Napoli. Viaggio nella città reale [2 ed.] 8858125932, 9788858125939

Statistiche nazionali, pagelle sulla vivibilità, indicatori del tasso di criminalità e inquinamento si intrecciano al ra

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Napoli. Viaggio nella città reale [2 ed.]
 8858125932, 9788858125939

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Saggi Tascabili Laterza 419

Paolo Frascani

NAPOLI Viaggio nella città reale

Editori Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2017 1

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Edizione 4 5

Anno 2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2593-9

a Paolo e Costanza

PREMESSA

Oggi scrivere su Napoli come testimone «informato dei fatti» di una difficile condizione urbana sembra, quasi, commettere un peccato di presunzione ed espone, anche, a critiche giustificate. La città non ha mai sopportato di essere studiata, né interpretata, nella sua complessiva e inaccessibile «globalità», e mal lo sopporta oggi, nel tempo della «post verità» che vede la ricerca dei fatti sovrastata da pulsioni umorali e convincimenti personali. Il richiamo alla realtà della sua condizione urbana non deve però trarre in inganno: non intendo scoprire o svelare alcunché; piuttosto, sono spinto dal desiderio di riflettere sul presente e sul futuro della città, soffermandomi sul suo passato. È un approccio fondato sulla mia specifica connotazione «professionale», ma deriva anche dall’esigenza di restituire alla Napoli dei nostri giorni un retroterra di significati più complessi e radicati di quelli che può offrire il racconto delle sue vicende quotidiane. Lo sguardo è quello di chi si confronta con le caotiche e, di volta in volta, smaglianti, mitiche o drammatiche rappresentazioni di questa città, testimone dell’ampliarsi della sua distanza dal resto del Paese. Una separazione sottovalutata dalla voluta ignoranza ­vii

della politica o, all’opposto, mediaticamente enfatizzata come punto di non ritorno della storia cittadina, che sembra contraddetta dagli esiti delle ultime elezioni amministrative. Elezioni che attestano il crollo di fiducia verso istituzioni di ogni ordine e grado, tale da far emergere l’immagine di un Paese «compatto» nelle sue tare storiche e costretto a guardare, con maggiore indulgenza, alle croniche vicissitudini dell’ex capitale del Mezzogiorno. La ventata di rinnovamento che ha sancito il trionfo grillino accomuna romani, torinesi e napoletani nell’esasperata ricerca di nuovi orizzonti politici e mette a nudo la fragilità delle classi dirigenti. Ma con alcuni distinguo. C’è il rischio di fraintendere l’effettiva «frattura» tra la città e le altre realtà metropolitane. La Napoli di Luigi de Magistris si propone come protagonista della «rivoluzione governante» e dell’antagonismo nazionale e tende a raccogliere le membra disperse di una Lega Sud in salsa arancione1 ma, a differenza di Roma e Torino, non è «una città normale» perché – lo ricorda Roberto Saviano – «i napoletani vivono sotto i proiettili e abbassano la testa, quindi non sono paragonabili agli abitanti di nessun’altra città italiana»2. Essi, però, non sembrano farci caso. La riconferma dell’ex Pm a Palazzo San Giacomo attesta, con l’orgoglio di una ritrovata «identità», la pericolosa propensione a fare da soli, rinnegando il concetto «della città come problema del Paese». Una prospettiva che sa parlare al cuore dei napoletani, ma ne distoglie l’attenzione divagando, sia in termini politici che culturali.   Cfr. A. Cazzullo, Addavenì la Lega Sud, «Sette», 1° luglio 2016.   R. Saviano, Napoli, le pistole dei ragazzi invisibili, «la Repubblica», 6 febbraio 2016. 1 2

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Le speranze e le aspettative che il sindaco arancione ha saputo alimentare non vanno disconosciute, ma confrontate con le concrete condizioni della città, sia positive che negative. Questo libro si propone di agevolarne la comprensione attraverso studi e testimonianze sulla realtà odierna, calandosi nella sua storia recente, senza farsene condizionare. Si confronta con la lettura storico-politica del governo della città, da Bassolino a de Magistris, per dimostrarne l’inadeguatezza di fronte alla complessità delle trasformazioni che l’hanno attraversata nel corso dell’ultimo ventennio. Le mancate risposte della politica sono dovute a colpe e omissioni, individuali e collettive, inquadrabili nel più ampio contesto delle vicende nazionali e connesse alla sparizione di passati equilibri sociali, oltre che economici, su cui era cresciuta la Napoli post-bellica. Sono causate dal cortocircuito tra poteri centrali e aspirazioni locali, durante la transizione alla seconda Repubblica, ma anche dal fallimento del cosiddetto «rinascimento napoletano» e dall’incapacità di sopravvivere al dissolvimento della Napoli industriale: ultimo, decisivo punto di svolta della sua lunga vicenda storica. Studiata da economisti e sociologi e raccontata nelle pagine di Ermanno Rea, la crisi della fabbrica fordista, sotto il Vesuvio, non è stata compresa e metabolizzata dalla cultura delle classi intellettuali che, sedotte dal mito di «un passato che non passa», non si sono soffermate sugli effetti devastanti della mancata modernizzazione economica. Napoli entra così, di diritto, nella rappresentazione di un Mezzogiorno segnato dalla propensione allo «sviluppo senza autonomia», ed è scarsamente analizzata sul piano dell’evoluzione sociale ed economica. Non se ne colgono i tratti essenziali: il cangiante ruolo del microsistema familiare, il mutare di ­ix

luoghi e modelli di consumo, la dialettica tra generazioni, gli effetti di una nuova mobilità metropolitana. Lo stereotipo della città immobile e «sfaticata» va sfatato, oggi come per il passato, senza scomodare le altrettanto stereotipate generalizzazioni sull’arte di arrangiarsi dei napoletani. Esiste, pur se ai margini della scena cittadina, una città che produce e si rinnova: in mezzo al guado della transizione post-fordista e in bilico tra l’avvento di una new wave tecnologica e la valorizzazione degli antichi mestieri artigianali. Una città, rileva Mariano D’Antonio, che induce a «sperare che si riescano a neutralizzare in parte i guasti del disordine e dell’illegalità assai diffusi nel corpo sociale»3. I suoi diversi volti vanno ricomposti in un collage aderente alle ombre e alle luci dell’attuale fisionomia urbana, riconducendo lo scorrere delle vicende cittadine nell’alveo delle trasformazioni economiche e culturali del tempo. Anche lo «stato di salute» della metropoli mediterranea va commisurato alla capacità della classe dirigente di percepirle e viverle, mettendosi al passo con ciò che si «muove», fuori dal Mezzogiorno e dal Paese. Ciò significa smontare l’immagine della sua immobile e autoreferenziale centralità per coglierne l’evoluzione sulla base di nuovi parametri economici e culturali. Sotto quest’ultimo profilo la Napoli della musica, della letteratura, del cinema e del teatro si è conquistata un posto di primo piano sul palcoscenico nazionale e internazionale. Registi, attori e scrittori raccolgono e restituiscono gli stimoli e le suggestioni che la città, inquieta e disastrata, alimenta. Parlano di lei e per lei, mettendo a nudo i tratti di una metropoli violenta, in3   M. D’Antonio (a cura di), Napoli oltre la crisi. Un futuro possibile, Guida, Napoli 2016, p. 13.

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capace di resistere alle aggressioni inferte all’ambiente e alla sua stessa identità civile. Sono voci autentiche e accorate che giungono da «fuori», dall’esterno, in un «altrove» che è già separazione dal luogo di origine; un distacco che le rende intense ed efficaci anche se frammentate e parziali. Mitigano, ma non compensano, la relativa «produttività» delle locali istituzioni culturali. In un incontro tra gli operatori del cinema, del teatro, dell’editoria e del multimediale si è affermata l’immagine di «una Napoli passiva, che non muove un dito neanche quando la Rai decide di tagliare la serie La Squadra girata negli studi di Piscinola e rinuncia ai 180 milioni di investimenti della televisione di Stato sul territorio, in 14 anni». La città, essi dicono, «dà poco spazio al mondo degli operatori»4. Il tema è trattato anche nella denuncia di chi si proietta sui mercati nazionali e internazionali o concorre alla valorizzazione del patrimonio artistico ambientale. La partita del rilancio economico si gioca su più tavoli. L’economia di Napoli non si esaurisce nella città manifatturiera. Negli ultimi tempi Partenope appare come la Fenice che rinasce dalle proprie ceneri, in questo caso rappresentate dalle sue ricchezze ambientali e artistiche. Un’idea che non può prescindere dal diretto coinvolgimento del settore privato nella gestione del patrimonio storico-artistico. Per recuperare e valorizzare le chiese, i palazzi, i monumenti del centro storico, spesso abbandonati all’incuria, bisogna far sì che il manufatto d’arte diventi strumento di sviluppo contro il degrado ambientale, fungendo da catalizzatore di risorse e volano dell’impresa «culturale». 4   T. Cozzi, L’industria culturale, «la Repubblica. Napoli», 29 ottobre 2015.

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Ma ci sono sfide più difficili da affrontare. La città di cui si parla abitualmente – il triangolo dei quartieri che va da Bagnoli all’ex area industriale, compresa tra le colline del Vomero e dei Camaldoli – non coincide con l’attuale area metropolitana (circa tre milioni di abitanti, cento comuni). Il dato inserisce «Partenope» in un nuovo scenario istituzionale, da ridisegnare urbanisticamente, socialmente ed economicamente. La «grande Napoli» rimane ancora fuori dall’immaginario collettivo dei suoi abitanti, ma la sua classe politica non sembra rendersene conto. Il tema è stato eluso dal dibattito elettorale. Si è parlato di candidature ma, poco o niente, di programmi e, quando è capitato, l’accento è caduto sul «primum mobile» di una governance rinnovata nelle competenze e nei valori, tetragona di fronte all’avanzata della Napoli Gomorra, capace di sistemare il traffico e far ripartire Bagnoli, meno di coinvolgere le forze e le energie necessarie per la soluzione di questi e di altri problemi. Una scelta prioritaria che presuppone la propensione o la curiosità ad avventurarsi in un viaggio nella città reale, cominciando a parlarne e discuterne per poi, magari, tentare di rinnovarla.

NAPOLI Viaggio nella città reale

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STORIE DI OGGI E DI IERI

1. La prova fallita Napoli si è lasciata alle spalle la campagna elettorale per il rinnovo del governo cittadino. Al referendum del 4 dicembre la città ha bocciato con convinzione la proposta dei fautori del sì. Una scelta in linea con l’esito nazionale, ma anche il segnale dello specifico disagio dei territori a sud del Garigliano. Anche per i napoletani è scattato, come per molti italiani, il riflesso condizionato della spinta «antisistema», maturata nel corso della lunga recessione. Questa scelta espone ai rischi e alle incertezze del dopo referendum e non aiuta a diradare le nebbie che, dal voto di giugno in poi, impediscono una riflessione sul successo di Luigi de Magistris e sullo stato della città. Nell’ultimo anno il sindaco si vanta dell’insperato ritorno di frotte di turisti, attratti dal miraggio di Partenope. Da tempo nel circuito delle crociere mediterranee o premiata da un turismo d’élite sulle tracce della «città d’arte» e spettacolo, essa vede crescere, in ordine sparso, strutture alberghiere e servizi per il turismo. Un risultato positivo per la stagione politica che si è conclusa con la riconferma di de Magistris a sindaco di Napoli. Una vittoria che fa riflettere. L’ex giudice ha colmato il vuoto prodotto dalla ­3

profonda crisi del Partito democratico e lenito, così, le ferite di una città impoverita dalla crisi economica e oscurata dall’ombra di Napoli Gomorra. È stato sospinto dal vento della rinnovata fiducia nella capacità di difendere l’autonomia municipale con la retorica che parla, politicamente, «d’altro». In queste vesti, e in quelle di paladino dei diritti umani e delle cause «terzomondiste», si è spinto fin sotto Palazzo Chigi per unirsi al coro dei manifestanti per «Bagnoli libera». Poi, però, pragmaticamente, il 29 settembre ha fatto marcia indietro e ha aperto la trattativa col governo per sbloccare i 308 milioni del Patto per Napoli e risanare e rilanciare l’area di Bagnoli. Una scelta opportuna che incontra anche i consensi di quanti hanno sollecitato un cambio di guardia a Palazzo San Giacomo. Cinquecentomila napoletani, al ballottaggio, non sono andati a votare, denunciando l’incapacità di stoppare il declino che la prima vittoria arancione aveva promesso di contrastare. Il risultato del giugno 2016 ripropone un copione già rappresentato. Nel 2011 «il sindaco» vince sull’onda di un vasto spiegamento di forze sociali: i cittadini, delusi dal modo in cui il Pd locale ha gestito la chiusura del ciclo politico avviato, nel 1993, dalla compagine di Antonio Bassolino – dissoltasi con l’uscita di scena del sindaco Rosa Russo Iervolino – speravano in un profondo mutamento del modo di governare. La crisi economica e le politiche di austerity adottate per contrastarla sono in agguato e il compito dell’amministrazione municipale è arduo. De Magistris ritiene di averlo assolto. Tracciandone il bilancio, durante la campagna elettorale, rivendica il merito di aver evitato il default delle finanze comunali e lasciato i conti in equilibrio, sottratto le periferie alle discariche, migliorato la raccolta dei rifiuti e trasformato la mobilità urbana; per non ­4

parlare della gestione «dell’acqua pubblica» e dell’attuazione della democrazia partecipativa1. Si può aggiungere l’annuncio, nel vivo della campagna elettorale, dello sblocco, dopo due anni, del Piano urbanistico attuativo (Pua) per la realizzazione di 23 piani urbanistici. Si tratta di investimenti, in larga parte privati, destinati a edilizia, infrastrutture, servizi, per un totale di 400 milioni2. Un nodo strategico su cui aleggiano molte ombre. Il sindaco ha evitato il commissariamento, mantenendo il bilancio nei limiti di guardia, ma ha fallito nel «governo» di una critica condizione urbana. Se si escludono gli sporadici interventi per testimoniare la presenza municipale nelle periferie (la decisione, approvata dal governo, di abbattere tre delle Vele di Scampia e il trasferimento, appena iniziato, dei loro abitanti in un nuovo insediamento), le questioni di fondo della città, in termini urbanistici, economici, e sociali, rimangono irrisolte. Bagnoli, il centro storico, l’ex zona industriale, il porto commissariato, costituiscono i dossier che la squadra «arancione» non ha nemmeno tentato di sfogliare, abbandonando il governo della città al «grado zero» dell’arretramento dell’amministrazione nella sua vita quotidiana3. L’immagine gioiosa della Napoli turistica non può nascondere, inoltre, lo stato di abbandono, che inasprisce la povertà e alimenta forme di potenziale conflitto. Dall’agosto del 2015 in poi, l’esplodere della violenza tra le bande di giovanissimi criminali, alla Sanità e a Forcella, annuncia che il limite è stato raggiunto e su1   L. Roano, De Magistris: Napoli è rinata, «Il Mattino», 26 marzo 2013. 2   M. Paoletti, Urbanistica, 23 piani per cambiare la città, «Roma», 21 aprile 2016. 3   Cfr. A. De Gennaro, Il grado zero del governo cittadino, «la Repubblica. Napoli», 11 giugno 2016.

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perato. Ma la città non sembra accorgersene e si rimette «in movimento», in senso letterale, sui sentieri tracciati dall’amministrazione comunale. Il quadro della mobilità urbana è stato modificato da una nuova articolazione del traffico su strada e su rotaia: zone a circolazione limitata, completamento della prima linea della metropolitana, accompagnata da piste ciclabili e biciclette per scoraggiare l’uso dei veicoli a benzina. Interventi apprezzabili ma poco risolutivi. La prima linea della metropolitana è stata completata senza alcuna previsione delle ricadute sulla vita dei napoletani. Gestita senza risorse e con poche idee, la riorganizzazione della viabilità prospiciente il waterfront si traduce in un maquillage che poco nasconde delle mai sanate divaricazioni sociali e culturali del rapporto dei napoletani con il mare. Una separazione vissuta come sacrificio, necessario quanto doloroso, richiesto dal «Risanamento» d’inizio Novecento. Da allora, le «marine» di Santa Lucia e Mergellina, colmate o più volte rimaneggiate, sono state sottratte al lavoro e allo svago degli abitanti dei Quartieri Spagnoli e di Pizzofalcone. Si trattò di una scelta urbanisticamente «progressista», fondata su un «ordine» sociale rigido e strutturato: da un lato la «polpa» della Napoli cosiddetta «civile», sul mare di Mergellina e Posillipo; dall’altro, l’osso di una popolazione radicata nel centro storico. Un assetto consolidato dalla viabilità automobilistica che costeggia il mare. Oggi la Napoli dell’«osso» è diventata culturalmente, oltre che numericamente, maggioritaria, fatalmente attratta dalle luci e dalle caotiche kermesse allestite sul lungomare «arancione» – spazio conteso, nel periodo natalizio, tra i fautori dell’albero-piramide e i guardiani della sacralità dell’ambiente. Sarebbe stato necessario, invece, aiutarla a liberarsi da costrizioni più antiche e condizionanti: la mancanza di lavoro, l’evasione scolastica, la scarsa sicu­6

rezza. Un impegno continuamente rinviato. È più facile cavalcare l’onda dell’insperata ripresa del turismo: dà ossigeno al commercio e suscita aspettative di rilancio economico e sociale. Per Luigi de Magistris è una manna: parla di «tsunami di sorrisi e serenità» e sentenzia: «Benissimo i consumi, l’economia, il lavoro. L’industria turistico-culturale produce. Stiamo costruendo Napoli Autonoma»4. L’immagine negativa pare, dunque, dissolta. La firma del Patto per Napoli fornisce le prime risorse per sciogliere i nodi irrisolti, urbanistici ed economici, di una città assurta, recentemente, a prestigiosa location per celebrare, su scala mondiale, eventi epici del mondo della moda5. L’«inferno», come osserva Paolo Macry, ormai è altrove6, e Marco Demarco intravede la fine di un «ciclo cittadino», iniziato col terremoto del 1980 e durato fino ai giorni nostri7. De Magistris ne è consapevole, ma, guardando a un futuro di leader nazionale, non coglie la complessità sociale ed economica della «questione napoletana». Servirebbe qualcos’altro. Ad esempio, rinnovare la macchina burocratica, rivitalizzare e valorizzare il patrimonio artistico ambientale e ricomporre organicamente le membra sparse del sistema industriale, operando in una visione globale, oltreché confrontarsi con la Napoli povera ed emarginata per fare i conti con un passato di cui non è il solo responsabile.

4   Cit. da C. Sannino, Le Parole di un prete, «la Repubblica. Napoli», 11 gennaio 2016. 5   A. Gargiulo, Aspettando Dolce e Gabbana, «Il Mattino», 10 aprile 2016. 6   P. Macry, I turisti e la città, l’«inferno» è altrove, «Corriere del Mezzogiorno», 28 marzo 2016. 7   M. Demarco, Napoli, il dopo-terremoto è finito. La città spera di ritrovare vitalità, «Corriere del Mezzogiorno», 6 settembre 2016.

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Gli ultimi cinque anni hanno impresso profonde trasformazioni al sistema economico e politico del Paese. La città esce vulnerabile dalla recessione e il ceto politico sembra tagliato fuori dalle «innovazioni» sollecitate dalla politica nazionale. Napoli ne viene solo sfiorata, perché, mal rappresentata dal Partito democratico, deve attendere il successo di Vincenzo De Luca, alle elezioni regionali del 2015, per sentirsi almeno «percepita» a livello nazionale. Un risultato che, a un anno di distanza, appare irraggiungibile. Per le colpe e le omissioni dei democrats, Luigi de Magistris ha buon gioco nel contrapporsi al governo, accusandolo, in occasione delle scelte su Bagnoli o nel confronto sulla gestione dell’ordine pubblico, di disattenzione verso la «questione napoletana». Disattenzione che rimprovera anche a chi sorvola sui guasti delle passate stagioni politiche. Su questo ha perfettamente ragione. Sulla sua amministrazione vengono scaricate le responsabilità di coloro che, prima del suo avvento sulla scena politica municipale, hanno contribui­ to a consolidare l’immagine negativa della città. Il finale d’opera dell’attuale giunta induce a supporre che questo risultato vada attribuito anche alla lunga sequenza di omissioni e fallimenti che hanno costellato la vita di Napoli dalla fine della prima Repubblica e, forse, addirittura del post-terremoto. «Il sindaco uscente – rileva Umberto Ranieri durante la campagna elettorale – non rappresenta una parentesi oltre la quale riprendere i fili spezzati, ma positivi e produttivi, di una precedente storia politica napoletana»8. Una fase che fissa il proprio inizio nel crollo, non subitaneo, della prima Repubblica, sotto il Vesuvio. Nel corso degli anni Ottanta le compagi8   U. Ranieri, Caro Antonio, non tornare, «la Repubblica. Napoli», 26 settembre 2015.

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ni di centro-sinistra non riescono a riconvertire il tessuto produttivo né a ricomporre, in un’articolazione coerente, l’assetto urbanistico. Inadeguata a intervenire in questi ambiti, confrontandosi con il contesto sociale e culturale della città, la politica municipale si concentra, essenzialmente, sulla tenuta dell’impianto di governo locale. Emergono, intanto, i limiti e la fragilità del processo di ricostruzione post-bellica, avviato negli anni del miracolo economico. Il nucleo forte della struttura industriale è cresciuto, tra gli anni Sessanta e Settanta, per la dislocazione della grande impresa di Stato – nei settori della siderurgia, della meccanica e della chimica – sia all’interno della vecchia area industriale sia nel comparto di Bagnoli. Ma l’intero sistema entra rapidamente in crisi a causa del processo di riconversione che trasforma, in breve tempo, il volto dell’Italia industriale. Per effetto delle recessioni del 1973 e del 1979, e di quelle successive degli anni Ottanta, l’industria di Stato smobilita, pezzo per pezzo, le parti più consistenti della manifattura napoletana (Italsider, Cementir), costruita sul modello dell’impresa fordista. Crisi industriale ed emergenza edilizia vengono «curate» prolungando i tempi dell’inevitabile dismissione, o deviando verso il circuito politico e quello della cattiva economia le risorse destinate, dopo il terremoto del 1980, alla rigenerazione urbana della città. Ma il percorso non è in discesa. In questi anni si affronta anche il problema del deficit edilizio intervenendo, pesantemente, sugli assetti urbani. Si completa così, per effetto di queste scelte, lo stadio finale della ricostruzione post-bellica. I «mostri» della 167 costituiscono, con la nuova dislocazione dei Colli Aminei, i tasselli di una terza Napoli, realizzata nei tempi e nei modi adeguati alle esigenze delle varie amministrazioni che si succedono alla guida della città. ­9

Si arriva, intanto, al sisma del novembre 1980, quando si tenterà di aprire l’economia urbana alla riconversione attraverso l’impresa del mattone. Le risorse che affluiscono in città per avviare la ricostruzione post-terremoto inducono a ripetere – osserva Mariano D’Antonio nel 1990 – «operazioni di edilizia, di costruzione di mega infrastrutture, di centri di servizi tradizionali, che sanno di operazioni già viste e naufragate»9. Oggi il giudizio è più indulgente. Luigi Musella rileva che «l’impostazione stessa del post-terremoto favorì le disfunzioni. La gestione dei finanziamenti, infatti, venne affidata a un impianto legislativo tutto improntato all’eccezionalità e all’urgenza. Furono questi stessi caratteri a rendere possibile non solo una malaccorta spesa, ma soprattutto sprechi e illeciti, nonché la penetrazione della criminalità nel gigantesco affare»10. Il periodo che copre l’intero decennio, fino quasi alla fine della prima Repubblica, costituisce dunque l’epilogo di una serie di passaggi che, sul piano urbanistico, completano la ricostruzione del dopoguerra, ma mostrano, evidenti, i segni ormai palesi di una crisi economica e sociale apparentemente irreversibile. Giuseppe Galasso parla di una moderna città europea priva «di un carattere dominante, senza una struttura veramente unitaria, senza neppure un’egemonizzazione dei suoi contrasti da parte di questo o quell’elemento della società cittadina»11. La sua immagine è segnata dai record negativi che la cronaca quotidiana rimanda sui mezzi di comunicazione. L’inaf9   M. D’Antonio, L’industria in Campania tra politica e mercato, in Storia d’Italia. Le regioni, vol. IX, La Campania, a cura di P. Macry, Einaudi, Torino 1990, p. 1211. 10   L. Musella, Napoli, Carocci, Roma 2010, pp. 127-128. 11   G. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 7.

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fidabilità di una classe dirigente che, franando sul piano nazionale, trascina con sé anche il solido e collaudato clientelismo su cui si fonda il governo municipale, diventa la misura della distanza, apparentemente incolmabile, che la separa dal resto del Paese. Così le cifre delle statistiche nazionali, le pagelle sulla vivibilità urbana, lo sfilare continuo di cortei di senza lavoro e senza tetto, gli indicatori del tasso di criminalità e dell’inquinamento ambientale, confermano una stagnazione cupa e incontrastata che soffoca ogni sviluppo positivo. Un trend che non coincide con quello di altre grandi città. L’Italia degli anni Ottanta si lascia alle spalle le certezze della stagione fordista. Il ridimensionamento del sistema industriale è compensato, al Nord, dall’affermazione della piccola impresa, che ridisegna la geografia economica dei territori, conferisce vigore e rilievo politico alle regioni del Nord-Est e diventa elemento determinante della riconversione di ruoli sociali e modelli culturali dell’intero Paese. La fine della prima Repubblica viene liquidata all’insegna di un equivoco di fondo: è la conseguenza della degenerazione del sistema dei partiti ed espressione, quindi, di una crisi istituzionale che manda in cortocircuito l’equilibrio tra potere legislativo e potere giurisdizionale. In realtà c’è dell’altro. Dietro la disgregazione della Dc e del Psi ci sono la trasformazione del quadro geopolitico internazionale a seguito della caduta del muro di Berlino e l’emergere di fasce intermedie e ceti produttivi, sostenuti dalla riconversione tecnologica degli anni Ottanta. Su quest’ultimo punto, in particolare, va valutata la capacità delle classi dirigenti locali di assecondare le aspettative di rinnovamento di territori proiettati su scenari di integrazione economica e culturale. Napoli non vive questi processi da protagonista: li ­11

subisce. Giunge all’appuntamento dopo aver già ridotto la sua base produttiva, avviandosi verso un’ulteriore, forzata terziarizzazione. Di fronte al mutare della congiuntura i potentati meridionali, arroccati nelle cittadelle ministeriali, ottimizzano la capacità di intercettare risorse pubbliche per garantire la sopravvivenza dell’ossatura industriale del Mezzogiorno, senza impedire, come abbiamo visto, il crollo delle cattedrali nel deserto e il calo dell’occupazione. Da queste premesse prende le mosse la storia della città a partire dagli anni Novanta. Al momento dell’elezione a sindaco di Antonio Bassolino, nel 1993, il 42% della popolazione – secondo i dati del censimento del 1991 – è privo di occupazione, con un picco del 74% tra i giovani. Avvalendosi dei nuovi poteri concessi al capo dell’amministrazione comunale, designato ora per elezione diretta, il neosindaco, esponente di punta del vecchio Pci e fornito dei requisiti necessari, mobilita energie che invertiranno il destino della tormentata Napoli post-bellica. L’uomo è fornito di autentiche doti di comando e conosce e pratica il linguaggio della politica, facendosi interprete di istanze e interessi variegati. Formatosi all’ombra della corrente operaista del Pci, ne dismette l’apparato ideologico, ma ne utilizza i metodi. È disinvolto e spregiudicato nell’agone politico, che vive come costruzione di un’egemonia saldamente affidata a una guida politica centralizzata e coesa. Una volta a Palazzo San Giacomo, riorganizza la macchina amministrativa e, grazie a un’accorta operazione mediatica, dà corpo all’immagine di una città in ripresa. Prendono forma, così, le «politiche simboliche». Un’espressione, spiega il politologo Mauro Calise, che denota una concreta capacità di presa politica: esse «attraggono facilmente l’attenzione, suscitano controversie e passione, mettono, insomma, in collegamento diretto ­12

l’iniziativa amministrativa del sindaco con settori molto ampi della cittadinanza»12. Si concretizza una politica per la cultura che definisce il sistema di istituzioni (i musei, il teatro, le fondazioni) destinato a durare. Negli anni del suo primo mandato Napoli riscopre l’orgoglio del proprio ruolo di metropoli mediterranea, confortata dal recupero di una memoria antica che è riappropriazione di risorse immateriali fruibili nei circuiti dell’economia turistica. Tali interventi si accompagnano alla più impegnativa e difficile opera di riconversione dell’ex area industriale di Bagnoli e di destinazione dell’ex area orientale a insediamento per piccole e medie industrie. Misure consolidate dall’approvazione del nuovo piano regolatore e dalla realizzazione di un sistema di trasporti urbani incentrato sulla costruzione della linea metropolitana, nuovo trait d’union tra i Colli Aminei, il Vomero e il centro storico. Ce n’è abbastanza per scolpire questa stagione nella memoria dei napoletani come un’esperienza unica nella storia amministrativa del dopoguerra, ma anche per generare la profonda disillusione per l’arresto del nuovo corso, culminato nel drammatico epilogo della crisi dei rifiuti del 2008. Gli anni del secondo mandato e, poi, della presidenza regionale vedono languire l’esperimento amministrativo e perdono lo smalto della rigenerazione civile e culturale. Cambiano le prospettive originarie: il destino della città, teso al consolidamento delle «buone pratiche», viene posposto alla gestione degli equilibri territoriali, mentre la governance ariosa e condivisa si trasfigura in controllo di consorterie politiche e apparati burocratici. Le reazioni a caldo per questa conclusione non fanno

  M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 67.

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sconti. Marco Demarco prende atto che «un potere crescente, carismatico, istituzionale e commissariale non ha prodotto gli effetti sperati»13, e Biagio De Giovanni non usa mezzi termini quando scrive, nel 2009, che «le emergenze a Napoli e in Campania sono diventate vita normale. Quasi nessuno dei progetti di trasformazione è stato realizzato, mentre i canali della partecipazione democratica appaiono scomparsi e fortemente ridotti [...] E gli intellettuali hanno tradito la loro funzione, presi nei lacci e nei comodi di un sistema pervasivo»14. Le scelte che accompagnano le tappe della sua parabola discendente (il passaggio al ministero del Lavoro durante il governo D’Alema, poi la nomina a governatore regionale) sono oggetto di analisi che ne evidenziano successi e fallimenti. Esaltata come espressione emblematica del protagonismo di una nuova leadership municipale, la performance di Bassolino viene additata, di volta in volta, come esempio della debolezza di questo modello o come segnale inequivocabile delle tensioni e delle resistenze del Pd nazionale verso le ambizioni del leader meridionale. Raramente viene considerata come il tentativo, fallito, di affrontare con una nuova classe dirigente i problemi che la stagione post-fordista aveva lasciato a Napoli, come a Milano e a Torino. Oggi, che i tempi lunghi della giustizia hanno scagionato «’o sindaco» dalle imputazioni giudiziarie che l’avevano colpito in qualità di commissario alla gestione dei rifiuti e abbiamo visto consumare il tentativo di tornare sui propri passi, proponendosi nuovamente al-

  M. Demarco, L’altra metà della storia, Guida, Napoli 2007, p.

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14   B. De Giovanni, A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?, Marsilio, Venezia 2009, p. 31.

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la guida dell’amministrazione comunale, è più che mai opportuno interrogarsi sul significato di un’esperienza che non può essere inquadrata nella dimensione strettamente politica. Sulla stampa locale si è aperto lo scontro, anche aspro, tra detrattori e strenui promotori di un suo ritorno a Palazzo San Giacomo. I secondi passano un colpo di spugna su una storia politica già al vaglio degli analisti. Si è parlato delle ambizioni e dei progetti di una leadership locale che, mirando ad approdi nazionali, si chiude progressivamente «nei palazzi del potere, mostrando approssimazione e finanche un malcelato fastidio per la concreta, dura gestione delle cose»15. Oppure si è confrontato il primo governo municipale con quello più controverso della presidenza regionale. «Il sindaco decisionista – scrive Ottorino Cappelli – si ritrova a interpretare il ruolo del governatore ‘presidenzialista’ senza averne in realtà gli strumenti istituzionali, le risorse organizzative e la forza politica»16. Per tacere, infine, delle interferenze del Pd nazionale, come sottolinea Isaia Sales, che avrebbero frenato e ridimensionato le sue ambizioni di leader nazionale17. Manca, o è appena abbozzato, il giudizio sul mancato appuntamento con le questioni di fondo della città, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. La rigenerazione amministrativa, certo, ma non solo. Il ricambio della classe dirigente, in sintonia con i mutamenti culturali e sociali che attraversavano il Paese intero.   C. Velardi, Caro Antonio, ti sfido a cambiare, «Corriere del Mezzogiorno», 19 settembre 2015. 16   O. Cappelli, Il sindaco-presidente tra retorica e realtà, in Id. (a cura di), Potere e società a Napoli a cavallo del secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003, p. 60. 17   Cfr. I. Sales, Napoli non è Berlino. Ascesa e declino di Bassolino e del sogno di riscatto del Sud, Dalai Editore, Milano 2012. 15

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L’esaurirsi della spinta al rinnovamento amministrativo riguarda gli elementi stessi della «svolta», il modo in cui si consuma «la rottura» con il vecchio ordine politico amministrativo. Tra il 1993 e il 1997 cambiano, con la qualità e l’efficienza dell’azione di governo, i caratteri socio-anagrafici del ceto politico municipale e l’insieme di relazioni con la classe dirigente. I consiglieri che approdano a Palazzo San Giacomo sono homines novi, «provengono da mondi sociali diversificati, denunciano livelli di istruzione più bassi [...] solo in pochi casi hanno ricoperto cariche di rilievo e restano confinati, in genere, in circuiti marginali, rispetto alle sedi effettive del potere». Hanno rotto i legami con l’apparato partitico ricorrendo a nuove forme di professionismo della politica, che gravitano intorno alla gestione leaderistica e sono basate su «forme di pagamento indiretto (tramite assunzione e impieghi che orbitano attorno alla politica)»18. Provengono da esperienze condivise da varie anime della società civile e intercettano una rete di collaboratori selezionati per la fedeltà al leader e la capacità di essere players nel mercato dei consensi elettorali. Sono ingranaggi di una macchina del potere sottoposta a disamina accurata19, e indizio del ricambio politico avviato da due efficaci ascensori sociali: la modernizzazione urbana degli anni Cinquanta e Sessanta e la spinta che il processo di industrializzazione impri-

18   L. Brancaccio, Napoli, in AA.VV. (a cura di), Comuni nuovi. Il cambiamento nei governi locali, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 157 e 159. 19   Cfr., ad esempio, L. Brancaccio, La classe dirigente napoletana. Caratteri, risorse, configurazioni, in E. Amaturo (a cura di), Capitale sociale e classi dirigenti a Napoli, Carocci, Roma 2003, pp. 115-154; schematico, invece, M. Maugeri, Tutti gli uomini del viceré, Rizzoli, Milano 2009.

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me all’affermazione di nuovi quadri politici e sindacali. Un sistema di potere destinato a consolidarsi durante gli anni della presidenza regionale e a sopravvivere nel governo municipale di Rosa Russo Iervolino, volto, soprattutto nella fase iniziale, a inglobare e assimilare elementi significativi della classe dirigente. Se il ceto imprenditoriale resiste a farsi coinvolgere nella stagione del cambiamento, rimanendo subalterno nelle scelte sulla gestione economico-urbanistica della città, il mondo delle professioni e della cultura, viceversa, tende a integrarsi negli orizzonti, culturali e politici, tracciati da Antonio Bassolino. E sui caratteri e i contenuti di questo «incontro», che preannunciava una svolta epocale e si traduce, invece, in un sostanziale fallimento, è opportuno soffermarsi per valutarne le ricadute sulla Napoli odierna. 2. Un passato che non passa La disgregazione del sistema dei partiti e l’affermazione delle autonomie locali, in politica come in economia, determinano, nel Paese, un cambiamento nei rapporti tra centro e periferia. La buona performance di sindaci e governatori meridionali ne costituisce la prova più tangibile, al di qua del Garigliano, per le positive ricadute che avrà sul ceto politico e sull’opinione pubblica meridionale, con effetti però diversi. Tra quelli più significativi della politica dell’inizio degli anni Novanta vanno annoverati il ridimensionamento del Mezzogiorno nel sistema di governo nazionale e il mutare del modo di percepirlo nell’immaginario collettivo del Paese. Si è osservato che, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, la spinta meridionalistica dell’intellighenzia locale perde colpi, per poi esaurirsi ­17

del tutto. «Il pensiero meridionalistico – osserva Biagio De Giovanni – era fermo, consapevole della caduta di vecchie categorie di comprensione e abbastanza sulla difensiva per costruirne altre»20. Si indebolisce la pressione dei potentati meridionali sulla politica nazionale e si instaurano nuovi rapporti di forza tra le grandi componenti territoriali. Il Sud stenta a imporsi come parte integrante del Paese e non riesce a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda che trasmette, in diretta, la fuga in avanti della Terza Italia e il consolidamento del primato della questione settentrionale. Dileguatesi le legittimazioni politiche delle «provvidenze» che avevano alimentato uno «sviluppo senza autonomia», si levano alte le critiche di analisti, scienziati sociali, sociologi ed economisti del calibro di Carlo Trigilia, Gianfranco Viesti e Nicola Rossi. Proclamano il time out del vecchio sistema assistenzialistico e la necessità di fare da soli21. Napoli non se ne rende conto. Mentre si celebra il trionfo della sua rinascita culturale e civile, si consuma la sostanziale incapacità della cultura politica locale a interagire col resto del Paese. L’attenzione di opinionisti e politologi si catalizza sull’esperimento in corso, mentre, fatta salva qualche eccezione22, si perde l’occasione, per le «firme» della grande stampa nazionale che scrivono all’ombra del Vesuvio, di pronunciarsi, come in passato,

  B. De Giovanni, A destra tutta, cit., p. 29.   Cfr., ad esempio, D. Cersosimo, C. Donzelli, Mezzo giorno, Donzelli, Roma 2000, e inoltre C. Trigilia, Non c’è Nord senza Sud, Il Mulino, Bologna 2012; G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2003; N. Rossi, Mediterraneo del Nord, Laterza, RomaBari 2005. 22   Si veda, oltre al citato saggio di De Giovanni, l’intervista ad Augusto Graziani, Il Mezzogiorno, il mercato, il conflitto, «Meridiana», 1993, n. 16. 20 21

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sulle scelte politiche ed economiche adottate in nome del Mezzogiorno, e denunciare l’inasprirsi della frattura tra la città e il resto del Paese. Una «frattura» antica, che la facile propensione del ceto intellettuale a concentrarsi sugli orizzonti dischiusi dal «rinascimento napoletano» non aiuta a ricomporre. Percy Allum insiste sull’importanza del ruolo delle élites intellettuali nel fallimento delle iniziative intraprese dalle forze imprenditoriali nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso23. Durante il primo mandato di Antonio Bassolino la tendenza si accentua: «I giornalisti, gli opinion makers – osserva Lello Savonardo – e, in genere, quella intellighentsia diffusa che generalmente si autorappresenta come la punta di diamante della società civile, hanno svolto un ruolo essenziale di supporto all’attività amministrativa e alla strategia di personalizzazione di Bassolino»24, canalizzando un ampio consenso verso il leader. In cambio sono stati gratificati da scelte che hanno mobilitato, attraverso gli spazi pubblici e i siti dell’arte, gusti, esperienze e sensibilità diffuse intorno a nuovi valori identitari. Si consolida, così, anche la rete di collegamenti che fanno «girare», in termini politici, la macchina del governo municipale, che risulta determinante nella costruzione del consenso elettorale25 e decisiva per il buon esito delle politiche urbanistiche. L’approvazione della variante al piano regolatore viene sostenuta da uno schieramento di associazioni civiche e istituzioni culturali, tra cui compaiono l’Istituto italiano per gli studi 23   Cfr. P. Allum, The politics of town planning on post-war Naples, «The Journal of Modern Italian Studies», 2003, n. 2. 24   L. Savonardo, Cultura senza élite, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003, p. 61. 25   L. Brancaccio, Potere personale e clientelismo a Napoli, «Meridiana», 2001, fasc. 2, p. 74.

