risorse e appropriata distribuzione di luoghi di culto e complessi produttivi.

53

Scibona 1987, p. 11 Un’occupazione intensiva nel tardoantico e in epoca bizantina di queste fertili contrade è suggerita peraltro dalla presenza di diversii toponimi di riferimento cultuale, quali Crocitti, Samperi (= San Piero o Pietro), San Demetrio, S. Costantino, ecc. 55 Collura 2013 54

56 57

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Burgio 2007, 2008, 2014 Prestianni Giallombardo 2008

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia distanza dalla città. Tuttavia, anche in quelle contrade, che per la verità, data la loro estensione, finora è stato possibile esplorare solo in parte, la frequenza dei rinvenimenti riferibili a complessi stabili e la loro reciproca vicinanza non sembrerebbe in linea con il principio che indurrebbe a ricercare grandi complessi abitativi al centro di vasti appezzamenti di terreno, a meno di pensare a case coloniche sparse all’interno dei latifondi, appositamente costruite per dare alloggio a più nuclei familiari. Il metodo di ricerca deve tenere conto necessariamente degli usi e dell’evolversi della società antica nel corso dei secoli, poiché i criteri con cui si cercano i siti di epoca greca non possono essere gli stessi di quelli adottati per i siti di età imperiale e ancora di fase tardoantica e bizantina, insediati di volta in volta con mutate condizioni economiche, sociali e infrastrutturali. Così, ad esempio, l’individuazione di siti databili dalla tarda età ellenistica a tutta l’età imperiale risulta più agevole rispetto a quelli più antichi per il più frequente rinvenimento di grandi laterizi frammentari di produzione locale, impiegati nella costruzione di edifici anche rurali a partire almeno dalla fine del III secolo a.C. L’indagine ovviamente risulta più complessa quando si constatano sovrapposizioni e continuità di vita per lunghi periodi di tempo. Pertanto, si ritiene che le ricerche fin qui condotte da chi scrive, sebbene avviate da diversi anni e di per sé oggettivamente fruttuose, si debbano considerare ancora preliminari, parziali e necessitano di approfondimenti, servendo piuttosto come punto di partenza per la futura redazione di una vera e propria Carta Archeologica, la cui elaborazione richiede tempo e mezzi, a meno di non pensarla come semplice elencazione di siti con relative cronologie e sintetiche descrizioni. Preliminare appare comunque la completa conoscenza del territorio come si presenta oggi, nella morfologia e nelle caratteristiche ambientali, cercando di coglierne le persistenze antiche, così da comprendere le dinamiche di insediamento nelle diverse fasi storiche in rapporto a quanto il territorio stesso poteva offrire per il sostentamento e lo sviluppo delle comunità che vi si sono avvicendate.

Gli unici cenni riferiti al territorio calactino di cui ad oggi disponiamo – in verità molto pochi – fanno fugace riferimento alla natura (la viola calactina di Plinio), all’abbondanza di alcune risorse naturali, come quelle ittiche (litus piscosa di Silio Italico), ad alcune vie di collegamento interno, come quella esistente tra Calacte e Amestratos (percorsa dai Calactini per il versamento delle decime, secondo Cicerone). Non si fa cenno al vino calactino, sicuramente un prodotto d’eccellenza se si pensa che per esportarlo, nella tarda età imperiale, esistevano fabbriche di anfore, né alle abbondantissime risorse boschive o alla ricchezza di acque. In linea generale, le fonti letterarie sono avare di informazioni su questa parte di Sicilia ed è per questo che un documento epigrafico come le Tabulae Halaesinae costituisce una fonte di informazioni preziosissima e unica nel suo genere. L’organizzazione del territorio, i metodi di suddivisione dei fondi agricoli, le regole che erano alla base della costruzione di santuari rurali e impianti produttivi, come si evincono dalle Tabulae, si adattano ad un sito estremamente simile e contiguo come quello di Kalè Akté, dove possiamo similmente immaginare che molti appezzamenti di terreno fossero stati distribuiti secondo precise regole da un’autorità centrale e venissero contraddistinti nei loro confini da muretti, segnacoli, corsi di ruscelli, rocce emergenti, ecc. come ad Halaesa. Ovviamente il quadro cambia con l’inizio dell’età imperiale, quando si ha l’accorpamento dei fondi di piccole dimensioni, detenuti prima da un gran numero di agricoltori, nelle mani di un ristretto numero di possidenti e la creazione di estesi latifondi, che determina anche profonde trasformazioni di tipo sociale. L’esame dei siti che abbiamo datato ad età imperiale non consente, al momento, di cogliere puntualmente queste trasformazioni, nel senso che non risulta possibile determinare le dimensioni di questi appezzamenti di terreno ai quali si presume facessero capo singole fattorie o ville rustiche, se non vere e proprie residenze di lusso, come quella che sarebbe da identificare in c.da Portale, nella piana a ovest del fiume. Latifondi di questo tipo andrebbero cercati nell’entroterra e verso ovest, a

Fig. 67. Chora calactina. Paesaggio silvo-pastorale nell’area dei siti di contrada L’Urmo

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Ricerche nel territorio Chora calactina: carta dei siti principali (aggiornamento 2010)

1. Monte Trefinaidi. Resti di fortino di epoca ellenistica (IV-III secolo a.C.) con tracce di probabile frequentazione in epoca tardoarcaica (ceramiche d’impasto) 2. Pizzo Governatore - C.da Aria. Insediamento di epoca arcaica e classica (VI-IV secolo a.C.) con labili resti di strutture in pietra e mattoni crudi. A nord dell’abitato, necropoli con materiali sia indigeni che di produzione greca. 3. Contrada Contura. Probabile abitato di epoca romana con abbondanti materiali di superficie 4. Contrada Contura. Complesso abitativo-produttivo di epoca romana imperiale 5. Contrada Contura. Necropoli di età imperiale 6. Contrada S. Giovanni. Probabile fattoria di età imperiale 7. Contrada S. Giovanni. Materiali fittili e laterizi di epoca ellenistica (IV-I secolo a.C.) 8. Contrada S. Giovanni. Strutture murarie e materiali di epoca romana imperiale 9. Contrada Piana (area Villa Mancusio). Materiali sparsi e riutilizzati di epoca romana imperiale, tra cui laterizi e una macina in pietra lavica 10. Coste Portale. Frammenti ceramici di epoca greca 11. Contrada L’Urmo. Insediamento di epoca tardo arcaica-classica, con numerose strutture abitative affioranti e materiali ceramici prevalentemente di produzione indigena (ceramiche d’impasto) 12. Contrada L’Urmo. Insediamento di età imperiale avanzata e bizantina con resti affioranti di strutture murarie e materiali ceramici 13. Contrada Mastrorocco. Fattoria di epoca romana, con resti di strutture murarie affioranti dal terreno 14. Contrada Portale. Pavimenti a mosaico probabilmente pertinenti una villa marittima, scoperti a seguito di lavori agricoli nel XIX secolo 15. Contrada Piana. Materiali di superficie, tra cui un sigillo in lingua latina. (Fiore 1991)

16. Contrada Piana. Materiali ceramici e metallici di superficie di probabile età imperiale 17. Contrada Piana, Tratto di strada basolata, oggi non più individuabile. (Fiore 1991) 18. Contrada Antiva. Frammenti ceramici sparsi 19. Contrada Antiva. Materiali ceramici e laterizi 20. Contrada Pagliarotto. Materiali ceramici di epoca romana 21. Contrada Pagliarotto. Fattoria di epoca romana con resti di strutture in crollo e porzioni di dolia 22. Contrada Pagliarotto. Necropoli rurale di epoca tardo ellenistica (Scibona 1987) 23. C.da Sant’Andrea. Materiali affiorati a seguito di lavori agricoli negli anni ’80 (ceramiche, laterizi, macina) 24. Contrada Samperi. Materiali ceramici e laterizi di epoca romana 25. Contrada Samperi. Acquedotto ellenistico portato in luce in punti diversi del declivio a est del fiume Caronia (Scibona 1987) 26. Contrada La Pernice. Insediamento di epoca tardoantica e protobizantina con abbondanti resti ceramici e laterizi 27. Contrada Piano della Chiesa. Materiali di età imperiale, probabile insediamento rurale. (Scibona 1987) 28. Contrada Castagna. Materiali ceramici e laterizi di epoca romana. Probabile fattoria 29. Pizzo Cilona. Insediamento di epoca arcaica-classica, in vita tra fine VI e prima metà IV secolo a.C. Sono in vista resti di strutture abitative, frequentemente con incassi nella roccia, e tratti di un muro di fortificazione in opera pseudo-isodoma. Relativa necropoli con tombe ricavate nella roccia e chiuse da muretti in pietra. Quasi contigua, probabile fattoria di epoca romana (laterizi e ceramiche acrome) 30. Contrada Giumentaro. Fattoria o villa rustica di epoca ellenisticoromana

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 31. Contrada Sugherita. Materiali di epoca romana. (Scibona 1987). Strutture d’argine davanti al mare e fornaci per la produzione di laterizi di epoca tardo imperiale. Poco più a est, davanti alla spiaggia, area di dispersione di strumenti in ossidiana e selce (probabile villaggio preistorico) 32.Contrada Pantano (propr. Di Noto). Materiali di epoca greca e romana. (Scibona 1987), probabilmente pertinenti all’area urbana marittima: Strutture murarie affioranti di età imperiale e necropoli sparsa protobizantina 33. Contrada Sugherita sud. Materiali frammentari di epoca romana 34. Contrada S. Todaro. Probabile fattoria di epoca romana 35. Contrada S. Todaro. Materiali ceramici di epoca ellenistico-romana 36. Contrada S. Todaro. Strutture di epoca ellenistica, parzialmente affioranti dal piano di campagna (fattoria o santuario rurale?) 37. Contrada S. Todaro. Materiali di epoca ellenistica. Probabile area di necropoli urbana 38. Contrada Fiumara. Materiali di epoca romana (ceramiche e laterizi). A poca distanza, area di concentrazione di materiali ceramici di epoca tardoclassica-ellenistica (IV-III secolo a.C.) 39. Contrada Fiumara. Villaggio di età preistorica (Tarda Età del RameEtà del Bronzo antico e medio) venuto in luce a seguito di uno sbancamento nel 2007. Resti di crolli di capanne visibili in parete ed abbondante materiale ceramico e litico (lame di ossidiana, strumenti in selce e in pietra scistosa) 40. Contrada Giardino Murato. Area di dispersione di abbondanti materiali di epoca ellenistica e romana e riutilizzi nei fabbricati annessi risalenti al XVII-XVIII secolo 41. Contrada Fiumara. Probabile fattoria di epoca ellenistico-romana 42. Contrada S. Giorgio. Area di dispersione di materiali di varie epoche (romana e medievale) 43. Contrada S. Giorgio. Area di dispersione di materiali di epoca romana e riutilizzi 44. Contrada S. Giorgio. Materiali ceramici di epoca romana 45. Contrada Lineri. Fattoria di epoca tardo ellenistica e romana imperiale (II secolo a.C. – IV secolo d.C.). Resti murari affioranti e abbondantissimi frammenti ceramici 46. Contrada Lineri. Fattoria di epoca romana imperiale (I-IV secolo d.C.). Resti murari affioranti e notevoli quantità di materiali ceramici e metallici 47. Contrada Lineri. Materiali frammentari di epoca ellenistica e romana 48. Contrada Trapesi-Castagneto. Area di frammenti di epoca tardoellenistica 49. Contrada Trapesi-Castagneto. Fattoria di epoca romana con abbondanti materiali sparsi in superficie 50. Contrada Trapesi-Castagneto. Strutture affioranti e materiali di epoca romana 51. Contrada Trapesi-Castagneto. Area di frammenti di epoca ellenistico-romana 52. Contrada Trapesi-Castagneto. Area di frammenti di epoca romana 53. Contrada S. Miceli. Area di frammenti di epoca ellenistico-romana 54. Contrada S. Miceli. Probabile fattoria di epoca ellenistica (III-I secolo a.C.); bordo di pithos con iscrizione greca 55. Contrada S. Miceli-S. Vito. Materiali ceramici e laterizi di epoca romana. Probabile fattoria 56. Contrada Pumpolo. Fattoria o villa rustica di epoca tardo ellenistica (II-I secolo a.C.) 57. Contrada Fontanazza. Probabile fattoria di epoca romana (laterizi e ceramiche di superficie) 58. Contrada Chiappe. Insediamento di epoca tardo imperiale – protobizantina (III-VI secolo d.C.) con annessa officina di produzione di anfore tipo Termini Imerese 151-154 59. Contrada Pietra Grossa. Strutture marine sommerse relative ad un probabile approdo o a strutture industriali 60. Contrada S. Giuseppe-Marina. Materiali edilizi e ceramiche di epoca romana 61. Marina di Caronia. Materiali edilizi e ceramiche di epoca romana 62. Marina di Caronia. Materiali edilizi e ceramiche di epoca romana 63. Contrada Palme. Cisterna di epoca romana con prolungato utilizzo fino ad epoca postmedievale (strutture murarie). Insediamento dell’Età del Rame 64. Contrada Palme. Strutture affioranti e materiali in dispersione di epoca romana 65. C.da Telegrafo-S. Anna. Vasta area di dispersione di laterizi e ceramiche ellenistico-romane. L’area è molto vasta e comprende diversi fondi posti a valle della c.da Telegrafo. Probabile area periurbana della città collinare a destinazione mista abitativa-produttiva

66. C.da S. Anna. Fattoria o villa rustica di epoca ellenistico-romana. Sito di ritrovamento di statua di figura togata databile al I secolo a.C. 67. C.da Cinquegrana. Probabile fattoria di epoca tardoellenistica (laterizi e ceramiche di superficie)

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Approfondimenti Insights

CERAMICHE ARCAICHE E CLASSICHE DALL’ABITATO COSTIERO. NUOVI DATI SULLA PRESENZA GRECA LUNGO LA COSTA TIRRENICA IN ETÀ COLONIALE: FU KALÈ AKTÉ UN EMPORION? Francesco Collura ARCHAIC AND CLASSICAL POTTERY FROM THE MARITIME SITE. NEW DATA ABOUT THE GREEK PRESENCE ALONG THE TYRRHENIAN COAST IN THE COLONIAL AGE: WAS KALE AKTE AN “EMPORION”? The starting point for the formulation of new hypotheses about the birth of Kale Akte and the exact chronology of the first frequentation of the site in historical times has been provided by the recent discovery of archaic materials within some mounds of soil from private excavations just outside the modern village of Marina di Caronia. These mounds of soil were removed in the past decades for the construction of a building probably from the area between the neighborhoods of the Nunziatella and “Contrada Pantano”. On that occasion, evidently the excavation intercepted very ancient contexts, far beyond the layers of the Hellenistic and Roman age almost always studied by systematic excavations in the last thirty years. The materials included in the mounds illustrate the occupation of the site over a long period of time, from the sixth century BC extending up to the imperial age. The oldest pottery dates back to the archaic age, mostly to the last three decades of the sixth century BC, but most of the material dates from the early fifth to the mid-fourth centuries BC. There are relatively few fragments after the third century BC. The pottery relating to the phase preceding the birth of Kale Akte as a polis mentioned by the historical sources (446 BC) is typical of a settlement in which normal daily activities were performed. Numerous amphorae and vessels associated with the consumption of wine (cups and skyphoi) were found, as well as cooking ware and lamps, whilst animal bones and vertebrae of tuna suggest the diet followed by the people who lived in that settlement. The materials found suggest the existence of a Greek settlement, whose size and organization at the moment cannot be understood due to the narrowness of topographical references, but that may be located with some certainty in front of the most sheltered part of the bay, between the course of a creek (S. Anna) and today’s, almost entirely flat, Contrada Pantano. The discovery of archaic materials preceding almost one century the traditional founding date of Kale Akte, already however mentioned in the reports of the recent excavations in Contrada Pantano of 2000s, provides valuable data about the first frequentation of this site and, more in general, of the wide stretch of coast between the two Greek poleis of Zancle and Himera. The hypothesis that the author advances on this occasion is that at the end of the seventh century BC a Greek settlement already existed in the area of today’s Marina di Caronia, created by the city of Zancle (Messina) along the maritime route towards Himera, a sort of “emporion” that served as a stopping point for transiting ships and as a place for business contact with the indigenous villages existing on the hills behind. The name kαλὴ ὰκτή, used by the ancient historian Herodotus telling the events of the beginning of the fifth century BC, must have been in use since the first frequentation of the site by the inhabitants of Zancle, around the middle of the seventh century BC, and really a "beautiful coast" or “beautiful headland” appeared this flat promontory seen coming from east. On that occasion, the Samians, rather than found a new city, were invited to give an urban organization in its own name to an existing settlement, which offered clear strategic and commercial advantages to those there settled and to the same Zancle, which thereby could have had the control of a very long stretch of coast on the Tyrrhenian Sea in a complete way. The name that Ducetius later chose for his founding remained the same in use for over a century, the same known by the Sicel king Archonidas of Herbita, which controlled this territory. passati, probabilmente negli anni ’80, per la realizzazione di un fabbricato in un’area compresa tra il quartiere della Nunziatella e la contrada Pantano. In quell’occasione, lo scavo intercettò evidentemente livelli molto antichi, ben oltre gli strati di età ellenistica e romana quasi sempre raggiunti dagli scavi sistematici dell’ultimo trentennio.2 I materiali compresi nella terra di riporto illustrano l’occupazione del sito nel corso di un lunghissimo arco di tempo, che dalla seconda metà del VII secolo a.C. si prolunga fino all’avanzata età imperiale. I cumuli

Lo spunto per la formulazione di nuove ipotesi sulla nascita di Kalè Akté e sull’esatta cronologia della prima frequentazione del sito in epoca storica è stato offerto dall’individuazione di una discarica di materiali a margine della moderna frazione di Marina di Caronia.1 Si tratta di alcuni cumuli di terra asportata nei decenni 1

La discarica si trova in c.da Pantano, dove da molti decenni e fino ad oggi vengono smaltiti materiali di risulta da scavi edilizi, con la creazione di cumuli di terreno che in molti casi appaiono comprendere strati archeologici soprattutto di età imperiale. In realtà, lo smaltimento di terreno asportato in occasione di scavi privati interessa diverse parti del territorio, in particolare la bassa vallata del fiume Caronia, dove sulle due sponde e fino alla foce sono stati riversati abbondanti materiali comprendenti reperti di ogni epoca, nonché la periferia orientale della moderna cittadina (contrade Pietra Grossa-Chiappe), oggi in buona parte urbanizzata. La circostanza solleva il problema di una adeguata sorveglianza dei cantieri, evidentemente carente fino a tempi molto recenti, in particolare in un’area, quale è quella di Marina di Caronia, ben nota da tempo per le potenzialità archeologiche.

2

La constatazione che lo scavo sia stato spinto molto in profondità è avvalorata dalla presenza di lame di ossidiana, riferibili ad una frequentazione risalente almeno alla fine dell’Età del Bronzo. In proposito ricordiamo che materiali litici di età preistorica sono presenti nel soprassuolo di Marina di Caronia, anche nell’area dello scavo 20032005 in c.da Pantano e verso sud-ovest (Bonanno 1993-1994), suggerendo come il sito sia stato frequentato fin da epoche antichissime proprio per la sua posizione molto vantaggiosa

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia apparivano estremamente compatti ed erosi in superficie ed il terreno risultava molto solido, circostanza che ne ha fatto ipotizzare la creazione non meno di un ventennio fa. I dilavamenti hanno determinato l’affioramento del materiale archeologico ivi contenuto, di cui la principale evidenza erano i numerosi frammenti di tegole piane a pasta chiara e naturalmente le ceramiche, che fin dal primo momento apparvero piuttosto antiche e ben precedenti quelle solitamente rinvenute nei contesti di scavo sistematico e fino ad oggi edite. D’altra parte, era già noto, come vedremo, il rinvenimento sporadico di frammenti antecedenti la data di fondazione di Kalè Akté riportata da Diodoro Siculo per il 446 a.C., per cui osservare in quell’occasione materiali che apparivano datarsi già nel VI secolo a.C. non fu una sorpresa, quanto lo fu piuttosto rendersi conto che il necessario successivo recupero 3 di quanto era possibile andava ben al di là di ogni aspettativa, sia a livello quantitativo che dal punto di vista delle caratteristiche stesse dei materiali, che testimoniavano l’esistenza di un insediamento coloniale inserito in una rete di contatti transmarini che avevano fatto pervenire qui manufatti anche dalla Grecia continentale (ceramiche corinzie e soprattutto attiche) ed un gran numero di anfore commerciali, circostanza che ne suggeriva l’esistenza come probabile emporion intermedio tra Zancle e Himera per l’epoca tardoarcaica e classica. Una prima presentazione di frammenti tardoarcaici di rinvenimento sporadico a Marina di Caronia è contenuta in appendice al volume monografico di Lindhagen. 4 Si trattava in quell’occasione di frammenti recuperati da un privato all’interno di una discarica di terra proveniente da scavi edilizi nell’area urbana prossima alla c.da Pantano. Tra di essi, meritano di essere menzionati: un frammento di bordo e fascia con decorazione a tratti verticali di coppa tipo Iato K480 (ultimo trentennio VI secolo a.C.); una porzione di skyphos attico di tipo corinzio con parte inferiore del corpo risparmiata e scandita da linee verticali (ultimo ventennio VI secolo a.C. – primi decenni V secolo a.C.); alcuni frammenti di crateri e coppe figurate probabilmente rientranti entro la prima metà del V secolo a.C. Nel primo report5 degli scavi condotti in c.da Pantano nel 1999-2001, venivano presentati una porzione di anfora corinzia A ed un piccolo frammento di probabile coppa tardocorinzia, datati all’inizio del V secolo a.C. E’ noto, inoltre, il ritrovamento, in terreno rimaneggiato, nel corso degli scavi 2003-2005 sempre in c.da Pantano, di una testina fittile molto consunta in stile dedalico, datata alla fine del VII secolo a.C.6 Già di per sé questi rinvenimenti, sebbene non propriamente pertinenti a livelli stratigrafici indagati in modo scientifico, suggerivano una frequentazione del sito di molto precedente la data del 446 a.C. e anteriore anche al primo accenno al sito contenuto in Erodoto 6.22 per

l’inizio del V secolo a.C. L’accennato scavo in estensione condotto in c.da Pantano negli anni 2000 ha interessato quasi esclusivamente livelli posteriori al III secolo a.C. Alcuni saggi di approfondimento, condotti fino al substrato sabbioso sterile, hanno in effetti intercettato livelli di V secolo a.C. o antecedenti, senza tuttavia incontrare resti murari a cui associare il materiale ceramico. Peraltro, nel report di quegli scavi si fa solo un fugace accenno a materiali tardoarcaici o classici e non viene presentato alcun frammento antecedente l’epoca ellenistica ad eccezione della citata testina in stile dedalico.7 La recente esecuzione di scavi sistematici a Marina di Caronia, dopo una serie di interventi d’urgenza che tuttavia avevano interessato solo i livelli più superficiali dei contesti archeologici, ha posto all’attenzione degli studiosi una fase del sito che non era mai stata sospettata. Si era sempre cercata, infatti, la città della seconda metà del V secolo a.C. fondata da Ducezio, mentre era sostanzialmente passato inosservato il passo di Erodoto sul fallito tentativo di insediare una colonia samia su invito di Zancle a Kalè Akté agli inizi di quello stesso secolo, come se il tentativo di abitare il sito non fosse mai stato intrapreso. Alla luce delle ultime scoperte, le parole dello storico assumono un nuovo significato e si può iniziare a discutere concretamente di cosa rappresentasse, nella realtà, il toponimo καλὴ ἀκτή riferito ai primi anni del V secolo a.C. Si ritengono pertanto di grandissimo interesse i materiali frammentari di cui discuteremo, provenienti da uno scavo incontrollato eseguito nell’area dell’odierna Marina di Caronia, frazione marittima dove l’ultimo quarantennio ha registrato una intensa attività edilizia. In questa occasione si presentano i frammenti più significativi recuperati, che suggeriscono di localizzare qui un vero e proprio insediamento tardoarcaico di tipo coloniale, certamente non qualificabile come vera e propria polis ma piuttosto come abitato a servizio di un approdo marittimo, che solo futuri scavi potranno meglio definire in termini dimensionali. Lo scavo da cui proviene il materiale di cui trattiamo intaccò sicuramente resti murari ancora in situ: i cumuli della discarica contenevano infatti molto materiale da costruzione, tra cui ciottoli di medie e grandi dimensioni, spezzoni di varia grandezza di conglomerato (roccia sedimentaria clastica con inclusioni di ciottolame) e di calcare bianco, 8 lembi di mattoni crudi, nonché numerosi spezzoni di tegole, soprattutto piane (piuttosto radi i frammenti di tegole curve), circostanza quest’ultima che rende evidente la distruzione, mediante quello scavo incontrollato, di strutture stabili da riferire ad un abitato non più recente della fine del IV secolo a.C. 7

Bonanno 2008, p. 11, 13, 16, 29. Si parla di “frammenti di coppe ioniche trovati nei livelli inferiori”, aggiungendo che “frammenti di età arcaica e classica, non riferibili ad una fase ben distinta dell’abitato, sono stati rinvenuti sporadicamente e in alcuni limitati e poco ampi saggi di approfondimento, nei quali non sono stati, però, individuati livelli certi di frequentazione” 8 Si tratta di materiale litico facilmente reperibile in loco: la stessa spiaggia ed il letto del vicino fiume sono costituiti da ciottoli di ogni dimensione, impiegati nell’edilizia locale dall’antichità fino al ‘900, mentre numerosi sono gli affioramenti di conglomerato clastico di origine marina sui pendii collinari e più radi quelli di calcare bianco nelle vicinanze del sito

3

Si è provveduto a recuperare parte dei materiali presenti nel terreno di discarica, posto a pochi metri dal bagnasciuga, in considerazione della possibile azione erosiva del mare e degli agenti atmosferici, che ne avrebbero comportato la dispersione. I materiali recuperati si trovano in deposito presso la Soprintendenza di Messina 4 Lindhagen. 2006 5 Lentini, Göransson, Lindhagen, 2002, pp. 79-108. 6 Bonanno 2008

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero

Fig. 1. Carta della Sicilia settentrionale con indicazione dei siti tardoarcaici-classici citati nel testo

Le solenes, con alette laterali di profilo a semicerchio o trapezoidale, presentano peculiari caratteristiche, già riconosciute sia nella stessa Marina di Caronia (area Stazione FF.SS.), sia in altri siti tardoarcaici-classici del messinese (ad esempio a Monte Scurzi),9 ovvero superficie di colore beige pallido e parte interna beige-rosata con numerosi inclusi sabbiosi e micacei di piccole dimensioni, in uso in un’epoca compresa tra la fine del VI e la prima metà del IV secolo a.C., di probabile produzione calabra (Locri, Caulonia?). 10 E’ quindi quasi sicuro che quello scavo intercettò resti murari ancora in situ, riferibili al periodo descritto. Tali strutture dovevano presentare evidentemente fondazioni in pietra con alzati in mattoni crudi, di cui nella discarica erano presenti porzioni superstiti, e tetti stabili con tegole. Un confronto tra i materiali edilizi contenuti nei cumuli della discarica e le strutture murarie intercettate nei livelli sottostanti l’Edificio A degli scavi 2003-2005 in c.da Pantano, consente di fare delle ipotesi sulla cronologia dei resti asportati dallo scavo moderno di cui parliamo. In c.da Pantano furono messe in luce, da saggi di approfondimento, le US 118-122-102-103-116, nonché l’ambiente P. 11 Questi muri appaiono realizzati con ciottoli di medie dimensioni ben sbozzati e piccoli ciottoli con funzione di riempimento; non si conoscono le caratteristiche delle tegole eventualmente associate. Queste strutture sono state datate ad una fase antecedente il IV secolo a.C. sulla base della quota di affioramento e delle poche ceramiche presenti a livello (inedite). Invece,

i materiali edilizi contenuti nella nostra discarica, come detto, comprendono solo ciottoli non sbozzati, assieme ad altro tipo di rocce, nonché una grande quantità di tegole tutte con le stesse caratteristiche come descritte prima, la cui datazione è peraltro suggerita dai materiali associati al crollo studiato nell’area della Stazione Ferroviaria,12 che si datano prevalentemente nel corso del V secolo a.C. Anche in quest’ultimo caso, inoltre, le pietre utilizzate per le costruzioni rinvenute in stato di crollo sono identiche a quelle contenute nei cumuli in argomento (ciottoli non sbozzati, pietrisco informe, conglomerato, pezzi di pietra calcarea chiara). Si avanza pertanto l’ipotesi che i muri sottostanti i livelli di III secolo a.C. in c.da Pantano siano più recenti di quanto proposto e si datino, piuttosto, verso la fine del IV secolo a.C. o anche nella prima metà di quello successivo. I resti intercettati nello scavo da cui provengono i cumuli di terra di riporto, invece, dovrebbero datarsi nel V secolo a.C. o al massimo all’inizio del IV, per via delle caratteristiche del tegolame e per similitudine con i materiali da costruzione osservati nel crollo presso la Stazione Ferroviaria. I cumuli di terra contenevano materiali databili soprattutto nel V - inizi IV secolo a.C. Piuttosto radi i frammenti successivi al III secolo a.C., comprendenti peraltro due soli piccoli frammenti consunti ed un fondo di patera con bollo rettangolare L.TI.TI di sigillata italica. 13 Tale circostanza induce a ritenere che i livelli superficiali siano stati eliminati in una precedente occasione, più che pensare che l’area in cui fu eseguito lo 12

Vedi Cap. 2. Prima di Kalè Akté. Insediamenti arcaici e classici nell’area dei Nebrodi centro-occidentali. Il contesto rinvenuto presso la Stazione Ferroviaria è datato in base ai materiali associati al fitto strato di crollo di pietrame e tegole, comprendente ceramiche a vernice nera dalla prima metà del V secolo a.C. all’inizio del IV e anfore “pseudochiote” 13 Va sottolineato che sono stati esaminati più approfonditamente solo 3 dei 7 cumuli di terreno presenti nella discarica, per cui le note al rinvenimento di cui parliamo sono da considerarsi preliminari e parziali in attesa di ulteriori indagini

9

Ricerche in corso di sviluppo dell’autore. A Monte Scurzi (Militello Rosmarino) si osservano aree urbanizzate con case in muratura di pietra locale e mattoni crudi dotate di tetti stabili di tipo “greco”, che sembrano potere risalire all’ultima fase di vita dell’abitato prima dell’abbandono per cause sconosciute (ultimi decenni del V secolo a.C.) 10 Vedi Appendice II a seguire 11 Bonanno 2008, pp. 16-18

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia scavo sia stata occupata stabilmente solo fino alla media età ellenistica. Tra i 7 cumuli di terreno che componevano la discarica, soprattutto uno conteneva materiali di epoca tardoarcaica e classica, che insieme costituivano oltre l’80% dei frammenti ceramici presenti. E’ da ritenere, pertanto, che esso contenesse lo strato di terreno più profondo nel settore scavato e che il materiale edilizio ivi contenuto sia relativo ai resti dell’abitato di VI-V secolo a.C. Come accennato, il materiale lapideo delle strutture murarie è costituito quasi esclusivamente da ciottoli di varie dimensioni, provenienti dalla spiaggia antistante, privi di alcuna lavorazione, da porzioni di robusto conglomerato di formazione alluvionale e da spezzoni di pietra calcarea bianca, tutti facilmente reperibili nell’area circostante la spiaggia. Molto interessanti le terrecotte di copertura, per la maggior parte costituiti da solenes con identiche caratteristiche strutturali, di probabile produzione locrese o di area medio o basso-calabra. Porzioni di mattoni crudi prodotti localmente suggeriscono che gli alzati delle pareti fossero realizzati con questi elementi. I materiali più antichi si datano in epoca tardoarcaica, nella seconda metà del VI secolo a.C. Tra di essi si segnalano, ad esempio: un piccolo frammento di ceramica corinzia con decorazione graffita non interpretabile a margine di una sottile fascia colorata in paonazzo; frammenti di coppe skyphoidi di tipo ionico con decorazione a bande di colore bruno o rosso; alcuni fondi di skyphoi con piede svasato (tipo corinzio), tre porzioni di lucerne, di cui una conservante il becco, databili tra la fine del VI e la prima metà del V secolo a.C.; diversi frammenti di ceramiche di tipo ionico con decorazione a bande di varia dimensione e colore, riferibili alla seconda metà del VI secolo a.C.; un bordo di anfora corinzia A; alcuni piccoli frammenti di coppe imeresi tipo Iato K480; una coppetta a vernice nera a labbro ingrossato che trova confronti in contesti tardoarcaici a Messina 14 e a Himera; 15 frammenti di kylikes attiche e di coppe ioniche. Alcuni piccoli frammenti con decorazione a linee rosso vivo su argilla di colore arancio molto depurata potrebbero riferirsi a vasellame di tipo euboico. Ad una fase più antica (seconda metà VII-prima metà VI) sembrano tuttavia assegnarsi alcuni bordi di anfore fenicio-puniche simili al tipo Ramòn T-10.1.2.1. 16 Più abbondante è il materiale databile a tutto il V secolo a.C., comprendente numerosi frammenti di ceramica attica a vernice nera, molti con riflesso iridescente, pertinenti soprattutto a skyphoi con piede torico e bordo indistinto. A questa fase si riferiscono, tra gli altri, alcuni frammenti figurati di produzione attica, numerosi frammenti di skyphoi, alcune anfore di tipo “greco-occidentale” ed un bordo di mortarium di probabile produzione locrese. Numerosi i frammenti di ceramiche da cucina. In linea generale, sono innumerevoli i resti di contenitori da trasporto, prevalentemente a pasta chiara o beige, con argille compatte e ben depurate in cui è quasi sempre presente la

mica, da riferire a manufatti inquadrabili in epoca classica o anche tardoarcaica di incerta tipologia. Una sommaria analisi quantitativa dei materiali della discarica dice che oltre il 75% del materiale è da riferire a contenitori da trasporto. Dai primi decenni del IV secolo a.C. le presenze di materiali nella discarica calano bruscamente. A partire dall’inizio del III secolo a.C. i materiali divengono ancora più radi: si segnalano soprattutto bordi e anse di anfore greco-italiche, pochi frammenti di coppe skyphoidi concavo-convesse della tipica produzione dell’area “dello Stretto” 17 e di piattini, oltre a isolate porzioni di ceramiche in Campana A, mentre non si sono rinvenuti frammenti di Campana C e pochissimi sono quelli di sigillata italica. Tra i materiali non ceramici, menzioniamo alcuni strumenti legati alle attività di pescatori, in bronzo o piombo, non esattamente databili, molte ossa animali di piccola e media taglia, di frequente semicarbonizzate, e diverse vertebre di tonni di dimensioni medio-piccole. Singolare è la presenza di alcune pietre pomice di grandi dimensioni, con segni di abrasione e tagli sulla superficie. La loro presenza è legata agli svariati usi che se ne facevano, soprattutto in ambito domestico, dove questa pietra leggera e porosa era utilizzata per sgrassare o scrostare le suppellettili usate in cucina o anche per la cura del corpo. Le dimensioni superiori a quelle che usualmente si rinvengono ancora oggi nella locale spiaggia fanno ipotizzare che questi materiali provenissero direttamente da Lipari.

Fig. 2. I cumuli di terreno della discarica all’epoca del rinvenimento a ridosso della spiaggia di c.da Pantano

Relativamente ai materiali ceramici maggiormente rappresentati per la fase compresa tra gli ultimi decenni del VI e la metà del V secolo a.C. si segnala il vasellame decorato a bande orizzontali di tradizione ionica e la ceramica attica. La ceramica a bande più antica è costituita da frammenti di coppe skyphoidi decorate a fasce orizzontali di colore nero, bruno o rosso. A tutto il V secolo a.C. si riferiscono numerosi frammenti di vasi (piccole anfore e probabili hydriai) decorati con fasce di minore spessore, con

14

Bacci, Tigano 2002, p. 135 fig. 7 Himera V, p. 158 n. 267 16 Ramòn 1995

15

17

314

Spadea 1986

Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero colorazioni varianti dal nero all’arancio, che potrebbero essere in buona parte di produzione coloniale. E’ assai probabile che anche gli esemplari più antichi, della seconda metà del VI secolo, siano produzioni dell’area dello Stretto. La ceramica attica è attestata da numerosi frammenti riferibili a forme diverse, soprattutto skyphoi, con alcuni esemplari decorati a figure rosse. Queste ceramiche sono caratterizzate da un’argilla molto fine e ben lavorata generalmente di colore rosso-arancio e da vernici che presentano sempre notevole qualità e compattezza con peculiarità nell’effetto tattile e ottico, in genere liscia e brillante o con riflessi iridescenti. Alcuni esemplari di skyphoi presentano invece una vernice molto compatta ma meno brillante con evidenti segni di tornitura soprattutto nella parte interna. Le produzioni attiche presenti nella discarica si inquadrano cronologicamente in tutto il V secolo a.C., testimoniando quindi la fase sia del cinquantennio precedente la fondazione di Ducezio sia di quello immediatamente successivo e si accompagnano alle produzioni ceramiche coloniali a vernice nera, per alcune delle quali si propone una possibile provenienza da Himera.

di tradizione attica di V-IV secolo a.C., mentre l’iconografia della civetta richiama chiaramente la città di Atene. Alcuni frammenti possono essere attribuiti a produzioni corinzie in base alle caratteristiche dell’argilla, di colore giallino o beige pallido, tra le quali si segnala un frammento di kotyliskos con decorazione a fasce di colore rosso e nero e motivo a zig-zag sotto il bordo esterno. Le ceramiche presenti nella terra di riporto sono molto frammentarie ma presentano una caratteristica apparsa subito evidente: sono perfettamente conservate nelle superfici ed hanno linee di frattura nette, circostanza che suggerisce che in molti casi gli oggetti erano ancora parzialmente integri al momento dello scavo. Si rileva, inoltre, la quasi totale assenza di ceramiche indigene, 20 sebbene il sito si trovi all’interno di un’area di totale controllo siculo con centri sparsi sulle alture circostanti: l’insediamento in questione era sicuramente abitato da genti greche che apparentemente non acquistavano dalle popolazioni autoctone vasellame. I materiali riferibili alla fase precedente la nascita di Kalè Akté come polis menzionata dalle fonti sono quelli tipici di un abitato nel quale si svolgevano normali attività quotidiane. Molto numerose le anfore vinarie ed i vasi connessi al consumo di vino (crateri, coppe e skyphoi), il pentolame, le lucerne per l’illuminazione notturna degli ambienti, mentre le ossa animali e le vertebre di tonno ci suggeriscono la dieta seguita da quelle genti. Ci troviamo quindi di fronte ad un vero e proprio nucleo urbano, le cui dimensioni ed organizzazione sfuggono per l’esiguità dei riferimenti topografici, ma che può ben essere localizzato nell’area antistante la parte più riparata della rada, tra il corso di un torrente (S. Anna) e l’odierna c.da Pantano, quasi interamente pianeggiante. Ai fini della localizzazione di questo abitato non va peraltro trascurata la segnalazione di Scibona che riferisce di avere osservato frammenti ceramici di “almeno IV secolo a.C.” ancora più ad ovest, nella proprietà di Noto.21

Figg. 3-4. In alto, frammenti di ossidiana; in basso, bordo di cratere attico con decorazione a boccioli di loto stilizzati

Tra i frammenti rinvenuti, si segnala un piccolissimo pezzo di probabile coppa a pareti molto sottili sulla quale è presente un motivo decorativo costituito da minuscole civette in fila. Un frammento con identica iconografia era stato presentato da Lindhagen18 che ne prese visione tra i materiali recuperati da un privato in una discarica nei pressi di Punta Lena, che riteniamo provenisse forse dallo stesso scavo da cui proviene la terra di riporto in argomento. Non si sono trovati confronti per questo motivo a stampigli, che rientrerebbe comunque nella black glazed stamped ware19 18 19

Fig. 5. Campione di frammenti di ceramiche dalla discarica (seconda metà VI – prima metà IV secolo a.C.) 20 Si segnalano solo alcuni frammenti di contenitori a bordo estroflesso, simili a pithoi, con caratteristiche dell’impasto molto simili ad analoghi manufatti da Pizzo Cilona 21 Scibona 1987 p. 11

A. Lindhagen 2006 Si veda, tra gli altri, Talcott 1935

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Le ceramiche della discarica si riferiscono a centri di produzione diversi. Sicuramente da Himera provengono gli esemplari di coppe tipo Iato K480,22 la cui produzione, sul modello delle ben più note coppe ioniche, è ormai accertata presso la colonia sulla piana di Buonfornello.23 Fino ad oggi non era nota la presenza di queste coppe in alcun sito della costa tirrenica orientale.24 Per il tramite di Himera è probabile che giungessero nel nostro centro anche le anfore puniche, i cui esemplari purtroppo molto frammentari si inquadrano tra VII e V secolo a.C. Da Zancle dovevano arrivare non solo diversi manufatti di produzione coloniale, ma anche il vasellame attico, rappresentato qui da alcune forme, soprattutto skyphoi e coppe skyphoidi oltre a kylikes e ad altre non ben identificabili per l’estrema frammentarietà del materiale. Le ceramiche con decorazioni a bande di tradizione ionica potrebbero provenire dalla madrepatria o essere state prodotte nella stessa Zancle, come sembrerebbe per gli esemplari di lucerne di tipologia tardoarcaica-altoclassica. Di un certo interesse è l’ampia attestazione di ceramiche attiche, inquadrabili tra la fine del VI e la seconda metà del V secolo a.C. La forma maggiormente attestata è lo skyphos, di cui si sono rinvenuti numerosi frammenti, con almeno 4 esemplari di tipo corinzio a piede svasato, con profilo intuibile della vasca molto aperto che ne suggerisce una datazione tra l’ultimo decennio del VI e i primi decenni del V secolo a.C. Tra le altre forme si segnalano kylikes e basse coppe biansate, simili alle steamless cup. Alcuni frammenti decorati a figure rosse attestano la presenza di esemplari di lusso, tra i quali si menziona almeno un cratere a colonnette, inquadrabile nel corso della prima metà del V secolo a.C., di cui si sono recuperati due frammenti di bordo decorato con boccioli di loto intrecciati stilizzati e due frammenti non combacianti di corpo conservanti una decorazione accessoria a fascia verticale con puntinature ed una principale non interpretabile, assieme a una lekane databile nella seconda metà del V secolo con decorazione a finissime puntinature sul bordo della vasca. La diffusa presenza di ceramica attica di buona qualità è un indizio sull’etnia propriamente greca della popolazione locale e contribuisce a distinguere questo insediamento dagli abitati indigeni dell’area nebroidea, dove arrivavano prodotti importati ma di qualità spesso mediocre e principalmente di produzione coloniale. La classe di manufatti di gran lunga più rappresentata è costituita comunque dalle anfore commerciali, circostanza che deve essere tenuta in considerazione per risalire al contesto di provenienza dei materiali tardoarcaici e classici. Il tipo più attestato è costituito dalle anfore a bordo bombato, collo cilindrico e corpo espanso, il cui prototipo a livello cronologico è costituito dalle Corinzie B arcaiche o dalle Massaliote, databili già a metà del VI secolo a.C. I numerosi

esemplari di anfore “ionio-massaliote” o “pseudo-chiote” o, più genericamente “greco-occcidentali”, tradizionalmente rientranti grossomodo nella classe MGS II della classificazione Vandermersch, 25 presentano caratteristiche diverse sia per l’argilla impiegata che per il profilo del bordo. Diversi esemplari sono assimilabili a produzioni locresi 26 (argilla beige-rosato pallido con minuscoli inclusi sabbiosi e micacei), mentre è incerto il luogo di produzione di alcuni contenitori, di cui si sono recuperati parti del bordo e delle anse, con schiaritura beige pallido su corpo ceramico rosato o di colore arancio. Il profilo del bordo è a curvatura esterna semplice, caratterizzata da un listello nel punto di congiungimento al collo o contrassegnata da una gola alla base dello stesso, per cui sembrerebbe di potere assegnare a queste anfore un’ampia fase di circolazione, dalla seconda metà del VI alla metà del IV secolo a.C.27 Per il tramite di Zancle dovrebbe essere giunta fin qui l’anfora Corinzia A a pasta rosa-arancio con caratteristici inclusi di colore grigiastro, di un tipo assegnabile alla seconda metà del VI secolo a.C. 28 La posizione di Kalè Akté, praticamente al centro della costa tirrenica siciliana, dovette costituire un punto d’appoggio preferenziale per le navi che transitavano da Zancle a Himera, per cui è ragionevole pensare che una parte del carico, comprendente prodotti di ogni tipo, destinato all’una o all’atra città, rimanesse qui per rifornire una seppur piccola comunità ormai stabilmente insediata. Diversi sono i frammenti di anfore commerciali di probabile produzione corinzia, purtroppo non sempre riferibili a precise forme. La provenienza da Corinto è chiaramente suggerita dalle caratteristiche dell’argilla, di colore giallino con superfici tendenti ad una tonalità bruno chiaro, piuttosto lisce in superficie e ben lavorate, sezione interna relativamente porosa con piccoli inclusi biancastri (quarzite e silice) e micacei. I frammenti diagnostici sono pochi, tra cui alcune anse curve con sezione a cordolo appiattito e soprattutto due porzioni di fondi con puntale a bottone cilindrico ben separato dal corpo di forma sferica, riconducibili al tipo Corinzio B in uso nella prima metà del V secolo a.C. 29 E’ molto probabile che anche molti altri larghi frammenti di pareti, in base alla curvatura, si riferiscano allo stesso tipo di contenitore. Si segnala inoltre un frammento di bordo con attacco dell’ansa di Corinzia A’ di metà V secolo a.C. Alcuni frammenti di bordi si riferiscono ad anfore fenicio-puniche e si inquadrano cronologicamente tra la seconda metà del VII ed il IV secolo a.C. In

25

Vandermersch 1994. p. 59-92 Barra Bagnasco 1989; 2001 27 I bordi bombati con listello inferiore all’attacco con il collo cilindrico sono generalmente più antichi, sul modello delle anfore corinzie B arcaiche e massaliote e si possono datare alla seconda metà del VI secolo a.C. o all’inizio del successivo. Quelli contrassegnati da una gola inferiore e da collo rigonfio si daterebbero nel corso del V e nei primi decenni del IV secolo a.C. Sarebbe d’aiuto per un più preciso inquadramento cronologico dei tipi disporre dell’intera forma del contenitore, che nelle fasi più recenti presenta, tra l’altro, un corpo più allungato e un puntale conico. 28 Koehler 1981 29 Koehler 1981. Per le caratteristiche delle produzioni corinzie: Farnsworth, 1970 26

22 Si segnala la presenza di frammenti di probabili coppe Iato K480 tra i materiali estratti da saggi in profondità in c.da Pantano nel 2003-2005. Comunicazione di A. Lindhagen 23 Alaimo et alii 1999 24 Cfr. Vassallo 1996. Il primo esemplare frammentario di coppa tipo Iato K480 da Caronia è stato presentato da Lindagen nel citato volume monografico del 2006

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero particolare, alcuni bordi di anfora simile al tipo Ramòn30 T-10.1.2.1 sembra possano datarsi già nella prima metà del VI secolo a.C. o anche prima La presenza di frammenti riferibili a diversi esemplari di anfore puniche è da ricondurre alla posizione stessa dell’insediamento, a metà strada tra Zancle e la sua colonia Himera, dove evidentemente venivano imbarcati i contenitori provenienti da centri punici vicini (Solunto e Panormos). Da rilevare, infine, che risultano apparentemente assenti i contenitori da trasporto di area egea, per cui le sole importazioni dall’est greco riguardano gli esemplari di anfore corinzie A, A’ e B. Se incerta è la provenienza dal sud della Francia di anfore massaliote arcaiche, che sembrerebbero attestate dubitativamente da alcuni esemplari di bordi e puntali, la gran parte delle anfore sembra di produzione peninsulare (Calabria e Locri in particolare) e siciliana, con possibili produzioni anche di area cartaginese per ciò che riguarda le anfore puniche. L’unico rinvenimento monetale, allo stato attuale, tenuto conto comunque che non è stato esaminato tutto il materiale contenuto nella discarica, è costituito da un tetras in bronzo di Gela databile al 420-405 a.C., della serie con testa del dio fluviale Gelas imberbe sul dritto e toro stante a destra sul rovescio. La tipologia dei materiali rinvenuti, seppure in modo così inconsueto, può suggerire il contesto di provenienza. E’ escluso che possa trattarsi di un contesto funerario o cultuale per l’assenza da un lato di ossa umane (sono invece presenti numerose ossa animali) e dall’altro di coroplastica di alcun tipo, men che meno votiva. Significativa è anche la quasi totale assenza di pesi da telaio, che suggerirebbero un contesto prettamente domestico. Viceversa, la preponderante presenza di anfore di diverse provenienze induce a classificare l’ambito in questione come di tipo commerciale, ovvero magazzini o luoghi di rivendita. La presenza diffusa di vasellame di uso comune, tra cui soprattutto skyphoi, ma anche coppette, lucerne e ceramica da cucina, oltre ad alcuni frammenti di ceramica figurata anche di una certa qualità, più che a semplici magazzini farebbe pensare a luoghi di rivendita di merci o anche ad ambienti pertinenti ad un abitato con funzioni sia commerciali che domestiche. Sebbene riferibili ad un sito ben delimitato, per di più di incerta ubicazione lungo questo tratto di costa, i materiali descritti avvalorano l’ipotesi che l’insediamento tardoarcaico-altoclassico fosse effettivamente una postazione commerciale ovvero un luogo di scambio di merci, soprattutto per la grande presenza dei contenitori da trasporto. Ceramiche greche di VI-V secolo a.C. sono attestate in diverse località della fascia montuosa compresa tra Nebrodi e Peloritani. Cospicuo il materiale rinvenuto negli scavi dell’anonimo centro indigeno ellenizzato di Gioiosa Guardia, 31 dove tuttavia sono presenti in maggior misura le produzioni coloniali rispetto alle importazioni dalla Grecia, databili già a partire dall’inizio del VI secolo a.C. E’ noto il rinvenimento di frammenti di ceramiche a bande di VI

30 31

secolo a.C. presso San Marco d’Alunzio 32 mentre a Monte Scurzi (Militello Rosmarino) si è accertata la presenza di materiali greci databili tra la metà del VI e la seconda metà del V secolo a.C.33 In territorio di Caronia, ceramiche greche di V secolo a.C. sono presenti nei due siti indigeni ellenizzati di Contrada Aria e Pizzo Cilona, con limitate attestazioni di produzioni attiche ed alcuni esemplari di pregio, tra cui una piccola lekythos figurata dal primo e una porzione di cratere a colonnette dal secondo. Si tratta tuttavia sempre di materiali in uso all’interno di abitati indigeni che sembrano ellenizzati, spesso solo parzialmente, nel corso del VI secolo a.C. La loro presenza nei siti descritti testimonia senz’altro un processo di acculturazione indotto da esigenze commerciali che si avvia verso la fine del VII o all’inizio del VI secolo a.C. ma non spiega in maniera chiara come si sia manifestata in questa parte della Sicilia la strategia della colonizzazione greca, al di là della tradizionale ipotesi che qui essa non si sia mai realizzata se non, in maniera ancora da approfondire, a notevole distanza presso Himera e per giunta a contatto con la sfera d’influenza punica.34

Figg. 6-8. Materiali dalla discarica: frammento di mortarium a pasta chiara di produzione locrese (V secolo a.C.); porzioni di pietra pomice con tracce di usura; vertebre di tonno e gusci di patelle 32

Bonanno 2000 Nel centro indigeno di Monte Scurzi i prodotti coloniali sembrano arrivare intorno alla metà del VI secolo a.C. (citiamo, tra gli altri, un esemplare di kylix calcidese). E’ molto probabile che il vasellame provenisse dall’area dello Stretto, sebbene non si possa escludere l’arrivo di manufatti da Himera, compresi alcuni esemplari di anfore puniche di V secolo a.C. Tuttavia queste ceramiche appaiono quasi sempre di qualità scadente e non sembrano presenti le raffinate ceramiche attiche 34 Sulla fondazione di Himera: Tucidide VI 5.1; Diodoro Siculo 13.62. Per un quadro generale dei dati storici si veda Vassallo 2012 33

Ramòn 1995 Tigano, Coppolino, Martinelli 2008

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tavola I – Ceramiche dalla discarica (vedi Catalogo)

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero

Tavola II – Ceramiche dalla discarica (vedi Catalogo)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tavola III – Ceramiche dalla discarica: profili. Corrispondenze con le Tavole I-II: a = 7; b = 27; c = 45; d = 33; e = 10; f = 6; g = 35; h = 14; i = 31; l = 16; m = 34; n = n.t.; o = 29; p = 40; q = 28; r = 25; s = 17; t = 46 (Disegni: M.T. Distefano)

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero interna dell’attacco. Argilla di colore beige chiaro. Prima metà V secolo a.C.40

Catalogo dei materiali: ceramiche 1. Porzione di coppa skyphoide di tradizione ionica. Decorazione a bande orizzontali a vernice nera lucente. Superficie interna a vernice nera con riflessi iridescenti. Argilla di colore rosa-arancio. Seconda metà VI secolo a.C.35

13. Frammento di parete di vaso di forma non definibile con decorazione esterna a bande di colore marrone e nero separate da fascia a risparmio. Superficie interna a vernice bruna diluita. Argilla di colore beige pallido. Produzione corinzia. Ultimi decenni VI – primi decenni V secolo a.C.

2. Frammento di vaso (hydria?) con decorazione a linee incrociate di colore rosso-arancio. Parte interna acroma. Argilla di colore rosa-beige. Probabile produzione euboica. Prima metà VI secolo a.C.

14. Porzione di lucerna a vasca aperta. Vernice nera interna e sulla spalla. Base d’appoggio piana. Argilla di colore rosabeige. Simile a Athenian Agora IV tipo 22A (n. 195). Fine VI – primi decenni V secolo a.C. (Tav. III lett. h)

3. Piccolo frammento di coppa (?) corinzia con decorazione graffita e fascia di vernice color paonazzo. Superficie interna a vernice nera. Argilla di colore beige pallido. Seconda metà VI secolo a.C.

15. Becco di lucerna a vasca aperta. Vernice nere esterna. Argilla di colore brunastro tendente al grigio per ipercottura. Prima metà V secolo a.C.

4. Frammento di parete di coppa tipo Iato K480 di produzione imerese. Si conserva la fascia a risparmio decorata a tratti verticali. Superficie interna a vernice nera. Argilla beige scuro. Ultimi decenni VI secolo a.C.36

16. Piede a profilo svasato di skyphos di tipo corinzio. Vernice nera lucida all’esterno, tranne nel fondo esterno acromo, dove è dipinto un ampio cerchio a vernice nera. Superficie interna a vernice marrone lucida. Argilla di colore beige. Fine VI – primi decenni V secolo a.C. (Tav. III lett. l)

5. Frammento di vaso di forma chiusa. Parte esterna decorata a linee orizzontali di colore bruno e sottile patina arancio lucida sulla superficie risparmiata, internamente acroma. Argilla di colore rosa-beige. Fine VI - inizi V secolo a.C.

17. Porzione di grande skyphos attico, conservato nel bordo, parte superiore della parete e attacco dell’ansa (orizzontale appena sotto il bordo. Orlo verticale indistinto. Vernice nera interna ed esterna molto compatta e con riflessi iridescenti. Argilla di colore beige. Prima metà V secolo a.C.

6. Coppetta a bordo ispessito di produzione coloniale. Vernice nera interna ed esterna tranne che nel piede e nella parte esterna del fondo. Bordo ingrossato esternamente. Argilla di colore beige-arancio. Fine VI - inizi V secolo a.C.37 (Tav. III lett. f)

18. Parte inferiore di vaso apode (olpe?). Base piana. Acromo internamente ed esternamente tranne nella parte inferiore a vernice brunastra diluita. Graffito sul fondo esterno (N?). Argilla di colore beige scuro. V secolo a.C.

7. Coppetta apode di produzione ionica. Acroma con parziale sbiancatura superficiale esterna. Doppia ansa con parte sporgente a vernice nera. Argilla di colore rosato. Fine VI secolo a.C.38 (Tav. III lett. a)

19. Frammento di grande vaso (hydria?)41. Superficie esterna di colore grigiastro con bande orizzontali schiarite e decorazione incisa a fitti tratti obliqui affiancati entro fascia orizzontale. Argilla di colore grigiastro in superficie, rossastra internamente. Fine VI-V secolo a.C.42

8. Frammento di vaso di forma chiusa (hydria?) con fascia esterna di colore rosso di tradizione ionica. Superficie interna acroma. Argilla di colore rosa-beige. Fine VI – inizi V secolo a.C.39

20. Ansa e bordo di skyphos a vernice nera. Orlo verticale indistinto, ansa orizzontale. Vernice lucida e compatta. Argilla di colore rosa-arancio. V secolo a.C.

9. Frammento di vaso di forma chiusa (olpe?) con decorazione a fasce di colore marrone. Superficie interna acroma. Argilla ben depurata di colore beige. Fine VI – inizi V secolo a.C.

21. Frammento (bordo?) di vaso attico a figure rosse. Decorazione non interpretabile. Superficie interna acroma. Argilla di colore rosa-beige. V secolo a.C.

10. Piede di coppa di produzione calcidese a vernice nera. Profilo del piede di forma tronconica con base a risparmio. Argilla di colore beige grigiastro. Seconda metà VI secolo a.C. (Tav. III lett. e)

22. Frammenti di cratere attico a colonnette. Si conserva parte della decorazione accessoria a fascia verticale con puntinature all’interno e della decorazione principale non interpretabile. Vernice compatta e brillante. Superficie interna a vernice nera stesa a pennellate orizzontali. Argilla di colore rosa-arancio. Secondo terzo del V secolo a.C.

11. Frammento di vaso di forma chiusa (brocca?) con decorazione a fasce (2) di colore rosso e bruno. Argilla ben depurata, esternamente lucente. Superficie interna acroma. Argilla di colore rosa-beige. Probabile produzione ionica. Fine VI – primi decenni V secolo a.C.

23. Fondo di lucerna a vernice nera. Base piana leggermente rientrante. Ombelicatura centrale nella parte interna del fondo. Vernice nera interna ed esterna lucente e parzialmente evanida. Argilla di colore rosa-beige. Forma simile a Athenian Agora IV tipo 12 var. (n. 80) per la presenza all’interno di protuberanza conica. Ultimi decenni VI – inizi V secolo a.C.

12. Ansa di boccaletto di produzione attica. Vernice rossa lucente sull’ansa, nera lucente nella parte conservata della parte 35

Dovrebbe trattarsi di uno skyphos o coppa skyphoide forma Agora XII fig. 4 n. 332 36 Cfr. Vassallo 1996, fig. 2 n. 9 37 Cfr. Bacci, Tigano 2002, pag. 135, fig. 7 n. 17 38 Cfr. Meligunis Lipàra IX, tav. XCIV nn. 1161, 162, 166. Il tipo appare abbastanza attestato nel contesto d’origine per la presenza di numerosi frammenti, comprese diverse anse 39 Dello stesso vaso, decorato con fasce di colore rosso, sono presenti nella discarica diversi frammenti non ricomponibili

40

Cfr. Agora XII pp. 70-76 Sono stati recuperati numerosi frammenti di questo vaso, molti dei quali ricomponibili 42 I numerosi frammenti riconducibili a questa produzione potrebbero riferirsi a più vasi. Si segnala la presenza costante di incrostazioni e tracce di affumicatura nelle pareti interne 41

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 24. Frammento di coppa/kylix a vernice nera con cerchio interno a decorazione graffita (onde continue). Argilla di colore cipria. Ultimi decenni V - prima metà IV secolo a.C.

altri frammenti non combacianti). Argilla colore rosa chiaro. Fine VI – prima metà V secolo a.C. (?) 38. Ansa di coppetta apode di produzione ionica (vedi n. 7). Vernice nera stesa solo nella parte sporgente. Argilla beige chiaro. Fine VI secolo a.C.

25. Parte inferiore di vasetto di forma chiusa apode (lekythos globulare o piccola olpe). Fondo piano. Esternamente a vernice nera, internamente acromo. Argilla di colore beige. Seconda metà V – prima metà IV secolo a.C. (Tav. III lett. r)

39. Frammenti di vasetti a vernice rossa.43 Vernice compatta ma tendente a scrostarsi. Argilla beige chiaro. V secolo a.C.

26. Bordo e parte della vasca di lekane a vernice nera. Decorazione lungo il bordo a minute puntinature su fondo acromo. Vernine nera interna ed esterna brillante. Argilla di colore beige. Seconda metà V – inizi IV secolo a.C.

40. Parte inferiore di skyphos a vernice nera. Piede torico e parte conservata della vasca a profilo concavo regolare. Vernice compatta con riflessi iridescenti. Argilla rosata. V secolo a.C. (Tav. III lett. p)

27. Porzione di kotyliskos di produzione corinzia. Decorazione esterna a larghe fasce di colore rosso e bruno e motivo a zig-zag verticale sotto il bordo. Internamente verniciata in bruno. Argilla di colore beige pallido, molto depurata. Seconda metà VI secolo a.C. (Tav. III lett. b)

41. Piede di skyphos a vernice nera. Forma torica, parte esterna a risparmio. Argilla rosa-beige. V secolo a.C. 42. Ansa di vasetto (brocchetta). Vernice di colore rosso-bruno. Argilla di colore nocciola. V secolo a.C.

28. Piede di coppa skyphoide a vernice nera con piede svasato di tipo corinzio. Interamente verniciata di nero internamente ed esternamente. Argilla di colore beige pallido – avorio. Probabile produzione corinzia. Ultimi decenni VI – inizi V secolo a.C. (Tav. III lett. q)

43. Frammento di lucerna a vasca aperta. Vernice nera solo sul bordo della vasca. Argilla di colore rosa-bige. Profilo della spalla simile a Agora IV tipo 22A (n. 195). Fine VI – primi decenni V secolo a.C. 44. Piede di probabile kylix attica a vernice nera. Profilo esterno modanato, interno convesso. Vernice compatta e brillante. Argilla color nocciola. Seconda metà V secolo a.C.

29. Piede di coppa skyphoide o skyphos di tipo corinzio. Piede svasato interamente verniciato di nero, fondo esterno acromo, internamente verniciato di nero. Argilla di colore beige. Ultimi decenni VI – inizi V secolo a.C. (Tav. III lett. o) 30. Piccolo frammento di probabile coppa a vernice nera con decorazione a stampigli raffiguranti una fila di civette. Produzione attica (Atene?). V secolo a.C.

45. Bordo di bacino (?). Doppia estremità (quella esterna indistinta, quella interna rientrante) funzionale all’alloggiamento di un coperchio. Vernice rosso-bruno nella parte superiore. Argilla beige. V secolo a.C. (Tav. III lett. c)

31. Frammenti di bordo di cratere attico a colonnette a figure rosse. Sulla tesa, motivo a boccioli di loto stilizzati e puntini. Sulla parte esterna del bordo, doppia fila di puntini separati da una linea orizzontale. Vernice lucida. Argilla molto depurata di colore arancio. Prima metà V secolo a.C. (Tav. III lett. i)

46. Porzione di lopadion corrispondente al bordo e all’ansa. Rientranza interna ben distinta funzionale all’alloggiamento del coperchio; ansa verticale attaccata al bordo per buona parte della superficie. Tracce di affumicatura sulla superficie esterna. Argilla di colore grigiastro. V-IV secolo a.C. (Tav. III lett. t)

32. Fondo di piccolo contenitore (forma chiusa, brocchetta?) a base piana. Internamente acromo, interamente verniciato di rosso all’esterno. Argilla di colore beige. Simile alla forma di cui al n. 25 ma con base di poco più ampia. V secolo a.C.

47. Frammenti di hydria con decorazione a bande orizzontali e curvilinee. Vernice diluita di colore bruno-violaceo presente anche sul bordo. Argilla color nocciola. V secolo a.C. 48. Frammento di pentola (caccabe?) con tracce di pseudodecorazione a linee verticali che si sviluppano dal bordo. 44 Argilla beige-arancio. V-IV secolo a.C.

33. Piede di coppa a vernice nera. Forma troncoconica con punti d’appoggio bombati; fondo piano esternamente, concavo internamente. Argilla grigio-brunastra. Fine VI secolo a.C. (?). (Tav. III lett. d)

49. Coperchio. Mancante della presa centrale. Profilo trasversale poco pronunciato. Argilla di colore beige con piccoli inclusi biancastri, liscia in superficie. V-IV secolo a.C.

34. Parte inferiore di skyphos attico a vernice nera. Piede torico con base d’appoggio piana lasciata a risparmio come il fondo esterno. Argilla di colore arancio molto compatta. V secolo a.C. (Tav. III lett. m)

50. Ansa a placchetta di bacino crateriforme. Vernice nera di scarsa qualità sulla tesa e nella parte interna del contenitore, esternamente acromo. Argilla rosa-beige. V – prima metà IV secolo a.C.

35. Frammento di kylix attica a vernice nera in corrispondenza dell’attacco di un’ansa. Vernice interna ed esterna compatta e brillante. Argilla di colore beige-grigiastro.. Fine VI – Primi decenni V secolo a.C. (Tav. III lett. g)

43 Di questo tipo di vasellame, caratterizzato da vernice di colore rosso o rosso-arancio e diffusa in altri siti del Messinese con analoghe caratteristiche sia delle vernici che delle argille (Milazzo, Naxos, Francavilla di Sicilia) si sono rinvenuti numerosi frammenti, sempre di piccole dimensioni, che non consentono di risalire con certezza alla forma del manufatto 44 Sono innumerevoli i frammenti di ceramiche da cucina rinvenuti nella discarica. Un gruppo consistente presenta queste pseudo-decorazioni a tratti verticali sulla superficie esterna e dovrebbe essere riferito, in base al profilo dei frammenti, a chytrai e caccabai di incerta cronologia

36. Frammento di bordo di probabile coppa tipo Iato K480. Profilo svasato tendente a formare una S verso il basso (spalla). Vernice nera opaca. Argilla di colore nocciola. Ultimi decenni VI secolo a.C. 37. Largo frammento di grande vaso (hydria?) decorato con fasce di colore rosso (riconducibili allo stesso contenitore sono

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero 51. Frammenti di piccola anfora domestica con decorazione a bande di colore bruno. Argilla liscia in superficie, di colore nocciola. Prima metà V secolo a.C.

