Nessuno escluso. Formazione, inclusione sociale e cittadinanza attiva 9788820761004, 9788820761011

Nel dibattito internazionale i temi dell'inclusione sociale e della cittadinanza attiva si sono sempre più affermat

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Nessuno escluso. Formazione, inclusione sociale e cittadinanza attiva
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Studi sull’educazione 81 Collana diretta da P. Orefice e E. Frauenfelder (*)

(*) Fondata da R. Laporta e P. Orefice.

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Nessuno escluso. Formazione, inclusione sociale e cittadinanza attiva a cura di Paolo Valerio, Maura Striano, Stefano Oliverio

Liguori Editore

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Comitato scientifico e Referee: Lucia Ariemma (Seconda Università degli Studi di Napoli), Gianni Boscolo (Università Nazionale di Bahia del Brasile), Franco Cambi (Università degli Studi di Firenze), Michele Corsi (Università degli Studi di Macerata), Patrizia de Mennato (Università degli Studi di Firenze), Ornella De Sanctis (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli), Paolo Federighi (Università degli Studi di Firenze), Yaacov Iram (Bar-Ilan University, Israele), Bruno Rossi (Università degli Studi di Siena), Vincenzo Sarracino (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli), Ekkehard Nuissl von Rein (Università degli Studi di Francoforte), Simonetta Ulivieri (Università degli Studi di Firenze), Gonzalo Zapata (Università Cattolica del Cile).

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I volumi pubblicati in questa collana sono preventivamente sottoposti a una doppia procedura di “peer review”

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2. Democrazia I. Titolo II. Collana III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice

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IX

Introduzione

Parte I Il prisma dell’inclusione 3

Alta formazione e inclusione sociale di Maura Striano

19

Il corretto impiego delle tecnologie per la reale inclusione degli studenti con disabilità di Alessandro Pepino, Gennaro Sicignano, Fiorentino Ferraro, Stefania Grasso

45

Il bullismo omofobico: inquadramento teorico e strategie di prevenzione e contrasto di Anna Lisa Amodeo, Cristiano Scandurra, Paolo Valerio

69

L’ordine dell’escluso. Mettere la vita al mondo e dare mondo alla vita. L’offerta della filosofia di Giuseppe Ferraro

Parte II L’inclusione e il mondo della scuola 95

Inclusione e cittadinanza attiva di Lucia de Anna

119

L’orientamento come dispositivo formativo per l’inclusione sociale di Stefania Fiorentino

141

L’insegnante di sostegno per una cultura dell’inclusione e del benessere: profilo e competenze di Elisabetta Grieco

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VIII

179

Indice

L’inclusione scolastica secondo la prospettiva dei diritti umani di Emilia Napolitano

Parte III L’inclusione e il contesto universitario 191

Inclusione attiva e partecipazione nella prospettiva di critical management. L’aula come organizzazione e lo studente come risorsa umana

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di Luigi Maria Sicca

231

L’impatto della disabilità e della malattia cronica nella tardoadolescenza

255

Bullismo omofobico e stigma di genere: aspetti teorici e riflessioni a margine di un intervento formativo in un contesto universitario

di Julia Segal

di Claudio Cappotto, Anna Lisa Amodeo, Paolo Valerio

275

Esperienze d’uso delle tecnologie a supporto di studenti universitari con disabilità di Alessandro Pepino, Gennaro Sicignano, Fiorentino Ferraro, Marco Tammaro

Parte IV L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione 291

Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili attraverso l’implementazione di azioni e strategie di rete di Fabio Corbisiero

315

Laureati con disabilità e inserimento lavorativo: esperienze e prospettive

323

Il chiasma inclusione-interdisciplinarità: appunti teorico-pedagogici sui professionisti nel campo dell’inclusione

di Carlo Paribuono

di Stefano Oliverio

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Introduzione

La dizione “Nessuno escluso” non è di solito una proposizione a sé stante ma si riferisce ad altri segmenti semantici, di cui rappresenta una precisazione o specificazione. Si pensi a frasi come “siete tutti invitati, nessuno escluso” o “siamo tutti responsabili, nessuno escluso”. L’espressione si presenta come una sorta di epifrasi o epesegesi, ossia l’aggiunta o specificazione dettagliata di quanto asserito in una parte precedente dell’enunciato, ovvero potrebbe talora addirittura suonare come una specie di epifonema, ossia la sintesi – enfatica e sentenziosa – di un discorso (prendendo queste indicazioni come suggestioni più che come una vera analisi stilistico-retorica). In questo senso, il titolo del presente volume, che adopera invece l’espressione in modo ‘assoluto’, rischia di essere sbagliato o, almeno, forzato rispetto all’uso linguistico. Perché, allora, indulgere in quello che, nella migliore delle ipotesi, è una licenza o una piccola violenza inflitta al linguaggio e, nella peggiore, un errore da matita blu, la trasgressione di una regola di correttezza espressiva? Che cosa si cerca di enunciare (ma anche annunciare e financo denunciare) ‘assolutizzando’ la locuzione “Nessuno escluso”? Che cosa possiamo imparare dagli usi linguistici giustificati della dicitura e dalle loro possibili violazioni? Dato che le norme di funzionamento della lingua non sono mai del tutto arbitrarie e taluni crampi linguistici rimandano a fondamentali nodi teorici delle nostre forme di leggere il reale e di codificarlo, indugiare – sia pur cursoriamente – sulle valenze semantiche del titolo del volume può consentire un accesso efficace a ciò che nella prima parte abbiamo definito il prisma dell’inclusione. Il carattere ‘epifrastico’ della locuzione “Nessuno escluso” sembra rinviare anzitutto a un aspetto fondamentale: l’esclusione è sempre contestuale, ossia è sempre legata a specifiche pratiche, non è mai totale. In altre parole, l’inclusione si definisce in relazione a una struttura/

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Introduzione

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X

configurazione/costellazione da cui qualcuno è escluso. Ciò implica che non si può studiare l’inclusione in astratto ma solo in situazione. E solo in situazione ci si può porre la questione di come rimuovere gli ostacoli e le barriere che provocano esclusione. Questa ‘circostanzialità’ (in tutte le accezioni del termine) del fenomeno inclusione è alla base di uno dei tratti dei contributi che costituiscono il volume: la loro variegatezza. Se, infatti, la questione esclusione/inclusione non si dà se non all’interno di determinati orizzonti, è cruciale uno studio ‘circostanziato’, che l’approfondisca secondo i suoi diversi profili. Di qui la scelta di coinvolgere studiosi che spaziano dalla disabilità al genere alle questioni legate al carcere: non si tratta tanto di compilare un catalogo delle esclusioni ovvero di essere colti da quella che Umberto Eco ha chiamato vertigine della lista1, ma di accostarsi al tema dell’inclusione rispettandone le specificità, riconoscendo le peculiarità di ogni forma di esclusione subíta (e di progetto di inclusione avanzato), enfatizzando che parlare di esclusione in astratto, pronunciare cioè un ‘Nessuno escluso’ generico e indifferenziato, può costituire l’anticamera di possibili esclusioni, nella misura in cui le persone, con le proprie storie e col proprio carico di emarginazione o lateralità, vengono ridotte a un ‘nessuno’, a un pronome che, volendo sancire la generalità e universalità del diritto all’inclusione, rischia invece solo di marc(hi)are di anonimato i soggetti. D’altra parte, però, siffatta variegatezza, che cerca non già di censire tutte le forme di esclusione (compito impossibile in via di principio) ma di accennare alla loro molteplicità, trova un’unità nel focus sulla formazione, l’asse intorno a cui si organizzano le diverse facce del prisma. L’interrogazione condotta in questo libro sul tema dell’inclusione è intimamente legata all’idea che le pratiche educative possano rappresentare un volano privilegiato per promuovere inclusione e, quindi, gli ‘affondi’ sull’inclusione sono sempre legati a una prospettiva formativa. Il che implica, però, al contempo, un’asserzione di grande momento, ossia che si danno pratiche autenticamente educative solo quando esse funzionino come veicolo di inclusione e non come fattore di esclusione. In altre parole, si deve pensare al binomio inclusione-educazione come a una sorta di endiadi (per continuare ad

1

U. Eco, Vertigine della lista, Milano: Bompiani, 2012.

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Introduzione XI

arpeggiare sul registro stilistico-retorico da cui si sono prese le mosse): come non c’è inclusione possibile senza (anche) pratiche educative che favoriscano lo sprigionamento del potenziale dei soggetti (di tutti i soggetti, nessuno escluso) e sostanzino il progetto di una democrazia come forma di vita associata (contrassegnata dalla cittadinanza attiva), così il carattere genuinamente ‘educativo’ di progetti/istituzioni può essere vagliato sulla misura in cui promuovano effettiva inclusione. Per uscire dalla rarefazione del linguaggio teorico: si possono chiamare ‘educative’ istituzioni (sia la scuola o l’università o altre) che non mettono tutti, nessuno escluso, in condizione di fiorire con la propria personalità e di accedere alla comunicazione sociale? La risposta del volume è un netto ‘no’, e ciò significa che con la nozione di inclusione si ha non solo un obiettivo dell’educazione ma un criterio per riconoscerla nella sua ‘essenza’. Siffatto impianto argomentativo, che, da un lato, si interroga su come promuovere l’inclusione all’interno dei contesti educativi e formativi e, dall’altro, considera l’inclusione un criterio dell’educazione, intende evitare, però, al contempo uno dei pericoli cui si va incontro, quando ci si approccia a queste tematiche, quello che Depaepe e Smeyers hanno sagaciamente definito pedagogizzazione dei problemi sociali2, ossia la tendenza a delegare al mondo dell’educazione il trattamento o la soluzione delle emergenze sociali. Niente è più estraneo agli intenti di questo volume. I curatori – e molti degli autori – non sono solamente studiosi, ma sono impegnati, per lo più all’interno dei contesti dell’alta formazione, in progetti rivolti alle persone a rischio di esclusione. Si è quindi consapevoli, talora in modo addirittura doloroso, di come la formazione/educazione sia solo un tassello del puzzle di una compiuta politica di inclusione, e che molte altre variabili (economiche, giuridiche, etc.) sono in gioco. Invocare l’inclusione come criterio dell’educazione non è, quindi, in alcun modo un avocare all’educazione la soluzione delle (troppe) esclusioni che piagano una società (ancora) in cammino verso la democrazia realizzata, bensì è un rammentare che pratiche educative che non accolgano entro sé l’appello dell’inclusione tradiscono se stesse in quanto educative, si

2

P. Smeyers, M. Depaepe (eds.), Educational Research: Educationalization of Social Problems, Berlin: Springer, 2009.

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XII

Introduzione

auto-condannano in altri termini a essere dispositivi di conformazione e di perpetuazione dello status quo, a configurarsi al più come pratiche di mera socializzazione e qualificazione ma non anche di soggettivazione, per riprendere una feconda distinzione operata da Gert Biesta3. Ma, allora, per tornare al nostro punto di partenza, perché assolutizzare la locuzione “Nessuno escluso”? Perché sfumarne il carattere epifrastico, di ‘aggiunta’, e scoccarla come uno slogan, una parola d’ordine assoluta? Perché piegare così il linguaggio? La prima ragione è che quel ‘carattere epifrastico’ invale lì dove a parlare sia un ‘noi’ già ‘integrato’. Se dico, “Siete tutti invitati, nessuno escluso” o anche “Tutti gli studenti debbono ricevere supporto, nessuno escluso”, il soggetto dell’enunciazione è ben installato nella propria posizione e si sente legittimato a estendere servizi, diritti, possibilità ad altri. Ma l’inclusione, per come viene intesa in questo volume, è lungi dall’essere un processo così rassicurante (e irenico, se non anche paternalistico), in cui c’è un polo attivo che dispensa disponibilità all’inclusione e un polo – in ultima istanza passivo – che ne beneficia. Questa non è inclusione (che richiede sempre un coinvolgimento attivo e una partecipazione dei soggetti) ma, al massimo, integrazione. L’inclusione parte sempre da un appello rivolto da chi è ‘fuori’, ha sempre a che fare – per adoperare una bella espressione di José Medina – con un parlare da un altrove4. Il noi-dispensatore-di-disponibilità-alla-inclusione è così interpellato e messo in discussione, nell’accezione etimologica 3

«Una funzione importante dell’educazione – delle scuole e di altre istituzioni educative – risiede nella qualificazione di bambini, giovani e adulti. Risiede nel fornire loro le conoscenze, le abilità e i modi di comprendere e spesso anche le disposizioni e le forme di giudizio che consentano loro di “fare qualcosa” – un “fare” che spazia dal molto specifico (come accade per l’addestramento per un lavoro o professione particolare o quello per una particolare abilità o tecnica) al molto generale (come l’introduzione alla cultura moderna, o l’insegnamento delle life skill etc.). […] La funzione di socializzazione ha a che fare con i molti modi in cui, attraverso l’educazione, diveniamo parte di particolari “ordini” sociali, culturali e politici. […] L’educazione, tuttavia, non contribuisce solo alla qualificazione e alla socializzazione ma ha un impatto anche su ciò che potremmo chiamare individualizzazione o, come preferisco definirla, soggettivazione, il processo del divenire un soggetto …» (G. Biesta, Good Education in an Age of Measurement. Ethics, Politics, Democracy, Boulder and London: Paradigm Publishers, 2010, pp. 19-21). 4 J. Medina, Speaking from Elsewhere. A New Contextualist Perspective on Meaning, Identity, and Discursive Agency, Albany (NY): SUNY Press, 2006.

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Introduzione XIII

di ‘scuotere’. Quelle che possiamo chiamare le ‘voci di fuori’ segnalano che, rebus sic stantibus, se le cose rimangono invariate e si pensa solamente – con le migliori intenzioni, sia ben inteso – di estendere gli assetti attuali, nessuna inclusione reale è possibile. È come se le ‘voci di fuori’ ricordassero, al noi-dispensatore-di-disponibilità-allainclusione, che proprio quegli assetti le hanno emarginate; è come se dicessero, decostruendo la locuzione ‘nessuno escluso’, ribaltandola e risignificandola: “Proprio questi ordinamenti ci hanno escluse e ci hanno reso un nessuno”. Sono solo le ‘voci di fuori’ che danno colore e tratti definiti al nessuno dell’esclusione, sono da loro che apprendiamo – noi che vogliamo ‘includerle’ – chi sono, qual è la loro storia, che cosa desiderano perché la loro vita sia significativa. Ma ciò richiede che siamo disposti a ri-negoziare gli ordinamenti, a riscrivere, insieme con coloro che sono marginalizzati, le regole del nostro consorzio civile, non limitandoci a estendere gli assetti vigenti, che hanno prodotto un ‘nessuno’ generico e anonimo. Assolutizzare, nel titolo, la locuzione, strapparla al suo carattere epifrastico, tenta, quindi, di veicolare il ‘salto’ che l’inclusione costitutivamente è, intende mostrare come l’inclusione non si possa attuare come mero prolungamento di ciò che esiste, come epifrasi o epifonema del discorso dominante, ma deve accettare la disarticolazione e decostruzione di questo discorso, quale ci viene proposta da chi è altrove e ci invita non già a includerlo in ciò che c’è ma a creare insieme le condizioni di una co-esistenza inclusiva. La torsione cui è sottoposto il linguaggio nel titolo è figura delle sollecitazioni cui sono sottoposti i vocabolari e i lessici sociali una volta che venga presa sul serio la sfida dell’inclusione (che è connessa allo sbocciare delle diversità) e non venga ri-declinata e riassorbita nella pacificante cornice dell’identitario (e dell’identico). Il ‘Nessuno escluso’ del titolo ha, inoltre, un secondo significato: rinvia a una chiamata generale all’impegno, perché nessuna competenza (e nessun repertorio di saperi) può sentirsi esonerata dal cimento dell’inclusione. Che gli autori che hanno contribuito a questo testo siano bio-ingegneri e psicologi clinici, pedagogisti e tecnici informatici, sociologi ed economisti, non è un omaggio a una sorta di ecumenismo disciplinare, ma risponde alle esigenze poste da ciò che, nel saggio conclusivo del presente volume, si definisce il chiasma inclusione-interdisciplinarità, quell’allacciamento strutturale fra l’ottica complessa richiesta dai progetti di inclusione e il superamento

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XIV

Introduzione

delle compartimentazioni disciplinari che hanno caratterizzato molta scienza moderna5. Se quello che qui si è abbozzato è una sorta di ‘stemma’ dell’inclusione che presiede al presente volume, il tema viene calato, come già accennato, all’interno del mondo della formazione, con l’ultima sezione che slarga la questione all’universo del lavoro. Dopo che, nella prima parte, si fa il punto sul dibattito in materia di inclusione sociale, sulla scorta dei documenti internazionali, e si delineano tre facce del prisma (legate a disabilità, discriminazioni in base al genere e carcere), la seconda e la terza si focalizzano sulla scuola e l’università, secondo quella idea di continuità che Dewey ci ha insegnato essere un criterio primario dell’educazione. Nei capitoli della seconda parte, viene ricostruita (anche con un taglio storico) la politica di inclusione scolastica in Italia e fissata la prospettiva dei diritti umani come l’orizzonte insuperabile entro cui collocarla negli attuali scenari. Viene inoltre analizzata in maniera approfondita la figura dell’insegnante di sostegno (considerata nelle sue imperfette realizzazioni e nella sua potenzialità quale operatore di benessere) ed esaminato l’orientamento come dispositivo fondamentale per favorire l’inclusione. La terza parte, concernente l’università, accoglie contributi che, da un lato, mostrano l’intreccio delle dimensioni (psicologiche, pedagogiche e tecnologiche) che gli interventi in materia di inclusione all’interno dell’alta formazione richiedono e, dall’altra, esplorano due ambiti (disabilità e bullismo omofobico) in cui il compito dell’inclusione è particolarmente urgente e avvertito. Il saggio che apre la terza sezione costituisce anche un ponte verso la quarta parte: mobilitando l’ottica del critical management, esso consente di restituire al discorso sull’inclusione nei contesti dell’alta formazione una latitudine che talora si tende a smarrire, mostrando, fra l’altro, come l’inclusione degli studenti (tutti gli studenti, nessuno escluso) nella vita universitaria avvenga anche nella misura in cui essi esperiscano già all’università (in maniera consapevole, attiva e partecipata) dinamiche che ritroveranno nel mondo del lavoro. E proprio sull’universo del lavoro si chiude il volume, affacciandosi su una realtà decisiva: da un lato, si disegna (sulla scorta di 5 Paolo Orefice ha parlato, per cogliere questo carattere della scienza moderna ‘cartesiana’, di razionalità separata e disciplinare. Cfr. il suo Pedagogia scientifica, Roma: Editori Riuniti, 2009.

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Introduzione XV

un’analisi sociologica del Progetto ItaliaLavoro) lo scenario dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità attraverso un’attività di rete, dall’altro, si riflette sul nesso università-prospettive lavorative. La focalizzazione sul rapporto formazione-lavoro, nella prospettiva della cittadinanza attiva, è infatti cruciale, onde scongiurare che la formazione, lungi dall’essere un propulsore di inclusione, rappresenti solo un annacquato succedaneo di una progettualità esistenziale6 che miri alla vita indipendente7.

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I curatori

6

Sulla nozione di progettualità esistenziale cfr. il fondamentale G.M. Bertin, M.G. Contini, Educazione alla progettualità esistenziale, Roma: Armando Editore, 2004. 7 Quella di vita indipendente è, come noto, un’idea avanzata all’interno dei movimenti delle persone con disabilità, che ha trovato una sua ‘codificazione’ nella Dichiarazione di Madrid del marzo 2002.

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Parte I

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Il prisma dell’inclusione

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Alta formazione e inclusione sociale

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di Maura Striano

1. Dal Memorandum di Lisbona al Processo di Bologna: un framework Europeo per l’Alta formazione Nella seduta del 23 e 24 marzo 2000 il Consiglio Europeo, riunitosi a Lisbona, concordava un ambizioso obiettivo strategico per il decennio 2000-2010: «[D]iventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». Il raggiungimento di tale obiettivo ha richiesto la messa a punto di una specifica strategia finalizzata a creare le infrastrutture del sapere, promuovere l’innovazione e le riforme economiche, modernizzare i sistemi di previdenza sociale, d’istruzione e formazione. Il riconoscimento della conoscenza come struttura complessa in costante applicazione, decostruzione, ricostruzione ne ha evidenziato la funzione essenziale di vettore di sviluppo sociale e ha determinato, di conseguenza, il definirsi di una sistematica attenzione al rinnovamento delle politiche e delle pratiche della formazione intesa come principale dispositivo di costruzione e sviluppo del conoscere individuale e collettivo. Questi orientamenti hanno evidenziato la necessità di puntare alla costruzione e allo sviluppo di una “società della conoscenza” che richiede a tutti e a ciascuno di impegnarsi innanzitutto in un processo di apprendimento continuo in cui vengono a essere orchestrati insieme apprendimenti formali, non formali e non formali, in funzione dello sviluppo personale e professionale di individui e comunità di pratiche.

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Il prisma dell’inclusione

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4

È in questa prospettiva che si evidenzia il ruolo centrale dei sistemi d’istruzione e formazione e di tutti gli attori implicati nei processi di formazione. Ne deriva uno scenario in cui i sistemi formativi diventano «i principali vettori d’identificazione di appartenenza, di promozione sociale e di sviluppo personale»; sarà infatti solo attraverso l’istruzione e la formazione, acquisite sia nei contesti formali, sia in quelli professionali, sia in quelli informali, che «gli individui si renderanno padroni del loro futuro e potranno realizzare le loro aspirazioni»1. In tale scenario si è affermata con forza la necessità, da parte dell’Unione Europea e dei paesi membri, di accrescere gli investimenti destinati alla formazione, anche utilizzando forme di finanziamento complementari e sussidiarie e costruendo sinergie e forme di partenariato pubblico-privato. Il Memorandum di Lisbona ha, quindi, definito le coordinate per la messa a fuoco di una nuova idea di formazione, intesa come insieme di percorsi articolati in diversi ambiti (formali, non formali, informali) da realizzarsi in modo integrato e continuo, secondo la logica dell’apprendimento permanente a vantaggio di tutti e di ciascuno. In questo scenario è infatti profondamente mutato il modo di intendere l’apprendimento, i contesti in cui si produce, le forme che viene ad assumere e le finalità sociali cui è indirizzato. Esso viene a essere inteso come un processo che si dipana lifelong e lifewide, interessando tutto l’arco e tutti i contesti della vita, senza soluzione di continuità. Elementi portanti per la realizzazione della strategia di Lisbona (come è stato riconosciuto nel corso degli interventi di monitoraggio che si sono susseguiti dal 2000 al 2006) sono l’istruzione e il capitale umano. Agli Stati membri è di conseguenza richiesto di elaborare politiche volte a innalzare il livello d’istruzione dimezzando, in particolare, il numero di coloro che abbandonano gli studi e di mettere a punto dispositivi e strumenti a sostegno della formazione continua intesa come principale dispositivo di sviluppo umano e sociale.

1

E. Cresson (a cura di), Insegnare e apprendere. Verso la società della conoscenza, Bruxelles: European Commission 1995, p. 2

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Alta formazione e inclusione sociale 5

Obiettivo primario è che tutti debbano e possano beneficiare dei programmi di formazione permanente, incoraggiando il maggior numero possibile di cittadini a parteciparvi. In coerenza con tali coordinate si sono anche ridefiniti i modelli di progettazione e di erogazione della formazione, partendo dal presupposto che ogni intervento e ogni processo formativo debba essere costruito a partire dai bisogni, dagli interessi, dai requisiti sia dei singoli sia di specifiche categorie sociali. Ciò implica, come evidenzia il Memorandum di Lisbona, «un’importante transizione verso sistemi di formazione basati sulle esigenze dell’utente e caratterizzati da frontiere permeabili tra i diversi settori e livelli». All’interno di questo framework, i dispositivi di progettazione e di valutazione degli interventi e dei percorsi di formazione, in ambito formale e non formale, devono quindi fare riferimento in prima istanza ai bisogni formativi espressi e riconosciuti dalle parti interessate e devono dar conto di quanto e come tali bisogni sono stati tenuti in considerazione e soddisfatti. La progettazione formativa deve quindi identificare, a partire dalla ricognizione di tali bisogni, specifici obiettivi di apprendimento, descrivibili come abilità, conoscenze, competenze, che devono poter essere raggiunte e potenziate con interventi adeguatamente calibrati e orientati. Lo Spring European Council del 2006 ha identificato come principale criterio di valutazione della qualità dei sistemi educativi e formativi la misura in cui gli individui possono trarre pieno vantaggio dall’educazione e dalla formazione in termini di: opportunità; accesso; trattamento; risultati. Questi quattro indicatori rappresentano un parametro di riferimento essenziale per quanto riguarda tutti gli ambiti e i livelli della formazione. Nella strategia di Lisbona un ruolo centrale è giocato dall’accessibilità dell’offerta formativa sulla base di principi di equità e pari opportunità. Non bisogna dimenticare, infatti, che tra i benckmark individuati per monitorare la realizzazione degli obiettivi indicati dal Memorandum la Comunità Europea ha indicato il miglioramento delle condizioni di equità nei contesti della formazione.

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Il prisma dell’inclusione

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 2000) definisce il principio di pari opportunità come assenza di ostacoli alla partecipazione alla vita economica, politica e sociale di individui o gruppi sociali per ragioni connesse a fattori come il genere, la religione e le convinzioni personali, la razza, la provenienza, la presenza di una condizione di disabilità, l’età, l’orientamento sessuale. L’ottemperanza a questo principio in ambito formativo richiede, come presupposto preliminare, la rimozione di tutti gli ostacoli di ordine culturale, economico, fisico, sociale, che limitano la partecipazione di tutti e di ciascuno alla formazione continua, agendo con adeguate misure e interventi sul piano normativo, operativo, strutturale. Sullo scorta delle indicazioni date dalla Commissione Europea, processi e sistemi di formazione in Europa hanno, quindi, iniziato a subire una profonda trasformazione tenendo conto di una serie di specifici indicatori e parametri. Si è visto infatti che, in ingresso, l’accesso alla formazione deve essere facilitato e sostenuto con adeguati dispositivi e strumenti, che consentano di accompagnare l’inclusione attiva e partecipata di tutti coloro che ne hanno diritto all’interno dei circuiti formativi, a ogni livello. A tutti e a ciascuno deve poi essere garantito, in itinere, un trattamento adeguato al raggiungimento del successo formativo, con azioni e interventi attenti, flessibili, responsivi. In uscita, infine, i risultati di apprendimento attesi devono essere garantiti in diversi modi e forme, tenendo conto delle caratteristiche e delle differenze individuali e utilizzando dispositivi e strumenti utili all’assessment, documentazione e certificazione degli stessi. Nel quadro della strategia di Lisbona si iscrive anche il Processo di Bologna, che indirizza e regolamenta la creazione di uno Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore in stretta interconnessione con uno Spazio Europeo della Ricerca al cui interno lo sviluppo di società sempre più inclusive e innovative viene identificato come un focus di lavoro interdisciplinare di estrema rilevanza (Horizon 2020). Il Processo, avviato nel 1999, è monitorato da una varietà di organismi e agenzie: la Commissione Europea; il Consiglio d’Europa, l’EI (Education International Pan-European Structure); l’ENQA

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(l’associazione delle Agenzie per l’assicurazione della qualità), l’ESU (organismo di rappresentanza degli studenti); l’EUA (Associazione delle università europee); l’EURASHE (che rappresenta il settore non-universitario); l’UNESCO-CEPES e Business Europe (la confederazione degli industriali europei), tutti impegnati nella promozione della cooperazione europea nell’assicurazione della qualità della formazione. Si sono, inoltre, individuati criteri e linee guida comuni per l’assicurazione della qualità, con mandato all’ENQA (European Network of Quality Assurance Agencies), che ha definito un quadro europeo di riferimento per i titoli accademici, basato su carico di lavoro, livello, risultati di apprendimento, competenze e profilo professionale. Dal suo avvio a oggi, il Processo di Bologna ha richiesto un grande sforzo di convergenza dei sistemi universitari dei paesi partecipanti, con l’obiettivo comune di realizzare un’organizzazione congiunta e sinergica dei sistemi di istruzione superiore in maniera tale da garantire: la trasparenza e leggibilità dei percorsi formativi e dei relativi titoli di studio; la possibilità per gli studenti e i laureati di proseguire agevolmente gli studi o trovare un’occupazione in un diverso paese europeo; una maggiore capacità di attrazione dell’istruzione superiore europea nei confronti di cittadini di paesi extra-europei; l’offerta di un’ampia base di conoscenze e competenze avanzate per assicurare lo sviluppo economico e sociale dell’UE. A tale scopo, a tutte le istituzioni e alle associazioni studentesche sono stati attribuiti un ruolo di partner a pieno titolo nel perseguimento degli obiettivi comuni, sulla scorta del principio che l’istruzione superiore è in primo luogo un bene pubblico e implica, quindi, una responsabilità pubblica. Negli ultimi anni al Processo di Bologna sono stati sempre più esplicitamente riconosciuti un carattere partecipativo e una funzione di sviluppo sociale. Nella Conferenza di Leuven/Louvain-la-Neuve, sono state individuate come priorità per il biennio 2007-2009: la mobilità; la dimensione sociale; l’occupabilità; la dimensione globale, evidenziando come la formazione sia un essenziale volano di sviluppo per la società europea in una prospettiva sempre più inclusiva.

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2. L’inclusione come obiettivo di sviluppo Attualmente ci troviamo di fronte a uno scenario sociale dove il rischio di esclusione (in particolare per alcune tipologie di individui e gruppi) è estremamente forte e reale. I documenti Europei identificano l’esclusione sociale come un «processo attraverso cui alcuni individui sono spinti ai margini della società e impediti alla piena partecipazione a causa delle loro condizioni di povertà, della loro mancanza di competenze di base e di opportunità di lifelong learning o come conseguenza di una discriminazione. Ciò li allontana dall’avere opportunità di lavoro, di reddito, di educazione e formazione così come dalle reti comunitarie e sociali e dalle attività in esse inscritte» (European Commission, 2004). Si tratta di un processo multidimensionale di progressive rotture, che determina il lento ma inesorabile distacco di individui e gruppi dalle fondamentali relazioni e istituzioni sociali e impedisce la loro effettiva e piena partecipazione alle attività legittimate o prescritte normativamente dalle società in cui vivono. Il Center for the Analysis of Social Exclusion (CASE) della London School of Economics ha sostenuto una serie di ricerche sul costrutto di esclusione sociale e sugli indicatori che lo definiscono, mettendo a punto un parametro generale di riferimento secondo cui è possibile definire un individuo o un gruppo a rischio di esclusione quando non partecipa alle attività chiave della società in cui vive2. La partecipazione, quindi, è individuata come un indicatore essenziale di inclusione (e, per contro, di esclusione). Su queste basi, l’esclusione sociale è determinata fondamentalmente da quella che Sen ha definito “inabilità” a partecipare in modo efficace alla vita economica, sociale, politica e culturale, che determina di fatto “alienazione e distanza” dal mainstream sociale3. L’inabilità (in contrapposizione alla “capabilità”) è una condizione, insieme, personale e sociale riferibile come una limitazione al “funzionamento” individuale e collettivo in relazione agli stati

2 Cfr. J. Hills, J. Le Grand, D. Piachaud, Understanding Social Exclusion, Oxford: Oxford University Press, 2002. 3 Cfr. A. Sen, Development as Freedom, New York: Knopf Press, 1999.

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e alle attività costitutivi dell’essere sociale di una persona o di un gruppo4. Un fattore determinante di esclusione sono, pertanto, le barriere culturali e strutturali che determinano una “deprivazione di capabilità” limitando il range di opportunità e di possibilità di ciò che le persone possono essere o fare nella loro vita. Come conseguenza di ciò, determinati individui o gruppi, in particolari contesti sociali, potrebbero non riuscire mai a esprimere appieno il loro potenziale e saranno esclusi dalla forza lavoro, dal consumo di beni, dall’accumulazione di ricchezza e dalle funzioni sociali. Il processo di esclusione si realizza attraverso una varietà di sottoprocessi che vengono a impedire sistematicamente l’accesso ai diritti (relativi sia all’impiego sia alla partecipazione democratica alla vita pubblica); alle opportunità (come ad esempio l’accesso ad opportunità di alloggio adeguate, alla cura della salute, all’istruzione e alla formazione, allo svago…); alle risorse (fondi di sussistenza, strumenti di sostegno sociale) che sono invece normalmente disponibili per i membri di una società. L’esclusione è, d’altronde, un processo non solo economico, ma culturale, rappresentazionale e simbolico. Essere socialmente esclusi vuol dire, in definitiva, essere privati di valore sociale e non essere di fatto riconosciuti come membri di una società, il che attiva, come reazione, una forte tensione verso il “riconoscimento” sul piano culturale, economico, politico, sociale5. In questa prospettiva, l’esclusione sociale impatta profondamente su tutti gli stati e su tutte le attività implicate in determinati sistemi sociali e influenza i processi di cambiamento e di sviluppo sociale in essi inscritti. Come nota Todman, l’esclusione sociale è caratterizzata da sei attributi chiave: la multidimensionalità (l’esclusione interessa diverse dimensioni come l’alloggio, l’istruzione e la formazione, l’impiego, la 4 Cfr. A. Sen, “Development as Capability Expansion”, in «Journal of Development Planning», Vol. 19, 1989, pp. 41-58; Id., “Capability and Well-Being”, in M. Nussbaum, and A. Sen (eds), The Quality of Life, New York: Oxford Clarendon Press, 1993, pp. 30-53. 5 A. Honneth, La lotta per il riconoscimento, Milano: Il Saggiatore, 2002.

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cura della salute, l’accesso ai sistemi legali e politici, l’accesso alle reti sociali); il dinamismo (l’esclusione è un processo dinamico); relatività (l’esclusione è un processo relativo a determinate condizioni culturali e storiche); la rottura di relazioni sociali fondamentali; la limitazione dell’accesso a risorse comuni; la limitazione delle possibilità di agire e partecipare alle diverse sfere della vita associata6. Bisogna inoltre riconoscere che esiste uno stretto rapporto tra esclusione sociale e svantaggio, nella misura in cui sono entrambi concetti relazionali usati per etichettare delle patologie sociali che producono disagio e disuguaglianza; nondimeno, mentre lo svantaggio si riferisce a una condizione sociale e rinvia a uno stato di cose (ancorché suscettibile di cambiamento e di trasformazione), l’esclusione rinvia a una serie di processi che, insieme, vengono nel tempo a determinare una condizione esistenziale individuale e collettiva. In effetti lo svantaggio (in quanto sintomo di una patologia sociale) è il risultato di una serie di processi di esclusione sociale, che sono di fatto le vere patologie su cui soffermarsi e riflettere. In ogni caso, perché un intervento sia efficace è necessario intervenire, simultaneamente, sia sui sintomi sia sulla patologia, attraverso una molteplicità integrata di azioni di inclusione. L’inclusione può essere descritta come un processo multidimensionale, volto a ridurre i confini economici, sociali e culturali tra coloro che sono inclusi ed esclusi da un contesto sociale, rendendo progressivamente tali confini sempre più permeabili. Si tratta di un processo dinamico, in stretta correlazione con i cambiamenti economici, culturali e sociali, che connotano i mutevoli scenari del mondo in cui viviamo, da cui deriva un progressivo mutamento degli stessi confini su cui il processo di inclusione viene a intervenire, modificando le forme e i modi di partecipazione alla vita associata e politica, l’uguaglianza di opportunità e di risorse, i livelli di benessere. All’interno del processo in questione sono individuabili alcune 6 Cfr. L. Todman, Reflections on Social Exclusion: What is it? How is it Different in U.S. Conceptualizations of Disadvantage? And, Why Might Americans Consider Integrating it into U.S. Social Policy Discourse?, 2004, reperibile su http://www.uic.edu/cuppa/cityfutures/papers/webpapers/cityfuturespapers/session2_3/2_3reflections.pdf.

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dimensioni costitutive, su cui è possibile intervenire in modo differenziato ma integrato, allo scopo di realizzarne le finalità in modo efficace e stabile: la dimensione culturale, che implica il riferimento a norme, valori, modi di vivere; la dimensione economica, che si riferisce al reddito, alle condizioni abitative e alle condizioni di impiego; la dimensione sociale, riferibile ai legami familiari, amicali e alle relazioni comunitarie. L’inclusione sociale, quindi, si realizza all’interno delle suddette dimensioni attraverso una varietà di azioni, scelte, strategie. La presenza o assenza o la deprivazione di “capabilità” è, quindi, cruciale nella promozione dell’inclusione sociale, intesa come quel processo di progressiva inclusione e partecipazione alle attività sociali di sempre più ampi numeri di individui e gruppi sulla base di nuove opportunità di accesso ai beni e alle risorse essenziali. Come abbiamo sottolineato, infatti, l’inclusione sociale è essenzialmente basata e determinata dallo sviluppo di “capabilità” individuali e collettive. Secondo Sen, per poter identificare la presenza/assenza di “capabilità” all’interno di un sistema sociale bisogna prendere in considerazione cinque elementi: a) autentica libertà nella possibilità di determinare i vantaggi individuali e collettivi; b) valorizzazione delle differenze individuali nella trasformazione delle risorse disponibili in attività degne di valore; c) presenza di attività multivariate orientate a produrre e mantenere livelli adeguati di felicità e di benessere; d) bilanciata combinazione di fattori materiali e immateriali a sostegno del benessere individuale e collettivo; e) preoccupazione condivisa per un’equa distribuzione di opportunità e risorse all’interno della società7. All’interno di questo framework, allo scopo di sostenere il recupero, il mantenimento e lo sviluppo di capabilità è estremamente importante sostenere individui, comunità e gruppi con dispositivi e strumenti che li aiutino a esprimere pienamente il proprio potenziale, sulla base di crescenti livelli di consapevolezza dei propri bisogni, possibilità e diritti. Solo se vi è una piena coscienza dei bisogni sociali, che impli-

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A. Sen, “Development as Capability Expansion”, cit.; Id., “Capability and Well-Being”, cit.

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ca una consapevolezza dei sistemi sociali e del loro sviluppo, può essere possibile diventare consapevoli dei propri bisogni educativi e connettersi con altri individui e gruppi che condividono le stesse condizioni.

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3. L’alta formazione come opportunità per promuovere e realizzare l’inclusione La strategia indicata nel Memorandum di Lisbona identifica l’apprendimento permanente e la formazione continua, insieme, come un’opportunità e una risorsa per sostenere lo sviluppo sociale, nella misura in cui permettono una più ampia e diffusa distribuzione di risorse culturali e di strumentalità cognitive, per tutti e per ciascuno. L’alta formazione può e deve funzionare come un dispositivo di accompagnamento e di sostegno ai processi di inclusione sociale, giocando su un doppio versante: quello culturale e politico, proponendosi come agente di riflessività e di trasformazione sociale attraverso la proposta di modelli e pratiche inclusivi; quello formativo, proponendosi come contesto funzionale all’acquisizione di strumenti cognitivi e culturali a sostegno di una agency autonoma, partecipativa, riflessiva e allo sviluppo di “capabilità”. Essa, infatti, può giocare un ruolo determinante sia in quanto agente di promozione, sia in quanto contesto di realizzazione dell’inclusione. Una leva importante per la promozione dell’inclusione è l’intervento sulle condizioni di contesto, allo scopo di incidere sulle pratiche e sui comportamenti sociali. In quanto agente di promozione, l’alta formazione, configurandosi insieme come spazio di ricerca e di costruzione e trasferimento di cultura, può avere un fortissimo impatto sui saperi nonché sui sistemi di credenze e di valori, in circolo all’interno del tessuto sociale. Ciò può attuarsi innalzando i livelli di consapevolezza e di impegno sociale; operando sulle culture che connotano determinati contesti al fine di diffondere nuovi paradigmi e nuove visioni del mondo; modellando e promuovendo azioni di impegno e responsabilità per la tutela e il sostegno delle fasce deboli; puntando sul rispetto e sulla valorizzazione della diversità.

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In quanto contesto di realizzazione, l’alta formazione si configura come una leva del welfare delle opportunità che, superando logiche assistenzialiste, responsabilizza gli individui, puntando alla loro realizzazione formativa, professionale e culturale. Si tratta, in definitiva, di implementare le azioni di sostegno all’apprendimento permanente con l’obiettivo di contrastare le difficoltà nell’accesso e nella permanenza nella formazione continua e nel mercato del lavoro delle persone e delle categorie più svantaggiate; di scoraggiare l’insorgere dei nuovi analfabetismi, che generano a loro volta un rischio di esclusione sociale; di garantire l’acquisizione di livelli alti di qualificazione professionale e scientifica correlati a innovazione e competitività. Per questo motivo, all’interno dei contesti dell’alta formazione, è indispensabile la presenza di attività e servizi funzionali a sostenere la progettualità formativa individuale, a orientare nei percorsi e nelle scelte, a colmare gap cognitivi e culturali che potrebbero costituire un limite all’accesso e alla partecipazione, a promuovere e registrare lo sviluppo di abilità, competenze, “comprensioni” funzionali a un pieno inserimento nei contesti di lavoro e di vita associata. Si tratta di puntare simultaneamente sullo sviluppo di quelle che sono riconosciute come competenze chiave per l’apprendimento permanente, su abilità trasversali e a-specifiche (intese come life skills) e su competenze più specificamente caratterizzanti i profili professionali in uscita. L’alta formazione deve, quindi, declinarsi su un piano individuale, focalizzandosi sui progetti di apprendimento dei singoli, allo scopo di massimizzarne le esperienze apprenditive, anche mettendo in campo metodologie didattiche e di assessment calibrate sulle caratteristiche e sui bisogni individuali. Tutto questo richiede una presa in carico globale della persona, con i suoi talenti, necessità, aspirazioni, debolezze, cui viene riconosciuta la possibilità di un’attiva e responsabile partecipazione ai progetti formativi in cui è coinvolta, in una prospettiva inclusiva. Ne deriva la necessità di una profonda riconfigurazione dei dispositivi e degli strumenti utilizzati, che devono essere resi sempre più adattabili, flessibili, suscettibili di modifiche e revisioni, in una logica di costante implementazione e alla luce di indicatori di qualità sempre più dettagliati e precisi.

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Il prisma dell’inclusione

In questa prospettiva, tutti i dispositivi per la quality assurance dell’istruzione superiore utilizzati in ambito europeo, evidenziano come principale requisito di qualità la capacità di rispondere in modo efficace a specifici bisogni di apprendimento identificati sulla base di esigenze di contesto (in merito agli sbocchi professionali e occupazionali offerti da una determinata area territoriale) e di sviluppo personale e professionale di individui e gruppi sociali. Per quanto riguarda nello specifico il nostro paese, il modello CRUI di valutazione dei corsi di studio universitari evidenzia in modo molto chiaro quanto i parametri per la certificazione della qualità siano da individuarsi: nell’indicazione di chiari sbocchi professionali e occupazionali per i quali preparare i laureati; nell’esplicita identificazione di risultati di apprendimento coerenti tra di loro, con gli obiettivi formativi qualificanti della/e classe/i di appartenenza del corso di studio nonché con gli sbocchi professionali e occupazionali e i fabbisogni formativi espressi dalle organizzazioni rappresentative del mondo della produzione, dei servizi e delle professioni. Ciò richiede che si costruiscano e sostengano raccordi efficaci tra il circuito della formazione e quello dell’occupazione, alimentando e supportando percorsi di apprendistato, di formazione-lavoro, di stage, di tirocinio, in modo da adeguare la formazione alla prospettiva della crescita della persona in coerenza con gli obiettivi di coesione sociale e di competitività economica individuati dall’UE. Ne deriva la necessità di costruire un’adeguata piattaforma di interfaccia tra formazione e lavoro, che riconosca l’importanza anche delle occasioni non-formali e informali dell’apprendimento e validi gli esiti a esse relative con idonei dispositivi di assessment e certificazioni. In questa prospettiva, gli Atenei devono assicurare agli studenti attività formative che conducano ai risultati di apprendimento attesi; tenere sotto controllo lo svolgimento del processo formativo; garantire un corretto accertamento dell’apprendimento degli studenti; mettere a disposizione personale docente, infrastrutture, servizi di contesto e collaborazioni esterne adeguati al raggiungimento dei risultati di apprendimento; monitorare i risultati del processo formativo; adottare un sistema di gestione adeguato ed efficace, atto a promuovere e sostenere la qualità dei corsi di studio. La progettazione e l’erogazione della formazione devono pertanto

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essere articolati intorno a cinque aree (fabbisogni e obiettivi, percorso formativo, risorse, monitoraggio, sistema di gestione), che devono essere gestite in riferimento a parametri il più possibile equi, inclusivi, partecipativi. A questi indicatori devono corrispondere precise azioni di contesto, indirizzate ad assicurare e a monitorare la presenza di attività, opportunità, risorse, servizi, che mettano le agenzie formative in condizione di offrire a tutti e a ciascuno in prima istanza la possibilità del riconoscimento dei propri bisogni formativi, intesi come bisogni di apprendimento (il che richiede di puntare su dispositivi e strumenti di bilancio e di ricognizione nonché di orientamento); in seconda istanza, attività, opportunità e risorse formative calibrate sulle esigenze e sui bisogni di un’utenza composita e variegata (per livelli di istruzione e formazione in ingresso, condizioni socio-economiche, paese d’origine, età, genere e orientamento sessuale, modalità di funzionamento, nonché per aspettative, motivazioni, progetti…) particolare attenzione va portata alle fasce deboli e a rischio di esclusione, a cui deve essere garantita, attraverso la formazione, la possibilità di acquisire, mantenere e sviluppare un alto range di “capabilità”, funzionali a un’attiva e piena partecipazione a tutte le attività presenti all’interno dei contesti formativi e, in prospettiva, a una autonoma, consapevole, responsabile partecipazione a tutte le dimensioni della vita sociale (culturali, economiche, politiche). Solo in questo modo l’alta formazione potrà contribuire in modo efficace a rispondere alle sfide che l’Europa è chiamata ad affrontare in termini di inclusione, innovazione, benessere per tutti e per ciascuno.

Documenti politici e di indirizzo Social Inclusion in Europe 2006 Joint Report on Social Protection and Social Inclusion 2007 Joint Report on Social Protection and Social inclusion 2008 SEC(2008) 91

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Il corretto impiego delle tecnologie per la reale inclusione degli studenti con disabilità

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di Alessandro Pepino, Gennaro Sicignano, Fiorentino Ferraro, Stefania Grasso

Premessa Gli straordinari progressi delle tecnologie elettroniche e le nuove possibilità di interscambio delle informazioni rese possibili dalla rete Internet, se da un lato inducono profondi cambiamenti sociali, economici, organizzativi, che impongono profonde riflessioni, dall’altro offrono nuove e preziose opportunità per le fasce deboli della popolazione, in particolare persone con disabilità e anziani, i quali possono trovare nelle nuove tecnologie occasioni di integrazione e reinserimento sociale e lavorativo. Le attuali disposizioni normative, sia sul versante sociosanitario sia su quello scolastico e universitario, permettono di “includere” nella società civile tante persone destinate altrimenti a una vita di emarginazione. I personal computer, grazie alle interfacce speciali, tra cui i sistemi di riconoscimento e sintesi vocale, rappresentano potenzialmente un insostituibile strumento operativo per l’inclusione. Ciononostante l’esperienza quotidiana, le cronache, riportano ancora tante ombre ed episodi di difficoltà e discriminazione, i quali dimostrano che ancora molto rimane da fare e che la cosiddetta “inclusione” di un bambino o di un giovane studente universitario con disabilità non è un fatto scontato e, ancor meno, ‘automatico’. In altri termini, le tecnologie da sole non sono sufficienti se non sono inserite in un modello di progettazione e gestione corretto. Nelle pagine che seguono, si intende analizzare la problematica a 360 gradi per evidenziare che, ai fini di un intervento realmente efficace, si devono verificare tutta una serie di condizioni, la cui responsabilità

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ricade sui vari attori coinvolti: genitori, insegnanti, presidi, docenti universitari.

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1. Introduzione Grazie alle nuove tecnologie la nostra vita si sta profondamente modificando: se le nuove opportunità di comunicazione superano i limiti di tempo, le distanze e i confini geografici, la tecnologia è, tuttavia, solo una delle componenti in una più ampia e complessa rete di fattori socio-strutturali. Mentre da un lato sono messi a nostra disposizione nuovi strumenti, che rendono possibile cose sino a pochi anni fa impensabili (ad esempio la possibilità di reperire in un mercato di dimensioni illimitate qualsiasi tipo di prodotto), dall’altro vengono richieste nuove competenze che spesso non sono possedute dalla maggior parte della popolazione. La transizione storica dall’era industriale a quella dell’informazione ha profonde implicazioni anche nei sistemi formativi. Nel passato i giovani con limitata alfabetizzazione, e anche i giovani con disabilità, trovavano comunque collocazione in ambito industriale, in alcuni selezionati ambiti specifici che, sebbene da un certo punto di vista ghettizzanti, rappresentavano comunque una opportunità di lavoro. Con la progressiva automatizzazione dei flussi di lavoro questa possibilità sta rapidamente venendo meno e le nuove opportunità lavorative richiedono competenze di elevato profilo. Ne consegue che non si può più delegare ai soli istituti professionali, come accadeva in passato, il compito della formazione delle fasce deboli e dei ragazzi con disabilità. Al contrario scuola e Università devono agire in modo sinergico e contribuire allo sviluppo culturale e tecnologico dei giovani con disabilità affinché essi possano affermare con dignità il proprio ruolo all’interno della società civile. Le Università, in particolare, sono profondamente coinvolte in questo processo di globalizzazione del sapere, soprattutto in considerazione del fatto che l’inizio della vita accademica, il percorso universitario e il conseguimento della laurea rappresentano, per tutti gli studenti, momenti evolutivi molto importanti, pregni di significati emotivi e di aspettative. Sebbene i compiti che il giovane con disa-

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bilità deve assolvere durante il percorso universitario siano gli stessi ai quali sono chiamati tutti gli universitari, spesso allo studente con disabilità si presentano delle vere e proprie sfide quotidiane dovute sia alle barriere fisiche e comunicative sia agli effetti di una scarsa diffusione di una cultura della diversità (barriere culturali). Bisogna, poi, considerare che i tempi dell’Università, che coincidono con il consolidamento dell’identità del giovane e con una graduale acquisizione dell’autonomia, nella situazione di disabilità cronica possono non coincidere con il conseguimento dell’autonomia; anzi, l’acquisizione di quest’ultima diviene particolarmente complessa e, in taluni casi, risulta fortemente compromessa. Le aule e le comunità virtuali, la tastiera, il display braille e le tecnologie di sintesi e riconoscimento vocale permettono oggi, finalmente, di superare le barriere imposte da deficit sensoriali o motori. Le tecnologie informatiche, indispensabili per i nuovi modelli previsti dal mercato del lavoro, rappresentano uno strumento nuovo e potente, sebbene da utilizzare in modo appropriato e produttivo. D’altronde, l’impiego della rete Internet sarà sempre più diffuso, con modalità e scale sociali e geografiche diversificate e, in questo scenario in cui la cultura e le professioni fanno un uso sempre maggiore degli strumenti informatici, forse per la prima volta le persone con disabilità vedono finalmente l’opportunità di confrontarsi ad armi pari con gli altri. Internet è la nuova frontiera della comunicazione e dal suo utilizzo le persone con disabilità possono trarre una possibilità di emancipazione e socializzazione, a loro già troppe volte preclusa e inibita. In particolare, la messa a disposizione di servizi ICT (Information and Communication Technologies) da parte della Pubblica Amministrazione e di aziende private ha evidenziato la necessità di garantirne l’accesso a tutti, attraverso una progettazione di carattere inclusivo fin dall’inizio, ma anche, più realisticamente, prevedendo accomodamenti individuali attraverso tecnologie assistive.

2. Dal “modello medico” al “modello sociale” Il mondo della disabilità è molto complesso e articolato: si passa da forme di disabilità molto gravi a quelle più lievi, ci sono coloro che

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sono nati con particolari disabilità e quelli che invece l’hanno acquisita durante il corso della loro vita. Molti sono i problemi che ruotano intorno a questo mondo. Fino a qualche decennio fa al centro dell’attenzione vi sono stati innanzitutto i problemi fisici dovuti a varie patologie, le terapie mediche necessarie, gli interventi riabilitativi da effettuare, il tutto mirato essenzialmente ad allungare la vita della persona con disabilità. Tale visione ospedale-centrica privilegiava gli interventi di “cura” indirizzati a una guarigione spesso improbabile o a veri accanimenti terapeutici, con soluzioni costose e che spesso incidevano negativamente sulla qualità di vita della persona. Gli individui con disabilità erano di norma circondati da operatori sanitari o parasanitari, ai quali veniva affidata la gran parte delle scelte della loro vita, scaricando sulla condizione psicofisica e sullo stato di salute le difficoltà di integrazione e la mancanza di pari opportunità. Questa interpretazione è stata violentemente rifiutata dal movimento delle persone con disabilità, che hanno cercato di leggere secondo un’angolatura diversa la propria condizione reale, sottolineando che le discriminazioni che vivono non derivano dalla propria condizione psicofisica, bensì dall’incapacità della società di accogliere le potenzialità e i contributi che le persone con disabilità sono in grado di offrire. Così, a livello prima internazionale e poi nazionale, al “modello medico” è stato contrapposto un “modello sociale”, che parte dalla consapevolezza che la persona con disabilità, al pari di ogni cittadino e con i medesimi diritti, debba poter vivere nei luoghi ordinari di vita, facendo le stesse cose che fanno gli altri cittadini, con una pari opportunità di scelta dal momento che la condizione di svantaggio non è un fatto appartenente alla situazione di disabilità per sé, bensì è una relazione sociale, un rapporto tra le limitazioni funzionali e sociali che le persone possono vivere e le risposte di inclusione che la società offre ai loro bisogni speciali. In altri termini, il modello sociale sancisce il principio che la condizione di disabilità non rappresenta, in generale, una condizione di vita non accettabile, e quindi da contrastare in tutti i modi attraverso un intervento medico, bensì una possibile condizione di vita di un normale cittadino che, in ambito medico, va rapportato unicamente al livello di qualità della vita dell’individuo, piuttosto che alle sue funzioni motorie o sensoriali. Il modello che vedeva la disabilità in senso strettamente sanitario è evoluto verso un modello universale, integrativo e interattivo,

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originando una vera e propria rivoluzione nella definizione e nella percezione della salute e della disabilità: per la prima volta si tiene finalmente conto anche dei fattori ambientali, ponendo al centro la qualità della vita delle persone affette da una patologia. Si può sintetizzare questa impostazione affermando che invece di portatori di handicap sarebbe più corretto definire le persone con disabilità ricevitori di handicap dalla società, che non li include tra i lavoratori, tra i viaggiatori, i turisti ecc. Una volta, quindi, che l’apparato medico riabilitativo ha completato il proprio percorso di recupero funzionale, al fine di garantire un accettabile livello di qualità della vita, in relazione alla perdita di alcune funzionalità, la responsabilità di una piena inclusione in ambito scolastico e lavorativo passa dall’ospedale ai servizi sociali, alla scuola e all’Università che insieme devono garantire alla persona la possibilità di vivere studiare e lavorare. Le istituzioni educative, infatti, organizzano il succedersi delle età, definiscono tappe e competenze, sovrapponendosi a quelle che sono le tappe dello sviluppo individuale; inoltre, l’ambiente in cui si svolge il processo evolutivo dell’individuo è parte integrante di tale sviluppo e, come tale, può accogliere, facilitare o, viceversa, bloccare e compromettere i movimenti di crescita.

3. Il quadro legislativo e la attuazione della legge 17/99: il progetto individualizzato di inclusione La legge quadro n. 104/92 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate si propone di promuovere la piena integrazione delle persone in situazione di handicap in ogni ambito nel quale possono esprimere la loro personalità, «nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società» (Art. 1, comma 1, lett. a). La frequenza nelle classi comuni costituisce uno strumento fondamentale per il raggiungimento dello «sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione» (Art. 12, comma 3). La legge ritiene, infatti, prioritario che l’istruzione delle persone con disabilità si compia attraverso un loro inserimento «nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie» (Art. 12, comma 2).

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Negli ultimi anni, grazie a questi nuovi dispositivi normativi, che hanno permesso un reale abbattimento delle barriere allo studio, si sta registrando in ambito universitario la presenza sempre più numerosa di studenti con disabilità. Ciò ha richiesto l’attivazione di strategie e di misure di sostegno a più livelli di intervento (pedagogico, psicologico, tecnologico), in conformità alla legge n.17/99, allo scopo di rimuovere quelle condizioni ritenute invalidanti per il libero esercizio del diritto allo studio. L’impegno degli Atenei nei confronti degli studenti con disabilità si è fatto più intenso e sistematico non solo nella direzione dell’abbattimento delle barriere alla mobilità e del riconoscimento di particolari agevolazioni contributive, ma anche in un diretto sostegno alla persona. Non solo vengono forniti ausili tecnologici e tutto quanto consenta agli studenti con particolari difficoltà di avere le stesse opportunità dei loro colleghi “normodotati”1, ma, soprattutto, gli studenti con disabilità vengono accolti da una rete articolata di servizi multidisciplinari. Più chiaramente, le università, alla luce di tali recenti normative di legge, devono promuovere iniziative tese:  alla predisposizione di attrezzature tecniche e sussidi didattici, alla programmazione di interventi, quali la diversificazione degli ausili secondo la tipologia di disabilità e la caratterizzazione del piano di studi individuale, garantendo eventuali trattamenti individualizzati decisi con il docente (Legge 104/92; Legge 17/99);  a garantire uniformità di trattamento per il diritto allo studio universitario (Legge 390/91);  a privilegiare la ricerca e lo studio nei vari settori di intervento e a occuparsi della formazione di docenti specializzati nell’insegnamento indirizzato ad allievi con disabilità (Legge 180/92);  alla presenza di un Delegato del Rettore che svolga una funzione di coordinamento, monitoraggio e supporto di tutte le iniziative concernenti l’inclusione delle persone con disabilità nell’ambito dell’Università (Legge 17/99);  a favorire l’accesso da parte dei soggetti con disabilità agli strumenti informatici (Legge 4/2004); 1

P. Ridolfi, I disabili nella società dell’informazione. Norme e tecnologie, Milano: FrancoAngeli, 2002.

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 all’inserimento di interpreti per studenti non udenti e alla concessione di esonero totale o parziale dalle tasse di iscrizione. Già con l’art. 34 della Costituzione è garantito il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ma in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo, fino a non più di mezzo secolo fa, le persone con disabilità erano ancora educate nelle scuole speciali e negli istituti con residenza notturna. Con la rivolta studentesca del ‘68, però, un massiccio numero di giovani con disabilità abbandonò gli istituti e le scuole speciali (da molti considerati “ghetti”), avviando una vera e propria trasformazione che ha il suo primo atto formale con la legge n. 118/71 (Invalidità civile), la quale prevedeva per gli alunni con disabilità, a eccezione di quelli più gravi, la frequenza alle “classi ordinarie”. Ma è con la legge n. 517/77 (Integrazione in scuole di ogni ordine e grado) che ha ufficialmente preso avvio il “processo di inserimento” degli studenti con disabilità; la legge, infatti, prevede l’obbligo di una programmazione educativa da parte di tutti gli insegnanti, nonché forme di integrazione e di sostegno attraverso docenti in possesso di particolari titoli di specializzazione. La legge 390/91 (Diritto allo studio universitario) detta norme per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che di fatto limitano l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso all’istruzione superiore e universitaria, e prevede disposizioni particolari per l’accesso degli studenti con disabilità ai benefici e ai servizi regolati dalle leggi in materia, nonché la possibilità, in condizioni di particolare disagio socio-economico o fisico, di maggiorazione dei benefici. L’evoluzione della normativa a favore delle persone con disabilità raggiunge l’apice con la legge-quadro n. 104/92 (Assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone handicappate), che colloca il diritto all’integrazione tra i diritti fondamentali della persona e del cittadino. L’interesse di tale legge-quadro risiede nella sua capacità di regolamentare non solo l’integrazione scolastica o assistenziale, ma tutti i percorsi di vita delle persone con handicap, compresa quello universitario. La legge n. 17/99 (Integrazione e modifica della legge-quadro 5 febbraio 1992, n. 104, per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) ha finalmente fornito direttive specifiche agli atenei italiani in merito alle attività da realizzare in favore degli studenti con disabilità, con l’intento di garantire il loro diritto allo studio, favorendone l’autonomia e il protagonismo nella vita universitaria. In

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particolare, vengono delineati i servizi che ogni università è chiamata a erogare per accompagnare gli studenti con disabilità durante il proprio percorso formativo garantendo, se richiesti, tutorato generico e specializzato, sussidi tecnologici e didattici specifici, trattamenti individualizzati, prove d’esame equipollenti ed eventuali altri contributi finalizzati a porre tutti gli studenti in condizioni di pari opportunità. In ultimo, con il D.P.C.M. 9 aprile 2001 (Uniformità di trattamento sul diritto agli studi universitari) l’accesso ai servizi e alle provvidenze economiche viene garantito a tutti gli studenti italiani e stranieri capaci e meritevoli, privi di mezzi, iscritti all’università, con riferimento anche agli studenti con disabilità (art. 14). D’altra parte, come spesso accade, in diversi casi, l’applicazione delle leggi in materia di disabilità ha incontrato una serie di criticità legate non solo a lungaggini amministrative nell’impiego dei fondi (gestiti a livello centrale e non da uno specifico dipartimento) ma anche a oggettive difficoltà a predisporre, in un momento complesso quale quello che il sistema paese e le università in particolare stanno vivendo, tipologie di servizi completamente nuove. L’inclusione degli studenti universitari richiede una serie di azioni per le quali le strutture universitarie non sono (non erano) istituzionalmente preparate, a partire, ad esempio, dalla necessità di stabilire un contatto efficace sia con gli studenti già iscritti (i quali per lo più hanno di fatto trovato delle soluzioni di ‘sopravvivenza’) sia – e soprattutto – con i possibili nuovi studenti, che presentano comunque diffidenza e timori nella possibilità di affrontare la sfida universitaria. A questo si aggiunga che le diverse tipologie di disabilità rapportate ai numerosi, possibili percorsi universitari, conducono a una vastissima gamma di diverse problematiche che non possono essere correttamente affrontate attraverso un approccio standardizzato. L’esperienza maturata in oltre dieci anni di tutorato specializzato presso l’Ateneo “Federico II” di Napoli (uno dei primi Atenei ad aver predisposto servizi di supporto allo studio, ricevendo nel 2004 il premio Forum P.A. per i “Servizi integrati per l’accessibilità degli studenti disabili”) dimostra in modo incontrovertibile che:  ogni intervento mirato alla inclusione di uno studente deve essere calibrato in base alle sue specifiche necessità;

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 la corretta analisi, progettazione ed esecuzione dell’intervento richiede una serie di competenze diverse, provenienti da aree disciplinari diverse;  i servizi di carattere relazionale, l’accoglienza delle istanze presentate da una persona con disabilità, la valutazione dei bisogni effettivi, la stesura di un progetto di autonomia attraverso l’utilizzo degli ausili tecnologici, sono processi delicati e fondamentali per la scelta e l’uso ottimale degli strumenti tecnologici. A tal fine, è necessaria la presenza di servizi e personale con competenze di carattere psicologico-relazionale oltre che specificamente tecnico. Un progetto di inclusione deve tenere conto di tutti gli attori coinvolti, dando a ciascuno un ruolo ben definito, a partire dall’individuo stesso: è necessario, infatti, far sì che egli/ella stesso/a sia il/la primo/a artefice e protagonista del proprio percorso di vita. In primis, quindi, è necessario, che sia la persona (non un parente, genitore o altro) a fare una richiesta rispetto a quelle che sono le sue necessità. Ed è sulla base di queste che gli operatori possono elaborare – a partire da quelle che sono le risorse umane e materiali – un’ipotesi di intervento che, partecipata con l’utente, diviene progetto, solo quando sottoscritta da quest’ultimo. Nel progetto devono essere definite non solo le prestazioni fornite, la disponibilità delle risorse e la durata dell’intervento, ma anche e soprattutto è necessario che vengano precisati i doveri delle parti che lo sottoscrivono: se da un lato, infatti, l’Istituzione, si impegna a favorire l’inclusione, dall’altro l’utente deve – per quanto possibile – farsi protagonista del proprio progetto di vita e, in particolare, dell’intervento di inclusione. I servizi offerti di norma nell’ambito del progetto di inclusione sono: 1. Servizi di carattere relazionale. 2. Servizi di consulenza pedagogica e misure di accompagnamento formativo. L’ausilio tecnologico può essere utilizzato come strumento didattico-educativo durante l’intero arco di vita del soggetto, come dispositivo di inclusione sociale e di crescita personale in risposta ai bisogni di autonomia, facendo registrare un livello soddisfacente di performance nei diversi contesti dell’apprendimento formale, informale e non formale.

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3. Servizi di assessment pedagogico funzionale alla descrizione del personale profilo di apprendimento. 4. Consulenza nella scelta degli ausili. Com’è noto, nel settore della disabilità esiste un’enorme variabilità di situazioni; anche un deficit apparentemente sempre uguale a se stesso, come la cecità ad esempio spesso si rivela marcatamente caratterizzato e variabile tra un individuo e l’altro. Questo richiede un approccio fortemente individualizzato nella scelta degli ausili e pertanto competenze tecniche specifiche e fortemente multidisciplinari. La disponibilità di una area dimostrativa permanente è uno strumento insostituibile per una corretta guida alla scelta ed alla prova del sistema più adatto. 5. Formazione continua all’uso degli ausili e Help-desk. Ogni strumento tecnico a elevato contenuto tecnologico, quali sono gli ausili tecnici in generale e quelli alla comunicazione in particolare, richiede una formazione specifica e prolungata nel tempo.

Fig. 1

Figura 1

In sintesi, il modello organizzativo adottato è basato su due elementi caratterizzanti: a) Approccio multidisciplinare, che promuove l’integrazione delle competenze nell’intervento di supporto.

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b) Progetto individualizzato, che garantisce soluzioni specifiche ritagliate ad hoc sul particolare contesto sociale, familiare e personale dello studente (condizione questa irrinunciabile per un corretto progetto Fig. 1 di inclusione).

Fig. 2

Figura 2

Questa specifica caratteristica sposta decisamente il focus di un “sistema” deputato a fornire soluzioni finalizzate all’inclusione di persone con disabilità nell’ambito di una pubblica amministrazione sul versante dei “servizi” piuttosto che su quello dei “prodotti”.

4. Il personal computer quale strumento per il superamento delle barriere informative. Quando si parla di stato di emarginazione si pensa sempre ai paesi sottosviluppati e, quindi, a un tipo di emarginazione che deriva da disagi prevalentemente economici e infrastrutturali; ci si dimentica, però, delle persone con disabilità, le quali, anche nei paesi cosiddetti “sviluppati”, sono spesso escluse dai processi tecnologici a causa di un inadeguato impiego della tecnologia stessa.

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Eppure, le moderne tecnologie rendono disponibili numerosi strumenti per agevolare l’accesso alle informazioni e per facilitare l’inclusione delle persone con disabilità, anzi la vera novità di questi ultimi anni è rappresentata dal ruolo che il personal computer gioca in questo contesto. Oltre che come strumento di calcolo, infatti, il PC va considerato come un vero e proprio strumento di uso generale con il quale la persona con disabilità può superare molti degli ostacoli che le si frappongono nel rapporto con il mondo esterno. Una stazione di lavoro per soggetti con disabilità, basata su PC, ha in generale la struttura riportata in fig. 3:

Fig. 3

Figura 3

Le interfacce quali la tavoletta grafica, i puntatori speciali, rappresentano il tramite tra l’utente con disabilità e il computer; esse permettono di utilizzare le potenzialità residue del soggetto (ad esempio la voce, i movimenti del capo, o i piccoli movimenti delle dita) trasformandole in input di accesso al computer.

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Da un punto di vista funzionale, per quanto riguarda la funzione di ingresso, le interfacce per PC devono assolvere a due funzioni: “Funzione Mouse” e “Funzione Tastiera”, entrambe essenziali per il Fig. 3 corretto impiego dei sistemi operativi di uso corrente.

Figura 4. - Esempio di tastiera virtuale

Fig. 4 Esempio di tastiera virtuale

Alcuni di questi strumenti, peraltro, sono oggi diventati componenti standard dei nuovi sistemi operativi; ad esempio, tramite la funzione del “menu accessibilità” di Windows 7, è possibile utilizzare una tastiera denominata “virtuale” che compare sullo schermo del monitor; in questo modo, tramite il movimento del mouse è possibile effettuare la digitazione dei tasti. Tramite la tastiera virtuale, qualunque interfaccia in grado di simulare il mouse può anche riprodurre l’uso della tastiera. Il Tracker, ad esempio, è un dispositivo che traduce i movimenti del capo in movimenti del cursore del mouse. Esso, quindi, sostituisce il mouse, il trackball, o un qualsiasi strumento di puntamento per le persone che non possono usare correttamente le mani.

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L’unità centrale senza fili (Fig.5 ) è posizionata sul computer di fronte all’utente e segue un punto di adesivo rifrangente posto al centro della fronte o sulla montatura degli occhiali. Il movimento della testa fa muovere il cursore del mouse sullo schermo. Il Tracker permette di eseguire tutte le operazioni che in ambiente Windows vengono effettuate con il mouse tradizionale, compresa la gestione di programmi di disegno e lo spostamento di oggetti nelle videate di Windows.

Figura 5

Fig. 5 Impiego di puntatori mouse hands-free Un’altra caratteristica importante del Tracker è che non è necessario utilizzare esclusivamente la testa per pilotare il mouse. Il punto rifrangente può essere posizionato dove si vuole: un dito, il piede, il mento: fino a che il sensore è in grado di inseguirlo si ha un pieno controllo del movimento del cursore sullo schermo. Il click può essere effettuato con i sensori o attraverso sistemi di click temporizzati. Il Tracker può controllare il movimento del cursore fino ad una distanza di 2 metri del punto rifrangente dall’unità centrale. Il Tracker è solo uno dei possibili sistemi in grado di simulare, senza l’uso delle mani, la funzione del mouse; infatti, sono disponibili sul mercato numerosi dispositivi, anche di basso costo, che permettono alla persona con deficit motorio di azionare, comandare e gestire un gioco, un computer, una stanza, un’abitazione. Quale alternativa all’impiego della tastiera sono adesso disponibili anche degli efficaci sistemi di riconoscimento vocale, che consentono la traduzione dal parlato in testo in modo molto efficiente e senza

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soffrire degli inconvenienti che hanno caratterizzato la prima generazione di questi sistemi Le prime versioni di questi programmi costringevano infatti l’utente a scandire la frase parola per parola, inserendo delle microinterruzioni tra una parola e l’altra, il che costringeva l’utente a un severo autocontrollo nella impostazione e nella pronuncia della frase. Ciononostante essi hanno raggiunto comunque una discreta diffusione, che ha consentito la prosecuzione dello sviluppo industriale e della ricerca in questo campo. I sistemi attuali riconoscono il cosiddetto parlato naturale; questo si traduce, dal punto di vista dell’utente, in una semplice attenzione ai ritmi e alla pronuncia del parlato, che tuttavia rimane per l’appunto “naturale”. Le persone con difficoltà nella componente della vista invece possono trarre notevole giovamento dall’impiego della sintesi vocale, che permette, attraverso opportuni programmi del sistema operativo (screen reader e videoingranditore), di conoscere in tempo reale il contenuto delle finestre presenti su un qualunque display. Lo screen reader, se adeguatamente utilizzato, consente alla persona non vedente una notevole autonomia nell’uso del computer e, se usato in unione al display braille, consente di leggere il contenuto del monitor anche attraverso le dita, secondo lo standard dell’alfabeto braille. Questo approccio multicanale nell’uso dei computer è di fondamentale importanza per garantire un buon livello di autonomia. Sfortunatamente, nonostante la ricchezza di soluzioni tecnologiche, disponibili sul mercato, spesso permangono diversi problemi legati alla cosiddetta accessibilità della tecnologia. In altri termini, i contenuti che vengono forniti attraverso gli strumenti tecnologici devono essere predisposti nel rispetto di una serie di regole tecniche a garanzia della loro effettiva fruibilità da parte delle persone con diverse tipologie di disabilità. Difatti, l’accessibilità in campo ICT nasce come precisa esigenza di regole per il colloquio fra le diverse componenti hardware e software di un sistema complesso. Ad esempio, un concetto che viene espresso attraverso un’immagine piuttosto che mediante un testo, sebbene sia proposto attraverso un sistema informatico, rimane incomprensibile per una persona cieca. Nell’attuale società dell’Informazione i processi di inclusione sociale sono indissolubilmente connessi all’informazione e alla comunicazione, quindi anche l’accessibilità dei contenuti erogati attraverso il web (che è

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contemporaneamente uno strumento comunicativo e una tecnologia organizzativa) assume una rilevanza strategica; dalla loro fruizione e dal loro impatto sui cittadini, infatti, dipende l’accesso al diritto alla crescita sociale delle persone, così come previsto dall’art. 3 della Costituzione. Nell’ultimo decennio l’Europa si è impegnata a sviluppare ed emanare norme nazionali e linee guida per l’accessibilità alle strutture e ai servizi, nonché a verificarne la corretta applicazione. Le linee guida, in particolare, nascono per aiutare gli sviluppatori a raggiungere un ragionevole livello di accessibilità e usabilità, che però è ancora lontano dall’essere conseguito. Infatti, malgrado la dichiarazione di universalità (di riferirsi, cioè, a tutti i tipi di disabilità), di fatto viene enfatizzata in particolar modo l’accessibilità per i non vedenti, tralasciando le altre difficoltà. Si cita testualmente dalla circolare dell’AIPA del 6 settembre 2001 sui Criteri e strumenti per migliorare l’accessibilità dei siti web e delle applicazioni informatiche:«Il grado più elevato di accessibilità si consegue attuando il principio della progettazione universale, secondo il quale ogni attività di progettazione deve tenere conto della varietà di esigenze di tutti i potenziali utilizzatori. Questo principio, applicato ai sistemi informatici, si traduce nella progettazione di sistemi, prodotti e servizi fruibili da ogni utente, direttamente o in combinazione con tecnologie assistive». Ovviamente, la questione della accessibilità dei contenuti è solo l’aspetto più evidente di un problema più generale, che riguarda la necessità di rivedere i modelli organizzativi e di gestione della conoscenza, preliminarmente all’impiego di qualunque strumento tecnologico. Anche la catena di fornitura delle tecnologie risente delle problematiche connesse all’accessibilità: le soluzioni informatiche, infatti, devono essere correttamente approntate e richiedono, per un loro uso efficace, di servizi di personalizzazione e gestione, a partire dallo start-up per proseguire con l’uso ordinario. Sfortunatamente il mercato non offre in modo omogeneo questi servizi nelle varie zone d’Italia, la Campania in particolare è piuttosto avara di aziende e professionisti in grado di erogare tali servizi con la necessaria competenza.

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5. Criticità e spunti di riflessione Da quanto sinora esposto, emerge un quadro della inclusione delle persone con disabilità in ambito scolastico e lavorativo tutto sommato, apparentemente, piuttosto ottimistico, almeno per quanto riguarda la disponibilità di soluzioni tecniche e di strumenti normativi; infatti, da diversi punti di vista, la legislazione italiana in materia è una delle migliori al mondo, in virtù anche delle forti garanzie presenti nella nostra costituzione. Al fine, però, di fornire al lettore un quadro “reale” della attuale situazione, è quanto mai opportuno, ora, sviluppare un’analisi critica di quanto le potenzialità espresse nelle pagine precedenti, si traducano in effettive opportunità, in particolare con riferimento alla realtà della nostra regione, facilmente estendibile ad altre situazioni del sud d’Italia. Nelle righe che seguono, si vogliono evidenziare alcune criticità che hanno particolari ricadute di sistema e sulle quali, quindi, occorrerebbe intervenire con un livello maggiore di priorità. Scuola e insegnanti di sostegno Se esaminiamo ad esempio il problema della inclusione scolastica, non possiamo non tenere conto di una cronica sofferenza (con livelli diversi in diverse regioni d’Italia) dell’attuale modello adottato all’interno della scuola di ogni ordine e grado; la carenza di formazione, soprattutto nell’area tecnologica, dell’insegnante di sostegno, la provvisorietà del suo ruolo nel percorso formativo, la mancanza di strutture tecniche di supporto al corretto uso degli ausili tecnologici, fanno sì che spesso gli interventi a sostegno dei bambini con disabilità, soprattutto nei casi più complessi, quali quelli relativi a cecità, autismo, oppure ai disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, discalculia etc.) non riescano a raggiungere livelli accettabili di efficacia. Purtroppo le divisioni Nord-Sud incidono in misura determinante, per cui, molto spesso, a causa di tali carenze (legate alla difficoltà di gestire la specifica disabilità o il particolare disturbo), il bambino, pur seguendo un normale percorso curriculare, non raggiunge il necessario livello di autonomia e viene di fatto emarginato da un futuro sviluppo formativo o, peggio ancora, si può verificare il caso di un bambino che riesce a conseguire un titolo senza la necessaria formazione. Il

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problema è molto complesso e il principale limite è senza dubbio l’incapacità dell’attuale modello generalista di gestire la complessità dei problemi che un intervento di inclusione presenta. Per essere realmente efficace, il progetto formativo di un bambino o di un giovane con disabilità deve tenere conto delle specificità della persona, del contesto familiare, del percorso culturale e gli operatori e dirigenti scolastici in primis dovrebbero meglio utilizzare gli attuali strumenti tecnici e amministrativi idonei a gestire questa specificità. In un momento di oggettiva sofferenza economica e di carenza di risorse è, inoltre, necessario assicurare l’utilizzo ottimale delle risorse disponibili, nonché un’adeguata integrazione con gli altri servizi disponibili sul territorio presso associazioni o altri enti. Su questo tema è inoltre doveroso operare anche gli opportuni distinguo: la situazione in Campania, e a Napoli in particolare, non può non risentire del grave dissesto economico del settore sociosanitario, da un lato, e delle difficoltà legate alla densità abitativa e allo stato di sofferenza sociale, dall’altro. In altre regioni d’Italia, infatti, la presenza sul territorio di una rete di validi servizi sociosanitari permette, se non di risolvere, almeno di attenuare i problemi lasciati aperti da un progetto di inclusione scolastica inefficiente. Eppure, nonostante queste criticità, molto spesso le difficoltà di alfabetizzazione e di carenza di risorse, vista la costante diminuzione di costi delle tecnologie, potrebbero essere facilmente superate con un po’ di buona volontà del docente curriculare, del dirigente scolastico e dell’insegnante di sostegno, accompagnata da un’indispensabile focalizzazione sul problema. L’accesso ai corsi universitari Analoghe considerazioni possono essere fatte per quanto riguarda gli interventi nel percorso scuola-università, sia nell’accesso ai corsi a numero programmato sia in relazione al sostegno per la frequenza dei corsi universitari. Si verifica con sconcertante frequenza che le regole fissate per le agevolazioni da concedere per l’accesso ai corsi universitari a numero programmato, regolate secondo indicatori e metriche assolutamente prive di senso, in alcuni casi penalizzano e in altri agevolano in modo

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eccessivo persone con disabilità, che molto spesso si vedono precluso l’accesso a questi corsi di studio. Le agevolazioni concesse al candidato, che riporta una disabilità certificata, sono infatti normalmente concesse in base alla percentuale di invalidità e non secondo qualificatori più mirati (cfr. l’International Classification of Functioning) che tengono conto dello specifico handicap, in relazione al percorso formativo; pertanto, accade che, nel nome di un miope principio di “trasparenza” e sulla base di metriche aventi l’unico pregio di essere giuridicamente consolidate, vengono predisposti, a sostegno degli studenti, interventi standardizzati che, non tenendo in debito conto le specifiche problematiche, generano di fatto ulteriori discriminazioni. Come si può pensare infatti di adottare le medesime modalità per giovani ciechi, oppure per persone affette da distrofia muscolare? Eppure, ognuno di loro, a seconda del particolare percorso formativo, può esibire diverse “abilità” che devono poter essere singolarmente analizzate e valorizzate. Da questo punto di vista, un esempio particolarmente significativo è quello del problema dell’accesso al corso di laurea in fisioterapia da parte di candidati ciechi. La particolare abilità delle persone cieche nelle manipolazioni corporee, alla base dei trattamenti fisioterapici e massoterapici, è largamente riconosciuta, eppure, malgrado ciò, l’accesso delle persone non vedenti alle prove di ammissione è di fatto precluso, alla luce dei contenuti delle prove stesse. Una delle possibili traiettorie di soluzione per questo tipo di problema è quello di introdurre, almeno a titolo sperimentale, dei percorsi di selezione e di formazione “equipollenti” che, nel rispetto dei contenuti minimi formativi, agevolino l’accesso a persone che esibiscono abilità alternative a quelle delle persone cosiddette normali. La gestione dell’assistenza Malauguratamente, nel Centro-Sud Italia (e in Campania in particolare) un siffatto approccio generalista relativo alla gestione delle risorse da destinare alle persone con disabilità è ancora largamente radicato nei modelli organizzativi del comparto sanitario. Di conseguenza, le richieste di assistenza e di dispositivi medici (e quant’altro venga valutato sulla base di indicatori desueti) non danno origine a

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una progettazione individualizzata, indispensabile per un intervento realmente efficace. L’aspetto più drammatico di questo stato di cose è che, pur non ottenendo risultati soddisfacenti, esso si traduce comunque in costi rilevanti per la collettività; difatti, la mancanza di affidabili meccanismi in grado di entrare nel merito degli specifici problemi mantiene aperti canali di spesa che potrebbero essere eliminati. Il suggerimento non è certamente quello di modificare l’impianto legislativo, anzi l’attuale normativa ha tutti gli spazi per poter predisporre modelli di intervento efficaci, come peraltro ampiamente dimostrano alcune esperienze virtuose in regioni italiane quali l’Emilia-Romagna e il Veneto, dove le Commissioni Mediche sono state affiancate da altri gruppi di lavoro che, col sostegno di nuovi soggetti sia pubblici sia privati, esaminano analiticamente le singole istanze, contribuendo in tal modo a razionalizzare la spesa e a rendere efficienti gli interventi Bisognerebbe avere il coraggio politico di investire in servizi/competenze e sviluppare le necessarie reti tra i vari attori del territorio, al fine di agevolare una gestione appropriata della domanda di servizi da parte dei soggetti preposti. A titolo di esempio, negli ultimi 10 anni in Campania si è consolidata una serie di meccanismi perversi di spesa a favore del settore della riabilitazione che hanno sottratto ingenti risorse agli interventi più prettamente sociosanitari. Evidentemente, fatta salva l’invariabilità del tetto di spesa per il piano di rientro, qualunque intervento sul modello di gestione deve necessariamente condurre a una redistribuzione delle risorse, cosa questa che naturalmente implica un forte impatto sugli stakeholder istituzionali e no. Formazione professionale e lavoro Le politiche per l’integrazione sviluppate dai servizi territoriali e dal sistema scolastico hanno determinato una forte crescita della domanda di lavoro e di formazione professionale da parte delle persone con disabilità. A partire sempre dalla legge quadro e con la successiva L. 68/99, sono ormai numerose le esperienze di inserimento in imprese, sia pubbliche sia private, di lavoratori con disabilità fisica medio-grave.

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Il corretto impiego delle tecnologie 39

Tali esperienze sono state generalmente promosse dai servizi di formazione professionale (facilitate anch’esse dall’impiego di particolari tecnologie), regolate da convenzioni sottoscritte dagli imprenditori con i servizi del collocamento e supportate dalla contrattazione sindacale sia nazionale sia aziendale. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione dei lavoratori con disabilità, soprattutto quelli “veri”, è ancora particolarmente elevato, e non tanto per la generale crisi occupazionale, quanto per una vecchia legislazione inadeguata, burocratica, assistenzialistica e, soprattutto, per le resistenze del mondo imprenditoriale, che non ha saputo cogliere le opportunità offerte dalla crescente domanda di occupazione delle persone con disabilità. Eppure, a tale riguardo, un’opportuna organizzazione del lavoro potrebbe trarre giovamento da una delle soluzioni offerte dal mondo tecnologico quale il telelavoro. L’idea di base è quella di realizzare un piccolo ufficio tra le mura domestiche, creando cioè delle stazioni di lavoro distribuite sul territorio, attraverso le quali la persona con disabilità possa portare avanti una propria attività, più o meno autonoma. Sfortunatamente, anche alla luce della evoluzione tecnologica dei sistemi produttivi, si evidenzia una significativa difficoltà del sistema produttivo di avviare una riorganizzazione dei flussi di lavoro (work flow management), malgrado le facilities offerte dalle nuove tecnologie informatiche. Le difficoltà emerse riguardano il trasporto, l’accessibilità, la fruibilità degli ambienti di lavoro e l’accessibilità delle stesse applicazioni informatiche, sebbene in misura progressivamente decrescente. Anche in questi casi le tecnologie assistive, un’adeguata alfabetizzazione informatica delle persone con disabilità e dei colleghi di lavoro e un’opportuna riorganizzazione dei flussi lavorativi (prevista, tra l’altro, dal Legislatore italiano) farebbero la differenza. Conclusioni L’inclusione in ambito scolastico, universitario e lavorativo è un processo complesso che deve essere gestito secondo un modello di rete multidisciplinare, supportato da servizi sociosanitari efficienti e integrati tra loro.