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filosofici, le Assise di Palazzo Marigliano, la Fondazione Napoli Novantanove. Tornano a brillare le capacità progettuali e organizzative dell’ufficio tecnico del Comune, sotto la guida dall’assessore Vezio De Lucia, e si volta pagina rispetto alle ingerenze e agli interessi che avevano gravato sulle politiche urbanistiche nel decennio precedente. Ancora Percy Allum ricorda che, nella seconda fase del post-terremoto, le «opere pubbliche» erano diventate simbolo e strumento di spreco e di uso clientelare delle risorse pubbliche26. Facendo leva sul dissenso suscitato da queste scelte, «il nuovo corso» giunge ad approvare, nel 1998, la variante al piano regolatore, suscitando consensi e discussioni destinati a protrarsi fino ai giorni nostri. Gabriella Corona li ricostruisce sulla base delle testimonianze degli architetti comunali, impegnati a contenere la devastazione del territorio e fautori di un dirigismo che avrebbe sollevato critiche accese27. La politica urbanistica torna a essere il banco di prova del confronto, anche esasperato, tra regolamentazione politica, interessi privati e diatribe accademiche. All’inizio degli anni Novanta l’architetto Bruno Discepolo rileva l’effetto controproducente delle politiche di contrasto al malgoverno del territorio. Più in generale, osserva, «la cultura di sinistra ha finito con l’assumere in questo un ruolo di dirigismo urbanistico, incapace di andare oltre le ragioni del dissenso, contribuendo per questa via al generale immobilismo dalle cui maglie sono filtrati solo abusivismo o edilizia speculativa»28. Sullo sfondo rimane il risultato, incontro-

  P. Allum, The politics of town planning, cit., p. 514.   Cfr. G. Corona, I ragazzi del piano, Donzelli, Roma 2007. 28   B. Discepolo, La via napoletana all’urbanistica, Lacaita, Manduria 1991, p. 32. 26 27

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vertibile, dei guasti determinati, all’epoca, dal connubio tra politica e affari. Adesso si vuole andare oltre. Queste scelte, considerate nel più ampio contesto della politica dei primi anni Novanta, non sono finalizzate solo a contrastare mire speculatrici, ma propongono una nuova immagine di Napoli. La minaccia che nuove «mani sulla città» possano smembrare quel che resta di un paesaggio già troppo martoriato suscita emozioni destinate ad aleggiare come uno spettro funesto nell’immaginario collettivo dei napoletani, imprimendo una spinta positiva alla politica urbanistica del Comune. È Antonio Bassolino a compiere il salto di qualità, attraverso la riformulazione del piano per Bagnoli: «Bisognava concepire la nuova Bagnoli come il naturale collegamento tra una Napoli rivalutata culturalmente e la straordinaria realtà dei Campi Flegrei»29. Grazie alla fiducia ispirata dalla sua storia personale, fu possibile sottrarre l’area per l’industria agli operai dell’ex Italsider. Un cambiamento di rotta che qualifica il fulcro della sua visione politica: l’urbanistica come recupero e restituzione degli spazi preclusi ai napoletani, il governo dello spazio urbano come «regime simbolico riformista, la legalità come cardine dell’agire politico amministrativo»30. Al centro di tutto si trova l’intenzione di sostituire le ciminiere e i laminatoi dell’Italsider, vestigia in rovina della modernizzazione novecentesca, con la memoria dell’eredità culturale e materiale del passato di ex capitale del Mezzogiorno. Una visione che non si esaurisce nell’icona del Rinascimento all’ombra

29   Cfr. Napoli, il Sud e la «rivoluzione comunale». Conversazione con Antonio Bassolino, «Meridiana», 1996, n. 26-27, p. 219. 30   U. Rossi, Lo spazio conteso. Il centro storico di Napoli tra coalizioni e conflitti, Guida, Napoli 2009, p. 103.

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del Vesuvio, ma fa leva sulla riscoperta della dimensione storico-artistica e sulla valorizzazione del patrimonio dei beni culturali. Una sensibilità, prima che un progetto, familiare all’opinione pubblica della città e congeniale a fasce ristrette, ma qualificate, della cosiddetta società civile. La formazione «umanistica» dell’élite culturale è data per scontata da qualunque osservatore della Napoli di fine Novecento. Per riconoscerne la familiarità con la sua storia non c’è bisogno di scomodare il magistero della «Napoli nobilissima» di Benedetto Croce. Basta camminare per le sue strade e cogliere, come Sergio Corrado, la propensione – mai sopita – a rinnovare continuamente «il discorso malinconico della propria grandezza con spesso insopportabile retorica e celebrare come ex capitale se stessa, archivio delle sue forme urbane, come pratica di comunicazione sperimentata nel tempo»31. Non meraviglia, perciò, che siano la tutela e la valorizzazione delle antiche forme architettoniche, degradate e dismesse per l’incuria degli uomini, a offrire lo spazio e il riferimento simbolico a una stagione di rinnovamento civico, oltre che culturale, inaugurata dalla decisiva battaglia dei «ragazzi del piano», sotto la guida dell’urbanista Vezio De Lucia, e sostenuta dalla mobilitazione di opinion makers del mondo dell’università e delle professioni, impegnate nella progettazione e nella rigenerazione urbana. Queste ultime si schierano, come già Benedetto Croce contro gli sventramenti di inizio Novecento, a difesa dell’integrità della città d’arte, assurta a intangibile valore identitario. Tra di loro si 31   S. Corrado, Neapel. Archivkunst und Antiarchiv, in T. Weitin, B. Wolf (a cura di), Gewalt der Archive, Konstanz University Press, Konstanz 2012, p. 39.

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distinguono i gestori e gli operatori del sistema museale. Grazie al risalto conquistato da importanti eventi – come l’anticipatrice mostra sul Seicento napoletano – si mettono in luce le potenzialità del patrimonio d’arte, si organizzano mostre, si pubblicano libri, elaborando, di concerto con urbanisti, storici dell’arte e restauratori, una rappresentazione della forma urbana che oltrepassa i confini della città. Il sostegno del Comune a iniziative culturali come il Maggio dei monumenti fa il resto, attirando lo sguardo dei napoletani e dei turisti, stranieri e non, sui tesori racchiusi in Napoli Sotterranea, nelle catacombe di San Gennaro o nel cimitero delle Fontanelle. La dimensione storica emerge, dunque, come valore fondativo dell’identità urbana e canone imprescindibile per la costruzione del suo futuro. Permea il racconto della città, esaltando momenti e figure esemplari nella storia delle sue classi dirigenti: i martiri del 1799, la memoria delle Quattro giornate del 1943, arrivando a riesumare, in tempi più recenti, primati borbonici setteottocenteschi, sull’onda della crescente marea di umori antiunitari. Un terreno fertile per far nascere, di fronte ai guasti della modernizzazione urbana, l’idea del recupero salvifico della città antica, oltreché occasione per ricollocarla nella trama delle relazioni culturali ed economiche che si aprono nella stagione post-fordista. Archiviato il ciclo dell’industrializzazione dall’alto, sono adesso i territori e le comunità locali a mobilitarsi per rimettersi in cammino sulla strada dello sviluppo. Col pretesto di investire le proprie risorse, ambientali e culturali, nel grande gioco della globalizzazione internazionale entrano in competizione, l’uno con l’altro, per intercettare sia i flussi turistici sia i finanziamenti che l’Unione Eu­23

ropea destina alle regioni in ritardo di sviluppo. Questo tipo di sostegno rappresenta l’elemento essenziale della transizione del Mezzogiorno di fine Novecento. Napoli non fa eccezione: nella sua area metropolitana i patti territoriali e i contratti d’area diventano potenziali strumenti di rigenerazione ambientale. Definendone i confini creano nuove competenze, saldano e intrecciano i destini di operatori economici, intellettuali e professionisti all’erogazione dei flussi di spesa: si sostituiscono agli interventi che hanno tenuto in vita l’industria di Stato, ereditandone carenze e complici omissioni. La tendenza è generale e viene aspramente criticata. Ernesto Galli della Loggia parla di rafforzamento dei gruppi di comando del Mezzogiorno e di «ingresso degli intellettuali nel nuovo blocco di potere della società meridionale»32. Adolfo Scotto di Luzio si spinge oltre, cogliendo la riluttanza a «mettere sotto processo la spesso indecente classe dirigente locale». «Un’ingente quantità di danaro pubblico viene dirottata a vantaggio di artisti, scrittori, professori universitari, come non era accaduto in passato, e che ottengono adesso finanziamenti e prebende», andando a recuperare «le tradizioni, il dialetto, le storie locali e i loro protagonisti semisconosciuti»33. Giudizi che fanno terra bruciata anche delle velleità della cultura napoletana di inizio millennio, ma che non sembrano cogliere altri aspetti del suo rapporto con la politica. Non è solo l’intreccio tra le pratiche dello sviluppo locale e la memoria storica di un establishment

32   Cfr. E. Galli della Loggia, Sbaglia chi pensa che il ritardo del Sud sia dovuto all’Unità italiana, «Corriere del Mezzogiorno», 5 marzo 2014. 33   Cfr. A. Scotto di Luzio, Intellettuali al Sud. La doppia sconfitta, «Corriere del Mezzogiorno», 8 marzo 2014.

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intellettuale che si è forgiato nelle aule dei licei classici della città a mandare in tilt l’esperimento urbanistico della leadership bassoliniana. Il «regime simbolico riformista» e la rigenerazione delle sue energie culturali falliscono nel tentativo di dotare la città di nuovi assetti manifatturieri, accompagnando la restaurazione di spazi e monumenti a politiche attrattive di risorse per il turismo languente o intervenendo sul disperso e frammentato sistema produttivo della città. Lasciano irrisolto il problema della transizione a un nuovo modello produttivo e mancano, in tal modo, l’obiettivo di fondo della svolta politica: intervenire sul modo di vivere e lavorare dei napoletani. Non a caso l’etnologo Nick Dines, studiando «la città di tufo» al tempo di Bassolino, ribalta la lettura del «regime simbolico riformista», basato sul rapporto simbolo-immagine-consenso, e sposta l’attenzione sui suoi destinatari. Verificando il modo in cui le politiche di rigenerazione dello spazio urbano influiscono sul quotidiano, osserva che quanto è percepito si discosta dalla rappresentazione «ufficiale» del tempo. Nel caso di piazza Plebiscito, rileva che il suo restauro non ha «solo reintegrato lo spazio al suo antico splendore», ma ha liberato un centro storico «campo di battaglia di rivendicazioni ed interessi concorrenti»34. Uno spazio sociale che l’innovazione politica non riesce a modificare, a prescindere dal retaggio della storia e dalla fragilità dall’economia. Un esperimento dirigistico fallito, a suo parere, per la scarsa, inadeguata attenzione riservata alla complessa conformazione sociale, ma che riguarda, anche, il contenuto e le modalità con cui si svolge e si attua l’intervento «modernizzatore». 34   N. Dines, Tuff City: Urban Change and Contested Space in Central Naples, Berghahn, New York-Oxford 2012, p. 121.

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In questo contesto si coglie la scarsa attitudine della classe dirigente a conformarsi a quanto accade nelle altre realtà metropolitane. In quegli anni Milano e Torino cavalcano con consapevolezza l’onda della neoindustrializzazione. Abbandonano le spoglie di capitale dell’industria per utilizzare energie e competenze nella realizzazione di riconversioni urbanistiche tese ad assecondare la terziarizzazione avanzata, fondata sulla modernizzazione dei servizi e dei mezzi di comunicazione. Cambiano la propria immagine in relazione agli effetti che la diffusione di consumi di alta qualità, veicolati sui mercati internazionali dall’immagine dell’Italian style, determina sull’articolazione degli insediamenti produttivi. Scelte e progetti che non sono assenti negli orizzonti culturali del «rinascimento napoletano». Non manca, infatti, l’intenzione – è il caso della privatizzazione dell’aeroporto di Capodichino – di incoraggiare aperture verso il mercato e si dimostra sincero il tentativo di intervenire sulla rigenerazione del tessuto urbano. Ma sul delicato versante della riconversione dei modelli produttivi e culturali si esita a progettare e innovare. Il produttore cinematografico Nicola Giuliano ha ricordato la scarsa ricettività del governo regionale, a guida Bassolino, nei confronti dell’onda montante del neapolitan cinema: La responsabilità è della classe dirigente che non ha saputo aprirsi alle energie migliori, non ha saputo canalizzarle [...] sono stato il primo a proporre l’idea di una film commission per la Campania e, mentre l’assessore Furfaro si rigirava tra le mani l’incartamento, la Regione Piemonte attirava una quantità di investimenti senza avere neanche le professionalità, i tecnici, gli elettricisti. Ho scritto sulla «Repubblica» della necessità di una casa del cinema per preservare la memoria e sfruttare ­26

il nostro grande patrimonio culturale e Bassolino, allora governatore, mi telefonò personalmente per dirmi «Considerala cosa fatta», eh... tu l’hai vista la casa del cinema?35

Sintomi della delusione che subentra a speranze e aspettative di rinnovamento urbano. La mobilitazione culturale del «nuovo corso» si presenta, dall’inizio, come valorizzazione di un passato glorioso e difesa delle sue memorie dalle aggressioni di un contesto che osteggia gli interventi di restauro. Emblematici rimangono gli sfregi al portale del Maschio Angioi­no, restaurato dalla Fondazione Napoli Novantanove, o, in maniera più plateale, il saccheggio e la devastazione dell’antica Biblioteca dei Girolamini, assurta a caso nazionale per il coinvolgimento di personalità del mondo politico ed economico36. Un mood che coinvolge e unifica ma, nello stesso tempo, seleziona e rimuove. Svanisce, infatti, la memoria, ormai sterile ed esangue, della Napoli industriale. Ed è opportuno chiedersi perché questo «passato» non sia stato catalogato nel grande archivio delle res gestae urbane, per rappresentare il punto di partenza e stimolo per una nuova stagione economica e civile. L’argomento è assente dal dibattito pubblico sulla città, ma merita attenzione. Non è in discussione la sopravvivenza della fabbrica fordista. Il ciclo di recessioni degli anni Settanta cambia il modo di produrre acciaio e macchine e mette fuori gioco l’Ilva di Bagnoli e il sistema meccanico e petrolchimico della Napoli orientale. 35   Citato nel reportage Napoli non la capisce nessuno, «Internazionale», 17 novembre 2014, p. 12. 36   Si veda l’intervista di Anna Paola Merone a Mirella Barracco, presidente della Fondazione Napoli Novantanove, «Corriere del Mezzogiorno», 13 ottobre 2015.

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Un appuntamento, dunque, inevitabile. Ma dismissioni e delocalizzazioni offrono anche l’occasione per fare i conti con le speranze di generazioni di tecnici e di intellettuali abbagliati dal sogno industrialista. Le condizioni sociali e civili della Napoli degli anni Ottanta fanno comprendere alla classe dirigente e all’opinione pubblica la difficoltà, ormai insormontabile, di modernizzare gli assetti urbani e produttivi passando attraverso il filtro (sociale e culturale) del sistema manifatturiero. Una convinzione avvalorata dal cortocircuito che si verifica tra cultura popolare e tradizione operaia negli anni del benessere. A partire da quella stagione cambia il modo di raffigurare la vita di fabbrica: dalla sociologia letteraria di Donnarumma all’assalto, di Ottiero Ottieri, si passa alla fatalistica e stereotipata rappresentazione del mondo del lavoro industriale del film di Nanni Loy Mi manda Picone, per finire con la reale vicenda sindacale dell’Alfa Sud di Pomigliano d’Arco, sottoposta a dettagliate analisi e assurta a simbolo negativo della «cultura» operaia nel Mezzogiorno. L’immagine prevalente è quella delle pratiche modernizzanti dell’impresa coeva, contaminata da un viluppo di interessi, mentalità, prevaricazioni politiche, difficilmente contrastabile. Ma il quadro è più sfumato: nel momento culminante della crisi industriale, secondo Luciano Brancaccio, l’esperienza delle lotte sindacali, con la sua «fitta rete di relazioni orizzontali, basate sulla fiducia e la cooperazione, ha costituito il capitale sociale della comunità bagnolese, risorsa necessaria per ovviare alla carenza di servizi sociali e per sostanziare l’azione politica»37. La dismissione dà vita a una nuova fase perché frantuma il 37   L. Brancaccio, Crisi industriale, crisi sociale e sistema politico nel declino di Bagnoli, in Dalle partecipazioni statali alle politiche in-

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patrimonio di risorse immateriali, creando «un diverso sistema di organizzazione della vita sociale che si snoda sulla clientela»38. Come abbiamo visto, ancora una volta spetta ad Antonio Bassolino compiere il salto di qualità: la sua riformulazione del piano per Bagnoli costituisce una svolta radicale, sebbene il disegno di un’urbanistica avviata dalla mano pubblica e finalizzata alla reindustrializzazione ecocompatibile fosse stato anticipato dalle giunte socialiste di Pietro Lezzi e Nello Polese. Una delibera consiliare dell’agosto del 1991 prefigura un preliminare di piano che include il parco tecnologico di Bagnoli e il polo scientifico della zona orientale. «Spiace ricordare – osserva Franco Verde, al tempo assessore all’Urbanistica – che gli uomini dell’ex sinistra operaista ingraiana abbiano sepolto questo progetto», abrogando la delibera del preliminare e sostituendo «a un positivo rapporto con il mondo degli investitori privati sotto il controllo del pubblico un regime vincolistico che ha portato alla paralisi e non ha fermato l’abusivismo»39. Una posizione che rinfocola vecchi e mai sopiti conflitti politici, ma che pure va considerata nel riflettere su come sparisce la memoria del lavoro industriale dall’immaginario collettivo dei napoletani. Non sono venuti meno, certo, negli anni che seguono la «dismissione», la solidarietà verso i «compagni» operai e l’apprezzamento per il patrimonio politico dell’esperimento industriale. Si è persa, però, la percezione di una più profonda

dustriali, Atti del convegno per i cento anni della Fiom, Napoli, 24-25 maggio 2001, Meta Edizioni, Roma 2003, p. 147. 38   Ivi, p. 149. 39   F. Verde, Napoli Ovest. Tutti gli errori di Bassolino, «Corriere del Mezzogiorno», 14 ottobre 2014.

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valenza culturale e civile: non l’appartenenza di classe, ormai sbiadita, da ibernare in un museo. Spingendosi più a fondo, si può affermare che la presenza di una consistente componente operaia non si esauriva nella sua forza politica e conteneva, anzi, in sé, un patrimonio di esperienze, valori, capacità distintive, avvertiti come vivi e operanti nella realtà sociale della Napoli postbellica. Un insieme di potenziali risorse consegnate a uomini e donne «dismessi» e destinati a rimanere in balia di riconversioni più o meno fantasiose. Il tratto di una specifica professionalità, il valore di un saper fare legato alla dignità della persona, prima ancora che alla quantificazione del salario, figurano tra i caratteri di una Napoli poco conosciuta, per la quale non serve ipotizzare diversi e più proficui percorsi, ma di cui bisogna riconoscere il valore. Non mancano le prove: a Torre Annunziata, città di mare e centro manifatturiero e poi siderurgico, è tuttora vivo il ricordo di un «come eravamo» felice e prosperoso. «La cultura della città – afferma Francesco Pirone – negli anni dello sviluppo industriale aveva assorbito conoscenze, saperi e problematiche che provenivano direttamente dalle fabbriche presenti sul territorio. Si trattava prioritariamente di saperi connessi ai materiali, alle tecnologie e alle tecniche di lavorazione, ma in una certa misura anche di conoscenze più sofisticate, di tipo organizzativo ed economico, sull’efficienza dei processi e sulle dinamiche competitive dei mercati»40. A Bagnoli il lavoro di scavo nell’esperienza dei protagonisti si è tradotto nella smagliante rappresentazio40   F. Pirone, L’esperienza e il rimpianto del lavoro in fabbrica, in E. Morlicchio (a cura di), Il suono delle sirene spente, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2006, p. 129.

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ne letteraria di Ermanno Rea che, in La dismissione, restitui­sce verosimiglianza ai rapporti tra la città e la fabbrica. Il quartiere, racconta il protagonista, l’operaio Vincenzo Bonocore, «espressione di un mondo del lavoro anomalo ed ‘altro’ rispetto al contesto, rappresentava una contro-cartolina che trasformava in alacrità l’indolenza, in precisione l’approssimazione, in razionalità l’irragionevolezza, in ordine il caos, in rigore la rilassatezza»41. Per lui, come per il protagonista di La chiave a stella di Primo Levi, «viene prima di tutto la macchina... perché la macchina è sacra, è tutto. È ordine e disciplina. È razionalità. In definitiva, è quanto di pulito e rispettabile resta ancora in questo mondo caotico»42. Ma non solo. Non gli dispiace «di essere coinvolto in computi economici, di misurare costi e benefici, effettuare calcoli sull’andamento del processo produttivo, di entrare nel merito della sua organizzazione»43, per oltrepassare i confini – di fatto labili, ma ideologicamente netti – tra lavoro operario e gestione di impresa. Una distinzione che, a livello nazionale, sfuma lasciando spazio all’intraprendenza di nuovi attori sociali che la fabbrica ha contribuito a fare emergere e che ora animano, con il successo della piccola scala produttiva, l’economia dei territori e delle comunità incardinati nell’Italia dei distretti. Sono frutti che a Napoli, e in gran parte del Mezzogiorno, è impossibile cogliere. Qui la reattività, le competenze e l’intraprendenza, peculiari della fabbrica fordista, sono destinate a disperdersi. Il risultato, forse, non è scontato: qualche osservatore, consapevole dei   E. Rea, La dismissione, Feltrinelli, Milano 2002, p. 63.   Ivi, p. 57. 43   Ivi, p. 44. 41 42

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mutamenti epocali alla base della frettolosa liquidazione di fornaci, macchinari e uomini, afferma nel 2000: Vorrei che man mano facciano anche delle cose che erano intenzionati a fare... qualche elemento di produttività che possa attivare maggiore occupazione, personalmente sono sempre stato dell’idea che al posto della fabbrica siderurgica, che disturba, si poteva sostituire una fabbrica non inquinante che avesse potuto utilizzare un patrimonio di tecnici che erano di buona professionalità. Questo non è accaduto44.

Ma le logiche economiche del management pubblico sono di corto respiro; non contemplano la rigenerazione urbanistica o sociale del territorio e cercano di contenere i danni. Sarebbe spettato alla classe politica locale renderle compatibili con gli equilibri ecoambientali e con l’affermazione di un nuovo modello produttivo. Il che significa prefigurare il recupero dell’area flegrea al consumo di un turismo di élite o alla fruizione pubblica, soprattutto come riconversione economica delle energie locali. E valutare il ruolo non solo degli investimenti esterni, ostacolati dai vincoli urbanistici, ma anche delle iniziative locali, da coltivare e poggiare sulle spalle larghe di una forza lavoro motivata e specializzata. Ragionando sulle prospettive di «rigenerazione» che si offrono alla chiusura della fabbrica, Percy Allum opina la validità della soluzione urbanistica legata alla variante al Prg per Coroglio e Bagnoli approvata nel 199845. Studiando da vicino il caso Bagnoli, negli stessi

44   Cfr. l’intervista del 15 ottobre 1999 ad Antonio di Francia, ex operaio e poi tecnico dell’Italsider, pubblicata in M. Albrizio, M.A. Selvaggio (a cura di), Vivevamo con le sirene, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 154. 45   P. Allum, Postfazione, ivi, p. 291.

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anni, Luciano Brancaccio scrive, calcolando il tempo perso dalla politica, che è necessario «creare le condizioni per il recupero delle risorse di capitale sociale e favorire la cooperazione dal basso dei nuovi soggetti, unica dimensione possibile per lo sviluppo del senso civico e della partecipazione democratica»46. Tutto questo suona come invito a lasciarsi alle spalle l’esperienza della prima giunta Bassolino. Non solamente per l’arenarsi della politica nelle secche dell’inefficienza amministrativa, ma anche per l’incapacità di traghettare la città, con una nuova classe politica, nella transizione post-industriale del Paese.

  L. Brancaccio, Crisi industriale, cit., p. 143.

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II

NAPOLI OGGI: NON SOLO GOMORRA

1. Raccontare Napoli In uno dei tanti confronti tra opinionisti e intellettuali sugli stereotipi che caratterizzano l’immagine della città, viene affermata l’impossibilità di penetrare la sua realtà più autentica e riposta. Ai loro occhi Napoli appare «irrappresentabile in termini autentici»1, perché diventata un «testo muto e illeggibile», immobile sotto il peso della sua ingombrante storia e incapace di sintonizzarsi sulle opportunità e le sfide del presente2. Il tema è ricorrente. Allo sguardo di sociologi e antropologi Partenope, tratteggiata nell’urgenza delle più svariate emergenze, sembra scontare il retaggio di antichi pregiudizi, si fa frutto avvelenato di strumentalizzazioni politiche, pur rimanendo – come sottolinea Marcella Marmo – specchio di una «cosa che c’è», si tratti della camorra o delle montagne di spazzatura3. Più da vici1   Cfr. E. Galli della Loggia, Sbaglia chi pensa che il ritardo del Sud sia dovuto all’Unità italiana, cit. 2   F. Durante, Prima di citare Giambattista Vico, ripulite il vico, «Corriere del Mezzogiorno», 2 novembre 2014. 3   G. Corona (a cura di), Napoli, rappresentazioni e stereotipi, «Meridiana», 2009, n. 64, p. 178.

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no la rappresentazione negativa di determinati aspetti della condizione urbana assume, per Gabriella Corona, «il carattere di una ‘realtà parallela’ che ha acquisito una vita propria e che mostra una divaricazione sempre più profonda con la realtà effettiva»4. Una realtà che si fa, via via, più sfuggente e incomprensibile. I volti inquietanti di Gomorra, il ricordo ancora vivo delle catastrofi sanitarie e ambientali, il piglio guascone del sindaco arancione, l’ultima, terribile rappresentazione dei babykillers, che tengono sotto scacco la Sanità o il quartiere Traiano, sovrastano ogni altra espressione della città, mentre i modi, le fogge, il parlato di una popolazione vivace e gioiosa, ma impoverita e culturalmente degradata, diventano i tratti distintivi della napoletanità d’inizio millennio: remake sbiadito di un nuovo Carosello napoletano, frammenti di un film che stronca ogni speranza di sviluppo. Un ritorno al passato percepito, e vissuto come tale, perfino dai suoi interpreti più sensibili. Lo ripropone la rievocazione cinematografica di Mario Martone del soggiorno a Napoli di Giacomo Leopardi. Gli spettatori, ripercorrendo gli ultimi anni di vita del poeta, trascorsi qui, vi ritrovano ansie e frustrazioni del tempo presente. La città dei primi decenni dell’Ottocento presenta contorni e atmosfere familiari ai contemporanei, ai quali trasmettono il senso di un déjà-vu che risuona come condanna all’immobilismo della condizione urbana, perché presagisce un futuro senza scampo né alternativa. E nello stesso tempo attestano l’esito di una battaglia perduta per sempre per quanti, fin dagli anni post-unitari, hanno cercato di cambiare le cose prospettando la necessità di superare la contrapposizione tra le due città – la borghese

  Ivi, p. 177.

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e la plebea – evocata, anni fa, da Paolo Macry nell’immagine dell’ostrica e dello scoglio5. La percezione del «colore locale» come freno e ostacolo alla modernizzazione della città ottocentesca e, poi, novecentesca si ritrova nelle pagine della letteratura e della saggistica post-unitarie (da Matilde Serao a Renato Fucini) e si fa intensa negli anni del secondo dopoguerra, quando emergono l’impotenza e lo sconforto di chi, fidando nella ricostruzione post-bellica, aveva intravisto altri percorsi per la modernizzazione della città. Gli scrittori Michele Prisco, Domenico Rea, Luigi Incoronato e Luigi Compagnone, intervistati nel 1966 da un settimanale nazionale, si immaginano come naufraghi sopravvissuti su un’isola, privi delle strutture civili e politiche che fanno da sostegno alla cultura. Osservano che mancano le librerie e le case editrici, i terminali di quelle infrastrutture – come i teatri stabili o i giornali a tiratura nazionale – che costituiscono il luogo della formazione di un’opinione pubblica autorevolmente presente sulla scena politica e culturale del Paese. Un rammarico che, dieci anni dopo, diventerà più acuto e pressante quando Antonio Ghirelli inviterà giornalisti, scrittori, esponenti del cinema e del teatro, personalità politiche, a pronunciarsi sul tema della «napoletanità», supposta o reale espressione di una civiltà partenopea – o, all’inverso, retaggio e fardello di un colore locale – che ne compromette la modernizzazione urbana e civile. Poche città come Napoli, afferma Michele Prisco, «hanno favorito e continuano a favorire [...] una così abbondante fioritura di luoghi comuni che ne perpetuano un’immagine di falso folclore e ininter5   Cfr. P. Macry (a cura di), Borghesie, città e Stato, «Quaderni Storici», 1984, n. 5, p. 340.

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rotto colore locale»6. E Rosellina Balbi, giornalista, responsabile della pagina culturale di «Repubblica», non ha dubbi: con il crollo della monarchia borbonica non finì «il napoletanismo, ossia la sottocultura imperniata sui ‘valori’ plebei», un ammasso di luoghi comuni, un male che «ancor oggi sopravvive resistendo alla stessa azione livellatrice della civiltà di massa»7. Giudizi sconfortanti, ma saldi nella convinzione di sostenere la travagliata trasformazione della città degli stereotipi in metropoli moderna e «italiana». Un percorso irto di ostacoli per l’imprevista sparizione degli elementi portanti della «modernizzazione urbana». L’ingresso nella società dei consumi di massa e la sperimentazione delle pratiche dell’industrializzazione fordista si accompagnano, purtroppo, ai meno esaltanti risultati della cementificazione di un territorio irriconoscibile perfino dagli stessi cultori e cantori della sua storica bellezza. Da qui, da questa sequenza di eventi, e non dal fato ineluttabile di un’immobile condizione antropologica, prende forma l’ultimo, rapido ritorno al passato di una città che scopre, negli occhi degli altri, di non essere riconosciuta per quello che è, perdendosi nel labirinto dei tanti luoghi comuni, fino al punto da invertire il rapporto con la realtà. Roberto Esposito afferma che quello che vi accade «sembra imitare un’immagine. Insomma, è la realtà a imitare la rappresentazione, e non viceversa»8. Anche le distinzioni sociali che abbiamo cercato di rintracciare tendono ad annullarsi nel momento in cui

6   A. Ghirelli, La napoletanità, Società Editrice Napoletana, Napoli 1976, p. 33. 7   Ivi, p. 43. 8   Si veda l’intervista di G. Abate al filosofo Roberto Esposito in «Corriere del Mezzogiorno», 30 ottobre 2014.

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Napoli sembra risucchiata, ai giorni nostri, nel vortice dell’omologazione con i costumi e le fogge della città «plebea». Il «colore locale» cambia. Le pizze e i mandolini sono sostituiti da una napoletanità che esprime la vitalità, ma anche il disagio per la disgregazione dei fondamenti economici e sociali dell’universo urbano. Un mondo che non può più essere osservato dall’occhio degli scrittori e intellettuali neoilluministi degli anni Settanta del secolo scorso: essi stessi coinvolti nel rinnovamento politico e civile della società, ma distanti dalla cultura e dalle tribolazioni della città «plebea». Una Napoli che, invece, Elena Ferrante riesce a interpretare quando, riprendendo il racconto di scrittrici come Anna Maria Ortese ed Elsa Morante, ne tratteggia i caratteri e i luoghi dell’insanabile marginalità. Lasciandosi intervistare all’indomani di un’ulteriore querelle sulla propria identità, sottolinea il rapporto che lega le protagoniste del suo ultimo romanzo, L’amica geniale, al «rione». A Napoli – dichiara – i legami con il luogo d’origine «limitano, fanno male, corrompono o predispongono alla corruzione», e ciò che ne compone «la piccola folla è, nei fatti, inevitabilmente guasto e, ai miei occhi, una maledizione». Per l’autrice la città plebea è fatta «di gente comune che non ha soldi e ne cerca, che è subalterna ed insieme violenta, che non ha il privilegio immateriale della buona cultura, che sfotte chi pensa di salvarsi con lo studio e tuttavia allo studio attribuisce valore»9. Una realtà, si potrebbe aggiungere, che rimane eguale a se stessa e che però, nello stesso tempo, cambia pelle, rapportandosi, come capita alla protagonista del romanzo, alle sollecitazioni ma anche ai condizionamenti del 9   N. Lagioia, Elena Ferrante sono io, «la Repubblica», 3 aprile 2016.

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mondo «esterno». La Napoli marginale si è fatta melting pot di proletari senza fabbrica, disoccupati cronici, figli emarginati delle periferie degradate, uomini e donne che si barcamenano nell’universo parallelo dell’economia sommersa. Hanno volti e identità diversi da quelli dell’umanità povera, ma speranzosa, del De Sica di L’oro di Napoli o del Nanni Loy di Mi manda Picone, perché abbagliati dalle suggestioni consumistiche dei nostri giorni e drammaticamente incardinati negli spazi del «sistema» governato dalla camorra. Si riconoscono nel sound e nelle parole di Pino Daniele, percepito, alla sua morte, come compagno di strada e punto di riferimento identitario, ma guardano anche alle nuove forme dell’espressione cinematografica, rivendicando con rabbia la vera immagine di Napoli, quello che la «città è». Se Pino Daniele è simbolo di una generazione emancipata dalla chitarra e unificata dal web, il new neapolitan cinema entra nel merito delle sue condizioni urbane e spiega perché e come la città è cambiata, lasciando intravedere possibili vie d’uscita. Per Alex Marlow-Mann il cinema di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino – per citare i più noti – si distingue dai precedenti prodotti cinematografici sulla città per il desiderio di confrontarsi con la società napoletana, per «problematizzare le attuali forme di espressione e proporre nuove modalità di rappresentazione della città e della sua cultura»10. Superando eterni stereotipi, ci trascinano fuori dalla «caverna» platonica per portare alla luce la reale condizione sociale urbana. Alcuni dei loro film si fanno «spaccato» di una morfologia sociale e specchio della città, nascosta e contraffatta dietro le pieghe della presunta modernizzazione 10   A. Marlow-Mann, The New Neapolitan Cinema, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011, p. 220.