Zancle si assicurò il controllo dell’intero settore meridionale del Tirreno tra Calabria e Sicilia. La data di fondazione di Himera si ricava dal passo di Diodoro Siculo 13.62, quando narra che la colonia, al momento della distruzione nel 409 a.C., era in vita da 240 anni, per cui è stata dedotta la data del 649 a.C., peraltro confermata da recenti rinvenimenti di materiali riferibili a quella fase nella città bassa e nella necropoli orientale. La fondazione di Himera fu preceduta dal precoce insediamento di Mylai, riferibile agli ultimi decenni dell’VIII secolo a.C., 48 con il quale Zancle si assicurò subito la punta nord-orientale della Sicilia. Oltre a Himera e Mylai, le fonti storiche non fanno cenno ad alcuna altra fondazione greca sulla costa settentrionale siciliana, fino al riferimento in Erodoto 6.22 circa il fallito tentativo di insediare una colonia a Kalè Akté da parte di Samii su invito degli Zanclei nel 494 a.C. Zancle in realtà dovette esercitare fin dall’inizio una mirata forma di controllo dell’ampio tratto di costa sul Tirreno fino all’area fenicio-punica, che si sarebbe concretizzata nella creazione di postazioni strategiche legate alla presenza di approdi naturali. Nel corso del secolo che intercorre tra la nascita di Zancle e la fondazione di Himera o meglio, dei circa 70 anni successivi all’insediamento di Mylai, la flotta zanclea dovette stabilmente frequentare il tratto di mare verso ovest. Per comprendere quanto parziale ed evasiva sia stata la descrizione dell’area tirrenica siciliana da parte degli scrittori antichi, ricordiamo come il noto Periplo dello Pseudo-Skylax, redatto nel IV secolo a.C., probabilmente nell’ultimo trentennio, cita una serie di località marittime siciliane tra le quali non compare Kalè Akté. In realtà, mancano del tutto i centri della fascia costiera tirrenica compresa tra Himera e Mylai, alcuni dei quali sicuramente esistenti a quell’epoca, tra cui Kephaloidion e Tyndaris, oltre alla stessa Kalè Akté. In linea generale, l’assoluta mancanza di dati letterari per una lunga fase che va da epoca arcaica alla media età ellenistica, non deve portare ad escludere l’esistenza di centri, anche importanti, e la presenza stabile di genti greche in insediamenti che tuttavia non raggiunsero lo status di polis. Si è sempre sostenuto che la forte presenza sicula nella parte centro-settentrionale della Sicilia costituì un ostacolo importante all’insediamento di colonie greche. In realtà, essa avrebbe dovuto costituire analogo impedimento anche nell’area ionica e nella parte sud-orientale dell’isola, dove erano numerosi gli abitati indigeni, talvolta preesistenti nello stesso sito delle nuove colonie.49

L’emporion di Kalè Akté Le vicende che hanno interessato la costa tirrenica della Sicilia all’arrivo dei Greci a partire dagli ultimi decenni dell’VIII secolo a.C. e fino al V secolo a.C. inoltrato, rimangono ancora molto oscure e indecifrabili. I dati archeologici attestano l’esistenza di centri indigeni che entrarono in contatto con la cultura greca nel corso del VI secolo a.C. E’ innegabile che le poleis greche più vicine si siano spinte, per esercitare i propri commerci, verso le alture che si ergono a poca distanza dalla costa nell’area madonita e nebroidea. Dal racconto delle fonti storiche, in ogni caso, pare dedursi che nessuna colonia o altro tipo di insediamento prettamente greco sia stato insediato su un raggio di oltre 130 km, quant’è la distanza che separa le due fondazioni subcoloniali di Mylai e Himera. E’ per questa ragione che l’identificazione di un abitato di tipo coloniale di VI secolo a.C. presso la costa di Caronia aprirebbe nuovi scenari ai fini della comprensione della presenza greca in una parte strategicamente importante dell’isola. D’altra parte, il racconto delle fonti circa la nascita delle poleis greche, in particolare delle subcolonie, è troppo parziale e sintetico per rappresentare il punto di riferimento univoco da seguire al fine di comprendere la vicenda insediativa dei colonizzatori greci. Prendiamo ad esempio Mylai: sebbene nessuno storico antico la citi come subcolonia di Zancle, si tratta indubbiamente di una fondazione precoce della città sullo Stretto per via della breve distanza tra le due città e della data di nascita, desumibile dalla cronologia dei materiali provenienti dalla necropoli arcaica. 45 Mylai rimase sempre un centro di piccole dimensioni e non batté moneta, circostanza che ne suggerisce una costante subordinazione a Zancle-Messana. Rimase quindi un phrourion, ovvero una postazione avanzata con funzioni strategiche ai fini del controllo del tratto di mare e dell’entroterra nella cuspide nord-orientale dell’isola, e allo stesso tempo un emporion con il quale esercitare via mare proficui commerci. Analogo discorso può valere per Kephaloidion, 46 probabilmente da ritenere un phrourion di Himera creato nel V secolo a.C. all’epoca della sua massima espansione commerciale e politica. Partendo dall’inizio, la prima occupazione del sito di Zancle dovrebbe risalire alla metà dell’VIII secolo a.C. ad opera di pirati di Cuma, mentre la data di effettiva fondazione della città risale al 735 a.C. circa. 47 Con la successiva creazione del phrourion di Mylai, di Rhegion sul lato opposto dello stretto, di Metauros sulla costa tirrenica della Calabria e, infine, di Himera nel 649 a.C.,

48

Si data tradizionalmente la fondazione di Mylai al 717-716 da Eusebio, Chronicon (Mylai = Chersonesos) 49 Basti pensare che sia le fonti storiche che i dati archeologici confermano che le stesse colonie di Zancle, Naxos e Siracusa furono insediate nell’area di abitati indigeni preesistenti. Sulle reali modalità di insediamento dei nuovi arrivati, ovvero coabitazione con le popolazioni autoctone oppure atti conflittuali ed espulsione di queste ultime, si continua ancora a dibattere ma si ritiene che ogni caso vada affrontato separatamente e che i rapporti tra autoctoni e coloni siano stati di diverso tipo, anche in considerazione delle circostanze ambientali che potevano o meno agevolare la coabitazione

45

Brea, Cavalier 1959; Tigano 2009; Tigano 2011 La città, coincidente con l’odierna Cefalù, esisteva sicuramente, come phrourion, già negli ultimi decenni del V secolo a.C., se Diodoro Siculo (14.56.2) riferisce che il cartaginese Imilcone nel 396 a.C. si alleò con i suoi abitanti e come sembra d’altra parte suggerire la presenza sporadica di materiali riferibili a quella fase e la datazione delle mura ciclopiche che cingevano l’abitato. Cfr. Tullio 1993 47 Tucidide VI 4 , 5-6; Strabone VI 2, 3. Cfr. Caccamo Caltabiano 1993 46

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 9-10. Vedute del promontorio di Caronia Marina dall’alto e da est

Fu probabilmente la stessa morfologia dei luoghi, con la mancanza di ampie estensioni di terreno da sfruttare a fini agricoli e l’assenza di naturali e agevoli vie di comunicazione con l’interno, con la possibilità di accedere ai mercati indigeni, a non sollecitare le grandi poleis all’insediamento di nuove colonie di popolamento in questo settore “difficile”, caratterizzato dalla quasi esclusiva presenza di rilievi frequentemente di difficoltosa occupazione e controllo. Osservando la morfologia dell’intero tratto di costa compreso tra la piana di Milazzo e quella di Buonfornello, si osserva come il sito dell’odierna Caronia fosse uno dei pochi che si prestava ad essere occupato da

un insediamento coloniale e la sua stessa posizione era vantaggiosa, trovandosi quasi a metà strada tra Himera e Mylai. Il basso promontorio che dette il nome alla città di V secolo a.C. e la tranquilla insenatura che esso formava ad est offrivano riparo alle navi in transito tra le due città greche e costituiva uno dei pochi approdi naturali sfruttabili sulla costa tirrenica. Il sito era inoltre adatto alla creazione di un abitato organizzato, che poteva svilupparsi sulla piana costiera ad est del fiume, ampia circa 70 ettari, e nel pianoro soprastante, in maniera molto simile al sito di Himera, che si sviluppò in una città alta (Piano di Himera) e una città bassa (piana costiera intorno alla foce del fiume omonimo). Da questo punto di

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero vista, l’area in cui sarebbe poi stata fondata la città di Ducezio si mostrava altrettanto favorevole a quella in cui venne insediata a metà del VII secolo a.C. Himera ad una distanza molto più lunga, con tutti gli imprevisti e le difficoltà che una tale perifericità comportava, peraltro a stretto contatto con il settore d’influenza fenicio-punica. Ci chiediamo cosa spinse quindi gli Zanclei ad occupare l’area in cui venne effettivamente fondata Himera, ad una così grande distanza dalla madrepatria. Rispetto al sito di Kalè Akté, probabilmente, la piana di Buonfornello e i rilievi circostanti non erano così sistematicamente occupati da abitati indigeni e ad una così breve distanza dalla costa. Inoltre nel nostro caso, il sistema di alture che si sviluppava subito alle spalle della costa creava grandi difficoltà all’espansione verso l’interno: la vallata del fiume Himera, molto più ampia, che si incanala profondamente nell’entroterra fino a raggiungere la parte centrale della Sicilia, permetteva invece una più favorevole espansione verso sud e l’acquisizione immediata di nuove terre e nuovi mercati, rappresentati dai diversi centri sicani sparsi sulle alture del nisseno e del palermitano. Sebbene il tratto di costa ad est del fiume Caronia fosse favorevole per l’insediamento della città, tuttavia si trovava relativamente isolato rispetto all’entroterra e alla fascia costiera circostante a causa del susseguirsi ininterrotto di rilievi che, di fatto, impedivano una rapida accessibilità via terra. E’ ipotizzabile che la rotta marittima seguita dai coloni di Zancle verso ovest abbia toccato diversi punti della costa e tra questi la spiaggia dell’odierna Caronia, prima che fosse scelto definitivamente il sito di Himera. Nulla esclude, peraltro, che sia stata veramente presa in considerazione, a metà del VII secolo a.C., la possibilità di fondare una subcolonia a Kalè Akté, abbandonata quando la piana di Buonfornello apparve il sito più idoneo per la creazione di una grande città.50 La testina di statuetta in stile dedalico databile alla fine del VII secolo rinvenuta in c.da Pantano, assieme ad alcuni frammenti di anfore fenicie arcaiche che potrebbero riferirsi grossomodo alla stessa fase, 51 rinvenute nella citata discarica di terreno, potrebbero suggerire una prima frequentazione di un sito già noto lungo la rotta verso Himera e può anche darsi che, sporadicamente, possano in futuro trovarsi anche materiali che confermino l’ipotesi che, prima di quella fondazione, genti greche abbiano, seppur per un breve periodo, soggiornato sulla spiaggia di Caronia. Ad una fase successiva, che in base ai materiali al momento noti si colloca nella seconda metà del VI secolo a.C., si daterebbe un abitato greco, che probabilmente ebbe già il nome di Kalè Akté, la cui funzione fu quella di costituire una postazione intermedia

tra Zancle e Himera. Dovette trattarsi di un piccolo emporion dotato di un approdo in grado di accogliere le navi in transito tra le due città, con un mercato in grado di commerciare con i centri indigeni esistenti sulle alture retrostanti. Le dimensioni di questa postazione greca non sono al momento determinabili in assenza di scavi sistematici. E’ tuttavia da ipotizzarne l’estensione, sulla base dei luoghi di provenienza dei materiali tardoarcaici e alto classici finora noti, nell’area compresa tra il torrente S. Anna ad est e il settore orientale dell’attuale proprietà Di Noto a ovest, coincidente purtroppo in buona parte con il nucleo della cittadina moderna. Consideriamo infatti che i numerosi frammenti di ceramica greca, rinvenuti nella discarica di cui abbiamo finora discusso, databili tra la seconda metà del VI e la seconda metà del V secolo a.C., provengono da un’area molto ristretta: supponiamo infatti, valutando la quantità di terreno asportato, che l’area scavata non superi i 50 mq. Terra di riporto asportata in un’altra area, sempre localizzabile tra il quartiere della Nunziatella e il Pantano, oggi scomparsa a seguito delle mareggiate poiché depositata proprio davanti alla spiaggia, conteneva anch’essa numerosi materiali tardoarcaici e alto classici.52 Se aggiungiamo i rinvenimenti di frammenti di probabile VI-V secolo a.C.53 dagli scavi sistematici in c.da Pantano del 2003-2005, possiamo confermare l’estensione di questo abitato greco nell’area prima descritta. La questione di fondo che sta alla base della lunga premessa fin qui tracciata è se si può considerare l’insediamento greco identificato a Marina di Caronia sulla base dei materiali descritti un emporion piuttosto che un phrourion o, ancora, un fallito tentativo di insediare una vera e propria subcolonia. Di quest’ultima ipotesi abbiamo notizia per i primi anni del V secolo a.C. da Erodoto. In quell’occasione si sarebbe potuto trattare di una colonia mista tra Samii e Zanclei in una fase molto avanzata della colonizzazione greca in Sicilia, quando gli equilibri instauratisi da ormai due secoli e mezzo a partire dalle prime fondazioni escludevano in realtà la nascita di una colonia ex novo. L’ipotesi plausibile è che piuttosto si sarebbe trattato dell’occupazione da parte degli esuli di Samo di un sito già occupato da Zancle da molti decenni, che in quel modo si sarebbe potuto evolvere in una vera e propria polis. Gli eventi tramandatici per quella fase ci dicono che, però, così non fu e Kalè Akté rimase un piccolo abitato di genti greche in territorio siculo, sicuramente esistente nel momento in cui si concretizzò la fondazione di Ducezio sulla collina retrostante. Dobbiamo piuttosto ipotizzare l’esistenza di numerosi emporia e phrouria sparsi lungo la costa della Sicilia a partire già dagli ultimi anni dell’VIII secolo a.C., soprattutto sulle lunghe distanze che separavano le colonie greche insediate lungo la costa tirrenica e su quella del Canale di Sicilia. Se infatti ne abbiamo ipotizzato l’esistenza nel caso di Kalè Akté, troviamo confronti anche a sud nel caso dell’espansione di Gela verso ovest prima della fondazione di Akragas (insediamento arcaico sulla Montagna di Licata, ad

50 L’ipotesi di un tentativo di colonizzazione della costa di Caronia a metà del VII secolo a.C., prima della fondazione di Himera, è già stata avanzata da alcuni studiosi. Si veda, tra gli altri, Dominquez 2006, p. 294 51 Ci riferiamo ad alcuni bordi di probabili anfore puniche arcaiche simili al tipo Ramòn 10.1.2.1, la cui datazione è tuttavia resa incerta dall’estrema parzialità dei materiali, nonchè a frammenti di coppe ioniche da terreno rimaneggiato a seguito di scavi agricoli eseguiti molto in profondità in c.da Pantano (vedi Cap. 4 in questo volume)

52 53

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Alcuni esemplari sono quelli presentati da Lindhagen 2006 Comunicazione di A. Lindhagen e F. Sudano

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia esempio), 54 o anche nel caso della fondazione di Selinunte da parte dei Megaresi, che forse cercarono un sito adatto oltre il limite del fiume Salso prima di insediarsi definitivamente nel più favorevole promontorio in cui sorse la subcolonia. E’, a nostro avviso, tutta questione di eseguire ricerche sistematiche su ampie aree che, al momento, rimangono ancora inesplorate e potrebbero chiarire meglio le modalità di frequentazione e insediamento dei coloni greci all’indomani della prima fase di colonizzazione dell’isola. La ricostruzione delle vicende che interessarono la costa tirrenica della Sicilia parte dalla fine dell’VIII secolo a.C., quando Zancle aveva già preso pieno possesso della cuspide nord-orientale dell’isola con l’insediamento di Mylai. A quell’epoca, una serie di abitati indigeni, in buona parte esistenti almeno dall’Età del Ferro, occupava le alture che si sviluppano davanti alla piana di Barcellona Pozzo di Gotto e verso ovest. Tra questi il più importante fu Longane 55 , città fortificata scomparsa nel corso del V secolo a.C. per motivi ignoti. Il centro più importante, che ebbe continuità di vita fino ad età romana, fu Abakainon (Tripi), la cui esistenza quantomeno in epoca classica è attestata a livello numismatico: l’emissione di litre d’argento con raffigurazione di testa di Dioniso su un lato e scrofa con legenda “ABA” sull’altro suggerisce da un lato la coesistenza delle due culture, greca e sicula, e dall’altro una certa ricchezza derivante dal controllo di un vasto territorio compreso tra la piana del fiume Longano ed il golfo di Patti. E’ probabile che l’esistenza di questi abitati, che comunque dovettero entrare in contatto con la cultura greca almeno verso la fine del VII secolo a.C., impedì alla città dello Stretto di estendere il proprio controllo oltre la piana che si sviluppa a sud-ovest di Milazzo. Si scelse pertanto di esplorare la costa verso occidente allo scopo di insediare una colonia che permettesse di controllare efficacemente l’intero tratto di mare compreso tra la costa calabra e le isole Eolie, di grandissima importanza strategica perché era quello percorso dai traffici che dalla Grecia portavano verso la penisola italiana e le coste mediterranee delle odierne Francia e Spagna. La fondazione di Himera a metà del VII secolo a.C. dovette essere preceduta da una serie di ripetuti sopralluoghi in siti costieri adatti all’ormeggio (Capo d’Orlando?) che allo stesso tempo presentassero la possibilità di essere occupati stabilmente e di permettere una rapida espansione verso l’entroterra. Al momento non sono mai stati rinvenuti materiali che si possano datare tra la fine dell’VIII e la fine del VII secolo a.C.56 su tutto il tratto di costa che va da Mylai a Himera ma ciò non smentisce l’ipotesi dell’esplorazione a tappe di nuovi territori quale metodo di ricognizione al fine di insediare efficacemente una postazione. Possiamo immaginare che gruppi umani imbarcati sostassero per brevi periodi in accampamenti di fortuna davanti alla spiaggia, il tempo necessario a verificare l’idoneità di un sito ai fini descritti

e la possibilità di una convivenza con comunità autoctone, o ancora meglio la totale assenza di insediamenti umani. La circostanza tuttavia dovette essere condizionata dalla peculiare morfologia dei luoghi e dalla presenza di fitte foreste che ricoprivano una serie ininterrotta di rilievi, poco adatti allo sfruttamento agricolo. E’ quindi difficile il rinvenimento di resti di suppellettili lasciate in situ da quegli “esploratori”, a meno di fortunati rinvenimenti sporadici in aree non esplorate sistematicamente, come lo è, d’altra parte, l’intero settore costiero di cui parliamo. Nel giro di qualche anno, nel corso della prima metà del VII secolo a.C., fu ripetutamente perlustrato un tratto di costa di oltre 100 km, giungendo quasi alle porte di stanziamenti punici come Solunto e Panormos, finché fu scelta la piana di Buonfornello, che presentava molti vantaggi per lo stanziamento di una colonia: un sito adatto all’impianto di un’estesa città davanti al mare; un corso d’acqua forse navigabile fino ad alcuni chilometri dalla costa che costituiva, assieme all’ampia vallata che formava, una naturale via di penetrazione verso l’entroterra; terreni adatti ad essere coltivati in estensione. Strategicamente, un avamposto a così grande distanza consentiva comunque di abbracciare idealmente un territorio estremamente grande e di esercitare proficui commerci con gli abitati indigeni che vi gravitavano nonché con gli emporia fenici sulla costa a occidente. Tuttavia era necessario disporre di una postazione intermedia che rendesse più agevole la tratta e costituisse un punto di smistamento delle merci da commerciare con le popolazioni dei numerosi piccoli centri esistenti sulle alture a non grande distanza dal mare. Doveva trattarsi di un sito con un buon approdo per il ricovero delle navi e quello di Kalè Akté effettivamente lo era. merita un Il toponimo καλὴ ἀκτή approfondimento. Erodoto al passo 6.22 sembra riferirsi ad un luogo che potrebbe non essere necessariamente una città (ες καλὴν ἀκτήν) 57 ma comunque un nome ben conosciuto all’inizio del V secolo a.C., sebbene nel testo la mancanza dell’articolo davanti al citato toponimo potrebbe essere prova di un vero e proprio stanziamento piuttosto che di un semplice nome a indicare un generico tratto di costa. D’altra parte, in seguito, nello stesso paragrafo, Erodoto precisa che “Questa καλὴ ἀκτή, come è chiamata, si trova in Sicilia, in quella parte (di essa) affacciata sul Tirreno. A questo invito, solo i Samii, tra gli Ionii, risposero”. In questo secondo caso è analogamente dubbio se lo storico si riferisse ancora a un toponimo generico o ad un centro abitato, che alla sua epoca doveva esistere in quanto già fondato da Ducezio, sebbene lo stanziamento creato da quest’ultimo fosse ubicato in collina piuttosto che sulla costa. Appare evidente che il testo καλὴ ἀκτή, sebbene tradizionalmente tradotto come “bella costa”, sia da tradurre, più precisamente, come “bel tratto di costa” o, ancora meglio, “bel promontorio sul mare”, poiché la parola ἀκτή può tradursi effettivamente come “costa” ma anche con la parola italiana “promontorio”, a seconda del

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De Miro 1962, pp. 122-125 Brea 1967; 2000 56 Fino ad oggi, i materiali greci più antichi di cui si ha notizia, oltre alla testina in stile dedalico rinvenuta a Marina di Caronia, provengono da Gioiosa Guardia, ad ovest del golfo di Patti, e si datano tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Cfr. Tigano et alii 2008 55

57

Erodoto 6.22: “…Il popolo degli Zanclei, a quel tempo, inviò messaggeri nella Ionia per invitare gli Ioni a kale akte desiderando fondare là una città degli Ioni”

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero caso concreto. In ogni caso costituisce un unicum il toponimo in questione, che non fu mai attribuito a nessuna altra città antica in area mediterranea. Potremmo immaginare che ai naviganti provenienti per la prima volta da Zancle e diretti verso est alla ricerca di un luogo adatto a creare una subcolonia della città-madre, trovandosi a mezza costa in questo tratto di mare, quel promontorio pianeggiante ben proteso sul mare, a fare da esordio ad una serie di promontori più piccoli caratterizzati da rilievi collinari che si protendevano repentinamente sul Tirreno, in un susseguirsi ininterrotto fino a Cefalù e oltre, fino al capo di Solunto, sia apparso degno di grande interesse, tanto da meritarsi quel peculiare nome fin dall’inizio. E, di conseguenza, appare logico che esso abbia costituito una tappa preferenziale nella rotta che avrebbe condotto, a metà del VII secolo a.C., alla fondazione di Himera. Se è da ritenere plausibile che un precoce stanziamento sia stato creato in questo luogo molto favorevole, utile tappa intermedia per i traffici che nei primi decenni di vita di quella subcolonia così distante portarono là uomini e vettovaglie, è da ritenere che ad esso sia stato assegnato fin dall’inizio quel nome, tanto caratterizzante e noto che anche Ducezio lo scelse per la sua città, forse perché conosciuto da quell’Archonidas sovrano di Herbita nel cui territorio esso ricadeva e che collaborò a quella fondazione. In ogni caso, un tale termine assegnato a quel luogo deve fare riflettere su quali fossero le condizioni ambientali in età arcaica e come esse siano apparse ai colonizzatori greci: una rada ben riparata dove dare favorevole ricovero alle navi, una piana fertile che si prestava anche ad un’ottimale occupazione abitativa, una serie di corsi d’acqua – condizione molto favorevole – e un fitto bosco che ricopriva le alture retrostanti da cui trarre molte risorse. Il silenzio delle fonti storiche su questo sito prima dell’inizio del V secolo a.C. d’altra parte costituisce, a nostro avviso, un dettaglio secondario ai fini dell’esistenza o meno dell’insediamento, se consideriamo che per tutta l’epoca arcaica esse si riferiscono esclusivamente a vicende belliche in prossimità delle colonie più importanti. Potremmo riconoscere nell’insediamento arcaico a Marina di Caronia un emporion che avrebbe dovuto precedere una apoikia, ovvero una vera e propria fondazione. Una tale questione è stata più volte discussa per altri centri coloniali di fase arcaica, 58 sottolineando come l’emporion preceda la vera e propria polis nel caso in cui quest’ultima sia una fondazione coloniale preceduta da frequentazioni commerciali. Per Kalè Akté una tale circostanza appare suggerita dal tentativo (fallito) di colonizzazione Samia agli inizi del V secolo a.C. Il sito, quindi, rimase a lungo un trading post la cui creazione risalirebbe alla fase in cui Zancle fondava Himera, sebbene al momento non siano stati rinvenuti materiali databili intorno alla metà del VII secolo a.C. ma solo alla fine di esso e soprattutto a partire dalla metà del VI secolo a.C. La teoria relativa a “una sorta di linea evoluzionistica dall’emporio alla polis” 59 che starebbe 58 59

emergendo dagli studi sembra adattarsi al nostro caso ma andrebbe ampliata a molte altre fondazioni coloniali nell’isola, anche alla stessa Himera, che ebbe immediato sviluppo dopo una prima frequentazione, forse per motivi geografici e ambientali. Dopo molti decenni in cui l’insediamento calactino si limitò a costituire essenzialmente un punto di sosta sulla rotta commerciale tirrenica sotto il diretto controllo di Zancle, l’occasione per trasformarsi in polis l’avrebbe finalmente avuta nei primi anni del V secolo a.C., se le cose non fossero andate come sappiamo. Purtroppo l’assenza di indagini archeologiche svolte in estensione e soprattutto in profondità nel nostro sito impediscono. al momento, di cogliere appieno quale struttura potesse avere questo possibile emporion, le sue dimensioni e l’organizzazione sociale: lo abitavano veri e propri nuclei familiari o quasi esclusivamente commercianti e marinai? Si organizzava come una piccola città con luoghi di culto ed edifici amministrativi o lo componevano soprattutto, se non esclusivamente, magazzini, luoghi di rivendita di merci e ambienti per il vitto e l’alloggio temporaneo? Aveva un’area destinata a necropoli? Sicuramente le dimensioni non dovevano essere del tutto modeste, tenuto conto della dislocazione dei siti da cui provengono materiali antecedenti la metà del V secolo a.C. (area degli scavi 1999-2005 in contrada Pantano, area intermedia tra il quartiere Nunziatella e la stessa contrada Pantano, area della Stazione Ferroviaria). La stessa tipologia differenziata di materiali rinvenuta nella discarica di cui abbiamo finora parlato, quanto meno per il periodo compreso tra la fine del VI e tutto il V secolo a.C., indirizza verso un’idea di insediamento organizzato nella maniera di un normale centro abitato. In ogni caso appare significativo che Ducezio scelse proprio il sito di Kalè Akté per la sua ultima fondazione tra le tante opzioni che aveva all’interno dell’ampio comprensorio controllato da Archonidas di Herbita, forse tenendo conto del ruolo che l’insediamento greco preesistente aveva già nel quadro dei commerci sul Tirreno. Che si trattasse fondamentalmente di un emporion sembra essere suggerito dai materiali arcaici e classici rinvenuti in prevalenza, ovvero le anfore, tra le quali abbiamo riconosciuto con certezza corinzie A, A’ e B, fenicio-puniche e soprattutto greco-occidentali, lungo un arco di tempo che dal VI secolo a.C. arriva fino alla metà del IV. Sebbene non esaurienti al fine di trarre conclusioni sul tipo di abitato che lo scavo da cui proviene il terreno di discarica ha intaccato, occorre dire che si tratta in gran parte di materiali di contesto misto domestico-commerciale, come prova la diffusa presenza di vasellame da cucina, di skyphoi, coppe e coppette, a cui si aggiungono pithoi, anfore domestiche e altri contenitori da conserva, mentre la notevole presenza delle anfore da trasporto fa pensare allo stesso tempo ad ambienti destinati all’immagazzinamento di derrate provenienti dall’esterno. Un normalissimo contesto, quindi, di tipo urbano con suppellettili quotidianamente in uso tra VI e V secolo a.C. I dati desunti da questi rinvenimenti occasionali consentono di avanzare l’ipotesi che il sito di Kalè Akté sia senz’altro di assai più antica frequentazione coloniale di quanto si è sempre ritenuto. Sicuramente è frequentato

Greco 1994; Lepore 1988 Greco 1994

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia moderna cittadina, sostanzialmente inesplorata se non in occasione dei saggi occasionali dei decenni passati. Gli spunti di riflessione suggeriti dal ritrovamento in maniera del tutto fortuita di un certo tipo di materiali, come quelli che abbiamo descritto, sono tanti e non coinvolgono soltanto la formulazione di ipotesi di studio al fine di ricostruire la vicenda coloniale in questa parte della Sicilia, ma anche le modalità concrete con cui si tenta ancora oggi di ricostruire la storia sulla base di dati concreti. La discarica contenente i materiali in questione è una delle tante – ormai non più indagabili – provenienti da scavi urbani privati e pubblici incontrollati eseguiti da un cinquantennio a questa parte. Molte conoscenze sono state perse per la mancanza di un adeguato monitoraggio di un sito noto nel panorama archeologico siciliano da oltre un secolo, che tuttavia sconta una perifericità, ben più grande di quanto sia in termini fisici, dai centri di studio e dalle attività di tutela delle Soprintendenze.

da genti greche almeno dalla fine del VII secolo a.C. in base ai materiali sporadici rinvenuti. L’area di questo stanziamento appare vergine e disabitata almeno dalla fine dell’Età del Bronzo o prima Età del Ferro, epoca alla quale si riferiscono i numerosi frammenti di lame di ossidiana e strumenti in selce rinvenuti a Marina di Caronia. Ribadiamo che, a nostro avviso, la conformazione del promontorio dovette apparire ai coloni adatta all’impianto di una città (ampia piana costiera con altopiano retrostante che si eleva in un’acropoli naturale), presentando quasi le medesime caratteristiche del luogo in cui venne effettivamente fondata Himera. Dopo una prima sporadica frequentazione poco prima di quest’ultima fondazione, fu creato un insediamento dotato degli apprestamenti necessari a costituire una tappa sicura nella rotta marittima tra subcolonia e madrepatria. Nel corso del VI secolo a.C. questo abitato dovette convivere con i centri indigeni circostanti, con i quali i rapporti dovettero essere pacifici, considerato che sostanzialmente si trattava di un emporion senza pretesa di espansione territoriale. Le navi in transito attraccavano nella rada, lasciavano parte del carico e ripartivano. Il toponimo καλὴ ἀκτή usato da Erodoto per descrivere gli eventi dell’inizio del V secolo a.C. dovette essere in uso fin dalla prima frequentazione del sito da parte degli Zanclei, ovvero almeno a metà del VII secolo a.C. ed effettivamente un “bel tratto di costa” doveva apparire questo promontorio pianeggiante che veniva avvistato provenendo da est. In quell’occasione i Samii, più che a fondare una città, furono invitati a trasformare in entità urbana a proprio nome uno stanziamento già esistente, che offriva indubbi vantaggi di tipo strategico ed economico a chi si fosse insediato e alla stessa Zancle che, in tal modo, avrebbe controllato in maniera totale un’area vastissima. Il nome che più tardi scelse Ducezio per la sua fondazione rimase lo stesso in uso da oltre un secolo, lo stesso conosciuto da Archonidas di Herbita che controllava questo territorio. Gli indizi dagli scavi archeologici degli ultimi decenni nel sito costiero e la considerazione di come fosse realmente organizzata una spedizione coloniale e, ancor prima, l’esplorazione di nuovi territori con l’individuazione dei vantaggi in termini commerciali e militari che il controllo di determinate aree potevano assicurare, inducono ad assegnare ai materiali recentemente scoperti – seppure in maniera poco scientifica e casuale – una grande importanza ai fini della ricostruzione delle vicende che interessarono la costa tirrenica tra l’epoca greca arcaica e quella classica. La colonia calcidese dello Stretto esercitò la sua influenza su una vasta area compresa tra la costa tirrenica della Calabria e quella della Sicilia, non potendosi espandere verso sud per la presenza di un’altra precoce colonia quale fu Naxos. E’ chiaro che cogliere l’esatto significato della presenza greca nella fase arcaica sulla costa di Caronia necessita di una serie di indagini su vasta scala, iniziando dal riesame dei materiali provenienti dagli scavi e dai sondaggi degli anni ’80-90 del secolo scorso e dalla completa edizione di quelli provenienti dallo scavo degli anni 2000 in contrada Pantano. L’area di interesse archeologico è molto vasta, estendendosi su tutto il litorale e la piana alluvionale compresa tra il fiume e la

Conclusioni I materiali sin qui recuperati parlano di un insediamento propriamente greco e non di un possibile emporion indigeno, di cui peraltro non si conoscono precedenti, almeno lungo la costa tirrenica. La varietà dei manufatti, molti dei quali provenienti dall’Attica, da Corinto e da area greco-orientale, assieme a produzioni coloniali di Zancle-Mylai e Himera e ad anfore feniciopuniche, oltre ai contenitori da trasporto da Corinto, Calabria (Locri, Caulonia, Rhegion) e forse anche Marsiglia, fanno pensare ad un centro magari di piccole dimensioni ma molto vitale, dove è possibile che rimanesse parte del carico di navi in transito da est verso ovest e viceversa, per un immagazzinamento temporaneo e per un’eventuale commercio con i centri indigeni. E’ probabile che in epoca arcaica e classica Kalè Akté abbia esercitato, in piccolo per ovvie ragioni, un ruolo commerciale analogo a quello svolto su vasta scala da Himera: il basso Tirreno era intensamente percorso da rotte mercantili che collegavano la Sicilia greca con la penisola (Calabria, Campania, Etruria), con la Francia meridionale e, ovviamente, con i mercati fenicio-punici sia siciliani che del nord-Africa e del Mediterraneo occidentale. E’ impensabile che i soli centri di Mylai e Himera abbiano sostenuto da soli i flussi commerciali provenienti dal medio e alto Tirreno e dall’area feniciopunica, indirizzandoli parzialmente verso l’entroterra indigeno. E’ più logico pensare all’esistenza di una serie di stazioni commerciali intermedie, in particolare lungo la parte centrale della costa tirrenica, da dove una serie di vallate fluviali e passaggi tra le montagne metteva in comunicazione la costa con un entroterra disseminato di centri siculi molto floridi, come Centuripe, Agyrion, Assoros, Henna o Morgantina. Sarebbe interessante eseguire ricerche sistematiche nei numerosi siti indigeni sparsi lungo le dorsali nebroidea e madonita e a sud di queste per accertare la presenza di determinati prodotti d’importazione, in particolare di contenitori da trasporto e

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero di certi tipi di vasellame, per appurare quale merce vi giungesse e attraverso quali canali. 60 La costa tirrenica dovette essere considerata fin dall’inizio altamente strategica per le colonie greche, ma la risalita verso nord delle principali tra esse in una certa fase storica, come Siracusa, Gela e Akragas dovette senz’altro essere ostacolata dalla resistenza delle popolazioni autoctone che abitavano l’aspro settore centro-settentrionale dell’isola 61 . Fu invece più agevole per Zancle aggirare l’ostacolo occupando la costa, verso la quale sembra fosse meno necessario esercitare un controllo assoluto da parte dei Siculi, proiettati soprattutto verso i siti d’altura e l’entroterra. L’interesse di Zancle a insediare emporia piuttosto che vere e proprie città fa escludere un rapporto conflittuale tra Greci e popolazioni autoctone, che vivevano in piccoli centri su rilievi (“kata komas” secondo la definizione di Tucidide), apparentemente autonomi e con un’area geografica di pertinenza non molto estesa. Non si conoscono insediamenti indigeni costieri su tutta la fascia tirrenica. L’evidenza non esclude quindi una presenza greca stabile e non invasiva in alcuni siti costieri, ai quali potevano avere accesso gli stessi indigeni per scambiare i loro prodotti, con proficuo vantaggio per entrambi. L’esistenza di emporia piuttosto che di poleis con necessità di un vasto retroterra (che avrebbe condotto a conflittualità con le popolazioni locali) potrebbe avere dato vita non ad una vera e propria colonizzazione in termini stretti ma ad una parziale ellenizzazione di questa parte di Sicilia, basata su una tranquilla coesistenza di culture fino a tarda età (prima metà IV secolo a.C.). L’emporion arcaico di Kalè Akté è finora attestato da materiali di rinvenimento sporadico e suggerito da un’interpretazione più pratica e adattata alla realtà dei luoghi di quanto riferito sinteticamente dalle fonti letterarie. Occorrerebbe adesso eseguire scavi sistematici sotto i livelli ellenistici e romani fin qui indagati ed effettuare saggi nell’area di Marina di Caronia non ancora urbanizzata allo scopo di accertarne le dimensioni e la struttura. Diversi indizi ne suggeriscono la localizzazione alle spalle dell’insenatura, a partire dal corso del torrente S. Anna verso ovest nella parte più ampia della piana costiera, anche laddove, probabilmente

in età romana, venne aperto un bacino portuale interno (il “pantano” attuale). Essendo a così grande distanza dalle poleis di riferimento, ovvero Zancle e Himera, riteniamo che dovette dotarsi di una struttura urbana organizzata, dotata di tutti gli apprestamenti necessari ad una permanenza prolungata. 62 Pensiamo ad un gruppo di abitazioni e strutture di accoglienza, nonché ad attività artigianali, a ridosso di magazzini, luoghi di rivendita e attrezzature portuali, con l’immancabile presenza di piccoli santuari e naturalmente di un’area cimiteriale, da ricercarsi forse verso est, oltre il corso del torrente. 63 Dovette passare da qui, tra VI e V secolo a.C., buona parte del carico commerciale diretto verso i centri indigeni dell’entroterra e dei rilievi nebroidei. E’ logico pensare che qui fossero immagazzinati i prodotti acquistati dalle popolazioni locali (legname, pelli, minerali, ecc.) per rifornire le colonie. La totale assenza di notizie circa eventi bellici che potessero essersi verificati in queste contrade tra VI e V secolo a.C. induce a ritenere che i rapporti tra Greci e indigeni siano stati effettivamente improntati ad una pacifica convivenza e che l’area sia fondamentalmente rimasta estranea a lungo da concreti tentativi di penetrazione da parte delle principali potenze greche dell’epoca. Naturalmente le ipotesi avanzate in questa sede necessitano di verifiche e approfondimenti futuri. L’esistenza di un insediamento con funzioni commerciali è comunque suggerito dalla tipologia stessa dei materiali, comprendenti soprattutto anfore da trasporto. Lo studio degli emporia greci di Sicilia in realtà non è mai stato concretamente intrapreso, mentre l’attenzione degli studiosi si è sempre focalizzata sugli aspetti urbanistici delle poleis e sulla loro proiezione nel territorio circostante in chiave di chora agricola. Emporia andrebbero cercati per l’epoca arcaica sulle lunghe distanze, ad esempio lungo la costa meridionale tra Gela e Selinunte, oltre che nella stessa fascia tirrenica, dove non è da escludere esistessero altri piccoli insediamenti coloniali dotati di approdo. Purtroppo, ribadiamo, l’intera 62 L’organizzazione urbana di un emporion di epoca arcaica e classica poteva variare da un’area geografica all’altra e dipendere da molti fattori. Quelli più noti fino ad oggi si trovano ai margini opposti del Mediterraneo e sono Emporion nella penisola iberica e Naukratis nel delta del Nilo in Egitto. Il primo fu creato poco dopo la fondazione di Massalia (sud della Francia) nei primi decenni del VI secolo a.C., e dovette convivere con le popolazioni indigene degli insediamenti circostanti, basando la propria esistenza su rapporti di reciproco scambio e favorendo l’ellenizzazione di parte dell’attuale Spagna. Le sue dimensioni non furono mai estese: era difesa da una cinta muraria ed esistevano dei templi. Naukratis fu invece un vitale centro commerciale greco in territorio egiziano, creato su un ramo del Nilo dove si trovava il porto e dotato di una nutrita serie di santuari dedicati a varie divinità. L’area occupata, che comprendeva comunque una vera e propria città egiziana, era piuttosto vasta e a settori fittamente occupati da case e magazzini si alternavano aree dove si svolgevano attività pubbliche e artigianali. Naturalmente, i contesti in cui sorsero Emporion e Naukratis appaiono assai diversi da quello che doveva contraddistinguere la stazione commerciale di Kalè Akté, sia da un punto di vista morfologico e ambientale che sotto l’aspetto della densità abitativa delle popolazioni locali e dei rapporti con queste. 63 La localizzazione di una necropoli arcaica-classica in questo settore è suggerita al momento dalla scoperta di tombe ellenistiche nell’area dell’ex Rifornimento Agip (Scibona 1987) e di materiali della stessa epoca di rinvenimento sporadico presso lo sbocco del torrente NivaleCinquegrana, probabile espansione verso est in fasi successive del cimitero impiantato all’epoca dell’emporion

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Possediamo alcuni dati per tre di questi insediamenti, due dei quali ricadenti nel territorio dell’odierna Caronia. A Pizzo Cilona sono presenti anfore greco-occidentali di V-prima metà IV secolo a.C. (“pseudo-chiote” di probabile produzione locrese) e corinzie B, mentre riguardo al vasellame si sono osservate produzioni coloniali (in particolare di Himera) ed alcune importazioni attiche. In contrada Arìa, i materiali dalla necropoli appaiono essere in gran parte di produzione coloniale. A Monte Scurzi, in territorio di Militello Rosmarino, si sono osservati pochi frammenti di anfore da trasporto, tra le quali rilevano almeno due esemplari di anfore puniche di V secolo a.C., mentre relativamente al vasellame si osservano produzioni coloniali, presumibilmente dall’area nord-orientale della Sicilia, vasi calcidesi e alcuni esemplari di probabili materiali attici 61 L’esempio più noto è costituito dalla grande resistenza che esercitò la città sicula di Herbita, che dobbiamo immaginare come il principale centro di riferimento per le popolazioni sicule della parte occidentale dei monti Nebrodi e di parte delle Madonie quantomeno nel corso del V secolo a.C. Ricordiamo come in occasione della spedizione ateniese, essa fu alleata di Atene contro Siracusa (Tucidide 7.1.4) e che ancora alla fine del V secolo a.C. seppe resistere alla stessa Siracusa, con la quale strinse patti, assieme ad altri eminenti centri indigeni dell’entroterra come Agyrion, Centuripe e Assoros (14.15.1-4)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Kalè Akté e forse anche Kephaloiodion e Amestratos.65 E’ a questo punto ipotizzabile un intervento del condottiero corinzio in queste stesse città, che ne determinò una ripresa dopo una lunga fase stagnante. Potremmo riferire all’azione di Timoleonte anche il nuovo sviluppo di Kalè Akté a partire dall’ultimo terzo del IV secolo a.C., peraltro confermato dai dati fin qui raccolti sul terreno, in particolare nell’area della città collinare. La vocazione commerciale dell’abitato marittimo, nata ai tempi del probabile emporion arcaico, in ogni caso non venne mai meno. Questo quartiere svolse un ruolo importante in epoca ellenistica, trovandosi lungo il tragitto della strada litoranea (Via Valeria) e disponendo di un porto che venne ulteriormente potenziato in età imperiale. E’ questa la ragione per cui la sua vita fu lunghissima e si protrasse per oltre un millennio.

parte centrale della costa tirrenica rimane pressoché inesplorata, escludendo i saggi di scavo eseguiti in alcuni siti e le ricognizioni sistematiche svolte solo in aree circoscritte. 64 Una maggiore considerazione di questa parte di Sicilia da parte della ricerca archeologica chiarirà molti aspetti non solo dei rapporti tra Greci e Indigeni per l’epoca arcaica e classica, ma anche delle diverse modalità con cui si svolse il movimento coloniale, che non diede vita solo a grandi città ma dovette essere più coinvolgente e capillare, installando dove possibile apprestamenti di tipo mercantile e produttivo, adattandosi alle preesistenze e sfruttandone eventualmente la presenza in termini commerciali. Il destino del piccolo emporion arcaico-classico di Kalè Akté dovette essere legato alle sorti delle due metropoli greche di Zancle e Himera, tra le quali si trovava, poiché è da ritenersi che esso costituisse principalmente un punto di sosta lungo la rotta marittima che le univa. Pertanto c’è da chiedersi quali conseguenze abbia avuto su di esso la distruzione di Himera nel 409 a.C. Dobbiamo ritenere che la vittoria cartaginese nella epocale battaglia che si svolse alle porte quest’ultima abbia mutato gli equilibri di questa parte della Sicilia, con l’instaurarsi del controllo punico in un’ampia parte della Sicilia settentrionale, quantomeno fino all’area centrale dei Nebrodi: la fondazione di Tyndaris da parte di Dionisio I di Siracusa nel 396 a.C. fu senz’altro strategica per evitare la presa di possesso cartaginese anche dell’area nebroidea più occidentale. Pur nella parzialità del materiale esaminato, si è osservata una sensibile riduzione delle ceramiche presenti databili nella fase successiva alla fine del V secolo a.C. Potremmo riferire preliminarmente una tale circostanza alla fine di Himera ed all’interruzione dei traffici commerciali che essa sosteneva, con una sensibile contrazione delle attività del porto di Kalè Akté. Potremmo pensare che almeno nel primo cinquantennio dopo la fondazione della città di Ducezio sulla collina di Caronia, l’insediamento marittimo abbia continuato ad essere una stazione commerciale relativamente svincolata dall’abitato collinare e che solo nel corso del IV secolo a.C. o anche dopo esso si possa considerare a tutti gli effetti parte sostanziale della polis calactina da un punto di vista sociale e politico. I dati a disposizione non consentono di avere un’idea precisa della situazione politica esistente nella fascia centrale della Sicilia settentrionale dopo il 409 a.C. e fino agli ultimi decenni del IV secolo a.C. Un indizio potrebbe essere il passo di Diodoro Siculo 14.16 sulla fondazione di Halaesa, quando riferisce che secondo alcuni questa città non fu fondata dal siculo Archonidas di Herbita ma dai Cartaginesi al tempo in cui Imilcone concludeva un trattato di pace con Dionisio I (405 a.C.), facendo ipotizzare quantomeno l’esistenza di un presidio punico nel medesimo sito due anni prima della tradizionale data di fondazione. Diversi decenni dopo, in questa stessa area si creò una confederazione (symmachia) di città a sostegno di Timoleonte, comprendente verosimilmente la stessa Halaesa, Herbita,

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Appendice I Le anfore da trasporto dalla discarica: contatti e commerci in epoca arcaica e classica La discarica da cui provengono i materiali descritti conteneva un elevato numero di anfore da trasporto frammentarie. Da sole, esse costituiscono oltre i due terzi del materiale ceramico esaminato e rappresentano senza dubbio un utile indizio al fine di identificare la destinazione d’uso degli ambienti intaccati dallo scavo. La cronologia di questi contenitori è piuttosto ampia e di sviluppa forse già dagli ultimi decenni del VII secolo a.C. fino al II secolo a.C. Per l’epoca ellenistica predominano le anfore greco-italiche, mentre l’esemplare più recente è costituito da un bordo di probabile Lamboglia 2. La fase compresa tra l’epoca classica e quella ellenistica è rappresentata principalmente da anfore con bordo ad echino, inquadrabili genericamente nella categoria MGS III di Vandermersch e databili dalla fine del V alla fine del IV secolo a.C., di cui si sono rinvenuti alcuni frammenti di bordi appartenenti a produzioni diverse. Predominano comunque le anfore anteriori alla metà del IV secolo a.C.: in particolare, la fase compresa tra la fine del V e la fine del IV secolo a.C., per quanto è stato possibile verificare, è attestata da alcuni bordi di anfore MGS II e da un paio di bordi a echino o piuttosto corinzie B, mentre i diversi esemplari di greco-italiche presenti nella discarica potrebbero riferirsi già al III secolo a.C. Gli esemplari più antichi sembrano costituiti da alcuni bordi di anfore puniche inquadrabili nel tipo T10.1.2.1 della classificazione Ramòn (seconda metà VII – prima metà VI secolo a.C.), mentre si datano a partire 65

L’esistenza di una confederazione di antica data che abbracciava le città ricadenti tra il settore più occidentale dei Nebrodi e quello settentrionale delle Madonie è suggerita dall’iscrizione Scibona 1971, n..1 rinvenuta nell’agorà di Halaesa, pur databile in avanzata età ellenistica, che accomuna le quattro città di Halaesa, Herbita, Kalè Akté e Amestratos, cui si aggiunge anche Kephaloidion in base ad una seconda iscrizione, ancora inedita, sempre da Halaesa, nella quale ricompaiono le prime quattro città (Scibona, Tigano 2009)

Ad esempio nel territorio di Halaesa (Burgio 2008)

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero dalla metà circa del VI secolo a.C. le anfore “grecooccidentali”, presenti nelle produzioni arcaiche e classiche, fino alla prima metà del IV secolo a.C. Le produzioni corinzie sono attestate da almeno un esemplare di Corinzia A a pasta arancio (fine VI – inizi V secolo a.C.), da uno di Corinzia A’ (metà V secolo a.C.) e da almeno due di Corinzia B (metà – seconda metà V secolo a.C.), sebbene la presenza di diversi frammenti non diagnostici con caratteristiche dell’argilla assimilabili a produzioni corinzie (o corciresi) suggerisca la presenza di un più elevato numero di contenitori da trasporto provenienti da quell’area della Grecia. La cronologia degli esemplari di anfore rinvenuti nella discarica testimonia un’attività commerciale nel sito da cui proviene il terreno senza soluzione di continuità, poiché gli esemplari, riferibili a precise fasi storiche, si susseguono apparentemente senza interruzioni, accompagnandosi o sostituendosi tra loro a seconda dell’avvio e cessazione delle relative produzioni. In particolare, alle anfore “pseudo-chiote”, attestate in buon numero, sembrano succedere le MGS III, meno attestate e, a partire dalla fine del IV-inizi III secolo a.C., le grecoitaliche, presenti in buon numero. Molto interessante è la circostanza della più che discreta presenza di anfore da trasporto di produzione fenicio-punica. La loro presenza a Kalè Akté può essere ricondotta a due diverse origini: la mediazione di Himera tra mercati punici e mercati greci o la presenza stessa di mercanti provenienti dall’occidente siciliano. Non sappiamo bene quale delle due motivazioni abbia portato nel nostro sito i contenitori da trasporto, ma viene da pensare che i commerci esercitati dai centri punici di Solunto e Palermo, per citare i più vicini, non si fermassero ad Himera, vero e proprio mercato di scambio di prodotti tra est e ovest siciliano, oltre che con la penisola italiana. E’ molto probabile che le rotte seguite da quei commercianti si spingessero molto ad est, quantomeno fino a Kalè Akté e oltre, come attesta la presenza di anfore puniche di V secolo a.C. ad esempio anche nel centro indigeno di Monte Scurzi. Gli esemplari rinvenuti nella discarica presentano in molti casi caratteristiche dell’argilla che a livello macroscopico (pasta di colore marrone-arancio, compatta) 66 sono compatibili con una produzione nella Sicilia occidentale, sebbene alcuni frammenti con argille di diverso colore e consistenza ne suggeriscano una provenienza anche da altre aree del Mediterraneo occidentale. La categoria di anfore da trasporto maggiormente rappresentata nella discarica è costituita dalle anfore “greco-occidentali” arcaiche e classiche, di cui si sono riconosciuti innumerevoli frammenti, diversi dei quali utili ai fini di una precisa collocazione tipologica ma tutti riconoscibili per le caratteristiche delle argille impiegate. I bordi rinvenuti ammontano ad oltre una decina, più alcune anse che per caratteristiche formali e degli impasti sono da riferire allo stesso tipo. Sono stati rinvenuti solo due puntali, uno da attribuire ad una probabile anfora massaliota ed uno ad una grecooccidentale di età classica. Lo stato di conservazione delle superfici è eccellente, mentre le porzioni di bordo 66

più complete si conservano al massimo fino all’attaccatura delle anse sul collo cilindrico; il tipico rigonfiamento che caratterizza il collo del tipo conosciuto come “pseudo-chiota” è in alcuni casi intuibile. La presenza di questo tipo di contenitori a Caronia era già stata accertata in altri contesti tutti ancora inediti. Esemplari di anfore “pseudo-chiote” sono stati osservati infatti in un contesto di crollo nell’area della Stazione Ferroviaria non esplorato sistematicamente. 67 Appartengono al tipo di produzione locrese o calabroionico riconoscendosene il tipico impasto, sebbene in questo caso le superfici siano fortemente degradate dalla permanenza in ambiente umido. Qui alle grecooccidentali si accompagnano alcuni esemplari di anfore corinzie B di probabile produzione corcirese con argilla di colore giallastro. Due esemplari di bordo sono stati rinvenuti nell’area di uno sbancamento in c.da Fiumara che ha messo in luce non solo un insediamento preistorico, ma anche uno strato di materiali ceramici databili prevalentemente al IV secolo a.C. Uno degli esemplari è probabilmente di produzione siciliana (area del messinese?) per via delle caratteristiche dell’argilla, di colore arancio.68 Frammenti di “pseudo-chiote” a pasta arancio o beige chiaro sono stati osservati anche sulla collina di Caronia. Diversi esemplari frammentari, infine, sono presenti nel sito indigeno ellenizzato di Pizzo Cilona, nell’entroterra caronese, frequentato dalla fine del VI o inizi V secolo alla prima metà del IV secolo a.C.69 Stranamente, a fronte di questi rinvenimenti avutisi fuori da contesti di scavo sistematico, non si ha notizia di esemplari rinvenuti negli scavi eseguiti con metodo scientifico degli anni ’90 del secolo scorso a Caronia, né in quelli più estesi condotti in c.da Pantano a Marina di Caronia tra il 1999 e il 2005. Le anfore “greco-occidentali” si iniziarono a produrre in epoca tardo-arcaica e raggiunsero la massima diffusione nel corso del V e fino alla metà del IV secolo a.C., perdurando probabilmente sino alla fine di questo secolo quando si evolvono in altre tipologie anforarie, ad esempio nelle MGS III. 70 E’ ormai attestata una produzione nel Mediterraneo centro-occidentale (Sicilia, penisola italiana e sud della Francia). Se il sito maggiormente indiziato appare Locri, essendo similari le caratteristiche degli impasti rispetto alle produzioni ceramiche di quella città e, più in generale, dell’area medio-calabrese, l’analisi macroscopica delle argille, di diverso tipo in realtà, ne ha comunque fatto risalire la produzione a diversi centri, ad esempio nella Calabria, in Campania e nella stessa Sicilia. Recentemente, analisi al microscopio eseguite su campioni di diversa provenienza, hanno chiarito meglio la questione, confermando le produzioni locresi ed aggiungendovi quelle di diversi altri centri siciliani, tra cui Agrigento, Gela e Selinunte.71

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Cap. 4, pp. 199-200 Cap. 7, p. 280, fig. 12 69 Vedi: Approfondimenti, Il phrourion di Pizzo Cilona in questo volume 70 Gassner 2015 71 Barone et alii 2006 68

Cfr. Ramòn 1995, p. 260 (gruppo “Mozia-Sicilia occidental”)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia nelle anfore massaliote presenta, per caratteristica, una cavità interna ricavata al momento dell’avvolgimento verso l’esterno del corpo argilloso per creare il bordo bombato, in alcuni casi presente tuttavia anche nelle anfore “pesudo-chiote”. In effetti, sia le anfore massaliote, sia le “ionio-massaliote” che le “pseudochiote” rientrano in un grande gruppo che sembra essersi sviluppato forse a partire dalle anfore Corinzie B arcaiche nella metà del VI secolo a.C. Le caratteristiche principali (dimensioni, forma del corpo, del bordo e delle anse) vennero riprese in diversi centri di produzione sparsi nell’Occidente greco, all’inizio con leggerissime differenze, che si resero più evidenti in età classica avanzata. La questione, pertanto, interessa soprattutto l’individuazione dei centri di produzione sulla base delle caratteristiche delle argille impiegate. Sicuramente fabbriche esistevano in Campania, in Calabria e in Sicilia. Analisi archeometriche eseguite recentemente 72 per esemplari rinvenuti in Sicilia hanno individuato due tipi d’impasto utilizzato, uno compatibile con una provenienza dall’area calabro-peloritana, l’altra di incerta definizione (Agrigento, Gela e Selinunte). Un altro studio73 eseguito su esemplari rinvenuti negli scavi presso il sito di Molino a Vento a Gela ha proposto la compatibilità con una produzione locale, distinguendo inoltre differenti caratteristiche tra esemplari più antichi e più recenti, i primi (VI secolo a.C.) caratterizzati da una composizione più grossolana con cottura a meno di 900 gradi, i secondi con una grana più fine, superficie schiarita e cottura superiore ai 900 gradi. Tenuto conto della poca chiarezza e univocità nella classificazione delle anfore “greco-occidentali” più volte tentata dagli studiosi, non possiamo che inquadrare genericamente nell’arco di tempo compreso tra la seconda metà del VI e la prima metà del IV secolo a.C. gli esemplari rinvenuti a Caronia Marina, che effettivamente presentano tra loro diverse varianti nelle parti conservate, non solo a livello di impasti ma soprattutto nei profili. Purtroppo manca il conforto della ricostruzione complessiva di ogni anfora, della quale la parte meglio conservata è sempre il bordo e parte del collo in corrispondenza dell’attacco delle anse. Non può essere di definitivo riferimento cronologico il materiale vascolare rinvenuto in associazione, ovviamente rimescolato dopo l’asportazione del terreno per lo sbancamento, sebbene la maggior parte degli esemplari provengano da un tumulo contenente soprattutto ceramiche databili dall’ultimo terzo del VI alla seconda metà del V secolo a.C. Dallo stesso cumulo, peraltro, provengono anche l’esemplare di anfora Corinzia A di fine VI-inizi V secolo a.C. e il puntale di probabile anfora massaliota di pari datazione. Bordi di “greco-occidentali” con argilla sia di colore arancio che beige pallido, sia con listello che con incavo, sono stati rinvenuti in un tumulo diverso contenente materiale vascolare misto di V e IV secolo a.C., comprendente anche un bordo di anfora Corinzia A’ e un puntale di Corinzia B.

Fig. 11. Frammenti di anfore greco-occidentali o “pseudochiote” (V – prima metà IV secolo a.C.)

Le anfore cosiddette “pseudo-chiote” ebbero larghissima diffusione lungo la costa settentrionale della Sicilia. Innumerevoli sono gli esemplari provenienti dagli scavi nella necropoli di Milazzo, da Messina e da Himera (necropoli e abitato). Pare quasi che si trattasse del contenitore da trasporto più diffuso a cavallo tra V e IV secolo a.C. La sua larga diffusione era legata senz’altro alla grande produzione vinaria di diverse aree della Magna Grecia e della Sicilia. La forma di queste anfore è caratteristica e ben riconoscibile: corpo ampio e allungato con puntale a bottone, anse a sezione ovale estesa, collo rigonfio (che ne ha determinato il nome per affinità con le anfore di Chios), orlo a cuscinetto esterno tendenzialmente concavo all’interno, sottolineato di frequente da un incavo presente in basso in corrispondenza dell’attacco delle anse. Nell’inquadramento di questo tipo di anfore, nel corso degli anni gli studi non sono riusciti per la verità a definire una tipologia univoca che permetta di stabilire una cronologia precisa degli esemplari in base alle loro caratteristiche formali. Si continua a distinguere, all’interno della categoria delle anfore “grecooccidentali” tra “ionio-massaliote”, più antiche e prodotte a partire dal VI secolo a.C., e “pseudo-chiote”, inquadrate tra V e IV secolo a.C. La distinzione tra i due tipi riguarderebbe sia il profilo del bordo che la forma del collo, che nelle prime è perfettamente cilindrico mentre nelle seconde appare bombato, in maniera simile alle anfore propriamente chiote. Il bordo appare simile nei due casi, esternamente a cuscinetto, ma la presenza di un listello nell’attacco al collo, tipico delle “ioniomassaliote”, non sembra risultare sempre attendibile ai fini di un inquadramento cronologico, sebbene negli esemplari di seconda fase, a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., il listello sia generalmente sostituito da una gola più o meno profonda. Negli esemplari più recenti, il bordo appare inoltre più allungato e superiormente appuntito. Nella classificazione di Vandermersch, vengono presentati i disegni di due anfore MGS II la cui forma del corpo molto allungata le fa riferire a produzioni più tarde, tra la fine del V e il IV secolo a.C. Il termine “ionio-massaliota” qualifica un tipo anforario che formalmente presenta molte affinità con i contenitori prodotti a Marsiglia tra VI e V secolo a.C., tra cui il corpo panciuto e il bordo a cuscinetto rigonfio, che

72 73

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Barone et alii 2006 Barone 2002

Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero Le anfore greco-occidentali sono, come detto, il tipo maggiormente presente nella discarica in contrada Pantano. Si tratta senz’altro del tipo di contenitore da trasporto più diffuso in Sicilia, in particolare nella parte settentrionale, e in Calabria nel corso del V e fino alla metà del IV secolo a.C. A ciò contribuì la larga produzione di questi manufatti proprio in quell’area geografica74 ed il loro impiego per il commercio del vino, le cui vie si sviluppavano principalmente lungo la penisola, mentre appare quantitativamente inferiore l’import-export con la Grecia continentale e il Mediterraneo occidentale. In particolare, si ricorda che per il VI-V secolo a.C. risulta assai ridotta la presenza di anfore occidentali ad Atene, dove sono stati incontrati sporadici frammenti di MGS II, che risultano poco più attestati, invece, a Corinto.75 Il rinvenimento di esemplari in siti storicamente noti come produttori di vino, tra cui la stessa Kalè Akté, ma per i quali è al momento da escludere una produzione locale di queste anfore, suggeriscono che esse venissero riutilizzate per il commercio della prelibata bevanda. La notevole produzione di anfore “pseudo-chiote” riconosciuta a Locri, ad esempio, doveva alimentare un commercio parallelo a quello del vino, nel senso che esse non servivano solo ad esportare quanto prodotto nel suo territorio, ma probabilmente erano acquistate da altri centri della Calabria e quantomeno della Sicilia nordorientale per immagazzinarvi il vino. D’altra parte, Locri e il settore della Calabria in cui la colonia greca è ubicata, si possono riconoscere come produttori su vasta scala di manufatti in terracotta. Ne è prova, proprio qui nel sito di Kalè Akté ed in altri della fascia centro-occidentale dei Nebrodi, la presenza di tegole a pasta chiara di più che probabile produzione “locrese” a giudicare dalle caratteristiche macroscopiche degli impasti molto vicine a quelle delle anfore. 76 Che non fosse proprio Locri o piuttosto qualche altro centro situato nella parte centromeridionale della Calabria, inquadrabile nella citata produzione calabro-peloritana di terrecotte tardo arcaiche e classiche, non cambia di molto la sostanza, poiché è da riconoscersi un vero e proprio mercato di manufatti in argilla, sia per l’edilizia che per usi connessi al trasporto e conservazione di derrate alimentari. I frammenti diagnostici di anfore dalla discarica hanno finora permesso di riconoscere diversi tipi di contenitori da trasporto. Tuttavia si segnala la presenza di numerosi frammenti le cui caratteristiche macroscopiche (colore dell’argilla, consistenza, presenza di specifici inclusi, accurata lavorazione delle superfici) non sembrano compatibili con nessuna di quelle che contraddistinguono gli stessi citati esemplari riconducibili a precise tipologie. Pertanto, non è da escludere che nella discarica siano attestate altre classi anforarie che, ad un primo esame, non sembrerebbero di produzione siciliana

e potrebbero appartenere anche a produzioni tardoarcaiche o classiche. Le anfore greche arcaiche e classiche riconosciute hanno provenienze diverse: Corinto in Grecia, forse il sud della Francia e soprattutto la Calabria e la Sicilia, in linea con i rinvenimenti noti dai centri greci della Sicilia settentrionale. E’ molto probabile che i contenitori corinzi siano passati dai mercati di Zancle prima di giungere qui, forse parte di carichi mercantili diretti verso Himera, analogamente al numeroso vasellame attico, anche di pregio, rinvenuto sempre nella discarica. Merita invece maggiore approfondimento la presenza di diversi esemplari di anfore fenicio-puniche, la cui esatta datazione, resa incerta dalla frammentarietà dei manufatti, potrebbe suggerire nuovi scenari nell’esercizio dei commerci lungo la costa tirrenica. La presenza di anfore di diverso tipo e provenienza attesta l’esistenza di scambi commerciali di discreto livello. Con i contenitori da trasporto qui non giungeva solo il vino (anfore greco-occidentali arcaiche e classiche, corinzie B, greco-italiche) ma anche olio (corinzie A e A’), 77 mentre è incerto il contenuto delle anfore fenicio-puniche, che poteva comprendere, oltre a vino e olio, anche granaglie, legumi o salsa di pesce. La presenza cospicua di anfore dai livelli di VIV secolo a.C. intercettati dallo scavo da cui proviene il terreno di discarica induce a riflessioni circa il tipo di struttura d’origine, probabilmente una serie di magazzini o centri di rivendita, sia più in generale sul ruolo dell’insediamento costiero che precedette la “nuova” fondazione di Kalè Akté ad opera di Ducezio nel 446 a.C. Tutto porterebbe a concludere che si trattasse di un avamposto commerciale probabilmente sviluppatosi da un fallito tentativo di insediamento urbano all’epoca in cui Zancle cercava un sito idoneo alla creazione di una subcolonia, che sarà effettivamente fondata molto più a ovest ad Himera. A metà strada tra i centri greci di Mylai e Himera, l’approdo calactino accoglieva navi in transito lungo la costa tirrenica, costituendo un favorevole punto di sosta e di smistamento di merci di vario tipo, in primis quelle contenute nelle anfore da trasporto, ovvero vino ed olio. Parte del carico sgombrato dalle navi era probabilmente destinato ad essere commerciato con i numerosi centri indigeni sparsi nelle alture che fronteggiano la costa e anche oltre, verso l’entroterra siciliano, in parte rimaneva per rifornire la comunità locale, la cui entità numerica al momento non può essere stabilita. La porzione di edificio arcaico-classico intaccata dallo scavo doveva essere quasi sicuramente adibita a funzioni commerciali, considerata la notevole quantità di anfore da trasporto in esso contenute, a cui tuttavia si associa vasellame da mensa di buona qualità, con importazioni dall’Attica e dall’Egeo, e da cucina, circostanza che suggerirebbe una funzione mista come luogo di deposito e rivendita di merci. Ad una funzione esclusivamente di magazzino dopo il IV secolo a.C. ricondurrebbe la scarsità di vasellame di età ellenistica in confronto alla presenza di diversi esemplari di anfore, soprattutto greco-italiche.

74 Nella sola Sicilia, sebbene analisi archeometriche siano state eseguite solo per alcuni esemplari, si possono annoverare fin qui come centri di produzione Messina e l’area dello Stretto, Gela, Selinunte, Agrigento e Himera 75 Lawall 2006. (tra VI e V secolo a.C. il commercio di anfore appare un fenomeno prettamente regionale nell’area Egea) 76 Vedi a seguire Appendice II

77

333

Koehler 1981

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia In effetti, l’area in cui si trovava Kalè Akté, praticamente al centro della costa tirrenica siciliana, non era lontana dagli emporia fenici dell’occidente isolano. Greci e Fenici dovettero frequentare queste contrade in un’epoca piuttosto precoce inizialmente alla ricerca di nuovi mercati costituiti dai centri indigeni preesistenti, sebbene i materiali presenti in alcuni di essi che si è avuto modo di studiare non mostrino segni di recepimento delle culture allogene e presenza di manufatti d’importazione prima della metà del VI secolo a.C. In effetti non è mai stata approfondita la questione della frequentazione di un ampio settore della costa settentrionale siciliana prima della nascita delle poleis attestate dalle fonti a partire dalla seconda metà del V secolo a.C. Quest’area dovette essere raggiunta ripetutamente non solo da genti greche, ma anche da quelle fenicie della Sicilia occidentale interessate a scambiare i propri prodotti più che a stabilirvisi con veri e propri abitati. Questo anche dopo l’ellenizzazione dei centri indigeni ricadenti nell’ampia fascia montuosa di Nebrodi e Madonie. Le anfore sono un indicatore importante di contatti tra popolazioni diverse e la presenza di diversi esemplari di anfore fenicio-puniche tra quelle contenute in stato frammentario nella discarica non riteniamo possa essere riferita totalmente a scambi mediati dai mercati imeresi. Un indizio sulla presenza di mercanti punici in queste contrade è suggerita dalla presenza, cui abbiamo accennato, di anfore puniche di V secolo a.C. nel sito indigeno di Monte Scurzi, circa 20 km ad est di Kalè Akté, dove peraltro sono molto radi i materiali anforari,78 indice a parere di chi scrive di una scarsa propensione agli scambi commerciali di questo centro fortemente radicato a tradizioni risalenti all’Età del Ferro. La nascita e il successivo sviluppo commerciale di Himera dovette giocare un ruolo importante nell’incremento delle attività mercantili dell’approdo di Kalè Akté, probabilmente a partire dagli ultimi decenni del VI secolo a.C. Tuttavia, l’assenza, quantomeno tra gli esemplari riconosciuti finora a Caronia, di determinate tipologie di anfore presenti nella colonia imerese provenienti da area egea (Chio, Samo, Thasos-Mende, Clazomene, Lesbo)79 o dall’Attica, qualifica il nostro sito come un semplice mercato di transito, con alcuni prodotti meno ricercati e più “commerciali” che rimanevano a disposizione della comunità locale o destinati agli abitati indigeni, più che come mercato finale di quelle importazioni. Quali navi giungessero a Kalè Akté, se provenienti direttamente dal porto d’origine o in via secondaria dalle colonie intermediarie di Zancle o Himera, è difficile a dirsi, anche se alcuni indizi, ad esempio l’assenza di anfore etrusche presenti invece a Mylai e Himera, induce a ritenere che nel nostro approdo sostanzialmente si svolgesse un traffico commerciale su scala regionale, quale si addice ad un semplice emporion piuttosto che a una vera e propria città con un elevato volume di richieste di beni.

Figg. 12-14. Anfore puniche e accessori: in alto ansa di contenitore a pasta chiara; al centro coperchio; in basso porzioni di anfora arcaica-classica con bordo verticale ripiegato (argilla rosso-bruno, superficie tendente al grigiastro con ingubbiatura giallognola)

Anfore più antiche della seconda metà del VI secolo a.C. come appaiono essere alcuni esemplari di contenitori tipo Ramòn T-10.1.2.1, potrebbero non essere state mediate dai mercati imeresi, in una fase in cui quella colonia occidentale non aveva ancora assunto il grande ruolo commerciale che ebbe fino alla sua scomparsa alla fine del V secolo a.C. Contenitori fenicio-punici di VIIVI secolo a.C. potrebbero essere stati portati qui direttamente da navi provenienti da Solunto o Panormos, poiché non è da escludere che i mercanti fenicio-punici si spingessero molto ad est per commerciare i loro prodotti.

78 A Monte Scurzi si sono riconosciuti, oltre ai contenitori punici, solo pochi frammenti diagnostici di anfore greco-occidentali 79 Vassallo 2003

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero

Tavola IV – Esemplari di anfore dalla discarica (vedi Catalogo)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tavola V – Esemplari di anfore dalla discarica: profili. Corrispondenze con la Tavola IV: a = 2; b = n.t. (vedi fig. 14.); c = n.t.; d = 4; e = 1; f = n.t.; g = n.t.; h = n.t; i = 7; l = n.t.; m = 8; n = 9 (Disegni: M.T. Distefano)

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Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero depurata, liscia in superficie. Seconda metà V secolo a.C. (Tav. V lett. n)

Catalogo dei materiali: anfore da trasporto 1. Bordo di anfora Corinzia A. Superficie piana con parte esterna leggermente concava. Argilla compatta di colore arancio (Munsell 10R5/14) con numerosi inclusi di pietrisco grigio, nero e biancastro. Corpo ceramico interno tendente al grigio. Ultimi decenni VI secolo a.C. (Tav. V lett. e)

Appendice II Note sugli elementi di copertura dei tetti rinvenuti nella discarica

2. Bordo di anfora punica arcaica tipo Ramòn 10.1.2.1.80 Profilo internamente convesso, esternamente contraddistinto da ripiegatura in corrispondenza della spalla. Argilla compatta di colore rosa-bruno (Munsell 2.5YR4/8) esternamente grigiastra (M. 10YR5/4). Minuscoli inclusi biancastri. Seconda metà VII prima metà VI secolo a.C. (Tav. V lett. a)

Una grande quantità di frammenti di tegole, soprattutto piane, era presente nel terreno esaminato da cui provengono i materiali arcaici e classici descritti in questo contributo. Si tratta di solenes e kalypteres quasi tutti con le stesse caratteristiche sia per tipologia formale che per le proprietà dell’argilla impiegata, costantemente di colore beige pallido. La datazione di questi elementi di copertura è stata dedotta da quella del materiale ceramico al quale si accompagnavano. I frammenti di tegole, infatti, erano stati estratti assieme a terreno contenente i livelli di VI e V fino alla prima metà del IV secolo a.C., caratterizzati peraltro dalla consistente presenza di materiali da costruzione impiegati nell’edilizia locale nelle fasi antecedenti l’età ellenistica (ciottoloni fluviali, spezzoni di conglomerato di natura alluvionale e di pietra calcarea bianca, mattoni crudi). Sono stati finora pochi gli studi sistematici sulle caratteristiche degli elementi di copertura delle case di età greca: se ci si è soffermati di più su quelli degli edifici templari o a destinazione pubblica in genere, i reports degli scavi nei normali complessi abitativi non evidenziano quasi mai le caratteristiche degli elementi con cui erano costruiti i tetti, naturalmente rinvenuti sempre in stato di crollo. Non è quindi possibile fare confronti con analoghi materiali rinvenuti negli scavi, almeno in Sicilia, ad eccezione di un interessante studio condotto recentemente su una struttura di epoca classica a Selinunte.86 La gran parte degli elementi di copertura esaminati è costituita da tegole piane (solenes), di cui purtroppo non si possono ricostruire le intere dimensioni. Le alette presentano due tipi di profilo, uno di forma arrotondata pressoché a quarto di cerchio (tipo A) e uno di forma più rastremata, quasi trapezoidale (tipo B).87 Nel primo caso, l’altezza è mediamente di 4,2 cm con una larghezza alla base di 5,2 cm. mentre lo spessore della parte piana è di 2 cm; nel secondo caso le dimensioni sono rispettivamente 5, 5,5 e 2,5 cm. In molti degli esemplari esaminati è presente una gola alla base dell’aletta, larga 1-1,5 cm, funzionale all’alloggiamento delle estremità del kalypter. Sono state inoltre rinvenute estremità di solenes con il tipico incavo per l’alloggiamento in successione, già noto in altro contesto a Caronia88 e in altri siti tardoarcaici – classici della zona (ad esempio a Monte Scurzi e a Gioiosa Guardia). Il rinvenimento di due frammenti combacianti ha permesso di stabilire che gli incavi all’estremità delle solenes erano lunghi 14 e alti 1,8 cm. I kalypteres (coppi), di forma

3. Bordo di anfora punica simile a Ramòn 10.1.2.1.81 Argilla molto depurata di colore arancio (Munsell 10R5/12) con stretto corpo interno grigiastro. Seconda metà VII – metà VI secolo a.C. 4. Bordo di anfora punica tipo Ramòn 10.1.2.1. 82 Profilo internamente convesso, esternamente contraddistinto da ripiegatura in corrispondenza della spalla. Argilla di colore arancio simile all’es. n. 3 con radi minuscoli frammenti micacei. Seconda metà VII – metà VI secolo a.C. (Tav. V lett. d) 5. Bordo di anfora greco-occidentale arcaica. Si conserva, oltre all’orlo, l’attacco dell’ansa e parte del collo cilindrico. Bordo bombato con listello inferiore. Profilo interno verticale. Argilla compatta di color cipria (Munsell 2.5R5/10) con schiaritura (M. 2.5YR7/10) nella parte interna del bordo. Minuscoli inclusi grigiastri e micacei. Ultimi decenni VI – inizi V secolo a.C. 6. Bordo di anfora greco-occidentale arcaica. Bordo bombato con listello inferiore. Profilo interno lievemente concavo in corrispondenza dello spigolo superiore. Argilla compatta di colore rosato (Munsell 2.5YR6/8) con schiaritura superficiale interna ed esterna (M. 7.5YR7/6). Piccoli inclusi biancastri, nerastri e micacei. Ultimi decenni VI – inizi V secolo a.C. 7. Bordo di anfora greco-occidentale (“pseudo-chiota”). Orlo a cuscinetto, inferiormente terminante in una netta gola in corrispondenza dell’attacco dell’ansa. Profilo interno verticale con estremità superiore tendenzialmente appuntita. Vacuolo di produzione interno. Argilla di colore beige pallido (Munsell 5YR7/8), più chiara in superficie. Minuscoli inclusi grigiastri e micacei, probabile produzione locrese.83 Fine V – prima metà IV secolo a.C. (Tav. V lett. i) 8. Bordo di anfora Corinzia A’. 84 Si conserva il bordo, caratterizzato da profilo declinante verso il basso con netta ripiegatura verso l’estremità inferiore, a contatto con l’ansa, di cui è conservata l’attaccatura. Produzione di Corinto. Argilla di colore beige pallido (Munsell 10YR6/6), esternamente tendente all’avorio (M. 7.5YR8/6). Innumerevoli inclusi di pietrisco di colore grigiastro/marrone con numerosi vacuoli. Metà V secolo a.C. (Tav. V lett. m) 9. Puntale di anfora Corinzia B.85 Parte inferiore del contenitore concavo ed espanso con breve puntale di forma troncocilindrica con cavità interna. Probabile produzione corcirese. Argilla di colore beige pallido (Munsell 5YR7/8) molto 80

Ramòn 1995, p. 461, fig. 108, n. 17 Ramòn 1995, p. 461, fig. 108, n. 6 (?) 82 Ramòn 1995, p. 461, fig. 108, n. 10 83 Barra Bagnasco 2001 84 Koehler 1981, pl. 99 lett. g 85 Koehler 1981, pl. 99 lett. c 81

86

Jonasch 2009 Entrambi i tipi sono attestati in misure analoghe, con una leggera prevalenza del tipo A 88 Area Stazione FF.SS. 87

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Alcune caratteristiche osservate nei frammenti consentono di risalire al metodo di realizzazione. Il fatto che la superficie inferiore delle solenes presenti evidenti segni di lavorazione e di spianamento con strumenti che hanno lasciato impronte a striscia e il fatto che essa non sia quasi mai perfettamente piana come quella superiore ma tenda leggermente a curvarsi verso l’interno suggerisce che il manufatto venisse realizzato stendendo l’argilla in un’apposita forma con il profilo delle alette già esistente in negativo nello stampo. Gli incavi inferiori presenti su una delle estremità delle tegole erano realizzati a mano togliendo l’argilla eccedente. Il tipo di tetto corrisponde a quello tradizionalmente e genericamente definito “siceliota” per la presenza di coppi convessi e non poligonali, con solenes affiancate sui lati lunghi e kalypteres sovrapposti alle alette giunte delle tegole piane. Non sappiamo cosa fosse presente sul margine dello spiovente a trattenere le tegole così sistemate, ovvero a terminare la testata, ma sicuramente non antefisse o altri elementi decorati, di cui non si è rinvenuta traccia. E’ probabile che le tegole fossero trattenute all’estremità del tetto da travi di legno. Naturalmente anche in questo caso lo strato di tegole doveva poggiare su una intelaiatura di travi e tavole lignee, di cui non è rimasta traccia. La mancanza di coppi di colmo tra i frammenti presenti nella discarica fa presumere che l’edificio a cui si riferiscono le tegole avesse un solo spiovente, a meno di non pensare che quando fu fatto lo scavo da cui proviene il terreno sia stata intercettata solo la parte più avanzata degli ambienti. La tipologia di tegole dalla discarica trova confronti, a Caronia, in un contesto identificato nell’area della Stazione Ferroviaria, databile, in base ai materiali ceramici e alle anfore associate, nel corso del V secolo – prima metà del IV secolo a.C. 89 Qui un fitto strato di crollo di tegole piane e curve poggiante su uno strato di pietrame da costruzione del tutto identico al materiale edilizio presente nella discarica è probabilmente quanto resta di un edificio di incerta funzione posto sul margine est del torrente S. Anna, in posizione piuttosto periferica. Le solenes, di cui ancora una volta è impossibile determinare le dimensioni complessive, presentano alette con profilo trapezoidale con la parte interna arrotondata terminante in una gola accennata. L’altezza delle alette è in media di 4 cm e la larghezza alla base di 5 cm., mentre lo spessore della parte piana è di 1,8 – 2 cm. Relativamente all’argilla, si sono distinti due tipi: una di colore beige pallido (M. 7.5YR8/6) con molti inclusi di piccole dimensioni (quarzite, pietrisco rossastro e nerobruno, poca mica) e vacuoli e l’altra di colore rosato (M. 2.5YR6/10), beige chiaro in superficie (M. 5YR7/10), compatta e con minuscoli inclusi (quarzite, pietrisco rosso-violaceo e nerastro, pochissima mica). Non sono invece note le caratteristiche di eventuali tegole frammentarie antecedenti il III secolo a.C. dai saggi di approfondimento in occasioni delle indagini in contrada Pantano 2003-2005 né è stato possibile fare confronti con esemplari dalla collina di Caronia, per il primo secolo di vita della città di Ducezio.

molto semplice, presentano estremità ad angolo retto e uno spessore medio di 2 cm. Anche in questo caso non se ne può stabilire la lunghezza, mentre la larghezza è stimabile in 14-15 cm. Per ciò che riguarda le caratteristiche dell’argilla, il colore è generalmente beige pallido, talvolta tendente al giallino. Un solo frammento ipercotto presenta una colorazione grigiastra. I valori di riferimento sono soprattutto Munsell 10YR7/6, ma anche M. 2.5Y8.6 o tendente al cipria M. 5YR7/8. I numerosi inclusi di piccole dimensioni comprendono quarzite e pietrisco bruno-violaceo; poca la mica. La consistenza delle argille, in cui sono presenti vacuoli, fa si che la linea di frattura non sia netta e che il corpo del manufatto tenda a sbriciolarsi.