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Il prisma dell’inclusione

Le tecnologie offrono numerose soluzioni per i più svariati problemi e anche i costi si fanno sempre più accessibili. Gli interventi tecnici vanno, tuttavia, adeguatamente progettati e sostenuti nel tempo; sistema formativo e società civile devono adeguare i propri modelli di lavoro per consentire la partecipazione delle persone con disabilità nel pieno rispetto della dignità della persona, perseguendo l’obiettivo di elevare la qualità della vita degli individui. Se i recenti orientamenti hanno contribuito a sviluppare una maggiore attenzione alla soddisfazione dei bisogni di tutti i cittadini, è indubitabile, però, che, per raggiungere la reale inclusione sociale delle persone con disabilità, gli attuali servizi pubblici devono ancora crescere molto in termini qualitativi.

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Il bullismo omofobico: inquadramento teorico e strategie di prevenzione e contrasto

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di Anna Lisa Amodeo, Cristiano Scandurra, Paolo Valerio

Premessa Formazione, inclusione sociale, cittadinanza attiva sono i concetti trasversali che tagliano questo testo. Perché dunque inserire il tema del bullismo omofobico che spinge verso nuove categorie analitiche e culturali? Come a breve mostreremo, in questa particolare forma di prevaricazione sembrano agire in primis le differenze di genere che, come in un pericoloso scacco, finiscono per assurgere a potente dispositivo di controllo del “diverso” sfociando in agiti comportamentali e pensieri discriminatori e, per ciò stesso, escludenti. Sforzandoci di trovare un fil rouge accomunante le tre aree sovraesposte, ci sembra di poterlo riscontrare nel macro-tema della cultura delle differenze. Una sua possibile definizione può essere rintracciata nel rapporto dell’“United Nations Development Programme” intitolato La libertà culturale in un mondo di diversità: “Lo sviluppo umano significa anzitutto permettere alle persone di vivere il tipo di vita che essi scelgono – fornendo loro gli strumenti e le opportunità per fare questo genere di scelte”. Se pensiamo davvero che ogni forma di discriminazione e stigmatizzazione – in questo caso basate sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla semplice non conformità di genere – risponda a una logica escludente in cui vigono potenti ideologie dominanti tese a fare della differenza un disvalore che finisce per alimentare il distanziamento, risulta forse più comprensibile l’inserimento dei tre concetti trasversali al testo all’interno della cornice della cultura delle differenze. Quest’ultima può trovare le sue radici tanto nella famiglia – durante il periodo di socializzazione primaria – tanto nella scuola,

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Il prisma dell’inclusione

luogo deputato alla socializzazione secondaria. Famiglia e scuola, dunque, rappresentano istituzioni sociali che hanno un arduo compito: formare i futuri “cittadini del mondo” ad adattarsi a un contesto già di per sé ricco di differenze e non certo ad accogliere le differenze, posizione quest’ultima che potrebbe nascondere un rischioso e silente pregiudizio secondo il quale è l’Altro differente a dover essere “inserito” in un mondo normalizzato e, quindi, dominante. Pensiamo che solo questo andare verso e non portare dentro consenta realmente il dipanarsi di una cultura delle differenze che sia includente tout court. Purtroppo, la famiglia e la scuola si trovano spesso impossibilitate a svolgere questo compito a causa di una serie di ideologie interiorizzate ed implicite che molto hanno a che fare con la differenza di genere: pensiamo al maschilismo ed al sessismo che, ponendo il maschio in una posizione di potere e, quindi, decisionale, fondano la società su una disuguaglianza di base, difficilmente scardinabile, pericolosa, ma pur sempre organizzatrice di ruoli e funzioni sociali. Pensiamo, poi, all’eterosessismo, ovvero alla differenza di potere tra persone eterosessuali ed omosessuali, le prime di certo considerate più “normali”, più “naturali”, in grado di procreare e perpetuare la specie. Eterosessismo che si incastra inestricabilmente con l’omofobia, ovvero l’odio, l’avversione, il disgusto verso tutto ciò che non rientra nella eterosessualità. Ed il bullismo a base omofobica può rappresentare una delle primissime discriminazioni, stigmatizzazioni e, in fondo, violenze reali e simboliche agite al fine di una sorta di “riproduzione filogenetica” – sebbene agite “ontogeneticamente” – dei dispositivi organizzatori di potere tendenti all’esclusione sociale. Obiettivo ultimo di siffatti meccanismi è mantenere lo status quo ed evitare destabilizzazioni. Ecco perché siamo fermamente convinti che gli interventi più efficaci che aiutino a sviluppare una cultura delle differenze possano essere solo quelli della prevenzione primaria e secondaria, in famiglia e nella scuola, interventi che coinvolgano l’intero sistema, ovvero studenti, genitori, docenti e tutti quanti contribuiscano con le proprie rappresentazioni sociali a creare il contesto. Sono queste le premesse di una cittadinanza attiva che riesca, dunque, ad “attivare” realmente l’uguaglianza. Affermiamo con forza quanto appena detto alla luce del fatto che il bullismo omofobico rappresenta ormai un fenomeno sociale sempre più allarmante, tanto da ricevere una specifica attenzione da parte dei mass media e della comunità scientifica. Le cronache sono sature di

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Il bullismo omofobico 47

episodi che vedono coinvolti giovani omosessuali o adolescenti percepiti tali in veste di vittime. Il crescente numero di questi episodi mette in luce una tensione socio-culturale sempre più drastica che vede come protagoniste le differenze sessuali e di genere che sembrano essere in grado di attivare angosce, paure e timori difficilmente contenibili. L’istituzione scolastica, di fronte a quest’emergenza, si trova a volte impreparata, a volte immersa in una dimensione di diniego, divenendo parte del coro degli attori che perpetuano violenze e discriminazioni. Eppure la scuola, luogo della socializzazione secondaria, sede del rafforzamento e consolidamento di tutti quegli atteggiamenti verso il sesso ed il genere che sono appresi durante la fase della socializzazione primaria, deve porsi come garante di politiche egualitarie e di inclusione sociale e culturale che rischiano di essere messe a dura prova se non c’è una reale conoscenza del fenomeno.

Un po’ di chiarezza: Le specificità del bullismo omofobico Bullismo è la traduzione letterale del termine inglese bullying, con il quale vengono indicate quelle diverse forme di prepotenze tra pari agite in un contesto gruppale. Il primo a studiare questo fenomeno fu Olweus che, a partire dagli anni ‘70, tentò di sistematizzare concettualmente la natura, la frequenza e gli effetti a lungo termine del bullismo. La definizione che ne dà l’autore è la seguente: «Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni»1. Le condizioni necessarie affinché si possa parlare di bullismo sono ben delineate da Fonzi2. Esse consistono nell’intenzionalità dell’atto aggressivo, nella sistematicità e persistenza con cui quest’atto viene perpetuato e nell’asimmetria relazionale che richiama un forte squilibrio di potere in grado di impedire alla vittima di attuare comportamenti difensivi. Le modalità attraverso le quali la prepotenza e l’aggressività vengono 1

D. Olweus, Il bullismo a scuola: Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Firenze: Giunti, 2006, pp. 11-12. 2 A. Fonzi, “Bullismo. La storia continua… Dal gioco crudele alla crudeltà violenta”, «Psicologia Contemporanea», 197, 2006, pp. 28-36.

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Il prisma dell’inclusione

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agite possono essere fisiche (aggressioni fisiche, danneggiamenti, furti), verbali (insulti, derisioni, ingiurie) o psicologiche (manipolazioni relazionali finalizzate in particolare all’isolamento della vittima). Il bullismo viene esercitato spesso ai danni di persone che presentano caratteristiche individuali considerate indesiderabili (persone sovrappeso, con difetti di pronuncia, ecc.) o che, a vario titolo, sono parte di gruppi socialmente stigmatizzati. Spesso viene esercitato nei confronti di chi viene considerato come “strano”, anche solo perché con i propri comportamenti, atteggiamenti, modo di relazionarsi, interessi, non è aderente agli stereotipi di genere o alle norme condivise dalla “maggioranza” del gruppo sociale di riferimento. In realtà, però, tutti possiamo essere potenzialmente vittime di bullismo, perché più fragili, più deboli, perché maggiormente vulnerabili e sensibili, perché temporaneamente o improvvisamente meno capaci di fronteggiare l’aggressività e impossibilitati a difenderci. È altrettanto vero, però, che esistono delle dimensioni che possono caratterizzare maggiormente la specificità del bullismo omofobico. Platero e Gomez sostengono che, quando si parla di bullismo omofobico, si ha a che fare con: «quei comportamenti violenti a causa dei quali un alunno o un’alunna viene esposto ripetutamente all’esclusione, isolamento, minaccia, insulti e aggressioni da parte del gruppo dei pari, di una o più persone che fanno parte dell’ambiente a lui/lei più vicino, in una relazione asimmetrica di potere, dove gli aggressori o “bulli” si servono dell’omofobia, del sessismo, e dei valori associati all’eterosessismo. La vittima sarà squalificata e de-umanizzata, e in generale, non potrà uscir fuori da sola da questa situazione, in cui possono trovarsi tanto i giovani gay, lesbiche, transessuali o bisessuali, ma anche qualunque persona che sia recepita o rappresentata fuori dai modelli di genere normativi»3.

Dalla definizione emerge che una delle specificità del bullismo omofobico – che per le tre caratteristiche individuate da Fonzi non si discosta dal bullismo in generale – sta nel coinvolgimento non solo della giovane popolazione LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) ma anche di tutti quegli adolescenti che sono percepiti

3

R. Platero, E.Gómez, Herramientas para combatir el bullying homofóbico, Madrid: Talasa, 2007.

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Il bullismo omofobico 49

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come omosessuali ma che, in realtà, vivono la propria identità sessuale in maniera ancora incerta, in virtù della fase evolutiva specifica che stanno attraversando. I substrati comuni risultano quindi essere sia l’omofobia – o, seguendo una dizione di più ampio respiro, omonegatività4 – sia dei dispositivi di potere interiorizzati sin dalle primissime

4 Cfr. W. Hudson, W.Ricketts, “A strategy for the measure of homophobia”. «Journal of Homosexuality», Vol. 5, No. 4, 1980, pp. 357-372. La prima definizione di omofobia si deve a George Weinberg (Society and the Healthy Homosexual, New York: St. Martin’s Press, 1972) che la descrisse come «il timore di essere con un omosessuale in un luogo chiuso e, per quel che riguarda gli omosessuali, l’odio verso se stessi» (p. 4). Si tratterebbe, in sostanza, di una paura irrazionale di trovarsi a stretto contatto con una persona omosessuale, paura che spinge ad una serie di reazioni quali ansia, disgusto, avversione, disagio. Secondo Herek (“Attitudes toward lesbians and gay men: A factor analytic study”, «Journal of Homosexuality», Vol. 10, Nos. 1/2, 1984, pp. 39-51) l’omofobia trarrebbe origine da una serie di componenti tra loro interagenti: a) scarso contatto con persone gay e lesbiche; b) mancanza di esperienze omosessuali personali; c) vivere in una zona in cui l’omosessualità non è accettata; d) avere un livello di educazione molto basso; d) identificarsi come una persona religiosa; e) essere poco permissivo verso la sessualità in generale; f) esprimere alti livelli di autoritarismo. A ciò si aggiungerebbe uno stereotipo estremamente pericoloso che equipara l’omosessualità all’effeminatezza. Come nota Lingiardi (Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, Milano: Il Saggiatore, 2007) il termine “omofobia”, la cui radice e derivazione richiama la fobia, è un termine insoddisfacente poiché non ha nulla a che fare con la fobia intesa in senso strettamente clinico. Se, infatti, il suffisso “fobia” focalizzerebbe l’attenzione solo sulle componenti irrazionali e, dunque individuali – come asserisce Weinberg – ciò comporta l’automatica eliminazione di tutta la sfera culturale e sociale – e anche intenzionale – dalla quale l’omofobia pure prende forma. Inoltre, per porre diagnosi di fobia devono essere presenti la consapevolezza che la paura sia eccessiva e irrazionale, che sia inadeguata rispetto all’oggetto di cui si ha paura e il desiderio di liberarsi dalla fobia, che risulta limitante nella vita quotidiana; oltre a ciò essa comporta sempre l’evitamento dell’oggetto o della situazione temuti. Nessuno di questi criteri è soddisfatto dall’omofobia poiché la persona omofoba giustifica il proprio atto discriminatorio che non compromette il funzionamento sociale, né evita l’oggetto o avverte con disagio la propria fobia. Il termine omofobia appare dunque limitato alle sole forme e manifestazioni psicologiche ed intrapsichiche (irrazionali) del costrutto, ragion per cui molti studiosi preferiscono utilizzare un concetto multidimensionale di più ampio respiro: omonegatività secondo cui «l’omofobia in senso stretto sarebbe solo un fattore nel contesto più ampio di atteggiamenti che coinvolgono il piano sociale, culturale, legale, morale» (V. Lingiardi, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, cit., pp. 46-47). Con tale termine si dà spazio anche al pregiudizio e alla

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Il prisma dell’inclusione

fasi della socializzazione che vanno sotto il nome di eterosessismo. Esso è definito da Herek quale «sistema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità non eterosessuale»5, spingendo alla negazione totale dell’omosessualità in quanto realtà esistente e costitutiva di alcuni individui e colpendo tutto ciò che non rientra nelle norme culturalmente imposte di femminilità e mascolinità. Da questa posizione risulta piuttosto facilitata la costruzione di quei meccanismi che andranno a costituire la base dello stigma sessuale, ovvero della «conoscenza socialmente condivisa dello status svalutato che l’omosessualità ha in società»6. Un costrutto teorico che tenta di racchiudere quanto detto finora è quello del Minority Stress7, ossia di uno «stress continuativo, macro e micro traumatico, conseguenza di stigmatizzazione, episodi di discriminazione, casi di violenza»8. Meyer ha posto in relazione il Minority Stress alla condizione cronica di stress che alcune persone omosessuali, in una società eterosessista come quella occidentale, si trovano a vivere a causa dello stigma che grava su di loro. Il costrutto è costituito da 3 componenti che si muovono su un continuum costruito su una doppia polarità che va dai fattori stressanti più soggettivi/personali a quelli più oggettivi/esteriorizzati; tali componenti sono: 1) forme interiorizzate dello stigma; 2) stigma percepito; 3) esperienze vissute di discriminazione e violenza. In accordo con quanto affermato da Lingiardi, si può sostenere che quando la dimensione discriminatoria attiva e violenta presente in questo particolare tipo di stress riguarda l’età infantile e adolescenziale, è lecito parlare di bullismo omofobico, le cui conseguenze a breve e lungo termine sono di diversa entità e vanno dal ritiro scolastico e dall’isolamento fino a depressione, ansia e comportamenti autodistruttivi tra i quali è contemplato anche il

disapprovazione – e non solo alla paura, all’imbarazzo e al disagio – quali fattori predisponenti gli atteggiamenti omofobici. 5 G.M. Herek, “Beyond ‘homophobia’: Thinking about sexual stigma and prejudice in the twenty-first century”, «Sexuality Research and Social Policy», Vol. 1, No. 2, 2004, pp. 16. 6 Ivi, p. 15. 7 I.H. Meyer, “Minority stress and mental health in gay men”, «Journal of Health and Social Behavior», Vol. 36, No. 1, 1995, pp. 38-56. 8 V. Lingiardi, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, cit., p. 76.

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Il bullismo omofobico 51

suicidio. Sempre seguendo Lingiardi9, è possibile enucleare quattro caratteristiche precipue del bullismo omofobico: a) le prepotenze chiamano sempre in causa una dimensione specificamente sessuale; b) la vittima può incontrare particolari difficoltà a chiedere aiuto agli adulti; c) il bambino vittima di bullismo omofobico può incontrare particolari difficoltà a individuare figure di sostegno e protezione fra i suoi pari; d) il bullismo omofobico può, in alcuni casi, assumere la veste di difesa dall’omosessualità, dando la possibilità a chi lo agisce di affermare la sua “normalità” e, contemporaneamente, di dar luogo ad affetti omosessuali repressi. Molinuelo10 chiarisce maggiormente le specificità del bullismo omofobico, ravvisandole nell’invisibilità, nell’assenza di supporto familiare e scolastico, nel contagio dello stigma a tutti coloro che, a diverso titolo, appoggiano le persone LGBT e nella normalizzazione dell’omofobia. Tali caratteristiche, in parte riprese da Prati et al.11, si accostano alla forte percezione che il potere agito sull’altro da sé, sul “differente”, possa diventare un passepartout per il successo e l’inserimento sociale. Mandel e Shakeshaft12, a tal proposito, sostengono con forza che il bullismo omofobico e tutti i suoi corollari comportamentali rappresentino una modalità tramite la quale i maschi affermano e provano la propria mascolinità ed eterosessualità. Quest’ultima affermazione rende evidente l’esistenza di specifiche differenze di genere che vedono come protagonisti sia i maschi sia le femmine, ma con ruoli e caratteristiche diverse: sembra, infatti, che i maschi siano più portati alla violenza fisica e a comportamenti diretti, mentre le femmine adottino modalità più sottili ed indirette con una sottesa aggressività relazionale che spingerebbe, ad esempio, all’isolamento dal gruppo e alla diffusione di calunnie13. 9

Ivi, pp. 87-88. B. Molinuelo, Especificidad del Acoso Escolar por Homofobia. Curso El Sexo y El Amor no son de un solo color, Madrid: CCOO, 2007. 11 G. Prati, L. Pietrantoni, E. Buccoliero, M. Maggi, Il bullismo omofobico. Manuale teorico-pratico per insegnanti e operatori, Milano: FrancoAngeli, 2010. 12 L. Mandel, C. Shakeshaft, “Heterosexism in middle schools”, in N. Lesko (ed.), Masculinities at School, Thousand Oaks (CA): Sage. 2000, pp. 75-103. 13 Cfr. K. Bjorkqvist, “Sex Differences in Physical, Verbal, and Indirect Aggression: A Review of Recent Research”, «Sex Roles», Vol. 30, Nos. 3/4, 1994, pp. 177-188; N. Crick, “Relational Aggression: The Role of Intent Attributions, Feelings of Distress, and Provocation Type”, «Development and Psychopathol10

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Il prisma dell’inclusione

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Di chi stiamo parlando? Breve disamina dei profili psicologici dei bulli e delle vittime Tutti gli studi più recenti che si occupano di bullismo evidenziano ormai che tale fenomeno non consiste in una semplice interazione duale e conflittuale tra un bullo ed una vittima, ma che si connoti in termini gruppali. Salmivalli et al.14, ponendo l’accento sulla natura gruppale del bullismo, hanno individuato le caratteristiche associate a ben sei tipologie di attori che prendono parte ad un episodio di prevaricazione: 1) il bullo è colui che prende attivamente l’iniziativa, che dà l’avvio alla prepotenza; 2) l’aiutante agisce la prepotenza, ma rimanendo in una posizione secondaria rispetto al bullo di cui è il seguace; 3) il sostenitore rinforza il comportamento del bullo incitando a perseguire nell’azione; 4) il difensore è colui che prende le difese della vittima tentando di far cessare l’azione e consolando; 5) l’esterno è colui che rimane indifferente, una sorta di osservatore astante; 6) infine, la vittima che subisce le prepotenze. Non è possibile in questa sede soffermarci approfonditamente su ogni attore coinvolto, ma ci preme delineare almeno le caratteristiche dei bulli e delle vittime, protagonisti di un siffatto scenario. Olweus15 ha tracciato il profilo del bullo, delineandolo principalmente come un maschio, aggressivo, dotato di un’elevata autostima, impulsività e bisogno di dominare gli altri, ma con scarsa empatia nei confronti delle vittime giungendo anche a deumanizzarle al fine di giustificare la propria condotta. Ciò che caratterizza particolarmente il bullo, seguendo l’autore, è un modello reattivo aggressivo associato alla forza fisica. Se, in passato, si era pensato che i bulli presentassero un deficit socio-cognitivo che impediva loro di leggere e decifrare le ogy», Vol. 7, 1995, pp. 313-322.; A. Fonzi, Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia. Ricerche e prospettive di intervento, Firenze: Giunti, 1997; M.G. Lazzarin, E. Zambianchi, Pratiche didattiche per prevenire il bullismo a scuola, Milano: FrancoAngeli, 2004; G. Gini, Il bullismo. Le regole della prepotenza tra caratteristiche individuali e potere nel gruppo, Roma: Firera & Liuzzo Publishing, 2005. 14 C. Salmivalli, K. Lagerspetz, K. Bjorqvist, K.Osterman, A. Kaukiainen, “Bullying as a Group Process: Participant Roles and Their Relations to Social Status within the Group”, «Aggressive Behavior», Vol. 22, No. 1, 1996, pp. 1-15. 15 D. Olweus, Il bullismo a scuola: Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, cit.

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emozioni e le intenzioni altrui, studi più recenti16 hanno sottolineato, invece, che il bullo è un individuo dotato di competenze sociali che però vengono utilizzate per fini strumentali e, nello specifico, per manipolare la situazione e trarne qualche vantaggio. Gli studi sugli effetti psicosociali che il bullismo omofobico agito comporta sottolineano quanto i bulli tendano a sviluppare condotte delinquenziali in età adulta, isolamento sociale, depressione, tentativi di suicidio e basso rendimento scolastico17. La vittima, invece, è solitamente una persona più ansiosa ed insicura, dotata di scarsa autostima, incapace di reagire di fronte ai soprusi. È una persona isolata ed esclusa dal gruppo-classe, ha spesso difficoltà nel chiedere aiuto, può giungere ad auto-colpevolizzarsi18. Esistono due tipologie di vittime individuate da Olweus19: la vittima passiva o sottomessa che è caratterizzata da un modello reattivo ansioso associato alla debolezza fisica, e la vittima provocatrice, che tende a procurare reazioni negative nell’altro e che presenta una combinazione del modello reattivo ansioso ed aggressivo. Swearer et al.20 sostengono che le vittime di bullismo omofobico percepiscono negativamente l’ambiente scolastico e hanno la possibilità di sviluppare maggiori livelli di ansia e depressione. Molti studi21 dimostrano

16 P.K. Sutton, J. Smith, J. Swettenham, “Bullying and ‘Theory of Mind’: A Critique of the ‘Social Skills Deficit’ View of Anti-Social Behavior”, «Social Development», Vol. 8, No. 1, 1999, pp. 117-127. 17 D. Fedeli, Il Bullismo: Oltre. Dai miti alla realtà: La comprensione del fenomeno, Brescia: Vannini, 2007. 18 S. Graham, J. Juvonen, “Self-Blame and Peer Victimization in Middle School: An Attributional Analysis”, «Developmental Psychology», Vol. 34, No. 3, 1998, pp. 587-599. 19 D. Olweus, Il bullismo a scuola: Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, cit. 20 S.M., Swearer, R.K. Turner, J.E. Givens, W.S. Pollack, “‘You’re so Gay!’: Do Different Forms of Bullying Matter for Adolescents Males?, «School Psychology Review», Vol. 37, No. 2, 2008, pp. 160-173. 21 Cfr. A.R. D’Augelli, N.W. Pilkington, S.L. Hershberger, “Incidence and Mental Health Impact of Sexual Orientation Victimization of Lesbian, Gay and Bisexual Youths in High School”, «School Psychology Quarterly», Vol. 17, No. 2, 2002, pp. 148-167; I. Rivers, “Recollections of Homophobia at School and Their Long-Term Implications for Research”, «Crisis: Journal of Crisis Intervention and Suicide Prevention», Vol. 25, No. 4, 2004, pp. 169-175; V.P. Poteat, D.L. Espelage, “Predicting Psychosocial Consequences of Homophobic Victimization in

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che le conseguenze psicosociali su chi è vittima di bullismo omofobico comprendono bassa autostima, stress post-traumatico, senso di impotenza e depressione, diminuzione del rendimento scolastico, esclusione sociale, utilizzo di sostanze stupefacenti, autolesionismo fino a tentativi di suicidio. Quanto detto finora mostra la consistenza della questione che diventa tanto più seria quanto più si considera approvata l’associazione tra bullismo omofobico e rischi per la salute psico-fisica.

Fattori di rischio e protezione del bullismo omofobico Come precedentemente accennato, un numero crescente di ricerche – in particolare pubblicate su un numero dedicato al bullismo omofobico, nel 2008, dalla rivista School Psychology Review – ha ampiamente dimostrato che le prepotenze, le aggressioni, gli insulti a sfondo omofobico costituiscono dei fattori di stress molto seri che possono rappresentare la causa di autoemarginazione, problemi psicosomatici, depressione, ansia, insonnia, comportamenti autodistruttivi. La vittimizzazione agita ad opera dei pari è risultata essere un forte predittore di abbandono scolastico e disinvestimento nei confronti della scuola da parte di adolescenti LGB22. Se consideriamo che la maggior parte di comportamenti omofobici avviene in ambito scolastico23, è facile comprendere l’emergenza e l’allarme collegati a questo particolare tipo di prevaricazione. I fattori di rischio studiati che ritroviamo in letteratura sono numerosi, e possono essere racchiusi nelle macro-aree della classe soMiddle School Students”, «Journal of Early Adolescence», Vol. 27, No. 2, 2007, pp. 175-191; D.L., Espelage, S.R. Aragon, M. Birkett, B.W. Koenig, “Homophobic Teasing, Psychological Outcomes, and Sexual Orientation among High School Students: What Influence Do Parents and Schools Have?”, «School Psychology Review», Vol. 37, No. 2, 2008, pp. 202-216. 22 T.B. Murdock, M.B. Bolch, “Risk and Protective Factors for Poor School Adjustment in Lesbian, Gay, and Bisexual (LGB) High School Youth: Variable and Person-Centered Analyses”, «Psychology in the Schools», Vol. 42, No. 2, 2005, pp. 159–117. 23 M. Kimmel, M. Mahler, “Adolescent Masculinity, Homophobia and Violence”, «The American Behavioral Scientist», Vol. 46, No. 10, 2003, pp. 1439-1458.

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ciale di appartenenza e della cultura, della famiglia, delle dinamiche scolastiche e della personalità. Per quanto riguarda la variabile della classe sociale, i risultati appaiono piuttosto controversi. Smith et al.24, in uno studio effettuato nel Regno Unito, hanno riscontrato una correlazione tra bullismo e svantaggio sociale, ma il suddetto legame non ha ritrovato le stesse evidenze empiriche in altri Paesi25. In una ricerca napoletana26, è emerso che ciò che influisce sull’ampiezza del fenomeno non è tanto la classe sociale, quanto piuttosto l’ambiente socio-culturale, il quartiere e la zona in cui si vive: vivere in luoghi già densi di criminalità potrebbe comportare una maggiore probabilità di riscontrare fenomeni di bullismo omofobico. Un secondo fattore preso in considerazione in letteratura è la famiglia d’origine, nello specifico il legame che sussisterebbe tra il clima educativo dei genitori e le problematiche di bullismo e vittimizzazione. Ad esempio, già Olweus27 aveva evidenziato l’immersione del bullo in un clima familiare apertamente ostile che utilizzerebbe degli stili educativi autoritari, violenti e coercitivi. Ross28, evidenziando anche la presenza di uno stile educativo parentale incoerente, ha rivelato come questo possa rendere il bambino incapace di prevedere le reazioni dei suoi genitori. Gli studi che si sono concentrati, invece, sul contesto familiare della vittima29, hanno rilevato atteggiamenti iperprotettivi 24 P. K., Smith, Y. Morita, J. Junger-Tas, D. Olweus, R. Catalano, P. Slee (eds.), The Nature of School Bullying: A Cross-National Perspective, London & New York: Routledge, 1999. 25 Cfr. D. Olweus, Il bullismo a scuola: Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, cit.; A. Almeida, “Portugal”, in P.K. Smith, Y. Morita, J. Junger-Tas, D. Olweus, R. Catalano, P.T. Slee (eds.), The Nature of School Bullying: A Cross-National Perspective London & New York: Routledge, 1999, pp. 174-186; R. Ortega, M. Lera, “The Seville Anti-Bullying in School Project”, «Aggressive Behavior», Vol. 26, No. 1, 2000, pp. 113-123. 26 D. Bacchini, P. Valerio, “Napoli: L’arte di sopravvivere tra conflitto ed affiliazione”, in A. Fonzi (A cura di), Il bullismo in Italia, Firenze: Giunti, 1997, pp. 109-140. 27 D. Olweus, Il bullismo a scuola: Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, cit. 28 D.M. Ross, Childhood Bullying and Teasing: What School Personnel, Other Professionals, and Parents Can Do, Alexandria (VA): American Counselling Association, 1996. 29 I. Bowers, P.K. Smith, V. Binney, “Cohesion and Power in the Families of

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Il prisma dell’inclusione

ed un nucleo familiare eccessivamente coeso: la conseguenza di un siffatto contesto potrebbe consistere in un’estrema difficoltà nel gestire le relazioni sociali con gli altri. Un altro fattore di rischio considerato è la dinamica gruppale di classe. Salmivalli et al.30, e più di recente Graham e Juvonen31, hanno individuato dei meccanismi psicologici di gruppo che, se presenti, rischiano di far agire dinamiche prevaricatorie di bullismo e vittimizzazione anche a ragazzi solitamente poco aggressivi. Si tratta dei meccanismi del contatto sociale che creano la possibilità di comportarsi in maniera più aggressiva dopo aver osservato qualcun altro agire aggressivamente e ciò è tanto più probabile quanto più l’altro viene valutato positivamente; un altro meccanismo è quello della diffusione della responsabilità: il senso di responsabilità individuale si riduce se sono presenti altri studenti durante l’episodio di bullismo. Altri due meccanismi individuati dagli autori sono l’indebolimento del controllo, ovvero è più forte la volontà gruppale di mettere in atto le prepotenze rispetto ai processi inibitori che dovrebbero evitarne la comparsa, e i cambiamenti progressivi nella percezione della vittima come diversa da sé e spesso connotata da tratti “non umani”. Un ultimo fattore di rischio solitamente indagato è quello della personalità. Alcuni studi32 hanno identificato le caratteristiche personologiche dei bulli in una serie di fattori, quali l’aggressività generalizzata, l’impulsività, l’irrequietezza, la scarsa empatia e gli atteggiamenti positivi verso la violenza, il disimpegno morale e la deumanizzazione, Children Involved in Bully/Victim Problems at School”, «Journal of Family Therapy», Vol. 14, No. 4, 1992, pp. 371-387. 30 C. Salmivalli, K. Lagerspetz, K. Bjorqvist, K.Osterman, A. Kaukiainen, “Bullying as a Group Process: Participant Roles and Their Relations to Social Status within the Group”, «Aggressive Behavior», cit. 31 S. Graham, J. Juvonen, “Self-Blame and Peer Victimization in Middle School: An Attributional Analysis”, «Developmental Psychology», cit.; Idd., “An Attributional Approach to Peer Victimization”, in J. Juvonen, S. Graham (eds.), Peer Harassment in School: The Plight of the Vulnerable and Victimized, New York: Guilford, 2001, pp. 44-72. 32 D. Olweus, Il bullismo a scuola: Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, cit.; D.P. Farrington, “The Development of Offending and Antisocial Behaviour from Childhood: Key Findings from the Cambridge Study in Delinquent Development”, «Journal of Child Psychology and Psychiatry», Vol. 36, No. 6, 1995, pp. 929–964; A. Fonzi, Il gioco crudele, Firenze: Giunti, 1999.

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mentre le vittime sarebbero caratterizzate maggiormente da ansia e scarsa autostima. Uno studio recente di Ball et al.33, condotto su oltre 1000 gemelli, ha tentato di valutare il ruolo e l’influenza dei fattori genetici ed ambientali sulla personalità del bullo e della vittima: i fattori genetici spiegano all’incirca il 70% della varianza del bullismo ed il 60% della vittimizzazione. Fortunatamente esistono una serie di fattori di protezione che è necessario rafforzare poiché possono essere in grado di mitigare gli effetti negativi dei fattori di rischio e, di conseguenza, ridurre la probabilità di attuare condotte disfunzionali34. Il bullismo ed il conflitto tra pari sono eventi estremamente stressanti e le capacità di resilienza, come le strategie di coping e di problem solving, possono aiutare gli studenti a sviluppare relazioni soddisfacenti e a ridurre l’impatto negativo di questi episodi. Rutter35, relativamente ai fattori di protezione, ha individuato 3 sotto-gruppi: 1) caratteristiche individuali della persona, come ad esempio abilità cognitive e socio-cognitive, temperamentali ed affettive; 2) qualità delle interazioni individuoambiente; 3) qualità del contesto sociale. Bryant36 ha dimostrato che i giovani non coinvolti in episodi di bullismo sono in grado di sviluppare strategie di coping funzionali ad affrontare situazioni di conflitto. Bijttebbier e Vertommen37, in uno studio sull’associazione tra bullismo, vittimizzazione e strategie di coping, hanno riscontrato che le vittime di bullismo utilizzano maggiormente strategie di coping internalizzate, non chiedendo aiuto, non raccontando dell’accaduto, 33 H.A. Ball, L. Arseneault, A. Taylor, B. Maughan, A. Caspi, T.E. Moffitt, “Genetic and Environmental Influences on Victims, Bullies and Bully-Victims in Childhood”, «Journal of Child Psychology and Psychiatry», Vol. 49, No. 1, 2008, pp. 104-112. 34 C.M.J. Arora, “Defining Bullying”, «School Psychology International», Vol. 17, No. 4, 1996, pp. 317–329; B. Kochenderfer-Ladd, K. Skinner, “Children’s Coping Strategies: Moderators of the Effects of Peer Victimization?”, «Developmental Psychology», Vol. 38, No. 2, 2003, pp. 267–278. 35 M. Rutter, Psychosocial Disturbances in Young People: Challenges for Prevention, New York: Cambridge University Press, 1995. 36 B. K. Bryant, “Conflict Resolution Strategies in Relation to Children’s Peer Relations”, «Journal of Applied Psychology», Vol. 13, No. 1, 1992, pp. 35–50. 37 P. Bijttebbier, H. Vertommen, “Coping with Peer Argument in School-Age Children with Bully/Victims Problems”, «British Journal of Educational Psychology», Vol. 68, No. 3, 1998, pp. 387–394.

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evitando il problema e rimanendo passive. I bulli, al contrario, utilizzano soprattutto strategie di coping esternalizzate, come l’aggressività. In uno studio di Baldry e Farrington38, è emerso che i fattori protettivi collegati al contesto familiare, grazie a figure genitoriali supportive e al contempo autorevoli, e all’individuo, grazie all’utilizzo di strategie di coping funzionali, sono negativamente associate al bullismo e alla vittimizzazione. Ciò che va sempre considerato è il livello di complessità sia dei fattori di rischio che di protezione. Entrambi, infatti, si collocano a diversi livelli che variano dal contesto sociale più allargato, al gruppo, alle relazioni interpersonali e ad un livello più individuale.

Evitiamo la politica del “Don’t ask, don’t tell”: Interventi educativi inclusivi Partendo dall’asserzione che «la classe scolastica è la più omofobica di tutte le istituzioni sociali»39 e consapevoli degli effetti devastanti che l’omofobia può avere, soprattutto nelle sue forme interiorizzate40,

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A.C. Baldry, D.P. Farrington, “Protective Factors as Moderators of Risk Factors in Adolescence Bullying”, «Social Psychology of Education», Vol. 8, No. 3, 2005, pp. 263–284. 39 C. Mufioz-Plaza, S.C. Quinn, K.A. Rounds, “Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender Students: Perceived Social Support in the High School Environment”, «The High School Journal», Vol. 85, No. 4, 2002, p. 53. 40 Alcuni studi mettono l’accento sull’omofobia interiorizzata – ovvero quell’«insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi (dal disagio al disprezzo) che una persona omosessuale può provare (più o meno consapevolmente) nei confronti della propria (e altrui) omosessualità» (V. Lingiardi, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, cit., p. 51) – quale agente estremamente patogeno. Essa è stata infatti associata a disagio psicologico e sintomi depressivi (I.H. Meyer, Minority Stress and Mental Health in Gay Men, cit.), isolamento e alcolismo (D. G. Finnegan, D. Cook, “Special Issues Affecting the Treatment of Male and Lesbian Alcoholic”, «Alcoholism Treatment Quarterly», Vol. 1, No. 3, 1984, pp. 85-98), disfunzioni sessuali (R. Reece, “Causes and Treatments of Sexual Desire Discrepancies in Male Couples”, «Journal of Homosexuality», Vol. 14, Nos. 1-2, 1988, pp. 157-172), abuso di sostanze stupefacenti (E. Coleman, B. R. S. Rosser, N. Strapko, “Sexual and Intimacy Dysfunction among Homosexual Men and Women”, «Psychiatric Magazine», Vol. 10, No. 2, 1992, pp. 257-271), disturbi del

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crediamo nella necessità sempre più urgente di svolgere interventi educativi di prevenzione primaria prima ancora che di contrasto a questa particolare forma di prevaricazione.

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…teoria della prassi… Da un punto di vista teorico e considerando che dietro la macro-dimensione dell’omofobia si annidano pregiudizi e stereotipi di genere, quale framework può essere lo sfondo delle azioni di prevenzione e contrasto? Una delle prime teorie scientifiche sulla riduzione del pregiudizio è l’ipotesi del contatto41, ovvero l’idea che l’interazione tra due persone o gruppi diversamente collocati socialmente possa ridurre il pregiudizio ed attenuare il conflitto; nel caso della tematica oggetto del saggio, facciamo riferimento a persone o gruppi eterosessuali ed omosessuali. Pettigrew e Tropp42 hanno individuato quei fattori che riescono a spiegare la riduzione del pregiudizio nell’incremento di conoscenze sui membri dell’altro gruppo, nella diminuzione dell’ansia e del senso di minaccia che scaturiscono se non si conosce l’altro gruppo e nella possibilità di provare sentimenti di empatia. Sembra che questi due ultimi fattori – di natura per lo più emotiva – siano maggiormente funzionali del primo, di natura prettamente cognitiva. Queste concettualizzazioni trovano ulteriori supporti empirici nelle ricerche di Sears e Williams43 così come in quelle di Herek e Capitanio44. I primi hanno verificato le modalità attraverso le quali comportamento alimentare (A. Montano, Psicoterapia con clienti omosessuali, Milano: McGraw-Hill Companies, 2000), pensieri o tentativi di suicidio (E.E. Rofes, I Thought People like that Killed Themselves: Lesbian, Gay Men and Suicide, San Francisco: Grey Fox, 1983), bassa autostima, scarso supporto sociale (V. Lingiardi, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, cit.; A. Montano, “L’omofobia interiorizzata come problema centrale del processo di formazione dell’identità omosessuale, «Rivista di Sessuologia», Vol. 31, No. 1, 2007). 41 G.W. Allport, The Nature of Prejudice, Reading, MA: Addison Wesley, 1954. 42 T.F. Pettigrew, L.R. Tropp, “How Does Intergroup Contact Reduce Prejudice? Meta-Analytic Tests of Three Mediators”, «European Journal of Social Psychology», Vol. 38, No. 6, 2008, pp. 922-934. 43 J.T. Sears, W.L. Williams, Overcoming Heterosexism and Homophobia: Strategies that Work, New York, NY: Columbia University Press, 1997. 44 G.M. Herek, J.P. Capitanio, “‘Some of My Best Friends: Intergroup Contact, Concealable Stigma, and Heterosexuals’ Attitudes Toward Gay Men and

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il contatto con persone omosessuali possa influenzare la percezione sociale di questo gruppo, riscontrando che la semplice conoscenza di persone omosessuali gioca un ruolo fondamentale nel cambiamento dell’atteggiamento personale: persone dall’orientamento eterosessuale che conoscono persone omosessuali presentano atteggiamenti di maggior accettazione verso il gruppo omosessuale. I secondi hanno riscontrato, invece, che le persone con atteggiamenti di accettazione verso l’omosessualità sono soprattutto coloro che, nel corso della vita, hanno avuto maggiori contatti interpersonali con una o più persone omosessuali e tale atteggiamento era in correlazione positiva con la riduzione del pregiudizio antigay. Un altro approccio spesso utilizzato come quadro teorico di riferimento per attuare interventi di prevenzione e contrasto del bullismo omofobico è quello funzionalista, applicato per la prima volta da Herek45 al pregiudizio antigay. Seguendo questo approccio, è possibile teorizzare che l’espressione di opinioni personali serva ad assolvere a quattro funzioni psicologiche: 1) la funzione esperienziale, secondo cui gli atteggiamenti fungono da schemi di riferimento utilizzati per interpretare e dare significato alle proprie esperienze; 2) la funzione di espressione di valori che mostra quanto, tramite l’atteggiamento, possano esprimersi dei valori, quali convinzioni, idee, ecc.; 3) la funzione di adattamento sociale che è caratteristica dell’atteggiamento che risulta utile nel regolare le relazioni sociali; 4) la funzione egodifensiva, di stampo squisitamente psicoanalitico, che sottolinea quanto alcuni atteggiamenti vengano messi in atto allo scopo di negare realtà, interne ed esterne, considerate come eccessivamente spiacevoli per l’Io e, quindi, di ridurre l’angoscia che dilagherebbe di fronte ad una siffatta realtà46. Questo tipo di approccio, Lesbians”, «Personality and Social Psychology Bulletin», Vol. 22, No. 4, 1996, pp. 412-424. 45 G.M. Herek, “Can Functions Be Measured? A New Perspective on the Functional Approach to Attitudes”, «Social Psychology Quarterly», Vol. 50, No. 4, 1987, pp. 285-303. 46 In relazione a quest’ultima funzione e applicandola al campo dell’omofobia, H. E. Adams et al. (“Is Homophobia Associated with Homosexual Arousal?” «Journal of Abnormal Psychology», Vol. 105, No. 3, 1996 pp. 440-5), in uno studio empirico teso a validare questa teoria, hanno confrontato un gruppo di uomini con pregiudizi antigay e un altro che dichiarava posizioni di maggiore accettazione.

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Il bullismo omofobico 61

se applicato al campo del pregiudizio negativo rivolto alle persone omosessuali, può risultare molto utile per indagare le motivazioni sottese al pregiudizio. A titolo d’esempio, considerando l’omofobia di tipo esperienziale, si potrebbe attuare una strategia di intervento che vede come protagonista l’interazione positiva con gay e lesbiche supponendo che essa possa essere in grado di sviluppare atteggiamenti meno sfavorevoli.

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…buone pratiche ed alcune innovatività… Considerando gli interventi da attuare negli istituti scolastici da un punto di vista più pragmatico, non è semplice fare un discorso omogeneo poiché interventi strutturati di prevenzione e contrasto del bullismo omofobico sono rari e non sono molte le equipe in Italia che si occupano di queste tematiche. Come efficacemente asseriscono Prati et al.47, si possono distinguere tre paradigmi negli interventi educativi sulla tematica del bullismo omofobico: 1. Il paradigma del silenzio secondo cui l’omosessualità a scuola è un argomento tabù, un tema che non deve essere affrontato. Si nega, dunque, la presenza di persone omosessuali negli istituti scolastici perpetuando l’eterosessismo e l’omofobia. 2. Il paradigma dell’uguaglianza/diversità secondo cui gli interventi educativi devono promuovere l’equità, la valorizzazione delle differenze e la facilitazione dei processi di inclusione sociale. Alcune metodologie da utilizzare possono riguardare la proiezione di documentari o film sull’omosessualità e sull’omofobia, l’intervento pubblico di una persona dichiaratamente gay ed appartenente ad un’associazione LGBT o la maggiore visibilità delle persone omosessuali nei curricula disciplinari. Il rischio insito in questo paradigOgni gruppo è stato posto di fronte a dei video erotici che presentavano scene esplicite di rapporti sessuali tra donne, tra uomini e tra un uomo ed una donna. Di fronte al materiale erotico di due uomini, il gruppo con pregiudizi antigay mostrava gradi di eccitazione sessuale ed erotica (misurati tramite specifici indici psicofisiologici) molto più elevati rispetto al gruppo di controllo. Questo esperimento ha fatto supporre agli autori la presenza di desideri omoerotici repressi. 47 G. Prati, L. Pietrantoni, E. Buccoliero, M. Maggi, Il bullismo omofobico. Manuale teorico-pratico per insegnanti e operatori, cit.

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ma è la normalizzazione della diversità e la mancata valorizzazione delle differenze. 3. Il paradigma della sicurezza/legalità secondo il quale la politica più funzionale consiste nel contrastare la violenza ed il bullismo poiché è un dovere tutelare la sicurezza. Gli studenti sono dunque invitati a segnalare casi di violenza, gli insegnanti ad intervenire e i dirigenti ad attuare misure preventive o punitive. Il rischio più allarmante è quello di incrementare la rappresentazione sociale dello studente gay quale vittima priva di strumenti e di resilienza. Trasversalmente a questi tre tipi di paradigmi, particolare attenzione deve essere posta al clima scolastico. Espelage et al.48 hanno mostrato che gli effetti negativi del bullismo omofobico possono ottenere una sorta di prevenzione spontanea se viene percepito un clima scolastico veramente supportivo. È necessario promuovere empatia, intervenire laddove sono presenti sentimenti di timore e repulsione e tentare di modificarli in comprensione ed empatia attraverso tecniche fondate non solo su aspetti cognitivi quanto piuttosto sull’emotività, con l’obiettivo di ridurre l’ansia e l’angoscia associate alle tematiche omosessuali. Interventi realmente preventivi dovrebbero coinvolgere tutto il contesto scolastico inteso come sistema costituito da più anelli interagenti: studenti, insegnanti, dirigenti, personale non docente, genitori. A tal proposito, ci preme sottolineare l’innovatività di alcuni interventi di prevenzione che caratterizza l’equipe di psicologi di “Bullismo Omofobico” del Centro di Ateneo SInAPSi. Sempre più convinti della necessità di porre le basi per un clima scolastico favorevole, nel quale si sia in grado di riconoscere quei fenomeni di potenziale disagio ed in cui si possa offrire un sostegno adeguato lì dove ce ne sia bisogno, prestiamo attenzione all’intero sistema scolastico attuando interventi rivolti ai target di soggetti prima esplicati e consistenti in diverse metodologie, quali il counselling di gruppo psicodinamicamente orientato, la peer education, la stesura finale di una “Carta dei Principi” in cui

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D.L. Espelage, S.R. Aragon, M. Birkett, B.W. Koenig, “Homophobic Teasing, Psychological Outcomes, and Sexual Orientation among High School Students: What Influence do Parents and Schools Have?”, «School Psychology Review», Vol. 37, No. 2, 2008, pp. 202-216.

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Il bullismo omofobico 63

saranno elencati i comportamenti da adottare in caso si verifichino episodi di bullismo omofobico. Ciò che l’equipe ha ben presente nella mente quando si reca in un nuovo contesto scolastico è l’obiettivo principale da perseguire: prevenire l’insorgenza di fenomeni di bullismo nell’intero sistema scolastico, e nello specifico dei fenomeni di bullismo omofobico, nonché promuovere una cultura di inclusione e valorizzazione delle differenze, in assenza della quale si moltiplicano le probabilità di episodi di discriminazione e frammentazione del contesto scolastico. Oltre quindi all’informazione e alla sensibilizzazione, è necessario potenziare le capacità di lettura emozionale del contesto, modalità essenziale affinché si possa promuovere un cambiamento e un miglioramento del clima emozionale generale.

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Il prisma dell’inclusione

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Il prisma dell’inclusione

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L’ordine dell’escluso. Mettere la vita al mondo e dare mondo alla vita. L’offerta della filosofia

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di Giuseppe Ferraro

L’ordine dell’escluso Chi entra in carcere si trova subito di fronte uno sbarramento. Non dei cancelli. Non delle guardie. Una domanda. A porla è un detenuto, che si fa portavoce di quanti sono presenti in quel momento. Accade nella stanza predisposta ad aula. Ecco, qualcuno, il più loquace e irrequieto, pone la domanda. Chiede una dichiarazione. Un po’ come nel racconto di Kafka Davanti alla Legge, ma all’inverso, là è un guardiano della Legge a sbarrare l’accesso con la sua statura minacciosa, qui è un detenuto, un fuori della Legge. Anche l’uomo di campagna, protagonista nel racconto di Kafka, sta “fuori”. Viene da fuori. È però diverso. Il fuori del detenuto è un fuori di persona, non di luogo. Un fuori chiuso dentro, recluso. Si può riflettere sul fuori come sull’aperto e marcare il dato che la porta della Legge, in quel racconto, è, appunto, aperta1. 1

Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Torino: Einaudi, 1995, pp. 56 e sgg. Dove si riprendono le tesi di Derrida, per il quale il guardiano della Legge non guarda niente così come la porta è aperta su niente (J. Derrida, Forza della Legge, trad. it., Torino: Boringhieri, 2003), cui fa da rimando la tesi di Massimo Cacciari (Icone della Legge, Milano: Adelphi, 2002) per il quale è impossibile entrare, ontologicamente, nel già aperto, ciò che lascia l’uomo di campagna morire fuori di quella porta. “La legge è fuori di se stessa” è il principio che Agamben riprende da Schmitt a sostegno della sovranità che è rappresenta in doppio bando fuori e dentro la Legge. Un fuori che nelle analisi di Agamben si precisa come espressione del “sacro” e della sua ambivalenza, come di ciò che non si può sacrificare ed è uccidibile, la “nuda vita”. Agamben riprende l’enunciato di Walter Benjamin. In questa prospettiva si può anche intendere come sovranità e nuda vita si corrispondono

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Il prisma dell’inclusione

Il carcere è però come un fuori recintato. Un aperto chiuso. Il carcere si trova fuori della città, su strade di campagna, isolato. Il detenuto è chiuso dentro la Legge, la porta è chiusa alle sue spalle. L’“uomo di campagna” del racconto viene da fuori e resta fuori della Legge, deve rispondere alla domanda che la Legge pone a chi si presenta alla sua porta. La domanda è tacita. Davanti alla Legge occorre dire il proprio nome e cognome. La Legge vuole l’identità, l’identificazione. In fondo, Kafka, nell’uomo di campagna, è proprio questo che rifiuta. Inciampa sulla prima lettera del suo nome K., lo arresta con il punto, come nel personaggio del suo Castello. K. è sulla soglia della Legge, sul punto di pronunciare il proprio nome e desistervi. Così l’uomo di campagna non accede a quella porta che il guardiano, alla fine del racconto, dice che era riservata esclusivamente a lui. Basta declinare le proprie generalità, accettare nome e ruolo, posizione e status di famiglia. Una questione d’identità. Anche di violenza. Si resta come nella prigione della propria identificazione. Posizioni, classificazioni, collocamento sociale. Ecco, l’inclusione e l’esclusione2. Non è un racconto. Chi è recluso nella Legge, detenuto fuori del suo diritto, è stato identificato, è pregiudicato, non può avere documenti propri, li deposita all’atto giudiziario, restano negli uffici del

su un asse di volta che è la violenza. Agita e subita. L’uomo di campagna è come un sovrano impotente, fuori della Legge senza riuscire a imporre la propria legge, fino al paradosso di subire la sua stessa violenza. L’uomo di campagna non entra “dentro” la Legge semplicemente perché non declina le proprie generalità, non dice il proprio nome, non fa valere la propria identità, ciò che ogni volta la Legge reclama a chi si presenta alla sua porta. L’uomo di campagna non si piega alla Legge, non si lascia rubricare alla sua porta, ne resta fuori subendo la violenza della sua resistenza, senza perciò imporre una sua legge. Per il detenuto è l’opposto. La Legge lo include nel suo dentro recludendolo. Lo fa entrare restringendo il diritto di abilità. Potrà essere solo “riabilitato”, ma solo se riconosciuto non colpevole. Il riferimento al detenuto, a riguardo dell’inclusione, permette di chiarire in altra prospettiva l’inclusione come questione che si svolge intorno all’abilità come questione di diritto della Legge, del suo Dentro e perciò del suo Fuori. Il detenuto indica un fuori di persona, non di luogo, così come il Fuori della Legge è il suo stesso Dentro. L’inclusione produce l’esclusione e viceversa. Si tratta allora di ripensare l’intera serie dell’inclusione, preclusione, reclusione, esclusione come forme di chiusure, di confini che sono interni, non di luoghi ma di persone e che richiamano per tale la funzione, la politica, la pratica, la cultura delle istituzioni. 2 Cfr. A. K. Sen, Identità e violenza, Bari: Laterza, 2006.

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L’ordine dell’escluso 71

Castello. A chi viene da fuori il detenuto pone una domanda di sbarramento, che non riguarda l’identità, ma la disposizione. Reclama una dichiarazione, non giuridica, non pregiudiziale. Antipredicativa. Chi viene da fuori del carcere, non sarà certo un uomo di campagna. È un uomo di Città. Viene da dentro la libera circolazione della Legge, muove dall’attualità che scandisce il tempo quotidiano. Nel carcere il tempo è invece sospeso. L’orologio della sicurezza è sempre troppo in ritardo, perché anche nell’animo ci si abitui ai rintocchi della immobilità e del nulla. Non succede niente. Ora qualcuno viene dalla Città, inzuppato del brusio delle voci anonime, i pregiudizi dell’opinione pubblica. “Che cosa sei venuto a fare?” “Come ci vedi?”, “Come ci vedete, da fuori?”. Questa adesso è la porta della domanda che si ha di fronte. In questione è la visione di quel fuori, non recluso, ma incluso. Libero? Riconosciuto. Non certo clandestino. Ho i documenti d’identità. In fondo è questa la libertà sul piano giuridico. Liberi erano per i Latini i figli riconosciuti, così come liberi erano gli schiavi cui si riconosceva il nome della famiglia, diventando così famulus. Non è cambiato nulla. È lo stesso anche adesso. Schiavo è l’escluso, quello che vive fuori dei confini. Lo schiavo è l’escluso chiuso dentro. Straniero. Catturato o comprato3. Senza documenti. Cosa dunque sei venuto a fare? Come ci vedi? La domanda di una soglia, un fuori, che è prima della Legge, interroga perciò sul suo limite. Prima della Legge il fuori è come il fuori dal mondo. Arbitrio. Violenza. Pericolo. Fuori è la semplice vita. Con tutta la sua violenta bellezza. Mortale senza morte. Senza vittime. Semplicemente vita fiorente, selvaggia, tremenda. Senza parola. Né ordine4. «Straziante 3

cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni europee, trad. it., Torino: Einaudi, 1976, pp. 272 e sgg, 4 Viene da riflettere come quel Prima fuori della Legge assume il carattere di pericolo selvaggio, di violenza, ma al tempo stesso, nella letteratura, è un Prima come dell’età dell’oro o del paradiso. È lo stesso Prima, cambia la prospettiva. Senza la Legge è l’età dell’ora, l’aperto della natura benigna. Con la Legge diventa invece l’aperto pericolo. Sarà anche in questa duplice prospettiva che andrà considerata la duplicità del sacro. Pericolo e salvezza. Insieme si danno i buoni sentimenti e quelli opposti. In fondo è questo che viene “detenuto” nel carcere della Legge, un luogo sacro profanato.

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meravigliosa bellezza del creato» fa dire Pasolini, come se a parlarne dal mondo la parola faccia semplice verso, voce sola, senza un preciso, unico, significato, esponendo il paradosso di un prima della Legge come di un luogo felice e infelice. Sacro. Esposto. Come lasciato dagli dei, divino e straziante, tremendo, come Rilke dice della natura del bello nella sua Seconda Elegia. La Legge si muove includendo il tremendo della semplice vita, traducendola in forza del suo ordinamento. Forza della Legge è l’inclusione del fuori, porlo alla sua porta. L’ordine dell’inclusione è lo stesso dell’esclusione. Una moneta, è il caso di riconoscere5. Il limite dell’inclusione è il confine dell’esclusione. Il fine è comune. La Legge è prima, primeggia, scritta sulla porta del mondo aperta sulla vita. Sarà perciò come la vita è nel mondo, come viene tradotta, introdotta nel mondo, che dirà della sua qualità, del suo tempo, dell’ordine del suo discorso, della sua costituzione e regolamentazione. Fuori è il pericolo, la violenza brutale, animale, disumana, anormale. C’è anche tutto il distorto, tutto quanto produce distorsione. Senza affidabilità. Ed è un fuori sociale, naturale, istituzionale, di ruolo, di discorso, di testo, di corpo proprio. Tutto quanto non è normale. Non a norma. Il limite della Legge è il confine di ciò che è fuori del suo diritto. Il limite è il diritto stesso. Va superato ogni volta. Interpretato, messo in cammino, chiamato a incontrare il fuori, senza porsi fuori, ma restituendo ogni volta la vita come un diritto e perciò metterla al mondo, ammettendo ciò che è negato, senza che il diritto stesso rinneghi il mondo. Al fondo di ogni pratica di inclusione c’è un cammino, un percorso che viene da fuori, che è condotto da fuori a dentro, dalla vita al mondo e dal mondo alla vita. Una doppia restituzione. Mettere la vita al mondo e dare mondo alla vita. Restituire ogni volta la vita al mondo e restituire mondo alla vita. Ogni cammino fa riferimento all’erma, la pietra che i Greci ponevano lungo le vie per orientare il cammino. Ancora adesso la si trova sulle strade, per dare la propria collocazione, dove ci si trovi, a quale distanza dal luogo di partenza e di arrivo, su quale direzione. L’erma dei

5

Cfr. J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, trad. it., Milano: R. Cortina, 1996, pp. 73 e sgg.

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L’ordine dell’escluso 73

Greci portava il volto di Ermes, il dio che tutelava chi si trovava per strada, in fuga o in viaggio, in cammino. Di un’ermeneutica si tratta quando si è alla porta della Legge e lungo la via dei diritti. Non sarà però l’ermeneutica dell’interpretazione del testo scritto. Sarà piuttosto, come quella dello Ione di Platone, l’ermeneutica della voce, l’interpretazione della voce di chi porta l’esigenza del diritto ovvero di chi reclama un’inclusione senza esclusione, a voler stare al mondo e viverlo. Sarà come portare il sacro nel diritto, ciò che ogni Legge teme e rispetta a latere della sua funzione. Sarà semplicemente il rispetto della vita senza timore. In fondo è questo che la Legge assume a sua funzione. Il giusto che il diritto persegue e smarrisce. Promette e nega. È l’emergenza del singolare di una vita, che la Legge fronteggia disperdendolo nel labirinto della complessità. L’inclusione rimanda all’immagine del mondo come contenitore, per cui bisogna essere capaci della sua capienza. Quanto però la Legge è capace essa stessa, quanto si fa capace, e perciò comprende capacità non registrate e classificate? Comprendere e contenere, dentro queste due sponde va posta forse la questione, ma ancora è un esercizio ermeneutico, un cammino che si richiede, tale da spostare i confini a ogni nuova vita che singolarmente si presenta al mondo, da fuori, alla porta della Legge. Per tutto questo sono l’identità e l’identificazione che vanno messe in discussione. Sul confine dell’inclusione e dell’esclusione sta a guardia la violenza dell’identificazione. Bisognerà meglio intenderne l’immagine come quella di un percorso, meglio un cammino perché il diritto che s’impone trovi nei corpi propri di ognuno l’erma di una via inesplorata. La mappa non è il paesaggio, bisogna ogni volta stare nell’irriducibile differenza posta tra la vita e il mondo, tra la vita di uno, una vita, e l’identità. Uno è l’“inidentificabile”, è singolare indeterminato. Può suggerire perciò una determinazione non determinata, trasformando una determinazione data in un’altra venuta. Basta fare l’esempio, se si vuole banale, dei voti dati agli esami universitari, che rispecchiano l’assoluta indeterminazione di ognuno che determina di volta in volta la capacità di votazione modificandone i parametri. Senza una tale applicazione dell’indeterminato singolare la valutazione ristagna nella violenza dell’identificazione.

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La mappa non è il territorio insiste Bateson6 riprendendo Korzybski, qui si può diversamente ribadire che la strada non è il cammino. L’indicazione da seguire perché il cammino non sia solo diritto, ma giusto. Il legame tra il mondo e la vita si dà allora come relazione educativa, dell’educere, ex ducere, del tirare da, dello spingere da, perché la vita sia la spinta del mondo, perché il mondo sia tirato su dalla vita che cerca di portare al mondo. Bisognerà operare il rimando tra ex sistere e ex ducere rimarcando in quel prefisso, ex, la vita che si dà in uno, in una vita, e riconoscendo come in quel “da” sia significato il suo da essere. Non sarà allora una sorpresa intendere, invece dell’inclusione, l’urgenza dell’educazione come l’applicazione, il cammino dell’essere e dell’avere da essere, su cui si danno le formule giuridiche del “mettere in essere” e del fare essere dell’operare che non possono non riportare l’essere alla vita che viene al mondo, ogni volta che uno, una vita, con la propria singolarità e nella propria indeterminazione, si presenta nei luoghi, in ogni luogo delle istituzioni, sia la scuola, l’università, anche il carcere, come ogni altro luogo che riflette l’ordine contemplato dalla Legge. Si è liberi solo nell’indeterminato essere di ciò che si può singolarmente diventare e operare. Il singolare indeterminato reclama un relazione di trasformazione degli stessi codici di comunicazione e di classificazione, riferendo di un comune che resta ancora da scoprire come ciò che è prima, primario. Prima della Legge e nella priorità della Legge. La vita è ciò che è comune e non si ha in comune. Come viventi siamo vita. Come esistenti abbiamo vita. La vita che siamo non è nostra. È impropria. Impersonale. Mia, non di me, un possesso senza proprietà. La vita che abbiamo, questa sola, è nostra, fatta delle nostre scelte e relazioni, dei progetti e sentimenti, del mondo che ci si costruisce intorno. Personale. La vita è ciò che siamo e che abbiamo. Impropria e propria. Un possesso senza proprietà. Il comune è così: ciò che è proprio e non è proprio. Ciò che si possiede ed è di altri, di sé come altro, tra gli altri. Bisognerà intendere l’abilità come il senso più proprio dell’avere a essere, del fare essere la vita che si è. Il mondo è dove si ha la vita, dove l’abilità, l’essere proprio dell’avere, è vivere

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G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, trad. it., Milano: Adelphi, 2002, pp. 221 e sgg.

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L’ordine dell’escluso 75

esistendo ed esistere vivendo. Non c’è altro riferimento per dire del fine dell’etica, perciò dell’abitare, come felicità. Non sarà uno stato. La felicità è un legame. Una corrispondenza. Una continua restituzione. Il mondo del felice è un mondo felice, si legge negli appunti di Wittgenstein7. E Nietzsche scriveva che il pericolo del più felice è la banalità, la banalizzazione della semplice vita8. Il limite è sul confine che noi stessi siamo e abbiamo. Il confine è il comune. Un fine che limita una parte e un’altra, un dentro e un fuori. Il limite deve essere comune. Solo a questo modo si dà quella doppia restituzione che porta la vita al mondo e il mondo alla vita in quella costruzione continua, perciò educativa, nel mondo della vita. I Greci distinguevano zoe e bios, noi distinguiamo vita ed esistenza, come natura e mondo. Il punto è tenere legate l’una e all’altra, l’esistenza e la vita. Ed è come si dà un tale legame nella vita di ognuno come di ogni istituzione che si dà quel comune sul quale soltanto è possibile misurare la qualità del vivere e la gioia di esistere. La linea di circonferenza interna del fuori e dentro, rubricata nel titolo dell’inclusione, racchiude un rapporto tra morale e diritto, è dunque una questione etica.9 7 Cfr. i quaderni in L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino: Einaudi, 1968 (la notazione è quella del 29.7.16) 8 F. Nietzsche, La Gaia Scienza, Milano: Adelphi, 1977, af. 302. 9 J. Habermas (L’inclusione dell’altro, Milano: Feltrinelli, 1998) pone chiaramente la questione su tale prospettiva, morale, individuando nell’origine dei “sentimenti morali” la leva stessa dell’inclusione, fino a parlare della “comunità morale” inclusiva dell’altro, degli altri, che mantengono le proprie differenze. Ancora più incisiva appare la considerazione di W. Benjamin (“Per la critica della violenza”, in Angelus Novus, Torino: Einaudi, 1976), quando fa riferimento direttamente alla figura del “criminale”, “delinquente”, che viene difeso dalla folla quando viene “arrestato” dalla Legge. Ciò che esprime la folla non è la difesa del criminale, quanto è la difesa, si può affermare, della vita ovvero di quella che Deleuze indica come una vita (in Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Torino: Einaudi, 2010, pp. 320 e sgg), la pura immanenza. Deleuze riprende un’indicazione di Charles Dickens, di fronte a una “canaglia”, ridotto in fin di vita, la folla si avvicina con sollecitudine. Non è più un criminale, tutta la sua cattiveria scompare: «Tra la sua vita e la sua morte c’è un momento in cui una vita gioca con la morte e nient’altro. La vita dell’individuo ha lasciato il posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita interiore ed esteriore, ossia dalla singolarità e dall’oggettività di ciò che accade. “Homo tantum” di cui tutti hanno compassione e che conquista una sorta di beatitudine» (p. 322).

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“Che cosa sei venuto a fare?” È questa la domanda, senza attendere risposta, viene immediata l’altra:“Come ci vedi?” Non sono certo rivolte al medico, allo psicologo, all’educatore, all’agente di polizia, al magistrato o all’avvocato, che fanno parte delle persone, nel senso letterale dei ruoli, del dramma del “trattamento” penitenziario. Loro rientrano perfettamente nell’ordine terminologico del carcerario insieme alla “domandina”, “modulino”, “spesino” etc. che fanno parte del vocabolario d’osservanza, anch’esso ristretto, fatto di espressioni diminutive. Chiunque entra in una casa circondariale per svolgere un’azione sociale fuori dall’ordine del trattamento o per tenere, come me, un corso di filosofia, si trova di fronte allo sbarramento di quelle domande. Se non hai un ruolo istituzionale interno o se fai parte di un’istituzione estranea al mondo carcerario, devi risponderne per avere accesso. E non devi certo declinare le generalità per dire dell’identità. Si è “fuori” del piano giuridico. La chiave di risposta è la deposizione della propria disposizione d’animo. Quelle domande saranno allora più difficili da superare dei cancelli che si ripetono lungo corridoi e scale e che un agente apre a ogni passaggio per conto della Legge. Qui bisogna da soli aprirsi la via, in prima persona, entrare non dentro la Legge, ma fare di quel fuori un “prima” della Legge, ciò viene prima del diritto e di cui il diritto si deve far carico, per essere giusto10. 10

Giusto e ingiusto riguardano il diritto nella sua applicazione ovvero in ragione della morale che vi corrisponde. Il diritto si fa misura della giustizia, ma è poi giusto o ingiusto nella misura in cui tiene conto delle singole persone. Sul confine della Legge si ritrova sempre la singola persona ed è il singolo a costituire il “caso” che permette l’evoluzione stessa del diritto. J. L. Nancy può affermare in ragione dell’applicazione del diritto, che «essere giusto, sia dare a ciascuno ciò che non sa neanche di dovergli» (Il giusto e l’ingiusto, Milano: Feltrinelli, 2007, p. 29). L’esempio è quello dei “Giusti”, come furono chiamati quanti non ebrei aiutarono i perseguitati dal regime nazista sottraendosi alla sua legge. Nancy chiama in questione l’amore, in quanto giustizia impossibile. Coniuga l’amore, il giusto e l’impossibile, ponendosi così sul confine della legge, del possibile, del riconosciuto. Si tratta di un sentimento assolutamente singolare, un giusto al limite del diritto, un gesto al limite della possibilità riconosciuta. Il giusto come “dare a ciascuno ciò che neanche sa di dovergli” rimanda al dono come dare ciò che non si ha. Donare il tempo, precisa J. Derrida, nell’opera omonima (cit.), riprendendo un’espressione, “donare ciò che non si ha” attinta a Lacan e che si ritrova già in Plotino. Una

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L’ordine dell’escluso 77

Lo sguardo che viene da fuori è colto come intrusivo. Fasciato di sospetto, bendato di diffidenza. Tenuto sotto controllo. Si fa presto a capirlo: in carcere si porta la colpa. Chiunque vi entra, anche come volontario, lo sente. Il suo sarà piuttosto un senso di colpa, fosse anche solo il voler capire dove si porta la colpa, dove la si colloca, come la si fa reagire con l’innocenza o come uscire dal nodo di colpa e coscienza per riversare quel nodo nel dono di innocenza e verità, come poter guardare dall’altra parte dello specchio, oltre, dove appunto il nodo diventi dono. Bisogna aggiungere poi una considerazione, e non di poco conto: se fai parte dello staff del “trattamento”, dall’altra parte ti ritroverai “utilizzato” come “strumento” per ottenere dei vantaggi negati, allo psicologo si racconteranno disagi e traumi, reali, ma resi più facilmente rubricabili in patologie, con l’educatore si farà altrettanto, ma diversamente, secondo le circostanze e gli adattamenti. Si stabilisce così un colloquio strumentale, ciò che non è possibile tenere con chi viene da fuori senza possibilità di concedere crediti, ma solo per far avanzare un rapporto interiore, ciò che è più difficile da sostenere, da una parte e dall’altra, ancora di più se non si hanno strumenti d’interpretazione di sé. Se la prima domanda, “per cosa sei venuto?”, è diretta, personale, quella che segue, “come ci vedi?”, è altrettanto personale, ma come chi viene dal “Dentro”, dalla società, dall’opinione normale. È opportuno riflettere su questo doppio fuori, di chi viene da fuori del carcere essendo dentro l’ordine contemplato della Legge e di chi è recluso dentro il carcere per essere detenuto fuori delle società del Diritto. Le due domande fanno da sponda allo spazio possibile entro sorta di cammino carsico lungo tutta la storia della cultura europea e che spinge il diritto sulla porta del dentro e del fuori a commisurarsi alla legge non scritta e non scrivibile della morale che conduce all’agire etico, quello appunto che opera nello scarto tra il testo giuridico e la sua applicazione, tra il dentro e il fuori, tra ciò che è esteriore e ciò che interiore, tra il visibile e l’invisibile. Dentro e fuori rimandano allora ad altri limiti e confini, richiamano gesti, percezioni, sentimenti, relazioni, disposizioni, che “aggiustino” il diritto per renderlo giusto nella sua applicazione singolare. È appena il caso di riflettere, a riguardo dei detenuti, come non si tratti della certezza della pena, ma della giusta pena ovvero di una pena che non renda ingiusto il diritto mirando a una applicazione che sia espressione di un camino di restituzione.

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Il prisma dell’inclusione

il quale si decide la pratica di un dialogo. Uno spazio di “diabilità” verrebbe da suggerire, per dire un’abilità che viene dall’incontro reciproco. Quel “come ci vedi?” ha un doppio verso. Significa come ci giudichi, ma anche come ci senti, cosa provi per noi. Con quale sentimento si arriva. Se con il pregiudizio di trovarsi di fronte dannati, disumani, anormali, incapaci, insensibili, bestie o se, ancora più insostenibile per loro, ti facciano pena11. C’è un’esplicita resistenza da parte del detenuto, un rifiuto a suscitare pena corrispondente al rifiuto di essere considerato un diverso, disumano. È il vissuto della reclusione che rappresenta un’esclusione inclusa nell’ordine della normalità, contemplata dal diritto. Il detenuto rifiuta di essere recluso nel pregiudizio di non essere uguale agli altri, disumano, altrettanto che rifiuta la pena della commiserazione suscitata dal dolore estetico di una colpa saldata alla sua persona senza possibilità di riscatto. Rifiuta di sentirsi guardato dalla sola serratura che restringe il vedere a quel momento terribile della propria vita in cui si è precipitati nell’abisso della violenza senza morale e diritto.

Un piano d’immanenza comune singolare La fenomenologia dell’incontro con chi è recluso si svolge lungo questo cammino, prima di arrivare alla costruzione di un piano, che sarà

11 Søren Kiekegaard in “Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno” (Enten–Eller, Milano: Adelphi, 1977, pp. 29 e sgg.) mette in risalto il rapporto tra pena e dolore nell’ordine della Tragedia classica dei Greci in rapporto all’estetica del moderno. La rappresentazione della pena nella tragedia, osserva, non suscita dolore quanto piuttosto la “compassione” per una colpa che resta nascosta. Tanto profonda è la pena tanto poco lo è il dolore. Nelle rappresentazioni del moderno accade l’inverso, il dolore sopravanza la pena. Il rapporto è perciò di “commiserazione”. Una distinzione che si rileva importante in ragione della diversa disposizione indicata con “simpatia” e “empatia”. Kierkegaard fa osservare come la pena che si prova nel mondo greco rimandi a una colpa nascosta, facendo riferimento al sacro. La compassione non è individuale quanto rimanda invece alla comunità. Nella rappresentazione della pena nel moderno prevale il dolore sulla pena che trova la colpa in un agire individuale che resta consegnato all’individuo.

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L’ordine dell’escluso 79

appunto comune e che solo per tale renderà possibile un autentico dialogo come vera relazione formativa nella reciprocità dell’attenzione etica. La stessa fenomenologia che si ritrova per chi è identificato come disabile. Offeso, si diceva un tempo. Offeso della vita, era il senso. Ob fendere, colpire, infrangere. Il detenuto è poi chi ha offeso la vita, infrangendo la Legge. Diverso. Altro. Vale lo stesso “come ci vedi?”, perché lo sguardo dell’altro non corrisponde mai al proprio. Altro e proprio si scambiano a ogni incontro, altro è chi mi guarda. Altro è lo sguardo da fuori, così diverso dallo sguardo che si ha di sé da dentro. Altro e proprio si scambiano come il dentro e il fuori. Altro è lo sguardo che viene dal mondo e che mi pone fuori. Proprio è lo sguardo interiore. Ed è questo che accade nella fenomenologia dell’altro, questo scambio di posizioni, di un mondo fuori del mondo che è il mondo proprio, mentre fuori è un mondo altro che mi rende altro, nel momento in cui estranea12. A ben riflettere la costruzione di piano comune rimanda inversamente allo spazio architettonico racchiuso tra i due portoni d’ingresso del carcere. Un varco. L’atrio protetto dove è registrato il riconoscimento con il deposito di propri documenti e la perquisizione di sicurezza. Curioso è come l’architettura rifletta le relazioni e quasi sia la rappresentazione della pratica della Legge. Si tratta sempre di una castello, di un cancello, di campo … ogni espressione che sia indicata con quel prefisso “ca”, che indica una precisa territorializzazione di confine a partire da un “qua” che segna il “dentro” rispetto a un “fuori” dello stesso confine. Nell’incontro con i detenuti si tratta di costruire un tale piano, in una pratica di relazione che si pone prima della Legge, non fuori e non dentro. Si tratta di un piano di risonanza di voce e parola. È uno spazio morale, va ripetuto. Perciò di disposizione. Lo stesso che si richiede di fronte ad ogni escluso, di fronte ad ogni altro, di fonte al diverso, di fronte a chi è riconosciuto disabile, non abile, non avente requisiti richiesti. Ogni volta si tratta di costruire questo spazio morale che è prima di ogni ordine contemplato e perciò prima di ogni inclusione, un piano di accoglienza, duale, una reciprocazione.

12

Cfr. B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo, Milano: Raffaello Cortina, 2008.

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Il prisma dell’inclusione

Sarà lo stesso come per ogni altro estraneo e strano. Il cammino sarà diverso, dal detenuto ci si presenta, lo straniero, l’altro estraneo, si presenta. Dal detenuto si va; l’estraneo viene. Cosa non indifferente proprio in ragione della reclusione e dell’esclusione. Una questione di confine e di cammino. Ogni volta si profila un percorso, una via da intraprendere e seguire, già esplorata e formalizzata ovvero da tracciare per la prima volta, singolare, mai percorsa. Ogni volta si tratterà di rapportare il singolare al plurale, l’unico al comune, riuscendo a cogliere il comune singolare. La difficoltà è il raggiungimento di un piano comune d’immanenza che deve poter essere replicabile da altri, ma che è di fatto singolare. Una doppia singolarità. Si è sempre in due quando si tratta di sentimento. Il rapporto è duale. Come di un solo soggetto, ma a due voci. Un parlare che è ascoltare. Questa la dualità. Non un dialogo nel quale si parla quando l’altro tace, ma un dialogo che porta la dualità del parlare ascoltando in chi parla, così come porta la dualità dell’ascoltare parlando in chi in quel momento ascolta. Si ascolta veramente non con l’udito, ma con la voce. Si ascolta veramente quando ci si parla, dentro, di ciò che l’altro dice, venendo da fuori. Adesso il confine è tra interiore ed esteriore, tra il corpo e l’anima, solo che s’intenda l’anima non come ciò che è dentro il corpo, ma come la parte interna del corpo. Un corpo a corpo. Come nella relazione insegnante, come in ogni relazione di cammino, com’è la relazione educativa nel senso più esteso del condursi da, del venire insieme da un comune che costituisce come mondo ma che è la vita dalla quale e nella quale il mondo si costruisce e ordina. Qualcosa di singolare duale. Un singolare comune. Semplicemente, un singolare indeterminato, come una vita, senza alcuna determinazione. Il passaggio più difficile è questo. Ogni volta la relazione con il diverso, il detenuto, l’emarginato, l’escluso, è una relazione singolare duale, che aspetta di replicarsi in altri, altre volte, da altri, come comune singolare. La formalizzazione della relazione educativa non può essere che singolare, come solo singolare è ogni relazione di cura. Il comune che ne viene è un comune singolare. Se viene invece codificato in una formalizzazione sarà solo meccanica. Una questione giuridica. Non dell’etica. La pratica inclusiva meglio si chiarisce come un’introduzione, è una premessa, si dà come promessa, infonde un’attesa, attiva un desiderio. Chiunque sa della relazione insegnante conosce questa pratica. Chi insegnando non suscita il desiderio nemmeno sta facendo segno di

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L’ordine dell’escluso 81

un invito verso qualcosa per cui ne va del valore della propria esistenza nella vita e dello stare al mondo. La pratica dell’inclusione, a chiamarla ancora in questo modo, riguarda l’invito come l’introduzione. Ogni pratica educativa è ermeneutica. In un modo speciale.

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La reciprocanza e il comune sentimento morale Non c’è esclusione pura e semplice13. L’escluso non è un indistinto, ma è tale per un preciso ordine di classificazione. L’ordine dell’esclusione è lo stesso dell’inclusione. Includere può anche significare in tale senso neutralizzare. Proteggere. Rendere innocuo. Recludere, appunto. Si può pensare inversamente l’inclusione piuttosto come un’estensione dell’ordine del diritto per il quale l’escluso si fa portatore di esigenze di sviluppo della Legge. È su questo versante che opera l’ermeneutica dell’educazione come espressione di un cammino comune che dirige verso ciò da cui proviene. Quanto più il mondo viene dalla vita tanto più la vita viene al mondo. Il passaggio è dall’individuo identificato e classificato secondo l’ordine delle funzioni e delle azioni, delle abilità e disabilità, a una vita. Un passaggio che è prima della persona14, ma che reclama l’essere persona sulla soglia, sul confine, del fuori e dentro. Inclusione, integrazione, inserimento o, come per i detenuti, reinserimento, sono voci che reclamano d’intendere il “fuori” non semplicemente come fuori della normalità, del territorio, del mercato, della società. Bisognerà ancora di più intendere come il “dentro” sia tale in rapporto al “fuori” al punto da rendere funzionale, e persistente, l’uno all’altro per cui le ragioni dell’inclusione sono presenti nella esclusione così come nella reclusione. In questione è l’Ordine, la Contemplazione e la Legge, piano di sicurezza, forma del sapere, codice del diritto ovvero, nella disposizione, dell’ordine contemplato dalla Legge. L’inclusione, l’integrazione, il reinserimento non si può ridurre a un collocamento, preceduto da una classificazione di valutazione. Ciò 13

Ivi, pp.10 e sgg. Su questa linea si ritrova la ricerca di M. Nussbaum, Giustizia e dignità umana. Da individui a persone, Bologna: il Mulino, 2006. La sua insistenza sulla persona non si riferisce al ruolo quanto alla vita umana, «avendo come modello l’idea intuitiva di una vita che sia degna della dignità di un essere umano» (p. 19). 14

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Il prisma dell’inclusione

comporta un’esclusione interna ovvero una sistematica eterotopia, per usare l’espressione di Foucault. Non si può prima classificare rubricando la persona con disabilità, il recluso, l’escluso ovvero il non normale, il criminale, lo straniero, trovando poi un collocamento specifico diversamente reclusorio. Né si possono costruire comunità chiuse e perciò autorecluse. Anche le pratiche di comunità si trovano ad affrontare i rischi dell’autoesclusione operando un’inclusione dentro l’Ordine Contemplato della Legge se non operano sul rapporto di reciprocità tra comunità e società. Appare evidente che l’ambito della comunità risponde all’etica quanto quello della società risponde all’economia. Sarà una tale reciprocazione ad assicurare l’inclusione a condizione di modificare l’Ordine Contemplato della Legge. Lavorare su questa serie è più difficile. La comunità che entra nella doppia relazione con la società riguarda evidentemente quanti operano nelle strutture di servizio allo stesso modo in cui riguarda chi si presenta alla porta della Legge. Prima della comunità c’è il comune, quella reciprocazione che si stabilisce in un sentire comune. Prima della comunità come pratica della reciprocazione c’è il sentimento di reciprocanza. E se la comunità è l’espressione dello starsi accanto, del nostro starci accanto, la reciprocanza è il sentimento sul quale la pratica di comunità trova espressione. Non sarà la comunità come costituita se non come pratica di comunità, qualcosa che perciò è sempre e solo costituentesi e mai costituita, nel senso di organizzata e formalizzata, in modo definitivo. L’esigenza di una pratica di comunità, di un educare educandosi, di una formazione nella reciprocanza modifica la relazione formativa, operando la coniugabilità di una pratica che proprio perché singolare può essere svolta nella singolarità di altri. La trasmissione delle forme, che è l’esigenza di una formazione riproduttiva, viene portata a livello di una relazione restituiva. Non si tratta semplicemente delle buone prassi, ma della reciprocanza di singolarità in una duplice restituzione del proprio come propriamente dell’altro. Al fondo della pratica di comunità è il sentimento morale.

L’appropriatezza La morale è fatta di sentimenti. Si può anche affermare che non esiste una morale ma solo sentimenti morali. Non si danno perciò regole scritte. In Etica poi, rileva Kant, non ci sono principi, ma solo massi-

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L’ordine dell’escluso 83

me per le azioni. Ciò che meglio fa riflettere sul rapporto tra morale e diritto come su un rapporto tra la parola e il dettato, tra voce e parola. Un tale rapporto richiama la pratica di comunità educativa all’ermeneutica, ma non del testo, perché si tratterà di un’ermeneutica della voce. Al fondo è il sentimento morale. Adam Smith, riconosciuto come padre dell’economia politica, era un filosofo morale. Il suo scritto Teorie dei sentimenti morali15 si apre con sezione dedicata a Il senso dell’appropriatezza. Non sarà da confondere con l’appropriazione. L’appropriatezza che assume anche caratteri terminologici più specifici16 va intesa non come semplice opportunità, ma come reciprocanza del proprio. Come un proprio in comune tra diversi. L’approprietezza è la relazione che si stabilisce con ciò che non è proprio, riferendo così il proprio comune. Diversa dall’adeguatezza, che è formale, l’appropriatezza fa riferimento piuttosto al sentire. La sezione che Smith dedica all’approprietezza si apre con la simpatia che è indicata ad origine del sentimento morale17. Per quanto il termine “compassione” sia la trasposizione latina del termine greco “simpatia” la connotazione non è la stessa. La compassione e la commiserazione indicano sentimenti di lontananza, stabiliscono una relazione tra chi la prova e chi la subisce. Un detenuto, un estraneo, un diverso non vuole compassione, non accetta la commiserazione. La simpatia è un sentire comune, un sentirsi in comune. Bisognerà distinguerla con ancora più attenzione dall’empatia, che richiama

15

A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, trad. it., Milano: BUR, 1995. Il termine “appropriatezza” ha trovato una propria applicazione nella cultura sanitaria, perciò nella relazione di cura, assumendo specifiche coonotazioni che vanno dall’organizzazione, all’economia alla specificità di esami. Un’attenzione particolare alla sua applicazione è offerta dall’Ateneo “Federico II” in un documento riportato all’indirizzo web: http://intranet.policlinico.unina.it/?dl_id=146. e che riprende A. Cartabellotta, “L’appropriatezza nel mirino”, «Sanità & Management» (suppl. al. Sole 24 Ore Sanità), Settembre 2003. 17 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit.: «Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante che da essa egli non ottenga che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione […] Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è privo» (p. 81). 16

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un sentire dentro l’altro, nel presupposto del Medesimo. L’empatia salta ogni differenza, facendo dell’altro uno stesso del sé. Dove c’è differenza non è data un’empatia se non di un sentire che non sarà né lo stesso dell’altro/a, né comune all’altro/a. La simpatia richiama la reciprocanza. Ci si fa simpatia. Ora si tratterà meglio di capire come questo comune dell’uno e dell’altro ovvero dell’altro e altro sia simpatia come comune sentimento di ciò che è comune. L’origine del sentimento morale può dire della vita come ciò che è comune, può dire perciò di un sentimento che l’uno e l’altro rivolgono alla vita rivolgendosi l’uno all’altro. La reciprocanza sarà come rivolgersi alla vita. Qualcosa che non è scritto, non ha regole, è solo orale, riguarda la propria voce. L’approprietezza della voce, il sentire comune che si dà nella voce. Ed è un’ermeneutica della voce quella che rimbalza sulla pratica di comunità. È tenere insieme le voci, la risonanza, il consentire l’uno l’altro. Sarà piuttosto da intendere nel modo in cui Nancy riprende l’ermeneutica dello Ione platonico e rimanda a un partage di voix, un parteggiare le voci18.