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urbana. In Gomorra, di Matteo Garrone, prende forma la patologica vitalità economica e culturale del «sistema» della violenza criminale. Spezzoni di cinema già visti: Scampia come le periferie infernali di città africane o come il fantascientifico paesaggio di un day after, tra miseria e degrado. La spiaggia di Castel Volturno come poligono di tiro per inconsapevoli epigoni di una Apocalypse Now locale. Dietro questo mondo, però, si intravedono la disgregazione della società contadina, l’arretratezza morale, prima che economica, della piccola impresa, il deformante e velleitario impatto con una globalizzazione che non allude a miracoli mediterranei o a salvifici scambi con l’Oriente. Rivela, piuttosto, disumani sfruttamenti e dipendenze che contaminano, con il lavoro degli uomini, la salute e l’ambiente in cui vivono. Una tragedia su cui si muovono i giovani protagonisti del film, votati all’inevitabile naufragio nel mare dell’avidità e della violenza. L’immagine bellissima dei loro corpi, sollevati da una ruspa per essere celati e dimenticati tra le dune del litorale domizio, chiude le ultime scene del film, evocando, per contrasto, quelle gloriose di giovani eroi caduti combattendo, davanti a Troia, perché invisi agli dèi. In Reality Matteo Garrone dischiude un’altra finestra sulla Napoli marginale, esplorando le ricadute sociali e psicologiche della grande fascinazione mediatica. Il film narra la vicenda della famiglia di Luciano, un pescivendolo napoletano, stregato dal miraggio del Grande Fratello e ossessionato dal desiderio di partecipare alla trasmissione. Egli si muove in una Napoli popolare, folgorata dal luccichio delle fiction televisive, ancora coesa per i suoi legami di solidarietà familiare, ma priva di reali aspettative di vita e riferimenti culturali. Un’area sociale di confine con il mondo dell’illegalità, modernizzata ma non «moderna», arcaica nei suoi riti di solidarietà e nei ­40

suoi conflitti irriducibili. La storia del protagonista, che insegue la chimera della notorietà e della fortuna economica, non è altro che la metafora di una condizione largamente diffusa. Il brancolare di Luciano nei labirinti della finzione televisiva era stato anticipato dalla rabdomantica sensibilità di Pier Paolo Pasolini; mentre già l’eroe di Donnarumma all’assalto, di Ottieri, aveva dovuto forzare le barriere che la fabbrica, costruita a ridosso del mare di Pozzuoli, ergeva davanti a lui. Questa volta, però, il Donnarumma di turno non entra a far parte dell’universo della modernizzazione fordista, perde tutto, trova sbarrate le porte che avrebbero dovuto offrirgli l’occasione della vita, cadendo in una profonda depressione: uno stato mentale che, fino a qualche tempo addietro, sembrava appannaggio esclusivo di un qualche «prigioniero della seconda strada». La vicenda di Luciano segna un passaggio storico nella stagione attuale: l’elemento di una condizione psicologica che, da aspettativa di redenzione sociale, trascolora in follia e induce a riflettere sugli effetti che la negazione o la perdita del lavoro, con la preclusione di ogni possibilità di rinascita economica, determinano intorno e dentro di noi. Frammenti di un vissuto quotidiano che non sfugge alla sensibilità di altri osservatori della Napoli marginale e violenta dei nostri giorni. Si tratta di una generazione di scrittori, musicisti, donne e uomini di spettacolo, che hanno eletto la città a spazio privilegiato della loro elaborazione artistica. Il loro impegno è stato riconosciuto e valorizzato dal filone di studi che si propone di ridisegnare la mappa della cultura e della società della Napoli contemporanea. Riferendosi a Peppe Lanzetta e Pappi Corsicato, Patrizia La Trecchia osserva, in una recente indagine, che le loro opere vanno considerate ­41

soprattutto per il valore sociologico, perché si ergono a vero e proprio manifesto sociale che integra sia la prospettiva sulla bellezza cinematografica della città che quella sulla realtà del suo degrado [...]. Essi ricorrono a immagini e contenuti sovversivi per catturare l’essenza di questa realtà, costituiscono una nuova geografia, reale e immaginaria, che accoglie il passato riflettendosi nel presente e con la speranza di un futuro diverso11.

Una più moderna interpretazione che rompe i tradizionali schemi disciplinari, scende sul campo dell’analisi diretta e ci rende partecipi delle aspettative, dei costumi, delle emozioni e dei valori, di una parte consistente della Napoli di oggi. È il caso di The Art of Making Do in Naples, di Jason Pine, dedicato al mondo dei cantanti neomelodici. Un microcosmo che incrocia contesti sociali diversi e interagisce con le aree grigie dell’economia sommersa. Il «sistema economico» dei neomelodici è alimentato dagli interessi che la circolazione del prodotto musicale determina. Ne sono parte integrante, con le figure tipiche della mala economia marginale, artisti, tecnici, produttori e distributori, che condividono i riti di consumo e sottoconsumo del prodotto musicale12. Un punto di vista che dischiude squarci illuminanti sulle dinamiche della città emarginata, ma che suscita, anche, perplessità e riserve. Per Enrica Morlicchio, il «compiacimento per l’orrido» di certa narrativa sulla città ha portato a trascurare «le forme di resistenza al degrado»13. Do-

  P. La Trecchia, Uno sguardo a Sud, Liguori, Napoli 2013, p. 139.   J. Pine, The Art of Making Do in Naples, Minnesota University Press, Minneapolis 2012. 13   E. Morlicchio, A. Morniroli, Poveri a chi? Napoli (Italia), Edizioni Gruppo Abele, Torino 2013, p. 32. 11 12

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menico De Masi non ha dubbi: la rappresentazione di questa Napoli, che prende forma nella recente wave letteraria o antropologica, si concentra sugli «orrori» della condizione urbana, trascurando aspetti, come il lavoro, che ne costituiscono un elemento essenziale quanto problematico. Rimanendo nell’attualità si preclude la possibilità di definirne il prima e il dopo, di chiarire il contesto delle storie. In tal modo «non si vede come le cose sono andate, cosa è successo. Né si comprende di chi è la responsabilità e quali sono state le scelte nel passato che hanno portato a quella situazione»14. Una critica che trova riscontro anche tra i commenti al revival della lettura etnoantropologica della città. In un confronto a più voci sul citato The Art of Making Do in Naples si lamenta, pur tra stime ampiamente positive, la mancanza di una «prospettiva» politica15, o la carente riflessione sul «rapporto tra la scena neomelodica e la situazione più ampia della società napoletana»16, fino ad affermare che se non si «guarda alla storia di Napoli con un respiro di lungo periodo non riusciremo a cogliere il rapporto di interdipendenza tra la città materiale e il suo contesto sociale»17. Il punto è cruciale: la «mancanza di una ricostruzione storica» è riconosciuta dallo stesso Pine ma, al di là del caso specifico, il libro conferma che l’utilizzazione del flusso di materiali letterari, mediatici, musicali, che danno corpo all’odierna lettura della città nella prospettiva atemporale dei cultural studies o dell’approccio etnoantropologico, rischia 14   Cfr. G. Corona (a cura di), Napoli, rappresentazioni e stereotipi, cit., p. 207. 15   Cfr. l’intervento di L. Brancaccio nel forum Dentro la città, «Meridiana», 2014, n. 80, p. 205. 16   Così N. Dines, ivi, p. 207. 17   M. Ravveduto, ivi, pp. 209-210.

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di perdere di vista il senso delle trasformazioni di un contesto più ampio, disperdendosi nello sterile esercizio di raffinate comparazioni temporali e spaziali. È necessario ricondurre la rappresentazione della città al mutare dei suoi scenari economici e sociali. È difficile, ad esempio, intervenire sul tessuto urbano prescindendo dall’evoluzione dell’identità professionale e culturale dei suoi abitanti. E su questo non siamo molto informati. Gli scenari della Napoli dei nostri giorni mostrati da letteratura e cinema sono confortati da una lettura «scientifica» che cerca di correggere e aggiornare gli schemi interpretativi che, negli ultimi decenni del secolo scorso, hanno accompagnato il racconto sulla città. Ma gli stereotipi sono in agguato, magari dietro l’angolo di brillanti quanto schematiche generalizzazioni. Alla metafora «potente» di Napoli Gomorra se ne contrappone – osserva Enrica Morlicchio – un’altra, di segno opposto, «che vede nella città un perenne laboratorio di attività sociali e di crescita artistica»18. Non è facile «uscire dalla caverna», o spingersi «oltre il giardino», continuando ad attenersi ai dati delle condizioni materiali e culturali delle componenti sociali del territorio. Né lo consente la forza dirompente di una cronaca quotidiana che precipita gli abitanti dei quartieri della «vecchia Napoli» nel clima di violenza e sopraffazione imposto dal ritorno in armi della camorra. L’emergenza criminalità mobilita le forze civili, alimenta conflitti, sollecita dalla politica risposte che vanno oltre la difesa dell’ordine pubblico e impedisce di ragionare sugli elementi di fondo, sociali e culturali, che ne sono il fondamento.

  E. Morlicchio, A. Morniroli, Poveri a chi?, cit., p. 34.

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La Napoli marginale è priva di difese efficaci. I presìdi scolastici che dovrebbero armarle si sono arresi di fronte alla solida resistenza di intrecci familiari, clientelari, criminali, determinati e coesi nel contrasto all’obbligo scolastico. Gli insegnanti, spesso precari, asserragliati in edifici-fortini e isolati dagli ambiti di riferimento, si sentono catapultati in terra di frontiera a pochi, ma decisivi chilometri dai luoghi della «normalità» urbana: l’università, le scuole superiori, le istituzioni culturali, sono tutte sideralmente lontane dalle emergenze della città emarginata. Intorno a loro il crescente impoverimento di quanti si trovano a fronteggiare gli effetti della lunga recessione. Hanno visto indebolirsi, e poi cedere, il sistema di ammortizzatori familiari e comunitari, legati al funzionamento dell’«economia del vicolo», e sono entrati a far parte di un’area di povertà trasversale al territorio metropolitano. Si avvertono le ricadute che la riconversione di attività produttive in zone sempre più vaste di economia sommersa determina sui processi di impoverimento, ma sfugge la traiettoria seguita dagli espulsi dal mercato del lavoro, né ricevono adeguata attenzione le dinamiche che regolano il comportamento di coloro che sono in cerca di prima occupazione. Gli uni, privati del lavoro, sono portatori di specifici bisogni materiali e culturali perché costretti a convertire la progettualità individuale e familiare, adattandosi al mutamento di aspettative personali e di stili di vita. Rischiano, nei casi limite, di precipitare nell’area della povertà e di doversi affidare al sostegno di associazioni caritatevoli per un letto o un pasto caldo. I secondi hanno lasciato, o abbandonato precocemente, un sistema scolastico debole e talvolta incapace di formare e di orientare. E scelgono la via della fuga, o si abituano a convivere con una precarietà che si fa habitus mentale, ­45

regola del vivere alla giornata, in cerca di occasioni, ma senza speranze, né progetti, né futuro. Nel quadro di questi processi sempre più estesi e pervasivi va misurata la mutazione indotta dal declino produttivo e civile della città. Tra il 2007 e il 2014 il tasso di occupazione nella provincia di Napoli scende dal 41 al 37% e, sempre nel 2014, il tasso di attività della popolazione in età da lavoro non raggiunge il 50%19. Gli analisti sociali affermano che un simile andamento del mercato del lavoro ha innescato conflitti e fatto saltare antichi equilibri sociali. Ma non è solo colpa della crisi. Fino a pochi anni fa la lotta alla povertà e alla marginalità urbana era portata avanti dalle politiche specifiche degli enti territoriali e dalle pratiche di operatori sociali dediti a iniziative di sostegno, accoglienza, accompagnamento. I risultati non sono mancati, ma nemmeno le ricadute negative: logiche politiche autoreferenziali, inquinate da monopoli burocratici, derive clientelari, rigidità ideologiche. Gli enti pubblici, osserva Giovanni Laino, «hanno esternalizzato servizi a basso costo favorendo non di rado gruppi di organizzazioni in parte sottomesse e poco capaci di attivare le persone, i beneficiari dei servizi»20. I tagli recenti al welfare regionale e municipale hanno inferto il colpo di grazia. Si è disperso un patrimonio di esperienze e di sensibilità, individuali e collettive, maturate sulla frontiera dell’analisi del disagio urbano e delle necessità che ne accompagnano l’evoluzione, e si è affievolita la perce-

19   Cfr. G. Orientale Caputo, Il mercato del lavoro: lontani dalla ripresa, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, Monitor, Napoli 2016, pp. 166-167. 20   G. Laino, Alla periferia delle politiche. La parabola del lavoro sociale, ivi, p. 212.

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zione della complessità e dell’estensione del fenomeno da parte della politica e dell’opinione pubblica. Dopo le parole al vento spese in campagna elettorale, la giunta de Magistris chiude il bilancio preventivo destinando alle categorie più vulnerabili 27 milioni di euro, rispetto ai 90 del 2011. Oggi è difficile ripartire senza riesumare la vecchia e irrisolta «questione sociale», ponendola al centro di ogni strategia di rigenerazione economica e civile. La Sanità, il rione Traiano, il centro storico, costituiscono, come il Sud per il resto del Paese, il laboratorio di ogni possibile futuro e, al tempo stesso, il metro di valutazione delle scelte del governo locale e della comunità intera. Rimanendo in bilico sul limitare di una «zona franca di degrado e di illegalità diffusa», la Napoli marginale si configura – e spesso è rappresentata, con colpevole leggerezza – nelle forme di una «napoletanità» sempre eguale a se stessa. Prendendo in considerazione, invece, le sue sfaccettate articolazioni, si presenta come il focus di contraddizioni mai superate e, nello stesso tempo, come l’arena di scontro tra le sue vecchie e nuove componenti. Manifestazione del diffondersi di un’illegalità che cresce in rapporto inverso al rarefarsi dei controlli e della tutela esercitata dalle istituzioni pubbliche. Non è ricollegabile direttamente all’acuirsi della «questione sociale», ma rivela l’incapacità di affrontarla e risolverla. 2. La città di mezzo «Il nocciolo della questione borghese a Napoli – scriveva nel 1993 il giornalista Giuseppe D’Avanzo in un ritratto della ‘città di mezzo’, colta nell’attimo fuggente del crollo della prima Repubblica – è nella fiducia che manca o nella fiducia che c’è, che è la stessa cosa e, comunque, non è robetta da trascurare». A cinquant’anni ­47

dalla ricostruzione post-bellica si avverte ancora la necessità di «uno Stato capace di imporre regole per tutti perché la politica ha privilegiato ogni bene pubblico, pubblico servizio, pubblica risorsa. Manca, inoltre, un mercato che mostri la necessità di vincoli produttivi e di compartecipazioni etiche»21. Nel rileggere questa lucida e definitiva valutazione della classe dirigente della Napoli del pentapartito c’è da chiedersi se l’impasse etico-politica – che già Croce aveva denunciato, nella lunga storia del regno di Napoli – sia stata superata e se la dimensione e i caratteri della «Napoli borghese» siano mutati e come. È vero che l’immagine di quest’area sociale si scorge appena nella rappresentazione della città odierna, né è facile coglierla nella sua totalità. Da quando D’Avanzo scrive, la condizione sociale, economica e culturale del ceto medio si è modificata. La sua presenza si intravede sullo sfondo del ciclo politico che, a livello nazionale, inaugura la seconda Repubblica. Protesa a perseguire una «visione localistica e individualista della modernità: casa, famiglia, consumo», si presenta, negli anni del berlusconismo, come «società omogenea e opulenta, libera da condizionamenti ideologici e affrancata da adeguati oneri sociali»22, ma sensibile alle innovazioni che investono il modo di comunicare e produrre. Nel 2004 Aldo Bonomi mette in relazione le professionalità di una «neoborghesia» che «non ha nella proprietà di capitali e mezzi di produzione i suoi caratteri principali, ma trova queste ‘proprietà’ strategiche nella conoscen-

21   G. D’Avanzo, Napoli milionaria. Borghesia falsaria, «la Repubblica. Napoli», 28 settembre 1993. 22   P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato, Feltrinelli, Milano 2001, p. 112.

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za e nelle relazioni»23, con la nuova classe dirigente del Paese. Un’immagine che raffigura il «versante» italiano delle trasformazioni tecnologiche e finanziarie in atto su scala internazionale, riproposta, a distanza di un decennio, da Giuseppe De Rita, il quale, delineando i tratti distintivi del ceto medio italiano, osserva che questo, «oggi, ha cambiato pelle (più sobrio, meno consumistico, più patrimonializzato, meno impiegatizio, più aperto a donne e stranieri), ma conferma la sua centralità rispetto alla faticosa evoluzione della società italiana»24. Una stabilità che non pare destinata a durare. È messa in discussione dagli stop and go legati all’irrompere della recessione nell’economia nazionale. La vasta area sociale intermedia tende a sfaldarsi. Il processo di cetomedializzazione si rafforza per il consolidarsi dei ceti produttivi (imprenditori e lavoratori autonomi) e dei liberi professionisti, ma la vitalità e l’ottimismo hanno lasciato il posto all’insicurezza e allo sconforto nel cuore di quanti, segnati dalla depressione, sono costretti a «riparametrare» la propria posizione sulla scala dei redditi. Ilvo Diamanti documenta, dati alla mano, la «discesa sociale» o la perdita di posizione nella «scala di classe». Tra il 2015 e il 2016 la percezione di coloro che si collocano in quest’area passa dal 45% (50% nel 2011) al 39%. Una perdita di status che colpisce operai, pensionati, casalinghe, e una «frattura sociale che oggi è percepita da metà della società italiana»25. E Napoli? Come vive l’ascesa e il declino delle middle 23   Cfr. A. Bonomi, M. Cacciari, G. De Rita, Che fine ha fatto la borghesia?, Einaudi, Torino 2004, p. 122. 24   G. De Rita, Mutato, ma sempre protagonista, il nuovo volto del ceto medio, «Corriere della Sera», 21 febbraio 2015. 25   I. Diamanti, Incertezza del futuro e fine della classe media, «la Repubblica», 30 maggio 2016.

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classes nel passaggio dal vecchio al nuovo secolo? Prima di approfondire un aspetto della sua realtà sociale rimasto in ombra nella rappresentazione della città dei nostri giorni, bisogna fare qualche passo indietro. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta si accendono le aspettative sociali che rendono insopportabile la vita nei «bassi» e si avviano i motori economici e sociali che ne ridisegnano le articolazioni sociali. È il mutamento che cancella il marchio di una Napoli plebea – Labriola dixit – troppo rapidamente riconvertita ai modelli di consumo della modernizzazione urbana. Cresce, perciò, un’area «di mezzo» che, nell’epoca della costruzione dello Stato sociale, si presenta come spazio intermedio tra la città della «miseria» e quella della «nobiltà» di scarpettiana memoria. Essa costituisce il baricentro di un sistema urbano destinato a entrare in sofferenza, vent’anni dopo, per lo sfaldarsi della base industriale. Il terremoto del 1980 aggraverà la situazione, allargando l’area della marginalità. A partire dal 1993 si sfalda il contesto politico istituzionale. A Napoli cambiano i luoghi deputati alle scelte decisive della politica: dalla cabina di regia delle stanze del potere romano e dagli studi dell’establishment professionale cittadino si passa alle più modeste sedi del governo municipale e regionale, punti d’incontro di una rete di partiti che riorganizza, su scala locale, il sistema delle risorse e delle energie intellettuali. Avanza, come già visto, un nuovo ceto politico: con tecnici di alto livello, che ridisegnano le vie di comunicazione interregionali, quadri sindacali che mettono a frutto l’esperienza conseguita nella costruzione della rete di consenso, manager e professionisti inseriti nel crocevia politico/affaristico della gestione sanitaria. Membri di una classe dirigente che lascia il ceto imprenditoriale in secondo piano, rispetto ­50

alle colpevoli «concertazioni» con la politica, legandolo, comunque, a sé attraverso i gangli di una macchina burocratica che concede o nega risorse, fissandone tempi e modalità. Si consolidano, negli anni di Antonio Bassolino e, successivamente, di Rosa Russo Iervolino, nuovi centri di potere politico burocratico, ma non se ne coglie la sottostante articolazione sociale. Fino ai nostri giorni il racconto della politica corrente non si spinge oltre la denuncia della dissipazione delle risorse dell’Unione Europea, «bancomat» di Regione e Comune. Ne viene sottolineato il peso decisivo nella movimentazione delle risorse (circa 1/3 del reddito regionale), ma è omesso il fatto che i quadri burocratici costituiscono la punta di un iceberg di più vaste aggregazioni sociali. Un pezzo di città difficile da interpretare con gli strumenti dell’analisi sociale del tempo. Le rappresentazioni dell’inizio degli anni Novanta ci restituiscono l’immagine di un ceto medio radicato nei settori della pubblica amministrazione, della scuola e dell’università, della sanità, dei servizi finanziari. Sono impiegati pubblici e privati, quadri, professionisti del pubblico servizio e docenti di ogni ordine e grado, garantiti dalla stabilità del posto fisso e cresciuti, per numero e collocazione sociale, durante gli anni dello sviluppo e del consolidamento del welfare post-bellico. Costituiscono una middle class che, per insediamento residenziale e stile di vita, tende a intrecciarsi e confondersi con le più antiche e, a Napoli, preminenti componenti del terziario tradizionale e delle professioni liberali, ma anche con le punte più avanzate della «città neoplebea». Questa, cavalcando l’onda del miracolo economico, è fuggita dal centro storico, conquistando il traguardo sociale di un appartamento al Vomero o a Fuorigrotta. Un universo di cui raramente si riesce a definire le ramificazioni e ­51

tracciare i percorsi di mobilità propri di una specifica identità. Mentre la città povera e marginale cambia pelle perché, colpita dalle politiche di austerity, vede indebolire il sostegno del welfare familiare, ulteriormente degradando nell’abbraccio con la criminalità, la Napoli borghese rimane mummificata nelle canoniche distinzioni territoriali che schematizzano una geografia sociale otto-novecentesca: la piccola e media borghesia tra Fuorigrotta e il Vomero, gli epigoni di un vasto sottoproletariato alla Sanità, al Cavone o al Pallonetto Santa Lucia, i ceti benestanti a Chiaia e Posillipo. Il riscontro dei dati censuari porta a stimare che tra il 2001 e il 2011 la popolazione dei quartieri di Chiaia e Posillipo si contrae – leggermente – in termini percentuali (dall’8,36 all’8,03%). Aumentano i residenti al Vomero e all’Arenella (dal 10,9 all’11,5%) e si riducono quelli di Fuorigrotta e Bagnoli (dal 10,1 al 9%)26. Alla fine del secolo scorso Gabriella Gribaudi sottolineava la rilevanza della dislocazione spaziale nella definizione dello status sociale: «Le relazioni dei napoletani – osservava – disegnano spazi sociali saldamente interrelati con gli spazi fisici. Sono i passaggi da un territorio a un altro, più che i passaggi lungo la scala sociale, a segnare trasformazioni dei modelli culturali e degli stili di vita». Non è solo la nascita in un determinato luogo – aggiungeva –, ma anche la scelta tra «l’integrazione nelle reti parentali e dell’infanzia» e la «distinzione». E bisogna riconoscere che «coloro che nascono o vivono nel milieu borghese hanno più facile accesso ai luoghi e agli oggetti che contraddistinguono un certo status. Attraverso la loro fruizione affermano o confermano una propria identi26   Elaborazione su dati del Comune di Napoli e Istat, Censimento della popolazione 2011.

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tà sociale»27. Recentemente Thomas Pfirsch ha rilevato, affidandosi alle indicazioni del censimento del 2001, che «i quartieri ‘bene’ sono ancora oggi il centro della sociabilità borghese. Ospitano il commercio di lusso e i luoghi di svago delle peregrinazioni notturne dell’upper class urbana»28. Classi superiori che, a suo avviso, si concentrano per il 50% nei quartieri di Chiaia e Posillipo, mentre al Vomero, all’Arenella, ai Colli Aminei, dove è più scarsa la presenza della «borghesia patrimoniale», risulta più elevata quella di «impiegati e di quadri superiori della pubblica amministrazione e dell’impresa»29. C’è da chiedersi se, da allora, l’evoluzione sociale della città «di mezzo», il suo procedere all’interno di antiche e stabili coordinate spaziali, abbia seguito gli stessi binari o abbia preso direzioni diverse; se, per esempio, anche Napoli sia stata in qualche modo interessata dal processo di gentrificazione. A prima vista non sembra possibile individuare niente di comparabile alla trasformazione che ha investito le città del Centro-Nord. Lì sono tangibili i segni della contrapposizione di «classe» che vede il ceto medio benestante farsi protagonista, come comunità emergente, di processi di riqualificazione e rivalutazione edilizia, indotti dalle politiche pubbliche sollecitate dagli operatori immobiliari30. Condizioni assenti nella Napoli degli ultimi venticinque anni. Qui la città «borghese» rimane sostanzialmente sulla difensiva

27   G. Gribaudi, Donne, uomini, famiglie: Napoli nel ’900, L’Ancora, Napoli 1999, p. 122. 28   Th. Pfirsch, La localisation résidentielle des classes supérieures dans une ville d’Europe du Sud, «L’Espace géographique», 2011, n. 4, p. 308. 29   Ivi, p. 309. 30   Cfr. L. Diappi (a cura di), Rigenerazione urbana e ricambio sociale, Angeli, Milano 2009, p. 10.

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e, apparentemente, manca le opportunità e gli stimoli del cosiddetto «rinascimento napoletano». Riferendosi all’area del centro storico, Nick Dines distingue tra «rigeneration» e «gentrification» (la prima presupporrebbe la seconda), e riconosce che «il numero crescente di giovani, professionisti agiati attratti dai costi bassi delle proprietà immobiliari e dai più stimolanti stili di vita», è un elemento della rigenerazione urbana che trova analogie con il ruolo del centro storico «nel diffondere una nuova immagine della città»31; anche se mette in guardia da utilizzazioni troppo «meccaniche» di queste categorie. Considerato con lo sguardo dell’osservatore esterno, questo spazio appare scevro da contaminazioni modernizzanti. In un servizio per il «Telegraph» di Londra, Stanley Stewart dichiara di essere rimasto colpito dalla «resistenza della città alla gentrificazione». «Il cuore pulsante del centro storico – osserva –, i palazzi fatiscenti e le strade anarchiche, non sono stati sterilizzati con wine bar di tendenza o filiali di Zara»32. Ma, come dimostra il caso di Bagnoli, si colgono anche segnali in controtendenza. Qui, osserva un testimone del luogo, «tutto ciò ha preso forma nella vendita delle case da parte di una classe operaia che le aveva a suo tempo riscattate, ma che all’improvviso non riusciva più a vivere nel quartiere [...] famiglie che a Bagnoli ci abitavano da sempre hanno venduto a prezzi molto buoni comprando case che nascevano a Giugliano, a Monteruscello, a Villaricca, grazie alle cooperative, quindi a basso costo»33.

  N. Dines, Tuff City, cit., p. 45.   S. Stewart, Naples: Passion and death in Italy’s underrated gem, «The Telegraph», 10 aprile 2015. 33   Cfr. R. Rosa, Bagnoli, le voci di dentro, «Napoli Monitor», 28 aprile 2012. 31 32

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Il processo di riqualificazione si blocca a metà strada. Per molti nuovi proprietari «lo stop è stato segnato dalla fine delle illusioni sul rilancio, per altri dal temporeggiamento degli investitori, in attesa di una nuova rivoluzione»34, che tarderà ad arrivare. Ugo Rossi, studioso della «città antica», rileva nel 2007 che «a Napoli manca una vera mobilità residenziale anche perché le famiglie influiscono molto nelle scelte abitative dei giovani. La middle class, quindi, non arriva da fuori, semmai è costituita dai figli delle famiglie che risiedono da molto tempo nei quartieri del centro storico e hanno un’occupazione migliore di quella dei loro padri»35. La città non sembra toccata, dunque, «dalla riconquista del centro storico da parte delle élites»36. Cristina Mattiucci parla di una gentrificazione potenziale, «senza rumore, senza dislocazioni forzate, senza troppi conflitti»37. Le classi agiate non sono attratte dall’area Unesco e continuano a identificarsi e trarre legittimazione dai loro insediamenti storici. Però il controllo degli spazi si è fatto più arduo. Le propaggini della città criminale e violenta lambiscono il cuore della città borghese. Rapine in pieno giorno, incendi di negozi, atti vandalici contro l’arredo urbano determinano insicurezza e frustrazione e mettono in discussione la convivenza storica tra le classi agiate e le antiche enclaves popolari dei «quartieri bene». Quando

  Ibid.   Citato in G. De Caro, S. Marcucci, Gentrification. Così il centro storico cambia. Lentamente, «Corriere del Mezzogiorno», 5 agosto 2007. 36   Th. Pfirsch, La localisation résidentielle, cit., p. 316. 37   C. Mattiucci, Il peso del patrimonio. Centro storico Unesco, vent’anni dopo, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città, cit., p. 79. 34 35

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si lascia contattare, la giovane camorra della Sanità e di Forcella afferma di sparare per autolegittimarsi. Le «famiglie» della periferia non ne hanno motivo: lì si sa chi comanda38. Il giudice minorile Piero Avallone scrive che «l’equilibrio tra le classi sociali si è rotto», le bande di minori sono «arrabbiate» e animate da un senso di vendetta. «Vivono in quartieri dove non c’è nulla, che non sono a misura d’uomo. Arrivano dalla periferia sui treni della metropolitana per dimostrare che non sono secondi a nessuno». Si confrontano, apertamente, con un «mondo borghese» che ha contribuito «a creare un tessuto sociale corrotto dove le regole della convivenza civile saltano continuamente»39. Lo scrittore Maurizio Braucci parla di «lotta di classe» dei ceti medioalti in difesa di un modello che «esclude e criminalizza lo stato dei giovani proletari, occultando le proprie responsabilità»40. Roberto Saviano ne tratteggia la verosimile immagine letteraria ergendoli a protagonisti di un romanzo di formazione, La paranza dei bambini 41. Vi appaiono come vittime e colpevoli, incapaci di sottrarsi alla suggestione del danaro e del potere. Dall’altro lato, sondando lo stato d’animo della città borghese, si deve ammettere che gli atti di violenza contro le persone sono entrati nella routine quotidiana e modificano, di conseguenza, i rapporti con l’ambiente circostante. Si assumono abitudini da coprifuoco, si scruta per strada l’atteggiamento di chi ci passa accanto,   Cfr. E. Fittipaldi, Sparanapoli, «l’Espresso», 17 marzo 2016, pp. 15-16. 39   Intervista rilasciata ad Anna Paola Merone, «Corriere del Mezzogiorno», 23 giugno 2015. 40   M. Braucci, Giovani, proletari e quindi criminali, «la Repubblica. Napoli», 13 marzo 2016. 41 Feltrinelli, Milano 2016.  38

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si tende l’orecchio all’avvicinarsi di motociclette e motorini, scostandosi al passare dei mezzi che sfrecciano controsenso. Sono inforcati da bambini, ragazzi, giovani donne in gruppo, senza casco, che intendono marcare un territorio in cui gli «altri», tutti gli altri, quando non diventano oggetto di aggressioni dirette, si trasformano in ospiti appena tollerati. Si vive, infine, come stranieri in casa, indotti in una sorta di spaesamento, di perdita di sicurezza, mentre si appanna la facoltà di rimanere lucidi e distaccati testimoni di un’epoca difficile, di guardare con comprensione storica e umana indulgenza alla strada, al quartiere, alla città. Si diffonde così a macchia d’olio, con il senso di impotenza e di frustrazione, la paura per l’incolumità personale. Dopo essere state identificate come luoghi funzionali al proprio «riconoscimento sociale» e gestite attraverso legami clientelari, le frange della Napoli marginale vengono vissute e rappresentate come forze ostili e incompatibili con la modernizzazione urbana. Ma sono, esse stesse, sostanzialmente cambiate. Parlando degli episodi di aggressione e vandalismo perpetrati nell’agosto del 2015 dalle bande giovanili in lotta tra loro, lo psicologo Dario Bacchini, residente nella zona, denuncia «le fasce di popolazione che continuano a vivere con codici propri e a rivendicare una posizione di primato nel territorio e a marcarlo con manifestazioni violente»42. Scatta la reazione contro le assenti autorità municipali e scocca la scintilla di una mobilitazione cittadina in difesa dei commercianti che, esasperati dagli episodi di criminalità, ne denunciano, ai primi di agosto, in una riunione delle associazioni di categoria, le ricadute sull’immagi42   A. Di Costanzo, La ribellione di piazza Bellini, «la Repubblica. Napoli», 30 agosto 2015.

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ne turistica della città, chiedendo al governo una legge speciale per tutelare turisti e abitanti. Ma non viene studiata l’emergenza causata dall’acuirsi delle diseguaglianze economiche e culturali tra le «due città». La resistenza alla gentrificazione del centro storico o di Bagnoli non è rifiuto della modernizzazione economica, ma piuttosto difesa dei propri ambiti insediativi come tutela di residui legami comunitari e familiari. Un confronto tra la «volontà di ‘normalità’ delle élites urbane e la cultura ‘altra’ di frange consistenti delle classi popolari napoletane»43, oltreché l’effetto della riconversione di funzioni e sistemi produttivi dei primi anni di questo decennio. Nel quartiere Chiaia le «vie dello shopping» sono battute dal vento della crisi. La Confesercenti denuncia la chiusura di 7.000 esercizi dal 2007 al 2015, solo in parte soppiantati44, ma è pur vero che le punte più avanzate del commercio e del consumo cittadino sono interessate «da politiche di branding che si confondono con dinamiche globali di internazionalizzazione»45, alimentando nuove forme di conflitto urbano. Ne sono protagonisti, osserva Libera D’Alessandro, i «residenti versus commercianti e lavoratori dell’industria dell’intrattenimento (i primi spesso anche versus gli utilizzatori dell’area commerciale di giorno e della movida di notte) e tutti, frequentemente,

43   Th. Pfirsch, I margini nel cuore dei «quartieri bene»?. Realtà e rappresentazioni delle ‘enclaves’ popolari nei quartieri agiati di Napoli, «Bollettino della Società geografica italiana», Roma, serie XIII, vol. VII, 2014, p. 125. 44   Cfr. V. Esposito, Il consorzio Chiaia: negozi chiusi? Molte colpe sono del Comune, «Corriere del Mezzogiorno», 11 ottobre 2015. 45   L. D’Alessandro, L.Viganoni, Consumo di lusso e cambiamento urbano. Le ‘main streets’ di Napoli, «Bollettino della Società geografica italiana», Roma, serie XIII, vol. VI, 2013, p. 405.

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versus un’amministrazione municipale che, di volta in volta, privilegia le esigenze degli uni o degli altri»46. La città incarnata dalle classi medie è profondamente mutata rispetto alla conformazione produttiva e sociale degli ultimi decenni del secolo scorso. Non è più industriale e non è diventata post-industriale. Ha condiviso la generale terziarizzazione del Paese, alimentata dalla transizione post-fordista, al di fuori di uno schema di sviluppo capace di riconvertire esperienze e competenze del settore manifatturiero negli ambiti produttivi dischiusi dall’avanzare di una nuova stagione tecnologica. Si è lasciata attraversare da mezzi di trasporto che ne esaltano la bellezza (la «metropolitana dell’arte») e ne esibiscono il rango e il retaggio di metropoli europea. Ma la sua classe media difende con difficoltà le conquiste raggiunte e consolidate: la casa, l’istruzione per i figli, il benessere minimo che le trasformazioni post-belliche dell’economia erano riuscite a garantire a fasce sempre più ampie di popolazione. Oggi si avvertono come deboli e indifese, vedendo disgregarsi l’impianto che ne aveva definito l’identità sociale: il riferimento di quartiere, i modelli di consumo, la mobilità, la tenuta dell’ordine urbano messo alla prova – perfino – dal potenziamento dei mezzi di comunicazione. Con la «metropolitana dell’arte» cambia la mobilità dei cittadini e si ridefinisce la graduatoria delle valutazioni immobiliari delle abitazioni, sensibili, adesso, anche alla dislocazione delle stazioni nel sistema di trasporti cittadino.

46   L. D’Alessandro, Elementi indiziari per lo studio dei nuovi paesaggi del consumo: i giovani del quartiere Chiaia a Napoli, in L. Viganoni (a cura di), A Pasquale Coppola. Raccolta di scritti, Società geografica italiana, Roma 2010, p. 428.

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La più ampia area di riferimento della borghesia impiegatizia e professionale, il Vomero, con le propaggini della città insediata sui Colli Aminei, vede modificare il suo ruolo trainante nella modernizzazione urbana, per diventare nodo di smistamento tra le periferie e i poli dello svago e del consumo della città turistica e altoborghese. I circa 1.600 esercizi artigiani sono in crisi, per effetto dell’aumento dei canoni di locazione. Dopo essere stato fruitore «di standard elevati di qualità della vita e di un tasso soddisfacente di funzioni urbane», e avere esercitato «un potere di attrazione abitativa enorme», questo quartiere – osserva Aurelio Musi – è costretto a ridefinire le funzioni urbane e la sua stessa identità47. Subisce i contraccolpi occupazionali della lunga recessione e si mobilita per manifestare in difesa della legalità e dell’ordine pubblico, contro la presenza invasiva delle baby gang e del racket dei lavori pubblici. Ma è anche costretto a ripensarsi come spazio privilegiato del più ampio insediamento pubblico e privato della sanità meridionale. Il Policlinico, le principali sedi ospedaliere, l’insieme capillare di strutture e servizi per la diagnostica e le cure convenzionate subiscono, per effetto delle politiche regionali, una severa stretta alla gestione finanziaria. Incarnano, adesso, il teatro del disagio e delle difficoltà di migliaia di medici e paramedici, coinvolti dalla contrazione delle risorse e penalizzati dalla limitazione del turnover imposta dalla politica universitaria. L’altra faccia di una condizione patita dai tanti concittadini che sperimentano, sulla propria pelle, il ridimensionamento, in termini di costi e di qualità delle prestazioni, del welfare sanitario, oltre che l’in47   A. Musi, Un quartiere alla ricerca dell’identità perduta, «la Repubblica. Napoli», 20 novembre 2014.

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dizio di dinamiche economiche e sociali che la politica riduce a mera contabilità sanitaria e che sono, invece, prioritarie per la comprensione di quanto si muove nella città «di mezzo». Il rapporto tra professioni e spazio, e nello specifico tra medici e istituzioni sanitarie, ci porta, del resto, a più ampie riflessioni sulla crisi dell’università, un’istituzione che occupa un ruolo strategico nella formazione della borghesia cittadina e nella definizione della cosiddetta «società civile». I cinque atenei napoletani, Federico II in testa, danno lavoro, con il Comune, alla più estesa compagine di colletti bianchi della città; rappresentano l’anello di congiunzione tra i livelli alti e quelli bassi di vecchie e nuove reti professionali e, resistendo ai colpi avversi del riformismo di destra e di sinistra, cercano di sopperire alla contrazione delle risorse, ai turnover bloccati, alla mancanza di «vocazioni», che rendono sempre meno competitivo e appagante, anche a Napoli, il mestiere di chi insegna e fa ricerca nell’università. Una condizione di «declino» che la recente e documentata ricognizione sullo stato dell’alta formazione, coordinata da Gianfranco Viesti, ha individuato tra le cause fondanti dell’estendersi dei divari territoriali48, ma anche un «caso» da valutare alla luce di specifiche condizioni ambientali. L’indebolirsi di questo pilastro portante dell’edificio sociale e culturale non impedisce che nei laboratori e nei centri di ricerca made in Naples si continuino a registrare elevati livelli di produzione scientifica, che in alcuni ambiti specifici sventoli il vessillo dell’eccellenza napoletana, che, soprattutto – come si vedrà meglio in seguito –, siano ancora i secolari atenei

  G. Viesti, Il declino dell’Università, Donzelli, Roma 2016.

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della città a dischiudere le porte di carriere professionali e scientifiche, destinate a svolgersi, per tanti giovani, in un lontano altrove. È anche vero, però, che un tale patrimonio di risorse non ha concorso ad arginare e contrastare il declino urbano dell’ultimo ventennio. Le emergenze di oggi suscitano reazioni individuali, riflessioni e dibattiti accesi sulle pagine locali, ma non determinano mobilitazioni istituzionali né collocano al primo posto, nell’ordine del giorno dell’agenda di qualificati consessi scientifici, il tema della rigenerazione sociale e culturale di vaste fasce della popolazione urbana. La scuola abbandonata a se stessa, il contesto criminale lasciato alla pratica della professione forense, ma raramente monitorato e indagato nei suoi risvolti socio-antropologici, la città d’arte intesa come teatro di sofisticata sperimentazione intellettuale, raramente accompagnata da una sapiente valorizzazione economica del patrimonio artistico, ma anche l’internazionalizzazione costretta, ancora, nei canoni della preparazione prettamente linguisticoletteraria, sono sintomi della riluttanza dell’università a confrontarsi con i problemi e le esigenze della popolazione studentesca, reinventandosi organizzativamente e culturalmente. Certo, anche su questo terreno non mancano le novità: l’Università Federico II ha presentato il primo bilancio delle attività svolte dall’ateneo per la formazione dei giovani e lo sviluppo del territorio49. E il suo rettore, Gaetano Manfredi, ha invitato recentemente gli atenei ad «aiutare la città di Napoli a cogliere l’opportuni49   A. Lomonaco, Federico II, De Luca promette: «Fermeremo l’emorragia degli studenti», «Corriere del Mezzogiorno», 1° dicembre 2015.