Fig. 15. Frammenti di tegole estratti da alcuni cumuli della discarica

Fig. 16. Profili e misure medie delle tegole dalla discarica: in alto, solenes di tipo A e B; in basso, kalypter

89

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Vedi Cap. 4. Ricerche in area urbana II. La città costiera

Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero

Figg. 17-19. Esemplari frammentari di solenes con listello a quarto di cerchio(tipo A) e trapezoidale (tipo B) e di kalypter

Un ulteriore confronto è stato fatto con gli elementi di copertura presenti sul soprassuolo di Monte Scurzi (Militello Rosmarino), sito di un insediamento indigeno risalente già alla fine dell’Età del Bronzo e in vita fino alla seconda metà del V secolo a.C., ellenizzato a partire dalla metà del VI secolo a.C. Qui, se l’abitato si distribuiva sui fianchi est, sud e sud-est dell’altura, le tegole di tipo greco sono presenti solo sul versante occidentale, dove dal terreno affiorano resti di strutture murarie e accumuli di mattoni crudi. Le tegole piane presentano caratteristiche similari a quelle della discarica in argomento, con alette sui lati lunghi a profilo semicircolare o trapezoidale, frequente breve gola alla base di esse e incavi sotto una delle estremità corte. Il colore dell’argilla è variabile, dal beige pallido (M. 7.5YR8/6 – 7.5YR7/8) al rosato-cipria con molti inclusi comprendenti quarzite, pietrisco brunastro e poca mica. L’altezza delle alette delle solenes è mediamente di 4,5 cm, la larghezza costantemente di 5 cm. Anche in questo caso sono presenti incavi sottostanti le alette su un’estremità della tegola. Si ritiene che questi elementi di copertura fossero pertinenti ad un gruppo di case più evolute rispetto alla maggior parte degli ambienti domestici di Monte Scurzi, che presentavano copertura di tipo tradizionale in argilla ed elementi vegetali e dovrebbero datarsi al V secolo a.C. La stretta similitudine formale con le tegole da Caronia fa ipotizzare che esse siano giunte in questo abitato provenienti proprio da Kalè Akté, insediamento greco più prossimo, dove a loro volta giungevano via mare da Zancle . E’ stato fatto un confronto con gli elementi di copertura esaminati nel recente contributo di M. Jonasch relativo ad un edificio scavato ai margini dell’agorà di Selinunte 90 per individuare analogie sui materiali. L’ambiente là portato in luce si data già al VI secolo a.C. e ristrutturato nel corso del secolo successivo. Lo strato di crollo della tettoia, a doppio spiovente, è stato datato ad età classica. Le solenes presentavano alette laterali arrotondate internamente, alte 5,5 cm. e larghe alla base 7 cm., mentre l’intera dimensione delle tegole è di 57 x 80 cm. con un peso di 24 chili; una scanalatura o incavo nella parte terminale delle alette era funzionale alla sovrapposizione dei diversi elementi. I coppi,

semicircolari o poligonali, sono larghi 20 cm e lunghi 80 cm. Infine le argille variano dal verdastro, con struttura vacuolosa e frattura irregolare, al rosato con piccoli inclusi neri e bianchi, più compatte. Tenendo conto di queste specificazioni, è da escludere una provenienza delle nostre tegole da Selinunte, ipotesi del resto poco probabile di per sé per la distanza tra i due centri e per la mancanza assoluta di attestazioni di rapporti commerciali tra le due aree: quelle da Caronia appaiono infatti più piccole, non superando probabilmente una lunghezza di 65 cm. e una larghezza di 45 cm. Un confronto è stato fatto infine anche con le tegole da Himera, colonia che si ritiene abbia intrattenuto rapporti con Kalè Akté e il suo territorio fino alla data di distruzione (409 a.C.) per via del rinvenimento, sia in area urbana che nella chora, di materiali di sicura produzione imerese. Dei campioni studiati scientificamente delle produzioni imeresi di laterizi, 91 solo uno (HIM-REG-CBM-1) è stato preso in considerazione perché appare simile ad un tipo di tegole sporadicamente rinvenuto nel contesto della Stazione Ferroviaria, caratterizzato da argilla di colore rosaarancio con inclusioni di quarzite, mica, carbonato di calcio e altro pietrisco brunastro e ferroso. In assenza di altri confronti per la Sicilia, si è quindi presa in considerazione la concreta possibilità che i manufatti presenti nella discarica abbiano, in base alle caratteristiche macroscopiche, una provenienza dalla Calabria o al più dall’area di Messina. In particolare si è fatto riferimento alle produzioni locresi, esportate su una vasta area comprendente la Magna Grecia e la Sicilia da epoca arcaica a epoca ellenistica, studiate da alcuni decenni e che presentano caratteristiche fisiche ben riconoscibili. Per ciò che riguarda gli elementi di copertura dei tetti in uso a Locri, almeno in età ellenistica, Barra Bagnasco 92 informa che le case presentavano tetti di tipo misto o siceliota con solenes grandi mediamente 90 x 58 cm, che mostravano alette laterali alte 6-7 cm e spessore del corpo di 3 cm, e kalypteres di tipo laconico (convessi) larghi 16-18 cm e alti 7,5-8,5 cm, con variazioni nelle misure anche di 2-3 cm tra i vari esemplari esaminati.

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Jonasch 2009

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FACEM – http://facem.at/him-reg-cbm Barra Bagnasco 1992

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia una delle più riconoscibili per le sue caratteristiche costanti e ricorrenti: oltre al colore, nella maggior parte dei casi distribuito nelle diverse tonalità del beige, la caratterizzano gli inclusi, comprendenti quarzite, pietrisco rossastro e brunastro nonché mica in quantità variabile. Spesso la consistenza granulosa dell’argilla era attenuata in superficie con uno strato di argilla fine più chiara. Queste caratteristiche ricorrono non solo nelle tegole, ma anche in altri manufatti dalla discarica di cui parliamo, tra cui parti di un mortarium e numerosi frammenti di contenitori ceramici: di probabile produzione locrese o in genere calabra sono molte porzioni di anfore, in particolare del tipo greco-occidentale e pseudo-chiota e di altri non identificabili in assenza di parti diagnostiche. I rapporti con Locri, mediati verosimilmente dalla madrepatria Zancle, sono in effetti attestati non solo dalle tegole, ma soprattutto dalle anfore da trasporto: abbondanti sono infatti i frammenti che presentano caratteristiche riconducibili alle produzioni locresi, sia per la colorazione delle argille, variabile dal beige pallidissimo al nocciola, sia soprattutto per gli inclusi, comprendenti quarzite, feldspati e molta mica (muscovite).93 In area nebroidea, gli unici insediamenti che sembrano presentare edifici abitativi con copertura stabile in tegole per il V secolo a.C. sono, oltre a Kalè Akté, gli abitati indigeni ellenizzati di Monte Scurzi (Militello Rosmarino) e Gioiosa Guardia (Gioiosa Marea). Nel territorio di Caronia, i piccoli insediamenti siculi finora individuati che insistevano sulle alture boscose che caratterizzano questa parte dell’isola (Pizzo Cilona, c.da Arìa e c.da L’Urmo) mostrano case prive di tettoie fisse, potendosi ritenere che fino ad epoca tarda fossero in uso sistemi di copertura di tradizione protostorica in materiale deperibile (argilla e fibre vegetali). In nessuno di essi, infatti, sono stati rinvenuti frammenti di tegole, tranne che per un edificio di probabile funzione cultuale sulla sommità di Pizzo Cilona, peraltro di incerta cronologia. Come accennato, a Monte Scurzi sono state osservate tegole molto simili, per caratteristiche formali e materiali, a quelle della nostra discarica. Le aree di concentrazione di questi manufatti fa peraltro ritenere che fino all’abbandono dell’insediamento, nella seconda metà del V secolo a.C., non tutte le case avessero tetti in tegole. Più evoluto in questo senso appare l’abitato di Gioiosa Guardia, dove pare che tutte le case portate in luce avessero coperture con uso di tegole di terracotta, le cui caratteristiche le fanno riferire a produzioni (e provenienze) diverse. L’esame delle caratteristiche formali delle tegole dalla discarica, analogamente a quelle osservate in altri siti siciliani che adottavano questi sistemi di copertura, consente di risalire alla struttura dei tetti delle case greche di età arcaica e classica. Ci riferiamo alla tipologia c.d. “siceliota” o ibrida con tegole piane e coppi di giunto. Le solenes erano sistemate su un’intelaiatura lignea a partire da quella più avanzata, verosimilmente priva di incavi sotto le alette. Quelle che le seguivano verso l’alto erano appoggiate su queste utilizzando l’apposito incavo inferiore e così via fino alla sommità. In questo modo,

Figg. 20-23. Analisi macroscopica degli impasti in sezione. Dall’alto in basso: sezione corrispondente all’aletta (Munsell 7.5YR7/8); sezione di parte centrale (M. 7.5YR7/8); sezione di parte centrale (M. 2.5YR5/10); veduta in frattura di tegola ipercotta (sezione M. 5YR4/4)

L’argilla presentava una colorazione variabile dall’arancio al giallo pallidissimo, tipico delle terrecotte locresi, compresa la coroplastica. La terracotta locrese è

93

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Barra Bagnasco et alii 2001

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344

IL

DECRETO ONORIFICO TARDO-ELLENISTICO DA CARONIA RINVENIMENTO E RICOSTRUZIONE DEL CONTESTO D’ORIGINE Francesco Collura

(SEG LIX, 1102):

THE LATE HELLENISTIC HONORARY DECREE FROM CARONIA (SEG LIX, 1102): DISCOVERY AND RECONSTRUCTION OF THE ORIGINAL CONTEXT

The marble block with Greek inscription known as SEG LIX 1102 was found in the 2000’s on the northeastern slope of the hill of Caronia, within an uncultivated ground occupied only by old olive trees and actually used for pasture. As happened for many materials from the Hellenistic-Roman city of Kale Akte – Calacte, the discovery of the precious epigraph occurred fortuitously and out of context. The place of the finding, considered in itself and with reference to the supposed urban structure of Kale Akte, can help to trace back to its original context, which should be public. The inscribed marble block, in fact, had to be inserted into the wall of some public building, probably in the agora of the Hellenistic city. Several evidences and the studies conducted by the author on the organization of the hilly town suggest that the public area was located in correspondence to the today’s Via Ducezio - Piazza San Francesco, in the northeastern part of the hill. According to the few but significant findings, the main public buildings of Kale Akte (agora with “stoai”, bouleuterion, sanctuaries, ecc.) seem to be located on the top and along the eastern part of the hill. It's clear that to identify the type and the site of these monuments, based on the current state of knowledge, is virtually impossible and we can only assume their existence by analogy with other Hellenistic centers, especially those placed on hills along the Sicilian northern coast, considering however that even in those sites, explored more or less systematically (e.g. Tyndaris, Apollonia, Halaesa, Kephaloidion, Thermai Himeraiai), remain many gaps in the knowledge of the urban structure. In addition to the agora, public space present in all the ancient Greek cities, we should also assume, just according to the text of the inscription, the existence of an indoor building for government meetings (bouleuterion or odeon) and of a sanctuary of Apollo in the same top-eastern area of the hill. Il blocco marmoreo con iscrizione greca SEG LIX 1102 fu rinvenuto casualmente nel novembre 2003 sul versante nord-orientale della collina di Caronia, all’interno di un terreno incolto, occupato solo da alberi di ulivo e ormai destinato a pascolo di ovicaprini. Come è accaduto per molti materiali della città ellenistico-romana di Kalè Akté – Calacte,1 il recupero della preziosa iscrizione è avvenuto fortuitamente e fuori contesto. Il blocco iscritto giaceva infatti sul piano di campagna in un’area dove erano scivolate da monte numerose pietre da costruzione, mattonacci e tegole frammentarie, oltre a innumerevoli frammenti ceramici di varie epoche, principalmente dal IV secolo a.C. alla prima età imperiale, a seguito non solo di eventi naturali ma probabilmente anche come conseguenza di recenti lavori agricoli (tracciamento di strade che hanno intaccato profondamente il pendio) ed edilizi (ampliamento di un caseggiato rurale nel pendio immediatamente soprastante). Nello stesso settore in cui giaceva il blocco iscritto di cui parliamo si sono rinvenuti anche un piccolo frammento di iscrizione su lastra marmorea, probabilmente in lettere greche di grandi dimensioni di cui si conservavano solo gli apici e pertanto non riconoscibili, e parte di un’altra lastra, sempre in marmo, sul cui margine si conservava un omicron (O) o un sigma lunato (C).2

L’iscrizione marmorea, del cui rinvenimento fu data comunicazione al Sindaco di Caronia, venne proposta all’attenzione di G. Scibona, allora impegnato nelle ricerche in corso presso il vicino sito di Halaesa, il quale, dopo un primo personale esame sul manufatto originale, ne fece delle fotografie che inviò a G. Manganaro. L’iscrizione, pertanto, rimase sempre in possesso dello studioso messinese fino alla sua morte, avvenuta nel 2009. Successivamente, chi scrive contattò la consorte di Scibona, prof.ssa C. Giuffrè, per la restituzione dell’epigrafe, che fu prontamente consegnata alla Responsabile del Servizio Archeologico della Soprintendenza di Messina, dott.ssa G. Tigano. Pertanto, né Manganaro, né successivamente Battistoni, che prontamente hanno curato a più riprese una prima pubblicazione del testo greco, 3 hanno avuto la possibilità di visionarlo direttamente. Il luogo di rinvenimento, in sé considerato e visto nel quadro più generale della vicenda urbanistica della città collinare di Kalè Akté,4 può essere d’aiuto alla 3

Manganaro 2009; Battistoni 2010; Manganaro 2011. Ricordiamo che la città antica, quantomeno per la fase compresa tra metà V secolo a.C. e I secolo d.C., caso piuttosto raro almeno in Sicilia, si articolava in due abitati distinti ma complementari, uno sulla costa e l’altro sulla collina retrostante, separati da un tratto di pendio continuo, ampio in linea d’aria circa 1 km. Alla preesistenza di un possibile emporion arcaico in corrispondenza dell’odierna Marina di Caronia, attestato finora dal rinvenimento di materiali ceramici di produzione greca databili almeno alla fine del VII secolo a.C., segue infatti la città di Ducezio, creata su un’altura ben difendibile secondo caratteristici criteri abitativi di ascendenza indigena. Se in età ellenistica il centro collinare fu il vero cuore politico, sociale e culturale di Kalè Akté, rimanendo quello marittimo un quartiere con funzione prettamente commerciale, in età imperiale la Calacte di cui parlano le fonti è la città costiera, dopo l’abbandono, probabilmente per cause naturali (terremoto) del quartiere collinare. 4

1

Per una prima selezione dei materiali da ricognizione nel sito della città antica, vedi Cap. 3. Ricerche nell’area urbana I: l’abitato collinare 2 Nel corso di numerosi sopralluoghi condotti nei pendii sottostanti la cittadina moderna, occupati da fondi agricoli in gran parte incolti e abbandonati da decenni, si sono osservati innumerevoli materiali che coprono un lunghissimo arco di tempo, dal V secolo a.C. ad età medievale, che attestano l’ininterrotta continuità di vita nella collina di Caronia, protrattasi sino ad oggi. I frammenti iscritti di cui si dà notizia e i materiali di tipo architettonico, frequentemente in pietra calcarea proveniente dalle cave dei vicini centri antichi di Apollonia e Halontion, appaiono concentrati entro un’area ben delimitata, corrispondente al versante nord-orientale (contrade sotto S. Francesco e Telegrafo).

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia ricostruzione del contesto di origine, che dovrebbe essere verosimilmente pubblico. Il blocco, infatti, doveva essere murato nella parete di qualche edificio comunitario, verosimilmente nell’agorà della città ellenistica. Diversi indizi e studi condotti da chi scrive sulla struttura urbana della città collinare5 inducono a ritenere che l’area pubblica calactina sorgesse in corrispondenza delle attuali via Ducezio e piazza S. Francesco, nella parte nord-orientale ed eminente dell’altura. Qui, nell’area di piazza S. Francesco e delle case che costeggiano la parte terminale di via Ducezio, è peraltro verificabile tutt’oggi l’esistenza di una spianata, sicuramente artificiale, di forma rettangolare orientata nord-sud, lunga almeno 45 metri e larga tra 15 e 25 metri, verso cui in antico doveva risalire la plateia principale della città ellenistica, parzialmente ripercorsa dalla viabilità medievale e moderna. Nei pendii immediatamente sottostanti si sono avuti, in passato, alcuni rinvenimenti significativi in tal senso, tra cui una base di colonna in pietra calcarea (rinvenuta sporadica nelle campagne di c.da Telegrafo), oggi conservata presso il locale Palazzo Cangemi, alcuni blocchi litici squadrati di grandi dimensioni, frammenti di elementi architettonici in marmo o pietra calcarea. Scibona6 inoltre riferiva del rinvenimento di un braccio di statua marmorea lungo la stradella campestre sottostante la Chiesa di S. Antonio sul lato nord (c.da Telegrafo). Nessun intervento di scavo ha finora interessato quest’area, occupata da case e dalla seicentesca Chiesa di S. Antonio. È ipotizzabile per l’età ellenistica l’esistenza di una piazza, sostenuta da muri di contenimento nella parte avanzata, con portico retrostante, secondo modelli in voga nel medio-tardo ellenismo in altri centri d’altura della Sicilia settentrionale, come Solunto e Halaesa. Peraltro, con il primo centro, sono ravvisabili strette similitudini proprio nella scelta dell’area pubblica, ubicata su una terrazza con vista panoramica su un punto esposto della collina.7 In base ai pochi ma significativi ritrovamenti, la sommità e la parte orientale dell’altura sembrano avere ospitato i principali edifici pubblici di Kalè Akté. L’area in cui sorge il Castello normanno, in cima alla collina, purtroppo risulta poco indagabile non solo per via della sovrapposizione delle strutture medievali, ma anche per i rimaneggiamenti del terreno sia in concomitanza della costruzione della fortezza che nei secoli successivi, tanto che i terreni circostanti le mura risultano quasi del tutto archeologicamente sterili. Tuttavia, la conformazione dell’altura rende plausibile l’esistenza di edifici eminenti

in età classica, forse dello stesso santuario di Apollo citato nel decreto in questione, in maniera similare alla cima della collina in cui sorge Halaesa. La presenza di edifici monumentali in questo settore della collina è suggerita dai riutilizzi visibili nelle murature della Chiesa di S. Antonio, comprendenti molti grandi blocchi di pietra calcarea bianca (non presente nel territorio di Caronia), di arenaria locale e dei caratteristici mattonacci che caratterizzano l’edilizia calactina tra il medio ellenismo e l’età imperiale. Oltre all’ipotizzata agorà a nord-est del castello, strutture pubbliche dovevano forse sorgere nell’area oggi occupata dalla Chiesa Madre o di S. Nicolò. L’edificio di culto cristiano, la cui struttura originaria risalirebbe al XII secolo8 forse su preesistenti resti di una più antica chiesa, occupa un terrapieno ben evidente, contenuto sul lato orientale da un tratto conservato delle fortificazioni medievali. Riferibili a quest’area si segnalano alcuni interessanti materiali rinvenuti sul piano di campagna del pendio sottostante, tra cui una meridiana solare in pietra calcarea e un gruppo di stucchi decorati pertinenti ad un ricco edificio tardoellenistico di incerta funzione (pubblico o privato?).9

5

Vedi Cap. 3. Ricerche nell’area urbana I. Comunicazione personale A Solunto, su un’altura dalla conformazione molto simile a quella di Caronia, l’intera area pubblica è situata nel settore di nord-est, comprendendo non solo l’agorà, ma anche una grande cisterna pubblica e, su un livello superiore, il ginnasio, il teatro e l’odeon. Una tale organizzazione sembra essere stata adottata anche ad Halaesa, dove accanto alla piazza è stata localizzata una cisterna pubblica non ancora scavata e andrebbe cercato anche il bouleuterion. L’adozione di espedienti urbanistici similari in molti centri di età ellenistica non solo siciliani, ma anche di area egea, sembra rispondere a modelli consolidati un po’ in tutto il Mediterraneo, almeno per i centri d’altura. Anche per la città collinare di Kalè Akté è ipotizzabile l’esistenza di edifici comunitari nel settore compreso tra l’area oggi occupata dal Castello normanno e quella della citata piazza S. Francesco, tra cui anche il bouleuterion o altro edificio per riunioni pubbliche cui fa riferimento il Decreto in argomento.

6 7

Figg. 1-2. In alto, veduta del versante nord-orientale della collina di Caronia; in basso, localizzazione del sito di rinvenimento dell’iscrizione e individuazione del probabile areale di provenienza

8

Fiore 1991. I materiali citati nel testo, come altri descritti in varie parti del volume, sono stati rinvenuti sporadicamente sul piano di campagna, all’interno di fondi agricoli in gran parte abbandonati. Attualmente si trovano nei depositi della Soprintendenza di Messina, a cui sono stati regolarmente consegnati come previsto dalle normative in materia. 9

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Il decreto onorifico SEG LIX 1102: rinvenimento e ricostruzione del contesto d’origine Infine, sempre da questo versante proverrebbe uno scarico votivo asportato molti decenni addietro dal contesto d’origine (area via Montello?) e depositato come discarica in c.da sotto S. Francesco, pertinente molto probabilmente ad un area sacra attiva in età ellenistica (III-II secolo a.C.) dedicata al culto di Demetra e Kore e forse anche di Hermes.10 È ovvio che identificare il tipo e il sito degli edifici pubblici di Kalè Akté, allo stato attuale delle conoscenze e basandosi sui pochi indizi costituiti dai ritrovamenti, tutti fuori contesto, è praticamente impossibile e se ne può solo ipotizzare l’esistenza per analogia con altri centri ellenistici, soprattutto d’altura, della fascia settentrionale siciliana, considerando peraltro che anche in quei siti esplorati più o meno sistematicamente rimangono molte lacune nelle conoscenze. All’esistenza dell’agorà, spazio pubblico presente in tutte le città antiche, si dovrebbe affiancare quella di un luogo coperto per le riunioni di governo (un bouleuterion o un odeon)11 e naturalmente di luoghi di culto di diversa monumentalità (templi colonnati o più semplici edifici ma con peculiari caratteristiche architettoniche). Si può ipotizzare l’esistenza di una cisterna pubblica, come a Solunto12, Tyndaris13 e probabilmente Halaesa.14 Meno probabile la presenza di un teatro, ipotesi comunque non del tutto da escludere. In ogni caso, la persistenza abitativa sulla collina non deve avere consentito la conservazione di resti consistenti, se non a livello di fondazioni occultate da edifici posteriori, per cui un documento ricco di informazioni come il decreto in argomento, che fa esplicito riferimento ad un santuario urbano (di Apollo) e fa ritenere verosimile l’esistenza di un bouleuterion/odeon in cui dovevano riunirsi gli organi di governo citati (Boule e Assemblea dei cittadini) assume un’importanza notevole per la comprensione dell’assetto urbano-monumentale della città ellenistica. La localizzazione dell’agorà di Kalè Akté nell’area descritta, oltre che sulla base dei pochi indizi materiali finora noti, tra i quali rivestirebbe grande importanza la nostra epigrafe, se effettivamente è da là che proviene, risponde a tendenze di organizzazione urbana ben note nel tardo ellenismo nei centri della Sicilia settentrionale e deriverebbe da modelli affermatisi nei centri microasiatici, in particolare in quelli d’altura. In Sicilia, esemplari appaiono i casi delle agorai di Solunto, Thermai Himeraiai, Halaesa e probabilmente Apollonia15.

Nei primi tre centri, scavi più o meno sistematici hanno messo in luce piazze di forma allungata, dotate di stoai, attraversate o affiancate dalla strada principale, con espedienti architettonici che aumentavano la spettacolarità degli impianti, sempre costruiti su terrazze panoramiche. Queste agorai si datano generalmente nel II secolo a.C. o agli inizi di quello successivo, in una fase che possiamo definire “matura” di modelli già in uso nel Mediterraneo orientale. Nel nostro caso, considerata la morfologia odierna dei luoghi, pesantemente modellata da interventi antichi, riteniamo più che plausibile un impianto dell’area pubblica calactina sul versante di nordest della collina ed una sua organizzazione similare a quella delle città prima citate, sebbene la conformazione complessiva di questo settore dell’altura non escluda la presenza di una seconda piazza collegata alla prima subito a ovest, nel tratto terminale di via Ruggero Orlando (area ex Giardino Mazara) (fig. 3).

Fig. 3. Ipotesi di localizzazione dell’agorà (nel caso di due piazze collegate) e della rete viaria nel settore nord

Naturalmente dobbiamo tenere in conto l’esistenza di una seconda agorà, in seguito forum, di tipo commerciale nel quartiere marittimo di Kalè Akté – Calacte, abitato direttamente collegato a quello collinare ma da sempre dotato di una propria identità quale principale riferimento mercantile della città per la presenza di un porto e della strada litoranea (via Valeria) che l’attraversava. In quest’ottica, l’agorà dell’abitato collinare avrebbe svolto puramente funzioni politiche, civili e religiose, ma non propriamente commerciali. La conoscenza delle tecniche edilizie in uso nella Kalè Akté di epoca ellenistica, evidenti da tutti gli scavi sistematici fini qui eseguiti e dagli affioramenti di strutture antiche a seguito di fenomeni naturali e lavori

10

Vedi Cap. 3. Ricerche nell’area urbana I. Il rapporto urbanistico, secondo modelli prettamente ellenistici, bouleuterion/odeon e area pubblica/agorà in Sicilia è noto, tra gli altri, a Solunto, Monte Iato, Akrai, Tauromenion e Morgantina 12 A Solunto una grande cisterna, probabilmente realizzata nella tarda età ellenistica, chiude a nord lo spazio dell’agorà. 13 I recenti scavi a Tyndaris (2007, inediti) nelle insulae poste di fronte al teatro hanno portato in luce una cisterna, le cui pertinenze occupano la parte a margine del decumano meridionale di un isolato di case, il cui collegamento con altri edifici, pubblici o privati, resta da accertare. 14 Lo scavo della parte settentrionale dell’area pubblica di Halaesa, articolata in due piazze di probabile diversa funzione e datazione, ha parzialmente messo in luce strutture riferibili ad una cisterna (pubblica) 15 Nel sito di Apollonia (Monte Vecchio di San Fratello), a parere di chi scrive l’area pubblica andrebbe localizzata nell’area in cui sorge la Chiesa dei Tre Santi, edificata in epoca normanna, dove i notevoli riutilizzi nell’edificio di culto, anche di iscrizioni su pietra locale, 11

rendono plausibile l’esistenza di edifici monumentali nell’area. Ambienti allineati scavati parzialmente nella roccia a nord della Chiesa sembrerebbero pertinenti a un portico che chiudeva su questo lato lo spazio pubblico, mentre l’esistenza di una cisterna pubblica e di un complesso di ambienti ricavati nella roccia di probabile funzione cultuale a pochissima distanza, avvalora l’ipotesi che in questa parte dell’acropoli, molto esposta e in splendida posizione panoramica sorgesse l’agorà, probabilmente su due livelli.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia agricoli, basate sull’utilizzo prevalente di ciottoloni di arenaria sbozzata e mattoni di grande modulo, induce a fare delle considerazioni sulla monumentalità dell’area pubblica calactina. Dobbiamo infatti immaginare che anche gli edifici pubblici facessero largo ricorso al materiale disponibile, in maniera similare all’area pubblica di Halaesa. Se per particolari esigenze furono importati blocchi di calcare dalle cave delle vicine Apollonia e Halontion, successivamente riutilizzati nelle murature delle chiese e di alcune abitazioni medievali e moderne, o di lastre marmoree di rivestimento di particolari ambienti, dovremmo tuttavia ritenere che nella maggior parte dei casi le pareti degli edifici pubblici non fossero costruite in maniera dissimile a quelle delle case d’abitazione. Avremmo quindi osservato muri in arenaria e laterizi, coperti da strati di intonaco e stucco, con rifiniture in terracotta stuccata in superficie. E’ verosimile che la pavimentazione dell’agorà stessa fosse in mattoni, come quelle tardoellenistiche di Solunto, Halaesa e Messina, e che i colonnati della stoà fossero alzati con mattoni di forma circolare, ricoperti di stucco. Quest’ultimo materiale si prestava alla realizzazione di finimenti anche complessi e di qualità e, se ben adoperato, dava al complesso pubblico una resa visiva grandiosa e piacevole grazie all’uso del colore, a prescindere dai materiali impiegati nella costruzione dello scheletro murario. Sulla piazza avremmo infine trovato altari, podii e basi di statue marmoree, costruiti prevalentemente con mattoni esternamente stuccati o ricoperti da lastre di pietra pregiata. Queste considerazioni aiutano peraltro a spiegare come la gran parte dei riutilizzi negli edifici del centro storico di Caronia comprendano pietre arenarie sbozzate e mattoni, con relativamente pochi esemplari di grandi blocchi di pietra pregiata, quasi sempre di calcare chiaro, e come anche gli innumerevoli materiali da costruzione rinvenibili in superficie nei pendii sottostanti l’area di Piazza S. Francesco siano principalmente pietre locali e laterizi, assieme a esemplari frammentari di lastre marmoree e cornici modanate in marmo o in calcare. Il tratto di pendio compreso tra l’area ipotizzata come sede dell’agorà e il punto di rinvenimento del blocco iscritto era sicuramente occupato da quartieri abitativi. Ai resti portati in luce dagli scavi sistematici eseguiti nell’ultimo ventennio,16 pertinenti a caseggiati disposti su livelli successivi per adattarsi alla ripidezza del terreno, si aggiungono quelli (numerosi) venuti in luce a seguito di lavori edilizi/agricoli e di fenomeni naturali, come le strutture murarie pluristratificate visibili alle spalle delle Case Popolari, immediatamente al di sotto di piazza S. Francesco, e quelle messe in vista dal tracciamento della strada campestre al di sotto della quale è stata rinvenuta l’epigrafe. La datazione di questi edifici abitativi, realizzati sempre con una bella tecnica edilizia mista che associava alla pietra locale grandi mattoni di terracotta di produzione locale,17 è principalmente compresa tra la seconda metà del III secolo a.C. e la seconda metà del I

secolo d.C. Dalla fine dello stesso secolo, il quartiere appare abbandonato, probabilmente a seguito di eventi naturali (terremoto?) per essere solo sporadicamente rioccupato da case isolate nell’avanzata età imperiale. L’area non fu invece interessata dall’urbanizzazione medievale, per cui è solo dal ‘900 che è stata in parte utilizzata come sito di case d’abitazione.

Figg. 4-6. In alto, cornice modanata in marmo dall’area di rinvenimento dell’iscrizione; al centro, finimento architettonico in pietra rosa di S. Marco d’Alunzio sporadico dal versante orientale della collina; in basso, base di colonna in pietra calcarea bianca sporadica dal pendio di c.da Telegrafo

16

Bonanno 1993-1994; Bonanno 1997-1998; Lentini, Goransson, Lindhagen 2002. 17 Mattoni rettangolari mediamente di 50 x 34 x 8 cm.

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Il decreto onorifico SEG LIX 1102: rinvenimento e ricostruzione del contesto d’origine all’incuria e allo scarso interesse al recupero dell’antico nei secoli passati. Ciò a maggior ragione se paragonato ai due centri di epoca classica più vicini, Halaesa e Apollonia, che invece hanno restituito numerosi esempi di iscrizioni monumentali sia in lingua greca che latina. Evidenze epigrafiche greche si conservano invece in buon numero su instrumenta domestica, principalmente ceramiche, e qualche peso da telaio discoidale, che testimoniano un buon grado di alfabetizzazione della comunità che viveva nella città collinare.22 La scarsità di attestazioni epigrafiche nel nostro sito può essere ascritta alla continuità di vita che ha avuto la collina di Caronia anche dopo la fine dell’epoca classica ed al conseguente fenomeno del riutilizzo di materiali lapidei in strutture abitative e monumentali di età medievale e moderna, oggi poco verificabili a causa dei rimaneggiamenti delle facciate degli edifici, che non permettono di individuare possibili blocchi iscritti reimpiegati nelle murature.23 L’esemplare da Caronia trova confronti con quello rinvenuto nel 2004 in duplice copia ad Halaesa nella c.d. “Casa dei pithoi”, poco a nord dell’agorà a margine del decumano centrale.24 In questo ultimo caso si tratta delle due copie di un decreto di euerghesia su lastre bronzee a forma di tempietto, una da consegnare al personaggio celebrato (Nemenio) e l’altra da esporre in pubblico, in maniera simile - potremmo ritenere - a quelle che sarebbero state predisposte a Kalè Akté secondo quanto previsto dalla nostra iscrizione. Presumendo, per confronti con altri decreti di area greca, che l’epigrafe marmorea calactina non sia il documento originale, che sarebbe stato predisposto su supporto deperibile, si potrebbe spiegare l’incongruenza25 tra quanto prescritto dall’aliasma e la forma del documento a noi pervenuto o con la redazione, per motivi ignoti e a dispetto della formula di pubblicazione, di una delle due copie non su tavola di bronzo ma su marmo, oppure supponendo che l’epigrafe marmorea costituisca una ripubblicazione del decreto, successiva sia al documento originale sia alle due versioni su tavola bronzea. Nella sua unicità all’interno del ristretto corpus epigrafico di Kalè Akté - Calacte, praticamente quasi inesistente, SEG LIX, 1102 è un importante aiuto per la ricostruzione dell’organizzazione politica, civile e religiosa della città in un’importante fase della sua esistenza, ovvero il medio-tardo ellenismo, quando appare essere un centro molto vitale sotto l’aspetto commerciale e culturale.26 All’identificazione degli organi di governo, si aggiungono, come vedremo,27 attestazioni di onomastica e di ben definite comunità cittadine (demotici) e soprattutto la conferma dell’importanza del culto di Apollo, qui attestato

Fig. 7. L’iscrizione marmorea nello stato in cui si trovava all’epoca del rinvenimento

Tenendo conto della tipologia di occupazione in antico del pendio soprastante, il punto di rinvenimento dell’epigrafe è quindi compatibile con una sua provenienza dall’area delle odierne via Ducezio – piazza S. Francesco, individuata come possibile sede dell’agorà (fig. 2). I secolari lavori di smantellamento delle strutture antiche e i fenomeni naturali di franamento e dilavamento avrebbero fatto pervenire nel punto di rinvenimento il blocco, oltre 100 metri più in basso. Peraltro, è da sottolineare che, sebbene solo parzialmente conservato (margini di frattura relativamente netti sui lati sinistro e inferiore), esso non presenta segni evidenti di reimpiego (malta di calce e simili). Al momento del rinvenimento, il blocco presentava poche incrostazioni calcaree sulle superfici, compatibili con un’esposizione prolungata agli agenti atmosferici, e la parte iscritta era quasi perfettamente leggibile. Pertanto è da ritenere che dopo lo smantellamento dell’edificio in cui era murato, abbia subito un naturale scivolamento sul pendio sottostante, sia rimasto interrato e solo recentemente sia riaffiorato a seguito di lavori agricoli. Si tratta della prima epigrafe greca rinvenuta a Caronia, che al momento si aggiunge ad un cippo in lingua latina dedicato a un Quinto Cecilio conservato presso il Museo A. Salinas di Palermo (CIL X, II, 7469)18 ed al bollo con nesso di lettere greche (IG XIV 2395.7), presente su alcuni laterizi rinvenuti nell’entroterra in c.da Samperi-Serralisa,19 pertinenti ad un acquedotto ellenistico, e su un mattone a Marina di Caronia, 20 che ha fatto pensare ad una produzione pubblica con riferimento sacrale di laterizi da utilizzare in opere comunitarie, in maniera similare ai mattoni impiegati nell’agorà di Halaesa.21 Sotto questo aspetto, si lamenta la mancanza di attestazioni epigrafiche nel nostro sito, dovuta senz’altro

22 Vedi Cap. 1. La vicenda storica di Kalé Akté – Calacte tra fonti storiche e dati archeologici. 23 Si possono menzionare innumerevoli esempi di riutilizzi di materiali antichi in strutture medievali e moderne. Particolare attenzione andrebbe riservata alle murature del Castello, della Chiesa Madre e della Chiesa di S. Antonio. Per i riutilizzi nel Castello, cfr. Kroenig 1977 e Scibona 1978. 24 Scibona 2009. 25 Arena, a seguire 26 Si veda, tra gli altri, Lindhagen 2006. 27 Arena, a seguire.

18

Fiore 1971. Scibona 1971. 20 Bonanno 2008, tav. XIX figg. 30-31. 21 Scibona 2009. 19

349

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Caltanissetta-Roma 2009

dall’esistenza di un santuario presso cui il decreto doveva essere custodito, anche nella nostra città, che la accomuna ad altri centri di area nebroidea (Halaesa, Herbita, Apollonia). È ragionevole pensare che il nostro documento epigrafico non sia isolato, ma che altre iscrizioni greche o latine giacciano ancora interrate nelle campagne circostanti la cittadina di Caronia, in attesa di essere riportate alla luce, o riutilizzate in murature medievali e moderne soprattutto del centro storico, al momento invisibili per via dei tanti interventi di restauro e rifacimento di complessi edilizi di antica costruzione.

Fiore 1971 = P. Fiore, Il cippo di Quinto Cecilio Calactense e la zona archeologica dell’antica Calacta. SicArch 9, 1971, pp. 50-53 Fiore 1991 = P. Fiore, Ducezio Calacta Caronia. Venticinque secoli di storia. Palermo 1991. Greco 1999 = E. Greco, La città greca. Istituzioni, società e forme urbane. Roma 1999 Isler 2012 = H.P. Isler, L’agorà ellenistica di Iaitas. Ampolo 2012, pp. 229-237

Bibliografia Ampolo 2012 = C. Ampolo (a cura di), Agora greca e agorai di Sicilia. Atti delle settime giornate internazionali di studi sull’area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo. Erice, 12-15 ottobre 2009. Pisa 2012.

Kroenig 1977 = W. Kroenig, Il Castello di Caronia in Sicilia. Un complesso normanno del XII secolo. Roma 1977. Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 = A.M. Lentini – K. Goransson – A. Lindhagen, Excavations at Sicilian Caronia, ancient Kale Akte, 1999-2001. OpRom 27, 2002, pp. 79-108.

Ampolo, Parra 2012 = C. Ampolo, M.C. Parra, L’agora di Segesta: uno sguardo d’assieme tra i scrizioni e monumenti. Ampolo 2012, pp. 271-285

Lindhagen 2006 = A. Lindhagen, Caleacte: production and exchange in a North Sicilian town c. 500 BC - AD 500. Lund 2006.

Battistoni 2010 = F. Battistoni, Note al nuovo decreto dall’area di Caronia. ZPE 170, 2010, pp. 113–117.

Manganaro 2009 = G. Manganaro, Un frammento inscritto erratico dall’area di Caronia (Kaleakte), ZPE 170, 2009, pp. 87-98.

Battistoni 2012 = F. Battistoni, Eis ton epiphanestaton topon? Collocazione di documenti nell’agorà. Ampolo 2012, pp. 71-76. Belvedere 2012 = O. Belvedere, Thermae Himeraeae. Dall’agorà ellenistica al foro romano. Riflessioni sulla romanizzazione della Sicilia. Ampolo 2012, pp. 211-221 Bonacasa 1987-1988 = N. Bonacasa, Influenze microasiatiche nell’architettura della Sicilia ellenistica. CronASA, XXVIXXVII, 1987-1988, pp. 139-158 Bonanno 1993-1994 = C. Bonanno, Scavi e ricerche a Caronia e a S. Marco d’Alunzio. Kokalos XXXIX-XL, 1993-1994, pp. 953-975. Bonanno 1997-1998 = C. Bonanno, Scavi e indagini nel territorio di Caronia e San Marco d’Alunzio. Kokalos XLIIIXLIV, 1997-1998, pp. 423-451. Bonanno 2008 = C. Bonanno, Kalè Akté. Scavi in contrada Pantano di Caronia Marina. 2003-2005. Roma 2008. Campagna 2009 = L. Campagna, Urbanistica dei centri siciliani d'altura in età ellenistica: il caso di Tauromenion. Congiu et alii 2009, pp. 205-226 Carettoni 1959 = G.F. Carettoni, Tusa (Messina). Scavi di Halaesa (prima relazione). NsA 1959, pp. 293-349. Carettoni 1961 = G.F. Carettoni, Tusa (Messina). Scavi di Halaesa (seconda relazione). NsA 1961, pp. 266-321. Collura 2012 = F. Collura, Kalé Akté – Calacte. Una città greco-romana della Sicilia settentrionale (VI secolo a.C. – V secolo d.C.). Lo stato delle conoscenze ed alcune note inedite. Preprint 2012. Congiu et alii 2009 = M. Congiu, C. Miccichè, S. Modeo, Eis Akra. Insediamenti d’altura in Sicilia dalla Preistoria al III secolo a.C.. Atti del V Convegno di Studi (Caltanissetta 2008).

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Manganaro 2011 = G. Manganaro, Il sistema anagrafico nella Sicilia in epoca ellenistica: a proposito di due tabelle di piombo attribuite erroneamente ad area siracusana e di due nuove iscrizioni, una di Kaleakté e una di Halaisa. Da Alesa ad Agathyrnum. Studi in memoria di Giacomo Scibona. Sant’Agata di Militello, 2011, pp. 33-68. Osanna, Torelli 2006 = M. Osanna, M. Torelli, Sicilia ellenistica, Consuetudo italica. Alle origini dell’architettura ellenistica d’occidente. Roma 2006 Portale 2006 = E.C. Portale, Problemi dell'archeologia della Sicilia ellenistico-romana: il caso di Solunto. ArchClass 52, 7, 2006, pp. 49-114. Scibona 1971 = G. Scibona, Nota a I.G. XIV 2395.7 (Instrumentum Publicum Calactinum). Kokalos XVII, 1971, pp. 21-25. Scibona 1987 = G. Scibona, s.v. Caronia. BTCGI 1987, pp. 815 Scibona 2009 = G. Scibona, Decreto sacerdotale per il conferimento della euerghesia a Nemenios in Halaesa. Scibona, Tigano 2009, pp. 97-112. Scibona, Tigano 2009 = G. Scibona, G. Tigano, AlaisaHalaesa. Scavi e ricerche (1970-2004). Palermo 2009 Tigano 2012 = G. Tigano, Alesa Arconidea: l’agorà/foro. Ampolo 2012, pp. 133-154 Wilson 2012 = R.J.A. Wilson, Agorai and fora in Hellenistic and Roman Sicily: an overview of the current status quaestionis. Ampolo 2012, pp. 245-26

IL

DECRETO ONORIFICO TARDO-ELLENISTICO DA PER UNA NUOVA EDIZIONE Emiliano Arena

CARONIA (SEG LIX, 1102):

THE LATE HELLENISTIC HONORARY DECREE FROM CARONIA (SEG LIX, 1102): FOR A NEW EDITION. The epigraphic document SEG LIX, 1102, inscribed on a marble slab found in 2003 in an uncultivated ground on the slopes of the hill of modern Caronia (Sicily), can probably be attributed to the ancient Kale Akte (Calacte), founded in 446 BC by the Sikel dynast Ducetius. Upon the paleographical evidence the inscription is likely to date back between the end of the III and the early II century BC, and preserves a fragmentary honorary decree for an unknown person. The document offers several issues of historical interest: it records, in fact, a new evidence of the enigmatic community acronyms (“demotics”), which are also recorded in other Hellenistic Siceliote poleis (Tauromenion, Akrai Halaesa, Apollonia, Kamarina). The inscription mentions also a sanctuary of Apollo, which is otherwise unknown at Kale Akte, and, above all, it probably testifies to a rare kind of three-chamber institutional system, which, until now, finds comparisons, in the late Hellenistic period, only at Akragas and Rhegion: in addition to the halia (assembly) and boula (council), peculiar of the Siceliote politeiai, in the deliberative mechanism a synkletos appears, i.e. a “restricted” government body of controversial institutional nature, identified by scholars either with a second assembly or with a second council. In the Calactine context, the nature and the origin of the synkletos appear even more problematic, due to the almost total silence of the historical sources on the fate of the city between the years of Ducetius’ foundation and the Second Punic War. An introduction of this third institutional body in the age of the Romanization of Sicily being unlikely, the possible context of origin will be identified between the time of the foundation and that of the Timoleon’s reforms of Sicily in the 30s of the fourth century BC.

Fig. 1 (Archivio fotografico U.O. 5 per i Beni archeologici. Foto F. Marcellino)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia presenza di ‘legature’ fra alcune lettere (alpha e ny: ll. 5, 7; alpha e iota: ll. 2, 4; delta e rho: l. 5), la compresenza di sigma lunato e alpha a barra spezzata, l’aspetto della grafia, che appare in generale più conservativo rispetto al decreto onorifico su tavole bronzee da Halaesa Archonidaea per Nemenio figlio di Nemenio (SEG LIX, 1100), caratterizzato da epsilon e sigma lunati, omega corsivo e la costante omissione dello iota ascritto, e dunque datato all’inizio o alla metà del I sec. a.C.,5 sembrano orientare nel loro complesso verso una cronologia intorno al 200 a.C. o entro la prima metà del II sec. a.C. La lingua del decreto presenta i peculiari tratti dialettali della koine “dorico-sicula” di matrice siracusana: sostantivi in alpha lungo (δεκάται, βουλᾶι, μνάμαν, ἁλίασμα, δᾶμον), pronome personale ἀμῶν, preposizione ποτὶ, infinito atematico con desinenza –μειν, contaminazione fra la desinenza atematica dorica –μεν e la forma tematica –ειν, tipico del dialetto rodio.6 Il frammento fu rinvenuto nel 2007 in un terreno incolto ubicato alle pendici est della collina su cui sorge l’abitato moderno di Caronia, occupata in antico da un abitato disposto su terrazze lungo il pendio naturale e databile almeno dal IV sec. a.C. al I d.C., che viene ragionevolmente identificato con l’antica Kale Akte.7 La compatibilità del luogo di rinvenimento con una provenienza dall’area pubblica della città antica, spiegabile con la probabile ricaduta di materiali dalla collina sede dell’abitato a seguito di eventi naturali e lavori agricoli,8 lascia supporre con ogni verosimiglianza una pertinenza del documento alla stessa polis di Kale Akte.

Decreto onorifico.∗ Scheggia di marmo bianco cristallino di forma approssimativamente rettangolare presumibilmente pertinente a una lastra: altezza 12, 7 cm; lunghezza massima 14 cm; spessore 3, 5/4 cm. Nr. Inv. Caronia 25274. Il supporto conservato, sostanzialmente integro solo sul bordo superiore e su quello destro,1 è quantificabile all’incirca nella metà destra, o poco meno, di quello originario (Figg. 1-2).2 Il retro presenta sul lato destro un incasso realizzato a scalpello con andamento leggermente obliquo (cm 3 - cm 0 dal bordo destro) per tutta l’altezza della pietra (Fig. 3); sul bordo superiore, a 0, 8 cm dalla superficie iscritta, sono visibili tracce di un incavo lungo 5, 5 cm e largo 1, 5 cm, da interpretarsi forse come possibile alloggiamento di una grappa plumbea o di qualche tipo di tenone (Fig. 4). Dimensioni lettere: 0, 6 cm nelle prime tre righe, 0, 4, nelle successive. Sigma lunato; epsilon quadrato con tratto mediano accorciato; omicron non rimpicciolito; alpha in almeno quattro casi (ll. 1, 2, 4, 6) con barra spezzata. La compresenza di sigma lunato ed epsilon quadrato si confronta con IGDS II, 50, iscrizione su lamina plumbea appartenente a un gruppo di contratti di vendita ora attribuiti a Camarina e datati al 250-200 a.C.,3 e in parte con il decreto di prossenia di Agrigento e Malta per il siracusano Demetrio figlio di Diodoto (IG XIV, 952-953 = IGDS I, 185) della fine del II sec. a.C. L’esecuzione dei caratteri offre altresì consonanze con il ductus corsiveggiante della succitata IGDS II, 50 e di altre iscrizioni su lamina metallica, come IGDS I, 126 del II sec. a.C., ove però omicron è regolarmente rimpicciolito, o anche di iscrizioni su terracotta come IGDS I, 193. Arduo proporre una datazione più precisa della tarda età ellenistica:4 tuttavia, i suddetti elementi, unitamente alla ∗

Desidero ringraziare la Dott.ssa G. Tigano, dirigente del Servizio archeologico della Soprintendenza BB.CC.AA. di Messina (U.O. 05), per avermi gentilmente autorizzato a prendere visione dell’epigrafe presso il deposito della Soprintendenza BB.CC. di Messina. La mia riconoscenza va altresì all’Arch. Rocco Burgio della Soprintendenza di Messina e al Prof. Claudio Meliadò dell’Università di Messina per i preziosi suggerimenti offertimi, nell’ambito di un proficuo scambio di idee, in ordine, rispettivamente, alla valutazione degli aspetti materiali del supporto e degli aspetti testuali del documento. S’intende invece mia la responsabilità di quanto qui scritto. Ringrazio, infine, il Dott. Francesco Collura, autore e curatore di questo volume, per avermi cortesemente invitato a studiare l’epigrafe e a ripubblicarla in questa sede. 1 Entrambi i bordi recano tracce della parete di aderenza, mentre quello destro presenta sporadiche intaccature del campo epigrafico alle ll. 1, 5, 6, 14. 2 Qualche elemento in tal senso potrebbe ricavarsi dall’intestazione, e in particolare dalla l. 1. Il testo conservato, τοῦ Ἀπολλοδώρο[υ], iscritto con lettere di 0, 6 cm e misurante qui 10, 2 cm, testimonia approssimativamente sul lato destro il margine del supporto (possibile in questo punto una piccola lacuna, se, come propone Battistoni 2010, p. 113, n. 3, poteva esserci qui una sigla anagrafica). Ipotizzando, come proponiamo più avanti, che il nome dell’eponimo fosse Aischylos, considerata anche la tolleranza minima di 2 cm osservata alla l.1 dovuta alla spaziatura fra le lettere, avremmo sul lato sinistro un testo distribuito fra almeno i 13, se il nostro personaggio rivestiva la carica di amphipolos o di hierothytas, (Ἐπὶ ἀμφιπόλου Αἰσχύλο]υ) e i 15 cm, se era uno hiaromnamon. Ne conseguirebbe che il supporto della nostra iscrizione, coincidente con lo stesso campo epigrafico, aveva una larghezza minima di 23 / 25 cm (10, 2 + 13/15 cm o più). 3 Cordano 1997a. 4 Condivisibile la cautela di Manganaro 2009 e 2011, che non propone alcuna datazione precisa, come di Battistoni 2010, p. 113, n. 1 che suggerisce “molto genericamente” il II-I sec. a.C.

5 Scibona 2009, pp. 106-107; SEG LIX, 1100, p. 321; Dubois 2013, p. 4. Prestianni Giallombardo 2015, p. 11 propone ora la metà del I sec. a.C. Sulla cronologia della comparsa dell’alpha a barra spezzata nella seconda metà del III sec. a.C. e l’affermazione del sigma lunato nel II sec. a.C. vd. Guarducci 1967, pp. 380 e 377. Sulle lettere lunate vd. Gorissen 1978. 6 Sul collegamento di questa forma di infinito con il dialetto rodio vd. Sicca 1924, pp. 127-128; Biondi 2001, p. 82; Manganaro 2009, p. 90. Sulla contaminazione di forma tematica e atematica vd. Dubois 2013, p. 6. Sui caratteri della koine “dorico-sicula” adoperata nelle epigrafi siciliane vd. Sicca 1924, pp. 148-160 e in particolare pp. 149-150; Dubois 1989, pp. 298-299. Sulla koine dorica in generale Bartoněk 1972, pp. 66-68. 7 Bonanno 2009, p. 11. Per l’identificazione dell’odierna Caronia montana con Kale Akte vd. il tegolone rinvenuto a Caronia in contrada Sampieri con bollo Δά(μου) Καλακτ(ίνων) ἱερὸς (κέραμος): Scibona 1971, pp. 21-25 (SEG XXXVIII, 924); cfr. Manganaro 2009, p. 87, n. 2. Il rinvenimento di tombe di età classica sulla collina retrostante il castello (Bernabò Brea 1975, pp. 20-21; Scibona 1987, p. 11) e la notizia di frammenti di ceramica indigena con decorazione a bande e greco-coloniale in contesti di V sec. dall’area dell’abitato moderno in area “Case Popolari” (vd. supra Collura cap. 3) lasciano pensare che l’abitato della Kale Akte ‘duceziana’ non si limitasse all’area portuale, come riteneva Adamesteanu 1962, pp. 190-193, ma includesse anche l’area collinare (cfr. Lindhagen 2006, p. 90), ripetendo di fatto lo schema insediativo osservabile in altri siti vicini della costa settentrionale della Sicilia, tutti in ubicati in collina a ridosso del mare, ma in stretta relazione con la costa sottostante: vd. Halaesa e Marina di Tusa, Apollonia (M. S. Fratello) e l’odierna Acquedolci, Halontion e Torrenova. 8 Sul rinvenimento dell’iscrizione vd. supra Collura.

352

Il decreto onorifico SEG LIX 1102: per una nuova edizione 1

[Ἐπὶ - - - Αἰσχύλο]υ ̣τοῦ Ἀπολλοδώρο[υ] [(nome del mese al genitivo)]. δεκάται Προστ(άτας) [τᾶς βουλᾶς, (ὁ δεῖνα)]ς̣ Ξενίσκου Πλη [ἔδοξε τᾶι ἁλίαι καθὰ κ]αὶ τᾶι σύγκλητωι καὶ τᾶι βουλᾶι·

5

[ἐπειδὴ ὁ δεῖνα τοῦ - - -].σάνδρου Τηλ φανερός ἐστι, ἁμῶ[ν] [- - - προνοούμενος] καὶ λόγωι καὶ ἔργωι, δίκαιον δέ [ἐστι - - - αὐτοῦ ἀθάν]α̣τ̣ον μνάμαν ποιεῖσθαι· δέδoκτα̣[ι] [οὖν τᾶι πόλει (?) - - - εὐεργ]έτ̣αν αὐτὸν εἴμειν τοῦ δάμου, [ὅπως φανερὸν ἦι] τ̣οῖς ἐπιγινομ̣έν̣ οις, ὅτι ˇ ο ˇ

10

[μος, τοῖς εὐεργετεῖν προαιρουμέν]οις τὸ κοινὸν, δύναται χάριτας [καὶ τὰς τιμὰς ἀπονέμει]ν̣ τὰς καταξίας· τὸ δὲ ἁλίασμα [ἀναγράψαι εἰς χαλκ]ώματα δύο καὶ ἀναθέμειν [τὸ μὲν ἐν τῶι ἱερῶι τοῦ Ἀ]πόλλονος, τὸ δὲ δόμειν [(τῶι δεῖνι) ὑπόμναμα τᾶς πο]τὶ τὸν δᾶμον ε[̣ὐνοίας]

15

[- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - ]

l. 3: [τᾶς βουλᾶς ? Ξένι]ς Ξενίσκου Πλη. Manganaro 2011; [- - - - - - -].Ξενίσκου Πλη. Battistoni 2010.

Bibliografia Manganaro 2009; Battistoni 2010; BE 2010, 645; Manganaro 2011; BE 2011, 674; SEG LIX, 1102.

l. 4: [Ἀγαθᾶι τύχαι δεδόχθ]αι τᾶι σύγκλητωι καὶ τᾶι βουλᾶι˙ Manganaro 2009; [ἔδοξε τᾶι ἁλίαι καθὰ κ]αὶ τᾶι σύγκλητωι καὶ τᾶι βουλᾶι· Battistoni 2010, Manganaro 2011.

Traduzione [Sotto l’amphipolos (?) Aischylos (?)] figlio di Apollodoros, / [nel mese - -, il giorno (?]decimo, quando era prostatas / [della boula (?) il tale figlio di] Xeniskos (del demo) PLE. / [Fu deciso dalla halia conformemente alla proposta] della synkletos e della boula. / [Poiché il tale figlio di - -]sandros (del demo) TEL. si è notoriamente / [curato] di noi, sia con le parole che con i fatti, è giusto / che si serbi ricordo [immortale di lui]; [dunque] è stato approvato [dalla città (?) - - ] che questi sia benefattore del popolo, / [affinché sia evidente] ai posteri che [il popolo, / a coloro che scelgono di beneficare] la comunità, può concedere i ringraziamenti / [e gli onori] appropriati; [si trascriva] questo aliasma su due tavole di bronzo e se ne consacri [una nel tempio di] Apollo, l’altra si dia [a - - come ricordo della benevolenza] nei confronti del popolo….

l. 5: [ἐπειδὴ (nome al nominativo ?) Ἐ]π̣άνδρου Manganaro 2009; [ἐπειδὴ - - - - - - - - - ]άνδρου Battistoni 2010; [ἐπειδὴ?.....]ις̣ Ἄνδρου Manganaro 2011. l. 6: [φίλος, ἀγαθὸν πράττων]καὶ λόγωι Manganaro 2009; [- - - - προνοούμενος] καὶ λόγωι Battistoni 2010; [φίλος, ἄξια πράσσων ]καὶ λόγωι Manganaro 2011. l. 7: [ἐστι ὅτι ἔχοιεν οἱ ἄλ]λοι μνάμαν, ποιεῖσθαι δὲ ὅσα τε ̣Manganaro 2009; [ἐστι - - -].οι μνάμαν ποιεῖσθαι ΔΕ.... Battistoni 2010; [ἐστι διαμένειν αὐ]το̣ῦ ̣μνάμαν, ποιεῖσθαι δὲ ὅσα τὰ ̣Manganaro 2011. l. 8: [χρήσασθαι ὥστε εὐεργ]έταν αὐτὸν εἴμειν τοῦ δάμου· Manganaro 2009; [- - - - - δέδοχθαι εὐεργ]έτ̣αν αὐτὸν εἴμειν τοῦ δάμου, Battistoni 2010; [νόμιμα καὶ εὐεργ]έτ̣αν αὐτὸν εἴμειν τοῦ δάμου, Manganaro 2011.

l. 1: [Ἐπὶ ἀμφιπόλoυ (?) (Ἀπολλωνίου ?) το]ῦ ̣ Ἀπολλοδώρο[υ] Manganaro 2011.

l. 9: [ὅπως δὲ μνᾶμαν γίνεται] τοῖς ἐπιγιγνο[μέν]οις, ὅτι ἐκ̣ Manganaro 2009; [ὅπως φανερὸν ἦι] τοῖς ἐπιγιγνο[μέν]οις, ὅτι ˇ ο ˇ [δᾶ] Battistoni 2010; [ὅπως φανερὸν ἦι πᾶσι] τοῖς ἐπιγιγνο[μέν]οις, ὅτι [τ]ο[ῖς] Manganaro 2011.

l. 2: [Ἐλωρείου ? μηνὸς ἐν]δεκάται Προστ(άτας) Manganaro 2011.

353

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia l. 10: [δίδοται ὁ δᾶμος ὅσον] εἰς τὸ κοινὸν, δύναται χάριτας Manganaro 2009; [μος τοῖς - - - - - - - - - -]οις τὸ κοινὸν δύναται χάρι̣τας Battistoni 2010; [εὐεργετεῖν αἰρουμέν]οις τὸ κοινὸν δύναται χάριτας Manganaro 2011.

patronimico di quell’Aischylos Σικελὸς ἀπὸ Καλῆς Ἀκτῆς sepolto ad Atene nel II-I sec. a.C.12 L’incertezza sulla precisa cronologia del nostro documento, al di là di una generica datazione tardo-ellenistica ricavabile dall’aspetto paleografico, suggerisce di non forzare il dato oltre la mera suggestione, giungendo a ipotizzare, ad es., una identificazione tout court dell’ignoto personaggio eponimo della nostra iscrizione con il calactino Aischylos figlio di Apollodoros morto lontano dalla propria patria. D’altro canto però, non può sfuggire come sia Aischylos che l’ignoto eponimo dell’iscrizione, oltre a essere entrambi figli di un Apollodoros, dovevano essere dei personaggi di rilievo nel corpo cittadino, di certo non amplissimo, della Kale Akte tardo-ellenistica; è difficile pensare che non appartenessero allo stesso genos, pur se, più verosimilmente, a generazioni diverse. Nell’onomastica familiare greca, infatti, com’è noto era comune il ripetersi degli stessi nomi nell’ambito della medesima famiglia; non scarteremmo, pertanto, la possibilità della seguente integrazione: [Ἐπὶ - - Αἰσχύλο]υ ̣τοῦ Ἀπολλοδώρο[υ].

l.11: [καθηκούσας χάριτας] τὰς καταξίας, τὸ δὲ ἁλίασμα Manganaro 2009; [καὶ τὰς τιμὰς ἀποδόμειν] τὰς καταξίας· τὸ δὲ ἁλίασμα Battistoni 2010; [καὶ τιμὰς ἀπονέμειν] τὰς καταξίας· τὸ δὲ ἁλίασμα Manganaro 2011. l. 12: [γράψασθαι εἰς χαλκ]ώ̣ματα δύο καὶ ἀναθέμειν Manganaro 2009. l. 13: τὸ δὲ δόμενα[ι] Manganaro 2009; τὸ δὲ δόμε[ιν] Battistoni 2010; τὸ δὲ δόμειν̣ Manganaro 2011. l. 14: πο]τὶ τὸν δᾶμον εὐ[νοίας· τοὺς δὲ Manganaro 2011. l. 15: [- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - ] ΚΙΥ̣[- - - - - -] Manganaro 2009, Battistoni 2010; [ταμίας ἐξοδιάξαι - - - - - - - - ]. Manganaro 2011.

L. 2. Dopo il nome del mese al genitivo, evidentemente di una certa lunghezza, seguito dal numerale ]δεκάται, si legge l’abbreviazione προστ relativa a un prostatas, un “presidente”, di cui manca il nome, da intendersi qui, secondo Manganaro, della boula.13 L’ambito istituzionale siceliota, in effetti, vede un prostatas presiedere la boula a Gela-Phintias in un decreto onorifico per un ginnasiarca (IG XIV, 256 = IGDS I, 161), e analoga funzione svolge ad Agrigento un paraprostatas nel summenzionato decreto di prossenia per Demetrio figlio di Diodoto. A Siracusa, invece, nel decreto di asylia per il santuario di Artemide Leukophryene a Magnesia sul Meandro (IvMagnesia, 72=IGDS I, 97), il prostatas presiede forse la synkletos.14 Il caso siracusano e l’incertezza sul preciso ordinamento istituzionale della nostra polis, tuttavia, lasciano aperta l’ipotesi che il prostatas del nostro documento potesse presiedere un organo diverso dalla boula.15

Commento L. 1. A inizio linea sembra leggibile, pur mal conservato subito accanto la frattura, un upsilon, che appare alquanto distanziato dalla lettera successiva, tau, ma che si confronta bene con lo upsilon del successivo articolo τοῦ; esso dovrebbe essere pertinente alla terminazione del genitivo -ου di un nome proprio maschile introdotto da ἐπὶ e seguito dal patronimico (Ἀπολλοδώρο[υ]), da riferirsi al funzionario eponimo della polis emittente il decreto. Secondo Manganaro esso sarebbe qui identificabile con l’amphipolos, il sacerdote di Zeus Olympios, forse introdotto con funzione eponima a Siracusa da Timoleonte nel 342 (Diod. XVI, 70, 6; Cic. Verr. 2, 2, 51),9 e documentato in età ellenistica anche a Camarina, forse a Centuripe, e, privo però di eponimia, a Solunto e Buscemi.10 Nulla esclude, tuttavia, che qui l’eponimia venisse rappresentata da altri tipi di cariche sacerdotali registrate nell’ambiente siciliano di epoca ellenistica, come lo hiaromnamon, attestato nella vicina Halontion e a Entella e Nacone, ma soprattutto assai diffuso in età ellenistica in tutto il modo greco e dorico in particolare, lo hierapolos, presente a Gela-Phintias e Morgantina, o infine lo hierothytas documentato ad Agrigento, Solunto, Segesta, Malta e Adrano, centro, quest’ultimo, dove non ha funzione eponimica.11 È dato da non trascurarsi il fatto che l’unico documento epigrafico a oggi noto relativo a cittadini calactini attesti proprio il nome Apollodoros, per di più nella forma di

L. 3. A inizio linea è la parte inferiore di una lettera, che, in considerazione dello spazio vuoto che precede lo ksi iniziale di Ξενίσκου, potrebbe identificarsi con un sigma lunato, come legge Manganaro, che vi vede

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IG II/III2, 3, 10291: Αἰσχύλος Ἀπολλοδώρου Σικελὸς ἀπὸ Καλῆς Ἀκτῆς. La grafia presenta lettere apicate e alpha a tratto spezzato. Il nome Aischylos ha ampia attestazione in Sicilia, ricorrendo ad Adrano, Akrai, Halaesa, Camarina, Selinunte, Siracusa, Tauromenion e Tyndaris; vd. Fraser, Matthews 1997, 21, s.v. Αἰσχύλος, nrr. 37-45. 13 Manganaro 2011, p. 47. Cfr. Battistoni 2010, p. 114. 14 Sono forse prostatai della boula (così Cordano 1999, p. 154) i sei personaggi dedicanti ad Akrai (IG XIV, 208) e Tauromenion (IG XIV, 423-430). Ovviamente non è pertinente il confronto con il προστάτας συναλλακτήρων dei documenti di Camarina (IGDS I, 124, l. 1), interpretato come “magistrato che presiede ai contratti o presidente dei mediatori” (Cordano 1999, p. 153). 15 L’identità del consesso presieduto dal prostatas del nostro documento è strettamente dipendente dall’interpretazione della l. 4: se la presidenza non era necessariamente dell’organo che aveva presieduto la seduta dell’assemblea, ma, come in IGDS I, 97, poteva appartenere anche a quello che emetteva il decreto, il nostro ignoto personaggio potrebbe aver presieduto qui non la boula, bensì la halia (vd. infra commento a l. 4).