Cambiare la vita “Come si fa a cambiare?” La domanda viene ancora da chi è recluso. Sono i più giovani a porla con insistenza. Sono i ragazzi delle scuole d’eccezione, poste fuori della Città, nelle periferie. Sono i ragazzi detenuti, quelli ospitati nei centri di prima accoglienza. Come si fa a cambiare? Nel porre la domanda sono già cambiati nel tono della voce, inseguono un desiderio, sono già capaci di sentire qualcosa che non hanno avuto il coraggio di esprimere per non esserne capaci. Qui la disabilità è propria di resistenza a fronte di abilità e capacità estranee. Come si fa a cambiare? La bambina della scuola media di Caserta poneva la stessa domanda, ma in altro modo, diceva:“Come si fa a riconoscere i veri amici?”. Le condizioni spiegano le cose, sono poi le relazioni che cambiano cose e situazioni. Anche la propria condizione. Le proprie difficoltà. Il proprio avere a essere non è mai solo. A essere bisogna stare insieme, avere è tenere, legare, legarsi. 18

J.L. Nancy, La partizione delle voci, Padova: Il poligrafo, 1993.

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L’ordine dell’escluso 85

Come si fa a cambiare? Anche l’esistenza deve cambiare, cioè l’ordine contemplato dalla legge. L’eccezione non conferma la regola; l’eccezione è dentro la regola. La regolarizza. Non ci sono protocolli e curriculum che valgano per tutti. Includere, se ancora questa espressione ha senso, significa dare a ciascuno il proprio tempo, perché il tempo è un diritto proprio. È legame. I sentimenti sono fatti di tempo. Bisogna essere almeno in due per essere uno. Slotedjik ha ripreso l’ingiunzione del verso di Rilke Devi cambiare la tua vita, per intendere la pratica dell’esercizio del cambiamento come potenziamento e verticalizzazione del Sé. La filosofia si presenta in una tale prospettiva come allenamento, esercitazione ovvero l’uso della filosofia è nel continuo svolgimento di esercizi per rendere possibile quello che appare impossibile. Sloterdjik riprende così la storia di Carl Hermann Unthan. Nato senza braccia. Unthan riuscì a scrivere e suonare facendo uso dei piedi. Entrò nel cerchio della normalità, di ciò che si può fare, ed esserne perciò abile, come in possesso di ciò che non ha o che sviluppa un’abilità diversamente. Sloterdijk mostra «dunque in che misura il discorso dell’individuo novecentesco poggi su premesse di antropologia della disabilità, e come l’antropologia della disabilità trapassi spontaneamente in un’antropologia del “nonostante”. In essa, l’individuo umano appare come l’animale che deve andare avanti perché è ostacolato da qualcosa»19. Cambiare allora. Cosa? Niente di ciò che è dato si può cambiare. Ogni trasformazione riguarda l’ordine entro cui qualcosa è contemplato come dato. Quel monito, che chiude il sonetto di Rilke, può avere un’applicazione personale, individuale, quanto deve ottenere una pratica comune. Il “Torso di Apollo”, questo il sonetto di Rilke, gira davanti all’osservatore che segue ammirato le sue linee. Nel guardarlo è il suo sguardo che cambia, ciò vede è l’essere guardato da ciò che gli sta innanzi. Quel torso è come un ricordo di ciò che non si è visto, di ciò che non si può vedere, di quel che manca. Il “torso” è l’espressione di una figura monca. Ed è una tale mancanza a portare l’ingiunzione di un cambiamento dello sguardo. “Devi cambiare la tua vita” è il verso che conclude quella penetrazione del visibile nell’invisibile ovvero

19

P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Milano: Raffaello Cortina, 2010, p. 51.

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Il prisma dell’inclusione

quell’essere visto dall’invisibile che penetra così nella visione trasformandola e reclamando per tale un cambiamento della vita. L’ingiunzione riguarda la contemplazione. Il modo di vedere. Il contemplato. Evidente che la contemplazione, come la teoria, non riguarda uno sguardo vuoto, ma appunto un guardare che sorveglia, custodisce, osservando l’ordine delle cose secondo una precisa collocazione. “Devi cambiare la tua vita” significa cambiare l’ordine, la teoria che mette in sequenza i gesti e il tempo che li segnala. Ed è un cambiamento che reclama il detenuto. Sarà la sua domanda, quella cui tiene più di ogni altra e che arriva dopo che lo sbarramento di quelle prime domande è tolto. Avviene in quello spazio comune. La domanda: come si fa a cambiare? Lo sguardo deve cambiare, meglio, la contemplazione deve cambiare, perciò quello sguardo che tiene insieme le cose secondo un certo ordine. È l’Ordine Contemplato dalla Legge ovvero il proprio modo di vedere e sentirsi visto. È quello che chiede chi non svolge diversamente il lavoro per cui si viene riconosciuti abili. È fin troppo semplice affermare come ciascuno è tanto più abile nel cerchio della normalità quanto più opera nella diversa abilità della propria comune singolarità. Né mai quel cerchio, della normalità, si amplia senza il fuori che lo alimenta e rigenera, cambiandolo continuamente. Non c’è ricerca scientifica che non arrivi zoppicando, nemmeno si sa di sé quel che non si conosceva senza perdersi qualche volta. Nemmeno ci si ritrova senza aver ritrovato un altro. Cambiare la Contemplazione dell’Ordine della Legge, adesso il punto è questo e riporta ancora una volta Davanti alla Legge del racconto di Kafka così come davanti alla domanda del detenuto e di chiunque sente di essere visto come non normale, anormale, estraneo, diverso. Sono i sentimenti che devono cambiare. Quel che si vede dell’altro dentro se stessi.

L’offerta filosofica C’è un intreccio tra pratiche di comunità, l’ordine dell’escluso e la filosofia. Una questione di luogo le tiene insieme. Il fuori luogo. La filosofia si muove sul confine dell’ordine. È sempre fuori luogo. L’accusa che si muove a ogni filosofo è sempre la stessa. Fuori luogo. Testa fra le nuvole. Assenza di pratica. Salvo a ricorrere poi al “dialogo” come esi-

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L’ordine dell’escluso 87

genza necessaria per ogni integrazione, inclusione, rimessa all’ordine. Salvo appunto a ripetere per altri versi il richiamo a Socrate, quando si tratta della pratica filosofica come consulenza. Accade poi che la filosofia si riveli necessaria come offerta sociale sui luoghi di confini della Città, nelle carceri, negli ospedali, nelle scuole, nelle aziende e in ogni altro luogo di cura o di difesa del mondo della vita. La filosofia nella sua pratica è etica. Ancora perciò una questione di luogo, riguarda l’abitare, il modo di stare a essere con se stesso e con altri. Andiamo con ordine, è il caso di affermare, parlando di una pratica che si presenta fuori luogo, estranea, straniera, difforme, prigioniera. Si dovrà pure mettere in chiaro l’uso, la funzione, la pratica della filosofia sui luoghi d’eccezione, sui tanti fuori che stanno dentro l’ordine riconosciuto dal diritto, ma non per tale giusto. Il dialogo socratico è la rappresentazione di un dialogo interiore, “senza voce”, si legge nel Sofista di Platone, per intendere che è un dialogo in se stessi. L’altro è chi mi fa parlare dentro di me. L’altro è la mia solitudine. Il mio confine. La voce senza voce. La voce sola. Ogni volta Socrate è rappresentato come dialogante con l’altro che sembra rappresentare quasi soltanto la punteggiature per le pause e il rimando del suo discorso da un capo all’altro. L’altro è chi fa parlare Socrate, ma ponendolo appunto fuori luogo, nella ricerca, nell’esame di se stesso, che gli comporterà la condanna del tribunale non meno che quello degli amici quando avrà accettato la sentenza di morte. La sua è una prova di ascolto con la voce. Un parlare ascoltando. Non un dialogo che si svolga aspettando che l’altro finisca di parlare per dire la propria. Si ascolta veramente quando si ascolta con la voce, quella interiore. Si ascolta veramente quando ci si parla di quel che l’altro dice. Si ascolta l’altro quando si è mossi a parlare dentro se stessi di quel che dice. Diversamente si parla a lui senza nemmeno ascoltare in se stessi quel che gli si sta dicendo. Non sarà nemmeno l’empatia a risolvere nell’immedesimazione dello Stesso di quel che si sente in sé come lo sente l’altro. Invece dell’empatia sarà piuttosto la simpatia il sentimento che porta a una comune appropriatezza del dire. Molto più dell’empatia si tratterà di un tradursi, di un tradurre, anche di un introdursi in quel comune proprio che la reciprocanza del dialogo richiede. Un dialogo duale, duplice, perché non c’è dialogo quando i dialoganti non dialogano in se stessi, con la voce interiore, quel che l’altro gli fa sentire, come risonanza, come sentimento.

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Il prisma dell’inclusione

Ciò reclama una disposizione. Un esercizio. La pratica che si vuole chiamare inclusione come un’educazione, un tirare dentro da un fuori, come un tendere la parola, che quasi è la mano della voce, una tale pratica non è senza esercizio. Ed è la pratica di comunità. Fuori luogo di fatto è la comunità nel suo essere fuori della società. Una questione di silenzio, di quel che viene interdetto o che viene taciuto perché non si esaurisce nel dire. Al fondo c’è sempre la comunità. Il suo contrasto è con la globalizzazione, adesso, così come è sempre in contrasto con ogni “tutto” e “intero” che raccolga parti senza partecipazione. Il luogo proprio della filosofia è quello comune. Il luogo comune. Nella sua pratica, la comunità. Una comunità di voci. Ricordando ancora Nancy, una comunità di voci. Ciò che rimanda a un comune partecipato. Un’appartenenza comune. Socrate lo lascia intendere a casa di Menone quando dà le basi della sua pedagogia, quando presenta l’esercizio della maieutica, che è un estrarre, un tirar fuori, il tirare da, educare, quel che è dato, quel che c’è. La maieutica mostra così la sua vicinanza all’ermeneutica, ma senza testo, senza didattica, si legge nel Menone, senza tecnica. Un’ermeneutica della voce sola. In quel dialogo, Menone, prima della prova di geometria, Socrate parla dell’immortalità dell’anima. Cosa che appare strana e che di fatto presto si perde a seguire l’esercizio maieutico, ma per il quale è essenziale. L’anima nasce e muove molte volte, si legge. È immortale. Non è però immortale la mia anima, ma l’anima che è in me. Non è immortale l’anima individuale, ma quella comune, la stessa che si può dire l’anima di un luogo, di una tradizione, di una gente, di un popolo. Ecco perché Socrate chiederà a Menone, prima della prova, se lo schiavo che si presenterà sulla scena del dialogo è greco e parla greco, perché il greco sa di geometria, la pratica di fatto nella quotidianità delle sue operazioni. Lo stesso motivo per cui Socrate replicherà ogni volta che la morte non gli nuoce, perché lo vedrà in compagnia con quanti rappresentano la letteratura greca e perciò la sua comunità, da Omero fino a tutti i personaggi che compongono i miti, perciò i racconti di quella cultura. Si tratterà allora di pensare ai racconti, alla letteratura, alla cultura del mondo della vita, del mondo in cui viviamo per pensare all’anima come alle voci che fanno parte della cultura, della letteratura, della comunità implicita nell’organizzazione della società e di cui la società stessa difetta perché se ne distrae, distaccandosi dal mondo della vita.

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L’ordine dell’escluso 89

La filosofia è sempre fuori luogo perché chiamata ogni volta a rivoltare i sensi, per vedere l’invisibile, per udire l’inaudito, per sapere dell’insaputo, per toccare l’intoccabile. Alla fine la pratica della filosofia insieme a tutte le altre connotazioni si lascia esprimere nel vedere quel che manca in quel che c’è perché ciò che c’è sia veramente quel che è. Un sofisma? No. Si tratta di vedere cosa manca alla mia città perché sia veramente quel che è. Si tratta di vedere che cosa non vedo in chi mi sta davanti perché mi si presenta nella verità, nella sua voce. Bisogna insistere su questa particolare ermeneutica della voce. Ciò che rende l’offerta filosofica importante sui luoghi di confine, sul fuori e l’estraneo, con il recluso e l’escluso, con l’eccezione e il diverso, con il difforme, perché l’inclusione non sia una classificazione e collocazione, né la pratica di comunità sia una legittimazione di esclusione della società, ma porti a sviluppare piuttosto una società comune, dove l’escluso porti al Diritto l’esigenza del Giusto, non come un reclamo, ma come la via di accesso al mondo della vita, per mettere la vita al mondo e dare mondo alla vita. L’offerta filosofica si può collocare in quel prima della stessa accoglienza, nella costituzione di quel comune piano d’immanenza, per un operare singolare, ma non di uno. L’offerta filosofica deve poter essere l’esercizio comune per una pratica di comunità diabilitante trasformazioni singolari. Per la filosofia non sarà allora portare il suo studio a misura dei detenuti o dei bambini, così come per altri. Si tratta piuttosto, anche, di capire che ne è della filosofia, della sua espressione, della sua terminologia e canone, quando la si parla con i detenuti o con i bambini o in altri luoghi, per cogliere quel fuori che ogni luogo contiene e ristabilire un nuovo cammino dentro le strade già altre volte, da altri percorsi e che si aprono a nuovi ermeneutiche di voci singolari e comuni, per un mondo quale luogo comune delle differenze.20 È il progetto in corso di un cantiere, per nuove strade di sapere, quello che si sta realizzando per la “Federico II” come offerta filosofica per i detenuti. Offerta deve significa non ciò che si dà, ma anche ciò che si abbandona, ciò che si espone alla sua modificazione. Bisogna abbandonare ogni volta il proprio sapere per conoscere quel

20

Per ulteriori indicazioni sull’offerta filosofica rimando al mio Innocenza della verità, Napoli: Filema, 2009.

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Il prisma dell’inclusione

che di sé non si è ancora saputo. In fondo è questo l’esercizio proprio della filosofia, ma è quello che ognuno è chiamato a esercitare in ogni relazione. L’altro, l’altra, sarà la mia solitudine, il mio non sapere. Bisognerà accettare la rivolta degli specchi, annunciata da Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica:«Verranno svegliandosi le altre forme: gradualmente, differiranno da noi; gradualmente, non ci imiteranno. Romperanno le barriere di vetro o di metallo, e questa volta non saranno vinte». L’altro non sarà quel che nella riflessione è lo stesso, io stesso nel riflettermi sarò altro e altro il sapere, mio, non di me, da restituire a chi non lo ha avuto o lo ha perduto, per divenire di nuovo sapere dell’altro, escluso, recluso, schiavo, strano, straniero, deforme per nuove forme del mondo della vita. Sarà l’ordine dell’escluso. Ciò che l’escluso pone all’ordine del giorno. L’ordine del fuori luogo, come di ciò che manca a un luogo perché sia veramente quel che è. Un ordine di contemplazione ovvero di ciò che è contemplato dalla Legge del Luogo. Una visione. Non un sofisma. Lo si capisce dagli esempi. Per esempio: vedere quel che manca all’università perché sia veramente università.

Riferimenti bibliografici Agamben G., Homo sacer, Torino: Einaudi, 1995. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Milano: Adelphi, 2002. Benjamin W, “Per la critica della violenza”, in Angelus Novus, Torino: Einaudi, 1976. Benveniste E., Il vocabolario delle istituzioni europee, Torino: Einaudi, 1976. Cacciari M., Icone della Legge, Milano: Adelphi, 2002. Cartabellotta A., “L’appropriatezza nel mirino”, «Sanità & Management», Settembre 2003. Deleuze G., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Torino: Einaudi, 2010. Derrida J, Donare il tempo. La moneta falsa, Milano: R. Cortina, 1996. _____, Forza della Legge, Torino: Boringhieri, 2003. Ferraro G., Innocenza della verità, Napoli: Filema, 2009. Habermas J., L’inclusione dell’altro, Milano: Feltrinelli, 1998.

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L’ordine dell’escluso 91 Kiekegaard S., “Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno”, in Enten– Eller, Milano: Adelphi, 1977. Nancy J.L., La partizione delle voci, Padova: ed. Il poligrafo, 1993. _____, Il giusto e l’ingiusto, Milano: Feltrinelli, 2007. Nietzsche F., La Gaia Scienza, Milano: Adelphi, 1977 Nussbaum M., Giustizia e dignità umana. Da individui a persone, Bologna: il Mulino, 2006. Sen A.K., Identità e violenza, Bari: Laterza, 2006. Sloterdijk P., Devi cambiare la tua vita, Milano: Raffaello Cortina, 2010. Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Smith A., Teoria dei sentimenti morali, Milano: BUR, 1995. Waldenfels B., Fenomenologia dell’estraneo, Milano: R. Cortina, 2008. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino: Einaudi, 1968.

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Parte II

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L’inclusione e il mondo della scuola

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Inclusione e cittadinanza attiva

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di Lucia de Anna

1. Il quadro di riferimento internazionale La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, approvata dalle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, mette in evidenza non solo l’affermazione dei diritti ma soprattutto l’impegno della società a rimuovere le barriere che impediscono la piena ed effettiva partecipazione delle persone in situazione di disabilità con pari dignità e uguaglianza con tutti gli altri cittadini. Introduce con il termine “Inclusione” la necessità di un cambiamento nei contesti di istruzione, di lavoro e di vita sociale, per accogliere la diversità con il rispetto e con il riconoscimento della valorizzazione delle differenze e dello sviluppo pieno delle potenzialità di ciascuno. Ogni articolo della Convenzione permette una profonda riflessione sull’appartenenza a una società che è chiamata a promuovere la partecipazione di tutti nella sfera civile, politica, economica, sociale e culturale1. Queste affermazioni richiamano fortemente il principio che sempre più si sta diffondendo di cittadinanza attiva e/o cittadinanza globale. L’educazione viene posta al centro di tale processo di rinnovamento; già nel Development Education Forum del 2004 l’educazione allo sviluppo è stata vista come un processo attivo di apprendimento, 1 L. de Anna, “L’identità della persona con disabilità nella Convenzione ONU del 2006: evoluzione storica attraverso i documenti internazionali”, in A. Mura (a cura di), Pedagogia speciale oltre la scuola, Milano: FrancoAngeli, 2011, pp. 23-39.

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L’inclusione e il mondo della scuola

fondato sui valori della solidarietà, dell’eguaglianza, dell’inclusione e della cooperazione. Nel 2006 viene approvato dal Comitato dei Ministri il Piano d’Azione del Consiglio d’Europa 2006-2015 per la promozione dei diritti e della piena partecipazione alla società delle persone con disabilità allo scopo di migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità in Europa. Con l’annuncio del Programma Horizon 2020 il tema della società inclusiva è al centro dell’attenzione, per sviluppare progetti di prevenzione, salute e benessere per tutti i cittadini2. Si parla sempre di più di accessibilità educativa3, di accessibilità al lavoro, di partecipazione e accoglienza nei contesti educativi e sociali, di accessibilità tecnologica non solo in termini di ausili, ma anche di apprendimento attraverso il Web. Nella formazione molti tentativi vengono fatti affinché i concetti di inclusione e cittadinanza attiva possano essere introdotti in tutti gli insegnamenti disciplinari in maniera trasversale; la conoscenza può arricchirsi attraverso la consapevolezza che ciascuno di noi può avere un ruolo nella possibilità di creare un mondo diverso aperto ai valori richiamati nella Convenzione stessa. Questi valori devono essere approfonditi e fare in modo che possano appartenere al vissuto quotidiano, altrimenti rimangono delle semplici enunciazioni. In questa battaglia quotidiana un ruolo forte può essere giocato dalla educazione e dalla formazione. Il nostro Paese è stato uno dei primi a firmare la Convenzione e il Parlamento l’ha ratificata in tempi abbastanza celeri rispetto ad altri paesi. Questo vuol dire obbligare il nostro Paese a tenerne conto in tutta la normativa vigente e, nel caso di assenza di normativa al riguardo, di provvedere all’adeguamento con provvedimenti legislativi. Gli aspetti rilevanti della Convenzione, proprio sul tema dell’inclusione e dell’integrazione delle persone con disabilità, in campo edu2 Commissione Europea, Programma quadro di ricerca e innovazione “Orizzonte 2020”, Bruxelles: 2011, consultabile su http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/ LexUriServ.do?uri=COM:2011:0808:FIN:it. 3 A. Mura, “L’accessibilità: considerazioni teoriche e istanze operative”, in A. Mura (a cura di), Pedagogia speciale oltre la scuola, cit., pp. 40-60.

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Inclusione e cittadinanza attiva 97

cativo e non solo, erano stati già assunti dall’Italia da diversi anni, attraverso una ricca legislazione che ha portato a considerare il nostro paese all’avanguardia per aver deciso l’eliminazione delle scuole speciali e aver legiferato per una scuola inclusiva, per aver deciso prima di tutto di non fare discriminazioni e scelte a priori su chi doveva andare nella scuola ordinaria o nella scuola speciale, sicché ciascuno ha potuto esercitare il proprio diritto di andare nella scuola di tutti. Ma nonostante il lavoro svolto, le scelte legislative e le disposizioni applicative, non abbiamo ancora raggiunto questo diritto pienamente, restano ancora da eliminare barriere e pregiudizi, che rischiano talvolta di creare ulteriori discriminazioni proprio all’interno della scuola e della società. Esistono situazioni nelle quali viene vissuto un isolamento che non consente la piena partecipazione e la crescita in una dimensione di apprendimento insieme agli altri, soprattutto per le persone con disabilità complesse. La situazione italiana è ancora molto variegata e le difficoltà strutturali ed economiche talvolta stanno creando ripensamenti sull’affermazione di questi diritti, qualcuno inizia a nutrire delle perplessità sull’educabilità delle persone con disabilità mentale. Da questa discussione eravamo usciti con le idee chiare già nel 1978, durante la Conferenza di Roma della Comunità europea e la presentazione del Rapporto Jorgensen, affermando che non si doveva ritornare più su questi aspetti riguardanti educabilità e non educabilità; restava ancora in discussione la scelta di un ambiente educativo speciale e per la prima volta si apriva il dibattito sull’educazione nella scuola ordinaria, essendo allora l’Italia l’unico paese ad aver fatto questa scelta4. Con il passare degli anni molti Paesi stanno sempre più sviluppando esperienze in ambienti ordinari nella scuola di tutti, utilizzando, come ad esempio in Francia in base all’ultima legge del febbraio 2005, che obbliga i bambini e bambine a iscriversi alla scuola del quartiere, dispositivi quali le CLIS (Classes d’Intégration scolaire) nella scuola dell’infanzia e primaria e le UPI/UNLIS (Unité pédagogique d’intégration e Unité locale d’intégration scolaire) nella scuola secondaria, che consentono di organizzare la didattica nella scuola ordinaria con momenti di lavoro nella classe ordinaria alternati con gruppi speciali,

4

L. de Anna, Pedagogia speciale, Milano: Guerini, 1998, cap. VI, pp. 134-173.

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L’inclusione e il mondo della scuola

accompagnati da insegnanti specializzati e da assistenti di aiuto nella vita scolastica5. Il problema non è riferito al fatto che queste persone disturbano o sono complicate da comprendere, per cui vengono richieste cure speciali, ma prima di tutto al fatto che la scuola non vuole investire nella trasformazione della sua organizzazione didattica per venire incontro ai bisogni educativi speciali che possono appartenere a differenti situazioni, che non riguardano solo le persone con disabilità. Lo abbiamo potuto constatare a livello mondiale con la Conferenza delle Nazioni Unite a Salamanca nel 1994 quando, con forza, nella Dichiarazione finale è stato affermato che se la scuola non cambia non può esserci integrazione e non si possono fornire risposte ai bisogni educativi speciali. Molto spesso il fenomeno di rifiuto o di emarginazione viene interpretato, invece, come una impossibilità della scuola ad avere competenze riferite alle problematiche delle diverse tipologie di disabilità e, quindi, viene vista di nuovo la disabilità come una malattia, di cui si devono occupare solo i medici e gli specialisti. La classificazione internazionale dell’ICF aveva diverso orientamento, i concetti di partecipazione e di ambiente erano stati assunti come fondamentali per evitare le situazioni di disabilità, fin dalla fase della prevenzione, studiando sia l’ambiente scolastico sia quello lavorativo, ma tutto ciò non è stato sufficiente, anche se ormai è stato ripetuto all’infinito e ci sono studi e ricerche che mettono in evidenza l’importanza degli aspetti educativi e formativi. Oggi sembra anzi che l’ambiente scuola possa creare situazioni di criticità e di fastidio, gli altri, “i normali” stessi, possono creare turbamenti con la loro “vitalità”, forse è meglio isolare – si asserisce – le persone con disabilità, possono essere più tranquille in ambienti separati, soprattutto nei casi specifici come l’autismo (ma anche le persone sorde possono avere analogo giovamento). Oppure devono stare con altri studenti autistici, o sordi con sordi, per identificarsi ancor meglio con la propria disabilità, qualcuno afferma che così possono ritrovare la propria identità. Mi sono ritrovata più volte a discutere questo problema anche con 5 L. de Anna, V. Della Volpe, “Il progetto FIRB Rete@ccessibile. La costruzione di una dimensione internazionale per un e-learning inclusivo”, «Integrazione scolastica e sociale», Vol. 10, No. 3, 2011, pp. 254-266.

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Inclusione e cittadinanza attiva 99

i colleghi stranieri che vogliono creare classi speciali in Germania e in Francia. Si devono qui svolgere alcune riflessioni sul concetto di identità affrontato da diversi studiosi: come dice Levi-Strauss, quasi tutte le definizioni di questa nozione d’identità iniziano con una critica di questa nozione. In uno studio svolto da una studentessa, Khadiatou Diallo, nel suo progetto di tesi su “Identità e inclusione scolastica in Italia”6, nell’ambito del Dottorato internazionale dell’Università Foro Italico “Culture, disabilità e inclusione: educazione e formazione”, viene affrontata questa problematica dell’identità in stretto contatto con il concetto di rappresentazione sociale e vengono presi in considerazione diversi studiosi, ad esempio E. Goffman7, che concepisce la vita come un teatro, dove l’individuo assume dei ruoli e partecipa alla costruzione dell’immagine di sé; questa identità si sviluppa nel corso delle interazioni faccia a faccia, supponendo che l’individuo, secondo le circostanze sociali, possa rivestire diversi ruoli. Si tratta, quindi, di un processo costruito dall’individuo, ma sempre in relazione con gli altri. E, come afferma Maria Izabel Szpacenkhopf8, psicoanalista brasiliana che lavora sulle problematiche sociali, «ogni individuo è fondamentalmente dipendente dal contesto di scambio sociale organizzato secondo i principi normativi del riconoscimento reciproco. I singoli si costituiscono come tali quando imparano a vedersi realmente attraverso gli occhi degli altri per mezzo di un confronto reciproco positivo». La scomparsa dei rapporti di riconoscimento porta a esperienze di disprezzo e umiliazione, che non possono non avere conseguenze per la formazione dell’individuo9. Lo studio di Khadiatou Diallo affronta e analizza, nella parte di introduzione storico-socio-antropologica, l’interpretazione dell’identità da parte di diversi autori, collegandola ai temi dell’inclusione, e

6

K. Diallo, Identité et inclusion scolaire et sociale, Roma: Università Foro Italico, 2012, Tesi di Dottorato internazionale “Culture, disabilità e inclusione: educazione e formazione”. 7 E. Goffman, Stigmates, les usages sociaux des handicaps, Paris: Minuit, 1975. 8 M. I. Oliveira Szpacenkopf, Perversao social e reconhecimento na atualidade, Rio de Janeiro: Garamond, 2011. 9 A. Honneth, “Invisibilité: sur l’épistémologie de la reconnaissance”, in La société du mépris: Vers une nouvelle Théorie critique, Paris: La Découverte, 2006.

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L’inclusione e il mondo della scuola

focalizza poi la sua attenzione su una sperimentazione che ella stessa conduce in alcune scuole di Roma e Cagliari per uno sguardo ai diversi attori che intervengono nel processo di integrazione: dalla famiglia agli insegnanti e agli studenti nel loro modo di concepire l’identità degli alunni con disabilità e del modo in cui questa è influenzata dalla concezione di rappresentazione sociale. L’indagine mette in luce diversi aspetti problematici, circa le credenze, i comportamenti e gli interventi da affrontare. L’analisi riguarda un campione ristretto e non significativo ai fini di una ricerca globale, ma emergono problemi e perplessità su tali complesse problematiche. Può sorgere il dubbio che possano mancare competenze didattiche più approfondite da parte di coloro che sono gli attori di questi processi, sia riguardo alle tematiche dell’inclusione sia circa l’attribuzione di significato alle nozioni di cittadinanza attiva e di responsabilità condivisa, nonché indubbiamente competenze specialistiche riferite alle problematiche della diversità, in quanto si ravvisa da parte degli stessi attori la non conoscenza specifica riguardo alle diverse tipologie di disabilità. La mancanza di competenze specialistiche sulla disabilità tuttavia non ci deve indurre a pensare, come sta avvenendo, che ci vogliano gli insegnanti per i sordi, gli insegnanti per i ciechi, quelli per gli autistici, per gli iperattivi, quelli oggi sempre più di moda per i dislessici (anche loro sono diventati una categoria) e potremmo continuare all’infinito. Ricordo a questo proposito un intervento di Canevaro su «Cri du chat»: di fronte a questa situazione ci potremmo rendere conto che ci manca ancora una specializzazione, ma forse è il caso di capire che, se si hanno le conoscenze di base giuste, potremmo anche informarci da chi ne sa di più o ha fatto determinate esperienze. Ci sono, nella trasversalità delle categorie, degli elementi che ricorrono e non basta soffermarsi sulla tipologia per sapere che cosa fare, ma occorre riflettere e utilizzare le conoscenze acquisite e tradurle nell’organizzazione delle attività di lavoro riferite non solo all’alunno con disabilità ma all’organizzazione del lavoro della classe e della scuola, dell’ambiente di apprendimento-insegnamento, della didattica, tenendo presente la risorsa compagni. Tale risorsa, infatti, può diventare un supporto fondamentale e purtroppo la si esplora sempre di meno e, a causa dei nostri comportamenti negativi, si può correre il rischio di preparare e di formare invece sempre di più al rifiuto, alla convinzione che quel compagno non può stare in classe (tanto che si inizia ad averne

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Inclusione e cittadinanza attiva 101

persino paura). Sono meccanismi circolari che si autoalimentano. Ho potuto constatare, per esempio, che nei piccoli centri, a differenza della grande città, è più facile che, se si assume un comportamento di rifiuto, esso si diffonde con maggiore rapidità perché le persone si conoscono e si sparge la voce. Tutto ciò conduce verso un certo tipo di pensiero: “Possiamo riuscire a stare più tranquilli relegando le persone tutte insieme in un unico posto, dove poi ci sono gli specialisti, i bambini stanno meglio, sono felici e più contenti, in più hanno un personale altamente specializzato che pensa a loro tutto il giorno”. Anche le famiglie sono più tranquille, hanno un attimo di sosta e non vengono tutti i giorni tartassate di telefonate dalla scuola: “Suo figlio si è comportato male, lo venga a prendere sta urlando e non sappiamo cosa fare”. E dove finiscono le paure? Non ci sono più, perché “quelle persone” non le vediamo più, oppure ogni tanto andiamo loro a far visita come avviene sempre di più in alcune scuole della Lombardia, del Piemonte e del Veneto, persino a Genova. Ricordo un’esperienza di un centro speciale, presentata durante un workshop nella III Conferenza nazionale sulle politiche della disabilità tenutasi a Torino il 2-3 ottobre 2009 dal titolo “Tutti uguali tutti unici”. La visita per gli alunni che provengono dalla scuola normale è preparata per osservare che tutti sono al loro posto con i loro giochini e ausili. Le persone si tranquillizzano (“vedi stanno proprio bene così”) e si torna a casa soddisfatti, convinti di aver compiuto anche una buona azione. A questo punto vorrei ricordare un’altra frase di Canevaro: “Far fatica è crescere, se gli togliamo anche questo è un ulteriore danno che gli facciamo”. Quali sono gli stimoli che la relazione con l’altro può sviluppare, come si può costruire l’identità se non mi confronto con l’altro diverso da me, se non cresciamo e apprendiamo insieme (e questo vale sia per la persona normodotata sia per quella con disabilità)? Il “normale” piano piano inizia a pensare che le persone con disabilità non esistono, fin quando un giorno qualcuno non ha un incidente con l’auto o un albero cade addosso sopra la sua moto o facendo sport ha un trauma cranico e così via, fino al momento, se tutto va bene, della sua vecchiaia e viene ricoverato in un ospizio con la stessa e perenne logica della separazione e della riabilitazione, che non sempre è possibile perché la persona è vecchia e malata.

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L’inclusione e il mondo della scuola

E qui ritorniamo ai temi della cittadinanza attiva: non si costruisce una società inclusiva se non acquisiamo consapevolezza che il problema riguarda ciascuno di noi dal punto di vista culturale, può riguardare ciascuno di noi in ogni momento della nostra vita; quali sono i nostri desideri, le nostre attese, i nostri sogni in qualsiasi condizione ci dovessimo trovare? Restiamo pur sempre delle persone con la nostra dignità e con la nostra personalità. Vedo spesso trattare le persone anziane dalle loro badanti come se non avessero avuto mai una vita, una personalità, vengono viste solo in funzione dei loro bisogni, sia pure importanti e “quasi” prioritari; tutto ciò è molto triste e non fa che aumentare in molte persone l’attesa della morte. È questo il significato di cittadinanza attiva? Queste persone non appartengono alla nostra società? Noi non apparteniamo alla società nel momento in cui abbiamo un problema, oppure la nostra appartenenza è solo funzionale alle cure e non alla nostra partecipazione attiva anche per quel minimo che possiamo fare? Un altro aspetto che stiamo analizzando nello studio dei vari paesi è lo “sguardo” sulla disabilità. Ricordo una mamma francese che mi ha fatto riflettere su tale questione e da allora presto maggiore attenzione agli sguardi delle persone, quando incontrano persone con disabilità o con comportamenti strani. Ho pubblicato un articolo su questa storia che mi ha molto coinvolto personalmente, avendo organizzato il lavoro di inserimento in una scuola elementare di un bambino francese con trisomia 21 e tratti autistici10. La mamma racconta che il figlio è tornato in Francia, purtroppo è internato in un istituto professionale, lei lo vede per il fine settimana, e non sempre, lui ricorda ancora l’esperienza italiana, i suoi compagni italiani e chiede di ritornare in Italia. Ma la mamma soprattutto ricorda lo sguardo degli altri, senza la sensazione di farle sentire continuamente che suo figlio è un diverso, lo trattavano come gli altri bambini, con attenzione ovviamente e con professionalità. In Svizzera i genitori parlano di filosofia di appartenenza alla scuola di tutti come un’utopia, ma la ritengono assolutamente necessaria

10

L. de Anna, “Il significato del confronto internazionale”, «L’integrazione scolastica e sociale», Vol. 3, No. 1, 2004, pp. 23-44.

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Inclusione e cittadinanza attiva 103

per dare un posto sociale ai loro figli nella scuola di tutti; questo movimento induce a sviluppare un atteggiamento positivo al fine di modificare gli ostacoli che si frappongono all’accoglienza, soprattutto da parte degli insegnanti, i quali se danno per scontato che gli alunni con disabilità non possono frequentare la scuola non mettono in atto nessuna strategia didattico-educativa. In Inghilterra, con l’introduzione della politica del 2004 “Every Children Matters” [“Ogni Bambino Conta” n.d.c.] ogni bambino conta, si sta cercando di sviluppare una politica di attenzione al parere delle famiglie e dei bambini sulle loro aspirazioni e bisogni, sull’educazione e sull’inclusione. Si è cercato di sviluppare il coordinamento tra “Children’s Services” [Servizi rivolti ai bambini n.d.c.] educazione, sanità e servizi sociali11. A Malta le famiglie sono coinvolte nel progetto educativo inclusivo e attraverso lo strumento del MAPS vengono sensibilizzate a pensare non solo a riconoscere i bisogni dei loro figli ma anche a rappresentare i desideri e i timori. A tal fine viene, ad esempio, richiesto di simulare un giorno ideale per il figlio12. Su questi temi e su queste riflessioni dobbiamo aprire un dialogo per comprendere e scambiarci le ragioni che ci fanno preferire una scelta piuttosto che un’altra. Lo sguardo internazionale può aiutare anche il nostro Paese ad approfondire e conoscere meglio quali sono le resistenze che ancora esistono e le criticità che, nonostante le numerose esperienze di integrazione e inclusione, non ci permettono di affermare con forza, dopo più di trentacinque anni, che le nostre scelte sono state efficaci per la crescita e lo sviluppo dei nostri giovani e che l’integrazione nella scuola di tutti è la strada migliore per arrivarci. Quali possono essere le strategie per eliminare le barriere cui abbiamo fatto cenno?

11 F. Armstrong, “Inclusive Education: From Policy to Practice, a Case Study from the North of England”, in «AIS La nouvelle revue de l’adaptation e de la scolarisation. L’éducation inclusive en France e dans le monde», No. 5, 2009. 12 E. Tanti Burlò, “Parents and Professionals Working Together. Services in Malta”, in M. Carrozzino, P. Ruffinato, Towards a New Humanism Ethics and Disability, Proceedings of the 3rd International Congress, Mediterranean without Handicap, Malta, 2007, pp. 216-231.

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L’inclusione e il mondo della scuola

Ritorniamo ad affrontare il significato che può assumere la scuola come fonte per la costruzione di una vera educazione e formazione alla convivenza civile e alla costruzione della cittadinanza attiva, nell’ottica dell’inclusione. A questo proposito desidero richiamare gli studi di Luciano Corradini su questo argomento, ma in modo particolare di Pasquale Moliterni che, muovendo dalla riflessione pedagogica di Corradini, sta portando avanti questo messaggio, coniugandolo con la Didattica dell’integrazione. Lo sguardo di Moliterni, che dagli studi sulla Didattica è passato ad approfondire i processi di integrazione soprattutto nella scuola, ma anche nella società, per costruire quella che oggi chiamiamo cittadinanza attiva, si focalizza sulla progettazione dell’offerta formativa in una scuola inclusiva, per un curriculo di scuola all’interno di un curriculo di comunità, che assuma la cittadinanza non solo nel curriculo formale ed esplicito, ma anche in quello informale, nella vita della scuola, nella dimensione organizzativa e relazionale, in un’organizzazione che promuova la partecipazione, il dialogo, la concertazione: una scuola attiva e partecipativo-costruttiva che promuova l’autorealizzazione personale nella solidarietà sociale13.

2. Le radici storiche dell’educazione civica e l’avvio dell’educazione delle persone con disabilità verso i processi di inclusione Alcune riflessioni mi vengono suggerite dalle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, che si sono concluse nel 2011. A tal proposito penso che sia importante ripercorrere alcuni passaggi culminanti, che hanno condotto storicamente all’affermazione dei diritti delle persone, siano esse disabili o no, e alla costruzione in Italia di un messaggio inclusivo e non emarginalizzante e segregativo. Nel nostro paese si può spiegare il passaggio da un sistema di educazione speciale al processo di integrazione delle persone con disabilità nella scuola ordinaria attraverso l’evoluzione di un sistema

13 P. Moliterni, “Progettazione dell’offerta formativa in una scuola inclusiva”, in P. Crispiani (a cura di), Il management nella scuola di qualità. Roma: Armando Editore, 2010, pp. 253-281.

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scolastico nella sua gestione e organizzazione metodologico-didattica, nella transizione da uno Stato di diritto a uno Stato sociale. Alcuni punti cruciali riguardano il rapporto scuola-società, gli obiettivi che la scuola si propone di raggiungere e le modalità di intervento da adottare. Un primo movimento verso un’attitudine educativa di tipo sociale lo ritroviamo proprio dopo la conquista dell’Unità d’Italia (1860): la scuola venne subito investita della responsabilità di una nuova funzione, fondata sulle radici politiche, sociali e culturali che avevano condotto all’unificazione dell’Italia. Il legislatore impose alla scuola di formare uno spirito unitario attraverso un’istruzione che doveva svegliare le intelligenze, formare le coscienze e illuminare i pensieri14. Tutta la pedagogia del Risorgimento è tesa a trasmettere, attraverso la scuola e l’educazione, gli ideali di libertà e uguaglianza per tutti, nessuno escluso. Tuttavia possiamo dire che tale funzione culturale e civica della scuola si è dovuta misurare con problemi assai diversi, dalla lotta all’analfabetismo ai problemi dell’intensificazione del divario tra le classi sociali e, ancora, delle differenze tra i territori, in particolare in relazione alle differenze organizzative e di gestione tra i Comuni più ricchi e quelli più poveri. Molto spesso la scuola obbligatoria e gratuita, affermata sul piano legislativo, non sempre si traduceva nella realtà dei fatti e l’intervento dello Stato diveniva necessario per prendere in mano direttamente a livello nazionale la gestione delle scuole. Nascono i problemi dell’assistenza e del diritto allo studio, che incidono notevolmente sulle diverse problematiche affrontate nei confronti della differenziazione tra i soggetti con deficit sensoriali, di cui – come vedremo – si sono fatti carico, secondo un’antica tradizione, gli Istituti speciali, e quelli con disabilità mentali, che per lo più sono stati oggetto di provvedimenti assistenziali e della beneficienza pubblica oppure sono stati assistiti negli ospizi o nei manicomi o in enti per malati mentali. Lo sguardo alla disabilità mentale si organizza più lentamente e la costituzione dell’Unità d’Italia contribuirà notevolmente a sviluppare nuove forme assistenziali di tipo più educativo, in base alle quali la

14

F. Cambi, La ricerca storico-educativa in Italia 1945-1990, Milano: Mursia, 1995, p. 58.

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L’inclusione e il mondo della scuola

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persona con disabilità era presa in considerazione nella sua educabilità e possibilità di vivere nella società. Questi percorsi sono scanditi da alcune tappe legislative cruciali: 1. la legge Daneo-Credaro, promulgata nel 1911, per effetto della quale la gestione delle scuole passa allo Stato a eccezione di quelle scuole situate nei Comuni capoluogo di provincia, che passeranno allo Stato solo con la Legge del 193315; 2. la Riforma Gentile, nel 1923, che darà una nuova organizzazione all’istruzione pubblica, prendendo in carico nello stesso tempo l’educazione e le istituzioni speciali regolamentate dalla stessa legge; 3. i Decreti Reali del 1923 e del 1928, che impongono una scuola obbligatoria per i ciechi e i sordo-muti che non presentino altro tipo di handicap che impedisca loro di frequentare le scuole a loro riservate16, prevedendo la preparazione degli insegnanti specializzati. Da queste disposizioni legislative possiamo constatare che l’Italia di allora stava sviluppando una tradizione culturale e pedagogica molto intensa sull’educazione speciale e che gli interventi medici e rieducativi erano già parzialmente evoluti verso una nuova concezione di educabilità delle persone con disabilità, sia pur appartenenti alla sola categoria dei “sensoriali”. Occorre anche mettere in evidenza che l’istruzione essendo in mano ai Comuni, come si evince da molti studi sviluppati sul territorio nelle diverse regioni d’Italia17, essi avevano messo in atto e sviluppato azioni educative e rieducative in favore delle persone con disabilità, potendo essi stessi gestire aspetti educativi e medico-sociali contemporaneamente. Questi due aspetti così importanti ed essenziali sul piano dei processi di integrazione hanno avuto una ripercussione fino ai nostri giorni, mettendo in evidenza come organizzare le competenze delle diverse istituzioni nello sviluppo dell’educazione, dell’assistenza e della sfera socio-sanitaria, soprattutto con riferimento alle persone con disabilità cognitiva. 15 L. de Anna, Aspetti normativi dell’inserimento scolastico degli handicappati, in Italia e all’estero, Roma: Tempinuovi, 19902. 16 O. Sagramola, L’inserimento scolastico degli handicappati. Principi e norme, Brescia: La Scuola, 1989. 17 L. de Anna, Pedagogia speciale, cit., pp. 40-51.

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Una tale concezione permetteva di superare la fase della diagnosi medica come solo punto di partenza per decidere se occorreva intervenire a livello educativo e su quale piano, supponendo una valorizzazione della persona in quanto tale, cioè in grado di realizzare il suo processo di apprendimento e di socializzazione, perché si trattava di agire sui diversi momenti della vita degli individui che si influenzano reciprocamente e da quell’amalgama si poteva migliorare il processo educativo di tutta la classe normale18. In questo momento di rinnovamento inizia ad affermarsi la possibilità di educare le persone con disabilità assumendone la responsabilità. Sulla spinta di alcuni ricercatori, e grazie all’influenza esercitata dalla forte tradizione pedagogica nel campo dei bisogni educativi speciali, si sviluppa, particolarmente verso la fine del XIX secolo, in Italia un movimento che preconizza un cambiamento, gettando le fondamenta per le trasformazioni future degli anni Settanta. Citeremo solo alcune delle personalità che permisero di creare una nuova dimensione dell’educazione dei bambini con disabilità: – Sante de Sanctis (1862-1935), che fonda la prima scuola asilo e si dedica soprattutto alla profilassi e alla prevenzione; – Giovanni F. Montesano (1868-1951), che fonda a Roma nel 1900 la prima scuola ortofrenica per la formazione degli insegnanti, l’Istituto medico-pedagogico nel 1901 e le prime classi differenziali in alcune scuole elementari di Roma nel 1908 e nel 1910; – Maria Montessori (1870-1952), che partendo dall’analisi dei bambini handicappati, e sulla base degli studi di Itard e di Seguin, verifica l’importanza dell’utilizzazione del materiale didattico strutturato per stimolare non soltanto lo sviluppo sensoriale e cognitivo del bambino, ma allo stesso tempo la sua interazione con l’ambiente, gli altri bambini e gli insegnanti. Questa scoperta la indusse a sperimentare gli stessi strumenti e metodologie didattiche con i bambini normali, fino a creare a Roma, nel 1907, la prima Casa dei bambini aperta a tutti. Le scuole montessoriane sono ancora oggi presenti in tutto il mondo.

18

C. Scurati, Nuovo curriculum nella scuola elementare, Brescia: La Scuola, 1977.

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L’inclusione e il mondo della scuola

Di questo periodo desidero anche ricordare l’attività del pedagogista Gonnelli-Cioni (1854-1912) che avviò una importante esperienza con la nascita dell’Istituto per frenastenici a Chiavari nel 1889 e fondò la prima rivista «Ortofrenia» nel 1894. L’Italia aveva già avuto nel passato una grande tradizione, fin dal XVIII secolo, sulle scuole speciali per i “sensoriali”, basti citare alcune esperienze: nel 1784, l’abate Tommaso Silvestro apre la prima scuola pubblica a Roma, tuttora funzionante con una sezione di scuola materna, che fu seguita da una serie di iniziative similari in vari stati italiani. Un’altra esperienza importante è quella del Padre Tommaso Pendola (1800-1883)19, che aprì nel 1828, a Siena, l’Istituto per i bambini sordo-muti. La sua azione fu molto importante, ricordiamo che nel Congresso di Milano del 1880 non solo affermò con forza l’educabilità dei bambini sordo-muti ma diffuse le sue tesi sull’oralismo. Per quanto riguarda i bambini ciechi va citato il lavoro svolto da Augusto Romagnoli (1879-1946) a Bologna e in diverse città d’Italia, da cui derivò nel 1926 la creazione a Roma di una Scuola di Specializzazione per gli Educatori di Bambini Non Vedenti20. Attraverso le esperienze appena citate, a cui si aggiungono molte altre iniziative promosse da illustri precursori in quasi tutte le parti d’Italia, si sviluppò un’attenzione educativa – rinforzata dalla nascita del nuovo Stato – che portò anche al confronto tra le varie iniziative. Il periodo filantropico, assistenziale e caritativo fu segnato dal passaggio a un intervento calibrato in funzione dei bisogni del soggetto, prendendo in considerazione non solo gli aspetti medico-riabilitativi ma anche quelli educativi21. La Costituzione italiana del 1948 non fa altro che rinforzare i principi dell’uguaglianza, delle pari opportunità per tutti, dell’educazione obbligatoria e della gratuità dell’insegnamento, ma non solo, perché lo Stato garantisce a tutti la possibilità di raggiungere i più alti gradi dell’istruzione, eliminando le barriere che si frappongono a questa realizzazione. 19 AA.VV., “Tommaso Pendola e l’educazione dei sordi”, in Atti del Congresso per commemorare il primo centenario della morte di Padre Tommaso Pendola 20/11/1983, Siena: Istituto T. Pendola, 1983. 20 A. Romagnoli, Ragazzi ciechi, Roma: Armando, 19912. 21 L. de Anna, Pedagogia speciale, cit., cap. II, pp. 37-55.

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La lotta all’analfabetismo dall’Unità d’Italia si avvia verso il successo, passando dal tasso di scolarizzazione del 43% nel 1863 al 97% nel 195922. Ma in realtà, nel nostro Paese, abbiamo iniziato ad applicare lo spirito della Costituzione repubblicana con l’approvazione della legge n. 1859 del 31 Dicembre 1962 riguardante la riorganizzazione della scuola media. Tre anni prima dell’approvazione della legge il numero degli adolescenti di età compresa tra i 13 e 14 anni che otteneva il certificato di studio in uno dei due indirizzi della scuola postelementare era del 20%, dopo dieci anni il numero degli studenti che aveva ottenuto il completamento dell’obbligo scolastico era diventato del 92%. In quegli anni una particolare attenzione nello studio della storia era dedicata all’educazione civica. È proprio in quegli anni, attraverso le misure legislative per lo sviluppo della scuola durante il triennio 1962-1965, che furono istituite le classi differenziali e le classi speciali nelle scuole dello Stato. Una grande apertura verso gli studi superiori degli studenti con disabilità e con svantaggio psico-sociale, ammessi su indicazione di una commissione ad hoc medico-psico-pedagogica. In seguito, la legge n. 444 del 18 Marzo 1968, che istituiva anche la scuola materna statale, previde la creazione delle scuole e delle classi speciali. Lo spirito di queste disposizioni era quello di far uscire dalle scuole speciali i bambini con disabilità per farli avvicinare a un ambiente ordinario, meno segregativo e più vicino alla scuola per tutti. Veniva così affermato il diritto all’educazione per tutti nella scuola pubblica dello Stato italiano. Ma queste disposizioni non soddisfacevano il pieno diritto all’educazione e all’uguaglianza delle opportunità, perché veniva affidato a un esperto il compito di decidere se uno allievo poteva essere ammesso nella classe ordinaria o se, invece, doveva essere iscritto a una classe speciale o differenziale. Cominciarono così a nascere i primi movimenti delle Associazioni dei genitori per affermare pienamente tali diritti e opportunità, per

22

AA.VV., La macchina del vuoto – Il processo di socializzazione nella scuola elementare, Bologna: il Mulino 1974, p. 15 tab. 1.

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L’inclusione e il mondo della scuola

rivendicare il diritto dell’educazione dei loro figli nella scuola insieme agli altri bambini23. In questo clima di contestazione di una scuola che non corrispondeva all’esigenza di venire incontro ai bisogni educativi di tutti gli alunni (che una scuola di massa avrebbe dovuto prendere in considerazione), la mancanza di una flessibilità organizzativa e didattica, l’articolazione di una programmazione curriculare che tenesse conto delle differenze individuali, rispettando i ritmi di apprendimento e le attitudini intellettuali specifiche, nonché la netta demarcazione tra l’istruzione e la formazione24, portarono anche le forze politiche a interrogarsi sulla efficacia e produttività di siffatto sistema, soprattutto in relazione alle classi speciali e differenziali, delle quali era stato messo in evidenza il totale fallimento. Tali classi avevano condotto alla segregazione e le pratiche degli istituti speciali si erano rivelate come uno strumento finalizzato piuttosto a consolidare una condizione di sub-normalità, anzi talvolta ad aggravarla, di conseguenza il problema della partecipazione del bambino con disabilità alla vita sociale normale doveva essere inteso non soltanto come obiettivo ma allo stesso tempo come un modo per riabilitare e recuperare il bambino stesso25. Le contestazioni studentesche del 1968, le richieste di riforma della scuola da parte dei sindacati e degli insegnanti per l’affermazione dello stato giuridico e per una riorganizzazione della scuola più rispondente alle esigenze degli alunni e delle famiglie collegate al territorio, condussero a un accesso dibattito parlamentare dal 1969 al 1973, che si concluse con la grande riforma della scuola del 197426. Nuovi modelli pedagogici si sviluppano attraverso questa riforma e rappresentano ancora oggi lo spirito nuovo del significato attribuito all’educazione: l’alunno era posto al centro dell’attenzione, e parti23 EUROISPES – ANMIC, Disabili: Punto e a capo, Roma: Koiné, 1994, pp. 247-319. 24 M. De Leo, “La scuola media compie trent’anni”, in Ministero dell’Istruzione Pubblica, Direzione Generale Istruzione secondaria del 1° ciclo, Trent’anni di scuola media (1963-1993) – Atti del Congresso del 14/12/1993, Roma, 1994, pp. 10-11. 25 A. Augenti, La questione scolastica dei ragazzi handicappati, Firenze: Le Monnier 1977, p. 17. 26 L. de Anna, “Problemi e prospettive di riforma degli organi collegiali”, «Annali dell’Istituto di Pedagogia», Volume II, 1980.

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colare interesse era rivolto allo sviluppo della sua personalità e delle sue capacità di comunicare e di stabilire relazioni con gli altri. Questo nuovo modello enfatizza l’importanza dell’apprendimento in relazione agli altri e assume come valore l’attenzione verso ciascun alunno (anche nei confronti di quelli che presentano difficoltà, sia pure derivanti da una disabilità) per una educazione e crescita comune e una conoscenza reciproca. Qui possiamo dire inizia a formarsi l’idea di una responsabilità individuale e collettiva che conduce verso quella che oggi chiamiamo “cittadinanza attiva”. In questo momento si ravvisa la difficoltà di tenere in vita le classi differenziali, la cui proliferazione si era dimostrata ineffice e aveva prodotto segregazione.

Tabella 1 CLASSI DIFFERENZIALI NELLE SCUOLE DI STATO (Dati ISTAT27) Anno

Classe

Alunni

1961

967

13.768

1971

6.626

60.670

27

Tabella 2 SCUOLE PER BAMBINI NORMALI E HANDICAPPATI (Dizione presente all’epoca) Anno

Classe

Alunni

1961

271

24.151

1971

880

66.404

La lettura delle statistiche del decennio 1961-1971 (cfr. Tabella 1 e Tabella 2) mette in evidenza il fallimento di un sistema che, invece di accordare attenzione ai problemi specifici, per trovare soluzioni ai fini di una migliore e più adeguata formazione, sottolineava, invece, le differenze e le considerava come ostacolo all’apprendimento. Queste classi finivano per assimilare le diverse tipologie di problemi, confondendo gli aspetti di svantaggio e deprivazione socio-culturale 27

Ivi, p. 21.

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L’inclusione e il mondo della scuola

e affettiva con quelli derivanti da cause invalidanti, contribuendo così a perpetuare modelli che non offrivano alcuno stimolo per l’apprendimento sia degli uni che degli altri. Forme di marginalizzazione ancora più importanti si verificavano anche nelle classi speciali della scuola primaria e non solo in quelle differenziali della scuola media. Questa situazione provocò un movimento da parte delle forze politiche e sociali, comprese quelle cattoliche. Il dibattito sui problemi dell’esclusione totale delle persone dal resto della società condusse anche a una revisione dei sistemi di istituzionalizzazione, centrando l’attenzione, come era avvenuto per la scuola, sulla valorizzazione della persona in quanto persona, e delle opportunità da offrire per il suo sviluppo qualunque esso fosse, in relazione e a contatto con gli altri. Questa visione porterà alla chiusura degli ospedali psichiatrici con la legge Basaglia n. 180 del 1978. Le politiche attuate nei confronti delle persone con disabilità si inseriscono in una logica che ha per obiettivo, attraverso la conoscenza e la messa in evidenza dei problemi, di modificare le dinamiche sociali consolidate e di rinnovare la società secondo un’ottica per la quale ciascuno ha diritto di svolgere il proprio ruolo nella società in funzione della sua singolarità e specificità. Alla luce di queste considerazioni possiamo affermare che la Riforma della scuola realizzata con i Decreti Delegati nel 1974 getta le basi per l’abolizione di queste forme di marginalizzazione, mettendo in gioco una più larga partecipazione delle famiglie e degli enti locali, in una stretta collaborazione della comunità scolastica con la più vasta comunità sociale. Tale partecipazione fu messa in atto attraverso l’organizzazione di organi collegiali e mediante gli opportuni collegamenti con i servizi sociali e sanitari presenti sul territorio. Venne introdotto allo stesso tempo il concetto di sperimentazione come ricerca e realizzazione di innovazioni sul piano metodologico e didattico. È in questo clima di rinnovamento che s’inserisce l’approvazione della legge 517 del 1977, che abolisce le classi differenziali e le classi speciali e definisce diverse forme di attività integrative in favore degli alunni con disabilità nella scuola ordinaria con insegnanti specializzati ai sensi del D.P.R. 970/75 e dei successivi decreti ministeriali di applicazione.

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Da qui prende l’avvio in Italia il processo d’integrazione delle persone con disabilità, attraverso un’educazione nella scuola ordinaria e l’inserimento nelle classi comuni insieme a tutti, con il significato di un senso di appartenenza a quella comunità scolastica che interagisce con la più vasta comunità sociale per la costruzione del progetto di vita per tutti.

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3. Conclusioni Il processo di integrazione e di inclusione non si limita solo a quello che è stato detto, ma è una esperienza che necessariamente deve essere vissuta da tutti e assunta nella propria cultura, è un’occasione e opportunità che tutti dobbiamo cogliere per conoscere e soprattutto per indurre cambiamenti, per superare pregiudizi e stereotipi, per crescere in quella che oggi chiamiamo convivenza civile. Tale processo può e deve essere raccontato da chi ha fatto maggiori esperienze, che comunque non costituiscono un modello unico: le buone esperienze o prassi, come afferma Canevaro, non sono delle buone azioni28, non costituiscono il modello ideale, perfetto, assolutamente corretto e da applicare direttamente nel proprio contesto. Una buona prassi è qualcosa che altri hanno fatto e che – nel loro contesto – ha funzionato, probabilmente perché aveva delle buone caratteristiche. Le variabili che giocano un ruolo importante in questi processi sono infinite. Contesti diversi, culture diverse, come abbiamo modo di verificare, convivono nello nostro stesso Paese, che si è battuto per liberarsi dall’appartenenza a Stati diversi, ma che per le ragioni geografiche e politiche ha mantenuto e mantiene ancora oggi enormi differenze soprattutto tra Nord e Sud e non solo. Manca ancora la volontà e il desiderio di aprirsi agli altri, di condividere con gli altri i problemi per trovare insieme le soluzioni. Infatti, occorre comprendere che l’integrazione e l’inclusione necessitano di un lavoro e impegno comune, molte delle strategie messe in atto vengono continuamente rimesse in discussione, il problema non

28

A. Canevaro, D. Ianes (a cura di), Buone prassi di integrazione scolastica, Trento: Erickson, 2001.

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L’inclusione e il mondo della scuola

riguarda una o l’altra persona, bensì rispecchia le scelte che la società assume nella sua globalità. La diversità e la comprensione delle differenze possono divenire una risorsa vitale per tutti e non devono essere considerate un peso per la società. Quando ci troviamo a descrivere il nostro sistema all’estero ci accorgiamo che effettivamente esistono ancora molte restrizioni rispetto al modello inclusivo, di cui si parla a livello europeo e anche extraeuropeo, ed esse derivano da vari fattori: eccessiva medicalizzazione, profili professionali degli attori che intervengono nei processi troppo differenti, eccessivamente tecnici e poco flessibili. L’integrazione esige dei tempi modulati di attuazione, anche delle attese prolungate nel tempo. Indubbiamente gli insegnanti non sono sufficientemente preparati, ma anche le risorse umane e finanziarie sono insufficienti e le strutture non sempre adeguate. Nello stesso tempo il nostro Paese ha raccolto in tutti questi anni delle esperienze importanti, delle “buone prassi”, che hanno messo in gioco competenze e capacità in grado di far evolvere le situazioni, costruendo nuovi modi di pensare e di guardare alla diversità, di cui dobbiamo far tesoro. È nostro compito far conoscere e rappresentare agli altri questo patrimonio, che esiste e che si fonda anche sulla convinzione profonda di molti nella responsabilità di una vera cittadinanza attiva nella scuola e nella società, ribadendo, come precisa Canevaro29, prima di tutto l’importanza della conoscenza dell’“originalità individuale” di ciascun bambino e bambina Possiamo osservare chiaramente che i processi di integrazione hanno consentito alle persone con disabilità nel nostro Paese di raggiungere anche gradi elevati di istruzione. Le statistiche mostrano che in questi ultimi anni progressivamente la frequenza scolastica è aumentata nei passaggi dalla scuola elementare alla scuola superiore fino all’Università. Per esempio, il numero degli studenti con disabilità che frequentavano la scuola secondaria nel 1990 era di 2968. Tale numero si è quasi raddoppiato nell’anno 1992-93, essendo passato a 5640. Nelle statistiche del 2005-2006 il numero degli studenti con disabilità risulta di 37740 nella scuola secondaria di secondo grado. A livello universi-

29

A. Canevaro, Quel bambino là, Firenze: La Nuova Italia, 1996.

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tario, rispetto al primo censimento del 2001, che indicava un numero di studenti con disabilità pari a 4813, abbiamo raggiunto un numero di 16983 di cui circa 3881 con disabilità inferiore al 66% nel 2008-0930.

Riferimenti bibliografici

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AA.VV., La macchina del vuoto – Il processo di socializzazione nella scuola elementare, Bologna: il Mulino, 1974. AA.VV., “Tommaso Pendola e l’educazione dei sordi”, in Atti del Congresso per commemorare il primo centenario della morte di Padre Tommaso Pendola 20/11/1983, Siena: Istituto T. Pendola, 1983. Armstrong F., “Inclusive Education: From Policy to Practice, a Case Study from the North of England”, in «AIS: La nouvelle revue de l’adaptation e de la scolarisation. L’éducation inclusive en France e dans le monde», No. 5, 2009. Augenti A., La questione scolastica dei ragazzi handicappati, Firenze: Le Monnier, 1977. Cambi F., La ricerca storico-educativa in Italia 1945-1990, Milano: Mursia, 1995. Canevaro A., Handicap e Scuola. Manuale per l’integrazione scolastica, Roma: NIS, 1987. _____, Quel bambino là, Firenze: La Nuova Italia, 1996. Canevaro A., Ianes D. (a cura di), Buone prassi di integrazione scolastica, Trento: Erickson, 2001. Consiglio d’Europa, Comitato dei Ministri, Piano d’Azione del Consiglio d’Europa 2006-2015 per la promozione dei diritti e della piena partecipazione nella società delle persone con disabilità: migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità in Europa, Strasburgo: Consiglio di Europa, 2006. de Anna L., “Problemi e prospettive di riforma degli organi collegiali”, «Annali dell’Istituto di Pedagogia», Facoltà di Magistero, Università di Roma, Volume II, 1980. _____, Aspetti normativi dell’inserimento scolastico degli handicappati, in Italia e all’estero, Roma: Tempinuovi, 1990. 30

Dati CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati per la Disabilità).

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L’inclusione e il mondo della scuola

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L’orientamento come dispositivo formativo per l’inclusione sociale

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di Stefania Fiorentino

Anche per chi è in difficoltà il prendere forma si connota quale percorso di vita aperto, non appiattito inesorabilmente sulla cifra della minorazione teso a favorire la costruzione di una identità plurale. (M. Pavone)

Orientamento e disabilità per un approccio inclusivo L’orientare e l’orientarsi sono diventati oggi operazioni non solo più complesse e articolate, ma ancor più delicate per il ruolo che l’orientamento occupa nei processi di incremento produttivo e di crescita civile e democratica, tanto da porsi come uno dei temi più discussi della politica europea non solo in materia di educazione. Nell’attuale società sempre più caratterizzata da forte incertezza e instabilità, va prendendo corpo «l’idea di un orientamento inteso come processo continuo attraverso il quale l’individuo sviluppa capacità e acquisisce strumenti che lo mettono in grado di porsi in maniera sempre più consapevole e critica di fronte alla realtà che lo circonda e di compiere delle scelte più responsabili sia sul piano individuale che su quello sociale»1, tali da promuovere una piena cultura dell’inclusione, nella consapevolezza che una società che esclude parte dei suoi membri sia una società impoverita nel patrimonio delle risorse umane ed economiche2.

1 M.L. Pombeni, Orientamento scolastico e professionale, Bologna: il Mulino, 1996, p. 27. 2 Per realizzare una società inclusiva occorre combattere la fonte e la causa

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L’inclusione e il mondo della scuola

Orientare come includere può assumere il significato di offrire l’opportunità non solo al singolo, ma anche ad alcune categorie specifiche delle nostre società identificate sotto il comune denominatore della diversità (immigrazione, disabilità, devianza, differenza di genere), di essere ognuno protagonista di un personale progetto di vita e di partecipare allo studio e alla vita familiare e sociale in modo attivo, paritario e responsabile. Promuovere la capacità di inserirsi attivamente nella vita sociale e in quella produttiva richiede «l’innalzamento dei livelli di consapevolezza sociale, di partecipazione, di responsabilità, di riflessività, il che va di pari passo con l’innalzamento dei livelli di apprendimento, nonché con lo sviluppo di abilità e competenze di pensiero critico, di riflessione, di agentività»3, valorizzate e capitalizzate attraverso un modello di orientamento pedagogicamente ispirato a sostenere ogni persona nella sua progettualità esistenziale. In tale prospettiva, il modello di orientamento, che si sta sempre più affermando, si colloca in una prospettiva nuova, all’interno della quale il problema della scelta, dell’orientarsi e dell’orientare, si configura come una questione principalmente educativa, che assume il significato di potenziare la personalità e le capacità del soggetto di compiere libere scelte; di formare il soggetto all’acquisizione delle conoscenze, competenze e capacità che mettono ciascun cittadino in grado di partecipare, in piena autonomia di giudizio, al lavoro e alla vita di una società complessa, operando scelte adeguate alle mutevoli esigenze della vita. Per tale motivo, da più direzioni, viene rifiutata l’idea dell’orientamento limitato a un atto episodico nella vita di un soggetto, per collocarsi come dispositivo di accompagnamento durante i tanti e diversi momenti di transizione che si presentano lungo il corso della vita, e che richiedono la riformulazione di nuove progettualità esistenziali e

dell’emarginazione, rintracciabile nella mancanza di strumenti culturali ed operativi tali da poter favorire un ingresso attivo, competente, responsabile in tutte le sfere della vita sociale. In tale propettiva, l’orientamento si inquadra come sostegno alla partecipazione attiva e favorisce i più ampi processi di inclusione sociale. Cfr. M. Striano (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, Milano: FrancoAngeli, 2010. 3 Ivi, p. 7.

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L’orientamento come dispositivo formativo per l’inclusione sociale 121

professionali, come nei momenti di scelta dell’indirizzo scolastico e della professione. Si tratta di superare l’idea di un orientamento specialistico e settoriale, collocato nelle tappe cruciali di un percorso, allo scopo di canalizzare professionalmente l’individuo, per accogliere l’idea di orientamento come processo educativo permanente, finalizzato al riconoscimento e alla valorizzazione delle personali risorse e competenze per una maggiore inclusione sociale. L’orientamento si configura, in tal senso, come un dispositivo formativo, finalizzato a sviluppare nel soggetto la capacità di fronteggiare il cambiamento, di posizionarsi nella differenza e nella incertezza senza disperdersi. Prendere una posizione implica la capacità di riconoscere il dove si è e il dove si vuole andare; ciò comporta in ambito educativo e formativo interrogarsi sulla direzione scolastica o professionale verso cui muoversi. Rintracciare la direzione significa assumere la capacità di auto-direzione del soggetto, di auto-valutazione, di conoscenza critica di sé (delle proprie capacità, interessi, valori e competenze) e della realtà esterna al sé (praticabilità e realizzabilità delle mete personali)4. Si tratta di esprimere modalità intenzionali auto-orientative e progettuali in cui i singoli individui non restano passivi destinatari di interventi direttivi, ma assumono un ruolo primario nella progettazione di piani personali, autentici e realisticamente ancorati alla realtà e alle sue concrete opportunità. Assunta, dunque, la centralità del soggetto che si orienta come condizione imprescindibile, si apre una questione spinosa che va posta quando si ha a che fare con il deficit. Si tratta di arginare il rischio, avvertito da più direzioni, di apportare, sotto il peso del pregiudizio, aggiustamenti inadeguati e inopportuni fino a snaturare la funzione originaria dell’intervento, con il risultato di arrestare il percorso emancipativo del soggetto su derive umanitarie connotate da spirito assistenzialistico. È il caso dell’orientamento mirato. Nelle buone intenzioni in materia di diritto al lavoro delle persone con disabilità5, la legge fa 4

Cfr. A. Perucca (a cura di), L’orientamento tra miti, mode e grandi silenzi, L’Aquila: Amaltea, 2003. 5 Il capitolo 2 della Legge n. 68/’99 specifica che per collocamento mirato delle persone con disabilità si intende «quella serie di strumenti tecnici e di supporto

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L’inclusione e il mondo della scuola

riferimento alle capacità lavorative del soggetto, ma non si esprime sulla progettualità esistenziale del soggetto, sulla autodeterminazione in termini di interessi, aspirazioni e desideri personali. Così, di fatto, accade che le persone con disabilità si ritrovano a svolgere mansioni “mirate”, “adatte” alla loro menomazione. Dall’altra parte, si potrebbe incorrere nel rischio apposto, alimentando progettualità irrealizzabili e frustranti. Sembra, pertanto, prioritario porsi il seguente quesito:“La persona con disabilità è in grado di determinare delle scelte in considerazione del proprio sé, del proprio divenire e del proprio ruolo sociale?”. Per tentare di rispondere in maniera pertinente appare opportuno fare un passo indietro e chiarire innanzitutto il significato che si voglia attribuire alla disabilità. Etimologicamente, la parola disabilità deriva dal prefisso privativo dis- che, posto dinnanzi alla parola abilità, imprime al termine un valore negativo inteso come mancanza di abilità, pertanto, restando a una interpretazione letterale, può definirsi disabile colui o colei che è priva della capacità di fare qualcosa nel migliore dei modi. Più precisamente, in una accezione più specialistica del termine, l’OMS, nel 1980, definisce la disabilità come «qualsiasi restrizione o carenza (conseguente ad una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un essere umano». Anche in questa definizione viene riconosciuto nella disabilità uno scostamento nella realizzazione dei compiti, nelle attività e nei comportamenti rispetto ad uno standard normalmente atteso6

che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione». 6 Consideriamo “normalmente attesi” quei comportamenti e quelle attività che, in un determinato contesto culturale, sociale ed economico vengono considerate ordinarie e comuni e che riguardano capacità come il vedere, il camminare, l’udire, il parlare, i comportamenti sociali e le funzioni che da esse derivano come, ad esempio, spostarsi autonomamente per lavoro o per svago. Secondo questa prospettiva, la condizione di disabilità deriva dalla riduzione o dalla carenza della capacità di svolgere le attività che, per generale consenso, costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno.

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L’orientamento come dispositivo formativo per l’inclusione sociale 123

e fa derivare questa condizione da una mancanza di integrità e di efficienza fisica. L’affermazione di una disparità tra abilità e disabilità, secondo una logica abilista, riproduce l’immagine del disabile nel ruolo di malato che sperimenta una condizione deficitaria, di vulnerabilità e di dipendenza, in contrasto con una concezione di salute, intesa come stato di integrità fisica in cui il corpo umano mantiene e preserva uno stato di massima efficienza. La disabilità, secondo questo approccio, irrompe nel corretto funzionamento, determinando comportamenti atipici. In realtà, affermare che una persona con disabilità sia una persona malata non è corretto:«Vi sono persone disabili che hanno una determinata condizione di salute non a seguito di una patologia progressiva o cronica, ma per cause accidentali (infortuni sul lavoro, incidenti stradali, ecc.); all’opposto, si tende a non considerare la persona malata come persona disabile per il pregiudizio che grava sul concetto di disabilità, considerato, in vari contesti, secondo un’accezione puramente negativa»7. È opportuno, inoltre, riflettere sul concetto di salute a partire, ancora una volta, dalle considerazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, già nel 1948, aveva affermato che la salute non equivale alla assenza di malattia o di infermità. Più precisamente, nel documento si legge:«La salute si raggiunge allorché gli individui sviluppano e mobilitano al meglio le proprie risorse, in modo da soddisfare prerogative sia personali (fisiche e mentali), sia esterne (sociali e materiali). Salute e malattia non sono pertanto condizioni che si escludono a vicenda, bensì punti terminali di una comune continuità» lungo il percorso che ogni organismo compie alla ricerca di uno stato di equilibrio adattivo con l’ambiente. Non più intesa come assenza di malattia, il riferimento all’ambiente amplia il concetto di salute e la considera una condizione complessa che riguarda non solo le componenti organiche ma anche quelle sociali che interagiscono con la persona e il suo funzionamento, condizionando direttamente il contesto di vita personale in termini di abitudini, scelte e di più ampie progettualità esistenziali. Dunque, «è necessa7 M. Leonardi, “Definire la disabilità e ridefinire le politiche alla luce della Classificazione ICF”, in AA.VV. (a cura di), ICF e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, Trento: Erickson, 2009, p. 47.

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L’inclusione e il mondo della scuola

rio pensare alla persona, e perciò alla salute stessa, in senso olistico essendo lo stato di benessere (e anche di malattia) determinato da un articolato intreccio di fattori (interagenti) […]; lo star bene non dipende esclusivamente dal corretto funzionamento di un organo o di un apparato ma dalla correlazione di tutti i sistemi che identificano l’uomo»8. Ne consegue che, nel definire lo stato di salute di un individuo, non va valutato unicamente lo stato clinico, ma l’impatto che la malattia ha nella vita di ogni giorno di una persona, nonché le azioni e il piano degli interventi che sul piano sociale devono essere approntati per ridurre il disagio. L’apertura all’uso di parametri non strettamente biomedici nella valutazione degli stati di salute/malattia ha portato all’affermazione del disability paradox9, ovvero del paradosso secondo il quale le persone con disabilità, in contrasto con l’opinione comune che attribuisce ai disabili una quotidianità indesiderabile, possano sperimentare stati di benessere. Il paradosso, che pone in evidenza l’applicazione di misure soggettive, ha determinato uno spostamento dell’attenzione degli indicatori da un polo negativo a quello positivo. In tale direzione, «le persone con disabilità possono vivere bene da un punto di vista psicologico, spirituale e fisico, anche in presenza di una malattia che sia temporanea o cronica»10. Questa prospettiva amplia e rivisita il concetto di disabilità inquadrato dal modello medico. Quest’ultimo ci consegna un approccio individualista, in quanto definisce la disabilità come un problema dell’in8 M. L. Iavarone, T. Iavarone, Pedagogia del benessere, Milano: FrancoAngeli, 2004, p. 18. 9 L’espressione disability paradox è stata formulata dal sociologo Sol Levine, il quale indaga il concetto di quality of life applicato alla disabilità a partire dalla modalità personale con cui il soggetto sperimenta la propria condizione. Il paradosso avrebbe origine dal seguente quesito:“Perché molte persone con disabilità grave e persistente riferiscono di sperimentare una qualità buona o eccellente della vita, quando per la maggior parte degli osservatori esterni questi individui sembrano vivere quotidianamente un’esistenza indesiderabile?” Le ricerche condotte dal sociologo sembrano confermare che la qualità della vita dipende dalla possibilità di raggiungere uno stato di equilibrio tra corpo, mente e spirito determinato dalla relazione positiva tra la persona e il contesto sociale che lo circonda. Cfr: G.L. Albrecht, P. J. Devlieger, “The Disability Paradox: High Quality of Life against All Odds”, «Social Science & Medicine», 48, 1999, pp. 977-988. 10 Cfr. E. Ghedin, Ben-essere disabili, Napoli: Liguori, 2009, p. 6.

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L’orientamento come dispositivo formativo per l’inclusione sociale 125

dividuo, normativo, in quanto le persone sono considerate disabili sulla base della loro incapacità a funzionare come persone “normali”; segregante, perché affida le persone alla struttura sanitarie, ma soprattutto parziale e limitato in quanto non riconosce sufficientemente il ruolo giocato dall’ambiente nella determinazione della disabilità11. L’interesse della medicina, come già aveva intuito Foucault nel 1969 nella sua analisi sul ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, non deve più essere solamente il corpus delle tecniche della guarigione, ma deve comprendere anche una conoscenza dell’uomo in salute, cioè un’esperienza dell’uomo non malato12. In questa direzione, il sapere bio-medico va aprendosi negli ultimi anni alle scienze umane producendo una “zona di confine” in cui si sono sviluppate teorie e modelli integrati di bio-educazione particolarmente suggestivi sul piano dell’educazione13. In particolare, l’orientamento sistemico-contestualista considera il soggetto non soltanto in riferimento alla sua individualità, ma nella reciprocità della relazione con il contesto in cui soggetto e oggetto sono costitutivi l’uno dell’altro. L’assunzione di tale prospettiva, che considera l’individuo come insieme complesso di fattori bio-psicologici e ambientali, comporta una rivisitazione del concetto di disabilità che, alla luce del paradigma

11

Tuttavia, come avverte Lucia de Anna in Pedagogia speciale. I bisogni educativi speciali (Milano: Guerini, 1998), l’interesse medico al problema dei disabili non va sottovalutato perché costituisce uno dei passaggi fondamentali che hanno consentito di instaurare un trattamento di recupero e di riabilitazione di quei soggetti che con la loro stessa presenza pongono numerosi interrogativi sui significati e sui valori legati ai processi umani più ampi. Risalgono al periodo del Grande Internamento francese i contributi teorici e operativi di Pinel e di Esquirol sull’alienazione mentale che, superando la nozione di follia, di furore cieco e di impulso involontario, affermano la possibilità di uno spazio terapeutico accessibile alla guarigione. In questa direzione, si riconoscono i limiti della medicalizzazione della cura e si profila l’interesse per l’intervento educativo, anche se lo sviluppo di un discorso pedagogico sulla disabilità è considerato una conquista dell’epoca moderna. 12 M. Foucault, Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Torino: Einaudi, 1969. 13 Per un maggiore approfondimento si confrontino gli studi di Elisa Frauenfelder: E. Frauenfelder, Pedagogia e biologia. Una possibile «alleanza», Napoli: Liguori, 2001; E. Frauenfelder, F. Santoianni, M. Striano, Introduzione alle scienze bioeducative, Roma-Bari: Laterza, 2004.

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L’inclusione e il mondo della scuola

sistemico, non appare più unicamente insediata nel soggetto, ma si configura come un concetto multifattoriale che assume la dimensione del contesto di vita dell’individuo come fattore costituente e determinante il funzionamento in termini di attività e comportamenti. In questa stessa direzione, l’ ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) considera la disabilità un «complesso prodotto di un sistema di influenze reciproche tra aspetti biologici, strutturali, di competenze, di partecipazione a ruoli sociali, di facilitazioni od ostacoli ambientali, familiari, sociali, culturali, psicologici»14. Il funzionamento e la disabilità di una persona vengono concepiti come un’interazione dinamica e complessa (multidirezionale) tra le condizioni di salute (malattie, disturbi, lesioni, traumi) e fattori contestuali (personali e ambientali). Gli aspetti negativi che derivano dall’interazione individuo-ambiente comprendono le menomazioni ma, anche e soprattutto, le limitazioni delle attività e le restrizioni della partecipazione che la persona incontra nella sua vita a causa dei fattori ambientali che si pongono come barriere e ostacoli. Ne deriva che la diminuzione delle capacità e delle performance non dipendono direttamente da un menomazione nelle funzioni e nelle strutture corporee, ma dall’interazione di quest’ultima con i fattori sociali e individuali. La disabilità non si connota come uno stato della persona, ma come un problema complesso e multifattoriale da trattare secondo un approccio integrato bio-psico-sociale in grado di tenere conto della persona in senso olistico, comprendendo tutti gli aspetti che la determinano, compresi quelli sociali15.

14

D. Ianes, “Due prospettive strategiche sul tema della Diagnosi Funzionale e della lettura dei bisogni”, «L’integrazione scolastica e sociale. Rivista pedagogicogiuridica per scuole, servizi, associazioni e famiglie», n.1, 2008, pp. 9-14. 15 In questa stessa cornice, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata il 13 dicembre 2006, riconosce che la disabilità deriva dall’interazione tra le persone con menomazioni e le barriere ambientali e da atteggiamenti che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di eguaglianza con gli altri. Lo scopo dei Paesi membri che vi hanno aderito è proibire le discriminazioni in ogni settore e garantire alle persone con disabilità la tutela dei loro diritti intesi non come diritti specifici, ma come diritti umani e come tali applicabili indistintamente a tutte le persone. Cfr: AA.VV, ICF e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, Trento: Erickson, 2009.

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L’orientamento come dispositivo formativo per l’inclusione sociale 127

Emerge, inoltre, la valenza neutrale, imparziale e universale del concetto di disabilità che si allontana da una connotazione riduttiva e stigmatizzante per caratterizzarsi come condizione generale della vita umana, fortemente condizionata dalle situazioni ambientali in cui l’individuo è inserito.

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Orientamento e progetto di vita indipendente Il modello di orientamento, che accoglie l’approccio sistemico-contestualista, si rivolge al soggetto nei suoi aspetti biologici e contestuali e considera la costellazione di fattori e di meccanismi che necessitano di essere conosciuti per poter effettuare quella sintesi in cui trovare la propria identità personale e professionale. Si tratta di operare un passo in avanti verso la qualità della vita delle persone con disabilità e considerare l’orientamento come un processo allargato a tutti gli aspetti della vita sociale, come occasione di sviluppo per la vita autonoma e di partecipazione della persona con disabilità ai settori della scuola, del mondo del lavoro, del tempo libero. In particolare, nella scuola, l’orientamento riconosce un luogo privilegiato dove costruire, così come si legge nei documenti ministeriali, competenze orientative a partire già dagli anni dell’infanzia, attraverso un insieme di attività che mirano a formare e a potenziare le capacità delle studentesse e degli studenti di conoscere se stessi, l’ambiente in cui vivono, i mutamenti culturali e socio-economici, le offerte formative, affinché possano essere protagonisti di un personale progetto di vita, e partecipare allo studio e alla vita familiare e sociale in modo attivo, paritario e responsabile. Terminata l’esperienza scolastica, in cui il minore disabile ha sperimentato azioni positive di inclusione all’interno di una comunità, progettata per conoscere, accogliere e accompagnare l’alunno – attraverso risorse e misure specializzate – lungo le tappe del suo viaggio evolutivo, il periodo che segue la scuola rischia di connotarsi come uno “spazio e un tempo vuoto” in assenza di misure di sostegno e di accompagnamento a un’ampia progettualità esistenziale. La scuola, infatti, costituisce il baricentro di tutte le azioni, paradossalmente anche a svantaggio di un orizzonte temporale più ampio e cela una logica di discontinuità che si riverbera soprattutto sulla biografia della

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persona disabile e della sua famiglia16 fino ad azzerare, in alcuni casi, le prospettive progettuali. Il rischio è che il percorso evolutivo si oscuri e che la collocazione sociale, culturale e produttiva possa arrestarsi in uno stato di dipendenza, di assoluta passività e di insofferente attesa di interventi che, talvolta, possono risultare generici e approssimativi se non addirittura interferire con il percorso originale della persona. Assumere la prospettiva del progetto di vita17 significa ampliare il concetto di orientamento fino a comprendere le problematiche educative riguardanti la vita adulta della persona con disabilità, nella consapevolezza che la carenza di progettualità pedagogica, evidenziata nel periodo che segue l’uscita dal mondo della scuola, può essere colmata solo a partire dall’elaborazione di un progetto scolastico che sia in grado di accogliere dimensioni di ruolo, spaziali e temporali più ampie di quelle strettamente scolastiche. Ciò implica un’approfondita conoscenza della condizione iniziale del soggetto, delle sue caratteristiche di apprendimento, dei suoi interessi, dei suoi comportamenti e bisogni. Il profilo di funzionamento che deriva da una fase di assessment iniziale deve essere particolarmente attento a cogliere non solo l’impatto della minorazione sulla personalità, ma anche le attitudini individuali, le conoscenze già acquisite, le sicurezze raggiunte rispetto alla relazionalità e alla partecipazione18, nonché il grado di autonomia raggiunto, i suoi interessi. Sulla base della conoscenza iniziale, l’impegno educativo è quello di permettere alla persona con disabilità, attraverso la messa in opera di interventi e strategie individualizzate, di maturare il massimo grado di autonomia possibile, il migliore sé, il suo originale modo di essere al mondo. Il progetto educativo individualizzato coerente con l’orientamento al progetto di vita della persona disabile deve tendere a favorire, in una lettura prospettica e dinamica, l’acquisizione e il consolidamento di autonomie, capacità comunicativo-relazionali e a promuovere

16 Cfr. M. Pavone, Dall’esclusione all’inclusione. Lo sguardo della Pedagogia Speciale, Milano: Mondadori, 2010. 17 Il termine progetto di vita rimanda al contesto della pedagogia speciale perché studiando percorsi e modelli educativi per i disabili, il termine ha cominciato a diffondersi, ma esso è certamente riferibile a tutte le persone, nessuno escluso. 18 Cfr. M. Pavone, Educare nelle diversità. Percorsi per la gestione dell’handicap nella scuola dell’autonomia, Brescia: La Scuola, 2001.