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tà offerta dal valore immenso del proprio patrimonio culturale»50. A tutto ciò vanno aggiunti il primato europeo della piattaforma pubblica di corsi on line, realizzata per iniziativa del politologo Mario Calise, e l’accordo con la Apple per istituire, proprio a Napoli, una scuola di formazione degli sviluppatori di app, la prima in Europa. Altri atenei fanno, in tal senso, la loro parte. Ma, tutti, senza alcun coordinamento per venire incontro a più specifiche richieste della vasta platea studentesca: migliorare i servizi, abolire le inutili duplicazioni, orientare e selezionare l’accesso all’alta formazione in vista delle prospettive occupazionali, interagire, infine, col mondo della scuola per sostenerne l’impegno messo costantemente in discussione, nella terra di Gomorra. Un ritardo che si rispecchia nell’immagine civile e culturale della città borghese, alterata dal rarefarsi delle energie intellettuali che, in passato e dal suo interno, ne avevano favorito lo sviluppo culturale e civile. Un processo difficile da mettere a fuoco. Non mancano i segni del capillare e diffuso fremito di iniziative economiche e culturali o della propensione a sperimentare ed eccellere nel settore delle arti e dello spettacolo di tanti vecchi e giovani talenti. Tuttavia sappiamo poco delle sensibilità collettive, delle aspettative e del vissuto individuale delle classi medie napoletane: un’area sociale apparentemente circoscritta nelle sue articolazioni ambientali, ma in realtà aperta alla condivisione di linguaggi, fogge, rituali sportivi e musicali che oltrepassano preclusioni e barriere. L’effetto è dirompente e induce alle più pessimistiche considerazioni. «Non ci sono più 50   G. Manfredi, L’Università Federico II e la città, in O. Ragone (a cura di), Quaranta voci per Napoli, «Quaderni del Circolo Rosselli», a. XXXVI, fasc. 124, 2016, n. 1-2, p. 103.

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‘le due città’ – osservava Giuseppe D’Avanzo –, quella plebea e quella ‘illuminata’: la popolare e la colta. Non c’è più differenza tra la plebe metropolitana delle periferie e del ventre cittadino, distruttiva, autodistruttiva, aggressiva, e l’élite borghese, colta, aggrappata a eccellenti modelli culturali. L’intera città si è fatta lazzara... La plebe ha vinto»51. Senza arrivare a tanto, si può osservare che sono mutati gli standard delle canoniche distinzioni di classe, riconducendo una gioventù stremata dalla mancanza di lavoro, e pericolosamente esposta alle sollecitazioni malavitose, alla condivisione di gusti e comportamenti rivelati dalla chiassosa presenza sul «lungomare liberato»: un misto di povertà ed esuberanza giovanile che caratterizza uno dei volti possibili della Napoli odierna. Commentando le reazioni suscitate dalla seconda serie della fiction Gomorra, Marco Demarco mette in evidenza il diffondersi, presso gli «altri», i figli della borghesia, di atteggiamenti, modi di vestire e di parlare simili a quelli dei personaggi del racconto criminale52. Tornano in gioco l’immagine della città e la rappresentazione delle sue poliedriche componenti sociali. Tra queste ultime, rimane indefinito l’assetto delle vecchie e nuove upper classes, abbarbicate ai luoghi «classici» dell’oleografia napoletana: a Chiaia e Posillipo, certo, ma in maniera più diffusa e discreta, ai palazzi vista mare su corso Vittorio Emanuele, via Tasso e via Petrarca. Affacciati in file sovrapposte sulle colline di fronte al golfo, incarnano il traguardo immaginario dell’afferma-

51   G. D’Avanzo, Barbarie nella città morente, «la Repubblica. Napoli», 1° novembre 2006. 52   M. Demarco, Gomorra e il rischio dell’emulazione, «Corriere della Sera», 13 maggio 2016.

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zione sociale e ne definiscono accessi e gerarchie. Qui transitano, fin dai primi decenni del secolo scorso, in coincidenza con i cicli del successo economico e politico, i protagonisti di una «Napoli bene» che ha abbandonato, da tempo, i grandi «palazzi» signorili del centro storico e, per ora, non pensa a tornarci. Oggi si rinserrano «nei loro parchi chiusi che – osserva Thomas Pfirsch – costituiscono un terzo spazio elitario napoletano, molto frequente nella parte alta del quartiere Chiaia e in periferia»53. Un mondo che l’instabilità economica di fondo rende precario e aperto a intrusioni e innesti, ma che vuole coltivare le aspirazioni degli happy few che, a Milano e a Roma, celebrano i nuovi riti della visibilità e della legittimazione di status economici e sociali. In tal senso va interpretato il contributo di una serie televisiva molto discussa. Lucky Ladies è un format che vede protagoniste alcune signore della società napoletana che si rappresentano sul set nella loro autentica vita familiare e professionale, ma riviste dalla sceneggiatura in altre da sé, per linguaggio, pose, accesa emotività. Il racconto delle amicizie, degli amori, dei conflitti che si scatenano nelle ville di Posillipo, tra un ballo e l’altro nei locali alla moda o nei circoli nautici, non è stato del tutto apprezzato. Si è osservato che la caricatura della napoletanità delle disinvolte protagoniste altera l’immagine della città e spinge al confronto con la Napoli del serial Gomorra. Al di là della superficialità e dell’attendibilità umana e psicologica dei personaggi, si può osservare che, se la trama esasperata delle vicende personali e professionali delle interpreti non è del tutto attendibile, risulta verosi53   Th. Pfirsch, La città frammentata, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città, cit., p. 267.

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mile il contesto ambientale, professionale e culturale in cui le protagoniste si muovono. La loro Napoli riguarda il mondo degli affari, dell’arte, delle case di moda, del design, del divertimento, che dà forma – come vedremo meglio – a uno degli aspetti dinamici della città dei nostri giorni. Le case, gli studi, i negozi e i circoli culturali ci restituiscono l’immagine di un’elité che tende più ad autorappresentarsi che a riconoscersi come tale. Camuffamento di una «piccola bellezza» che ritorna nei patinati format che pubblicano lo storytelling delle vicende di produttori, finanzieri, affermati professionisti, gente di spettacolo, esasperando i riti societari o familiari e rivelando la fondamentale corrispondenza tra fiction e realtà di una certa città alto-borghese. Si tratta del tentativo di rappresentare alcune componenti della società napoletana. La città marginale e quella mediana si sono avvicinate, superando antiche distinzioni di classe, ma esponendosi a potenziali conflitti che la politica non percepisce né media. I connotati politici di questi universi rimangono indecifrabili. L’analisi degli orientamenti elettorali delle circoscrizioni delle middle e upper classes indica, per l’ultimo decennio, modi diversi di reagire alla fine del ciclo bassoliniano. Se la Napoli di Chiaia e di Posillipo si colloca prevalentemente a destra, il cuore dell’elettore del Vomero e di Fuorigrotta batte perlopiù a sinistra, assecondando un trend che, dopo aver visto l’affermazione, alle elezioni del 2011, della squadra di Luigi de Magistris e quella, del 2014, del Pd di Renzi, si affida, nel 2015, al decisionista Vincenzo De Luca. La sua vittoria si accompagna all’estendersi dell’astensionismo e al consenso, crescente, verso le rivendicazioni del Movimento 5 Stelle. Poi la «svolta» delle ultime consultazioni, con la ­66

riconferma, a giugno 2016, della linea «antagonista» di Luigi de Magistris. Il suo successo è indubitabile. Si fonda sul disfacimento dei partiti tradizionali e sulla capacità di far presa sulle aree sociali che avevano accompagnato il progetto di rinnovamento della «stagione dei sindaci», allentando le briglie sulla città vitale e creativa che si sintonizza con la wave musicale, artistica e cinematografica, ma anche attestandosi sull’«ultima spiaggia» del ribellismo periferico. Nell’interpretare gli esiti di queste scelte Isaia Sales parla di rivolta dei ceti medi come risposta al fallimento della politica locale e alla delusione per l’abdicazione della sinistra italiana «alla questione meridionale e al farsi carico dei mali della sua capitale»54. E Aurelio Musi aggiunge che gli elettori non hanno «riconosciuto nessun simbolo alternativo capace di mobilitare sensibilità, umori, sentimenti, requisiti necessari per conquistare consensi»55. L’adesione, frutto di sentita convinzione o, semplicemente, di ripicca e delusione, è larga. Gli «arancioni» conquistano 27 quartieri su 29. Il sindaco vince all’Arenella, al Vomero, roccaforti del suo elettorato, e poi nel centro storico, a Bagnoli – anche se, rispetto al 2011, 78.823 napoletani gli voltano le spalle56. Al ballottaggio, osserva Luciano Brancaccio, ha disertato «le urne circa il 70% dei cittadini della periferia nord, est, nord-ovest e dei quartieri più centrali a maggioranza di popolazione svantaggiata», costringendo la base elettorale degli arancioni entro l’area dei ceti medi «dei quartieri cen54   I. Sales, Se il ribellismo del ceto medio rievoca le colpe della sinistra, «Il Mattino», 19 maggio 2016. 55   A. Musi, Perché de Magistris è in vantaggio, «la Repubblica. Napoli», 12 giugno 2016. 56   M. Capone, Arancioni: 27 quartieri su 29, «Il Mattino», 21 giugno 2016.

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trali più sensibili alla mobilitazione connotata in senso ideologico e identitario»57. Il voto non adombra solo il rifiuto di chi si astiene, ma fa emergere anche la frattura tra politica locale e nazionale: Napoli si isola politicamente e culturalmente dal resto del Paese. Una separazione che sembra ricomporsi in occasione del referendum del 4 dicembre. La città respinge le modifiche costituzionali e manifesta, con l’intero Mezzogiorno, la «rabbia» che mette fuori gioco il governo del premier. Una «miscela di saldature politiche strumentali – osserva Ottavio Ragone – e di protesta sociale»58. I dissidenti prevalgono in città e nell’intera area metropolitana, con una lieve controtendenza nelle ‘isole’ di Chiaia e Posillipo. De Magistris ne esce rafforzato, ma c’è da interrogarsi sulla rispondenza tra il modo di percepirsi e rappresentarsi di vaste aree sociali e le reali condizioni della città, ricostruite attraverso l’analisi della sua morfologia sociale e produttiva. Le constatazioni di questa realtà parlano di una metropoli disastrata, ma non perduta. Le testimonianze raccolte in Lo stato della città, le Quaranta voci selezionate da «Repubblica. Napoli», gli studi, recentemente pubblicati, di Napoli oltre la crisi. Un futuro possibile59, attestano che l’ala nera di Gomorra si stempera in sottili incrinature che lasciano intravedere qualche spiraglio, senza indulgere a facili ottimismi. Napoli sembra ancora nella morsa del declino urbano e civile, ma ha in ser  L. Brancaccio, Periferie, la rabbia dell’astensione, «la Repubblica. Napoli», 25 giugno 2016. 58   O. Ragone, La rabbia sociale dietro il no, «la Repubblica. Napoli», 6 dicembre 2016. 59   Cfr. L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città, cit.; O. Ragone (a cura di), Quaranta voci per Napoli, cit.; M. D’Antonio (a cura di), Napoli oltre la crisi, cit. 57

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bo qualche sorpresa. Distogliendo lo sguardo dalle più canoniche articolazioni sociali per cogliere la tumultuosa vivacità dell’attuale stagione culturale, esplorando il mondo della nuova morfologia manifatturiera, prendendo consapevolezza della dimensione metropolitana e degli effetti dirompenti di una dinamica demografica che scambia capitale umano in uscita con forza lavoro extracomunitaria in entrata, ci accorgiamo che ci sono altri volti da scrutare e studiare prima di ricomporre l’immagine dell’attuale identità urbana intorno al totem di un ritrovato protagonismo municipale.

III

OLTRE IL FORDISMO

1. L’industria in mezzo al guado Napoli conserva i tratti di città industriale anche quando il sistema manifatturiero si scompagina per effetto della recessione degli anni Settanta del Novecento. La riconversione della fabbrica fordista alle dimensioni e al profilo della piccola scala produttiva fallisce, naufragando nella smobilitazione dell’impresa pubblica e nella trasformazione di assetti occupazionali e finanziari. La città perde, dunque, i tratti di capitale del Mezzogiorno operaio, vive la desertificazione della sua area orientale e abbandona alla ruggine lo scheletro dell’Italsider sul mare di Bagnoli. La cessione del Banco di Napoli completa il processo, privandola del sostegno di un autonomo sistema finanziario. Di conseguenza gli scenari cambiano. Il vuoto manifatturiero del capoluogo viene riempito dall’insediamento di nuove filiere produttive nell’area provinciale, consentendo la sopravvivenza di una più ristretta base e riesumando antiche vocazioni manifatturiere. Una continuità documentata dalla ricognizione effettuata in occasione della celebrazione del bicentenario della nascita della Provincia. Questa indagine attesta che la ripresa del comparto della piccola scala produttiva si verifica grazie alla radicata cultura e ­70

al saper fare artigiano nei settori tessile e calzaturiero e si accompagna alla tenuta, almeno parziale, della manifattura metalmeccanica e di un’industria armatoriale destinata ad affermarsi sui mercati internazionali1. Rimane fuori dal quadro generale il settore protagonista delle grandi trasformazioni territoriali: l’edilizia. Esprime la comunità imprenditoriale più radicata e coe­ sa, ma anche la più demonizzata. I fasti e i guasti, che per oltre un secolo ne accompagnano l’evoluzione, risalgono alla propensione degli imprenditori del mattone a vivere la stagione della ricostruzione urbana dell’ultimo dopoguerra e, ancor prima, del Risanamento come inevitabile coinvolgimento nei giochi della politica. In quelle esperienze il «cantiere come fabbrica» avrebbe lasciato le sue tracce, devastanti e permanenti, sul corpo vivo della città. Sarebbero sopravvissute a quelle, più caduche, degli stabilimenti fordisti, imprimendo nell’immaginario collettivo locale i tratti ostili di un ceto forte e spregiudicato, pur riconoscendo l’importanza dell’edilizia nel complesso del suo sistema produttivo2. A circa un quarto di secolo dall’ultimo sacco di Napoli, dopo riconversioni dolorose, cambi di scenario, innesti rigeneranti e pentimenti, più o meno sinceri, l’essere imprenditori edili continua a costituire una forma ben radicata del mondo economico e l’edilizia si conferma nevralgica per l’universo sociale e professionale che si muove intorno alla rigenerazione urbanistica della città.   P. Frascani, A. Vitale, Attività produttive, in Due secoli della Provincia, due secoli nella Provincia, catalogo della mostra per il bicentenario della Provincia (Napoli, 25 settembre-15 novembre 2007), Paparo, Napoli 2007, vol. II, p. 62. 2   Cfr. P. Frascani, Costruttori e imprenditori a Napoli, tra ’800 e ’900: il farsi di un’identità, in «Annali di Storia dell’impresa», 2007, vol. 18, pp. 365-383. 1

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Certo, la crisi non fa sconti a questo settore. Dal 2007 al 2014, gli investimenti in costruzioni nella provincia di Napoli sono calati da 5.010 a 3.798 milioni di euro, perdendo il 30,5% del loro valore, mentre le autorizzazioni per costruire nel mercato privato si sono più che dimezzate3. Ma questo trend non fiacca la vitalità di un’impresa aperta sul piano internazionale e partecipe, con studi e proposte, alla definizione di nuovi scenari urbani. Parliamo del Distretto ad alta tecnologia per le costruzioni sostenibili (Stress), un insieme di enti pubblici, consorzi e imprese che operano su scala nazionale, con sede a Napoli, per il recupero dei centri storici e degli edifici di pregio, impegnandosi nella progettazione e nella circolazione di know-how e competenze4. Il radicamento «storico» sul territorio si conferma anche nel caso degli armatori sorrentini. La tradizione dei comandanti della penisola è stata valorizzata dalle famiglie che hanno prima fatto crescere e poi esportato il brand di aziende ormai leader mondiali nel trasporto per mare e nella crocieristica. L’internazionalizzazione del comparto ha trasferito le sedi e la leadership delle compagnie in lontani centri finanziari, ma non ha sradicato il rapporto col territorio. I comandanti e gli equipaggi continuano a essere reclutati nei comuni della costa vesuviana, mentre chi è rimasto a operare nel golfo, come la Mediterranean Shipping Company (Msc Crociere), della famiglia Aponte, esercita un ruolo strategico nel rilancio delle attività turistiche del porto di Napoli. E «l’industria»? Quella che per quasi un secolo ha dato corpo ai sogni modernisti di tanti intellettuali e po  Dati del Centro studi Acen, 2014.   Cfr. P. Cacace, Edilizia. A Napoli c’è Stress, «Corriere della Sera. Mezzogiorno Economia», 14 marzo 2016. 3 4

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litici napoletani? Chi ne ha ricostruito recentemente le tracce non parla della sua rarefazione, ma si sofferma a delinearne la complessa e differenziata morfologia produttiva. Nel 2010 la provincia di Napoli copre un’area di 92 municipi abitata da tre milioni di persone, raggruppa il 50% degli esercizi manifatturieri della Campania e oltre il 18% dell’intero Mezzogiorno. Un «sistema», scrive Paola De Vivo, che si configura «come la composizione di più aggregati di economie industriali, differenti per la tipologia di specializzazione, per la concentrazione territoriale, per i tempi impiegati nei loro processi di formazione e consolidamento»5. E che è regolato da una «divisione del lavoro» tra lo spazio della manifattura più antica (meccanica, aeronautica, cantieristica), concentrata a Casoria, Arzano, Castellammare di Stabia, Pozzuoli, e quello che coincide con le produzioni, altrettanto affermate, dell’abbigliamento e del calzaturiero di Grumo Nevano, Gragnano, San Giuseppe Vesuviano. La crisi incalza, ma in misura differente tra settore e settore. Tra il 2001 e il 2010 il numero dei laboratori industriali diminuisce del 16,7% (da 18.848 a 15.700)6. Una cifra significativa, ma che non compromette l’articolazione del sistema. A un gruppo di medie e grandi imprese, capaci di rinnovarsi in epoca di recessione, si contrappone una miriade di aziende che tardano ad adattarsi alle nuove condizioni di mercato, perdendo colpi. Si va quindi, come recita il «Bollettino di statistica» della Camera di commercio, verso la selezione e lo sviluppo «di forme imprenditoriali più evolute», quali

5   Cfr. P. De Vivo (a cura di), Settori di specializzazione del territorio della provincia di Napoli. Incentivi e strategie di policy, Centro studi Unione industriali di Napoli, Napoli 2014, p. 10. 6   Ivi, p. 24.

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le società per azioni7, e ci si attesta, secondo le statistiche nazionali, su forme di organizzazione settoriale che rendono alcuni comparti della «manifattura» locale competitivi su scala nazionale e internazionale. È il caso del successo conseguito nel 2015 dallo stabilimento del gruppo Fiat-Chrysler di Pomigliano d’Arco, che produce la Panda. Si accaparra il primato delle vendite in Italia, con un incremento su base annua del 21%, dimostrando la validità del sistema organizzativo e contrattuale, concordato attraverso un faticoso confronto con i sindacati, e raggiungendo riconoscimenti internazionali per i risultati ottenuti8. Su scala più ampia, anche il polo aeronautico e i distretti tecnologici si sono imposti all’attenzione degli osservatori economici. Ma procediamo con ordine. Il settore aeronautico napoletano costituisce un elemento fondante dell’industria meccanica del Mezzogiorno. Un polo industriale che si colloca ai primi posti delle produzioni tecnologicamente avanzate, integrato a livello internazionale e sostenuto dalla presenza di centri di ricerca di eccellenza, dedicati al settore aerospaziale. Le rilevazioni della sua performance produttiva e finanziaria ne testimoniano i risultati per l’ultimo quadriennio. Eppure non mancano le criticità: Alenia, capofila di una serie di piccole e medie imprese, ne regola il funzionamento attraverso una gestione tipica del settore pubblico (Finmeccanica). Naviga con qualche difficoltà in tempo di crisi, rimanendo subordinata a logiche industriali estranee alle esigenze del territorio e pressata dai

7   Camera di commercio di Napoli, «Bollettino di statistica», 2012, p. 9. 8   Cfr. N. Santonastaso, Boom Panda, Pomigliano diventa modello italiano dell’auto, «Il Mattino», 7 gennaio 2016.

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condizionamenti ambientali. Ne scaturisce la diversa capacità di reazione del «sistema» di fronte alla recessione. Gli esercizi medio-piccoli, fornitori di secondo livello, migliorano la competitività tramite innovazioni di prodotto e di gestione. Invece la miriade di piccole realtà alla base della piramide produttiva, e legate all’Alenia in rapporti di subfornitura, perdono in competitività, irrigidite nei processi produttivi e bloccate da condizionamenti sociali e politici. Elementi tutti che giustificano la difficoltà di intraprendere percorsi di internazionalizzazione. Un difetto riconducibile, secondo esponenti del settore e del mondo della ricerca, alla mancanza di una politica industriale su scala regionale e all’impossibilità, quindi, di contrastare il primato di altre regioni italiane (ne è un esempio l’attribuzione allo stabilimento di Grottaglie, nel 2006, della commessa per la realizzazione della fusoliera del B787 Dreamliner). Conta, però, anche la scarsa propensione a puntare su vantaggi competitivi facendo «sistema» o «massa critica», attraverso la cooperazione tra le imprese locali9. Ciononostante, non mancano segnali innovativi: la presenza del polo aeronautico stimola iniziative collaterali e facilita fusioni e collaborazioni. Imprenditori esterni al sistema Alenia, interessati a potenziare la presenza della meccanica Avio sul territorio, operano, sul piano finanziario, per rafforzare la rete campana del settore aeromeccanico. Nel giugno 2015 viene creato un polo per la manutenzione degli aerei, costituito dall’Atitech dell’imprenditore Gianni Lettieri e dall’Alenia di

9   Cfr. P. De Vivo, L’aeronautica in Campania, in Id. (a cura di), Settori di specializzazione del territorio della provincia di Napoli, cit., p. 27. Sul tema si veda ora, della stessa autrice, L’industria del Sud. Radici e prospettive dell’aeronautica in Campania, «Meridiana», 2016, n. 84.

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Capodichino. Il polo si prefigge di attirare investimenti italiani e stranieri e riconvertire gli spazi esistenti nel vecchio aeroporto napoletano. Dal 2010, poi, opera dalla sede centrale di Pozzuoli, con filiali in Piemonte e Lombardia, il gruppo Ala, leader in Italia nel campo della distribuzione e della logistica nel settore aerospaziale. L’azienda si espande su scala internazionale, sperimentando «modalità di fornitura ‘just in time’ dei materiali direttamente sulle linee di alimentazione del cliente, in base alla pianificazione dei fabbisogni», e registra tassi annuali di crescita del 30%10. La più nota K4A, impresa di Ponticelli che costruisce elicotteri, nel 2014 ha siglato un’intesa per impiantare in Cina una fabbrica per lo sviluppo di un mezzo di tipo nuovo. L’idea, dichiara alla stampa Dario Scalella, fondatore di K4A con l’amministratore delegato Valentino Alaia, «è quella di contribuire allo sviluppo del nostro territorio facendosi anche bandiera all’estero della migliore tradizione del made in Campania e del made in Italy»11. Ora si rafforza, sul piano finanziario, acquisendo quote di capitale della società Lazio Innova e si rivolge ai mercati dell’India e dei Paesi arabi. Nel febbraio del 2016 il 2% del capitale della società passa nelle mani di Al Tayer, imprenditore di Dubai, attraverso una transazione del valore di circa due milioni di euro. Sono tutte iniziative che si affiancano a quelle realizzate da altri settori industriali avanzati, i quali spingono l’interazione tra il sistema della ricerca e il mondo produttivo oltre l’aeronautica. Emblematico è il caso del Polo dei trasporti campa-

10   Cfr. G. Ausiello, Innovazione. Tecnologie, la sfida di ALA dalla Campania agli USA, «Il Mattino», 27 settembre 2015. 11   Cfr. S. Governale, Elicotteri high-tech, K4A vola verso l’Asia, «Il Mattino», 24 maggio 2015.

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no, che gravita intorno al Distretto alta tecnologia trasporti e logistica (Dattilo). Si tratta di una realtà produttiva a tecnologia avanzata che lavora sullo sviluppo delle green technologies e sperimenta soluzioni innovative nell’ambito dei sistemi di monitoraggio e sicurezza dei veicoli e di porti e aeroporti12. Un contesto che ha visto nascere anche forme di collaborazione tra le imprese e i dipartimenti universitari di Medicina, Ingegneria e Fisica, nell’utilizzazione della ricerca nei settori della biotecnologia (Ceinge) o della fisica dei materiali. Il distretto tecnologico di ingegneria dei materiali (Imast) è stato costituito per connettere la rete di ricerca napoletana e internazionale all’area delle tecnologie industriali avanzate, delle life sciences e dei materiali, nonché alle iniziative imprenditoriali che, dentro e fuori il territorio, se ne ripromettono l’applicazione ai processi industriali. Il Databenc, distretto per i beni culturali, è composto da 60 soggetti, tra imprese, istituzioni e università, che «programmano strategie per la conservazione, la valorizzazione e fruizione dei beni culturali e per la tutela dei patrimoni ambientali e del turismo». Il distretto delle biotecnologie (Campania Bioscience), infine, raccoglie le imprese operanti nel settore farmaceutico e della diagnostica, con punte nel settore agricolo e alimentare, mirando a radicarsi nel territorio e ad affermarsi su scala internazionale. Una vocazione che, almeno sulla carta, coinvolge tutti i protagonisti – numerosi – dell’interazione tra ricerca e impresa sul territorio, ma anche un’aspettativa disattesa. Non c’è stata la necessaria spinta propulsiva. Nel comparto delle biotecnologie, ad esem12   P. Cacace, Trasporti. La Campania cresce, il polo fattura fino a 8 miliardi, «Corriere della Sera. Mezzogiorno Economia», 21 marzo 2016.

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pio, è emersa la difficoltà di trasferire know-how alle attività produttive, per debolezza strutturale del comparto e scarsa corrispondenza nel mondo della ricerca scientifica. In generale è mancata la presenza decisiva della componente imprenditoriale e va perfezionata la collaborazione tra università e imprese. Il patrimonio di competenze e di risorse, ereditato da più di un secolo di sviluppo manifatturiero, è sopravvissuto, almeno parzialmente, alla deindustrializzazione, ma deve essere messo a frutto uscendo dal guado dei condizionamenti finanziari, logistici e organizzativi e mettendosi «in rete» con gli altri settori della manifattura napoletana. Questi ultimi sono riusciti a emergere dall’economia sommersa o residuale dell’antico sistema industriale napoletano. A Grumo Nevano, Gragnano, San Giuseppe Vesuviano, per quel che riguarda i settori dell’abbigliamento e del calzaturiero, è dislocata una miriade di imprese, grandi e piccole, ben inserite nel territorio. Non si tratta della semplice clonazione del modello di Prato all’ombra del Vesuvio, ma del successo di marchi di eccellenza, radicati nelle comunità della fascia costiera, che competono, a livello nazionale e internazionale, nei comparti dell’alimentazione e dell’artigianato di qualità. I poli delle calzature e dell’abbigliamento di moda figurano tra i pochi formalmente riconosciuti del Mezzogiorno e si caratterizzano per la capacità di impiegare quote di manodopera a basso costo e, allo stesso tempo, essere presenti nella catena di produzione, distribuzione e consumo dell’Italian style. Sono realtà produttive che vantano un passato di esperienze artigianali a lungo vitali per l’economia provinciale. Produrre scarpe è stato da sempre, a Napoli, un qualificato modo di manifestare le capacità artigianali del luogo. Dopo il periodo di dispersione dell’ultimo ­78

decennio questa attività ha saputo ritrovare l’energia e il vigore per piazzarsi ai primi posti della classifica nazionale dei distretti. Nel rapporto del 2014 della Direzione studi e ricerche dell’Istituto San Paolo, figura all’ottavo posto per crescita e redditività. In quello dell’anno successivo il fatturato dell’export fa registrare un aumento del 2,1% rispetto al 2014. Trainato dall’incremento dell’export, dagli investimenti esteri e dall’innovazione, il polo calzaturiero dell’area di Grumo Nevano-Aversa copre una superficie di 158 kmq, coinvolge 23 comuni e un totale di 7.000 imprese e 15.000 addetti, fornisce grandi marchi internazionali – come Vuitton, Gucci, Dior, Prada, Fendi, Givenchy – e affronta importanti scelte strategiche. Di fronte alla miriade di esercizi di piccola e media dimensione industriale si affermano nuove figure imprenditoriali: esponenti di una generazione che ha innovato nell’ambito della produzione e della distribuzione, «abbassando i costi per i clienti e costruendo reti di collegamento con le grandi imprese internazionali»13. La piccola dimensione ha fatto il resto, favorendo costi di esercizio più bassi. Un successo avvalorato dal riconoscimento, a livello nazionale, di una buona performance finanziaria. Ma non mancano ombre e dubbi da sciogliere. La lavorazione in conto terzi presenta rischi elevati. Secondo Pasquale Della Pia, titolare del marchio Deimille, si dovrebbe affermare il proprio brand «invece di svendere le proprie competenze. Si sono definite due fasce di mercato, cattiva qualità, soprattutto cinese, ed extralusso, e, in un caso o nell’altro, lavorando su commesse, si rischia di rimanere schiacciati dalla concorrenza 13   Cfr. Calzature, un business da 2 miliardi di euro, «Il Denaro», 4 marzo 2015.

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sleale (spesso contraffazione) o dai capricci dei grandi venditori»14. Un giudizio confermato dalle storie di successo degli out­siders che hanno scelto, come Della Pia o Scarfora, di puntare al mercato del lusso del made in Italy, selezionando per la vendita solo alcuni negozi. Per uscire dalla recessione, affermano, c’è una sola strada: l’internazionalizzazione. La crisi ha chiuso i canali del credito e indotto gli imprenditori più audaci a qualificare ulteriormente la produzione, ma in nome proprio. «Abbiamo scelto di continuare a lavorare per noi stessi e produrre con il nostro marchio», aggiunge Della Pia. Già prima della recessione, i laboratori calzaturieri di Grumo Nevano erano stati «spazzati» dalla concorrenza cinese, e oggi si reagisce mettendo al sicuro i risultati ottenuti con innovazioni di processo e prodotto. La crisi del settore, osserva Antonio Ricciardi, docente presso l’Università della Calabria, è stata affrontata spostandosi su un target medio-alto e la partita decisiva si gioca consolidando le posizioni che hanno portato le scarpe napoletane a New York o in Russia con i marchi che, per decenni, hanno riempito le vetrine dei negozi di via Chiaia o via dei Mille15. Anche il polo del tessile per l’abbigliamento, con una superficie di 109 kmq per un totale di poco meno di 120.000 abitanti, ha affrontato le acque agitate della crisi. Le sue origini risalgono al tempo in cui i venditori ambulanti della provincia utilizzavano uno spesso drappo di colore grigio o verde, la «bandinella», per avvolgervi le loro mercanzie, che vendevano nelle piazze della

14   Intervista di P. Cacace a Pasquale Della Pia in «Corriere del Mezzogiorno. Mezzogiorno Economia», 15 marzo 2015. 15   Cfr. A.P. Merone, Piccoli artigiani crescono, «Corriere del Mezzogiorno. Mezzogiorno Economia», 13 ottobre 2014.

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provincia. In seguito si sono colte le occasioni favorevoli del mercato e sfruttate le nuove opportunità tecniche per aggregare questo mondo in un sistema distrettuale, fondato su una filiera di piccole imprese che si dividono le fasi, a monte e a valle, del processo produttivo. Aziende, per lo più terziste, che lavorano per grandi società o famosi marchi, con presenze imprenditoriali diversificate. Un’indagine effettuata dall’Università «L’Orientale» di Napoli ha evidenziato il passaggio dagli italiani ai cinesi, per conto terzi, della produzione à façon del polo tessile napoletano. Nel frattempo alcuni imprenditori, già grossisti, si sono trasformati in produttori/ committenti, sperimentando un «outsourcing locale»: un pronto moda realizzato sotto il Vesuvio utilizzando manodopera a basso costo, materia prima importata e prodotto finale formalmente made in Italy16. Un passaggio dalla fase «esecutiva» a una «creativa» riuscito, almeno parzialmente: il nucleo più consistente del distretto, con oltre 160 imprese, risultava, fino a pochi anni fa, formato da aziende più grandi e strutturate (Baco Moda, Gigiesse, David o Amarea), commissionarie di grandi firme del Centro-Nord. Oggi le cose sono cambiate. Il settore tessile per l’abbigliamento si colloca, sul piano regionale, tra i comparti che, con l’agroalimentare e l’aeronautico, trainano l’export campano. I risultati lo confermano: secondo una rilevazione di Intesa San Paolo sui bilanci aziendali di un campione di 63 imprese di abbigliamento, tra il 2008 e il 2013 la variazione del fatturato è stata del 5,9% e la dimensione aziendale è cresciuta, in milioni di euro, da 16   Cfr. M. Sacchetti, Migranti cinesi in Campania, in M. Galluppi, F. Mazzei (a cura di), Campania e Cina. L’economia campana e il mercato globale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004, pp. 195-196.

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1,9 a 2,7%. La quota di debito finanziario sul fatturato è passata, nello stesso periodo, dal 64,3 al 63,4% e l’indice Ebitda dal 6,3 al 7%17. Un’analisi circoscritta alle 22 imprese più significative del comparto pone ai vertici, nella classifica tra le diverse performance, Piazza Italia, Capri Alcott, Original Marines, mentre si segnalano per l’incremento delle vendite (oltre il 20%) EnnepiZuiki, Kocca e Harmont & Blaine18. Tutto questo con ricadute sul lavoro che, per il complesso degli esercizi considerati, annovera 7.000 addetti. Il modus operandi di queste aziende si dipana su percorsi diversificati, ma riconducibili alle esperienze accumulate dalla sartoria napoletana. Il made in Italy targato Napoli rilancia, dunque, un patrimonio di tradizioni e abilità artigianali disseminate nel centro storico e in alcuni poli della provincia, e assurge a simbolo di distinzione e qualificazione nell’immaginario collettivo nazionale e internazionale. Il gruppo Carpisa-Yamamay (Gallarate-Interporto di Nola) ha dipanato un «filo immaginario» tra Nord e Sud e si muove su rotte internazionali. Presentando la campagna pubblicitaria con Penelope Cruz, il ceo Gianluigi Cimino afferma di voler «puntare con forza al Medio Oriente e rafforzare la nostra presenza in Spagna». Intanto l’impresa ha chiuso il bilancio a 157 milioni e figura in uno studio di Panbianco «tra le dieci imprese italiane dal fatturato più interessante»19. Sulla stessa strada si muove la maison di moda ma17   Cfr. Intesa San Paolo, Direzione Studi e Ricerche, Economia e finanza dei distretti industriali, dicembre 2014. 18   Cfr. Aziende a Piazza affari: 8 campane sono quotabili, «Il Mattino», 18 dicembre 2014. 19   Cfr. A.P. Merone, Carpisa punta al Medioriente, «Corriere del Mezzogiorno». 1° settembre 2016.

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schile Kiton che, dal quartier generale di Arzano, ha portato il marchio napoletano in tutto il mondo, con oltre 50 punti vendita monomarca, per approdare alla sede milanese di via Pontaccio e chiudere il 2015, secondo le previsioni dell’amministratore delegato Antonio De Matteis, con un fatturato in crescita del 9/10%20. Senza dimenticare la Cesare Attolini spa che, conservando la sede originaria a Casalnuovo (il paese dei sarti), ha visto crescere il fatturato al ritmo di oltre il 20%, attraverso un sistema di «clienti» qualificati che apprezzano la capacità di coniugare le nuove tecnologie produttive con il fare artigianale (lavoro eseguito a mano, in punta d’ago e forbice). Esperienze emblematiche di una transizione riconducibile a capacità organizzative e creative, focalizzate sulla progettazione e diffusione del prodotto. Chiuse, da tempo, le vetrine dei tradizionali fornitori di lane inglesi di via Toledo, oggi i sarti napoletani sbarcano a Londra o a Dubai ed entrano nel grande gioco della luxury fashion internazionale. Facendo ammenda della disattenzione che i mezzi di comunicazione e l’opinione pubblica nazionale, oltreché locale, hanno dimostrato verso questa realtà, Dario Di Vico ha riflettuto sulle caratteristiche del neapolitan style. Vi identifica due diversi modus operandi. Il primo, legato alla tradizione, punta «sulla qualità del prodotto, sul valore delle localizzazioni in Italia e sulla prevalenza dei negozi monomarca». Si tratta di imprese che rimangono legate al contesto originario, da cui dipendono per la disponibilità di una manodopera specializzata. Il secondo, come nel caso di Harmont & Blaine, guarda a 20   Cfr. l’intervista di Caterina Tuggi sul «Corriere della Sera» del 19 ottobre 2015.