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Manganaro 2011, p. 37 n. 14, 43. Secondo Sordi 1960, p. 116 e Ghinatti 1964-65, p. 341, l’amphipolia sarebbe stata invece preesistente al governo di Timoleonte, il quale l’avrebbe poi trasformata in suprema magistratura eponima di Siracusa. Sull’istituzione dell’amphipolia a Siracusa vd. ora Galvagno 2011, pp. 226-227, che nega una valenza politica del sacerdozio. 10 Sull’amphipolia in Sicilia vd. Ghinatti 1964-65, pp. 341-348; Cordano 2012, pp. 77-78. 11 Sui magistrati e sacerdoti eponimi attestati in Sicilia vd. Ghinatti 1964-65; Sherk 1993, pp. 267-271 (integrato da Di Veroli 1996); Cordano 1999, 155; Cordano 2012.

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Il Decreto onorifico tardoellenistico da Caronia SEG LIX 1102: per una nuova edizione la lettera terminale del nome del prostatas.16 Di questo anonimo funzionario si è dunque conservato il patronimico Ξενίσκου, raro nome personale attestato in Occidente prima della scoperta del nostro documento solo in area illirica,17 e la sigla trilittere Πλη ad esso posposta come “terzo nome”, presumibilmente indicante il “demotico”, il gruppo di assegnazione dei cittadini su base residenziale, che sembra testimoniare, anche nel caso di Kale Akte, una distribuzione della popolazione in distretti sul tipo dei demi attici.18 L’abbreviazione Πλη ricorre per ben 9 individui menzionati in una lista di nomi incisa su lamine plumbee arrotolate (IGDS II, 40, col. I, ll. 5, 8; II, ll. 2, 9; col III, l. 8; col IV l. 1, 2, 5, 6; SEG XLVII, 1463), ora identificata da Manganaro con una “lista di reclute”, attribuibile al III-II sec. a.C., e da lui riferita, insieme con un contratto di vendita su laminetta di piombo (IGDS II, 42), non più all’area siracusana, ma a quella di Halaesa in virtù della coincidenza di 9 delle sigle attestate in questi due documenti19 con quelle registrate nel decreto onorifico per Nemenio (SEG LIX, 1100) dell’inizio del I sec. a.C. Di primo acchito verrebbe così a cadere il collegamento proposto da Dubois con Πλημμύριον, un phrourion di Siracusa ricordato da Stefano di Bisanzio (s.v.),20 a prima vista incomprensibile nel contesto nebroideo e di Kale Akte in particolare, in favore di un’accezione generica, come quella di Πλη(σιος), da Πλησίον, “luogo vicino”, proposta da Manganaro, il quale in ultima analisi propende per una identificazione di questo demotico, insieme con gli altri attestati in IGDS II, 40 e 42 e nel decreto per Nemenio, con “borghi connessi alla città capoluogo di Halaesa”.21 Quest’ultimo argomento, tuttavia, rende non meno problematica la ricorrenza di Πλη nella nostra iscrizione, ricorrenza che, nel caso della sigla Τηλ a l. 5, appare ancora più sorprendente, dal momento che questa è attestata non solo nella “lista reclute” (IGDS II, 40, col. V, l. 6), ma anche nel decreto onorifico per Nemenio (SEG LIX, 1100, l. 11). Pertanto, a meno di non voler riferire anche il nostro documento alla polis di Halaesa (se l’ipotesi di Manganaro sulla provenienza di IGDS II 40 e 42 è corretta), riconoscendo così al frammento lapideo una ‘erraticità’ non facilmente spiegabile, ovvero ipotizzare una condivisione di territorio e/o strutture anagrafiche fra Halaesa e Kale Akte,22 dovremo lasciar spazio ad altre ipotesi, soprattutto ove si consideri il fatto che il fenomeno delle sigle comuni a una pluralità di

poleis siciliane ha una singolare e problematica diffusione, che dovrebbe sconsigliare l’attribuzione di un documento a una singola città sulla base della presenza di una determinata sigla.23 Significativa in tal senso il caso dell’abbreviazione Σαλ, attestata ad Halaesa, nel summenzionato decreto per Nemenio (SEG LIX, 1100, l. 9) e nella base dell’ignoto Lapirone figlio di Apollodoro (SEG XXXVII, 759), e ad Akrai (IG XIV, 212, l. 4),24 nonché il caso, forse ancor più enigmatico, data la sua diffusione, di Λαβ. Talvolta ricondotta a Λάβδαλον, toponimo siracusano di un akron dell’Εpipolai (Thuc. 7, 3, 4; cfr. Diod. 13, 7, 4; Herod., 3, 1, 381),25 l’abbreviazione ricorre nel decreto di Nemenio (SEG LIX, 1100, ll. 2, 14), in una base di statua onorifica riferibile ad Apollonia o Halontion (IG XIV, 359, l. 2), nella “lista reclute” (IGDS II, 40, col. I, l. 2; col. II, l. 10; col III, l. 7; col. IV, l. 6; col. V, l. 3), e ancora una volta anche ad Akrai (IG XIV 217, l. 9), dispiegandosi su un arco cronologico che va dal III all’inizio del I sec. a.C. Ora, il nostro decreto non solo ripropone il problema, spinoso e già evidenziato a proposito del caso di Tauromenion, dello scioglimento e dell’esegesi ultima di queste sigle trilitteri, che oscilla nella critica fra il collegamento all’onomastica territoriale locale (toponimi e idronimi)26 e quella “etnica” e/o personale dell’intero mondo greco (e sinanche siculo o italico),27 ma soprattutto pone degli interrogativi sul possibile nesso che univa Halaesa, Kale Akte, Apollonia e Akrai, nel momento in cui i rispettivi politai venivano identificati, nella tarda epoca ellenistica, sulla base delle medesime “sigle anagrafiche”, il cui uso viene documentato dalla preziosa testimonianza del decreto di Nemenio almeno fino all’inizio del I sec. a.C., se non oltre. A complicare l’individuazione di una soluzione è poi il fatto che, ad oggi, in Sicilia le sigle non compaiono prima del III sec. a.C., impedendoci di cogliere pienamente la profondità diacronica del fenomeno. A nostro giudizio l’interpretazione delle sigle difficilmente avrà una spiegazione univoca, suscettibile di generalizzazione. Una possibilità è che alcune delle sigle demotiche con attestazione comune funzionassero originariamente da ‘marcatore etnico’ di genti della medesima provenienza trasferitesi in differenti centri della Sicilia in uno o più dei tanti periodi di mobilità intraregionale che caratterizzano la storia dell’isola. In tal caso l’ipotesi di una derivazione di Πλη da Πλημμύριον, o di Λαβ da Λάβδαλον, potrebbe facilmente ricondurre all’area di Siracusa. Contesto storico d’elezione per la loro introduzione appare l’epoca timoleontea che, sotto l’indiscussa egemonia di Siracusa derivante dalla vittoria

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Manganaro 2011, p. 50. Fraser, Matthews 1997, p. 334. 18 Sul cosiddetto “terzo nome” in Sicilia come “demotico” vd. Cordano 1997b, pp. 407-409; cfr. Ghinatti 2004, p. 35. Del Monaco 2012 evidenzia per Siracusa e Camarina, ma anche Apollonia e Corcira, una derivazione dall’ambiente corinzio; per confronti in area magnogreca, dove le sigle sono invece preposte al nome, vd. ora Vallarino 2013 per il caso di Taranto. 19 Delle 12 sigle attestate in IGDS II, 40, delle 3 di IGDS II, 42 e delle 18 del decreto di Nemenio (SEG LIX, 1100) coincidono Αρχ, Εριμ, Κρα, Λαβ, Λογ, Νητ, Περ, Τηλ, Υπα, laddove IGDS II, 42 consente ora di sciogliere ἐριμ(εῖος), κρα(ταιμεῖος), περ(ηκυαταῖος). Cfr. Manganaro 2011, p. 43. 20 Dubois 2008, p. 96. 21 Manganaro 2011, pp. 44-47, 50. 22 Cfr. in tal senso Manni 1966, p. 178, che, nel rilevare l’assenza di determinati centri siciliani nella lista dei theorodokoi delfici (SGDI 2580), ventilava la possibilità che essi fossero “inglobati in altri”. 17

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Cfr. Prag apd SEG LIX, 1100, p. 321. Già Kaibel (comm. ad IG XIV, 212) rilevava la difficoltà di spiegare queste sigle, chiamando in causa pagi e vici. Scibona 1970, p. 11 rammentava in proposito il nome proprio dorico Σάλλας, attestato a Issa (SGDI 3254) e presente anche a Tauromenion nella forma Σαύλαος (IG XIV, 421, I a 10). Alessio 1970, p. 82 postulava un toponimo siciliano *Salanca da una base idronimica *sal, sostenuta dall’etnico Σάλαγγος dell’Apulia (Steph. Byz. s.v.); contra Manganaro 2011, p. 59. Sull’attestazione alesina nella base dell’ignoto Lapirone vd. Facella 2006, p. 280, n. 299; Prestianni Giallombardo 2012a, p. 191, n. 60. 25 Dubois 2008, 96; SEG LIX, 1100, p. 321. 26 Manganaro 1996, pp. 161-162. 27 Antonetti 1987, p. 11, n. 2. 24

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia sui Cartaginesi al Crimiso del 338 a.C.,28 vide l’afflusso in Sicilia di alcune decine di migliaia di individui dalla Grecia29 e dovette favorire nell’isola la creazione o il consolidamento di rapporti fra realtà politiche diverse come poleis greche, centri indigeni e comunità mercenariali.30 In tale quadro, la possibilità che Halaesa dopo il 338, e almeno fino al 314/13, faccia parte dello stato siracusano31 -e non ci soprenderebbe una sorte similare per Kale Akte e gli altri centri nebroidei- rende forse tutt’altro che insolita l’ipotesi dell’arrivo nella Sicilia tirrenica di genti dall’area di Siracusa, che potrebbe spiegare adeguatamente la presenza delle due sigle sia in area nebroidea che acrense. Ancor meno perspicuo, però, è il caso delle sigle Τηλ e Σαλ, che non sembrano esplicitamente riconducibili a toponimi siciliani o a una precisa matrice etnica, se non, forse, all’ambito generico della doricità di Sicilia.32 E se la mistione di elementi Greci e Siculi, peculiare sia della fondazione di Halaesa che di Kale Akte, in linea di principio non esclude che le due sigle potessero testimoniare, come avviene in altri casi, originarie componenti anelleniche del corpo cittadino,33 incertezze non minori suscita

un’esegesi linguistica esclusivamente ellenica, dal momento che, nel caso di Τηλ, accanto, ad es., a una derivazione da τῆλις, “fieno”, “erba medicinale”, proposta da Manganaro,34 numerose, e tutte altamente congetturali, sono le altre opzioni possibili.35 Giacché la chiave di lettura “etnico/toponimica” per le sigle in questione non appare sempre soddisfacente, dovranno forse percorrersi altre ipotesi legate a una relazione della denominazione di alcuni demotici con le caratteristiche “ambientali” delle chorai delle poleis di pertinenza, anziché con toponimi specifici, il che consentirebbe di cogliere in qualche misura la ‘costante’ che sembra legare differenti poleis siciliane nell’uso delle medesime sigle anagrafiche almeno dal III all’inizio del I sec. a. C.36 La difficoltà di svolgere compiutamente, e soprattutto fondatamente, le nostre “sigle” consiglia, tuttavia, di sospendere il giudizio su tale problematica fino all’acquisizione di nuove evidenze. L. 4. Quel che resta della formula di risoluzione, mutila nella parte iniziale, documenta con certezza l’esistenza di almeno due organi deliberanti: una βουλά e una σύγκλητος; ma se la prima non costituisce un problema, costituendo una costante degli ordinamenti delle poleis siceliote, la precisa natura della synkletos nell’ambito istituzionale della Magna Grecia e della Sicilia greco-romana continua a restare talora sfuggente: infatti a tale consesso, che un luogo aristotelico (Pol. 3, 1, 1275 b) riferisce agli ordinamenti statali di tipo aristocratico-oligarchico, e che sembra possedere un’origine estranea, e probabilmente anteriore, alla dialettica boule-ekklesia, di matrice ionico-attica, si riconoscono nel contesto di nostro interesse ora funzioni

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A prescindere che essa si configurasse in una vera e propria arche (Sordi 1961, pp. 69-71) o nella guida della symmachia antipunica anche dopo la guerra con Cartagine (Talbert 1974, p. 144). 29 Assai dibattuti tempi e modi della colonizzazione timoleontea: Sordi 1960, p. 102 ss. distingueva una prima, bandita dopo la liberazione di Siracusa nel 343/2, focalizzata esclusivamente su Siracusa, cui parteciparono diecimila greci (per lo più esuli in Asia e nelle isole) affluiti prima a Corinto e di lì a Siracusa, dove, secondo la testimonianza dello storico siracusano Atanide, raggiunsero sessantamila fra italici e sicelioti già raccoltisi presso Timoleonte (Plut. Tim. 23). Una seconda ondata, consistente di cinquemila uomini da Corinto e cinquantamila dal resto della Grecia (Diod. 16, 82, 3), si porrebbe invece dopo la vittoria del Crimiso nel 339/8. Malgrado le perplessità di Mossé 1999, che legge la tradizione letteraria alla luce di un’unica colonizzazione centrata su Siracusa, riteniamo con la Sordi, sulla base di Plut. Tim. 35, 1, che questa seconda fase coloniale abbia avuto come oggetto solo la Sicilia; in questa occasione (Plut. Tim. 35, 2) Gela e Agrigento ricevettero i propri ecisti da Elea di Tesprozia e da Coo (Asheri 1970). 30 Vd. in tal senso l’istituzione della symmachia antipunica (Diod. 16, 72), la concessione della cittadinanza siracusana ad Agirio e Centuripe (Diod. 16, 82, 4); vd. Talbert 1974, pp. 143-145; ora Patanè 2011. 31 Facella 2006, p. 167. Secondo Manganaro 2001, p. 72 anche Halaesa sarebbe stata coinvolta nella colonizzazione timoleontea: ne sarebbero prova i tratti dialettali rodii caratterizzati da eolismi presenti in IGDS I, 197, che egli vorrebbe attribuibili a redattore oriundo di Cos. Essi si collegherebbero invece al momento della fondazione della città per Calderone 1961, pp. 131-132 (che li ascrive a contingenti di profughi di Gela e Agrigento) e Dubois 1989, p. 147. 32 L’esempio del demotico Μορφιανός attestato ad Akrai (IGDS I, 109, l. 3), per cui Dubois 1989, p. 115 ha postulato l’altrimenti ignoto toponimo Μορφία o Μόρφιον, ben illustra quanto sia accidentato il terreno su cui ci muoviamo allorché si tenti uno scioglimento delle sigle. Altrettanto oscuri gli esiti derivanti dall’impiego della chiave di lettura “etnico/onomastica”, ove si accolga, ad es., l’ipotesi di una derivazione di Σαλ dall’antroponimo Σάλλας (cfr. supra n. 24), oppure, suggestione che avanziamo qui senza alcuna pretesa di soluzione, da σαλία, una voce dorica registrata da Esichio (s.v.), indicante una sorta di canestro portato sul capo dalle donne lacedemoni (Σαλίαˑ πλέγμα καλάθῳ ὅμοιον, ὅ ἐπὶ κεφαλῆς φορούσιν αἱ Λάκαιναι, οἱ δὲ θολία). 33 Vd. il caso della sigla Περ, presente nel decreto di Nemenio e IGDS II 40 e sciolta ora grazie a IGDS II 42 in Perekuataios, di cui Dubois 2008, p. 97 ha sottolineato l’aspetto italico, o di Πεα(κῖνος), attestata a Tauromenion e collegata dalla Antonetti 1987, p. 12 ai Siculi che risiedevano sul Monte Tauro nel 396 a.C. e poi confluiti nella polis di Tauromenion. Sulla dialettica Siculi-Greci sul Tauro in relazione alla fondazione di Tauromenion vd. Arena 2008, pp. 99-103. Cfr. anche Masson 1981, p. 11, che sottolineava la natura anellenica del cognomen

Λαπίρων attestato ad Halaesa e di quelli di altre famiglie notabili siciliane. 34 Così Manganaro 2011, pp. 50, 60, che localizzava il demo a Kale Akte e ipotizzava un collegamento anche con l’isola di Τῆλος, che doveva prendere nome “dall’erba per pascere gli animali che doveva caratterizzare l’isoletta”. 35 Per citarne solo alcune, dai numerosi aggettivi e sostantivi composti afferenti alla sfera semantica dell’avverbio τῆλε, “lontano”, alla città caria di Τήλανδρος, ecc. 36 Ci sembra possano rientrare in questa casistica l’abbreviazione Νητ, attestata ad Akrai (IGDS I, p. 109, l. 19), a Camarina (o Halaesa) (IGDS II, 40, col. I, l. 6; col. 2, ll., 5, 6, 8; col III, l. 5) e nel decreto di Nemenio di Halaesa (SEG LIX, 1100, l. 12), sciolta come Νητῖνος, demotico per cui Dubois 1989, pp. 115-166 ha postulato un toponimo Νῆτον da νήατον/νέατον “l’estremità” (cfr. Hesich. s.v. νῆτος˙ ἔσχατος) o ancora Κρα (IGDS II, 40, l. 13), da svolgersi probabilmente in Κραταιμεῖος (cfr. IGDS II, 42, l. 7), che rimanderebbe ad “altura” o a κραταιά, “celidonia” (così Manganaro 2011, p. 59). Accezioni, quelle di “estremità” e di “altura”, che ben si confanno a demi periferici o localizzati in zone montuose della chora di qualsivoglia polis. In tal caso, tuttavia, difficilmente la ricorrenza delle medesime sigle potrà essere ascrivibile a scelte onomastiche operate indipendentemente delle singole poleis: non ci stupiremmo se in alcune città siciliane di epoca ellenistica, la cui organizzazione civica risentiva forse delle riforme legislative e costituzionali di età timoleontea (vd. Plut. Tim. 35, 4), che secondo alcuni studiosi avevano esteso le istituzioni doriche a tutta la Sicilia greca (Cordano 1999, p. 152; Ghinatti 2004, pp. 35-36), si fosse affermata una sorta di koine ‘amministrativa’, di matrice linguistica dorica, che assegnava ad alcuni “demotici” accezioni generiche, forse riconducibili alla morfologia del territorio o a caratteristiche ambientali dello stesso, come, eventualmente, la presenza della τῆλις o della κραταιά.

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Il Decreto onorifico tardoellenistico da Caronia SEG LIX 1102: per una nuova edizione di consiglio ora di assemblea.37 Nell’editio princeps Manganaro leggeva qui l’invocazione alla Buona Fortuna ([Ἀγαθᾶι τύχαι δεδόχθ]αι τᾶι σύγκλητωι καὶ τᾶι βουλᾶι), riconoscendo di fatto alla città un assetto istituzionale in cui, accanto alla boula, la synkletos si identificherebbe a tutti gli effetti con l’assemblea cittadina, con la rappresentazione di una struttura costituzionale di primo acchito confrontabile con quella nota per il summenzionato decreto siracusano di asylia del 207/6 a.C. (IGDS I, 97, l. 7). Mentre nel decreto registrato nella nostra iscrizione l’ἁλίασμα menzionato a l. 11 sarebbe stato da intendersi come dogma della boula.38 Contro tale restituzione osta in primo luogo il fatto che l’infinito perfetto δεδόχθαι, solitamente utilizzato per introdurre la decisione presa dagli organi deliberanti, non è integrabile in questa sede, che necessiterebbe invece di un verbo coniugato come ἔδοξε,39 ma soprattutto, come recentemente accolto anche dallo stesso Manganaro,40 sembra da escludersi che la synkletos possa identificarsi qui con l’assemblea popolare. Il termine ἁλίασμα, infatti, sottolinea Battistoni,41 rimanda con ogni probabilità all’esistenza qui della ἁλία, l’assemblea popolare del mondo dorico, attestata fin dalla metà del VII sec.,42 cui partecipano i cittadini di pieno diritto, peculiare anche

dell’Occidente dorico di Magna Grecia e Sicilia. In tale contesto la halia appare differente dall’ekklesia sovrana dell’area ionico-attica e di matrice democratica che giunge in Occidente su influenza della politica ateniese prima e della koine ionico-attica poi. È opinione di Ghinatti che essa avesse un’origine indipendente dalle assemblee primarie di fondazione ristrette ai cittadini discendenti dei coloni fondatori (come le esperienze dei “Mille” attestate ad Agrigento, Crotone, Locri e Reggio):43 inizialmente riunita solo per determinati scopi e argomenti prefissati, la halia dapprima si affiancherebbe alle assemblee arcaiche, per poi progressivamente sostituirle quale consesso più rilevante della polis.44 La halia è attestata in Magna Grecia a Eraclea (IG XIV, 645, I, ll. 11, 118; II, l. 10), Taranto (Hesich. s.v. ἁλιαία), Reggio (IG XIV, 612 = IGDGG, 40, l. 1; II-I. sec. a.C.),45 mentre ricorre in Sicilia ad Agrigento (IG XIV, 952 = IGDS I, 185, l. 10; II-I sec. a.C.), Camarina (IGDS I, 117, l. 8; 242 a.C.), GelaPhintias (IG XIV, 256 = IGDS I, 161, ll. 7, 19, 29; I sec. a.C.; IGDS I, 160, l. 6; 242 a.C.), Selinunte (I.Olympia 22, fr. H 4, fine VI sec. a.C.), Entella (IGDS I, 208, l. 28; IGDS I, 211, l. 18; IGDS I, 212, l. 19; IGDS I, 207, l. 14; IGDS I, 209, l. 16), Nakone (IGDS I, 206, l. 33) e forse Halaesa (integrazione in IGDS I, 197, l. 6; II/I sec. a.C.). Haliasmata sono emessi dalla halia a Reggio (IGDGG, 40, l. 5), Gela (IGDS I, 181, l. 4) e Agrigento (IGDS I, 185, l. 8). In un unico caso, IGDS I, 181 (ll. 4-5) di GelaPhintias, l’organo cui si attribuisce l’emissione di un haliasmata (sic!) è apparentemente la boula, il che ha creato non poche difficoltà, in parte superate con l’ipotesi che il termine avesse assunto il significato generico di “decreto” e non avesse più quello specifico di “decreto della halia”, o che fosse attribuibile a una trascrizione (per esposizione nel ginnasio) priva della necessaria acribia.46 Ma, a meno di ammettere anche nella nostra iscrizione una situazione eccezionale, analoga a quella dell’iscrizione geloa, resta in ultima analisi da preferirsi l’ipotesi che l’haliasma sia qui stato emesso, come è logico, dalla halia. La synkletos, pertanto, non dovrebbe coincidere qui con l’assemblea cittadina, bensì identificarsi con un organo, evidentemente altro dalla boula e numericamente ristretto rispetto alla halia. Si potrà pertanto ripristinare con Battistoni la formula di sanzione come [ἔδοξε τᾶι ἁλίαι καθὰ κ]αὶ τᾶι σύγκλητωι καὶ τᾶι βουλᾶι, la cui traduzione “fu deciso dall’halia conformemente alla decisione della boula e della synkletos”, attribuisce di fatto alla città emittente il nostro decreto un sistema istituzionale “tricamerale”, in cui la halia sembra possedere una posizione subordinata rispetto agli altri due organi, dei quali si limita a ratificare la decisione.47 Il sistema “tricamerale” testimoniato dal

37 Aristotele, delineando il concetto di polites, fondato sulla partecipazione alle funzioni di giudice e alle cariche magistratuali, specifica che nei regimi in cui il popolo non assolve funzione politica, e il potere risiede diviso fra vari tipi di giudici e magistrati, οὐδ᾽ ἐκκλησίαν νομίζουσιν ἀλλὰ συγκλήτους. Il termine synkletos, forma aggettivale a due terminazioni riferita, come katakletos, proskletos e eskletos, ad ekklesia, boule, o halia (vd. documentazione in Ghinatti 1996, pp. 7-8), ha la sua prima attestazione tecnico-costituzionale in Demostene (18, 37, 6; 73, 6; 19, 123, 1) ed Eschine (2, 72), dove indica l’assemblea straordinaria delle leghe greche. Ma è significativo trovarlo già nel 442 in Sofocle (Ant. 159-161) per indicare una riunione eccezionale di anziani convocata da Creonte (ὅτι σύγκλητον τήνδε γερόντων προὔθετο λέσχην). Tale tipo di assemblea, richiamandosi etimologicamente all’idea della “convocazione”, secondo Rizzo 196869, p. 369, sarebbe stata priva di sovranità e di permanenza. In tal caso, tuttavia, resterebbe oscuro il processo attraverso il quale, nel contesto delle istituzioni di Magna Grecia e Sicilia, un termine designante in Grecia un consesso di convocazione straordinaria sia passato a indicare un organo permanente dell’ordinamento polis. Secondo la articolata ricostruzione di Ghinatti 1996, pp. 1-19, 131-134, synkletos deriva invece da una tradizione dorica parallela e quella ionico-attica, che ha origini nel mondo greco arcaico con sopravvivenza nelle aree conservative di Magna Grecia e Sicilia, dove diventa consesso principale. Sulle funzioni della synkletos vd. almeno Forni 1957; Ghinatti 1959; Rizzo 1968-69; sintesi della discussione in Ghinatti 1996, pp. 131-134. 38 Manganaro 2009, p. 89, n. 16; cfr. BE 2010, nr. 645. 39 Battistoni 2010, p. 114. 40 Manganaro 2011, pp. 48, 50. Per la tesi precedente Manganaro 2009, p. 89. 41 Battistoni 2010, p. 114 rileva come, a fronte di casi in cui un provvedimento della halia può essere definito dogma, giammai haliasma viene usato per un provvedimento della boula, se non in IGDS I, 181, l. 2. Vd. infra n. 47. 42 La prima attestazione della halia (nella forma ἀλιιαιίνα) ricorre a Tirinto alla metà del VII sec. (SEG XXX, 380, ll. 1-4, 5), nel resto del Peloponneso ad Argo (Syll.3, 56), Epidauro (IG IV, 1, 1090, 45), Micene (SEG III, 312), Tegea (IG V, 2, 6). Nella Grecia Nord-occidentale essa è registrata ad Anattorio (IG IX, 1, 2, 212), Corcira (IG IX, 1, 682). Per la documentazione vd. Ghinatti 1996, pp. 21-24, il quale (Id. 1996, p. 19 n. 123) sostiene la forma senza aspirazione ἀλία sulla base di SEG XII, 239 (475 a.C.) dove, accanto ad ἀλιαίαι (l. 1), si legge (l. 7) hυιός, dunque con la registrazione del segno di aspirazione. Secondo lo studioso lo spirito aspro sarebbe in ultima analisi attribuibile alla trasmissione dotta manoscritta di epoca tarda.

43

Su cui vd. Sartori 1953, p. 115 ss. Ghinatti 1996, p. 133. 45 Su Eraclea vd. Ghinatti 1996, pp. 87-89; Taranto: Ghinatti 1996, p. 114-117; Reggio: Ghinatti 1996, pp. 109-114. 46 Così Dubois 1989, p. 183; Ghinatti 1996, p. 47; Battistoni 2010, p. 114 n. 8, che sottolinea come haliasmata boulas nel prescritto (ll. 2-4), laddove a l. 24 il documento è detto dogma, possa trovare origine in una attribuzione metonimica alla boula di un provvedimento emesso dalla halia (cfr. ll. 7-8: ἔδοξε τᾶι ἁλίαι / καθὰ καὶ τᾶι βουλᾶι). 47 Ghinatti 1998, p. 133 a proposito del decreto di Reggio descrive un dispositivo del genere come decreto della halia “come anche” della 44

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia nostro decreto si aggiungerebbe, quindi, a quelli ad oggi noti per la tarda età ellenistica di Agrigento, Reggio (e forse Siracusa)48 e ancora a Corcira, dove, oltre ad halia e boula (IG IX, 682 e ss.), compare una ἐπείσκλητος (I.Magnesia 44, l. 10), e forse Crotone,49 possedendo, tuttavia, caratteri peculiari, che non sembrano immediatamente sovrapponibili a quelli degli altri casi ricordati. L’ordinamento istituzionale in vigore ad Agrigento (IGDS I, 185) prevedeva, unitamente a boula e halia, una enigmatica “synkletos dei 110”, già oggetto di molteplici interpretazioni, ma presumibilmente dotata di autonomia dalla stessa boula.50 Nell’ambito di quest’ultima linea esegetica spicca ancora una volta la peculiare posizione di Ghinatti, che interpreta la “synkletos dei 110” come un “consiglio oligarchico” assimilabile agli “Ottanta di Argo” -un consesso simile all’Areopago ateniese e ben distinto dalla boula democratica argiva-, dunque un organo non emanazione della boula, bensì possibile sopravvivenza di precedenti consigli aristocratico-oligarchici o formato da ex magistrati con potere di controllo, come la Preiga del bronzo Pappadakis, gli Amnamones di Cnido, le bolai cretesi fino al II sec. a.C.51 Di contro, nel decreto onorifico per Diodoto la boula, menzionata nel prescritto a l. 3, sembra possedere una posizione marginale, priva di ruolo nell’iter deliberativo, non essendo compresa nella formula di risoluzione, che recita (l. 10): ἔδοξε τᾶι ἁλίαι καθὰ καὶ τᾶι συγκλήτωι ρι´. Quale che sia il ruolo del Diocle προαγορῶν a ll. 5-6,52 e il preciso rapporto cronologico dell’epigrafe con le riforme del senato agrigentino attribuite a un Publio Cornelio Scipione dopo la conquista della città,53 il documento rappresenta un

chiaro sbilanciamento di competenze in favore della synkletos a detrimento della boula, espressione della volontà dell’assemblea del popolo. Il fenomeno sembra in ultima analisi da interpretarsi nel quadro di una tradizione poleica conservatrice -Agrigento nel V sec. possedeva la sua assemblea dei “Mille” (Diod. 11, 53, 5)- rinnovatasi nel II sec. a.C. con il ritorno a un assetto oligarchico sotto l’influsso di Roma, che andava orientando i senati locali su prospettive consone al proprio potere, a partire dal sistema della cooptazione.54 Proprio tale squilibrio, evidentemente, marca una differenza non trascurabile del quadro istituzionale di Agrigento rispetto a quello presumibilmente rappresentato nel nostro decreto, dove la boula appare invece partecipe dell’iter deliberativo sebbene non sia chiaro in quale proporzione-, senza che la synkletos ne abbia del tutto ‘espropriato’ l’iniziativa legislativa, come avviene ad Agrigento. Una difformità che, come vedremo più avanti, è potenzialmente valorizzabile come terminus cronologico per la datazione dell’iscrizione da Caronia. Se guardiamo all’altro ordinamento “tricamerale” testimoniato a Reggio nella summenzionata IG XIV, 612 a fine II - inizio I sec. a.C., la formula di sanzione (l. 2: ἔδοξε τᾶι ἁλίαι καθάπερ τᾶι ἐσκλήτωι καὶ τᾶι βουλᾶι) appare meglio confrontabile con quella del nostro decreto per via della presenza della boula all’interno dell’iter deliberativo.55 A Reggio però il “terzo” organo non è definito synkletos, bensì ἔσκλητος, forma linguistica dorica ritenuta corrispondente allo ionico-attico ἔκκλητος.56 Da una glossa di Esichio apprendiamo che a Siracusa il termine designava un consesso degli ἔξοχοι, i “notabili”, identificato con l’assemblea primaria siracusana, dunque senza rapporto di rappresentatività con la popolazione, che venne successivamente affiancata dall’assemblea popolare.57 Ora, se, come vorrebbe Dubois,58 è istituibile un nesso fra la realtà di Reggio e quella siracusana, la testimonianza esichiana è significativa della qualità di consesso ‘ristretto’ della eskletos regina, ritenuta, a partire da Dittenberger, organo intermedio fra boula e halia;59

eskletos e della boula; si tratterebbe cioè di “decreti complementari di tutti consessi della polis.” Cfr. Ghinatti 1996, p. 113. Diversa la posizione di Dubois 1989, p. 104, che richiama in proposito l’uso attico, in cui l’organo che segue καθὰ καὶ è solitamente quello che prepara i decreti ratificati dall’assemblea che precede questa formula; in un ordinamento di tipo “tricamerale”, quale suo giudizio quello di IGDS I, 97, la boula prepara i decreti della synkletos, “organe législatif fondamental dont le decisiones peuveunt être, mais sans doute à titre formel à cette époque, entérinées par le damos ou l’halia”. 48 Il caso di Siracusa resta difficile da valutare: nel decreto siracusano di asylia (IGDS I, 97), la formula di sanzione è mutila e di conseguenza sono congetturali l’effettiva funzione della synkletos e la presenza stessa della boula. Integrava nella formula di risoluzione la presenza della boula Wilhelm 1909, pp. 181-182, seguito da Dubois 1989, p. 104; di contro Holleaux 1952, p. 327 integrava qui la menzione del damos. 49 Su Crotone vd. Sartori 1953, p. 116. 50 La synkletos akragantina è un organo intermedio distinto dalla boula per Sartori 1953, p. 136; Calderone 1959, pp. 121-122; Cordano 1986, p. 128. Essa è invece parte della boula a giudizio di Manganaro 1963, pp. 210-211, che assegna all’iscrizione una datazione al I sec. a.C.; Toulomakos 1967, p. 162; indica invece un sinonimo della boula per Dubois 1989, pp. 211-213, che data il documento poco dopo il 210 a.C. 51 Ghinatti 1996, p. 35. Sulle varie tipologie di consiglio nel mondo greco vd. ora Wallace 2013. 52 La figura è stata collegata al proagorus, ricordato da Cicerone (Verr. 4, 23, 50; 39, 85-86) come massimo magistrato delle città siceliote nel I sec. a.C:, le sue funzioni sono variamente interpretate da presidente della halia a portavoce unico delle città di Sicilia nei rapporti col governatore romano. Ampia bibliografia in Ghinatti 1996, p. 37, n. 69. Va sottolineato, con Manganaro 1963, pp. 216-220, come il participio in questo documento potrebbe ancora possedere mero valore etimologico e non designare ormai il proagorus. 53 Agrigento, conquistata nel 210 (Liv., 26, 40, 13), riconquista l’autonomia nel 197-193 con ripopolamento di nuovi coloni. Il senato cittadino fu oggetto della riforma di un Publio Cornelio Scipione, identificato ora con l’Africano Maggiore nel 204 (Rizzo 1968-69), ora

con l’Asiageno pretore in Sicilia nel 193 (Gabba 1959, p. 310, n. 9), che mutò i requisiti necessari per l’accesso basati su genus, census e aetas, e facendo sì che la maggioranza restasse ai veteres cives (Cic., Verr. 2, 2, 50, 123-124). 54 Ghinatti 1996, p. 38. Cfr. Rizzo 1968-69, pp. 389-391, che accentua il carattere ormai ‘romano’ della synkletos agrigentina, che avrebbe lontane origini timoleontee, divenuto un senato locale ‘stabilizzato’ mediante la cooptatio. 55 Non sopravvaluteremmo (cfr. Ghinatti 1996, p. 113, n. 206) la differenza fra il formulario del decreto regino, recante καθάπερ, “secondo la decisione presa anche da”, “d’accordo anche con”, frequente ad Atene, e consueto anche in area dorica (IG V, 2, 343; 8; 396) e il καθά καί usato dei decreti sicelioti, giacché le due formule appaiono sostanzialmente di eguale significato e funzione. 56 Così Schwyzer 1923, p. 430; contra Thumb, Kieckers 1932, p. 192. Buck 1955, p. 53; Dubois 1995, pp. 109-111. Sulla questione vd. Ghinatti 1996, p. 56. 57 Esych., s.v. ἔσκλητος: ἡ τῶν ἐξόχων συναρθροίσις ἐν Συρακούσαις. Per questa interpretazione vd. Ghinatti 1996, pp. 55-56. 58 Dubois 1995, pp. 109-111: il termine sarebbe sarebbe stato esteso da Dionisio I alla vecchia assemblea dei “Mille” di Reggio, mutuandolo dalla realtà siracusana. 59 Syll.3, 715, n. 2; Rhodes, Lewis 1997, p. 506; cfr. Battistoni 2010, p. 114. Su IG XIV, 612 (=IGDGG, 40) vd. ora D’Amore 2007, pp. 21-24. Da Wilhem 1909, p. 181 assemblea popolare straordinaria. L’ incertezza sullo status giuridico della eskletos di Reggio ben si riassume nell’opinione di Forni 1956, p. 67, secondo cui essa poteva risolversi in

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Il Decreto onorifico tardoellenistico da Caronia SEG LIX 1102: per una nuova edizione mentre non è mancato chi, come Sartori o Ghinatti, ha tentato di specificarne la natura di assemblea ordinaria, ristretta e distinta dalla halia, sopravvivenza o restaurazione dell’assemblea dei “Mille”, che governava Reggio nel VI sec. (Ps. Heraclid. 55, p. 32, Dilts).60 Essa sarebbe stata costituita dai cittadini formanti il nucleo originario della città, cui si affiancava la halia, sorta indipendentemente dai “Mille” e coincidente per fisionomia e attribuzioni con la ekklesia di matrice ionico-attica, che rappresentava la polis tutta. In età ellenistica avrebbe conservato poteri formali di ratifica delle decisioni del consiglio.61 Tornando ora al nostro documento, poiché non disponiamo di altre evidenze epigrafiche, come di qualsivoglia testimonianza storiografica, che possano offrire uno spaccato diacronico sull’assetto istituzionale della città, resta arduo dipanare il problema della precisa natura della synkletos nel contesto di nostro interesse, natura che si riflette sull’interpretazione ultima dell’ordinamento della polis di Kale Akte. Contrariamente alla boula, che nell’esperienza ionico-attica è emanazione dell’assemblea popolare, la synkletos, non a caso legata da Aristotele a forme costituzionali non ‘democratiche’, costituisce solitamente un organo a latere, sottratto al principio di elettività e il cui potere non è derivazione dell’assemblea popolare. Essa è forse sopravvivenza di precedenti consigli aristocratico-oligarchici, che, in seguito alla diffusione della esperienza politica ateniese, vennero percepiti come synkletoi, organismi ristretti rispetto a una totalità più ampia.62 In linea di principio, dunque, la synkletos attestata nella nostra epigrafe potrebbe essere una seconda assemblea ristretta, continuazione di una assemblea di fondazione, quale sarebbe la eskletos di Reggio, ovvero un secondo consiglio, come pare essere la “synkletos dei 101” di Agrigento, senza poter escludere, ad es., quanto Calderone proponeva a proposito della synkletos di Halaesa registrata in IGDS I, 197, l. 6 e cioè la qualità di “assemblea ristretta di cittadini anziani”, confrontabile con la gerousia e analoghi consessi di città doriche.63 Non è chiaro, dunque, se Kale Akte possieda in epoca tardo-ellenistica due assemblee e un consiglio o viceversa due consigli e una assemblea. Resta invece innegabile il carattere moderato dell’assetto costituzionale testimoniato dal decreto, che assegna maggior peso agli organi ristretti (synkletos e boula) e minore all’assemblea popolare (halia). Una situazione ben confrontabile con quella che compare, ad es., nei decreti IGDS I, 204-205, 209 di Entella, realtà politica nella quale, però, l’esistenza di un corpus epigrafico numericamente cospicuo consente di interpretare con certezza la subordinazione del ruolo della halia a quello

della boula come uno sviluppo ascrivibile a influenza romana.64 Indubbiamente il dato di maggiore rilevanza del documento è la nuova attestazione di una synkletos nell’ambiente istituzionale d’Occidente, che merita, quindi, un ulteriore approfondimento, in particolare relativamente alle sue possibili origini nel contesto della polis di Kale Akte, su cui rimandiamo infra. Ll. 5-8. È verosimile che alla l. 5 avesse inizio la formula della motivazione estesa con proposizione causale, introdotta da ἐπειδὴ, con cui si elencavano i meriti dell’onorato;65 essa doveva essere particolarmente sintetica, specie se confrontata col decreto di Nemenio, del quale pare riecheggiare la struttura sviluppata sulla causale ἐπειδὴ ὁ δεῖνα φανερός ἐστι e seguita una lunga serie di participi predicativi (SEG LX, 1100, ll. 14-19). In lacuna era il nome del personaggio onorato, mentre la lettura di un sigma a inizio linea ( ]σάνδρου) consente di restringere alquanto le opzioni ricostruttive relativamente al nome del padre dell’ignoto personaggio.66 Per quanto concerne il demotico Τηλ rinviamo a nostre considerazioni espresse supra a l. 2. Ancora alla l. 5 il testo conservato, φανερός ἐστι, ἁμῶ[ν], si collega chiaramente all’inizio della l. 6 al participio predicativo di un verbo indicante l’attenzione dell’onorato per la comunità (ἁμῶ[ν] / [- - - προνοούμενος]), che si espletava καὶ λόγωι καὶ ἔργωι; mentre il δίκαιον δὲ potrebbe sottintendere un ἐστί all’inizio della l. 7, che funge da reggente dell’infinito ποιεῖσθαι nella stessa linea. A inizio del testo conservato della l. 7 sembra leggibile la sequenza ẠΤ̣ΟΝ.67 La successiva presenza di μνάμαν consente di ricostruire qui verosimilmente l’aggettivo ἀθάνατον attestato in iunctura con μνάμαν nel decreto di Nemenio (l. 21). Ma soprattutto, a sua volta μνάμαν funge da oggetto del verbo ποιέομαι col significato di “serbare ricordo”, come attestato a fine III sec. a.C. a Rodi (IG XII, 1, 761, l. 47), Delfi (FD III, 3, 145, l. 10) e Laodicea di Frigia (MAMA, VI, 5, l. 11). Nella stessa linea, dopo ποιεῖσθαι è una successione di lettere fin qui di problematica lettura; dopo un riesame della pietra con luce radente (Fig. 2) ci sembra proponibile con buona

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Ampolo 2001, pp. 10-11. Ghinatti 1998, p. 136; Fantasia 2001, p. 60. 66 L’ambiente epigrafico occidentale attesta Σώσανδρος a Tauromenion (IG XIV, 421, l. 145), Velia (IG XIV, 661, l. 2), nella “lista reclute” (IGDS II, 40 col. II, l. 2) e in un’iscrizione su lamina plumbea dall’area siracusana, ca. 200 a.C. (IGDS II, 59, ll. 8-9) (vd. Fraser, Matthews 1997, p. 411); Τείσανδρος a Messana (IG XIV, 401, ll. 4, 10) e su lamella plumbea da Camarina (IGDS II, 58, l. 7) (vd. Fraser, Matthews 1997, p. 422); tale documento attesta alla medesima linea anche un altro nome compatibile come Ἀγήσανδρος, presente anche ad Antium (IG XIV, 1227, l. 1) (Fraser, Matthews 1997, p. 9). Altre opzioni compatibili sono: Λύσανδρος (Tauromenion: IG XIV, 421, col. 1, ll. 37, 39; col. II, 161, 226; Aix-en-Provence: IG XIV, 2467, l. 2; Fraser, Matthews 1997, p. 282), Ἀρέσανδρος (Tauromenion: IG XIV, 421, col. 1, ll. 14, 37, 39, 73; Fraser, Matthews 1997, 53), Θάρσανδρος (Taranto: IG XIV, 2393, 282 1), Θέρσανδρος (Tauromenion: IG XIV, 2393, 283, l. 1; Fraser, Matthews 1997, p. 207), Πείσανδρος (Messana: IG XIV, 401, l. 10; Fraser, Matthews 1997, p. 358). 67 Ad inizio lacuna è traccia di un tratto discendente obliquo verso destra attribuibile a un alpha; segue quello che sembra un tau alquanto sbiadito e un omicron pressoché legato all’asta verticale del ny finale, che è invece chiaramente leggibile. 65

parte della halia o della boula o comprendere quest’ultima o ancora “essere strumento ratificante o latore nella fase iniziale, intermedia o finale del processo legislativo, ma non perciò e di per se stessa organo deliberante”. 60 Sartori 1953, pp. 135-136. 61 Ghinatti 1996, p. 113; cfr. per questa interpretazione Costabile 1978, pp. 44-52; Camassa 1987, p. 636; Dubois 1995, p. 109; D’amore 2007, p. 23. 62 Così Ghinatti 1996, p. 134. 63 Calderone 1961, pp. 134-135; contra Manganaro 2001, p. 71, n. 66; Id. 2009, p. 88, n. 9. Sul documento vd. recente Prestianni Giallombardo 2010.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia verosimiglianza la sequenza ΔΕΔΟΚΤΑ̣,68 che non potrà che individuare δέδοκται, l’indicativo perfetto di δοκέω. Ci saremmo aspettati, qui o altrove, ad introdurre la deliberazione della città, un costrutto ipotattico con la più frequente forma infinitiva δεδόχθαι;69 tuttavia, la spiccata sinteticità del nostro testo, del tutto estraneo all’ampio periodare di molti decreti tardo-ellenistici, e soprattutto il confronto con un’epigrafe delfica (FD III, 4, 56, l. 12),70 ove la forma finita del perfetto assolve alla medesima funzione, in ultima analisi autorizza a ipotizzare anche nel nostro decreto, pur non comune, una situazione sintattica analoga; δέδοκται, che sarà stato seguito da un connettivo (οὖν o δέ) e la menzione della città,71 introdurrà qui il vero e proprio provvedimento onorifico, espresso a mezzo della infinitiva εὐεργ]έτ̣αν αὐτὸν εἴμειν τοῦ δάμου. Il senso di questa sezione del documento era, dunque, il seguente: poiché era evidente (φανερός) che l’onorato si prendeva cura del corpo cittadino con parole e opere (ἁμῶ[ν] / [- - - προνοούμενος] καὶ λόγωι καὶ ἔργωι), era giusto (δίκαιον δὲ / [ἐστι) serbare ricordo immortale dello stesso (αὐτοῦ ἀθάν]α̣τ̣ον μνάμαν ποιεῖσθαι); pertanto, era stato decretato dalla città (δέδoκτα̣[ι] / [οὖν τᾶι πόλει (?)]) che il personaggio fosse evergete del demo (εὐεργ]έτ̣αν αὐτὸν εἴμειν τοῦ δάμου).

significativamente menzionato nel nostro documento a l. 14, e non un koinon, nella sua accezione più generica, ad assolvere questa funzione. Concordiamo, pertanto, con la restituzione in questa parte della linea di δᾶμος come soggetto del verbo δύναται a l. 10, che regge un infinito in lacuna, da cui dipendono gli accusativi χάριτας (di cui confermiamo la corretta lettura di Battistoni) τὰς καταξίας, da identificarsi in ἀπονέμειν: χάριτας /[καὶ τὰς τιμὰς ἀπονέμει]ν̣ τὰς καταξίας. Ne consegue che τὸ κοινὸν, da intendersi ora come accusativo, non può essere retto direttamente dal participio -μέν]οις, non esistendo un verbo medio-passivo della sfera semantica della euergesia che sia di genere transitivo. Resta dunque preferibile integrare qui la formula τοῖς εὐεργετεῖν προαιρουμέν]οις, ben attestata, specie nella Doride d’Asia, sia con l’accusativo precedente l’infinito che in posizione seguente προαιρουμένοις (soprattutto IGUR 21 e IG XII, 5, 817, l. 13),76 lasciando dipendere τὸ κοινὸν dall’infinito εὐεργετεῖν: “beneficare la comunità”.77 Il senso della sezione è, dunque, che il damos nominava l’anonimo onorato evergete, affinché la propria generosità nei confronti di quanti sceglievano di beneficare la comunità (τοῖς εὐεργετεῖν προαιρουμέν]οις τὸ κοινὸν), fosse evidente anche ai posteri ([ὅπως φανερὸν ἦι] τ̣οῖς ἐπιγινομ̣έν̣ οις) mediante l’attribuzione dei ringraziamenti e degli onori appropriati (δύναται χάριτας / [καὶ τὰς τιμὰς ἀπονέμει]ν̣ τὰς καταξίας).

Ll. 9-11. Ricostruibile in queste linee qui una formula introdotta da ὅπως, che costituisce la componente di “Zweck der Ehrung”,72 l’esaltazione dell’orgoglio municipale, peculiare dei decreti onorifici ellenistici. Per suo tramite la polis intendeva rendere noto a tutti, altre poleis comprese, che, nell’onorare i benefattori, essa assolveva un dovere che costituiva una tradizione patria.73 A fine linea l’esame autoptico da noi condotto conferma un’assenza di tracce di incisione sulla pietra fra ΟΤΙ e Ο, che ha reso incerta l’esegesi di queste linee. Di recente Manganaro ha restituito qui [τ]ο[ῖς], da concordarsi con il presumibile participio -μέν]οις della l. 10, ritenendo τὸ κοινὸν soggetto del verbo δύναται e facendo in ultima analisi della “comunità”, intesa come polis tutta, l’ente che elargisce i dovuti onori all’anonimo personaggio.74 Il confronto epigrafico con documenti di area siceliota (IGDS I, 207, ll. 11-3; 185, l. 19 e Syll.3, 709, l. 47), peraltro richiamati dallo stesso studioso,75 lascia tuttavia rilevare come sia solitamente il damos,

Ll. 12-14. La menzione, nella formula di pubblicazione del decreto di due trascrizioni su tavole di bronzo (τὸ δὲ ἁλίασμα / [ἀναγράψαι εἰς χαλκ]ώματα δύο),78 l’una da esporsi verosimilmente nel tempio di Apollo ([τὸ μὲν ἐν τῶι ἱερῶι τοῦ Ἀ]πόλλονος), l’altro da donarsi al personaggio destinatario degli onori a ricordo della benevolenza nei confronti del popolo (τὸ δὲ δόμειν/[(τῶι δεῖνι) ὑπόμναμα τᾶς πο]τὶ τὸν δᾶμον), sicuramente rende di primo acchito oscura l’origine del nostro documento, che è invece redatto su marmo. Ci saremmo aspettati, infatti, un testo su tavola bronzea, magari della tipologia a facciata templare dei due eleganti esemplari del decreto di Nemenio o della copia dei Melitensi, di fattura meno pregevole, del decreto di proxenia di Agrigento per Demetrio Siracusano conservato al Museo di Napoli (IG XIV, 953). Sostanzialmente speculative le ipotesi percorribili per spiegare l’incongruenza tra le prescrizioni dell’aliasma e il documento materiale giunto sino a noi: una prima possibilità è che fra il momento dell’archiviazione del

68

In questa parte della linea Battistoni 2010, p. 115, n. 10 leggeva dubitativamente δεδ̣ό̣χ̣θ[̣ αι]. Dopo delta ed epsilon l’angolo in basso a sinistra e quello in alto nel mezzo sono effettivamente riconducibili ad un secondo delta; la successiva traccia semicircolare potrebbe ben essere un omicron addossato al delta e con occhiello alquanto sbiadito sul lato destro; la lettera successiva è però chiaramente distinguibile come un kappa, seguita da un altrettanto chiaro tau e infine da tracce del tratto discendente obliquo verso sinistra riferibile a un alpha. 69 Cfr. Battistoni 2010, p. 115. 70 FD III, 4, 56, l. 12: ἐν τούτοις οὖν, ἀγαθᾷ τύχᾳ, δέδοκται τᾶι πόλει τῶν Δελφῶν σὺν ψάφοις ταῖς ἐννόμοις, ἐπαινέσαι Ἀριστόνουν, κτλ. 71 Cfr. FD III, 2, 94 l. 12 (δεδόχθαι ο[ὖν τᾶι π]όλει στεφανῶσαι τὸν δᾶμον κτλ.) o IG XII, 3, 331, l. 36 (δεδόχθαι δὲ ἐπαινέσαι αὐτὸν κτλ.). Sugli usi connettivi di οὖν e δέ vd. Denniston 1954, pp. 425-430 e pp. 162-165. 72 Larfeld 1914, p. 377 ss. 73 Calderone 1985-86, p. 14. 74 Manganaro 2011, p. 50. 75 Manganaro 2009, p. 89, n. 15.

76 Vd. anche Rodi: IG XII, 1, 155 d, I, 1.1; SEG XXXIII, 639, l. 6; Coo e Calymna: SEG XXVII, 510, l. 26; SEG XXVII, 513, l. 13. 77 Cfr. in tal senso il celebre decreto entellino in onore di Tiberio Claudio Anziate, ove, pur con diversa fraseologia, la “comunità” appare come destinataria dei servigi dell’onorando (IGDS I, 207, l. 6-7: ἐπειδὴ Τεβέριος ... πολλὰς καὶ μεγάλας χρείας παρίσχηται τῶι κοινῶι). 78 All’infinito aoristo medio γράψασθαι, proposto nelle precedenti edizioni del documento, inusuale perché indicante in contesto attico l’iscrizione a una tribù o un demo, è forse preferibile qui l’infinito aoristo attivo ἀναγράψαι o passivo ἀναγραφῆναι, (con numerosi confronti epigrafici in cui sia l’una che l’altra forma sono posposti, come nel nostro caso, alla menzione dello psephisma), impiegando cioè il verbo ἀναγράφω, che indica la trascrizione amministrativa e non la semplice azione materiale dell’incisione; cfr. Boffo 2005, pp. 113-114; sugli archivi ellenistici vd. Boffo 2003. Sull’attestazione dell’aoristo passivo nella koine dorico-sicula vd. Sicca 1924, p. 127.

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Il Decreto onorifico tardoellenistico da Caronia SEG LIX 1102: per una nuova edizione decreto e quello dell’esposizione al pubblico in copia ἐς ἀεί sia accaduto qualcosa che ci sfugge e per motivi ignoti, a dispetto della formula di pubblicazione, una delle due copie non sia stata trascritta su bronzo, bensì su marmo. Diversamente, dobbiamo ipotizzare che l’epigrafe su marmo costituisca una ‘ripubblicazione’ del decreto, dunque realizzata in un secondo tempo rispetto alle due versioni su bronzo, con la conseguente impossibilità di datare oggi il documento originale solo su base paleografica.79 Benché la questione sembri al momento destinata a restare aperta, non sarà tuttavia inopportuno richiamare qui l’attenzione su alcuni particolari, emersi dall’autopsia del frammento, potenzialmente utili per ulteriori approfondimenti: la presenza di incassi sul lato destro del retro e sul bordo superiore del frammento sembra funzionale a un alloggiamento della lastra marmorea entro una superficie. In particolare, la lavorazione abbastanza accurata del retro del supporto, che rende piuttosto improbabile l’ipotesi di un reimpiego tardo e casuale della lastra, prescindente cioè dalla fruizione del documento iscritto, potrebbe indicare come la trascrizione su marmo venne preparata appositamente per essere collocata nella muratura di un preesistente edificio. Considerata la ‘nobiltà’ del materiale scelto come supporto dell’epigrafe, questo sarà stato probabilmente pubblico, come il bouleuterion cittadino, la cui esistenza deduciamo dalla menzione della boula, il portico dell’agora, ovvero ancora qualche tipo di monumento onorario.80 Assai preziosa a l. 13 la verosimile menzione di uno hieron di Apollo ([τὸ μὲν ἐν τῶι ἱερῶι τοῦ Ἀ]πόλλονος), che va a integrare altre testimonianze relative alla presenza apollinea in Kale Akte, come l’emissione monetale recante al D/Testa di Apollo laureato; R/ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ e cetra,81 e la possibile menzione della città nell’iscrizione delfica (SGDI 2580) registrante l’itinerario compiuto dai theoroi delfici in Magna Grecia e Sicilia all’inizio del II sec. a. C.82 Se, com’è presumibile dal ruolo di epiphanestatos topos cittadino assegnatogli dal nostro documento, questo Apollonion costituiva il tempio poliadico, avremmo qui ulteriore prova dell’importanza del culto apollineo, già attestato a Herbita e Halaesa, anche in questa parte della Sicilia settentrionale;83 troverebbe inoltre conferma l’ipotesi che vuole il culto di

Apollo in Kale Akte risalire, come ad Halaesa, al momento della fondazione. 84

Elementi sulle origini della synkletos di Kale Akte: tra Ducezio e Timoleonte. Impossibile affermare quale sia esattamente il posto di questo decreto onorario nella storia della città di Kale Akte. Nella sua estrema semplicità il testo, purtroppo, non offre di primo acchito alcun punto di ancoraggio cronologico saldo; cionondimeno esso si rivela di notevole intesse storico, giacché, all’interno di contenuti tutto sommato alquanto stereotipati, offre, come si è visto, una nuova attestazione di una synkletos, che va ad arricchire la documentazione delle istituzioni della Sicilia tardo-ellenistica, e che, pertanto, necessita ora di alcune considerazioni. Innanzitutto è ragionevole ritenere che la synkletos di Kale Akte possa essere un organo ristretto ‘residuale’, probabilmente preesistente alla conquista romana della Sicilia, al pari di quanto ipotizzato nel caso di Halaesa (IGDS I, 197) e Centuripe (IGDS I, 189, l. 11),85 che conferiva all’ordinamento costituzionale della polis un carattere chiaramente moderato. La pressoché totale oscurità della storia di Kale Akte nei secoli successivi alla fondazione di Ducezio nel 446 fino al I sec. a.C. rende certamente oltremodo difficoltoso individuare il momento della sua eventuale istituzione. Le fonti letterarie, infatti, tacciono del tutto sulle vicende della città sino al tempo delle ruberie di Verre negli anni ‘70 del I sec. a.C.86 Tale vuoto documentario, inoltre, è ben lungi dall’essere colmato da un dossier di fonti numismatiche ed epigrafiche relative alle fasi tardo-ellenistiche della città che, pur integrato ora dal documento in esame, resta ancora tutt’altro che cospicuo. Qualunque tentativo di ricostruzione della ‘microstoria’ di Kale Akte anteriormente alla conquista romana della Sicilia, pertanto, deve avvalersi di una lettura per lo più in filigrana di una narrazione storiografica ovviamente centrata sulle vicende degli attori maggiori della storia della Sicilia e che riserva accenni per lo più cursorii alle città siciliane minori e a quelle del versante tirrenico della Sicilia in particolare. Nell’esplorare le varie possibilità per l’origine della synkletos di Kale Akte, un primo scenario a nostro giudizio non può che condurre all’orizzonte cronologico della fondazione, il cui resoconto ci è conservato in Diodoro (12, 8, 1-2):87 Ducezio nelle sue precedenti

79 Così Battistoni 2010, p. 116. Il confronto con una iscrizione decurionale su marmo dalla Villa del Casale, che alluderebbe a una trascrizione su bronzo, richiamato da Manganaro 2011, p. 51, ci sembra possa rientrare nella casistica della ripubblicazione, anziché testimoniare l’autonomia della trascrizione su bronzo dal decreto principale. 80 Cfr. per Halaesa Burgio 2012 e Prestianni Giallombardo 2012a. Sull’importanza dell’agora nelle città ellenistiche della Sicilia come spazio di comunicazione politica vd. ora Ampolo 2012b, p. 14; sul concetto di epihanestatos topos Battistoni 2012. 81 Mannino 1986-87, p. 131; Carroccio 2004, pp. 176-177. Sulla circolazione monetale degli esemplari di Kale Akte vd. Puglisi 2009, pp. 269-270. 82 Inizialmente integrato nella lacuna a l. 112 (ἐγ Κ[̣αλῆι Ἀκτῆι; Manganaro 1963, p. 437; Manganaro 1980, p. 419, ma contra vd. Manni 1966, p. 174, che preferiva leggere qui Kephaloidion), il nome di Kale Akte viene ora recuperato alla l. 114 (Manganaro 1996, pp. 136137; cfr. Facella 2006, pp. 194-195). 83 Sul culto di Apollo ad Halaesa vd. Prestianni Giallombardo 2003, pp. 1075-1081; Cusumano 2007, p. 78; Facella 2006, pp. 318-322.

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Così Cusumano 2007, p. 78, il quale collega il culto apollineo in Kale Akte all’oracolo, dunque delfico, che “aveva legittimato sacralmente l’ultima impresa di Ducezio” e ravvisando nell’Apollo di Kale Akte i caratteri dell’Archegetes, “fondatore e tracciatore dei confini e della corretta distribuzione degli spazi”. Ma sull’anonimo oracolo ricevuto da Ducezio vd. Prestianni Giallombardo 2006, che lo identifica invece, non senza validi argomenti, con quello di Dodona. Per la originarietà del culto apollineo a Kale Akte vd. anche Manganaro 2009, p. 90, n. 18. 85 Per tale prospettiva vd. Calderone 1961, pp. 134-135 (Halaesa) e Ghinatti 1996, p. 41 (Centuripe). 86 Cicerone ricorda i Calactini costretti ad appaltare la decima ad Amestratos (Cic. Verr., 2, 3, 101), e a subire le consuete vessazioni dal rapace governatore (Cic. Verr., 2, 4, 49). 87 Diod. loc.cit: Κατὰ δὲ τὴν Σικελίαν Συρακοσίοις πρὸς Ἀκραγαντίνους συνέστη πόλεμος διὰ τοιαύτας αἰτίας. Συρακόσιοι καταπολεμήσαντες Δουκέτιον δυνάστην τῶν Σικελῶν, καὶ γενόμενον ἱκέτην ἀπολύσαντες

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia fondazioni ‘sicule’ di Menainon (Diod. 11, 78, 5) e Palike (Diod. 11, 90, 1) aveva fatto esplicito ricorso alla prassi ellenica della divisione e distribuzione delle terre;88 non stupirebbe, nel caso di una ktisis, cui prendono parte coloni greci e siculi, che egli desse impulso anche alla strutturazione della sfera politica. Un’operazione che egli avrebbe effettivamente avuto il tempo di condurre, essendo rimasto a Kale Akte dalla fondazione alla propria morte nel 440/39, ma che dovette altresì rivelarsi quanto mai necessaria: durante quei pochi anni, infatti, Ducezio continuò a stanziare nella città nuovi coloni (Diod. 12, 29, 1),89 evidentemente raggiungendo un incremento demografico tale da autorizzarlo a battersi per (o reclamare) l’egemonia sui Siculi (ἀντεποιήσατο μὲν τῆς τῶν Σικελῶν ἡγεμονίας), un dato, come vedremo, non poco significativo. È consequenziale che a questa sorta di politographia seguisse una organizzazione dell’ordinamento istituzionale e del corpo civico, che tenesse in qualche misura conto della natura ‘mista’ della neofondazione. Ora, se l’assetto tricamerale testimoniato dal documento può risalire agli anni ‘duceziani’ di Kale Akte, è ragionevole ritenere che qualche indizio sulla natura della synkletos calactina, possa ricercarsi nelle peculiari circostanze e nelle singolari caratteristiche della ktisis, i cui contorni ‘politici’, tuttavia, non sono immediatamente perspicui. La critica, infatti, ha espresso in merito due orientamenti fondamentalmente divergenti: per alcuni la fondazione duceziana sarebbe stata possibile solo col tacito consenso o l’appoggio siracusano, avrebbe avuto funzione antiacragantina, giacché, colpendo gli interessi di Agrigento sul Tirreno, sarebbe stata all’origine della guerra scoppiata fra Siracusa e Agrigento (Diod. 12, 8, 3-4),90 ma soprattutto avrebbe avuto luogo al netto di interessi ateniesi su questa parte dell’isola.91 Sull’altro versante, valorizzando il dettato diodoreo, che riferisce di una condotta simulatrice (προσποιησάμενος) di Ducezio, laddove egli aveva attribuito alla volontà di un oracolo divino la fondazione di Kale Akte, e di un esplicito scioglimento degli accordi con Siracusa, si sono individuate le finalità sostanzialmente antisiracusane della ktisis, realizzatasi in ultima analisi anche grazie ad una intesa con Atene.92 A integrazione, e parziale critica, di quest’ultima interpretazione, va tuttavia osservato che nella narrazione

diodorea della ktisis, risalente presumibilmente a fonte filosiracusana e di tendenza antidemocratica,93 la rappresentazione dell’azione di Ducezio come esplicitamente infedele nei confronti di Siracusa ha tutta l’aria di avere una funzione apologetica per quest’ultima.94 Ciò a nostro giudizio, però, non prova necessariamente che la fondazione di Kale Akte fosse stata eterodiretta da Siracusa e che questa, nell’ottica di un successivo avvicinamento ad Agrigento, prendesse a posteriori le distanze dalla fondazione di una città che aveva in ultima analisi causato la guerra con Agrigento. Costante rilievo di chi ha sostenuto la tesi della longa manus siracusana sull’impresa di Ducezio è la valutazione che questi non avrebbe potuto muoversi da Corinto senza il consenso della città dell’Istmo e della stessa Siracusa. Ora, nel testo di Diodoro il viatico per la partenza di Ducezio da Corinto e la fondazione di Kale Akte, il fattore che consente al dinasta siculo di sciogliere i patti con i Siracusani che ne prevedevano l’esilio a Corinto, è l’oracolo “degli dei”, un oracolo cui i Corinzi evidentemente non si oppongono o non possono opporsi, perché particolarmente legati ad esso.95 E tuttavia tale chresmos nella rielaborazione a posteriori degli eventi riportata dalla fonte filosiracusana è ritenuto falso e, dunque, la fondazione di Kale Akte sostanzialmente frutto della menzogna. Non abbiamo ragione di crederlo; non c’è dubbio che la spedizione avesse un qualche tipo di riconoscimento ‘statale’, come dimostra il contingente di coloni peloponnesiaci al seguito di Ducezio, ma il particolare è significativo dell’ottica tendenziosa dell’intero passo diodoreo sulla ktisis: a nostro giudizio il responso di fondazione rappresenta invece plasticamente la tutela politica di cui certamente godette Ducezio. Dietro la sanzione oracolare della fondazione potrebbe esserci un accordo del capo siculo con Atene e/o con ambienti corinzi filoateniesi,96 che giustificherebbe la 93

La fonte per la storia siceliota e di Ducezio nell’XI libro di Diodoro è comunemente identificata con Timeo (Meister 1967, pp. 44-51; Haillet 2002, pp. 11-12), storico che, secondo Prestianni Giallombardo 2006, p. 139, è anche dietro il passo sulla ktisis di Kale Akte. Ci chiediamo, tuttavia, se il ruolo decisivo svolto dei maggiorenti siracusani nell’atto di clemenza verso il capo siculo, presentatosi supplice all’assemblea siracusana, di contro al giudizio negativo espresso nello stesso frangente sui demagoghi siracusani (Diod. 11, 92), nonché il tono assolutorio per Siracusa nell’affaire della ktisis di Kale Akte e dalla successiva guerra con Agrigento non possano in ultima analisi risalire a una fonte storiografica propriamente siracusana e di tendenza antidemocratica (cfr. Miccichè 2006, 129, n. 46), che potrebbe identificarsi con Filisto, il quale, com’è noto, trattò gli eventi siciliani del V sec. nei libri III-V del suo Peri Sikelias (Bearzot 2002, p. 109). Per un uso diodoreo di Filisto per tramite di Eforo vd. Barber 1935, pp. 166-167. Sul rapporto fra Eforo e Filisto vd. Vattuone 2002, pp. 538-544. Filisto sarebbe stata invece fonte principale e diretta dello storico agiriota per Sanders 1981. 94 Cfr. Miccichè 2014, p. 244. 95 Sull’identità dell’oracolo vd. supra n. 84. Riduttiva la posizione di Salmon 1984, p. 389, secondo il quale Corinto aveva semplicemente consentito la fuga di Ducezio. 96 Maddoli 1977, p. 155 ipotizza che a Corinto, malgrado la rottura dei rapporti con Atene intorno al 461/60 per l’alleanza ateniese con Megara, potesse ancora sussistere un partito o un orientamento filoateniese. Che tale partito esistesse o meno, alla vigilia della fondazione di Kale Akte Corinto ha una posizione di sostanziale neutralità nei confronti di Atene, in virtù della tregua quinquennale del 451/50 stipulata da Atene con la Lega Peloponnesiaca (Thuc. 1, 112, 1). Tale neutralità, brevemente abbandonata proprio nel 446, allorché Corinto interviene in favore di Megara nella rivolta contro Atene (Thuc. 1, 114, 1), venne ristabilita subito dopo, poiché la città dell’Istmo dovette ritenersi soddisfatta dei

τῶν ἐγκλημάτων, ἀπέδειξαν αὐτῷ τὴν τῶν Κορινθίων πόλιν οἰκητήριον. οὗτος δὲ ὀλίγον χρόνον μείνας ἐν τῇ Κορίνθῳ τὰς ὁμολογίας ἔλυσε, καὶ προσποιησάμενος χρησμὸν ὑπὸ θεῶν αὐτῷ δεδόσθαι κτίσαι τὴν Καλὴν Ἀκτὴν ἐν τῇ Σικελίᾳ, κατέπλευσεν εἰς τὴν νῆσον μετά τινων οἰκητόρων· συνεπελάβοντο δὲ καὶ τῶν Σικελῶν τινες, ἐν οἷς ἦν καὶ Ἀρχωνίδης ὁ τῶν Ἑρβιταίων δυναστεύων. Οὗτος μὲν οὖν οἰκισμὸν τῆς Καλῆς Ακτῆς ἐγίνετο. 88 Sulle due fondazioni ‘sicule’ di Ducezio vd. recente Simonetti Agostinetti 2012, p. 325. 89 Diod. loc. cit.: Ἐπὶ δὲ τούτων κατὰ τὴν Σικελίαν Δουκέτιος μὲν ὁ γεγονὼς τῶν Σικελικῶν πόλεων ἡγεμὼν τὴν τῶν Καλακτίνων πατρίδα κατέστησε, καὶ πολλοὺς εἰς αὐτὴν οἰκίζων οἰκήτορας ἀντεποιήσατο μὲν τῆς τῶν Σικελῶν ἡγεμονίας, μεσολαβηθεὶς δὲ νόσῳ τὸν βίον κατέστρεψε. 90 Rizzo 1970, p. 158 ss. con bibliografia precedente; Musti 1988-89, pp. 220-221; Miccichè 1992, p. 277, n. 3; Galvagno 2000, pp. 84-85; Miccichè 2014, p. 244. Sulla figura del capo siculo vd. Adamesteanu 1962; Rizzo 1970; Maddoli 1977; Miccichè 1980; Galvagno 1991; Miccichè 2006; Miccichè 2014. 91 Consolo Langher 1988-89, p. 260; Culasso Gastaldi 1995, p. 148. 92 Cfr. Adamesteanu 1962; Maddoli 1977.