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consapevolezza, responsabilità, identità consonanti all’assunzione di ruoli sociali adulti19. È esplicito nel progetto di vita il richiamo alla vita indipendente e ai concetti a esso correlati di autonomia e di autodeterminazione. Il principio della vita indipendente nasce come movimento che afferma il diritto di ogni persona a scegliere e a realizzare un percorso esistenziale che soddisfi le proprie aspettative. Tale principio, inappellabile per qualunque essere umano, rivolto alle persone disabili costituisce una sfida a uscire dall’assistenzialismo e ad affermare la centralità della persona e il suo diritto all’autodeterminazione; nel contempo suggerisce un diverso uso del termine indipendente:«Noi usiamo il termine indipendente non per intendere che si deve fare tutto da sé, ma per indicare una persona che abbia preso controllo sulla sua vita e abbia scelto come condurla. [L’obiettivo] non è il raggiungimento forzato di traguardi fisici, ma il controllo che la persona con disabilità riesce a raggiungere nella vita di ogni giorno. [In tal senso], il grado di disabilità non determina il grado di indipendenza che una persona raggiunge»20. Al centro del principio della vita indipendente sta il diritto di tutte le persone con disabilità ad accrescere la propria autonomia e a gestire la propria dipendenza, riconoscendo nel vincolo una possibilità di stabilire più intensi e numerosi rapporti con gli altri. Dobbiamo ammettere con Marisa Pavone che la condizione di disabilità ci insegna che si può essere autonomi pur essendo dipendenti21. La dipendenza dall’altro, dai servizi e dai sostegni alla persona, sottolinea come l’obiettivo dell’autonomia non possa essere inteso come una generica e astratta negazione di assistenza, ma come possibilità e opportunità che il soggetto abbia di imparare a chiedere a chi, che cosa e come22. 19

L. Callegari, “Disabilità e lavoro. Evoluzione delle politiche attive del lavoro e del ruolo della cooperazione sociale nell’integrazione delle persone disabili”, in A. Goussot (a cura di), Il disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano, S. Arcangelo di Romagna: Maggioli, 2009, pp. 159-179. 20 Cfr. S. Brisenden, Independent Living and the Medical Model, London: Cassell, 1986. 21 M. Pavone, Dall’esclusione all’inclusione. Lo sguardo della Pedagogia Speciale, cit., p. 84. 22 Cfr. A. Canevaro, Quel bambino là…Scuola dell’infanzia, handicap e integrazione, Firenze: La Nuova Italia, 1986.

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La dipendenza da gestire nella quotidianità può esprimere una condizione emancipativa in cui ognuno possa cogliere l’opportunità per sviluppare e realizzare il suo senso di sé23. Il paradosso che sembra emergere dell’emancipazione nella dipendenza può essere espresso e compreso attraverso una precisazione sul concetto di autonomia. Quest’ultima può essere considerata come l’esito positivo di un processo di apprendimento e di crescita sollecitato opportunamente dagli interventi educativi familiari, scolastici e sociali. L’autonomia implica la possibilità per la persona di porsi obiettivi, di operare delle scelte, di prendere iniziative finalizzate alla costruzione di un personale progetto di vita. Ma l’autonomia non può essere confusa con l’autosufficienza. Con il termine autosufficienza si intende la capacità di essere in grado di far tutto senza alcuno tipo di aiuto. Ciò presuppone la capacità di prendersi cura di sé e di provvedere al mantenimento del proprio corpo. Così, mentre l’autosufficienza può essere un traguardo raggiungibile solo per alcuni, «essere autonomi può costituire un obiettivo per tutti qualunque sia il livello di capacità e di potenzialità di cui dispone e può consistere nella capacità di verificare le proprie risorse, i propri strumenti, le proprie possibilità e quindi saper scegliere la direzione verso la quale muoversi»24, anche attraverso l’uso di ausili personalizzati. Chiunque sia coinvolto, a vario titolo, nel contesto della disabilità deve partire dalla certezza che nulla può essere attuato senza 23 Il rischio è che l’aiuto si trasformi in un rapporto di dominanza permanente in cui chi aiuta riveste un ruolo predominante per il soddisfacimento dei bisogni di chi viene aiutato. Così intesa la relazione d’aiuto si configura come un rapporto asimmetrico che mantiene la persona disabile in uno stato di dipendenza, di assoluta passività e di insofferente e generica attesa di aiuto a cui possono corrispondere modalità di risposta standardizzate, generiche e approssimative e talvolta interferenti rispetto al percorso originale della persona. Interferire, in questa prospettiva, significa entrare nel processo di crescita e di affermazione dell’identità dell’altro con modalità impositive che funzionano come un segnale di disturbo nella percezione della realtà. Chi è impegnato a salire uno scalino fornisce a chi è spettatore un’immagine di fatica che non necessariamente corrisponde alla realtà. Ciò può indurre a scambiare l’aiuto con l’interferenza, e quindi a sollevare la persona e a trasportarla oltre lo scalino. 24 M. Gelati, “Orientamento, disabilità, handicap”, in A. Perucca, L’orientamento tra miti, mode e grandi silenzi, cit., p. 194.

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la partecipazione e condivisione della persona stessa. Dunque, qualsiasi azione di orientamento che non tenga conto della capacità della persona a compiere scelte autonome verrebbe meno a una funzione emancipativa e, dunque, educativa con il rischio di arrestare la crescita del soggetto in forme di dipendenza e di assistenzialismo. Sostenere azioni di orientamento finalizzate al progetto di vita significa sostenere le persone disabili nel loro diritto a vivere in modo indipendente, ovvero nell’aiutarle a uscire dalla condizione di passività per divenire protagonisti diretti della storia individuale e collettiva. L’obiettivo dell’orientamento alla progettualità di vita è infatti quello di promuovere livelli di autonomia possibili sempre maggiori, superando la logica dell’assistenzialismo che «si nutre della possibilità che chi si sente vittima si installi permanentemente in questo ruolo (vittimismo); diventi credibile come vittima per poter sempre domandare e mai impegnarsi nel promuovere»25.

Orientamento e competenze irrinunciabili Nel progetto di vita l’orientamento diventa parte del processo di costruzione di un’identità di una realtà in cui vengono enucleati degli elementi specifici, quali possono essere, ad esempio, competenze non generiche, selettive, grazie alle quali si è in grado di individuare gli elementi sui quali fare leva e giocare le risorse più adeguate. Elaborare un progetto di vita può significare rimodulare le competenze richieste in un determinato contesto trasformandole in una serie di abilità. Sulla parola competenza, Canevaro avverte:«[È] bene avere chiara una definizione di competenza, che non è un vocabolo scambiabile a piacere con capacità. Vi è una differenza rilevante: capacità e competenze sono divise dal fatto che il secondo termine implica diversi contesti: è una capacità che sa riorganizzarsi in diversi contesti, e in questo modo diventa competenza»26. Le competenze alle quali facciamo riferimento sono essenzialmente competenze trasversali. 25

A. Canevaro, Le logiche del confine e del sentiero. Una pedagogia dell’inclusione (per tutti, disabili inclusi), Trento: Erickson, 2006, p. 48. 26 A. Canevaro, Pietre che affiorano. I mediatori efficaci in educazione con la «logica del domino», Trento: Erickson, 2008, pp. 38-39.

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Se le competenze, infatti, si limitassero ad aspetti legati alle singole discipline, diventerebbe forse molto difficile pensare l’orientamento come un percorso di sviluppo unitario del soggetto che ne giustifica, peraltro, il valore educativo e formativo27. La questione si definisce, quindi, nell’acquisizione di competenze trasversali28, tali da essere trasferibili a tutte quelle situazioni, molteplici e differenziate, in cui viene richiesta la capacità di combinare tra loro esperienze e conoscenze già possedute e di integrarle con le nuove, di interpretare e affrontare problemi diversi, di tradurre le abilità consolidate in modalità operative e di gestione e, conseguentemente, di saper assumere decisioni pertinenti e congruenti. Possono essere considerate trasferibili «quelle skill che l’individuo utilizza in contesti e situazioni diverse […], teoricamente tutte le skill cognitive e sociali sono trasferibili da un contesto all’altro, ma il loro reale utilizzo dipende dalla consapevolezza che il soggetto ha e dal vantaggio legato al loro utilizzo»29. Le operazioni mentali che consentono di operare in diversi ambiti, usando idee, concetti, strumenti “vecchi” per risolvere problemi nuovi, si riferiscono a ciò che Engestrom definisce attraversamento dei confini, che conferisce alla competenza i caratteri della policontestualità30. Per il soggetto, si pone non tanto la necessità di affinare le proprie prestazioni quanto

27

M.Gelati, “Orientamento, disabilità e handicap”, cit., p. 187. Sulla questione della trasversalità delle competenze, introdotta dalla Commissione europea sul tema più generale “Insegnare e apprendere”, esiste un dibattito ancora aperto. Secondo Rey si può parlare propriamente di “intenzioni” trasversali, trasferibili da un contesto lavorativo all’altro piuttosto che di competenze trasversali, riferibili a uno specifico contesto d’uso. La questione offre interessanti suggestioni pedagogiche dal momento che non è ipotizzabile una trasmissione sistematica dell’intenzionalità che, essendo un atto libero del soggetto, non prevede dispositivi pedagogici in grado di indurla e, quindi, di insegnarla. È tuttavia, possibile stimolare una disposizione mentale alla intenzionalità trasversale attraverso forme di incoraggiamento di atteggiamenti di apertura, di interesse e di curiosità. Cfr. B. Rey, Les competences trasversales en question, Paris: ESF, 1996. 29 AA.VV., Rapporto ISFOL 1996, Milano: FrancoAngeli, 1996, p. 379. 30 Engestrom colloca gli studi sulla competenza in una prospettiva orizzontale, che tiene conto della molteplicità dei campi in cui si muove l’esperto e delle diverse situazioni che è chiamato a fronteggiare. L’attraversamento dei confini sottolinea la natura complessa della competenza che, pur essendo contestualizzata nel proprio ambito operativo, non è altresì esclusivo dominio di quel contesto dal momento 28

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piuttosto la capacità di gestire in forma fluida le proprie competenze, transitando in contesti differenti. La capacità di risolvere problemi e di immaginare soluzioni non standardizzate fa sì che si possa pervenire a concetti nuovi e a un avanzamento generale delle conoscenze dei soggetti che entrano in interazione. In realtà, l’essere competente non è solo il frutto dei processi automatici di attivazione di skills, né applicazione di regole o di conoscenze standardizzate, ma si caratterizza anche come interpretazione del contesto all’interno del quale ci sono persone, artefatti simbolici e tecnici, elementi organizzativi coi quali si interagisce per la realizzazione della prestazione. In questa direzione, l’attraversamento dei confini esprime un’azione potenzialmente creativa per la capacità di superare i limiti dei propri modelli mentali, sollecitando una flessibilità cognitiva e una trasversalità delle modalità operative. A partire da queste riflessioni sul concetto di trasversalità, Gelati individua alcune competenze che ritiene irrinunciabili per un equilibrato sviluppo del soggetto:  saper lavorare con gli altri;  entrare in relazione con il lavoro degli altri, capacità ben diversa dal lavorare per gli altri;  uso pertinente di una molteplicità di strumenti;  imparare dall’esperienza. L’ispirazione che accomuna i quattro vettori di competenze potrebbe risalire al paradigma socio-contestualista e, in particolare, agli studi sul concetto di situated cognition31, che assume la situatività quale caratteristica imprescindibile della attività cognitiva.

che la pratica professionale richiede nel suo esercizio dinamicità e trasversalità delle prestazioni. 31 Il concetto di situated cognition, ovvero di “cognizione situata” si sviluppa nell’ambito del filone di ricerca contestualista che, riprendendo la prospettiva storico-culturale di Vygotskij, intende l’apprendimento come un processo culturalmente determinato in cui il contesto, nella sua dimensione fisica e sociale, assume un ruolo di partecipazione ai processi apprenditivi non solo come fonte di stimoli, ma come parte integrante dell’attività cognitiva stessa. In questa prospettiva, il contesto assume il significato di luogo dove apprendimento e cognizione contribuiscono alla produzione di una conoscenza co-costruita e condivisa.

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Ogni conoscenza è «situata» in quanto non esiste indipendentemente dal soggetto che la apprende e che le conferisce significato «in uno specifico contesto definito anche dalla presenza di altri ed è “distribuita” non solo fra i soggetti partecipanti alla situazione ma anche fra gli artefatti cognitivi e tecnologici di cui ciascuno si serve»32. Come sostiene Bruner, giungere a conoscere qualcosa è un’azione sia situata sia distribuita in quanto la conoscenza non si realizza nel vuoto sociale né risiede nella mente degli individui, ma è in «parte nel mondo» e in «parte dentro la testa»; essa non è prodotta da un processo cumulativo, ma da un processo costruttivo in cui il soggetto che interagisce è parte costituente dello stesso processo di apprendimento. Il concetto di apprendimento situato trova espressione negli studi di Lave e Wenger sulla partecipazione periferica legittima33 che hanno portato a formulare il concetto di apprendistato cognitivo. A differenza di quanto avviene nell’istruzione intesa in senso tradizionale, l’apprendistato cognitivo incorpora l’apprendimento di conoscenze e di abilità nel contesto di un’attività autentica, facendo transitare il soggetto da una posizione periferica a una posizione sempre più centrale. Come nella bottega o nel laboratorio, l’apprendistato offre l’occasione di apprendere in un contesto autentico, ovvero in una situazione di apprendimento significativo dove le soluzioni sperimentate in problem solving sono esteriorizzate, rese osservabili e replicabili. Per questo motivo, le competenze possono essere definite anche come skill in context, in quanto le conoscenze/capacità dell’individuo vanno riferite a un contesto in cui vengono esercitate e in cui acquistano valore. Le competenze costituiscono, dunque, il risultato di un continuo processo di costruzione attiva, operato dalla persona in un contesto autentico. Essere competenti, dunque, significa in questa prospettiva partecipare attivamente alla costruzione di conoscenze/competenze; essere aperti a tutte le sollecitazioni, le risorse, le occasioni, le modalità operative, aprirsi alle novità e affinare nuovi strumenti cognitivi, emotivi, operativi per fronteggiare e gestire l’inedito, ma anche riorganizzare i vecchi strumenti per trovare soluzioni nuove. 32

J. Bruner, La cultura dell’educazione, Milano: Feltrinelli, 1997. J. Lave, E. Wenger, Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge (England): Cambridge University Press, 1991. 33

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In questa prospettiva, l’orientamento deve proporre strategie trasversali in grado di far acquisire al soggetto la capacità di lavorare con gli altri, apprendere dal contesto e dagli altri, affinando i propri strumenti cognitivi ed emotivi.

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Alcune riflessioni Assumendo quanto detto sin qui sull’orientamento occorre aggiungere alcune riflessioni sul comportamento competente in situazione di disabilità. La puntualizzazione si rende necessaria in quanto le persone con disabilità possono sperimentare limitazioni delle proprie capacità di funzionamento ma, in una chiave di lettura bio-psico-sociale, esprimere un comportamento adeguato alle richieste in presenza di fattori ambientali che, attraverso diversi gradi di facilitazione, possono aumentare il livello di performance personali e, dunque, promuovere la partecipazione sociale. L’ambiente, in tal senso, rientra nel comportamento competente come mediatore tra le aspettative sociali e le capacità di funzionamento34. Per rappresentare la funzione dei mediatori Canevaro ricorre alla metafora di «chi vuole attraversare un corso d’acqua che separa due sponde e, non volendo bagnarsi, mette i piedi sulle pietre che affiorano. Forse butta una pietra per costruirsi un punto di appoggio dove manca. Questi appoggi sono i mediatori, coloro che forniscono sostegno e che si collegano uno all’altro. Un mediatore è come un semplice sasso su cui appoggiare il piede per andare all’altra riva. L’importante è costruire collegamenti e andare avanti. Se un mediatore non invitasse a quello successivo non sarebbe più tale»35.

34 Il mediatore può essere costituito da risorse umane (p. es: esperti nella comunicazione), tecnologiche (p. es: p.c., software dedicati, ecc), materiali (p. es: sedia a ruote, ecc.), organizzative (p. es: disposizione degli spazi, distribuzione dei compiti, articolazione dei tempi). L’introduzione del mediatore nella vita della persona disabile è un’operazione delicata e complessa che richiede una valutazione iniziale del funzionamento individuale e una personalizzazione della risorsa alle caratteristiche e alle esigenza della persona. 35 A. Canevaro, Pietre che affiorano. I mediatori efficaci in educazione con la «logica del domino», cit., pp. 8-9.

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Accogliere i mediatori nella prospettiva dell’orientamento significa superare la prospettiva individuale del funzionamento e approcciare una prospettiva ampia e complessa in cui l’attenzione non si cristallizza sulla menomazione e, dunque sulle capacità del soggetto, ma sulle performance che il soggetto riesce a esprimere attraverso l’uso di facilitatori ambientali. Le riflessioni condotte sinora sulle questioni correlate all’orientamento delle persona con disabilità consentono di tentare una risposta al punto di domanda posto in precedenza, affermando che per realizzare un modello di orientamento efficace occorre innanzitutto superare la rappresentazione sociale della disabilità come stato di inabilità e di malattia; la disabilità è un concetto complesso e multifattoriale che non può essere ridotto alla cifra della minorazione. L’orientamento deve porsi come intervento rivolto alla centralità della persona nella disabilità, alla ricerca del suo particolare, originale modo di esser al mondo a sostegno di un progetto di vita autentico che vede la persona il più possibile protagonista del suo personale viaggio esistenziale. Il riconoscimento della persona, tuttavia, può non bastare se non viene, altresì, affermato e rispettato il principio dell’autodeterminazione nelle scelte progettuali. Solo affermando la capacità di scelte autonome si restituisce alla persona la possibilità di sperimentare e prendere consapevolezza delle sue reali potenzialità con un conseguente un miglioramento della qualità di vita. Queste considerazioni collocano, a pieno titolo, l’orientamento all’interno di una prospettiva educativa dove orientare assume il significato di “porre l’individuo in grado di prendere coscienza di sé e di progredire per l’adeguamento dei suoi studi e della sua professione alle mutevoli esigenze della vita con il duplice scopo di contribuire al progresso della società e di raggiungere il pieno sviluppo della sua persona”. In tale prospettiva, l’orientamento sviluppa nella persona la capacità di riconoscere la posizione spazio-temporale della propria individualità, compresa la collocazione del proprio progetto di vita, in uno scenario sociale inclusivo in cui le persone con disabilità possano esprimere la proprie competenze in modo personale ed originale.

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L’insegnante di sostegno per una cultura dell’inclusione e del benessere: profilo e competenze

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di Elisabetta Grieco

1. Profilo e campi di azione attuali Negli anni Settanta inizia in Italia un processo legislativo e formativo che ha permesso l’entrata nelle scuole italiane di tutti quegli allievi che fino a quel momento erano “reclusi” in istituzioni chiuse, emarginati e allontanati, quindi, dalla partecipazione alla vita sociale e civile del nostro Paese1. Per quanto riguarda l’integrazione scolastica, la Legge n. 517 del 4 agosto 1977, dà inizio a una vera e propria «rivoluzione copernicana» che garantisce il diritto dei soggetti con disabilità a partecipare alla vita scolastica2. Prende avvio così, come scrive d’Alonzo, 1 Senza pretesa di esaustività, indichiamo di seguito le tappe ritenute più significative del graduale processo di inserimento delle persone disabili nel sistema scolastico nazionale: Legge del 30 marzo 1971, n. 118, Nuove forme in favore degli invalidi civili e dei mutilati; Ministero della Pubblica istruzione, Relazione conclusiva della Commissione Falcucci concernente i problemi scolastici degli alunni handicappati del 1975; Legge del 4 agosto 1977, n. 517, Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico; Legge 5 febbraio 1992, n. 104, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate; Decreto Presidente della Republica 24 febbraio 1994, Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap; 4 agosto 2009, Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità; Legge 8 ottobre 2010, n. 170, Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento. Per un ulteriore approfondimento si rimanda al contributo di Lucia de Anna nel presente volume. 2 A tal proposito ricordiamo di seguito alcuni passaggi ritenuti rilevanti della Legge n. 517 del 4 agosto 1977: «Ferma restando l’unità di ciascuna classe, al fine

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«il cammino del rispetto di tutte le diversità presenti in classe – il cammino dell’integrazione»3. Un cammino questo che, a più di trent’anni di distanza, ha contribuito al rinnovamento didattico, all’accoglienza delle diversità, all’apertura ai contributi esterni e al lavoro in team4. Nonostante il modello italiano di integrazione degli alunni disabili sia stato da tempo recepito e abbia compiuto notevoli passi avanti, sembra, comunque, che si insinui oggi «una sensazione di fondo tra educatori dei soggetti con deficit, insegnanti, genitori, ossia che la scuola italiana stia perdendo quell’attenzione ai bisogni che in passato le avevano permesso di affrontare e vincere sfide educative importanti»5. A tal proposito i risultati della recente ricerca L’integrazione di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Nell’ambito di tali attività la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps con la prestazione di insegnanti specializzati assegnati ai sensi dell’articolo 9 del decreto del Presidente della Repubblica 31 ottobre 1975, n. 970, anche se appartenenti a ruoli speciali, o ai sensi del quarto comma dell’articolo 1 della legge 24 settembre 1971, n. 820. Devono inoltre essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio-psicopedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale» (art. 2); «Al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Nell’ambito della programmazione di cui al precedente comma sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicaps da realizzare mediante la utilizzazione dei docenti, di ruolo o incaricati a tempo indeterminato, in servizio nella scuola media e in possesso di particolari titoli di specializzazione, che ne facciano richiesta, entro il limite di una unità per ciascuna classe che accolga alunni portatori di handicaps e nel numero massimo di sei ore settimanali» (art. 7). 3 A. Canevaro, L. d’Alonzo, D. Ianes, R. Caldin, L’integrazione scolastica nella percezione degli insegnanti, Trento: Erickson, 2011, p. 14. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 15.

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scolastica nella percezione degli insegnanti6, mettono in luce alcune contraddizioni che centrano l’attenzione sulla complessità dell’integrazione scolastica. In generale, l’analisi dei dati ha evidenziato come il sistema di integrazione è teoricamente un sistema auspicato da tutti, ma che incontra non poche difficoltà nell’attuazione quotidiana. È, infatti, percepito come un sistema «in grado di portare i vantaggi maggiori per la popolazione scolastica (compagni e professionisti), ma non per l’alunno a cui esso è principalmente rivolto. Un sistema visto come valore della scuola italiana stessa, ma che, nella maggioranza dei casi, non è percepito come in grado di garantire le risposte efficaci ai bisogni degli alunni per cui esso è stato pianificato»7. Quest’ultimo aspetto porta alla ribalta, oggi più di ieri, la questione del come dare risposte efficaci al bisogni dell’alunno disabile. Dai risultati emerge la necessità di una diversa gestione dei percorsi di integrazione degli alunni disabili: si palesa infatti una forte richiesta di compartecipazione di tutti gli insegnanti (curriculari e di sostegno) al progetto di integrazione degli alunni disabili dando avvio a un superamento delle differenze tra gli attuali ruoli professionali anche se, in netta contraddizione con la legislazione e le pratiche attuali di integrazione scolastica, il 25% 6 Tale ricerca «ha coinvolto più di 3.200 professionisti del mondo della scuola che, tra novembre 2009 e aprile 2010, hanno volontariamente compilato un complesso questionario online in forma chiusa. Il questionario […], è composto da 67 domande e ha un triplice obiettivo: raccogliere le opinioni e gli atteggiamenti generali sul tema dell’integrazione scolastica degli insegnanti; descrivere puntualmente una situazione concreta di integrazione scolastica riferita a un caso specifico di alunno con cui si è lavorato e ci si è confrontati nel corso della carriera professionale; offrire un approfondimento tematico specifico relativo agli alunni con disabilità con genitori di cittadinanza non italiana, immigrati o adottati da famiglie italiane. Una prima analisi di una selezione di dati ricavati da questo studio è stata oggetto di pubblicazione nel 2010 nel volume Gli insegnanti e l’integrazione: atteggiamenti, opinioni e pratiche (Ianes, Demo e Zambotti, 2010). Una terza fase di ricerca è attualmente attiva e, nel corso della primavera 2011, ha raccolto le opinioni sul tema dell’integrazione scolastica direttamente da parte di 46 alunni con disabilità e dei 424 loro compagni di classe. Si tratta di una fase sperimentale che adotta una metodologia diversa dalle precedenti, con un campione molto più ristretto e localizzato sul territorio della scuola trentina, ed è condotta con interviste semistrutturate e questionari con domande chiuse e aperte, somministrati in classe con la supervisione degli insegnanti ad alunni con disabilità e ai loro compagni di classe». (Ivi, p. 44). 7 Ivi, p. 60.

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dei partecipanti «vede come via per il miglioramento della situazione attuale (largamente criticata in quanto ad efficacia) un ritorno a classi speciali per alunni con patologie complesse»8. Il 14 giugno 2011, su iniziativa dell’Associazione TreeLLLe, della Caritas Italiana e della Fondazione Agnelli, è stato presentato a Roma il rapporto dal titolo Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte9. Tale rapporto, attraverso un’attenta raccolta dati e un’analisi complessa del modello italiano di integrazione degli alunni con disabilità realizzato negli ultimi trent’anni nella scuola italiana, evidenzia caratteristiche e criticità dello stesso rispondendo ai seguenti quattro interrogativi: 1) in che misura ha effettivamente funzionato? 2) la pratica è stata coerente ai principi? 3) le finalità sono state raggiunte? 4) con quale rapporto costi/benefici? Il “Rapporto” chiarisce come il modello italiano di integrazione è sicuramente ispirato a buoni princìpi, ma presenta dei nodi critici in quanto «è poco trasparente (esisterebbe un allargamento strisciante delle tutele previste dalla legge 104/1992)10 e poco intelligente (tutto è basato sulla rigida equivalenza certificazione = insegnante di sostegno)»11. Inoltre, i ricercatori evidenziano una serie di «interessi 8

Ivi, p. 58. Associazione TreeLLLe, Caritas Italiana e Fondazione Agnelli, Gli alunni con disabilità nella scuola italiana. Bilancio e proposte, Trento: Erickson, 2011. 10 Come è stato eplicitato durante l’8° Convegno Internazionale La Qualità dell’integrazione scolastica e sociale, svoltosi a Rimini il 18-19 novembre 2011, «[i]n molti casi la certificazione di disabilità è riconosciuta ad alunni che presentano difficoltà o svantaggi, ma che certamente non sono disabili». 11 R. Palermo, “Integrazione alunni. Disabili a scuola”, «Scuolainsieme. Bimestrale di cultura e informazione scolastica», Anno XVIII, No. 1, ottobre/novembre 2011, p. 58. Ulteriori criticità sono così espresse: approccio prevalentemente medico; separazione tra chi decide le certificazioni (ASL) e chi decide l’assegnazione degli insegnanti di sostegno (amministrazione scolastica); rigidità e automatismi delle soluzioni: la certificazione si risolve sempre nell’assegnazione di ore di un insegnante di sostegno; eccessiva mobilità degli insegnanti di sostegno: il 43% degli allievi con disabilità nella primaria e secondaria di 1°grado cambia insegnante di sostegno una o più volte all’anno; posto di sostegno come percorso privilegiato per entrare più rapidamente in ruolo: ma dopo 5 anni si ha diritto a tornare su posto normale; inadeguata formazione e specializzazione degli insegnanti di sostegno: il 32% delle scuole del primo ciclo non ha alcun insegnante con specializzazione per il sostegno; insegnanti curricolari non coinvolti nel processo d’integrazione e privi di una formazione di base nella didattica speciale; forte senso di isolamento 9

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legittimi»12 che ruotano intorno agli alunni con disabilità, ma che nulla hanno a che fare con il reale processo di integrazione degli stessi nella scuola e nella società. Questi interessi riguardano «la famiglia che trova nel sostegno la possibilità di soddisfare molte esigenze del figlio con disabilità; la scuola che con l’aumento degli studenti disabili può ottenere un calo del numero di allievi per classe e dunque un aumento del numero delle classi e del suo organico; gli insegnanti che spesso ritengono il posto di sostegno un percorso privilegiato per entrare più rapidamente in ruolo; gli stessi insegnanti di sostegno che dopo 5 anni di servizio in ruolo possono passare a un insegnamento «normale»; gli insegnanti curricolari che non si corresponsabilizzano e tendono a delegare all’insegnante di sostegno; l’Amministrazione che utilizza l’opportunità di una dotazione organica aggiuntiva per abbassare la tensione del precariato o per soddisfare richieste di mobilità; i servizi esterni che considerano la scuola come responsabile unico dell’integrazione e non se ne assumono la corresponsabilità»13.

Al fine di superare i limiti del sistema scolastico di integrazione, gli autori della ricerca non si limitano a presentare un bilancio dell’attuale modello, ma propongono una «profonda e innovativa riorganizzazione, con una diversa e più mirata formazione di tutti gli operatori scolastici (sia degli specialisti veri e propri sia degli insegnanti curricolari) e una riallocazione più flessibile ed efficace delle risorse impegnate»14.

(soprattutto per le famiglie appartenenti a gruppi sociali svantaggiati, prive di risorse, reti relazionali e assistenziali, ad es. famiglie straniere con figli disabili); fallimento degli accordi di programma tra scuola e servizi sanitari e sociali; scollamento tra scuola e mondo del lavoro; quasi inesistenti esperienze di stage e tirocini in azienda e di alternanza scuola-lavoro (in Italia nel 2003 (dati OCSE) solo il 7% dei disabili adulti era occupato contro una media europea del 17%); troppi casi di abbandono della scuola senza alcuna qualificazione (tale abbandono riguarda famiglie svantaggiate, prive di risorse relazionali ed economiche; famiglie straniere, che devono superare doppie barriere di inclusione; casi di disabilità molto grave) (www.caritasitaliana.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2011/disabilita_scuola/ disabilita_scuola_sintesi.pdf). 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 D. Ianes, “Note a margine del Rapporto Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, «Difficoltà di apprendimento», Vol. 17, No. 1, ottobre 2011, pp. 21-32.

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Le linee progettuali di tale proposta partono da una premessa. Scrive, infatti, D. Ianes:

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«A fronte di un modello teorico avanzato, il sistema scolastico di integrazione italiano si rivela insoddisfacente nella sua applicazione a causa delle carenze organizzative; dello scarso controllo qualitativo dei processi; dell’assenza di controllo dei risultati rispetto alle finalità; delle carenze di governance del sistema nazionale d’integrazione scolastica, che rappresenta circa il 10% dell’intero budget scolastico nazionale»15.

Per tali motivi si presenta una vera e propria riforma articolata in 9 punti la quale si propone di: – mettere al centro l’efficacia e l’efficienza delle prassi di integrazione scolastica; – garantire la piena corresponsabilizzazione di tutti i docenti nei processi di integrazione; – realizzare un nuovo servizio permanente (Centro Risorse per l’Integrazione – CRI); – valorizzare a pieno le possibilità di autonomia gestionale e organizzativa delle istituzioni scolastiche; – rendere realmente possibile la collaborazione della famiglia con la scuola e i servizi sociali e sanitari; – potenziare pratiche di cordinamento e collaborazione a livello della comunità locale; – fornire sistematicamente una valutazione delle pratiche e dei risultati dell’integrazione scolastica; – abbandonare le rigide e inadeguate procedure che riducono l’integrazione a una meccanicistica attribuzione di insegnante/ore di sostegno; – assicurarsi che gli elementi progettuali del nuovo modello siano applicabili pur con le dovute modificazioni, anche ad altre situazioni di difficoltà al di là della disabilità16.

15 D. Ianes, “Linee progettuali e proposte per un nuovo approccio all’integrazione scolastica degli alunni con disabilità”, in Associazione TreeLLLe, Caritas Italiana e Fondazione Agnelli, Gli alunni con disabilità nella scuola italiana. Bilancio e proposte, cit., p. 191. 16 Ibidem.

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Le linee progettuali di tale riforma scompaginano l’attuale sistema e propongono una ridefinizione dei processi di integrazione scolastica. Infatti, secondo gli autori della proposta, tali idee, «ispirate da una serie di esigenze fondamentali»17, avranno ricadute in termini di efficacia, in quanto si tradurranno in reali benefici per gli alunni con disabilità in relazione alla socialità, all’apprendimento, alla costruzione di una propria identità e autonomia per una reale partecipazione al proprio progetto di vita sociale e professionale, e in termini di efficienza, in quanto il processo di integrazione dovrà fare i conti con i risultati ottenuti e i costi sostenuti attraverso un appropriato impiego delle risorse esistenti. A tal proposito, si riconferma al centro della riflessione pedagogica un tema più volte discusso a vari livelli (dagli ambiti accademici alla pratica quotidiana di molti insegnanti): l’artificiosa classificazione e divisione tra insegnanti di sostegno e insegnanti curricolari che tuttora implica la non effettiva corresponsabilità educativa di tutti gli insegnanti nella progettazione e nella messa in atto di attività didattiche e formative a carattere inclusivo per tutta la classe e non solo per l’alunno con disabilità. In altre parole, l’integrazione, viene ribadito, è competenza di tutti gli insegnanti e non solo. Infatti, una delle innovazioni di tale riforma riguarda la realizzazione di Centri Risorse per l’Integrazione. Ciò, nelle intenzioni degli autori della proposta, significa realizzare un servizio «che metta a disposizione delle scuole di un certo ambito territoriale una serie di specifiche competenze tecniche, funzionali a rendere più efficaci le normali pratiche educative e didattiche»18. Tali centri, che saranno poi dotati di insegnanti ad alta specializzazione da utilizzare come “consulenti” nelle scuole19, diverranno parte integrante del processo di integrazione scolastica degli alunni con disabilità allo scopo di promuovere poi, ancor di più, l’autonomia progettuale, organizzativa e didattica di cui usufruiscono le scuole al fine di impiegare al meglio sia le risorse

17

Ibidem. Ivi, p. 192. 19 Tale punto ha sollevato non poche perplessità, espresse anche in occasione del summenzionato Convegno Internazionale. Si è sottolineato, in quella sede, come finora si sia lavorato per costruire una “rete” di servizi territorali e che, quindi, lascia “esitanti”, “perplessi” la scelta di un sistema formativo che abbia nella sua costituzione una gestione “centralistica” delle risorse. 18

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umane e strumentali della scuola che quelle espresse dal territorio con i servizi sociali e sanitari. È, infatti, solo attraverso l’intesa con le comunità locali di appartenenza che i soggetti coinvolti da questa trasformazione del sistema possono concretamente realizzare un progetto di integrazione complessivo grazie alla piena condivisione di risorse umane e materiali. L’attenzione è, quindi, posta sulla necessità di pensare a procedure metodologiche chiare sia per la valutazione formativa dell’alunno sia per la valutazione dell’istituto, con uno sguardo rivolto ai livelli di soddisfazione degli utenti in relazione ai processi e ai risultati dell’integrazione in atto in tutti i sistemi e le organizzazioni (formali, non formali e informali) interessati. Quindi la famiglia dell’alunno con disabilità si declina come «soggetto significativo»20, e non come semplice spettatrice della pianificazione e realizzazione del progetto educativo del/la proprio/a figlio/a che riguarda, ripetiamo, una comunità la quale, attraverso processi di condivisione, diventa comunità educante. Un’ulteriore proposta riguarda «l’evoluzione dell’attuale figura dell’insegnane di sostegno»21 che invita a superare il percorso “certificazione = ore di sostegno”, che non prende in considerazione le specificità delle singole situazioni, per costruire un modello più complesso che permetta una diffusione di competenze in pedagogia speciale tra tutti gli insegnanti, anche attraverso la professionalità di “insegnanti specialisti”. Nello specifico, l’ipotesi progettuale implica un’azione da svolgersi su due versanti: da un lato, la maggioranza degli insegnanti di sostegno effettueranno gradualmente il passaggio nell’organico ordinario nelle diverse scuole sulla base di un’analisi dei bisogni a cura delle scuole, dall’altro, tra il 10% e il 20% dell’attuale organico degli insegnanti di sostegno costituiranno gli “insegnanti specialisti”, cioè figure itineranti ad alta competenza, in grado di formare e fornire supporto tecnico alle scuole in vista di una efficace didattica dell’integrazione. Tali figure professionali, selezionate e formate ad hoc, avranno ore di lavoro didattico con gli alunni con disabilità esclusivamente nelle fasi di valutazione iniziale e di monitoraggio degli interventi compiuti dai colleghi curricolari. Gli specialisti, operativi su 20

D. Ianes, “Linee progettuali e proposte per un nuovo approccio all’integrazione scolastica degli alunni con disabilità”, cit., p. 192. 21 D. Ianes, “Note a margine del Rapporto Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte”, cit., p. 26.

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base territoriale, avranno sede nel Centro Risorse per l’Integrazione (CRI) a cui spetterà la direzione di tutto il processo proposto. Con quest’ultimo aspetto, i promotori di tale riforma auspicano una scuola inclusiva che tenga conto delle difficoltà nell’ambito di apprendimento (DSA definiti con la Legge 170/2010), delle problematiche comportamentali, affettive e socio-culturali.

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2. Profilo e campi di azione futuri È chiaro come questo nuovo approccio all’integrazione scolastica degli alunni con disabilità apra un intenso dibattito all’interno della comunità scientifica22 e implica un profondo ripensamento della figura dell’insegnante specializzato per il sostegno. La stessa sintesi “insegnante di sostegno”, sostiene A. Canevaro, mette l’accento più sulla parola “sostegno” che su “insegnante”, aspetto questo che sottolinea come manchi un preciso profilo dell’insegnante specializzato per il sostegno all’integrazione23. È, infatti, sempre più evidente come nelle prassi educative e formative quotidiane, l’insegnante di sostegno non venga percepito e vissuto nella scuola (ma anche dall’uomo comune) come risorsa di sistema, ma come “l’insegnante di”, come “un insegnante di serie B”, come “l’insegnante che da solo deve occuparsi esclusivamente degli alunni disabili”, nonostante le indicazioni della normativa vigente24. Quindi, il “profilo professionale” e i “campi d’azione” restano ambigui a coloro i quali, nei contesti educativi, è affidato il delicatissimo compito di gestire la diversità in prospettiva inclusiva. Allora, quale il profilo di un insegnante specializzato al sostegno competente? E quali i suoi campi d’azione? In relazione al primo interrogativo possiamo partire da un assunto di base: un insegnante competente è un insegnante che sappia agire secondo «un’ottica contestuale e situazionale, non aspettando 22

A tal proposito si rinvia ai contributi dei soci SIPeS al dibattito nato a seguito della pubblicazione del Rapporto Gli alunni con disabilità nella scuola italiana. Bilancio e proposte, Sezione “Dibattito integrazione scolastica” in www.s-sipes.it. 23 Cfr. Intervista ad Andrea Canevaro in «Scuolainsieme. Bimestrale di cultura e informazione scolastica», Anno XVIII, N. 1, ottobre/novembre 2011, p. 59. 24 Vedi nota 1 del presente saggio.

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soluzioni dall’esterno, ma ponendosi in modo attivo rispetto sia alla ricerca di soluzioni per i propri problemi sia allo sforzo di produrre mutamenti nelle concezioni pedagogiche e nelle pratiche didattiche»25. Si tratta di «un insegnante competente che permetta al contesto scolastico di essere competente, e non limiti e chiuda, quindi, la competenza alla sua presenza ma la colleghi all’investimento strutturale dell’ambiente scolastico»26. Secondo questa prospettiva si concretizza la rappresentazione del ruolo docente come soggetto attivo che deve saper progettare e agire in raccordo con i colleghi, al fine di pensare e vivere la scuola come una comunità di professionisti che condividono azioni, mezzi, strumenti e linguaggi. In tale comunità il singolo si percepisce come parte di un tutto in cui si costruiscono insieme pratiche educative e formative secondo un’ottica costruttivista; dove diventa necessario compiere una codifica e un’analisi della propria identità professionale, della propria formazione ed epistemologia. In poche parole, un professionista attento all’unicità e alla diversità della persona, che pensa a se stesso come a un ricercatore27 perchè indaga la realtà, riflette sulle proprie teorie in relazione alla disabilità e utilizza il dispositivo della riflessione e della progettazione affinchè ci sia coerenza interna tra metodologie, finalità, obiettivi, strumenti e linguaggi da utilizzare. Quindi, non un insegnante che da solo deve occuparsi esclusivamente degli alunni disabili, ma un professionista che riflette e sceglie responsabilmente di essere un reale protagonista dell’agire educativo, che veste i panni di un insegnante che progetta, insieme ai colleghi, percorsi di inclusione scolastica tenendo conto dei soggetti, dei luoghi e dei tempi dell’apprendimento. Un insegnante, dunque, che ricerca le relazioni che intercorrono tra i fenomeni e i contesti, «tra le parti e il tutto e il tutto e le parti»28, che effettua operazioni di 25

M.G. Riva, “Professionalità riflessiva e relazionale dell’insegnante”, in M.G. Riva (a cura di), L’insegnante professionista dell’educazione e della formazione, Pisa: ETS, 2008, p. 150. 26 Cfr. A. Canevaro, “Insegnanti specializzati per il sostegno”, in «L’integrazione scolastica e sociale», Vol. 1, No. 2, 2002, citato in D. Ianes, “La formazione dell’insegnante di sostegno”, in www.darioianes.it/articolo11. 27 R. Buono, C. Cavaliere, C. Romagnoli, Il docente ricercatore. La ricerca formativa tra Scuola e Univerità, Pescara: ESA, 2011. 28 Cfr. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Milano: Sperling & Kupfer Editori, 1993.

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connessione, di sviluppo e, quindi, di inclusione dell’alunno disabile nella scuola e nella società e, al contempo, operazioni di integrazione tra i saperi, le metodologie e le diverse professionalità coinvolte e che, pertanto, tiene conto: del modello teorico di approccio alla disabilità definito biopsicosociale29; della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, del Capability Approach30; e del modello di inclusione sociale31. Un insegnante che dunque non 29 «Nel 1977 lo psichiatra George Engel sviluppò una nuova prospettiva sulla salute, definita come “Modello Biopsicosociale”, che ebbe una grande influenza sul modo di concepire e affrontare la salute e la malattia. Esso tiene conto dei fattori psicosociali e ritiene che la diagnosi medica debba considerarsi l’interazione degli aspetti biologici, psicologici e sociali nel valutare lo stato di salute dell’individuo e nel prescrivere un trattamento adeguato. Si tratta di un modello integrativo, basato sulla teoria generale dei sistemi, che mira al superamento del vecchio dualismo tra mente e corpo e della comprensione semplicistica di cause singole e di sequenze lineari nell’insorgenza della malattia, individuando alla base delle alterazioni della salute l’interazione dinamica di fattori multipli […]. A partire da queste esperienze, comincia a delinearsi un’idea di riabilitazione che non si racchiude negli aspetti medici, ma si proietta all’esterno, poiché comprende che l’atto medico può avere effetto solo e soprattutto se la persona, il disabile, vive una condizione che dà un senso a quello stesso atto» (E. Ghedin, Ben-essere disabili. Un approccio positivo all’inclusione, Napoli: Liguori, 2010, pp. 54-55). 30 «L’approccio della capability trova le sue radici nei lavori dei primi anni ottanta del premio Nobel per l’economia Amartya Sen, per il quale la povertà/ deprivazione è indicata dall’assenza di possibilità nel raggiungere un livello soddisfacente nei vari aspetti della vita. […] L’approccio di Sen presta attenzione alle opportunità degli individui di raggiungere determinati stati di “essere” e di “fare” che rendono la vita degna di essere vissuta: tali “stati” rappresentano i functionings, i funzionamenti di un individuo, una sorta di vettore dei suoi bisogni di base (ma non solo materiali), come ad esempio essere in salute, nutrirsi, lavorare, riposarsi, essere rispettato, essere parte di una comunità, saper leggere e scrivere e così via. […]. Le capabilities rappresentano invece le capacità di “funzionare”, vale a dire le opportunità di un individuo di avere accesso a determinati functionings, quindi le sue concrete possibilità di avere a disposizione diverse combinazioni (o, detto altrimenti, un set di vettori) di “funzionamenti”. Nell’approccio di Sen la capability quindi significa “l’opportunità pratica”» (Ivi, pp. 62-63). 31 «Il bisogno di inclusione si configura come specifico bisogno sociale che richiede interventi integrati a opera di più agenzie e istituzioni, allo scopo di incidere in profondità sui contesti attraverso strategie e politiche orientate sinergicamente all’inclusione e allo sviluppo, il che richiede di mettere a fuoco, in relazione ai bisogni sociali emergenti gli specifici bisogni di formazione a essi correlati. È evidente che il rischio di esclusione è strettamente legato alla mancanza di opportunità,

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progetta la sua azione educativa secondo una prospettiva galileiana, leggendo e spiegando i fenomeni in termini di causa (deficit) ed effetto (handicap), ma secondo una prospettiva aristotelica che, quindi, con uno sguardo aperto e prospettico sul funzionamento umano, legge e comprende tale funzionamento tenendo conto della persona come unità biopsichica e sociale in continua evoluzione, in cui le componenti organiche e psicologiche si influenzano reciprocamente ed entrano in continua interazione con i contesti sociali e culturali di appartenenza. Ciò presuppone una formazione, iniziale e continua, che permetta di disegnare un profilo di competenze che, e qui veniamo al secondo dei nostri interrogativi, tenga conto dei suoi campi d’azione, dei suoi contesti di pratica. L’analisi di alcuni contributi sulla professionalità docente e sulla formazione degli insegnanti specializzati32 permette di individuare, senza pretesa di esaustività, delle macro-aree di competenza dell’insegnante specializzato al sostegno e all’integrazione/inclusione sco-

risorse, strumenti per molti aspetti acquisibili attraverso percorsi di formazione (in ambito formale, non formale, informale) calibrati sulle caratteristiche e sui bisogni dell’utenza nel quadro complessivo della strategia del lifelong learning» (M. Striano, “L’inclusione come progetto di sviluppo sociale nello scenario europeo”, in Ead. (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, Milano: FrancoAngeli, 2010, p. 24). 32 F. Bocci, “La formazione dell’insegnante di sostegno: prospettive e problemi (tra ironia e utopia)” in AA. VV., Il compito di latino. Nove racconti e una modesta proposta, Palermo: Sellerio, 1999; A. Canevaro, “Insegnanti specializzati per il sostegno”, «L’integrazione scolastica e sociale», Vol. 1, No. 2, 2002; L. Collacchioni, L’insegnante di sostegno. Saperi e competenze per una professionalità includente e per una didattica inclusiva, Roma: Aracne Editrice, 2011; P. de Mennato, Il sapere personale. Un’epistemologia della professione docente, Milano: Guerini Scientifica, 2003; L. Fabbri, M. Striano, C. Melacarne, L’insegnante riflessivo. Coltivazione e trasformazione delle pratiche professionali, Milano: FrancoAngeli, 2008; D. Ianes, “La formazione dell’insegnante di sostegno” in www.dario ianes.it/articolo11; L. Mortari (a cura di), Dire la pratica. La cultura del fare scuola, Milano: Mondadori, 2010; V. Piazza, L’insegnante di sostegno. Competenze tecniche e aspetti emotivi, Trento: Edizioni Erickson, 2009; M.G. Riva (a cura di), L’insegnante professionista dell’educazione e della formazione, cit.; R. Semeraro (a cura di), La formazione continua. Prospettive per una nuova professionalità docente, Lecce: PensaMultimedia, 2004; M.R. Strollo, Il laboratorio di epistemologia e di pratiche dell’educazione. Un approccio neurofenomenologico alla formazione pedagogica degli educatori, Napoli: Liguori, 2008.

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lastica di alunni disabili e/o di alunni con Bisogni Educativi Speciali. Esse, a nostro avviso, possono così essere raggruppate:     

Competenza Competenza Competenza Competenza Competenza

riflessiva epistemologica socio-relazionale progettuale, didattica e metodologica normativa, istituzionale, di documentazione/ricerca

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Competenza riflessiva Si può affermare che, nonostante la buona volontà dei singoli soggetti, sempre più faticoso e incerto appare il lavoro degli insegnanti che quotidianamente sono chiamati a «rispondere» alle richieste delle «zone indeterminate dei contesti di pratica»33. È in tali zone che sono presenti: “il caso unico”, “l’evento imprevisto”, “l’errore”, “il conflitto”, “l’incerto”, “il dilemma”, non risovibili, come sostiene Schön, mediante l’utilizzo della razionalità tecnica e che, quindi, pongono gli insegnanti in una situazione di crisi e di confusione dimostrando, sempre più spesso, una vera e propria insoddisfazione verso l’attuale stato professionale e una continua domanda di formazione per ridisegnare il proprio profilo e ridefinire i propri campi di azione. Ciò è ancora più vero quando si tratta di insegnanti specializzati al sostegno e all’integrazione/inclusione scolastica di alunni disabili e/o di alunni con Bisogni Educativi Speciali. L’emergente domanda formativa evidenzia, infatti, la necessità degli insegnanti di sostegno di ricollocarsi, continuamente, all’interno della propria professione per rispondere alla complessità della realtà educativa. Nell’attuale dibattito internazionale sui modelli formativi e sui profili professionali si evidenzia come un valido lavoro di ricerca sull’identità professionale e sulla formazione degli insegnanti non possa prescindere da una riflessione pedagogica sull’agire educativo34, sull’e-

33

Cfr. D.A. Schön, Formare il professionista riflessivo. Per una prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni, Milano: FrancoAngeli, 2006. 34 Cfr. M. Striano, La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, Napoli: Liguori, 2011, p. 1.

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L’inclusione e il mondo della scuola

sperienza e sulle pratiche che vi si inscrivono35. Secondo Schön, la professionalità di un soggetto e la sua formazione vanno indagate in relazione ai contesti di pratica: tali contesti, fonti inesauribili di saperi, teorie, azioni, linguaggi e procedure che organizzano le modalità lavorative dei soggetti, implicano una continua riflessione nel corso dell’azione36. Tale riflessione, sottolinea Schön, richiede al professionista una abilità artistica37 per scoprire un risultato inaspettato, comprendere il fenomeno e riorganizzare le strategie e le competenze che si possiedono per la soluzione del problema. Ciò induce un processo conoscitivo non lineare, ma che viene a configurarsi come iter euristico38 che muove dall’esperienza39. Il processo riflessivo rifiuta, quindi, la visione tradizionale del sapere professionale come possesso di competenze tecniche (expertise), a favore di una visione del sapere costruito attraverso una conversazione riflessiva40 che permette «lo scontro-incontro, che il professionista intrattiene con il problema che ha di fronte durante tutto l’iter di indagine che, guidato dal pensiero riflessivo, connota la riflessione nel corso dell’azione come un susseguirsi di diverse tipologie di atti sperimentali»41. Tali riflessioni introducono una procedura di ricerca-azione che interconnette «un intento esplorativo,

35 Cfr. L.Fabbri, M. Striano, C. Melacarne, L’insegnante riflessivo. Coltivazione e trasformazione delle pratiche professionali, cit.; D.A. Schön, Formare il professionista riflessivo. Per una prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni, cit. 36 D.A. Schön, Formare il professionista riflessivo.Per una prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni, cit., p. 58. 37 Ibidem. 38 Ivi, nota 6, p. 61. 39 Quindi, se nel modello classico ispirato alla “razionalità tecnica” i professionisti sono degli esecutori che si confrontano con problemi e questioni circoscritte e applicano teorie e tecniche consolidate, nel modello della “razionalità riflessiva” i professionisti «si rappresentano, si riconoscono e si propongono come agenti riflessivi in grado non solo di applicare conoscenze scientificamente validate, ma di realizzare ed utilizzare in prima persona nuove forme di conoscenza costruite secondo procedure metodologicamente rigorose, sebbene non standardizzate e controllate, che emergono proprio nelle “zone indeterminate” della “palude” della pratica» (Ivi, p. 12). 40 Ivi, p. 64. 41 Ibidem, nota 10.

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un intento formativo e un intento emancipativo»42 che implica, quindi, il coinvolgimento attivo delle esperienze di insegnamento. I dispositivi riflessivo-trasformativi che, attraverso la conoscenza del proprio agire, permettono una formazione alla riflessività e lo sviluppo di competenze volte alla comprensione della situazione per agire e risolvere le questioni che emergono nella pratica professionale, possono aiutare a riconoscere e analizzare i valori, le strutture, i metodi, le procedure e le emozioni, spesso inconsapevoli, che guidano l’attività didattica43 degli insegnanti di sostegno. Gli insegnanti tutti, e in particolare gli insegnanti di sostegno, sono costantemente chiamati a confrontarsi con realtà complesse e problematiche che richiedono la messa in atto di strategie volte al cambiamento della situazione attuale. Per tale motivo è a loro richiesta la capacità di «sviluppare e praticare forme di razionalità pratica ed emancipativa»44 in quanto la riflessione non è da intendersi come «competenza metodologica da acquisire e applicare, ma come istanza di razionalità contenuta nell’agire educativo»45 da realizzarsi all’interno di specifiche comunità di pratiche. La definizione degli obiettivi educativi, la scelta degli strumenti, dei linguaggi e delle modalità di valutazione, sommati alle specifiche conoscenze e alla capacità di relazionarsi con le esigenze e i bisogni educativi speciali dei diversi soggetti, fanno della professione docente una professione articolata e complessa che necessita di una riflessione realizzabile nel corso e nel mezzo dell’azione, attraverso una modalità di pensiero critico-emancipativo per intercettare i pre-giudizi, le distorsioni e le teorie implicite che guidano e condizionano l’azione, per formare quello che Schön definisce un “professionista riflessivo”. In questi termini, acquisire una “competenza riflessiva” significa, ancor di più nel caso specifico degli insegnanti di sostegno, dare inizio a un processo dove azione, ricerca e formazione sono intimamente connessi in vista di un continuo confronto con i dati dell’esperienza, di una trasformazione

42

M. Striano, La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, cit., p. 144. Cfr. M.R. Strollo, “Dall’intenzione alla consapevolezza. Il ruolo della riflessione sull’esperienza”, in Ead, Il laboratorio di epistemologia e di pratiche dell’educazione. Un approccio eurofenomenologico alla formazione pedagogica degli educatori, cit., pp. 67-76. 44 M. Striano, La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, cit., p. 8. 45 Ivi, p. 7. 43

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L’inclusione e il mondo della scuola

delle prospettive di significato dei soggetti e dei contesti coinvolti, di una maggior consapevolezza di sé, delle proprie teorie di riferimento e dei propri stati emotivi nei confronti del disagio e della sofferenza altrui. Secondo tale prospettiva, quindi, l’autoconsapevolezza e l’autoriflessione consentono di intraprendere azioni trasformando le proprie prospettive di significato46 e di orientare i processi trasformativi sia sul piano individuale che sul piano sociale47.

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Competenza epistemologica Ne Le fonti di una scienza dell’educazione, Dewey ci ricorda come «[…] la realtà ultima della scienza dell’educazione non si trova nei libri, né nei laboratori sperimentali, né nelle aule scolastiche dove viene insegnata, ma nelle menti degli individui impegnati nella direzione delle attività educative; che senza la presenza attiva negli atteggiamenti e nelle abitudini di osservazione, di giudizio e progettazione di coloro che sono impegnati nell’attività educativa non si potranno ottenere dei risultati scientifici […]»48.

Coerentemente con il nostro discorso, ciò significa che diventa prioritario focalizzare l’attenzione sull’epistemologia e sulla «conoscenza pratica personale»49 degli insegnanti specializzati al sostegno 46 Scrive Mezirow: «[…], ho scelto il termine prospettiva di significato per indicare la struttura dei presupposti entro la quale la nostra esperienza pregressa assimila e trasforma la nuova esperienza. Una prospettiva di significato è un set abituale di aspettative che costituisce un quadro di riferimento orientativo, che usiamo nella proiezione dei modelli simbolici, e che funge da sistema di credenze (quasi mai tacite) per interpretare e valutare il significato dell’esperienza. Ci sono tre tipi di prospettive di significato. Il primo, quello delle prospettive di significato epistemologiche, afferisce al modo in cui conosciamo e agli utilizzi che facciamo della conoscenza. Vi sono poi le prospettive di significato sociolinguistiche e le prospettive di significato psicologiche» (J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, Milano: Raffaello Cortina editore, 2003, p. 48). 47 M. Striano, La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, cit., pp. 141-142. 48 J. Dewey, Le fonti di una scienza dell’educazione, Firenze: La Nuova Italia, 19672, p. 23. 49 J.D. Clandinin, M. Connelly, Il curriculum come narrazione, Napoli: Loffredo, 1997, p. 67.

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per comprendere a fondo l’esperienza educativa di chi si confronta ogni giorno con la diversità. Per questo motivo partire da una riflessione sulle categorie50 che rivestono un ruolo centrale per chi si occupa dell’educazione e della formazione di soggetti con disabilià diventa necessario, perché consente agli insegnanti specializzati di mettere a fuoco le teorie scientifiche esplicite e le teorie implicite che intervengono nei contesti di pratica. Questo perché, come afferma P. de Mennato, «imparare a dare credito e riconoscere il ruolo delle teorie implicite nell’insegnamento anche in riferimento alle operazioni di costruzione di saperi formalizzati – dove le teorie esplicite costituiscono elemento organizzatore e disegnano campi esecutivi – ci aiuta a identificarne il valore come fattore costruttivo dello stile di insegnamento»51. Allora, la sfida formativa è quella di divenire consapevoli che i processi di conoscenza non sono neutri perché sono atti di costruzione52 e che quindi «non può più darsi un soggetto umano di conoscenza al di fuori dei contesti di conoscenza»53. Ciò significa imparare a riconoscere e tener conto delle proprie teorie popolari, ingenue54 e di quanto queste entrino in relazioni con quelle scientifiche. Di conseguenza l’azione educativa e didattica sono «il riflesso diretto delle convinzioni e degli assunti del docente riguardo all’allievo»55 e riguardo all’idea di scuola56. A partire da quanto detto, comprendere il proprio curriculum57

50

Ad esempio, pensiamo alle categorie di: cura, aiuto, comprensione, reciprocità, relazione di aiuto, salute, benessere, deficit, handicap, integrazione, inclusione, bisogni educativi speciali, ecc. 51 Cfr. P. de Mennato, Il sapere personale. Un epistemologia della professione docente, Milano: Guerini Scientifica, 2003, p. 100. 52 Ivi, p. 99. 53 M.R. Fiengo, “Complessità (paradigma della)”, in V. Sarracino, N. Lupoli (a cura di), Le parole chiave della formazione. Elementi di lessico pedagogico e didattico, Napoli: Tecnodid, 2003, p. 53. 54 Cfr. J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Milano: Feltrinelli, 2001. 55 Ivi, p. 59. 56 Si pensi, ad esempio, al tipo di agito educativo e didattico di un insegnante che “sente e vive” la scuola come una “comunità di pratiche” e, per converso, a quello di un insegnante che “sente e vive la scuola” come un “luogo dove sono presenti soggetti che insegnano e soggetti che apprendono”. 57 Per la nozione di curriculum si veda: J.D. Clandinin, M. Connelly, Il curriculum come narrazione, cit.

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significa dare nuovo senso e significato alle proprie esperienze e individuare nuove coordinate epistemologiche da seguire. In particolare, gli orientamenti di razionalità riflessiva attribuiscono validità epistemica alle biografie personali prodotte dalle narazioni di esperienza dei professionisti: narrando i soggetti costruiscono insieme i «significati che dominano la vita di una cultura»58, ed è per tale ragione che la narrazione può costituire lo strumento di ricerca privilegiato per accedere all’epistemologia e alla conoscenza pratica, individuando così dispositivi euristici facilmente accessibili agli stessi soggetti59. La «conoscenza pratica personale», scrivono Clandinin e Connelly, è «un modo morale, estetico ed affettivo di conoscere le situazioni educative della vita»60, essa è quindi una risorsa perché è una forma di conoscenza che, attraverso quel processo riflessivo di cui parla Schön, permette di orientarci e di adattarci ai contesti e ai dilemmi disorientanti61 che si propongono nella vita quotidiana. Narrare la propria conoscenza pratica, pertanto, consente al professionista dell’educazione (così come ad ogni professionista), di attivare una riflessione critica su se stessi, sulle proprie conoscenze scientifiche e sulle proprie esperienze professionali, e di ripensarsi in funzione del percorso svolto attraverso un processo che prevede maggiore consapevolezza delle relazioni tra la storia personale, i contesti di pratica, le azioni, i saperi e le teorie implicite che fino a quel momento hanno guidato l’azione educativa e didattica62. In questi termini la professionalità educativa può riorganizzarsi attorno a una procedura di ricerca che orienta in modo nuovo e diverso le pratiche educative. L’acquisizione, quindi, di una competenza epistemologica permette di «utilizzare la capacità riflessiva dell’insegnante per entrare in relazione con i processi impliciti presenti nella pratica quotidiana e nel proprio progetto di vita»63. 58

Cfr. J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, cit. Cfr. L. Mortari, Cultura della ricerca e pedagogia, Roma: Carocci, 2007. 60 J.D. Clandinin, M. Connelly, Il curriculum come narrazione, cit., p. 67. 61 Cfr. J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, cit. 62 Cfr. M.R. Strollo, Il laboratorio di epistemologia e di pratiche dell’educazione. Un approccio eurofenomenologico alla formazione pedagogica degli educatori, cit. 63 Cfr. P. de Mennato, Il sapere personale. Un epistemologia della professione docente, cit. 59

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Competenza socio-relazionale

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Per quanto ufficialmente riconosciuta, la dimensione socio-relazionale ha vita difficile nella pratica educativa di molti insegnanti. A causa della complessità della realtà educativa, tale dimensione sembra essere “maneggiata” allo scopo di “comunicare informazioni” a più livelli. In termini operativi questo si traduce nel comunicare, ad esempio: 1) ai propri allievi, gli obiettivi da perseguire e il programma da svolgere; 2) ai propri colleghi e dirigenti, le decisioni di carattere operativo relative all’andamento scolastico dell’allievo di turno; 3) ai genitori, le performance dei propri figli. Inoltre, «vi sono scuole che presentano una “cultura balcanizzata”, in cui sono presenti gruppi separati di insegnanti, in competizione o volti a conquistare posizioni di vantaggio, dove la comunicazione circolare è scarsa e la lealtà è rivolta ai singoli sottogruppi. A volte, assistiamo a una forma di “collaborazione confortevole”, cioè un tipo di collaborazione tra insegnanti limitata, dove vengono eluse le domande più spinose e scomode, che non tocca i fondamenti dei problemi in questione; è focalizzata sull’immediato, tramite il darsi buoni consigli o scambiarsi i trucchi del mestiere, ma non comprende una seria pratica di riflessività sistematica. In altri casi, vediamo all’opera una “collegialità indotta”, imposta dalle istanze amministrative, legislative o dirigenziali, caratterizzata da procedure formali e burocratiche, in cui vengono date definizioni precise dell’attività di insegnamento e delle interazioni professionali»64.

Pertanto, appare sempre più urgente formarsi alla relazione educativa e, quindi, disporre di una competenza socio-relazionale che permetta la gestione della complessità delle relazioni interpersonali a scuola. Non, dunque, una competenza improvvisata o soltanto dipendente dalla propria predisposizione a comprendere l’altro, ma una competenza che si forma attraverso la gestione e il monitoraggio dell’azione educativa per mezzo di dispositivi riflessivi. In questa prospettiva, gli insegnanti ripensano e ricalibrano, nel corso dell’azione, il 64

M.G. Riva, “Professionalità riflessiva e relazionale dell’insegnante”, cit., p.

211.

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L’inclusione e il mondo della scuola

loro agire al fine di relazionarsi in modo critico e propositivo con tutti i soggetti coinvolti nell’azione educativa. Quanto detto ci permette di evidenziare come l’insegnante di sostegno debba possedere una “spiccata” competenza socio-relazionale per garantire reali processi di inclusione dell’allievo disabile. Deve, infatti, essere capace di costruire una rete di relazioni educative significative e durature, promuovendo «il valore del luogo di lavoro come contesto di apprendimento “sostanziale”, come luogo di costruzione di sapere esperenziale»65: come luogo che accoglie la diversità (di pensiero, di storie e di corpi), che ha consapevolezza delle sue risorse, delle sue possibiltà e dei suoi vincoli. Ciò può prevalentemente compiersi «[…] mediante l’interazione sociale, partecipando a una comunità professionale facendosi soggetti attivi di una comunità di pratiche, cooperando, condividendo esperienze e saperi, pratiche e idee, scambiando dati e informazioni, narrando e ascoltando vicende, osservando con “gli occhi degli altri”, discutendo, interpretando gli accadimenti, ponendo problemi e proponendo soluzioni, con la consapevolezza che la competenza collettiva sta progressivamente configurandosi come il capitale capace di produrre il più alto valore aggiunto»66.

È, infatti, all’interno di tale contesto che l’insegnante di sostegno (e non solo) può costruirsi ed esercitare la sua competenza sociorelazionale, fatta di «capacità di ascolto, di empatia professionale e personale, di riconoscimento della dignità professionale dell’altro, di mediazione, di sostegno, di decisione e di problem solving, di soluzione di conflitti, di comunicazione e di assertività costruttiva»67. Dentro e fuori l’aula, attraverso una visione sistemica di interdipendenza reciproca tra soggetti e contesti, l’insegnante di sostegno, deve configurarsi come un mediatore riflessivo, attento e disponibile a individuare le potenzialità e le difficoltà dell’allievo disabile, della famiglia, della comunità scolastica in cui lavora e del territorio circostante, capace di negoziare i diversi punti di vista per realizzare una proficua relazione

65 B. Rossi, L’organizazzione educativa. La formazione nei luoghi di lavoro, Roma: Carocci, 2011, p. 130. 66 Ibidem. 67 Cfr. D. Ianes, “La formazione dell’insegnante di sostegno” in www.darioianes. it/articolo11.

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L’insegnante di sostegno per una cultura dell’inclusione e del benessere 161

educativa. Si tratta, naturalmente, di costruire un sistema di inclusione scolastica e sociale di non facile attuazione perchè il disagio e la sofferenza dell’allievo e della sua famiglia, e le differenti epistemologie degli attori coinvolti (colleghi, dirigenti scolastici, operatori sanitari, ecc.), giocano un ruolo determinante.

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Competenza progettuale, didattica e metodologica Nel campo delle scienze dell’educazione, e particolarmente in quello dell’insegnamento-apprendimento, la logica della progettazione ha sostituito la logica dello spontaneismo. Progettare implica un’attenzione continua alla costruzione di percorsi di sviluppo che tengano conto dei problemi/bisogni educativi della realtà in cui si opera, delle risorse umane (docenti, famiglia, operatori culturali ecc.), di quelle strutturali (legislazione, agenzie e spazi formativi ed educativi ecc.) e di quelle strumentali (mezzi, sussidi, materiali, ecc.)68. In tal senso, progettare in ambito educativo significa sia dare ascolto ai problemi e alle esigenze che nascono dalla pratica, sia aprire uno spazio di confronto dialettico e costruttivo tra coloro che si occupano della formazione dei soggetti al fine di programmare degli interventi adeguati. Pertanto, la competenza progettuale, che diventa centrale nella formazione di tutti gli insegnanti e in particolare dell’insegnante di sostegno, ha in sé elementi di indagine, di interconnessione e di emancipazione dei soggetti e dei contesti, ed entra in gioco quando si attivano azioni rivolte alla programmazione degli interventi educativi e formativi. L’insegnante di sostegno, come già precedentemente ribadito, non è (e non deve esserlo!) l’unico responsabile della programmazione degli interventi educativi, ma diventa interprete e garante delle esigenze dell’alunno disabile al fine di definire il progetto di vita aderente alla sua realtà emotiva e socio-cognitiva. In particolare, l’insegnante di sostegno deve programmare le attività didattiche considerando i «quattro livelli o punti di vista della progettazione»69: il livello pragmatico, il livello valutativo, il livello sperimentale e il livello della ricerca. 68 Cfr. V. Sarracino (a cura di), Progettare la formazione, Lecce: Pensa Multimedia, 1997. 69 Ivi, p. 26.

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L’inclusione e il mondo della scuola

Nello specifico, «il livello pragmatico garantisce la base della operatività, quello valutativo sancisce e ne validifica il percorso, quello sperimentale ne assicura la dinamicità e il cambiamento, quello della ricerca, infine, ne assicura la coerenza interna e la validità del prodotto (per efficienza ed efficacia raggiunte)»70. Dunque, considerando quanto detto, nella stesura del Profilo Dinamico Funzionale71 l’insegnante

70

Ibidem (corsivo aggiunto). «Ai sensi dell’art. 12, comma 5, della legge n. 104 del 1992, il profilo dinamico funzionale è atto successivo alla diagnosi funzionale e indica in via prioritaria, dopo un primo periodo di inserimento scolastico, il prevedibile livello di sviluppo che l’alunno in situazione di handicap dimostra di possedere nei tempi brevi (sei mesi) e nei tempi medi (due anni). Il profilo dinamico funzionale viene redatto dall’unità multidisciplinare di cui all’art. 3, dai docenti curriculari e dagli insegnanti specializzati della scuola, che riferiscono sulla base della diretta osservazione ovvero in base all’esperienza maturata in situazioni analoghe, con la collaborazione dei familiari dell’alunno. 2. Il profilo dinamico funzionale, sulla base dei dati riportati nella diagnosi funzionale, di cui all’articolo precedente, descrive in modo analitico i possibili livelli di risposta dell’alunno in situazione di handicap riferiti alle relazioni in atto e a quelle programmabili. 3. Il profilo dinamico funzionale comprende necessariamente: a) la descrizione funzionale dell’alunno in relazione alle difficoltà che l’alunno dimostra di incontrare in settori di attività; b) l’analisi dello sviluppo potenziale dell’alunno a breve e medio termine, desunto dall’esame dei seguenti parametri: b.1) cognitivo, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione al livello di sviluppo raggiunto (normodotazione; ritardo lieve, medio, grave; disarmonia medio grave; fase di sviluppo controllata; età mentale, ecc.), alle strategie utilizzate per la soluzione dei compiti propri della fascia di età, allo stile cognitivo, alla capacità di usare, in modo integrato, competenze diverse; b.2) affettivo-relazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili rispetto all’area del sé, al rapporto con gli altri, alle motivazioni dei rapporti e dell’atteggiamento rispetto all’apprendimento scolastico, con i suoi diversi interlocutori; b.3) comunicazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione alle modalità di interazione, ai contenuti prevalenti, ai mezzi privilegiati; b.4) linguistico, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione alla comprensione del linguaggio orale, alla produzione verbale, all’uso comunicativo del linguaggio verbale, all’uso del pensiero verbale, all’uso di linguaggi alternativi o integrativi; b.5) sensoriale, esaminato, soprattutto, in riferimento alle potenzialità riferibili alla funzionalità visiva, uditiva e tattile; b.6) motorio-prassico, esaminato in riferimento alle potenzialità esprimibili in ordine alla motricità globale, alla motricità fine, alle prassie semplici e complesse e alle capacità di programmazione motorie interiorizzate; b.7) neuropsicologico, esaminato in riferimento alle potenzialità esprimibili riguardo alle capacità mnesiche, alla capacità intellettiva e all’organizzazione spazio-temporale; b.8) autonomia, esaminata con riferimento alle potenzialità esprimibili in relazione

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di sostegno, tenendo conto delle indicazioni date dal modello “biopsicosociale”, dal modello ICF dell’OMS, dal Capability Approach e dal modello di inclusione sociale, in concerto con la famiglia, con i colleghi e gli altri professionisti coinvolti, parte dall’esistente, identifica il possibile dell’allievo, e, succesivamente, nella stesura, realizzazione e verifica del Piano Educativo Individualizzato (PEI)72, definisce e

all’autonomia della persona e all’autonomia sociale; b. 9) apprendimento, esaminato in relazione alle potenzialità esprimibili in relazione all’età prescolare, scolare (lettura, scrittura, calcolo, lettura di messaggi, lettura di istruzioni pratiche, ecc.). 4. In via orientativa, alla fine della seconda elementare, della quarta elementare, alla fine della seconda media, alla fine del biennio superiore e del quarto anno della scuola superiore, il personale di cui agli articoli precedenti traccia un bilancio diagnostico e prognostico finalizzato a valutare la rispondenza del profilo dinamico funzionale alle indicazioni nello stesso delineate e alla coerenza tra le successive valutazioni, fermo restando che il profilo dinamico funzionale è aggiornato, come disposto dal comma 8 dell’art. 12 della legge n. 104 del 1992, a conclusione della scuola materna, della scuola elementare, della scuola media e durante il corso di istruzione secondaria superiore» (Presidente della Republica 24 febbraio 1994, Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap, art. 4). 72 «1. Il Piano educativo individualizzato (indicato in seguito con il termine P.E.I.), è il documento nel quale vengono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra di loro, predisposti per l’alunno in situazione di handicap, in un determinato periodo di tempo, ai fini della realizzazione del diritto all’educazione e all’istruzione, di cui ai primi quattro commi dell’art. 12 della legge n. 104 del 1992. 2. Il P.E.I. è redatto, ai sensi del comma 5 del predetto art. 12, congiuntamente dagli operatori sanitari individuati dalla USL e/o USSL e dal personale insegnante curriculare e di sostegno della scuola e, ove presente, con la partecipazione dell’insegnante operatore psico-pedagogico, in collaborazione con i genitori o gli esercenti la potestà parentale dell’alunno. 3. Il P.E.I. tiene presenti i progetti didattico-educativi, riabilitativi e di socializzazione individualizzati, nonché le forme di integrazione tra attività scolastiche ed extrascolastiche, di cui alla lettera a), comma 1, dell’art. 13 della legge n. 104 del 1992. 4. Nella definizione del P.E.I., i soggetti di cui al precedente comma 2, propongono, ciascuno in base alla propria esperienza pedagogica, medico-scientifica e di contatto e sulla base dei dati derivanti dalla diagnosi funzionale e dal profilo dinamico funzionale, di cui ai precedenti articoli 3 e 4, gli interventi finalizzati alla piena realizzazione del diritto all’educazione, all’istruzione ed integrazione scolastica dell’alunno in situazione di handicap. Detti interventi propositivi vengono, successivamente, integrati tra di loro, in modo da giungere alla redazione conclusiva di un piano educativo che sia correlato alle disabilità dell’alunno stesso, alle sue conseguenti difficoltà e alle potenzialità dell’alunno comunque disponibili» (Ivi, art. 5).

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ridefinisce gli obiettivi, i percorsi e i criteri di verifica e di valutazione73 degli stessi in funzione di un’ipotesi di cambiamento educativo, formativo, culturale, e, quindi, sociale dell’allievo. Di fatto, il PEI deve concepirsi come modulare e flessibile e cioè contenere in sé la capacità di continua ricalibrazione, per rispondere alle esigenze socio-culturali dell’allievo disabile ed essere connesso alle attività del gruppo classe e dell’intera comunità scolastica. Nessun Piano Educativo Individualizzato, così come nessun intervento educativo, infatti, può prefiggersi un buon esito se non attivando uno “sguardo prospettico” sul futuro, che coniuga, quindi, tale micro programmazione al complesso “progetto di vita adulta” dell’allievo disabile. Tutto ciò evidenzia come la complessità e il pluralismo degli attuali bisogni educativi e formativi che caratterizzano i contesti scolastici rilevano la necessità di verificare e ridefinire processualmente l’impianto didattico e metodologico dell’insegnante di sostegno. Quest’ultimo, a partire da conoscenze teoriche sui processi cognitivi, metacognitivi ed emotivi coinvolti nella relazione di insegnamento-apprendimento, sulle dinamiche di gruppo e sulle relative problematiche pedagogiche, psicologiche e sociologiche, deve necessariamente riferirsi a «una forte cornice metodologica generale, in cui inscrivere, dare senso e sperimentare una ricca pluralità di metodi, interventi, materiali, tecniche educative e didattiche»74. Secondo D. Ianes, tale cornice per «essere fortemente generativa di scelte, decisioni e orientamenti a livello di specifici metodi»75 deve:  dare prelazione al funzionamento attuale e non all’eziologia dei deficit;  considerare il funzionamento globale del soggetto (ovvero far riferimento al modello ICF dell’OMS 2000);  costruire la «speciale normalità»76 attraverso, ad esempio, l’ap-

73

Cfr. D. Ianes, “La formazione dell’insegnante di sostegno”, cit.. Ibidem. 75 Ibidem. 76 «Nella scelta e nell’applicazione di metodi, materiali, mediatori e situazioni didattiche, l’orientamento della “speciale normalità” privilegia quelle più vicine alla normalità rispetto a soluzioni speciali-separanti e ci stimola contemporaneamente ad arricchire di aspetti tecnici le abituali prassi della normalità che senza 74

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prendimento in gruppi cooperativi, il tutoring, l’adattamento e la semplificazione dei libri di testo, ecc.77.

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Sul piano didattico e metodologico questo si traduce nel superamento della logica del sostegno individuale, esclusivo e separato dal gruppo classe, data da una concezione riduttiva della didattica differenziata, a favore di una didattica inclusiva, caratterizzata da «costanti adattamenti»78 nei mezzi, nelle strategie, negli strumenti e nei linguaggi, quindi negoziata, condivisa e valorizzata da tutti gli insegnanti al fine di:  assicurare l’efficacia e l’efficienza dei processi educativi e formativi anche in assenza dell’insegnante di sostegno79;  fondare la propria pratica educativa sulla necessità di «assumere la complementarietà e l’intercambiabilità dei ruoli a fondamento del lavoro collaborativo»80. Secondo quanto detto, l’insegnante di sostegno, in quanto mediatore riflessivo:  legge i fenomeni educativi in maniera complessa;  facilita l’integrazione tra le competenze di carattere generale dei diversi ambiti disciplinari con le tematiche relative alla disabilità;  sollecita e condivide strategie e approcci didattici in funzione della diversità dei soggetti tutti. In conclusione, la formazione e l’esercizio della competenza progettuale, didattica e metodologica consentono di sostenere e orientare la pratica educativa attraverso un percorso a tappe, non rigido, che tenga conto degli esiti valutativi in ingresso e in itinere al fine di tracciare ulteriori percorsi di sviluppo e di inclusione.

questi “innesti” tecnici non sarebbero in grado di rispondere adeguatamente alla specialità dei bisogni» (Ibidem). 77 Cfr. D. Ianes, La speciale normalità. Strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i Bisogni Educativi Speciali, Trento: Erickson, 2006. 78 Ivi, pp. 51-65. 79 Pensiamo al caso in cui l’alunno con disabilità usufruisce solo per alcune ore dell’insegnante di sostegno. 80 P. Gaspari, P. Sandri, Inclusione e diversità. Teorie e itinerari progettuali per una rinnovata didattica speciale, Milano: FrancoAngeli, 2010, p. 87.

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Competenza normativa, istituzionale e di documentazione/ricerca Se è vero che la costruzione della propria identità professionale non può prescindere da un’analisi diacronica e sincronica del contesto normativo e istituzionale in cui si agisce, questo è ancor più vero per l’insegnante specializzato al sostegno il quale è chiamato a confrontarsi quotidianamente con i professionisti che agiscono all’interno delle organizzazioni e strutture formali, non formali e informali di differente tipologia (famiglia, servizi sociali, servizi sanitari, centri specializzati, centri sportivi, associazioni, ecc.). Per tale motivo è richiesto all’insegnante di sostegno di conoscere e padroneggiare norme e disposizioni relative ai temi dello svantaggio sociale e della disabilità in ambito europeo e internazionale e al processo di integrazione/inclusione di soggetti con disabilità e/o di soggetti con Bisogni Educativi Speciali nel sistema scolastico italiano. La conoscenza delle diverse norme e disposizioni, infatti, permette all’insegnante di sostegno di integrare le risorse e le potenzialità di ogni organizzazione e struttura che partecipa al progetto di vita dell’allievo con disabilità. Permette, quindi, di realizzare una rete integrata delle opportunità educative81 presenti sul territorio, di intervenire sul piano istituzionale82, per costruire una integrazione tra le varie agenzie intenzionalmente formative, e sul piano culturale83 per costruire un modello formativo condiviso che implichi una relazione tra il curricolo esplicito e il curricolo implicito dell’allievo con disabilità. Tale competenza si coniuga con una contiuna e attenta attività di documentazione e di ricerca sullo scenario nazionale e internazionale relativo ai propri campi d’indagine e di intervento per progettare e attivare politiche integrate e interventi mirati a una partecipazione sociale e culturale delle organizzazioni e delle strutture coinvolte.

81

F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Introduzione alla pedagogia generale, Roma: Laterza, 2003, p. 227. 82 Ivi, p. 202. 83 Ibidem.

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L’insegnante di sostegno per una cultura dell’inclusione e del benessere 167

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3. Nuove prospettive: l’insegnante di sostegno come agente di benessere e inclusione. Lungo il nostro percorso, a partire dal dibattito scientifico in atto e dalle problematiche che emergono dai contesti di pratica quotidiana, abbiamo cercato di tracciare il profilo professionale dell’insegnante specializzato al sostegno e all’integrazione/inclusione scolastica di alunni disabili e/o di alunni con Bisogni Educativi Speciali. Senza pretesa di esaustività, si sono individuate delle aree di competenza specifica che solo per comodità espositiva si sono presentate divise, ma che nella realtà dei fatti sono intrecciate e dipendenti le une dalle altre. Quello tracciato è un profilo che, come abbiamo visto, si costruisce: – attraverso processi di riflessione nelle e sulle esperienze di pratica, proprie e altrui; – attraverso la comprensione e trasformazione del proprio curriculum; – attraverso la negoziazione degli obiettivi, dei percorsi e dei criteri di verifica e di valutazione; – attraverso la partecipazione a una “comunità di pratiche” in cui si condividono repertori, linguaggi, azioni, memorie e strumenti; – attraverso la condivisione di norme, disposizioni e metodologie. È un profilo, questo, che prende forma dall’intreccio tra il sé personale e il sé professionale84, dalla capacità del professionista di mettere a fuoco, attraverso una visione binoculare85, due realtà complesse e interagenti: l’una che fa riferimento a se stessi, alla propria posizione epistemica; l’altra che fa riferimento ai propri allievi con disabilità e al loro contesto di appartenenza. Un’identità professionale, quindi, che si forma a partire dal sapere personale, che focalizza la sua attenzione sulle “prospettive di significato”, che «intreccia elementi sociali, culturali, politico-istituzionali con l’esperienza di chi vive la disabilità»86, e che intercetta e fa propri:

84

Cfr. L.Fabbri, M. Striano, C. Melacarne, L’insegnante riflessivo. Coltivazione e trasformazione delle pratiche professionali, cit., p. 74. 85 Cfr. D. Izzo, Manuale di pedagogia sociale, Bologna: Clueb, 1997. 86 E. Ghedin, Ben-essere disabili. Un approccio positivo all’inclusione, cit., p. 45.

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– il modello teorico di approccio alla disabilità definito “biopsicosociale”; – il modello della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute; – il modello del Capability Approach; – il modello dell’ inclusione sociale. Come è emerso, fare propri tali modelli significa, per l’insegnante di sostegno, porre l’attenzione sugli aspetti sociali della disabilità, significa muoversi secondo traiettorie pedagogiche che pongono al centro di ogni intervento la relazione interdipendente fra il soggetto e i contesti di appartenenza, significa riconoscere la diversità umana e rielaborare i concetti di menomazione e disabilità in termini di funzionamenti e capacità, significa, quindi, investire le risorse umane, professionali e contestuali nella promozione e nello sviluppo di processi sociali includenti. Si tratta di porre particolare attenzione allo sviluppo delle conoscenze, delle reti relazionali e dei contesti educativi e formativi (formali, non formali e informali). Ciò permette di leggere i reali bisogni dei singoli e delle comunità e mettere a fuoco gli obiettivi per la realizzazione di un progetto educativo negoziato e poi condiviso da tutti gli attori coinvolti (alunno con disabilità, famiglia, insegnanti, dirigente scolastico, operatori scolastici e operatori sanitari). In questa direzione, l’insegnante di sostegno «sposta il focus di intervento dalla persona al contesto e alla capacità di quest’ultimo di rispondere alle differenze»87, rispondendo alla logica inclusiva che per sua natura fa leva sull’impegno teorico-pratico di mettere in relazione i bisogni sociali emergenti con i bisogni di formazione e di partecipazione alla vita sociale e politica di tutti i cittadini88. Tali considerazioni ci restituiscono: 1) l’idea di un contesto di pratica che non presenta semplicemente delle risorse specializzate (razionalità tecnica), ma che ricerca, attraverso dispositivi riflessivi, la partecipazione di tutti (razionalità riflessiva) al fine di garantire risposte adeguate al singolo; 2) l’idea di un insegnante di sostegno che supera la logica dell’integra87 S. Fiorentino, “Integrazione e inclusione sociale: modelli a confronto”, in M. Striano (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, cit., p. 47. 88 Cfr. M. Striano (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, cit.