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un pubblico più giovane e si propone di assecondarne esigenze e gusti. Entrambi hanno effettuato un salto di qualità sul piano della comunicazione e sperimentano un modello produttivo che «lascia nel napoletano l’ideazione e lo stile ma ricorre frequentemente alla produzione all’estero»21. Questi «fenomeni» sono messi sotto osservazione dagli studiosi locali. Raffaele Cercola traccia un vero e proprio modello: «si punta su un’idea e poi si scelgono i produttori, ad esempio in Cina. Ci si tiene la progettualità in maniera variegata». Un insieme di iniziative, valorizzate da un consistente investimento in comunicazione, che dà corpo «al quadro di una regione fortissima sul fronte del tessile e dell’abbigliamento»22. Ma che, bisogna ricordare, affonda, al di là delle eccellenze, nel sostrato di carenze e difetti, vecchi e nuovi, che connotano la manifattura napoletana. Il ritardato approdo del settore moda al tavolo dei grandi del made in Italy va imputato, secondo Giuseppina Auricchio, direttrice dell’Accademia della moda di Napoli, alla «pecca» degli imprenditori napoletani di avere «una visione un po’ limitata di ciò che possono fare; spesso non hanno un disegno di programmazione che li porta a fare gruppo con gli altri imprenditori e, quindi, a fare impresa»23. Uno sguardo, tra passato e futuro, che evidenzia difficoltà di «contesto» diffuse, nella larga platea di esercizi sub-commissionari e di botteghe artigiane.

21   D. Di Vico, Distretti a Napoli. I piccoli gab battono la crisi, «Corriere della Sera. Economia», 9 febbraio 2015. 22   Si veda l’intervista riportata in A.P. Merone, Moda a Napoli: non conosce crisi, «Corriere del Mezzogiorno», 14 febbraio 2014. 23   Cfr. C. Sorrentino, Napoli centro della moda, «ilmediano.it», 31 agosto 2015.

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2. «Se Steve Jobs fosse nato a Napoli» I flussi di una nuova iniziativa imprenditoriale – osserva Giuseppe De Rita – sono lontani da quelli degli anni Settanta, ma si possono vedere contiguità con il sommerso, la crescita di imprese a bassa soglia di ingresso (nella ristorazione nelle aree urbane come nell’agriturismo nelle zone rurali di qualità); abbiamo sempre più iniziative di lavoro in proprio delle donne giovani; abbiamo ormai più del 10% delle piccole imprese gestito da stranieri. Così non ci si può meravigliare se nel 2014 è continuato a crescere il numero delle nuove imprese (circa 370.000) mentre è diminuito (di 31.000 unità) quello delle imprese cessate: un trend che sembra non aver molto da invidiare a quel che avvenne in pieno processo di medializzazione24.

L’immagine dell’Italia che intravede l’uscita dal tunnel della crisi coincide con quella dell’operosa middle class della società del Centro-Nord. Essa rispecchia una vitalità e un dinamismo che difficilmente trovano riscontro nel Sud del Paese. Ma è proprio così? Possiamo accontentarci di questa percezione, prendendo atto dei disagi ambientali che si frappongono al fare impresa, evocando la debolezza degli animal spirits sotto il Vesuvio, sottolineando la limitata visibilità delle loro performance, per decretare, infine, l’impossibilità di operare, con coraggio e consapevolezza, in un’epoca di mercati integrati e di interdipendenze finanziarie? L’idea dell’«industria in mezzo al guado» che abbiamo scelto per rappresentare lo stato dell’impresa nell’area metropolitana suggerisce risposte più ponderate e realistiche.

24   G. De Rita, Mutato, ma sempre protagonista il nuovo volto del ceto medio, «Corriere della Sera», 21 febbraio 2015.

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Anche la Campania sta superando la crisi. Ma gli ostacoli non mancano. Nel 2015 il prodotto regionale, in termini reali, è lievemente aumentato. La spinta è stata impressa dai settori ad alta tecnologia e soprattutto, come sottolinea il rapporto della Banca d’Italia sull’economia regionale, dall’agro-alimentare. La crescita delle esportazioni è stata contenuta dal calo registrato negli scambi con la Russia e con l’Asia orientale, ma l’occupazione, «dopo un biennio di flessione, è aumentata nel 2015 e, parallelamente, è proseguito il processo di stabilizzazione dei rapporti di lavoro»25. Poi, nei primi nove mesi del 2016, i segnali di ripresa sembrano attenuarsi. Gli investimenti calano e le esportazioni rimangano invariate, anche se le aspettative degli imprenditori restano ancora favorevoli26. La manifattura rimane un cardine dell’economia napoletana. Vi sono state introdotte innovazioni di prodotto o di processo che hanno consentito di fronteggiare la crisi, a vari livelli, della scala produttiva. L’export regionale se n’è avvantaggiato, sfruttando l’onda lunga dell’affermazione di settori dell’abbigliamento di moda e del calzaturiero. Le cronache hanno dato spazio a questa Napoli che si avventura, proficuamente, sui mercati internazionali promuovendo i prodotti di una meccanica tecnologicamente avanzata, o assecondando i consumi di lusso. Marchi come Kiton e Marinella si sono conquistati, come tanti, un posto nell’immaginario collettivo delle upper classes europee, statunitensi, cinesi. E sono affiancati dai brand che ridanno smalto alle vecchie capacità manifatturiere della città. 25   Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia della Campania. Aggiornamento congiunturale, Roma 2016, p. 7. 26   Ivi, p. 5.

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Antimo Caputo, amministratore delegato dell’Antico Mulino Caputo, racconta che l’impresa produce farina dal 1924 e si conforma, oggi, alle esigenze e ai gusti del «consumatore estero». In Giappone, negli Stati Uniti, in Argentina, c’è un pubblico che chiede di essere conquistato dal richiamo della «pizza stile Napoli», prodotta nelle «aziende del territorio», che consolidano, in loco, la presenza della casa madre. Da qui una strategia di export, o una filosofia del consumo, che sa intercettare i gusti di una clientela che merita «il morso di una buona cosa»: il valore aggiunto – o il cavallo di Troia – per competere a livello internazionale27. E l’impresa Icab-La Fiammante, vincitrice del premio «Eccellenza dell’anno» – patrocinato, tra l’altro, dalla Commissione europea –, leader nella produzione e commercializzazione del pomodoro ed eccellenza del made in Italy, incarna bene la capacità di innovare e far crescere l’agroalimentare a sud del Garigliano, settore di punta dell’export campano nel 201528. Certo, parliamo di elementi significativi di una real­ tà industriale frammentata e disomogenea. Gli orizzonti dell’internazionalizzazione della manifattura locale vanno confrontati con la realtà di una piccola scala produttiva, incardinata nel tessuto sociale e ambientale della metropoli partenopea. La filiera della moda/ abbigliamento si ramifica in città fino ai margini di un

27   Un’Italia da export: la farina di Napoli che emoziona il mondo, intervista ad Antimo Caputo, 26 maggio 2015, http://www.youtube. com/watch?v=U6vrDYhonLA. Sul pastificio Caputo e sull’intero settore agroalimentare si veda L. Baculo, Tradizione e innovazione nell’industria napoletana, in M. D’Antonio (a cura di), Napoli oltre la crisi, cit., pp. 47-56. 28   Cfr. P. Cacace, Eccellenza dell’anno, «Corriere del Mezzogiorno», 10 luglio 2016.

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sommerso che costituisce l’area «grigia», tra lecito e illecito e tra formale e informale, che circonda – e a volte attraversa – il sistema produttivo della città. Il tema è oggetto di studio di una vasta letteratura specialistica. Gabriella Gribaudi, proiettando la presenza dell’impresa criminale sulla scala dell’economia globale, ne sottolinea il ruolo di supplenza nella destrutturazione dell’economia cittadina. Ha investito «il suo capitale sociale, economico e culturale nel grande mercato dell’illegalità che si è sviluppato a livello mondiale», configurandosi come «un fenomeno tipicamente ‘glocal’: dimensione internazionale e saldissime radici locali in un intrico inestricabile di modernità e tradizione»29. Ma il quadro è più complesso. Recentemente l’idea di una camorra che regola le dinamiche di mercato con l’uso della violenza è stata confrontata con una visione che evidenzia la capacità di alcuni imprenditori di interloquire, in modo paritetico, con il mondo del malaffare. Un’indagine interdisciplinare a più voci ha riportato in primo piano il ruolo svolto dal contesto e la forza esterna del mercato nella definizione di strategie criminali. L’impresa, la famiglia, le reti professionali, diventano elementi di un «sistema» in cui i legami malavitosi si rivelano «strutture sociali aperte in cui il livello criminale violento non è l’elemento sovraordinato»30. Questa considerazione è preliminare quando si tratteggia il quadro della geografia economica e sociale della manifattura napoletana. Investire, produrre, far

29   G. Gribaudi, Clan camorristi a Napoli: radicamento locale e traffici internazionali, in Id. (a cura), Traffici criminali, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 240. 30   L. Brancaccio, C. Castellano (a cura di), Affari di camorra. Famiglie, imprenditori e gruppi criminali, Donzelli, Roma 2015, p. xiv.

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muovere le merci, dentro e fuori la città, rimane impresa ardua, che costringe a confrontarsi, spesso fino alla resa, con gli ostacoli frapposti dal degrado urbano e dai fattori socio-ambientali. Una condizione che prevale, guardando all’universo delle piccole imprese che operano sul territorio metropolitano. Disastroso è il caso delle rovine industriali, che nei viluppi degli ex quartieri industriali di Napoli Est (Portici e Ponticelli) nascondono segmenti ancora consistenti della vecchia manifattura napoletana, in attesa, dopo decenni di colpevole abbandono, di essere riconvertiti a nuovi destini industriali. È bloccato da anni, ai nastri di partenza, un ambizioso progetto di riqualificazione urbana, promosso da imprese locali e nazionali (Nest). La fase preparatoria è stata accompagnata da un’inchiesta sullo stato delle piccole imprese operanti sul campo (223 esercizi, di cui 82 disposti a farsi intervistare). Si tratta di realtà (tipografie, produzione di infissi in legno e alluminio, lavorazione del vetro, produzione di fiori, ceramiche, mobili, carpenterie) di «piccola o piccolissima dimensione», per lo più a gestione familiare, impegnate sul mercato locale e regionale, con «punte di eccellenza che indirizzano la propria produzione verso la nazione intera ed anche all’estero». Un mondo che tende a chiudersi al suo interno, ma desideroso, «nonostante le mille difficoltà, di farcela, di emergere, di cambiare le cose»31. Insomma, come afferma Luca Meldolesi nel commento all’indagine, esiste e «costituisce una potenzialità significativa», una risorsa dimenticata, ma vitale, di quattro «difficili» circoscrizioni urbane32. 31   Cfr. Piccole imprese e tessuto socio-economico di Napoli Est, NaplEst, Napoli 2010. 32   Ivi, p. 6.

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Anche chi ha usato gli strumenti della geografia urbana per penetrare nel mondo, in trasformazione, dell’artigianato napoletano ne percepisce le spinte innovative e i retaggi frenanti. Il geografo Gennaro Biondi, riferendosi al centro storico, si domanda se l’artigianato possa essere considerato «un caposaldo produttivo per un rilancio possibile dell’intera area»33. Negli ultimi vent’anni, osserva, la piccola produzione ha perduto il 50% della sua forza lavoro, pur rimanendo saldamente radicata sul territorio. Il suo studio, relativo all’ultimo decennio, mostra l’arretramento delle attività nelle zone più interne, la dislocazione per isole specializzate che «sembrano più esprimere strategie di arroccamento difensivo che non dinamiche di tipo espansivo»34, la tenuta di «relazioni familiari ed amicali che si basano su regole inscritte nella cultura di quartiere o di clan»35 e, soprattutto, coglie la questione politico-culturale che sottende il futuro dell’artigiano nell’area e nell’intera città. Di fronte a un modello organizzativo basato su una nuova visione tecnologica e regolato da innovative relazioni con clienti e committenti, si profila lo zoccolo duro di un’area artigianale caratterizzata dalla molteplicità delle lavorazioni, che «si alimentano nel degrado urbano e sociale»36. Dal superamento di questa contrapposizione dipende la possibilità di un rinnovamento che, al momento, appare ancora episodico e frammentato. È sempre forte la propensione a navigare sull’onda di antiche e collaudate pratiche produttive e 33   G. Biondi, L’artigianato e la rigenerazione urbana del centro storico di Napoli, «Quaderni di ricerca sull’artigianato», 2010, n. 56, p. 120. 34   Ivi, p. 123. 35   Ivi, p. 124. 36   Ivi, p. 130.

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organizzative, mentre rimane isolata e sterile l’impresa di chi asseconda l’impiego del digitale nel vecchio modello della produzione artigianale, rivoluzionando il modo di pensare e realizzare «il prodotto», ridisegnando le aree della realizzazione, semplificando i processi di ricambio e distribuzione. Una spinta destinata a esaurirsi, se continuerà a mancare una regia politica ferma nell’assicurare spazi deputati, semplificazioni burocratiche, facilitazioni creditizie. Senza dubbio l’atteggiamento «difensivo» che contraddistingue i piccoli produttori e la diffidenza verso le omissioni della politica locale sono condivisi dall’intera classe imprenditoriale. Se gli esponenti più in vista e affermati del mondo dell’impresa prendono le distanze dal governo della cosa pubblica, rifiutando ogni forma di compartecipazione37, la grandissima parte degli operatori economici reclama l’alleggerimento del carico fiscale, la bonifica del territorio, la tutela della sicurezza individuale, la riorganizzazione dei trasporti, presupposti per il coinvolgimento dell’intera area metropolitana. Queste richieste denotano, rispetto al passato, una diversa interpretazione del ruolo dell’attore pubblico nel governo dell’economia. Dopo aver sperimentato la concertazione delle scelte politiche e cavalcato, con alterne fortune, l’onda del sostegno concesso attraverso l’utilizzazione delle risorse europee, gli imprenditori pretendono, nella distinzione dei ruoli politici ed economici, l’alleggerimento degli oneri burocratici e sollecitano un intervento istituzionale che sia ispirato a una visione strategica dello sviluppo urbano. Ma non percepiscono se stessi come forza coesa e unitaria di fronte 37   Cfr. M. Valensise, Il sole sorge al Sud, Marsilio, Venezia 2012, pp. 304-362.

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alle difficoltà del contesto, né si rappresentano – salvo eccezioni – come riferimento o attrazione delle energie che, a Napoli come altrove, operano in sintonia con le trasformazioni tecnologiche, finanziarie, produttive che, di ora in ora, stravolgono il modo di fare impresa a livello globale. «La rimodulazione strutturale del capitalismo mondiale – scrive Paolo Bricco – appare irrefrenabile. Le leggi che la informano hanno una natura di lungo periodo così profonda da sembrare quasi braudeliane»: nell’interno della «fabbrica» la digitalizzazione, sia dei processi che dei prodotti, ne «sta cambiando la natura», e le «nuove frontiere della manifattura digitale cambieranno tutto»38. Anche in Italia si ridisegnano i ruoli e i rapporti di forza tra i protagonisti dello scambio e si ribaltano gli orizzonti produttivi e organizzativi, validi per tutta la stagione del made in Italy post-fordista. Adesso, asserisce Aldo Bonomi, è l’utente/cliente ad assumere una nuova centralità. Intorno a lui «si genera una ragnatela del valore fatta di attori economici – imprese, professionisti, comunità virtuali – che scoprono, analizzano, codificano questi desideri, sino a tradurli in un prodotto o servizio che li soddisfi»39. Prendono forma scenari territorialmente definiti. A Milano, in vista dell’Expo, l’Assolombarda delinea un piano strategico con 50 progetti, all’insegna di un manifesto per il cambiamento. A Genova si registra, tra il 2010 e il 2012, «un incremento di nuove smart nel settore delle costruzioni e dell’impiantistica, come in quello del

38   P. Bricco, Con la manifattura in tre D, la nuova vita della fabbrica, «Il Sole 24 Ore», 16 novembre 2014. 39   A. Bononi, prefazione a S. Mangiaterra, Creatività high-tech, Il Sole 24 Ore, Milano 2011, p. 12.

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settore alimentare»40, con una crescente propensione a innovare. E Napoli come reagisce? C’è da chiedersi se la magmatica emersione di nuove energie imprenditoriali, che abbiamo cercato di decifrare, si configuri solo come riflesso condizionato, antidoto ai colpi della recessione, o se esprima la consapevole condivisione delle trasformazioni in atto e del tentativo di parteciparvi. Bisogna cominciare a sfatare qualche luogo comune. Non è vero, scrivono nel 2011 Pietro Greco e Stefano Pisani, che la città è rimasta indietro sul terreno della costruzione di una società della conoscenza. Monitorando gli sforzi compiuti per muovere la macchina municipale in questa direzione, essi sottolineano i risultati ottenuti nel completare il processo di informatizzazione del Comune o nella cablatura di alcune piazze della città e ricordano che, sempre a quella data, risultano operanti 2.000 Pmi nel settore dell’Ict, con oltre 15.000 addetti41. Il punto di partenza è costituito dall’alfabetizzazione digitale, specialmente giovanile, che induce a utilizzare i social media per consumare e lavorare e si propone come riferimento di un’analisi sulle trasformazioni della cultura urbana. A Napoli, come dappertutto, fa capolino la Bit generation. La città, leggiamo in uno studio recente, «si configura come un territorio vivo, vitale, creativo, dove i giovani diventano l’espressione innovativa di una società in movimento ed in mutamento costante. Il formato digitale e il suo impatto nelle modalità di fruizione, gestione e produzione è decisamente

40   Cfr. Artigiani sempre più «smart». Crescono le imprese intelligenti, «la Repubblica. Genova», 27 aprile 2015. 41   P. Greco, S. Pisani (a cura di), Napoli digitale, Editori Riuniti, Roma 2011, p. 7.

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preponderante nelle classi caratterizzate dalla presenza dei più giovani»42. Ma non è facile raffrontare queste intenzioni con gli orizzonti di un nuovo modo di agire economico. Se Steve Jobs fosse nato a Napoli, breve romanzo del giornalista napoletano Antonio Menna, racconta in maniera esemplare la problematicità di questo passaggio. Il libro narra la storia di due ragazzi del centro storico che tentano, caparbiamente, di realizzare il loro progetto di vita producendo un nuovo tipo di computer nella cantina di una casa nei Quartieri Spagnoli. Il sogno s’infrange contro gli ostacoli che la burocrazia, il sistema finanziario e, non da ultimo, la criminalità organizzata erigono contro la loro giovanile e ingenua voglia di cambiamento, diventando la metafora di un’impossibilità, la sanzione di una condanna43. La realtà, però, è meno drammatica. Tra il 2010 e il 2014 in Campania sorgono 184 imprese innovative. La regione si aggiudica 12 milioni di stanziamenti, a livello nazionale, come fondo di garanzia per le nuove attività e si allunga l’elenco dei successi. L’era digitale offre al Mezzogiorno molteplici opportunità. Ne danno conferma i dati, pubblicati dall’Unione delle Camere di commercio, sulle startup innovative nel territorio nazionale. Nel rapporto del terzo trimestre 2016 la Campania, con 404 startup, scala la classifica regionale, passando dal settimo al quinto posto e sopravanzando Piemonte, Toscana e Marche. Napoli è in testa tra le province del Mezzogiorno, con 202 startup innovative,

42   L. Savonardo (a cura di), Bit Generation, Angeli, Milano 2013, p. 67. 43   A. Menna, Se Steve Jobs fosse nato a Napoli, Sperling & Kupfer, Milano 2012.

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di cui il 19% opera nell’industria in senso stretto e il 70% fornisce servizi alle imprese. Quest’ultimo comparto accoglie tipologie di impresa in larga parte legate alla trasformazione tecnologica del sistema produttivo: produzione software, ricerca e sviluppo, pubblicità e comunicazione, attività di supporto alle Pmi44. Sembra contraddetta, dunque, l’immagine della desertificazione industriale della regione, e prende forma, piuttosto, quella di una manifattura a macchia di leopardo, pervasa di fermenti innovatori. Seguiamoli da vicino. A Napoli la Penelope spa, azienda con dieci dipendenti, punta allo sviluppo di una piattaforma digitale destinata alla filiera agroalimentare45. Un gruppo di dottori di ricerca in ingegneria meccanica della Federico II costituisce Sòphia High Tech, una società per progettare, produrre e commercializzare attrezzature di laboratorio per lo svolgimento di test innovativi: un core business che punta ad assecondare le esigenze dei laboratori di ricerca di imprese di grandi dimensioni e che è riuscito ad assumere sette unità nel corso del primo anno46. Nel settore delle biotecnologie, due laureate napoletane, di ritorno dalla Silicon Valley, costituiscono una startup per la decontaminazione ambientale. Alcuni giovani ricercatori inventano un dispositivo portatile destinato ai celiaci, per l’analisi del glutine negli alimenti47. La Buzzoole di Francesco Perrone viene sele-

44   Camere di commercio d’Italia, InfoCamere, Startup innovative, Report, 3° trimestre 2016. 45   Cfr. L’impresa intelligente, «la Repubblica. Napoli», 19 febbraio 2015. 46   Cfr. Sòphia High Tech: una storia di successo tutta italiana, «Blasting News», 21 novembre 2014. 47   Cfr. Le startup in Campania: le storie, «Panorama», 24 maggio 2014.

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zionata come migliore startup europea e, mese dopo mese, vede crescere il fatturato del 30%. Più di recente Tommaso De Angelis e Stefano Russo realizzano il loro progetto con la startup Runtimate, facendosi strada nei mercati del Nord Europa: una cintura e una fascia da braccio con agganci per diversi oggetti (telefono, danaro, chiavi), che ottengono premi e riconoscimenti, fino ad approdare allo Smau di Berlino48. La startup Geco, di Napoli, ottiene un riconoscimento, nell’edizione 2015 di UniCredit Start Lab, per il settore Life Science, grazie a un apparecchio per la sintesi di radio-farmaci che preserva l’operatore dalla prolungata e ravvicinata esposizione a materiali radioattivi, e potrà usufruire dei servizi di tutoring messi a disposizione da UniCredit49. Antonio Russo, ingegnere informatico, e Corrado Cuccurullo, ordinario di economia presso la Seconda Università di Napoli, realizzano la piattaforma informatica «Texplora» contro l’evasione fiscale, ricostruendo il profilo dei contribuenti con un algoritmo che incrocia tredici fonti informative. La startup, in sperimentazione presso il comune di Afragola, si propone di elevare la capacità di riscossione dei Comuni, offrendo un servizio che ricostruisce, sulla base di segnalazioni qualificate, la capacità patrimoniale dei contribuenti50. Dalla lotta all’evasione fiscale alla vendita e al noleggio di opere d’arte, on line. È l’obiettivo perseguito da ArtRooms, una startup creata da un gruppo di giovani di Somma Vesuviana che, a gennaio 2015, costituiscono 48   Cfr. Made in Sud. La Germania conquistata da una Startup, «Identità insorgenti», 2 aprile 2015. 49   Cfr. UniCredit Start Lab. Premiata una startup napoletana, «Gazzetta di Napoli», 3 luglio 2015. 50   Cfr. A. Agrippa, Texplora, l’algoritmo che dà la caccia agli evasori tributari, «Corriere del Mezzogiorno», 14 giugno 2015.

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una galleria digitale per 130 autori e 900 opere, offrendo un punto di incontro ad artisti e acquirenti e servizi via web sulla gestione e utilizzazione dei prodotti51. Sempre nel settore delle arti, all’Università Suor Orsola Benincasa si sperimenta la contaminazione di vecchie e nuove tecniche di restauro. Il progetto «Arte in luce» promuove l’evoluzione digitale (3D) delle tecniche restaurative per potenziare e qualificare l’offerta museale. Si parla, anche per Napoli, di smart city, città intelligente, prendendo a prestito scenari, terminologie e immagini propri delle grandi metropoli internazionali. Ma Derrick de Kerckhove, docente all’Università Suor Orsola Benincasa, esperto di innovazioni urbane, avverte: «Il presupposto di una smart city è che vi sia uno smart people, cosa non semplice in tante aree del Sud, dove manca una vera attitudine alla partecipazione ai problemi politici, nel senso ampio di polis»52. Ed è certo che i problemi non mancano. Il primo confronto tra lo «smart people» napoletano ed esponenti del governo centrale, delle imprese, del sistema finanziario (non della politica locale), organizzato dal «Mattino» nel maggio 2015, mette in luce i problemi di fondo: la difficoltà di attingere alle risorse necessarie per mettersi in gioco, la scarsa capacità di fare network nei processi di internazionalizzazione, la necessità di brevettare le innovazioni conseguite, infine il collegamento – in senso spaziale oltre che scientifico – con il mondo della ricerca53. Le prospettive, però, sono incoraggianti. 51   Cfr. R. Bucciarelli, L’arte è on line da Somma Vesuviana, «Corriere del Mezzogiorno», 9 febbraio 2015. 52   Intervista di A. Chetta a Derrick de Kerckhove, «Corriere del Mezzogiorno», 12 giugno 2015. 53   Cfr. Noi, startup della Campania a caccia di risorse e di fiducia, «Il Mattino», 5 maggio 2015.

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Senza dubbio una rondine non fa primavera, ma il clima è cambiato, e questo nuovo modo di fare impresa segna un passaggio importante nel panorama sociale e culturale della città. Lo testimonia lo sguardo lungo di alcune istituzioni scientifiche. A Città della Scienza si incontrano il mondo della cooperativa e quello delle startup. Coop Fund, il fondo di promozione finanziaria di Lega Coop, promuove l’avvio di 22 startup. Incorporano competenze della cooperazione classica e del mondo della cultura, oltre che di ambito tecnicoscientifico. Una fase nuova, osserva Aldo Bonomi, «in cui l’innovazione non è forma astratta o de-territorializzata ma esprime la ricerca di un nuovo radicamento sociale dei territori»54. E non è inevitabile il fallimento dei protagonisti di Se Steve Jobs fosse nato a Napoli. Il contesto non è immutabile. A loro non viene lasciata la possibilità di ricominciare da capo. Non emerge, quindi, come fattore culturale e innovativo per la storia economica della città, la propensione dei giovani a fare impresa. Il libro non lascia spazio all’happy end perché non viene colto il senso di una diversa, possibile interazione tra l’agire economico di nuovi soggetti sociali e il contesto circostante. Ma, soprattutto, non c’è riferimento al quadro economico generale, nazionale e internazionale. Il napoletano Roberto Macina, fondatore della startup Qurami, ha risolto il problema delle code – all’università, negli uffici comunali, negli ospedali – ideando una app per le prenotazioni che fa risparmiare tempo agli utenti. La sua impresa, che occupa già quindici dipendenti, è stata citata dalla Apple come «eccellenza 54   A. Bonomi, Napoli laboratorio dell’alleanza tra startup e Coop, «Il Sole 24 Ore», 4 dicembre 2016.

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del digitale italiano»55, a conferma di una scelta che promette effetti benefici sul panorama industriale della città. Steve Jobs non sarà nato a Napoli, ma la sua creatura, Apple, sembra guardare con interesse alle potenzialità tecnologiche e imprenditoriali della città. Su sollecitazione del governo, ha annunciato l’apertura di una scuola di formazione, a Napoli, per insegnare come sviluppare app per smartphone (sono previsti 600 frequentanti, con ottime ricadute sull’indotto). L’obiettivo di formare migliaia di sviluppatori per incentivare, poi, i più capaci ad avviare un’attività in proprio56 andrà verificato. Ma la notizia è già un evento. Innovazione e partecipazione a esperienze condivise a livello internazionale non solo costituiscono le linee guida per la nascita delle piccole imprese innovative, ma descrivono anche un clima culturale e tracciano il potenziale percorso per la riconversione o la rivalutazione dei mestieri artigiani. I software informatici, osserva Lello Savonardo, consentono di «creare, riprodurre e ridefinire gli stessi oggetti culturali con i quali interagiamo nella vita quotidiana» e rappresentano «la nostra interfaccia con l’ambiente circostante, una componente essenziale del vivere sociale»57. Mutando il modo di fare impresa è possibile, inoltre, intercettare una domanda che, per estensione e qualità, si presenta come serbatoio, sempre più capiente, di consumi opulenti, legati all’irrompere di nuovi consumatori nel campo dei servizi, della luxury fashion, dell’abbigliamento. Esigenze che è pos55   Cfr. F. Santelli, Noi, presi a modello per l’applicazione anti-file, «la Repubblica», 22 gennaio 2016. 56   Cfr. S. Cervasio, T. Cozzi, Apple: a Napoli la scuola dei creativi, «la Repubblica», 22 gennaio 2016. 57   L. Savonardo, La scommessa dell’università, «la Repubblica. Napoli», 27 gennaio 2016.

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sibile soddisfare sintonizzandosi in rete, superando le barriere all’ingresso di forti immobilizzazioni e gravosi costi salariali, ma anche reinterpretando la funzione e gli obiettivi di un’antica tradizione manifatturiera. A livello nazionale, Stefano Micelli parla di «rinascimento dell’artigianato tecnologico», documentando la performance degli operatori capaci di sfruttare «le tecnologie per dilatare la propria capacità di personalizzazione del prodotto» e valorizzare un patrimonio consistente di cultura materiale, aprendo la strada a una forma ibrida di imprenditoria che «testimonia la possibilità di declinare in chiave umanistica le tecnologie della terza rivoluzione industriale»58. La disponibilità sempre più frequente a convertire competenze e ruoli sociali legati alla sfera delle professioni intellettuali, diventate inspendibili sul mercato del lavoro tradizionale, si confronta con le molteplici possibilità offerte dal mondo, in declino ma potenzialmente vitale, della piccola produzione artigianale. Un incontro rinviato da tempo per il persistere delle barriere che hanno, da sempre, impedito l’accesso alla manualità da parte dei detentori di status sociali, legittimati da competenze intellettuali ormai svilite e inutilizzate, oltre che da un cortocircuito innescato dalla recessione su storie individuali e collettive. È stata l’esperienza dolorosa dell’impossibilità di trovare lavoro a spingere molti futuri imprenditori a emigrare in cerca di una sistemazione adeguata alle proprie qualifiche, o a guardarsi intorno, maturando la decisione di intraprendere un lavoro manuale. La cronaca di queste scelte, raccontate sul web, offre il panorama di un’Italia avviata verso nuovi 58   S. Micelli, Il rinascimento dell’artigianato tecnologico, «Il Sole 24 Ore», 12 giugno 2016.

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orizzonti umani e professionali e induce a riflettere. La versione napoletana risulta particolarmente istruttiva, non per la specifica estensione, ma per la qualità e l’intensità dei cambiamenti che sottende. Michela Primavera Saggese, laureata in scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, apre, col fidanzato Vincenzo, un laboratorio artigiano per la produzione di sculture artistiche di sapone. L’iniziativa si sviluppa al punto da consentire loro di sposarsi ed estendere l’attività, trasformando un vecchio garage in un open space crea­tivo. La rete di vendita si incentra soprattutto su fiere e mercatini natalizi, ma Facebook, un blog personale e un sito li mettono in contatto col resto del mondo, «ottimizzando la vendita on line». Il bagaglio culturale acquisito con la laurea non è andato perduto: «Crediamo – riconosce Michela – che il sapone trasformato possa dare delle piccole emozioni: il nostro intento è di creare un mondo incantato dove si è felici, siamo un po’ come dei bambini, raccontiamo storie e favole, in sapone»59. Monica Gemelli, psicoterapeuta con competenze in psicologia del lavoro ed esperienze aziendali, decide di «mettersi in gioco nel periodo in cui la crisi economica si stava manifestando in tutta la sua criticità». Nel 2012 costituisce la Bluesquare Srl, azienda destinata a produrre e commercializzare bottoni speciali. Ispirata a criteri di semplicità, creatività e design, l’iniziativa si sviluppa attraverso una lunga fase di studio, con la partecipazione di consulenti esterni per i brevetti, il disegno tecnico, la grafica. L’obiettivo è quello di superare la fase di autofinanziamento agganciandosi «ad un’impre-

  Si veda l’intervista in «Laureati artigiani», 11 settembre 2014.

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sa dell’area moda ed offrire un vantaggio competitivo», ma l’intenzione di fondo è dimostrare la possibilità di innovare nel digitale aderendo «al mondo delle cose», e farlo con oggetti semplici come i bottoni60. Le fasi successive confermano il successo dell’idea. Bluesquare viene «adottata» da Push Srl, impresa napoletana del settore moda, e nel giugno del 2015 la prima serie di bottoni e magliette va sul mercato attraverso il marchio e-store La Maganza. Eufemia Bassolino, di Frattamaggiore, laureata in sociologia, ha dovuto affrontare, come tanti, la realtà dello scarto tra il mondo del lavoro e le competenze formalmente acquisite. Dopo molti tentativi falliti si rimbocca le maniche e apre, con l’aiuto del fidanzato, un laboratorio di pasta fresca e gastronomia. Un percorso durato due anni, tra autorizzazioni, investimenti per 100.000 euro e riconversione di competenze e di capacità, che la porta, infine, ad attribuire alla sua esperienza un significato che travalica la sua vicenda personale. Nell’intervista concessa a «Laureati artigiani» afferma «che la laurea ti consente di sdoganare la figura dell’artigiano che, nell’immaginario collettivo, in una scala di prestigio sociale occupa il livello più basso». Lavorare in «bottega», invece, costituisce «la risposta alla crisi economica». L’artigiano è «un creativo, un artista, migliora l’aspetto delle cose così come un pittore o uno scultore, trasferisce parte della sua anima al suo prodotto», e la laurea può conferirgli «grande dignità e prestigio»61. Passando da una storia all’altra, percepiamo il segnale di un mutamento culturale. Il «fai da te» di una 60   Cfr. P. Barbarisi, A TBIZ il bottone innovativo per una cucitura semplice e rapida, «Technology Biz», 19 dicembre 2013. 61   Cfr. «Laureati artigiani», 2 agosto 2014.

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forza lavoro intellettuale che sperimenta nuovi percorsi imprenditoriali, ma anche l’emergere di sensibilità e attitudini inedite per la storia sociale ed economica della città. La Napoli che si avvia sui binari sconosciuti della technology innovation, o che riesce a coniugare l’alta formazione con il lavoro manuale, va interpretata e incoraggiata, non ignorata, né abbandonata a se stessa.

IV

IL VOLO DELLA FENICE

1. «L’oro di Napoli» Quanto vale, oggi, e come si può sfruttare la ricchezza accumulata da Napoli nel corso della sua storia? Un grande patrimonio artistico e ambientale incontra difficoltà a tramutarsi da retaggio e testimonianza di una lunga vicenda storica in volano per il rilancio civile ed economico. Tramontata la stagione delle esaltazioni e delle delusioni del «rinascimento napoletano», il tema della valorizzazione passa dall’agenda politica al novero dei grandi nodi irrisolti della «questione napoletana». Bagnoli e il centro storico sono la prova dell’incapacità della politica di rimuovere i vincoli e le resistenze che frenano il processo di rigenerazione urbana, si tratti della linea di costa, antistante gli scheletri in ferro dell’ex Italsider, o della salvaguardia delle «pietre» del centro antico, tutelate dall’Unesco. È questa l’arena in cui si scatenano tensioni e conflitti tuttora accesi. Sul modo in cui attuare la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, dagli scavi di Pompei ed Ercolano ai monumenti del centro antico, si gioca la partita del futuro della città: un confronto a più voci che contrappone visioni culturali, schematismi ideologici, rendite di posizioni politiche. Resiste la divaricazione tra il «sistema dei beni cultura­104

li», legato alle prescrizioni di un’amministrazione pubblica competente e rigorosa, ma restia a proiettarsi oltre lo specifico ambito della tutela, e la «città del turismo», luogo della fruizione e del consumo di beni immateriali e materiali, gestiti nel quadro di una sinergia tra pubblico (politiche municipali e regionali) e privato. Rimangono vaghe le modalità di gestione di un tale patrimonio. All’orizzonte si profilano due specifiche funzioni: la tutela, finalizzata alla conservazione, e la valorizzazione, destinata allo sfruttamento economico del bene. La possibilità della fruizione implica l’agibilità e la bonifica del contesto circostante e la messa in sicurezza sociale, oltre che architettonica. Non si tratta solo della rigenerazione del tessuto sociale, ma anche della dignità dell’arredo urbano, della qualità dei servizi, dell’efficienza del sistema di comunicazione. Obiettivi dettagliati nel piano di gestione del centro storico, approvato nel 2011 e accantonato dalla giunta de Magistris. Il piano delinea i prerequisiti per la costruzione di un sistema di consumi culturali, delimitando lo spazio per l’innesto di processi produttivi e di scambio nella rivalutazione urbana e sociale del centro antico della città. Punta a risvegliare le potenzialità latenti della real­ tà artigianale attraverso un circuito virtuoso tra la domanda di prodotti made in Naples e l’offerta qualificata di beni legati alle forme e all’identità del patrimonio artistico. Un orizzonte, dunque, di nuove progettualità, fondate sulla presenza di spazi ed energie volti al recupero di tradizioni e pratiche secolari nel cuore antico della città. È il caso, certo, della rete museale urbana, ma anche di una potenziale cittadella della musica che si configura come polo di formazione e fruizione culturale intorno al Teatro San Carlo e al Conservatorio di San Pietro a Maiella. Progetti che, presentati senza esito nel ­105

dibattito, sempre aperto, sulla gestione dei beni culturali, sono andati ad allungare, anche dopo l’entrata in vigore della legge Franceschini, l’elenco dei problemi irrisolti dell’attuale quadro urbanistico. Tra questi spicca il fallimento, più che ventennale, della riconversione ambientale e urbanistica di Bagnoli. Il litorale che, lungo la linea di costa, si dipana dai Campi Flegrei alla collina di Posillipo ha subito la «dismissione» dell’Italsider, diventando terra di nessuno in attesa della riqualificazione cittadina e civile, sancita dalle scelte urbanistiche degli anni Novanta e mai rea­lizzata. In una recente ricognizione, il cronista Paolo Barbuto rileva che i ruderi della fabbrica e i pochi spazi «rigenerati» sono diventati il simbolo dell’abbandono: «lì dentro, nell’area dell’ex insediamento industriale, riesce a entrare chiunque e può fare qualunque cosa». C’è la caccia al ferro residuo e le nuove realizzazioni sono per metà abbandonate e per metà vandalizzate1. Bagnoli incarna il fallimento delle politiche perseguite, senza soluzione di continuità, dalle giunte che si sono susseguite fino a oggi, e rivela l’incapacità di coinvolgere attori esterni, istituzionali e non (investitori, nazionali ed esteri), nel processo di rigenerazione. Lo scenario delle rovine che si stagliano sull’arenile di Bagnoli attesta, inoltre, la distanza che ha separato, per quasi un quarto di secolo, le aspirazioni di un’urbanistica fondata sul recupero del contesto ambientale dalla realtà delle compatibilità politiche locali. Prima il flop di Bagnoli spa (1996), poi gli errori e gli sprechi della Bagnoli Futura, anch’essa fallita; infine il naufragare di due accordi di programma col ministero dell’Ambiente, nel 2003 e nel 2007.