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Il Decreto onorifico tardoellenistico da Caronia SEG LIX 1102: per una nuova edizione condanna ‘retrospettiva’ della fondazione da parte di Siracusa. Non va infatti sottovalutata la potenziale importanza, per i progetti militari di Atene in Sicilia, di una fondazione amica sulla costa settentrionale della Sicilia, peraltro in grado di offrire un buon approdo per le navi ateniesi sulla rotta tra lo Stretto e Segesta.97 Ma anche a volere lasciare in secondo piano l’ipotesi ‘filoateniese’, ammettendo invece, in ultima analisi, un ruolo di Siracusa nell’impresa duceziana, esso andrà sicuramente sfumato, senza cioè fare di Ducezio un agente siracusano, ‘inviato’ sulla costa tirrenica per coagulare le forze dei Siculi settentrionali in chiave antiacragantina. È infatti verosimile che inizialmente la città aretusea, ancora guidata in questo frangente dagli indulgenti χαριέστατοι, non si sia opposta al rientro di Ducezio in Sicilia, magari per ‘liberarsi’ di lui in un’area come la Sicilia settentrionale, dove non potesse nuocere ai propri interessi. Solo in seguito, ormai giunto in terra siciliana, Ducezio avrà davvero ‘sciolto i patti’ con Siracusa; arroccato nella sua nuova fondazione difesa dai Monti Nebrodi e forte del sostegno di Archonides di Herbita, e forse della stessa Atene, egli probabilmente vide ridestarsi le proprie ambizioni, giungendo, a prestare fede a Diod. 12, 29, 1, ad aspirare nuovamente all’egemonia dei Siculi prima che la morte ne arrestasse i progetti. Un intento che non può non interpretarsi in chiave antisiracusana,98 e che venne verosimilmente percepito come una minaccia dalla città aretusea, come dimostrano il fatto che dopo il fallimento della synteleia i Siculi erano tornati sotto il dominio di Siracusa (Diod. 12, 29, 2), e ancora la distruzione dell’ultima roccarforte sicula di Trinakia-Palike nel 440 (Diod. 12, 29, 4) nonché l’inasprimento dei tributi imposti ai Siculi (Diod. 12, 30, 1). Proprio tale notizia, se non attribuibile al lokalpatriotismus diodoreo, sembra chiudere il cerchio con Diod. 12, 8, 2: la fonte diodorea sulle vicende di Ducezio potrebbe avere registrato qui un atto di accusa siracusano contro i piani, ostili a Siracusa, del dinasta siculo, che difficilmente si concilierebbe con un personaggio che, negli anni successivi alla fondazione di Kale Akte, si fosse dimostrato prono o contiguo, a prescindere che lo fosse mai stato in precedenza, agli interessi e la politica di Siracusa. Dunque, la tradizione filosiracusana confluita in Diodoro forse intendeva assolvere in particolare i χαριέστατοι siracusani da qualsivoglia responsabilità, anche indiretta, nella fondazione di Kale Akte, nella misura in cui nel 448 essi, incautamente, avevano convinto l’assemblea di Siracusa a risparmiare colui che sarebbe divenuto ecista di una città rivelatasi perniciosa per gli interessi siracusani (Diod. 11, 92). La ‘colpa’ dei maggiorenti siracusani sullo sfondo della tradizione diodorea, dunque, potrebbe essere stata semplicemente quella di aver sottovalutato Ducezio, non di aver di fatto fondato Kale Akte a mezzo del capo siculo.

Se la nostra ipotesi coglie nel vero, ci sembra che la narrazione diodorea possa meglio corroborare la tesi di quanti sostengono il carattere fondamentalmente autonomo da Siracusa e ‘siculo-centrato’ della fondazione di Kale Akte,99 che, va sottolineato, costituiva una novità assoluta nel panorama delle poleis siceliote e magnogreche. Essa, infatti, viene condotta da un ecista siculo, nel territorio forse appartenente ad un altro dinasta siculo, Archonides I di Herbita, seguendo con ogni probabilità la prassi, peculiare delle ktiseis elleniche, della suddivisione e assegnazione della terre già adottata da Ducezio nelle sue precedenti fondazioni interamente ‘sicule’, ma al contempo forse non trascurando modalità di occupazione ‘indigena’, avendo scelto un sito elevato, pur a esigua distanza dal mare;100 vi partecipano, forse in eguale proporzione, una componente sicula (συνεπελάβοντο δὲ καὶ τῶν Σικελῶν τινες) e una ellenica (i τίνες οἰκήτορες con cui Ducezio salpa da Corinto). Dunque Kale Akte fu la prima fondazione dell’Occidente greco in cui dei coloni ellenici venivano guidati da un ecista ‘barbaro’ in una sympoliteia con degli indigeni.101 Non sfugge che gli attori principali della ktisis, Ducezio e Archonides I, appartengono ad aristocrazie indigene ellenizzate -nell’avanzato V secolo il processo di acculturazione in Sicilia aveva ormai omogeneizzato i caratteri distintivi delle culture locali, producendo una koine culturale di fatto né sicula né greca-102 è anche vero però che il mondo siculo settentrionale, storicamente meno interessato -anche grazie alla protezione dei rilievi nebroidei- rispetto a quello siculo orientale dall’espansionismo territoriale delle colonie siceliote, dà prova di non subire passivamente tale processo, mostrando anzi rispetto ad esso un’attitudine “reattiva e costruttiva”:103 non sarà pertanto lontana dal vero l’ipotesi che la scelta duceziana di fondare Kale Akte proprio fra i Siculi settentrionali, abbandonando di fatto l’area sicula orientale, da cui Ducezio proveniva, fosse finalizzata a interdire a Siracusa l’accesso al nord dell’isola e a unificare, facendo fronte comune con Archonides I, le genti sicule rimaste indipendenti da Siracusa.104 Non è un caso, poi, che i Siculi settentrionali permangano come entità politica autonoma dopo la caduta di Trinakie-Palike del 440, un’autonomia che Dionisio è costretto confermare, al pari di quella di tutti i Siculi, nel trattato con Cartagine del 405/4 (Diod. 13, 114, 1), senza dimenticare, la tenace resistenza di Herbita all’avanzata di Dionisio nel 403 verso la Sicilia centrosettentrionale (Diod. 14, 15, 1), ma soprattutto la fondazione di Halaesa nel 404/3 ad opera di Archonides II di Herbita, figlio o nipote di Archonides I (Diod. 14, 16, 1-2).105

99

Cfr. in tal senso Adamesteanu 1962, p. 196; Prestianni Giallombardo 2006, p. 145; Cardete del Olmo 2007; Simonetti Agostinetti 2012, p. 328. 100 Su tale argomento vd. supra n. 7. 101 Cfr. Galvagno 1992, p. 115. 102 Cfr. Albanese Procelli 2003, pp. 242-243. Prestianni Giallombardo 2006, p. 145. 103 Prestianni Giallombardo 2006, p. 145. 104 Adamesteanu 1962, p. 196. 105 Prestianni Giallombardo 2006, p. 145.

termini raggiunti con Atene nell’ambito della pace trentennale dell’inverno del 446/45 (Thuc. 1, 87, 6; 1, 115, 1). Significativo che nel 440 Corinto si opporrà alla proposta spartana di attaccare Atene durante la rivolta di Samo. Sui rapporti fra Corinto e Atene nella prima metà del V sec. vd. Salmon 1984, pp. 257-269. 97 Maddoli 1980, pp. 67-68. 98 Cfr. Maddoli 1977, p. 153.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia fondazione della città.108 La morte di Ducezio indubbiamente dovette segnare una battuta di arresto, se non ancora per lo sviluppo della città, sicuramente per l’importanza politica di Kale Akte che, da potenziale centro di riferimento per i Siculi settentrionali vivente Ducezio, nella seconda metà del V secolo dovette forse ridimensionarsi ad un ruolo di secondo piano, rimanendo nell’orbita del potente ‘regno’ di Archonides I di Herbita, capace di controllare un’ampio tratto della costa della Sicilia tirrenica,109 e schierato su posizioni filoateniesi. Naturalmente poco possiamo inferire sul destino di Kale Akte nei decenni finali del V sec. se non che il ritorno di Cartagine in Sicilia nel 406, dopo un settantennio di disinteresse militare seguito alla sconfitta di Imera, e la stessa fondazione di Halaesa Archonidea nel 403 aprirono per la città una lunga stagione di instabilità e oscurità: quest’ultima, infatti, probabilmente soppiantò Kale Akte come ‘stazione’ marittima più occidentale prima di Himera e come sbocco sul mare afferente ad Herbita.110 Inoltre la posizione geografica, sulla costa tirrenica della Sicilia all’incirca a mezza strada fra Halaesa a ovest e Apollonia a est, esponeva Kale Akte alle mire territoriali cartaginesi, senza essere completamente al riparo dall’aggressivo attivismo di Dionisio I prima e di Agatocle poi. Non sarà quindi fuori luogo affermare che dal 406 fino all’avvento dei Mamertini nella Sicilia Nord-orientale e lo scoppio della I Guerra Punica, che decreterà la definitiva entrata in scena di Roma nello scacchiere geo-politico siciliano, la storia della città sarà stata caratterizzata da una continua oscillazione fra la sfera di influenza punica e quella siracusana. Nel passaggio fra V e IV sec. è ragionevole ritenere che Kale Akte sia rimasta insieme con Halaesa all’ombra di Herbita, seguendone probabilmente le sorti e

Nulla ci è dato sapere della struttura istituzionale originaria del corpo cittadino ‘misto’ di Kale Akte, se non che nel 440/39, alla morte di Ducezio avvenuta nella stessa città, esso era divenuto numericamente consistente, per merito dell’ecista, che aveva continuato a stanziarvi nuovi coloni; riteniamo però potenzialmente di non scarso rilievo il fatto che Halaesa, la fondazione ‘sorella’ di Kale Akte, anch’essa di composizione mista (originata da un σύμμικτος ὄχλος costituito di aporoi erbitesi, fuoriusciti sicelioti e mercenari italici) e riconducibile all’iniziativa della dinastia erbitese degli Archonidi,106 possedesse una synkletos (IGDS I, 197). Se tale coincidenza non è il frutto della mera convergenza di sviluppi istituzionali successivi, ad es. la diffusione di un ‘modello istituzionale’ proveniente da una città terza, essa potrebbe sostanziare per la costituzione della synkletos calactina un orizzonte cronologico alto, all’epoca di fondazione: in tale prospettiva, dunque, Archonides II, a circa quattro decenni anni di distanza, potrebbe avere ‘importato’ ad Halaesa l’esperienza istituzionale della ‘sorella maggiore’ Kale Akte. Ma se, in linea di principio, l’ipotesi di una ktisis diretta o fortemente influenzata da Siracusa lascerebbe spazio per postulare l’istituzione di una originaria assemblea di fondazione di stampo oligarchico del tipo registrato a Crotone, Agrigento, Reggio, quella di una ktisis di matrice ‘sicula’, realizzata se non a dispetto di Siracusa, in piena autonomia da questa, conduce in una direzione alquanto diversa: il concorso alla fondazione dei Siculi settentrionali e il ruolo di Ducezio, che per più di un ventennio aveva costantemente cercato di sottrarre l’ethnos siculo al controllo di Siracusa, nonché di Archonides I, proxenos degli Ateniesi (IG I3, 228)107 assurto dopo la morte di Ducezio a guida dei Siculi settentrionali, convinto assertore fino alla propria morte nel 414 di una politica filoateniese, sono fattori che a nostro giudizio mal si accordano con la genesi di un organo assembleare oligarchico, espressione peculiare di realtà poleiche aggressive nei confronti del mondo indigeno. Una cronologia alta della nascita della synkletos calactina renderebbe, in ultima analisi, preferibile l’ipotesi del “consiglio” con funzione di gestione della politica cittadina, che esso possedesse i caratteri di una sorta di gerousia, della tipologia ipotizzata da Calderone per Halaesa o dello stesso consiglio/“gerousia” di Corinto (su cui vd. infra), ovvero ancora rispondesse al modello del consesso di ex magistrati, affine all’Areopago o al consiglio degli Ottanta di Argo. L’individuzione di altri possibili scenari per l’istituzione della synkletos calactina non può prescindere da una valutazione dei riflessi dei grandi avvenimenti che coinvolgono la Sicilia nel periodo successivo alla

108 All’origine del ‘cono d’ombra’ sui primi due secoli di vita della città potrebbe esservi anche una incerta percezione da parte della storiografia di IV sec. del preciso status di Kale Akte, che presenta effettivamente caratteri tutt’altro che netti, considerata la natura ‘mista’ della ktisis. Per un verso, infatti, la presenza nella fondazione duceziana di una componente ellenica, forse con antecedenti di natura emporica in epoca arcaica (vd. supra Collura, Approfondimenti, Ceramiche arcaiche dall’abitato costiero: fu Kalè Akté un insediamento coloniale greco?; cfr. notizie di ceramica greca di epoca arcaica in Adamesteanu 1962, p. 192) vieta di assimilare Kale Akte a centri propriamente siculi come Herbita, Amestraton, ecc; per altri, come si è sottolineato, elementi come il ruolo ecistico di Ducezio, la collaborazione di Archonides I, la partecipazione dei Siculi in proporzione almeno pari ai greci, la forte influenza di Herbita sulla città nei decenni finali del V sec., forse impedivano alla storiografia siceliota di ottica siracusana di guardare a Kale Akte tout court come a una polis greca. È lecito chiederci se la generica definizione di “Siculi”, con cui la storiografia greca, da Tucidide sino alle fonti utilizzate da Diodoro, designa senza distinguo alcuno le comunità anelleniche in relazione alla seconda metà del V e per tutto il IV, non possa comprendere anche la comunità di Kale Akte, e, dunque, non sia fra le pieghe delle rare vicende dei Siculi conservate dalle fonti che dobbiamo ricercare notizie sulle sorti della creatura di Ducezio e Archonides. 109 Significativo che all’epoca del conflitto siracusano-ateniese nel 415 lo spartano Gilippo deve approdare a Himera per portare aiuto a Siracusa (Thuc. 7, 1, 2-3); cfr. De Vido 1997, pp. 30-31. 110 Il fatto che Archonides II non stanzi il symmiktos ochlos in Kale Akte, oltre a essere evidenza indiretta della vitalità della città, la cui chora evidentemente non era più disponibile per assorbire ulteriori stanziamenti coloniari, potrebbe significare anche una presa di distanza di Herbita dalla più antica Kale Akte e che Archonides avesse realizzato la nuova fondazione di Halaesa in termini concorrenziali con la prima.

106 Sulla fondazione di Halaesa vd. Facella 2006, pp. 77-146, che sottolinea opportunamente (pp. 139-136) il nesso che unisce significativamente le due fondazioni e l’attività di ecistica di Ducezio e Archonides I a quella di Archonides II. 107 Sull’iscrizione vd. Culasso Gastaldi 1995. Dibattuta l’identificazione dell’Archonides menzionato nel documento epigrafico: propende per Archonides I De Vido 1997, p. 22.

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Il Decreto onorifico tardoellenistico da Caronia SEG LIX 1102: per una nuova edizione schierandosi in ogni frangente possibile sul fronte punico, per essere poi ricondotta dal 391, unitamente alla ‘galassia’ sicula, sotto l’egida del tiranno siracusano (Diod. 14, 96, 4).111 Non sappiamo se durante i decenni del controllo di Dionisio I questi fosse intervenuto direttamente sulla struttura istituzionale dei singoli centri del dominio siracusano per assicurarsene la fedeltà; al di là della possibile distorsione della storiografia timaica, notoriamente avversa alla tirannide siracusana, le fonti dipingono l’energico Dionisio I fondamentalmente come un “signore della guerra” per nulla interessato ad elaborare provvedimenti di carattere nomotetico, per di più, secondo Platone (Epist., 7, 331), incapace di rifondare le città della Sicilia devastate dai Cartaginesi e di imporvi governi solidi affidati a compagni, stranieri o familiari.112 Non potremmo invece escludere che in alcuni centri fazioni lealiste filodionigiane potessero promuovere modifiche costituzionali di natura oligarchica all’ordinamento cittadino per meglio interloquire con il tiranno. Sotto Dionisio II l’allentamento delle “catene adamantine della tirannide” e l’indebolimento di fatto del dominio dionigiano offrirono forse margini più ampi per lo sviluppo autonomo di novità di carattere istituzionale, che potrebbero aver coinvolto anche centri della Sicilia tirrenica come Halaesa e la piccola Kale Akte.113 Tali spazi si saranno accentuati nella fase degli scontri che dal 357 al 345 coinvolgono in Siracusa Dione, Eraclide, Callippo, Ipparino, Niseo, Iceta, quando è presumibile che anche per Kale Akte, analogamente a quanto supposto per Halaesa,114 si siano aperte delle opportunità di autonomia ed essa fosse fra quei phrouria desiderosi di eleutheria che già nel 343 passano con Timoleonte (Diod. 16, 69, 4). È comunque plausibile che Kale Akte fosse fra i vari centri che si uniscono al Corinzio nel 342/1 dopo la presa di Entella (Diod. 16, 73, 2). Alla symmachia timoleontea in funzione antipunica degli anni precedenti la vittoria del Crimiso si suole collegare le problematiche emissioni a leggenda ΣΥΜΜΑΧΙΚΟΝ generalmente poste fra il 344 e il 338.115 In particolare, quelle con tipo di Apollo Archegetes e Sikelia presentano somiglianze

con l’emissione a nome degli Alesini (ΣΥΜΜΑΧΙΚΟΝ ΑΛΑΙΣΙΝΩΝ), il che ha posto, fra gli altri, il problema del ruolo politico di Halaesa nell’organizzazione stessa dell’alleanza timoleontea;116 in tale quadro è stata avanzata l’ipotesi che Halaesa avesse guidato una symmachia di città sicule dell’area tirrenica composta, con Erbita e Amestratos, anche da Kale Akte.117 In seguito, dopo la vittoria di Timoleonte al Crimiso del 338, il centro nebroideo avrà seguito la sorte di Halaesa e dei centri siculi tornati sotto il controllo di Siracusa, come prescritto dal trattato con Cartagine del 391.118 Ed è proprio il periodo timoleonteo, già evocato a proposito del problema delle “sigle anagrafiche”, quello a nostro giudizio forse più indiziato di fungere da contesto verosimile per l’introduzione della synkletos a Kale Akte (e ad Halaesa). È infatti noto che il condottiero corinzio durante la sua breve permanenza in Sicilia si impegnò in un’attività legislativa riformatrice articolata in più interventi, che ricostruiamo dalla tradizione diodorea e da quella, su alcuni punti divergente, di Plutarco. Secondo Diodoro tale attività riguardò essenzialmente Siracusa: dopo la cacciata di Dionisio II nel 343/2 egli inizia a legiferare, stabilendo “leggi democratiche” (Diod. 16, 70, 5), istituisce l’amphipolia (Diod. 16, 70, 6); dopo il Crimiso concede l’autonomia alle città greche liberate dal dominio punico (Diod. 16, 73, 2), corregge la riforma democratica di Diocle realizzata dopo la vittoria sugli Ateniesi del 413 (Diod. 16, 82, 6), preponendo a tale scopo il legislatore corinzio Cefalo (Diod. 16, 82, 7). Nella versione di Plutarco, dopo avere ripopolato la Sicilia, dunque prima della battaglia del Crimiso, Timoleonte si sarebbe occupato delle riforme costituzionali di Siracusa, avvalendosi dei legislatori corinzi Cefalo e Dionisio (Tim. 24, 3). Ma in una seconda fase, da porsi dopo la vittoria sui Cartaginesi, egli si sarebbe dedicato alle città della Sicilia, dispiegando il suo intervento ad ampio raggio, dai trattati di pace alle legislazioni (νόμων θέσις), dalla colonizzazione (χώρας κατοικισμός) alla πολιτείας διάταξις, l’ordinamento costituzionale delle città (Tim. 35, 4). Entrambi gli autori, dunque, convengono nell’attibuire al condottiero corinzio due differenti interventi riformatori; quello più significativo ai fini della nostra indagine è certamente quello a beneficio delle città siciliane. Purtroppo dalla scarna notizia plutarchea non è lecito sapere in che modo Timoleonte avesse modificato le legislazioni e l’assetto istituzionale delle città della Sicilia, non saremo però troppo lontani dal vero ipotizzando che egli avesse in qualche misura esteso quanto si andava realizzando a Siracusa. Non è chiaro se il Corinzio abbia qui effettivamente introdotto una nuova politeia e dunque sia mai esistita una costituzione siracusana propriamente ‘timoleontea’,119 difficilmente

111

La pace del 405/4 seguita alla campagna di Imilcone (Diod. 13, 11; cfr. Anello 2008, p. 88) prevedeva fra le altre clausole riguardanti la Sicilia orientale che tutti i Siculi fossero autonomi. Nel 396 (Diod. 14, 56, 2) Imilcone, approdato nella Sicilia occidentale, prima di proiettarsi su Messana, stringe amicizia con gli Imerei e gli abitanti del phrourion di Kephaloidion, di fatto aggirando Halaesa e Kale Akte, forse perché insignificanti o più probabilmente perché già schierate su posizioni filopuniche (Facella 2006, pp. 151-153) ancor prima che, dopo la presa di Messana tutti i Siculi passassero sul versante cartaginese contro Siracusa (Diod. 14, 58, 1). A seguito della sconfitta cartaginese (Diod. 14, 72-77), nel 395 Herbita è fra le città che stipulano patti con Dionisio (Diod. 14, 78, 7), ed è ragionevole pensare che questi coinvolgessero anche Halaesa e Kale Akte. Nel 393/2 il punico Magone ricompatta la maggior parte dei Siculi contro il tiranno, ma viene sconfitto ad Abakainon, centro alleato di Cartagine (Diod. 14, 90, 2-4); l’anno seguente l’infruttuosa impresa di Agyrion induce i Cartaginesi a chiedere la pace a Dionisio (Diod. 14, 95-96), che nel 391 sanciva la fine dell’autonomia sicula ottenuta nel trattato del 405 e il passaggio sotto l’arche di Siracusa (Diod. 14, 96, 4). 112 Sui caratteri del dominio dionigiano vd. Caven 1990, pp. 154-185. 113 Non va trascurato in questa prospettiva che Dionisio II, nell’ambito di una politica distensiva verso l’elemento calcidese, consente la trasformazione dell’insediamento mercenariale di Tauromenion in una vera e propria polis; vd. Arena 2008, pp. 103-107. 114 Cfr. Facella 2006, p. 160. 115 Così Facella 2006, p. 163.

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Per una sintesi della discussione vd. Facella 2006, pp. 164-166; Prestianni Giallombardo 2012b, pp. 260-261. Consolo Langher 1964, p. 181; Prestianni Giallombardo 1998, p. 65. 118 Facella 2006, p. 167. 119 Propenso ad accettare una revisione della costituzione siracusana Talbert 1974, pp. 130-142; sull’altro fronte vd. di recente, scettico, Galvagno 2011, p. 233. 117

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia però questa avrà avuto caratteri “democratici”,120 specie ove si tenga adeguatamente in conto il milieu del condottiero corinzio: definito misotyrannos e misoponeros (Plut. Tim. 3, 4), egli era presumibilmente un aristocratico (i genitori sono detti epihaneis) appartenente all’oligarchia cittadina (Plut. Tim. 3, 2, 1-3); erano filomacedoni i suoi collaboratori corinzi nell’impresa siciliana, Demarato e Dinarco (Plut. Tim. 21, 24, 27),121 ma soprattutto egli proveniva da una polis che dopo la caduta della tirannide cipselide si era data un ordinamento strettamente oligarchico.122 È dunque ragionevole ritenere che in un primo momento successivo alla caduta della tirannide dionigiana, egli, probabilmente indotto dalla necessità di instaurare un regime diverso dalla tirannide, abbia ripristinato la patrios politeia siracusana;123 ma una volta respinta la minaccia cartaginese, il suo operato assunse un’impronta di natura fondamentalmente oligarchica: si interpretano in tal senso la summenzionata diorthosis delle leggi democratiche di Diocle, la deposizione della carica di strategos autokrator, forse funzionale alla ratifica ufficiale del ripristino delle istituzioni oligarchiche (Plut. Tim. 37, 10),124 non ultimo il ricorso all’ausilio di uno o più consiglieri corinzi, fatto che mostra con chiara evidenza come Timoleonte guardasse alle istituzioni della sua patria come un modello di riferimento.125 In tale quadro, pur in assenza di testimonianze esplicite, vi sono pochi dubbi che egli, accanto all’ekklesia, avesse ripristinato anche il consiglio siracusano, che sarà tornato a guidare lo stato siracusano con quell’impostazione aristocratica e oligarchica,126 peculiare della città dell’Istmo. Non ci stupiremmo, pertanto, se nell’ambito di questa politica di ‘corintizzazione’,127 Timoleonte in qualche misura avesse

tratto ispirazione dall’ordinamento politico della propria patria anche per modificare la diataxis politeias delle città di influenza siracusana e che, in ultima analisi, sia nella costituzione di Corinto che possiamo trovare la chiave del problema delle synkletoi siceliote e di Kale Akte in particolare. I pochi dati disponibili descrivono l’ordinamento corinzio post-tirannide costituito da otto probouloi con funzioni direttive e/o suasorie,128 che andavano a comporre, insieme con altri settantadue membri ordinari scelti dalle otto tribù cittadine, un consiglio di ottanta membri (Nic. Dam. FGrHist 90, F 60. 2);129 questo è da identificarsi con la gerousia ricordata da Diodoro in relazione al 366, allorché è chiamata a giudicare Timoleonte per l’assassinio del fratello Timofane, e al 345, quando decreta la partenza di Timoleonte per Siracusa (Diod. 16, 65, 6-7, 9).130 Sappiamo anche dell’esistenza di un’assemblea, definita xyllogos in Tucidide (5, 30, 1), che possedeva competenze minori di tipo consultivo (Plut. Dion, 53, 24), e di almeno cinque strategoi (Thuc. I, 46, 2). Non è noto da chi fossero eletti i probouloi e gli altri magistrati corinzi, né se il termine diodoreo di gerousia sia storicamente attendibile; se così fosse, ciò suggerirebbe che i consiglieri/geronti venissero scelti dalle tribù per classe d’età e rivestissero la carica a vita, il che, unitamente alle dimensioni particolarmente ristrette del consiglio, la funzione meramente consultiva dell’assemblea, l’istituzione stessa dei probouloi, che erano peculiari delle oligarchie (Arist. Pol. 1289b, 2732), conferiva alla politica di Corinto un carattere moderato e soprattuto particolarmente stabile.131 Non escluderemmo, pertanto, che Timoleonte, aduso alla stabilità politica della propria patria, minacciata unicamente dal tentativo tirannico del fratello Timofane, che egli stesso aveva peraltro stroncato (Plut. Tim. 4), negli anni finali della sua esperienza in Sicilia abbia provveduto a implementare nell’isola il ‘modello istituzionale’ corinzio del consiglio/gerousia, forse favorendo l’introduzione in alcune politeiai siceliote di un consesso composto da un numero limitato di membri, di cui ci sfugge la modalità di selezione, ma comunque funzionale a controllare la politica cittadina, orientandola lontano da eccessi ‘democratici’, quasi a creare una sorta di koine dei regimi moderati ispirata all’oligarchia

120

Le presunte propensioni democratiche del condottiero corinzio, valorizzate da Westlake (1969, p. 294 ss.), sono state via via ridimensionate: Talbert 1974, p. 131 riteneva sostanzialmente agiografico il quadro delineato dalla vita plutarchea di Timoleonte. Su Timoleonte ‘oligarca’ vd. recente Nirta 2011; Sterrantino 2011; Galvagno 2011. Sulle fonti della Vita plutarchea di Timoleonte Westlake 1938, pp. 65-74; Flacelière, Chambry 1966, p. 5 ss. (Timeo). 121 I due personaggi sarebbero poi divenuti responsabili dell’asservimento di Corinto a Filippo II (Dem. 18, 295); Demarato era intimo di Filippo II (Plut. Alex 9, 12-14; Mor. 70 B-C ; 329 D). Su quest’ultimo vd. Heckel 2006, p. 107. 122 Sulla costituzione oligarchica di Corinto vd. Salmon 1984, pp. 231239. 123 Il luogo diodoreo 16, 80, 5 che riferisce di “leggi democratiche” stabilite dal Corinzio viene oggi riletto alla luce dell’accezione negativa o tutt’al più neutra del termine demokratia in Diodoro. Non di democrazia, e di leggi propriamente democratiche, si tratterebbe quindi, bensì di un ordinamento contrapposto al potere monocratico: così Galvagno 2011, p. 223. 124 Così Sterrantino 2011, p. 178. 125 Galvagno 2011, p. 232. 126 Westlake 1969, p. 296; Talbert 1974, p. 142; Galvagno 2011, p. 229. Si è molto discusso se il consiglio della Siracusa di Timoleonte possa identificarsi con il synedrion dei 600 che dopo la morte di Timoleonte appare alla guida di Siracusa e che viene eliminato con la violenza da Agatocle nel 317 (Diod. 19, 5, 6; Iust. 22, 2, 10); benché le fonti lascino identificare tale synedrion più con una fazione politica (cfr. Diod. 19, 6, 4) che con un vero e proprio consesso (Galvagno 2011, p. 231), esso rivela l’accentuazione delle tendenze oligarchiche storicamente presenti a Siracusa e rivitalizzate dal Corinzio. Vd. Ghinatti 1996, pp. 65-67. 127 Sulla “corintizzazione” di Siracusa attuata da Timoleonte vd. Sordi 1980, pp. 261, 277; Consolo Langher 1996, p. 265; Vattuone 2005, p. 290, n. 10; Galvagno 2011, p. 233.

128 Salmon 1984, p. 235 ipotizza che la funzione probouleutica dei probouloi consistesse nel guidare il consiglio o nell’incoraggiare l’assemblea a prendere decisioni conformi alla volontà del consiglio stesso. 129 Nic. Dam. loc. cit.: Αὐτὸς δὲ (scil. ὁ δῆμος) παραχρῆμα κατεστήσατο πολιτείαν τοιάνδε·μίαν μὲν ὀκτάδα προβούλων ἐποίησεν, ἐκ δὲ τῶν λοιπῶν βουλὴν κατέλεξεν ἀνδρῶν θˊ. Il passo presenta difficoltà testuali emendate da Will 1955, pp. 609-615 con l’integrazione a fine periodo del riferimento alle tribù (); da cui la seguente traduzione: “dopo la fine della tirannide il demos corinzio creò un gruppo di otto probouloi e dal resto scelse un consiglio di nove uomini ”. Vd. Salmon 1984, p. 231. 130 Sulla costituzione di Corinto vd. Salmon 1984, pp. 231-239. Nella versione plutarchea (Tim. 3, 1-2) la menzione dei Corinzi e di una decretazione (ἐψηφίσαντο) sembrebbe coinvolgere invece l’assemblea; inoltre la scelta dello strategos da inviare in aiuto ai Siracusani (e Iceta) che designerà Timoleonte, è descritta qui con una procedura alquanto diversa: sono dei magistrati (archontes) a registrare e proporre “i nomi di quanti ambivano a farsi onore in città”. 131 Vd. Salmon 1984, pp. 236-237.

366

Il Decreto onorifico tardoellenistico da Caronia SEG LIX 1102: per una nuova edizione siracusana e corinzia. Questo organo, che assume nel contesto siciliano di matrice dorica il nome di synkletos (cfr. supra n. 37), probabilmente in alcuni casi sarà stato ‘calato’ all’interno del preesistente sistema fondato sulla coppia halia-boula, mitigandone la sostanza democratica e dando origine ad un inconsueto ordinamento ‘tricamerale’, sopravvissuto talvolta fino alla tarda età ellenistica, come mostrano il nostro decreto da Caronia, la IGDS I, 185 di Agrigento e forse la IGDS I, 97 di Siracusa. Dopo l’arrivo di Roma in Sicilia e la costituzione della provincia,132 questo consesso di fisionomia oligarchica potrebbe aver subito una trasformazione istituzionale, prestandosi, grazie alle sue caratteristiche di organo ristretto, a essere riconfigurato come vero e proprio senato locale per facilitare i rapporti con Roma, che guardava con favore, come sappiamo dalle riforme dei senati di Agrigento, Eraclea e Halaesa, alla costituzione di ordinamenti di tipo ancor più marcatamente oligarchico.133 In tal caso la menzione nel decreto da Caronia della synkletos nel processo deliberativo accanto alla boula, e con una posizione di preminenza rispetto alla halia, potrebbe riflettere una fase in cui, pur all’ombra dell’incipiente infuenza istituzionale romana, forse non si era ancora pienamente compiuto quel processo che vediamo operante ad Agrigento, dove la synkletos dei 101 sembra abbia ormai espropriato la boula dalla guida dello stato. Se la situazione descritta nel documento agrigentino è in qualche modo riconducibile alla riforma di Scipione ad Agrigento, e dunque espressione di un momento successivo all’inizio del II sec. a.C. quando gli ordinamenti delle città di Sicilia, pur sotto una veste ellenica, cominciano ad assumere caratteristiche oligarchiche sempre più vicine ai desiderata del governo di Roma, avremmo per la situazione istituzionale cristallizzata nella nostra iscrizione un terminus ante quem alla fine del III sec. a.C., cronologia corroborata in qualche misura anche dal dato paleografico, che riporta intorno al 200 a.C. e che impedisce confronti con la situazione istituzionale rappresentata nella IG XIV, 612 di Reggio del II-I a.C., senza tuttavia escludere a priori datazioni anche anteriori, specie se, come ventilato in precedenza, la nostra iscrizione su marmo può costituire una ripubblicazione del decreto originale, che era invece destinato ad essere trascritto su bronzo (vd. supra commento a l. 14). Se così fosse, l’epoca della redazione del decreto fisserebbe un momento in cui la synkletos calactina, lungi dall’essere già un ‘senato’, poteva conservare ancora prerogative costituzionali preesistenti alla istituzione della Provincia Sicilia. Nell’ipotesi di una cronologia bassa del decreto, coincidente in qualche misura con il dato paleografico, il documento fornirà comunque un nuovo tassello per la conoscenza di quel periodo di fioritura, posto all’incirca fra fine III e inizi II sec. a.C., che vede Kale Akte fra le città siceliote che iniziano a monetare subito dopo la II

Guerra Punica, mostrando sul bronzo segni di valore funzionali alla interscambiabilità con la valuta romana.134 In particolare, il nominale con tipo delle stephanephoroi ateniesi (D/testa di Atena e R/Civetta su anfora), unicum tipologico databile verso 190 a.C.,135 sembra attestare in tale fase l’instaurazione di un rapporto commerciale privilegiato con Atene, quale si deduce anche dalla summenzionata iscrizione funeraria attica che ricorda il calactino Aischylos figlio di Apollodoros (II sec. a.C.). Non dimenticando la possibile inclusione della città, all’incirca nello stesso torno di tempo, nell’itinerario compiuto dai theoroi delfici in Magna Grecia e Sicilia (vd. supra n. 83). Dopo secoli di oblio, all’ombra di Herbita prima e di Halaesa poi, Kale Akte attende dunque la fine della II Guerra Punica e il consolidamento della Provincia Sicilia per vivere una stagione di rinnovata importanza; non soprende quindi che successivamente, fra II e I sec. a. C., come si apprende da una dedica epigrafica rinvenuta ad Halesa, i Calactini, in compagnia di Alesini, Erbitesi e Amestratini, militino sul mare (στρατευσάμενοι κατὰ ναῦν) agli ordini del romano Caninius Niger.136 Emiliano Arena Di.C.A.M., Università di Messina

134

Caccamo Caltabiano 1998; Ead. 2000; Carroccio 2004, pp. 158, 160, 211. 135 Mannino 1986-87, pp. 126, 131; Carroccio 2004, p. 46. 136 Sulla datazione dell’epigrafe vd. Scibona 1970, pp. 5-11. Secondo Pinzone 2004, pp. 22-23 tale evidenza supporterebbe l’ipotesi che Kale Akte fosse fra i socii navales di Roma, e quindi fornitrice di marinai e soldati ai romani al pari di Erbitesi, Amestratini e Alesini. Sul documento vd. recente la più sfumata posizione di Prestianni Giallombardo 2012a, pp. 175-177, che vuole la dedica non necessariamente legata al singolo episodio bellico quanto a una memoria di rapporti durati nel tempo.

132

Sul processo che porta alla formazione della Provincia Sicilia fra una sterminata bibliografia vd. almeno Manganaro 1980; Pinzone 1998; Id. 1999a, 1999b e ora, per la documentazione epigrafica, Prag 2011. 133 Su tale argomento vd. Gabba 1959.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 2. Foto a luce radente (Archivio fotografico U.O. 5 per i Beni archeologici. Foto F. Marcellino)

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UNA MERIDIANA GRECO-ROMANA DALLA COLLINA DI CARONIA Francesco Collura A GREEK–ROMAN SUNDIAL FROM THE HILL OF CARONIA This chapter presents a sundial found at the site of the Greek-Roman city of Kale Akte – Calacte, on the hill of Caronia. The artifact is in limestone, conical shaped and dates back to the late Hellenistic period, probably II or I century BC. The discovery is of great importance because few ancient sundials have been found in Sicily and published. We cannot know if it comes from a domestic or public context (from the agora?), being found simply reused in a rural wall on the eastern slope below the modern city. Nel corso di una ricognizione eseguita nel mese di febbraio 2010 in una campagna incolta lungo il pendio orientale della collina di Caronia, nell’area sottostante la via Montello e la Chiesa Madre, è stata fortuitamente rinvenuta una meridiana di epoca classica, riutilizzata in un muretto agricolo.1 L’area in questione si è rivelata molto interessante per una serie di rinvenimenti fortuiti avutisi negli ultimi anni da parte di chi scrive, comprendenti non solo ceramiche (tra cui frammenti a figure rosse e alcuni a vernice nera di fine V secolo a.C.), ma anche oggetti in metallo, monete, elementi architettonici, intonaci, stucchi policromi, ecc., materiali che si datano ininterrottamente a partire dalla fine del V secolo a.C. fino ad età post-medievale. Le circostanze del rinvenimento, tuttavia, solo in parte assegnano a precisi contesti d’origine questi manufatti, poiché in molti casi è evidente che si tratta di oggetti fluitati dall’alto a seguito di frane e dilavamenti o di riversamento di terreno asportato nel corso dei secoli in area urbana, circostanza questa che caratterizza un po’ tutto il pendio orientale della collina, utilizzato fin da epoca medievale e ancora in tempi recenti come discarica. In quell’occasione, l’attenzione fu attirata da un blocco perfettamente squadrato di calcare bianco inserito in un basso muretto agricolo che riutilizzava materiali edilizi antichi, tra cui diversi mattonacci ellenisticoromani. Il pezzo mostrava solo la faccia rettangolare corrispondente alla base. Tolte le poche pietre che lo ricoprivano, si scoprì che si trattava di un orologio solare in pietra, in ottimo stato di conservazione: mancavano soltanto le punte frontali esterne dell’emiciclo, spezzate già in antico dopo la sua dismissione, mentre rimaneva l’attaccatura dello gnomone in bronzo. Il manufatto, piuttosto pesante, fu recuperato e successivamente consegnato alla Soprintendenza di Messina. Si tratta di una tipologia di meridiana che trova confronti molto stretti con diversi esemplari provenienti da diverse aree del Mediterraneo, datati ad epoca ellenistico-romana, tra cui quelli rinvenuti a Roma (dosso del Muscolo), a Lanuvium (conservato presso il British Museum di Londra), ad Efeso (peristilio ellenistico), a Pompei (Tempio di Apollo), ad Avignone e ad Anacapri. In generale, questo tipo di meridiana appare diffuso già in epoca ellenistica, tra III e II secolo a.C. La sua forma è semplice e di buona realizzazione: il profilo presenta un profondo angolo rientrante al di sotto dell’emiciclo, inserito in un prolungamento della parte anteriore verso 1

Il manufatto, rinvenuto nel febbraio del 2010, è stato successivamente consegnato alla Responsabile del Servizio Archeologico della Soprintendenza di Messina, dott.ssa G. Tigano.

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l’esterno; al suo interno sono incise 11 linee orarie verticali e 3 linee diurne orizzontali per i solstizi; il quadrante semicircolare è sottolineato esternamente da una fascia a rilievo, al di sotto della quale, in posizione centrale, è ricavato un simbolo decorativo cuoriforme; in alto si conserva l’attacco bronzeo dello gnomone, ovvero dell’asta che proiettava l’ombra all’interno dell’emiciclo; la parte posteriore è lisciata e verticale. Si tratta quindi di una diffusa tipologia di meridiane, cosiddette “coniche”, che si distinguono da quelle “sferiche” (a cerchio pieno) e da quelle piane, che a loro volta presentano diverse varianti, pur rimanendo sempre il meccanismo di misurazione del tempo basato sul movimento apparente del sole nel cielo. Le dimensioni della meridiana rinvenuta a Caronia, realizzata in pietra calcarea chiara di probabile provenienza dalle cave del non lontano centro antico di Halontion (odierna San Marco d’Alunzio) o da quelle di Apollonia (Monte Vecchio di San Fratello), sono le seguenti: - altezza: 23 cm; - larghezza: 26 cm; - spessore: 9,5 cm; - diametro dell’emiciclo: circa 20 cm. Riguardo alla datazione, la tipologia formale in questione si può inquadrare in un arco compreso tra il medio-tardo ellenismo e la prima fase imperiale (III/II secolo a.C. – I secolo d.C.). Per un confronto, le dimensioni dell’esemplare molto simile conservato presso il British Museum di Londra,2 anch’esso in calcare, sono 27,5 cm di altezza per 23,5 di larghezza e la sua datazione è genericamente fissata in età romana. Il tipo trova comunque confronti con numerosi esemplari di tradizione ellenistica, seppure spesso datati ad epoca altoimperiale in quanto non rinvenuti in contesto originario ma in siti esistenti ancora nel corso del I-II secolo d.C.: la caratteristica forma spezzata, con angolo anteriore rientrante, sottostante l’emiciclo, è attestato praticamente in tutto il Mediterraneo antico. In alcuni casi lo strumento di misurazione era arricchito da espedienti ornamentali più o meno complessi, tra cui soprattutto pseudo-supporti a forma di zampe di felino o simili, una tipologia decorativa molto attestata ad esempio a Delos e a Pompei, o anche motivi floreali e in alcuni casi lettere greche. Quello di Caronia è invece di fattura molto semplice pur essendo elegante e funzionale, e l’unica decorazione presente è un cuore alla base dell’emiciclo in posizione centrale, mentre la base presenta solo una semplice e stretta modanatura. 2

N. inv. 1893.0713.13

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 1. La meridiana al momento del ritrovamento

più sofisticate. Si ritiene che le meridiane di nuova concezione siano state introdotte nel mondo greco da Anassimandro di Mileto nella seconda metà del VI secolo a.C. La tradizione venne recepita dai Romani: Plinio il Vecchio riferisce per la prima volta di un orologio solare a Roma nel 293 a.C., mentre Vitruvio descrive tutti i tipi noti a suo tempo, ideati da matematici e astronomi di epoca ellenistica. In epoca romana si realizzarono strumenti di misurazione del tempo di ogni dimensione e forma, dai più monumentali fino a quelli “portatili”, di piccole dimensioni. Si trattava, in ogni caso, di strumenti di misurazione del tempo per forza di cose approssimativi e notevole era la loro imprecisione, tanto che Seneca scriveva: "Non sono in grado di dirti l'ora esatta: è più facile mettere d'accordo tra loro due filosofi che due orologi".3 La bibliografia sulle meridiane antiche è ancora oggi molto esigua. Una sistematica catalogazione delle meridiane greco-romane scoperte in area mediterranea è contenuta nella basilare opera di S.L. Gibbs,4 che raccoglie tutti gli esemplari noti fino agli anni ’70 del secolo scorso, tra cui alcuni provenienti dalla Sicilia. L’elenco è stato successivamente ampliato con nuovi ritrovamenti.5 Da sottolineare come un cospicuo numero di esemplari, rinvenuti sia in contesti pubblici che privati, provenga da Pompei e da Delos più che dalle grandi metropoli dell’antichità.

Nel greco antico, il termine ὠρολόγιον indicava uno strumento per misurare il tempo o, più semplicemente, una meridiana. Esistevano diversi tipi di orologio: a emiciclo, a cavità sferica, a piano orizzontale o verticale, nonché misuratori idraulici. Il funzionamento degli orologi solari grecoromani era molto semplice. Le linee verticali dividevano generalmente l’emiciclo in 12 settori, corrispondenti alle ore diurne del giorno. Il sole proiettava l’ombra dello gnomone sui diversi quadranti lungo il suo percorso visibile. Le linee orizzontali, che dividevano il quadrante in settori, servivano ad indicare, rispettivamente dalla più alta alla più bassa, il solstizio d’inverno, gli equinozi e il solstizio d’estate. Ogni meridiana era realizzata in modo che funzionasse in maniera efficiente secondo la posizione geografica e doveva essere sistemata in modo che la sua esposizione consentisse una lettura verosimile del tempo. L’adozione di questo sistema risalirebbe alla fine dell’età greca classica, quando si adottarono meridiane orizzontali a cerchio intero e gnomone verticale. Successivamente si adottò il più pratico sistema dell'emiciclo con asticella orizzontale. Questi orologi solari in molti casi erano posizionati su basi o colonne, consultabili all’interno di aree di pubblico accesso. Era un sistema efficiente, anche se non perfetto, di misurare il tempo. Le più antiche meridiane note risalgono già al 1500 a.C. in Egitto, mentre per il 700 a.C. circa il Vecchio Testamento descrive la meridiana di Ahaz (Isaia 38:8). E’ comunque a partire dall’epoca greca che le misurazioni mediante quadranti solari divennero via via

3

Seneca, Apocolocyntosis 2.2 Gibbs 1976 5 Tra gli altri: Catamo et alii 2000 4

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Una meridiana greco-romana dalla collina di Caronia

Figg. 2-3. La meridiana al momento del rinvenimento e il muretto agricoloin cui era contenuta

Fig. 4. La meridiana dopo la ripulitura

pochi rinvenimenti di cui si è data completa edizione,6 una meridiana rinvenuta in contesto originario a Efeso, all’interno di un peristilio pertinente ad un complesso residenziale, le cui caratteristiche formali richiamano molto da vicino quella rinvenuta a Caronia. La meridiana di Efeso è alta 30 cm, larga 36 e profonda 27 ed è ricavata in un blocco di marmo bianco. L’emiciclo contiene 11 linee verticali e tre orizzontali. La sua datazione, incerta, è collocata tra il tardo ellenismo e la prima età imperiale, mentre la forma è confrontata con un

Gli scavi archeologici condotti nell’ultimo secolo in area mediterranea hanno portato al ritrovamento di numerose meridiane (sino ad oggi circa 400) di vario tipo, a superficie conica, sferica o piana: su tutte appare tracciato un reticolo di linee indicanti le ore e i periodi dell’anno, segnati dal muoversi dell’ombra proiettata dallo gnomone. La disposizione delle linee e la loro relazione con l’asticella orizzontale variava a seconda dell’area geografica (latitudine e longitudine), sebbene le caratteristiche funzionali e stilistiche dello strumento fossero sempre le stesse Merita di essere menzionata, per la similitudine formale con il nostro esemplare e per essere uno dei

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Lang-Auinger 2007

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia esemplare dalla Casa dei Capitelli figurati di Pompei, la cui cronologia è fissata tra 200 e 80 a.C. Un ricco campionario di quadranti solari proviene da Delos ed è stato pubblicato negli anni ’30 del secolo scorso da W. Deonna.7 L’autore ne riporta di diversi tipi, ma la maggior parte sono a quadrante emisferico. A Delos, la presenza di strumenti per misurare il tempo nei santuari, in edifici pubblici e nelle piazze trova riscontro anche a livello epigrafico, in iscrizioni di II-I secolo a.C. che ad esempio menzionano la presenza di ὠρολόγια nel Serapeion, nell’Agorà degli Italiani, nel Ginnasio. Gli esemplari delii presentano di frequente decorazioni e piedi configurati a zampe di felino, che pur nella loro semplicità si giustificano in quanto da riferire alla loro sistemazione in luoghi aperti al pubblico, adeguati alla monumentalità che contraddistingue l’architettura di Delos. Non mancano comunque orologi provenienti anche da ambienti domestici. Tra gli orologi solari rinvenuti in Sicilia, non molti per la verità, ne segnaliamo uno dalla Villa Romana di Terme Vigliatore, presumibilmente di epoca altoimperiale se non precedente, piuttosto simile a quello rinvenuto a Caronia, ma mancante delle linee orizzontali dei solstizi;8 quattro esposti presso il Museo Archeologico “P. Orsi” di Siracusa,9 datati ad età ellenistica (ricordiamo, in proposito, come Plutarco raccontasse che “sotto l’acropoli (di Siracusa) e le porte verso l’istmo, vi era un orologio solare così alto che si vedeva da lontano”); uno da Catania, a superficie sferica;10 uno presso il Museo Archeologico A. Salinas di Palermo, a superficie combinata conica e sferica, proveniente da Tyndaris.11 L’esemplare da Caronia, peraltro in buone condizioni, arricchisce quindi la non corposa bibliografia sugli esemplari siciliani. E’ da immaginare, comunque, come un gran numero di quadranti solari, che dovevano essere utilizzati nelle città siciliane in epoca greco-romana, non sia stato ancora portato in luce dagli scavi o sia andato disperso nei mercati antiquari, o ancora sia stato riutilizzato in strutture medievali e moderne. Pensiamo a città come Siracusa, Panormos, Agrigento, Termini Imerese o Lilybaeum, per citare alcune tra le più importanti nella fase tardo ellenistica e alto imperiale, nelle quali si può ritenere plausibile che fossero presenti numerose meridiane, sia in contesti pubblici che privati. Il quadrante solare da Caronia è realizzato in ottima pietra calcarea, sulla cui superficie levigata sono ancora ben visibili i segni dello scalpello. Si tratta di un tipo di pietra di ottima qualità, non presente nel territorio di Caronia e molto simile a quella estratta da tempo

immemorabile nelle cave di San Marco d’Alunzio, sempre in territorio nebroideo. Pietra dello stesso tipo è stata scavata fin da epoca ellenistica anche sul pendio occidentale di Monte Vecchio presso San Fratello, sede della città greco-romana di Apollonia. Tra i manufatti di epoca classica presenti a Caronia, realizzati nello stesso tipo di calcare, segnaliamo diversi bacini e mortai rinvenuti in stato frammentario ed altri strumenti, tra cui pestelli, rinvenuti sempre sulla collina di Caronia e si può presumere che in questo settore dell’isola esistesse una tradizione di scalpellini che realizzavano manufatti, anche di pregio, come la meridiana in argomento, impiegando l’ottima pietra dell’antica Halontion o di Apollonia. L’area in cui è stato rinvenuto il manufatto era occupata dal settore più periferico sul pendio orientale dell’abitato ellenistico-romano di Kalé Akté – Calacte. Tuttavia è assai probabile che la meridiana provenga da un contesto situato a monte, come gran parte dei materiali presenti in superficie in questo settore della collina. Qui, probabilmente fin da epoca post-medievale, veniva riversata la terra di riporto ricavata da scavi eseguiti nel pendio soprastante. La circostanza è evidente da alcuni accumuli di materiali creatisi quantomeno nell’ultimo secolo. Ci riferiamo, in particolare, al rinvenimento di intonaci e stucchi decorati scoperti sia a ridosso che più a sud del luogo di rinvenimento della meridiana. Nel primo caso, è probabile che la terra che conteneva frammenti di intonaci di epoca ellenistica (da assegnare probabilmente al II secolo a.C.), sia pervenuta nel sito in occasione dei lavori per la realizzazione della strada soprastante (circonvallazione) nei primi anni ’90 del secolo scorso, oppure qualche decennio prima quando fu innalzato un pilone della luce. Nel secondo caso, circa 30 metri verso sud, è stato individuato, affiorante in parete, uno strato contenente innumerevoli frammenti di intonaci e stucchi, molti dei quali si erano sparsi sul piano di campagna. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un rinvenimento che, sebbene non nel contesto originario, riferibile a monte, è molto interessante per la preziosità del materiale, comprendente lacerti di intonaco parietale decorato a riquadri in rilievo di colore rosso, prugna, nero, giallo, ecc. assegnabile al Primo Stile Pompeiano, probabili pannelli con decorazione non ricostruibile integralmente, comprendente motivi floreali e vegetali, e soprattutto porzioni di cornici a decorazione plastica complessa (modanature, dentelli, fiori di loto, astragali, ecc.) arricchite da una vivace policromia e da filari di dischetti e ovoli in osso e in pietra apposti sullo stucco. Considerando che i tre rinvenimenti riguardano un’area circoscritta su cui, in fasi successive, è stato riversato il materiale di risulta da scavi e demolizioni eseguiti presumibilmente nell’area posizionata subito a monte (dalla zona della medievale Chiesa Madre a via Montello), si può ipotizzare l’esistenza di una o più ricche abitazioni, se non di un edificio pubblico, assegnabili ad epoca tardoellenistica esistenti nella parte più meridionale della città, i cui ambienti erano impreziositi da decorazioni parietali e pavimentali; in un cortile all’aperto doveva essere sistemato questo prezioso orologio solare, presumibilmente appoggiato in cima ad una colonnina.

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Deonna 1938 Tigano 2008 9 Al Museo P. Orsi di Siracusa ne risultano conservati 5, di cui uno proveniente da Palazzolo Acreide, uno da Siracusa e 3 di provenienza sconosciuta, presumibilmente da siti della Sicilia orientale (v. Sundial Project) 10 Gli orologi solari furono introdotti, secondo le fonti latine, per la prima volta nella città di Catania e da qui vennero successivamente portati a Roma dopo la conquista della Sicilia: nel 263 a.C. il console G.M.V. Messalla portò a Roma, come bottino di guerra, un quadrante solare da Catane e lo fece collocare sui rostra 11 Passim 8

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Una meridiana greco-romana dalla collina di Caronia

Figg. 5-8. Vedute della parte superiore e laterale della meridiana e dettaglio dell’attaccatura dello gnomone in bronzo e del simbolo cuoriforme sottostante la linea centrale

Figg. 9-10. Meridiane dal Museo di Siracusa (foto Autore) e dalla Villa romana di Terme Vigliatore (da Tigano et alii 2008)

In effetti, se costituisce un ritrovamento prezioso e piuttosto raro, quantomeno in Sicilia, quello di un quadrante solare quasi integro, resta da accertare soprattutto da quale contesto, pubblico o privato, esso provenga. Non c’è dubbio che per funzionare correttamente, lo strumento doveva essere sistemato all’aperto, possibilmente su un supporto (colonna) in modo che fosse facilmente leggibile l’orario ad altezza d’uomo. Potrebbe quindi essere stato sistemato in un

cortile o anche all’interno di un peristilio abbastanza ampio da evitare che la meridiana nel corso della giornata fosse coperta dall’ombra;12 potrebbe anche provenire dalla piazza principale della città, sebbene le sue dimensioni relativamente contenute ne facciano ipotizzare una pertinenza a edifici privati. Potrebbe 12 Tale sarebbe il caso, ad esempio, della meridiana rinvenuta negli scavi della Villa romana di Terme Vigliatore.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia esserci una correlazione tra la meridiana e gli stucchi rinvenuti nella stessa area, di cui si è fatto cenno prima. La loro ricchezza e pregio li fanno riferire ad un complesso di lusso, ovvero una ricca abitazione o un edificio pubblico posizionato sul versante orientale della collina, probabilmente nell’area dell’odierna Chiesa Madre. D’altra parte, considerato che Kalè Akté era tutto sommato una piccola città di provincia, neppure molto estesa e popolosa, la cui monumentalità resta da accertare in mancanza di scavi sistematici praticamente impossibili in quello che era il vero centro cittadino, oggi occultato dall’abitato medievale e moderno, non è da escludere che la meridiana fosse collocata proprio nell’agorà, che diversi indizi di ordine topografico inducono a localizzare proprio nella parte nord-orientale della collina.

Sundial Project = The Berlin Sundial Project (http://www.ancient-astronomy.org/en/2013/05/03/ antike-sonnenuhren/). 2015 Tigano 2008 = G. Tigano, Terme Vigliatore – S. Biagio. Nuove ricerche nella villa romana (2003-2005). Palermo 2008 Tigano et alii 2008 = G. Tigano, L. Borrello, A.L. Lionetti, Terme Vigliatore – S. Biagio, Villa Romana. Introduzione alla visita. Palermo 2008 Tuplin, Rihil 2002 = C.J. Tuplin – T.E. Rihll, Science and Mathematics in Ancient Greek Culture. 2002 Wright 2000= M.T. Wright, Greek and Roman portable sundials. An ancient essay in approximation. Arch. Hist. Exact Sci. 55, 2000

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RITROVAMENTI MONETALI DI EPOCA GRECA NEL TERRITORIO DI CARONIA, ANTICA KALÈ AKTÉ - CALACTE Benedetto Carroccio – Francesco Collura COIN FINDS OF THE GREEK AGE IN THE TERRITORY OF CARONIA, ANCIENT KALE AKTE – CALACTE At Caronia, in the site of the ancient Kale Akte – Calacte, there have been many finds of coins, both from systematic excavations and from sporadic findings by local people. Over the decades, sporadic findings have been innumerable and cannot all be verified. The authors have had the chance to examine a group of coins, here published for the first time, from fortuitous discoveries, currently existing in private collections, while a conspicuous group comes from surveys carried out by the author Collura and currently is at the deposits of the Superintendence of Messina. On this occasion we have decided to discuss the coins of Greek age, in order to enter Kale Akte in a specific historical context, full of changes and innovations, which was the period from the time of its founding in the mid V century BC until the general political reorganization of the Imperial age, passing through the transformation of Sicily in Roman province. We wanted to verify the presence of coins emissions of other centers, determined not only by the traditional trades, but also by the movement of people for different purposes, with the aim of identifying contacts and intercity or interregional relationships. For this purpose, we have examined both the coins found in regular excavations and published, both those from sporadic discoveries of which we have retrieved information at the time. In this way, we have identified certain areas of Sicily with which our city entertained preferential trade, without neglecting the circulation of money that could have originated from movements of people for different reasons, such as for regular attendance of sanctuaries and other areas of cult scattered throughout the Island or for relations between families among their kin who lived in different cities. Of course we also discuss the coin of Kale Akte, known in the numismatic studies for a long time, issued in a period of great prosperity for the city (between the third and the second century BC) in conjunction with the reorganization of many Sicilian centers after the Roman conquest of Sicily. deficitaria l’indagine scientifica sulle presenze monetali nell’abitato collinare, che costituì il vero e proprio centro cittadino (civile, politico e culturale) nel corso dell’età ellenistica, essendo quello marittimo destinato a svolgere principalmente attività commerciali - fin da epoca tardoarcaica - per divenire infine, a sua volta, centro cittadino solo nel corso dell’età imperiale, dopo lo spopolamento della collina. La scelta di trattare, in questa sede, dei rinvenimenti numismatici di età greca/ellenistica ha lo scopo di inserire Kalè Akté in uno specifico contesto storico ricco di mutamenti e innovazioni quale fu il periodo compreso tra l’epoca della sua fondazione, a metà del V secolo a.C., e il riassetto politico generale di età imperiale, passando per la fase di trasformazione della Sicilia in provincia romana. Si tratta di accertare la presenza di emissioni di altri centri, determinate non solo dai tradizionali scambi commerciali, ma anche da spostamenti di persone per finalità diverse, con conseguente individuazione di contatti e rapporti interurbani o interregionali. Occorre quindi individuare, attraverso l’analisi delle zecche variamente attestate nel sito, relazioni anche a vasto raggio che risultano meno intuibili nel corso dell’età imperiale, quando la moneta ufficiale emessa da Roma rende poco evidenti scambi e spostamenti umani se non attraverso l’esame e il corretto inquadramento di altri materiali, quali ad esempio le ceramiche. Chi scrive ha avuto modo di esaminare un cospicuo gruppo di monete, provenienti da isolati rinvenimenti di superficie principalmente nell’area urbana della città collinare e finora inedite, di diversa cronologia e provenienza. Se da un lato prevalgono le emissioni siracusane, per ragioni ampiamente scontate, dall’altro si rileva comunque la presenza di un discreto

La conoscenza delle attestazioni monetali in un sito non ancora sistematicamente esplorato quale è quello di Kalè Akté – Calacte assume particolare significato al fine di comprendere le dinamiche commerciali nelle quali esso era coinvolto e i rapporti intrattenuti a vario titolo con altri centri antichi, sia siciliani che, in generale, dell’area mediterranea. D’altra parte, il nome di Kalè Akté è ben noto da tempo nella letteratura più che per la scoperta di monumenti e di cospicui resti dell’abitato, proprio per le emissioni monetali, ben cinque, tutte in bronzo, nel giro di un cinquantennio circa, a cavallo tra III e II secolo a.C., con alcune degne di nota per l’adozione di peculiari soggetti prescelti nelle figurazioni, come il bronzo coniato a stretta somiglianza delle dracme ateniesi di nuovo stile, un unicum nell’isola. Tuttavia, a fronte del recupero di un discreto numero di monete nel corso di scavi regolari,1 principalmente nell’area dell’abitato costiero, risultano assai altrettanto significativi i non pochi rinvenimenti che da molti decenni avvengono in maniera casuale e incontrollata, nel corso di lavori agricoli o per affioramenti naturali dal terreno, ad opera di privati, considerato che circa la metà dell’area urbana antica ricade ancora oggi in corrispondenza di fondi agricoli ai margini della cittadina moderna. Le notizie di ritrovamenti monetari fortuiti circolano localmente da oltre un secolo e se ne può stimare il quantitativo, per difetto, in alcune centinaia, variamente provenienti dalla collina, dalla necropoli meridionale (località Pozzarello), dall’area di necropoli in contrada S. Todaro e da Marina di Caronia. Peraltro, dalle pubblicazioni ad oggi disponibili, appare estremamente 1

Bonanno 1993-1994; Lentini, Goransson, Lindhagen 2002; Bonanno 2008

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia numero di città, principalmente siceliote, talvolta con più esemplari per ciascuna. La circostanza è degna di nota proprio perché si tratta di rinvenimenti una tantum, isolati nel tempo e nello spazio, fuori contesto, e la loro varietà rende ipotizzabili scenari finora sconosciuti sui reali rapporti tra centri antichi, soprattutto in assenza di analisi sufficientemente approfondite della circolazione monetaria all’interno di molte singole città della Sicilia ellenistica. Così, rimanendo in ambito regionale, si discuterà di rapporti preferenziali con determinati settori dell’isola piuttosto che con altri, le cui ragioni andrebbero approfondite, in attesa che nuovi rinvenimenti attestino presenze fino ad oggi sconosciute ma, a questo punto, prevedibili. Discutendo solo dei rinvenimenti numismatici riferibili all’età pre-imperiale, occorre peraltro tenere conto dell’evoluzione urbana che ebbe Kalè Akté nel corso dei secoli, poiché una netta cesura è costituita dal quasi totale abbandono del centro collinare nella seconda metà o fine del I secolo d.C. per ragioni ancora non del tutto accertate, ma solo in parte da ricondurre ai mutamenti di tipo economico-sociale che condussero in molti casi a spostamenti di popolazione nei siti costieri.2 E’ per questa ragione che la quasi totalità delle monete rinvenute in collina di cui si ha notizia è riferibile ad emissioni ellenistiche autonome, con rarissime attestazioni di denari imperiali. Nell’area dell’antica Kalè Akté - Calacte si sono avuti diversi rinvenimenti di monete di svariate zecche che coprono complessivamente un arco di tempo compreso tra la fine del V secolo a.C. e la tarda età imperiale, più altre emergenze monetali attestanti una frequentazione/occupazione anche di età bizantina e medievale. Esse provengono, come detto, sia dagli scavi ufficiali eseguiti tra gli anni ’80 del secolo scorso e l’ultimo decennio,3 sia da recuperi sporadici e segnalazioni tramite fotografie che ovviamente, non potendosi rilevare i dati ponderali, possono lasciare aperti margini di incertezza circa alcune datazioni assolute, in particolare per alcuni bronzi romani repubblicani della serie con prua di nave, coniati molto a lungo in accordo con standards ponderali/monetari mutati col tempo, a fronte di un forte conservatorismo tipologico.4 Ovviamente, la sporadicità delle esplorazioni, il loro differente rigore scientifico, la grave, ma non infrequente, lacuna rappresentata dalla mancata edizione critica dei ritrovamenti avutisi nel corso degli scavi eseguiti tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso a Caronia (c.da Telegrafo; c.da Sotto S. Francesco) e a Marina (cortile Scuola Materna; villetta comunale; saggi in propr. Di Noto), la pessima conservazione per acidità del terreno e/o mancato immediato corretto restauro di molti pezzi, l’attuale impossibilità di avere un censimento davvero completo dei tanti rinvenimenti fortuiti prodottisi nel tempo da parte di privati nelle campagne, certamente maggiori di quelli che ci è stato possibile rilevare,

rendono le nostre notizie utili soprattutto ad affermare determinate presenze ed influenze, senza escludere la possibilità che altri rinvenimenti o monete non identificate attestassero altre influenze, presenze, o un loro diverso addensarsi. Nel complesso, escludendo i bronzi di zecca calactina, il numero più cospicuo è, per l’età greca, ovviamente costituito da monete siracusane (soprattutto di Ierone II), seguite dalle mamertine. Numerosi sono comunque i centri siciliani rappresentati: oltre Syrakosa e Messana (mamertina), Agyrion, Gela, Halaisa, Halontion, Kephaloidion, Tauromenion, Kentoripai, Katane, Aitna, Panormos. Ma è di particolare interesse anche una monetina bronzea ellenistica di Erythriai nella Ionia di ancor imprecisa cronologia (fig. 16),5 più le monete romane che attestano la frequentazione nella successiva età romana repubblicana e, entro un’area più ristretta, imperiale, nonché pochi documenti successivi. Quasi tutti i pezzi greci di cui si ha notizia provengono dall’area urbana dell’antica Kalè Akté. Fanno eccezione un argento di Naxos del V secolo a.C. recuperato presso un anonimo abitato indigeno su un rilievo al confine con il territorio di S. Stefano di Camastra (contrada Arìa-Tubbini),6 alcune monete bronzee di IV secolo a.C. recuperate sul Monte Trefinaidi,7 probabile sede di un fortino, ed un bronzo di II o III secolo d.C. nel sito di una delle fattorie di età imperiale affiorate in seguito a un’imponente frana in c.da Lineri.8 Le notizie orali più decodificabili circa i ritrovamenti sporadici sottostanti la città moderna, sembrano relative solo a monetine calactine (soprattutto del tipo Dionisio/Grappolo d’uva e Atena/Civetta su anfora) e mamertine. Le recenti sintesi di M. Puglisi9 hanno passato in rassegna la distribuzione della moneta bronzea in Sicilia tra l’età greca classica e l’ellenistica, rilevando come su un totale di 770 siti di età greca e romana indagati archeologicamente che le è stato possibile censire, solo per 210 sono giunte notizie di rinvenimenti monetali, a conferma di un’impressione largamente diffusasi tra gli studiosi di Numismatica degli ultimi decenni, per la quale in età greca e (per una parte) romana la diffusione della moneta non raggiunse mai livelli di capillarità paragonabili ai moderni, rispondendo la sua emissione sempre a necessità di spesa pubblica, in primo luogo militare, non altrimenti risolvibili (ad esempio con concessioni di terre ai veterani e pubbliche distribuzioni di derrate alimentari), piuttosto che a fini di regolazione dell’economia e degli scambi.10 La distribuzione sul territorio regionale dei rinvenimenti monetali dipende in parte proprio da fattori come la dislocazione di guarnigioni militari, che al 5

Su queste monete, collocate genericamente nel III-II sec. a.C. da Head 19112, 578, e poste da alcuni repertori tra 200 ca. e 133 a.C., cfr. la proposta di collocazione (di una parte) tra 325 e 280 a.C. in Mørkholm 1991, 92, e infra. 6 Collura, Alfieri 2012; Tigano 2012 7 Collura 2012 8 Vedi Cap. 7 Ricerche nel territorio 9 Cfr. Puglisi 2005; Puglisi 2009. 10 Cfr. Carroccio 2009-2010, pp. 50-51.

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Lindhagen 2006; Collura 2012 Cfr. Bonanno 1993-1994; Ead. 2008. Per le monete cfr. anche, più specificatamente, Bonsignore, Trifirò 2008; Puglisi 2009, 270 e infra. 4 Sulla loro cronologia cfr. Marchetti 1978, pp. 297-306, 343-348, 499501; Carroccio 2004a, pp. 155-157.

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Ritrovamenti monetali di epoca greca nel territorio di Caronia pagamento del soldo militare in argento (misthos), saldato con le smobilitazioni invernali, affiancavano quello più continuativo, tramite moneta bronzea, del necessario per il vettovagliamento, la vita quotidiana e l’armamento individuale (sitos/siteresion), cui non si era potuto provvedere con forniture dirette in natura o ricorrendo al bottino.11 Da ciò anche il fenomeno del proliferare di zecche ed emissioni negli anni della II guerra punica e nel quindicennio circa successivo, di consolidamento delle ancor recenti conquiste romane.12 Ma anche il sussistere, durante e dopo le guerre, di momenti di incertezza militare e politica che possono aver spinto alla tesaurizzazione delle monete e aver provocato – per morte o deportazione dei proprietari - il loro mancato recupero, con conseguenti abbondanti rinvenimenti sulle diverse linee del fronte.13 Né si può ignorare che le abbondanti coniazioni effettuate in quei frangenti portarono a un surplus di moneta coniata, destinata con la sua stessa presenza ad accelerare la monetarizzazione di alcune economie locali in misura proporzionale alla predisposizione di determinate aree a rivestire una maggiore importanza strategica, ma anche commerciale ed economica. La presenza di una discreta quantità di monete note da scavi, ricognizioni e rinvenimenti sporadici nell’area di Caronia – Kalè Akté, dovrebbe pertanto suggerire un ruolo di una certa importanza di questo centro sia sotto l’aspetto delle strategie di controllo del territorio da parte di potenze egemoni come Siracusa o i Mamertini, che sotto l’aspetto della vitalità economica del centro soprattutto nella fase medio e tardoellenistica. La presenza di valuta calactina, talvolta in quantità relativamente considerevole (nelle vicine Apollonia e Halaesa), in diversi altri centri dell’isola (tra gli altri, a Tyndaris, Cefalù, Cerami, Morgantina) va vista infatti anche in quest’ottica, come testimonianza di scambi commerciali e di movimenti umani su raggio non esteso, con preferenza, come si vedrà, per l’area nord-orientale dell’isola.14 L’esemplare più antico finora noto recuperato a Caronia è un tetras bronzeo di Gela con Testa giovanile di divinità fluviale/Toro databile tra 420 e 405 a.C. (fig. 1) e riferibile sul piano iconografico al momento delle lotte della lega di Ermocrate contro gli Ateniesi, e successivamente i Cartaginesi, prima della distruzione della città, nel 405 a.C.15 trovato poco fuori Marina di Caronia in una vecchia discarica di materiali edilizi in cui si sono trovati numerosi frammenti ceramici pertinenti

anche ad età precedenti l’abitato di Ducezio (dal VI secolo a.C. in poi), forse relativi ad una sorta di emporion di cui si discute in altro contributo nel presente volume. Un altro antico e quasi coevo rinvenimento nell’area urbana collinare è costituito da una moneta bronzea siracusana recuperata nel corso degli scavi 1992 in c.da Telegrafo, in terreno rimaneggiato, di certa attribuzione a Dionisio I e anni immediatamente precedenti la sua presa del potere, del noto tipo con Ippocampo al Rovescio, e al Diritto una testa femminile elmata, databile tra il 408 e il 367 a.C.16 Recenti ripensamenti di luoghi comuni consolidati che davano per scontata l’identificazione con Athena di dee elmate adottate in luoghi e momenti in cui non avrebbe avuto senso esaltare la nemica Atene attraverso la sua dea eponima, quali Corinto nel VI-IV sec. a.C.17 o Syrakosa nel decennio filospartano successivo proprio alla sua vittoria siciliana sul corpo di spedizione ateniese (413 a.C.), uniti all’evidenza data da altre dee elmate già identificate con eponime locali,18 hanno portato ad identificare l’elmata siracusana con una dea Syra attestata da fonti letterarie sinora trascurate, in associazione con tipi di Rovescio accordati colle istanze della propaganda politica di quegli anni.19 In ogni caso, si tratta di una serie ampiamente circolata, per la sua abbondante coniazione in momenti di cessazione dell’emissione argentea, per tutto il IV secolo a.C.20 Ed è rilevante notare come dalla stessa area della collina di 16

Cfr. Bonanno 1993-1994, 955, no.6; Puglisi 2009, 98. Sulla sua datazione, fondata sul rinvenimento in strati di Syrakosa, Motye e Naxos precedenti le istruzioni del 396, 397 e 404 a.C., cfr. Martino 1987, 42 e 44; Boehringer 1993, 81; Carroccio 2009-2010, 55-58, 62-63 e no. 52. 17 Cfr. Blomberg 1996 per un’identificazione della dea elmata delle monete corinzie con Aphrodite di contro all’ipotesi ottocentesca di derivazione con adozione dell’elmo locale del tipo proprio dalle prime “civette” ateniesi; Salamone 20132, 176-177. E’ nota la diffusione nei contesti peloponnesiaci originari dei coloni siracusani e tarantini, e nella stessa Taranto, dei culti di Aphrodite Areia e Basilis, che potrebbero aver ben giustificato l’adozione per questa dea di una tale icononografia, cfr. Paus. 3, 12, 5; Osanna 1990; Carroccio 2011a,118119. 18 Per questa datazione delle serie auree e argentee siracusane già attribuite a Dionisio I, cfr. Caltabiano 1987-1988, Ead. 2001, 34-36; Scavino 2008, 139-141; Carroccio 2009-2010, 55. Sulle dee elmate cfr. Caltabiano 1979, 27 e Salamone 20132 49-57 (Kyme campana, dal nome derivato, per Eth. Magn. 545, 13-16, da quello di un’antica basilis), nonché, con più prudenza, 69-71 (Hyele), 160-162 (Kamarina), 321 (Mytilene) e il caso, noto, delle teste elmate dei primi denarii, concordemente interpretate come immagini di Roma e non di Athena/Minerva. 19 Cfr. Choerob. sch. ad Canon. Theodosii 751,10; Genes. 4, 56 A; Caltabiano 2001; Ead. 2009; Salamone 20132, 174-179. Per un’interpretazione dell’ippocampo come simbolo di trasformazione positiva dell’esistenza e metafora di cambiamento politico, cfr. Geraci 2009/2010 e Carroccio 2011a, 111-112. 20 Cfr. Castrizio 2000, 22-23, 43-45; Puglisi 2009, 360-363. Da ciò l’originaria collocazione di questa serie, e del più elevato nominale ad essa connesso con dea elmata/Astro e delfini, in età timoleontea operata da Gabrici 1927, 59-63. Per gli studi che ne hanno anticipato la cronologia cfr. supra, no. 15. Le valutazioni delle evidenze e dei contesti stratigrafici, culturali, storici e economici entro i quali tali serie, e altre già ritenute dionigiane, vennero emesse, fatte da Martino 1987, Caltabiano 1987-1988; Ead. 2001; Castrizio 2000, 35; Carroccio 20092010, 54-63, consentono oggi di concludere che esse, cessate le coniazioni auree e argentee, segnarono l’introduzione di un monometallismo bronzeo con monete dal valore inteso come reale - di contro a precedenti emissioni marcatamente fiduciarie - utili alle esigenze economiche e alle prassi di pagamento dionigiane, cfr. Carroccio 2009-2010, 56-63.