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zione «che si caratterizza come risposta alla specificità dei bisogni attraverso interventi e risorse specializzate»89 e adotta la logica dell’inclusione, che dunque «si fa carico di una prospettiva più ampia di intevento, finalizzato ad accrescere la capacità del contesto di promuovere il livello generale di partecipazione sociale nella consapevolezza sempre più condivisa che una società che esclude parte dei suoi membri sia una società impoverita nel patrimonio delle risorse umane ed economiche»90. Si determinano così le condizioni per costruire una professionalità docente che esercita una funzione di conoscenza, comprensione e trasformazione dei processi e dei contesti educativi adottando metodi: «descrittivi (rivolti cioè a cogliere le caratteristiche più evidenti – e superficiali – delle realtà prese in considerazione, facendo attenzione soprattutto alle loro continue modificazioni); interpretativi (rivolti a cogliere il senso che certi fenomeni sociali hanno sia per coloro che li vivono direttamente sia per coloro che li studiano: dunque i loro vissuti e le loro visioni del mondo); costruttivi (rivolti ad individuare – e talvolta a sperimentare – possibili linee di intervento concreto od operative aventi per scopo quello di migliorare le condizioni sociali in cui gli eventi educativi si concretizzano)»91 con l’obiettivo di rispondere adeguatamente alla complessità e alla pluralità dei bisogni formativi, speciali e non, degli alunni. In questo modo l’insegnante specializzato al sostegno può ricercare le coordinate pedagogico-didattiche per orientare l’educazione e la formazione in funzione del ben-essere92 dei soggetti e dei contesti sociali e culturali di appartenenza. In quanto fenomeno complesso, il ben-essere di un soggetto «scaturisce dalla risultante dell’integrazione tra i sistemi biologico, psichico, sociale; esso infatti dipende non solo dal corretto funzionamento

89 S. Fiorentino, “Integrazione e inclusione sociale: modelli a confronto”, cit., p. 43. 90 Ibidem. 91 P. Bertolini, “La pedagogia sociale: linee di interpretazione”, in V. Sarracino, M. Striano (a cura di), La pedagogia sociale. Prospettive di indagine, Pisa: Edizioni ETS, 2001, p. 127. 92 E. Ghedin, Ben-essere disabili. Un approccio positivo all’inclusione, cit.

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di organi e di apparati vitali, ma soprattutto dagli stili di vita e di lavoro, dal tempo libero, dalla condizione dell’ambiente e dalla qualità dei contesti»93.

Per questo motivo, quindi, il ben-essere diviene un contenuto sostanziale dei processi e dei contesti educativi includenti. A partire da questa cornice di riferimento, l’insegnante di sostegno diviene una figura chiave in quanto agente di benessere e agente di inclusione che ha cura, dunque, della crescita cognitiva, affettiva e sociale dell’allievo con disabilità e che assume l’impegno di «sviluppare contesti educativi accoglienti, che prendano in considerazione le differenze (culturali o di altro tipo) e le diverse esigenze di cui sono portatrici»94. Allora, attraverso la costruzione e la gestione di una relazione educativa, capace di attuare una reale trasformazione dell’esistente, l’insegnante di sostegno progetta il “possibile” e attiva percorsi educativi volti al ben-essere degli alunni con disabilità. Questo significa aiutare tutti gli allievi:  a “imparare a stare meglio”, «disancorando sempre di più il significato di ben-essere da aspetti meramente quantitativi e legandolo sempre più a significati qualitativi […]»95;  a vivere la propria esperienza formativa tenendo conto delle proprie e delle altrui possibilità, interessi e attitudini96;  a conoscere e comprendere meglio il mondo in cui si vive;  ad affrontare e superare le situazioni di crisi attraverso strategie di coping;  ad accrescere la propria consapevolezza ed autostima;  a pensarsi e a viversi come attori che agiscono con e per gli altri;  a comprendere la specificità e unicità biologica, cognitiva e affettiva di ogni individuo;  a progettare possibili percorsi per il proprio futuro. In questa direzione, si comprende come sia l’intero sistema educativo a essere chiamato in causa per avviare una formazione al ben93

Ivi, p. 13. S. Oliverio, “L’inclusione interculturale come frontiera educativa”, in M. Striano (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, cit., p. 58. 95 E. Ghedin, Ben-essere disabili. Un approccio positivo all’inclusione, cit., p. 158. 96 Ivi, p. 160. 94

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essere di e per tutti. Quest’ultima diventa allora mezzo e fine di una società inclusiva. Insegnare a progettare il proprio ben-essere diventa allora una «delle emergenze del nostro tempo»97. In un tempo in cui si vive il ben-essere come possesso di beni, diventa necessario pensare e organizzare percorsi e dispositivi inclusivi che aiutino i soggetti ad esprimere una «progettualità esistenziale»98, a comprendere il proprio sé per padroneggiare al meglio i propri vincoli e darsi sempre ulteriori possibilità. In tale ottica, l’insegnante di sostegno, assume un impegno complesso: quello di avere uno sguardo sensibile, che colga e accolga l’altro con le sue differenze e che lo aiuti a intraprendere percorsi di ben-essere che non trascurino elementi esperienziali e contestuali. Un insegnante di sostegno che si qualifica come agente di benessere e agente di inclusione attiva, dunque, procedure cognitive di tipo riflessivo che gli consentano di riconoscere la peculiarità dell’esperienza dell’allievo con disabilità mettendola in relazione con le possibilità e le risorse date dai contesti in cui si vive. Pertanto, la consapevolezza da parte dell’insegnante di sostegno della propria esperienza metacognitiva diventa centrale per la costruzione di contesti inclusivi e percorsi di ben-essere. L’esperienza metacognitiva, infatti, consente ai soggetti di attivare procedure cognitive volte alla conoscenza del funzionamento della propria mente, delle proprie strategie e teorie di riferimento, delle proprie disposizioni affettive, di monitorare le proprie azioni per poi valutarne il risultato, modificando i propri comportamenti e le proprie conoscenze. Si comprende, quindi, come sul piano pedagogico diventi fondamentale riconoscere e rendere significativa e condivisa l’esperienza metacognitiva dell’insegnante di sostegno. È, infatti, solo attraverso il riconoscimento e la condivisione della propria esperienza metacognitiva all’interno della comunità scolastica che l’insegnante di sostegno può assumere un ruolo non più secondario e farsi promotore di percorsi formativi di ben-essere volti all’inclusione di tutti gli allievi. Sul piano operativo questo si traduce nell’organizzazione di occasioni formative in funzione metacognitiva che coinvolgano i dirigenti, gli insegnanti di sostegno, gli insegnanti curricolari e gli operatori scolastici al fine di dare inizio ad una cultura del ben-essere e dell’inclusione.

97 98

Ivi, p. 157. Ivi, p. 158

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Ciò, ovviamente, richiede centrare il focus di intervento sui diversi elementi che entrano a far parte dell’organizzazione di quei contesti educativi che operano allo scopo di far emergere competenze metacognitive. L’azione pedagogica, sarà, quindi, orientata ad individuare «a) le caratteristiche cognitive, socio-affettive e motivazionali dei diversi soggetti a vario titolo implicati in un particolare contesto; b) le strutture di conoscenza – e in particolare di conoscenza metacognitiva – e i saperi di cui i soggetti in questione sono portatori; c) le strutture di conoscenza e i saperi che connotano in modo peculiare l’ambito socio-culturale in cui si dà uno specifico contesto di formazione; d) la struttura di una definita configurazione ambientale e gli spazi in cui si articola; e) le risorse, i materiali e gli strumenti di cui si fa uso»99.

Quanto detto ci permette di specificare come l’intervento pedagogico dell’insegnante specializzato al sostegno, che veste e fa propri i panni di agente di benessere e agente di inclusione, sia finalizzato, quindi, alla mediazione e all’interazione tra le “parti” in gioco. In altri termini, l’acquisizione di competenze riflessive, epistemologiche, socio-relazionali, progettuali, didattiche, metodologiche, normative, istituzionali, e di documentazione/ricerca permetteranno all’insegnante specializzato di attivare una trasformazione (e in alcuni casi trattasi di una vera e propria rivoluzione!) del ruolo finora svolto nell’attuale sistema scolastico, promuovendo la consapevolezza dell’interazione tra forze culturali, locali e personali100 presenti e operanti nella comunità scolastica. La consapevolezza che tali forze danno «forma alle attività cognitive e alle abilità di tutti i soggetti implicati […] e producono significativi cambiamenti […]»101 e che «l’interazione tra esse definiscono l’efficacia o il fallimento delle azioni educative»102, consentiranno, infatti, di ridefinire volta per volta i comportamenti, le azioni e le strategie didattiche dell’intero team docente. Pertanto, secondo questa 99

F. Santoianni, M. Striano, Immagini e teorie della mente. Prospettive pedagogiche, Roma: Carocci, 2000, pp. 78-79. 100 «Hatch e Gardner (1993) rappresentano i processi cognitivi come contestualmente situati e propongono un modello concentrico della cognizione, che si gioca in relazione a forze culturali (istituzioni, pratiche, credenze), forze locali (vincoli fisici e sociali), forze personali (tendenze ed esperienze personali)» (Ivi, pp.77-86). 101 Ivi, p. 78. 102 Ibidem.

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prospettiva, l’insegnante di sostegno non è più ai margini del sistema scolastico ma è parte attiva di questo, anzi si rivela centro propulsore di cambiamento, di benessere e di inclusione perchè organizza intorno a sé un contesto fatto di soggetti e relazioni, mette in gioco competenze individuali e di gruppo, costruisce un nuovo contesto di pratica, utilizza il costrutto della relazione per accedere all’altro, coltiva la dimensione della ricerca e della trasformazione e favorisce, quindi, la formazione di gruppi di apprendimento-lavoro. Questi ultimi sono lo strumento principe per «verificare l’adesione della proposta formativa alla realtà, coordinare l’attività didattica ai fini di una realizzazione coerente del tutto e delle parti, affidare ai singoli operatori della formazione i vari segmenti cooperativi, garantire la socializzazione dei risultati (tra fomatori, genitori e alunni)»103 e diventano occasioni per conoscere e comprendere la complessità della realtà educativa (speciale e non), per riflettere sulle proprie posizioni epistemiche, per negoziare e co-costruire nuovi significati e nuove alleanze pedagogiche. Quindi, la ricerca di tempi e luoghi per entrare in relazione con i propri alunni con disabilità e con le organizzazioni e strutture formali, non formali e informali coinvolte, diventa l’obiettivo pedagogico del suo agire educativo. Dunque, condividere e confrontarsi sulle difficoltà e sulle potenzialità degli alunni con disabilità o con Bisogni Educativi Speciali, attraverso l’utilizzo di gruppi di apprendimento-lavoro, consente all’insegnante di sostegno di realizzare un terreno condiviso su cui rimodulare volta per volta i comportamenti, le strategie e le prassi educative di tutti i professionisti coinvolti. Tale approccio rimanda, ovviamente, a una costante attività di ricerca-azione, intesa come indagine condotta sul campo che prende forma a partire dall’esperienza come oggetto di ricerca e dalla stretta collaborazione tra i soggetti che partecipano al progetto di vita, speciale e non, degli allievi e che ha, pertanto, lo scopo di provocare cambiamenti nel contesto in cui è attivata. A tal proposito, e in prospettiva più ampia, l’attenzione dell’insegnante di sostegno deve promuovere anche e soprattutto l’acquisizione delle life skills, ossia quelle specifiche abilità di vita che «sostegono il perseguimento dello sviluppo personale di colui che apprende, lo aiutano a svelare

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V. Sarracino (a cura di), Progettare la formazione, cit, p. 32.

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il proprio potenziale, e godere di una vita personale, professionale e sociale realizzata»104. Quest’ultimo aspetto induce la necessità di una attenzione strategica alla categoria della formazione intesa come risorsa che accompagna per tutta la vita il soggetto e che ha dunque lo scopo di generare in quest’ultimo la capacità di “apprendere ad apprendere” in più luoghi e in più tempi, di interpretare la complessità dei fenomeni del mondo, di sostenere l’imprevedibilità degli eventi, di acquisire un agire riflessivo e critico, di fare scelte consapevoli che tengano conto delle proprie possibilità, di gestire le emozioni, di lavorare in gruppo, ecc. Ciò significa che l’insegnante di sostegno si definisce ulteriormente come un progettista di ambienti formativi includenti e attivatore di cambiamento, mettendo in discussione l’attuale ruolo e profilo professionale, perché costruisce e adotta un modello d’insegnamento che fa leva su una serie di fattori sociali, culturali e ambientali che influenzano in modo positivo le relazioni tra i soggetti adulti e quelli in formazione, non trascurando che «un’efficace acquisizione e applicazione delle abilità di vita può influenzare il modo in cui ci sentiamo circa noi stessi e gli altri, e allo stesso modo influenzerà il modo in cui siamo percepiti dagli altri»105. In questa direzione, un’esperienza scolastica di cura e di ben-essere, quindi un’esperienza di vita inclusiva, contribuirà alla costruzione di un’identità positiva di tutti gli alunni e in particolar modo degli alunni con disabilità. Si delinea, pertanto, il profilo di un professionista che costruisce ambienti di apprendimento collaborativo e piani di operatività, nei quali si incontrano, si scambiano, si trasformano saperi, pratiche, linguaggi, repertori, codici, modalità cognitive/affettive differenti, per sperimentare e generare conoscenze e competenze nuove. In termini operativi questo si traduce nella negoziazione di coordinate pedago-

104

Scrive Ghedin: «Nella Conferenza Mondiale sull’Educazione per Tutti tenutasi a Jomtien nel 1990, viene sollevata l’importanza di insegnare abilità che siano particolarmente rilevanti per la vita attuale. Dieci anni dopo, a Dakar, sono stati definiti i quattro pilastri dell’educazione richiesti per assicurare un’educazione di qualità nel lungo termine, imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere con gli altri, imparare ad essere» (E. Ghedin, Ben-essere disabili. Un approccio positivo all’inclusione, cit., p. 162). 105 Ibidem.

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gico-didattiche per la progettazione di percorsi educativi e formativi dove vi è una lettura e analisi dei bisogni, delle risorse e delle potenzialità degli alunni, dove vengono esplicitati in modo chiaro per tutti (alunni, famiglie e insegnanti) gli obiettivi cognitivi e relazionali (a breve, medio e lungo termine), le metodologie, i tempi, gli strumenti, i materiali, le tecniche (es. lavoro individuale, lavoro di gruppo), i criteri di valutazione e verifica. In questo modo si abbandona l’idea di “un’insegnante di serie B”, che purtroppo appare ancora come una “nota” dell’attuale contesto scolastico, e si concretizza l’idea di un insegnante specializzato al sostegno come risorsa di sistema, che incrementa processi di inclusione e di ben-essere per tutti i soggetti implicati, che pertanto va incontro alle nuove e complesse realtà educative e progetta insieme agli altri professionisti, garantendo l’integrazione tra risorse umane (famiglia, insegnanti, operatori socio-sanitari, ecc.), azioni (della famiglia e dei contesti formali, non formali e informali) e obiettivi (formativi, educativi, riabilitativi, ecc.).

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L’inclusione scolastica secondo la prospettiva dei diritti umani

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di Emilia Napolitano

All’indomani della II Guerra Mondiale, con l’emanazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, la cultura dei Diritti Umani è diventata progressivamente il paradigma su cui ricostruire il tessuto delle relazioni tra gli esseri umani, i popoli, gli Stati, rappresentando la base concreta da cui partire per valutare e monitorare le politiche e i sistemi istituzionali nel rispetto delle libertà individuali e dei diritti delle persone. Anche il movimento mondiale delle persone con disabilità ha fatto proprio questo modello e ha avviato, in base ad esso, un processo di costruzione di una nuova visione culturale della propria condizione. Una visione non più basata su un modello medico che tende a patologizzare la disabilità, sottolineandone il carattere di tragicità e di ineluttabilità, ma sul modello sociale che valorizza le diversità umane di razza, genere, orientamento sessuale, cultura, lingua, condizione psico-fisica, attraverso le quali la persona che ne è portatrice contribuisce, con la sua peculiarità, alle definizione di una realtà composita. L’approccio alla disabilità, fondato sui diritti umani, è stato sancito da numerosi documenti di istituzioni internazionali (Regole Standard per l’Eguaglianza di opportunità per le Persone con Disabilità, ONU, 1993) ed europee (Carta Sociale Europea, 1996; Dichiarazione di Madrid, 2002), ed è diventato la base delle rivendicazioni per l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità con Protocollo Opzionale, approvata a New York il 13 Dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con la Legge n. 18 del 2009. La Convenzione è un trattato che, a conclusione di un lungo e

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L’inclusione e il mondo della scuola

complesso negoziato tra istituzioni e organizzazioni di persone con disabilità, ha individuato nuovi percorsi per il riconoscimento dei diritti di queste ultime. In particolare, nel preambolo così come nel suo articolato, è un documento che riconosce le persone con disabilità nelle loro diversità e ciò è l’elemento che fa pensare a come la cultura e, con essa, il livello di consapevolezza delle nostre società siano cresciuti rispetto a tali tematiche, sancendo i diritti per la costruzione di un mondo idoneo per tutti. I suoi principi fondamentali sono: il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale e l’indipendenza delle persone; la nondiscriminazione; la piena ed effettiva partecipazione e inclusione all’interno della società; il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana; la parità di opportunità; l’accessibilità; la parità tra uomini e donne; il rispetto per lo sviluppo delle capacità dei bambini con disabilità al fine di preservarne l’identità. Nello specifico di questa trattazione, la nostra attenzione è posta sull’articolo 24 della Convenzione, dedicato all’istruzione, considerata il principale strumento educativo per il pieno sviluppo delle potenzialità, per il rafforzamento delle diversità umane al fine di favorire la piena partecipazione delle persone con disabilità all’interno di una società libera. In Italia, il dibattito sull’integrazione scolastica nasce verso la fine degli anni Settanta ed ancora oggi, pur considerando la forte carenza delle politiche scolastiche adottate dall’attuale governo, il nostro Paese è riconosciuto tra i paesi più avanzati in materia. Il processo di integrazione scolastica delle persone con disabilità favorisce l’idea di un’educazione che personalizza gli apprendimenti di ciascun individuo, concepito nella sua globalità: fisica, intellettuale, affettiva, sociale e spirituale. La relazione educativa è un tipo particolare di relazione d’aiuto, il cui fine è volto al supporto dello sviluppo del sé del soggetto, a partire dalla comprensione delle sue motivazioni, inclinazioni e aspirazioni. In tal senso, ci troviamo di fronte ad un processo in cui insegnante e allievo si pongono in una dimensione di reciprocità, contribuendo ciascuno alla crescita dell’altro. È un’interazione di due identità (alunno/insegnante) che si incontrano non alla pari, ma con pari dignità. Assistiamo al passaggio da una visione meccanicistica e lineare

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L’inclusione scolastica secondo la prospettiva dei diritti umani 181

del sapere e dell’apprendimento ad una relazionale. La prima vede un docente neutrale che sviluppa individui in base a schemi precostituiti, ponendosi come obiettivo ideale il sapere assoluto che viene insegnato attraverso un metodo unico, cioè uguale per tutti, senza tener conto delle differenze degli stili cognitivi e di apprendimento di ciascuno. Veicola un sapere che è soltanto un accumulo di conoscenze (mattoni su mattoni), la cui acquisizione viene verificata sulla base dell’avvicinarsi o allontanarsi dall’obiettivo ideale. La seconda visione vede un docente che, con la sua struttura di personalità e le sue competenze, influenza l’allievo, rimanendone influenzato a sua volta. Gli insegnamenti sono così personalizzati, attraverso metodi che, partendo dalle capacità e caratteristiche del soggetto, mirano allo sviluppo della sua creatività e delle sue potenzialità individuali. La verifica è così relativa al raggiungimento di obiettivi individualizzati. Tale prospettiva è rimarcata proprio nell’art.24 della Convenzione quando al comma 1 parla di potenziale e autostima, due elementi strettamente interconnessi tra loro e fondamentali nella riuscita del percorso scolastico. «Individuare il potenziale è un lavoro di ricerca sulle tracce/manifestazioni della persona, di intuizioni dei segnali, segni apparentemente irrilevanti ma forieri di informazioni sul funzionamento della persona…»1. Ricercare e lavorare sul potenziale di un/a bambino/a e di un/una ragazza/o vuol dire mettere in moto le sue risorse e rafforzare le sue competenze, procedendo a un suo conferimento di potere. «Potere non inteso come dominio sull’altro, ma come rafforzamento di sé, come acquisizione da parte della persona di possibilità di fare e di essere: questo vuol dire possibilità e libertà di interagire con il mondo, possibilità e capacità di scelta, che parte dai limiti esistenti e arriva all’attuazione di potenzialità, attraverso l’utilizzo ottimale di risorse interne, ma anche di risorse esterne, proprie dell’ambiente sociale in cui si vive»2. Questo “accrescere in potere” è detto empowerment. 1 P. Baratella, E. Littamè, I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionale ONU alle buone pratiche, Trento: Erickson, 2009, p. 97. 2 R. Barbuto,V. Ferrarese, G. Griffo, E.Napolitano, G.Spinuso, Consulenza alla pari. Da vittime della storia a protagonisti della vita, Lamezia Terme: Comunità Edizioni, 2005, p. 61

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L’inclusione e il mondo della scuola

Secondo Zimmerman, «l’empowerment non è un tratto immutabile della personalità ma una costruzione dinamica ed evolutiva guidata dal contesto: esso assume forme diverse per persone diverse in contesti diversi»3. È molto importante, quindi, la funzione del maestro/educatore che con le sue competenze didattiche, ma soprattutto relazionali, deve intravedere il potenziale dei suoi alunni e delle sue alunne per incentivarli sul piano emotivo e cognitivo, al fine di consentire uno sviluppo adeguato della loro personalità, delle loro abilità fisiche e mentali, dei loro comportamenti. È noto l’effetto Pigmalione, conosciuto anche come effetto Rosenthal, che definisce la profezia che si autorealizza, il cui assunto di base è così sintetizzato: se gli insegnanti credono che un bambino sia meno dotato lo tratteranno, anche inconsciamente, in modo diverso dagli altri; il bambino interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza. In questo modo, si instaura un circolo vizioso per cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l’insegnante lo aveva immaginato. Nel caso delle persone con disabilità, c’è molto spesso il rischio che questo accada. Il confronto con la realtà, per paura e mancanza di fiducia sia propria sia degli altri, è sempre troppo limitato e perciò esse non riescono a sperimentarsi fino in fondo nelle loro possibilità e capacità, tali da registrare livelli di autostima molto bassi e scarsa motivazione a essere e a fare. In questo modo, esse alimentano la loro consapevolezza di essere persone con incapacità apprese, condizionando le loro prestazioni che talvolta si manifestano più carenti di quanto effettivamente dovrebbero essere. «È importante che le persone siano aiutate nell’incrementare le proprie capacità di passare da una situazione di passività appresa, che determina sentimenti di impotenza di fronte a esperienze alienanti o frustranti, all’apprendimento della speranza, derivata dal sentimento

3 M. Zimmerman, “Empowerment e partecipazione della comunità. Un’analisi per il prossimo millennio”, «Animazione Sociale», anno XXIX, n. 2, 1999, pp. 10-24.

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L’inclusione scolastica secondo la prospettiva dei diritti umani 183

di aumentato controllo sugli eventi, tramite la partecipazione e l’impegno nel proprio contesto di vita»4. Un bambino o una bambina che cresce con una sufficiente autostima facilmente si misura con il nuovo, accetta le sfide e si mette in gioco, grazie proprio a relazioni affettive gratificanti e sicure, capaci di contenere e arginare il bisogno, la paura, l’incertezza proprie delle nuove sperimentazioni. La scuola è fondamentalmente una palestra di vita dove ogni persona trova il suo spazio individuale e sociale di sviluppo e crescita; per questo motivo, il suo contesto, fatto di risorse sia umane sia materiali, deve essere in grado di accogliere ogni tipo di differenza, da quella fisica, a quella psichica, sociale, culturale, razziale, di orientamento sessuale, ecc. È all’interno di essa che viene coltivato il seme della tolleranza verso ogni diversità. Ciò vuol dire predisporsi e prendersi cura della paura che il fronteggiamento di quest’ultima comporta e educare ogni alunno o alunna alla ricerca di soluzioni per abbattere ogni tipo di barriera. All’interno di quest’ottica, si pone l’accomodamento ragionevole, concetto centrale della Convenzione, attraverso cui si veicola un atteggiamento mentale e culturale che esorta a pensare e a praticare soluzioni efficaci e sostenibili in funzione della specificità di un bisogno. Si tratta di soluzioni strutturali che garantiscono alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio di tutti i loro diritti umani e delle libertà fondamentali, su una base di uguaglianza con gli altri. Niente deve essere lasciato alla buona volontà di alcuni, né devono essere fatti interventi caritatevoli! La scuola con i suoi operatori (personale docente e non docente) accanto alla famiglia ha la funzione di sostenere la crescita della persona con disabilità, educandola alla ricerca e all’uso di strategie per affrontare in maniera possibilista gli ostacoli che, altrimenti, possono inevitabilmente generare vissuti di frustrazione. Si tratta di insegnare strategie quotidiane utili a far emergere la personalità dell’individuo con i suoi talenti, non solo con i suoi limiti, e iniziare a costruire su di

4

R. Barbuto,V. Ferrarese, G. Griffo, E.Napolitano, G.Spinuso, Consulenza alla pari. Da vittime della storia a protagonisti della vita, cit., p. 63.

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L’inclusione e il mondo della scuola

essi il suo progetto di vita autonoma, proprio come si fa con una tela che deve essere tessuta. In questo modo, la persona con disabilità si avvia verso un percorso di auto-accettazione portandosi dietro e dentro di sé il senso di accoglienza che la scuola le ha riservato, mostrandosi attenta ai suoi bisogni e al suo diritto ad esserci. Tale accoglienza sarà la stessa che la persona nutrirà nei suoi stessi confronti e nei confronti della sua condizione di disabilità, integrando la propria fisicità come parte di sé senza per questo fare della disabilità l’abito che fa il monaco! Un aspetto di fondamentale importanza per un adeguato processo di inclusione scolastica riguarda la formazione dei docenti, curricolare e di sostegno, e di ogni altra figura professionale che ruota intorno all’alunno/a con disabilità, come l’operatore sanitario, il collaboratore scolastico, l’assistente alla comunicazione. Infatti, è paradossale pensare che si faccia inclusione scolastica con una parcellizzazione dei compiti divisi tra le varie figure professionali. Ciò che, quindi, può unire il loro operato è sicuramente la formazione che, seppur creando competenze diverse, lo fa partendo da una stessa ottica, che è quella appunto dei diritti umani, sopra descritta, che mette al centro la persona con i suoi bisogni. Come indicato dalle Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità elaborate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, è importante che tutti i docenti coinvolti siano corresponsabili nel garantire la partecipazione dello studente con disabilità allo svolgimento della vita scolastica nella sua classe, predisponendo condizioni materiali, strategie e metodologie didattiche inclusive. Alcuni di questi come l’apprendimento cooperativo, il lavoro in gruppo e/o a coppie, il tutoring, i mediatori didattici, gli ausili informatici, i documenti in formato digitale, tendono a creare il clima della classe, favorendo comportamenti non discriminatori, relazioni socio-affettive positive, nonchè veicolando i valori della diversità, del confronto con la difficoltà e della tolleranza dell’altro, al fine di costruire un coscienza democratica e partecipativa. «Evidenziando i possibili paradossi conseguenti a una visione restrittiva dell’insegnante di sostegno come garante dell’inclusione, Nocera riporta in primo piano il docente curriculare, vero regista del processo di integrazione scolastica, ovviamente con il supporto e la collaborazione del collega di sostegno e delle altre figure presenti nella

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L’inclusione scolastica secondo la prospettiva dei diritti umani 185

scuola, dall’operatore sanitario al collaboratore scolastico. Ridefinisce così il sistema di responsabilità di una reale inclusione nella scuola, che ha come punti cardine l’insegnante di classe (unico o a moduli) e i compagni»5. Attualmente, il sistema formativo presenta diverse criticità. Per esempio, il percorso di studio per i docenti di sostegno dovrebbe comprendere anche moduli riguardanti le diverse tipologie di disabilità, al fine di dare al futuro insegnante una maggiore conoscenza della specificità delle varie situazioni cui può andare incontro nella sua professione e maggiori strumenti per poterle fronteggiare. Ma, come si diceva sopra, gli stessi insegnanti curriculari dovrebbero essere formati allo stesso modo dei loro colleghi di sostegno, per evitare il meccanismo della delega a questi ultimi, con la conseguente ghettizzazione dell’alunno in tempi e spazi diversi dagli altri alunni, e permettendo, inoltre, la prosecuzione dell’iter formativo anche in sua assenza. I docenti non specializzati non dovrebbero accedere, nella maniera più assoluta, a incarichi di sostegno! Un’adeguata formazione in materia di disabilità dovrebbe riguardare, altresì, tutto il ciclo di vita della persona, a partire dalla sua nascita passando per la scuola fino ad arrivare al post scuola, che vuol dire prosecuzione degli studi e/o ricerca di una collocazione lavorativa. Questo è anche il motivo per cui oggi si parla di progetto di vita, come parte integrante del Piano Educativo Individualizzato, in cui gli operatori sanitari, scolastici, sanitari, degli enti locali, provinciali, ecc., che ci lavorano, devono mirare, nel loro operato, alla crescita personale e sociale dell’alunno, alla costruzione del suo futuro possibile che gli garantisca un buon livello di autonomia e di qualità di vita, a partire dalla scoperta dei suoi bisogni e desideri e la conseguente ricerca di risposte realistiche. Lo stesso personale sanitario coinvolto nella definizione del Profilo Dinamico Funzionale e Piano Educativo Individualizzato, è numericamente scarso, insufficientemente formato e aggiornato, spesso precario e discontinuo. La sua formazione, in alcuni casi, è ancora troppo medicalizzata e poco incline alla multidisciplinarità, che deve

5

P. Baratella, E. Littamè, I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionali ONU alle buone pratiche, cit., p. 112.

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L’inclusione e il mondo della scuola

caratterizzare il lavoro di equipe nel processo di inclusione scolastica dell’alunno o studente con disabilità. Infine, un’altra figura essenziale è costituita dal collaboratore scolastico che si è visto catapultato nella nuova mansione di assistente alla persona, con pochissime occasioni di formazione a riguardo, in cui la corporeità dell’alunno o alunna e la relazione con essa dovrebbe avere una maggiore attenzione ed essere trattata con cura e rispetto, tenendo conto delle differenze dovute al sesso di appartenenza. Accanto alla formazione, quello organizzativo è un altro aspetto della scuola che presenta notevoli lacune. L’insegnante di sostegno è “utilizzato”, frequentemente, nelle supplenze mentre dovrebbe essere impiegato solo per le funzioni connesse al progetto di integrazione; le famiglie non partecipano, come dovrebbero, alla formulazione del Profilo Dinamico Funzionale e della Diagnosi Funzionale e si limitano spesso solo a sottoscrivere documenti già preparati; i gruppi di lavoro si svolgono di mattina impedendo ai docenti curriculari e ai familiari di parteciparvi e delegando la partecipazione al solo insegnante di sostegno; la programmazione dei servizi necessari non viene fatta nei tempi giusti, in particolare nel caso di Piani Educativi Individualizzati di studenti in situazioni di gravità; vi sono poche possibilità di attuare progetti di istruzione domiciliare; c’è una mancanza di risorse per i casi non certificati. Tutto questo, ovviamente, è ampiamente correlato all’esiguità delle risorse (personali, materiali, economiche, ecc.) e a una loro cattiva gestione, sia a livello nazionale sia regionale. Questo è il sintomo di una mancanza di cultura e sensibilità al tema, che ci fa pensare a un andare all’indietro rispetto alle molte conquiste degli anni settanta-ottanta, che hanno fatto dell’Italia il paese all’avanguardia in materia di integrazione scolastica. A questo punto non rimane che attivarsi per applicare la Convenzione dell’ONU, che costituisce lo strumento, a cui è approdata la società intera, comprese le organizzazioni di persone con disabilità, nel suo processo di crescita civile, coinvolgendo tutti indistintamente, persone libere e protagoniste, capaci di prendersi le proprie responsabilità Gli Stati Parte, con la loro firma, si sono impegnati ad attivare politiche di inclusione nelle loro società, dimostrando che ci sono buone intenzioni ad abbattere ogni tipo di barriera che aspettano di diventare operative, al fine di incontrarsi sulla tematica della disabilità in termini di diritti umani che, in quanto tali, riguardano tutte le persone.

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L’inclusione scolastica secondo la prospettiva dei diritti umani 187

La Convenzione costituisce una svolta culturale per l’intera società umana, in tutte le sue latitudini, e penso che tutti abbiamo la responsabilità della sua applicazione. La responsabilità è una delle qualità essenziali dell’uomo, a cui si attribuisce l’onere di essere causa della sua storia e delle sue azioni. Responsabilità è sinonimo di capacità di autodeterminarsi, cioè di compiere scelte con delle conseguenze, sia nei propri confronti che in quelli altrui. Questa capacità di esistere a livello intersoggettivo è riconoscere la diversità di tutte le persone, disabili e non, ciascuna delle quali è tenuta a dare il suo prezioso contributo, in favore di un rafforzato senso di appartenenza nelle società umane e del benessere generale, umano, sociale ed economico, dell’intera comunità.

Riferimenti bibliografici Baratella P., Littamè E., I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionali ONU alle buone pratiche, Trento: Erickson, 2009. Barbuto R., Ferrarese V., Griffo G., Napolitano E., Spinuso G., Consulenza alla pari. Da vittime della storia a protagonisti della vita, Lamezia Terme: Comunità Edizioni, 2005. Zimmerman M., “Empowerment e partecipazione della comunità. Un’analisi per il prossimo millennio”, «Animazione Sociale», anno XXIX, n. 2, 1999, pp. 10-24.

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Parte III

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L’inclusione e il contesto universitario

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Inclusione attiva e partecipazione nella prospettiva di critical management. L’aula come organizzazione e lo studente come risorsa umana

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di Luigi Maria Sicca

1. Introduzione Molto spesso, durante gli anni dell’università, gli studenti vivono con disagio la distanza tra ciò che studiano e ciò che nella realtà del mondo del lavoro sarà loro richiesto. Questo problema, a ben vedere, affonda le radici in un importante dibattito sui rapporti tra teoria e pratica: è una questione molto antica e trasversale a tutte le scienze. Sia che si tratti di scienze esatte o umane e sociali. Le recenti tendenze del Legislatore che – a singhiozzo – ha riformato e controriformato le politiche della formazione primaria, secondaria e universitaria, offrono numerosi spunti di riflessione su una sorta di ansia da troppa teoria. Basti pensare alla distinzione (più o meno condivisibile) che considera applicative alcune discipline, rispetto ad altre aree di studio, di ricerca e di insegnamento definite invece come speculative. Si pensi, ancora, al concetto di tirocinio formativo presente lungo gran parte del processo di scolarizzazione delle nuove generazioni, proprio come risposta al millenario tema dei nessi tra teoria e pratica. In questo intervento non si entrerà nel merito di quel dibattito, assai articolato in tante sfaccettature. Ci si limita a rilevare, in prima battuta, come la consuetudine di colmare quella distanza possa seguire diverse modalità, metodi o approcci: gli studi di Diritto e quelli di Medicina, per esempio, sono i progenitori del metodo dei casi, adottato

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L’inclusione e il contesto universitario

poi in molte aree di ricerca e di insegnamento1. In altri ambiti, per esempio nelle discipline manageriali, si fa spesso ricorso alla partecipazione in aula di testimoni (manager, professionisti, etc.) che portano il proprio contributo d’esperienza agli studenti. Quasi a voler dimostrare, sul terreno dell’empirìa quotidiana, ciò che si insegna in teoria, attraverso l’analisi della letteratura di riferimento. Ancora, nella scelta dei programmi di studio sovente si propone, a fianco di un manuale (per definizione spazio dedicato ai saperi consolidati e condivisi da una comunità scientifica), l’adozione di un altro testo focalizzato su strumenti o su temi di ricerca più o meno di nicchia (per es. una monografia). Questi e molti altri approcci messi in campo nelle attività didattiche perseguono l’obiettivo di attivare strumenti che siano in grado di suscitare negli studenti una propria abilità a ragionare autonomamente e a costruire un pensiero critico e flessibile. Obiettivo di questo lavoro è di dimostrare come sia possibile ridurre le distanze tra ciò che si studia e ciò che sarà vissuto, dopo la laurea, a confronto con la disciplina del mondo del lavoro e dei sistemi professionali nelle organizzazioni aziendali attraverso l’inclusione attiva e la partecipazione. La riduzione delle distanze avverrà facendo ricorso ad alcuni strumenti e linguaggi proprî di certa teoria delle organizzazioni di matrice critical, orientata a un approccio non dogmatico di stampo antipositivista. Strumenti idonei, come si vedrà, a favorire la “messa in azione” di saperi astratti, nei contesti imperfetti del mondo reale. Messa in azione dei saperi che è, appunto, esperienza di inclusione attiva e partecipata.2 Pertanto le categorie prese in esame saranno:  simbolismo culturale: il concetto di interpretazione simbolico culturale fornisce l’immagine di “noi come organizzazione”, premessa per un apprendimento adulto; 1 Si parla spesso di caso clinico in relazione ad esperienze di salute o di amministrazione della giustizia. L’espressione casus belli, nel senso comune, è spesso sinonimo di “pretesto” o di “esagerazione” e si usa per indicare come anche un dettaglio può servire a capire qualcosa in più rispetto ad un determinato tema. 2 A monte di questo obiettivo vi è l’idea che le organizzazioni aziendali non siano altro che la manifestazione reale e tangibile del modo attraverso cui viene regolata la vita contemporanea. Si tratta, cioè, di un modo di essere all’interno della più ampia categoria delle organizzazioni formali, attorno a cui si sviluppano tutte (o quasi) le attività del mondo contemporaneo.

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Inclusione attiva e partecipazione 193

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 costruttivismo radicale: concepire l’organizzazione (si pensi in prima battuta al contributo di von Foerster3) come prodotto delle conoscenze che gli individui hanno della realtà, focalizza l’attenzione sul concetto di competenze e sui processi di apprendimento individuale e organizzativo nella duplice dimensione formale/ informale;  modello Tavistock: considerare le organizzazioni come dispositivi di controllo delle “ansie” evidenzia la necessità di logiche di inclusione e partecipazione per la gestione dei processi di cambiamento e apprendimento individuale/organizzativo. In tal senso, l’azione di partecipazione organizzativa rappresenta il gesto che caratterizza l’umanesimo di questa fase dello sviluppo economico e sociale che chiamiamo “capitalismo”.

2. Organizzazione Aziendale, inclusione attiva e partecipazione Le aule d’insegnamento sono delle organizzazioni. Sono, nello specifico, delle organizzazioni formali e non organizzazioni aziendali. Nelle nostre aule si può quindi verificare – hic et nunc – la presenza di alcuni concetti chiave, codificati nella teoria dell’agire e interagire organizzativo. Lo studente, nello scambio con i docenti, i colleghi, le strutture dell’Ateneo e con i Dipartimenti, vive di fatto un’esperienza organizzativa che può consentirgli di riscontrare – effettivamente – come nel proprio apprendimento sia possibile mettere in moto un processo di partecipazione che non si basi soltanto su una conoscenza esplicita, razionale e sequenziale (teorica), ma anche su una che possiamo definire – nei termini del knowledge management4 – espe-

3

H. von Foerster, “On constructing a reality”, in P. Watzlawick, The Invented Reality, New York: W.W.Norton and Co, 1984. 4 Si tratta, naturalmente, solo di una delle tante possibili definizioni nell’ambito dell’ampio dibattito internazionale sul knowledge management. Knowledge Management vuol dire identificare, gestire e valorizzare cosa l’organizzazione sa o potrebbe sapere, attraverso le esperienze delle persone che entrano in relazione sia con strutture fisiche e virtuali, sia con altri attori nella veste biunivoca ora di clienti, ora di fornitori (docenti, colleghi, personale amministrativo, etc…) di conoscenze.

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L’inclusione e il contesto universitario

rienziale, simultanea (qui ed ora) e analogica5. Studente, dunque, in una duplice accezione: colei/lui che studia, ma anche persona, attore che vive (e partecipa) l’organizzazione aula e l’organizzazione ateneo (nelle sue articolazioni) che sono per definizione delle comunità di apprendimento. Alla stregua delle organizzazioni aziendali più avanzate che, al di fuori del sistema universitario, richiederanno knowledge worker in grado di creare valore attraverso la capacità di processare conoscenze e saperi. Questo duplice statuto di studente e di attore organizzativo può essere ulteriormente stimolato nell’esperienza quotidiana della vita di Ateneo. A tale scopo, l’esperienza stessa della vita universitaria può essere riletta e ri-elaborata mentalmente dallo studente. Elaborazione mentale che è sovrapposizione di saperi astratti (elaborazione teorica) e vissuti di esperienza organizzativa. La fig. 1 visualizza la sovrapposizione della condizione di studente ad alcuni concetti chiave della teoria dell’azione organizzativa. Sovrapporre saperi astratti ed esperienza di inclusione attiva e partecipata

Il nostro punto di partenza: i libri da studiare

Noi, aula, siamo un’organizzazione

Il nostro punto di arrivo: dal giorno dell’esame … … in poi

Fonte: de Vita et alii, Organizzazione Aziendale. Assetto e meccanismi di relazione, 2007.

Figura 1. - Una proposta Fonte De Vita Fig. 1: una proposta di “sovrapposizione”

di sovrapposizione.

2007

La fig. 1 indica – a sinistra – il punto di partenza del processo di apprendimento di uno studente: lo scaffale e i libri che andranno studiati per superare l’esame. Nel quadrante centrale è indicato “noi 5

I. Nonaka, H. Takeuchi, The Knowledge-Creating Company: How Japanese Companies Create the Dynamics of Innovation, Oxford: Oxford University Press, 1995. [Trad. it.: The knowledge-creating company. Creare le dinamiche dell’innovazione, Milano: Edizioni Angelo Guerini e Associati, 1995].

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Inclusione attiva e partecipazione 195

aula”. A destra è indicata un’aula dove gli studenti sostengono una prova d’esame e due mani che si stringono a indicare (e augurare) un incontro sul mercato del lavoro tra domanda e offerta, in funzione delle competenze acquisite attraverso gli anni di studio e preparazione universitaria. Al lato sinistro del titolo è indicato come la fatica cognitiva del trasportare i libri (specie se si pensa all’effetto pressa in cui vivono gli studenti triennali di molti Corsi di Studio, a seguito dei singhiozzanti processi di riforme e controriforme degli ordinamenti didattici), possa essere alleggerita dalla proposta formulata in questo saggio. Analogamente, a destra del titolo, è indicata un’icona di internet, a segnalare la possibilità di facilitare la consultazione della bibliografia citata nei percorsi di studio favorendo, in ultima analisi, il processo di ricostruzione dei ragionamenti proposti. Il lettore può immaginare l’esigenza (basilare per essere competitivi nelle organizzazioni) di passare dalle conoscenze formali a competenze (o abilità) diagnostiche: le immagini proposte in fig. 1 rappresentano un flusso che ciascuno studente può verificare e vivere, empiricamente, hic et nunc. Emerge, quindi, come sia possibile sperimentare individualmente o nei gruppi di studio (entrati oramai nelle consuetudini didattiche), il valore simbolico di un’aula universitaria, come più in generale dei rapporti con le strutture di Ateneo. Fino a costruire una mappa6 che ciascuno studente potrà poi riempire con spunti proprî ed originali durante (e dopo) il periodo di studio di un esame.

2.1. Il quadro teorico di riferimento L’idea di sovrapposizione fa i conti con alcuni criteri ordinatori. 1. Sovrapporre significa convergenza di sguardi. Nel sovrapporre si potrebbero seguire numerosi e differenti percorsi interni alle scienze umane e sociali7: il nostro oggetto (organizzazione formale) è 6 Il concetto di “mappa” è utilizzato a partire da alcune idee contenute in un importante saggio di Van Maanen, editor di un numero speciale di Administrative Science Quarterly, Vol. 24, Dicembre 1979. 7 «Definire che cosa siano le scienze sociali è assai più arduo che non definire, per esempio, che cosa siano la geometria e l’aritmetica. Le scienze sociali non

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L’inclusione e il contesto universitario

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infatti analizzabile da una pluralità di punti di osservazione8. La letteratura di Organization Studies si nutre di un pluralismo di sguardi9 interno a un importante dibattito epistemologico che coinvolge sia gli studiosi, sia i practitioner10. Il nostro quadro teorico di riferimento è quello dei critical management studies (CMS). E, nello specifico, del cultural symbolism, o simbolismo culturale11. Nella letteratura dei Critical Management Studies la dialettica tra strutture organizzative (il design così come progettato) e le persone che abitano le strutture (behaviour) viene messa al centro dei

costituiscono una scienza, ma piuttosto una famiglia eterogenea di discipline che si sono formate in epoche differenti per rispondere a esigenze anch’esse differenti» (Enciclopedia delle scienze sociali, vol. VII, Roma: Treccani). 8 Gli studenti nelle loro esperienze possono constatare come una differenza significativa tra gli esami non sia tanto sugli oggetti (più o meno diversi), quanto piuttosto nei modi differenti di leggere (almeno in parte) gli stessi oggetti. 9 A. Grandori, Teorie dell’organizzazione, Milano: Giuffré, 1984. 10 Cfr. L. Biggiero, Teorie d’impresa. Un confronto epistemologico tra il pensiero economico e il pensiero organizzativo, Milano: FrancoAngeli, 1992. Si evidenzierà come l’interdisciplinarietà non vada contrabbandata con l’evasività, ovvero assenza di rigore nell’adoperare con troppa disinvoltura questa e/o quella chiave di lettura per interpretare le organizzazioni, deviando poi l’apprendimento dagli obiettivi formativi insiti nella disciplina. Questo tema è stato affrontato in altra sede in termini di tentativo di sottrarsi alla natura effimera della retorica del management, agganciata ad un (illusorio) “abbaglio di contemporaneità” ed è rintracciabile in alcuni autorevoli contributi negli studi organizzativi (cfr. B. Maggi, A. Solé, « Société, entreprise, individu: la surprenante actualité de Taylor”, Actes du XVIIe Congrès International des Sociologues de Langue Française, Tours, 5-9 juillet, 2004). 11 La prospettiva del cultural symbolism affonda le radici in una tradizione consolidata di ricerca e di pratica organizzativa (B. Maggi, R. Albano, “La teoria dell’azione organizzativa”, in G. Costa, R.C.D. Nacamulli (a cura di), Manuale di Organizzazione Aziendale, Vol. I, Torino: Utet, 1996). Certamente negli ultimi 30-40 anni si è assistito ad una maggiore attenzione al tema da parte di professionisti e ricercatori tanto che, a partire dagli inizi degli anni ‘80, le principali riviste internazionali di Organizzazione hanno dedicato un numero monografico a questo approccio: «Administrative Science Quarterly» ed «Organization Dynamics» nel 1983; «Revue Francaise de Gestion» nel 1984; «Journal of Management» nel 1985; «Organization Studies», «Journal of Management Studies» e l’«International Studies of Management & Organization» nel 1986 (cfr. P. Gagliardi, (a cura di), Le imprese come culture, Torino: Isedi, 1995; S. Zan, Logiche di azione organizzativa, Bologna: il Mulino, 1988).

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principi e degli strumenti necessari per il controllo manageriale. Entro tale dialettica, l’organizzazione (cosiddetta) post-fordista avrebbe la tendenza a modificare le pratiche della divisione del lavoro, del coordinamento (ergo del controllo), attraverso un approccio non più orientato (come avveniva per la prima industrializzazione) al rispetto della gerarchia, ma all’autoregolazione dei comportamenti, al senso di commitment, all’empowerment etc.12 L’approccio di matrice critical agli studi di organizzazione si basa su un impianto teorico di stampo post-strutturalista e, in particolare, sulle concettualizzazioni di potere/conoscenza di Foucault13. Fino a interpretare le azioni, in termini di linguaggio. In questa direzione, alcune categorie proprie del pensiero umanistico possono restituire molto all’interpretazione delle identità individuali nel contesto organizzativo14. E nei processi di costruzione e di implementazione dell’azione (si parla di processi di microemancipazione). Approccio, questo, che contribuisce a qualificare quei percorsi di Sviluppo Organizzativo (Organization Development)15, ampiamente consolidati in esperienze internazionali di management. 12

P. Du Gay, G. Salaman, “The Cult[ure] of the Customer”, «Journal of Management Studies», Vol. 29, No. 5, 1992, pp. 615-633. 13 D. Knights, H. Willmott, “Power and Subjectivity at Work: From Degradation to Subjugation in Social Relations”, «Sociology», Vol. 23, 1989, pp. 535-558. 14 C. Casey, Work, Self and Society: After Industrialism, London:Routledge, 1995. 15 Con l’etichetta Organization Development s’intendono le «azioni di mutamento pianificato a livello di sistema totale» (cfr. W. Bennis, Organization Development: its nature, origin and prospects, Reading (MA): Addison-Wesley, 1969), a partire dalla ricerca di possibili soluzioni al problema dell’integrazione tra individuo e organizzazione (cfr. R. Beckhard, Organization Development: Strategies And Models, Reading (MA): Addison-Wesley, 1969). Per un approfondimento di questa interessante letteratura di OD, tesa a colmare le distanze tra teoria e pratiche sia nelle organizzazioni formali sia nelle aziende stricto sensu, si possono consultare, oltre ai già citati volumi di Beckhard e di Bennis: C. Argyris, “Management Information Systems: The Challenge to Rationality and Emotionality”, «Management Science», Vol. 17, No. 6, 1971; W.W. Burke, Organization Development: Principles and Practices, New York: Little, Brown & Co, 1982; E.H. Schein, Organizational Culture and Leadership, San Francisco: Jossey-Bass, 1985; Id., Process Consultation, Reading: Addison-Wesley Publishing Company Inc., 1987a; Id., The Clinical Perspective in Fieldwork, London: Sage Publication Inc., 1987b; W.L. French, C.H. Bell jr, Organization Development: Behavioral Science Interventions for Organization Development, Saddle River (NJ): Prentice-Hall,

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L’inclusione e il contesto universitario

2. Sovrapporre significa “interpretare”. E ogni processo di interpretazione è una costruzione. Possiamo allora domandarci: quale realtà organizzativa vogliamo interpretare e costruire?16

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Il costruttIvIsmo radIcale Alcune premesse a monte della nostra idea di apprendimento adulto nelle organizzazioni professionali traggono spunto dai lavori di von Foerster, Berger e Luckmann, Durkheim e Weber e così sintetizzabili: – la “verità” non esiste come dato ontologico. Esiste, invece, attraverso lo sguardo di ciascuno e “attraverso gli occhi dell’altro”; – il sapere è il risultato di una costruzione sociale della realtà; – possiamo trattare i fatti sociali come “cose”; – il “sociale” è frutto delle azioni individuali e dei significati che gli individui attribuiscono alle azioni.

Inc., 1999; C. Varchetta, “Sviluppo organizzativo e sviluppo culturale nella gestione delle risorse umane”, in D. Boldizzoni (a cura di), Nuovi paradigmi per la direzione del personale, Torino: Isedi, 1990. 16 Alla base del concetto di “costruzione” giace quel filone di studi noto con la dizione costruttivismo radicale: «È il mondo la causa primaria e la mia esperienza ne è la conseguenza, o è la mia esperienza a essere causa primaria e il mondo la conseguenza?», si domanda Heinz von Foerster (cfr. “Through the Eyes of the Other”, in F. Steier, Research and Reflexivity, London: Sage Publication, 1991). Questi, dopo la laurea in fisica presso l’Istituto di Tecnologia dell’Università di Vienna nel 1911, fondò il Biological Computer Laboratory, luogo di dibattito interdisciplinare tra “mostri sacri” come John von Neumann, Ross Ashby, Gregory Bateson, Margaret Mead, Claude Shannon, sempre attenti a recepire come queste considerazioni potessero essere recepite nelle pratiche manageriali. Nelle prossime pagine si vedrà il nesso tra queste premesse teoriche e la loro efficacia, nella prassìa delle organizzazioni formali: P.L. Berger, T. Luckmann (The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City (NY): Doubleday, 1966); von Foerster (“On constructing a reality”, cit.); G. Burrell, G. Morgan (Sociological Paradigms and Organizational Analysis, London: Heinemann Educational Books, 1979); P. Watzlawick (The Invented Reality, cit.); K.E. Weick (“Enactment Processes in Organizations”, in B.M. Staw e G.R. Salancick, New Directions in Organizational Behaviour, Chicago: St. Clair Press, 1977; Id., “Cognitive Processes in Organizations”, in B.M. Staw (ed.), Research in Organizational Behaviour, Greenwich Connecticut: JAI Press, 1979); J. Van Maanen (“Reclaiming Qualitative Methods for Organizational Research: A Preface”, «Administrative Science Quarterly», Vol. 24, December, 1979a; Id., “The Fact of Fiction in Organizational Ethnography”, «Administrative Science Quarterly», Vol. 24, December, 1979b). Per un’articolazione didattica di questo iter, si veda anche G. Corbetta (Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Bologna: il Mulino, 1999).

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Inclusione attiva e partecipazione 199 In particolare, in Berger e Luckmann17 l’indagine sul modo in cui viene costruita la realtà è necessaria per capire la realtà stessa. L’oggetto dell’indagine è la conoscenza che gli individui hanno della realtà organizzativa in cui si trovano. È proprio questa conoscenza ciò che definisce le competenze degli individui nell’organizzazione. Infatti, la conoscenza del mondo e della vita quotidiana procede per tipizzazioni che tendono a essere condivise. Tali tipizzazioni sono alla base delle nostre istituzioni (famiglia, educazione, mercato, politica, etc.) che a loro volta tipizzano le interazioni sociali in ruoli. Di generazione in generazione le istituzioni vengono legittimate attraverso processi di affermazione degli “universi simbolici” che offrono una matrice unitaria di significati (religione, tradizione, etc).

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3. Sovrapporre è un esercizio intellettuale. È un’utile palestra “professionalizzante” (si direbbe nell’odierno gergo), se è vero che si tratta di un’esperienza intellettuale che può essere estesa a numerosi e differenziati contesti nel mondo delle organizzazioni formali: siano o meno aziende stricto sensu. Se consideriamo gli spazi di applicabilità di ciò che si studia al vissuto delle organizzazioni formali (che per certi versi sono esse stesse delle comunità di apprendimento), allora è possibile (e doveroso) riconoscere come tale impostazione sia affatto consolidata in letteratura18, a partire da significative realtà internazionali, come ad esempio quelle del Tavistock Institute (http://www.tavinstitute.org/). sovrapposIzIone,

azIone organIzzatIva e mappe.

Lungo tale filone di tradizioni organizzative, la nostra proposta di sovrapposizione non è, non vuole e non potrebbe essere esaustiva. Per procedere, invece, verso la costruzione di una mappa: ogni mappa può essere riempita di contenuti, a seconda di come si sviluppa, nelle diverse realtà. La mappa è essa stessa un’azione organizzativa che noi costruiamo nel corso dell’apprendimento organizzativo. Essa è uno spazio flessibile che può essere riempito in modo più o meno denso, dato che essa è (e diventa) una “rappre-

17 P.L. Berger, T. Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, cit. 18 W. R. Bion, Experiences in Groups and Other Papers, London: Tavistock Publications, 1961 [Trad. it.: Esperienze nei gruppi, Roma: Armando Editore, 1971].

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L’inclusione e il contesto universitario

sentazione”19 del processo di apprendimento. Da questa esperienza di “rappresentazione” lo studente può essere stimolato a sviluppare una propensione a rigettare un approccio “fordista” alle conoscenze organizzative, privilegiando invece un pluralismo nei modi di avvicinare il complesso mondo delle organizzazioni, che nella realtà ha sempre significative escursioni in termini di varietà e di variabilità. In tal senso anche il percorso conoscitivo dello studente, nello Spazio organizzativo destinato all’apprendimento e nel Tempo in esso trascorso, deve essere coerente a tali condizioni di varietà e variabilità20.

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4. Sovrapporre significa anche assumere una dimensione adulta dell’apprendimento21. Le ricerche in tal senso suggeriscono l’obiettivo di dare un’anima all’inchiostro nero sulle pagine bianche del testo. Tematizzare “noi aula, come organizzazione” rende verificabili, empiricamente, quei materiali teorici che considerano l’esperienza di apprendimento dello studente fondata su un giudizio 19 Senza entrare nei tanti modi con cui si può intendere questo concetto, possiamo definire la rappresentazione come proiezione di immagini interne e mentali di ciò che ciascuno ritiene di avere compreso, per poi agire in future esperienze, Van Maanen (“The Fact of Fiction in Organizational Ethnography”, cit.). 20 Semplificando al massimo: se nell’esperienza di apprendimento si genera una corrispondenza tra la complessità che viene vissuta (internamente) dallo studente e quella che dovrà implementare professionalmente (all’esterno), si potrà generare una condizione di sviluppo spontaneo delle competenze e delle abilità professionali. Rispetto a questo punto, nella prassi delle organizzazioni, la questione è trattata in termini di pragmatica della comunicazione (J.L. Austin, How to Do Things with Words, Oxford: Oxford University Press, 1962; J. Searle, Speech Acts: an Essay in the Philosophy of Language, Cambridge: Cambridge University Press, 1969, P. Watzlawich, The Invented Reality, cit.). Nell’ambito di una letteratura che si sviluppa dalle scienze naturali alle scienze umane e sociali (attraverso i concetti di omeostasi e di entropia negativa), questo approccio offre la possibilità di individuare, oltre ad una serie di lavori di grande articolazione scientifica, anche letture “leggere” e talvolta divertenti, come, per esempio, P. Watzlawich, Anleitung zum ünglücklich-sein, München: R.Piper GmbH & Co. KG, 1983 [Trad. it.: Istruzioni per rendersi infelici. Milano: Feltrinelli, 1997]; Id., Vom Schlechten des Guten oder Hekates Lösungen, München: R.Piper GmbH & Co. KG, 1986 [Trad. it.: Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico, Milano: Feltrinelli, 1987]. 21 J. Merizow, Transformative Dimensions of Adult Learning, San Francisco (CA): Jossey-Bass, 1991 [Trad. it.: Apprendimento e Trasformazione, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2003].

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critico proprio dell’adulto. Ciò ha ulteriore rilievo se si pensa che molto spesso lo studente universitario – specie (ma non solo) in alcune aree geografiche del Paese dove l’interazione con le aziende è meno facilitata dalle condizioni economiche – deve comprendere i problemi delle aziende senza, di fatto, avere ancora vissuto un’esperienza in alcuna di queste organizzazioni. Pertanto, il percorso formativo richiede uno sforzo d’astrazione, che per certi versi potrebbe essere stimolato, simulato e sostenuto da una tensione mentale ed emotiva a contestualizzare contenuti e metodologie, attraverso il ricorso ad altre esperienze organizzative, a partire da quella della vita universitaria, che è quotidianamente a portata di mano22. Ugualmente si potrebbe suggerire di fare riferimento ad altre efficaci “occasioni” organizzative vissute dai giovani: associazioni di volontariato o studentesche, gruppi musicali, squadre sportive, etc.

2.2. Studiare organizzazione come ambito di produzione simbolico culturale Nell’apprendimento universitario gli studenti da un lato sono portatori di proprie ambizioni e slanci ideali, curiosità e interessi specifici; dall’altro si pone l’esigenza di coordinare l’offerta formativa, nell’ambito di una ricerca di soluzioni adeguate alla logica di scelte collettive. In altri termini, nella ricerca di un punto di sintesi tra flessibilità (per intercettare le esigenze dei singoli) e standardizzazione (necessaria al coordinamento organizzativo), possiamo appellarci al concetto di interpretazione simbolico culturale attraverso l’immagine sopra evocata di noi come organizzazione. Essa si fonda “sulla premessa che il significato pieno delle cose non è dato a priori nelle cose stesse, ma dall’interpretazione”23 che se ne dà. È evidente, allora, che ciascun attore organizzativo può e deve interpretare. Sia esso un manager 22 D.A. Kolb, Experiential Learning: Experience as the Source of Learning and Development, Saddle River (NJ): Prentice-Hall, 1984. 23 Louis M. R., “A Cultural Perspective on Organizations: the Need for and Consequences of Viewing Organizations as Culture-Bearing Milieux”, «Human Systems Management», Vol. 2, 1981.

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coinvolto nella gestione strategica d’impresa, sia esso uno studente, protagonista della propria partecipazione alla vita universitaria.

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2.2.1 Cosa significa interpretazione simbolico culturale? Interpretare significa, nella prospettiva degli studi organizzativi, distinguere due livelli dell’azione (che nel caso qui presentato interessano l’organizzazione-aula): un livello “universale” e uno “simbolico”. Il piano universale e oggettivo è quello in cui il significato di una cosa è dato a priori, ovvero dalle “grandi verità”24 che possono essere svelate. Il livello simbolico, invece, riguarda l’attribuzione di senso – all’interno di una organizzazione – che si dà ad un evento, in funzione di ciò che esso può significare per gli attori in campo25. l’ambIguItà dell’aggettIvo “culturale”. L’aggettivo culturale (come anche il sostantivo “cultura”) si presta a non poche ambiguità. Per esempio, si ritiene spesso (in una visione ingenuamente ottimistica) che la cultura indichi in positivo, automaticamente, la capacità di aggregare gli attori organizzativi intorno a valori condivisi26. Nella realtà, le subculture popolano i contesti professionali e manageriali. Cosicché, il termine cultura (e le analisi culturali) interessa sempre più i contesti dove – a dispetto degli obiettivi di efficienza desiderati dalle teorie di matrice aziendalista – i valori di riferimento sono non condivisi e non unificanti. È il caso, ad esempio, di organizzazioni (molto frequenti nella realtà) dove prevale una “cultura conflittuale”. Questo approccio laico al sostantivo cultura, accompagnato da un aggettivo che qualifica il tipo di valori attorno a cui ruota l’azione organizzativa, consente di ripensare le differenze tra un’organizzazione e un’altra27. 26 27

Se è vero che ogni organizzazione è diversa dall’altra (assenza di isomorfismo), è altresì vero che interpretare con un approccio simbolico culturale permette di cogliere i comuni denominatori tra le

24

K.E. Weick, “Cognitive Processes in Organizations”, cit. G. Burrell, G. Morgan, Sociological Paradigms and Organizational Analysis, cit. 26 E.H. Schein, Organizational culture and leadership, cit. 27 W. G. Ouchi, A.L. Wilkins, “Organizational Culture”, «Annual Review of Sociology», Vol.11, 1985 pp. 457-483. 25

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organizzazioni che frequentiamo e che viviamo28. Di conseguenza, attivare l’idea di “noi organizzazione” nasce dall’ipotesi che si possa indagare su tipologie anche molto differenti tra loro, fino a trasferire esperienze, contenuti e significati da un contesto all’altro, a dispetto delle specificità e delle differenze tecniche, merceologiche, etc.

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sImbolo e

cultura In

cassIrer

Per Ernst Cassirer (1874-1945), il filosofo a cui il concetto di “forma simbolica” resta più tipicamente associato, l’uomo stesso è definibile sulla base del concetto di simbolo: l’uomo è per Cassirer l’animal symbolicum prima (o piuttosto) che l’animal rationale29. Cassirer distingue con nettezza il “simbolo” dal “segnale”. Gli animali non umani comprendono i segnali (il mio gatto riconosce i richiami che gli rivolgo) e in molti casi li producono. Essi sono dunque in grado di cogliere qualche oggetto del mondo come qualcosa che “rinvia” a qualcos’altro. Ma nessun animale non umano sembra in grado di formare sistemi di combinazione di simboli nei quali ogni simbolo abbia una specifica funzione, cioè mondi simbolici contrapposti al mondo reale. Nessun animale non umano sembra mai aver fatto – come fece la bambina sordomuta Helen Keller, di cui Cassirer ricorda il processo di apprendimento dell’alfabeto manuale – la sconvolgente scoperta che «ogni cosa ha il suo nome»30. Aggiungiamo che gli esseri umani non solamente sono capaci di formare sistemi simbolici e di farne uso, ma che le combinazioni di simboli, pur essendo in genere funzionali a richiamare alla mente qualcosa di diverso da se stesse (cioè essendo funzionali ad esprimere o addirittura a raffigurare qualcosa di altro), hanno rapporti molto differenti con il mondo reale. Un brano musicale può suggerire allegria o tristezza, ma non può raffigurare 29 30

28

Nell’ambito degli studi di cultural symbolism l’analisi dei vissuti passa anche per la letteratura sulle “organizzazioni come narrazioni”. Questo campo di studi si interessa a momenti non marginali dell’azione organizzativa, come ad esempio il fondamentale processo di costruzione del budget. In proposito Czarniawska (Narrating the Organization. Dramas of Institutional Identity, Chicago (IL): The University of Chicago Press, 1997) sostiene la presenza di inaspettate similitudini tra due processi “narrativi: la lettura della legge finanziaria e del budget, considerate, entrambe, come sceneggiature”. Sia il budget sia la sceneggiatura sono testi collettivi orientati da un’idea sociale del controllo, per il quale il processo di produzione del testo è più importante del testo stesso. 29 E. Cassirer, An Essay on Man. An Introduction to a Philosophy of Human Culture, New Haven and London: Doubleday & Company (NY), 1944. [Trad. it.: Saggio sull’uomo, Roma: Armando Editore, 1972]. 30 Ivi, pp. 93-4.

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una realtà esterna come può farlo un quadro o un asserto. Esso resta in realtà “asemantico” anche quando gli apponiamo un titolo che spiega il suo significato per l’autore (come avviene per la Moldava di Dvorak o magari per l’Eroica di Beethoven). Una danza può mimare qualcosa di reale, ma può restare “significativa” anche se non lo fa e un quadro, notoriamente, può essere realistico o astratto. Un’analisi molto attenta di questi sistemi simbolici diversi dal linguaggio fu proposta da una filosofa americana, Susanne K. Langer, che ha avuto poco successo in Italia, ma è invece frequentemente citata dagli antropologi e dagli scienziati sociali anglo-americani31. Va notato infine che uno stesso codice simbolico può avere differenti registri di uso. Possiamo usare l’italiano per comporre un testo poetico o un discorso politico, anche se queste due performance presuppongono organizzazioni notevolmente diverse del materiale offerto dalla lingua. Perfino all’interno di una stessa performance, basata su un determinato codice, possono rinvenirsi registri diversi e addirittura contrastanti. Possiamo perfettamente immaginare, per esempio, un quadro che rappresenta una scena festosa, ma i cui colori per contro siano tenui e vespertini, suggerendo così malinconia o angoscia. In questo caso, due diverse funzionalità proprie di uno stesso codice simbolico servono a dare luogo a un testo complesso, dal quale si ricevono impressioni contrastanti e tuttavia (se l’artista è valido) capaci di dare luogo a un’esperienza emotiva unitaria essa stessa complessa e intraducibile in parole. I sistemi simbolici permettono dunque non soltanto di rappresentare la realtà, ma anche di moltiplicare le prospettive da cui la guardiamo e di ri-costruirla in questa forma moltiplicata. Per Cassirer, tra i concetti di “simbolo” e di “cultura” vi è una solidarietà profonda. L’analisi delle forme simboliche è lo strumento di una filosofia della cultura, perché la cultura è appunto quell’insieme di conoscenze o di capacità che non sono innate, ma vengono organizzate e trasmesse per mezzo delle mediazioni simboliche. Per quanto anche Cassirer faccia parte ormai della storia remota degli studi attuali sulle culture, va sottolineato che le intuizioni di base restano attuali e che sono oggi riprese in larga misura da antropologie che (a differenza di quella di Cassirer) cercano di situare la genesi e la propagazione delle culture sullo sfondo della teoria darwiniana dell’evoluzione. Si è addirittura ipotizzato che l’emergere delle capacità simboliche abbia rimodellato progressivamente il nostro stesso cervello differenziandolo sempre più da quello degli altri primati e “colonizzando”, per così dire, anche capacità preesistenti alla sua emergenza (la percezione sensibile, la memoria e così via). Il che spiega perché le culture consistano nella propagazione di invenzioni o di abilità per mezzo di mediazioni simboliche, ma anche – nel contempo – di 31

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S. K. Langer, Philosophy in a New Key: A Study in the Symbolism of Reason, Rite, and Art, New York: Mentor book, 1942.

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Inclusione attiva e partecipazione 205 modificazioni e arricchimenti delle forme simboliche stesse, che divengono così ancor più capaci di trasmettere abilità e invenzioni32. Questo rimodellamento progressivo spiega l’incremento esponenziale dei messaggi a cui il nostro cervello è sottoposto e che oggi gli sarebbe impossibile gestire senza protesi esterne che immagazzinano simboli: libri, CD, pc, ipod, e così via… Fonte: F. Piro, in Sicca, L.M., 2010.

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Per dirla più semplicemente, un manager che viene licenziato in un periodo di crisi (per esempio a valle di una ristrutturazione aziendale) sarà ancora competitivo sul mercato del lavoro, se saprà riconcettualizzare il senso delle proprie esperienze, senza lasciarsi intrappolare dalle specificità e dalla dimensione idiosincratica delle esperienze vissute. Sarà competitivo, cioè, se saprà interpretare le caratteristiche del mercato del lavoro, mettendo nell’attivo del proprio bilancio professionale pregresso quanto già vissuto. Mettendo in campo quella capacità simbolica illustrata nel precedente box, tesa a “formare sistemi di combinazione di simboli nei quali ogni simbolo abbia una specifica funzione, cioè mondi simbolici contrapposti al mondo reale”. Capacità simbolica che assurge a sapere astrarre dalle esperienze concrete, fino a tradurle in competenze distintive entro nuovi scenari competitivi33. Se ciò è vero per chi già è presente nel mondo del lavoro, è altrettanto vero (e forse ancor di più, complice la più giovane età) per chi si affaccia per la prima volta alla competizione. Proprio a partire dalle esperienze di studio e di partecipazione vissute nelle organizzazioni formali pre-professionali, comprese quelle dedicate all’istruzione. In primo luogo le organizzazioni accademiche. Gli studenti insomma, (seppure con le relative differenze e misure rispetto ai manager) vivendo hic et nunc la “nostra organizzazione” possono astrarre e ricontestualizzare l’esperienza nei più svariati contesti di azione professionale che incontreranno dopo la laurea. Ne derivano i seguenti interrogativi: si può considerare la partecipazione e l’inclusione in organizzazioni anomale come la nostra (ma, esistono poi organizzazioni normali?)

32

T. W. Deacon, The Symbolic Species: The Co-Evolution of Language and the Brain, New York: W.W.Norton and Co, 1998. 33 J. Pfeffer, Competitive Advantage through People: Unleashing the Power of the Work Force, Boston (MA): Harvard Business School Press, 1994.

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una base di realtà per arricchire il proprio bagaglio di competenze diagnostiche? In altri termini, il quotidiano delle tradizionali organizzazioni aziendali – ovvero (più correttamente) di quelle aziende più studiate nella storia del management e che hanno caratterizzato lo sviluppo del capitalismo industriale34 – può essere più facilmente compreso e decodificato a partire dagli scambi relazionali proprî di un’organizzazione formale come l’Università? La risposta a questi quesiti risiede in alcune caratteristiche dell’apprendimento (individuale e organizzativo) che interessano al contempo tanto lo studente che viva l’università attraverso l’inclusione attiva e partecipata, quanto il professionista che opera “fuori di qua” nel mondo delle organizzazioni formali. In tal senso, la letteratura sulle learning organization pone l’interrogativo su come si passi, nelle pratiche dell’azione, dall’apprendimento individuale all’apprendimento organizzativo35. Questo passaggio è rilevante, sia che si tratti dei contesti professionali (i saperi del singolo manager, che si traducono in esperienza di apprendimento all’interno della sua comunità); sia nella proposta sull’aula come organizzazione e dello studente come risorsa umana: che ragiona da solo sul proprio libro, passa poi a esperienze di gruppo per il lavoro di analisi dei casi, fino ai momenti di discussione in plenaria o durante le lezioni frontali in aula. E, ancora, fino ai network di relazioni con altri corsi, con i docenti negli spazi di ricevimento, con il personale amministrativo, etc. la mosca sul muro,

ovvero un modo dI partecIpare. Interpretando

L’immagine della “mosca sul muro” è adoperata negli studi di antropologia delle organizzazioni in un importante libro di Kunda36, lì dove in una ricerca sull’organizzazione di una grande impresa americana si assume uno sguardo 36

34 L.M. Sicca, “Chamber Music and Organization Theory. Some Typical Organizational Phenomena Seen Under the Mycroscope”, «Cultures & Organizations», Vol. 6, 2000. 35 C. Argyris, D. A. Schön, Organisation Learning, Readings (MA): Addison Wesley, 1978. 36 G. Kunda, Engineering Culture.Control and Commitment in a High-Tech Corporation, Philadelphia: Temple University Press, 1992. [Trad. it. L’ingegneria della cultura. Controllo, appartenenza e impegno in un’impresa ad alta tecnologia, Torino: Edizioni Comunità, 2000].

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Inclusione attiva e partecipazione 207 sulla realtà in cui lo studioso, studente, analista che vuole diagnosticare, si pone con l’atteggiamento di “una mosca posata sul muro”: senza farsi notare da nessuno, osserva e aspetta che la realtà organizzativa si disveli. Naturalmente, la realtà si manifesta agli occhi di ciascuno di noi in relazione agli occhiali che mettiamo sul naso, ovvero in relazione alla scelta di strumenti (e degli obiettivi formativi) che rientrano nel bagaglio di ciascuna disciplina. Immaginare che uno studente nell’esperienza d’apprendimento universitario possa (e debba) ritagliarsi dei fertili e circoscritti momenti di osservazione e isolamento (come una mosca sul muro) può essere un modo efficace di favorire un percorso mentale teso allo sviluppo di idee autonome su cosa significhi – in senso organizzativo – quanto si sta vedendo e vivendo. Lo sforzo di codificare e decodificare (interpretazione simbolico culturale) e poi ri-codificare (sviluppo di abilità diagnostiche) attraverso il filo conduttore delle esperienze passate, attuali e prospettiche può aiutare a interiorizzare alcune chiavi di lettura tipiche dell’agire organizzativo, a prescindere (almeno in parte) dalle n specificità pur presenti nella realtà sensibile che caratterizza i diversi contesti. Nostra elaborazione.

3. Dall’apprendimento individuale all’apprendimento organizzativo37 Una categoria utile per analizzare il delicato passaggio epistemologico dalla dimensione individuale a quella organizzativa è l’“ansia”. Categoria propria della letteratura di psicologia è, al contempo, in grado di gettare luce sui rapporti tra Psicologia e Studi Organizzativi che seguono – almeno in parte – iter paralleli. Attraverso il contributo che viene anche dal Modello Tavistock (che raccoglie la sfida di fare incontrare questi due àmbiti di sapere), occorre innanzitutto riconoscere come molte ansie siano legate a situazioni “concrete”; mentre altre ansie riflettono angosce e fantasie più profonde e irrazionali. Fino ad assomigliare a quelle che popolano il mondo infantile: la mortificazione, il narcisismo, le rivalità e le aggressioni invidiose, la fusione e lo smarrimento dell’identità all’interno del gruppo.

37 Alcune delle idee presenti in questo paragrafo sono il risultato di un costante scambio di idee e di sguardi teorici condivisi negli anni con il prof. Paolo Valerio, che qua si ringrazia.

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L’inclusione e il contesto universitario

3.1. L’ansia come motore e resistenza Seguendo la prospettiva dei critical management studies, possiamo assorbire dalla letteratura di matrice psicoanalitica la categorizzazione in tre tipi di ansie, che operano a differenti livelli, nei processi di apprendimento degli adulti che devono affrontare le normali situazioni di cambiamento:

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 ansia primitiva;  ansia che deriva dalla natura del lavoro;  ansia individuale. L’ansia primitiva è onnipresente, onnicomprensiva e appartiene al destino dei singoli e dell’umanità. Esther Bick38 parla di timore dell’individuo di essere “perso nello spazio” e John Bowlby39 parla di “ansia di separazione”. Le organizzazioni aiutano ad allontanare il timore dell’ignoto: è la loro funzione “invisibile”40. Per esempio: appartenere a un’aula universitaria, oppure a una comunità professionale, oltre a “servire” obiettivi pratici (l’apprendimento di un sapere, sia esso l’Economia, o la Medicina, o l’Agraria, etc.) risponde anche all’esigenza di bilanciare l’ansia primitiva. Le nostre organizzazioni (che molto spesso chiamiamo “aziende”) sono influenzate da molte funzioni associativo-difensive, per difendersi dall’ansia primitiva41. Esiste poi un’ansia insita nella natura del lavoro. Essa, entrando in risonanza con quella primitiva, innesca aspetti di ansia personale. Alcuni fattori esterni che riguardano la società, le organizzazioni e i mercati del lavoro creano risonanza interiore generando conseguenze (disagio o forza) e un’ansia individuale che può essere strategica nel 38

E. Bick, “The Experience of the Skin in Early Object-Relations”, «International Journal of Psychoanalysis», Vol. 49, 1968, pp. 484-486. 39 J. Bowlby, Attachment and Loss, Vol. I, London: Hogarth, 1969; Attachment, Vol.II, London: Hogarth, 1973; Separation: Anxiety and Danger, Vol. III, London: Hogarth, 1980 [Trad. it.: Torino: Boringhieri, 1972, 1975, 1980]. 40 M. Perini, L’organizzazione nascosta. Dinamiche inconsce e zone d’ombra nelle moderne organizzazioni, Milano: FrancoAngeli, 2007. 41 L. I. Menzies, “The Functions of Social Systems as a Defence Against Anxiety: A Report on a Study of the Nursing Service of a General Hospital”, «Human Relations», Vol. 13, 1959, pp. 95-121.

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definire quel che accade nei processi di apprendimento degli adulti che devono affrontare il cambiamento. In base a quanto fin qua illustrato, le organizzazioni possono essere considerate dei sistemi specializzati nella gestione dell’ansia. Le organizzazioni come “contenitori”, in una duplice accezione: spazio che contiene (le ansie), ma anche nella funzione di contenimento. È questo il duplice significato derivato dal modello di W.R. Bion “contenitore/ contenuto”, per evidenziare una funzione (anche in senso matematico di relazione fra due entità), fondamentale per il funzionamento mentale e lo sviluppo della personalità. Le moderne organizzazioni aziendali svolgono questo ruolo. Danno lavoro, ergo identità dell’adulto, scandiscono i tempi del sonno e della veglia, della produttività e degli affetti, stabiliscono il grado di aggressività socialmente necessario e la quota sanzionabile. Sono metronomo. Segnano il principio di inizio e fine. È questo, in ultima analisi, il senso più pregnante di un modo di organizzare le attività umane (umanesimo del management)42 che chiamiamo capitalismo. In questa direzione, si pensi – ad esempio – anche al ruolo attribuito alla scuola e alla università. Le nostre istituzioni formative hanno il compito (esplicito e visibile) di fornire istruzione, educazione, conoscenze e competenza. Ma, a un livello invisibile, si tratta di organizzazioni destinate a gestire l’ansia (di genitori e figli) circa la possibilità di riuscire a sopravvivere nel futuro, attraverso la costruzione di un sistema di incentivi proprî dell’azione cooperativa. azIone cooperatIva: chester barnard e la parabola del masso Per comprendere il concetto di azione cooperativa si può fare riferimento alla parabola del masso considerata in letteratura una sorta di battesimo degli studi organizzativi. Si immagini un individuo che trovi bloccata la strada da un masso43. Dopo avere tentato di smuoverlo da solo, si renderà conto della propria impotenza e dovrà aspettare che altri giungano a lui per riunire le proprie forze. In questo caso l’azione cooperativa è elementare, perché vi è una coincidenza 43

42 L.M. Sicca, “Leggere e scrivere organizzazioni”, in Id. (a cura di) Leggere e scrivere organizzazioni. Estetica, umanesimo e conoscenze manageriali, Napoli: Editoriale Scientifica, 2010. 43 C. I. Barnard, The Functions of the Executive, Cambridge (MA): Harvard University Press, 1938.

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L’inclusione e il contesto universitario

dei fini individuali con quelli collettivi. Ma, ci dice Barnard, «ciò che qui è importante non è quello che muovere il masso significa per ciascun uomo personalmente, bensì quello che egli pensa significhi per l’organizzazione nel suo complesso»44. Se, per rimuovere il masso, ci sarà bisogno dell’aiuto di altre persone non direttamente interessate alla rimozione, questi accetteranno se potranno ottenere una ricompensa diversa dalla rimozione del masso. Dalla parabola del masso si può acquisire un punto centrale del concetto di azione cooperativa: il rapporto tra organizzazione formale e informale quale base su cui si costruisce la dialettica individuo e organizzazione. In Barnard, gli individui nell’azione cooperativa non si muovono solo sulla base di calcoli economici, ma agiscono per lo più in funzione dei sentimenti. Per cui i rapporti informali (opinioni, usanze, stili di vita, etc.…) gettano le basi per la creazione di un’organizzazione formale, mentre il solo sistema informale non è sufficiente a creare un’azione cooperativa: «L’organizzazione informale esige un certo ammontare di organizzazione formale e probabilmente non può durare o espandersi senza l’emergere di organizzazione formale»45. Le relazioni informali assumono cioè un ruolo di primo piano e sono regolate dalla iniziale forza dei sentimenti prima ancora che dalla razionalità:«L’organizzazione informale è una condizione che necessariamente precede l’organizzazione formale»46. Si tratta, dunque, di un circolo continuo tra organizzazione formale e organizzazione informale che si autoalimenta: dai rapporti informali dell’azione cooperativa nasce l’organizzazione formale e quest’ultima è foriera di nuove relazioni informali e così via. 44 45 46

Contro le ansie, le organizzazioni tendono a erigere dispositivi di difesa, analogamente a quanto accade nella mente dei singoli. E i dispositivi di difesa sono (almeno in parte) i veri incentivi ad “andare avanti” nell’azione cooperativa. Ne sono il motore o il freno47. Per esempio, quando ci si trova di fronte a un’esperienza nuova48 questi incentivi/difese all’azione cooperativa rendono quanto mai evidente il carattere ambiguo e paradossale della dialettica tra l’individuo (con

44

Ibidem. Ibidem. 46 Ibidem. 47 L.I. Menzies, “Staff Support Systems: Task and Anti-Task in Adolescent Institutions”, in R.D. Hinshelwood, N. Manning (eds.), Therapeutic Communities, London: Ruotledge & Kegan Paul, 1979. 48 I. Wittemberg-Salzberger, “Di fronte ad una nuova esperienza”, «Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale», Vol. I, 1983, pp. 20-38. 45

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Inclusione attiva e partecipazione 211

i propri processi di apprendimento) e l’organizzazione (con le sue routine e con la propria memoria). Per imparare ad apprendere da nuove esperienze, abbiamo bisogno di un buon equipaggiamento emotivo, ossia – con Wittemberg – di “… un certo grado di equilibrio interno fondato su un bagaglio di nuove esperienze che sia in grado di aiutarci durante la tempesta, e di fiducia in buoni oggetti interni…”. Entro la dialettica motore-resistenza49 che caratterizza l’azione cooperativa, la partecipazione e l’inclusione attiva degli studenti (professionisti del futuro, in fase di formazione) si pongono come i primi passi per un investimento di lungo periodo fondato sulla centralità delle “competenze”. Parola, quest’ultima, spesso usata e talvolta abusata da certa retorica del linguaggio manageriale. 3.2. Il concetto di “competenza” L’etimologia della parola “competenza” può aiutare a sviluppare il tema dell’apprendimento adulto. “Competenza” deriva dal latino cum-petere: “chiedere, dirigersi a”. Significa quindi “far convergere” verso un punto comune, ma anche incontrarsi e, in ultima analisi, anche gareggiare. Da cui il verbo competere50. alle orIgInI delle competenze Nella formazione medievale delle lingue europee la competenza è “appartenenza in virtù di un diritto”51: è competente chi ha il potere giudiziario. Concetto che si dilata intorno al XVII secolo come “capacità dovuta al sapere e 51

49

Cui coincide, sul versante degli studi organizzativi di matrice critical, una naturale e inevitabile tensione tra “neophilia” e “neophobia” nei processi di cambiamento. Si veda L.M. Sicca, R.Viscardi, “Labelling the New and destroying the Old. Managerial Rhetoric in Changing organizational Realities”, in Proceedings CMS7 – The Seventh International Critical Management Studies Conference, Naples July 11-13, 2011. 50 L.M. Sicca, “E-ducere: hic et nunc. Dalle (false) certezze all’umanesimo del critical management”, «Persone & Conoscenze», No. 50, 2009. 51 B. Maggi, Le competenze per il cambiamento organizzativo. Casi e dibattiti dell’Officina di organizzazione, Milano: Etas 2001.

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all’esperienza”. Fino alla odierna polisemia del concetto: dalla tradizionale accezione formale di stampo giuridico (“è di competenza del direttore amministrativo”; “è di competenza del direttore marketing”); sia nell’accezione meccanicistica di stampo fordista (è di sua competenza: chi fa che cosa); sia in una visione avanzata della gestione strategica delle Risorse Umane per la costruzione di una coerenza tra strategia, struttura organizzativa, bisogni e opportunità di sviluppo delle famiglie professionali e singoli52.