  P. Barbuto, Il panorama dal pontile, «Il Mattino», 6 aprile 2016.

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L’ingarbugliato susseguirsi di vertenze giudiziarie per disinquinare e utilizzare i terreni ha, di fatto, bloccato ogni iniziativa fino al momento in cui, nell’estate del 2014, l’area è stata sottratta alla giurisdizione municipale per essere affidata a un commissario di governo. E c’è voluto un anno per procedere alla nomina e avviare un nuovo conflitto istituzionale: il sindaco de Magistris contesta il commissario Nastasi e non intende rinunciare alle prerogative del Comune in materia di urbanistica. Dopo un lungo braccio di ferro, concluso con la decisione, nei primi giorni di dicembre 2015, di aderire alla convenzione che avvia il meccanismo di bonifica e di partecipare alla Conferenza dei Servizi, nell’aprile del 2016, per Bagnoli sembra schiudersi una nuova era. Le scelte del governo hanno sostanzialmente confermato le linee di sviluppo dell’area definite nel Piano regolatore generale: la rimozione totale della colmata, il ripristino della linea di costa con arretramento della Città della Scienza, la costruzione di un parco di 120 ettari, l’ulteriore contenimento dell’edilizia residenziale2. La strada, però, è ancora in salita. Lo scontro elettorale acuisce le divisioni tra il governo locale e quello nazionale, mentre la procedura di risanamento resta esposta a dubbi e interferenze che ne possono frenare l’andamento. Quindi l’ulteriore svolta. Appena reinvestito nella carica, de Magistris propone al governo di collaborare nella realizzazione del piano per Bagnoli, separando la questione della bonifica da quella della riqualificazione urbana, di pertinenza municipale. Ma chiede anche la fine del regime di commissariamento. La risposta è negativa e inizia un braccio di ferro desti2   G. Ausiello, Bagnoli, parte l’analisi dei suoli, «Il Mattino», 15 aprile 2016.

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nato a concludersi solo alla fine di settembre, quando Renzi e de Magistris decidono di avviare un confronto sul rilancio di Bagnoli, nel quadro delle misure previste nel «Patto per Napoli». Permane problematico, comunque, il confronto con le associazioni locali. Un contenzioso difficile da sanare. Vengono alla ribalta e si riesumano esigenze e aspettative, vittime del lungo sonno della politica municipale, mentre avanza la sollecitazione a correggere e integrare alcune delle scelte già adottate. Le Assise di Palazzo Marigliano convocano un’assemblea pubblica per discutere il futuro di Bagnoli e incalzare l’operato del commissario3, mentre enti (Città della Scienza) e privati «minacciati» dalla realizzazione di scelte già sancite fanno sentire la propria voce. Infine la fase movimentista delle associazioni che si riconoscono in «Bagnoli libera», contrarie al commissariamento e rigide fautrici dell’autonomia comunale nel confronto col governo. Siamo all’ultimo atto di una troppo lunga rappresentazione. Lucio Iaccarino ha osservato, in uno studio di alcuni anni fa, che le associazioni locali «reclamano autorità e strumenti decisionali istituzionali, mentre la politica contrappone il monopolio di canali personalistici. L’esito di questo tira e molla è ben lontano dall’individuazione di uno stabile equilibrio»; «se i processi decisionali – conclude Iaccarino – riusciranno a prescindere dall’importanza dei singoli, dalla loro posizione nelle gerarchie politiche locali, dalle reti amicali e parentali, sarà possibile istituzionalizzare, con maggiore efficacia, fiducia e autorità»4. 3   F. Geremicca, Nuova Bagnoli, un’assemblea aperta alla città, «Corriere del Mezzogiorno», 17 aprile 2016. 4   L. Iaccarino, La rigenerazione. Bagnoli: politiche pubbliche e

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Il richiamo è caduto nel vuoto e oggi, smontata la macchina del consenso che girava intorno alle risorse per la ricostruzione, occorre ripensare la fisionomia e il ruolo di istituzioni e realtà sociali. Più in generale, studiosi e associazioni civiche osservano che, dalla fine del secolo scorso, sono cambiati gli assetti istituzionali e la realtà sociale che rappresentano il target delle scelte urbanistiche. La riconversione di Bagnoli non può essere relegata entro le coordinate del risanamento della passata stagione industriale. Bisogna puntare più in alto. L’area è un segmento della Napoli metropolitana e la sua destinazione va armonizzata con quella dei vicini Campi Flegrei. Nello stesso tempo i modi e le finalità del processo di sviluppo non si possono misurare sulle esigenze e sulle disponibilità della sola comunità locale. Vanno coinvolte forze e competenze esterne. Il tentativo di rigenerazione fin qui esperito ha messo in evidenza lo sforzo delle istituzioni locali di pilotare gli interessi e le aspettative della popolazione residente, ma ha, fatalmente, generato conflitti e contrapposizioni. Per quanto riguarda i temi del turismo, del reinsediamento industriale, della logistica e delle reti di comunicazione, compreso il collegamento via teleferica con la sovrastante collina di Posillipo, si fa largo l’esigenza di inserire la riconversione urbanistica dell’area in un quadro di strategie sociali e culturali, oltre che economiche, volte ad affrontare il caso Bagnoli insieme alle questioni irrisolte dell’assetto complessivo. Tra queste si colloca in primo piano il recupero del centro storico. Dopo aver vissuto la stagione del calo demografico e subito la parziale chiusura delle attività produttive, l’asocietà civile nella Napoli postindustriale, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2005, p. 192.

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rea ha sperimentato la fase dell’utilizzazione dei fondi della programmazione europea. Gli interventi realizzati con le risorse del programma Urban e, poi, del progetto Sirena hanno sortito i loro effetti. È stato avviato «un processo più diffuso di riqualificazione urbana»5, mentre i risultati del progetto pilota Sirena, seppure spazialmente limitati, hanno indicato la via per un reale recupero di laboratori e botteghe artigiane6. Qualche passo in avanti rispetto a Bagnoli, ma anche continui stop and go che inducono a riflettere. È mancata, in particolare, l’elaborazione di una specifica strategia di tutela e rigenerazione. Il Grande Progetto Centro storico, avviato nel 2007 dal governo regionale guidato da Antonio Bassolino, si è arenato nel 2010, durante il passaggio di testimone al centrodestra di Stefano Caldoro. Si era partiti con uno stanziamento di 500 milioni (il 50% da fondi privati), ridotti a 100 e, infine, a 80. A causa di ulteriori ritardi e inadempimenti le residue risorse finiranno per essere spese in ordine sparso, mostrando le manchevolezze della politica. Pasquale Belfiore, responsabile del Grande Progetto in qualità di assessore della giunta Iervolino, denuncia l’esigenza di «accertare perché si sono persi anni per le approvazioni, perché si è deciso di far redigere i progetti a strutture pubbliche non attrezzate, perché si è accantonato, pregiudizialmente, l’istituto delle opere di progettazione, perché si sono approvati progetti incompleti. Sono perché che richiedono tempo e spazio per le risposte»7. Affondando il

  U. Rossi, Lo spazio conteso, cit., p. 182.   Ivi, p. 183. 7   P. Belfiore, Errori e ritardi del Grande Progetto, «la Repubblica. Napoli», 19 maggio 2015. 5 6

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coltello nella piaga, il consigliere municipale Gennaro Esposito accusa: «La strada dei concorsi di progettazione non pare abbia mai sfondato nelle nostre amministrazioni [...] credo che la politica sia ostaggio di una burocrazia alla ricerca del compenso aggiuntivo sullo stipendio legato all’attività di progettazione stessa. [...] In Campania la progettazione si fa negli uffici polverosi delle amministrazioni»8. La Commissione europea coglie l’ambiguità di questa procedura e interviene mettendo paletti al tentativo della burocrazia regionale di recuperare, almeno in parte, i fondi inutilizzati9. Alla fine – siamo ormai alla scadenza – si perdono le speranze. L’architetto Giulio Pane non ha dubbi: «Non ci saranno rifinanziamenti. I cento milioni della vecchia agenda sono stati persi. Arriveranno quelli della nuova. Avrebbero potuto essere duecento e invece no»10. Ma è soprattutto sul versante della vivibilità sociale che si misura il dissolvimento delle politiche di restaurazione urbana. La dimensione simbolica degli interventi sperimentati dalla giunta Bassolino viene sopravanzata dall’aggravarsi del degrado ambientale: la traumatica crisi dei rifiuti e l’espandersi della delinquenza organizzata hanno effetti perversi sulle condizioni di abitabilità dell’area e sulla ripresa dei flussi turistici. Tornando, a quindici anni di distanza, sui luoghi interessati dal restauro di via Vergini, realizzato dall’amministrazione comunale con i fondi del progetto Urban, l’architetto Aldo Capasso, coordinatore del progetto, constata il degrado 8   G. Esposito, Centro Storico. Quanti errori, «la Repubblica. Napoli», 14 maggio 2015. 9   Cfr. A. Gemma, Bagnoli, porto, centro storico. Bocciati dall’Ue 187 progetti, «la Repubblica. Napoli», 6 maggio 2015. 10   V. Esposito, Ecco lo scandalo del Centro Storico, «Corriere del Mezzogiorno», 11 novembre 2015.

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che ha ripreso il sopravvento sulle opere di riqualificazione (rigenerazione, con la strada, di edifici, negozi, spazi riservati al mercato e arredo urbano). Un bilancio negativo che denuncia come «vani gli sforzi per la qualificazione senza controlli e manutenzione e per sventare vandalismi e riappropriazioni indebite degli spazi»11. Il contesto è disastrato. Il vicino quartiere della Sanità, concentrato di un rilevante patrimonio artistico, sopravvive grazie a un antico sistema di produzione, «liberato» dai vincoli e dalle regole dell’economia formale: «In ogni vicolo della Sanità – dichiara il consigliere di municipalità Francesco Ruotolo – c’è una fabbrica diffusa, in nero, ma alla luce del sole». Produce «tacchi, scarpe, guanti, borse e cinture, che finiscono spesso nei negozi alla moda di Parigi, Milano, o degli Stati Uniti». Ogni famiglia costituisce un apparato produttivo tenuto insieme da tanti piccoli redditi. Quando questi redditi vengono a mancare, anche solo in parte, «la camorra diventa una facile alternativa col traffico di droga e l’illegalità violenta, delinquenziale, omicida. Perciò il lavoro nero è il male minore»12. È l’esodo delle attività produttive che ha indebolito il tessuto sociale, oltre che economico, del centro antico. Ma non del tutto. Le poche indagini che monitorano il mutamento del quadro demografico e produttivo dell’area colgono vari elementi di dinamismo. Il quartiere di Montecalvario, area privilegiata dal progetto di risanamento dei   A. Capasso, Vergini. C’era una volta la riqualificazione, «Corriere del Mezzogiorno», 22 settembre 2015. 12   Cfr. Mani libere e mani in nero nel ghetto del made in Italy, in Mani di ‘fatica’ nel rione Sanità, 31 marzo 2012. Per un confronto sulle condizioni di lavoro nel settore abbigliamento tra la Campania e le altre regioni, si veda la ricerca organizzata da Clean Clothes Campaign, Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia?, «Report», 2014. 11

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bassi di Napoli a opera della società Sirena, manifesta, secondo il presidente Bruno Discepolo, «una spiccata mobilità sociale ed è popolato in maggioranza da giovani, dove gli occupati sono nella stragrande maggioranza artigiani e commercianti con un discreto grado di istruzione e dove è presente una consistente comunità di extracomunitari»13. Le attività produttive rimangono, tra ridimensionamenti e riqualificazioni, sostanzialmente strategiche. L’artigianato in particolare. Va pure apprezzato lo sforzo di riconvertire e rilanciare l’arte orafa, tra corso Umberto e via Marina, ai margini dell’antico porto di Napoli. 350 esercizi, consorziati da dieci anni nell’«Antico Borgo Orefici», sono inseriti nel distretto orafo campano e impegnati in un piano di riassetto urbano, realizzando, su scala artigianale, produzioni di alta qualità in oro e argento e facendosene promotori attraverso fiere, eventi culturali, iniziative di formazione. Anche il distretto del presepe, da tempo immemorabile nella zona limitrofa a via San Gregorio Armeno e presente fino alle propaggini del Vesuvio, ha saputo traghettare fino ai nostri giorni le arti e il sapere di un’antica tradizione artigianale. Una minuziosa indagine sul campo ne certificò, anni fa, le modalità di produzione, organizzazione e vendita. Le fasi della produzione, si osservava, avvengono attraverso un processo decentrato che vede l’artigiano, titolare della bottega e ideatore del prodotto, affidare «la rifinitura e la decorazione ad altri artigiani di sua fiducia [...] e altrettanto fa per la vestitura»14. Ma è sulla rispondenza del manufatto alla

13   Cfr. B. Discepolo, Introduzione a Programma Pilota di intervento per la riconversione dei bassi ricadenti in un’area dei Quartieri Spagnoli a monte di via Toledo, Napoli 2008, p. 37. 14   A. Manna, M. Marrelli, Distretto culturale di San Gregorio Ar-

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tipicità della tradizione del presepe napoletano, settecentesco o ottocentesco, che si misura la qualità di oggetto d’arte, e con essa l’identità culturale del distretto di San Gregorio Armeno. Rispetto ad altre tradizioni concorrenti, questa si caratterizza per «il tipo di materie prime utilizzate, la preponderanza della manualità nella lavorazione del prodotto, la tipologia dei personaggi, la particolarità dei vestiti e dei tratti somatici dei pastori», che rendono le figure di San Gregorio uniche e atipiche nel panorama nazionale15. Il pastore, insieme alla pizza o ai teschi del cimitero delle Fontanelle, costituisce l’elemento simbolico di una napoletanità entrata a far parte dell’immaginario collettivo, nazionale e internazionale, e testimonia la possibilità di valorizzarla, tutelando e potenziando le piccole realtà che sopravvivono nel centro storico. Esemplare, in tal senso, è l’esperienza dell’architetto e designer Riccardo Dalisi. Nel suo laboratorio/ museo, situato nella vecchia zona degli «Orefici» e punto di riferimento per gli artigiani dell’area, viene proposto, nelle molteplici fogge suggerite dalla sua fantasia, un altro degli emblemi del colore locale: la caffettiera napoletana, che diventa sofisticato oggetto di design, memoria e simbolo di una tradizione che si rinnova. Il modello va seguito. È possibile sfruttare anche qui i mezzi della nuova tecnologia, attingendo agli stimoli della tradizione e proiettando le icone del made in Naples fuori dagli angusti spazi di uso comune16. Ma serve una visione strategica: si tratta di censire e tutelare

meno. Il presepe napoletano. La produzione e l’offerta, Dipartimento di Economia e Statistica Cognetti De Martiis, Working Papers Series, 6, 2007, p. 21. 15   Ivi, p. 23. 16   Cfr. S. Micelli, Il rinascimento dell’artigiano tecnologico, cit.

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le attività artigianali e commerciali di rilevanza storica, incoraggiandone la sopravvivenza attraverso sostegni e agevolazioni; di orientare la formazione degli artigiani in vista della salvaguardia dei mestieri in via di esaurimento (impagliatori, ebanisti, restauratori di murate); di promuovere, infine, la tracciabilità dei prodotti locali attraverso la certificazione di marchi collettivi. Poco o nulla in questo senso è stato fatto. L’area ha risentito dei colpi della recessione, ma non è rimasta immobile. Il ridimensionamento delle attività produttive non ha determinato solo «impoverimento»: ha dischiuso opportunità per nuovi soggetti sociali. Oggi il centro storico sperimenta l’esistenza di un protagonismo civico che si spende in iniziative di rigenerazione urbana. Vanno considerati inoltre, anche se poco studiati, gli effetti delle politiche municipali sul sistema di mobilità e sulla riconversione di identità e funzioni dei singoli spazi territoriali. La sistemazione dell’area contigua alla stazione di piazza Garibaldi restituisce agli antichi insediamenti di Porta Capuana (XV secolo) e Castel Capuano (XII secolo) la funzione di ingresso naturale alla città, rendendoli crocevia tra flussi di traffico e passaggio privilegiato per turisti e visitatori – agevolati, oggi, dai collegamenti ferroviari e autostradali – come avveniva nel XVI secolo. Gli stessi limiti imposti al traffico veicolare nell’area di piazza Dante e, di converso, l’apertura della stazione della metropolitana di via Toledo, incidono sulle condizioni ambientali e produttive dell’area17. Gli 17   «La pedonalizzazione delle strade intorno a via Toledo – ha scritto Pascale Froment – ha avuto l’effetto di rendere accessibili le imprese da parte di forestieri e turisti»: P. Froment, La notion de quartier au prisme du productif. Le Centre historique de Naples, in F. Amato (a cura di), Spazio e società: geografia, pratiche, interazioni, Guida, Napoli 2012, p. 186.

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scenari classici della Napoli turistica sono in divenire. La «metropolitana dell’arte» consente di raggiungere dai comuni dell’hinterland, in un quarto d’ora, il Vomero o via Toledo, a meno di un chilometro dal mare di via Caracciolo. La Napoli dei Quartieri Spagnoli è facilmente raggiungibile dai nuovi flussi turistici. Si intravedono, inoltre, nuove dinamiche residenziali, non solo in relazione all’inserimento dei lavoratori extracomunitari nel centro storico. Si preannuncia la possibilità di ricomporre legami che hanno contato a lungo nella storia della città e che potrebbero tornare a contare. Si facilita la mobilità e si ridefiniscono i valori immobiliari, che tengono conto, adesso, anche della distanza dalle stazioni del metrò. In un articolo del «Financial Times» sull’andamento del mercato immobiliare a Napoli si rileva che «le grandi proprietà storiche in via di trasformazione possono offrire allettanti opportunità», più attraenti di quelle offerte dalle isole del golfo. Il calo del 30% dei prezzi delle case è dovuto, certo, alla cattiva immagine e al difficile contesto, ma Napoli potrebbe tornare a essere oggetto di attrazione per i compratori stranieri, «come è avvenuto per secoli»18. Un obiettivo difficile da raggiungere perché contraddetto, allo stato delle cose, dalla persistenza di condizioni ambientali di qualità ancora bassa. Gli esigui margini di sicurezza, la difficoltà di muoversi nell’intrico di strade e vicoli, a volte inaccessibili, frenano le aperture e impediscono un’agibilità consona alla valorizzazione culturale e turistica dei luoghi. Ma si colgono segnali di cambiamento che spingono a indagare meglio il meccanismo della rigenerazione urbana. 18   Cfr. City in steps with its past, «Financial Times», 14-15 marzo 2015.

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2. Governare il cambiamento: beni da salvare, imprese da creare L’oro della città d’arte si mischia al fango delle aree più degradate della città. Due mondi che si presentano distinti nel racconto della letteratura specialistica e dell’analisi sociale, ma che sono, in realtà, intimamente connessi. Il primo è protagonista della programmazione europea, attraversando la stagione bassoliniana, nonché oggetto della sperimentazione del progetto Sirena, un laboratorio creato per operare sulla disgregata realtà dei bassi di Napoli e che si è giovato del contributo di una miriade di operatori sul campo. Procedendo a macchia di leopardo, in assenza di un’efficace governance politica, essi si sono fatti carico di accompagnare le operazioni di restauro con il risanamento del circostante tessuto sociale. Un insieme di attività avviate grazie ai finanziamenti comunitari e destinate, poi, a disperdersi, lasciando irrisolta la questione delle regole e dei limiti della partecipazione di soggetti privati nella gestione dei beni culturali, anche dopo l’entrata in vigore della legge Franceschini. A Napoli la nomina dei nuovi dirigenti per i poli artistico-museali non offre l’occasione per un confronto tra istituzioni pubbliche e amministrazione municipale, che permetta di superare le tensioni e i conflitti che, in un passato recente, hanno coinvolto il mondo degli addetti ai lavori e la stessa opinione pubblica. L’assessore Antonella Di Nocera, introducendo, nel 2013, le «Giornate della Cultura», denuncia l’impossibilità di garantire la manutenzione ordinaria di biblioteche, scuole, edifici e chiese del centro storico, interrogandosi sul modo in cui risolvere, alla radice, questo problema. Il convegno ­117

non trova risposte esaurienti. Nella visione più vasta di una politica per i beni culturali l’enfasi si concentra sulla priorità della loro fruizione democratica, formulata in diverse accezioni. La «questione economica» viene sfiorata marginalmente19. De Magistris si mostra reticente nello sciogliere il bandolo degli interessi che ruotano intorno alla gestione dei beni culturali. I suoi appelli in difesa di «beni comuni», piazze aperte e strade chiuse non contemplano la ricerca dei mezzi necessari per combattere il degrado dei luoghi e dei monumenti e per gestirne il quotidiano. Insofferente ai vincoli dell’austerità finanziaria, il sindaco parte, lancia in resta, alla ricerca del Sacro Graal dei diritti costituzionali inviolabili, in realtà prigioniero di miti e stereotipi mal digeriti, tra cui il rousseauiano rifiuto della proprietà privata. Ai suoi occhi gli imprenditori e i tecnici, indispensabili per il funzionamento di una moderna città metropolitana, assumono le sembianze di poteri forti, pronti a rapinare il patrimonio culturale della città. Un atteggiamento che mal si concilia con l’esigenza di preservare e qualificare i tesori d’arte, ma che, pure, riesce a toccare qualche corda sensibile in personalità del mondo culturale cittadino. Lo storico dell’arte Tommaso Montanari, ad esempio, punta alla «restituzione del patrimonio storico-artistico ai cittadini», schierandosi contro la mercificazione dell’arte e a favore delle sue, non negoziabili, finalità conoscitive. Egli condivide l’iniziativa di portare nelle scuole le opere d’arte e sostiene l’importanza dell’esperimento non solo «per la conoscenza diretta delle opere di cui si parla», ma anche per riaffermare «simbo19   Cfr. Assessorato alla cultura del Comune di Napoli, Giornate per la cultura, 3 maggio 2013.

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licamente e concretamente i valori della Costituzione». Le opere d’arte pubbliche, afferma, «non si muovono solo per la forza del danaro, del profitto privato degli eventi», non «debbono essere circondate da tavole imbandite per milionari indifferenti»20. Non c’è dubbio che l’esperienza della Fondazione Napoli Novantanove confermi l’importanza della collaborazione col mondo della scuola. Napoli, rileva il presidente Mirella Barracco, con la sua proposta di adozione dei monumenti «è riuscita ad esportare modelli culturali che diventano buone pratiche a livello nazionale», arrivando a coinvolgere 20 regioni e 332 comuni21. Altra cosa, però, è il rifiuto categorico di perseguire gli stessi obiettivi attraverso il sostegno delle risorse e delle energie di un’economia di mercato. L’urbanista Vezio De Lucia, protagonista delle politiche di riassetto urbano con il sindaco Bassolino, torna a parlare di Bagnoli in occasione dell’approvazione del decreto «sblocca Italia» di Renzi, intravedendo l’occasione «di una grande abbuffata che restituisce il comando agli energumeni del cemento armato, comunque vestiti, affossando per sempre le speranze dei napoletani»22. Non si può negare che, nella confusa e incerta navigazione di un Comune privo di risorse, il tema della gestione partecipata, e dal basso, degli spazi pubblici costituisca un aspetto importante della politica culturale di Luigi de Magistris. La discussa vicenda dei gruppi radicali che occupano edifici abbandonati e 20   T. Montanari, Quadri in classe come libri di testo, «Corriere del Mezzogiorno», 14 ottobre 2014. 21   Cfr. N. Festa, Mirella Barracco: tanti monumenti adottati nelle scuole, «Corriere del Mezzogiorno», 10 marzo 2016. 22   V. De Lucia, Ecco la vera storia di Bagnoli, «Corriere del Mezzogiorno», 8 ottobre 2014.

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fatiscenti, destinandoli a spazio di eventi politici e culturali, trova un esito significativo nella delibera municipale sui beni comuni del 2015: in pratica, consente agli occupanti di gestirli, a patto di consentire il libero accesso alla cittadinanza. L’ex asilo Filangieri, il vecchio ospedale psichiatrico giudiziario e il giardino «liberato» di Materdei si apprestano a diventare immagine di una città che fa «cultura dal basso». L’esperimento è controverso. Di fronte ai risultati positivi conseguiti attraverso l’interazione con associazioni e gruppi di privati cittadini viene radicalizzata la tendenza ad «autorizzare», per poi abbandonare a se stessi i meritevoli della gestione23 o, peggio, consentire, grazie alla fruizione democratica degli spazi «liberati», la sopravvivenza di gruppi di militanti della sinistra radicale. Considerando più da vicino le politiche della giunta in tema di beni comuni e partecipazione, Luca Rossomando afferma la disponibilità a tener conto delle istanze avanzate dal territorio, sancita con delibere che affidano «una delega quasi in bianco», e invita a distinguere caso per caso24. È indiscussa la capacità di de Magistris di cavalcare la tigre del consenso interno strizzando l’occhio, nel contempo, alla stampa internazionale. Nel giugno del 2015 il giornale tedesco «Stern» lo incorona «il sindaco rivoluzionario», per la scelta di affidare i siti abbandonati ai relativi occupanti. Un giudizio indulgente nei confronti di un’iniziativa unica nel panorama delle politiche culturali delle grandi città europee, ma che induce a riflettere sulle politiche di ge-

23   R. Rosa, Quante delusioni nella città partecipata, «Corriere del Mezzogiorno», 11 novembre 2015. 24   L. Rossomando, Spazi pubblici, spazi vuoti, spazzi occupati, in Id. (a cura di), Lo stato della città, cit., p. 407.

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stione del centro storico. Un insieme di tessere che non si compongono in una previdente strategia di sviluppo urbano. Occorrerebbe, osserva Attilio Belli, «sradicare alcuni tabù»: in primis quello «della conservazione tout court dell’edilizia esistente». Si tratta, in larga parte, di edifici di scarsa qualità costruttiva e architettonica, che fu un errore non ridimensionare e rigenerare secondo quanto chiedeva «il regno del possibile»25. E, sempre all’interno delle coordinate del progetto Unesco, si potrebbe procedere alla riutilizzazione degli spazi, spesso in abbandono, del patrimonio pubblico e privato. Ma, in senso più lato, bisogna denunciare la sopravvivenza di antichi e irriducibili retaggi ideologici. Non è lecito ricusare, a priori, il contributo dell’iniziativa privata. Un atteggiamento diffuso negli orizzonti sociali e culturali della città: associazioni di categoria, fondazioni culturali, esponenti del mondo accademico si schierano, con solerzia, in difesa della tutela del centro storico. Ne proclamano l’intangibilità, immedesimandosi nelle preoccupazioni e nei timori di coloro che vivono la difficile quotidianità di Bagnoli o della Napoli antica, e paventano la rottura dell’equilibrio tra le componenti sociali della città. Per costoro il fantasma della gentrificazione aleggia, insieme a quello delle «mani sulla città», come potenziale e mai superata minaccia per l’identità residenziale e culturale delle comunità di quartiere. Per un preoccupato blogger della Sanità si vuol «tirare fuori qualcuno o qualcuna e alla fine sequestrare per guadagnare. Hanno capito che il rione Sanità è ricco e non hanno nessuna intenzione di lasciare questa ricchezza a quattro ‘ignoranti’ del posto. Ogni giorno compaiono 25   A. Belli, La nuova urbanistica. Recupero e sviluppo, «Corriere del Mezzogiorno», 22 marzo 2016.

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progetti per il rione finanziati a fior di milioni di euro, e così ogni giorno pensano di lucrare, di guadagnare, di sfruttare, così come è successo in diverse altre metropoli del mondo»26. A Bagnoli l’arrivo di nuovi residenti nel mondo dell’ex comunità induce a lamentare «il trasferimento di tutto quel patrimonio di ricchezza sociale, e culturale, su un altro terreno: che fosse l’industria sostenibile, l’artigianato, il turismo, o qualsiasi cosa. Invece ci hanno cambiato, e ci hanno resi una razza in via di estinzione»27. Per non parlare del centro storico, dove, dopo decenni di accesi dibattiti, la categoria di gentrificazione viene sfruttata per ideologizzazioni che riguardano la sua stessa definizione: il conflitto tra ceti e classi per il controllo del territorio. Guardando al caso dei Quartieri Spagnoli, Giovanni Laino parla di una «modernizzazione che promette di mettere d’accordo valore della rendita, recupero e mantenimento degli immobili privati e decoro urbano» e, riferendosi «all’ingresso di immigrati nel locale mercato delle abitazioni», invita ad andare oltre «il racconto ormai un po’ superficiale di dove sono e cosa fanno gli immigrati nell’area oggetto di interesse»28. Bisogna analizzare approfonditamente il significato di «privato» nel processo di rigenerazione dello spazio urbano. Il Comune ne ha percepito l’importanza e ha varato il progetto «Monumentando», per coinvolgere i privati nel restauro dei monumenti della città; ma non si tratta solo di sponsorizzare o, in senso più negativo,

26   Cfr. Rigenerazione urbana e ricambio sociale, con l’approvazione forzata a fior di illusioni, «Quartiere Sanità», 10 giugno 2013. 27   Cfr. La polveriera, «Napolimonitor», settembre-ottobre 2014. 28   G. Laino, Gli immigrati nel centro storico di Napoli: inserimento e gentrification, «Urbanistica Informazioni», 2003, pp. 63-65.

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di inserire nuovi proprietari in vecchie dimore. È necessario, ad esempio, ricomporre le disperse energie artigianali in un «distretto dell’arte», capace di generare ricchezza e alimentare l’occupazione. Si tratta, dunque, di sostituire l’immagine dei «nemici di classe» con quella, rassicurante, di privati e intraprendenti protagonisti del rilancio economico e civile. È quanto è accaduto nel luglio 2016 – e questa volta sotto l’egida dell’amministrazione comunale – nei quattro giorni che hanno celebrato, tra le strade del centro storico, l’anniversario della maison Dolce & Gabbana. Monopolizzando pezzi consistenti dello spazio urbano, è stata offerta la prova della possibilità di declinare in modo nuovo, e con successo, il retaggio di simboli e – perché no – stereotipi musicali, artistici, antropologici, riferibili al passato della città. Una scintillante giostra mediatica che ha confermato, però, l’atteggiamento sostanzialmente «passivo», o «agnostico», dei napoletani di fronte alla valorizzazione dei beni culturali. Per promuovere il recupero di quanto versa in abbandono nelle chiese e nei monumenti del centro storico non basta saper cogliere le occasioni che il nuovo trend turistico-mediatico può dischiudere: è necessario credere che il manufatto d’arte possa diventare strumento di sviluppo contro il degrado ambientale e, perché no, catalizzatore di capitali e flussi turistici indispensabili alla sua sopravvivenza. Tutto questo costituisce opportunità di lavoro per quei giovani che sappiano contaminare la cultura di una formazione umanistica, «alta» e distaccata, con le tecniche del management dei beni culturali, e tuttavia suscita perplessità e resistenze: c’è incertezza sui passi da compiere per arrestare il degrado e la dispersione dei beni d’arte del territorio. L’intervento centralizzatore e dirigistico del governo nella gestione dei beni culturali non ha suscitato particolari ­123

consensi. I responsabili dei nuovi poli museali – Capodimonte, Caserta, Pompei – non sfuggono alle critiche di addetti ai lavori e studiosi della Napoli artistica. Eduardo Cicelyn non usa mezzi termini: contestandone le scelte, li definisce «manager prima che gestori di cultura e per giunta privi di soldi», che si «affannano a creare occasioni mediatiche per folle astratte»29. Va detto, però, che il governo dei luoghi d’arte è stato sottratto all’approssimazione e all’inefficienza delle passate stagioni, avviando il recupero della reggia di Caserta o restituendo al pubblico il bosco di Capodimonte, e il successo dell’«operazione Pompei», volta a mettere in sicurezza il traballante assetto del più importante sito archeologico del Paese, è diventato un caso internazionale. È vero, piuttosto, che non è stata fatta chiarezza sugli obiettivi da perseguire attraverso la tutela e la valorizzazione. C’è da chiedersi, in particolare, se sia ora di coinvolgere il settore privato in questo processo. Senza il suo sostegno le pietre antiche della città d’arte rischiano di franare su se stesse o di negarsi, come avviene attualmente, sia alla fruizione turistica, auspicata dai difensori di un’arte libera da vincoli materiali, sia al recupero, morale e civile, dei ragazzi di Napoli. I giovani si aggirano tra le strade della città antica ignari di una storia che, per loro, continua ad appartenere ad altri e del cui peso, alla fine, andrebbero liberati. Tutto questo significa fare i conti con l’eredità storica della città per aggiornarne il significato e il valore. «Nel Sud – osserva l’antropologo Vito Teti – in epoca moderna le élites hanno avuto sempre come riferimento un mondo perduto, la civiltà magno-greca, il mare dei miti, degli 29   E. Cicelyn, Musei. Il nuovo corso si ripropone soprattutto come area di restaurazione, «Corriere del Mezzogiorno», 11 giugno 2016.

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eroi, delle idee», e ciò «genera melanconia, si trasforma in auto-osservazione esasperata, senza un riferimento problematico al mondo esterno»30. Senza rinnegare la propria identità, Napoli deve ripensare il suo rapporto con il passato per vivere, consapevolmente, le occasioni del presente e del futuro prossimo. Può aiutare, su questa strada, la spinta vitalistica e «immemore» di una nuova generazione di musicisti, artisti, operatori dell’immagine e del suono, ma serve, in primo luogo – come si sarebbe detto una volta –, una «rivoluzione culturale» a 360 gradi, per operare in sintonia con le trasformazioni tecnologiche, etiche, antropologiche di questi tempi. Un passaggio difficile! Mariano D’Antonio ricorda che «la scelta di realizzare un progetto d’arte, di cultura, di conoscenza scientifica, servendosi dello strumento impresa», si scontra con la scarsa propensione a lavorare in forma collettiva, privilegiando l’appartenenza familiare anziché il merito e la competenza31. L’impresa di cui parla D’Antonio è diventata oggetto di una specializzazione accademica. Nei dipartimenti di Studi umanistici delle università napoletane sono stati attivati corsi di Economia e gestione del patrimonio e, anche qui, l’approccio multidisciplinare verso il rapporto arte/economia ha dato forma concreta alle aziende che «hanno nel loro core business la gestione diretta dei musei, dei teatri, di altri eventi culturali e integrano i loro prodotti con i beni dell’arte di proprietà di istituzioni culturali»32. Oggi i soggetti   V. Teti, Maledetto Sud, Einaudi, Torino 2013, pp. 66-67.   M. D’Antonio, Così la cultura tenta la strada dell’imprenditoria, «la Repubblica. Napoli», 17 marzo 2015. 32   Cfr. G. Candela, Introduzione a Il ruolo delle imprese nella cultura e nell’arte, in «Rivista di politica economica», maggio-giugno 2003. 30 31

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che perseguono il profitto per realizzare le loro attività istituzionali hanno un peso rilevante nel sistema economico del Paese. Il rapporto elaborato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere attesta che le imprese delle filiere culturali e creative, con settori connessi, hanno mosso, nel 2015, il 15,5% del valore aggiunto nazionale, equivalente a 227 miliardi di euro33. In quest’ambito il contributo del Mezzogiorno è ancora limitato e non è detto che si possa recuperare con facilità. Ho vissuto dall’interno, durante la stagione del «rinascimento napoletano», l’esperienza della «costruzione» di un museo. Nel 1996 ho coordinato un gruppo di studiosi delle diverse università napoletane, incaricato dall’amministrazione Bassolino di elaborare un progetto per la costituzione del Museo del Mare. Si intendeva creare, nell’area portuale, una realtà analoga a quelle di Barcellona, Londra, Genova. Coinvolgendo molteplici competenze, ci confrontammo con un tema di fondo dell’identità municipale: Napoli, città di mare, ricca di reperti e memorie di una lunga storia ma, in definitiva, restia a svolgere il ruolo che la naturale collocazione geo­grafica le aveva conferito. Il lavoro approdò alla redazione di un progetto tagliato sulla specifica realtà di un edificio di elevato prestigio architettonico: 4.000 metri di spazio espositivo, a ridosso delle banchine del porto, nell’ex mercato ittico della città. Un collettore di reperti di ogni genere: modelli di imbarcazioni, documenti d’epoca, manufatti, attrezzi, codici, portolani, giornali di bordo, provenienti da collezioni private e pubbliche. Era prevista, inoltre, la sperimentazione di modalità virtuali di rappresentazione marittima della città.

  Cfr. Union Camere/Symbola, Io sono cultura, Rapporto 2015.