11 Ibidem, 54; Griffith 1967, PP. 264-273; Thompson 1984; Castrizio 2000, pp. 19-23; Caltabiano, Castrizio, Puglisi 2006, PP. 658-661. 12 Cfr. Infra, no. 29 13 Comprendendo tra le cause di incertezza non solo i principali scontri tra eserciti, ma anche le guerre servili, sui cui riflessi in termini di tesaurizzazione monetaria, cfr., con prudenza, Manganaro 2012. Significativa a questo proposito di un possibile minor coinvolgimento in eventi traumatici, è l’assenza, allo stato della documentazione, di notizie attendibili di rinvenimenti di tesoretti dall’area di Caronia, di contro a un buon numero di notizie ed evidenze da altri centri dei Nebrodi e del Messinese (Mandanici, Patti, S. Marco d’Alunzio), cfr. Puglisi 2009, 183-184. 14 Ibidem, 269-270; Buttrey, Erim, Groves, Holloway 1989, 80. 15 Sul suo tipo di Diritto, adottato da più zecche nell’ambito di una “moda iconografica” ricca di significati politici, cfr. Carroccio 2013.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Caronia provenga materiale di superficie databile all’intero IV secolo a.C., a conferma di una sua occupazione di tipo urbano quantomeno in epoca timoleontea o alto-ellenistica, sebbene diversi materiali sporadici la facciano risalire già agli ultimi decenni del V secolo a.C.. Questa valuta, nella sua distribuzione isolana, sembra seguire gli spostamenti dell’esercito dionigiano, in particolare dei mercenari stanziati dallo stesso tiranno siracusano nelle diverse posizioni strategiche interne e limitanee del suo impero.21 Nel caso dell’area tra i Nebrodi e la zona etnea, la presenza delle monete di Dionisio a Kalè Akté, Halaesa, Apollonia e Agathyrnon testimonia del concreto interessamento di Siracusa verso questo settore dei Nebrodi nella prima metà del IV secolo a.C., quando il tiranno dispose l’insediamento e ripopolazione come subcolonia di Tyndaris in accordo con la sua strategia di servirsi di queste operazioni come pagamento non monetario di mercenari che, stanziati, rendevano permanente il presidio di aree altamente strategiche.22 Alla fine del IV secolo a.C. si datano una moneta di Tauromenion da c.da Telegrafo (scavo Bonanno 1992) ed una di Siracusa da c.da Pantano (scavi LindhagenGoransson).23 Ad essi si aggiunge un bronzo di Agatocle della serie testa di Atena elmata/ Guerriero a cavallo con lancia e mantello (fig. 2) databile al 310/309 a.C., sporadico dal versante orientale della collina di Caronia. La gran parte delle monete di fase ellenistica recuperate a Caronia si concentra nel corso dell’intero III secolo a.C. e nei primi decenni del successivo. Di particolare significato, a parte la monetina di Erythrai (fig. 16), sono le emissioni di Ierone II, i cui esemplari sono stati recuperati in numero significativo. Le monete ieroniane sono state datate a lungo, tradizionalmente e genericamente, al 275-215 a.C., quindi su un arco di tempo piuttosto ampio, equivalente all’intera durata del suo governo, indipendentemente dal fatto che nei primi sei anni esercitò un potere dittatoriale e non basilico, che non gli consentiva perciò di intestarsi le monete, come gli sarebbe stato invece possibile successivamente alla sua assunzione del titolo regale, nel 269 a.C.24 Più recenti analisi sistematiche, estese al riconoscimento delle singole matrici (coni) utilizzate per la produzione, e alle modalità di organizzazione della stessa da esse tradite, hanno però permesso di restringere notevolmente la cronologia di gran parte delle sue emissioni, concentrate per gran parte in anni di guerra, con possibilità di un lungo persistere in circolazione di

molte serie bronzee, data l’abbondante coniatura iniziale, anche ad alcuni decenni di distanza.25 Le serie maggiormente attestate sono quelle con Testa di Poseidone/Tridente contornato da delfini e leggenda ΙΕΡΩΝΟΣ variamente divisa ai lati del manico. Gli esemplari in questione (fig. 3) sembrano prevalentemente pertinenti alla numerosissima emissione di modulo lievemente più ridotto (19 mm e 6 g circa anziché 22-23 mm. e 9-8 g), che - di là di alcuni tentativi di “allargarne” la cronologia per la difficoltà, del tutto moderna, a concepire periodi di non emissione monetaria26 - sembra risalire ai soli anni della II guerra punica, con probabile molto consistente prosecuzione nel corso del brevissimo regno del nipote e successore Ieronimo (215-214 a.C.). 27 Gli esemplari noti di questa serie provengono sia da scavi ufficiali che da rinvenimenti sporadici. Dagli stessi contesti archeologici e cronologici sembrano provenire diverse altre monete della zecca di Messana mamertina (fig. 4), collocate su un arco compreso tra la seconda metà del III e la prima metà del II secolo a.C., e una della dirimpettaia Rhegion, degli anni della II guerra punica.28 Il periodo compreso dalle classificazioni numismatiche tradizionali tra la metà del III e i primissimi anni del II secolo a.C., per gran parte restringibile partendo dallo scoppio della II guerra punica,29 è caratterizzato dalla circolazione di monete di diversi centri dell’isola. A parte la scontata presenza di emissioni siracusane (fig. 5), si sono rinvenute in discreta quantità monete di Halontion (fig. 6), Halaesa, Tauromenion, Katane (fig. 7), Aitna (fig. 8), Kentoripai, Agyrion. L’area di maggiore concentrazione quantitativa è ovviamente costituita dalla parte centro-orientale della Sicilia, suggerendo la presenza di contatti e forse flussi commerciali tra l’area etnea e degli Erei e la nostra città. Per quanto sia necessaria grande prudenza nel giudicare una documentazione ancora incompleta e frastagliata, la presenza, al di là di ciò, di monete di Panormos e Kephaloidion, di contro all’assenza, viceversa, di emissioni di Tyndaris e Lipara, sembra infatti suggerire, di là della tendenza dell’epoca ad un’abbondante e variegata distribuzione delle emissioni di diversi centri siciliani,30 l’esistenza di canali preferenziali, a parte Messana, con i centri costieri del settore occidentale della costa tirrenica rispetto a quelli orientali. La complessità e precarietà delle dinamiche monetarie e di circolazione sviluppatesi negli anni della II

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Ibidem, 112-113 e Caltabiano, Carroccio, Oteri 1995, 204 e 219-220. Testimoniati per ultimo da Bell 1983; Id. 1995. Forte è anche la sopravvalutazione della durata d’esercizio dei conii, sulla quale cfr. le evidenze presentate da Carroccio 2011d. 27 Cfr. Caltabiano, Carroccio, Oteri 1995, 215-216, 224-226; Carroccio 2005, 91-94. La coniazione postuma a nome del predecessore ribadente la legittimità del proprio governo è usuale per l’epoca. B. Carroccio sta verificando la produttività e cronologia precisa delle sigle di controllo quali emergono da alcuni grandi ripostigli siciliani. 28 Sulle coniazioni mamertine e le cronologie in parte divergenti proposte da Särström 1940 e Carollo, Morello 1999, cfr. la revisione in Carroccio 2004a, 58-62, e 295-296, cui ci riferiamo. Per le serie reggine, cfr. Castrizio 1995. 29 Cfr. infra, no. 29. 30 Testimoniata, ad esempio, dalla varietà di zecche testimoniata dagli scavi di Morgantina, cfr. Buttrey, Erim, Groves, Holloway 1989.

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Cfr Caltabiano, Castrizio, Puglisi 2006, 660; Puglisi 2009, 62-63 e 360-364. 22 Cfr. Castrizio 2000, 21, 23 e 34; Caltabiano. 2004; Carroccio 20092010, 56-57 anche per gli altri centri coinvolti e le numerose notazioni in proposito delle fonti letterarie. 23 Cfr. Bonanno 1993-1994, 955, no.6; Lentini, Lindhagen, Göransson 2002 24 Sulla storia del regno ieroniano e degli sviluppi delle sue relazioni economiche e dei rapporti con Roma restano valide e utilissime le raccolte critiche di fonti e dati e le ricostruzioni in De Sensi 1971; Ead. 1975-76; Ead. 1977, con i soli aggiornamenti e approfondimenti sui contesti ideologico, politico-militare e monetario determinati dalle analisi sistematiche della produzione e cronologia delle sue serie monetali effettuate successivamente (cfr. infra, no. 24), sintetizzati in Caltabiano, Carroccio, Oteri 1997; Carroccio 2004a, 22-25, 35, 83-86, 261-264, 270-275, 300.

26

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Ritrovamenti monetali di epoca greca nel territorio di Caronia guerra punica emerge d’altra parte considerando le attestazioni contemporanee di monete bronzee romane repubblicane coll’unico tipo di rovescio della Prua di nave e legenda ROMA, adeguate alle diverse riduzioni “per necessità” subite dalla loro unità di riferimento, tra le quali risultano riconoscibili due sextantes (sesti di asse da 2 unciae), con Testa di Mercurio con petasos al Diritto, caratterizzati dall’aggiunta al rovescio del simbolo della spiga, unanimemente ritenuto segno di coniazione (in molti casi “riciclante” pezzi siracusani col tridente di Ierone II) effettuata in Sicilia (forse a Catane) per le esigenze immediate delle armate romane ivi stanziate, intorno al 215-211 a.C., rinvenuti negli scavi in c.da Pantano e in superficie nella collina di Caronia, ma anche nella vicina Apollonia.31 Ma anche da diversi ritrovamenti di superficie, sempre nella collina, di monete dimezzate, sia della serie col tridente di Ierone II (fig. 9) che degli stessi assi romani con la prua (fig. 10), segnalate in un primo tempo come fenomeno siciliano, ma attestate sporadicamente in altre regioni coinvolte negli eventi della II Guerra Punica, nate verosimilmente in quell’epoca, in diverse località, come rimedio immediato e temporaneo all’assenza o insufficienza di piccoli tagli monetari utili agli scambi.32 La presenza a Caronia di monete soprattutto di una determinata area della Sicilia, corrispondente alla fascia di alture immediatamente a sud della catena dei Nebrodi (Agyrion, Kentoripai) e della costa ionica settentrionale (Katane, Aitna, Tauromenion), tra esse collegate tramite la piana di Catania e la vallata dell’Alcantara, testimonia movimenti di persone e di merci tra questo settore e la costa tirrenica in corrispondenza non solo di Kalè Akté, ma anche di Halaesa e Apollonia.33 Percorsi interni attraverso le innumerevoli vallate fluviali che caratterizzano questo settore dell’isola avevano fin dal V secolo a.C. consentito il collegamento tra la costa ionica e quella centrotirrenica, come dimostra l’argento di Naxos rinvenuto sporadico nell’anonimo centro indigeno di contrada ArìaTubbini, nella parte più occidentale del territorio di Caronia, rinvenimento - a quanto sappiamo - isolato nell’intera fascia montuosa compresa tra Mylai e Himera. Ipotizziamo quindi frequenti contatti di tipo commerciale tra la nostra città e i centri dell’interno e quelli della costa ionica, circostanza che d’altra parte spiega il ritrovamento di valuta calactina, ad esempio, a Morgantina e Cerami in provincia di Enna, mentre non se ne esclude la presenza anche in altri centri dell’area centro-orientale siciliana, in attesa dell’edizione dei rinvenimenti monetali in molti di essi (ad esempio a Catania, Taormina, Centuripe, ecc.).

Sebbene la documentazione numismatica nel nostro sito sia ancora incompleta, per ovvie ragioni consistenti nella limitatezza di scavi sistematici e nell’impossibilità di censire metodicamente i numerosi rinvenimenti casuali da parte di privati, possiamo tentare fin da ora di ricostruire un quadro della circolazione monetaria tra il nostro centro ed il resto della Sicilia sulla base degli esemplari qui presentati. A nostro avviso, l’esistenza di rapporti commerciali e di altro tipo (ad esempio legati ad esigenze di culto religioso presso specifici santuari, oppure determinati da rapporti familiari e di parentela, ecc.) traggono origine già dalla fase in cui la nostra città venne fondata. Le notizie riguardanti la nascita di Kalè Akté rimandano alla città sicula di Herbita, il cui sito non è ancora stato identificato con esattezza (tra i vari proposti, Monte Alburchia presso Gangi o Monte Altesina presso Nicosia), nel cui territorio avvenne la fondazione di Ducezio. Analoga appare essere la situazione per la vicina città di Halaisa, fondata sempre da un Archonidas di Herbita alla fine dello stesso secolo.34 Appare evidente che per il V e IV secolo a.C. le due città vicine alla costa dovettero intrattenere rapporti preferenziali con l’immediato entroterra nella cui area ricadeva la loro città-madre. La circostanza è suggerita da un passo di Diodoro Siculo che fa comprendere quale legame tenesse a stretto contatto Halaisa e Herbita ancora in un’epoca, quella tardoellenistica, in cui la posizione di supremazia tra le due città si era completamente sovvertita, adesso con la prima che si considerava più evoluta e ricca della seconda, ben evidente dagli stretti rapporti di parentela tra le due comunità e dalla similarità con cui si celebrava il culto di Apollo nei due centri.35 Sembra quindi che Kalè Akté fosse collegata per ragioni commerciali, politiche, culturali o religiose ai centri ricadenti nel versante meridionale dei Nebrodi (oltre Herbita, ricordiamo gli abitati ellenistici di Troina, Cerami e Capizzi,36 tutt’oggi collegati materialmente tramite strade e percorsi rurali al territorio di Caronia) e, per vicinanza, a quelli che occupavano le alture degli Erei settentrionali (le antiche Kentoripai, Agyrion, Assoros, Henna). Queste a loro volta intrattenevano stretti rapporti con le città della costa ionica (Katane, Naxos, Tauromenion) fin da epoca molto antica, grazie alla presenza di percorsi naturali rappresentati dalle vallate che si aprono tra alture che superano frequentemente i 1000 metri. Collegamenti consolidati da secoli spingevano i mercanti delle città dell’entroterra verso la costa tirrenica, soprattutto allo scopo di rivendere le produzioni agricole fuori dall’isola, caricandole nelle navi in partenza dai porti di Kalè Akté e Halaisa. Da approfondire risultano i motivi della più che discreta presenza di monete di Tauromenion nei centri di questo settore dei Nebrodi.37

31

Su queste serie “Romano-siciliane” cfr., e.g., Crawford 1974, 4, 1318; Id. 1985, 109-111; Caltabiano 1998, 39-40, 52-55; Carroccio 2004a, 68-69, 155-157, 279. Cfr. anche Carbè 2008, 67. 32 Cfr. Holloway 1960; Caltabiano, Carroccio, Oteri 1995, 216, 218. Non convincenti e basate su errate applicazioni metodologiche le cronologie più alte proposte da Bell 1983. 33 Sebbene si sia ancora in attesa di una edizione sistematica dei rinvenimenti monetali da tutti gli scavi dell’ultimo cinquantennio ad Halaesa, è ad esempio noto il rinvenimento qui di 8 esemplari da Katane, 6 da Tauromenion e 1 da Kentoripai (Carettoni 1959 e 1961), mentre ad Apollonia (Monte Vecchio di San Fratello) si attestano 6 monete da Tauromenion, 3 da Katane e 1 da Kentoripai (Bonanno 2009, Carbé 2010-2011)

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Diod. Sic. 14.16.1 Diod. Sic. 14.16.3-4 36 A parte la sicura identificazione tra Capizzi e Kapytion, i due moderni centri potrebbero essere la possibile sede di diverse poleis note per l’età greco-romana ricadenti in questo settore dell’isola, tra cui Engyon, Imachara, Tissa, Tyrakion, ecc. 37 A Caronia si ha notizia complessivamente di 5 esemplari; ad Halaisa (Carettoni 1959;1961; Puglisi 2009, pp. 109-111) sono attestati 3 35

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Anche i rapporti tra la nostra città e quelle posizionate lungo la costa tirrenica sembrano risalire ad epoche antiche. Appare significativa l’assenza, a Caronia, di monete di Tyndaris, Lipara e Abakainon, per citare i centri della Sicilia nord-orientale che batterono moneta in epoca ellenistica, mentre sono presenti emissioni di Kephaloidion e Panormos.38 Riguardo a Kephaloidion, inoltre, i rapporti sembrano confermati anche a livello epigrafico.39 I contatti avviati in epoca classica dovettero persistere anche nei secoli successivi e la presenza non solo di monete ma anche di altri materiali provenienti da ovest, in particolare le anfore, suggerisce l’esistenza di canali commerciali preferenziali tra l’intero settore occidentale dei Nebrodi e le città costiere ricadenti nella parte ovest del Tirreno, facilitati anche dall’esistenza dell’importante strada litoranea che in età romana prenderà il nome di Via Valeria. L’analisi delle zecche attestate a Kalè Akté, unitamente a quella dei limitrofi centri di Halaisa e Apollonia, vede al momento la quasi esclusiva presenza di centri ricadenti in un preciso areale che, partendo da Siracusa, risale verso le città di area etnea e da qui verso il settore occidentale dei Nebrodi, prolungandosi verso ovest lungo la costa tirrenica. A Kalè Akté e Apollonia mancano del tutto emissioni di centri, anche importanti, dell’area centrale e meridionale della Sicilia, ad eccezione del citato sporadico tetras di Gela di fine V secolo a.C., mentre ad Halaesa sono attestati esemplari tardoclassici e ellenistici da Akragas e forse da Gela, da giustificarsi con un maggiore flusso commerciale da e per questo importante centro, oltre che dall’essere stati condotti scavi sistematici su vaste aree della città antica.40 Localmente, come accennato, le evidenze numismatiche non possono che confermare gli stretti rapporti esistenti tra le poleis ricadenti in questo settore dei Nebrodi. In particolare appare molto stretto il legame tra Kalè Akté e Apollonia, tra loro geograficamente molto vicine e presumibilmente legate da rapporti non solo economici, ma anche di parentela, religiosi e culturali. I due centri erano inoltre collegati da diversi percorsi, sia costieri che interni, tutt’oggi esistenti. Non sono ancora noti ritrovamenti delle rare monete di Apollonia a

Caronia, mentre sono numerosi quelli di valuta calactina nell’area di Monte Vecchio di San Fratello.41 I ritrovamenti numismatici non evidenziano i rapporti con Amestratos (Mistretta), nel cui sito peraltro si sconoscono le attestazioni monetali, che tuttavia sono confermati sia a livello epigrafico42 che letterario.43 Riguardo ad Halontion (San Marco d’Alunzio), mancano notizie circa il rinvenimento di monete di Kalè Akté nel sito, mentre emissioni di quel centro sono state recuperate a Caronia sia nel corso di scavi sistematici che in maniera sporadica. Per Herbita risulta complesso individuare concretamente i rapporti sotto l’aspetto numismatico, visto che ancora è incerto il sito di questa antica città sicula che svolse un ruolo di primo piano nelle vicende isolane nel corso del V secolo a.C. Ipotizzandone l’ubicazione a Monte Alburchia, che ad oggi appare la più accettabile, anche in considerazione proprio del fortuito rinvenimento di emissioni di quella città,44 tra le monete rinvenute in quel sito si annoverano piuttosto emissioni di Halaesa, oltre che della symmachia timoleontea, ma non di Kalè Akté.45 Infine, per ciò che riguarda i rapporti con Halaisa-Halaesa, non occorre l’evidenza numismatica, peraltro esistente, a suggerire forti legami tra le due città, intuibili sia a livello epigrafico che materialmente attraverso innumerevoli similitudini di tipo urbanistico, architettonico e afferente la cultura materiale. Si può ipotizzare che fosse Halaesa il centro di riferimento di questa parte di Sicilia già dalla seconda metà del IV secolo a.C. e lo fu ancora di più dopo la conquista della Sicilia da parte di Roma, a cui proprio Halaesa si consegnò spontaneamente ricavandone privilegi a livello politico e fiscale. Tra tutte queste città ricadenti entro un’area ben definita, omogenea sotto l’aspetto ambientale e morfologico, intercorrevano frequenti scambi e spostamenti di persone, con conseguente circolazione di numerario. Purtroppo la mancata edizione di tutti i rinvenimenti numismatici da scavi ufficiali e, soprattutto, la scarsa conoscenza di quelli ben più cospicui da eventuali scavi clandestini e rinvenimenti privati di superficie, in aree quasi sempre ricadenti in fondi agricoli coltivati, non consente di andare al di là di un rapido quadro dei contatti e della circolazione monetaria ipotizzabili tra città che appaiono fortemente collegate in virtù della loro posizione relativamente periferica rispetto alle più importanti città costiere. La zecca di Kalè Akté iniziò a battere moneta quando la Sicilia era divenuta definitivamente romana. L’avvio di questa coniazione si inserisce nel medesimo quadro sopra delineato di finanziamento locale, probabilmente imposto, della presenza militare romana, e di contemporanea spinta romana, specie negli anni Levino e di Scipione (dal 210 e dal 205 a.C.),46 allo sviluppo economico dell’isola, coinvolgente centri che il più delle volte prima non avevano coniato (come le vicine

esemplari e 4 ad Apollonia/S. Fratello (Bonanno 2008; Carbé 2008, pp. 70-71; Puglisi 2009, p.107). 38 I rinvenimenti di materiali tardoarcaici-classici di cui si discute in altre parti di questo volume, ben precedenti la nascita di Kalè Akté come polis, inducono a rivedere la presenza coloniale nell’intero versante tirrenico, fino ad oggi limitata alla lontanissima subcolonia di Himera. Materiali di produzione imerese di V secolo a.C. sono stati rinvenuti sporadicamente in diversi siti del territorio di Caronia (nelle aree urbane della collina e dell’abitato marittimo, a Pizzo Cilona nell’entroterra, probabilmente anche nel citato centro di contrada ArìaTubbini), mentre diversi esemplari frammentari di anfore puniche arcaiche e classiche sono attestati da rinvenimenti casuali (terreni di discarica) a Marina di Caronia, inducendo a ritenere che soprattutto nel corso del V secolo il nostro centro fosse in stretto contatto con i centri coloniali del versante occidentale (Himera e Kephaloidion) e, attraverso essi, con l’area punica, più che con i centri ricadenti nella parte nordorientale siciliana 39 Un’iscrizione, ancora inedita, recuperata negli ultimi scavi ad Halaesa, accomuna le quattro città di cui all’epigrafe Scibona 1971, 5-9, n. 1, tav. II (Halaesa, Herbita, Kalè Akté e Amestratos) e Kephaloidion, evidentemente riunite in una sorta di confederazione territoriale che potrebbe risalire alla symmachia in favore di Timoleonte 40 Carettoni 1959; 1961

41

Bonanno 2009, Carbé 2008. Scibona 1971 Cicerone, In Verrem, 2.3.101 44 Boehringer 1981 45 Manganaro 1964; 1972 46 Cfr. Liv. 28, 38 e 29,1; Carroccio 2004a, 25, 148-161 e 278; Id., 2004b. 42 43

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Ritrovamenti monetali di epoca greca nel territorio di Caronia Amestratos e Apollonia). Si è infatti ormai consolidata una datazione di queste monete dall’ultimo ventennio del III secolo a.C.47 e si ritiene che la loro circolazione si sia protratta per forza d’inerzia, senza necessità di nuove emissioni, per un lungo periodo, quasi fino all’inizio dell’età imperiale, caratterizzato dalla esiguità (ma non assenza) di monete di Roma rispetto al buon numero di ritrovamenti di bronzi calactini e di altri centri. Nel caso di molte zecche, il forte abbassamento e concentrazione delle cronologie pure terminali (in passato larghe più per incertezza che per convinzione) delle singole serie è stato determinato anche dal notarne la coniazione da un ristretto numero di matrici (fenomeno questo meno evidente per Kalè Akté, data la presenza di alcune varianti nei segni di controllo, ma non tale da far pensare a coniazione prolungata).48 Le serie note sono cinque, con prevalenza quantitativa, per quanto attiene ai ritrovamenti noti, della serie con Testa di Dionysos/Grappolo d’uva e leggenda ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ (fig. 12), seguita dalla quella con Testa di Athena/ Civetta su anfora con identica leggenda (figg. 11 e 11A per confronto). Le altre sono: Testa di Apollo/Cetra (fig. 13), Busto di Hermes/Caduceo (fig. 14A) e Testa di Herakles/Clava (fig. 15A). Tutte paiono alludere a culti praticati nella città, presentati come identitari della stessa, secondo simbolismi e finalità ideologiche prevalenti - insieme alla partecipazione con altre zecche alla diffusione di più complesse “mode iconografiche”49 - rispetto alle allusioni a interessi economici e produttivi della società locale oggi più frequentemente richiamati, che non vanno tuttavia radicalmente esclusi come possibili concause delle emissioni. Tra esse, la più ricca di interesse storicoeconomico, culturale e cronologico, è quella con testa di Atena/Civetta su anfora panatenaica, con iconografia certamente ispirata alle serie ateniesi dei tetradrammi “di Nuovo Stile” (fig. 11C) 50 e strettamente legata alla datazione di quel modello, da taluni recentemente spostata alla metà del II secolo a.C.51, nonostante che l’analisi interna e comparata della serie calactina con altre siciliane coeve mostri grande difficoltà a datarla più tardi del primo decennio del II secolo a.C.52 e suggerisca anzi una rivalutazione delle più tradizionali datazioni delle serie ateniesi dal 196 a.C., se non prima, considerata l’assenza nelle serie calactine (figg. 11-11A) dello stephanos “cornice” di foglie, usuale nelle nuove emissioni ateniesi salvo che tra le prime con tipi già

rinnovati, collocate tra il 229 e il 180 ca. a.C.. (fig. 11B)53. Il caduceo, per parte sua, è insieme simbolo di Hermes, di suoi culti di cui si ha notizia e dell’attività mercantile e diplomatica, attestato anche in altre zecche dell’area.54 Il grappolo d’uva ci rimanda al culto di Dionysos, ribadito dalla sua testa, riconoscibile per la corona di foglie d’edera,55 ma è a volte anche associato con l’anfora. L’anfora (in questo caso non collegata con grappoli) è simbolo sia delle divinità femminili feconde56 che dei traffici commerciali e, per il suo far da base alla civetta nella serie sopra ricordata, in qualche modo connessa con Athena e, per la sua ‘sintassi iconografica’ forse pure espressiva, come si è visto, di più diretti contatti con l’Attica o con l’Egeo di cui sono ulteriori significative conferme, pur nella loro sporadicità, la provenienza dal nostro centro di una monetina pure ellenistica della ionica Erythrai (figg. 16 e 16A per confronto)57 e la menzione di un calactino in un’iscrizione funeraria ateniese.58 Pur nella sua significatività, la civetta come tipo monetale non può essere valutata se non considerando anche la sua frequente adozione - con propria valenza e connessa anche con altre dee e contesti politici e metrologici - a opera di zecche dell’Isola e dell’Italia Meridionale, ancora da approfondire.59 Di Herakles è già stata notata la frequenza di rappresentazioni in emissioni locali dell’epoca e il concentrarsi di queste presso zecche e territori come il siciliano settentrionale, coltivanti varie forme di culto eroico.60 Un discreto numero di monete calactine è stato recuperato, come notato, nei centri limitrofi di Halaesa e soprattutto Apollonia.61 La contiguità tra i territori di Kalè Akté e Apollonia in particolare suggerisce l’esistenza di consistenti canali di scambio tra le due città, a cui tuttavia non sembrano corrispondere molto i dati forniti dai ritrovamenti ceramici, assegnabili ad officine diverse tra i due centri. Mancano notizie circa eventuali rinvenimenti di esemplari calactini nel territorio delle antiche 53

Cfr. Thompson 1961; Mørkholm 1984; Nicolet-Pierre 2002, 234-235. Il 229 a.C. è l’anno del foedus aequum di Atene con Roma, cui si riallacciava Head 19112, 380 ss. per proporre una datazione molto alta di queste serie. 54 Cfr. Mannino 1986-1987, 129; Carroccio 2004a, 217-221, e 223-230 per la “moda iconografica” del busto cui aderisce l’immagine di Hermes. 55 Ibidem, 205-212; 56 Cfr. Chevalier, Gheerbrant 1986, II, 532-533 s.v. Vaso. 57 Va notato che nell’ampiamente documentata Morgantina, se si eccettuano pochi più antichi pezzi aurei e argentei, caratterizzati da una circolazione ben distinta, non furono rinvenute che sporadiche monete dall’area egea, nessuna dalla Ionia. Cfr. Buttrey, Erim, Groves, Holloway 1989. Nessuna moneta ionica è pure annoverata tra i rinvenimenti e ripostigli sul suolo siciliano in Puglisi 2009, 97-219. 58 Cfr. IG II-III, 3, n. 10291. 59 Cfr. Carroccio 2011b, 411, 413-414; Id. 2012, 224. 60 Cfr. Carroccio 2004a, 192-205; Crisà 2011. 61 Nel corso degli scavi 2003-2005 sul Monte Vecchio di S. Fratello (Apollonia) sono state rinvenute 13 monete di zecca calactina: 4 del tipo Testa di Dionysos/Grappolo d’uva e 9 del Testa di Athena/Civetta su anfora. Kalè Akté è la seconda città attestata in questo sito dopo Syrakosa, seguita da Alontion e Halaesa (3 esemplari ciascuna). Cfr. Carbè 2008, 63, 65-66, 68.

47

Cfr. Mannino 1986-1987; Campana 1998 (generico 200-150 a.C. ma considerazioni a favore della parte alta della forbice temporale); Carroccio 2004a, 46, 211 e 292. 48 Ibidem,137-138, 276-278; Carroccio 2004b, 281. Campana 1998 individua 4 varianti della Athena/Civetta, 5 della Dionysos/Grappolo, 2 della Hermes/Caduceo. 49 Cfr. Carroccio 2011c. 50 Cfr. Mannino 1986-1987, 126 e no. 7; Buttrey, Erim, Groves, Holloway 1989, 139-140; Thompson 1961, vol. II, tavv. 1-32. 51 Cfr. Lewis 1962; Kroll 1993, 13-16; Picard 2000, 80. 52 Cfr. Mannino 1986-1987, 127-132. Carroccio 2004a, 292. Sulla valenza anche traslatamente politica di questa particolare cornice, e per una linguisticamente e lessicalmente corretta denominazione delle serie ateniesi con tale elemento come stephanophoroi piuttosto che come stephanephoroi, cfr. già Spinelli 2010.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Amestratos e Halontion, mentre, in rapporto alle numerose similarità attinenti la cultura materiale, l’edilizia abitativa e i riferimenti epigrafici, inferiori alle aspettative sono stati fino ad oggi i ritrovamenti di bronzi di Kalè Akté ad Halaesa.62 Significativa l’assenza di rinvenimenti di serie calactine dal territorio di Capo d’Orlando, su cui dovrebbe insistere il sito di Agathyrnon, che pur tuttavia ha restituito monete siracusane, mamertine, reggine, nonché da zecche pugliesi e campane.63 La fase in cui Kalè Akté emette moneta, a partire dagli ultimi decenni del III secolo a.C., sembra coincidere con una riorganizzazione dei centri siciliani, ivi compresi quelli di area nebroidea, all’indomani della conquista della Sicilia da parte di Roma. L’azione del nuovo dominatore appare, per la parte che qui interessa, impostata secondo una duplice direttrice: far ripartire dopo la parentesi bellica l’economia e le diverse attività produttive dell’isola, in modo tale da consentire una ripresa sostenibile dell’afflusso di tributi e delle forniture granarie verso un’Urbe rimasta essa stessa duramente provata; ma anche promuovere, facendo eventualmente leva anche su orgogli identitari e maggiorenti locali, tutta una serie di emissioni monetali di singoli centri, accordate tutte sul medesimo standard monetale romano vigente, utile al sostentamento quotidiano (che quindi diveniva un nuovo tributo di fatto) di forze militari d‘occupazione rimaste stanziate nei singoli centri fino alla completa fine della minaccia di una ripresa dell’iniziativa annibalica. L’orientamento attuale degli studi numismatici per l’età antica non collega più in maniera stretta emissione monetaria e sviluppo dei commerci, che si avvalevano anche di altre orme di pagamento e, per questa età, delle grandi masse di monete emesse negli anni di guerra e rimaste in circolazione per lunghissimo tempo. D’altra parte, un grande sviluppo economico, che fece da traino ad una crescita ben più ampia che investiva anche gli aspetti culturali e artistici della nostra città, è attestato dalla varietà dei prodotti che circolavano nelle case dei Calactini: la presenza di particolari manufatti d’importazione (accenniamo, ad esempio, alle anfore vinarie rodie, ai kalathoi iberici, alle sigillate orientali)64 attesta non solo un più che discreto status economico della comunità locale, ma anche l’esistenza di canali commerciali tra il nostro centro e varie aree del Mediterraneo, oltre che con la penisola. Si tratta di indicatori che fino ad oggi non sono stati considerati per misurare gli standard di vita di molti centri urbani, in particolare di questo settore centrale dell’isola. All’arrivo in città di prodotti importati, peraltro, corrisponde l’avvio di tutta una serie di attività artigianali che perdureranno anche in età imperiale, in particolare la produzione, su vasta scala, di laterizi per l’edilizia, di vasellame, di coroplastica artistica, di manufatti in metallo, favorita dalla presenza in loco di abbondanti risorse naturali (cave

d’argilla, sorgenti d’acqua, legname dagli estesi boschi). Per quanto il quadro della circolazione monetaria calactina non appaia molto diverso da quello generale siciliano, che vede circolazione indistinta di una grande quantità di emissioni di diverse zecche, tutte chiaramente dotate di quel che gli economisti chiamano “potere liberatorio”, come riscontrato dagli scavatori di Morgantina, di contro ad una per lungo tempo insufficiente presenza di moneta romana repubblicana bronzea, tuttavia una certa importanza di Kalè Akté come centro economico propulsore in grado di gestirsi autonomamente e di scambiare con l’esterno, seppure entro un limitato raggio che corrisponde all’area nebroidea e a quella immediatamente retrostante appare innegabile anche per la varietà di nominali coniati e soprattutto per i legami, certamente non solo culturali, lasciati intuire per l’Attica dalla derivazione di uno di questi dalla monetazione ateniese contemporanea, e per l’Egeo dalla presenza in loco della monetina ionica di Erythrae. La visione complessiva di questi fenomeni è, in altre parole, quella di un centro che ora non esiste più passivamente nel quadro economico complessivo, ma in qualche modo vi partecipa attivamente. La fase terminale della storia della nostra città, come altre, quale centro soggetto a Roma ma ancora culturalmente “ellenistico” trova scarne testimonianze in un denarius “serrato” romano suberato (cioè argenteo con anima in rame per una “manovra economica” nascosta dello Stato) di C. Scipione Asiageno (fig. 17), databile intorno al 106 a.C. sporadica da c.da Telegrafo65, ma soprattutto da assi di rame di Sesto Pompeo (di cui tre da scavi ufficiali), simili ai più antichi con la prua ma nascondenti i volti di Sesto e di suo padre, il grande Pompeo, nella testa bifronte al Diritto. Tali assi trovano la loro ragion d’essere nella presenza del generale romano in Sicilia, tra il 42 e il 36 a.C., quando venne definitivamente sconfitto da Cesare Ottaviano (il futuro Augusto) nella battaglia presso Milazzo. Allora, le rinnovate esigenze di spesa militare portarono a una breve fase di emissioni locali, forse attestata da un pezzo di Entella, cui seguì la definitiva immissione dell’isola nel circuito di circolazione monetaria romana.66 La diffusione delle nuove monete “ufficiali” dell’Imperator Augustus vincente e dei suoi successori (fig. 18) sembra mettere fine definitivamente alla circolazione di valuta locale che perdurava dalla fine del III secolo a.C., sebbene appaia molto strana la circostanza per cui non sono noti in collina rinvenimenti, occasionali o da scavi sistematici, di monete imperiali riferibili ancora al I secolo d.C., fase in cui è ampiamente attestata dai materiali ceramici l’esistenza della città collinare prima del suo abbandono, da collocarsi verso la fine dello stesso secolo per cause non ancora del tutto chiarite.67

65

Cfr. Crawford 1974, n. 311/1 Su queste emissioni e la loro circolazione isolana cfr. Martini 1991; Id. 1995; Puglisi 2009, 250-251, 346-347, 379. 67 La circostanza assume particolare significato se si considera che nel cospicuo lotto di monete rinvenute negli estesi scavi di c.da Pantano a Marina di Caronia, solo tre monete possono essere sicuramente datate al I secolo d.C. su un totale di 207 esemplari, maggiormente concentrati tra III e IV secolo d.C. (vedi Bonsignore-Trifirò 2008) 66

62

Si deve tenere comunque conto che non sono stati ancora pubblicati i rinvenimenti numismatici avutisi nel corso dei ripetuti scavi halaesini dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi e quelli noti risalgono ancora agli scavi Carettoni della metà del ‘900 63 Cfr. Mastelloni 2004. 64 Vedi Cap. 3

386

Ritrovamenti monetali di epoca greca nel territorio di Caronia

1

1A

2

3

4

5

6

7

8

11

11A

11B

11C

10

12

13

14A

15A

16

16A

9

17

18

19

20

Tav. I. Monete non riprodotte nel formato originale (esemplari da Caronia tranne: 11A, 14A-15A: Carroccio 2004, tav.II, 3-5; 11B: Nicolet-Pierre 2002, n. 400; 11C: asta Roma Num.18a, 27/06/2015 n. 151; 16A: asta Pecunem 12a, 12/02/2014 n. 228) (B. Carroccio)

La discussione delle monete di età imperiale e successiva rinvenute, e finora identificate, nell’area di Caronia esula dai termini temporali di questo studio. Basterà però ricordare che la provenienza di gran parte delle monete imperiali dall’abitato marittimo, costituisce una riprova di una frequentazione umana ristrettasi, successivamente al I secolo d.C., quasi esclusivamente

all’interno di questo settore, secondo modalità attestate per molti siti dell’epoca. Il quadro da esse delineato, con equilibrata distribuzione dei nominali nelle diverse epoche dal I al IV sec. d.C.68 appare coerente col quadro rappresentato da altri centri consimili, mentre le 68

387

Cfr. Bonsignore, Trifirò 2008.

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia siciliana) Zecca non id.

sporadiche presenze di folleis bronzei bizantini della zecca di Constantinopolis presumibilmente di VI secolo (fig. 19) e di almeno tre monete medievali, una delle quali con leggenda araba cufica di Tancredi (1191-1193) (fig. 20), l’altra forse di Manfredi (1258-1266), rinvenute sporadicamente in collina, ci ricordano che l’area non mancherà di avere una frequentazione e stabile occupazione anche nelle età successive.69 A seguire si riepilogano i rinvenimenti monetali relativi all’età classica ed ellenistica rinvenuti nel corso dei diversi scavi sinora pubblicati, modificate quando necessario rispetto alle edizioni originali nei casi in cui la più recente ricerca numismatica ha portato, come si accennava, a modificarne o affinarne le cronologie, e le altre notizie di rinvenimenti sporadici superficiali e di monete in collezioni locali raccolte in questi anni dal curatore del volume.

Zecca

Tipo

Datazione

Rhegion

D. Busti dei Dioskouroi R. Hermes stante con ramoscello, caduceo e  D. Testa di Helios radiato R. Guerriero stante con galea, asta e scudo, ΑΙΤΝΑΙΩΝ

213-210 a.C.

1

212?-200 a.C.

1

Agyrion

D. Testa Apollon R. Isis stante. ΑΓΥΡΙΝΑΙΩΝ e I I

208-205 a.C.

1

Kalè Akté

D. Testa di Dionysos R. Grappolo d’uva. ΚΑΛΑ[ΚΤΙΝΩΝ]

215-200? a.C.

3

Kalè Akté

D. Testa di Herakles R. Clava. ΚΑ[ΛΑ]ΚΤΙ[ΝΩΝ]

208-200 a.C.

1

Kalè Akté

D. Testa di Apollon laureato R. Cetra. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

207-190 a.C..

1

Kalè Akté

D. Busto di Hermes con petaso R. Caduceo. ΚΑ[Λ]ΑΚΤΙΝΩΝ

205-190 a.C.

2

Kalè Akté

D. Testa di Athena R. Civetta stante su anfora. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

205?- 190 a.C.

4

Katane

D. Testa di Apollon R. Isis stante con uccello sulla destra protesa e I I [ΚΑ]ΤΑΝ[ΑΙΩΝ]

211-204 a. C.

1

Katane

D. Uno dei Pii Fratres che porta il padre R. L’altro dei Pii Fratres che porta la madre

186-170 a.C.

1

Kentoripai

D. Busto di Demeter R. Aratro su cui è posato un uccello e . . . ΚΕΝΤΟ[ΡΙΠΙΝΩΝ]

211-190 a.C.

1

Kephaloidion

D. Busto di Hermes con petaso R. Caduceo alato.

200-190 a.C.

1

Halaesa

D. Testa di Apollon laureato R. Apollon stante

204-200 a.C.?

1

Halaesa

D.Testa di Apollon R. Tripode

Post 204 a.C.

1

Mamertini

D. Testa di Apollon laureato R. Guerriero nudo stante con clamide, lancia, scudo e spada e 

211-208 a.C.

1

Panormos

D. Testa di Demeter velata R. Prua di nave. Monogramma ΠΑΡ

208-180 a.C.

1

Syrakosa

D. Testa di Kore R. Toro cozzante; sopra clava e caduceo. IE D. Testa di Poseidone R. Tridente con delfini

Post 275 a.C.

1

217?-214 a.C.

6

Roma

D. Testa di Giano bifronte e I R. Prua di nave e I

213-211 a.C.

1

Roma (zecca siciliana)

D. Testa di Mercurio con petaso alato e . . R. Prua di nave; sopra spiga e . .

213-211 a.C.

1

Aitna

1. Caronia, c.da Telegrafo. Scavo 199270 Tipo

Datazione

Kalè Akté

D. Testa di Hermes R. Caduceo. ΚΑΛΑ ΚΤΙΝΩΝ

205-190 a.C.

1

Syrakosa

D. Testa di Athena R. Ippocampo

408-368 a.C.

1

Tauromenion

D. Testa femminile con stephanos R. Grappolo d’uva

ca. 336-317 a.C.

1

Tauromenion

D. Testa di Apollon R. Toro cozzante. ΤΑΥΡΟΜΕΝΙΤΑΑΝ

Post 204 a.C.

1

Roma (zecca siciliana)

D. Testa di Pompeo gianiforme R. Prua di nave

45-36 a.C. Sesto Pompeo

1

N. es.

2. Caronia, c.da Sotto S. Francesco (A) e Marina c.da Pantano (B). Scavi 1999-200171 Zecca

Tipo

Datazione

N. es.

Syrakosa

D. Testa di Persefone. ΣΥΡΑΚΟΣΙΩΝ R. Toro cozzante con due delfini

317-310? a.C. Agatocle

1 (B)

Kalè Akté

D. Testa di Dionysos R. Grappolo d’uva. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

215-200? a.C.

2 (B)

Kalè Akté

D. Testa di Herakles R. Clava. ΚΑ[ΛΑ]ΚΤΙ[ΝΩΝ]

208-200 a.C.

1 (B)

Kalè Akté

D. Testa di Apollon laureato R. Cetra. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

207-190 a.C..

1 (B)

Mamertini

D. Testa di Apollon laureato R. Guerriero stante con spada e scudo e Π. ΜΑΜΕΡΤΙΝΩΝ

211-208 a.C.

1 (B)

D. Testa di Pompeo gianiforme R. Prua di nave. PIVS IMP

45-36 a.C. Sesto Pompeo

Roma (zecca

1 (A) dimezz.

3. Marina di Caronia, c.da Pantano. Scavi 2003-200472

B.C. – F.C.

Zecca

D.— R.—

Syrakosa

N. es.

1 (B)

69

Risale probabilmente al X secolo la rioccupazione in forma urbana della collina di Caronia, confermata da documenti arabo-normanni sia per la metà dell’XI (Hisn Q.r.m.n.ya nel “Kitab Gara’Ib Al-Funun WaMulah Al-Uyun”) che per la metà del XII secolo (Qaruniya in Edrisi) 70 Bonanno 1993-1994. 71 Lentini, Lindhagen, Göransson 2002.

72

388

Bonsignore, Trifirò 2008.

Ritrovamenti monetali di epoca greca nel territorio di Caronia Roma (zecca siciliana)

D. Testa di Pompeo gianiforme R. Prua rostrata; sopra PIVS

45-36 a.C. Sesto Pompeo

1

Zecca “romanosiciliana”

D. Testa femminile velata R. Monogramma entro corona

200-190 a.C.

1

Cephaloedium o Menaenum

D. Testa a d. R. Caduceo

204-190 a.C.

Zecca non id.

D. Testa R. Cavallo o cane

1

Zecca non id.

D. Testa R. Fulmine?

1

Zecca non id.

D. Testa elmata a d.

1

Altre zecche non identificate

-----

Roma

D. Testa di Giove R. Quadriga guidata da Giove. L SCIP ASIAG

106 a.C. C. Scipione Asiageno

1

Zecca non id.

D.— R. –

2

Zecca non id.

D.— R.—

1 fram.

Messina (Normanni)

D. Scritta in caratteri arabi cufici “Il re Tancredi” R. Scritta ROGERIVS REX e croce.

1

Follaro di Tancredi 11911193 d.C.

1

5. Caronia, c.da Sotto S. Francesco (A) e c.da Telegrafo (C) e Marina di Caronia (M) (ritrovamenti sporadici)

25

Zecca

Tipo

Datazione

N. es.

Gelas

D. Testa del fiume Gelas imberbe. R. toro e segni di valore D. Testa di Athena con elmo corinzio R. Guerriero a cavallo con lancia e mantello

420-405 a.C.

1 (M)

310-309 a.C. (Agatocle)

2 (A)

1Syrakosa (attrib.incerta)

D. Testa di Kore-Persephone con capelli lunghi R. Torcia entro corona di quercia

278-276 a.C. (Pirro)

1 (A)

Syrakosa

D. Testa di Poseidone R. Tridente con delfini ai lati

217?-214 a.C. (Ierone II)



Syrakosa

D. Testa di Poseidone R. Tridente con delfini ai lati

217?-214 a.C. (Ierone II)

1 (A)

Syrakosa

D. Testa di Poseidone R. Tridente con delfini ai lati

217?-214 a.C. (Ierone II)

3 (A) dimez.

Kalè Akté

D. Testa di di Dionysos R. Grappolo d’uva. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

215-200? a.C.

3 (A)

Katane

D. Testa di Hermes con petaso R. Nike stante con corona

200 ca. a.C.

1 (A)

Tauromenion

D. Testa femminile R. Grappolo d’uva

ca. 336-317 a.C.

1 (A)

Entella (Atratinus) ?

D. Testa di Ares con elmo R. Triskeles con gorgonenion al centro

36 a.C.

1 (A)

Panormos

D. Testa di Herakles con leonté R. Prua (?)

Post 208 a.C.

1 (A)

Kentoripai

D. Busto di Demeter coronata R. Aratro con uccello appoggiato e . . . ΚΕΝΤΟΡΙΠΙΝΩΝ

211-190 a.C.

2 (A)

Mamertini

D. Testa di Ares a s. R. Nike stante a s.

264-260 a.C.

1 (A)

Mamertini

D. Testa laureata di Zeus R. Guerriero promachos con lancia e scudo e Π

Post 200 a.C.

1 (A)

Mamertini

D. Testa laureata e diademata di Dioskouros R. Dioskouros con lancia che guida un cavallo e Π

211-208 a.C.

1 (A)

Roma (zecca siciliana)

D. Testa di Mercurio con petasos e . . R. Prua di nave e spiga e . .

213-211 a.C.

1 (A)

Panormos?

D. Testa di Zeus (?) R. Figura stante con lancia sulla mano sinistra e

Post 200 a.C.

1 (A)

4. Caronia, c.da Telegrafo (collezione privata) Zecca

Tipo

Datazione

Erythrai (Ionia)

D. Testa di Herakles con pelle di leone R. Iscrizione ΕΡΥ ΑΥΤΟΣ [ ]ΡΟΣ ΑΥΤΟ Ν ΜΟΥ

III-II secolo a.C.?

D. Testa di Athena con elmo corinzio R. Guerriero a cavallo con lancia e mantello

310-309 a.C. (Agatocle)

Syrakosa

D. Testa di Poseidon R. Tridente con delfini ai lati

263-214 a.C. (Ierone II – modulo incerto)

1

Syrakosa

D.Testa di Poseidon R. Tridente con delfini ai lati

217?-214 a.C. (Ierone II)

1

Syrakosa

D.Testa di Poseidon R. Tridente con delfini ai lati

217?-214 a.C. (Ierone II)

2 dimez

Syrakosa

D. Testa di Isis R. Uraeus (Corona di Iside)

211-200? a.C.

1

Syrakosa

D. Busto di Artemis R. Faretra e arco incrociati

211-200? a.C.

1

Syrakosa

D. Testa di Serapis R. Tyche stante con asta e timone D. Testa di Apollo laureato R. Cetra. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

Post 208 a.C.

1

207-190 a.C..

1

Kalè Akté

D. Testa di Athena R. Civetta su anfora. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

205?- 190 a.C.

2

Kalè Akté

D. Testa di Dionysos R. Grappolo d’uva. ΚΑΛΑΚΤΙΝΩΝ

215-200? a.C..

2

Aitna

D. Testa di Kore-Persephone eX R. Cornucopia e . . .

211-200 a.C.

1

Halontion

D. Busto di Hermes R. Caduceo. ΑΛ−ΟΝ−ΤΙΝ−ΩΝ

200-190 a.C.

1

Roma

D. Testa di Giano bifronte R. Prua di nave

Ca. 215-210 a.C.?

1 dimez.

Katane

D. Testa di Apollon R. Isis stante con uccello sulla destra protesa e I I

211-204 a.C.

2

D. Testa femminile con stephanos R. Grappolo d’uva

ca. 336-317 a.C.

Syrakosa

Kalè Akté

Tauromenion (?)

N. es. Syrakosa

1

1

2

389

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia destra protesa Zecca non id.

D. Testa maschile R. figura seminuda stante

1 (A)

Zecca non id.

D.— R. –

1 (A) rotta

Zecca non id.

D. Testa di Herakles con leonté R. –

1 (A)

Roma imperiale

D. illeggibile R. Figura divina stante con alta asta

I-II sec. d.C.

1 (A) rotta.

Roma

D. Testa di Claudio. TI CLAVDIVS CAESAR AVG R. Libertas stante a braccia allargate. LIBERTAS AVGUSTA

41-42 d.C. Asse di Claudio

1 (A)

Constantinopolis

D. Imperatore stante coronato e nimbato con lunga croce, legenda incerta R. Segno di valore M (= 40

Follis forse di Giustiniano II (685-695 d-C.)

1 (A)

nummi), sopra croce, sotto ∆ (4a officina) compresi tra ANNO e numerale non decifrabile. Sotto CON Messina (Svevi)

D. Lettera M al centro. Intorno leggenda illeggibile R. Croce patente al centro con globetti tra i bracci. Intorno leggenda illeggibile

Denaro di Manfredi (1258-1266) (attrib. incerta)

1

Età medievale

Moneta illeggibile per deformazione

XIII secolo d.C.

1

Caltabiano 1994 = M. Caccamo Caltabiano (a cura di), Roma e Bisanzio, Normanni e Spagnoli. Monete a Messina nella collezione B. Baldanza, Messina 1994

Bibliografia Bell 1983 = M. Bell III, The halved Poseidon Head/Trident Coins with a Note by R. Ross Holloway, appendix a. Excavations at Morgantina, preliminary report, XII, in “AJA” 1983, pp. 340-342.

Caltabiano 1995 = M. Caccamo Caltabiano (a cura di) La Sicilia tra l’Egitto e Roma. La monetazione siracusana dell’età di Ierone II. Atti Seminario Studi, Messina 1993, Messina 1995. Caltabiano 1998 = M. Caccamo Caltabiano, La monetazione in Sicilia negli anni della II guerra punica fra tradi zione locale ed esperienza romana, in G. Gorini (a cura di), Forme di contatto tra moneta locale e moneta straniera nel mondo antico. Atti del Conv. Intern. Aosta...1995, Padova 1998, pp. 39-55.

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Caltabiano 2001 = M. Caccamo Caltabiano, La monetazione di Dionisio I tra economia e propaganda, in La Sicilia dei due Dionisii. Atti. Agrigento 1999), Roma 2001, pp. 33-45

Bonanno 1993-1994 = C. Bonanno. Scavi e Ricerche a Caronia e a S. Marco d’Alunzio. In “Kokalos”, XXXIX-XL, II.1, 19931994, pp. 953-985.

Caltabiano. 2004 = M. Caccamo Caltabiano, Il problema del “bimetallismo” e la funzione della moneta di bronzo pesante in Sicilia, in La moneta fusa nel mondo antico. Quale alternativa alla coniazione? Atti Conv. Internaz., Arezzo...2003, Milano (Numismatica e Scienze Affini 4), pp. 17-53.

Bonanno 2008 = C. Bonanno (a cura di), Kalè Akté. Scavi in contrada Pantano di Caronia Marina 2003-2005, Roma 2008. Bonsignore, Trifirò 2008 = A. Bonsignore, M.D. Trifirò, Rinvenimenti monetali nel sito dell’antica Kalè Akté, in Bonanno 2008, pp. 63-72

Caltabiano 2009 = M. Caccamo Caltabiano, Moneta docet. ΣΥΡΑ o dell’astro, in L. TRAVAINI, (ed.), I trenta denari di Giuda. Atti Convegno Milano 8 Febbraio 2006, Roma (Monete 3) 2009, pp. 79-104.

Buttrey, Erim, Groves, Holloway 1989 = T.V. Buttrey, K. Erim, Th.D. Groves, R.R. Holloway, Morgantina Studies II - The coins, New Jersey 1989.

Caltabiano, Carroccio, Oteri 1995 = M. Caccamo Caltabiano, B. Carroccio, E. Oteri 1995, Il sistema monetale ieroniano. cronologia e problemi,in Caccamo Caltabiano 1995, pp. 195279.

Caltabiano 1979 = M. Caccamo Caltabiano, Kyme Enkymon: riflessioni storiche sulla tipologia simbologia e cronologia della monetazione cumana, in “ArcStMess” XXX, 1979, pp. 19-56.

Caltabiano, Carroccio, Oteri 1997 = M. Caccamo Caltabiano, B. Carroccio, E. Oteri, Siracusa ellenistica. La monetazione ‘regale’ di Ierone II, della sua famiglia e dei Siracusani, Messina (Pelorias 2), 1997.

Caltabiano 1987-1988 = M. Caccamo Caltabiano, Tipi monetali siracusani in Asia Minore, in Sicilia e Anatolia dalla preistoria all’età ellenistica. Atti...Siracusa 1987, “CASA” 36-37, 19871988, pp. 103-114.

390

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Caltabiano, Castrizio, Puglisi 2006 = M. Caccamo Caltabiano, D. Castrizio, M. Puglisi, Dinamiche economiche in Sicilia tra guerra e controllo del territorio, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico (VIII-III sec. a.C.). II. Arte, prassi e teoria della pace e della guerra. Atti V Giornate Area Elima, Pisa 2006, pp. 655-673.

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Caltabiano, Puglisi 2004 = M. Caccamo Caltabiano, M. Puglisi 2004, Presenza e funzioni della moneta nelle chorai delle colonie greche di Sicilia, in Presenza e funzioni della moneta nelle chorai delle colonie greche, dall’Iberia al Mar Nero. Atti XII Conv. CISN, pp. 333-370.

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Campana 1998 = A. Campana, Corpus Nummorum Antiquae Italiae, vol. II, s.v. Sicilia: Kalakte (ca. 200-150 a.C.), in “Panorama Numismatico” n.122/1998, pp. 263-271.

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Castrizio 2000 = D. Castrizio, La monetazione mercenariale in Sicilia. Strategie economiche e territoriali tra Dione e Timoleonte, Soveria Mannelli 2000.

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SIGILLATA ITALICA DALLA COLLINA DI CARONIA Sergio Cascella – Francesco Collura ITALIAN SIGILLATA FROM THE HILL OF CARONIA Among the various classes of Greek-Roman materials present within the ancient urban area of Kale Akte – Calacte, here we examine the main type of ceramic tableware of the early Roman Empire, the Italian Sigillata or Terra Sigillata, widely found during the surveys carried out by the authors on the hill. The choice to discuss particularly this type of pottery, among others from the hilly town, comes from the need to understand its demographic consistency, deducible also from the percentage of this pottery class, in the phase immediately preceding the almost total abandonment of the site, occurred at the end of the first century AD or at the beginning of the following, according to the available data. From this phase onwards, the city whose name appears in the Roman Itineraries and map, until the end of the classic toponym, was only that on the coast. The study of this class of pottery, characterizing a specific historical phase, also allows to understand how Calacte was inserted within specific trade channels with the Italian Peninsula and other areas of the Mediterranean, since the production of Terra Sigillata is attributable to several Italic centers (in Etruria, Campania or the Po Valley), as well as Gallic and Hispanic. During the surface surveys below the modern town, we have counted over 1300 fragments of Terra Sigillata, mostly of Italic production. About one third of them are useful for diagnostic purposes, being edges, significant parts of the body and feet of the vessels, as well as interesting fragments of stamps of the producer and parts of decorations, found in a significant number. Italian Sigillata is present on all three sides of the hill on which the classical age town developed, that is to the east, north and west. The research has focused mainly on the eastern side of the hill, where the continuous exploitation of the soil for agricultural purposes, the stationing of grazing animals and the tracking of roads and access paths to the agricultural fund in recent years made it possible not only the outcropping of ancient structures, but especially the constant surfacing of an exceptional amount of archaeological materials. The grounds located on the north and west sides of the hill are mostly abandoned for several decades and overgrown so are not suitable for investigating; the soil, where accessible, is hard and with relatively few archaeological materials on ground level. Despite this, we can observe fragmentary artifacts dating back to the Hellenistic an Roman period, especially bricks and tiles, and amongst them also fragments of Terra Sigillata. We must say that a systematic study dedicated to Italian Sigillata from a small town of Sicily as in our case is a novelty in Sicilian archaeological studies. In general, in Sicily, greater attention traditionally has been given to the study of the Greek materials and, among them, to those of Greek Archaic, Classical and early Hellenistic age. The publications on this topic are still few, as well as those about the materials of the middle and late Hellenistic period, except for some particular types of vessels, such as the polychrome ceramics of Lipari and Centuripe. For this reason, even today it is difficult to frame in a precise chronological context many of the ceramic shapes of the II-I century BC. Not much is published on particular classes of late Hellenistic pottery imported in Sicily, such as Eastern Sigillata or Iberian pottery (both attested, however, at Caronia). The stamped and decorated fragments we present here amount to a total of 85 pieces, of which 74 are included in a Catalog. In turn, these fragments have been separated between recognizable pieces, which can be assigned to a specific production already known, and not recognizable. The first group includes 29 pieces, of which 14 with stamp, 1 with graffito and 14 with decoration. In most cases the size and the state of preservation of the fragments do not allow a reliable attribution neither of the stamps, of which only one or two letters are kept, nor of some decorated fragments. Therefore we will consider first the stamps we have been able to read and the fragments with decorations of which we have recognized the work of a known potter, useful to reconstruct trade flows and channels supply of these type of materials. The other 45 pieces include 12 with partial or not clearly readable stamps and 33 with decoration, of which we have not recognized the potter, but we believed to be useful for future studies on the production and circulation of Terra Sigillata in this part of Sicily. All the pieces in the Catalog were found on the eastern slope of the hill of Caronia except no. 11, found in the site of a farm or “villa rustica” not far from the city (Contrada Lineri). Despite the extreme fragmentariness and poor preservation of the surfaces of the fragments, it has been possible to make some general considerations. First, a picture emerges in line with the observations made recently about the movement of the Sigillata Italica in Sicily. There are not, in fact, radial stamps belonging to the earliest phase of production, dating from the second half of the first century BC, while are attested rectangular and square stamps that indicate the beginning of the imports of this red coral glazed tableware to Calacte around the middle age of Augustus. Late crescent-shaped stamps have not been found. The study of Italian Sigillata from the hill of Caronia has allowed to insert to all the effects the city of Calacte within the standards of material culture that characterize all the cities of the northern Sicily during the first century of the Roman Empire, by force of circumstances more receptive to influences from the Italian Peninsula. The presence of a harbour for ships also of medium cabotage, thanks to the presence of an inner basin, favored in our case the arrival of goods directly from the Tyrrhenian

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia continental centers, without the necessity to pass through the main maritime markets (Messina, Lipari, Panormus), as occurred especially for the hinterland centers or for those without a harbour. We can imagine a continuous exchange of goods between Sicily and the Italian Peninsula, with ships coming from Rome or from other centers of Lazio and Campania carrying stored foods (wine, oil, etc..) together with piles of pottery vessels that, while the ship was en route along the Tyrrhenian ports of Sicily (Lipari, Tyndaris, Halaesa, the same Calacte, etc.), unloaded the goods that were sold in local shops or sent to the towns of the hinterland. The comparative analysis of the stamps and the most common shapes here found attests a main phase of diffusion of this pottery between the middle age of Augustus and the JulioClaudian period, with a decrease from about 70 AD. The reduced presence of fragments of the later phases of Italic and south-Gaulish production, has implications for understanding the dynamics of the occupation of the site. We note, finally, the presence of materials which, even if repeat the formal characteristics of Italian Sigillata, show peculiarities regarding the properties of the clays and especially of the glaze used, which could refer to a possible Sicilian production. As well as regional productions developed in Campania, in Gaul, and in the Iberian peninsula after the birth of the Italian Sigillata in Etruria, it is possible that Sicily, a land with a long tradition of craftsmen specialized in the production of pottery, has had its own production centers of Sigillata still not identified (Syracuse? Morgantina? Agrigento?), with a strictly local circulation.

ellenistico e nel primo secolo dell’Impero, sebbene il quartiere marittimo, probabilmente da sempre il fulcro dell’economia calactina per la presenza del porto, vanti un’esistenza molto più antica2 e sia esistito contemporaneamente all’abitato collinare, divenendo infine, dopo l’abbandono della collina, il vero e proprio centro cittadino nel corso dell’Età Imperiale e nel tardoantico. La scelta di trattare in particolare di questo tipo di vasellame, tra i tanti presenti sulla collina nel corso dell’età classica, nasce da una duplice esigenza. In primo luogo, la relativa alta percentuale di attestazione di questi materiali rispetto alle altre classi ceramiche, fatto, questo, che attesta come la fase di vita dell’abitato di epoca primo imperiale sia stata caratterizzata da una rilevante espansione economica che presuppone una discreta presenza abitativa, sebbene, questa, sia immediatamente precedente l’improvviso abbandono della parte alta della città. Anche se non sono ancora chiare le ragioni storiche di tale circostanza, i dati a disposizione collocano questo avvenimento tra la fine del I secolo d.C. e i primi decenni di quello successivo. Da questa fase in poi, la città che comparirà negli itinerari e nella cartografia romana sarà sino alla fine del toponimo classico, quella sulla costa. Oltre a ciò, lo studio dei frammenti delle suddette classi ceramiche, è certamente utile a inquadrare il nostro centro entro i flussi commerciali che intercorrevano tra questa parte della Sicilia, la penisola e le altre aree del Mediterraneo. Nel corso delle decennali ricognizioni da parte di chi scrive sul piano di campagna sottostante l’abitato moderno, sono stati censiti finora circa 1400 frammenti di sigillata, in massima parte di produzione italica. Circa un terzo di questi materiali è diagnosticamente utile a fini cronologici, trattandosi di orli, fondi con e lacerti di vasi decorati, recuperati in discreto numero. Ai fini dell’inquadramento complessivo della circolazione di questa produzione nel sito di Kalé Akté – Calacte, l’importanza dei dati che si riporteranno di

Il centro storico dell’odierna cittadina di Caronia, databile nella sua struttura ed estensione a epoca normanna con parziali ampliamenti riconducibili agli ultimi due secoli, si sovrappone alla parte alta della città greco-romana di Kalé Akté - Calacte. Ampi settori di questa giacciono sepolti sotto uno spesso strato di terreno nelle campagne coltivate a oliveti che occupano i pendii, fino a una quota di 220-200 metri s.l.m. La costruzione delle case medievali e di quelle più recenti ha comportato lo smantellamento delle strutture antiche preesistenti e l’asportazione di terra mista a materiale archeologico che nel corso dei secoli è stato continuamente riversato nei terreni sottostanti. L’esame di questi materiali, sebbene per lo più frammentari e decontestualizzati, attesta l’esistenza della città a partire dalla metà del V secolo a.C. con una fase di massima espansione demografica ed economica successiva la conquista romana della Sicilia, che si protrasse sino a tutto il I sec. d.C. Tra le diverse classi di materiali presenti in quella che fu l’area urbana collinare di Kalè Akté - Calacte, in questa sezione dello studio, si prendono in esame le principali tipologie di ceramica fine da mensa a vernice rossa corallina della prima età romana imperiale: le terre Sigillate italiche, di produzione locale e provinciali. Tralasciamo per il momento le attestazioni dall’abitato costiero1 che rimandiamo a uno studio futuro. D’altra parte, quello d’altura fu il vero centro politico, civile e culturale di Kalé Akté – Calacte per tutto il periodo 1

Relativamente ai rinvenimenti da scavi sistematici a Caronia, segnaliamo quelli editi, tutti provenienti, però, da indagini condotte nell’abitato costiero (c.da Pantano, Caronia Marina). Per gli scavi condotti tra il 1999 e il 2001: un bollo in planta pedis L.R.PIS (Lucius Rasinius Pisanus) e uno ovale, RDACI, che non viene riconosciuto come Terra Sigillata Sud Gallica, specificamente della produzione del ceramista (a)RDACI, ma come bollo di Terra Sigillata Italica. Cfr. Lentini, Goransson, Lindhagen 2002; Lindhagen 2006. Dagli scavi 2003-2005: una coppa decorata a matrice, indicata erroneamente come di produzione sud-gallica e tre bolli su forme aperte in Terra Sigillata Italica. Il primo, C.ENT/FIRM, viene attribuito alla fabbrica padana di Firmus (primi decenni del I secolo d.C.); il secondo, in planta pedis, S.M.P., alla fabbrica pisana di Sex. Murrius Pisanus (tra fine del I sec. d.C.e prima metà del II sec. d.C. e il terzo, in planta pedis, ZOILI, datato tra il 5 a.C. e il 50 d.C. cfr. Bonanno, Sudano 2006; Bonanno 2009.

2 Vedi: Approfondimenti, Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca lungo la costa tirrenica in età coloniale: fu Kalè Akté un Emporion? in questo volume

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Sigillata italica dalla collina di Caronia seguito è ancor più chiara se si tiene conto che i saggi di scavo eseguiti tra l’ultimo decennio del ‘900 e gli anni 2000, sia in collina che nell’abitato marittimo, pur avendo portato al recupero di frammenti di sigillata, non sono risultati utili poiché raramente si è scavato integralmente il complesso archeologico oggetto d’indagine La sigillata italica è presente su tutti e tre i versanti della collina su cui si sviluppava la città classica, ovvero ad est, nord e ovest. La ricerca si è concentrata principalmente sul versante orientale, dove il continuo sfruttamento del terreno a fini agricoli, lo stazionamento di animali al pascolo e il tracciamento di strade e vie d’accesso ai fondi ha determinato negli ultimi anni non solo, in alcuni casi, la messa in luce di strutture murarie, ma soprattutto il persistente affioramento di un’eccezionale quantità di materiale archeologico. Le

campagne poste sui versanti nord e ovest, sono in buona parte abbandonate da diversi decenni e invase da una fitta vegetazione che non rende agevole la ricognizione; il terreno, laddove accessibile, si presenta compatto e con poco materiale archeologico sul piano di campagna. Nonostante questo, si osservano manufatti frammentari databili ad epoca ellenistico-romana, soprattutto laterizi, e tra essi frammenti di sigillata; interessante il sopralluogo su un fondo abbandonato posto sul ripido pendio sottostante la parte nord di via Impero, nell’area sudoccidentale della città classica e medievale, dove si sono accumulati materiali che si datano a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. fino al I secolo d.C., attestando la presenza della città anche in questo settore periferico oggi in gran parte non più indagabile: anche qui sono stati rinvenuti frammenti di sigillata italica.