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Dalla polisemia del termine “competenza”, risulta evidente come si tratti di un oggetto di analisi e di interpretazione da parte di studiosi di diverse discipline. L’oggetto-competenza è spesso sotto la lente di osservazione dello psicologo, perché ha a che fare con i meccanismi di funzionamento della mente e di produzione simbolica. Analogamente è sotto la lente di osservazione di studiosi e studenti di organizzazione per la centralità delle competenze distintive delle risorse umane. Se queste ultime mettono in uso i propri saperi formali saranno anche in grado di generare un vantaggio competitivo per sé e per l’organizzazione cui afferiscono. Questo approccio alla competenza come messa in uso di un sapere teorico ha un fondamento preciso nella posizione dell’OCSE53, che così elabora la nozione di competenza:«Fronteggiare efficacemente richieste e compiti complessi comporta non solo il possesso di conoscenze e di abilità, ma anche l’uso di strategie e di routine necessarie per l’applicazione di tali conoscenze e abilità, nonché emozioni e atteggiamenti adeguati e un’efficace gestione di tali componenti». “Agire una competenza” è dunque, a sua volta, un processo (e non un atto) che si radica in meccanismi profondi e non estemporanei che interessano tutti noi nello sviluppo della nostra azione organizzativa. Pellerey54, per esempio, fa riferimento a tre componenti che mobili52

G. Costa, M. Gianecchini, Risorse Umane. Persone, relazioni e valore, Milano: McGraw-Hill, 2009. 53 L’OCSE è l’acronimo dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, istituita il 14 dicembre 1960 sostituendo l’OECE, creata nel 1948 per gestire il “Piano Marshall” di ricostruzione dell’economia europea dopo la II guerra mondiale. 54 M. Pellerey, Le competenze individuali e il portfolio, Firenze: La Nuova Italia, 2003.

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Inclusione attiva e partecipazione 213

tano l’azione degli attori nella partecipazione (con il proprio sistema di competenze distintive) al processo decisionale: le conoscenze, le abilità e le disposizioni interne stabili. Le conoscenze hanno a che fare con “il sapere”55. Esse comprendono fatti e idee interiorizzate attraverso lo studio, la ricerca, l’esperienza. Le abilità hanno invece a che fare con il “saper fare”. Ovvero con la capacità di trasformare un sapere astratto in procedura. Una dimensione del cum-petere, di interesse immediato per chi si occupa del passaggio dalle conoscenze individuali a compiti condivisibili. In grado, cioè, di passare dalla dimensione del sapere individuale al terreno dell’agire organizzativo. Le disposizioni interne, infine, possono essere assimilate all’espressione “saper essere”. La distinzione tra conoscenze, abilità e disposizioni interne stabili mette in evidenza il sottile confine tra formale e informale che accompagna la progettazione dell’azione cooperativa.

3.3. Formale e informale Secondo la lezione di H. Mintzberg56 il binomio formale/informale è strategico nei processi di progettazione delle competenze. Ovvero nella costruzione di quel bagaglio interno che consente alle persone di cooperare in una organizzazione formale, attraverso una corretta gestione dell’ansia. Mintzberg infatti, nella metà degli anni ’70, introduce un principio fondamentale dell’apprendimento adulto per spiegare il comportamento degli attori organizzativi. Siano essi manager o studenti in aula o chiunque operi in contesti formali e istituzionalizzati. Un principio (già noto alle neuroscienze) di “divisione del lavoro” e “coordinamento” (due categorie, invece, proprie degli studi organizzativi) tra emisfero destro e sinistro del sistema nervoso centrale.

55

F. Frabboni, Manuale di didattica generale, Roma-Bari: Laterza, 1992. H. Mintzberg, The Nature of Managerial Work, New York: Harper & Row, 1973. 56

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L’inclusione e il contesto universitario

Come apprende l’emisfero sinistro del sistema nervoso centrale?

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elaborando idee; privilegiando il pensiero logico; necessitando di fatti; formando teorie; costruendo casi; testando teorie; privilegiando strutture e processi; tendendo ad acquisire skill; attraverso la pratica.

Come apprende l’emisfero destro del sistema nervoso centrale? – – – – – – – –

scoprendo da solo; costruendo concetti; privilegiando l’iniziativa; interessandosi alle possibilità nascoste; ascoltando e comunicando le proprie idee; privilegiando il sistema intuitivo; lavorando per l’armonia; integrando l’esperienza nel Sé.

La compresenza della dimensione emotiva e di quella razionale riporta alla tradizione di studi manageriali di stampo critical (su enunciata), fondata sul costruttivismo radicale: l’organizzazione è un “oggetto” che non esiste come dato di realtà “vero”, ma è il risultato di una costruzione degli attori. Il che sussume un’idea adulta di apprendimento individuale e organizzativo, fondata sulla nota distinzione tra pedagogia e andragogia57. 3.3.1 Pedagogia e andragogia: lo studente universitario è adulto? La pedagogia è la scienza dell’istruzione e del processo educativo. Questa parola viene dal greco, dove il pedagogo era uno schiavo che accompagnava i bambini a scuola o in palestra. Al tempo dei romani era lo schiavo greco che insegnava anche la lingua greca. Oggi il pedagogo è l’insegnante. Il termine andragogia riguarda invece l’apprendimento degli individui adulti. Anche esso ha origine dalla lingua greca, dove άνήρ - άνδρός (aner-andros) vuol dire “uomo”. L’andragogia indica quindi uno stato evolutivo della mente in apprendimento diverso da quello del bambino. Griffiths et al.58, per esempio, hanno 57 L’età adulta rientra in un processo continuo dell’esistenza e non come fase conclusiva dello sviluppo evolutivo. In quest’ottica, il concetto di cambiamento (e le relative resistenze) va collocato lungo tutte le fasi della vita. Cfr. M. Knowles, The Adult Learner, Houston: Gulf Publishing Company, 1973. [Trad. it.: Quando l’adulto impara, Milano: Angeli, 1993]. 58 T. L. Griffiths, M. Steyvers, A. Firl, “Google and the Mind: Predicting Fluency with PageRank”, «Psychological Science», Vol. 18, 2007, pp.1069-1076.

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dimostrato, attraverso metodi matematici, che la facilità di richiamo delle parole è legata al numero delle connessioni che tali parole hanno con le altre:“Il cervello funziona come Google, ovvero Google funziona come il cervello umano”. In tale direzione, il metodo dell’inclusione e della partecipazione assurge a medium per l’apprendimento, assumendo in partenza che lo studente universitario sia un adulto in apprendimento. Questi, in tal senso:  pur conservando dentro di sé un modello interiorizzato nei precedenti anni di scuole superiori, trovandosi ad un passo dal mercato del lavoro, tende a sviluppare una tensione verso modelli di apprendimento propedeutici al confronto con le sfide dei mercati del lavoro e dei sistemi professionali e aziendali. In tal senso, i testi didattici possono contribuire alla co-progettazione (tra docente e discenti) di una mappa (nell’accezione illustrata ) da riempire poi di significati;  esprime un concetto di sé come persona motivata da un profondo bisogno di essere considerato e trattato come capace di gestirsi autonomamente, oltre a essere guidato dal docente nell’esperienza di apprendimento;  porta con sé un bagaglio di esperienza che è sia una risorsa, sia una minaccia all’accettazione del nuovo: abitudini mentali radicate tendono a chiudere la mente alle nuove idee;  è disponibile ad apprendere in funzione del momento che sta attraversando, entro la triade prima-durante-dopo. Pertanto, si possono fissare tre momenti: 1. Pregresse esperienze (prima) 2. Comprensione dei contenuti della disciplina che sono “qui ed ora”, essi stessi oggetto dell’azione d’aula (durante); 3. Verifica ex post di quanto incamerato nello studio universitario (dopo). valutazIone, mIsurazIone e “conversazIone” In una prospettIva adulta Nel contesto della triade “prima-durante-dopo”, i momenti di verifica degli apprendimenti possono rientrare in una logica adulta che si rispecchia nella complessità che ciascuno studente dovrà affrontare sui mercati del lavoro. «Quando mi dici qualcosa, io verifico di aver compreso il tuo messaggio ripetendolo con parole mie, perché se lo ripetessi con le tue parole tu potresti dubitare che io abbia capito. Ma se uso le mie parole il risultato è che cambio il tuo significato, anche se solo di poco… La conversazione (organizzativa)

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L’inclusione e il contesto universitario

è come giocare a tennis con una palla fatta di gomma semiliquida, che ha una forma diversa ogni volta che attraversa la rete …»59. I momenti di verifica (prove intracorso, esami scritti e/o orali, presentazioni in aula, etc…) che interessano lo studente si possono dunque analizzare a partire da questa citazione in cui si sostanzia la complessità della questione sull’apprendimento adulto. 59

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4. Spunti per includere e partecipare Siamo a lezione: l’aula è popolata (molto spesso) da un gran numero di studenti che intendono avvalersi della possibilità di comprendere i contenuti della disciplina, attraverso un’esperienza di partecipazione. Ciascuno studente in aula dovrà interpretare e contribuire a costruire il contesto nel quale si trova a operare. Di fronte al docente che illustra il programma didattico, con i relativi riferimenti al testo, a casi, a esperienze di ricerca che trasferisce nella didattica, etc..., si schiude al discente la possibilità di passare dall’idea che il gioco dell’apprendimento organizzativo consista in regole da imparare dalla posizione del proprio posto a sedere, all’idea che si debba attivare un processo basato su ruoli che vanno invece interpretati, nel vivo dell’azione organizzativa60. Consideriamo in tal senso gli spazi entro cui prende corpo la nostra azione organizzativa61. 59 D. Lodge, Small World, London: Secker and Warburg, 1984 [Trad. it.: Il professore va al congresso, Milano: Bompiani, 1984]. 60 Cfr. K.E. Weick, “Cognitive Processes in Organizations”, cit. Come è stato osservato da de Vita (“Azione, attori, e progettazione organizzativa”, in P. de Vita, R. Mercurio, F. Testa, Organizzazione aziendale: assetto e meccanismi di relazione, Torino: Giappichelli, 2007), «l’azione organizzativa viene esplicata concretamente attraverso l’intervento di molteplici leve o strumenti organizzativi, che entrano in gioco a seconda dei diversi contesti ambientali, dei criteri di preferenza e dei limiti cognitivi che si presentano nella realtà. Gli effetti congiunti dell’azione si manifestano nella costruzione di innumerevoli soluzioni organizzative, soggette a continui e più o meno profondi mutamenti nel tempo, che ciascuna realtà organizzativa pone in essere e tende a vivere e ad interpretare in modo proprio». 61 Salvo poi che lo studente potrà individuare – motu proprio – altre dimensioni dell’agire organizzativo, idonee ad arricchire il bagaglio degli attrezzi per migliorare le abilità di diagnosi.

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4.1. Spazi fisici e spazi mitici Gli spazi fisici e la loro articolazione possono favorire o meno la scelta di alcune metodologie didattiche rispetto ad altre. Gli spazi, infatti, esprimono (attraverso un processo di interpretazione simbolica) le caratteristiche insite nel modo di essere “noi aula”. Le lezioni frontali avvengono nelle tradizionali aule con una disposizione dei banchi di fronte alla cattedra per cui (come ci segnala la stessa parola “frontale”) studenti e docente sono in una posizione vis à vis. Questa condizione architettonica, in realtà, pre-suppone (e rappresenta simbolicamente), una concezione dell’apprendimento e della didattica che ha delle connotazioni ben precise nella nostra tradizione, ma che attraverso un processo di interpretazione simbolica non sono necessariamente scontate. Possiamo cioè ipotizzare che l’organizzazione degli spazi fisici contenga una concezione dell’apprendimento nel senso di un trasferimento di conoscenze dal docente ai discenti: un approccio, insomma, che fonda sulla convinzione che l’oggetto dello scambio (le conoscenze di una disciplina) sia da impartire secondo modalità per certi versi da attivo a passivo. Nella prospettiva diagnostica questo è un sintomo di una cultura presente nella maggior parte delle organizzazioni che producono ed erogano conoscenza (dalle scuole primarie alle università). Quanto si sta dicendo è meglio comprensibile se si pensa al fatto che – a contrario – sempre più spesso, a fronte dell’esigenza di ripensare la didattica (e le premesse culturali che sono a monte del modo di considerare i processi di apprendimento adulto) le strutture architettoniche dei luoghi di insegnamento tendono ad assumere nuove forme organizzative. Si pensi, ad esempio, alle tante modalità d’insegnamento orientate alla ricerca di un punto d’incontro tra le conoscenze teoriche acquisite e le situazioni riscontrabili nella realtà lavorativa: esse vedono la presenza di infrastrutture (informatiche e di una serie di sussidi didattici) volte a favorire gli studenti a passare dall’acquisizione di conoscenze allo sviluppo di competenze. Così, ad esempio, spesso i lavori di gruppo realizzati attraverso i gruppi di lavoro richiedono un confronto tra studenti che devono potersi vedere, anche fisicamente, in una disposizione che non presupponga necessariamente gerarchie intellettuali, come nel caso del vis à vis tra docente e studenti: in tal senso gli spazi più piccoli delle tradizionali aule favoriscono uno scambio di opinioni e lo stesso rapporto con i

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L’inclusione e il contesto universitario

docenti, nell’ottica di una trasmissione dei saperi che risulta più dinamica e dialettica. Tutto ciò può incidere sul clima organizzativo delle comunità di apprendimento e sulle possibili sinergie che possono derivare, per esempio fra gli studenti. Considerando l’esperienza di apprendimento universitario come la lente di un microscopio, sotto la quale si possono rendere ben visibili (perché ingranditi) alcuni tipici processi riscontrabili nelle organizzazioni aziendali strico sensu, ne deriva che il “noi come organizzazione” rappresenta un archetipo (“primo esemplare assoluto”, secondo il Dizionario della lingua Italiana Devoto-Oli) di come in tutte le organizzazioni siano presenti modalità di sviluppo delle persone che vivono attribuendo un forte valore al ruolo da interpretare, al di là delle mansioni e delle posizioni designate formalmente. Nelle organizzazioni (di apprendimento, e quindi nelle organizzazioni aziendali che sono esse stesse comunità di apprendimento), la struttura degli spazi fisici ha un ruolo fondamentale che dà il significato ai rapporti tra le cose e le persone e ne definisce le relazioni reciproche62. Nella determinazione del clima organizzativo, lo spazio assume i connotati mitici tipicamente riscontrabili nei luoghi di “culto” in grado, quindi, di aggregare le persone intorno a valori e obiettivi condivisi. Alla stregua di quel che avviene in qualsiasi organizzazione, la nostra esperienza quotidiana ci può suggerire che, al di là dell’articolazione dello spazio in base a un ordine razionale (banchi, cattedra, distribuzione delle aule, loro grandezza, eventuali disfunzioni architettoniche, etc…) che risponde a una condizione logica per dare ordine e per definire un significato analitico, esiste poi uno spazio simbolico (mitico) che vi si sovrappone. Così i nostri luoghi assumono connotazioni di tipo sintetico: come dei contenitori, i nostri spazi raccolgono i valori (anche conflittuali e divergenti) che esprimono il modo in cui si costruisce la cultura della nostra azione organizzativa63. In altri termini i modi con cui vengono distribuiti – e vissuti – gli spazi incide sui processi con cui si determinano i valori per l’organizzazione: così, questa dimensione 62 L. Biggiero, “Lo Spazio”, in G. Costa, R.C.D. Nacamulli (eds.), Manuale di Organizzazione Aziendale, Vol. 2, Torino: Utet, 1997. 63 B. Bolognini, “Il Mito come espressione dei valori organizzativi e come fattore strutturale”, in P. Gagliardi (a cura di), Le imprese come culture, Torino: Isedi, 1995.

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simbolica può consentire la comprensione di tutti quei fenomeni che si manifestano nella nascita e nella proliferazione di codici, di rituali e di cerimonie i cui significati vanno decifrati e che non potrebbero essere spiegati esclusivamente con un approccio di tipo “logico-funzionale”64.

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5. Limiti e potenzialità dell’approccio proposto: retorica del linguaggio e improvvisazione L’impostazione qua proposta offre uno spunto che nasce dall’esperienza maturata nel corso di non pochi anni di didattica. Naturalmente si tratta di un approccio che contiene sia punti di forza, sia di debolezza. Come tutto ciò che interessa il management e le organizzazioni, anche in questo caso occorre valutare i pesi e i contrappesi che lo studente, lo studioso/ricercatore, il manager, il professionista, etc. devono associare ai possibili modi di intendere l’inclusione attiva e partecipata. Lo studente che vive un’esperienza di inclusione attiva e partecipata, alla stregua di chiunque voglia attivare le proprie abilità diagnostiche, rischia di restare ingabbiato nell’indefinitezza che può derivare dall’uso dei propri spazi di autonomia nei processi di diagnosi organizzativa. In tal senso, non si può ignorare il nodo basilare della lingua e dei linguaggi parlati da analisti, manager e studiosi/studenti, nei percorsi di coordinamento reciproco. Il tema del linguaggio è ben evidente, proprio come sotto la lente di un microscopio, nel caso di “noi organizzazione”, dove le parole esprimono un significato tecnico o specifico e, comunque, codificato all’interno di una disciplina e/o di un contesto accademico. Sia “dentro l’università” che “fuori di qua”, affinché la partecipazione attraverso un approccio simbolico culturale possa effettivamente essere funzionale all’apprendimento individuale e organizzativo, occorre che l’interpretazione si strutturi in un lessico condiviso, nell’attribuzione dei significati che si danno alle azioni, ai processi, ai compiti, etc…: insomma, se l’organizzazione non è una bottiglia e gli attori organizzativi non sono delle mosche nella trappola di un linguaggio retorico, in che modo si può pervenire a una condivisione di significati, con la costruzione di un lessico organizzativo?

64

L. Biggiero, “Lo Spazio”, cit.

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Ovvero, quali possono essere le vie d’uscita dalla bottiglia, ai vari livelli di azione/attore? 65

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sapere parlare, sapere pensare e retorIca del lInguaggIo managerIale Una ricerca a carattere empirico condotta sul mondo delle organizzazioni artistiche ha mostrato i pericoli che possono derivare dalla dimensione retorica del management. In particolare, per segnalare i rischi dell’uso di un linguaggio retorico, si rammenta che sono stati confrontati i bilanci dei teatri, i flussi finanziari stanziati dai governi insieme alle allegate relazioni scritte dai Ministeri per un arco temporale di circa venti anni e questi dati sono stati incrociati con quanto emergeva dalle metafore (decodificate) che erano adoperate dai manager o dai professionisti che operano nei teatri d’opera italiani (che negli ultimi dieci anni sono stati al centro di un processo di riforma da parte del Legislatore): si è così giunti a diagnosticare che l’auspicata dimensione privatistica (introdotta per esempio nella formulazione dei contratti per il personale dipendente) di fatto si scontrava con la cultura centenaria della gente di teatro, fatta di consuetudini e prassi consolidate. Così il marketing era spesso confuso con attività di vendita o piccole azioni di merchandising, la gestione delle risorse umane non andava oltre tradizionali logiche di controllo delle persone e delle urgenze derivanti dai conflitti sindacali e così via. Questa distonia derivante dal tentativo di “applicare” un linguaggio (propriamente aziendale) legato alla tradizione delle organizzazioni che tipicamente hanno segnato la storia del capitalismo industriale a queste realtà dello spettacolo dal vivo fortemente ancorate ad altre culture può essere considerata una fonte di stallo e di difficoltà a riconoscere sia l’entità che la qualità dei problemi da affrontare in quelle organizzazioni. In ultima analisi, si sostiene che l’uso retorico del linguaggio di management può essere alla base di una più o meno corretta capacità diagnostica da parte dei manager, dei professionisti che operano nelle organizzazioni, dei consulenti, degli studiosi e degli studenti, con evidenti cause sia in termini di Sviluppo Organizzativo sia di crescita finanziaria. Nell’esempio in questione, come anche nel caso delle università pubbliche, ciò si riflette sui contribuenti e, ovviamente, sulla collettività che sostiene le organizzazioni della Pubblica Amministrazione. Ma il discorso si può contestualizzare, laddove è il mercato (e il consumatore) a sostenere i costi dell’inefficienza organizzativa. Nostra elaborazione da Sicca-Zan, 2005.

Per superare i rischi (inevitabili per ogni azione organizzativa) di restare imbottigliati in meccanismi artificiali che derivano dall’uso 65

L.Wittgenstein, Philosophische Bemerkungen, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1964 [Trad. it.: Osservazioni filosofiche, Torino: Einaudi, 1976].

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Inclusione attiva e partecipazione 221

delle etichette analitiche (label)66 occorre riconoscere il limite principale dell’approccio proposto: l’identificazione tra attore organizzativo (lo studente) e soggetto osservante (lo studente). Lo studente, insomma, che osserva se stesso. Questo problema teorico di fondo interessa, nella prassi, molte organizzazioni che spesso, infatti, fanno ricorso a interventi professionali dall’esterno, proprio perché uno sguardo terzo può favorire un monitoraggio sui rischi di confusione nel giocare un duplice ruolo di osservante e osservato. Nei termini proposti nelle precedenti pagine, si può esemplificare con una domanda che, naturalmente, lo studente si dovrà porre per poi andare oltre: se la mosca, trovando l’uscita dalla bottiglia (di un linguaggio retorico) si posa poi sul muro, in che modo può riuscire a osservare con la necessaria distanza dal suo oggetto? Ovviamente non svilupperemo questo punto, se non indicando una possibile (e forse autoreferenziale) via d’uscita: vogliamo cioè ipotizzare che un possibile rischio di imbottigliamento, ovvero di confusione nell’uso del linguaggio, che può generare posizioni retoriche, possa derivare proprio dal mancato passaggio (in chi studia e svolge analisi) dalla dimensione delle conoscenze della materia a quello delle competenze diagnostiche. Detto in altri termini, se chi vive l’organizzazione ai vari livelli dell’azione sviluppa un’abilità diagnostica, può allora maturare un livello assai avanzato ed evoluto, adeguato a governare i rischi sopra indicati. E questa abilità può (e dovrebbe) diventare, in chi vuole competere nel mondo delle organizzazioni, un agito istantaneo, spontaneo e situato, estemporaneo e automatico, adeguato a esprimere un’attitudine alla “improvvisazione organizzativa” che può essere una competenza distintiva, fonte di vantaggio competitivo nei sistemi di business contemporanei67.

66

B. Czarniawska, The Three-Dimensional Organization. A Constructivist View, Sweden: Barbara Czarniawska and Studentlitteratur, 1993; Ead., Narrating the Organization. Dramas of Institutional Identity, cit.. 67 C. Ciborra, “In the Mood of Knowledge. A New Study of Improvisation”, «Working Paper Series», London: London School of Economics and Political Science, 2001.

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L’inclusione e il contesto universitario

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attraversIamo la strada e passIamo l’esame. Stiamo attraversando la strada (ergo, stiamo vivendo un percorso, passando da un modello scolastico a uno di apprendimento adulto). La vista di un camion di dieci tonnellate che cade su di noi porta a un’azione immediata e presumibilmente prudente. Non ci fermiamo per chiedere a che velocità stesse correndo, da dove esso giungesse, quanto spesso ciò accade, oppure quali erano le intenzioni del guidatore. Noi ci muoviamo. Sviluppando una effettiva abilità ad abitare un contesto professionale, di studio, etc. in cui hanno luogo processi di definizione dell’assetto e di meccanismi di coordinamento, è possibile dare spazio a dimensioni affettive e di potere, agganciate a dati di realtà sensibile. L’esempio del camion ci suggerisce che dalla comprensione contestuale e dalla definizione di obiettivi empatici si rende possibile generare una conoscenza diretta, fondata su (e fondante per) un’acquisizione pratica. Allora, per concludere questo saggio (ma non “l’azione” dello studente/lettore nel suo processo di apprendimento) possiamo dire che il nostro studio (sul camion) riguarda uno sguardo (sulla strada) che svela alla maggior parte di noi un significato simbolico del potere della velocità. Improvvisiamo, cioè, una risposta spontanea e immediata68 e in modo obbligato si genera in automatico, la nostra comprensione del reale: con “senso pratico” evitiamo di restare… “schiacciati” e … ci salviamo la vita! Nostra elaborazione da Van Maanen, 1979a. 68

Questa immagine dell’improvvisazione, sottolinea l’importanza di interiorizzare le competenze di diagnosi organizzativa. Sapendosi poi muovere al di là degli specifici contesti, settori, ambiti merceologici, tecnologici, etc... È questo il cuore della partecipazione. È qua che risiede il segreto dell’inclusione attraverso l’approccio simbolico culturale proposto negli studi organizzativi improntati a un metodo di stampo critical. È questa, in ultima analisi, la proposta che conclude questo saggio, ma non lo sviluppo delle competenze da praticare – hic et nunc – “fuori di qua”.

Riferimenti Bibliografici AA.VV, Enciclopedia delle scienze sociali, Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani, vol. VII.

68

Ibidem.

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L’impatto della disabilità e della malattia cronica nella tardo-adolescenza

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di Julia Segal

Premessa1 Il lavoro di Julia Segal, qui pubblicato, è il testo di una conferenza, tenuta nell’Aula Magna della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II il 13 dicembre 2002. La conferenza aveva la finalità di sensibilizzare la comunità accademica e gli operatori della salute mentale sull’impatto che una malattia cronica o una disabilità può avere in quelle particolari fasi del ciclo della vita rappresentate dalla tardo adolescenza o dall’età giovanile. Il primo interrogativo che la Segal pertanto solleva è quello concernente gli argomenti favorevoli o contrari all’attivazione di servizi psicologici, rivolti specificamente agli studenti universitari, che presentano una patologia cronica o soffrono di disabilità. Come giustamente rileva l’autrice, questo interrogativo sottende un altro dilemma: «Questo dilemma tra un’immagine dei giovani con disabilità, come persone diverse dai propri coetanei, distinte da essi e un’altra immagine di essi, come individui che si confrontano con gli stessi conflitti e ansie di tutti gli altri giovani, attraversa tutto il dibattito sulla malattia e sulla disabilità. È un conflitto che gli stessi studenti disabili sentono al loro interno e che, naturalmente, coinvolge anche gli altri». Penso che il tema di fondo a cui questi interrogativi rimandano sia quello della integrazione, intesa in questo caso come necessità di tenere 1 La premessa e l’editing del presente contributo di Julia Segal sono a cura della Prof.ssa Simonetta Adamo (Università di Milano Bicocca), che i curatori ringraziano per il lavoro svolto.

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L’inclusione e il contesto universitario

contemporaneamente presenti i limiti connessi al disturbo di cui l’individuo soffre e le risorse di cui comunque dispone, sia pure potenzialmente. Gli psicoterapeuti che si sono occupati del lavoro con soggetti con disabilità ci insegnano quanto questo sia un compito difficile, che impegna l’individuo lungo tutto l’arco della vita, ogni volta che deve confrontarsi con i cambiamenti e le scelte presentate dalle nuove fasi evolutive. Dorothy Judd, ad esempio, sottolinea come sia difficile per gli adolescenti, affetti da patologie croniche o fortemente invalidanti, essere consapevoli della propria malattia e al tempo stesso affrontare le sfide dell’adolescenza, quali l’autonomia crescente dal gruppo familiare, l’inserimento nel gruppo dei pari, il confronto con la sessualità emergente, la ricerca di un partner. Molti giovani, sottolinea la Judd, trovano più facile ricorrere a meccanismi di scissione, per cui sono portati a identificarsi con i loro aspetti sani, negando le loro difficoltà e le emozioni che queste evocano in loro, o viceversa. Nel primo caso il rischio è quello di incorrere in meccanismi di negazione, che possono portare l’individuo a trascurare la malattia, le cure da essa richieste, o a disconoscere le emozioni e ansie a questa collegate. Se è vero che, come nota la Judd, le difese psichiche sono necessarie per difendersi da un sovraccarico di pena psichica, va anche riconosciuto che alcune difese hanno dei costi psichici che possono risultare eccessivi. Disconoscere la propria malattia può portare alcuni individui a proporsi mete irrealistiche, vivendo poi uno stato di cronica frustrazione per il non riuscire a raggiungerle, o a proiettare tali limiti negli altri (familiari, docenti) e a viverli quindi come figure persecutorie che negano l’accesso alle gratificazioni desiderate. Spesso, invece, se è la pena psichica a essere massicciamente negata e proiettata, i giovani, come osserva l’autrice, si sentono circondati da altri (familiari, amici) che a loro paiono incomprensibilmente preoccupati e depressi. Nel caso opposto, invece, in cui sono gli aspetti sani del corpo e della psiche a essere negati, il giovane può cadere in una situazione depressiva, in cui è portato a isolarsi, ritirarsi e rinunciare a occasioni accademiche, lavorative, sociali o affettive, che potrebbero invece arricchire la sua vita. Nel suo testo la Segal riesce a conciliare mirabilmente il richiamo alle difficoltà oggettive che le disabilità possono comportare per l’individuo con l’invito a esplorare e tenere presente il significato emozionale che esse rivestono, spesso a livelli inconsci. Un grande

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L’impatto della disabilità e della malattia cronica 233

sforzo di immaginazione e di empatia, ci dice, è necessario per poterci accostare alle implicazioni che una disabilità può avere nella vita quotidiana di un individuo. Pensiamo, ad esempio, alle difficoltà motorie, che trasformano completamente la percezione del tempo e della fatica richiesti per ogni movimento, o alle disabilità invisibili, che creano uno scollegamento tra il vissuto interno dell’individuo e la percezione che di lui hanno gli altri. Tali difficoltà vanno pienamente riconosciute, ma altrettanto importante è esplorare il significato emozionale profondo che la malattia e le sue cure rivestono per ogni singola persona. Il lutto per la perdita di una funzione o per la ridefinizione di progetti di vita può, ad esempio, riattivare vissuti connessi a perdite precedenti, così come la dipendenza dagli altri, associata alla malattia o alle cure, si colora diversamente a seconda delle esperienze che l’individuo ha vissuto in quel periodo iniziale della vita in cui ogni essere sperimenta uno stato di totale dipendenza dalle cure e dall’amore della madre o del caregiver. Queste sono solo alcune delle considerazioni che rendono lo scritto della Segal, basato su una larga esperienza di lavoro clinico con persone con disabilità, una lettura utile per giovani che presentano disabilità, per i loro familiari, amici, partner, e per tutti gli operatori, che con vario ruolo professionale, se ne prendono cura.

Introduzione Quando ho saputo che l’Università di Napoli aveva creato un servizio di counselling per studenti con disabilità o con malattie croniche, ho avuto una reazione ambivalente: da un lato, ero contenta che questi studenti venissero riconosciuti come persone, che potevano aver bisogno di terapeuti competenti, che non avessero timore dell’impatto con la disabilità e la malattia. Per accrescere la sensibilità nel pubblico rispetto alla disabilità, abbiamo bisogno di comprenderla meglio, di ampliare la nostra conoscenza di questo problema e un servizio specializzato può sicuramente svolgere un ruolo importante sotto questo aspetto. Dall’altro, mi sono chiesta se potesse essere utile lavorare direttamente con il personale docente e amministrativo dell’Università per renderlo consapevole dei propri atteggiamenti rispetto alla disabilità, e aiutarlo a incoraggiare gli studenti con disa-

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bilità a far ricorso ai servizi tradizionali. Le persone con disabilità o malattie non appartengono a specie differenti; le loro problematiche rientrano nell’intera gamma dell’esperienza umana. Qualunque servizio di counselling per studenti dovrebbe essere accessibile a tutti, e i terapeuti dovrebbero essere in grado di lavorare con ogni tipo di clienti. Questo dilemma tra un’immagine dei giovani con disabilità, come persone diverse dai propri coetanei, distinte da essi e un’altra immagine di essi, come individui che si confrontano con gli stessi conflitti e ansie di tutti gli altri giovani, attraversa tutto il dibattito sulla malattia e sulla disabilità. È un conflitto che gli stessi studenti disabili sentono al loro interno e che, naturalmente, coinvolge anche gli altri. Quale differenza, quindi, può e deve fare una disabilità? E quale invece non dovrebbe fare? Quali concessioni sono utili o necessarie e quando dovremmo aspettarci il rispetto dei normali standard di comportamento, a prescindere da qualunque problema di salute? Gli stessi giovani con disabilità lottano con questo tipo di problemi e così anche coloro che li circondano. La disabilità e la malattia ci confrontano con qualcosa che “non va”, che “non dovrebbe esistere”, fanno parte della sofferenza umana che vorremmo eliminare. Eppure, sappiamo che esistono, che le persone si abituano alle disabilità e alle malattie e ci convivono. È necessario accettare anche gli aspetti della vita che ci addolorano e integrarli, in un modo o nell’altro. All’inizio può accadere che si reagisca a una realtà spiacevole rifiutandola ma, se si vuole restare mentalmente sani, bisogna prestare attenzione ai problemi, capire come collocarli nel nostro mondo e tenerne conto. Con il passare del tempo, ciò può condurre a una nuova definizione di quella che è una vita normale. Se, invece, non diamo a noi stessi il tempo necessario, se non concentriamo la nostra attenzione per modificare la nostra visione della società e far sì che essa incorpori anche questi fatti, inizialmente sconvolgenti e disturbanti, perderemo il contatto con la realtà. Quello di cui sto parlando è il bisogno di vedere la disabilità come una parte della vita. Alcune persone stanno visibilmente meglio al loro interno, perché il counselling ha consentito loro di affrontare ansie che le avevano tormentate per molti anni.

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In questo mio contributo, vorrei descrivere e analizzare alcuni dei problemi che rappresentano una sfida per gli studenti con disabilità e per coloro che vivono accanto a loro. Evidenzierò alcune delle implicazioni emozionali della malattia e della disabilità, sia nei termini dei significati simbolici attribuiti alle questioni pratiche, sia nei termini dei meccanismi difensivi, che le persone mettono in atto per affrontare la loro condizione. Esaminerò alcuni dei conflitti psicologici sottostanti queste dinamiche. Tali conflitti possono manifestarsi sia all’interno della mente degli individui sia nelle relazioni tra individui. Cercherò, inoltre, di mostrare come il counselling e la psicoterapia possano aiutare i clienti a riconoscere ciò che accade nelle loro vite e a comprendere meglio il ruolo svolto dalla disabilità e dagli altri problemi che devono essere affrontati.

Punti principali Il punto principale, che voglio sottolineare, è un concetto alquanto semplice: vale a dire che la malattia e la disabilità possono influenzare la visione di noi stessi e degli altri in molti modi. In particolare, spesso, sorge un conflitto tra il vedere altri aspetti della persona e il vedere la disabilità, laddove, probabilmente, abbiamo bisogno di vedere entrambi. In secondo luogo, voglio lanciare un avvertimento rispetto a un preconcetto alquanto diffuso. Accade spesso che supponiamo di conoscere che cosa significhi la malattia o la disabilità, basandoci sulla nostra esperienza o su quella di altri. Eppure ogni essere umano è diverso, e noi non possiamo prevedere in che modo una malattia possa influenzare un altro. Potrebbe essere molto stressante, oppure no. Potrebbe sembrargli totalmente fuori posto, inaccettabile, oppure potrebbe apparirgli normale e familiare. Solo lentamente, e prestando molta attenzione, potremo scoprire che cosa la disabilità significhi per quella specifica persona, in questo specifico momento. In terzo luogo, vorrei soffermarmi su un aspetto meno evidente, e quindi meno noto, ossia che alcuni dei meccanismi che le persone usano per combattere i sentimenti di differenza, di isolamento, di alienazione, causati dalla malattia, dalla disabilità (o da qualsiasi altro problema) possono, di fatto, contribuire ad alimentarli.

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Problemi pratici Prima di tutto, vorrei analizzare l’impatto che la malattia e la disabilità possono avere nella vita pratica di un giovane. Le malattie e le disabilità, per definizione, causano problemi pratici. Una persona, affetta da artrite, può impiegare anche due ore per alzarsi al mattino. Un problema neurologico, come la sclerosi multipla, può causare alle persone un grande affaticamento, tale da far loro desiderare, non appena alzate, di tornare immediatamente a letto. Prendere delle pillole in determinati momenti dei giorno potrebbe richiedere l’adozione di complicati sistemi per non dimenticarle. Il rischio dell’incontinenza potrebbe comportare il bisogno di richiedere informazioni o aiuto e di fornire rapide spiegazioni, etc. Tutte queste questioni pratiche hanno implicazioni emotive e, in molti casi, anche sociali. Inizialmente potrebbero costituire una fonte costante di irritazione e di preoccupazione. Dopo un certo periodo (all’incirca due anni), potrebbero entrare a far parte della vita normale e la persona potrebbe non curarsene più. Molti problemi pratici sono risolvibili in teoria o in un mondo ideale ma, per poter trovare una soluzione a essi, potrebbe essere necessario che la persona vi si confronti per un periodo sufficientemente lungo, e comunque tale da farle accettare che il problema non passerà. Una singola caduta non implica che si debba adottare una sedia a rotelle, ma un anno di cadute settimanali, o di diverse cadute gravi, potrebbe renderlo necessario. Spesso il periodo, che intercorre tra l’emergere di un nuovo sintomo e la capacità di trovare “soluzioni” pratiche, che consentano di convivere con esso, è particolarmente difficile. Potrebbe essere necessario valutare sia le implicazioni pratiche sia quelle emozionali, prima che la soluzione diventi accettabile. L’avere una disabilità comporta un duro lavoro di riflessione, oltre al confronto con sentimenti dolorosi. Essere su una sedia a rotelle rende certamente più difficile, ad esempio, andare al bar a bere un bicchiere. Paure del tipo “Se finisco su una sedia a rotelle, non mi alzerò mai più”, oppure pensieri quali “Le persone poi si sentiranno autorizzate a portarmi dove vogliono loro” potrebbero contenere elementi di realtà, che devono essere affrontati, per quanto possa essere doloroso farlo. Il counselling, spesso, porta alla luce paure molto potenti, ma irrealistiche, che impediscono attivamente l’accettazione di una nuova

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soluzione. Scegliere, ad esempio, di passare da un tempo pieno a uno part-time nel corso di laurea certamente ha un peso nei termini delle proprie ambizioni, ma potrebbe anche non equivalere a un’umiliazione totale e al trionfo di un fratello o di una sorella più fortunati, come qualcuno potrebbe sentire. Cercare di decidere se il problema sia prevalentemente di ordine pratico o emozionale non è sempre così facile. L’esitazione nell’attraversare la soglia di una biblioteca o di una sala conferenze ha a che fare con le associazioni e il significato del corso, oppure con la configurazione della sala? È un segno del morbo di Parkinson, oppure una valutazione realistica del rischio di cadere in un posto dove non c’è un corrimano? Potrebbe essere un insieme di entrambi questi elementi, che dovrebbero pertanto essere affrontati, sia attraverso la fisioterapia sia attraverso il counselling. Le persone, spesso, si chiedono “Sono io o è la mia condizione?”. Nel counselling possiamo riflettere su questo interrogativo ed elaborare alcune delle sue implicazioni. I problemi pratici possono essere esacerbati o mitigati dal tipo e dalla qualità dell’assistenza disponibile. Se il trasporto pubblico è sufficiente, frequente e accessibile, l’impossibilità a guidare potrebbe non essere un grosso svantaggio. Se il trasporto pubblico non è affidabile, lo svantaggio potrebbe diventare notevole. Se c’è qualcuno pronto e disponibile a dedicarsi ai bisogni delle persone con disabilità, alcuni problemi pratici possono essere superati, sia pure con qualche costo. Quando non c’è nessuno che aiuti, oppure soltanto persone a pagamento, che all’ultimo momento potrebbero arrivare tardi o non venire proprio, allora i problemi pratici potrebbero ingigantirsi e causare, a volte, vere e proprie crisi. Le difficoltà ad aiutare le persone a gestire i problemi della vita quotidiana, ivi incluso, ad esempio, il riuscire a recarsi alla seduta di counselling, possono, a volte, sembrare schiaccianti. Le disabilità invisibili possono causare specifici problemi di ordine pratico. Una persona, ad esempio, che di tanto in tanto vacilla ma che, in altri casi, non ha problemi a camminare, deve decidere se correre il rischio di camminare in pubblico, in un posto dove potrebbe essere spintonata, se adoperare un bastone, oppure cercare di far finta che non ci sia niente di rischioso, sperando che tutto vada bene. Il bastone bianco, adoperato dai non vedenti, serve per segnalare il loro problema, ma non esiste nulla di equivalente per qualcuno che soffra di

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affaticamento cronico o di un problema cardiaco. Un cliente mi può dire, in una seduta di counselling, che ha un dolore, ma non posso sapere, semplicemente guardandolo, se soffre di un dolore cronico (un dolore acuto può essere più evidente) o se il dolore a un certo punto è scomparso. I parenti stretti, il partner, possono incontrare la stessa difficoltà e questo può aumentare il senso di isolamento o di scarsa comprensione reciproca; la persona, che ha un problema, può irritarsi sempre di più se deve continuamente ricordarlo agli altri, perché tendono a dimenticarlo. Sorridere e far finta che non ci sia nessun problema può essere, a volte, la scelta più facile, ma questo finisce col causare altre difficoltà. Non sorprende, quindi, che le persone con disabilità o con malattie preferiscano, a volte, limitare le loro relazioni sociali, ma questa misura, portata agli estremi, può aumentare l’isolamento e il concomitante senso di depressione e di disperazione. Siamo creature sociali e abbiamo bisogno di ricevere stimolazioni dagli altri e, se è vero che l’Università rappresenta un luogo in cui i giovani possono incontrare altre persone, fare nuove amicizie, trovare un partner, un importante aspetto della vita universitaria viene messo in pericolo. I problemi pratici, connessi alla disabilità e alle malattie, potrebbero avere un peso determinante nello stile di vita, nell’organizzazione della vita quotidiana e nella possibilità stessa di frequentare l’Università. Ma quand’anche questi problemi venissero risolti, o non fossero influenzati dalla malattia o dalla disabilità, potrebbero insorgere altre difficoltà.

Problemi emozionali I problemi emozionali, connessi a una disabilità o a una malattia, potrebbero essere considerevoli, anche se, ricordiamoci, ciò potrebbe anche non accadere. Un bambino, mio figlio, non vedeva l’ora di diventare grande abbastanza da poter portare gli occhiali come il resto della famiglia; senza occhiali si sentiva escluso, piccolo e diverso. Una giovane donna, affetta da sclerosi multipla, una malattia cronica invalidante e imprevedibile nel suo decorso, mi disse che considerava la sua sclerosi multipla come un’amica.

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Non è mai saggio presupporre che qualcuno detesti la propria condizione. Freud ha parlato del vantaggio secondario di una malattia, in relazione ai sintomi di conversione dell’isteria. La malattia può risolvere alcuni problemi. Tuttavia questo stesso fatto può causare altri conflitti. Frances si sentiva in colpa perché la sua malattia le aveva permesso di ottenere un alloggio popolare, mentre alcuni dei suoi amici, che avevano problemi anche più gravi, non avevano una casa. Essendo in grado di lavorare e di camminare, si sentiva più a suo agio quando i sintomi svanivano e appariva più chiaramente invalida: così poteva, in qualche modo, “meritare” il suo appartamento.

Anche alzarsi in piedi per prendere qualcosa nel supermercato può sembrare un imbroglio a un individuo che si trovi su una sedia a rotelle. Come accade con tutto ciò che ha a che fare con la disabilità, ognuno sovrappone alla realtà le proprie costruzioni mentali e le proprie reazioni emotive. Queste, però, potrebbero non essere immediatamente evidenti a un osservatore esterno. Nella mia funzione di counsellor per persone affette da sclerosi multipla, comincio la prima seduta di counselling con un nuovo cliente, dicendo che sono interessata a sapere che cosa la sclerosi multipla, sua o del partner, significhi per lui e ciascuno ha una risposta diversa. Tuttavia ci sono alcuni problemi che emergono più frequentemente in maniera indiretta e che sono importanti, sia per gli altri sia per la persona con disabilità. Vorrei affrontare alcuni di questi. Gli amici, i partner e la famiglia possono identificarsi con la persona con disabilità e possono voler combattere le sue battaglie al posto suo o insieme a lei (sia che la persona con disabilità lo desideri o meno). Potrebbero anche avere segrete preoccupazioni o convinzioni, concernenti questioni reali, che sentono di dover nascondere. L’impatto della disabilità o della malattia nei loro rapporti potrebbe essere la cosa che li preoccupa di più. Ciascuna di tali questioni può avere un peso determinante.

Affrontare il dolore e la perdita Molte malattie e disabilità comportano gravi perdite. La perdita di speranze, di convinzioni, di aspettative e delle fantasie inconsce ri-

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guardo al futuro può essere manifestata apertamente o può essere comunicata attraverso varie reazioni. Le espressioni di dolore possono essere difficili da tollerare per una famiglia. Più di un parente mi ha detto:“Non mi importa che non sia in grado di camminare, è la sua infelicità che trovo durissima da sopportare”. La pressione che spinge a essere allegri è enorme e può anche interferire con l’importante lavoro del lutto. Il counselling o la psicoterapia possono offrire un contesto nel quale alcuni dei potenti sentimenti, che accompagnano queste perdite, possono essere individuati, riconosciuti e tollerati. Alcune disabilità hanno un decorso molto mutevole, a volte imprevedibile. Gli individui, che ne sono affetti, si trovano spesso nella situazione di dover affrontare un nuovo sintomo e, quindi, lottare duramente con se stessi per giungere ad accettarlo e per capire che cosa implica e, contemporaneamente, anche lottare per trovare un modo per conviverci a breve termine e, in alcuni casi, anche a lungo termine. Questo processo richiede tempo e comporta il confronto con emozioni dolorose. Lo stato di lutto potrebbe diventare cronico se, mentre gli individui cercano di venire a patti con un sintomo, si trovano a dover affrontare un altro sintomo che, nel frattempo, è sopraggiunto, per cui il processo deve continuamente ricominciare. Per altri, invece, tale processo avviene in un tempo concentrato. Per esempio, dopo un grave incidente d’auto, è necessario un enorme lavoro di elaborazione del lutto perché l’intera visione di se stessi e del mondo deve cambiare. Questo processo può avere un inizio, una fase intermedia e una conclusione chiaramente percepibili. Alla fine, la persona sarà venuta a patti con la propria condizione, almeno in parte, e avrà trovato qualche modo per convivere con essa. A volte, anche se non sempre, le persone sentono di aver imparato qualcosa e, persino, di essere diventate migliori al termine di questo processo. Nelle famiglie possono talora insorgere tensioni e disaccordi, perché i vari membri si trovano in stadi diversi del lavoro del lutto e hanno anche tempi diversi, a causa del differente impatto che questa condizione ha su ognuno di loro. Mentre un componente della famiglia comincia a riprendersi, un altro potrebbe cominciare a soffrire in maniera più accentuata. Durante il processo del lutto, le persone hanno spesso la sensazione che il loro intero mondo sia crollato. Possono sentirsi bombardate da sentimenti che appartengono a perdite precedenti, che

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si sommano a quelle attuali, e possono sentirsi minacciate da sentimenti di paura, disperazione e impotenza. Il counselling può aiutare le persone a riconoscere ciò che sta accadendo loro e a distinguerlo dalla follia, recuperando la speranza che non staranno sempre così male. Il counselling può anche aiutare le persone durante il processo di riorganizzazione del loro mondo interno, quando scoprono, con dolore, a che cosa devono rinunciare e che cosa possono conservare. La rinuncia alla possibilità di lavorare a tempo pieno può rappresentare per alcuni la perdita di ogni valore agli occhi di se stessi, del mondo e perfino agli occhi di un padre morto da lungo tempo, come a volte il counselling consente di scoprire. Intraprendere un nuovo corso di studi può apparire come il modo per ricostruire una vita distrutta, a volte in maniera realistica, altre volte con conseguenze gravi, se questa scelta rientra in una difesa narcisistica contro il deterioramento dello stato di salute. In questo caso, diventare studente diventa un ulteriore fallimento. Il processo di ricostruzione può condurre all’instaurarsi di un senso del Sé più saldo, o di un Sé ancora vulnerabile e facile a incrinarsi, se messo in discussione in aree specifiche. La psicoterapia e il counselling possono svolgere un ruolo importante in tali casi. Questi processi hanno molto in comune con le reazioni ad altri tipi di perdite, quali la perdita di un partner o di un lavoro e, come queste, dipendono molto dalle risorse accumulate durante l’infanzia. In alcuni casi gli studenti, pur essendo affetti da importanti malattie o disabilità, non si mostreranno disponibili a parlare delle loro perdite. Questo può dipendere sia dal fatto che hanno già elaborato il lutto, ed effettivamente non hanno più bisogno di farlo, sia dal fatto che altre questioni sono per loro più urgenti. Comunque, i sentimenti di lutto possono anche essere negati come se non appartenessero al Sé ed essere attribuiti ad altri o, persino, possono essere evocati in loro. Se questo è ciò che accade, la persona si sentirà più isolata, magari si mostrerà anche allegra e positiva, ma sarà incapace di capire perché qualcun altro della famiglia appare sconvolto o preoccupato. Se aggiungiamo a questo il fatto che altri membri della famiglia potrebbero usare la malattia e la disabilità come mezzi per esprimere proprie angosce, che non hanno niente a che fare con la situazione, appare chiaro che le dinamiche familiari connesse alla perdita e al lutto possono essere complesse da districare. Un elemento finale da

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considerare è che il counsellor e i terapeuti, a volte, si sentono essi stessi disturbati dal proprio senso di lutto, di perdita o dalle imperfezioni del corpo. Questo può accadere, in particolare, se lo studente presenta una condizione patologica con la quale il counsellor non ha mai lavorato prima, oppure se essa è troppo simile a quella di cui è affetto un membro della sua famiglia. In tali casi è opportuno che il counsellor lavori con un supervisore o con un terapeuta, per poter distinguere quei problemi che appartengono a lui e non allo studente. La capacità di accogliere sentimenti insopportabili e negati del cliente può rendere molto difficile il lavoro con gli studenti disabili. A volte, i terapeuti e i counsellors possono sentirsi essi stessi indeboliti da una condizione debilitante, resi impotenti se la malattia attacca il senso di potenza oppure sopraffatti dalla tristezza e dal dolore quando, per esempio, si trovano di fronte a una giovane donna, brillante e attraente, che soffre di una grave malattia.

Ansie concernenti la disabilità Molte persone, con o senza disabilità, sembrano pensare che le persone con disabilità non dovrebbero avere una vita sessuale né avere bambini. Se ci sono motivi d’ordine medico perché una giovane donna non affronti una gravidanza, questo è certamente un problema serio da discutere, ma spesso, in assenza di ragioni mediche, sono i preconcetti che entrano in gioco. Lo sviluppo sessuale di persone, che hanno avuto sempre bisogno di cura e di controllo sin da bambini, può essere stato disturbato dall’assenza di privacy e dall’impossibilità di compiere le normali sperimentazioni all’interno del gruppo dei coetanei. Esse potrebbero, inoltre, non aver ricevuto un’educazione sessuale. Il sesso potrebbe rappresentare una grande preoccupazione per gli studenti all’Università, perché qui si aspettano di incontrare nuovi partner con i quali, magari, costruire una relazione a lungo termine. Quando la sessualità è compromessa da una malattia, da una disabilità, anche il senso del Sé può essere ugualmente compromesso. Alistair pensava che non avesse senso vivere senza un pene che funzionasse, sentiva che non aveva alcun senso neanche chiacchierare con le donne. L’atteggiamento di Brian verso gli altri uomini cambiò sottilmente ed egli cominciò a presentarsi come vittima e a farsi trattare

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L’impatto della disabilità e della malattia cronica 243 come tale. Charles reagì diventando sessualmente aggressivo; David dicendo che non se ne curava e non gli importava neanche degli altri aspetti della vita.

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Per le donne, l’ansia di performance è meno frequente anche se, quando gli organi sessuali non funzionano come dovrebbero, le donne si preoccupano e risentono della perdita di un’importante fonte di piacere. Quando hanno vent’anni o giù di lì, molte donne sono ancora insicure, non sanno se sono “normali” o no, se saranno accettabili come partner sessuali oppure no. Sandra smise di cercare di apparire carina quando usciva, perché non voleva suscitare interesse nei ragazzi, per dover poi rivelare loro che aveva la sclerosi multipla. Diceva che non era un buon affare come partner, e che quindi ‘non sarebbe stato giusto verso di loro’. Michaela, d’altro canto, nel dirmi del suo fidanzamento, aggiunse che si interessava agli uomini soltanto se vedevano la sua malattia come la vedeva lei. Anche loro dovevano avere un atteggiamento positivo e avere speranza nella possibilità di convivere bene con la malattia, così come faceva lei.

Le difficoltà sessuali, spesso, si presentano in modo mascherato. Una volta che le si è riconosciute, ciò può gettare una nuova luce anche su altri problemi relazionali. Sia per gli uomini che per le donne il piacere sessuale può essere un’importante compensazione rispetto a sentimenti di infelicità, depressione, incertezza rispetto al proprio valore. Allo stesso modo, la perdita del piacere sessuale può, a volte, provocare tali sentimenti. In questo le persone con disabilità non sono diverse dal resto della popolazione: anche nella popolazione generale la disfunzione sessuale è un problema diffuso.

Essere un peso Molte persone temono di essere un peso. Quando si rese conto che la sua incapacità a camminare sarebbe stata permanente, Edgar disse alla sua ragazza che non l’amava più, per convincerla a trovarsi qualcun altro. Non gli venne neanche in mente di lasciare a lei la scelta. Successivamente i suoi sintomi scomparvero ma, a quel punto, si era sposato con un’altra donna che amava meno e nei cui confronti, quindi, si sentiva meno preoccupato.

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Le difficoltà a convivere con la malattia o la disabilità possono sembrare, in alcuni momenti, insormontabili e, spesso, i clienti presuppongono che esse appaiano insormontabili anche agli altri. In alcuni casi gli individui possono costituire un peso più per se stessi che per gli altri. Spesso le persone non sono consapevoli del loro valore e di quanto contino per gli altri, specialmente quando sono giovani e non hanno figli. I giovani, in particolare, spesso giudicano se stessi e gli altri per quello che possono o sanno fare e ignorano il valore implicito già nell’essere: essere fratelli, cugini, vicini, membri di un gruppo o figli dei loro genitori. Un amico diciannovenne mi parlò con molto affetto della sorella più giovane, affetta da fragilità ossea. “È lei che tiene unita la famiglia”, disse. Aver bisogno di aiuto Le ansie rispetto alla dipendenza sono molto comuni, se non universali. Il significato, che la dipendenza ha per un individuo, è determinato dall’esperienza, che egli ha fatto da bambino, dell’aver bisogno dell’aiuto degli altri. Se la famiglia gli ha fornito un ambiente affidabile, nel quale i suoi bisogni venivano soddisfatti, allora la dipendenza può apparire sopportabile, perché si associa alla ragionevole speranza che i bisogni saranno ancora una volta soddisfatti. Se invece la dipendenza ha significato essere lasciato ad aspettare, essere trascurato o maltrattato, il ritorno alla dipendenza, durante l’età adulta, può essere fortemente temuto. In tali casi bisogna prevedere che ci sarà bisogno di tempo perché una persona sia in grado di accettare di buon grado l’aiuto offerto e, in alcuni casi, la relazione con chi cura o accudisce resterà difficile. Altri, invece, hanno un dono innato per le relazioni, che la malattia non riesce a distruggere. Le esperienze in ospedale possono essere causa di fantasie disturbanti, riguardo alla dipendenza in generale, e non solo riguardo a successivi ricoveri. La possibilità di discutere ricordi penosi, connessi a ricoveri ospedalieri in età adulta o nell’infanzia, può riuscire, a volte, a far emergere ricordi felici che erano precedentemente sepolti. Le procedure mediche possono essere veramente invasive per il Sé, come per il corpo, soprattutto per i bambini piccoli che non capiscono o capiscono solo in parte quello che sta accadendo. Queste sensazioni hanno qualcosa in comune

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con quelle provocate, ad esempio, da esperienze di abuso sessuale nell’infanzia. Le disabilità, inoltre, possono rendere i bambini, come gli adulti, particolarmente vulnerabili all’abuso sessuale. A volte, gli individui cercano di liberarsi del sentimento insopportabile dell’essere intruso, facendo sentire gli altri intrusi al posto loro. Il comportamento, socialmente bizzarro, di alcune persone con serie difficoltà nell’apprendimento può essere collegato a questo meccanismo, più che all’originaria disabilità. Lavorare con questi sentimenti, all’interno del counselling, può migliorare le relazioni attuali e contribuire a ridurre le paure connesse a stati di dipendenza, di vulnerabilità, presenti o futuri. La dipendenza dagli altri può essere difficile e questo non va sottovalutato, ma potrebbe non richiedere l’abdicazione totale alla propria volontà, o il vivere in uno stato costante di paura e tensione. Il desiderio di fare stare meglio gli altri Prendersi cura di coloro che amiamo rende la vita degna di essere vissuta e questo vale sia per le persone con disabilità sia per i loro parenti e amici. La preoccupazione per gli altri, le ansie per la perdita della capacità di prendersi cura di loro, possono essere questioni molto importanti. In particolare i bambini e i giovani, con gravi disabilità o malattie croniche, possono nutrire forti desideri di far star meglio i loro genitori e anche di renderli felici, quando sono tristi. La loro condizione arreca dolore ai genitori e questo può causare molta sofferenza al bambino, che può giungere a nascondere i propri sentimenti, pur di far stare bene i genitori. Malcolm disse che alla sorella non importava di essere gravemente disabile dalla nascita. Rideva sempre e aveva molti amici nel Centro diurno che frequentava. C’era solo una cosa strana, detestava che le si cantasse la canzone di ‘Buon compleanno’. Si metteva a piangere e si copriva le orecchie. Quando un amico gli fece notare che forse sentiva che la sua nascita non era stata un evento felice per la famiglia, Malcolm fu stupito, non aveva mai pensato che la sorella fosse capace di provare sentimenti simili.

Paradossalmente, a volte, gli individui più vicini alle persone malate sono quelli meno capaci di dimostrare la loro preoccupazione.

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Questo avviene in particolare se si sentono troppo in colpa per non essere riusciti a farle stare meglio. Un eccesso di colpa può diventare persecutorio; in tal caso i parenti possono ritirarsi o attaccare la persona malata o disabile, ogni volta che dice di soffrire. La possibilità di comprendere e di analizzare queste dinamiche riduce il senso di colpa e consente il riemergere di sentimenti d’amore sepolti. A volte coloro, che circondano un ammalato, cercano di tenere sotto controllo lo stato di malattia o di disabilità, controllando la persona che ne è affetta, in parte per un goffo tentativo di farla stare meglio.

Conflitti Molti dei problemi, che le persone portano nel counselling, ruotano intorno a conflitti. L’esperienza reale della disabilità o della malattia si innesta su conflitti e ansie preesistenti, che sono diversi per ciascun individuo. Il simbolismo gioca un ruolo importante nel modo in cui gli individui vivono la malattia o la disabilità, sia che essi siano studenti o personale curante, famiglie o operatori socio-sanitari. Conflitti relativi al vissuto del proprio Sé come ‘disabile’ o ‘non disabile’ Sean tendeva ad accentuare i suoi sintomi, tanto che la counsellor sentiva che esagerava e avrebbe voluto dirgli:“Dai, non è poi così grave”. Quando cominciò a lamentarsi del fatto che gli altri gli dicevano che non c’era niente che non andasse in lui, la counsellor commentò il modo in cui tendeva a esagerare i suoi sintomi. Sean rispose che lo faceva per mostrare che, invece, c’era qualcosa che non andava. La counsellor sottolineò che in tal modo faceva sì che le persone non gli credessero e suggerì che forse c’era in lui un conflitto tra il poter riconoscere che era disabile o malato e il volerlo negare. Esagerando i suoi sintomi, portava gli altri a dire che stava bene. Questo atteggiamento nascondeva inoltre la differenza importante tra bisogno e avidità. Attraverso i suoi sintomi questo conflitto poteva essere esternalizzato e Sean riusciva a evitare di confrontarsi con i suoi reali bisogni. Chris entrava sempre in conflitto con Joey. Chris diceva di solito:“Questo lo so fare” e Joey rispondeva:“No, non puoi, non ce la fai. Non sei realistico”. Cominciavano allora a litigare e alla fine arrivavano a un compromesso. In effetti, ciascuno, segretamente, capiva perfettamente il punto di vista dell’altro, ma temeva che la situazione non sarebbe stata

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più sotto controllo se l’avesse ammesso. Un conflitto interno veniva, quindi, esternalizzato.

Questo modo di affrontare un conflitto può alienare le persone l’una dall’altra, mentre in realtà condividono ansie simili. Scoprire il conflitto interno che condividevano permise, ad esempio, a Chris e Joey di riderne insieme e di sentirsi più compresi. La possibilità di riconoscere aspetti di sé, che prima venivano depositati nell’altro consentì anche di ridurre, in qualche modo, il senso di alienazione interna. Si fa ricorso alla negazione, come ci ha insegnato Melanie Klein, per difendersi da convinzioni o fantasie che sono peggiori della realtà stessa. Se, ad esempio, per qualcuno essere disabile significa non poter essere amato o essere inutile, è comprensibile che egli cerchi di negare la sua disabilità, fino a che queste angosce non vengono in qualche modo affrontate. Purtroppo ciò che neghiamo può riaffiorare nel cuore della notte, attaccando la nostra fiducia in noi stessi proprio quando non siamo in grado di contrapporci alle angosce con il buon senso dettato dalla luce del giorno. Il tentativo di far finta che una disabilità reale non esista, con la conseguenza di divenire sfuggenti, consegnare il lavoro in ritardo o non andare agli appuntamenti, può creare gravi difficoltà nei rapporti con gli altri, che attribuiranno significati diversi a tali comportamenti. Quando la condizione di malattia o di disabilità viene nascosta per non essere visti come “diversi”, questo stesso segreto crea una distanza dagli altri. Dire la verità può ridurre questa distanza. Ammettere le differenze può risultare meno alienante del nasconderle. Dopo tutto, ognuno è diverso dagli altri. I significati simbolici, attribuiti alla disabilità, i conflitti, a essa associati, possono essere portati alla luce ed elaborati attraverso il counselling, determinando una valutazione più realistica del significato della disabilità stessa e un senso di sollievo, perché ci si sente liberati dal segreto.

Influenza della disabilità sul senso di sé Qualunque ansia, relativa al proprio senso di sé, può essere attribuita alla disabilità o alla malattia. Maggie disse che si preoccupava di dover adoperare la sedia a rotelle a causa del suo ragazzo. Le chiesi di dirmi che cosa esattamente la

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preoccupasse. “Sa, la responsabilità ...”, rispose. Le chiesi se pensava che avrebbe perso anche l’uso del suo cervello. Rise perché capiva benissimo che no, non l’avrebbe perso. Per lei, “essere disabile” significava non essere capace di assumere la responsabilità di se stessa. Anche se, probabilmente, sarebbe venuto il momento in cui ciò sarebbe accaduto, molto tempo doveva passare prima che questo accadesse. Assumere responsabilità per se stessa era qualcosa che trovava difficile in quel momento. Allo stesso modo Alisha disse che si preoccupava della sua malattia perché poteva impedirle di prendersi cura della madre in futuro. Più segretamente, temeva che la sua attuale trascuratezza nei confronti della madre avesse fatto di lei una cattiva figlia.

L’esperienza reale della disabilità influisce sul senso di sé. Ho esaminato questo aspetto in relazione alla disfunzione sessuale, ma quanto detto vale anche per altre condizioni fisiche. Le persone, che hanno perso la sensibilità delle loro estremità inferiori, possono sentire di “non avere i piedi per terra”; coloro, che si sentono fisicamente traballanti, possono sentirsi traballanti anche a livello emozionale. I giovani, che soffrono di affaticamento neurologico, potrebbero “sentirsi inutili”, perché non riescono a uscire con gli amici a bere tutta la sera. In particolare, i sintomi non riconosciuti e non diagnosticati possono minare la fiducia in se stessi. Le reazioni emotive alla frustrazione, provocata dai sintomi, possono includere rabbia, risentimento o, magari, desideri di vendetta. Tutto ciò può confondere un giovane, che non si considera una persona con un cattivo carattere ma, al tempo stesso, non riesce a capire che cosa gli stia succedendo. Alice sviluppò una forte miopia quando aveva circa sette anni. Non riuscendo a riconoscere le persone, che camminavano dall’altro lato della strada, non rispondeva ai saluti e ai sorrisi dei suoi compagni di scuola. In più di un’occasione questi si offesero e l’accusarono di “essere presuntuosa”. L’umiliazione provata e la paura di ripetere quest’esperienza rimasero in Alice, anche quando cominciò a portare gli occhiali. Sentiva di dover combattere per dimostrare che non era “presuntuosa”. Difatti nascondeva ancora la faccia per strada ed evitava di guardare le persone che stavano troppo lontane da lei.

Gli studenti con disabilità presentano anche problemi comuni agli altri studenti universitari.

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L’impatto della disabilità e della malattia cronica 249

La crescita, di per sé, può causare conflitti a molti giovani che, allo stesso tempo, desiderano e temono l’inizio di una vita indipendente, lontano da casa. Una malattia, una disabilità possono interferire con questo processo, rischiando di indurre lo studente a ritornare a casa e sottoporsi nuovamente alle restrizioni e alle richieste dei genitori. Una tale situazione potrebbe risultare sia gradita che sgradita al giovane. I genitori, nel nostro Paese, spesso divorziano quando i figli vanno via di casa per frequentare l’Università, quindi lo studente potrebbe avere paura di non avere più una casa dove tornare, sia nella mente sia nella realtà. Tutte le emozioni conflittuali e le insicurezze, collegate al divorzio dei genitori, possono aggiungersi alle ansie suscitate dalla malattia, dalla disabilità e dal danno che queste causano.

Preoccupazioni per i genitori Le preoccupazioni nei confronti dei genitori possono esprimere, in maniera mascherata, la preoccupazione per qualche parte di sé. Sandra temeva che la madre non ce l’avrebbe fatta ad affrontare il fatto che lei se ne andava da casa per sempre, perché aveva bisogno del suo sostegno contro il marito alcolizzato e violento. In realtà la stessa Sandra aveva difficoltà ad andare avanti ma trovava difficile ammetterlo. Aveva, quindi, bisogno di pensare a sua madre, perché questo le lasciava poco spazio per pensare a se stessa. La malattia accrebbe le sue ansie rispetto alla sua capacità di essere dipendente. Il counselling l’aiutò, comunque, a distinguere i suoi sentimenti rispetto ai genitori e alla propria vita.

L’ansia degli esami Gli studenti lamentano spesso ansie degli esami. Negli studenti con disabilità o malattie gravi, possono essere inoltre anche presenti preoccupazioni per le conseguenze che tali ansie avranno sulla propria salute. Spesso lo stress viene chiamato in causa nelle malattie, specialmente quando l’eziologia di queste è incerta e non si conoscono altre cause. In effetti, sappiamo così poco rispetto allo stress, che non conosciamo che cosa faccia bene e che cosa nuoccia al nostro corpo. Di recente, alcune ricerche tenderebbero a dimostrare che l’avere

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figli, esperienza certamente stressante, può rallentare il progredire della disabilità in donne affette da sclerosi multipla. Sappiamo per certo che la vita normale può essere sconvolta anche dall’eccessivo evitamento dello stress. Non fare esami provoca varie conseguenze, oltre ad allontanare un giovane dai suoi coetanei.

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L’influenza della disabilità sugli altri Il lavoro con gli operatori socio-sanitari mi ha mostrato la complessità degli atteggiamenti nei confronti di individui, malati o disabili, che esistono nelle persone che se ne prendono cura. La paura di non sapere come comportarsi, un desiderio compiacente di fare concessioni, che impediscono una valutazione onesta dei sentimenti o del comportamento, un senso di ignoranza, una tendenza ad assimilare tutte le persone con disabilità con una o due conosciute nel passato, o con alcuni aspetti della propria esperienza, la speranza di avere l’opportunità di far qualcosa di buono per qualcuno, la tendenza a raccomandare cure che hanno funzionato per se stessi: tutti questi fattori possono entrare in gioco, soprattutto, quando gli operatori non hanno avuto un’esperienza reale di persone con disabilità. Relazioni reali con persone che hanno disabilità comportano nuovi punti di vista, amicizie soddisfacenti e appaganti per entrambe le parti, nuovi insight. A volte, alcuni aspetti della malattia e della disabilità sembrano prendere il sopravvento e diventano il fulcro centrale della relazione, altre volte è la persona che conta, e la malattia e la disabilità passano sullo sfondo o vengono del tutto dimenticate. Per alcuni la richiesta, non verbale, di ignorare la disabilità di qualcun altro può creare un problema, altri invece l’accettano tranquillamente. Gli operatori stessi portano all’interno di queste relazioni i propri conflitti e le proprie ansie. Una counsellor mi disse una volta che, quando aveva cominciato a lavorare con persone con disabilità, pensava che essi invidiassero coloro che non erano disabili, per cui stava attenta a non vestirsi troppo bene per non suscitare la loro invidia. Fu sorpresa quando un cliente chiese alla moglie di raccontargli la gita che aveva fatto in montagna, affermando che, quando gliene parlava, aveva l’impressione di stare lassù con lei. Questa richiesta, di fatto, sorprese anche la moglie, che aveva pensato che il parlare al marito della gita avrebbe potuto farlo sentire ancora

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L’impatto della disabilità e della malattia cronica 251 più escluso. Così, almeno, si sarebbe sentita lei, se fosse stata nella sua situazione. Questo paziente insegnò alla counsellor che il piacere vicario può combattere l’invidia e cambiò il suo modo di pensare. Si rese anche conto che molti dei suoi clienti vestivano meglio di lei e smise di vestire in maniera volutamente dimessa.

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L’invidia, naturalmente, può essere un problema per tutti e, a mio parere, riesce a inficiare e distruggere il piacere, più di qualunque disabilità fisica.

L’impatto diretto della disabilità sugli altri La sordità ostacola la comunicazione e influisce su entrambe le parti impegnate in una conversazione. È difficile concentrarsi se l’altro ha una disabilità molto intrusiva, che non abbiamo mai incontrato prima, in particolare se questa disabilità riguarda il volto o gli occhi. Una cliente aveva una visione parziale e un occhio che andava verso l’alto. Quando commentai che ciò rendeva, di fatto, difficile mantenere il contatto oculare con lei, rimase stupita. Nessuno glielo aveva detto prima. Disse che lo aveva notato solo nelle fotografie e ne era rimasta perplessa ma nessuno gliene aveva mai parlato. Aveva anche notato che le persone, con cui lavorava, evitavano di guardarla e si era data varie spiegazioni, anche sgradevoli, per spiegarsi tale comportamento.

Quando questi problemi vengono affrontati in un setting accogliente, la comunicazione può diventare più chiara e sincera e questo può alleviare alcune ansie. Ciò non è sempre facile per il terapeuta; è necessario che egli creda fortemente nella capacità del cliente di tollerare la realtà e di preferirla a illusioni o finzioni. Il desiderio di non ferire i sentimenti altrui può far sì che questi vengano tenuti nella bambagia, e messi nell’impossibilità di capire la loro condizione e quella degli altri. A nessuno piace ferire le persone, malate e sofferenti, dicendo loro verità dolorose. Mantenerle nell’ignoranza può però essere peggio. Nella mia esperienza, se il setting ed il momento sono quelli giusti, il confronto con la verità può aiutare il cliente a procedere con rinnovata fiducia (se non altro metaforicamente).

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In un lavoro scritto da una collega2, su uno studente che aveva una vista offuscata, l’autrice descrive come sentiva che la sua stessa visione mentale fosse offuscata, mentre parlava con lui. Il problema visivo del giovane sembrava, quindi, essere, allo stesso tempo, di natura fisica e psicologica. Durante una seduta poté restituire questa sensazione allo studente, aiutandolo a riconoscerla come propria e a elaborarla. In tal modo, il giovane non avrebbe più avuto bisogno di indurre questo vissuto negli altri e questo, probabilmente, avrebbe migliorato le sue relazioni, anche al di fuori della stanza di consultazione. Le disabilità possono avere anche altri effetti. Le persone, a volte, dicono che sono diventate più capaci di empatia, meno impazienti verso i problemi degli altri, da quando si sono ammalate e più consapevoli di che cosa conti veramente nella vita. Un uomo mi disse, sia pure con qualche senso di colpa, che trovava la moglie più attraente da quando era diventata più debole. Un altro mi disse che la malattia aveva migliorato i suoi rapporti con i figli, perché non lavorava più dodici ore al giorno e quindi li vedeva per molto più tempo.

Conclusioni Molti aspetti della disabilità entrano in gioco nella relazione tra chi ne è affetto e gli altri. Alcuni di questi possono essere affrontati attraverso l’educazione, l’informazione o la franca discussione, altri si attenuano nel tempo, man mano che riusciamo a conoscere la persona che sta dietro la disabilità. Per affrontare altri aspetti, può essere necessario lavorare sui propri atteggiamenti, sulle proprie convinzioni rispetto alla disabilità, su che cosa questa significhi per sé. Fortunatamente, anche se alcuni sono impauriti e allontanati dalla malattia o dalla disabilità degli altri, non tutti hanno questo proble-

2

Cfr. S.M.G. Adamo, “Il brivido di un’emozione. Lavoro breve con giovani che presentano problemi di isolamento affettivo”, in S.M.G. Adamo, G. Polacco Williams (a cura di), Il lavoro con adolescenti difficili. Nuovi approcci dalla Tavistock, Napoli: Idelson, 1998.

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L’impatto della disabilità e della malattia cronica 253

ma. L’amicizia, l’amore e la comunicazione diretta sono possibili e avvengono realmente. Ho cercato di descrivere alcuni dei modi diversi, in cui le disabilità possono influire, a livello sia fisico sia emozionale, sui giovani e su coloro che li circondano. Ho anche cercato di mostrare alcuni dei modi in cui la malattia e la disabilità possono influire sull’immagine che le persone hanno di se stesse e degli altri, ivi compresi alcuni meccanismi di difesa, che isolano ed estraneano le persone le une dalle altre. Un servizio di counselling, dedicato agli studenti con disabilità, può prestare maggiore attenzione all’impatto che la malattia e la disabilità hanno sulle loro vite. Paradossalmente, offrire uno spazio distinto e separato da quello comune agli altri studenti potrebbe significare creare un luogo in cui la malattia e la disabilità siano viste come normali e in cui gli assunti, a esse connessi, possano essere messi in discussione. Un counsellor può affrontare gli aspetti dolorosi, sgraditi, della realtà e aiutare così il cliente a riconoscere e accettare aspetti importanti di sé, e a mettere in discussione pensieri, fantasie e convinzioni invalidanti. Si possono così aprire nuove prospettive e nuove relazioni. Nella mia esperienza, il counselling e la psicoterapia possono aiutare gli studenti a vivere appieno la loro vita e a fare il massimo uso delle opportunità che si offrono loro.

Riferimenti bibliografici Adamo S.M.G., “Il brivido di un’emozione. Lavoro breve con giovani che presentano problemi di isolamento affettivo”, in S.M.G. Adamo, G. Polacco Williams (a cura di), Il lavoro con adolescenti difficili. Nuovi approcci dalla Tavistock, Napoli: Idelson, 1998.

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Bullismo omofobico e stigma di genere: aspetti teorici e riflessioni a margine di un intervento formativo in un contesto universitario

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di Claudio Cappotto, Anna Lisa Amodeo, Paolo Valerio

«Immaginate che invece di escludere le realtà degli altri come assurde, o pericolose, stupide, eretiche, io desiderassi esplorare e conoscere queste realtà. E supponete di avere anche voi lo stesso desiderio. Che tipo di conseguenze sociali si avrebbero? Penso che la nostra società non sarebbe più basata sul cieco affidamento a una causa, una fede o una concezione del mondo, ma su un impegno comune a riconoscerci reciprocamente il diritto a essere persone separate, con realtà distinte. La naturale tendenza umana a prendersi cura del prossimo non suonerebbe più “Mi preoccupo di te perché tu sei uguale a me”, bensì apprezzo e valorizzo la tua persona perché tu sei diverso da me»1.

Il bullismo omofobico e lo stigma di genere In merito alle specificità culturali e socio-educative legate allo stigma di genere e all’omofobia, tematiche su cui molti Atenei nel resto del mondo possono già contare una più ampia esperienza, nelle Università italiane le problematiche relative alla discriminazione e alla violenza legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere sono ancora quasi del tutto trascurate: nei contesti accademici italiani pare che si

1

C.R. Rogers, Un modo di essere, Firenze: Martinelli, 1983, p. 94.

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L’inclusione e il contesto universitario

propongano modelli normativi che non contemplano la presenza di identità sessuali “altre” o di percorsi differenziali relativi ai ruoli di genere. Tuttavia, il benessere psicofisico degli studenti e delle studentesse dipende anche dal clima relazionale che s’instaura nei loro spazi formativi, di apprendimento e di socializzazione, dalle atmosfere emotive che caratterizzano le dinamiche del gruppo e più in generale dell’organizzazione a cui appartengono. Nelle Università, come in altre istituzioni sociali, i ragazzi e le ragazze che non rientrano negli stereotipi di genere o che non aderiscono ai ruoli di genere e sessuali normativi sono quotidianamente esposti a condotte omofobiche, tra cui rientrano commenti verbali dispregiativi verso persone dichiaratamente omosessuali o ritenute tali, sanzioni verso certi comportamenti sessuali considerati socialmente inappropriati, soprusi fisici e, talora, anche sessuali; inoltre, come risulta dalle ricerche e dalle esperienze di intervento ad opera delle principali agenzie educative internazionali che si occupano di prevenzione dell’omofobia2, ma anche dalle osservazioni ricavate dai numerosi interventi di prevenzione dell’omofobia e del bullismo omofobico, realizzati dall’equipe di intervento del sito www.bullismoomofobico.it, ogni giovane omosessuale ogni giorno a scuola, all’Università, nei propri luoghi di lavoro sente molto spesso parole o battute esplicitamente omofobiche3. Gli studenti che subiscono questo comportamento prevaricatorio perdono progressivamente la motivazione allo studio, la propria autostima e avvertono una maggiore preoccupazione per la propria sicurezza e un conseguente allontanamento e/o isolamento dal gruppo dei coetanei e delle altre figure significative. Anche i docenti, da parte loro, sembrano spesso del tutto impreparati a confrontarsi con questo tipo di problematiche. Gli interventi dovrebbero prevedere modalità di accompagnamento che tengano conto dell’identità dell’individuo nella sua globalità e che scaturiscano da interventi di tipo partecipativo e da approcci auspicabilmente di natura preventiva (attività a carattere informativo e formativo; elaborazione di guide di buone prassi; empowerment indivi2

Cfr. GLSN (Gay and Lesbian Support Network). L. Pietrantoni, L’offesa peggiore. L’atteggiamento verso l’omosessualità: nuovi approcci psicologici ed educativi, Tirrenia: Edizioni del Cerro, 1999; L. Pietrantoni, G. Prati, Gay e lesbiche, Bologna: il Mulino, 2011. 3

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duale e sociale; attività di sensibilizzazione sociale inerenti il bullismo e più in generale tutte le fenomenologie di prevaricazione tra pari). Nei fenomeni di bullismo a sfondo omofobico risulta evidente un’altra dimensione: esso sembra connesso sia a dinamiche di potere e leadership, con un’asimmetria fortemente sbilanciata delle posizioni, sia a quelle di matrice di genere e sessuale; queste dinamiche, intrecciandosi e rinforzandosi tra di loro, riguardano il rapporto maschiomaschio e sanciscono una gerarchia sociale basata sul più forte e su caratteristiche personali e comportamentali orientate alla costruzione sociale del proprio genere (maschile) di appartenenza, su criteri di desiderabilità sociale secondo uno schema a matrice eterosessista. La questione del rapporto tra genere e violenza è una questione spinosa, basti solo accennare che anche le sempre più crescenti violenze intra-familiari possono essere lette attraverso la crisi delle identità e dei ruoli di genere e della messa in discussione dell’autorità (maschile). Relativamente al rapporto tra orientamento sessuale, società e violenza possiamo riflettere sulle componenti identitarie ritenute desiderabili, accettabili e rientranti normativamente nelle aspettative delle interazioni quotidiane. Karen Franklin, psicologa clinica e forense del Washington Institute for Mental Illness Research and Training dell’Università di Washington, in un’inchiesta condotta nel 1997 su circa 500 studenti di college americani, verificava che il 18% dei maschi aveva aggredito fisicamente o minacciato qualcuno che credeva essere gay o lesbica (le femmine che avevano compiuto atti simili erano pari al 4%); il 32% dei maschi (contro il 17% delle femmine) era responsabile di molestie verbali4. Nei risultati di una ricerca più recente, ancora la Franklin5 interpreta gli stupri di gruppo a danno delle ragazze nei campus americani e gli assalti a danno dei maschi gay (o percepiti tali) 4 K. Franklin, “Unassuming Motivations: Contextualizing the Narratives of Antigay Assailants”, in G. Herek (Ed.), Stigma and Sexual Orientation. Understanding Prejudice against Lesbians, Gay Men and Bisexuals, Thousand Oaks (CA): Sage Publications, 1998 5 K.Franklin, “Enacting Masculinity: Antigay Violence and Group Rape as Participatory Theater”, «Sexuality Research & Social Policy», Vol. 1, No. 2, pp. 25-40, National Sexuality Resource Center, San Francisco State University, consultabile su http://beyondmeresurvival.files.wordpress.com/2008/11/grouprapeantigayviolence.pdf.

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L’inclusione e il contesto universitario

come risultanti da una processo di rafforzamento dei legami (omo) sociali maschili, dalla celebrazione del potere maschile e come forma di manifestazione pubblica della maschilità eterosessuale: mettere in atto condotte maschili (e violente) significa partecipare a messe in scena in cui le vittime hanno il ruolo simultaneo di divenire obiettivo della violenza ed effetto drammatico di rafforzamento della maschilità (egemone) dell’aggressore. Solitamente sono i maschi a esprimere la necessità del mantenimento e della conservazione dei ruoli di genere tradizionali, pertanto sembrano reagire negativamente e aggressivamente nei confronti dei gay “effeminati”6 e delle lesbiche “mascoline”7. Non sorprende che, secondo quanto rilevato da Berrill, il 33% delle lesbiche e il 49% dei gay intervistati all’interno di una sua inchiesta siano stati vittimizzati nelle scuole pubbliche8. Pilkington e D’Augelli riportano che nel loro campione l’80% dei soggetti gay, lesbiche e bisessuali intervistati aveva avuto esperienza di abusi verbali a causa del proprio orientamento sessuale9. Il 44% era stato minacciato di violenza fisica (il 19% per ben due volte nel periodo precedente al rilevamento dei dati); il 23% aveva subito danni a beni di proprietà personale; il 33% si era visto scagliare violentemente degli oggetti; il 30% era stato seguito e pedinato (il 16% per ben più di una volta); il 13% aveva ricevuto sputi; il 17% aveva subìto un assalto fisico (percosse, calci e pugni); il 10% era stato assalito con armi; il 22% aveva subito violenze sessuali; il 22% riportava paura di subire abusi verbali a casa, mentre il 7% dichiarava di essere impaurito di poter subire violenze fisiche presso la propria abitazione; il 31% dichiarava di temere di potere subire abusi verbali e il 26% violenze fisiche nei contesti scolastici. Nei contesti scolastici studiati da Sears, delle 36 scuole analizzate soltanto due fornivano 6

Cfr. D.J. Parrott, H.E. Adams, A. Zeichner, “Homophobia. Personality and Attitudinal Correlates”, «Personality and Individual Differences», 32, 2002, pp.12691278. 7 Cfr. M.R. Laner, R.H. Laner, “Sexual Preference or Personal Style? Why Lesbians are Disliked”, «Journal of Homosexuality», 5, 1980, pp. 339-356. 8 K.T. Berrill, “Anti-Gay Violence and Victimization in the United States”, «Journal of Interpersonal Violence», Vol. 5, 1990, pp. 274-294. 9 N.W. Pilkington, A.R. D’Augelli, “Victimization of Lesbian, Gay and Bisexual Youth in Community Settings”, «Journal of Community Psychology», Vol. 23, 1995, pp. 33-56.

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supporto per i propri studenti omosessuali: accadeva allora che molti studenti omosessuali “passassero” da eterosessuali almeno sino al momento del diploma (sebbene alcuni di essi abbandonavano gli studi ancor prima del diploma)10. Pertanto, ritualizzare un comportamento omofobico in maniera esasperata significa non soltanto distanziarsi da ogni possibile associazione a comportamenti omosessuali (sanzionati negativamente nei vari contesti sociali) ma preannuncia e conclama un’ostilità pubblica nei confronti dell’omosessualità proclamando, per l’appunto, “pubblicamente”11 un’identità eterosessuale. L’ostilità potrebbe concretizzarsi (e questa non è soltanto un’ipotesi) in atti che gli stessi giovani (ma non solo loro) compiono, quali azioni omofobiche pubbliche (e tollerate), l’insulto, l’aggressione nei confronti degli altri studenti che si credono essere omosessuali poiché agiscono comportamenti non sovrapponibili al loro ruolo di genere. Si pensa, pertanto, che le forme di ansietà legate alle performance di genere (gender anxiety) siano effetto delle pressioni sociali che sovente prospettano un’identità maschile eterosessuale aggressiva e violenta come strumento essenziale per mantenere uno status di maschio credibile12.