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Il progetto naufragò, incontrando mille difficoltà: dall’utilizzazione della sede alle resistenze di chi disconosceva l’esigenza di un museo del genere, imperniato su testimonianze di cultura materiale, in una città che abbandonava, nei depositi, migliaia di reperti d’arte di straordinario valore. Contò, anche, il distogliersi dell’attenzione della committenza politica, sempre più orientata a lasciare il segno del rapporto tra la città e l’arte attraverso iniziative già in corso d’opera: il metrò dell’arte, il museo Madre. L’elemento decisivo, però, fu probabilmente un altro. Mi dimisi da coordinatore quando mi resi conto dell’impossibilità di sopperire, come team di progettisti e staff di politici e burocrati, ai compiti organizzativi e gestionali che la realizzazione richiedeva. Mancò la consapevolezza di definire, a un tempo, un’«idea» museografica e un’«impresa culturale». Il che significa non aver ricercato i sostegni e i contributi necessari a garantirne l’attuazione, a livello locale, nazionale e internazionale. Un percorso ormai obbligato per quanti operano sul terreno della valorizzazione del patrimonio artistico ambientale: associazioni, privati cittadini e istituzioni. Tramontata la stagione degli aiuti esterni ed esaurita la positiva esperienza del progetto Sirena, ogni iniziativa è ormai nelle mani di chi, pur senza programmi e guide condivise, non si rassegna a mettersi da parte. In prima linea avanza un volontariato che contratta spazi e licenze con gli interlocutori istituzionali – il Comune e la Chiesa, in primis – ma aprendosi alle forze del mercato e cercando una legittimazione nel contesto sociale circostante. Diventano decisivi, adesso, i legami di solidarietà e coesione, lacerati dall’avanzata incontrollata del degrado urbano. In un incontro tra urbanisti e psicologi sui problemi del centro storico, ­127

organizzato da Lanificio 25, si riconosce l’impossibilità di «recuperare gli spazi urbani senza intervenire sullo stato psicologico di quelli che vi vivono». La psicologa Caterina Arcidiacono osserva che, a Napoli, è venuto meno il fondamento della fiducia collettiva, la «speranza che domani si possa fare qualche cosa». Se viene meno questa condizione, «la certezza che nulla si può fare ci mette nella condizione di non fare» e ci si chiude nella propria sfera individuale34. Solo recuperando la fiducia nelle potenziali energie presenti sul territorio si può vincere la partita del rilancio, civile ed economico, del centro storico. Lo dimostrano le storie di alcuni protagonisti. Hanno alle spalle percorsi formativi diversi e sono accomunati dalla convinzione di poter intervenire sulla realtà in cui operano, coniugando l’agire economico con l’interpretazione innovativa della tutela e della valorizzazione dei beni artistico-culturali. Intendono «sfidare il tradizionale disinteresse dei napoletani verso Napoli, il nostro tradizionale attendere che qualcun altro faccia»35. Donne e uomini da rigenerare socialmente e «fabbriche» da tutelare e riconvertire come facce di un’identica realtà. Qualcosa si muove, e da tempo, nelle enclaves più «problematiche» di Napoli antica. Nell’area di Porta Capuana, a pochi passi dalla stazione centrale, il restauro della chiesa cinquecentesca di Santa Caterina a Formiello e della contigua fabbrica borbonica raggruppa iniziative che intendono far rivivere le antiche attività artigianali del luogo. Ne sono protagonisti, con il progetto Made in Cloister, l’impren34   Cfr. F.S. Cimmino, Il recupero urbano di Porta Capuana parte dai rapporti sociali, «Campaniasuweb.it», 13 dicembre 2013. 35   Ibid.

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ditore Davide De Blasio, la madre Rosa Alba Impronta e l’architetto Antonio Martiniello. Partendo dal recupero del chiostro, offrono sostegno alle «attività artigianali attraverso la visione di artisti e designer internazionali», giovandosi di una rete di promoter da loro sensibilizzati. Cercano di restaurare «i contenitori storici e monumentali, progettare la rete dei servizi culturali e sociali, e ridare vita all’antico proiettandolo nel futuro della modernità». Il lanificio recuperato diventa hub di attività artistiche culturali e artigianali: Dino Morra vi apre una galleria d’arte contemporanea, la ballerina Valeria Apicella avvia un atelier di danza, Vincenzo Sangiovanni e Caterina Gambardella impiantano un laboratorio per la progettazione tridimensionale, la manutenzione e l’utilizzo di stampanti laser 3D per farne «un polo di attrazione di artisti, designer, fotografi, giovani imprenditori»36. L’iniziativa riveste un valore simbolico: nel maggio del 2016 il ministro Dario Franceschini inaugura il chiostro con una mostra dell’artista Laurie Anderson e il luogo diviene punto di riferimento di un processo di riconversione urbana, coinvolgendo «non solo gli artigiani ma anche i giovani del quartiere attraverso una scuola di formazione per gli antichi mestieri»37. Sempre nella stessa area, altre energie si mobilitano. Mirano a «creare una sinergia tra gli abitanti e gli attori sociali del rione per valorizzare i monumenti e le tradizioni artigianali e gastronomiche», sotto la guida di due associazioni lo  Cfr. M. Guida, Laboratorio Porta Capuana, «Corriere del Mezzogiorno», 11 giugno 2015. Sulla rigenerazione del lanificio, avviata nel 2005 dalla Carlo Rendano Association, e sulle successive iniziative di Made in Cloister si veda L. Cavola, La cultura fa impresa, in M. D’Antonio (a cura di), Napoli oltre la crisi, cit., pp. 96-109. 37   A.P. Merone, Il chiostro che rilancia Porta Capuana, «Corriere del Mezzogiorno», 24 maggio 2016. 36

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cali: Carlo Rendano Association e Aste & Nodi, agenzia informale di sviluppo locale38. Ma è forse nell’epicentro della crisi sociale e civile della città, alla Sanità e ai Vergini, che prendono forma le iniziative più visibili sul piano della comunicazione e più attrattive per interlocutori nazionali e internazionali. Il merito è in larga parte di Ernesto Albanese e di don Antonio Loffredo. Il primo, figlio di una vittima della camorra, ritorna a Napoli per sperimentare la possibilità di una rinascita dal basso; il secondo vive il suo ufficio di parroco di quartiere come missione di rigenerazione sociale e culturale. Le loro strade si incrociano per convergere nella costituzione di L’Altra Napoli Onlus, un’associazione volta a «creare nella popolazione del rione la volontà di uscire da un isolamento culturale e sociale che si tramanda da sempre»39. In precedenza era già sorta la Fondazione di Comunità San Gennaro, promossa da Carlo Borromeo e Marco Vitale, presieduta da Mimmo Jodice: un gruppo di promoter che inserisce l’iniziativa di L’Altra Napoli in un network finanziario internazionale, avvicinandolo al tessuto produttivo locale. «Oggi – afferma Antonio Ruffo – vivono e guadagnano con e nella riscoperta della loro origine e tradizione: la Paranza, Officina dei Talenti, Nuovo Teatro Sanità, Apogeo, Sanitansamble, alcune delle creature che, ogni giorno di più, si rafforzano, offrendo prospettive di nuova occupazione ai giovani del posto»40. Anche i Quartieri Spagnoli sono attraversati da mol-

38   A. D’Agnese, Napoli: il quartiere Sanità rinasce dal basso, «l’Espresso», 19 febbraio 2015. 39   A. Ruffo, Un nuovo miracolo di San Gennaro per il rione Sanità, «Il Sole 24 Ore», 28 dicembre 2014. 40   Ibid.

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teplici iniziative. Intorno all’antica scala, oggi dismessa, che da Montesanto conduce a corso Vittorio Emanuele, si condensa la sperimentazione di «buone pratiche» (laboratori artigianali, startup, bioedilizia) che mirano a influire sulle difficili condizioni di vita di un «quartiere scassato», sede di «grandi e piccoli abusivismi», di «discariche a cielo aperto», pericoloso di giorno e di notte41; ma anche «intelligente», perché teso a ridisegnare, in modo non traumatico e col conforto degli operatori territoriali, la qualità urbanistica e culturale di un pezzo della Napoli antica. A poca distanza, e con maggior radicamento civile e sociale, opera l’ambizioso progetto della Fondazione Quartieri Spagnoli (Foqus), presieduta da Rachele Furfaro e diretta da Renato Quaglia. Impegnata sul fronte dell’evasione scolastica, al centro dei Quartieri Spagnoli, all’interno dei 6.000 mq del cinquecentesco Istituto Montecalvario, oggi risanato, Foqus gestisce una filiera educativa che si estende dal nido per i bambini alle botteghe di mestiere. Al nucleo originario si è affiancata l’azione di imprese e privati – tra gli altri: Alcott, CarpisaYamamay, Arte’m –, che gestiscono le botteghe di mestiere, gli incubatori di startup, i master dell’Accademia di Belle Arti. Il bilancio è positivo: 300 bambini accolti, di cui 95 assistiti dal Comune o dalla Fondazione Banco di Napoli, 45 giovani avviati al lavoro, 25 imprese private compartecipanti, 136 nuovi posti di lavoro. E poi corsi di lingue, informatica, grafica, editoria, design, organizzati da un network di cooperative che fornisce i propri servizi a 100.000 persone all’anno42. 41   A. Musi, Montesanto quartiere «scassato», «la Repubblica. Napoli», 24 agosto 2015. 42   Cfr. B. De Fazio, La sfida di Focus: scuola e formazione per la

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Uno schema vincente, affermatosi come vero e proprio modello di rigenerazione sociale, che suscita riscoperte e sperimentazioni. Come nel caso di Valeria Borrelli, film-maker, e Antonio Sacco, architetto e fotografo, che hanno scelto un convento del XVI secolo nascosto in un cortile interno, al centro dei Quartieri Spagnoli, come casa e sede di lavoro. Qui sviluppano l’attività professionale ed elaborano progetti artistici che possono fruire della presenza di un teatro, ricavato nell’antico refettorio del convento43. Dal racconto delle storie individuali dei protagonisti emerge non solo la condivisione di valori e di obiettivi, ma anche la molteplicità e la consistenza delle competenze in campo. I frammenti vitali di questa rigenerazione rivelano conoscenze avanzate (digitalizzazione di attività produttive e comunicazione in web) e reti di relazioni professionali che oltrepassano la scala locale, sensibili alla necessità di operare nel rispetto delle compatibilità economiche. La loro azione è guidata da una visione onnicomprensiva del processo di rigenerazione: creare spazi di vivibilità, organizzarli attraverso la formazione e la tutela dei giovani, ma anche potenziare le attività produttive e creare lavoro. Quest’ultimo problema viene affrontato in modi diversi. Prende il via come tutorship di vecchie e nuove realtà artigianali o mira alle ricadute positive della bonifica ambientale e sociale, punto di partenza di iniziative imprenditoriali collegate alla valorizzazione turistica del centro storico: made in Naples e imprese culturali. Qui, utilizzando le

«rigenerazione» dei Quartieri Spagnoli, «la Repubblica. Napoli», 29 settembre 2014. 43   Cfr. R. Kerstin, A Napoli un convento del Cinquecento nei Quartieri Spagnoli, «Corriere della Sera. Living», 28 maggio 2015.

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tecnologie informatiche, spesso molto avanzate, ci si colloca, a basso costo di produzione, al centro di reti di informazione che favoriscono l’incontro (fruizione) fra turisti/consumatori e produttori di beni e servizi. Ma il confronto quotidiano con il degrado sociale e ambientale (scuola e sicurezza) e con l’isolamento e la dispersione è duro. Chiunque incontri i protagonisti di queste esperienze coglie in loro, insieme all’orgoglio e alla fiducia per i risultati raggiunti, la preoccupazione e la delusione per le disattenzioni e le omissioni dell’interlocutore pubblico. Il Comune, in primis, ma anche la Regione, che hanno rinunciato a farsi carico della governance politica dei processi di tutela e valorizzazione del centro storico, e tralasciato di seguire e accompagnare le iniziative di rigenerazione del contesto sociale. Le associazioni, le cooperative di quartiere, le imprese che lavorano intorno e dentro le «fabbriche» dell’area, cercano tutele e guide, non risorse. Costituiscono un capillare insieme di energie che coadiuva gli operatori del restauro, legando la rinascita del bene d’arte alla sperimentazione di modelli di «rianimazione» sociale ed economica, ma, privi di guida politica, si muovono in ordine sparso, senza punti di riferimento strategici, sia urbanistici che culturali. In altre parti del Mezzogiorno si è fatto di meglio.

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LA METROPOLI RILUTTANTE

1. Si sveglia la provincia Addormentata e immobile. È questa l’immagine della provincia di Napoli che i racconti giovanili di Michele Prisco trasmettono al lettore italiano degli anni Cinquanta del secolo scorso, tratteggiando, in La provincia addormentata, le vite e i pensieri di una borghesia di provincia. Un piccolo universo alle pendici del Vesuvio, tra memorie leopardiane e rovine pompeiane, incardinato nello scenario di una natura ancora immune dagli sconvolgimenti della modernizzazione urbanistica. «Chi percorre la zona che si adagia alle falde vesuviane – scrive Prisco nella prefazione – noterà un gruppo di borgate interrotte o separate tra loro da colline di pini o castagneti o altre zone altrimenti boschive: sono contrade semplici e sane, dove la vita sembra fermarsi improvvisamente intorpidita dall’invadenza del sole»1. Un incipit che esprime la suggestione che il paesaggio è in grado di esercitare su una borghesia di campagna – di cui l’autore è parte – ancora al centro delle relazio-

1   M. Prisco, La provincia addormentata, Rizzoli, Milano 2005, p. 110.

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ni che legano Napoli al «contado». Si è osservato che le vicende dei protagonisti di questi racconti evocano un panorama «colto nella sua dimensione cromatica, sonora, olfattiva, eretto a luogo dell’anima ma anche a scenario concreto di un’epoca e di uno spazio»2. Uno «spazio» che delimita la complessità del territorio in cui sono compresi i 93 comuni della provincia napoletana, che vivono rapporti controversi con il capoluogo e subiscono il peso di una condizione ambientale (vulcani, terremoti, minacce antropiche) che ne ha modellato i singoli contesti geografici, storici ed economici3, facendone salva, in larga parte, la condivisione di valori e risorse propri di una società agraria. All’inizio degli anni Cinquanta Napoli mantiene stretti legami, economici e logistici, con i centri agricoli dell’hinterland. È al centro di un sistema di scambi che offre sbocco alle produzioni della Campania Felix, garantendosi il proprio approvvigionamento e assecondando e controllando, attraverso le istituzioni finanziarie, l’espandersi e il fiorire delle forme produttive tipiche delle comunità affacciate sul golfo: in primo luogo cantieristica, compagnie di navigazione, pastifici, guanti, corallo. Questo sostrato produttivo, prevalentemente agricolo e commerciale, costituisce anche il campo di azione per i traffici delle reti criminali che si disputano il controllo della circolazione delle merci su scala regionale. Scavando negli archivi cinematografici è facile imbattersi nel volto inquietante di una società contadina fatalmente pe-

2   S. Siniscalchi, La «provincia addormentata»: i paesaggi vesuviani nei racconti di Michele Prisco, Università di Salerno, Conference Papers, luglio 2008. 3   Cfr. C. de Seta, A. Buccaro (a cura di), I centri storici della provincia di Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009.

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netrata dalle forme criminali del capoluogo. Parliamo del mondo che favorisce la scalata e l’affermazione di Pascalone ’e Nola, ispiratore della figura del protagonista del film La sfida, di Francesco Rosi, destinato a soccombere sotto i colpi della furia camorrista. È certo che all’inizio di quegli anni il divario tra la città e la campagna è ben marcato nella geografia del paesaggio, come pure nelle forme identitarie. A Napoli sopravvivono, sulle colline ancora verdi del Vomero, i tratti di una realtà agricola che la crescita edilizia è sul punto di cancellare. Basta percorrere, però, pochi chilometri dal centro della città per imbattersi nelle masserie disseminate nei campi circostanti. A Caivano, Pollena Trocchia, Cardito, la presenza degli animali da allevamento, nelle stalle dei casali, si percepisce attraverso suoni e odori, indimenticabili per i ragazzi che vivranno nell’epoca, ormai imminente, della motorizzazione di massa. Brandelli di memoria del passaggio che segnerà le tante province, addormentate, dell’Italia del dopoguerra. Ma guardando a fondo nel sistema di valori e nei modelli di comportamento di questa periferia agraria troviamo anche di più: il fondamento identitario di comunità agricole che si riconoscono in una miriade di elementi storici e religiosi. La provincia è un potente polo di attrazione della religiosità del popolo napoletano. Prima che le statue del santo di Pietrelcina si moltiplicassero nei luoghi di culto dell’intero Mezzogiorno, sono stati i centri di devozione di Pompei e Nola, fino al santuario di Montevergine in Irpinia, ad accendere l’immaginario religioso del popolo napoletano, codificandone riti e liturgie. Una religiosità ben radicata nel costume delle classi popolari, attratte dalla festa dei gigli di Nola, dai pellegrinaggi ai santuari di Pompei e Montevergine, e solite avviarsi in processione, in oc­136

casione delle feste di quartiere per la gloria di questo o quel santo. Una ritualità che, riportata sulla scala delle comunità provinciali, mostra la sua faccia antropologica e culturale: una forma di autorappresentazione identitaria di «gente di campagna» che non sfugge allo sguardo degli osservatori del tempo, né si nega alla macchina da presa del più ispirato cinema italiano. Rivedendo il sempre più apprezzato Viaggio in Italia di Roberto Rossellini troviamo ben documentato il senso di una pratica religiosa intesa come esternazione di sofferenza e speranza, pubblicamente esibite. Nel film si consuma la crisi di una coppia di borghesi nordeuropei, attraverso il folgorante confronto tra la sobrietà affettiva e la riservatezza dei protagonisti e la vitalità urlata della religiosità «napoletana». La scena finale del «naufragio» di Ingrid Bergman, nella caotica e affollata processione di un paese vesuviano in festa, mette in primo piano il volto della stessa «provincia» di Michele Prisco, una sensibilità comune a tante realtà provinciali. Se, come osserva Lello Mazzacane, qui, ancora ai nostri giorni, «ciascuno diviene geloso della propria identità, delle proprie inflessioni e sfumature dialettali, come del proprio santo patrono o delle proprie feste», è anche vero che, «nell’immensa città provincia», la trama composita delle feste religiose «costituisce ancora il tessuto connettivo di una religiosità ‘popolare’ dell’intera area»4. La crisi di questo mondo antico, il suo mutare in forme economiche e sociali più avanzate, ma «altre» da sé, sta tutta dentro il processo di modernizzazione del Paese, a partire dagli anni del miracolo economico. Il passaggio dai casali alle fabbriche non è dovuto pe4   L. Mazzacane, Provincia in festa, in Due secoli della Provincia, due secoli nella Provincia, cit., vol. II, p. 68.

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rò, in questo caso, a spinte «endogene». È frutto di scelte, che riconvertono la vocazione agricola dell’area nella costruzione di una società aperta alla dislocazione di imprese industriali. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta la periferia agraria cambia volto per effetto dell’espansione della base industriale napoletana. Subisce, soprattutto, gli effetti della disordinata urbanizzazione delle sue comunità. Un modello di crescita edilizia che dalla periferia cittadina raggiunge i comuni dell’hinterland per dar corpo alla conurbazione dei nostri tempi. Abbandonate per il lavoro in fabbrica, le «terre» che componevano il paesaggio agreste della Campania Felix si tramutano nella successione di condomini finanziati dalle leggi speciali, espressione di una speculazione che ne trasforma il valore paesaggistico in proventi della rendita edilizia. L’occupazione delle aree edificabili cancella i confini tra i vecchi borghi agricoli e annulla le distinzioni ambientali tra l’una e l’altra comunità. Un trend che si intensifica nel corso degli anni Ottanta, quando i fondi post-terremoto facilitano ulteriori progressi nel passaggio, rapido e non indolore, alla società del «benessere». Si è osservato che, nei quartieri dormitorio che hanno offerto un tetto a centinaia di migliaia di individui, in assenza di una rete adeguata di servizi, «il massimo cui si può aspirare è veder realizzato, nei pressi della propria abitazione, un nuovo centro commerciale oasi delle culture di massa del moderno Homo videns»5. Un percorso documentato dalle schede che nel 2008, in occasione del bicentenario, l’amministrazione provinciale ha dedicato ai comuni del territorio napoletano. A Giugliano, il comune a maggiore densità 5   M. Iuliano, L’urbanistica dei margini: un approccio contemporaneo, in C. de Seta, A. Buccaro (a cura di), I centri storici, cit., p. 94.

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abitativa dell’area, il processo di deruralizzazione lascia spazio a un’antica vocazione mercantile, creando un polo di distribuzione di prodotti ortofrutticoli. Intanto l’industrializzazione progredisce e si candida a diventare, nelle ultime decadi del Novecento, il principale ramo di attività6. Nel decennio 1961-71 il comune di Casoria raddoppia la popolazione, raggiungendo i 54.785 abitanti, e si trasforma in un importante polo industriale. La localizzazione di piccole e medie imprese, in prevalenza meccaniche, determina «un’espansione tumultuosa ed incontrollata dell’edilizia residenziale che sfigura la fisionomia urbana precedente, provocando di conseguenza un consistente flusso migratorio dall’area urbana di Napoli»7. Ad Acerra la grande trasformazione viene assecondata dal contemporaneo sviluppo del settore edilizio e dall’espansione dei servizi. Nel 1951 oltre il 51% della popolazione è occupato nel settore primario ed è elevato il numero degli analfabeti. Dieci anni dopo la scolarizzazione dispiega i suoi effetti, perché raddoppia il numero di giovani in possesso di un diploma di scuola media inferiore. Procede anche il processo di deruralizzazione, assecondato dall’insediamento della Montefibre. Intanto la popolazione cresce a ritmi sostenuti, superando, nel 2001, le 40.000 unità8. A Pomigliano d’Arco, comune capofila di un’industrializzazione preannunciata dalle localizzazioni della manifattura bellica degli anni Quaranta, il passaggio dal lavoro agricolo a quello industriale non può essere

6   Provincia di Napoli, Repertorio-dizionario dei Comuni della provincia di Napoli, Paparo, Napoli 2007, pp. 20-21. 7   Ivi, p. 184. 8   Ivi, p. 123.

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ricollegato all’esaurirsi della vocazione agricola. Qui la struttura produttiva della comunità era già frammentata e fragile, rivelandosi «economicamente insufficiente per alimentare una crescita sostenibile del territorio»9. Anche per questa originaria «debolezza» la manifattura locale non si converte in imprenditorialità diffusa, ma si configura come sistema di produzione indotto dagli stimoli della grande industria nazionale10. E si potrebbe continuare, ancora, nella disamina di quanto si intravede dietro la distesa di case che ha cancellato i «paesaggi» evocati da Michele Prisco, se non convenisse soffermarsi sulle modalità e gli effetti della «grande trasformazione». Cambia, intanto, la tipologia degli insediamenti industriali: si assiste all’innesto della fabbrica fordista sul tronco delle originarie dislocazioni prebelliche ed è forte il legame con il complesso delle partecipazioni statali, mentre manca la piccola scala produttiva, con la manifattura tessile e calzaturiera, erede di antiche esperienze artigianali. In uno studio di vari anni fa Paola De Vivo ha messo a fuoco i rapporti fra territorio e impresa in un comune di 30.000 abitanti a nord-est di Napoli. Dall’indagine emerge la faticosa espansione della piccola realtà produttiva, ma anche lo «stimolo di una cultura sedimentata sul territorio che ha consentito lo sviluppo di una mentalità acquisitiva, e ha dato luogo ad una peculiare divisione del lavoro familiare». La famiglia, appunto, concorre, con le preesistenti strutture fondiarie, a fornire le risorse per attività autonome e a definire un insieme di compatibilità finanziarie e imprenditoriali che «condi9   L. Cantone, La gestione strategica dei territori nell’economia post-fordista, Massa Editore, Napoli 2003, p. 22. 10   Ivi, p. 26.

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ziona l’organizzazione territoriale del lavoro delle stesse singole imprese»11. L’autorappresentazione della provincia, che coglie l’occasione del bicentenario per raccontarsi prima di uscire di scena, non ne tiene conto. Si concentra su alcuni temi essenziali – la storia, il patrimonio artistico ambientale, il modello economico sociale –, registra i progressi dell’alfabetizzazione, celebra l’ascesa sociale di un territorio che manda i figli all’università a Napoli, elenca ospedali, scuole, centri di assistenza. Si racconta, insomma, come crescita di una città diffusa che circonda e allarga il perimetro dell’insediamento napoletano, ma ignora la complessità delle forme produttive rigenerate – come abbiamo visto – dalla stagione post-fordista, né si sofferma sulla trasformazione identitaria di un mondo in fuga dalle sue origini contadine. Non chiarisce, infine, le modalità e i costi del «risveglio», composto, rispetto alla realtà urbana dell’ex capitale, di rotture e traumi sociali dolorosi e poco considerati. Quel settore della sociologia che studia l’articolazione dei gruppi sociali ha recepito, con tempestività, i mutamenti di ruolo e di status che investono il mondo del lavoro agricolo. Sul finire degli anni Ottanta Gerardo Ragone evidenzia il nesso che intercorre tra il «circuito perverso dell’edilizia», innestato dall’urbanizzazione incontrollata, e «l’aggravarsi della disoccupazione, lo sviluppo dell’economia informale e illegale, la diffusione dell’assistenzialismo»12. Ne scaturisce, a suo avviso, una sostanziale mutazione delle componenti sociali.

11   P. De Vivo, Sviluppo locale e Mezzogiorno, Angeli, Milano 1997, pp. 40-41. 12   G. Ragone, Vecchie e nuove classi sociali nell’area napoletana, «Orizzonti economici», 1986, n. 53, p. 12.

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La contrazione della classe operaia e della borghesia tradizionale, nell’area napoletana, si accompagna a un aumento delle classi deboli e marginali e, soprattutto, all’espandersi di un nuovo ceto medio, che presenta i tratti di una «marginalità affluente», la versione «povera» della cetomedizzazione del Paese. Riguarda un ceto poco rilevante, per collocazione nel sistema produttivo, ma «affluente» per il coinvolgimento «nel processo di espansione dei consumi, dei depositi bancari, del mutamento di stili di vita». In ogni caso impossibilitato a fruire di significativi miglioramenti, «nella gerarchia del prestigio ed in quella del potere»13. Valutando, dieci anni dopo, gli effetti della crescita provinciale, Giuseppe Galasso rileva «il prezzo alto che i vecchi centri municipali hanno dovuto pagare all’integrazione metropolitana». «Si è trattato – osserva – di una perdita di identità (urbanistica, economica, sociale, culturale), tanto più rilevante se commisurata al fatto che ciascuno di essi ha dietro di sé una storia, una fisionomia propria non facilmente riducibile non solo a quella delle grandi metropoli, ma neppure a quella dei centri attigui». Anche i comuni di piccole dimensioni possedevano una personalità «affermata con grande nettezza, manifestando variazioni, svolgendo ruoli, intrattenendo relazioni, configurando spazi sociali e culture particolari»14. Un giudizio che si rafforza se si tiene conto di un ulteriore fattore. Alla fine del ciclo politico della prima Repubblica l’area metropolitana di Napoli è investita dal processo di dismissione industriale e, pertanto, è

  Ivi, p. 13.   G. Galasso, Introduzione a P. Pezzullo, Frattamaggiore da casale a comune dell’area metropolitana di Napoli, Istituto di Studi Avellani, Frattamaggiore 1995, p. 8. 13 14

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costretta ad affidarsi, per sopravvivere, all’espansione di un terziario «tradizionale» di servizi, di commercio. Una tendenza che non viene considerata nelle stime del bicentenario, ma che, viceversa, non sfugge a chi, operando sul campo, ne studia, da analista, l’evoluzione. Ragionando, nel 1995, della parabola storica di Frattamaggiore nell’età della grande trasformazione, Pasquale Pezzullo liquida come esaurito il modello che aveva favorito la crescita degli anni precedenti e afferma: «se non si interviene in tempo con iniziative e progetti di ampio respiro che si proiettino oltre i singoli campanilismi, la situazione economico-sociale della zona è inevitabilmente destinata al degrado e al regresso economico» o, aggiunge, «alla frenetica integrazione nell’area metropolitana di Napoli, ma perdendo, a poco a poco, la sua originale identità»15. Un passaggio doloroso, secondo quanto affermano gli studiosi di sociologia e geografia urbana. Riferendosi alla «dismissione» della fabbrica Deriver di Torre Annunziata, Enrica Morlicchio sostiene che il dramma della chiusura delle fabbriche è determinato non solo dalla perdita del lavoro, ma anche «dall’esperienza degradante degli ammortizzatori sociali e dell’assistenza pubblica che sommavano alle difficoltà economiche la marginalizzazione sociale»16. La fabbrica che chiude lascia non solo le ferite inferte al territorio. Nelle donne e negli uomini toccati da quell’esperienza rimane «la rassegnazione per la contrazione delle opportunità occupazionali; rimane la delusione per le sconfitte sindacali e delle mobilitazioni popolari frustrate, rimangono le malattie e le morti»17.   Ivi, p. 165.   E. Morlicchio, Il suono delle sirene spente, cit., pp. 136-137. 17   Ivi, p. 144. 15 16

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Altri osservatori, considerando le cose in una più ampia dimensione territoriale, si interrogano sul presente e sul futuro dell’area metropolitana: stigmatizzando le omissioni politiche, le industrializzazioni interrotte e le terziarizzazioni forzate, evidenziano le stravolgenti modificazioni ambientali e denunciano i limiti della modernizzazione post-bellica. Descrivendo la classe media, migrata in periferia per «inaccessibilità del mercato immobiliare del capoluogo», Fabio Amato parla di un ceto medio che ha avuto accesso alla proprietà e che, «comunque, conserva stili di vita e tenore di vita adeguati ai consumi metropolitani. Il luogo di residenza viene percepito come indifferenziato e funzionale solo al privato delle mura di casa»18. Pasquale Coppola e Lida Viganoni, commentando gli effetti negativi della ricostruzione post-terremoto, sostengono che le opere pubbliche, prive di autentici riferimenti sul territorio, «sono state mere occasioni di arricchimento privato di un blocco fatto di amministratori e imprese edili, locali e nazionali, con un dissennato consumo di suolo e senza effettivo coordinamento». L’ambiente naturale ne ha pagato lo scotto, «facendosi spazio di riserva per le immondizie di un’area il cui disordine urbanistico rende assai difficile lo smaltimento dell’ingente mole di residui solidi urbani»19. Ed è senza appello il giudizio sul ruolo della politica. A quest’ultima va imputata la «sopravvivenza di un sistema di clientele e mediazioni, destinate a surrogare

18   F. Amato, La periferia italiana al plurale: il caso napoletano, in R. Sommella (a cura di), Le città del Mezzogiorno: politiche, dinamiche, attori, Angeli, Milano 2008, p. 213. 19   P. Coppola (a cura di), La forma e i desideri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 144.

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fuori dalla sfera civile la carenza dei nessi funzionali e delle gravitazioni moderne che imprimono lo slancio decisivo della vita di una metropoli»20. Sempre a lei è affidata, come extrema ratio, la responsabilità di traghettare la provincia, ormai desta, verso nuove e più equilibrate forme di sviluppo. 2. La città metropolitana: spazi, comunità, conflitti Nel racconto degli studiosi la conurbazione che si allunga da Sorrento a Terra di Lavoro viene accettata come un dato di fatto incontrovertibile. Attingendo alla lunga storia di Napoli, Colette Vallat, Brigitte Marin e Gennaro Biondi avvertono l’esigenza di affrancarla dallo stereotipo dell’immutabile caos e si propongono di «démythifier la ville». Ne mettono in luce i fattori di urbanizzazione, connessi allo sviluppo del terziario, proponendo, su questa base, «un nuovo modello di lettura della città: una città sospesa, dove le forme dei suoi confini, come le stesse attività produttive, sono diffuse su un territorio ampio e mobile»21. Posizione condivisa da altri cultori delle scienze sociali, che, analizzandone la morfologia economica22, accantonano i toni troppo critici per parlare di «città in transizione»23. Nel riflettere, in tempi più recenti, sugli effetti di un ciclo politico che segna la fine della centralità napoletana, i più convinti estimatori   Ivi, p. 145.   C. Vallat, B. Marin, G. Biondi, Naples. Démythifier la ville, L’Harmattan, Paris 1998, pp. 8-9. 22   P. De Vivo (a cura), Settori di specializzazione del territorio della provincia di Napoli, cit. 23   Cfr. A.M. Frallicciardi, B. Delle Donne, Napoli metropoli in transizione, «Rassegna economica del Banco di Napoli», 2010, p. 90. 20 21

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della prospettiva metropolitana sostengono questo modello d’interpretazione per la città, l’unico «capace di strappare Napoli ad un irreversibile declino»24. Alla luce dell’ultimo censimento la provincia di Napoli conta poco più di tre milioni di abitanti e assorbe il 53% della popolazione regionale, in un rapporto rimasto, nell’ultimo decennio, sostanzialmente invariato. Nel corso degli ultimi sessant’anni le aree geoeconomiche che la compongono vedono raddoppiare la popolazione. Nello stesso arco di tempo nel capoluogo, rispetto alla provincia, cala al 54% il numero degli abitanti. Squilibri ancora consistenti nella dispersione scolastica, nel livello di istruzione, nella dotazione di servizi sanitari e culturali, misurano la distanza tra le due realtà, delineando il carattere della periferia totale, «un’unica, enorme periferia indifferenziata, a basso livello di integrazione e ad alta intensità di degrado»25. È evidente una conformazione urbana omogenea che, lungo le direttrici intercomunali, dalla periferia di Napoli arriva a lambire la provincia di Caserta. Giornalisti, letterati, uomini di cinema e, soprattutto, fotografi non cessano di sottolinearne i caratteri, confrontando le splendide immagini a colori della «provincia addormentata» con quelle di un oggi in bianco e nero, che sa dare maggiore risalto al grigio dei guasti urbanistici26. Non c’è da meravigliarsi se gli abitanti di queste terre sembrano le vittime predestinate a soccombere nella   B. Discepolo (a cura di), Downsizing Napoli, Edizioni Graffiti, Napoli 2012, p. 25. 25   Centro Einaudi, Ci vuole una terra per vedere il mare. Primo Rapporto «Giorgio Rota» su Napoli, 2014, p. 34. 26   M. Visone, Paesaggi perduti. L’hinterland napoletano e la mutazione dell’identità urbana, in C. de Seta, A. Buccaro (a cura), I centri storici, cit., p. 117. 24

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fossa dei leoni della «Napoli Gomorra», contaminati dall’ambiente e antropologicamente contrassegnati dalla distanza culturale e civile con il capoluogo. In un servizio sulla costituenda area metropolitana Francesco Benucci e Mariano Maugeri parlano di «provincia abbandonata». «Ai rischi vulcanico, sismico, bradisismico e idrogeologico – osservano – si sommano quelli sociali ed economici: dispersione scolastica fuori controllo, antropizzazione selvaggia della Campania Felix, intere comunità prigioniere del sottosviluppo», per concludere senza scampo: Napoli come «l’Himalaya di cemento, monnezza e disservizi»27. In realtà la «mutazione» non è a senso unico. La «provincia» costituisce il fulcro del sistema produttivo della Campania: ospita il 54,3% degli occupati del territorio (censimento 2011 dell’industria e dei servizi), articolato tra la linea di costa e l’area nord28. A Casoria, Arzano, Castellamare, Pozzuoli, per la meccanica, la cantieristica e l’aeronautica, e a Grumo Nevano, Gragnano, San Giuseppe Vesuviano, per i settori dell’abbigliamento e del calzaturiero, operano imprese grandi e piccole. Confermano il successo di marchi affermati sul territorio nazionale o di manifatture insediate nelle comunità della fascia costiera e competono, a livello internazionale, nei settori dell’alimentare e dell’artigianato di qualità. Testimonianze di una vitalità economica che potenzia le già floride «riserve» di un territorio depositario di vaste risorse artistiche e paesaggistiche: Pompei, il centro storico di Napoli, i Campi Flegrei danno corpo, con Sorrento, Positano e le isole del golfo, a un 27   F. Benucci, M. Maugeri, Napoli città-metropolitana, una polveriera, «Il Sole 24 Ore», 8 giugno 2014. 28   Centro Einaudi, Ci vuole una terra per vedere il mare, cit., p. 38.

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«sistema» che può essere governato su scala metropolitana e dare senso e coesione allo stare insieme di tre milioni di «napoletani». Ma serve una rappresentazione distaccata e precisa dello stato delle cose. Considerando i mutamenti intervenuti nella provincia di Milano negli ultimi decenni, Aldo Bonomi descrive il variare della geografia urbana in relazione al «moltiplicarsi delle fratture che attraversano la sua composizione»29, fornendo alla politica elementi di conoscenza essenziali per avviare la governance metropolitana. Un modello poco compatibile con gli scenari della provincia di Napoli, e lontano da quanto elaborato sulle recondite e ipotetiche trasformazioni della città dei nostri giorni, dove è in atto una riconversione istituzionale. Il corpo composito di assetti ambientali multiformi, mosaico di città-paese, laboratorio di esperienze politiche maturate nella vecchia realtà provinciale, si è costituito in area metropolitana (legge 135/12). In base allo statuto approvato dal consiglio metropolitano, l’ex comprensorio della provincia di Napoli si è tramutato in un organismo di 3.055.339 abitanti e si accinge a riformulare le modalità di governo delle relative realtà municipali. Dovrà garantire la tutela ambientale, promuovere lo sviluppo, operare in vista del riequilibrio di sperequazioni e diseguaglianze, geografiche e sociali. Il progetto previsto dalla legge, la governance, manca di una visione forte e ben definita e sconta il peso di una rappresentanza sostanzialmente debole, costretto com’è a mediare tra l’esigenza di organizzare una guida centralizzata e il rispetto delle pregresse autonomie municipali. 29   A. Bonomi, Milano ai tempi delle moltitudini, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 23.