Fig. 1. Selezione di frammenti di sigillata da ricognizione sulla collina di Caronia

attestano la presenza della città classica sia a monte che nel sottosuolo del terreno agricolo in questione, come suggeriscono alcuni crolli murari qua e là affioranti anche in aree non sottoposte a scavi di alcun tipo. I frammenti fino a oggi censiti, come accennato, ammontano a circa 1400 pezzi di diversa grandezza e provengono tutti da ricognizione di superficie. Si tratta della classe di ceramica fine più rappresentata sulla collina di Caronia dopo la ceramica Campana e la ceramica a vernice rossa tardoellenistica di probabile produzione locale, la cui frequenza attesta il massimo sviluppo demografico della città proprio a cavallo tra II e I secolo a.C. L’analisi quantitativa delle attestazioni di sigillata italica in rapporto ad altre tipologie vascolari caratteristiche dei primi due secoli dell’impero, in

Nel versante orientale, al di sotto della strada che congiunge piazza Padre Pio a Piazza S. Francesco, realizzata nei primi anni ’90 del secolo scorso, il tracciamento di una stradella rurale sottostante che ha messo in luce strutture murarie in successione sulla parete intaccata3, ha consentito il recupero di frammenti di sigillata associabili alle strutture stesse, pertinenti ad abitazioni occupate non oltre l’inizio del II secolo d.C. Tuttavia, la maggior parte dei frammenti è stata rinvenuta sparsa sul piano di campagna, priva quindi di ogni riferimento contestuale. Questi frammenti, presenti su tutta la fascia agricola sottostante alla città moderna, 3 Vedi cap. 4. Ricerche nell’area urbana I. Provengono da qui, tra gli altri, gli esemplari n. 15 e 27 del Catalogo di seguito riportato.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia particolare la sigillata africana A, consente di trarre alcune importanti conclusioni sulla cronologia dell’abitato. Consideriamo che le produzioni di sigillata italica arrivano in Sicilia negli ultimi decenni del I secolo a.C. e perdurano fino al II secolo d.C. mentre già si diffondono le sigillate africane, che gradualmente le sostituiscono. La sigillata africana A, in particolare, arriva nell’isola negli ultimi decenni del I secolo d.C. ma è tra la seconda metà del II ed il III secolo d.C. che la grande esportazione di questa classe ceramica finisce col soppiantare anche qui tutte le altre produzioni di vasellame fine da mensa. Sulla collina di Caronia sono presenti frammenti di queste prime ceramiche da mensa di produzione africana, soprattutto di coppe carenate della forma Hayes 8A, nonché di coppe emisferiche Hayes 2, ma la loro quantità ridotta rispetto alle sigillate italiche fa pensare ad un notevole decremento demografico registrato dal centro forse ancora prima che queste produzioni si diffondessero pienamente. Il rapporto tra sigillata africana A e sigillata italica è praticamente di 1 a 9. Se pensiamo anche che molto radi risultano i frammenti delle altre tipologie di sigillata africana, ad eccezione di alcuni limitati contesti in cui è stata accertata una persistenza abitativa anche nella tarda età imperiale, ad esempio nell’area dello scavo 2005 in c.da sotto S. Francesco4 ed in uno degli ambienti venuti in luce a seguito di una frana alle spalle delle Case Popolari,5 con attestazioni di sigillata africana D, appare confermato il quasi totale spopolamento della collina già dopo l’inizio del II secolo d.C. Le strutture venute in luce a seguito di regolari scavi archeologici o per fenomeni naturali o scavi agricoli incontrollati che permettevano una sommaria lettura stratigrafica, hanno portato al rinvenimento di sigillata italica associabile ai contesti abitativi o comunque di materiali esattamente databili. Si segnala uno strato di distruzione venuto in luce qualche anno fa a seguito di una frana nella parte inferiore della contrada sotto S. Francesco, che conteneva diversi frammenti di sigillata italica associati ad una lucerna a volute del tipo con decorazione a conchiglia sul disco e ansa plastica di I secolo d.C.. Circa le datazioni proposte per alcuni contesti sottoposti a scavi regolari, che hanno restituito frammenti di sigillata italica, ricordiamo lo scavo 1993 in c.da Telegrafo che mise in luce una serie di ambienti la cui ultima fase si collocherebbe nella seconda metà del I secolo d.C.;6 anche i materiali dallo scavo 1999 in c.da sotto S. Francesco datano l’abbandono delle strutture portate in luce nella seconda metà del I secolo.7 Le percentuali relative alla presenza di sigillata italica da ricognizione in rapporto a quelle della sigillata africana A sembrano quindi confermare l’abbandono, seppure non totale, dell’abitato collinare tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. Bisogna dire che uno studio sistematico dedicato alla sigillata italica da un piccolo centro siciliano come nel nostro caso costituisce una novità nel panorama degli studi archeologici siciliani. In generale, nell’isola, si è

tradizionalmente riservato un maggiore impegno all’esame dei materiali di epoca greca e, tra questi, a quelli di epoca greca arcaica, classica e altoellenistica. Poco è stato pubblicato anche dei materiali di fase medio e tardo ellenistica a parte alcune particolari tipologie vascolari, come le ceramiche policrome di Lipari o quelle di Centuripe. Ancora oggi risulta difficile inquadrare in maniera precisa molte forme da contesti di II-I secolo a.C. mai pubblicate da altri siti. Poco si conosce anche delle attestazioni in Sicilia di particolari classi ceramiche tardo ellenistiche d’importazione, come le ceramiche iberiche o le sigillate orientali (entrambe attestate, peraltro, a Caronia).

Fig. 2. Frammenti di sigillata africana A

Ricordiamo che, per ciò che riguarda la sigillata italica in Sicilia, un primo studio sistematico è stato tentato nel 1988 da A. Mandruzzato8, che ha raccolto le attestazioni edite e visionato i materiali presenti nei musei siciliani, esponendo una sintesi dei risultati per siti e proposto la possibilità che esistesse anche una produzione siciliana di questa classe ceramica. Al termine di un lungo studio sui bolli attestati nei vari centri siciliani, D. Malfitana ha pubblicato nel 20049 un elenco aggiornato delle attestazioni, peraltro basato sui dati fino ad allora pubblicati, da considerarsi quindi inevitabilmente parziale ai fini di una visione complessiva del fenomeno. Intanto, nel 2000 A. Polito10 aveva riproposto uno studio sistematico per la Sicilia che costituisse un aggiornamento del lavoro di A. Mandruzzato. Tra i contributi citati o successivamente ad essi sono stati

4

Comunicazione K. Gorannson e A. Lindhagen Vedi Cap. 3, p. 98 6 Bonanno 1993-1994 7 Lentini, Goransson, Lindhagen 2002 5

8

Mandruzzato 1988 Malfitana 2004 10 Polito 2000 9

396

Sigillata italica dalla collina di Caronia pubblicati lavori monografici o resoconti sui rinvenimenti da alcuni siti siciliani, ad esempio Agrigento,11 Monte Iato,12 Morgantina,13 Termini Imerese,14 Segesta,15 Milazzo,16 Tyndaris,17 ecc. Per ciò che attiene ai centri della Sicilia centro-settentrionale in cui ricade la nostra città, conosciamo soltanto i rinvenimenti di sigillata italica dai primi scavi ad Halaesa18 ed a Troina19 e pochi accenni per Haluntium20 e per la stessa Calacte.21 La mancata edizione d’intere classi ceramiche per centri anche importanti della Sicilia ellenistico-romana, causa comunque distorsioni nell’interpretazione del fenomeno di diffusione della sigillata nell’isola. Basti pensare che dall’elencazione in D. Malfitana, piuttosto recente, città come Messina e Tauromenium sono attestate con un solo bollo, Tyndaris e Halaesa rispettivamente con 6 e 9, Panormus con 7, rispetto alla grande mole di attestazioni per Monte Iato (259) o Morgantina (70), i cui materiali sono stati prontamente messi a conoscenza degli studiosi grazie alla sistematica serie di reports e pubblicazioni monografiche. La sigillata italica, che le officine di Arezzo iniziarono a produrre a partire dal 50-40 a.C., ebbe come precedente una diversificata classe di vasellame a vernice rossa, che derivò le forme da quello a vernice nera tardo ellenistico. In Sicilia è nota una varietà di ceramiche a vernice rossa che si affianca al vasellame a vernice nera di produzione campana e siciliana. Si rammenta, in particolare, una classe esattamente riconosciuta a Morgantina e definita “presigillata”,22 inquadrabile tra i prototipi che condurranno nella seconda metà del I secolo a.C. all’avvio delle produzioni di sigillata vera e propria. A Caronia è ampiamente attestato un tipo di ceramica a vernice rossa o rosso-arancio generalmente opaca, di probabile produzione locale: si tratta di alcune forme ricorrenti, tra le quali le più diffuse sono le brocche a corpo panciuto, collo alto e bordo svasato, rinvenute in gran numero sia nel corso di scavi ufficiali23 che nelle ricognizioni, a cui si affiancano, tra gli altri, bacini, piatti a larga tesa e coppe con bordo rientrante. Il riferimento ad officine locali è suggerito sia dalla peculiare frequenza delle forme, non confrontabile con altri siti di questa macroarea, sia con le caratteristiche dell’argilla usata, generalmente di colore arancio, molto compatta e di consistenza similare alle argille impiegate per la produzione di anfore vinarie e vasellame in fornaci di IVV secolo d.C. individuate in contrada Chiappe.24

Fig. 3. Frammenti di sigillata orientale A

Fig. 4. Frammento di ESA con palmetta stilizzata

A partire almeno dall’inizio del I secolo a.C. arriva nell’isola la sigillata orientale A (ESA),25 la cui originaria area di produzione è stata identificata in Siria. Si tratta in questo caso di una classe ceramica di alta qualità, con forme e caratteristiche fisiche che preludono alla Sigillata Italica. Si coglie l’occasione per segnalare un gruppo d’interessanti frammenti di ESA rinvenuti sulla collina di Caronia, uno dei quali con piccola stampigliatura radiale sul fondo interno in forma di palmetta (fig. 4), che attesta la presenza nell’area urbana di queste ceramiche provenienti dal bacino orientale del Mediterraneo.

11

Polito 2010 Hedinger 1999 13 Stone 2013 14 Belvedere et alii 1993 15 Mandruzzato 1997 16 Ollà 2003 17 Leone, Spigo 2008 18 Carettoni 1961 19 Militello 1961 20 Bonanno 2005 21 Lindhagen 2006; Bonanno, Sudano. 2006; Bonanno 2009 22 Stone 1987 23 Scavo di diverse cisterne in c.da Telegrafo contenenti numerosi esemplari di queste caratteristiche brocche: Bonanno 1997-1998 24 La fornace di c.da Chiappe a Caronia Marina era già stata individuata da Scibona negli anni ’80 (Scibona 1987) e le sue produzioni (principalmente anfore tipo Termini Imerese 151/354) studiate da chi scrive (vedi Capp. 6 e 7)

F.C.

12

Analisi dei materiali Sulla collina di Caronia, la maggior parte dei frammenti recuperati si riferisce a forme lisce. Pochi sono i frammenti decorati e tra questi prevalgono le appliques variamente configurate, poste sotto il bordo di piatti o coppette. La constatazione accomuna Calacte a tutti i centri siciliani, dove relativamente pochi sono gli esemplari decorati. Questa circostanza può essere spiegata richiamando le motivazioni che inducevano alla 25

397

Per le attestazioni di ESA in Italia: Malfitana et alii 2005

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia (firma CN. DOMITI entro bollo circolare con figura di Nike al centro) in frammenti le cui caratteristiche fisiche (argilla e vernice) sono peculiari, come sopra descritte, che sicuramente non sono riconducibili a produzioni dell’Italia centrale e mostrano affinità solo con produzioni campane, dove d’altra parte il bollo in questione non è attestato. Si propone, quindi, in questa sede, un primo inquadramento di questa produzione da riferire ipoteticamente ad officine siciliane, in attesa di nuovi dati che ne possano confermare l’attendibilità. Assieme al materiale proveniente dall’area urbana collinare, vogliamo segnalare anche quelli di un contesto rurale identificato circa 800 m. a sud del centrocittà, in c.da Lineri.26 Qui sono stati rinvenuti diversi frammenti di sigillata italica, che, assieme ad altri materiali coevi, tra cui ceramiche a pareti sottili e lucerne con ansa plastica, attestano una fase importante nel corso del I secolo d.C. Tra gli altri, si segnalano tre bolli, uno solo dei quali leggibile (n. 11 del Catalogo). Come accennato, la stragrande maggioranza del materiale recuperato è pertinente a forme lisce, con talvolta semplici decorazioni costituite da appliques (spirali singole o doppie, mascherine, figurine animali, stelle, fiori, ecc.) o rotellature. Tra le forme maggiormente attestate, con riferimento al Conspectus,27 si segnala la notevole presenza di piatti variamente riferibili alle forme 18-19-20-21, identificabili dal profilo e dalla giunzione del bordo o dalla forma del piede (soprattutto forme B1 e B2), di cui si sono recuperati numerosi frammenti. Tra le coppette, sono attestate soprattutto le forme 33-34. Volendo accennare alle diverse altre forme attestate da frammenti diagnostici, ricordiamo, tra gli altri, alcune pareti di alti piatti di forma 7.1; alcune di piatti a parete convessa forma 4.6.1 o simile; bordi di coppette forma 17.1.1; frammenti di coppe forma 23 e 33; alcuni piedi di calici (in particolare, forma 9.3.1); un frammento (spigolo) riconducibile ad una coppa forma 52.1.1. In linea generale, si tratta di vasellame riconducibile principalmente a forme la cui cronologia è compresa entro l’età giulio-claudia, con esemplari (ad esempio piatti forma 18.1.1 e 18.1.2) assegnabili già all’ultimo decennio del I secolo a.C. Non mancano tuttavia esemplari databili a tutto il I secolo a.C. e oltre.

produzione di coppe e calici decorati: si trattava di imitazioni in terracotta, quindi notevolmente più economiche, di vasi in argento o in bronzo, la cui diffusione nelle case agiate di età imperiale fu maggiore rispetto al passato. I vasi in sigillata interamente decorati accontentavano un ceto medio che, se da un lato non poteva permettersi il vasellame in metallo prezioso, dall’altro non si soddisfaceva di manufatti troppo semplificati. Ma la stragrande maggioranza della popolazione doveva accontentarsi di vasi più semplici ed economici, contenenti magari piccole decorazioni come rotellature ed appliques. In ogni caso, anche un semplice piatto o una coppetta in terra sigillata costituiva qualcosa di più di un ancora più semplice utensile acromo. E’ la stessa constatazione che può farsi per il vasellame greco a vernice nera non decorato di qualche secolo prima e la diffusione di prodotti pur semplici ma di buona fattura è indicativa dello status socio-economico della popolazione. In questo senso, Kalè Akté - Calacte non si discosta dagli altri centri di questa macroarea, dove i ritrovamenti indicano un discreto livello di vita, non comparabile comunque a quello di città più ricche, non solo costiere ma anche dell’entroterra. L’analisi macroscopica dei frammenti ha restituito i dati di seguito descritti. Le vernici sono generalmente di colore rosso o rosso-marrone e più o meno lucenti, con tendenza all’arancio in diversi frammenti in cui la vernice è più opaca, talvolta evanida ed assume una consistenza cerosa. Per ciò che riguarda le argille, è stata eseguita l’analisi su un campione di 150 frammenti, con i seguenti risultati: Beige-arancio (2.5YR6/8) Rosa-beige (2.5YR7/8) Beige-arancio (2.5YR6/10) Beige chiaro (2.5YR7/10) Rosata (10R6/10) Rosata (10R6/12) Rosata (10R7/10) Camoscio (2.5YR5/8) Beige (7.5YR7/8) Rosata (10R5/10) Beige-giallina (5YR7/8) Rosa-beige (2.5YR7/6) Beige-giallo (5YR7/8) Beige scuro (5YR6/6)

30 25 24 24 16 9 7 5 4 2 1 1 1 1

F.C.

Una classe a se stante per alcune peculiarità presenta le seguenti caratteristiche: vernice rosa-arancio o arancio, semilucida, dalla consistenza porosa, spesso evanida e applicata talvolta su un solo lato; argilla di colore rosato simile a M. 2.5YR6/10, 2.5YR6/12 o 2.5YR5/10. Considerando che due dei bolli di seguito presentati (nn. 13-14) sono assegnabili a produzioni siciliane e i relativi frammenti presentano proprio queste caratteristiche, potrebbe trattarsi di una produzione regionale, che risulta abbastanza attestata sulla collina di Caronia in una buona percentuale di frammenti. In realtà, l’esistenza di una sigillata di produzione isolana è stata più volte ipotizzata, senza tuttavia disporre di prove certe ma basandosi esclusivamente sul riconoscimento di alcune firme di vasai non altrimenti note nella penisola. Nel nostro caso siamo in presenza di due bolli identici

26

Una disastrosa frana nel marzo del 2010, la cui estensione fu di diversi ettari, mise in luce i siti di alcune fattorie, in vita a fasi alterne dalla tarda età ellenistica fino ad epoca imperiale avanzata. Il movimento franoso, che ha provocato ampie fessurazioni del terreno, con collassamento delle superfici per infiltrazioni d’acqua sotterranee, se da un lato ha messo in luce contesti antichi altrimenti sconosciuti, ha in gran parte provocato lo sbriciolamento delle strutture murarie, restituendo tuttavia una grande quantità di suppellettili abbandonate in situ. La fattoria o villa rustica da cui provengono i frammenti di sigillata italica in questione è posta nel settore sud-ovest dell’area di frana, circa 70 metri al di sotto della città moderna (quartiere “Croce”). Purtroppo, i continui movimenti del terreno e l’affioramento diffuso di sorgenti d’acqua ha rapidamente provocato la scomparsa del contesto, che tuttavia si è avuto modo di studiare almeno parzialmente (vedi Cap. 7. Ricerche nel territorio). 27 Conspectus 1990

398

Sigillata italica dalla collina di Caronia Catalogo I frammenti bollati e decorati ammontano a un totale di 85 pezzi, di cui 74 inseriti in Catalogo. A loro volta, i frammenti sono stati distinti tra pezzi riconoscibili, ovvero assegnabili ad una determinata produzione, e non riconoscibili. I primi sono 29, di cui 14 con bollo, 1 con graffito e 14 con decorazione. Nella maggior parte dei casi la dimensione e lo stato di conservazione sono tali da non consentire un’attribuzione certa né di alcuni bolli, di cui si conservavano solo una o due lettere, né di alcuni frammenti decorati. Pertanto, di seguito, prenderemo in esame solo i marchi che è stato possibile leggere e i lacerti di decorazioni in cui si è riconosciuto il lavoro di un ceramista noto e che quindi, da un punto di vista diagnostico e interpretativo, sono utili a ricostruire il panorama dei flussi commerciali e dei canali di approvvigionamento di questo tipo di materiali. A questi sono stati aggiunti, come detto, 45 frammenti (12 con bollo parziale o non leggibile e 33 con decorazioni), di cui non abbiamo riconosciuto il ceramista, ma che abbiamo ritenuto essere utili per futuri studi riguardanti la produzione e circolazione della Terra Sigillata in questa parte della Sicilia. Tutti i frammenti in catalogo provengono dal versante orientale della collina di Caronia tranne il n. 11, rinvenuto nel sito di una fattoria-villa rustica in c.da Lineri.

Fig. 6

3. Bollo quadrangolare su due linee (fig. 7), monco a destra, d’incerta lettura: A(.)TVS (in legatura) /P.C(or) potrebbe trattarsi di ANTVS/P.COR (Anthus P. Cornelius, C.V.Arr. 2000, 628.15), ceramista aretino attestato nei primissimi anni del I sec. d.C. Età Augustea.

Fig. 7

4. Bollo in planta pedis (fig 8). L.R.PIS (L. Rasinius Pisanus, C.V.Arr. 2000, 1690, 23-25), ceramista tardo italico di origine pisana presente a Lipari. Età Flavia.

1. Bolli e graffiti

1.1 Bolli Etruria centrale 1. Bollo circolare frammentato d’incerta lettura (fig.5). A (.)(E?)IRVF. È molto probabile che il bollo in questione possa essere attribuito al ceramista Cn. Atei Rufus ed allora il bollo si leggerebbe A(t)EI.RVF (C.V.Arr. 2000, 310.3) attivo a Pisa nel 15 d.C. anche se, al momento, non sembra attestata la VF in legatura. Età Augusteo-tiberiana. Fig. 8

5. Bollo in planta pedis (fig. 9). L.R.PIS (C.V.Arr. 2000, 1690, 23-25). Età Flavia.

Fig. 5

2. Bollo rettangolare frammentario (Fig. 6). (.)V(?)E(C ?)(..). Età Augustea (?) Fig. 9

399

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 6. Bollo in planta pedis (fig. 10). (l.)R.P. (L. Rasinius Pisanus, C.V.Arr. 2000,1690, 44). Età Flavia.

10. Bollo in planta pedis (fig. 14): C. AVILI (C.V.Arr. 2000, 400). metà del I sec.d.C.

Fig. 10

7. Bollo in planta pedis: L. R.(p. o pis.) (L. Rasinius Pisanus, C.V.Arr. 2000, 1690, 38; 23-25) (Fig. 11). Età Flavia.

Fig. 14

11. Bollo in planta pedis (fig. 15): SEX.M.C(l) (C.V.Arr. 2000, 1211). Circa 80 d.C.

Fig. 11

8. Bollo in planta pedis (fig.12) C.H( )FES( ) (C.V.Arr. 2000, 905 1-2) probabilmente pisano e databile a partire dal periodo tiberiano28. Età Tiberiano-Claudia.

Fig. 15

Produzione siciliana e campana (?) 12. Fondo di coppetta,29 argilla rosata, porosa, vernice rosso-arancio cerosa ed evanida (fig.16). Bollo circolare con figura di Nike alata, stante, di prospetto al centro del marchio. Lettura: CN. DOMITI. (C.V.Arr. 2000, 748). Probabile produzione siciliana. Età Augustea.

Fig. 12

9. Bollo in planta pedis (fig. 13): C.P.P (ceramista tardo italico C.V.Arr. 2000, 1342, 14-29). Età Flavia.

Fig. 16

13. Fondo di coppetta (fig.17). Bollo circolare con figura di Nike alata, stante di prospetto al centro del marchio. Lettura: (c)N. DOMI(ti). (C.V.Arr. 2000, 748). Probabile produzione siciliana. Età Augustea.

Fig. 13

28

Un bollo del tutto simile è presente in Brando 2008, p. 136, n.194;. pp.127-174.

29

400

Esemplare proveniente dallo scavo 1992 in c.da Telegrafo, inedito

Sigillata italica dalla collina di Caronia

Fig. 17

14. Fondo di piatto (fig.18). Argilla color arancio scuro, friabile, con inclusi neri di pirosseno. Superficie scrostata e tracce d’ingobbio. Bollo centrale rettangolare DVM. Produzione A della Baia di Napoli. Età Augustea.

Fig. 20

17. Frammento di calice decorato a matrice. S’intravedono una serie di trattini che solitamente sono disposti al disotto degli ovuli che limitano in alto la decorazione mentre, al disotto, è visibile un filamento che probabilmente era stato manoscritto sulla matrice (fig. 21). Si tratta probabilmente di P. Cornelius. Età Augustea31.

Fig. 21

18. Frammento di calice decorato a matrice. S’intravedono una serie di ovuli che limitavano nella parte superiore la vasca del vaso. Al disotto degli ovuli a doppia cornice, separati da linguette pendenti, s’intravede parte di un festone (fig. 22). Si tratta probabilmente di M. Perennius Bargathes Età Augusteotiberiana32.

Fig. 18

1.2 Graffiti 15. Frammento di fondo (fig. 19), con piede ad anello e graffito post cocturam, eseguito probabilmente con una punta metallica, di cui si legge solo la lettera A.

Fig. 22

Fig. 19

19. Frammento di calice decorato a matrice. S’intravede la base di un candelabro decorato a rilievo con una serie di tre figurine stilizzate (fig. 23). Si tratta probabilmente di P. Cornelius. Età Augustea33.

2. Frammenti decorati

Produzione Aretina 16. Frammento di calice con decorazione a matrice di cui si vedono parte di un cespo d’acanto e una rosetta a otto petali in cui è iscritta un’altra infiorescenza stilizzata a otto petali (fig. 20). Si tratta probabilmente di P. Cornelius. Età Augustea30.

31

Troso 1991, n.25, tav. 5, appartenente alla produzione firmata P. Corneli; cfr. inoltre, n.78, tav. 14; n. 269, tav. 45; tav. 71, n. 437. Motivo adoperato anche nella terza fase di M. Perennius, quella di Barghathes, cfr. Porten Palange 2009, teil 2, tav. 40 n. 23. 32 Porten Palange, 1984, tav. II, n, 6; n. 47, p. 63; cfr. Dragendorff, Watzinger 1948, tav. 15, n. 165; tav 17, n. 231; Porten Palange 2009, teil 2, tav. 39, n.7. 33 Porten Palange 2009, teil 1, p. 265, teil 2, tav. 124, komb cor 9 e 11, phase 2 e 3 di Cornelius; Porten Palange 2004, teil 2, tav, 174, dreifub 3a, teil 2; teil 1 p. 329 . Troso 1991, tav.18, n. 99; tav 19, n, 106.

30

Hayes 2008, p. 191, n.707, plate 41, attribuito a P. Corneli; cfr. Troso 1991, n. 98, matrice a tav. 17; tav. 20, n. 111; n. 267 b, tav. 44.

401

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 23

20. Frammento di calice decorato a matrice la cui forma prevedeva un’alta fascia che costituiva il bordo del vaso e una bassa vasca decorata. Su quest’alto bordo dovevano essere impresse una serie di figurine tra cui la bella protome di sileno barbuto che è possibile vedere in questa parte superstite del vaso (fig. 24). Produzione di Rasinius. Età Augustea34.

Fig. 26

23. Frammento di parete di calice decorato a matrice di cui s’intravede solo parte della pelliccia irsuta di un grosso animale, probabilmente un orso (fig. 27). Età Augustea36.

Fig. 27 Fig. 24

24. Frammento di parete di calice decorato a matrice. Si intravede la parte inferiore di una figura femminile alata, resa di profilo a destra, nell’atto di suonare la cetra.37 Si tratta di un motivo iconografico d’età augustea presente sia nel repertorio di M. Perennius che in quello di Ateius, cui questo frammento afferisce (fig. 28).

21. Cratere frammentato di cui si conservano due frammenti non combacianti. Della decorazione resta visibile solo una serie di rosette a sette pelati con bottoncino centrale, che costituivano il limite superiore della vasca decorata a matrice di cui, purtroppo, non ci resta quasi nulla (fig. 25). Probabilmente M. Perennius Tigranus. Età Augusteo-tiberiana.

Fig. 28

Fig. 25

Produzione puteolana

22. Frammento simile al precedente (fig. 26). Probabilmente M. Perennius Tigranus. Età Augusteotiberiana35.

25. Frammento di calice decorato con foglie cuoriformi che dovevano delimitare in alto la vasca decorata a matrice (fig. 29). Età Augusteo-tiberiana38.

34

Cascella 2012 p.194, n.24, fig. 30; Palange 2004, p. 301, teil 2, taf. 165, mMa fr 15°, teil 1; Palange 2009, teil 1, p. 166, teil 2, tav. 27 (Komb. Ras 27). Il motivo viene anche mutuato da Perennius nella 4a fase, cfr. Palange 2009, teil 1, p. 125, teil 2, tav. 58, komb. Per 104. 35 I frammenti n. 19 e 20, appartenenti allo stesso calice, sono verosimilmente perenniani, cfr. Dragendorff, Watzinger 1948, t. 10, n. 193. Precisamente il cratere potrebbe far parte della serie prodotta nella 2 fase dell’officina di Perennius, quella condotta a Cincelli da M. Perennius Tigranus, cfr. Palange 2009, teil 1, p. 99, teil 2, tav. 18, n. 3233.

36

Anche in questo caso potrebbe trattarsi di un prodotto attribuibile all’officina di Perennius, cfr. Palange 2004, teil 1, p. 285, teil 2, taf.159, T/Ursidae re 1a; Palange 2009, teil 1, p. 47-50, teil 2, tav. 25, Komb. Per 11-14. 37 Palange 2004, teil 1, p. 82, teil 2, taf. 31, GM re 15b; Palange 2009, teil 2, tav. 92, Komb. At 30. 38 Porten Palange 2010, p. 251; p. 259-263; cfr. Comfort 1963-64, pp. 728. tav. II, n. 2 (22109); n. 5 tav. II (22106).

402

Sigillata italica dalla collina di Caronia

Produzione sud gallica 29. Frammento di coppa carenata tipo Dragendorff 29 di cui si conserva parte del fregio superiore inquadrato da due file di bottoncini (fig. 33). La decorazione di questa parte del vaso è costituita da una serie di festoni costituiti da due girali floreali opposti e separati da un elemento verticale formato da una linea tremula che simula un cordoncino terminante con una piccola sferula. Produzione di La Graufesenque. Età Claudio-Neroniana.

Fig. 29

26. Minutissimo frammento di calice decorato a matrice di cui s’intravede solo una piccola porzione di tralcio con melograni (fig. 30). Età Augusteo-tiberiana.

Fig. 30

Fig. 33

27. Frammento di vasca di calice decorato a matrice con una serie di foglie baccellate poste in sequenza (fig. 31). Età Augusteo-tiberiana39.

3. Materiali non identificati

Bolli 30. Bollo in planta pedis (fig. 34)

Fig. 31

Produzione tardo puteolana 28. Frammento di calice decorato a matrice di cui s’intravedono una serie di rosette a nove petali e cerchietto centrale in funzione di pistillo. Al disotto si nota appena il volto di una figura femminile che sta nei pressi di un’altra figura poco distinguibile. Al di sopra si erge una sorta di pelle animale che forma un nimbo al disopra delle figure (fig. 32). Età claudio-neroniana40.

Fig. 34

31. Bollo circolare con raggi trasversali (fig. 35). All’interno potrebbe trovarsi una figura

Fig. 35

32. Bollo rettangolare (fig. 36). Forse la prima lettera è una Q mentre, la seconda e la terza sono una A e una V in legatura (?).

Fig. 32

39 Comfort 1963-64, t. XIV.1 e 5; XV. 1 e 2; Porten Palange 2010, tav. VII, n. 24; tav. II.6. 40 Soricelli 2001, pp. 259 ss, tav.2, n. 1.3; Soricelli 2008, pp. 225 ss.; Cascella 2014, p. 62-63, n. 4. Il motivo compare anche su due calici conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nn. Inv. 123954 e Ba90.

Fig. 36

403

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 37. Bollo probabilmente in planta pedis (fig. 41). Lettere leggibili: O

33. Bollo probabilmente in planta pedis (fig. 37). Leggibile chiaramente la seconda lettera (R) preceduta da punto, a sua volta preceduto da una lettera di dubbia interpretazione (I o T)

Fig. 37

Fig. 41

34. Bollo rettangolare (fig. 38). Poco interpretabile per via delle abrasioni. Si potrebbero riconoscere una V come prima o seconda lettera e una A

38. Bollo rettangolare con lettere su due linee: MI (…)/ C (…) (fig. 42)

Fig. 42

39. Bollo circolare (fig. 43). Riconoscibile solo una C

Fig. 38

35. Bollo probabilmente in planta pedis (fig. 39). Nessuna lettera leggibile

Fig. 43

40. Bollo in planta pedis o ovale (fig. 44) Fig. 39

36. Bollo in planta pedis (?) (fig. 40)

Fig. 44

41. Bollo in planta pedis o ovale (fig. 45) Fig. 40

404

Sigillata italica dalla collina di Caronia

Fig. 49

46. Porzione di coppetta con applique: ramo destro di motivo a doppia spirale (fig. 50). Forma Conspectus 23.2.2

Fig. 45

Frammenti decorati 42. Frammento di parete di calice decorato a matrice (fig. 46) di piccole dimensioni. S’intravede una maschera, probabilmente femminile, resa di prospetto ai cui lati si sviluppavano due festoni di cui si vede solo quello posto alla sua destra. Età augusteo-tiberiana.

Fig. 50

47. Frammento di piattino con applique: rosetta (fig. 51)

Fig. 46

43. Frammento di parete di calice decorato a matrice (fig. 47). Sono visibili una serie di pendagli, poco definiti, posti in sequenza. Età augusteo-tiberiana.

Fig. 51

48. Bordo di piattino con applique: spirale (fig. 52)

Fig. 52

Fig. 47

49. Frammento di coppa: parte posteriore di belva (leone?) (fig. 53)

44. Frammento di parete di calice decorato a matrice (fig. 48). È visibile una sorta di tabella contenente una decorazione non distinguibile. Età augusteo-tiberiana.

Fig. 48

45. Frammento di coppa con decorazione superstite: gigli sormontati da fregio a piccoli ovoli (fig. 49)

Fig. 53

405

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia 50. Bordo di piattino: ramo sinistro di motivo a doppia spirale (fig. 54)

Fig. 59

56. Bordo di piattino con applique: parte posteriore di animale (cane?) (fig. 60)

Fig. 54

51. Bordo di piattino con applique: con fiore a 8 petali (fig. 55)

Fig. 60

57. Bordo di piattino con applique: mascherina tragica (fig. 61). Simile a Polito 2009 – Tav. XII fig. 15

Fig. 55

52. Bordo di piattino: ramo sinistro di motivo a doppia spirale (fig. 56)

Fig. 56

53. Bordo di piatto con applique: grappolo d’uva (fig. 57). Forma Conspectus 19.1

Fig. 61

58. Bordo di piattino con applique: palmetta o foglia d’edera (fig. 62).

Fig. 57

Fig. 62

54. Minuto frammento di calice decorato: motivo vegetale? (fig. 58)

59. Minuto frammento di vaso non classificabile; decorazione non identificabile (fig. 63).

Fig. 63 Fig. 58

60. Minuto frammento di vaso non classificabile; decorazione non identificabile (fig. 64).

55. Frammento di vaso non classificabile (fig. 59)

406

Sigillata italica dalla collina di Caronia

Fig. 64

61. Bordo di coppa (?) con fregio floreale (fig. 65) Fig. 69

66. Bordo di piattino con applique: figura umana? (fig. 70)

Fig. 65

62. Frammento di vaso non classificabile: filare di cerchietti (fig. 66).

Fig. 70

67. Frammento di vaso non classificabile; decorazione non identificabile (fig. 71)

Fig. 66 Fig. 71

63. Frammento di coppa:Ovuli (fig. 67). 68. Bordo di piatto con applique: testa di leone (fig. 72)

Fig. 67 Fig. 72

64. Bordo di piattino con applique: lepre (fig. 68). Simile per iconografia e forma del vaso a Polito 2009 Tav. XXI fig. 16

69. Minuto frammento di vaso non classificabile; decorazione di difficile interpretazione (frutta?) (fig. 73)

Fig. 68

Fig. 73

70. Frammento di calice. Si intravede la parte anteriore inferiore di un animale (fig. 74)

65. Frammento di coppa o calice; decorazione non identificabile (fig. 69)

407

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia di superficie - è stato comunque possibile fare alcune considerazioni di carattere generale. Per quanto riguarda il materiale liscio, come detto, il numero di bolli rinvenuti ammonta a 26 (di cui solo 4 integri) suddivisi in 4 bolli circolari, 2 bolli rettangolari, 3 bolli quadrangolari, 12 bolli in planta pedis (otto dei quali leggibili) mentre dei restanti, vista l’esiguità di ciò che resta, non è stato possibile formulare né un’attribuzione a un ceramista noto, né è stato possibile individuare chiaramente, a volte, se si tratti effettivamente di bolli in planta pedis o ovali. In primo luogo, emerge un quadro in linea con le osservazioni fatte recentemente sulla circolazione della Terra Sigillata Italica in Sicilia.41 Non sono, infatti, attestati bolli radiali appartenenti alle fasi più antiche delle produzioni, databili alla seconda metà del I secolo a.C.42 mentre sono attestati bolli rettangolari e quadrangolari che indicano l’inizio delle importazioni a Calacte di ceramica fine da mensa a vernice rossa corallina intorno alla media età augustea. Di questo periodo sono i bolli nn. 1 e 3, rispettivamente attribuiti a Cn. Atei Rufus e a Anthus P. Cornelius, entrambi schiavi di due tra i ceramisti maggiormente attestati in Sicilia.43 Sono in maggior misura presenti i bolli in planta pedis. Di questi, il bollo n. 10, attribuito a C. Avilli44, è databile al periodo claudio-neroniano mentre, la maggior parte (nn. 4, 5, 6, 7, 9 e 11), è riferibile ai noti ceramisti tardo-italici del periodo flavio-traianeo L. Rasinius Pisanus, C.P.P(isanus)45 e Sex Murrius Claudus. Sono assenti i bolli riferibili alla produzione puteolana mentre è presente un marchio (n. 15, lettura: DVM) al momento sconosciuto che, viste le pessime condizioni di conservazione, molto dubitativamente può essere ricondotto alla produzione A della Baia di Napoli.46

Fig. 74

71. Frammento di vaso non classificabile: decorazione a striscia di ovoli sopra scanalature, sormontata da una fila di motivi a goccia (fig. 75)

Fig.75

72. Frammento di vaso non classificabile; decorazione a festone (?) (fig. 76)

Fig. 76

73. Frammento di vaso non classificabile. Decorazione poco interpretabile; estremità di festone? (fig. 77)

Fig. 77

74. Minuto frammento di vaso non classificabile; decorazione a fila di inflorescenze a margine di figura non identificabile (fig. 78)

Tavola I. Forme di sigillata italica attestate più frequentemente sulla collina di Caronia (da Conspectus 1990)

41

Malfitana 2004, Polito 2010, pp. 76 ss. La mancanza di bolli radiali a Caronia attesta che il sito restò fuori dai flussi commerciali più antichi che, invece, fecero giungere questi prodotti ad Agrigento, cfr. Polito 2010, p. 75. 43 Sulle quantità di attestazione di Cn. Ateius e P. Cornelius cfr. Malfitana 2004, p. 312; p. 313; p. 322, n. 49. 44 Malfitana 2004.313 45 Mandruzzato 1988, pp. 414-449; p. 434 tav. XII, n. 1. Malfitana 2004, p. 312, fig.2; 2; p. 313; p. 315. Polito 2010.80; 82, nota 39, grafico p. 181. 46 Soricelli 1987, pp. 73 ss; Soricelli 1994, pp. 67 ss; Soricelli 2004, pp. 299 ss; Cascella 2012. 165 ss. 42

Fig. 78

Nonostante le condizioni di estrema frammentarietà e conservazione delle superfici – ricordiamo che tutti gli esemplari provengono da recuperi

408

Sigillata italica dalla collina di Caronia corso dell’età claudio neroniana e forse anche un poco oltre, presero le redini di ciò che restava dell’officina di Naevius, sfruttandone a pieno il patrimonio decorativo anche se, come spesso accadeva, non mancano citazioni e riferimenti provenienti dal repertorio dei ceramisti aretini. Elementi di originalità sono, invece, costituiti da motivi decorativi accessori come nel caso della rosetta a nove petali che compare nel suddetto frammento e che delimitava in alto la decorazione. Per ciò che riguarda la ceramica fine da mensa prodotta in Campania, i rinvenimenti di Caronia lasciano intravedere una dinamica dei flussi commerciali che, come già attestato da Polito,48 vede il versante nordoccidentale della Sicilia e quello nord-orientale comportarsi in maniera diversa. Nella parte orientale dell’isola, a Morgantina e specialmente a Lipari, i prodotti campani sono molto attestati. Nella principale isola delle Eolie, la Terra Sigillata campana rappresenta il 18% dei vasi ritrovati mentre, a Siracusa solo il 6%49 e, mano a mano che ci si sposta nell’entroterra di Lentini, i prodotti puteolani diminuiscono drasticamente.50 La considerevole presenza dei prodotti campani lungo la costa nord-orientale e orientale della Sicilia è indicativa degli stretti rapporti commerciali che intercorrevano tra queste due aree ed è quindi logico che in questo quadro, Lipari costituisse una tappa obbligata dei flussi commerciali51 che intercorrevano lungo la rotta da Puteoli verso l’Africa settentrionale.

Tavola II. Disegno di alcuni frammenti di sigillata decorata (Catalogo nn. 16, 19, 44, 18, n.c, 21-22, 52, n.c., 49) e di tre bolli: uno dei più attestati (L.R.PIS., nn. 4, 5 (6, 7), il bollo circolare N.DOMITI di probabile appartenenza a produzione siciliana (nn. 12-13) e il bollo inedito (campano o siciliano) DVM (n. 14)

S.C. Conclusioni

Sono, invece, conservati molto meglio i bolli nn. 12 e 13, attribuiti a Cn. Domiti, ceramista che di solito è relazionato a una ipotetica produzione siciliana di Terra Sigillata le cui caratteristiche macroscopiche non sembrano si discostarsi molto dalla cosiddetta produzione A campana47 e che, per ora, è solo indiziata dalla diffusione esclusivamente locale di questo tipo di marchio, ma è ovvio che solo future ricerche e analisi archeometriche potranno chiarire se si tratta effettivamente di una produzione locale o meno. Anche per ciò che riguarda i frammenti decorati di produzione aretina non si ravvisano particolari elementi che si discostano dal quadro generale tracciato dagli studiosi che si sono occupati della diffusione della Terra Sigillata in Sicilia. Alcuni dei frammenti mostrano decorazioni attribuibili alle officine d’età medio-augustee di P. Cornelius (n. 16, 17 e 19), di M. Perennius Tigranus (n. 21, 22) di Rasinius (n. 20) e di Ateius (n. 24) d’età augustea e a M. Perennius Barghates (n. 18) databile al periodo tiberiano. Un discorso un po' diverso meritano i prodotti delle officine campane attribuibili all’atelier puteolano di N. Naevius Hilarus che è presente con almeno tre frammenti (n. 25, 26 e 27), databili anch’essi alla media e tarda età augustea. Alla produzione tardo-puteolana è, invece, riferibile un solo frammento di calice (n. 28). Si tratta di una serie decorata a matrice, anepigrafe, prodotta quasi certamente nella grande città campana da vasai che, nel 47

Lo studio della sigillata italica dalla collina di Caronia consente di inquadrare pienamente la nostra città negli standard di cultura materiale che caratterizzano tutti i centri della Sicilia settentrionale nel corso dell’alto impero, per forza di cose più recettivi agli influssi provenienti dalla Penisola. La presenza di un approdo per navi anche di medio cabotaggio favoriva nel nostro caso l’arrivo di merci direttamente dai centri tirrenici continentali, senza la necessità di mediazioni attraverso i principali mercati marittimi (Messina, Lipari, Panormus) come doveva avvenire soprattutto per i centri dell’interno o per quelli privi di un approdo. Possiamo immaginare uno scambio continuo di merci tra la Sicilia settentrionale e la Penisola, con navi provenienti da Roma o da altri centri del Lazio e della Campania che trasportavano prodotti alimentari immagazzinati (vino, olio, ecc.) a cui si accompagnavano pile di vasellame che, man mano che la nave faceva rotta lungo i porti della Sicilia tirrenica (Lipari, Tyndaris, Halaesa, la stessa Calacte) scaricavano

48

Polito 2010, p. 79. Per l’area siracusana è noto un bel cratere puteolano, cfr. Mandruzzato 1987 50 Polito 2010, p. 80. 51 Sono esemplificativi dei flussi commerciali dal Golfo di Napoli verso Lipari i numerosissimi bolli su tegole d’età augusto-tiberiana presenti nell’isola. Si tratta di materiale laterizio prodotto verosimilmente a Puteoli o a Neapolis, cfr. Cavalier, Brugnone 1986, p. 244 ss.; Pagano, 1990. 49

Carettoni, 1959. 334, n.3; Malfitana 2004, p.313.

409

Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia le merci che erano rivendute nelle botteghe locali o caricate su carri destinati ai centri dell’entroterra. Purtroppo, la mancanza di studi sistematici e di edizioni sulle classi ceramiche d’importazione per la fase tardoellenistica e alto-imperiale in quasi tutti i centri della Sicilia settentrionale, non consente di formulare ipotesi su quale fosse la reale consistenza dei traffici commerciali tra isola e penisola tra il tardo ellenismo e l’alto impero, già suggerita peraltro dalla ben riconoscibile presenza di ceramiche a vernice nera di produzione campana o laziale di fase tardo repubblicana, a cui si aggiunge la mancata puntuale individuazione di fornaci per vasellame nei diversi centri dell’isola, in alcuni casi, come per la nostra città, fino ad oggi solo congetturata. L’analisi dei frammenti suggerisce alcune considerazioni di carattere generale che inquadrano il fenomeno della diffusione della sigillata in questa parte dell’isola. Sulla collina di Caronia non sono stati finora rinvenuti né bolli radiali, antecedenti quindi gli anni 1510 a.C., né bolli semilunati, caratteristici della fase più avanzata della produzione. Si può pertanto ritenere, allo stato, che a Calacte il vasellame aretino sia giunto relativamente tardi rispetto ad altri centri dell’isola, dove sono stati rinvenuti bolli radiali (in particolare, a Siracusa, Segesta, Lipari e Solunto). L’analisi comparata dei bolli e delle forme più comuni attesta una fase principale di diffusione di questo vasellame tra la media età augustea e l’età giulio-claudia, con un decremento a partire dal 70 d.C. circa. La ridotta presenza di frammenti delle fasi più tarde delle produzioni italiche o anche di quelle sud-galliche ha ripercussioni ai fini della comprensione delle dinamiche di occupazione del sito, come vedremo in seguito. Rileva la presenza di materiali che, pur richiamando le caratteristiche formali della sigillata italica, presentano peculiarità per ciò che riguarda le proprietà delle argille utilizzate e soprattutto delle vernici, che è stato possibile ricondurre ad una possibile produzione siciliana grazie al ricorrere di queste caratteristiche nei due frammenti con bollo circolare “CN. DOMITI” di cui si è detto. Ricordiamo che questo produttore (Cnaeus Domitius) in Sicilia è attestato finora solo ad Halaesa52 e Morgantina53 con un esemplare ciascuno, mentre a Caronia sono stati rinvenuti 2 bolli. Risulta inoltre sconosciuto in Campania, area a cui è stata all’inizio ipoteticamente ricondotta questa produzione. I frammenti rinvenuti nel nostro sito si riferiscono principalmente a coppette, con un esemplare pertinente ad una forma chiusa (bottiglia?). Come è ben noto, la questione di una probabile produzione siciliana di terra sigillata era stata proposta da Mandruzzato,54 che richiamava osservazioni in tal senso di Lamboglia55 e Stone56 rispettivamente per i rinvenimenti a Tyndaris e Morgantina. Si è fatto notare, in proposito, che così come si svilupparono produzioni regionali in Campania, nella Gallia e nella penisola

Iberica dopo la nascita delle sigillate nell’Etruria, è possibile che anche la Sicilia, terra di grande tradizione artigianale, abbia avuto una propria produzione, in centri ancora non identificati (Siracusa? Morgantina?), a diffusione prettamente locale. Si spera che la segnalazione fatta in questa sede per Caronia possa contribuire ad alimentare il dibattito ed a pervenire a risultati più concreti.

Fig. 79. Frammenti di sigillata di probabile produzione siciliana

L’analisi quantitativa e qualitativa dei frammenti di sigillata italica da ricognizione in area urbana, con definizione cronologica di determinate produzioni note dalla bibliografia, conferma quanto ipotizzato circa la fase di spopolamento della collina, le cui cause rimangono ancora da chiarire ma vanno ricondotte, a parere di chi scrive, non solo al trend instauratosi in questa parte di Sicilia, che vedeva i centri marittimi favoriti rispetto a quelli d’altura (va rilevato, d’altra parte, che la collina di Caronia è talmente prossima al mare da non potersi considerare sito d’altura in senso stretto e che centri limitrofi dalla stessa collocazione geografica, come Halaesa, Haluntium o Tyndaris rimasero pienamente vitali anche dopo il I secolo d.C., sebbene avviati verso una progressiva decadenza). Fenomeni naturali, come potrebbe essere stato un terremoto o il cedimento del terreno per fenomeni idrogeologici, che resero malsicura l’occupazione dei ripidi pendii collinari, ne determinarono l’abbandono, che si dovette completare nel giro di qualche decennio. La cronologia delle sigillate (italiche e africane) rinvenute nel sito, con la ridotta presenza sia di produzioni tarde che delle nuove classi ceramiche provenienti dall’Africa settentrionale, colloca il fenomeno dello spopolamento, relativamente graduale ma comunque inesorabile, tra gli ultimi decenni del I e i primi decenni del II secolo, termine temporale, quest’ultimo, che segna la fine del sito collinare come città. Dopo di allora, la collina dovette divenire sede di strutture abitative isolate, presumibilmente all’interno di fondi recintati utilizzati per colture ortofrutticole, che si installarono sui resti, ormai parzialmente interrati, della città di epoca ellenistica e altoimperiale. Un simile fenomeno è stato riscontrato ad Halaesa e Tyndaris, ma per una fase molto più tarda, collocabile nel tardo impero, mentre nella vicina Apollonia, dove peraltro molto

52

Carettoni 1959, p. 334 n. 17 Stone. 1981 54 Mandruzzato 1988 55 Lamboglia 1959 56 Stone 1981. 53

410

Sigillata italica dalla collina di Caronia limitati sono stati i rinvenimenti di sigillata italica, l’abbandono della città si data già nei primi decenni del I secolo d.C., rimanendo tuttavia il sito sporadicamente frequentato fino al tardoantico. Come si vede, quindi, le dinamiche demografiche di centri ricadenti in una stessa area geografica sono state molto diverse e non possono essere ricondotte ad una o più ragioni comuni. Va peraltro rilevato, per Caronia, che la fase di abbandono di tutte le strutture abitative portate in luce sia in collina che sulla costa, si data ricorrentemente verso la fine del I secolo, con la differenza che solo nell’abitato costiero vi fu successivamente una forte ripresa abitativa che si protrasse almeno fino alla seconda metà del IV secolo. Lo studio dei materiali, non necessariamente provenienti da scavi sistematici (soprattutto quando questi sono stati limitati in estensione come nel caso di Caronia), consente di proporre ipotesi non solo sulle dinamiche commerciali in essere nella città, ma anche di definire cronologie e fasi di vita non sempre chiare anche dallo scavo condotto nel modo più scientifico. Lo studio della Sigillata Italica nella collina, nello specifico, attesta, a nostro parere, un progressivo ridursi dei consumi di questi manufatti da riferire ad una consistente contrazione demografica che, in ultima analisi, equivale al quasi totale abbandono dell’abitato entro un arco di tempo che possiamo porre tra il 70 d.C. circa e il primo-secondo decennio del II secolo. S resta in attesa di una completa edizione di questa classe vascolare dall’esteso scavo condotto recentemente nell’abitato marittimo (1999-2005, contrada Pantano) per approfondire la comprensione di un evento epocale quale dovette essere il definitivo spostamento di cittadini da un abitato (collinare) all’altro (costiero), che avrebbe portato ad una nuova organizzazione urbana e alla nascita di una nuova entità cittadina quale fu la Calacte di età imperiale.

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IL PHROURION

DI PIZZO CILONA

Francesco Collura THE “PHROURION” OF PIZZO CILONA The settlement of Pizzo Cilona has been identified in the 1970s by the scholar Giacomo Scibona, who had the opportunity to study many ancient sites in this area of the Island, some of which so far completely unknown. In this chapter the author presents an extreme synthesis of the research carried out in the last five years, waiting to present a comprehensive study in a forthcoming publication. Pizzo Cilona was one of the several settlements which occupied the hills of the western Nebrodi, still not entirely known except some Hellenistic-Roman cities whose name we know from ancient sources, but whose knowledge, however, remains incomplete. That of Pizzo Cilona appears like a typical village alive between the Late Archaic age, when these lands were under the exclusive control of the Sicels’ community, and the Late Classical age, when we see the birth of various Greek “poleis” with a long continuity of life as Halaisa, Kale Akte, Amestratos, Halontion, etc. Although it is possible to conjecture the existence of this settlement since the end of the sixth century BC, however, its main phase was around the mid-fifth century BC, coinciding with the foundation of Kale Akte few miles to the north. The village then became a “phrourion”, i.e. a fortified site whose purpose was to allow the effective control of the "chora" (i.e. the territory) of the new city (Kale Akte) towards the hinterland. Its abandonment, which, according to the archaeological materials “in situ”, can be dated around the middle of the fourth century BC, could be due to new strategies of control of the territory, that made unnecessary the existence of a military post in an area now firmly in the possession of Kale Akte. The interest in this site is also given by the characteristics of the material culture, whose attest the persistence of archaic customs and tradition and, in particular, the co-existence of fine Greek ceramics and locally produced hand-modeled pottery until an age more advanced than what we have always thought. individuò un possibile phrourion di Kalè Akté, databile al V-IV secolo a.C. sulla base dell’esistenza di una fortificazione e della presenza di frammenti ceramici. Da allora, sebbene segnalato da tempo sulla Cartografia regionale come “sito archeologico”,2 non si è avuta alcuna ricerca e sostanzialmente rimangono inediti gli esiti dello stesso studio di Scibona. Nel sito, di notevole valenza naturalistica e paesaggistica, sono state personalmente avviate ormai da diversi anni ricerche, mirate innanzitutto a verificare la presenza e l’entità delle testimonianze descritte dall’archeologo messinese, con il quale si era avuta occasione di parlarne sommariamente prima della sua scomparsa. L’area è stata sottoposta ad una sistematica ricognizione di superficie, che ha consentito di acquisire alcuni dati preziosi sulla cronologia e l’ampiezza dell’insediamento. Sono stati infatti individuati materiali che provano una frequentazione del sito dalla fine del VI o inizi V al IV secolo a.C.; almeno al V secolo a.C. sembra risalire una cortina muraria ancora visibile per diverse decine di metri nell’altura di sud-ovest e, a tratti sporadici, lungo la cresta ovest di quella principale; lembi di strutture abitative in pietra locale e resti di crolli murari sono ampiamente visibili nei settori sud e sud-est del rilievo, mentre un edificio di forma rettangolare (torre o edificio di culto?) è situato sulla sommità del rilievo.

Pizzo Cilona è un rilievo nell’entroterra di Caronia, posto sul crinale orientale della vallata del fiume omonimo, a una distanza di circa 3,60 km dal centro storico cittadino, sede della polis greco-romana di Kalè Akté, e di 4,40 km dalla costa tirrenica. L’altura, costituita da una particolare struttura rocciosa di forma allungata in senso nord-sud, che si prolunga brevemente verso sud-ovest, raggiunge un’altezza di 546 metri s.l.m., svettando in maniera precipite sui costoni occidentale, settentrionale ed orientale, mentre a sud si sviluppa con un pendio regolare formatosi gradualmente a seguito di fenomeni naturali. A sud-est è l’unica agevole via d’accesso verso la cima. Il rilievo è facilmente individuabile dalla strada provinciale Caronia-Capizzi, ergendosi con un profilo caratteristico all’interno del peculiare e ininterrotto susseguirsi delle colline nebroidee. L’area è oggi adibita a pascolo (bovini, caprini ed equini) ed è attualmente di proprietà della famiglia Manetto di Caronia. Il nome “Cilona” è evidentemente una persistenza del termine greco χελώνη che significa “tartaruga”: in effetti, il Pizzo appare a chi lo guarda da nord-est, ovvero provenendo dalla città, come una sorta di testuggine, con la corazza corrispondente al rilievo principale e la testa in corrispondenza della sporgenza rocciosa sud-occidentale. Esso doveva costituire uno dei cardini della catena di alture (Cilona – Angara – Trapesi) a controllo di una fascia importante della chora calactina, lungo la quale avveniva il collegamento con i centri dell’entroterra siciliano. Il sito è stato oggetto, alcuni decenni fa, di una breve ricognizione a cura di Scibona,1 il quale vi

della chora lungo la via che, attraversando l’ultimo lembo sopravvissuto della foresta dei Nebrodi, scende da Kapition-Capizzi e AmestratosMistretta, per le zone archeologiche del feudo Samperi verso Kalè Akté e la costa N. E’ sull’asse di questo piccolo phrourion che corre la linea del limite N dell’immenso Poligono di tiro dei Nebrodi – in corso di realizzazione…”. 2 Linee Guida del Piano Territoriale Paesistico Regionale, elenco dei beni culturali e ambientali. Ambito 8 (Monti Nebrodi) – Sottosistema insediativo – Siti archeologici n. 32 - Tipo A1 (Aree complesse di entità minore).

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G. Scibona, BTCGI, s.v. Caronia, pag. 12: ”Una ricognizione effettuata nel 1985 sul Pizzo Cilona, a metà strada tra Caronia e il feudo Samperi, accerta l’esistenza di una fortificazione (di almeno V-IV secolo a.C.) che recinge l’altura in posizione di formidabile controllo

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Fig. 1. Pizzo Cilona visto da nord. L’insediamento di età classica, di tipo indigeno ellenizzato, occupava la parte più elevata visibile nell’immagine ed il pendio retrostante

Ricerche intensive sono state condotte, in particolare, tra il 2009 e il 2011, esaminando una vasta area in stagioni diverse per individuare, con la migliore visibilità possibile, tipologia e cronologia dei materiali e dei resti affioranti. I materiali incontrati nel corso delle ricognizioni sono costituiti prevalentemente da frammenti di pithoi databili, in base alle caratteristiche dell’argilla ed alla forma, ad un periodo compreso tra il V e il IV secolo a.C.: sul terreno si sono contati innumerevoli pezzi di questi grandi contenitori per derrate che, da soli, costituiscono più dell’80% del materiale archeologico di superficie. Si sono riconosciuti almeno 6 grandi frammenti pertinenti all’orlo a tesa ed al collo del contenitore, con caratteristiche morfologiche differenti, e diversi fondi piani con porzioni di parete: la loro dislocazione indica che provengono in gran parte da monte e si sono rovesciati principalmente lungo i pendii meridionale ed orientale, dando così una prima idea dell’ubicazione dell’abitato dal quale provengono. In effetti, le tracce più cospicue dell’insediamento sono state localizzate nella parte sud dell’altura principale – lato est, e nel suo prolungamento di sud-ovest, dove sono state individuate diverse strutture murarie e una certa quantità di reperti ceramici frammentari. Il rilievo roccioso è stato soggetto, nei secoli, ad importanti fenomeni di erosione in tutti i suoi lati, che hanno provocato il distacco di

consistenti porzioni di roccia ed il franamento a valle di strutture murarie antiche. Questo è stato subito constatato nel versante orientale della collina principale, alla base della quale è visibile una grandissima quantità di blocchi e pietre sbozzate, miste a frammenti ceramici, pertinenti sicuramente ad edifici esistenti a monte. Il fenomeno è stato confermato dall’esame di una delle strutture murarie che si è potuto studiare, la c.d. “Casa α”, situata sul versante orientale, di cui è sopravvissuta solo la parete di fondo, orientata nord-sud, realizzata con blocchetti di pietre a completamento di un affioramento roccioso, e due monconi di pareti est-ovest: la casa, databile genericamente, in base ai materiali in contesto, nel V secolo a.C., si conserva per circa 1/3, mentre la parte restante, più esposta, costruita su un terrapieno poggiante sulla roccia sfaldabile, è completamente franata a valle. Consistente è stato anche lo sgretolamento della parete occidentale dell’altura, sulla quale correva presumibilmente la fortificazione, di cui si conservano solo pochissimi tratti. Nel periodo cui si riferisce l’insediamento di Pizzo Cilona, 25 secoli fa, in base a quanto verificato sul posto, la conformazione del monte doveva essere piuttosto diversa. In particolare, l’altura principale doveva possedere un più ampio pianoro sommitale e avere una maggiore quantità di terreno edificabile sul versante orientale. Inoltre, il prolungamento di sud-ovest

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Il phrourion di Pizzo Cilona doveva essere più esteso e l’intero sistema montuoso doveva stagliarsi in maniera più netta nella parte meridionale, dove è oggi un ampio terrapieno a forma di ventaglio, formatosi gradualmente dallo sbriciolamento dell’altura. I fenomeni erosivi che hanno interessato Cilona hanno infatti causato lo sgretolamento della roccia sul pendio est e nella parte centrale ai piedi della cima, con conseguente scomparsa di ipotizzabili strutture abitative, e lo sgretolamento delle opere di fortificazione che dovevano correre lungo la fascia meridionale e orientale, i cui resti (abbondanti pietre locali lavorate di medie e grandi dimensioni) giacciono sparsi sui fondovalle. Un certo interro ha viceversa interessato tutto il versante sud, dal quale affiorano strutture rocciose che un tempo dovevano apparire più evidenti e venire utilizzate probabilmente nell’ambito delle opere di fortificazione. Oggi Pizzo Cilona si erge solo ai margini del perimetro del Parco Regionale dei Nebrodi, nonostante la sua indubbia rilevanza naturalistica ed ambientale. Il bosco in effetti si interrompe a meno di un centinaio di metri dall’altura, ma tale non doveva essere la situazione all’epoca della sua prima frequentazione umana, quando tutta quest’area di pendii interrotti da brevi alture che convergono verso il fiume era interamente coperta da un fitto bosco. Nei secoli, una serie di insediamenti rurali sparsi a controllo di aree sfruttate per scopi agricoli e come pascolo intaccarono la macchia boschiva, circostanza dimostrata dall’identificazione plurima di resti di strutture murarie e materiali databili principalmente ad età ellenistico-romana. Il Pizzo si localizza all’interno di un’area dalla pendenza costante, molto ricca di risorse idriche: esso stesso è all’origine di pozze sfruttate come sorgenti d’acqua più a valle. L’esistenza di una ricca falda idrica ha, d’altra parte, determinato la modifica progressiva del terreno, con sprofondamenti che, ad esempio, hanno creato una spettacolare cavea naturale a sud-est della collina. Il complesso elevato è costituito da una formazione di roccia di natura mista, calcarea ed argillosa; quest’ultima, chiaramente visibile a sud-ovest, si presenta con caratteristici ripiani affastellati ed è estremamente soggetta a sgretolamento. Alcuni fabbricati rurali ai margini del rilievo ospitano greggi di bovini, ovini, caprini e asini.3 La loro presenza su questi terreni, unita alla bellezza del paesaggio, evoca suggestioni estremamente piacevoli, preservando il luogo, allo stesso tempo, da interventi umani che avrebbero compromesso irrimediabilmente le testimonianze del passato, sostanzialmente ignote in ambito scientifico. Dalla cima del rilievo lo sguardo spazia a 360 gradi su un vasto panorama che copre l’intero bacino del fiume Caronia e le colline dirimpetto fino al mare; verso sud l’entroterra di Samperi, mentre verso nord si osservano allineate le colline di Cozzo Angara, Castagneto-Trapesi e quella in cui sorge Caronia; ad est la veduta si interrompe sulle cime boscose che si

susseguono ad altezza crescente da nord verso sud fino ad arrivare agli 800-1000 metri d’altezza. L’area conserva esigue presenze di vegetazione boschiva di impianto successivo all’abbandono definitivo del sito; gruppi isolati di alberi punteggiano l’altura assieme a macchie di vegetazione mediterranea, mentre l’ampia zona circostante è quasi del tutto libera da arbusti e rivela la sua antica destinazione a colture agricole e poi a pascolo.

Fig. 2. Veduta dell’altura da est, dov’è l’unica via di agevole accesso alla sommità: evidente la forte erosione che ha interessato il pendio orientale (a destra nell’immagine) su cui si disponeva parte dell’abitato

L’insediamento di età classica si poneva lungo un antico percorso che correva ai margini del bosco, inoltrandosi verso l’entroterra dove insistevano consistenti forme di occupazione umana con continuità di vita fino ad epoca tardoantica (c.de Mastrostefano, Serralisa, Samperi, Piano della Chiesa), oggi individuabili anche indirettamente dall’esistenza di vaste aree di terreno agricolo sottratte al bosco molti secoli addietro, oltre che dalla frequente dispersione di materiali antichi sui terreni. Sulla base di quanto è stato possibile osservare, sembrano potersi distinguere due fasi di occupazione a Pizzo Cilona. La prima, desumibile al momento solo dai materiali mobili di superficie, è ascrivibile ad epoca tardoarcaica o piuttosto altoclassica ed è evidente nelle ceramiche d’impasto ritrovate: in realtà, queste pongono molti dubbi di interpretazione cronologica, trattandosi di materiali che, per tipo di lavorazione, forma e decorazione, ricorrono, non solo in Sicilia ma nell’intero Meridione d’Italia, ad esempio in Calabria e Puglia, dall’Età del Bronzo finale fino al VI-V secolo a.C. La particolare situazione ambientale del sito, ovvero un’altura difendibile a controllo di una fertile vallata a media distanza dalla costa, giustifica l’installazione di un insediamento indigeno in un’area che ancora non aveva conosciuto significative penetrazioni di popoli esterni, relativamente isolata. Il ritrovamento contemporaneo, nella cosiddetta “Casa α”, di materiali di tradizione protostorica e di produzione greca, assegnabili al pieno V secolo a.C., testimonierebbe un continuum tra l’abitato indigeno e quello greco e una commistione di culture. Le

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L’esteso fondo in cui ricade Pizzo Cilona è attualmente di proprietà della famiglia Manetto di Caronia, che si ringrazia, in particolare nelle persone di Biagio e Maurizio Manetto, per la disponibilità offerta in occasione dei sopralluoghi e le notizie fornite

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia ceramiche di tradizione protostorica hanno caratteristiche peculiari: l’argilla è modellata a mano, presenta un colore bruno-grigiastro ed è poco depurata. Le forme riconoscibili si riferiscono soprattutto a contenitori di medie dimensioni a fondo piano, con anse a sezione circolare o semplici prese a linguetta o ad U capovolta. Materiali simili sono stati rinvenuti sporadicamente sulla collina di Caronia (in particolare un frammento con presa ad U capovolta) e nel sito dell’insediamento indigeno di c.da Aria (un bacino usato come cinerario con prese laterali ancora a forma di U capovolta). La datazione di questi ultimi non dovrebbe risalire a prima della seconda metà del VI secolo a.C. o anche al V, cronologia che si propone anche per i materiali similari di Pizzo Cilona. L’abitato greco (seconda fase) si concretizza nella realizzazione di un phrourion, un villaggio fortificato probabilmente voluto dalla nascente Kalè Akté nell’entroterra, a controllo del versante orientale del fiume, laddove si sarebbe esercitato in primis il suo tentativo di espansione nel territorio verso sud. Dalle evidenze materiali, sembra che la frequentazione del sito non vada oltre i primi decenni o al massimo la prima metà del IV secolo a.C., quando la fortezza fu abbandonata per il venir meno di necessità di controllo permanente di questa parte della chora. D’altra parte, l’esistenza di un fortino in quest’area, forse anche prima della fondazione di Kalè Akté, potrebbe riferirsi pure ad un controllo del territorio da parte di quello che sembra essere stato il principale centro siculo di questo settore della Sicilia, ovvero Herbita. Ricordiamo che quest’ultima concorse alla nascita di Kalè Akté a metà del V secolo a.C. e realizzò, alcuni decenni dopo, una propria “colonia” ad Halaisa. L’importante centro siculo, in vita almeno dal VII-VI secolo a.C., andrebbe localizzato alle spalle dell’ultima fondazione, forse nei pressi dell’odierna Gangi (Monte Alburchia?), ed il territorio da essa controllato doveva essere estremamente vasto, per cui ben si inserirebbe in tale contesto l’esistenza di diversi phrouria sparsi su alture per l’esercizio di un capillare controllo della chora.4 L’abitato indigeno di Cilona doveva essere costituito da un modesto nucleo di case costruite in pietra sfruttando anche le pareti di roccia ed integrandole, dando vita ad ambienti di forma rettangolare disposti sul pendio sud-orientale e meridionale dell’altura, più riparato. Forse nel corso della prima metà del V secolo a.C. fu realizzata una cortina di fortificazione di tipo pseudoisodomo che cingeva l’intero sistema collinare, integrata presumibilmente da torrette. Al suo interno, alcuni gruppi familiari, provenienti forse dalla stessa Kalè Akté, vivevano stabilmente: il ritrovamento diffuso e per certi versi eccezionale di numerosissimi frammenti di pithoi, grandi contenitori fittili per derrate alimentari (acqua, granaglie, ecc.), dimostra la presenza stabile di uomini e la necessità di immagazzinare scorte alimentari in vista di eventuali attacchi. L’abbandono del phrourion sembra essere stato definitivo. E’ tuttavia sicuro che il sito, per la ricchezza di risorse idriche e la fertilità dei terreni,

continuò ad essere frequentato per esigenze agricole anche nei secoli successivi, come dimostra il ritrovamento dei resti di una fattoria di epoca ellenistica a poche centinaia di metri di distanza a nord-est (c.da Giumentaro),5 di un’altra poco a sud-est (c.da Castagna) e quella, di incerta identificazione, proprio a ridosso dell’altura, circa 50 metri ad est6 del Pizzo. Per comodità di studio, l’area di Pizzo Cilona è stata suddivisa in 4 settori principali, corrispondenti a zone morfologicamente ben definite: l’altura principale, che si sviluppa in senso nord-sud per circa 140 m. con pareti precipiti (Settore I); il suo prolungamento a sudovest, lungo poco più di 60 m., ben marcato da una parete a strapiombo sul lato occidentale (Settore II); il terrapieno che si estende, con regolare pendio, a sud (Settore III); l’area di fondovalle in cui si sono riversati i materiali provenienti da monte ad est dell’altura principale, dove sono presenti sorgenti d’acqua tutt’ora sfruttate (Settore IV). In questa sede, tuttavia, si riportano principalmente i risultati delle ricerche nei settori I-II, che sono quelli che hanno fornito i dati più significativi e di più chiara interpretazione.

Fig. 3. Ortofoto di Pizzo Cilona con indicazione dei Settori di ricerca (rielab. immagine PCN 2012)

Il Settore I corrisponde all’altura principale. Essa, di forma allungata, presenta ad ovest una ripida ed alta parete di roccia segmentata; il pianoro che si estende in cima si sviluppa con un pendio regolare ampio circa 60 m. sul lato orientale, presentando una maggiore 5 Il ritrovamento è avvenuto grazie alla testimonianza di uno dei proprietari dell’area di Cilona, sig. Manetto. In propr. Schillaci, alcuni decenni prima, durante lavori di sbancamento, erano affiorate grandi quantità di mattoni e ceramiche. Sul posto sono ancora visibili tratti di muri in pietra locale e pezzi di mattoni (anche circolari), assieme a tegole e frammenti di pithoi. 6 Questo ritrovamento è da riferirsi ad un certo numero di pietre sbozzate, mattonacci di epoca ellenistico-romana, tegole curve e frammenti di ceramiche e di pithos, sparsi entro l’area sottostante il viottolo privato d’accesso all’altura. L’esatto luogo in cui doveva insistere il fabbricato rurale, databile genericamente ad età ellenisticoromana (II-I sec. a.C.?) non è al momento precisabile. Si sa, dal proprietario del terreno, che nello stesso posto, a metà del secolo scorso, fu realizzato un ricovero per animali con pietra di riutilizzo, a cui potrebbero riferirsi molti elementi lapidei qui accatastati.

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In questo quadro si inserirebbero alcuni abitati indigeni d’altura recentemente individuati sul versante occidentale dei Nebrodi, al confine con gli odierni territori di Mistretta e S. Stefano di Camastra.