10 J.T. Sears, Growing up Gay in the South. Race, Gender and Journeys of the Spirit, New York: Routledge, 1991. 11 E spesso compiendo azioni violente di tipo omofobico. Per un approfondimento si rinvia a D. Epstein, R. Johnson, Schooling Sexualities, Buckingham (UK): Open University Press, 1998; M. Mac An Ghaill, The Making of Men. Masculinities, Sexualities and Schooling, Buckingham (UK): Open University Press, 1994. Su violenza e maschilità cfr. anche J. Katz, The Seductions of Crime, New York: Basic Books, 1988, pp. 80-113; D.L. Wilkinson, “Violent Events and Social Identity: Specifying the Relationship between Respect and Masculinity in Inner City Youth Violence”, in D. Kinney (ed.), Sociological Studies of Children and Youth, Volume 8, Stanford (CT): Elsevier Science, 2001, pp. 231-265. 12 Il rapporto tra genere e violenza e, in particolare, la dimensione dell’ansietà di genere sono centrali anche nel caso del fenomeno conosciuto negli Stati Uniti come “pulling train”. L’antropologa Peggy Sanday in uno studio sulle “confraternite” studentesche dei college americani, Fraternity Gang Rape. Sex, Brotherhood and Privilege on Campus (New York: New York University Press, 1990), ha osservato come l’ansia di genere determini comportamenti eterosessuali aggressivi e mostrato come i giovani studenti, temendo di essere considerati “poco maschi”, mettano in atto comportamenti eterosessuali aggressivi che possono sfociare nella violenza.

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L’avversione che, in alcuni casi, si manifesta da parte dei soggetti eterosessuali nei confronti dei soggetti omosessuali, farebbe pensare piuttosto a convinzioni maturate nei processi di socializzazione primaria e secondaria ed è in relazione con la costruzione dell’identità maschile e del rapporto tra i sessi. In questa prospettiva l’avversione per gli omosessuali assolve un ruolo importante nel sentimento d’identità maschile. Nelle società occidentali, la mascolinità viene spesso definita più con il “prendere le distanze da qualcosa” che con il “desiderio di qualcosa” (imparare a essere uomo significa imparare a non essere femminile e a non essere omosessuale; vale a dire, non essere docile, dipendente, sottomesso, effeminato nell’aspetto fisico o nei comportamenti e saperci fare con le donne). Questi tratti sembrano depotenziare e stereotipare tutti quei soggetti, eterosessuali e omosessuali maschi, che non li posseggono. Nei casi che presentano individui divergenti dalle norme sociali e morali legate al ruolo di genere maschile, la violenza, nelle sue varie manifestazioni, è uno dei fenomeni “permessi” e “attesi”: si pensi a quei fattori situazionali o sociali, come l’esistenza di norme di gruppo13, che supportano espressioni violente esplicite. Consideriamo il caso del bullismo a scuola: se gli adolescenti percepiscono che non vi saranno conseguenze negative o punizioni per il loro gesto, è più probabile che lo mettano in atto o che lo ripetano; penseranno probabilmente che, non essendo il loro comportamento soggetto a sanzione, è consentito, accettato e legittimato. Il contesto ambientale con le sue regole è, quindi, fondamentale. In termini generali, le persone che non sono conformi ai ruoli di genere

I “pulling train” consistono in stupri di gruppo di donne o ragazze (solitamente stordite da alcool o droghe) cui i giovani partecipano, o verosimilmente avvertono una forte pressione a partecipare, dal momento che ogni forma di resistenza è interpretata come poco maschile o addirittura come possibile omosessualità occultata. Al fine di razionalizzare la violenza nei confronti delle vittime, gli aggressori utilizzano una serie di giustificazioni (“le donne se lo meritano sono tutte puttane, in realtà è questo quello che vogliono”) che, se da un lato serve loro a mostrare e costruire un potere maschile, dall’altro è strumento violento per ridurre le donne a oggetto sessuale. Secondo la Sanday una complicità del genere rende possibile i legami omosociali tra i membri delle confraternite maschili, eludendo e sopprimendo il fantasma (e ogni sospetto) dell’omosessualità. 13 L. Pietrantoni, L’offesa peggiore. L’atteggiamento verso l’omosessualità: nuovi approcci psicologici ed educativi, cit.

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(gli uomini poco virili e le donne poco femminili), al di là del loro reale orientamento sessuale, saranno etichettate come omosessuali e derise o aggredite. Il risultato è lo stabilirsi di pressanti meccanismi di controllo sociale volti a monitorare che tutti i membri della comunità, sia eterosessuali sia omosessuali, osservino scrupolosamente le norme, le pratiche e i comportamenti14, al fine di apparire adeguatamente “maschili” e “femminili”. I giovani gay, inoltre, seguono una via di sviluppo della propria identità che è simile ma insieme assai diversa da quella dei pari eterosessuali. Se tutti gli adolescenti devono affrontare lo sviluppo di abilità sociali o integrarsi nel gruppo dei pari, gli adolescenti omosessuali, in particolare, devono affrontare pregiudizi, discriminazioni, atteggiamenti e messaggi violenti nelle loro famiglie, a scuola, nella comunità allargata. Tali messaggi hanno effetti negativi sulla salute, lo sviluppo psico-fisico e l’educazione dei giovani gay. Abbiamo già detto che gli studenti omosessuali sono maggiormente sottoposti a minacce da parte degli altri studenti, a dispersione scolastica, a subire varie forme di bullismo15. Questi sono i motivi per i quali i giovani omosessuali esperiscono isolamento, paura di stigmatizzazione e mancanza del supporto da parte del gruppo dei pari e dei familiari: essi hanno, infatti, rare possibilità di osservare modelli positivi e affermativi in adulti, a causa della generale tendenza culturale che rende la popolazione omosessuale invisibile16. Il contesto di isolamento e la mancanza di supporto determinano in parte gli alti tassi di emotional distress17, tentativi di suicidio18, uso di sostanze19

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A volte in maniera eccessiva. Cfr. R. Garofano et al., “The Association between Health Risk Behaviors and Sexual Orientation among School-Based Sample of Adolescents”, «Pediatrics», Vol. 101, No. 5, 1998, pp. 895-902. 16 C. Rinaldi, C. Cappotto, Fuori dalla città invisibile. Omosessualità, identità e mutamento sociale, Palermo: Ila Palma, 2003. 17 M.D. Resnick et al., “Protecting Adolescents from Harm: Findings from the National Longitudinal Study on Adolescent Health”, «Journal of the American Medical Association», Vol. 278, No. 10, 1997, pp. 823-32. 18 R. Garofano et al., “The Association between Health Risk Behaviors and Sexual Orientation among School-Based Sample of Adolescents”, cit. 19 M.D. Resnick et al. (eds.), “Protecting Adolescents from Harm: Findings from the National Longitudinal Study on Adolescent Health”, cit. 15

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rispetto agli studenti eterosessuali. Dank20, per comprendere meglio le difficoltà di un giovane ragazzo gay in età scolare, suggerisce di focalizzare l’attenzione sui processi di socializzazione che influenzano l’omosessuale nel contesto sociale. Rispetto alla socializzazione, egli si sofferma sulla mancanza delle dinamiche di socializzazione anticipatoria: gli individui omosessuali, se attraversano il periodo della socializzazione nella prima infanzia, lo fanno in rapporto all’eterosessualità e non all’omosessualità. «[…] i genitori di una persona che diventerà omosessuale non preparano il loro figlio a essere omosessuale – essi stessi non sono omosessuali, e non gli comunicano cosa significa essere omosessuale. La persona che prova attrazione sessuale e desideri per persone dello stesso sesso non possiede il vocabolario per spiegarsi ciò che significano queste sensazioni21».

Nella socializzazione primaria e secondaria è inoltre fondamentale la dimensione definizionale, ed in particolare la costruzione semantica nel linguaggio. Le principali categorizzazioni relative ai soggetti omosessuali sono riscontrabili in termini di definizioni: in questo caso, il linguaggio stesso riveste un ruolo rilevante nella creazione di un’identità sociale omosessuale. I simboli sono trasmessi e diffusi e compresi attraverso il linguaggio, che assume la funzione fondamentale di mediazione sociale. Il linguaggio, garante della trasmissione culturale, fonda pertanto la conoscenza comune di un gruppo: si considerino i termini esistenti per indicare un individuo omosessuale22. Questi danno luogo a categorizzazioni che, dall’ambito medico-scientifico a quello puramente dialettale e gergale, hanno valenza prettamente negativa. Le offese di questo tipo, inoltre, assurgono a sanzioni che, scorporate dal loro riferimento a un individuo omosessuale, vengono utilizzate per controllare e definire comportamenti poco diffusi e mal

20 B.M. Dank, “Coming out in the Gay World”, in «Psychiatry», Vol. 34, 1971, pp. 180-197. 21 Ivi, p. 182. 22 L. Pietrantoni, L’offesa peggiore. L’atteggiamento verso l’omosessualità: nuovi approcci psicologici ed educativi, cit.

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condivisi23. Ciò significa, in primo luogo, che gli individui, impegnati nelle attività di incorporamento delle principali pratiche simbolicoculturali diffuse nella loro comunità, pur non avendo mai incontrato un soggetto omosessuale, si saranno formati un’immagine negativa dello stesso e tenderanno a evitare comportamenti che in un qualche modo sono associabili all’omosessualità. Da qui deriva uno svantaggio di partenza, una limitazione che potremmo definire semantica, che, nelle interazioni sociali, influenzerà i soggetti. Lo stesso termine ‘omosessuale/omosessualità’ racchiuderà, pertanto, già di per sé, una forte stereotipizzazione. Fare il punto sull’esclusione sociale e l’omofobia significa, quindi, porsi delle domande conoscitive: quali forme di solidarietà e quali network di supporto esistono per la lotta all’esclusione sociale e alla discriminazione basate sull’orientamento sessuale? Quali i circuiti d’informazione presenti sul territorio quando un/a giovane e la propria famiglia vogliano confrontarsi con il fenomeno? Qual è il grado di isolamento in cui vivono i giovani nelle scuole, nelle associazioni, nelle proprie famiglie? Qual è il grado di isolamento in cui vivono i/le giovani e le loro famiglie? Di quali mezzi e di quali strutture dispone la società locale per individuare le situazioni di esclusione e porvi rimedio? Di quali informazioni dispongono le scuole di ogni ordine e grado per combattere, sin dall’infanzia, il pregiudizio? Il ragionamento si rivolge pertanto alla necessità di dinamiche di cooperazione con le strutture territoriali e di visibilità delle attività di lotta all’esclusione sociale e alla discriminazione basate sull’identità di genere e orientamento sessuale: questi processi sono alla base della manifestazione dei bisogni e pertanto dell’incoraggiamento di una domanda di interventi e servizi regolari e diffusi nel territorio.

L’intervento con gli studenti Le unità didattico-formative, previste all’interno delle attività programmatiche del gruppo di ricerca ed intervento “www.bullismoomo-

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Si pensi a tutte le forme di sanzione di comportamenti poco maschili o poco femminili.

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fobico”24, afferente al Centro SInAPSi, svolte con studenti frequentanti i Corsi di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche e in Psicologia Dinamica, Clinica e di Comunità hanno permesso di realizzare un programma di attività formative e di sensibilizzazione adattabile alle diversità cognitive, personologiche, esperienziali e conoscenza specialistica degli studenti che sono stati coinvolti nelle attività. Ogni gruppo di studenti, composto da circa venti soggetti, ha affrontato un’introduzione complessiva sulle fenomenologie generali delle psicologie delle omosessualità in due incontri della durata di quattro ore ciascuno, approfondendo i temi del bullismo omofobico, dello stigma di genere e le pratiche professionali25. Per lavorare in maniera efficace con gli studenti si è ritenuto indispensabile creare e mantenere un rapporto stabile, di programmazione e monitoraggio con le tutor delle azioni formative, nonché con la docente titolare di cattedra, responsabile scientifico dell’iniziativa, che ha accolto l’iter formativo-didattico; una contrattazione chiara e criteriale che ha permesso di creare un setting formativo adeguato agli obiettivi del percorso formativo. Nello strutturare i moduli didattici è emersa immediatamente la necessità di adeguare la metodologia proposta a un percorso di laurea di futuri professionisti della salute mentale e delle relazioni di aiuto. Questo per evitare di proporre un progetto che incontrasse gli stessi limiti e/o deficienze con cui si son dovute confrontare iniziative simili riferite al contrasto dello stigma di genere e dell’omofobia. Gli obiettivi generali degli interventi all’interno dei contesti universitari, per facilitare il cambiamento e avere delle ricadute su tutti i pezzi della comunità allargata, sono stati i seguenti: 24 Il gruppo professionale “bullismoomofobico”, composto prevalentemente da psicologi e psicoterapeuti, offre servizi di informazione, sensibilizzazione, prevenzione e spazi di ascolto sui fenomeni del bullismo omofobico, omofobia e transfobia prevalentemente per gli studenti dei diversi corsi di laurea dell’Università di Napoli “Federico II” e per gli Istituti scolasti di ogni ordine e grado. 25 Lo staff di formazione era composto da un esperto in prevenzione dell’omofobia in campo educativo e in studi di genere, coadiuvato da due tutor, collaboratori di cattedra e presso i servizi del portale www.bullismoomofobico.it. e un responsabile scientifico, supervisore e coordinatore delle attività. Nella fase attuativa delle unità formative, si è avuta la possibilità di lavorare con 2 gruppi diversi di studenti per un totale circa di 40 formandi.

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 Far conoscere la diffusione del bullismo omofobico, le sue cause, le dinamiche psicosociali che lo facilitano e il profilo psicologico di vittime e aggressori.  Migliorare la propria consapevolezza dei comportamenti normativi e dei comportamenti devianti.  Potenziare gli strumenti cognitivi ed emotivi per affrontare efficacemente i problemi interpersonali all’interno delle agenzie educative e delle strutture ove sono presenti specialisti in psicologia clinica.  Comprendere meglio le dinamiche psicosociali sottostanti l’ingroup e l’outgroup legate allo stigma di genere.  Far crescere una cultura universitaria studentesca basata sui valori della democrazia, della legalità e della solidarietà.  Far confrontare i partecipanti sui meccanismi di gruppo basati su esclusione e inclusione, su stereotipi e pregiudizi, facendo anche avere loro esperienza delle proprie reazioni emotive e psicologiche di fronte alla violenza (fisica e verbale) e alla discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere.  Esporre e chiarire, attraverso le attuali teorie sociali e psico-sessuologiche, le componenti del costrutto multidimensionale di identità sessuale, l’apprendimento sociale e la rappresentazione sociale dell’omosessualità, l’omofobia e i problemi del rapporto con la famiglia e con i pari tra i giovani omosessuali.  Promuovere nel piccolo gruppo l’esperienza di un percorso finalizzato a un’azione efficace in tutti gli ambiti (a livello individuale, di gruppo e istituzionale).  Avviare la realizzazione di una linea d’azione universitaria di prevenzione dell’omofobia calibrata sulle esigenze dei singoli corsi di laurea.  Promuovere la comprensione della costruzione sociale dei generi, delle interazioni sociali e delle differenze di genere in una prospettiva di gender studies.  Promuovere interventi formativi volti a garantire la qualità della vita, le pari opportunità, la non discriminazione e i diritti di cittadinanza.  Favorire l’individuazione di ipotesi interpretative e dimensioni esplicative salienti rispetto ai fenomeni oggetto degli interventi

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 

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partendo anche dalle singole professionalità relative ai diversi corsi di laurea. Affrontare le problematiche relative agli aspetti relazionali in ambito consulenziale, ponendo particolare attenzione a tematiche quali l’omofobia e la transfobia e la genitorialità con figli glbt. Promuovere e sostenere la de-costruzione degli stereotipi e delle modalità relazionali disfunzionali. Offrire un’occasione per una ricostruzione di nuove competenze socio-emotive grazie a un approccio integrato individuale, relazionale, culturale e politico, tramite l’offerta di spazi individuali e di gruppo. Sostenere le forme di empowerment legate all’auspicabile mutamento di atteggiamenti, comportamenti, stati affettivi, livello di soddisfazione e autostima.

Gli incontri di formazione, caratterizzati da un approccio interdisciplinare socio-psicologico e da un’analisi socio-culturale del concetto di diversità, hanno consentito un livello micro di contestualizzazione dell’intervento. Al termine delle azioni formative i partecipanti hanno acquisito e ridefinito nuovi strumenti concettuali e operativi per meglio fronteggiare le dinamiche psico-sociali relative allo stigma di genere e all’omofobia; e nello specifico:  Competenze relative alla dimensione socio-affettiva, con riferimento alle differenze di genere e di orientamento sessuale.  Strumenti e conoscenze sulle modalità d’intervento, partendo dalle specifiche professioni relative ai diversi corsi di laurea.  Competenze trasversali per la dimensione relazionale.  Competenze per operare all’interno di strutture di prevenzione e sostegno con soggetti glbt adolescenti e adulti.  Abilità specifiche per la gestione e soluzione di problematiche afferenti alla sfera dell’identità sessuale.  Conoscenze riguardanti l’area sessuologica.  Competenze orientate al lavoro di rete integrato tra strutture pubbliche e agenzie del privato sociale.  Competenze nel progettare e attuare interventi mirati di prevenzione, attraverso la predisposizione di idee progettuali che rispondano alle esigenze del territorio utilizzandone le risorse.

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 Competenze tecniche per la programmazione di progetti d’intervento sociale promossi dalle amministrazioni pubbliche.  Competenze nel progettare e realizzare eventi, dibattiti e incontri tematici sulle differenze relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere.  Conoscenza comparata sulla gestione delle crisi intrafamiliari dovute alla possibile omosessualità di uno dei componenti della famiglia. Gli interventi realizzati con gli studenti hanno avuto come finalità ultima quella di migliorare e implementare il sé professionale, rafforzare abilità e capacità (life skills) che permettessero loro di acquisire un comportamento versatile e positivo, grazie al quale affrontare in modo più efficace le richieste e le sfide della vita universitaria e del futuro professionale, nonché una maggiore presa di coscienza dei propri costrutti disfunzionali sottostanti i pensieri rigidi e stereotipati. La promozione del benessere ha senso quando, sia in ambiti formali (università, servizi del territorio, ecc.), sia in ambiti non formali (famiglia, gruppi amicali, ecc.) si creino occasioni affinché i giovani adulti sappiano e sappiano riconoscere che cosa succede loro all’interno del proprio gruppo di riferimento, quali sono i loro timori, le loro insicurezze, le loro possibilità e i loro limiti, e sappiano sostenere i processi di autonomia decisionale, fiducia in sé e acquisizione di senso critico e responsabilità all’interno di contesti relazionali-formativi. I prodromi concettuali, sottostanti il programma d’intervento, possono essere riassunti attraverso il seguente nodo esplicativo: trasmettendo alcune conoscenze e capacità psicologiche ai giovani adulti, questi saranno forse in grado di affrontare in modo idoneo i problemi della loro vita professionale e relazionale in senso stretto, ma saranno anche più capaci di capire se stessi e le proprie interazioni con gli altri, altri che possono essere diversi per cultura o condizioni esistenziali. Da un punto di vista metodologico, gli interventi hanno previsto l’utilizzo di strategie diverse, funzionali allo sviluppo di momenti cognitivi, esperienziali e relazionali, così da facilitare una crescita personale di consapevolezza sui vari aspetti dello stigma di genere e delle varie forme di discriminazione basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere e sul proprio modo di rapportarsi a essi. Per ciò che concerne la metodologia impiegata, oltre l’utilizzo dell’informa-

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zione frontale, si è fatto ricorso anche al lavoro di gruppo e centrato sui compiti e, soprattutto, a esercitazioni con analisi di studi di casi partendo dagli ambiti professionali dei singoli corsi di laurea. Gli interventi sono stati in ogni caso negoziati con gli studenti a partire dalla costruzione della mappa delle aspettative. Il gruppo dei/lle partecipanti, con l’uso di simulate, audiovisivi, l’acquisizione e l’interiorizzazione di nuove conoscenze, riflessioni introspettive individuali e di gruppo, ha avuto il ruolo di catalizzatore e di accompagnatore del mutamento, che ha investito le nuove abilità apprese, nelle sue componenti relazionali, strutturali e simboliche. I momenti cognitivi hanno consentito la definizione del patto formativo con ogni partecipante e la definizione del quadro culturale di riferimento interdisciplinare utilizzato. Congruentemente alle tematiche sviluppate durante gli interventi di prevenzione e sensibilizzazione, sono stati proposti tracce e giochi di ruolo per facilitatori o conduttori che lavorano con gruppi di adolescenti o adulti. Attraverso l’analisi dei casi26 si è affidato al gruppo, mediante brevi stralci narrativi, il racconto di avvenimenti o di una situazione problematica inerenti le tematiche oggetto della formazione, cercando di promuovere una discussione per analizzare il problema, per comprendere meglio le ragioni profonde degli eventi e dei comportamenti agiti dai diversi ruoli in gioco. I focus tematici dei casi trattati sono stati i seguenti:  Le dinamiche proprie dello stigma di genere e dell’omofobia in adolescenza.  Coming out e famiglia: dinamiche familiari allo svelamento, risorse mobilitate e riorganizzazioni interne.  Transessualismo e fenomenologie della disforia di genere nell’infanzia, in adolescenza e in età adulta in una dimensione psicologico-clinica.

26 La tecnica dei casi, comunemente chiamata “metodo dei casi”, è impiegata nell’insegnamento e nella formazione universitaria in ambiti disciplinari differenziati e viene utilizzata sia per mettere in evidenza qualche punto difficile di un dato tema, sia per chiarire l’applicazione di leggi o di principi in caso di problemi complessi.

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 Le terapie di conversione, presupposti epistemologici e controversie cliniche.  Genitorialità omosessuale. Durante l’iter, ai partecipanti, sono state fornite le informazioni necessarie che riguardavano la psicologia delle omosessualità in senso stretto nonché l’omofobia e la transfobia, si sono rese più consapevoli le diverse modalità di gestione dei conflitti, potenziate le capacità relazionali e le competenze professionali nell’affrontare argomenti relativi alla sessualità e alle tematiche psicosessuologiche, sviluppate le tecniche che interessano i processi decisionali, promosse le dinamiche del self-help e dell’empowerment. La dimensione del gruppo è stata fondamentale in questo contesto, difatti, ogni partecipante, ha avuto la possibilità di confrontarsi e condividere i vissuti con coloro che stavano svolgendo la stessa esperienza emotiva e umana. Il gruppo ha permesso non solo di condividere le proprie esperienze, ma anche di ricercare insieme modalità d’intervento e di relazione più efficaci e consapevoli. Momento importante e di riflessione è stato la visione del video “Nessun uguale”, documentario girato con ragazzi e ragazze delle scuole superiori e a loro dedicato, e nel contempo strumento di informazione e aggiornamento rivolto a studenti, insegnanti e professionisti che lavorano nell’area socio-educativa27. Gli incontri formativi hanno avuto forti rimandi positivi in riferimento alle tematiche affrontate; si è potuto verificare, infatti, la risignificazione delle rappresentazioni sociali e delle dimensioni concettuali e interpretative presenti nel gruppo prima del training proposto. Le nuove forme di conoscenza, elaborate dai formandi, possono essere qui generalizzate per comodità illustrativa ed esplicativa:  L’importanza del riconoscimento delle differenze nei gruppi, nella prospettiva di una crescita della cura di sé.  Il rilievo tematico percepito delle differenze sessuali, dell’orientamento sessuale e del bullismo omofobico al fine di prevenire comportamenti prevaricatori, di violenza e di discriminazione sessuale. 27 Nel video, prodotto dall’assoc.ne A.ge.d.o., i ragazzi s’incontrano e si ascoltano sul piano delle emozioni, scoprendosi ognuno diverso dall’altro, ma proprio per questo tutti uguali nel voler crescere affermando la propria specifica identità.

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 L’acquisizione di nuove chiavi interpretative per il miglioramento della comprensione delle dinamiche di socializzazione (anche a carattere sessuale) alla luce dei percorsi di identificazione con i giovani omosessuali nei loro percorsi di individuazione e accettazione.  Far propri strumenti di prima informazione scientificamente corretta, in ordine ai temi dell’identità sessuale, della rappresentazione sociale delle omosessualità e dello stigma di genere adolescenziale da un punto di vista psicologico, sociologico ed educativo. Gli atteggiamenti fondamentali del formatore nei confronti del gruppo sono stati di accettazione incondizionata e di ascolto empatico, indispensabili per promuovere e agevolare la problematizzazione delle fenomenologie della prevaricazione e della discriminazione sessuale.

Riflessioni conclusive A partire dalle osservazioni sul bullismo omofobico28 e sullo stigma di genere, sulle forme invisibili di devianza o giustificate in termini socio-culturali, appare pertanto legittimo domandarsi se non fosse adeguato, piuttosto che chiedersi se le devianze adolescenziali siano conseguenza di un generale disadattamento delle nuove generazioni nei confronti di valori ampiamente condivisi, interpretarle, invece, come un adattamento conformistico delle giovani generazioni ai valori realmente vissuti e circolanti all’interno del contesto sociale e culturale degli adulti. Alcune ricerche italiane29 cercano di spiegare il fenomeno della violenza e prevaricazione tra pari interessandosi proprio alle forme culturali che legittimano e rendono riproducibili e significative le azioni offensive, includendo nell’analisi non soltanto il comportamento offensivo bensì la comunicazione che genera l’azione medesima. Comprendiamo in tal modo quanto sia importante individuare le modalità

28

Per una più ampia descrizione del fenomeno, cfr. il saggio di A.L. Amodeo, C. Scandurra, P. Valerio nel presente volume. 29 C. Baraldi, V. Iervese, Come nasce la prevaricazione. Una ricerca nella scuola dell’obbligo, Roma: Donzelli, 2003.

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riproduttive dell’azione offensiva più che i motivi scatenanti, le sue cause, le forme comunicative che rendono probabile la riproduzione offensiva e il suo successo: la violenza normalizzata diventa pertanto «prodotto della socializzazione alle norme dell’offesa e della violenza, i cui significati vengono costruiti dai preadolescenti attraverso la comunicazione con gli adulti ed elaborati autonomamente all’interno di una cultura che si produce nella comunicazione tra coetanei»30. In questo caso atteggiamenti e comportamenti così tanto deprecati e stigmatizzati non si tradurrebbero che in allineamenti ai codici di aspettative e di comportamento sottesi alla vita del contesto sociale e semplicemente resi ridondanti ed estremizzati dalla radicalità giovanile. «Si dice oggi che i giovani sono arroganti, intolleranti, incuranti degli altri e dei loro problemi, ripiegati troppo su se stessi e sulle proprie onnipotenze, incapaci di accettare le parziali sconfitte, desiderosi di sempre nuove sensazioni, avidi di molte cose e legati all’etica del consumo, perennemente inappagati, incapaci di accettare e rispettare le regole, troppo sensibili ai propri diritti e pochissimo attenti a riconoscere i propri doveri. Ma tutte queste sono caratteristiche della generazione che nasce? È proprio vero che la generazione degli adulti ne sia, anche solo parzialmente, immune? Ancora, si dice che i giovani d’oggi sono insicuri, che tendono a eludere i problemi, che troppo spesso cercano e imboccano scorciatoie che non portano da nessuna parte anziché affrontare la fatica della strada più lunga ma risolutiva, che oscillano continuamente tra esaltazione e depressione. Ma è questa una situazione di disagio che interessa solo i giovani, o non ne sono affette forse anche le generazioni mature?»31.

Guardare ai comportamenti violenti dei giovani non può non spingerci ad accostarci a questa realtà come cartina di tornasole dei mutamenti e della violenza strutturale32, simbolica e istituzionale che permea e informa di sé il più ampio contesto sociale.

30

Ivi, p. 13. S. Laffi, Il furto. Mercificazione dell’età giovanile, Napoli: L’ancora del Mediterraneo, 2000, p. 140. 32 P. Bourdieu, Il dominio maschile, Milano: Feltrinelli, 1998. 31

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Esperienze d’uso delle tecnologie a supporto di studenti universitari con disabilità

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di Alessandro Pepino, Gennaro Sicignano, Fiorentino Ferraro, Marco Tammaro

La soluzione tecnologica, strumento per tutti Le soluzioni tecnologiche sempre di più e sempre più prepotentemente pervadono il quotidiano di ognuno di noi. Una parola che si è imposta nella conoscenza e nel gergo comune è ICT acronimo di Information and Communication Technology, a dimostrare come non si possa più prescindere dall’uso delle tecnologie. Le implicazioni di questi profondi e rapidi mutamenti toccano i più diversi ambiti, da quello della socializzazione a quello del lavoro, passando per quello della formazione, diventando una preziosa opportunità per chiunque si trovi a sperimentare una situazione di difficoltà o di disabilità, transitoria o permanente. Venti anni fa si comunicava de visu o via telefono. Internet, cellulari ed e-mail non erano contemplati come strumenti di largo uso e si muovevano solo i primi passi in tale direzione. Pian piano e, progressivamente, essi sono diventati di uso comune trovando proficuo utilizzo in tante attività quotidiane di formazione, informazione, comunicazione e svago. Se questi strumenti sono adattabili in modo da poter essere utilizzati da parte di qualunque utente, di fatto diventano dei facilitatori in grado di abbattere le barriere ambientali eventualmente presenti. Di questa caratteristica possiamo avvantaggiarci tutti, in particolar modo le persone con disabilità. Vale inoltre la pena di ricordare il concetto, indicato dall’OMS attraverso l’ICF, secondo cui in qualunque momento della nostra esistenza possiamo sperimentare, anche solo temporaneamente, una situazione di disabilità causata da

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una malattia, da un incidente, dall’invecchiamento o semplicemente da un cambiamento nell’ambiente che ci circonda, il che evidenzia ancor meglio quanto rilevante sia questo aspetto. Di fatto il PC, che tutti utilizziamo per svolgere attività quotidiane, si presenta come un formidabile strumento di ausilio, adattabile alle più disparate condizioni di disabilità grazie a una serie di interfacce personalizzabili in base alle esigenze dell’utilizzatore. Attraverso l’uso di screen reader, ad esempio, è possibile permettere a un utente non vedente di interagire con il computer, abilitandolo, quindi, a realizzare tutte quelle attività che, con esso, possono essere fatte: leggere e scrivere documenti o e-mail, navigare in internet, chattare, socializzare e lavorare. Per finire è importante sottolineare la centralità del ruolo del soggetto in qualunque processo attivato in suo favore, che lo deve vedere come protagonista e non come semplice destinatario. Nelle pagine che seguono verranno descritte alcune esperienze realizzate presso il Centro SInAPSi dell’Università di Napoli Federico II che illustrano alcune situazioni paradigmatiche che possono essere di aiuto nella progettazione di ulteriori interventi.

Alcune esperienze d’uso Le esperienze fanno riferimento a soluzioni predisposte ad hoc, per alcuni studenti universitari con disabilità presso il Centro SInAPSi; per riferirci agli studenti abbiamo utilizzato nomi di fantasia. Nella esposizione abbiamo cercato di porre l’accento su come la soluzione richieda una progettazione multidisciplinare e individualizzata, nonché la partecipazione e un ruolo attivo da parte dello studente stesso. Carlo È uno studente che, iscritto all’università, ha sperimentato nel corso di anni una progressiva perdita della vista. Egli segue un percorso di studi di tipo umanistico, non conosce il Braille e non aveva competenze nell’uso del computer. Il progetto individualizzato predisposto, inizialmente, per Carlo prevedeva la trasformazione di tutto il materiale di studio in modo da poter essere ascoltato usando un lettore audio;

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infatti, lo studente poteva leggere o realizzare materiale in nero solo attraverso un accompagnatore vedente, che lo facesse per lui. Il primo approccio seguito da Carlo, che, come segnalato, non conosce il codice Braille, era quello di studiare esclusivamente attraverso l’utilizzo di audiolibri. Il progetto individualizzato messo a punto presso il Centro prevedeva, pertanto, oltre a un’adeguata sensibilizzazione dei docenti, la conversione del materiale didattico in formato audio seguendo i tre passaggi: 1. Acquisizione del materiale didattico 2. Trasformazione in formato digitale accessibile 3. Trasformazione in audiolibro, fruibile con un normale lettore audio Nell’ambito del medesimo intervento a favore dello studente è stata predisposta anche un’attività di formazione informatica calata sulle specifiche esigenze dello studente e finalizzata a permettergli di raggiungere un adeguato livello di autonomia nell’utilizzo del computer. In particolare gli operatori della sezione Tecnologia del Centro hanno effettuato delle sessioni di addestramento frontale a carattere teoricopratico. Sono stati introdotti, molto sinteticamente, i rudimenti per comprendere la struttura di un computer, di una rete e di internet. Particolare attenzione è stata posta a fornire i concetti alla base delle interfacce grafiche dei moderni sistemi operativi e alla organizzazione dei vari oggetti presenti a video. Per spiegare come le icone fossero distribuite sul desktop si è ricorso al naturale e classico esempio della scrivania, come anche, per fornire i concetti di cartelle o cartelle annidate si è ricorso al concetto di scatole o scatole contenute in altre scatole. Durante le varie sessioni di addestramento, è stato utilizzato un approccio anche tattile per favorire l’acquisizione dei concetti, poggiando oggetti sulla scrivania e trasferendo, così, i concetti di posizione e di posizione relativa degli oggetti. Gradualmente sono stati trasferiti i concetti delle azioni realizzabili e come realizzarle utilizzando la tastiera e le combinazioni di tasti. Il percorso formativo messo in atto ha affrontato i seguenti argomenti, utilizzando un approccio teorico/pratico:  introduzione su struttura del computer, concetti di sistema operativo, software applicativi, software screen reader etc;

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 utilizzo del sistema operativo, gestione del file system, utilizzo dei menu;  gestione e configurazione dello screen reader;  utilizzo dei software di videoscrittura  internet  posta elettronica Alla fine di tale percorso lo studente ha conseguito un livello di autonomia nell’uso del computer tale da consentirgli di svolgere quotidianamente attività come: navigazione del file system, gestione di file, creazione lettura e modifiche di file di testo, utilizzo di browser, utilizzo di software per la gestione della posta elettronica. In tal modo Carlo ha potuto direttamente verificare come il computer possa essere non solo uno strumento utile per le principali attività di studio ma anche per la sua vita di relazione. La graduale esperienza maturata gli ha permesso di rivedere i suoi schemi di studio, favorendo nel tempo, la maturazione di una maggiore autonomia. Tra i primi vantaggi testimoniati dallo studente spicca il diverso rapporto che ha stabilito nella interazione con i testi di studio, rispetto ai quali ha assunto un ruolo più attivo. Carlo, infatti, sin dall’inizio ha dichiarato di essere in grado di esercitare un controllo molto maggiore utilizzando il nuovo approccio, potendo leggere e rileggere, in modo mirato, le parti del testo di suo interesse. I vantaggi ulteriori, che poi, sono diventati abitudini, sono legati alle nuove performance raggiunte per il recupero di materiale di studio e nel recupero di informazioni, che adesso, in prima istanza, provvede autonomamente a cercare via internet o scrivendo direttamente ai docenti di suo interesse. Il modello di lavoro attualmente adottato da Carlo può essere rappresentato dallo schema riportato nella pagina seguente. Tutto ciò a evidente vantaggio del livello di autonomia dello studente, soprattutto per quanto concerne l’ambito della relazione. Riepilogando in questo caso è stato utilizzato il seguente materiale: – – – –

Pc notebook Screen reader (JAWS o NVDA) Software per la comunicazione (Skype ) Software per l’assistenza remota (TeamViewer)

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Figura 1. - Modello operativo di lavoro dello studente per studi umanistici.

Figura 1. Modello operativo di lavoro dello studente per studi umanistici.

Irene È una studentessa non vedente che intende cimentarsi nello studio di materie scientifiche e si confronta, come altri suoi colleghi, con i problemi legati allo studio e alla gestione di formule matematiche. La studentessa conosce il codice braille, pertanto il progetto individualizzato messo in atto prevede che il materiale di studio le possa essere fornito proprio attraverso questo sistema di scrittura. Contestualmente, però, si concorda l’opportunità di accrescere le scarse competenze informatiche, in modo tale da favorire un graduale ma progressivo aumento dell’autonomia, nello studio e nella relazione con i docenti. Pertanto, nello stesso intervento, è stata realizzata anche un’attività di formazione informatica finalizzata a permettere a Irene di raggiungere un adeguato livello di autonomia nell’utilizzo del computer. Tale formazione ha previsto inizialmente delle sessioni in affiancamento durante le quali, utilizzando un approccio teorico-pratico, un operatore ha trasferito alla studentessa le conoscenze sui software applicativi di interesse: videoscrittura, posta elettronica, applicazione per navigare in Internet. Contestualmente viene sottoposto alla studentessa anche il software BlindMath, un editor scientifico studiato per consentirne l’uso con uno screen reader. Attraverso tale strumento è possibile spostarsi all’interno di un documento ottenendo la lettura, grazie allo operativo screendi lavoro reader, del testo e per delle formule matematiche in Figura 2. Modello dello studente non vedente studi scientifici. esso presenti. Alla studentessa, quindi, sono state fornite le informazioni e il materiale di studio in modo ridondante:

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 codificato in Braille,  sotto forma di documenti digitali, con cui lei stessa può interagire leggendoli e navigandoli secondo necessità.  diagrammi e grafici sono stati realizzati con l’ausilio di un fornetto e di carta a microcapsule (particolari fogli di carta coperti da materiale termo-sensibile che permette di realizzare un effetto a rilievo della parte coperta da inchiostro quando riscaldato) La studentessa stessa, inoltre, è stata messa in grado di creare degli elaborati, direttamente al computer. individualizzato realizzato per la studentessa ha previFiguraIl1.progetto Modello operativo di lavoro dello studente per studi umanistici. sto, oltre alle attività già descritte, anche un’adeguata sensibilizzazione dei docenti dei corsi seguiti e l’accompagnamento da parte di un soggetto opportunamente formato che, oltre a condurla presso le aule, era presente durante le lezioni e realizzava su apposito strumento, il piano gommato, i grafici e le figure che il docente mostrava alla classe. Di seguito viene presentato un modello schematico di lavoro:

Figura 2. - Modello operativo di lavoro dello studente non vedente per studi scientifici. Figura 2. Modello operativo di lavoro dello studente non vedente per studi scientifici.

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Riepilogando in questo caso è stato utilizzato il seguente materiale: – Pc notebook con Windows 7 – Screen reader (JAWS) – Software BlindMath – Software per la comunicazione (Skype, mail client Thunderbird ) – Software per l’assistenza remota (TeamViewer) – Stampante braille Juliet – Fornetto per stampe in rilievo con carta a microcapsule – Piano gommato Giuseppe È uno studente con una disabilità motoria che lo costringe a spostarsi usando una sedia a ruote. Si presenta come una persona estremamente autonoma e capace, dimostrando queste sue caratteristiche in ogni contesto sia operativo sia relazionale. Pur guidando, egli manifesta, in più occasioni, però, delle difficoltà a spostarsi per raggiungere il Centro. Dopo un primo contatto telefonico, gli viene presentata la possibilità di utilizzare soluzioni di comunicazione a distanza per poter interagire in modo più efficiente con gli operatori del Centro, in modo tale che possa evitare gli spostamenti non strettamente necessari. Gli viene anche prospettata la possibilità di assistenza tecnica a distanza fornita direttamente dai tecnici del Centro, che in tempo reale possono collegarsi al suo computer e risolvere gli eventuali problemi presenti. Entrambe le possibilità sono state giudicate utili dallo studente. Il modello operativo concordato e realizzato, in questo caso, può essere schematizzato come segue:

Figura 3. Modello operativo per la comunicazione il supporto tecnologico. e il supporto tecnologico. Figura 3. - Modello operativo per la ecomunicazione

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L’assistenza remota è realizzata con uno specifico software e ogni sessione viene avviata su esplicita richiesta dell’utilizzatore. Lo strumento, inoltre, fornisce anche complete soluzioni di comunicazione che permettono di rendere lo studente, anche da remoto, assolutamente partecipe delle attività che vengono realizzate e interattivo con l’operatore che sta fornendo supporto. In tal modo le singole sessioni possono avere anche una valenza formativa, trasmettendo conoscenze pratiche e stimolando l’accrescimento dell’autonomia dell’utente. Riepilogando in questo caso è stato utilizzato il seguente materiale: – Pc notebook con Windows 7 – Software per la comunicazione (Skype, mail client Thunderbird ) – Software per l’assistenza remota (Teamviewer). Antonio È uno studente lavoratore ipovedente che, dopo anni di progressivo peggioramento, oggi ha una capacità visiva che non gli consente, per le attività di lettura e di studio, di giovarsi dell’uso di video-ingranditori. Egli avendo una media cultura informatica, riconosce che l’uso del PC lo agevola nelle attività quotidiane e in particolar modo in quelle connesse allo studio. Dopo un primo incontro con gli operatori della sezione Tecnologia concorda che gli potrebbe essere utile l’uso di uno screen reader di nuova generazione e decide di provarne uno open source (NVDA). Durante lo stesso incontro, inoltre, gli viene proposta la possibilità di un supporto tecnico fornito direttamente a distanza ed egli la accoglie con grande entusiasmo. Antonio per studiare utilizza quotidianamente il computer con screen reader, strumenti come internet ed e-mail e, in piena autonomia, materiali di studio in formato digitale accessibile, realizzati dal Centro. Egli è anche in grado di procedere direttamente, anche se con delle difficoltà, alla trasformazione di materiale in formato digitale accessibile. Pertanto viene incoraggiato a farlo, in modo da accrescere queste sue capacità e competenze, al fine di aumentare il proprio livello di autonomia. Il modello descritto può essere rappresentato dallo schema presentato in Figura 4.

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Figura 3. Modello operativo per la comunicazione e il supporto tecnologico.

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Figura 4. - Modello operativo di lavoro di studente ipovedente con buone capacità informatiche. Figura 4. Modello operativo di lavoro di studente ipovedente con buone capacità informatiche.

Riepilogando in questo caso è stato utilizzato il seguente materiale: – – – – –

Pc notebook con Windows 7 Screen reader (NVDA) Software per l’assistenza remota (TeamViewer) OCR software (ABBYY FineReader 11, Omnipage 17) Scanner

Pasquale È uno studente che ha seguito corsi con l’obbligo di frequenza. A causa delle sue condizioni di salute sarebbe stato impossibilitato a proseguire nel percorso di studi scelto. Di concerto con la componente amministrativa, con il corpo docente e con lo studente è stata valutata una soluzione di formazione a distanza in tempo reale basata su trasmissione audio/video bidirezionale ma senza registrazione conservativa del contenuto delle sessioni. La soluzione realizzata ha permesso allo studente di conservare tutte le possibilità di interazione con tutor e docente che sono possibili in aula (ascoltare e vedere il docente e quanto illustra ai discenti, scambio di file, possibilità dello studente di intervenire durante la lezione ponendo domande, chiedendo chiarimenti o interloquendo con il docente).

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Le criticità tecniche di una soluzione di questo tipo sono legate alla eterogeneità della infrastruttura di rete (dalla LAN all’interno del campus, al GARR, alla rete territoriale fino al domicilio dello studente) e al diverso livello di dimestichezza con strumenti tecnologici dei vari attori presenti. Di notevole importanza è stato l’utilizzo di sistemi di controllo remoto per poter fornire assistenza a distanza e in tempo reale ai vari attori coinvolti, sia verso la postazione portata in aula che veniva presidiata, sia verso quella presso il domicilio dello studente, non presidiata. Nella successiva Figura 5 viene mostrato uno schema riepilogativo.

Figura 5. Modello di lavoro dello studente seguire lezioni in tempo Figura 5. -operativo Modello operativo di per lavoro delloa distanza studente perreale. seguire

lezioni

a distanza in tempo reale.

Riepilogando in questo caso è stato utilizzato il seguente materiale: – 2 Pc notebook con Windows 7 – Software per la Videoconferenza Skype – Software per l’assistenza remota (TeamViewer)

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Mario È uno studente che a causa di una malattia degenerativa a carico del sistema neuro-muscolare ha visto nel corso degli anni progressivamente ridursi le proprie capacità di controllo motorio. Questo produce effetti, tra l’altro, sulla capacità di deambulare e sul controllo fine degli arti superiori. Nel tempo gli sono state proposte differenti possibilità a diverso livello tecnologico, in modo da permettergli di raggiungere il massimo livello di autonomia compatibile con le sue condizioni di salute. Mario è uno studente di indirizzo scientifico e, quindi, ha una predisposizione per l’uso di strumenti tecnologici e del computer, riconoscendoli come validi strumenti per la comunicazione, lo studio, lo svago e la socializzazione. Dopo alcune prove, fatte con lo studente, si è deciso di lavorare sulle interfacce per l’uso del computer, in modo da permettergliene l’utilizzo per lo studio e la comunicazione. Usando uno scudo per tastiera, lo studente è in grado di usare una tastiera adattata mentre, dopo una prova, sono stati esclusi sensori e simulatore di mouse a bottone. Per permettergli un uso più agevole del computer, si è proceduto anche a utilizzare un software per il controllo vocale. In tal modo, semplicemente attraverso l’interpretazione del parlato continuo, lo studente utilizza il computer per studiare e comunicare: utilizzare la posta elettronica, Internet, applicazioni di messaggistica, comporre il testo di mail o documenti word, ecc. Inoltre Mario è stato istruito sull’uso di un software di videoconferenza per poter, all’occorrenza, realizzare, sempre che non sia necessaria la presenza fisica, incontri sia con gli operatori del centro sia con i docenti che ne abbiano dato disponibilità. Inoltre, anche per questo studente si usa il software di assistenza remota che permette di risolvergli molti problemi tecnici e di fornirgli supporto direttamente a casa senza alcuna necessità di spostamento né per lui né per i tecnici. Per favorire la memorizzazione è stato suggerito l’uso di un programma di videoscrittura e di un altro per la creazione di mappe concettuali. Il primo per raccogliere note e sintetici appunti e il secondo per la rappresentazione visiva di concetti e delle relazioni che li legano. Lo studente utilizza il controllo vocale per creare rappresentazioni

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sintetiche di specifici argomenti in modo da favorire la comprensione, la memorizzazione e quindi, in generale, lo studio.

6. operativo - Modello operativo di elavoro per lo studio e lacontrollato comunicazione FiguraFigura 6. Modello di lavoro per lo studio la comunicazione con computer con comando vocale. con computer controllato con comando vocale.

Riepilogando in questo caso è stato utilizzato il seguente materiale: – Pc notebook con Windows 7 – Software per il riconoscimento vocale del parlato (Dragon Naturally Speaking) – Software per la comunicazione (Skype, mail client Thunderbird ) – sw per l’assistenza remota (TeamViewer) – sw xMind, versione personale

Alcune considerazioni La soluzione tecnologica, che può avere diverso livello di complessità, rappresenta lo strumento per vicariare la parte funzionale del soggetto

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che risulta deficitaria nei confronti delle attività e degli ambienti in cui egli si trova a operare. Essa, inoltre, necessita di un forte coinvolgimento dello studente nelle varie fasi, che vanno dalla progettazione alla realizzazione pratica. La motivazione e la determinazione, a parità di tutti gli altri fattori, possono incidere fortemente sulla reale efficacia e sulle performance finali raggiunte. Lo studente deve essere coinvolto e responsabilizzato rispetto all’intervento che, oltre a prevedere una solida componente tecnologica, deve contemplare la presenza di adeguati interventi pedagogici e psicologici da attivare secondo necessità. L’adozione di nuovi strumenti operativi, infatti, spesso comporta la modifica di abitudini e modalità di lavoro. Introduce nuovi paradigmi operativi, che vanno ben compresi e metabolizzati dall’utente finale, affinché possa trarne il massimo vantaggio nell’ottica dell’autonomia. Possiamo concludere affermando che la grande sfida, con cui si confrontano oggi gli operatori in un Centro Universitario finalizzato a sostenere l’inclusione degli studenti con disabilità, non è più semplicemente la definizione del corretto insieme di strumenti tecnologici e metodologici da sottoporre allo studente, quanto, invece, la corretta declinazione del modello di intervento interdisciplinare. Esso vede ruotare attorno allo studente, primo attore del proprio percorso, tutte le diverse figure professionali che, conservando le competenze legate agli specifici ambiti disciplinari di provenienza1, interagiscano in maniera sinergica e ben concertata, in modo da fornirgli gli ausili non solo tecnologici ma anche psicologici e pedagogici che possono sostenere il processo di inclusione nel contesto universitario.

Riferimenti bibliografici Bruder I., Jaworek G., “Blind and Visually Impaired People: Human-Computer Interaction and Access to Graphics”, in K. Miesenberger, J. Klaus, W. Zagler, A. Karshmer (eds.), Computers Helping People with Special Needs. Lecture Notes in Computer Science 2008, Berlin and Heidelberg: Springer, 2008, pp. 767-769.

1

Su questa dinamica dell’interdisciplinarità che anima il dialogo fra le diverse figure professionali cfr. il contributo di S. Oliverio nel presente volume.

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Canevaro A. (a cura di), L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, Trento: Erickson, 2007. Eugeni C., “Il rispeakeraggio per sordi. Per una sottotitolazione mirata del tg”, «inTRAlinea. Ondine translational journal», Vol. 9, 2007.

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Evans G., Blenkhorn P., “Screen Readers and Screen Magnifiers”, in M.A. Hersch, M.A. Johnson (eds.), Assistive Technology for Visually Impaired and Blind People, Berlin and Heidelberg: Springer, 2008, pp. 449-495. Gaal A., Jaworek G., Klaus J., Weicht M., Zenker F., Bruder I., Düsterhöft A., Heuer A., “Towards an Open Source Screen Reader: Screenreader Usability Extensions (SUE)”, in K. Miesenberger, J. Klaus, W. Zagler, A. Karshmer (eds.), Computers Helping People with Special Needs. Lecture Notes in Computer Science 2008, Berlin and Heidelberg: Springer, 2008, pp. 797-800. Hunt P., Soto G., Muller J., Goetz L., “Lavoro d’équipe a sostegno di studenti con bisogni di C.A.A: inseriti in classi a normale organizzazione”, «A.A.C.», Vol. 18, 2002, pp.20-35. Malkin J., Li X., Harada S., Landay J., Bilmes J., “The Vocal Joystick Engine v1.0”, «Computer Speech and Language», Vol. 25, No. 3, 2011, pp. 535-555. OMS, Decima Revisione della Classificazione Internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali (ICD-10), Milano: Masson, 1992. _____, ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Trento: Erickson, 2002. Piccardi F., “I sussidi tiflodidattici nel processo di apprendimento dei bambini minorati della vista”, «Tiflologia per l’Integrazione», Vol. 14, No. 1, 2004, pp. 59-66 Skejié E., Durek M., “Assistive Technologies for Physically Handicapped Persons”, in T. Sobh (ed.), Innovations and Advanced Techniques in Computer and Information Sciences and Engineering, Berlin and Heidelberg: Springer, 2007, pp. 173-178. Stoeger B., Batusic M., Miesenberger K., Haindl Ph., “Supporting Blind Students in Navigation and Manipulation of Mathematical Expressions: Basic Requirements and Strategies”, in K. Miesenberger, J. Klaus, W. Zagler, A. Karshmer (eds.), Computers Helping People with Special Needs. Lecture Notes in Computer Science 2006, Berlin and Heidelberg: Springer, 2006, pp. 1235-1242.

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Parte IV

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili attraverso l’implementazione di azioni e strategie di rete

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di Fabio Corbisiero

1. Premessa Il dibattito pubblico più recente sul tema dell’inclusione sociale delle persone disabili nel mercato del lavoro ha visto lo sviluppo di importanti riflessioni teoriche sul binomio disabilità-lavoro, che ha portato alla formulazione di diversi paradigmi. Punto di arrivo comune di politiche e ricerche sul tema è il cosiddetto processo del disablement, ovvero del progressivo riconoscimento del ruolo dell’ambiente (nei suoi aspetti fisici e sociali) come una delle cause della disabilità e della conseguente riduzione o impossibilità di essere inseriti nel mercato del lavoro. Molti di questi modelli concettuali sono, infatti, nati allo scopo di analizzare l’impatto delle conseguenze funzionali delle patologie sulle possibilità lavorative; mentre nei modelli tradizionali si ipotizzava un legame indissolubile tra patologia e assenza o riduzione delle possibilità lavorative, in quelli più recenti si è cercato di analizzare la complessa dinamica che si può creare tra queste dimensioni. Il ruolo dei fattori ambientali nel miglioramento delle possibilità lavorative e nel loro potenziamento è stato progressivamente inserito nei modelli analitici. È l’approvazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità a segnare un punto di svolta nel dibattito, favorendo un approccio incentrato sulla tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali di ogni persona disabile1. Già nel “Preambolo” 1

Adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 13 dicembre 2006 ed entrata in vigore il 3 maggio 2008, la Convenzione rappresenta il primo strumento inter-

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

del documento il concetto di disabilità non è più concepito come una “deficienza” rispetto alla “normalità”, ma come «il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri»2. Il Documento riconduce la condizione di disabile all’esistenza di barriere ambientali che ostacolano la sua partecipazione nella società in uguaglianza con gli altri e identifica nel superamento di tali barriere l’obiettivo da raggiungere. Partendo dal riconoscimento di determinati diritti, già contemplati dagli altri strumenti internazionali esistenti e applicabili anche alle persone con disabilità, la Convenzione approda, dunque, a una riformulazione concettuale e terminologica maggiormente rispondente a un nuovo modello di disabilità e al connesso processo di inclusione sociale3. Secondo questo paradigma, le condizioni per la presenza di

nazionale vincolante in termini di politiche e strategie della disabilità. La tutela dei diritti del disabile era stata, fino ad allora, affidata esclusivamente a fonti di soft law (si pensi alla Dichiarazione sui diritti delle persone con ritardo mentale del 1971, alla Dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità del 1975, alle Regole per le pari opportunità delle persone disabili adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993). La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con la Legge del 3 marzo 2009, n. 18 che ha previsto altresì l’istituzione di un Osservatorio sulla disabilità quale organismo consultivo e di supporto tecnico-scientifico alle politiche nazionali in materia di disabilità (Decreto Ministero del lavoro e delle politiche sociali n.167/2010). Per lo svolgimento delle sue funzioni istituzionali, l’Osservatorio si avvale del supporto di una segreteria tecnica costituita nell’ambito delle ordinarie risorse umane e strumentali della Direzione generale per l’inclusione e i diritti sociali e la responsabilità sociale delle imprese (CSR) del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, coadiuvata dall’ISFOL nella gestione delle attività organizzative e tecnico-scientifiche assegnate. 2 Cfr. “Preambolo” della Convenzione lett. i). Rilevante in tal senso è anche il considerando di cui alla lett. m) che afferma: «Riconoscendo i preziosi contributi, esistenti e potenziali, apportati da persone con disabilità in favore del benessere generale e della diversità delle loro comunità, e del fatto che la promozione del pieno godimento dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della piena partecipazione nella società da parte delle persone con disabilità porterà a un accresciuto senso di appartenenza e a significativi progressi nello sviluppo umano, sociale ed economico della società e nello sradicamento della povertà». 3 Cfr. G. Griffo, “L’inclusione come strumento di tutela dei diritti umani”, in M. Marco (a cura di), Dialogo interculturale, diritti umani e cittadinanza plurale, Venezia: Marsilio, 2007.

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 293

disabilità sono sia delle menomazioni funzionali e strutturali della persona, sia la presenza di fattori ambientali che causano limitazioni nello svolgimento delle attività e restrizioni nella partecipazione alle relazioni di vita associata, anche in misura temporanea. La disabilità è quindi una condizione multidimensionale che si basa su una triplice declinazione: fisica, sociale e ambientale.

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2. Demedicalizzare la disabilità: il ruolo dell’ambiente nella condizione del disabile Il senso culturale più profondo della svolta demedicalizzante della disabilità è rappresentato da un cambio di paradigma fondamentale, ovvero il passaggio definitivo dal modello medico al modello sociale. Secondo il paradigma medico l’handicap è un attributo relativo alle caratteristiche fisiche e/o mentali della persona (patologia e menomazioni); le persone che hanno delle menomazioni funzionali e strutturali sarebbero socialmente esautorate e relegate a ruoli societari di tipo secondario, sulla base di accertamenti e decisioni squisitamente clinico-sanitarie. Nel modello sociale si afferma, al contrario, il riconoscimento del ruolo dell’ambiente (nei suoi aspetti fisici e sociali) come causa (o quantomeno concausa) dello svantaggio sociale4; tale paradigma spo4

Il pensiero ispirato al modello sociale ha giocato un ruolo fondamentale nella mobilitazione dell’attivismo dei disabili in svariati Paesi nel mondo. L’espressione “modello sociale di disabilità” è entrata infatti nell’arena politica e sociale a partire dagli anni 80, dopo un lungo percorso di “politicizzazione” della questione da parte di scrittori disabili e di attivisti. Sul piano propriamente scientifico si deve invece al sociologo Nagi l’elaborazione di un modello di descrizione del disablement, basato su quattro concetti: patologia attiva, menomazione, limitazione funzionale e disabilità. Nel tentativo di superare una visione restrittiva della condizione di disabilità secondo la quale la presenza di una patologia o di una menomazione veniva considerata una condizione sufficiente per il venir meno delle capacità funzionali e lavorative, lo studioso egiziano definì la disabilità come “espressione di una limitazione fisica o mentale nel contesto sociale”; un gap tra le capacità della persona e le richieste poste dall’ambiente fisico e sociale. Cfr. S.Z. Nagi, “Some Conceptual Issues in Disability and Rehabilitation”, in M.B. Sussman (ed.), Sociology and Rehabilitation, Washington D.C.: American Sociological Association, 1965, pp. 100-113.

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sta il focus del problema dalla “menomazione alla disabilità”, comprendendo con questo termine l’insieme delle barriere sociali, ambientali e relazionali che svolgono una funzione “disabilitante” sul soggetto in questione, a partire dalle caratteristiche della menomazione da lui manifestata5. L’attribuzione di una condizione di disabilità dipende dunque dalle reali possibilità di essere messi in grado o meno di agire; ciò che Sen6 chiama “capacità di funzionare” (capabilities), ovvero l’effettiva opportunità che ciascun individuo ha di star bene, a prescindere dal suo essere (disabile). D’altro canto, questo cambio di paradigma non trascura la rilevanza della menomazione stessa, che continua a interessare il soggetto, anche dopo l’ipotetico e auspicato smantellamento delle barriere disabilitanti7; la demedicalizzazione della disabilità evoca, piuttosto, la responsabilità collettiva della società nel suo complesso, chiamata ad implementare modifiche ambientali necessarie alla piena partecipazione delle persone con disabilità in tutte le aree della vita sociale8. Si tratta di un’evoluzione scientifica e culturale che supera in via definitiva il mero discorso medico e che ci rende più sensibili verso la disabilità in quanto processo di esclusione sociale multiproblematico, sia pur tenendo conto delle critiche che via via si sono appuntate soprattutto sulle versioni più radicali del modello sociale9. Sulla scia dell’aporìa medico-sociale e come conseguenza dei numerosi studi e delle ricerche che, a partire dagli anni 80, si sviluppano intorno alla relazione tra dimensione ambientale e disabilità, nasce il modello bio-psico-sociale che attribuisce ai fattori ambientali un’importanza maggiore di quanto non avvenisse in passato. La creazione

5

C. Barnes, “A Working Social Model? Disability and Work in the 21st Century”, paper presentato alla «Disability Studies Conference and Seminar», Apex International Hotel, Edinburgh, 9 December 1999. 6 A. Sen, Commodities and Capabilities, Amsterdam-New York-Oxford: North-Holland, 1985. 7 Cfr. L. Crow, “Including All of Our Lives: Renewing the Social Model of Disability”, in C. Barnes, G. Mercer (eds.), Exploring the Divide, Leeds: The Disability Press, 1996. 8 F. Ferrucci, La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra natura e cultura, Soveria Mannelli (CZ): Rubbettino Editore, 2004. 9 F. Ferrucci, “La disabilità tra vecchi e nuovi paradigmi sociologici”, in «Disabilità e politiche sociali», anno 8, n. 3, 2005, pp. 24-29.

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 295

di un tertium genus tra paradigma medico e sociale avvia le condizioni perché la disabilità venga letta in chiave dinamica e processuale, esito cioè delle interazioni dell’individuo nel proprio ambiente fisico e sociale, superando la prospettiva causa-effetto e considerando – per la prima volta in modo olistico – l’aspetto medico-biologico, quello psicologico e quello socio-ambientale della disabilità. Lo sviluppo di questo nuovo paradigma è alla base degli sforzi compiuti dall’OMS per la messa a punto dell’International Classification of Impairments, Disabilities and Handicap (ICDH) prima e dell’International Classification of Functioning (ICF) poi10. A partire dall’edizione del 1980 – nella quale venivano definiti i concetti di “Menomazione”, “Disabilità” e “Handicap” (OMS, 1980) e le successive modifiche riportate nell’ICIDH-2 (OMS, 1999) – nel maggio del 2001 viene proposta nell’ambito della 54° World Health Assembly l’ICF quale strumento internazionale dalle caratteristiche innovative, sia per quanto riguarda il linguaggio sia per il costrutto delle disabilità. In linea teorica l’ICF si presenta come una integrazione del modello medico e sociale in quanto «tenta di giungere ad una sintesi al fine di fornire una rassegna di differenti prospettive della salute attraverso una prospettiva biologica, individuale e sociale»11. L’ICF esce dunque dalla vecchia concezione di “abilità residua” e promuove una prospettiva “positiva” della disabilità. Il termine “Funzionamento” diventa un concetto-ombrello utilizzato per indicare gli 10

A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 si ha un’ampia opera di revisione del concetto di disabilità. Oltre alle revisioni del modello di Nagi (per cui cfr. i saggi in E.N. Brandt, A.M. Pope (eds.), Disability in America: Assessing the Role of Rehabilitation Science and Engineering, Washington D.C.: National Academy Press, 1997) e i lavori dello IOM (Institute of Medicine, 1991; 1997), vi fu un importante processo di revisione dell’ICIDH che, a partire dal documento del 1993, subì un ampio processo di studio che vide il coinvolgimento di numerosi gruppi a livello internazionale e delle stesse associazioni di persone “disabilitate dall’ambiente” che sfociò nella pubblicazione della versione Alpha dell’ICIDH-2 (1996) e della versione Beta (1997). A ciò seguirono le traduzioni in lingue diverse dall’inglese e una versione Beta-2 nel 1999. Come esito del processo di revisione l’ICIDH-2 introdusse il ruolo dei fattori ambientali, una nuova terminologia per le dimensioni e la proposta di un nuovo titolo: International Classification of Functioning and Disability. 11 OMS, International classification of Functioning, Disability and Health, Geneva (CH), 2001, p. 21.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

aspetti positivi dell’interazione tra un individuo, con una condizione di salute, e i fattori contestuali di quell’individuo, che possono essere ambientali o biografici. Il funzionamento di un soggetto è perciò descritto sia dalla sua condizione di salute (per cui, per esempio, una persona cardiopatica non potrà effettuare sforzi fisici troppo intensi e prolungati) sia dall’ambiente in cui vive (la stessa persona dovrà cercare di limitare il suo stato di tensione ma, qualora il suo contesto relazionale fosse stressante, ciò avrà una ricaduta anche sul suo livello di funzionamento). Nella logica concettuale dell’ICF l’ambiente agisce come barriera o facilitatore del funzionamento12. Condizione di salute (disturbo o malattia)

Strutture e funzioni Corporee

Fattori Ambientali

Attività

Partecipazione

Fattori Personali

Figura 1. - Modello delle interazioni tra le componenti dell’ICF (OMS, 1980).

L’ICF, a differenza dell’ICDH, non costituisce una classificazione delle “conseguenze delle malattie”, bensì una classificazione delle “componenti della salute”, intese come quei fattori fondamentali e costitutivi della salute e del benessere. Diffuso ed utilizzato in 191 Paesi del mondo, l’ICF definisce le condizioni di salute e gli stati che 12 Nel concetto di ambiente sono compresi gli aspetti naturali (clima e fattori fisici), strutturali/architettonici (built environment), tecnologici (farmaci, protesi, ausili), le relazioni interpersonali e gli aspetti sociali (reti, benifit sociali).

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 297

a queste si associano. Il nuovo sistema di classificazione della disabilità è stato messo a punto sulla base di una serie di esigenze precise e politicamente corrette, ovvero: la visione della disabilità come un aspetto universale dell’umanità; l’inclusione dei fattori ambientali nello schema di classificazione; la cassazione di qualsiasi terminologia stigmatizzante, adottando una classificazione positiva dei livelli di funzionamento umano; l’abolizione di qualsiasi differenza tra dimensione fisica e mentale, definendo operativamente tutti i livelli di disabilità senza riferimenti a che cosa possa causare il problema; una maggiore attenzione all’analisi del contesto personale, sociale e fisico13. Sin dalla sua pubblicazione nel 2001, l’ICF ha incontrato un terreno favorevole in diversi Paesi del mondo che hanno trovato in questo strumento e nel modello bio-psico-sociale un piano euristico e metodologico utile per la corretta applicazione degli apparati normativi in tema di disabilità.

3. Approcci, strategie e strumenti integrati tra collocamento mirato e ICF L’armamentario tecnico dell’ICF e il suo paradigma bio-psico-sociale, corroborati dalla firma e dalla ratifica del trattato internazionale dell’ONU, stanno gradualmente favorendo le politiche di job placement delle persone disabili. La piena partecipazione dei soggetti disabili alla società e all’economia è oggi fondamentale se l’Ue vuole garantire il successo della strategia Europa 202014 per una crescita 13

Nonostante la diffusione dell’ICF, è la stessa OMS a riconoscere che anche le più caute definizioni e i termini usati per classificare e connotare i disabili possono rivelarsi ugualmente stigmatizzanti. Il rischio che si corre facendo passare nel campo scientifico definizioni che implicano anche motivazioni ideologiche e/o etiche à la Sen è quello che l’OECD ha definito come “impacchettamento della disabilità” (cfr. C. Prinz, “Towards a Coherent Policy Mix”, intervento al seminario «Active Labour Market Policies for People with Disabilities», OECD, Brussels, 9 July 2002). Alla luce di tale varietà l’ICF non adotta approcci rigidi ma, al contrario, esso conferma il principio dell’OMS, secondo cui le persone hanno il diritto di essere chiamate come desiderano o come scelgono di essere definite. 14 Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, COM (2010) 2020 del 3 marzo 2010. Per quanto concerne la disabilità cfr. anche la

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intelligente, sostenibile e inclusiva, tant’è che il tema dell’integrazione lavorativa delle persone disabili rappresenta un caso verosimilmente paradigmatico nei 27 Paesi dell’Ue. Si legge in un recente Piano d’azione (2007): «L’Unione Europea vede la disabilità come una costruzione sociale. Il modello sociale della disabilità dell’Unione pone in rilievo le barriere ambientali che impediscono la piena partecipazione delle persone con disabilità nella società. Queste barriere devono essere rimosse»15. Se però da un lato l’inserimento lavorativo nel mercato aperto – anche dei disabili – è stato sempre visto come una priorità sia a livello di singoli Stati che di organizzazioni sovranazionali (OECD, ILO...), dall’altro l’evoluzione delle dinamiche produttive, sotto la spinta della globalizzazione, ha favorito progressivamente l’emergere di una diffusa consapevolezza circa i rischi e le difficoltà insiti nell’identificazione di questa stessa integrazione lavorativa con un modello standard del mercato del lavoro, refrattario all’integrazione di soggetti in condizioni di disabilità. Al contrario, obiettivo generale dei più recenti orientamenti europei sul tema del binomio disabilità-lavoro è invece quello di mettere le persone disabili in condizione di esercitare tutti i loro diritti e di beneficiare di una piena partecipazione alla società e all’economia europea, mediante la creazione di un mercato del lavoro unico. In Italia la «II Conferenza Nazionale sulla disabilità» (Bari, febbraio 2003) ha identificato per la prima volta l’ICF quale strumento di riferimento per lo sviluppo di politiche e azioni integrate nell’ambito della disabilità. L’interesse specifico che l’Italia manifesta per il paradigma dell’ICF è proprio nell’approccio integrato che coinvolge tutti gli ambiti di intervento delle politiche pubbliche e, in particolare, le politiche di welfare e del lavoro, nella convinzione che solo la collaborazione intersettoriale possa ridurre gli svantaggi derivanti dalla condizione di disabilità. In effetti, è solo nell’ultimo decennio che il tema dell’approccio integrato delle politiche e dei servizi di job placement delle persone disabili subisce una evoluzione significativa. Fino ad allora l’inclusioStrategia europea sulla disabilità 2010-2020: un rinnovato impegno per un’Europa senza barriere, COM (2010) 636 definitivo. 15 Cfr. Situation of disabled people in the European Union: the European Action Plan 2008-9 COM (2007) 738 final.

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 299

ne delle persone disabili nel mercato del lavoro si era retta in misura prevalente sugli ingessati pilastri normativi (la legge n. 104/92 e la l. n. 68/99)16 che, prescindendo perlopiù dai paradigmi scientifici più recenti, non erano stati capaci né di evocare le istanze sociali provenienti dall’universo dei movimenti dei diritti dei disabili e degli enti di rappresentanza né, tantomeno, di guardare con attenzione ai processi e ai modelli organizzativi integrati che intanto i territori – attraverso il lavoro dei singoli attori chiamati a partecipare dalla stessa legge al processo di inclusione lavorativa e sociale del disabile – stavano portando avanti nel nostro Paese. Tuttavia, l’approvazione della legge n. 68/99 ha rappresentato l’ultima e probabilmente la più importante riforma organica finalizzata ad affrontare il tema del diritto al lavoro dei disabili, prima del recepimento della Direttiva europea sulla non discriminazione17 e della ratifica della Convenzione ONU. Il concetto di “collocamento mirato” – alla base del complesso dei suoi istituti – testimonia il tentativo di coniugare due aspetti: da un lato, fondare i percorsi di integrazione lavorativa sulla valutazione della storia sociale, educativa e professionale della persona e sulla valorizzazione delle competenze individuali; dall’altro, prefigurare quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto (analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, strumenti e relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro). In linea teorica dunque l’architettura della l. 68/99 contiene in nuce e, talvolta, anticipa alcune delle linee guida e delle prospettive multidisciplinari contenute nella classificazione ICF; come nel caso del ruolo degli “uffici competenti” per il collocamento mirato – la cui 16 Pubblicata nella G.U. del 23 marzo 1999, la legge 12 marzo 1999 n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” si inserisce in uno scenario di politiche pubbliche italiane profondamente modificate. È parte integrante di un processo di ridefinizione degli aspetti istituzionali e di devoluzione amministrativa e di funzioni che ha avuto come pilastro fondante il decreto legislativo n. 469/97 sul riordino dei Servizi per l’impiego. Uno scenario che ha assunto come punto focale l’istituzione del “collocamento mirato”, consentendo di superare i limiti burocratici e i risvolti “assistenzialistici” della precedente normativa (l. n. 482/68). 17 Direttiva n. 78/2000, recepita in Italia con il d.lgs. n. 216 del 2003.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

definizione specifica è demandata ai singoli legislatori regionali e a cui spetta la programmazione, l’attuazione e la verifica degli interventi di inserimento lavorativo dei disabili – che dovrebbero operare in raccordo con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio18. Si tratta, a ben vedere, di opzioni normative che sembrano affrontare le problematiche connesse a un approccio integrato delle politiche e dei servizi in favore del superamento della centralità del binomio minus psicofisico → ridotta capacità di produrre reddito e/o di lavorare. Attraverso il collocamento mirato la legge italiana promuove e sostiene, almeno in linea teorica, l’inserimento (individualizzato) nel mondo del lavoro delle persone con disabilità in base a un’analisi delle capacità lavorative del singolo soggetto, delle caratteristiche del posto di lavoro, incoraggiando un’attivazione di azioni positive di sostegno e prevedendo, quindi, la rimozione dei problemi ambientali e relazionali, che rendono difficile l’inserimento nell’ambiente di lavoro. Tuttavia il lungo e articolato percorso di attuazione del collocamento mirato vede il processo di inclusione lavorativa dei disabili misurarsi ancora con esigenze complesse e diversificate, sia per la particolare categoria di utenze contemplata (le persone disabili e le imprese sottoposte a obblighi di assunzione), sia per gli specifici adempimenti previsti dalla normativa, sia per la diseguaglianza territoriale che caratterizza i servizi per l’impiego del nostro Paese. Proprio la variabile territoriale introduce la constatazione sulla difficoltà di implementazione della normativa senza l’integrazione con un approccio metodologico che rilevi modelli, formule e strategie di coinvolgimento e di ruolo dei diversi attori interessati dalle procedure del collocamento mirato a seconda del territorio. Da questo punto di vista già la

18 I compiti relativi alla valutazione delle residue capacità lavorative della persona disabile e alla definizione degli strumenti e delle prestazioni necessarie al suo corretto inserimento sono invece affidati a un “Comitato tecnico”, composto da funzionari ed esperti del settore sociale e medico-legale, presente nell’ambito delle Commissioni provinciali per le politiche del lavoro. Le Commissioni provinciali sono organi tripartiti permanenti di concertazione e consultazione delle parti sociali, composte da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori e, per quanto concerne le funzioni inerenti il collocamento dei disabili, da rappresentanti delle categorie interessate e da un ispettore medico del lavoro.

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 301

Terza Relazione al Parlamento (2005)19 rendeva conto, ad esempio, del lavoro di rete dei Centri per l’impiego diffusi nelle province italiane, «molti dei quali si collocano organicamente in reti territoriali strutturate assecondando le caratteristiche precipue di ogni Regione».

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4. L’eccellenza italiana in materia di inserimento lavorativo delle persone disabili: il progetto ICF Italia Lavoro Come si è detto, sin dalla sua pubblicazione nel 2001 l’ICF ha incontrato un terreno favorevole in Italia in quanto strumento metodologico capace di migliorare l’impatto delle politiche e dei servizi di inclusione delle persone disabili nel mondo del lavoro. In tal senso, nell’ambito della «II conferenza nazionale sulla disabilità» di Bari del 2003 e in concomitanza con l’apertura dell’Anno Europeo delle Persone con Disabilità, il modello dell’ICF venne identificato come la metodologia da cui partire per “innovare” il sistema del collocamento mirato. Alla conferenza di chiusura dell’Anno Europeo fu presentato il Progetto ICF in Italia: progetto pilota ICF e politiche del lavoro promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e affidato all’Agenzia tecnica del Ministero “Italia Lavoro (IL)” per la sua implementazione e all’associazione non profit “DIN” (Disability italian network) per la parte di training e di ricerca scientifica20. Il Progetto ICF di IL non solo avvia sull’intero territorio nazionale l’uso dell’ICF (in questa prima fase attraverso la check list ICF,

19 Ministero del lavoro e della previdenza sociale, Terza relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 12 marzo 1999, n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” anno 2004-2005, Roma: 2006. 20 Italia Lavoro s.p.a. opera dal 1997 come Ente strumentale del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per la promozione, la progettazione, la realizzazione e la gestione di attività e interventi finalizzati allo sviluppo dell’occupazione sul territorio nazionale, con particolare riguardo alle aree territoriali e dei soggetti a forte svantaggio nel mercato del lavoro. Il progetto ICF, nella sua evoluzione storica, è stato coordinato e implementato dall’Area Inclusione sociale e lavorativa, sotto la direzione del Dott. Mario Conclave. L’azione di diffusione dell’ICF è stata cofinanziata dal FSE attraverso i Programmi Operativi Nazionali (PON) del Ministero del Lavoro ed è parte di una più ampia azione di sistema riguardante il collocamento mirato che punta a integrare, a livello territoriale, le risorse organizzative ed economiche esistenti.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

il documento lavorativo che elenca le condizioni fisiche, ambientali e sociali che costituiscono la condizione di disabilità) quale strategia innovativa per l’inserimento lavorativo delle persone disabili, ma pone altresì le basi per la promozione di un approccio integrato tra collocamento mirato e la filiera di attori che partecipano all’implementazione dei servizi di inserimento lavorativo. Conclusasi a marzo del 2006, la prima sperimentazione ha dato un esito discreto: 17 Regioni coinvolte, 78 Province, 176 persone disabili per un totale di 202 schede-ICF compilate. Nonostante l’efficace gestione del progetto e l’apertura dei territori alla novità presentata da IL, questa prima sperimentazione mette in evidenza tutte le criticità di un sistema di collocamento mirato basato sui modelli iperburocratizzati della l. 68/99 e sull’esclusività dell’accertamento del requisito sanitario per il riconoscimento del diritto al lavoro. Ancora distanti da una valutazione olistica e multidimensionale della condizione disabilitante, il Progetto ICF sollecita nei territori interessati dalla sperimentazione un primo cambiamento del proprio modello organizzativo, in cui emergono nuovi strumenti (l’ICF) e nuove metodologie (l’approccio integrato) finalizzate a una efficace ibridazione tra applicazione normativa, ambiente lavorativo e fabbisogno della persona disabile. Sulla base di tale esperienza pilota, tra il 2008 e il 2009 il nostro Paese dà il via a un nuovo progetto denominato Messa a punto di protocolli di valutazione della disabilità basati sul modello bio-psicosociale e della struttura descrittiva della Classificazione ICF, promosso dalla “Agenzia Regionale della Sanità” della Regione Friuli Venezia Giulia e finanziato dal “Centro Controllo delle Malattie (CCM)” del Ministero della Salute e dal Ministero della Solidarietà sociale, con l’obiettivo di pervenire alla definizione di modalità ICF e strumenti di accertamento e valutazione della salute e disabilità nei processi di presa in carico socio-sanitaria integrata. È nuovamente Italia Lavoro a ottenere mandato per implementare il progetto sulla base di modalità di applicazione aderenti al paradigma ICF. In tal senso, questo percorso sperimentale ha determinato degli sviluppi di notevole rilievo dal punto di vista metodologico, giungendo all’evoluzione della check list OMS nelle sue varie applicazioni con la definizione del modello di “protocollo” qualificato ICF. L’ulteriore approfondimento sulle potenzialità della classificazione ICF e l’affinamento degli strumenti messi a punto in questa ulteriore sperimentazione offrono come ou-

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 303

tput due protocolli di rilevazione per l’inserimento lavorativo: uno dedicato al lavoratore e l’altro all’azienda. Il primo consente di rilevare le caratteristiche della persona delineandone il “profilo di funzionamento”, il secondo è rivolto all’analisi delle mansioni messe a disposizione dall’azienda per l’assolvimento all’obbligo (come previsto dalla l. 68/99) e a descrivere l’ambiente di lavoro. Quest’ultimo costituisce l’elemento di maggior rilievo, in quanto per la prima volta si procede a un’analisi valutativa del “posto di lavoro” e delle mansioni da svolgere, aderendo pienamente all’approccio biopsicosociale21. Il nuovo percorso sperimentale condotto con il supporto di Italia Lavoro, oltre a migliorare l’applicazione dell’ICF al mercato del lavoro, evolve verso il lavoro di rete: è l’intera filiera del collocamento mirato a essere coinvolta. Il linguaggio, le pratiche e gli strumenti del modello ICF vengono gradualmente innestati nella filiera del collocamento mirato e gli attori che gravitano intorno alla persona disabile prendono coscienza di essere parte integrante di una stessa rete, benché con ruoli e procedure di intervento ancora parecchio diversificate. Nel biennio 2009-2011, viene definito e avviato dalle due Direzioni Generali del Ministero del lavoro italiano (DG Politiche Sociali e DG Mercato del Lavoro) il Progetto ICF4: Sviluppo dell’applicazione dell’ICF e di strumenti da esso derivati alle politiche attive di inserimento lavorativo delle persone con disabilità che nasce all’interno dell’Azione PON-Convergenza “Servizi per l’inclusione socio-lavorativa dei soggetti svantaggiati con il concorso dei SPL”. Sviluppato in 11 Regioni italiane (Piemonte, Liguria, Veneto, Friuli V.G., Abruzzo, Marche, Basilicata, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia) attraverso una provincia “pilota” indicata a livello regionale (Asti, Genova, Padova, Pordenone, Teramo, Ascoli, Potenza, Avellino, Catanzaro, Foggia, Catania) il Progetto ICF4 ha previsto la formazione all’utilizzo dell’ICF e dei protocolli lavoratore e azienda, funzionali alla lettura del profilo di funzionamento delle persone disabili e la lettura dell’ambiente di lavoro e del profilo professionale. L’obiettivo finale è quello di migliorare l’efficienza 21

È in tal senso che va l’evoluzione del kit metodologico dell’Aria Inclusione sociale e lavorativa di IL che, accanto al modello ICF, è impegnata a promuove il progetto personalizzato come strumento dinamico e non propriamente riconducibile alle rigidità proposte dalla classificazione del funzionamento qualificata ICF.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

del collocamento mirato e l’efficacia dei propri servizi, fornendo un supporto tecnico e metodologico alle imprese che presentassero gap negli adempimenti di legge o nei modelli organizzativi del lavoro. Sotto questo profilo, una delle metodologie innovative utilizzate nel Progetto ICF4 è stata l’applicazione della Social Network Analysis (SNA)22, applicata come paradigma e tecnica di supporto all’analisi delle filiere del collocamento mirato interessate dal progetto. Per dare concretezza a questa metodologia, agli esperti di rete dell’Agenzia ministeriale è stato affidato il compito di acquisire dati e informazioni sugli 11 territori interessati dalla sperimentazione al fine di rilevarne i differenti modelli organizzativi. Da questo punto di vista Italia Lavoro ha avuto piena consapevolezza delle potenzialità euristiche della SNA per analizzare un sistema complesso, come quello dell’inserimento delle persone con disabilità nel mercato del lavoro, e la possibilità di leggere, attraverso le reti, un “nuovo” modello di intervento fondato sull’integrazione fra gli attori delle politiche e dei servizi del lavoro, sociali, sanitari e della formazione, per poter superare le situazioni di ingessamento che limitano il collocamento del disabile nel “giusto” posto di lavoro.

4.1. Il metodo e le tecniche della Social Network Analysis applicate al Progetto ICF L’analisi delle reti sociali è probabilmente uno degli strumenti metodologici maggiormente in grado di riconoscere e strutturare i processi regolativi determinati dalla governance territoriale relativa all’inserimento lavorativo delle persone disabili. L’approccio della SNA è ba22

L’analisi di rete (Social Network Analysis) è una prospettiva teorico-metodologica che analizza la realtà a partire dalla sua struttura reticolare. Ciò significa assumere la relazione sociale come unità minima di osservazione e lasciare a latere gli attributi individuali che non sono esclusi dall’analisi ma ricondotti a 3 possibili livelli di interdipendenza: gli attori, le relazioni e le reti che ne costituiscono la struttura di insieme. Cfr. S. Wasserman, K. Faust, Social Network Analysis. Method and Applications, Cambridge (UK): Cambridge University Press, 1994; F. Corbisiero, “Social network analysis (SNA). Tendenze, metodi e tecniche della prospettiva relazionale”, in A. Anastasi (a cura di), Reti, regolazione, risorse di potere e politica locale, Milano: FrancoAngeli, 2007.

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 305

sato sul concetto intuitivo che il pattern dei legami sociali nei quali gli attori sono inseriti abbia per questi conseguenze determinanti. Il tentativo è quello di scoprire schemi riconducibili a strutture relazionali, di determinare le condizioni di origine e di rilevarne le conseguenze per l’azione. Da questa prospettiva, la struttura sociale è assunta come un modello persistente di relazioni fra posizioni sociali e si configura attraverso networks, ovvero insieme di nodi (o membri del sistema sociale) e come insieme di legami che indicano le loro interconnessioni. Riprendendo la metafora simmelliana di “cerchie sociali”23 possiamo dire che la SNA vede gli attori muoversi tra spazi sociali generati dall’intersecazione dei diversi ambiti relazionali in ognuno dei quali il soggetto gioca ruoli sociali differenziati e assume posizioni diverse. Assumendo come unità di analisi e di osservazione la relazione sociale, la SNA mira a elicitare la trama, la struttura concreta, formale e informale, delle interconnessioni sociali senza assolutizzare il ruolo della logica posizionale o dell’attributo ai fini della spiegazione e della comprensione del comportamento sociale; per l’analisi strutturale, cioè, nessuna variabile e nessuna posizione sociale è determinante in senso assoluto, ma solo in relazione alla geometria di una o più reti in cui il soggetto si posiziona diversamente a seconda della situazione. Data questa premessa, le reti che si presentano in questo saggio sono il frutto di un percorso di ricerca implementato tra il 2010 e il 2011 dal gruppo metodologia dell’Aria Inclusione sociale e lavorativa di IL nell’ambito del Progetto ICF4. Più in particolare, le reti sono state costruite adottando come criterio guida del disegno di ricerca le disposizioni normative della l. n. 68 del 1999, con l’obiettivo di ricostruire le relazioni fra i diversi attori che partecipano alla costruzione del processo di collocamento mirato, partendo dalle funzioni loro assegnate dalla normativa nazionale nell’ambito della procedura di avviamento al lavoro e verificando – attraverso la costruzione della rete – quale fosse la sua morfologia e quali fossero gli attori che vi partecipassero attivamente (cfr. fig. 2).

23 G. Simmel, Über sociale Differenzierung. Sociologische und psychologische Untersuchungen, Leipzig: Duncker & Humblot, 1890, trad. it. di B. Accarino, La differenziazione sociale, Roma-Bari: Laterza, 1982.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione Terzo settore

Asl

Associazioni rappresentanza persone con disabilità Commissione medica integrata

Comitato tecnico provinciale

Ufficio competente

Associazionismo sindacale (datoriale e dei lavoratori)

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Commissione provinciale politiche del lavoro Provincia Servizi territoriali

Centro per l’impiego Regione

Figura 2. - Rete normativa nazionale

La nazionale terminologia adottata nell’indicare i diversi attori è quella proFig. 2 – Rete normativa

pria della l. n. 68 del 1999 che – a livello territoriale – può discostarsi o meno dalle denominazioni che il Legislatore regionale ha dato ai diversi organismi, nel recepire e dare attuazione alla legge nazionale. Le reti rappresentate sono state costruite a partire dall’elenco completo di attori che costituiscono la filiera (network) del processo; in taluni casi la denominazione dell’attore è identica a quella prevista dalla l. n. 68/99 mentre in altri casi vi è il nome che – a livello territoriale – corrisponde all’organismo previsto dalla legislazione nazionale. Il criterio adottato per “leggere” l’insieme delle relazioni delle reti è stato quello di specificare i legami tra attori nel caso di accordi e funzioni, formali e informali, assunte dai singoli soggetti della rete (nodi) in ottemperanza alla legislazione nazionale e regionale; e dunque in virtù di atti o convenzioni o per autonome decisioni. La mera partecipazione (mediante designazione di un proprio componente) all’interno di altri organismi specifici previsti dalla normativa non costituisce motivo sufficiente per 24 rappresentare un legame tra attori 9 . La costruzione delle reti è avve24

La logica metodologica che determina questa prospettiva è quella di evitare un overlapping di nodi e legami che sovrastimerebbe la reale composizione della rete.

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 307

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nuta attraverso la compilazione di una matrice quadrata (attore per attore) in cui sono state individuate le relazioni (di tipo simmetrico) degli attori elencati dalla normativa nazionale. La matrice quadrata identifica 4 tipi di relazioni: 1. Relazioni normative: derivanti dalla legge 68/99; relazioni tra gli attori, derivanti dalle funzioni attribuite dalla legge nazionale e regionale (sono tutte quelle relazioni espresse per default ma non necessariamente agìte dagli attori); indicate in matrice con il segno = 2. Relazioni formali: relazioni fra soggetti formalizzate da atti specifici, espressione della volontà dei soggetti stessi (ad esempio accordi, convenzioni, protocolli d’intesa ecc.) non necessariamente attuate in ottemperanza al dettato legale (sono relazioni espresse “autonomamente” e formalizzate tra gli attori); indicate in matrice con il segno + 3. Relazioni informali: relazioni tra gli attori espresse in forme di collaborazione praticate per “autonoma iniziativa”, senza formalizzazione (sono tutte quelle relazioni collaborative agìte dagli attori senza averle formalizzate); indicate in matrice con il segno – 4. Relazioni multiplesse: relazioni multiple tra gli attori, che comprendono, nella fattispecie, una relazione dicotomica, sommatoria di legami formali e informali tra gli attori; queste caratterizzano tutti quei legami in cui gli attori attivano pratiche e azioni che vanno oltre l’accordo formale e che facilitano il processo di collocamento mirato; indicate in matrice con i segni + e –25. Per ciascun territorio analizzato la matrice è stata elaborata attraverso attraverso il software UCINET 6.0.26

25

L’attribuzione di segni alle relazioni non rappresenta il peso dei legami, ma ne qualifica la funzione. 26 Grazie ai diversi software di supporto all’analisi, la SNA sembra oramai aver consolidato e sofisticato le sue procedure. Tra i programmi più completi e userfriendly troviamo UCINET, la cui struttura permette sia la rappresentazione dei sociogrammi (attraverso altri pacchetti associati quali Netdraw, Mage, Pajek) sia la possibilità di calcolo di un ampio numero di statistiche descrittive classiche e di rete (media, deviazione standard, densità, centralità, coesione…). Il programma (disponibile in una versione gratuita di valutazione sul sito http://www.analytictech. com) consente, inoltre, di controllare ipotesi probabilistiche relative ad alcune proprietà strutturali delle reti: correlazione e regressione tra due matrici (QAP correlation e QAP regression), metodo ANOVA.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

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4.2. Lo studio di caso: la Provincia di Teramo Tra gli 11 territori inclusi nello sviluppo della ricerca, si è deciso di presentare, per ragioni di sintesi e di efficacia metodologica, il caso della provincia di Teramo27. Il territorio della provincia di Teramo, sotto il duplice profilo normativo e organizzativo, si pone infatti come uno degli ambiti territoriali targati ICF più virtuosi. Dal punto di vista normativo, l’approccio perseguito dal legislatore regionale è stato quello di affrontare, attraverso un’unica regia istituzionale, le varie forme di svantaggio, come dimostra la rilevante costituzione del Silus (Servizio lavorativo utenza svantaggiata), con il compito di svolgere anche le funzioni inerenti il collocamento mirato. La rete normativa presentata in fig. 3 mette in evidenza un primo livello virtuoso: la centralità del collocamento mirato (ufficio competente) e la fitta trama di legami del Centro per l’impiego (presso cui i Silus risiedono) mostrano l’effettività della normativa nazionale e regionale che, nel demandare alle Province le funzioni loro conferite, dispongono che queste vengano perseguite mediante la realizzazione di una rete di servizi complementari e funzionali alla promozione dell’occupazione dei soggetti svantaggiati, la costruzione di legami virtuosi fra gli stakeholders. Tuttavia, la bassa densità della rete normativa, dovuta perlopiù alla presenza di diversi nodi isolati (Inail, Inps, Agenzia per il lavoro e intermediari) che non partecipano attivamente all’implementazione del lavoro di rete e non godono di particolari prerogative in termini organizzativi, mette in evidenza che, in linea teorica, l’onere dell’inserimento lavorativo delle persone disabili collassa sugli uffici che “storicamente” sono chiamati a questa funzione. Sotto questa angolazione critica, l’utilizzo della SNA pone in evidenza l’architettura organizzativa che prescinde dalla norma e, al contrario, la destruttura, appannaggio di un modello organizzativo che si basa su un insieme inusitato di legami, formali e informali, che agevolano la funzione del collocamento mirato e degli uffici competenti. La fig. 4 mette in evidenza diverse questioni analitiche; anzitutto la compresenza di due significativi livelli di stakeholders. Da una parte 27 Per ragioni di ordine metodologico bisogna specificare che i dati presentati in queste pagine fanno riferimento a una fase di implementazione progettuale relativa al primo semestre del 2011.

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 309 Inail Comitato tecnico provinciale Inps Agenzie per il lavoro

Associazioni rappresentanza persone con disabilità

Terzo settore

Intermediazioni Asl Commissione medica integrata Ufficio competente

Commissione provinciale politiche del lavoro Centro per l’impiego

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Provincia Associazionismo sindacale (datoriale e dei lavoratori)

Servizi territoriali

Regione

Figura Fig. 3 – Rete normativa regionale

3. - Rete normativa regionale

abbiamo il livello istituzionale, composto dall’insieme degli Enti locali (Regione, Provincia e l’insieme degli uffici deputati all’inserimento lavorativo) e dall’altra parte osserviamo un livello non istituzionale composto dal sostrato associativo e dalle agenzie per il lavoro. Sul piano poi delle relazioni di rete osserviamo un triplice livello dei rapporti formato da legami formali, legami informali e legami multiplessi28 che fanno della provincia di Teramo un caso analitico importante per comprendere lo iato tra organizzazione basata sull’approccio normativo e quella che, al contrario, si basa e si sedimenta su processi e pratiche organizzative territoriali. La rete di Teramo disegna uno spazio relazionale strutturalmente debole sul piano dei legami formali, nel quale rimangono parzialmente inespresse le potenzialità giuridiche (accordi, protocolli e/o convenzioni tra attori per la gestione dell’inserimento lavorativo delle persone disabili). Non a caso la numerosità dei legami che la fig. 4 presenta è data dai legami informali che esistono tra gli attori della filiera del collocamento mirato.

28

Per legami multiplessi intendiamo la sovrapposizione, all’interno del medesimo rapporto, di legami formali e informali. 11

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Fig. 4 – Rete multiplessa provinciale

Figura 4. - Rete multiplessa provinciale

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- - - - - - - Format – – – – – Informal –––––––– Multiplex

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 311

Tuttavia qui il gioco tra livello formale e livello informale destruttura l’ingessamento del piano giuridico, rafforzando la tesi che l’efficienza e l’efficacia di qualsiasi progetto di inserimento delle persone disabili nel mercato del lavoro debba dipendere dall’interconnessione degli attori. È chiaro che qui la rete virtuosa che appena si intravede riuscirebbe pienamente a capitalizzare risorse quando i legami informali fossero trasformati in azioni di sistema. Da questo punto di vista, una loro formalizzazione potrebbe garantire l’effettività del principio più volte espresso nella normativa regionale: il perseguimento delle politiche del lavoro su scala regionale mediante il metodo della concertazione e della rete con le parti sociali, ivi compreso l’associazionismo dei disabili. Sono soprattutto le parti sociali e il protagonismo del terzo settore infatti che, insieme alle agenzie per il lavoro, abbattono la centralità “per legge” della dimensione istituzionale a vantaggio di un processo di fluidificazione dei rapporti e di scambio tra tutti gli attori chiamati al lavoro di rete. Da questo punto di vista la misurazione dell’indice di centralità (degree)29 conforta la nostra analisi: le organizzazioni di volontariato, comprese le associazioni di disabili, registrano un indice di centralità più elevato di ogni altro attore presente nella rete (pari al 64,3%), mentre quello del Centro per l’impiego di Teramo (Giulianova, Roseto degli Abruzzi e Nereto) registra un degree più basso pari al 57,7%.

Riflessioni conclusive Come si è visto, il passaggio dal paradigma medico-sanitario al modello bio-psico-sociale rivoluziona il discorso intorno alla disabilità. I nuovi significati legati all’essere e al benessere del disabile riconoscono che ogni persona può avere un “problema di funzionamento” lungo l’intero arco della propria biografia e chiariscono il ruolo fondamentale dei fattori ambientali – atteggiamenti, barriere fisiche o sociali – nel determinare la condizione disabilitante. Si giunge, in tal modo, alla definizione della disabilità come una condizione di salute in ambien29 L’indice di centralità misura il grado di prestigio che ciascun nodo assume all’interno di una rete sociale. Nella fattispecie il degree rappresenta il numero di indicazioni ricevute nella rete da ciascun attore presente nella rete stessa.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

te sfavorevole. Rispetto all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità è fuor di dubbio che l’approccio dell’ICF e il portato metodologico che lo accompagna abbia aperto una breccia nell’inossidabile apparato dell’accertamento medico-sanitario che ancor oggi sostiene l’inclusione sociale dei disabili; proprio l’accertamento sanitario ha avuto l’effetto di produrre una sostanziale “deriva” medico-legale dei modelli organizzativi legati alla legge 68/99, influenzati, peraltro, dalla valutazione di “handicap” che nella prassi delle commissioni medico legali integrate è stata a lungo collegata al riconoscimento della “minorazione” piuttosto che all’effettiva rilevazione di una condizione di svantaggio sociale. Tuttavia, sotto il profilo normativo un elemento di novità si è avuto già con l’attuazione della legge 328 del 2000 che, in un’ottica olistica e multiproblematica, ha chiaramente evocato la “rete delle strutture locali” quale azione di sistema per l’inclusione sociale della persona disabile. All’art.14 la legge 328/2000 introduce l’importante diritto al “progetto individualizzato” della persona con disabilità: «Per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2». Sotto questo profilo ci sembra che il trasferimento ai territori pilota del linguaggio e delle metodologie qualificate ICF e l’avvio del discorso sul progetto personalizzato abbia innestato un circuito virtuoso tale da destrutturare i classici modelli gerarchici di deriva medico-giuridica e avviare azioni ed attività sempre più integrate e deverticalizzate. Con la sperimentazione dell’ICF il nostro Paese affronta la questione dell’inserimento lavorativo dei disabili in linea con i più recenti orientamenti europei sul tema: le politiche e i servizi per il lavoro delle persone disabili devono basarsi su percorsi di integrazione tra gli attori e di adattamento dell’ambiente al lavoratore disabile, utilizzando quell’armamentario tecnico e metodologico che gli sviluppi scientifici mettono a disposizione. Da questo punto di vista l’utilizzo della metodologia della SNA si è rivelato un supporto efficace per verificare l’implementazione del collocamento mirato a livello processuale. Come l’analisi del caso di Teramo ha dimostrato, l’impianto normativo della l. 68/99 non è sufficiente ad implementare

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Oltre l’ICF. L’inserimento lavorativo delle persone disabili 313

modelli “a rete”; molte amministrazioni italiane hanno interpretato il portato giuridico e, in parte, lo stesso modello ICF come “documenti da compilare” piuttosto che come potenziali strumenti di governance territoriale. La sperimentazione condotta da IL pone in evidenza tutte le potenzialità insite nel lavoro di rete e fornisce agli stakeholder nuovi modelli e strumenti di organizzazione della filiera del collocamento mirato, come l’ICF o il progetto personalizzato. Pur essendo evocate dalla l. 68/99, le azioni di sistema sono – ceteris paribus – gli esiti di processi e procedure operative determinate a livello territoriale. Potremmo dire, in conclusione, che la riforma dell’inserimento lavorativo di persone disabili richiede un collocamento mirato riformato. I territori hanno bisogno di progetti strategici e metodi di innovazione effettiva per un efficace inserimento lavorativo delle persone disabili, dotati di un orizzonte poliennale e un qualificato supporto specialistico.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

Ferrucci F., La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra natura e cultura, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2005. _____ (a cura di), “Disabilità e politiche sociali”, «Sociologia e politiche sociali», anno 8, n. 3, 2005. Griffo G., “L’inclusione come strumento di tutela dei diritti umani”, in M. Marco (a cura di), Dialogo interculturale, diritti umani e cittadinanza plurale, Venezia: Marsilio, 2007.

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Laureati con disabilità e inserimento lavorativo: esperienze e prospettive

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di Carlo Paribuono

«Riconoscere la diversità non è razzismo. È un dovere che abbiamo tutti. Il razzismo però deduce dalla diversità degli altri uomini la diversità dei diritti. Noi invece pensiamo che i diritti siano gli stessi per tutti gli uomini»1.

Il conseguimento di una formazione universitaria completa e aggiornata e il raggiungimento di una collocazione professionale adeguata e soddisfacente rappresentano obiettivi fondamentali per la piena realizzazione dell’individuo, nonché fattori determinanti per la crescita del sistema sociale nel suo complesso. Le persone con disabilità condividono con i loro colleghi aspirazioni e frustrazioni, progettualità e difficoltà, e in più incontrano problematiche specifiche, connesse con le loro peculiari esigenze e con le risposte che il contesto didattico e quello lavorativo sono in grado di fornire. Per l’individuo con disabilità, intraprendere il percorso universitario vuol dire affrontare una serie di ostacoli sia oggettivi (barriere architettoniche ed economiche, ma anche inadeguata preparazione specifica da parte dei docenti), sia personali (natura e gravità dell’handicap, ma anche iperprotettività del contesto familiare e/o difficoltà psicologiche). A ben vedere, questo approccio dualistico può essere superato con una visione sintetica nella quale le limitazioni del sog1

G. Pontiggia, Nati due volte, Milano: Mondadori, 2000, pp. 151-152.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

getto diventano elementi di svantaggio solo in quanto l’ambiente circostante non è attrezzato per gestirle; lo sforzo delle politiche sociali deve mirare pertanto a ridisegnare i contesti in modo da includere le persone con disabilità e offrire loro le stesse opportunità garantite agli altri cittadini. Nel settore specifico dell’istruzione, la legislazione italiana ha conosciuto un’evoluzione piuttosto veloce dalle prime disposizioni degli anni Settanta fino ai livelli complessivamente soddisfacenti dell’attuale inquadramento. La tappa fondamentale di tale itinerario normativo è costituita dalla L. 104/1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), cui va riconosciuto il merito di aver recepito — e, insieme, di aver contribuito a instaurare — una visione culturale nuova, nella quale la persona con disabilità non è più oggetto di assistenza o, peggio, di beneficenza, ma soggetto di diritto. La L. 104/1992 è caratterizzata da un approccio integrato, in quanto ha scelto «di porre al centro la persona, indipendentemente dal tipo di handicap in cui si trova, affrontando gli aspetti relativi ai rapporti familiari, nella scuola, nel lavoro e nel tempo libero, e ha quindi pienamente affermato l’importanza dell’inserimento dei soggetti disabili dentro le condizioni normali di esistenza»2. Il passo successivo è rappresentato dalla L. 17/1999 (Integrazione e modifica della Legge-quadro 104/1992), che in particolare chiama l’Università ad attuare precisi interventi in favore degli studenti con disabilità, quali sussidi tecnici e didattici specifici, servizi di tutorato specializzato e trattamento individualizzato per gli esami (mezzi tecnici e prove equipollenti). Andando oltre quanto espressamente richiesto da tale legge, l’Università di Napoli Federico II ha costituito al proprio interno il Centro d’Ateneo SInAPSi (Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti), preposto ad affrontare problematiche estremamente varie di lateralità, estraneità ed esclusione. SInAPSi si ispira a una visione composita e multifattoriale del disagio, e pone in essere interventi mirati avvalendosi di competenze nelle aree della psicologia, della pedagogia e della bioingegneria3. 2

P. Ferrario, Politica dei servizi sociali, Roma: Carocci, 2001, p. 317. Per un ulteriore approfondimento sia permesso il rinvio a C. Paribuono, “SInAPSi, il Centro per l’inclusione e la partecipazione”, in P. Valerio (a cura di), Il viaggio dell’inclusione, Napoli: Ateneapoli Editore, 2011, pp. 24-26. 3

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Laureati con disabilità e inserimento lavorativo 317

Lo sforzo del legislatore e la buona risposta da parte degli atenei distribuiti sul territorio nazionale, insieme con le preziose possibilità offerte dai nuovi ausili ad alta tecnologia, hanno contribuito all’incremento costante del numero degli studenti universitari con disabilità. Un esempio tra i tanti possibili è fornito dalle cifre del principale ateneo campano relative agli iscritti e ai laureati con disabilità, che disegnano una curva crescente (Figura 1)4.

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Iscritti Laureati

1999/2000 86 n.d. 2000/2001 187 n.d. 2001/2002 271 18 2002/2003 434 28 2003/2004 416 46 2004/2005 670 57 2005/2006 817 64 2006/2007 843 112 2007/2008 848 116 2008/2009 1003 117 2009/2010 1108 144 2010/2011 1023 137 n.d.: dato non disponibile

Figura 1. - Laureati con disabilità dell’Università di 1Napoli Federico II,dell’Università 1999-2011. Figura – Laureati con disabilità di Napoli Federico II, 1999-2011. Laureati con disabilità appaiono oggi non solo più Gli studentiIscritti universitari 1999/2000 86 numerosi, ma anche piùn.d.informati, più consapevoli e, in ultima analisi, 2000/2001 187 n.d. più liberi di progettare il18proprio futuro. Tuttavia, una volta conseguito 2001/2002 271 il titolo di studio434 di primo 2002/2003 28 o di secondo livello, il laureato con disabilità si trova a intraprendere 2003/2004 416 46l’arduo cammino dell’inserimento professio57 nale. 2004/2005 Se, grazie 670 all’evoluzione culturale e normativa prima ricordata, 2005/2006 817 l’ambiente universitario64risulta nell’insieme ‘accogliente’ e ‘protetto’ 2006/2007 843 112 in quanto dotato di strumenti e di protocolli adeguati all’inclusione, 2007/2008 848 116 il mondo del lavoro si 117 presenta come una galassia vasta ed eteroge2008/2009 1003 2009/2010 1108 da regolamentare 144 nea, assai difficile e non sempre bendisposta nei 2010/2011 1023 137 Le conoscenze, le competenze e le capacità confronti della disabilità. n.d.: dato non disponibile

4 La tabella e il grafico utilizzano i dati forniti da P. Valerio, “Il viaggio dell’inclusione”, ivi, pp. 17-22. Il numero dei laureati nell’ultimo anno accademico considerato è stato aggiornato.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

acquisite lungo il percorso universitario rischiano di essere disperse e mortificate da un contesto lavorativo impreparato e poco ricettivo; i problemi che più frequentemente si verificano sono la disoccupazione, la sottoccupazione e la dequalificazione. Le bussole per orientarsi in questa non facile navigazione sono, da una parte, la legislazione generale mirante a favorire l’accesso delle persone con disabilità all’attività lavorativa e, dall’altra, le strategie specifiche poste in essere dall’Università per raccordarsi con il mondo produttivo e professionale. Per quanto riguarda il primo ambito, va sottolineata la notevole trasformazione della normativa, che è passata dall’originario schema vincolistico della L. 462/1968 (Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private) alle disposizioni di respiro assai più ampio fissate dalla L. 68/1999 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili), tuttora vigente. Sul secondo versante va indicata l’esperienza di AlmaLaurea5, la banca dati accademica italiana costituita nel 1994 su iniziativa dell’Osservatorio Statistico dell’Università di Bologna e attualmente gestita da un consorzio di atenei con il sostegno del MIUR, che mira a mettere in relazione laureati, università e aziende. Va inoltre segnalato come il portale Cliclavoro6, recentemente varato per razionalizzare il mercato del lavoro attraverso un più stretto coordinamento tra enti locali, istituzioni formative, centri per l’impiego e imprese, preveda l’obbligo per le università iscritte all’albo delle agenzie per il lavoro di pubblicare sui propri siti istituzionali i curricula degli studenti dalla data di immatricolazione fino ad almeno un anno dal conseguimento della laurea; in tal modo gli atenei diventano a tutti gli effetti protagonisti nell’intermediazione lavorativa. I due campi testé descritti, pur rientrando a pieno titolo nella tematica affrontata dal presente contributo, si inseriscono in quadri

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Cfr. il sito (l’accesso agli indirizzi internet citati nel presente contributo è stato verificato in data 01/06/2012). L’Università di Napoli Federico II aderisce ad AlmaLaurea con il proprio portale , che favorisce l’incontro tra laureati (compilazione del curriculum vitae e messa a fuoco delle possibili opzioni professionali) e imprese (recruitment e offerta di formazione). 6 Cfr. il sito ; si veda inoltre il Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 20/09/2011.

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Laureati con disabilità e inserimento lavorativo 319

di riferimento più ampi: le norme sul collocamento mirato non riguardano esclusivamente i laureati, così come le pratiche di job placement attuate dalle università non riguardano esclusivamente le persone con disabilità. Un contributo specifico in materia è stato fornito invece dalla Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati per la Disabilità (CNUUD)7 nelle Linee guida sull’inserimento lavorativo degli studenti disabili dopo la laurea8. Questo importante documento evidenzia le difficoltà e le esigenze peculiari che caratterizzano il rapporto tra disabilità e mondo lavorativo, non senza denunciare la perdurante discriminazione che grava sui soggetti con alcune tipologie di disabilità, nei cui confronti viene esercitato un vero e proprio ostracismo da parte del circuito produttivo. Il testo auspica pertanto l’attivazione presso gli atenei italiani di appositi servizi miranti a stabilire rapporti con le aziende locali e a incrociare utilmente la domanda e l’offerta di lavoro, così da consentire l’accesso a collocazioni professionali appropriate. Le Linee guida ribadiscono il ruolo attivo delle università — sia che operino singolarmente, sia che si riuniscano in cordate — nella ricerca di un adeguato inserimento per i propri laureati con bisogni speciali. L’università, dunque, è chiamata ad accompagnare e supportare il soggetto con disabilità in un percorso che va oltre la conclusione del rapporto didattico e il conseguimento del titolo accademico; assumendosi questa responsabilità, essa riconosce implicitamente che l’efficacia della propria azione formativa si misura anche nel raggiungimento di uno sbocco professionale qualificato. La CNUDD non si limita a formulare raccomandazioni generiche, ma individua precisi ambiti d’intervento. Grande importanza viene attribuita all’interazione e all’intesa con gli uffici territoriali che hanno il compito di monitorare la corretta applicazione della L. 68/1999. Uno strumento assai utile viene indicato nell’istituto dello stage pre- e post-laurea, in quanto esso rappresenta uno spazio di verifica sia per il soggetto con disabilità (che può mettere in gioco con-

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Costituita nel 2001, la CNUDD riunisce i Delegati dei Rettori per la Disabilità (previsti dalla L. 17/1999) degli atenei italiani, e si configura come organismo di raccordo che coordina la politica e le attività delle università a favore degli studenti con disabilità. 8 Le Linee guida sono reperibili sul sito nella sezione “Documenti pubblici”.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

cretamente le proprie capacità professionali), sia per l’azienda (che ha modo di apprezzare le prestazioni del soggetto e valutarle in vista di una possibile assunzione). Più che opportuno è inoltre il richiamo alla necessità di attivare apposite campagne di sensibilizzazione che promuovano un clima positivo e costruttivo intorno all’impiego dei soggetti con disabilità e che mostrino come tale pratica rappresenti non un vincolo oneroso da subire, ma una preziosa opportunità da cogliere. Le richieste e gli auspici delle Linee guida costituiscono un valido nucleo di principi fondamentali da calare nelle singole realtà e da declinare in funzione dei contesti locali e dei continui mutamenti dello scenario socio-economico. Può essere utile, pertanto, accostare al documento teorico della CNUDD i risultati emersi da un interessante studio condotto presso l’Università di Padova9. Stando alla ricerca patavina, il canale principale per l’inserimento occupazionale è l’iniziativa dello stesso neolaureato, che in autonomia si documenta sulle possibilità professionali dischiuse dal titolo di studio acquisito e si propone sul mercato attraverso l’invio del proprio curriculum e il contatto diretto con le aziende; seguono, in posizione subalterna, l’inserimento forzoso in base a quanto disposto dalla L. 68/1999 e lo stage propiziato dall’ateneo. Ciò significa che, nella realtà esaminata, l’azione dispiegata dall’università è strumento meno efficace rispetto sia all’intraprendenza soggettiva, sia alle garanzie e alle tutele fissate dalla legge. Lo studio, inoltre, ribadisce la necessità di un’opera di preparazione culturale da condurre presso le aziende, ma pone l’accento anche su un aspetto complementare e speculare, vale a dire l’opportunità di ‘formare’ lo stesso laureato con disabilità, così da consentirgli di affrontare in modo consapevole e sereno l’impatto con la realtà lavorativa. Si rende necessario, pertanto, un servizio di consulenza personale, che informi il soggetto dei propri diritti e delle concrete opportunità che gli si prospettano, senza trascurare l’eventualità di un supporto psicologico che tenda a mitigare le insicurezze e i timori connessi con il delicato passaggio dal mondo della formazione a quello della professione. 9 Cfr. G. Boccuzzo, L. Fabbris, E. Nicolucci, “Il capitale umano dei laureati disabili”, in L. Fabbris (a cura di), Criteri e indicatori per misurare l’efficacia delle attività universitarie, Padova: CLUEP, 2011, pp. 129-162.

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Laureati con disabilità e inserimento lavorativo 321

Gli autori assegnano un’alta priorità alla «costruzione di un sistema di alleanze sociali»10 che inglobi università, organizzazioni non governative e associazioni di imprenditori in un lavoro coordinato e sinergico, capace di offrire i massimi benefici possibili non soltanto alla persona con disabilità destinata a essere inserita, ma anche all’azienda che si candida ad accoglierla. Infine, un accento particolare viene posto sulla necessità di una progettazione fortemente individualizzata del profilo lavorativo, attuabile soltanto attraverso il rispetto costante del principio di flessibilità in tutte le sue forme11. Uno sguardo alla realtà campana evidenzia alcune cospicue iniziative che vanno in questa direzione. È significativo, ad esempio, che il Tavolo Permanente Regionale per l’Inclusione Universitaria degli Studenti (Tavolo PRIUS), costituito nel 2011 da sette atenei presenti nella regione (Federico II, L’Orientale, Suor Orsola Benincasa, Partenope, Salerno, Seconda Università di Napoli, Sannio), si proponga tra i suoi obiettivi di «sensibilizzare il Ministero (attraverso la CNUDD) sulla tematica del nesso scuola-università-mondo del lavoro» e di «delineare piani di intervento, in sinergia con istituzioni, organizzazioni e attori economici, per l’orientamento in uscita e il placement delle persone con disabilità laureate, valorizzando le esperienze già in corso in alcuni Atenei partecipanti al tavolo e elaborando soluzioni condivise»12. Azione ancora più specifica è la recentissima attivazione di un nuovo servizio sperimentale presso il Centro SInAPSi dell’Università di Napoli Federico II: Universi Diversi al Lavoro13. Il progetto nasce dalla convinzione che la conoscenza e la valorizzazione delle differenze costituiscano un’occasione di arricchimento culturale e di sviluppo economico, e che un’inclusione lavorativa realmente rispettosa delle diversità possa assicurare la piena realizzazione del potenziale umano 10

Ivi, p. 156. Ivi, p. 157, compare la distinzione tra «flessibilità nell’orario (part time, orari e turni flessibili, uscite simili a quelle per maternità, straordinari), flessibilità del luogo di lavoro (telelavoro, lavoro a domicilio), flessibilità funzionale interna alle attività produttive e contrattazione individuale dei compensi di lavoro». 12 Così recita l’atto costitutivo del Tavolo PRIUS, sottoscritto dai rettori dei sette atenei partecipanti in data 25 luglio 2011 e composto dai rispettivi delegati per la disabilità. 13 Cfr. il sito . 11

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e professionale di ciascun individuo. In tale quadro diventa fondamentale la figura del diversity manager14, cui sono demandate tanto l’esplorazione delle esigenze dei soggetti con disabilità in cerca di occupazione, quanto l’azione di sollecitazione e di raccordo rivolta ai contesti produttivi. In concreto, Universi Diversi al Lavoro si propone di costituire un database permanente dei laureandi e dei laureati con disabilità dell’ateneo federiciano (con eventuale successivo allargamento del bacino), di condurre colloqui personali, di attivare contatti regolari con aziende, enti e agenzie operanti nel territorio di riferimento, di organizzare meeting annuali che favoriscano il matching tra domanda e offerta e di pubblicizzare le proprie attività anche attraverso i mezzi di comunicazione attualmente più diffusi nell’universo giovanile (Facebook, Twitter, ecc.).

Riferimenti bibliografici Boccuzzo G., Fabbris L., Nicolucci E., “Il capitale umano dei laureati disabili”, in L. Fabbris (a cura di), Criteri e indicatori per misurare l’efficacia delle attività universitarie, Padova: CLUEP, 2011, pp. 129-162. Ferrario P., Politica dei servizi sociali, Roma: Carocci, 2001. Paribuono C., “SInAPSi, il Centro per l’inclusione e la partecipazione”, in P. Valerio (a cura di), Il viaggio dell’inclusione, Napoli: Ateneapoli Editore, 2011, pp. 24-26. Pontiggia G., Nati due volte, Milano: Mondadori, 2000. Valerio P. (a cura di), Il viaggio dell’inclusione, Napoli: Ateneapoli Editore, 2011.

14 Il diversity management è una modalità gestionale orientata a conoscere e valorizzare le differenze delle persone; il principio, finora applicato essenzialmente a fattori primari come l’età, il genere e l’origine etnica, e fattori secondari come il percorso formativo, l’esperienza maturata e il reddito, può essere utilmente declinato anche nell’ambito dei soggetti con disabilità.

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Il chiasma inclusione-interdisciplinarità. Appunti teorico-pedagogici sui professionisti nel campo dell’inclusione

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di Stefano Oliverio

1. La professionalità nel campo dell’inclusione come questione teorico-epistemologica Lo scopo del presente scritto è di contribuire – in modo preliminare, ad ampie pennellate e senza alcuna pretesa di esaustività – a un’interrogazione sul significato delle professioni nel campo della disabilità (e, più in generale, dell’inclusione). Fin da quando i Disabled Studies sono emersi come campo disciplinare autonomo, la domanda sul tipo di professionalità richiesta non è mai stata un tema-ammennicolo, sussidiario e derivato, bensì uno snodo cruciale nel profilare il settore di ricerca. Infatti, nel tipo di intervento professionale proposto si riconosceva uno dei fronti cruciali di differenziazione fra gli approcci votati all’integrazione e quelli vocati all’inclusione1: l’integrazione richiederebbe educatori in possesso di un know-how in ultima istanza tecnico, che consenta loro di inserire i soggetti a rischio di esclusione all’interno di contesti definiti. Il ‘fatto’ dell’esclusione non si traduce, in altri termini, nella logica della integrazione così intesa, in un appello alla revisione degli assetti escludenti e alla rinegoziazione dei principi che presiedono al loro funzionamento, bensì unicamente nel problema operativo di come evitare che qualcuno ‘rimanga fuori’. Nella prospettiva dell’in-

1 Cfr. M. Oliver, The Politics of Disablement, New York: Palgrave Macmillan, 1990; Id., Understanding Disability: From Theory to Practice, London: Macmillan, 1996.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

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tegrazione la questione è, quindi, meramente di estendere, attraverso la pratica, le abilità dei professionisti in modo che essi sappiano quali strategie adoperare per adattare l’escluso alle condizioni date, non suscettibili di rivisitazione critica. È un compito di razionalità tecnica2, in cui i fini sono già stabiliti (l’ambito, la cerchia, il consorzio sociale in cui doversi integrare è già là, costituisce il paradigma di normalità cui doversi conformare) e la sfida diventa quella di individuare i mezzi attraverso i quali attuare l’assimilazione. Si crea, così, «una relazione professionista/cliente che racchiude il professionista in un mondo di conoscenza privilegiata ed esclusiva e, di conseguenza, seppellisce la persona [con disabilità] in un ruolo fondamentalmente dipendente»3.

Profondamente differente la logica dell’inclusione: essa è problematica perché le questioni dell’inclusione sollevano domande fondamentali (ossia che vanno ai fondamenti) su che cosa significhi educare in una società pluralista, in cui sono compresenti svariati modi di vita, di pensiero, culture, stili cognitivi, abilità etc. e su come si possano attuare progetti educativi che rispettino la diversità. Ciò che viene richiesto agli educatori è, allora, non un mero sapere tecnico, l’acquisizione di determinate skill operative, ma anzitutto – o almeno, contestualmente allo sviluppo di skill – un committment, un impegno, quello di promuovere contesti educativi accoglienti, che prendano in considerazione le differenze (culturali o di altro tipo) e le diverse esigenze di cui sono portatrici. L’inclusione non è, tuttavia, per quanto si è venuti dicendo, un processo irenico, implica una lotta per il riconoscimento4 e la creazione, tramite negoziazione di significati condivisi, di nuove partenership. 2

Ovviamente il riferimento è a D.A. Schön, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari: Dedalo, 1993; Id., Formare il professionista riflessivo, Milano: FrancoAngeli, 2006. 3 A. Brechin, J. Swain, “Professional/Client Relations: Creating a ‘Working Alliance’ with People with Learning Disabilities”, «Disability, Handicap and Society», Vol. 3, No. 3, 1988, p. 218. Benché l’articolo si riferisca agli individui con learning difficulties, la notazione del passo citato ha valore più generale e perciò si è fatto riferimento alle disabilities. 4 Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte, Frankfurt am Main: Surkhamp Verlag, 1992.

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Il chiasma inclusione-interdisciplinarità 325

Già in virtù di questi scarni accenni si comprende come – nella professionalità nel campo della disabilità (e della diversità) – ne vada di più della semplice definizione di un set di competenze e saperi (per quanto, ovviamente, ciò rappresenti un elemento essenziale), ma in essa vengano alla luce questioni di più ampio respiro. Una delle ipotesi che sta alla base del presente contributo è che nel professionista nel campo della disabilità (e della diversità) – in modo più evidente e quintessenziale che nel caso di altre aree – emerga una questione capitale della nostra epoca, quella dei rapporti fra sapere specialistico e società, o, per dirla altrimenti, quella della responsabilità che gli ‘esperti’ hanno nei confronti di una comunità democratica. Si può asserire che l’esigenza pressante e inaggirabile di rinnovare il senso di ‘che cosa significhi essere un esperto’ e di ‘che cos’è democrazia’, che i professionisti esperiscono nel momento in cui si cimentano in modo competente con la questione della disabilità e della diversità, è figura e anticipazione di un più generale sommovimento nei rapporti fra sapere e democrazia di cui, nel nostro tempo, si prende coscienza dalle più svariate prospettive e nei più diversi settori sia della ricerca sia delle pratiche sociali. Per questo motivo la riflessione, che – è bene ripeterlo – ha carattere esplorativo e non sistematico – assumerà anche, in taluni suoi passaggi, un incedere altamente generale, per poi concretizzarsi sull’exemplum della professionalità nel campo della disabilità e della diversità. La cornice di riferimento sarà quella offerta dal pensiero di John Dewey e questo non solo perché rappresenta tuttora una delle più avanzate proposte su come intendere la democrazia non come mero regime politico ma come forma di vita e di esperienza comunicata e condivisa5; né solamente perché è la fonte esplicita del modello del professionista riflessivo, che è alla base delle più avvertite teorizzazioni sulla professionalità nel panorama contemporaneo6; ma anche perché, nel momento in cui ci si accomiata dal modello ‘medico’ in materia

5

J. Dewey, Democracy and Education, in The Middle Works, 1899-1924, vol. 9 (1916), edited by J.A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1980. 6 Cfr. M. Striano, La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, Napoli: Liguori, 2001; P. De Mennato, Il sapere personale. Un’epistemologia della professione docente, Milano: Guerini, 2003.

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di disabilità (e di diversità), spesso identificato come un fattore di creazione di dipendenza (anche se non il solo), la logica del giudizio di pratica, che Dewey ha messo a punto7, diviene il candidato più autorevole come cornice epistemologica di riferimento per i professionisti. Senza investigare nel dettaglio il tema, si intende precisare quest’ultimo punto, ricorrendo ad alcune recenti osservazioni di Gert Biesta, che – benché focalizzate su domande di epistemologia pedagogica – hanno una più ampia valenza e permettono di tracciare uno degli elementi di sfondo della presente riflessione. Biesta prende le mosse dalla diffusione, nella ricerca e nella pratica pedagogiche, di un’enfasi su modelli evidence-based che, ad onta dei meriti che possano avere, lasciano perplessi se issati a tribunale ultimo, soprattutto se si considera la questione della «tensione fra controllo scientifico e controllo democratico sulla pratica e ricerca educative»8. I modelli evidence-based, che Biesta considera in ultima istanza radicati «nel campo della medicina»9 e poi ‘esportati’ in differenti settori, intendono l’agire professionale come una sorta di intervento efficace, garantito da nessi causali (=do un farmaco, prescrivo una terapia etc. per produrre certi effetti): «Gli interventi efficaci sono quelli nei quali c’è una relazione salda fra l’intervento (=causa) e i suoi esiti o risultati (in quanto effetti). È importante notare, a questo proposito, che l’efficacia è un valore strumentale: si riferisce alla qualità dei processi ma non dice nulla su che cosa si supponga che l’intervento produca»10.

In altre parole: gli approcci evidence-based, di matrice medica, sono indirizzati a valorizzare che un determinato processo avvenga 7 J. Dewey, “The Logic of Judgements of Practice”, in The Middle Works, 18991924, vol. 8 (1915), edited by J.A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1979, pp. 14-82. Per le implicazioni pedagogiche della riflessione deweyana sulla logica del giudizio di pratica cfr. M. Striano, S. Oliverio, “The Logic of Judgements of Practice and Critical Thinking”, paper presentato alla SAAP (Society for the Advancement of American Philosophy) 2012 Conference, 15-17 marzo 2012 presso la Fordham University, New York City. 8 G.J.J. Biesta, Good Education in an Age of Measurement. Ethics, Politics, Democracy, Boulder and London: Paradigm Publishers, 2010, p. 32. 9 Ibidem. 10 Ivi, pp. 33-34.

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Il chiasma inclusione-interdisciplinarità 327

con il massimo dell’efficacia, ed è questo ciò su cui ci si interroga, ma non ci si interroga mai sul senso del risultato ottenuto. Focalizzati sul nesso di causa-effetto, tali approcci studiano la sussistenza di questa connessione e il suo perfezionamento, ma eludono le questioni di significato. Ciò deriva dal fatto che – nella lettura dell’agire professionale come ‘intervento’ – vi è una scissione di mezzi e scopi: questi ultimi sono considerati come ‘dati’, ‘pre-stabiliti’, e ciò che solo interessa è come conseguirli nel modo più efficiente (come già accennato, è questo il nucleo di quella che Schön chiama razionalità tecnica). Che questa impostazione ‘tecnico-causale’ possa assumere molteplici forme, alcune anche decisamente positive, non toglie che essa incorra in due fallacie: di fronte alle questioni dell’inclusione (ossia dell’empowerment degli individui, della rimozione delle barriere, etc.) non si ha mai a che fare con mere relazioni di tipo causale ma con «un processo di interazione simbolica o simbolicamente mediata»11. Il che implica che la promozione dell’inclusione non consiste (solo) nell’innescare certi meccanismi, nel produrre determinati effetti, ma esige il coinvolgimento dei soggetti, i quali debbono ri-appropriarsi, attraverso interazioni simboliche, dell’intervento ‘causale’, e quest’ultimo, quindi, si limita a fornire «opportunità agli studenti di rispondere»12. In altre parole e per fare solo un esempio: l’intervento sui contesti – rimuovendo una barriera fisica o anche culturale – è ‘ininfluente’, in termini di inclusione, se non rientra in un più generale progetto di cui protagonista è il soggetto, per il quale si intende promuovere l’inclusione. Non è la rimozione della barriera per sé a favorire l’inclusione, ma il fatto che così si offre al soggetto l’opportunità di dispiegare il suo potenziale. Ciò conduce alla seconda fallacia rilevata da Biesta (che la riferisce all’educazione mentre qui il focus è sull’inclusione): mezzi/fini non sono legati esteriormente ma internamente. È un altro modo di esprimere la natura non meramente tecnica delle azioni professionali nel campo dell’inclusione. Un legame estrinseco postula la sussistenza di fini definiti e fissati e la ricerca dei mezzi più idonei per realizzarli. Una connessione interna indica, invece, la co-evoluzione di mezzi e fini. Ad

11 12

Ivi, p. 34. Ivi, p. 35.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

esempio: potrebbe essere molto più agevole ed efficiente (anche per lo studente) che un volontario di servizio civile o un tutor si incarichino di alcune incombenze proprie della vita universitaria (prenotare gli esami, consultare la guida, recarsi in biblioteca a prendere dei volumi etc.), le quali possono risultare particolarmente gravose per la persona con disabilità, in modo da lasciargli solo il ‘peso’ della preparazione degli esami e del loro superamento. Ma persino una sequela di 30 agli esami da parte dello studente, supportato in, anzi dispensato da, alcuni compiti, lungi dal segnalare un intervento di inclusione riuscito (anche se certamente è stato ‘efficace’!), indica un fallimento nella politica di inclusione, ad almeno due livelli: anzitutto, a parte finorum, il soggetto è stato de facto subordinato a scopi generali (in ultima istanza determinati dall’istituzione), ossia contava di più che si conseguissero certi obiettivi di quanto non contasse che quegli obiettivi fossero espressione di un percorso autonomo e personalmente appropriato; in secondo luogo, a parte mediorum, i mezzi, se non hanno inciprignito la condizione di dipendenza, quanto meno l’hanno lasciata intatta e la vita universitaria non è stato il terreno di un’emancipazione ma di una performatività sprovvista di autentico significato liberatorio. Ciò perché nel campo dell’inclusione (come – più in generale – nel campo dell’educazione) i mezzi che adoperiamo «contribuiscono qualitativamente al carattere stesso […] degli scopi che producono»13. Ciò implica, conclude Biesta riferendosi alle professioni educative (ma la posizione vale tanto più per ‘i professionisti dell’inclusione’), che ciò con cui abbiamo a che fare non è un’impresa tecnica bensì una pratica morale, ovviamente non nel senso moraleggiante – o, peggio, moralistico – né in quello ortatorio e parenetico, ma nel senso che è una pratica in cui le competenze tecniche sono strutturalmente sposate a un committment di tipo in ultima istanza etico, che concerne le opzioni di fondo sul tipo di esistenza che vogliamo ‘abbia mondo’. Per sintetizzare: «[…] il modello di azione professionale implicata nella pratica evidencebased – ossia l’idea di educazione come trattamento o intervento, come strumento causale per produrre fini particolari, pre-dati – non è appro-

13

D. Carr, “Practical Enquiry, Values, and the Problem of Educational Theory”, «Oxford Review of Education», Vol. 18, No. 3, 1992, p. 249.

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Il chiasma inclusione-interdisciplinarità 329 priato per il campo dell’educazione [inclusione S.O.]. Ciò che è necessario all’educazione [inclusione S.O.] è un modello di azione professionale che sia in grado di riconoscere la natura non-causale dell’interazione educativa e il fatto che mezzi e fini dell’educazione [inclusione S.O.] sono legati internamente piuttosto che esternamente. Ciò che è necessario, in altre parole, è il riconoscimento del fatto che l’educazione [inclusione S.O.] è una pratica morale piuttosto che tecnica o tecnologica […]. La questione più importante per i professionisti dell’educazione non è quindi quella sull’efficienza delle loro azioni, ma quella sul valore educativo potenziale di ciò che fanno […]. Questa è la ragione per cui l’agenda della pratica evidence-based, fondata su «ciò che funziona», è quanto meno insufficiente e probabilmente fuori luogo nel caso dell’educazione [inclusione S.O.], perchè il giudizio in educazione [inclusione S.O.] non è semplicemente su ciò che è possibile (giudizio di fatto) ma su ciò che è pedagogicamente desiderabile (giudizio di valore)»14.

Siffatte conclusioni, da Biesta riferite alle professioni educative, possono essere estese vantaggiosamente ai professionisti dell’inclusione, che quindi non lavorano solo su un piano tecnico ma su quello della phrónesis, della capacità di giudicare le situazioni singole con l’intenzione di favorire la fioritura umana complessiva. La cornice epistemologica è data, quindi, non dalla logica causale ma da quella del deweyano giudizio di pratica che tesse insieme mezzi e fini. Il modello dell’inquiry permette di riconoscere l’unicità e peculiarità dei casi, che non vengono presi come specimina di leggi generali; di enfatizzare il carattere sperimentale dell’agire professionale, senza cadere nella fallacia di ritenere che si tratti di applicare sempre e comunque protocolli standard e regole pre-definite; di prendere in considerazione la natura politica delle azioni, nella misura in cui in ciò che i professionisti nel campo della disabilità e diversità fanno ne va dei modi di intendere la polis, il consorzio sociale e civile. Proprio quest’ultimo punto merita di essere approfondito e costituirà, in seguito, il trampolino per saggiare la ‘necessità’ dell’interdisciplinarità e il suo accoppiamento strutturale, il suo chiasma, con l’inclusione.

14 G.J.J. Biesta, Good Education in an Age of Measurement. Ethics, Politics, Democracy, cit., pp. 36-7. Cfr. anche P. de Mennato, A. Cunti (a cura di), Formare al lavoro sociale, Milano: Guerini, 2005.

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

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2. L’idea filosofica inclusiva e l’interdisciplinarità Benchè si possa plausibilmente argomentare che la teorizzazione deweyana sulla democrazia rappresenti ancora un orizzonte di senso fondamentale per la riflessione su inclusione e democrazia15, non è dai testi canonici di Dewey sul tema che si intende qui prendere le mosse, bensì da un saggio della sua produzione tarda, in cui il pensatore americano indaga la nozione di società come l’idea filosofica inclusiva. Questo scritto di Dewey pertiene questioni di ‘metafisica’ e di metodo filosofico, e potrebbe quindi apparire bizzarro, se non decisamente inappropriato, utilizzarlo nel presente contesto. Ma in realtà, come Dewey ha più volte ribadito, anche le speculazioni metafisiche più astratte e apparentemente lambiccate prendono l’abbrivio dal contesto dell’esperienza e – se opportunamente re-interpretate – possono fornire una guida per orientarsi sul piano della pratica di vita. Non è quindi un caso di ‘omofonia’ od ‘omonimia’ (l’uso dell’aggettivo inclusive nel titolo) che indirizza verso il saggio che si analizzerà, bensì la convinzione che – a un elevato livello di elaborazione concettuale – esso fornisca delle chiavi di lettura essenziali per comprendere il significato (anche operativo) della categoria di inclusione. Ovviamente esso verrà sottoposto a una interpretazione selettiva e idiosincratica, e a una certa torsione esegetica, che preleverà da esso dei ‘campioni’ teoretici utili ai fini della presente riflessione. Il nucleo dell’articolo di Dewey è, come già accennato, nella tesi che la nozione di ‘sociale’ sia l’idea filosofica inclusiva. Il suo punto di partenza è «il fatto che quanto più numerose e varie sono le forme di associazione cui qualcosa accede, tanto migliore è la base che abbiamo per descriverlo e comprenderlo, perché quanto più complessa è un’associazione tanto più pienamente si danno potenzialità di osservazione»16.

15 Per una prima esplorazione del tema mi permetto di rimandare a S. Oliverio, “L’inclusione interculturale come frontiera educativa”, in M. Striano (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, Milano: FrancoAngeli, 2010, §1, dove tento di fondere insieme la prospettiva deweyana e quella di Iris Young. 16 J. Dewey, “The Inclusive Philosophic Idea”, in The Later Works, 1899-1924, vol. 3 (1927-1928), edited by J.A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, p. 42.

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Il chiasma inclusione-interdisciplinarità 331

Qui Dewey si sta scagliando contro le concezioni empiristiche e – più in generale – riduzionistiche che postulano la ricerca di elementi semplici, fatti atomici, come realtà ultima e fondamentale per spiegare i fenomeni. In realtà, ogni fenomeno – tanto del reame fisico quanto di quello culturale, sempre che si possano demarcare i due domini con una frattura ontologica, cosa che Dewey contesta – è tanto più suscettibile di indagine e conoscenza quanto più viene investigato nelle molteplici relazioni che lo legano ad altri fenomeni. Anzi, è proprio l’insieme delle relazioni e delle associazioni che costituiscono l’identità di un fenomeno. Pensare in maniera complessa a una realtà è pensare la complessità di quella realtà, la sua irriducibile multidimensionalità, la molteplicità intrecciata dei suoi aspetti, che debbono essere compresi in unitate. Che Dewey introduca la nozione di ‘inclusione’ in questo contesto pare altamente significativo: il riduzionismo è ipso facto fattore di esclusione, anche lì dove si presenta con l’incedere neutrale della démarche scientifica: se non è una tappa di un più ampio processo di indagine, esso tende a sancire solchi e fossati ontologici, a ritagliare un ‘reale’ dal plesso delle sue relazioni e a consegnarlo a un isolamento senza sostanza. Questa che può apparire un’elucubrazione un po’ fumosa ha un immediato significato anche operativo: chi è il soggetto con disabilità? Chi il professionista? Sono due entità separate che si incontrano in quella che Dewey chiamerebbe interazione, ossia in una relazione che non dismette l’autosegregazione nella propria identità già data? Ovvero si costituiscono in quella che Dewey definisce transazione? Nella transazione i poli del rapporto non sono già dati ma si co-determinano all’interno della relazione. Ad esempio: non esiste il docente in sé e lo studente in sé che poi entrano in interazione, ma le due posizioni si co-definiscono e co-evolvono. L’idea di transazione e l’idea di inclusione – questa una delle tesi che si vuole qui sostenere – sono intimamente legate. Si immagini uno studente con disabilità che acceda ai Servizi di Tutorato Specializzato: nella logica interazionista i due poli sono già lì insieme con un terzo (il contesto). Nella logica transazionista invece, che tenta di pensare in complexitate, il contesto si definisce come barriera o facilitatore nella relazione con il soggetto con disabilità e con il professionista; l’expertise dell’esperto e la disabilità dello studente si co-determinano reciprocamente e in relazione al contesto medesimo e non sono fissate

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L’inclusione nel mondo del lavoro e il lavoro per l’inclusione

una volta per tutte. Non si tratta soltanto – per riprendere un tema del precedente paragrafo – di intervenire su nessi causali, che presuppongono identità stabilite, ma di attivare una dinamica in cui tutti i fattori vengono ‘fluidificati’ e acquisiscono potenzialità di re-definizione. Come operatore io non incontro, quindi, semplicemente un soggetto con difficoltà nella componente visiva generaliter, cui ‘somministro’ una strategia di intervento per partecipare alla vita di un contesto, ma incontro un soggetto con una difficoltà nella componente visiva che devo descrivere nella sua specifica relazione a quel contesto, il quale – a sua volta – si definisce nella sua realtà proprio (anche) per la sua relazione a quel soggetto, e, nel farlo, ritorno sul mio repertorio di risposte professionali e le ricalibro e rimodulo. Logica interazionista (= delle identità fisse) e integrazione vanno insieme: già definita è la disabilità, già definita la caratteristica contestuale e quindi pre-determinato il percorso di intervento. Nella logica transazionista, invece, ciascun termine di quella che potremmo definire l’equazione complessa dell’inclusione è un’incognita se sganciato dagli altri ed è solo nella co-evolvente relazione che si determina nel suo valore (in ogni accezione del lessema). In virtù di ciò che si definirà qui la logica deweyana della transazione inclusiva, se è vero che «quanto più numerose e varie sono le forme di associazione cui qualcosa accede, tanto migliore è la base che abbiamo per descriverlo e comprenderlo», la descrizione della disabilità dello studente non può che avvenire sulla base delle sue molteplici forme di associazioni. Compresa quella col professionista. D’altra parte questi è tale non tanto perchè ha le ‘risposte’ corrette sulla questione dell’inclusione, ma perchè si dispone nell’atteggiamento epistemico inclusivo, ossia si sa come incognita sempre da ridefinirsi all’interno della relazione complessa con i contesti e i soggetti. Ciò non significa screditare l’importanza delle conoscenze specialistiche e delle competenze professionali, ma segnalare che esse diventano, da risorse indispensabili, delle zavorre, se non si conservano nell’orizzonte dell’inclusione sempre da fare e si solidificano invece in saperi-pronti-all’uso. La polemica contro il riduzionismo empiristico e in favore dell’idea inclusiva è un adeguato supporto teorico alla logica dei progetti individualizzati. E, al contempo, scongiura un rischio, ossia quello che l’enfasi sulla individualizzazione divenga insistenza su

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caratteristiche definitorie già date, indipendentemente dalla rete di associazioni che costituiscono la realtà individuale. Ma, d’altro canto, se fissa e consolidata non è l’identità del soggetto, non lo è neanche quella dei contesti. Ciò che il professionista opera è sempre, insieme, descrizione dei contesti e della disabilità, nella misura in cui questa diviene handicap in quelli e quelli divengono barriere nella relazione con i soggetti. Il carattere di ovvietà che, per fortuna, tutto questo ha acquisito in molte delle buone pratiche di inclusione non deve ammantare di scontatezza il rovesciamento gestaltico che tali pratiche esigono in termini epistemologici. Pena il pericolo sempre incombente di ripiombare nella logica interazionista e integratoria (= delle identità disabili fisse, dei contesti già determinati nelle loro caratteristiche e quindi dei saperi codificati dei professionisti). Se ciascuna ‘realtà’ – per riprendere il tono formale-astratto della meditazione deweyana – è tanto meglio conosciuta e compresa quanto più numerose e varie sono le associazioni che si prendono in considerazione, allora il lavoro dell’inclusione è – già solo al livello di analisi e di descrizione della situazione problematica – interminabile (il che non contraddice il fatto che si realizzi attraverso la determinazione delle situazioni problematiche). Di più: la situazione problematica, quella che innesca la dinamica espressa dall’equazione complessa dell’inclusione, non deve essere interpretata come mera ‘criticità’, come una disfunzione nella relazione soggetti-contesti, perchè in questa lettura vi potrebbe essere il rischio di riproporre la logica dell’interazione. Piuttosto andrebbe interpretata come una fase di crisi nella evoluzione e dei soggetti e dei contesti, attraverso la quale entrambi accedono a quelli che Dewey chiamerebbe «gradi più alti di realtà», nella misura in cui si sviluppa un rapporto più bilanciato e si trovano nuovi equilibri e assetti. È in questa cornice, nella ristrutturazione della realtà soggettiva-e-contestuale, che si colloca anche il ruolo di mediatore che il professionista svolge e su cui Andrea Canevaro ha più volte richiamato l’attenzione17. 17

Cfr., sul professionista come mediatore, le riflessioni di Andrea Canevaro in Le logiche del confine e del sentiero. Una pedagogia dell’inclusione (per tutti, disabili inclusi), Trento: Erickson, 2006; Id., Pietre che affiorano. I mediatori efficaci in educazione con la «logica del domino», Trento: Erickson, 2008.

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Quella che si è qui definita l’equazione complessa dell’inclusione si radica in ed elicita alcune virtualità teoriche della riflessione deweyana sulla nozione di ‘sociale’, che meritano di essere discusse brevemente in quanto permetteranno di far avanzare l’argomentazione. Come detto, Dewey considera la categoria di ‘sociale’ come l’idea filosofica inclusiva e lo fa in polemica contro gli approcci empiristi (che risolvono il reale in componenti ultimi atomistici) e riduzionisti, enfatizzando come la maggiore complessità dell’associazione permetta una migliore comprensione dei fenomeni. L’obiezione che si trova a dover fronteggiare è di confondere la nozione di associazione (che vale anche nel mondo fisico) con quella di società, che è invece una caratteristica precipua del mondo umano: «Di qui l’obiezione che prontamente viene in mente. La concezione che il ‘sociale’ nel suo senso caratteristicamente umano sia una categoria importante incontra la replica che, al contrario, esso non è che un caso altamente specifico di associazione e come tale è di significato ristretto, ovviamente interessante dal punto di vista umano, ma una faccenda di dettaglio piuttosto che un principio importante. […] Associazione semplicemente in se stessa è una categoria totalmente formale. Essa acquisisce contenuto solo considerando le differenti forme di associazioni che costituiscono il materiale dell’esperienza. Così, mentre si ammette che la società, nel senso umano, è una forma di associazione che è ristretta nella sua manifestazione spazio-temporale, essa non può essere posta in contrasto con l’associazione in generale. Il suo significato può essere determinato non paragonandolo con l’associazione nel suo generico senso formale, ma solo paragonandolo e raffrontandolo con altri tipi specifici di associazione. […] E l’implicazione del nostro argomento è che, in tale paragone di tipi definiti di associazione, il sociale, nel suo senso umano, è il modo più ricco, pieno e delicatamente sottile fra quelli effettivamente esperiti»18.

Ma se il sociale, nel senso umano, è la forma di associazione più ricca di significato che si possa esperire, tanto più lo sarà quella modalità in cui il sociale si realizza in maniera paradigmatica, e per Dewey, come si sa, essa è rappresentata dalla democrazia come forma di vita: «I due elementi nel nostro criterio [per valutare la società in quanto società S.O.] rimandano ambedue alla democrazia. Il primo significa 18

J. Dewey, “The Inclusive Philosophic Idea”, cit., p. 43.

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non solo più numerosi e vari punti di comune interesse condiviso ma più grande affidamento sul riconoscimento di mutui interessi come fattore di controllo. Il secondo significa non solo interazione più libera fra gruppi sociali […] ma cambiamento nell’abito sociale – il suo continuo ri-adattamento mercé l’incontro con le nuove situazioni prodotte da svariate relazioni. E questi due tratti sono precisamente ciò che caratterizza la società costituita democraticamente»19.

Se il ‘sociale’ è l’idea filosofica inclusiva e la democrazia è la quintessenza della socialità, allora la democrazia è l’idea filosofica più inclusiva (e, nella lettura qui avanzata, lo è nella misura in cui è processo di inclusione). Il ‘sociale’ così inteso permette anche di fornire una cornice di senso ad alcune efficaci critiche mosse recentemente ai modelli sociali della disabilità e di comprendere il significato profondo di una visione bio-psico-sociale. Criticando Michael Oliver, Tom Shakespeare segnala anzitutto la rigidità dicotomica dell’opposizione ‘modello medico vs modello sociale’ e, in secondo luogo, come essa tenda a far evaporare la realtà della menomazione: «Il modello sociale della disabilità fa una distinzione tra menomazione e disabilità; asserisce che la disabilità può essere rimossa con il cambiamento sociale; e sottovaluta il ruolo della menomazione nelle vite delle persone con disabilità. […] Io asserisco che, anche nel più accessibile dei mondi, vi saranno sempre degli svantaggi residuali connessi a molte menomazioni. […] I concetti di un mondo senza barriere e di una Progettazione Universale hanno un immenso valore nel sottolineare i molti modi in cui barriere non necessarie e una progettazione sconsiderata recano svantaggio a molte persone con menomazione o che sono dipendenti, vecchie o ferite. C’è senza dubbio un imperativo morale e politico a fare molto di più per promuovere l’inclusione. Ma ci sono importanti ostacoli pratici e intrinseci per la soluzione del problema della disabilità solamente (o anche, forse, principalmente) attraverso la rimozione di barriere»20.

Questi avvertimenti di Shakespeare sono importanti perché consentono di precisare il senso della presente argomentazione.

19

J. Dewey, Democracy and Education, cit., p. 92. T. Shakespeare, Disability Rights and Wrongs, London and New York: Routledge, 2006, p. 50. 20

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Quando, nel primo paragrafo, si è eccepito sul modello medico, la discussione era anzitutto epistemologica e indirizzata contro alcune oltranze causalistiche. Non intendeva certo dirigersi contro il riconoscimento del peso che la menomazione pur gioca. E, tuttavia, ciò che mette conto conservare dell’attacco di Oliver e degli altri esponenti dell’approccio sociale è l’accento sul superamento di una lettura solo individualistica della disabilità, in termini di personal tragedy theory21. Shakespeare coglie, però, nel segno quando considera svianti le concezioni sociali che «asseriscono che avere una menomazione è una forma differente ma equivalente di embodiment rispetto al non averla. Dalla prospettiva del modello sociale, non è la forma di embodiment a essere il problema ma il fallimento della società ad adattarsi a quella forma di embodiment attraverso la rimozione di barriere. Ma [non c’è alcuna] prova che un ambiente privo di barriere elimini la disabilità e renda eguali le persone con disabilità e quelle senza disabilità»22.

Ma forse la partita (teorica e operativa) si gioca su che cosa si intende con ‘sociale’, ed è a questo punto che un’opzione deweyana sembra promettente. Infatti, ad analizzare le critiche di Shakespeare a Oliver, si nota come questi tenda a opporre ‘sociale’ da un lato a ‘individuale’ e dall’altro a ‘naturale’. Perorare un modello sociale significa, da una parte, evitare la personal tragedy theory of disability, dall’altra svalutare l’elemento ‘naturale’ (la menomazione) in favore di quello sociale (la disabilità). Ma, così facendo, il ‘sociale’ rischia di essere inteso non come l’idea filosofica inclusiva, perché anzi è preso come termine opposto – e assiologicamente superiore – a individuale e naturale. In una prospettiva deweyana, invece, il ‘sociale’ include l’individuale e il naturale: «È superficiale la concezione di coloro i quali mancano di vedere che nel sociale il fisico è ricompreso in un sistema più ampio e complesso e delicato di interazioni, sicché assume nuove proprietà attivando potenzialità prima limitate per l’assenza di piena interazione»23. 21

M. Oliver, The Politics of Disablement, cit.; Id., Understanding Disability: From Theory to Practice, cit. 22 T. Shakespeare, Disability Rights and Wrongs, cit., pp. 50-51. 23 J. Dewey, “The Inclusive Philosophic Idea”, cit., p. 47-48.

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Siffatta posizione, da un lato, rende giustizia all’intuizione di Oliver che l’impairment, una volta entrato nella rete della socialità, acquista nuovi significati e proprietà; dall’altro, però, accoglie l’ammonimento di Shakespeare a non rimpiazzare il naturale col sociale. Infatti, il sociale deve essere inteso come quel livello di ‘associazione’ in cui il fenomeno manifesta più potenzialità, nella misura in cui è considerato nella più vasta rete di rapporti in cui è collocato. Non si tratta, quindi, di ipostatizzare la società e ‘giocarla’ contro la natura (o la tragedia individuale), ma scoprire il ‘sociale’ come fenomeno emergente in cui anche il naturale e l’individuale acquistano nuove dimensioni, spesso approfondendo le peculiarità, fino a quel punto prese nel loro isolamento. Scrive Dewey: «Che cosa sarebbero i fenomeni sociali senza il fattore fisico della terra, incluse tutte le risorse (e ostacoli) naturali e le forme di energia che la parola ‘terra’ significa? Che cosa sarebbero i fenomeni sociali senza gli strumenti e le macchine per mezzo delle quali si utilizzano le energie naturali? O che cosa sarebbero senza i dispositivi e apparati fisici, dai vestiti alle case alle ferrovie, ai templi e alle stampe?»24.

Nel presente contesto si potrebbe così ritradurre: che cosa sarebbe la disabilità senza le dimensioni fisico-biologiche? E – prendendo la questione dall’altro capo, per dir così, ossia dal lato dell’intervento che mobilita ausili compensativi – senza le tecnologie assistive? Un’idea deweyana – cioè inclusiva – di ‘sociale’ non è la negazione del naturale, ma la sua ri-comprensione (nei molteplici sensi della parola) in più estesi e articolati insiemi di relazioni. Quando si parla di approccio bio-psico-sociale, il pericolo è sempre di perseverare in una logica interazionista, nel senso su esplicitato, e di considerare i tre aspetti (biologico, psicologico e sociale) in maniera non unitaria e non complessa. Quasi che bastasse prendere in esame tanto le dimensioni biologiche, tanto quelle psicologiche, quanto quelle sociali per scongiurare il riduzionismo semplificatorio. Ma, se si procede per giustapposizione, pur temperata da un’attenzione alle mutue interazioni fra le diverse facce del fenomeno, non si è usciti – in principio – dalla logica riduzionista. Il biologico-naturale, per fare solo un esempio, che

24

Ivi, p. 47.

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‘accede’ al ‘sociale’ non è il biologico-naturale nella sua insulare autonomia, ma non è nemmeno ridotto al sociale, cessando di ‘fungere’ come biologico. D’altro canto, il ‘sociale’ non è da intendersi tanto come mera espressione delle influenze della società, pena il rischio di riduzionismi sociologizzanti non meno imprudenti di quelli imputati al modello medico, quanto come quel tipo di associazione e transazioni in cui un fenomeno manifesta il massimo di potenzialità e dimensioni. La logica transazionista-inclusiva di matrice deweyana da un lato comporta, quindi, la consapevolezza che il riduzionismo è un repentaglio sempre incombente e, dall’altro, costituisce un’idea regolativa per irrobustire alcune conquiste del modello sociale ed evitarne alcune chine semplificatorie. Rappresenta, inoltre, la cornice di senso per tutti gli approcci che amano definirsi bio-psico-sociali e che non sempre paiono consapevoli di come leggere adeguatamente il nesso fra i vari aspetti. In questa ottica ‘deweyana’ acquista pieno significato anche il tema della interdisciplinarità delle azioni di inclusione. Non si tratta tanto della circostanza abbastanza ovvia – ma non per questo meno importante – che le questioni dell’inclusione invocano spesso interventi di professionisti di differenti settori. Il punto è come si abita l’interdisciplinarità, in modo tale che essa divenga davvero un abito, un modo di strutturare il proprio agire. Che si lavori in team è certamente fondamentale, ma solo nella misura in cui è la fase ‘interpsichica’ di ciò che deve diventare ‘intrapsichico’, per adoperare per analogiam categorie vygostkiane. In altre parole, se più professionisti cooperano alla stessa azione, ma rimanendo incapsulati nei propri lessici disciplinari, non si ha a che fare con l’interdisciplinarità bensì con una (magari estesa) multidisciplinarità. Il punto saliente è che, attraverso la collaborazione con colleghi di altre aree, ciascun professionista sviluppi una rivisitazione dei vocabolari teorico-metodologici della propria disciplina, aprendola al dialogo con le altre. Si tratta di scompaginare il monologismo disciplinare, di ‘drammatizzarlo’, ossia di dischiuderlo alla plurivocità e alla polifonia. Si tratta di un lavoro non tanto di traduzione quanto di interpretazione. In un suo importante saggio25 25 T. Kuhn, “Commensurabilità, comparabilità, comunicabilità”, in Dogma contro critica. Mondi possibili nella storia della scienza, Milano: Raffaello Cortina editore, 2000, specialmente pp. 37-42.

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Thomas Kuhn distingue la prima dalla seconda in quanto nella prima due lingue sono già conosciute e il traduttore è colui il quale trasferisce una parola o una stringa di parole da una lingua all’altra. Si immagini, però, di non conoscere la seconda lingua ma solo la propria: si dovrà allora passare attraverso un complesso processo di acquisizione della nuova lingua, abitando una certa forma di vita, partecipando a certe pratiche a partire dalla propria etc. Nel caso che si sta qui indagando i professionisti vocati alla interdisciplinarità non dovrebbero essere dei traduttori, ma degli interpreti. L’elemento più paradossale è, tuttavia, che – in ultima istanza e per essere fedeli alla sfida dell’interdisciplinarità e non commutarla in un’operazione di facciata – dovrebbero essere degli interpreti della propria disciplina, ossia la lingua da imparare non è quella degli altri (che anzi dovrebbe essere intesa come quella di partenza), ma essi devono ri-apprendere la propria disciplina nell’estraniamento provocato dall’appello dell’interdisciplinarità. La sfida dello psicologo, del pedagogista o del bio-ingegnere è meno di apportare le proprie conoscenze a un lavoro interdisciplinare di quanto non sia di ri-visitare le proprie conoscenze alla luce di quelle dei propri colleghi. È come se ciascuno nell’agire interdisciplinare desse per acquisita, ‘saputa’, la lingua professionale dell’altro e si impegnasse, invece, a ri-conoscere la propria, ossia a ‘rifarne la conoscenza’ attraverso l’interpretazione dischiusa dall’incontro interdisciplinare. Tale dinamica di dislocamento dei saperi (per cui ciascuno dà per ‘conosciuta’ la lingua dell’altro, grazie all’altro e alla sua expertise, e ri-apprende la propria e la ri-visita in nuove chiavi), proiettata su scala di gruppo di lavoro, significa che vi è una lingua davvero comune sempre in the making e che, al contempo, ciò che accade è il ri-conoscimento delle lingue professionali particolari e il loro costante arricchimento. Il fatto che questa dinamica interdisciplinare si dispieghi e si realizzi è intrinsecamente legato a quanto sopra argomentato circa il significato di ‘sociale’ come l’idea filosofica inclusiva. Infatti, lo si è già visto, per Dewey siffatta nozione di sociale è esplicitamente adoperata come critica epistemologica del riduzionismo e dell’enfasi empiricistica sull’analisi, ossia sulla scomposizione dei fenomeni complessi in elementi semplici che vengono ontologizzati e presi come componenti ultimi del reale e come fondamento della sua descrizione/comprensione. Ora, tale approccio analitico, nella misura in cui si irrigidisce

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in riduzionismo, è il côté epistemico della fallacia dello specialismo, ossia della segregazione dei saperi ‘scientifici’ dal più ampio contesto sociale – nella accezione ‘inclusiva’ che si è imparato a conoscere – in cui solo hanno senso (=significato e direzione). In una pagina memorabile, Dewey (d)enuncia la collusione profonda fra ethos specialistico e de-significazione umana della scienza e la connette alla frattura fra mente e corpo, fra uomo e mondo: nei termini che si sono qui adoperati, fra il biologico, lo psicologico e il sociale. Sposare l’approccio bio-psico-sociale, acquisire l’abito interdisciplinare e fare della expertise non un baluardo della discriminazione ma un volano di emancipazione, sono quindi facce dello stesso movimento. Benchè riferite alle scienze fisiche le conclusioni deweyane meritano di essere citate per esteso: «L’isolamento dei soggetti umani l’uno dall’altro è connesso con il loro distacco dalla conoscenza fisica. La mente ancora traccia una separazione netta fra il mondo in cui l’uomo vive e la vita dell’uomo in quel mondo e per suo mezzo, una cesura che si riflette nella separazione dell’uomo stesso in anima e corpo, che – come si suppone ora – potrebbero essere conosciuti e trattati separatamente. […] Quando diciamo che un tema di scienza è tecnicamente specializzato, o altamente ‘astratto’, ciò che intendiamo praticamente è che esso non è concepito nei termini della sua influenza sulla vita umana. Tutta la conoscenza meramente fisica è tecnica, espressa in un vocabolario tecnico comunicabile solo a pochi. Persino la conoscenza fisica che riguarda la condotta umana, che modifica ciò che facciamo e patiamo, è tecnica e remota nella misura in cui la sua rilevanza non è compresa o adoperata. […] Si penserebbe, allora, che uno scopo fondamentale e sempre operante dovrebbe essere di tradurre la conoscenza del tema delle condizioni fisiche in termini che siano generalmente compresi, in segni che denotano le conseguenze umane di servizi o danni arrecati»26.

L’impegno cui Dewey appella è il compito di elevare il sapere esperto al ‘sociale’ come l’idea filosofica inclusiva. Ciò cui Dewey, per come si suggerisce di leggerlo, richiama non è tanto la banale, ancorché auspicabile, responsabilità civile degli esperti, bensì il fatto che il sapere esperto ha pieno dispiegamento e significato come sape26 J. Dewey, The Public and Its Problems, in The Later Works, 1925-1953, vol. 2 (1925-1927), edited by J.A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, pp. 342-343.

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re, solo se non è autosequestrato nella sua ‘astrattezza’ ed è inserito, invece, nella più vasta rete di associazioni, in un movimento che è quello del ‘sociale’. Il sapere è astratto non tanto perché usa formule e codici esoterici, ma in quanto, nell’adoperarli, recide i legami con la vasta tessitura di rapporti che ne costituisce la significatività. Ma per attingere siffatta significatività si tratta di ‘in-disciplinarsi’ in quanto esperti, ossia di attivare quella dinamica di dis-apprendimento della propria disciplina nella sua chiusura monologica, che è il presupposto della sua apertura dialogica e della rivisitazione autenticamente interdisciplinare (che siffato in-disciplinarsi in quanto dis-apprendimento della disciplina sia al contempo un ‘indisciplinarsi’ in quanto immersione profonda nella disciplina stessa, è circostanza che è appena il caso di ribadire). Ovviamente non si sta qui perorando una sorta di vae expertis, ovvero una damnatio dei saperi specialistici, che mantengono un loro alto valore, ma che lo possono manifestare pienamente solo se – parafrasando un altro luogo classico di Dewey – non sono metodi per affrontare i problemi arcani degli esperti, ma metodi, coltivati dagli esperti, per affrontare i problemi degli uomini27. La dinamica, sopra descritta, dell’interpretazione interdisciplinare nel dis- e ri-apprendimento della propria lingua professionale, in cui emerge una lingua comune sempre in the making fra i colleghi con diversi background, è il modo in cui il sapere giunge al ‘sociale’, in cui l’inclusione dei saperi – nel consorzio democratico – diviene sapere dell’inclusione. Che l’esigenza – prioritaria per la salute della democrazia come forma di vita – di questo accedere del sapere specialistico all’inclusione, attraverso il movimento dell’interdisciplinarità, si realizzi, anzitutto, nei professionisti nel campo della disabilità (e della diversità) non è una bizzaria o una curiosità: per il nesso di esclusione/ riduzionismo testé discusso, è nelle zone liminari della società, sul confine sempre a rischio di chiudersi (e, così, ispessirsi in confino per chi si trova ‘oltre’), che si gioca la partita di un ‘sociale’-sempre-in-divenire, di un ‘sociale’ che vive dell’estensione delle transazioni attraverso la 27

Il riferimento è alla celebre espressione riferita alla filosofia in J. Dewey “The Need for a Recovery of Philosophy”, in The Middle Works, 1899-1924, vol. 10 (1916-1917) edited by J.A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1980.

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mobilitazione delle conoscenze, sottratte alla loro aseità disciplinare (ma non per questo all’esigenza di rigore scientifico). La conclamata opposizione fra modello medico e modello sociale va quindi riletta, onde evitare manicheismi faciloni e semplificazioni fatali, come esortazione a ritessere, nell’orizzonte del ‘sociale’ come idea inclusiva, ciò che altrimenti rimarrebbe separato e a privilegiare la faticosa costruzione del sapere interdisciplinare al rassicurante incedere della razionalità tecnica. Non si tratta di cancellare la dimensione ‘medica’ dei fenomeni, né di smantellare l’importanza dei nessi causali, ma solo di ri-comprenderli nella dinamica inclusiva del ‘sociale’, come lo si è qui inteso. A questo movimento, che salda interdisciplinarità e inclusione, si può dare nome di ‘chiasma’. Senza poter qui esplorare il retrotono merleau-pontiano della dizione, ciò che interessa sottolineare è l’intreccio, l’allacciamento strutturale di inclusione e interdisciplinarità: se l’inclusione, per come si è qui proposto di intenderla, è la dinamica del ‘sociale’, ossia ciò in virtù del quale enti/soggetti/realtà entrano in più ampie reti di associazione e così si offrono a una più compiuta comprensione, perché più ricco è il potenziale che manifestano all’osservazione, allora ogni approccio solamente disciplinare rivela la sua inadeguatezza nella misura in cui ri-settorializza ciò che il movimento dell’inclusione de-compartimenta. D’altra parte, il procedere interdisciplinare è in se stesso ‘inclusivo’, nella misura in cui invita a ‘dialogizzare’ le discipline, a (ri)scoprirne cioè la possibile intrinseca dialogicità e apertura, in modo da permettere loro di accedere a forme di cooperazione che non si riducano a semplici associazioni estrinseche. Parlare di un chiasma fra inclusione e interdisciplinarità significa, in ultima istanza, enfatizzare come l’inclusione non abbia solo una dimensione etico-politica ma anche epistemologica e l’interdisciplinarità non sia solo una mossa epistemologica ma anche l’impegno etico-politico di approntare gli strumenti per non ridurre le differenze ma comprenderle nella loro sfaccettata poliedricità. Sul piano di categorie massimamente generali si ritrova così quell’intreccio di sapere e committment etico che, all’inizio, si era identificato come lo stemma dei professionisti dell’inclusione. A conferma che questi, nella misura in cui sono ‘fedeli’ al compito dell’inclusione, sono figura dell’esperto in una democrazia compiuta (sempre) a-venire.

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Shakespeare T., Disability Rights and Wrongs, London and New York: Routledge, 2006. Striano M., La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, Napoli: Liguori, 2001. _____ (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, Milano: FrancoAngeli, 2010. Striano, M., Oliverio S., “The Logic of Judgements of Practice and Critical Thinking”, paper presentato alla SAAP (Society for the Advancement of American Philosophy) 2012 Conference, 15-17 marzo 2012.

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Studi sull’educazione Collana diretta da P. Orefice e E. Frauenfelder (*)

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P. Orefice, V. Sarracino (a cura di), Comunità locali ed educazione permanente F. Cambi, La «scuola di Firenze» da Codignola a Laporta (1950-1975) G. M. Bertin, Progresso sociale o trasformazione esistenziale. Alternativa pedagogica G. Viccaro, Educazione e decentramento A. Piromallo Gambardella, Pedagogia tra ragione e immaginazione. Riflessioni sul pensiero di Gaston Bachelard G. M. Bertin, R. Laporta, P. Pontecorvo, Università in transizione V. Atripaldi (a cura di), Problemi e prospettive istituzionali dell’educazione permanente M. Muzi, Geografia: una «nuova» scienza sociale E. Frauenfelder, La prospettiva educativa tra biologia e cultura P. Orefice (a cura di), Educazione e sviluppo locale e regionale. Esperienze europee G. Cives, L’educazione in Italia. Figure e problemi F. Frabboni, E. Lodini, M. Manini, La scuola di base a tempo lungo G. Genovesi, T. Tomasi Ventura, L’educazione nel paese che non c’è V. Sarracino, La scuola media. I soggetti e le didattiche L. Trisciuzzi, M. Pisent Cargnello, M.T. Bassa Poropat, G.P. Cappellari, Storia sociale della psicologia D. Ragazzini, Dall’educazione democratica alla riforma della scuola E. Colicchi Lapresa, Prospettive metodologiche di una teoria dell’educazione L. Borghi, Presente e futuro nell’educazione del nostro tempo P. Orefice, V. Sarracino (a cura di), Ente locale e formazione T. Tomasi, L. Bellatalla, L’Università italiana nell’età liberale (18611923) G. Viccaro, Scuola e società post-industriale O. De Sanctis, L’educazione e il moderno L. Trisciuzzi, Il mito dell’infanzia. Dall’immaginario collettivo all’immagine scientifica P. de Mennato, Pedagogia e psicologia. Modelli di relazione A. Gallitto, Tecnica, cultura, formazione umana

(*) Fondata da R. Laporta e P. Orefice.

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G. Viccaro, G. Piras (a cura di), Educazione delle comunità locali in Europa V. Sarracino (a cura di), Scuola elementare e didattica S. Beccastrini, M. P. Nannicini, G. Piras, Pedagogia della salute B. Schettini, Teoria e metodologia dell’educazione sanitaria G. Flores d’Arcais, Dal «logos» al «dialogo». Sessant’anni di pedagogia in Italia V. Sarracino, Scuola e educazione: linee di sviluppo storico C. Fratini, Bruno Bettelheim. Tra psicoanalisi e pedagogia V. Telmon (a cura di), Saperi, metodi, istituzioni nel sistema formativo integrato E. Frauenfelder, Pedagogia e Biologia. Una possibile «alleanza» D. Izzo, L’educazione come politica sociale A. Cunti, La formazione in età adulta. Linee evolutive e prospettive di sviluppo P. Federighi, Strategie per la gestione dei processi educativi nel contesto europeo P. Cambi, P. Orefice (a cura di), Fondamenti teorici del processo formativo. Contributi per un’interpretazione P. Orefice, B. Gavagna (a cura di), I ritmi di vita di Piazza S. Croce. Un’esperienza di didattica dell’ambiente V. Sarracino (a cura di), La formazione. Teorie, metodi, esperienze F. Cambi, P. Orefice (a cura di), Il processo formativo tra storia e prassi. Materiali d’indagine V. Sarracino, E. Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative (1830-1999). La cultura della formazione F. Santoianni, Sistemi biodinamici e scelte formative P. de Mennato, La ricerca «partigiana». Teoria di ricerca educativa P. de Mennato, Fonti di una pedagogia della complessità E. Flamini, A. R. Tamponi, Lingue straniere e multimedialità. Nuovi scenari educativi A. Mariani, Foucault: per una genealogia dell’educazione. Modello teorico e dispositivi di governo M. Striano, I tempi e i “luoghi” dell’apprendere. Processi di apprendimento e contesti di formazione V. Sarracino, M. R. Strollo (a cura di), Ripensare la formazione A. Cunti, Pedagogia e didattica della formazione V. d’Agnese, Esperienza e costruzione di senso. Riflessioni su un decennio di scritti bruneriani S. Guetta, Il successo formativo nella prospettiva di Reuven Feuerstein M. A. Galanti, Affetti ed empatia nella relazione educativa E. Frauenfelder e F. Santoianni (a cura di), Le scienze bioeducative. Prospettive di ricerca C. D’Alessandro, Problemi pedagogici nelle teorizzazioni e nelle pratiche educative dell’età romantica

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M. R. Strollo, Prospettiva sistemica e modelli di formazione B. Benedetti, La relazione educativa nel gruppo. Verso una prospettiva sistemica C. Sabatano, Dal corpo alla mente. Prospettive teoriche e metodologie formative F. Cambi, P. Orefice (a cura di), Educazione, libertà, democrazia. Il pensiero pedagogico di Lamberto Borghi A. Cunti, P. Orefice (a cura di), Multieda. Dimensioni dell’educare in età adulta: prospettive di ricerca e d’intervento P. Orefice, La Ricerca Azione Partecipativa. Teoria e pratiche di creazione locale dei saperi F. Sabatano, Per una pedagogia delle competenze. La costruzione di un modello di formazione in contesti aziendali P. Orefice, La Ricerca Azione Partecipativa 2 F. Santoianni, La fenice pedagogica. Linee di ricerca epistemologica F. Sabatano (a cura di), La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo. Modelli pedagogici e strategie di intervento M. R. Strollo, Il laboratorio di epistemologia e di pratiche dell’educazione. Un approccio neurofenomenologico alla formazione pedagogica degli educatori M. D’Ambrosio, Discorsi sul divenire dentro i luoghi del contemporaneo. Suggestioni pedagogiche M. L. Iavarone, Alta formazione per lo sviluppo educativo locale F. Cambi, M. Striano (a cura di), John Dewey in Italia. La ricezione/ ripresa pedagogica F. Bacchetti (a cura di), Attraversare boschi narrativi. Tra didattica e formazione P. Perillo, La trabeazione pedagogica. Riflessioni sulla formazione per una formazione alla riflessività P. Orefice, R. Sampson Granera, G. Del Gobbo (a cura di), Potenziale umano e patrimonio territoriale per uno sviluppo sostenibile tra saperi locali e saperi globali G. Genovesi (a cura di), Paideia rinascimentale. Educazione e “buone maniere” nel XVI secolo V. D’Agnese, Responsabilità e incertezza nel processo formativo C. Melacarne, Apprendimento e formazione nella vita quotidiana. Sull’identità del professionista dell’educazione M. Sibilio (a cura di), Il corpo e il movimento nella ricerca didattica. Indirizzi scientifico-disciplinari e chiavi teorico-argomentative M. Sibilio (a cura di), I significati del movimento nella ricerca didattica. Approcci di ricerca e protocolli sperimentali a confronto Stefano Oliverio, Prospettive sulla “buona educazione” per un moderno a-venire P. Valerio, M. Striano, S. Oliverio (a cura di), Nessuno escluso. Formazione, inclusione sociale e cittadinanza attiva

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