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Il phrourion di Pizzo Cilona inclinazione sul versante di nord-est. La parte più elevata mostra una serie di affioramenti rocciosi che si sviluppano da nord a sud. La visibilità del terreno è a tratti compromessa dalla vegetazione e da un certo interro che caratterizza la porzione centrale, dove in superficie sono stati individuati limitatissimi frammenti, pertinenti a pithoi e ad anfore. Tuttavia è qui che è stata rinvenuta, in mezzo all’erba, una placca in bronzo dalla caratteristica forma a Y con fori all’interno, di incerta datazione (V secolo a.C.?, fig. 48). La parte più interessante si è rivelata quella di sud-est, caratterizzata da importanti fenomeni erosivi che hanno messo a nudo il substrato roccioso. Un primo esame dell’area aveva portato all’individuazione di ciò che restava di muretti addossati al terreno e di consistenti esiti di crolli murari, visibili dalla cima alla base. Il muro conservato meglio era presente a mezz’altezza sul pendio, in posizione quasi centrale (“Casa α”):7 esso affiorava, in senso nord-sud, per una lunghezza di oltre 4 metri, sviluppandosi ai piedi di un affioramento roccioso e a circa 1,5 metri dal limite di terreno percorso da un viottolo. Un esiguo strato di terra e vegetazione presente alla base celava un accumulo di ceramiche: si trattava di alcune grosse porzioni di ceramica modellata a mano, pertinenti a contenitori di dimensioni medio-grandi (olle), caratterizzate dalla presenza di prese a linguetta e ad U capovolta, di un caratteristico colore bruno-grigiastro. Esse erano miste a frammenti di ceramiche lavorate a tornio, la cui caratteristica era l’estrema frammentabilità al contatto, forse provocata dal tipo di cottura dei manufatti che, nella consistenza, le rendeva simili al vetro di un parabrezza. Queste ceramiche erano pertinenti principalmente ad alcuni grandi contenitori, a corpo panciuto e bordo svasato simile a quello di hydrie, con tracce di colorazione superficiale marrone, e ad una coppetta o ciotola, anch’essa colorata allo stesso modo; un’ansa di hydria presentava una tipica conformazione verticale con curvatura rientrante centrale. Sulla base delle loro caratteristiche morfologiche, questi materiali sembrano datarsi ad epoca altoclassica. Sul posto è stato rinvenuto anche un peso da telaio frammentario in argilla grezza. Alcuni grossi pezzi di pithos affioravano invece nella sezione meridionale del muretto, dove esso incontra una parete est-ovest con pietre alzate sulla sporgenza rocciosa. Sempre in quest’area, è stato recuperato un frammento del bordo di una coppetta a vernice nera di probabile produzione attica, fuori contesto. Nella parte settentrionale del muro, dove esso è costruito con una buona maglia di pietre intagliate a fianco di un grande blocco litico, all’interno di una rientranza corrispondente ad un secondo muro est-ovest, giacevano altri frammenti del contenitore in ceramica d’impasto e parte di un sottile manufatto in bronzo decorato con una serie di globetti con due fori su un’estremità (fig. 49).

Fig. 4. Disposizione schematica delle unità abitative individuate nel Settore I

Figg. 5-6. Materiali in ceramica d’impasto in affioramento dalla Casa α: bordo di bacino con presa a U capovolta e contenitore (grande olla?) parzialmente conservato

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Le unità abitative individuate fin dalle prime ricognizioni sono state denominate progressivamente con le lettere dell’alfabeto greco. In questa sede si descrivono quelle meglio conservate e interpretabili, per le quali è stato possibile eseguire uno studio in base alle strutture affioranti.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Figg. 7-10. Settore I, Casa α. In alto: immagini dell’ambiente da sud e da est in corrispondenza del muro che lo chiudeva a nord. Al centro: planimetria della casa con parete/banchina nella parte mediana. In basso: alzato della parete di fondo (M1) all’angolo con il muro est-ovest che chiude l’ambiente a nord (M2).

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Il phrourion di Pizzo Cilona

Figg. 11-13. In alto: planimetria dei resti visibili della Casa α’ e ricostruzione di parte dell’alzato della parete di fondo. In basso: ricostruzione schematica della disposizione delle due case α e α’ con probabile cortile in comune

Il muro nord-sud poggia su un fondo di roccia parzialmente spianata; nella parte a sud, la roccia è stata lavorata in modo da ricavare un angolo, in fondo al quale era presente una modesta quantità di carbonella. L’intero muro nord-sud non è completamente rettilineo, ma, nella parte centrale, dove è stato trovato l’accumulo di ceramiche, presenta una curvatura forse per seguire

l’andamento della roccia, quasi a formare una breve nicchia. Oltre, verso nord, esso continua utilizzando, tra i blocchetti, un masso di grandi dimensioni ed altre pietre di media grandezza. Complessivamente, l’intera parete misura circa 4, 5 metri e sembrerebbe corrispondere a due ambienti, separati da una parete o banchina di cui rimane in situ la base di roccia ed alcuni spezzoni di pietra.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia (case ο e ρ), probabilmente anch’esse unità monocellulari, dimostrando che questa parte dell’altura era intensamente occupata da piccole case ben separate tra loro ma che dovevano coprire l’intero pendio. Circa 20 metri più in basso e a sud, è stato individuato un altro muretto, orientato nord-sud, affiorante ai margini di uno sperone roccioso, costruito con la consueta tecnica a blocchetti di pietre locali (“Casa β”). Anch’esso poggia su una base rocciosa e si conserva per un’altezza di circa 80 cm. di altezza. Il muretto è visibile per circa 1,50 metri, ma dagli affioramenti nel terreno appare chiaro che esso continua verso sud, facendo parte di una struttura più complessa di cui, ancora una volta, si è perduta la parte più avanzata ad est. In questo caso non sono stati trovati frammenti ceramici significativi, ad eccezione di alcuni pezzi di terracotta sfibrata, pertinenti forse alla copertura in argilla ed elementi vegetali o a mattoni crudi. Sulle pareti dilavate della scarpata affioravano poche ceramiche di epoca greca, principalmente acrome (pezzi di anfore e vasellame da mensa), ma anche a vernice nera, databili fra V e IV secolo a.C. Altri frammenti, sia acromi che verniciati, sono stati osservati più in basso, fluitati dall’alto, e databili anch’essi tra V e IV secolo a.C. In tutta questa parte del Settore I, erosa dai fenomeni naturali nel corso dei secoli, sono presenti diversi resti di crolli murari, che indicano chiaramente la presenza di diverse strutture abitative nella parte sud-orientale dell’altura.9 In generale, le unità abitative di Pizzo Cilona erano disposte sul pendio adattandone l’andamento alle esigenze costruttive. La roccia veniva infatti intagliata, sia in verticale per ricavare una o più pareti di fondo, sia in orizzontale per disporre di un piano livellato. La struttura era completata da muri in pietra, che foderavano anche la roccia. Inoltre, nella parte più esposta, è probabile che venisse realizzato un muro di contenimento dell’intera struttura, come osservato per alcune delle unità identificate. Complessivamente, sul versante orientale dell’altura principale sono state identificate almeno 15 unità abitative, solitamente di piccole dimensioni, mono o bicellulari, alcune delle quali conservano allineamenti murari ben visibili in superficie. Come accertato nella Casa α ed in un paio di altre unità abitative di cui si è potuto osservare anche il piano di calpestio, come pavimentazione veniva utilizzata la roccia spianata, coperta da uno strato di scaglie di roccia e terriccio giallastro. La totale assenza di elementi di copertura in terracotta giacenti in situ fa ipotizzare che i tetti fossero realizzati con fango ed elementi vegetali, secondo una consuetudine molto arcaica.10

Figg. 14-15. Materiali dalla Casa α”: bordo di piatto da pesce (?) a vernice nera di produzione coloniale; in basso, ansa di kylix a vernice nera

Come accennato, si è conservata in questo caso meno della metà dell’intera superficie dell’ambiente, che doveva avere una forma rettangolare allungata: la parte avanzata, rivolta ad est, che originariamente poggiava su uno strato poco consistente di roccia, è franato a valle ed assieme ad essa si è dispersa una parte consistente delle suppellettili presenti. L’indagine accurata dei settori adiacenti più in alto ha poi rivelato che questo ambiente non era isolato, ma faceva parte di un complesso comprendente almeno un altro vano, la cui ampiezza non è stata determinata, in parte ricavato nella roccia (α’’), forse originariamente comunicante con l’ambiente principale, dove si osserva un crollo di mattoni crudi e sono presenti ceramiche greche acrome e a vernice nera di V secolo a.C.8 A nord-ovest è un ambiente (α’) di forma quadrangolare (circa 3 x 3 m.), la cui disposizione è sfalsata e ruotata verso NO, delimitato da pareti in blocchetti di pietra, in parte addossate alla roccia intagliata. Le due unità abitative α e α’ non sono allineate: α’ assume infatti una disposizione ruotata di circa 25° rispetto ad α, che è perfettamente orientata nord-sud; davanti all’unità abitativa α’ si trova uno spazio, su cui si affaccia la parete nord di α, che probabilmente serviva da cortile per le due abitazioni. A poca distanza verso nord delle unità α−α’ sono state individuate altre due strutture parzialmente affioranti

9 Il terreno fortemente eroso lungo il pendio orientale dell’altura principale ha determinato l’affioramento di numerosi contesti di crollo, le cui caratteristiche hanno indotto a individuarvi strutture abitative, la cui esatta disposizione non è tuttavia determinabile senza un intervento di scavo archeologico. Pertanto, la planimetria schematica riportata in fig. 4 è in parte da intendersi come ipotetica 10 Complessivamente, in tutta l’area indagata, si sono recuperati (fuori contesto) solo due pezzi di solenes, uno in argilla rosa-arancio ed uno di colore biancastro e nessuna tegola curva, fatta eccezione per l’Edificio γ.

8 Se appaiono ben definiti i margini degli ambienti α e α’, quello del presunto ambiente α’’ non è in alcun modo interpretabile, sviluppandosi su un affioramento roccioso irregolare che potrebbe essere servito originariamente a dividere più vani di piccole dimensioni, uno dei quali è quello alle spalle del muro che definisce ad ovest l’ambiente α

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Il phrourion di Pizzo Cilona una piattaforma rocciosa erosa nella parte ovest, che, originariamente, doveva avere una conformazione regolarizzata anche con l’impiego di blocchi di pietre squadrate che si raccordavano alla linea fortificata ancora visibile circa 10 metri in basso, nel Settore II di studio. La funzione di questo edificio non è chiara, in mancanza di saggi che rivelino i materiali esistenti sul piano di calpestio interno, occluso da terra e molte pietre. Tra i radi materiali presenti sulla superficie dell’area di crollo, si menzionano frammenti di pithos e ceramiche acrome, mentre sul lato occidentale, al di sotto di alcune pietre, è stato rinvenuto un mattone crudo in frammenti di forma trapezoidale con gli angoli smussati. Da menzionare il rinvenimento di tegole curve di produzione locale, le uniche finora trovate nel corso delle ricerche a Cilona. Considerata la posizione in cui sorge, ovvero nel punto più alto a controllo dello spazio circostante, l’edificio potrebbe essere stata una sorta di torre di avvistamento, sebbene la forma allungata, una certa “monumentalità” rispetto alle altre strutture identificate nel sito e la stessa posizione in una sorta di piccola “acropoli” potrebbero qualificarlo in altri termini, forse come luogo di culto. Peraltro, l’edificio in questione va interpretato non individualmente, ma all’interno di un’area più ampia che comprende altri resti murari ed una peculiare tipologia di materiali affioranti. Uno strato di pietre in crollo, pertinenti ad un muro interrato, è stato individuato pochi metri ad est dell’Edificio γ, ad un livello di poco inferiore su un pendio fortemente eroso; piccoli lembi murari, con radi frammenti ceramici, affiorano nell'area compresa tra l’Edificio γ e gli affioramenti rocciosi che caratterizzano la parte più meridionale dell’altura. Da segnalare, in quest’area, a contatto con alcuni allineamenti di pietre, il ritrovamento di due pesi da telaio di forma troncopiramidale decorati: uno con decorazione a file di cerchietti sui quattro lati (fig. 27), l’altro con simboli graffiti simili a croci greche su tutte le facce, che richiama uno stile piuttosto arcaicizzante (fig. 28). Ad est dell’edificio rettangolare il terreno eroso ha fatto affiorare uno strato di innumerevoli resti ossei, sminuzzati e frequentemente combusti, mischiati a frammenti di ceramiche di vario tipo, comprese anfore. Le ossa appartengono in prevalenza ad animali di piccola taglia; le ceramiche sono prevalentemente di produzione greca (anfore, coppette acrome, ecc.), sebbene non manchino porzioni di contenitori in ceramica d’impasto. La forma e le dimensioni dell’Edificio sulla sommità, alcuni accorgimenti di tipo architettonico (ad esempio la presenza di una copertura in tegole, caso finora unico a Cilona), l’assenza di altre strutture murarie nelle immediate vicinanze, eccezion fatta per quelle a margine sul lato orientale, che sembrerebbero definire una sorta di temenos, e l’accumulo di ossa semicombuste associate a vasellame, che farebbero pensare ad uno scarico rituale, inducono a ipotizzare che possa trattarsi di un edificio di culto, un piccolo tempio dedicato ad una divinità sconosciuta, probabilmente del pantheon indigeno. Sicuramente è questa una delle principali aree dell’insediamento che merita approfondimenti, attraverso l’esecuzione di futuri saggi di scavo.

Fig. 16. Muro in affioramento in pietrame, realizzato in un’intercapedine tra rocce nella parte orientale dell’altura

L’area di dispersione dei materiali interessa tutta questa parte del rilievo, fino al limite di una sorta di ampio basamento roccioso che, alla base, sembra presentare interventi di sistemazione artificiale, con l’apposizione di filari di pietre lavorate, la cui interpretazione è dubbia. Considerata la posizione dell’affioramento, immediatamente a sud-est dell’abitato, si potrebbe trattare di quanto resta di una torre o altra struttura naturale utilizzata a scopi difensivi. Oltretutto, essa ha un parallelo a pochi metri di distanza verso sud, dove un ampio affioramento roccioso con rinforzi in pietre sembra delimitare una via d’accesso, che oltretutto è chiaramente ipotizzabile in questo punto, considerata la morfologia dell’intero sito, come più agevole punto di comunicazione dell’abitato con l’esterno. In corrispondenza di questa sporgenza si sviluppa un’area pianeggiante, che si sviluppa verso nord fino alla Casa β. Sebbene occorra uno scavo nel limitato interro per accertare la natura di quest’area apparentemente libera da costruzioni (una sorta di piazzale in corrispondenza della porta di accesso all’insediamento?), si segnala l’esiguità di materiali di superficie, tra i quali ricordiamo un frammento del piede di uno skyphos a vernice nera di fine V secolo a.C. ed un’ansa di probabile anfora MGS II. I materiali osservati in superficie in tutto questa parte del Settore I – non troppo abbondanti in verità – comprendono ceramiche greche acrome e a vernice nera, relative sia ad anfore che a vasellame da mensa, alcuni pezzi di ceramiche d’impasto di colore bruno-grigio, di cui due con presa a linguetta, ed un notevole numero di frammenti di pithoi di varie dimensioni. Complessivamente, le ceramiche greche coprono un arco di tempo che va dall’inizio del V alla prima metà del IV secolo a.C. Non sono stati rinvenuti frammenti databili sicuramente al VI secolo a.C. Tra i più antichi ricordiamo un’ansa di kylix di produzione coloniale, databile nella prima metà del V secolo a.C., rinvenuta nell’ambiente α”. Nella parte sommitale del rilievo, posta nell’estremità sud, è presente un edificio di forma rettangolare, di cui rimangono ben visibili le fondazioni delle pareti nord, est e sud (“Edificio γ”). Esso giace sotto uno strato di crollo nel quale sono cresciuti due alberi. L’edificio, che misura 8 x 4 metri ed è orientato in senso S-SE/N-NO, poggia su

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Figg. 17-19. In alto, muro orientale dell’Edificio γ visto da sud e da nord; in basso, planimetria delle strutture visibili

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Il phrourion di Pizzo Cilona maniera discontinua, brevi tratti di strutture murarie a livello di fondazioni, realizzate talvolta con grossi blocchi, talvolta con pietre di piccole e medie dimensioni. La loro posizione, all’estremo limite del pianoro sommitale, ne fa ipotizzare una funzione difensiva: si tratterebbe di un lungo muro che delimitava ad ovest l’altura partendo dall’Edificio γ per circa 100 metri verso nord. Nella parte settentrionale, in corrispondenza di una serie di affioramenti rocciosi in parte regolarizzati (“torre di vedetta”?), la fortificazione doveva girare verso est (“Muro δ”) e da qui delimitare tutto il versante orientale. Purtroppo, su questo lato, le ricerche appaiono difficoltose a causa della vegetazione e delle frane che nei secoli hanno completamente mutato la fisionomia del terreno. Su questo lato, peraltro, l’altura assume una particolare conformazione “bombata”, concludendosi in una serie di alte pareti che la delimitano nettamente in basso, sia ad est che a nord. Il Settore II di ricerca è il prolungamento collinare di sud-ovest, seguibile per almeno 60 m. Esso assume una conformazione aspra nell’angolo occidentale, dove è presente un’alta parete rocciosa, e meno accentuata a nord, chiudendo in una sorta di semicerchio l’avvallamento creato dall’altura principale; a sud-est si regolarizza progressivamente, scendendo gradualmente di livello fino alla strada campestre. E’ in questo settore che si conserva la parte più evidente della fortificazione già individuata da Scibona negli anni ‘80. Essa delimita nella parte nord il ripiano per una lunghezza di oltre 50 metri, fino al limite meridionale del Settore I, assumendo un andamento leggermente curvato verso nord. Il muro, di spessore variabile tra 0,80 e 1 metro e conservato per un’altezza massima di 1,50 metri circa,11 è realizzato con blocchi di pietra di medie e grandi dimensioni ben lavorate nella faccia esposta. In molti tratti il muro presenta sulle facce a vista due distinte file di pietre, talvolta con riempimento interno; in alcuni casi, grossi blocchi riempiono l’intero spessore della parete; in altri ancora, pietre di minori dimensioni sono alzate le une sulle altre in maniera compatta. Nel complesso, si evidenzia una tecnica mista, di tipo pseudo-isodomo di tipologia piuttosto arcaica, che giustifica una datazione anche nella prima metà del V secolo a.C. Ad un livello superiore, nella parte sommitale di questo pianoro, è presente un’ampia distesa di roccia semipiana. Qui, sopra la base rocciosa, nella parte centro-orientale, è stata individuata una seconda muraglia, realizzata con pietrame di medie e piccole dimensioni, conservata per una lunghezza di circa 10 metri ma che in origine doveva percorrere tutto il crinale verso ovest, oggi spoglio, distante dalla fortificazione settentrionale tra 15 e 20 metri. Questa seconda muraglia pare svilupparsi verso ovest a partire da uno sperone di roccia affiorante in un settore di medio pendio verso meridione, prima di scomparire in corrispondenza della cresta rocciosa creatasi a seguito dei notevoli processi erosivi che hanno creato un’alta parete verticale.

Fig. 20. Ossa animali frammentarie e semicombuste affiorate nel pendio eroso ad est dell’Edificio γ assieme a molti frammenti di ceramiche sia greche che indigene

Un muro di un certo impegno è stato scoperto nella parte settentrionale del rilievo, versante est, ai piedi di una serie di spuntoni rocciosi che caratterizzano la parte più avanzata del pianoro sommitale. Il muro (“Muro δ”), orientato nord-sud, conservato per un’altezza di quasi un metro, è realizzato con blocchi di pietra locale sbozzata di medie e grandi dimensioni ed è stato rintracciato per una lunghezza di oltre 3 metri; nella parte centrale, esso sembra raccordarsi con un muro est-ovest, di cui affiorano alcuni elementi, e da questo con la roccia retrostante. Verso sud, a poca distanza, un secondo allineamento di pietre con lo stesso andamento sembra suggerire l’esistenza di una serie di strutture più complesse. Sul posto non sono stati ritrovati frammenti ceramici di alcun tipo. Il muro potrebbe anche essere il proseguimento verso nord-est della cortina di fortificazione che cingeva la sommità. Poco più a nordovest del Muro δ è stato invece individuato un ambiente di forma quadrangolare ricavato in parte nella roccia con resti di crolli murari sui lati nord ed est (“Casa η”), presso il quale affiorano dal terreno porzioni di un pithos ed altre ceramiche acrome. Tutta questa parte dell’altura riveste un certo interesse per la presenza di diverse strutture di cui tuttavia sfugge l’articolazione complessiva e la funzione.

Fig. 21. Planimetria del tratto visibile del Muro δ

Lungo la cresta occidentale del Pizzo che, essendo molto esposta ai fenomeni meteorologici, presenta una forte erosione, sono stati rintracciati, in

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Sarebbe in effetti necessario un sondaggio in profondità, in particolare nella parte a monte (a sud), dove il terreno ha colmato a tratti lo spazio antistante la fortificazione.

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Fig. 22. Tratto del muro di fortificazione nord nella parte in cui raggiunge uno spessore di 1 metro

ceramiche, in particolare innumerevoli pezzi di pithoi. Dagli affioramenti sembra che la parte più elevata dei due settori abbia ospitato strutture abitative in epoca greca. Lo provano i materiali di superficie, che comprendono, oltre ai frammenti di pithoi, ceramiche prevalentemente acrome pertinenti a vasellame da mensa. Nel Settore III è stato trovato un frammento di cratere a colonnette a vernice nera (una delle due placchette che sormontavano l’ansa a colonnine), databile ancora al V secolo a.C., la cui superficie, forse decorata, ha conservato solo pochi tratti di vernice (fig. 29). Il leggero pendio che caratterizza il Settore III, che si estende per circa 100 metri, è diviso in due, in senso nord-sud, da un cumulo di pietre intagliate, di realizzazione sicuramente recente, che tuttavia sembrano celare nella parte più alta l’esistenza di un muro antico con lo stesso andamento. Materiale archeologico sporadico è stato individuato su tutta l’ampiezza dell’area. Uno scavo operato a sud dai proprietari del terreno per allargare la stradella che conduce alla casa rurale ha messo in evidenza, alla base del pendio, diverse decine di metri a sud della cima dell’altura, evidenti crolli murari e materiali ceramici. Ciò induce a ritenere che l’abitato si estendesse su tutto l’ampio ventaglio a sud dell’altura principale. Nel quadrante occidentale la presenza di muri ben visibili in più punti conferma in ogni caso la presenza di strutture, anche di un certo impegno: si segnala un lungo muro in grosse pietre lavorate, seguibile per oltre 6 metri in senso est-ovest, che pare raccordarsi con altri resti murari sottostanti a formare almeno un ambiente di grandi dimensioni.

Sembra che la fortificazione, su questo versante, cingesse uno spazio allungato non molto largo, raccordandosi con le asperità della roccia, al cui interno è difficile ipotizzare tuttavia cosa ci fosse, sebbene i materiali affioranti sembrano suggerirne una destinazione domestica. E’ anche probabile che nell’angolo ovest essa comprendesse una piccola torre, di cui non restano tracce evidenti; inoltre, lungo la cresta sud-occidentale una tale fortificazione poteva anche essere superflua, considerato lo strapiombo di diversi metri che la caratterizza. Piuttosto, essa doveva servire a proteggere la fortezza nella parte più meridionale, dove il terreno scende con pendio regolare. Tra i materiali rinvenuti si segnala un bel bordo di pithos, conservato nella parte corrispondente al collo ed alla giuntura (sagomata) con il corpo (fig. 37) e poche ceramiche acrome di epoca greca. Sulla spianata più alta, la presenza frequente di animali al pascolo, ha provocato l’affioramento dall’esiguo interro che ricopre la roccia di materiali in uno spazio di circa 2 x 0,5 metri. Su un lato erano presenti alcuni frammenti di uno spesso contenitore in argilla grezza, mentre poco distante erano invece i frammenti del bordo di un’anfora MGS II (“pseudo-chiota”) in argilla biancastra di probabile produzione locrese (V secolo a.C.). Nella parte più occidentale della fortificazione, dove si ipotizza l’esistenza di una torretta, è stato invece individuato un ambiente (“Casa ω”) ben delimitato su due lati dalla roccia e da alcune pietre, al cui interno affioravano materiali in giacitura esposti anche questa volta per via dello stazionamento di animali. Qui sono stati recuperati diversi pesi da telaio di forma parallelepipeda e cilindrica, realizzati con argille grezze, caratterizzati dalla presenza di cerchietti variamente disposti sulla superficie (figg. 30-31). I pesi, probabilmente rimasti in situ in gruppo dopo la scomparsa delle parti deperibili del telaio, si trovavano assieme ai frammenti di due o più contenitori in ceramica d’impasto e a quelli di vasellame di produzione coloniale, tra cui si menziona una coppetta a vernice rossastra evanida e l’ansa di uno skyphos a vernice nera, tutti databili nel corso del V secolo a.C. La parte meridionale del sito, l’unica a presentare un andamento regolare, con un pendio che a ventaglio scende regolarmente verso valle, costituisce il Settore III, preso in considerazione, assieme al Settore IV, non tanto per le evidenze murarie, che pure sono presenti, quanto perché è in essi che si è riversata una grande quantità di materiali provenienti da monte, soprattutto edilizi (blocchi di pietre sbozzate) oltre che

Fig. 23. Pesi da telaio in affioramento nella “Casa ω”

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Il phrourion di Pizzo Cilona La ricognizione ha interessato anche l’area a sud-est dell’altura, nei pressi della staccionata che delimita il fondo e l’accesso ad esso. Ceramiche sono state osservate ben al di fuori dell’insediamento, in particolare a valle di alcuni affioramenti di roccia che presentano tracce di regolarizzazione. Potrebbe trattarsi di quanto resta di una postazione di vedetta alcune decine di metri fuori dalle mura, lungo la strada di accesso all’insediamento. Ad una certa distanza verso sud-est, lungo il percorso di una carrata in forte discesa, affiorano dalla parete scavata frammenti di pithoi con le stesse caratteristiche di quelli rinvenuti nel Pizzo e pietre lavorate, suggerendo l’esistenza, sul poggetto soprastante ad est, di una struttura coeva all’insediamento.

est, ma l’erosione ha provocato la quasi totale scomparsa del muro, franato a valle. Il braccio sud-occidentale della muraglia doveva collegarsi con quella che recingeva il ciglio occidentale dell’altura principale: qui si osserva la roccia viva, talvolta regolarizzata, in corrispondenza della quale il muro di sud-ovest sembra interrompersi e proseguire, invece, verso sud in senso nord-sud. Grandi blocchi sparsi sul terreno in corrispondenza di rocce intagliate fanno pensare all’esistenza di una struttura, la cui esatta composizione non è definibile. Il muro nord-sud è ripercorso, nella parte più settentrionale, da un cumulo di pietre moderno disposte con lo stesso orientamento.

La fortificazione L’evidenza principale di Pizzo Cilona è costituita dalla cortina muraria, già osservata negli anni ’80 del secolo scorso da Scibona. Si tratta di un’opera pseusoisodoma con impiego di pietre di grandi dimensioni generalmente di forma parallelepipeda, talvolta con doppio paramento. La parte conservata meglio è visibile sull’altura di sud-ovest, dove si estende complessivamente con un braccio lungo oltre 50 metri12 attraverso il crinale settentrionale della stessa. Non si tratta di un muro imponente per spessore, ma si può supporre che si sviluppasse originariamente in altezza. Attualmente si conserva con un alzato che al massimo arriva a un metro e mezzo, ma la presenza sul pendio sottostante di molte decine di blocchi crollati fa presumere che in origine la struttura potesse arrivare ad un’altezza anche di tre metri. Il muro è continuo e su di esso non sono presenti aperture, che forse esistevano nella parte più orientale. Esso si affaccia sul declivio di forma angolare che si crea con il profilo dell’altura principale, forse percorso da un’antica via di accesso all’abitato provenendo dal fiume. Nella parte più elevata del poggio sud-occidentale, dove affiora una base rocciosa per tutta la lunghezza, che si interrompe in maniera brusca nell’angolo sud-ovest, si conserva un secondo tratto di mura, per una lunghezza complessiva di circa 10 metri, che, considerati tecnica realizzativa e dimensioni, non può tuttavia riferirsi con certezza al complesso difensivo. Questo secondo braccio quasi parallelo a quello principale presenta una tecnica realizzativa diversa (pietrame di dimensioni mediopiccole con doppio paramento e riempimento interno di scaglie litiche) e potrebbe risalire ad una fase successiva al primo. Il secondo muro si interrompe ad est in corrispondenza di un breve balzo della roccia. Brevi tratti di fortificazione sono stati osservati sul rilievo principale, lungo la cresta occidentale, dove sono presenti, in maniera discontinua, alcuni filari di grosse pietre allineate in punti diversi. Qui la cortina doveva delimitare il precipizio in tutta la sua lunghezza per poi deviare verso

Fig. 24. Veduta esterna della fortificazione lungo il ciglio settentrionale dell’altura di sud-ovest

La tecnica utilizzata per realizzare questi muri, con l’impiego di pietre locali sbozzate di grandi e medie dimensioni, ben lavorate nella faccia a vista, richiama esempi databili ad età tardoarcaica e induce ad assegnare, genericamente, una datazione nella prima metà del V secolo a.C., compatibile anche con i rinvenimenti di materiali nel sito. Allo stato attuale, non appare semplice delimitare l’intero percorso delle fortificazioni, anche per via dello smantellamento delle strutture, causato principalmente da fenomeni naturali. E’ ipotizzabile che il muro di difesa recingesse anche il versante orientale, all’interno del quale si disponevano le strutture abitative, e si chiudesse in corrispondenza della porta d’accesso al phrourion sul lato più accessibile, ovvero a sud-est. Qui sono presenti due affioramenti rocciosi affiancati, separati da un’apertura di circa 5 metri. L’affioramento a nord, ampio circa 5 metri, in corrispondenza del quale, tra l’altro, sono stati individuati frammenti ceramici a vernice nera di V secolo a.C., presenta una superficie perfettamente piana e si erge dal piano sottostante per oltre 2 metri; alla sua base sono stati osservati i resti di una sistemazione antica con blocchi di pietra, quasi a regolarizzarne l’andamento. L’affioramento sud, che si sviluppa a semicerchio, presenta anch’esso integrazioni con pietre di grandi dimensioni. Si potrebbe trattare, nel complesso, dell’ingresso all’insediamento, munito di “torrette”, una delle quali posta sul lato sinistro dell’apertura, o comunque di postazioni di controllo che delimitassero l’entrata. Tracce scomposte di muri sono

12 La parte più orientale di questo braccio, nei pressi della breve scarpata rocciosa che contraddistingue la parte sud della sommità di Cilona, non si è conservata bene ed è solo intuibile il suo percorso fin sotto la cima.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia contesto. Le ricerche eseguite recentemente in altri abitati indigeni dell’entroterra centro-occidentale siciliano, nonché quelle eseguite da chi scrive nel sito di Monte Scurzi, hanno talvolta portato alla scoperta di simili ceramiche di tradizione protostorica in contesti di piena età classica, anche fino ai primi decenni del IV secolo a.C., testimonianza di radicate persistenze in abitati dalla spiccata originalità e resistenza rispetto alla cultura greca. Peraltro, si conferma la totale assenza di ceramiche di produzione coloniale sicuramente riferibili al VI secolo a.C. Forse già ai primi decenni del V secolo a.C. sembra risalire la costruzione delle fortificazioni che cingevano l’abitato. Il fortino sorse nello stesso luogo del villaggio indigeno e comprendeva settori prima non occupati, come l’altura sud-occidentale ed il pendio meridionale. Complessivamente, l’abitato sembra ora occupare un’area di poco meno di 3 ettari. I lembi di muri affioranti confermano che anche in quest’epoca le case si disponevano principalmente sui pendii lasciando libera la parte sommitale dell’altura a nord dell’Edificio γ. Si trattava di piccole abitazioni a pianta rettangolare di pochi vani, con muri dall’alzato in blocchetti di pietra e mattoni crudi e tetti in materiale deperibile. Una via d’accesso principale doveva mettere in collegamento l’esterno con l’abitato e la parte sommitale del rilievo, dove non si è avuto modo di individuare con certezza resti di strutture murarie ad eccezione del citato “Edificio γ” e nelle sue immediate vicinanze. Gli elementi a disposizione, in sostanza, sembrano confermare che l’abitato greco era sorto con il solo scopo di dare ospitalità a nuclei familiari adattati ad una vita spartana ma non povera: c’erano, infatti, a disposizione terre da coltivare e da adibire a pascolo e, dopotutto, la città non era molto distante. I pochi – ma significativi ritrovamenti di ceramiche a vernice nera inducono a ritenere che il tenore di vita degli abitanti non fosse del tutto disprezzabile. L’individuazione di questo piccolo centro come avamposto militare si basa su una serie di considerazioni. Prima tra tutte, la sua posizione, a media distanza da Kalè Akté, in posizione altamente strategica sul declivio ad est del fiume e della relativa valle, con ampia prospettiva su una porzione importante della chora calactina a nord, ovest e sud (prescindiamo, in questa occasione, dal prendere in considerazione una possibile preesistente appartenenza della postazione militare alla città di Herbita); in secondo luogo, le modeste dimensioni, unite alla considerazione che non vi era, in quella fase storica, altro motivo per abitare stabilmente quel luogo relativamente isolato e poco adeguato ad una vita confortevole; infine, la cortina muraria alzata appunto a protezione di un appostamento militare, e non di un semplice borgo abitato per ragioni economiche o di sussistenza quotidiana. La creazione della postazione potrebbe risalire agli stessi anni in cui fu fondata Kalè Akté a difesa del nuovo insediamento nella parte interna del territorio: potrebbe essere stato in quell’occasione che vi fu insediato un piccolo contingente di soldati accompagnati dai relativi nuclei familiari.

inoltre individuabili nel margine meridionale del secondo affioramento. Del tutto ipotetico rimane il percorso della fortificazione a sud, dove non risulta percepibile chiaramente la preesistenza di opere di fortificazione. Tuttavia, considerato che qui sembra esserci la prova dell’esistenza di strutture abitative, comprovate in alcuni casi da lembi di muri affioranti, oltre che da abbondanti elementi costruttivi sparsi nel declivio, rimane il dubbio se queste fossero sorte fuori della fortezza originaria, magari in una fase successiva alla sua realizzazione, o fossero protette da un muro più a valle, di cui non si è trovata traccia sicura. Complessivamente, il tracciato murario ipotizzato cingeva un’area di modeste dimensioni, che qualifica il sito come un fortino, appositamente realizzato con scopi di difesa del territorio. L’assenza di ogni evidenza percepibile (tracce sparse di bruciato, resti di manufatti bellici, ecc.) circa il verificarsi di eventi militari, suggerisce che esso venne abbandonato spontaneamente nel momento in cui venivano meno esigenze pressanti di controllo della chora calactina.

L’abitato: da villaggio indigeno a phrourion Nell’inquadrare compiutamente l’estensione e la natura dell’insediamento di Cilona, occorre distinguere le due apparenti fasi che hanno contraddistinto la frequentazione umana dell’altura. La prima sembrerebbe ascrivibile, sulla base dei materiali presenti nel sito, ad epoca tardoarcaica o piuttosto altoclassica, senza tuttavia risultare possibile individuare un momento preciso nel corso di questo periodo. Sulla base dei punti di ritrovamento dei materiali di questa fase (ceramiche d’impasto), è stato ipotizzato un nucleo abitato disposto nella parte sud-orientale e sud-occidentale del Pizzo, dalla cima fino alla base del costone roccioso che – va sottolineato – aveva allora un profilo ben diverso dall’attuale. Non si sarebbe trattato di un grosso abitato, quanto di un piccolo villaggio che potrebbe avere ospitato genti provenienti dall’entroterra, da altri centri siculi di questo settore dell’isola. Si trattava di casette rettangolari, costruite con blocchetti di pietra locale sul pendio, sfruttando la roccia opportunamente livellata come parete di fondo. Da quanto è emerso dallo studio della c.d. “Casa α”, costruita anch’essa a ridosso di una sporgenza rocciosa sul pendio orientale, queste costruzioni continuarono ad essere utilizzate anche nella fase greca, dopo la realizzazione del phrourion. La prima fase dell’abitato è principalmente attestata dai materiali mobili, costituiti da vasi modellati a mano di tradizione protostorica, che potrebbero essere assegnati al VI secolo a.C. assieme a frammenti di vasellame fino decorato con vernici opache (matt painted) di colore bruno, finora rinvenute solo nella Casa α proprio in associazione alle ceramiche d’impasto. Resta tuttavia dubbia l’esatta cronologia delle stesse ceramiche d’impasto, che solo teoricamente dovremmo assegnare ad età tardoarcaica in base alle caratteristiche realizzative e stilistiche, anche per il fatto di essere state frequentemente rinvenute fuori

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Il phrourion di Pizzo Cilona 1,00-1,20 metri dal piano di campagna. In un’area piuttosto circoscritta, di difficile ricognizione per via dell’asperità del terreno e della folta vegetazione presente, sono state individuate almeno 7 tombe, alcune delle quali con il muro di chiusura integro, tutte sicuramente mai violate. Si può ritenere che oltre lo spesso muro di chiusura esistesse un’ampia camera sepolcrale artificiale, di un tipo ampiamente diffuso nelle necropoli indigene dei centri della Sicilia centrale, che potrebbe avere ospitato più sepolture. La loro datazione oscillerebbe, per confronti, tra VI e V secolo a.C. Altre tombe potrebbero essere dislocate più a nord, sempre lungo il ripido costone sottostante l’altura. Poco più a valle, in un’area di notevole interro, sono stati osservati sporadici frammenti ceramici di produzione greca, forse riferibili a sepolture a fossa terragna più tarde. Singolare il fatto che l’area cimiteriale sia ubicata lungo il percorso di un’ipotizzata antichissima via d’accesso all’abitato provenendo dal fondo-valle.

Rimangono dubbi i motivi che portarono all’abbandono del sito. Come accennato, i materiali suggeriscono un’ultima fase di vita entro la metà del IV secolo a.C. A quell’epoca, Kalè Akté esisteva già da un secolo e doveva avere consolidato la sua presenza nel territorio. Più tardi, l’ordine diffuso seguito alle imprese di Timoleonte in Sicilia e la relativa pace instauratasi, potrebbero avere reso definitivamente superfluo un appostamento stabile nell’entroterra in una fase di crescita e benessere della città-madre. Va inoltre tenuto in considerazione che sembrano inquadrarsi pressoché nella stessa fase, ovvero nella prima metà del IV secolo a.C., gli abbandoni di altri insediamenti fortificati nel territorio calactino, come quelli di c.da Arìa e c.da L’Urmo. In ogni caso, non sono stati individuati segni evidenti di una distruzione violenta (ad esempio, tracce di incendio), ma il piccolo centro sembra essere stato abbandonato spontaneamente nel giro di poco tempo. L’area di Pizzo Cilona non viene comunque del tutto abbandonata. Si trattava, infatti, di un territorio che per clima e risorse naturali era particolarmente adatto all’impianto di attività agricole e pastorali. In età ellenistico-romana si installarono diverse unità produttive, costituite generalmente da piccoli fabbricati all’interno di appezzamenti di terreno coltivati a vite o a grano, o ai margini di terreni da pascolo, tipo di sfruttamento del territorio che generalmente si è protratto fino ai giorni nostri. Si menzionano, in particolare, i siti di due fattorie in vita nella fase tardoellenisticaaltoimperiale, uno poco a sud di Cilona (c.da Giumentaro), un secondo circa un km più avanti (c.da Castagna).

Fig. 26. Una delle tombe a camera individuate sul fianco nordoccidentale dell’altura principale: muro che sigilla l’accesso alla camera sepolcrale in blocchi di pietra

I materiali L’indagine di superficie non ha fruttato una grande quantità di materiali ceramici, se si eccettuano gli innumerevoli frammenti di pithoi. L’area di dispersione dei frammenti comprende principalmente l’immediato declivio sud-orientale del Pizzo e tutta una zona che si estende a ventaglio a sud e ad est di esso, creatasi a seguito di franamenti e dilavamenti a cui l’altura è stata esposta nei secoli. Le ceramiche greche si riferiscono principalmente a tipologie di uso quotidiano: vasellame da mensa (skyphoi, kylikes, coppette, piatti) ed anfore, ridotte a frammenti spesso irriconoscibili. Tra queste si segnalano esemplari di “pseudo-chiote” a pasta grigio chiaro e di MGS III con bordo a sezione triangolare di probabile produzione siciliana. Del vasellame comune, meno del 10% è costituito da ceramiche a vernice nera. La loro datazione li colloca tra il V ed il IV secolo a.C. Si segnala, tra gli altri, il prima citato frammento di cratere a colonnette, corrispondente ad una delle due placchette

Fig. 25. Pithos in affioramento sul piano di un viottolo nell’area della “Casa ζ”, poco a sud-ovest della Casa α

La necropoli Un’unica area di necropoli è stata individuata sul ripidissimo fianco nord-occidentale dell’altura. Si tratta verosimilmente di tombe a camera, non indagabili in quanto ancora sigillate dalla muratura esterna. L’accesso, infatti, è chiuso da una spessa parete realizzata in blocchi di pietra giustapposti con molta cura, generalmente alta

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia che sormontavano l’ansa, con tracce residue di vernice nera, trovato nel Settore III: si tratta di un manufatto “di lusso” all’interno di un avamposto militare. Il vasellame di tipo greco sembra appartenere a due produzioni, una delle quali probabilmente locale: si tratta di ceramiche acrome, pertinenti generalmente a brocche o hydriai con argilla di colore arancio-bruno, non molto fine. Da queste si distinguono i vasi di probabile produzione coloniale, anche a vernice nera, caratterizzati da un’argilla depurata generalmente di colore rosa. Tra i manufatti rinvenuti di produzione greca merita di essere segnalato il bordo di un bacino con presa a maschera gorgonica, di riconosciuta produzione imerese,13 inquadrabile probabilmente nella seconda metà del V secolo a.C. Il ritrovamento attesta la diffusione di questo particolare tipo di utensile in terracotta nel territorio di Caronia, mentre potrebbero essere riferiti a produzioni imeresi anche altre ceramiche greche rinvenute nel sito. In effetti, Himera non è troppo distante da quest’area ed è da ipotizzare una presenza commerciale della colonia nel corso di tutto il V secolo a.C., epoca di sua maggiore prosperità, come indurrebbero a ritenere altri ritrovamenti sporadici sulla collina di Caronia e in contesto sepolcrale nel sito indigeno di contrada Arìa. Tra i materiali di superficie, occorre menzionare numerosi frammenti di ceramiche d’impasto, corrispondenti a catini spesso con caratteristica presa a linguetta o ad U capovolta. L’argilla è grezza, di colore grigiastro con molti inclusi, e la superficie del manufatto è altrettanto grossolana. Questo tipo di materiali, che potrebbero anche riferirsi ad un attardamento nella produzione di contenitori di media-grande dimensione, per le loro caratteristiche si potrebbero datare in un ampio arco temporale, che va dall’Età del Ferro all’epoca greca classica. I frammenti con prese plastiche sono stati trovati principalmente nel declivio eroso a sud-est della cima di Cilona. Per la loro datazione, occorre considerare che in generale, nei siti d’altura e dell’interno della catena dei Nebrodi, si constata il mantenimento di tradizioni arcaiche nelle produzioni ceramiche, che perdurano fino ad età greca tardoclassica affiancandosi a quelle provenienti dai centri coloniali.14 Gli studi sulle ceramiche locali di alcuni siti indigeni della Sicilia centro-orientale offrono molti confronti con le ceramica d’impasto di Pizzo Cilona. Ci riferiamo, in particolare, al vasellame con prese a linguetta o a U capovolta-semilunata rinvenuto a Monte Maranfusa, Montagnola di Marineo e Cozzo Spolentino, in contesti che vanno dal VI al IV secolo a.C.15 In particolare, è interessante lo studio di una categoria di vasellame modellato a mano da Monte Maranfusa,16 qualificato come ceramica da fuoco e da cucina,

comprendente pignatte, teglie e tegami, che presenta strette affinità con materiali similari da Cilona sia per le tecniche di lavorazione che per le forme. Tuttavia, se in alcuni casi i contenitori dal nostro sito possono ricondursi ad analoghe funzioni, legate alla cottura e conservazione degli alimenti (in realtà, pochi frammenti presentano tracce di bruciatura), in altri casi si è più propensi ad estenderne la destinazione: alcuni infatti dovevano essere impiegati anche per il consumo del cibo e di liquidi, piuttosto che esclusivamente in cucina. Inoltre sono differenti alcuni dettagli dei vasi, generalmente a fondo piano (è stato rinvenuto anche un piede a tromba di un vaso di incerta forma e funzione, figg. 32-33), ma senza spigoli vivi nell’attacco al corpo, che è invece arrotondato; sono inoltre presenti contenitori a corpo elevato, simili a olle. La datazione delle ceramiche d’impasto da Cilona può essere compresa tra l’intero V secolo a.C. e almeno i primi decenni di quello successivo e va riferita a modalità tradizionali di produzione in ambito domestico di oggetti d’uso comune che, nei contesti indigeni, sembra prolungarsi fin quasi all’epoca ellenistica. Un confronto, in area nebroidea, è possibile sia con il non distante Monte Scurzi (Militello Rosmarino) che con il sito di Gioiosa Guardia,17 dove sino alla fine dell’abitato, collocabile negli ultimi anni del V secolo a.C., convivono vasellame fine di produzione coloniale e ceramiche “grezze”. Relativamente consistente il rinvenimento di pesi da telaio nel monte, tutti realizzati con ceramiche grezze modellate a mano. Un gruppo di pesi di forma cilindrica e parallelepipeda (figg. 30-31) è stato rinvenuto in affioramento in un probabile contesto abitativo all’estremità occidentale del poggio di sud-ovest, databile in base alle ceramiche greche associate alla seconda metà del V secolo a.C. Due pesi parallelepipedi provengono dalla Casa α ed un frammentario dalla Casa β. Dall’area dell’Edificio γ provengono due pesi di singolare fattura: uno, di forma troncopiramidale, presenta croci greche inscritte su tutte le facce (fig. 28); l’altro, di forma troncopiramidale stretta e allungata, presenta file di globetti su tutte le facce laterali ed un globetto sulla faccia superiore (fig. 27) e trova un confronto con un similare manufatto da Cozzo Spolentino, nell’entroterra palermitano.18 Questi due pesi, per forma e decorazione, fanno pensare a manufatti d’uso rituale piuttosto che ad un uso pratico in ambito domestico. Da segnalare un peso di forma quasi cubica in un’area che ha proposto esigue tracce di frequentazione, molto a sud dell’altura principale. Tra i materiali non ceramici si segnalano due manufatti in bronzo la cui funzione non è chiara: una placca (fig. 48) di media grandezza, relativamente spessa, con fori sui bordi (a cui annodare lacci?) ed un oggetto laminare di forma semicircolare con serie di fori circolari allineati (fig. 49). Si rileva la totale assenza di lucerne, circostanza che, come nel non lontano sito di Monte Scurzi, induce a ritenere che per l’illuminazione notturna si continuassero ad utilizzare le tradizionali fiaccole.

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Vassallo 1999a Ci riferiamo, ad esempio, all’insediamento indigeno di Monte Scurzi, sopra Sant’Agata di Militello, in vita dall’Età del Ferro fino al V secolo a.C. Qui, negli stessi contesti, si ritrovano assieme ceramiche greche e vasi in argilla grezza di tradizione indigena, anche nei livelli di abbandono dell’abitato. Evidenze analoghe sono state dedotte anche per l’anonimo centro indigeno ellenizzato di Gioiosa Guardia. 15 Spatafora, Vassallo 2002 16 Valentino 2003 14

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Tigano, Coppolino 2008 Spatafora 2013

Il phrourion di Pizzo Cilona

Figg. 27-34. Materiali da Pizzo Cilona, tutti inquadrabili nel corso del V secolo a.C. In alto: peso da telaio con file di 5 globetti su ogni faccia, dall’area dell’Edificio γ; peso da telaio con decorazione a croce greca su ogni faccia, dall’area dell’Edificio γ; placchetta di cratere a colonnette a v.n., dal Settore III. Al centro: pesi da telaio dalla “Casa ω”. In basso: ceramiche d’impasto.

superfici, sia ancora dalle forme, laddove si sono identificati frammenti significativi in tal senso. Per alcune delle caratteristiche, soprattutto formali, in particolare il tipo di bordo a tesa, questi pithoi si ascrivono sicuramente nel corso dell’età classica (V-IV secolo a.C.).

I reperti ceramici più abbondanti a Cilona sono costituiti da pezzi di pithoi. Se ne sono contate in tutta l’area centinaia di frammenti, molti di grandi dimensioni e di interesse diagnostico (bordi e fondi). Essi si riferiscono a produzioni diverse, riconoscibili sia dal tipo di argilla e dal suo colore, sia dalle caratteristiche delle

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Il materiale con cui sono realizzati questi grandi contenitori da dispensa, dove potevano essere conservati sia liquidi (acqua o olio) che granaglie ed altri prodotti agricoli, presenta caratteristiche tipiche legate alla necessità di una loro lunga durata ed utilizzo. L’argilla è generalmente di colore arancio, con varianti tendenti a brunastro o al rosa, talvolta grigiastra all’interno, e presenta un grande numero di inclusi biancastri (quarzite) o scuri anche di grandi dimensioni. Queste caratteristiche degli impasti si riscontrano frequentemente nei pithoi del quartiere collinare di Kalè Akté, inducendo a ritenere che si tratti di una tipica produzione locale protrattasi per diversi secoli.19 L’utilizzo notevole del pietrisco nell’impasto, assieme al notevole spessore delle superfici, conferiva a questi grandi contenitori notevole resistenza e una lunga durata. Si sono incontrati esemplari con superficie liscia e ben lavorata, sia all’interno che all’esterno; mentre altri presentano superfici più grezze. La forma dei pithoi contempla numerose varianti, che identificano probabilmente diverse officine di produzione e cronologia differenti. Generalmente il bordo a tesa ha forma orizzontale e spessore variabile, con ispessimento dall’esterno verso l’interno nella parte inferiore, mentre l’altezza del collo varia da pochi cm ad un massimo di 10. Un esemplare presenta nella parte inferiore della tesa un “bernoccolo” appositamente modellato; un altro ha nella parte esterna del collo delle modanature, in corrispondenza dell’attacco al corpo. Il ritrovamento di numerose parti consistenti del bordo-collo, assieme a quello di alcuni fondi, ha permesso di ricostruire virtualmente l’intera forma del manufatto, la cui altezza doveva aggirarsi intorno al metro e mezzo con un grande diametro del corpo. Del fondo-piede del contenitore si sono individuate due varianti principali, una semplice, con base piana leggermente arrotondata, l’altra con distinzione della base stessa, cioè del piede, rispetto alla parte inferiore del corpo. Si ritiene verosimilmente che gran parte dei pithoi fosse prodotta in loco: in effetti, il trasporto di questi grandi manufatti da luoghi di produzione molto lontani risultava eccessivamente dispendioso ed era quindi preferibile produrli sul posto. Oltretutto, le stesse caratteristiche dell’argilla impiegata, ad un esame macroscopico, li assimilano a produzioni di quest’area. Ad oggi non esistono studi sistematici su questa classe di manufatti in terracotta e risulta difficoltoso inquadrare cronologicamente gli esemplari rinvenuti in contesti archeologici. Le caratteristiche sono spesso indistinguibili da un secolo all’altro, ricorrendo senza grandi differenze da età arcaica ad epoca tardoellenistica. Caratteristico è il bordo a tesa più o meno spesso e pronunciato e la forma globulare più o meno slanciata, con altezze che spesso raggiungono quasi 2 metri. Quelli di Pizzo Cilona si possono datare genericamente al V-IV secolo a.C. semplicemente perché è quella l’epoca di occupazione del sito attestata dalle classi ceramiche presenti. Figg. 35-38. In alto: profilo di tre esemplari di pithoi. Al centro, pithoi di tipo A e B. In basso, dettaglio dell’argilla ricca di inclusi impiegata nei manufatti di produzione locale.

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La caratteristica degli impasti dei pithoi e altri manufatti in terracotta è ben riconoscibile nel territorio di Caronia ed è costantemente caratterizzata da impiego di quarzite e pietrisco scistoso violaceo

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Il phrourion di Pizzo Cilona

Figg. 39-43. In alto: coppetta a vernice rossastra di produzione coloniale dalla “Casa ω” e elemento di macina in pietra lavica giacente nel pendio a sud dell’Edificio γ. Al centro: veduta del tratto di fortificazione nell’altura di sud-ovest dalla sommità di Pizzo Cilona e tratto di muro in affioramento a est dell’Edificio γ. In basso: crollo di mattoni crudi nell’ambiente α”

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia commerciale tirrenica, già nota con il toponimo di καλὴ ἀκτή molto prima della omonima città di Ducezio. L’assenza di materiali greci sicuramente riferibili ad epoca arcaica, in particolare di vasellame fine meglio riconoscibile rispetto ad altre classi di materiali, tuttavia solleva alcuni quesiti sia sotto l’aspetto cronologico dell’insediamento sia dei rapporti tra esso e l’abitato greco sulla costa. La poca distanza tra i due rende poco plausibile l’ipotesi che non siano intercorsi rapporti di qualche tipo, con scambio di manufatti e conoscenze. Ceramiche di tipo indigeno sono finora sconosciute nei livelli di VI-V secolo a.C. dell’insediamento greco sulla costa. La conseguenza di queste constatazioni investe la stessa cronologia dell’abitato di Cilona che, a fronte della presenza diffusa di ceramiche d’impasto che potrebbero essere datate, in base ad un superficiale confronto con i rinvenimenti da altri siti siciliani, sin dall’Età del Ferro ed almeno fino al VI-V secolo a.C., si daterebbero invece molto più tardi, addirittura nella seconda metà del V se non ancora nella prima metà del IV secolo a.C. Pertanto, tenendo conto di una simile ipotesi, cambierebbe l’intera impostazione sulle fasi di vita di questo piccolo centro dell’entroterra. Sebbene, infatti, abbiamo prima ipotizzato due fasi di occupazione del sito in continuità tra la fine del VI – inizi V e la prima metà del IV secolo a.C., potremmo invece ritenere che il phrourion di Pizzo Cilona sia effettivamente nato come tale, probabilmente in concomitanza con la fondazione di Kalè Akté, quale baluardo difensivo nella parte interna del territorio. La sua nascita, pertanto, si collocherebbe negli anni centrali del V secolo e potrebbe trattarsi di una postazione di Herbita che effettivamente partecipò alla fondazione di Kalè Akté. Colpiscono, piuttosto, in una fase così avanzata, le modalità abitative, molto semplici e apparentemente disagevoli nonostante ormai le tecniche edilizie di tipo greco fossero state assimilate dovunque, e la persistenza di una cultura materiale molto arcaica ravvisabile nell’uso di contenitori ceramici ancora modellati a mano con argille poco lavorate. L’insediamento si collocava lungo il percorso interno che dall’area dell’ennese giunge fino alla costa, superando la barriera naturale costituita dalle principali cime di questo settore dei Nebrodi e rasentando a mezza costa le pendici collinari ad est del fiume. Doveva trattarsi di un itinerario risalente ad epoca arcaica che fu ripercorso nel corso dei secoli quale principale via di comunicazione tra Kalè Akté – Calacte e l’entroterra.23 La scelta del sito non fu quindi casuale ma consentiva di controllare la tratta terrestre mare-monte e l’intero sistema collinare che si sviluppa ad ovest del fiume. Lo scopo per cui fu insediato il phrourion condizionò sino alla fine le modalità insediative: unità abitative di piccole dimensioni, generalmente a uno o due ambienti, con tetti in materiale deperibile, realizzate laddove meglio il substrato roccioso si prestava ad essere regolarizzato per ricavare pareti e piani calpestabili.

Conclusioni preliminari Le indagini svolte a Pizzo Cilona hanno posto la questione circa le modalità di occupazione del territorio in una fase ancora poco conosciuta per l’intero settore dei Monti Nebrodi e che solo grazie alle ricerche degli ultimi anni si va rivelando. L’esperienza acquisita da chi scrive suggerisce che, dietro semplici avvistamenti di materiali o di strutture troppo in fretta liquidate in analisi sommarie, si possano celare importanti testimonianze archeologiche, che possono fare luce sulle reali vicende di questa parte dell’isola in epoca arcaica e classica. Tradizionalmente si è ritenuto che il tratto compreso tra l’avamposto di Mylai e la colonia di Himera fosse rimasto fuori dalla sfera di influenza greca e non si è indagato più di tanto sulle modalità di occupazione di un settore molto ampio dell’isola prima dell’età ellenistica, quando sorgono vere e proprie città da studiare applicando i criteri collaudati della ricerca archeologica tradizionale. Le recenti acquisizioni avvenute attraverso gli scavi, preliminarmente pubblicati, effettuati a Gioiosa Guardia,20 all’estremo confine orientale dei Nebrodi, quelle ricavabili da ricerche personalmente eseguite a Monte Scurzi, i ritrovamenti più ad ovest a Pizzo Governatore (contrada Arìa) al confine tra Caronia e S. Stefano di Camastra,21 nonché i dati degli scavi archeologici a Marina di Caronia – c.da Pantano e quelli ricavati dal rinvenimento fortuito di materiali greci di epoca arcaica e tardoarcaica,22 sollevano nuovi quesiti e mettono in dubbio posizioni che si ritenevano acquisite. Sembra, piuttosto, che quest’ampia area abbia subito una evidente influenza di tipo greco, agevolata da esigenze commerciali, con processi di ellenizzazione che si avviano a partire già dalla fine del VII secolo a.C. verosimilmente ad opera di Zancle-Messina. Tuttavia, la serie di insediamenti indigeni disposti su alture, apparentemente isolati, sembra avere mescolato tali influenze con le proprie tradizioni e la cultura materiale affermatasi nel corso di molti secoli di occupazione dell’area, che permangono sostanzialmente per tutta l’età greca classica, con fenomeni di commistione i cui aspetti e la cui entità rimangono ancora incerti. Pizzo Cilona fu sede di un abitato indigeno, forse collegato alla città di Herbita nota dalle fonti, ancora oggi cercata nel settore centro-occidentale dei Nebrodi, che pare avere avuto il controllo di questo settore dell’isola fino alle fondazioni di Kalè Akté e Halaisa. Quell’importante centro siculo dovette esercitare un controllo capillare su un vasto territorio attraverso una serie di abitati sparsi sui rilievi dei Nebrodi occidentali e, tramite essi, governare tutto il settore pedemontano fino alla costa. Dovrebbero essere ipotizzabili stretti contatti del nostro piccolo centro dell’interno con l’abitato greco costiero in vita già nel VI secolo a.C., probabile postazione di Zancle sulla costa, emporion sulla rotta

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Tigano, Coppolino 2008 Delle ricerche condotte dall’autore in questi siti si darà pubblicazione in un futuro volume di questa serie 22 Vedi Cap. 4 e Approfondimenti - Ceramiche arcaiche e classiche dall’abitato costiero. Nuovi dati sulla presenza greca lungo la costa tirrenica in età coloniale: fu Kalè Akté un Emporion? in questo volume 21

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Di uno di questi percorsi internati si ha notizia per il I secolo a.C. da Cicerone per la tratta Calacte – Amestratos e da qui, probabilmente, verso l’entroterra tra Nebrodi e Madonie

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Il phrourion di Pizzo Cilona

Figg. 44-49. Materiali di superficie: porzione di contenitore in ceramica d’impasto con presa a U capovolta (fine VI-V secolo a.C.); presa di bacino/mortarium con testa di gorgone di produzione imerese (ultimi decenni V secolo a.C.); frammenti di ceramiche a vernice nera di produzione coloniale (V-prima metà IV secolo a.C.); frammento di bordo di anfora pseudo-chiota (V-metà IV secolo a.C.); placca in bronzo a forma di Y con fori; placchetta o arma in bronzo con fori all’estremità per l’attacco a un supporto in materiale deperibile e serie di globetti impressi

I nuclei familiari che vi si stabilirono erano impegnati in attività domestiche, quali la filatura della lana (attestata dalla cospicua presenza di pesi da telaio) e l’immagazzinamento e la lavorazione (macine in pietra lavica rinvenute) dei cereali. Inoltre, la presenza di un fitto bosco appena fuori l’abitato permetteva di disporre in abbondanza di legname da utilizzare in piccole fornaci

domestiche per fabbricare manufatti ceramici e per il riscaldamento. Dopo la fondazione di Kalè Akté, una continua spola doveva avvenire con la città-madre posta su una collina ben visibile pochi chilometri a nord. Eventi non noti o piuttosto nuove strategie di controllo del territorio determinarono prima della metà del IV secolo l’abbandono dell’insediamento fortificato.

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia Nielsen 2002 = T.H. Nielsen, Phrourion. A note on the term in classical sources an in Diodorus Siculus. T.H. Nielsen, Even More Studies in the Ancient Greek Polis. Stoccarda 2002, pp. 49-64 QdAN = AA.VV., Quaderni di Archeologia Nebroidea. Vol. I, Santo Stefano di Camastra. Capo d’Orlando 2012 Scibona 1987 = G. Scibona, s.v. “Caronia. BTCGI V, PisaRoma 1987, pp. 8-15 Spatafora 2003 = F. Spatafora, Monte Maranfusa. Un insediamento nella media valle del Belice. L'abitato indigeno. Palermo 2003 Spatafora 2009 = F. Spatafora, Monte Triona. C. Ampolo, Immagine e immagini della Sicilia e delle Isole del mediterraneo, VI Giornate Internazionali di Studi sull’Area Elima (Erice ottobre 2006). Pisa 2009, pp. 653-659

Fig. 50. Paesaggio agro-pastorale sulla cima di Pizzo Cilona: mucche al pascolo e veduta verso l’entroterra

Spatafora 2009b = F. Spatafora, Spazio abitativo e architettura domestica negli insediamenti indigeni della Sicilia occidentale, M.B. Belarte, L’espai domèstic i l’organitzaciò de la societat a la protohistòria de la Mediterrània occidental, Atti del Convegno (Calafell-Tarragona 6-9 marzo 2007), Arqueo Mediterrània, 11/2009, pp. 363-377

Il futuro approfondimento delle indagini a Pizzo Cilona, possibilmente anche attraverso l’esecuzione di saggi di scavo e l’esplorazione della necropoli, aggiungerà senz’altro nuovi tasselli alla comprensione della cultura indigena di questa parte di Sicilia nel momento in cui si consolidavano i contatti con il mondo greco. La natura ha fortunatamente preservato un sito interessantissimo, non più occupato dall’uomo dopo il suo abbandono, in un ambiente incontaminato, e questo costituisce un vantaggio per chi intendesse eseguire studi approfonditi destinati ad una ricostruzione completa delle vicende storiche dell’area calactina e, in genere, della Sicilia centro-settentrionale.

Spatafora 2013 = F. Spatafora, Tracce di culto nell’entroterra sicano: il santuario di Cozzo Spolentino (Palermo). L’Occident Grec de Marseille à Mégara Hyblaea. Hommages à Henry Treziny. BiAMA 13, 2013, pp. 277-294 Spatafora et alii 2011 = F. Spatafora, A.M.G. Calascibetta, M. Chiovaro, L. Di Leonardo, S. Vassallo, L'uso della terra cruda nella Sicilia centro-occidentale: attestazioni e documentazioni. Earth/Lands. Earthen Architecture in Southern Italy, Pisa 2011, pp. 201-225

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Tavole a colori Color plates

Tavole a colori

Tav. I. Vedute di Caronia, sito dell’antica Kalè Akté - Calacte: in alto, veduta aerea da est del promontorio e dei rilievi occidentali affacciati sulla costa tirrenica; al centro, la collina di Caronia da sud-est; in basso, la cittadina costiera di Marina di Caronia da est

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. II. Collina di Caronia. Strutture antiche in affioramento a seguito di fenomeni naturali o sbancamenti agricoli/edilizi (Cap. 3): in alto, strutture affioranti in parete lungo una strada campestre in c.da sotto S. Francesco (Area A2); al centro, piano in laterizi (cortile?) e muro est-ovest nell’area A2; crollo murario di epoca altoimperiale nell’Area A7; in basso, resti di strutture abitative nell’area A3 e lacerto di pavimento in signinum proveniente dall’Area A2

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Tavole a colori

Tav. III. Collina di Caronia. Strutture antiche in affioramento a seguito di fenomeni naturali o sbancamenti agricoli/edilizi (Cap. 3): area retrostante le Case Popolari con stratigrafie plurifase venute in luce a seguito di frane un cinquantennio dopo lo sbancamento eseguito per la costruzione dell’edificio. Ambienti α e β: al centro e in basso, crollo di mattoni crudi che sigilla livelli altoellenistici (affioramento di lekythos a v.n. frammentaria, strato di bruciato e anfora con orlo a echino). In basso a destra, planimetria di resti venuti in luce (in rosso, ambienti di epoca classica e altoellenistica, in azzurro e viola, strutture di epoca tardoellenistica e imperiale)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. IV. Collina di Caronia. Strutture antiche in affioramento a seguito di fenomeni naturali o sbancamenti agricoli/edilizi (Cap. 3): in alto, definizione dei livelli di frequentazione per fase all’interno dell’ambiente b nell’area retrostante le Case Popolari. Al centro e in basso, scavi 2005 in c.da sotto S. Francesco: strutture abitative plurifase disposte su due livelli, dalla fine del IV secolo a.C. al I secolo d.C. con parziale rioccupazione nel IV-V secolo d.C.

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Tavole a colori

Tav. V. Collina di Caronia. Strutture antiche in affioramento a seguito di fenomeni naturali o sbancamenti agricoli/edilizi (Cap. 3): contrada Telegrafo, edificio abitativo messo in luce da lavori di terrazzamento agricolo con alta parete costruita in laterizio e tratto di strada gradonata con piano in acciottolato orientata nord-sud (Area C3)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. VI. Materiali dalla collina di Caronia: selezione di manufatti da ricognizione (Cap. 3). Tra gli altri: n. 8. Frammenti di ceramica indigena a decorazione geometrica; n. 10. Sigillo mercantile in piombo con simbolo della polis di Halaesa; n. 21. Presa di foculum con raffigurazione di volto umano; n. 27. Presa di bacino in pietra calcarea; 28. Frammenti di “red pompeian ware”; n. 29. Frammento di contenitore con impronta di stuoia sulla superficie esterna; n. 35. Elemento architettonico in terracotta con decorazione a onde continue; n. 36. Lembi di pavimenti a mosaico

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Tavole a colori

Tav. VII. Materiali dalla collina di Caronia: selezione di manufatti da uno scarico (votivo?) sul versante orientale (Cap. 3). Tra gli altri: n. 2. Applique di ansa di olpe (?) a vernice nera; n. 10. Coppa skyphoide “concavo-convessa”; nn. 11-12. Teste frammentarie di statuine fittili di Hermes; nn. 15-17. Ceramica iberica; nn. 20-21. Coppe skyphoidi con ansa orizzontale di probabile produzione locale; n. 22. Parte interiore di statua in terracotta di probabile divinità femminile (Demetra/Kore?); n. 24. Piccolo frammento di coperchio di lekane decorata nello stile di Gnathia

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. VIII. Materiali dalla collina di Caronia: rinvenimenti dall’area delle Case Popolari – Ambiente β (Cap. 3). Tra gli altri: nn. 1-4. Frammenti di ceramiche indigene dai livelli di fine V secolo a.C.; n. 6. Frammento di lekythos a figure rosse; n. 10. Skyphos a vernice nera; n. 12. Pomello di lekane con decorazione sovradipinta (fiore); n. 14. Vasca di lekane; n. 18. Lopadion; n. 25. Frammento di vaso in bronzo dai livelli di occupazione tardoellenistica-altoimperiale; n. 28. Coppa in sigillata africana A

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Tavole a colori

Tav. IX. Materiali dalla collina di Caronia: intonaci e stucchi (Cap. 3). Selezione di frammenti recuperati da due discariche moderne sul versante orientale della collina (Aree A9 e A10). Frammenti nn. 1-10, nn. 11-12 e n. 14 da deposito di intonaci/stucchi in A10 (propr. La Marchina); nn. 13 e 15 da deposito di intonaci in A9. N. 11. Perline e tondelli in pietra e osso originariamente apposti in una cornice di stucco a formare una fila decorativa

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. X. Materiali dalla collina di Caronia (App. II-III-IV-VI). In alto: meridiana in pietra calcarea tardoellenistica dall’Area A9 e iscrizione greca (SEG LIX, 1102) dall’Area A7 (versante orientale della collina di Caronia). In basso, selezione di frammenti di sigillata italica decorata e con bolli. In basso a destra, esemplari con bollo “DOMITI” di probabile produzione siciliana

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Tavole a colori

Tav. XI. Collina di Caronia. Materiali dalla necropoli meridionale (collezione privata, Cap. 5). Dall’alto in basso: lekythos siceliota a figure rosse; lekanai; unguentaria e alabastron; coppa a decorazione sovradipinta in stile Gnathia; pelikai; figurine fittili; mortarium; lekythoi tipo Pagenstecher; contenitore biansato bitroncoconico (seconda metà IV – seconda metà III secolo a.C.)

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. XII. Aerofotogrammetrie degli scavi 2003-2005 in contrada Pantano a Marina di Caronia (Cap. 4). Figg. 1-3: Edifici A e B; fig. 4: a destra, saggio IV; fig. 6: ambienti Γ−Ο con resti di pavimentazione in cocciopesto; fig. 7: ambiente con piano in laterizi all’interno dell’amb. Η; fig. 8: sovrapposizione di strutture nell’Edificio A (fase A in rosso, fine IV – prima metà III secolo a.C.; fase B in azzurro, post 2a metà III sec. a.C.; fase C in bianco, post V secolo d.C.); fig. 9; saggio di approfondimento sotto l’ambitus tra gli Edifici A e B (foto Archivio Soprintendenza di Messina)

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Tavole a colori

Tav. XIII. Materiali recuperati da una discarica a Marina di Caronia (App. I). Ceramiche tardoarcaiche e classiche (metà VI –IV secolo d.C.). In alto a sinistra, strumento in ossidiana

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Studia Calactina I: Ricerche su una città greco-romana di Sicilia

Tav. XIV. Materiali recuperati da una discarica a Marina di Caronia (App. I). Ceramiche e anfore: fine VII secolo a.C. – I secolo d.C.). In basso, frammenti di probabile hydria a decorazione geometrica e anse di skyphoi a vernice nera

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Tavole a colori

Tav. XV. Rinvenimenti a seguito di frane in c.da Lineri: strutture e materiali (Cap. 7). Figg. 1-2. Resti murari affioranti nel sito L4 (propr. Calcavecchia); figg. 3-6. Resti murari e materiali affioranti nel sito L2 (area ex officina Todaro); fig. 6. Vaso in bronzo in affioramento; figg. 7-15. Materiali ceramici e in metallo dal sito L2 (n. 7. Brocca a fondo piano; nn. 10-11. Anse di vasi in bronzo; n. 12. Spatola in piombo, probabile strumento usato nel laboratorio in cui si producevano manufatti in vetro; n. 13. Scarti di lavorazione del vetro, n. 14. Bordo di anfora Tripolitana III); figg. 1621. Materiali dal sito L4 (nn. 18-20. Frammenti di sigillata italica; n. 21. Porzione di anfora vinaria tipo Termini Imerese 151/354)

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Tav. XVI. Rinvenimenti in siti indigeni-ellenizzati nel territorio (Cap. 7 e App. VII): insediamenti di contrada Arìa (nn. 1-13) e Pizzo Cilona (nn. 14-25). Contrada Arìa: figg. 1-3 e 9. Ceramiche di produzione indigena: hydria, cratere, bacino in ceramica d’impasto usato come cinerario, scodella in ceramica grezza); figg. 4-8 e 10-13. Ceramiche di produzione coloniale. Pizzo Cilona: fig. 14. Ceramiche d’impasto in afforamento nella Casa α; figg. 15-16. Ceramiche modellate a mano dall’area dell’Edificio γ; figg. 20-21. Pesi da telaio decorati dall’area dell’Edificio γ; fig. 23. Pesi da telaio dalla Casa ω; fig. 25. Bordo di pithos di produzione locale che evidenzia le caratteristiche dell’argilla impiegata

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