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In ritardo rispetto a Milano e Torino, Luigi de Magistris ha assunto la carica di sindaco metropolitano, presentando, nei tempi prescritti, il testo dello statuto, in seguito approvato. Il 9 ottobre 2016, i 1536 sindaci e consiglieri dei 93 comuni dell’ex provincia hanno votato per il rinnovo del consiglio della città metropolitana. Ma i passaggi successivi, relativi alle procedure di specifiche funzioni (bilancio metropolitano, ambiente, viabilità, scuola, raccolta e smistamento dei rifiuti), oltre che all’esercizio della programmazione per lo sviluppo, alla gestione del personale, all’innovazione e alle politiche per il lavoro, presentano molte difficoltà, perché strettamente correlati ai rapporti istituzionali con le municipalità che ne sono protagoniste. In particolare va effettuato il trasferimento, al Comune metropolitano, di numerose funzioni della Regione e non è stato ancora affrontato il tema del coordinamento con i Comuni e gli altri enti territoriali. Spetta, infine, alla governance metropolitana definire la pianificazione territoriale, promuovere lo sviluppo locale, gestire le aziende di servizi pubblici, regolare l’allocazione delle risorse produttive in campo manifatturiero e valorizzare il patrimonio culturale. Un percorso tutto in salita a causa della contrapposizione di interessi e delle resistenze di radicati municipalismi. Conta, inoltre, nella politica di metropolizzazione, la capacità di sapersi muovere in campo amministrativo secondo le nuove finalità, consapevoli del significato di città-metropoli in ambito regionale, nazionale e internazionale. Riferendosi al cambiamento subito dal significato stesso del linguaggio da utilizzare, Pasquale Persico osserva che «settori e materie di competenza devono avere un nuovo respiro culturale» e intravede una nuova geografia del territorio, «da riscrivere con ­149

strategie alternative di programmazione di territorialità possibile»30. Vengono al pettine, dunque, i mai sciolti nodi di ritardi culturali, sempre più difficili da colmare, e prima di intravedere una conclusione positiva di una tale complessa «operazione» è opportuno interrogarsi sull’effettivo livello di coesione sociale dei «popoli napoletani» e sulla consapevolezza della relativa posta in gioco. Gli studi sul mosaico delle comunità che compongono il sistema metropolitano si sono concentrati sugli aspetti politici e istituzionali. Restano in secondo piano le dinamiche relative alle trasformazioni produttive dell’area ed è poco indagato, al momento, l’evolversi delle condizioni sociali e culturali di una popolazione di oltre tre milioni di abitanti. Lo spostamento dell’asse produttivo napoletano verso i comuni dell’hinterland porta a una nuova concezione degli obiettivi e delle strategie di gestione del sistema manifatturiero, restituendo autonomia e centralità di governo a territori da tempo ridotti a meri insediamenti ambientalmente dannosi ed eterodiretti. Questo è il problema di fondo della gestione politica dell’area metropolitana: l’ampliarsi delle dimensioni e delle relazioni di scambio del sistema manifatturiero non trova riscontro nell’attuale assetto municipale. La Pomigliano post-industriale o la Casavatore manifatturiera devono confrontarsi con agguerriti interlocutori esterni su questioni che riguardano il funzionamento del mercato del lavoro e la definizione di strategie logistiche (insediamenti, trasporti) che travalicano la ristretta scala locale. È evidente che le singole municipalità faticano «ad esercitare un ruolo di guida e controllo sui rispettivi ter30   P. Persico, Prefazione a F. Forte, Napoli. La stagione della città metropolitana, Aracne, Napoli 2014, p. vi.

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ritori di pertinenza, restando marcatamente dipendenti dal capoluogo per quanto concerne i servizi e le attività più qualificate»31. Incontra difficoltà il tentativo di valorizzare adeguatamente il patrimonio ambientale e culturale puntando sull’effetto «leva» del rilancio di Pompei, una spinta a pianificare, all’interno delle dinamiche municipali e nazionali, il governo dei flussi turistici, il coordinamento dell’offerta alberghiera, l’organizzazione del sistema dei trasporti. Obiettivi quasi irraggiungibili senza una riconversione politica e culturale. La ricerca di un equilibrio tra l’autonomia municipale e l’appartenenza a una comunità più vasta che riconosca, a tutti, obblighi e opportunità, in un progetto di sviluppo condiviso, è il presupposto indispensabile del quadro istituzionale delineato dallo statuto metropolitano. Il processo di integrazione ha compiuto passi avanti, e negli ultimi decenni si è attenuata la capacità di attrazione del capoluogo; al contrario, si è rafforzato il processo di omologazione tra «periferia» e «centro urbano». Il ceto medio, attratto dalla possibilità di possedere un’abitazione, ha lasciato la città per andare a vivere in provincia, continuando però a fare la spola, per lavoro o svago, con il capoluogo. L’attuale estensione della conurbazione non solo cancella le immagini, ormai sfocate, di ridenti paesaggi agricoli, ma modifica anche i tratti sociali delle antiche comunità. Permangono, certo, percezioni diverse dell’essere «napoletani». Se l’informazione televisiva sbatte in prima pagina l’evento criminale, denunciando come consumato in città un delitto perpetrato nei comuni all’ombra del Vesuvio, gli abitanti del capoluogo si affrettano a prendere 31   Cfr. Centro Einaudi, Ci vuole una terra per vedere il mare, cit., p. 40.

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le dovute distanze. Ma è altrettanto vero che, dalla costa vesuviana al litorale Domizio, si intensifica la comunicazione tra capoluogo e periferie, e si affermano nuove forme di coesione civile. C’è una «periferia», economicamente fervida e vivace culturalmente, che scrivendo, componendo musica, fotografando o filmando, si proietta sulla scena mediatica nazionale come testimone di una tormentata condizione urbana. Il pensiero corre a Roberto Saviano. Il suo Gomorra, riproposto dalle versioni cinematografica e televisiva, lo ha reso il principale fustigatore delle patologie ambientali e sociali dell’intero territorio, marchiando Napoli del carattere, cupo e immutabile, di città perduta. Una metropoli pericolosamente segnata dalla morsa criminale e paralizzata nella capacità di esprimere segni di vitalità economica e rigenerazione civile. La realtà è più sfumata. Grazie alla spinta della scolarizzazione di massa, la «provincia» ha stretto nuovi legami culturali, politici e artistici con il capoluogo. Il fenomeno non è nuovo. Ben prima della pubblicazione di La provincia addormentata di Michele Prisco, si fanno largo i «provinciali», rappresentanti del mondo delle professioni, dell’impresa, dell’impiego pubblico, che entrano a far parte dei ceti medi dell’ex capitale, lasciandosi alle spalle le memorie e le abitudini delle comunità d’origine. Oggi tutto questo sta cambiando: non si aspira più a «diventare napoletani», bensì a integrarsi su una più larga scala territoriale, mentre si tenta di sperimentare forme di comunicazione incentrate sul protagonismo delle comunità locali. È quanto racconta la storia di Nicola Capone, nato a Mugnano nel 1974 e residente a Giugliano. Nicola insegna storia e filosofia nei licei e collabora con l’Istituto italiano di studi filosofici. Con altri giovani costituisce nel suo paese ­152

l’Istituto di studi europei. Confessa che la sua infanzia non ha ricalcato quella dei suoi nonni contadini, che «vivevano di poco e con dignità». La provincia che ha conosciuto era «un prolungamento della città, una parte amorfa della cosiddetta area metropolitana». Dopo aver vissuto, sulla propria pelle, la violenza esercitata da «una città che va in malora, che si ammala», ha potuto incontrare quella parte di Napoli che «rappresentava il mondo dell’alta cultura coniugata con l’impegno civile», ma non ha tagliato «le proprie radici per immergersi in altre e più lontane esperienze di vita». Egli afferma: «noi non rinunciammo alla provincia: eravamo partiti da quel tipo di responsabilità e di spinta»32. La scelta che compirà è un’altra: l’impegno collettivo sul territorio, passato attraverso la vocazione europea, il contrasto alla camorra, la difesa ambientale di un territorio disastrato dalle omissioni e dalle complicità della politica, aggiogata agli interessi della malavita organizzata. È il percorso di una crescita civile, minoritaria ma significativa, destinata a temprarsi nella stagione della mobilitazione per l’emergenza ambientale dell’ultimo decennio. Un appuntamento cruciale per la definizione di nuovi rapporti tra centro e periferia. La crisi dei rifiuti avrebbe fornito il terreno di coltura per nuove e contrastate appartenenze, che saranno determinate dal disagio degli abitanti dell’hinterland per la mancata bonifica del territorio e che produrranno le tensioni e i conflitti del 2008. La mobilitazione si concentra nei comuni del cosiddetto «triangolo della morte»: Acerra, Nola, Marigliano 32   M.A. Selvaggio (a cura di), Crisi dei rifiuti e prove di democrazia partecipata: conversazione con Nicola Capone, «Teoria e storia del diritto privato», 2009, n. II.

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e Aversa, luoghi «caldi» della resistenza alle scelte effettuate per riattivare il sistema di smaltimento napoletano. Si passa dalla costituzione di comitati e associazioni municipali a una vera e propria mobilitazione a rete (il Coordinamento regionale rifiuti della Campania, la rete Campania Salute Ambiente), impegnata nella denuncia dei guasti e dei rischi dell’inquinamento e risoluta nel rifiuto di inceneritori e megadiscariche. È il fronte di un’opposizione antagonista, generata dalla mancanza di fiducia verso istituzioni che hanno consentito lo sversamento, da parte della camorra, di rifiuti tossici degli stabilimenti industriali del Centro-Nord. Una posizione radicale, e disperata, che non nasconde pulsioni campanilistiche e arretratezza culturale, ma che non è priva di ottime ragioni. Gabriella Gribaudi, in merito al boicottaggio alla costruzione del termovalorizzatore di Acerra – inaugurato poi nel marzo del 2009 –, ricorda che la città, che ha già «sofferto danni di impianti industriali altamente inquinanti, come la Montefibre, è stata definita da innumerevoli studi su zone a elevatissimo inquinamento come area da sottoporre a bonifica. Invece delle bonifiche la cittadinanza ottiene un altro impianto inquinante»33. Ogni vertenza, a Chiaiano come a Quarto e Pozzuoli, denuncia un’esasperazione difficile da contenere. La gestione del conflitto, osserva Daniele Fortini, si rivela impraticabile quando si «agisce nel bel mezzo di una catastrofe e, quasi sempre, in questo frangente, implica l’uso della forza e dell’autorità sanzionatrice»34. Un contesto che favorisce l’intru-

33   G. Gribaudi, Il circolo vizioso dei rifiuti in Campania, «il Mulino», 2008, III, p. 5. 34   G. Corona, D. Fortini, Rifiuti, XL Edizioni, Roma 2010, p. 185.

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sione di politici locali collusi, per gli interessi legati alla speculazione edilizia. Ostile ed egoista per i palazzi del potere, di Napoli e Roma, la provincia che rifiuta lo smaltimento dei rifiuti di Napoli viene rappresentata dai massmediologi e dall’opinione pubblica esasperata del capoluogo come simbolo della Nimby (Not in my back yard) napoletana. È certo che, al di là dei difetti di comunicazione, la stagione dell’emergenza segna l’apice dello scontro tra Napoli e l’hinterland. Si inquadra in un’ampia crisi di rappresentanza ed evidenzia l’incapacità dei politici, locali e nazionali, di affrontare le sfide poste da una gestione solidale dei beni collettivi. Cosa succede, però, quando questa fase si esaurisce? L’onda della mobilitazione attiva lancia segnali di nuove sensibilità politiche e culturali, destinate ad avere un’eco nel quadro politico municipale. Prende corpo, a ben vedere, l’esperienza di nuovi soggetti politici, cresciuti sulla scena municipale e proiettati su quella metropolitana e nazionale. Si è già verificato in passato: il sorrentino Achille Lauro, nei lontani anni Cinquanta, e l’afragolese Antonio Bassolino, in tempi più recenti, si affermano come sindaci di Napoli, muovendosi nel mondo della politica locale e nazionale e liberandosi dal retaggio delle comunità di origine. Oggi le comunità di appartenenza costituiscono il fondamento per l’ascesa politica e ne garantiscono il sostegno. I nuovi leader si formano nella lotta sindacale, come Anna Rea, di Pomigliano d’Arco, già presidente della Uil Campania, o sperimentano sul campo della politica municipale le armi amministrative e «simboliche» che la legge sull’elezione diretta ha concesso loro. Il sindaco, dichiara il primo cittadino di San Giorgio a Cremano, «attualmente ha un ruolo molto simbolico, nell’essere eletto direttamente dal popolo [...] È molto ­155

importante l’identificazione di un territorio e l’identificazione di una comunità»35. Nella lotta in difesa del risanamento ambientale e nel contrasto alla criminalità si forgia l’esperienza di politici che si proiettano sulla scena napoletana del Partito democratico. Presentandosi alle primarie per l’elezione a sindaco del comune di Melito, Venanzio Carpentieri rivendica i risultati conseguiti, nel suo precedente mandato, nell’adozione della raccolta differenziata dei rifiuti, e ricorda di aver mantenuto invariato il costo della Tarsi. Il suo impegno gli varrà la nomina a segretario della federazione provinciale del Pd36. Ad Afragola, il sindaco Domenico Tuccillo, impegnato nella lotta contro la camorra, viene eletto in Parlamento, assumendo vari incarichi e raccogliendo risultati soddisfacenti come coordinatore della Commissione statuto della città metropolitana. Anche il caso di Luigi Di Maio, leader nazionale del Movimento 5 Stelle, è emblematico. La Pomigliano d’Arco operaia fa da incubatrice alla sua carriera politica, nata da umori ambientalisti, solidi fondamenti religiosi e contrapposizione all’establishment dei Democratici, ma le battaglie sostenute nel contesto locale sono un trampolino di lancio verso mete politiche più ambite e prestigiose37. Un modo di vivere da protagonisti una nuova politica territoriale, accantonando la fase delle rivendicazioni. Intanto comincia a farsi strada il tema della valorizzazione del patrimonio ambientale e artistico. Vincenzo   Citato da M. Cilento, La battaglia dei rifiuti, in O. Cappelli (a cura di), Potere e società a Napoli a cavallo del secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003, p. 289. 36   V. Carpentieri, La questione-rifiuti a Melito, Comune di Melito, 2013. 37   Cfr. A. Corbo, Nel paese di Di Maio, «la Repubblica. Venerdì», 18 dicembre 2015. 35

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Figliolia, sindaco di Pozzuoli, mette al centro della sua azione politica la cultura e il turismo e, alla fine di una difficile partita con le istituzioni e i politici del capoluogo, ottiene di fare approdare le navi da crociera nel porto della cittadina flegrea per avvicinare il turista al vulcano Solfatara, al complesso archeologico di Baia, all’anfiteatro Flavio38. Né va dimenticato il caso di Ercolano, che rimbalza sulla scena nazionale come modello di una benefica sinergia tra sponsor internazionali e amministrazione locale nella gestione degli scavi. Il neosindaco Ciro Buonajuto ha giocato la carta della candidatura della cittadina a capitale italiana della cultura per il 2016 e poi per il 2017, facendosi «adottare» dall’establishment politico e giornalistico napoletano. Ha concorso per due volte di seguito, purtroppo senza vincere. Ha dimostrato, però, la capacità di progettare un futuro per la sua città, con l’intenzione di utilizzare i fondi in concorso per «potenziare i servizi delle zone disagiate, valorizzare l’attracco borbonico di Villa Favorita e creare una mobilità sostenibile per il Vesuvio»39. Candida Ercolano anche per il 2018 ed entra nella rosa delle dieci città finaliste. Sempre su scala provinciale, anche i sindaci del PD, sostenuti dai big del partito, non escono sconfitti dalle elezioni amministrative del 2016 e riescono a fare il pieno dei consensi in città come Casoria, Castellammare di Stabia, Frattaminore e Villaricca. Un successo che mostra l’altro volto del Partito democratico nell’area napoletana, ma segnala anche marcate differenze nella sensibilità politica delle comunità locali e del capoluogo.

38   Cfr. Comune di Pozzuoli, Navi da crociera a Pozzuoli: arriva il via libera, 2 settembre 2014. 39   Cfr. S. Brandolini, Ercolano capitale italiana della cultura, «Corriere del Mezzogiorno», 1° agosto 2015.

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In conclusione, c’è da chiedersi come e se questi elementi della politica municipale, intorno a Napoli, possano contribuire alla costruzione della governance metropolitana. Il percorso è impervio. Le cronache quotidiane raccontano la difficoltà di contrastare l’infiltrazione della camorra nella vita politica locale, tutelando la macchina amministrativa da patti scellerati. A Quarto, la vicenda del sindaco Rosa Capuozzo, espulsa dal Movimento 5 Stelle, pur se incolpevole, ma sostenuta dalla cittadinanza, denuncia l’isolamento delle forze politiche locali quando è in gioco la tenuta del quadro politico nazionale. È necessario, ma difficile, sostenere la convergenza tra forze sociali e intellettuali disposte a lasciarsi alle spalle una politica senza prospettive. L’agronomo Antonio di Gennaro rileva che i comuni dell’hinterland «reclamano ciascuno e collettivamente un proprio diritto al futuro e tutti guardano con preoccupazione alla costituzione della prossima città metropolitana, vista come momento di definitiva dissoluzione, di subordinazione a un capoluogo che li ha fino a questo momento disconosciuti e traditi»40. Il successo è incerto. La provincia che si trasforma in area metropolitana è un potente contenitore/laboratorio di processi sociali che si fa fatica a inquadrare dalla ristretta prospettiva del centro storico di Napoli, ma anche da Caivano o Somma Vesuviana. Essa ha assorbito, nel tempo, gli effetti della crescente mobilità residenziale del capoluogo e si è confrontata, senza regole, con i complessi e drammatici problemi del sommerso della sua economia. Si riconosce, per questa sua natura, nei tratti della Napoli Gomorra di Roberto Saviano, ma 40   A. di Gennaro, Per una storia dell’ecosistema metropolitano di Napoli, «Meridiana», 2014, n. 80, p. 123.

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esige di essere governata con perizia e adeguatamente conosciuta e interpretata. Nel desiderio di riscatto, a Scampia l’associazionismo locale, tradizionalmente attivo, si mobilita intorno a club sportivi, circoli culturali, iniziative mediatiche. Tv Campane, un’emittente privata napoletana specializzata in musica popolare, crea, con altre associazioni, il «Tg delle buone notizie», rubrica settimanale che intende «mostrare l’altro quartiere, tutte le realtà positive e le attività che nessuno racconta fino in fondo [...] dal Cineforum gratuito del Gridas al teatro nell’Area Nord»41. Non mancano gli effetti positivi sulla rigenerazione civile del territorio. Andando sui luoghi, partecipando alle iniziative culturali di giovani, intellettuali, cittadini che chiedono ascolto e partecipazione, si percepiscono i fremiti e i fermenti di comunità vitali che rifiutano di farsi imbrigliare dai lacci della città criminale. La loro immagine si colora, del resto, di nuove sfumature che risentono del lavoro di manager, operatori pubblici, uomini dei media capaci di riscrivere, visivamente, la storia di Pompei o di valorizzare le eccellenze manifatturiere del territorio proiettandole sullo scenario di uno «star system campano». Figure e processi che compongono, rileva Paolo Macry, «il mosaico di un territorio ben più vivace»42 di quanto faccia intendere la lettura corrente della realtà metropolitana. Nei problemi della sua inarrestabile emergenza, il tecnico costruttore di nuovi «modelli amministrativi» o il difensore della sua astorica immobilità

41   C. Zagaria, Arriva il tg delle buone notizie. «Ecco tutto il bello di Scampia», «la Repubblica. Napoli», 19 aprile 2016. 42   P. Macry, Lo star system regionale, «Corriere del Mezzogiorno», 3 giugno 2016.

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rischiano di non vedere ciò che si muove intorno alla città, perché privi di analisi basate su dati e comparazioni scientificamente fondati. È emersa, da più parti, una forte resistenza a intendere città e municipi come un’unica, grande comunità metropolitana, presentata come un’«ammucchiata» di antiche e distinte identità municipali, obbligate a vivere come separati in casa che si dividono, con astio, in un angusto spazio, risorse e incombenze. Sul versante opposto si sostiene che Napoli, per compiere il definitivo salto di qualità rispetto agli altri centri metropolitani, deve estendere le sue funzioni urbane e darsi una governance unitaria. Non si insiste abbastanza sul fatto che siamo davanti a una scelta difficile, ma indifferibile: è impossibile parlare di rilancio civile e sociale dell’area senza partire da una più ampia dimensione territoriale. Il problema delle periferie, da Scampia e Ponticelli alle più vaste aree dell’entroterra della provincia, va affrontato attraverso una riconversione, su scala provinciale, del sistema dei trasporti e dei pubblici servizi. I progetti non mancano e sono dettagliati43. Le difficoltà irrisolte di Bagnoli non si superano prescindendo dal destino dell’intera zona flegrea. E Pompei, dove il recupero, già in atto, prevede la definizione di «un piano strategico» per il risanamento della filiera dei comuni costieri tra gli scavi e il capoluogo, non si rilancia senza una strategia territoriale e regionale. Insomma, anche fuori dal percorso tracciato dalla legge, l’esigenza di «pensare in grande» nasce dalla necessità di progettare la città metropolitana, senza «ammucchiate», incalzando la politica a pianificare per 43   Tra i tanti: Centro Einaudi, Ci vuole una terra per vedere il mare, cit.; Associazione costruttori edili di Napoli, Camera di commercio di Napoli, Ricomincio da tre. Tre studi per Napoli, 2014.

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essa un vero futuro nazionale e internazionale, come la sua nuova dimensione impone alla classe dirigente. Traguardi che, invece, sono stati oscurati da una campagna elettorale chiusa nei limitati recinti della municipalità napoletana. Mentre Milano e Bologna definiscono prospettive e progetti per la costruzione della loro dimensione metropolitana, stipulando intese col mondo economico e sociale, Napoli, anche dopo l’approvazione dello statuto della città metropolitana e la firma, a livello regionale, del «patto per la Campania», lascia al palo il dibattito sugli adempimenti necessari all’avvio della pianificazione strategica44. Le «zone omogenee» non sono state istituite. La Conferenza metropolitana, prevista come organo consultivo e di raccordo, non è mai riuscita a riunirsi e i consiglieri lamentano le scelte napolicentriche del sindaco metropolitano, Luigi de Magistris. Alla Grande Napoli sono andate le briciole del patto con Renzi: non più di 8 milioni su 30845. L’ultima parola spetta, certo, agli abitanti di questa Grande Napoli. Concludendo un giro per la città e i dintorni, il poeta irpino Franco Arminio invita, a proposito della «bellezza interiore» delle aree degradate, a «far capire al mondo che anche Caivano è interessante, anche Afragola. Il centro di Napoli è ad Acerra, a Portici, ai Camaldoli. Il centro si è nebulizzato, il cuore è ovunque»46. Non sarà facile, ma basterebbe provarci. 44   Cfr. A. Belli, Che fine ha fatto la nostra Città Metropolitana?, «Corriere del Mezzogiorno», 30 aprile 2016. 45   Cfr. A. Manna, Città metropolitana, il grande flop, «Il Mattino», 3 novembre 2016. 46   F. Arminio, La bellezza è un miracolo, «la Repubblica. Napoli», 28 gennaio 2016.

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NOI E GLI ALTRI

1. Coming to Naples È successo e non ce l’aspettavamo. Dopo più di trent’anni è girato il vento e sembrano superati i pregiudizi che impedivano alla Napoli turistica di esibire i doni che l’ambiente e il patrimonio artistico-culturale le hanno elargito. In poco più di un anno le statistiche sui flussi di visitatori hanno registrato un’impennata, segnalando indici in ascesa, culminati nel ponte dell’Immacolata, all’indomani dell’eccidio di Parigi. All’apertura della Porta Santa per il Giubileo, la città conquista il primato di presenze su scala nazionale e i dati sulle feste di fine d’anno del 2015 e dei primi mesi del 2016 confermano il trend. Nel giugno 2016 lo scalo di Capodichino registra un incremento del 10% rispetto all’anno precedente, e si raggiunge il tutto esaurito nel corso della settimana in cui si celebra il trentennale di Dolce & Gabbana. Le code di visitatori dinanzi ai musei, la folla nel centro storico per ammirare la statua del Cristo velato o che si sofferma davanti alle botteghe dei presepi, lasciano incredulo il napoletano che ha dimenticato, o non ha conosciuto, la stagione del turismo degli anni Cinquanta e Sessanta. Siamo entrati in una nuova fase della storia turistica del­162

la città e si apre un capitolo inedito del controverso rapporto tra noi e «gli altri». Un rapporto affidato, a lungo, alla ristretta comunicazione tra le élites culturali europee e l’antico (arcaico?) modo di essere della città che resiste «alla modernità», rappresentandosi attraverso le forme esasperate dei contrasti della sua vita quotidiana. Incredibilmente, osserva Titti Marrone, «questa città sa tirare da sé, anche senza programmazione turistica alcuna», e lo fa rivelando ai viaggiatori di oggi la sopravvivenza di un’immutata valenza culturale che aleggia nel centro della città e ne costituisce «l’unicum, lo scandalo e il mistero nascosto o dilagato nelle periferie»1. Una «riscoperta» da collegare anche alle dinamiche che regolano l’andamento dei movimenti turistici. Nei primi anni del Duemila i flussi d’ingresso si riducono, per poi azzerarsi negli anni bui dell’emergenza rifiuti, mentre il patrimonio alberghiero si impoverisce e la già fragile organizzazione turistica perde posizioni nel circuito internazionale. Napoli diventa off limits, mentre i buyers di pacchetti turistici dirottano le carovane di visitatori fuori dalla cerchia urbana, per brevi soste a Pompei, Sorrento e Capri. Ancora nella primavera del 2014 Beppe Severgnini, dalle colonne del «New York Times», denuncia che chi visita la città parla di una terra desolata, bella ma deserta – come il resto del Sud –, per effetto di ritardi, carenze, difficoltà di ogni genere2. Ma la sua critica, in fondo giustificata, non tiene conto dei mutamenti in atto. Chi vive in città in quella primavera assolata racconta un’altra Napoli, che si apre al turismo. «Spuntano come funghi – risponde l’archeologo   T. Marrone, Il record di turisti, «Il Mattino», 18 agosto 2015.   B. Severgnini, Why no one goes to Naples?, «The New York Times», 12 aprile 2014. 1 2

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Michele Stefanile – i Bed and breakfast, gli ostelli, gli alberghetti economici, e dalla Sanità al Vomero offrono alternative a basso costo agli alberghi business e ai topclass con vista sul Borgo Marinari»3. Oggi questa tendenza si mantiene costante e ci si interroga sulle origini del cambiamento. Dipende, certo, da elementi imponderabili – il terrorismo in Europa e l’estendersi delle guerre che sconvolgono la riva sud del Mediterraneo –, ma si giova anche dell’immagine di una Napoli che sa attrarre i visitatori nazionali e internazionali, si tratti del cinema di Sorrentino o della musica di Pino Daniele. Last but not least, il ruolo dei trasporti. L’aeroporto di Capodichino continua a espandersi e a riorganizzarsi, anche in tempi bui, proponendosi come attraente vetrina al primo impatto con la città, efficiente nel panorama dei servizi di trasporto locali. Paragonato a quello di Berlino, scrive una giornalista francese, è «lussuoso, pulito, luminoso, perfettamente funzionale»4. E il porto, nonostante la colpevole «disattenzione» della politica locale e nazionale, mostra segni di risveglio per l’improvviso incremento dei flussi crocieristici. Grazie alla lungimiranza di alcuni armatori (Msc Crociere) lo scalo napoletano viene reinserito nel circuito delle rotte mediterranee. Da allora è un susseguirsi di navi passeggeri che scaricano, con scadenza giornaliera e per larga parte dell’anno, migliaia di visitatori in città. Passando davanti al Teatro San Carlo e al Palazzo reale accedono alla stazione della metropolitana di via Toledo, mesco3   M. Stefanile, Turismo e meridione: se nessuno visita Napoli (per Severgnini), «L’Huffington Post», 17 aprile 2014. 4   Così P. Hugues in un articolo su «Der Tagesspiegel», 2 gennaio 2016. Sulle modalità di questo processo si veda la recente analisi di F. De Felice, L’industria dell’accoglienza, in M. D’Antonio (a cura di), Napoli oltre la crisi, cit., pp. 157-164.

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landosi con altre comitive che si addensano, specie nei week-end, nel cuore della città. Si disperdono, a gruppi o in solitaria esplorazione, per le strade strette del centro storico, ispirando, a loro volta, figure dell’anno tra i pastori delle botteghe di San Gregorio Armeno. Si delineano nuovi scenari. Si avverano le aspettative di albergatori, ristoratori, locatori di case e commercianti, anche se non mancano preoccupate riflessioni e accese discussioni. Ma la cronaca della gioiosa epifania della Napoli turistica non fa sconti su omissioni e carenze del «sistema» di accoglienza ai visitatori, rivelando un’impreparazione di fondo, un senso di inadeguatezza che non garantisce la continuità dell’«onda umana», sbandierata con orgoglio dal sindaco de Magistris. I pronostici degli operatori turistici segnalano, per il 2017, un’inversione di tendenza: un calo del 35% di approdi crocieristici nel porto di Napoli, messo in mora dalla minaccia terroristica e dalla disorganizzazione interna dello scalo. Intanto le testimonianze dalla viva voce dei visitatori raccontano le luci e le ombre del soggiorno in città. «Bene sicurezza e atmosfera, per un turista di Como, no organizzazione, traffico pedonale nel centro storico e strade sporche». Più critico un altro ospite, che denuncia: «è stato difficilissimo entrare nei musei, non esistono tornelli, ci sono file disorganizzate, abbiamo atteso due ore per entrare alla Cappella San Severo. Castel dell’Ovo, domenica, era chiuso»5. Ed è corale la protesta degli 11.000 turisti in visita a Pompei, il giorno di Pasqua del 2015, lasciati a piedi dalla Circumvesuviana6.

5   Cit. da T. Cozzi, Folla a San Gregorio, centro e lungomare, «la Repubblica. Napoli», 8 dicembre 2015. 6   S. Malafronte, Circum chiusa, l’ira dei turisti, «Il Mattino», 29 marzo 2016.

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Trasporti, servizi pubblici, decoro urbano, mancanza di sicurezza, improvvisazione, abusivismo: ecco le criticità percepite dal turista di passaggio, cui vanno aggiunti i limiti di fondo del sistema di accoglienza. Uno studio dell’Unione industriali, condotto per accertare l’impatto del turismo sull’economia campana, evidenzia le carenze strutturali che giustificano la distanza dalle altre regioni italiane. Le potenzialità sono molteplici, secondo l’autrice Valentina Della Corte, ma è «necessario incrementare e favorire politiche strategiche di sviluppo che consentano l’incremento dei flussi turistici nella provincia di Napoli»7. Chi opera sul campo scende nei dettagli. Il presidente di Federalberghi, Antonio Izzo, osserva, in margine all’ulteriore crescita delle presenze per il ponte del 25 aprile, che nella zona di Poggioreale-Gianturco «si può parlare di Far West, senza problemi: quando i clienti torneranno a casa, parleranno dei disservizi di Napoli, non del quartiere»8. Giancarlo Carriero, albergatore e presidente della sezione turismo dell’Unione industriali, lamenta, a quattro anni dall’approvazione della legge regionale, la mancata realizzazione dell’organismo per il coordinamento dei sistemi turistici locali e del marketing dell’intera regione9. Annunziata Berrino, storica del turismo, rileva che gli enti pubblici «scambiano per turismo il colore della città, laddove essa è ben altro, ovvero il prodotto attentamente elaborato del lavoro nel turismo», una condizione, aggiunge, che i gio7   Cfr. Unione industriali Napoli, V. Della Corte (a cura di), L’impatto del turismo sull’economia campana, Napoli 2015, p. 13. 8   M. Capone, Turisti, il ponte allunga le vacanze napoletane, «Il Mattino», 23 aprile 2016. 9   A. Berrino, Il lavoro nel turismo. Una prova di cittadinanza, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città, cit., p. 208.

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vani non percepiscono «come ingresso in un sistema di relazioni complesse, nel quale coltivare aspirazioni di miglioramento, ma come una forma di occupazione priva di qualifica»10. In attesa di un cambiamento si assiste al fai da te degli operatori economici, che cercano di allargare e sfruttare l’ondata di benessere che, col turismo, si riversa sulla città. Un’occasione colta al volo da chi si trova impegnato sul fronte della competizione elettorale. Luigi de Magistris non ha dubbi: la fortunata stagione turistica è anche frutto del lavoro svolto dalla sua amministrazione. Sorvola su critiche e geremiadi, puntando sui risultati positivi del fenomeno, e non ha torto; sbaglia, però, nell’arrogarsi la paternità di successi e progressi che, come è avvenuto in altri settori dell’economia cittadina, dipendono da un insieme di circostanze, spesso esogene, e dalla capacità di tanti napoletani di saperle sfruttare. «Napoli – ha scritto recentemente Bruno Discepolo – vive l’attuale stagione, priva di strategie e di strumenti interpretativi, confusa ed incapace di ridisegnare il suo futuro, divisa tra strumentalizzazioni e polemiche di piccolo cabotaggio». E, anziché attribuirsi meriti che non gli appartengono, il sindaco e gli assessori farebbero meglio «a domandarsi cosa possono concretamente fare per promuovere l’arrivo di nuovi turisti»11. C’è chi, invece, paventa l’invasione di visitatori anonimi, incapaci, come accade a Venezia e a Firenze, di «esplorare» la città per percepire il respiro del suo passato. «Io non voglio essere un turista nella mia città – proclama Sal-

10   Cfr. T. Cozzi, Le imprese contro la regione, «la Repubblica. Napoli», 15 dicembre 2015. 11   B. Discepolo, Turismo. La città e le classifiche, «Il Mattino», 6 gennaio 2016.

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vatore Casaburi –, voglio abitarla senza che la bellezza venga ridotta a cartolina». Preoccupazioni infondate. Napoli non attrae solo le «intruppate comitive che non fanno caso a un’epigrafe»12. Può essere sirena evocatrice di atmosfere e di stati d’animo autentici, perché rivissuti attraverso la penna di Elena Ferrante, pseudonimo della scrittrice (o scrittore) napoletana che ha conquistato un larghissimo successo tra i lettori di lingua inglese. Sulle sue tracce in giro per la città, la giornalista Ann Mah osserva che i libri della Ferrante la conducono fuori dagli abituali circuiti turistici, perché la aiutano a comprendere le sue «fratture sociali, economiche e geo­grafiche», vivendola intensamente, come uno dei suoi abitanti13. Nell’esperienza di turisti e viaggiatori di ogni tipo la città si dilata o si restringe, diventa accogliente o respinge, a seconda dei punti di vista. Chi si trattiene per un pur breve soggiorno, per studio o lavoro, riesce a scrutarla più a fondo. Da un servizio di alcuni anni fa è emerso che tra gli studenti del programma Erasmus, che soggiornano nel centro storico, non mancano giudizi e riflessioni sul carattere di una città incontenibile e caotica, seppure vivace e allegra. Spicca la «mancanza di civiltà, di regole minime di convivenza, mentre l’ignoranza la fa da padrona» – così per uno studente greco –, ma anche «un vero e proprio presepio perpetuo, un organismo vivente con una sua personalità, un’anima». E tante contraddizioni: il buonumore, come antidoto al clima di disagio generale, o l’infrazione delle regole, a fronte della necessità di operare e muoversi assecondando canoni sociali pre-

12   S. Casaburi, Materdei, quel percorso tra le voci del tempo, «la Repubblica. Napoli», 19 gennaio 2016. 13   A. Mah, Exploring the Naples of Elena Ferrante’s novels, «International New York Times», 16-17 gennaio 2016.

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costituiti. A Napoli, osserva una studentessa polacca, è difficile convivere con altri ragazzi, «bisogna acquisire delle ‘regole’ (dove si può andare e dove no, cosa si può dire, con chi parlare) e se sei inesperto è complicato farci l’abitudine ed entrare nella mentalità della gente, ma alla fine ce l’ho fatta»14. Un «incontro» che si ripete ogni volta che i giovani, italiani e no, spinti da curiosità o per scelte esistenziali, si avvicinano alla città. Anche i volontari dell’International Napoli Network, spiega Anita Santalucia, che giungono in gruppo per insegnare inglese, «fare attività di doposcuola, scrivere progetti per le aziende partner o per occuparsi di tematiche ‘ambientali’», vivono «la città in prima linea, nelle scuole, tra ragazzi difficili e situazioni a rischio, e imparano ad amarla dal basso»15. Ospiti attesi e ricercati, i turisti e i giovani europei che scelgono Napoli come meta di svago o di lavoro colgono l’aspetto fulgido e brillante del rapporto con gli «altri». Rimangono, invece, nell’ombra le decine di migliaia di immigrati che la città accoglie. Un segmento piccolo, ma stanziale, della popolazione residente, disperso sull’intera area metropolitana, con focus sul capoluogo, poco studiato nei tratti sociali e culturali, oltre che demografici ed economici. Alla fine del 2015 i migranti dell’area dell’ex provincia ammontano a 108.751. Il 45% è residente a Napoli (48.565, quasi 70.000 se si considerano gli irregolari), il resto è dislocato nel territorio metropolitano. La comunità straniera più numerosa proviene dall’Ucraina (20,7%), seguita dallo Sri Lanka (12,5%) e dalla Repubblica Popolare

14   Cfr. Kit di sopravvivenza per giovani viaggiatori, «Campania Style», aprile 2011, pp. 20-26. 15   A. Santalucia, Giovani volontari da Cina e Usa. Che bella la vostra Napoli, «la Repubblica. Napoli», 29 gennaio 2016.

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Cinese (9,5%). Ma esistono concentrazioni geograficamente definite. I comuni di Giugliano, San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Pozzuoli, registrano presenze superiori alle 2.000 unità; Forio d’Ischia, Poggiomarino, Acerra, Palma Campania, Marano, Afragola, Casandrino, Somma Vesuviana, Casoria, Nola, Ischia, Marigliano, Ottaviano, superiori a 1.00016. In generale è possibile individuare aree di maggiore concentrazione: quelle dei comuni vesuviani, della zona flegrea e del nord-est di Napoli. La prima ha vissuto precoci forme di insediamento, legate all’evoluzione del territorio – da agricolo a manifatturiero –, dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi. Si va dai nordafricani, per il piccolo commercio e il terziario dequalificato, ai cinesi del distretto di San Giuseppe Vesuviano e Terzigno, occupati in prevalenza nel manifatturiero. I comuni flegrei hanno accolto l’immigrazione nordafricana e centroafricana, attratta dalla possibilità di trovare lavoro stagionale in agricoltura, edilizia e piccolo commercio. Quelli delle comunità situate a nord-est di Napoli, infine, hanno visto affluire immigrati asiatici, per lo più maschi (bengalesi, indiani e pakistani), impiegati in piccole fabbriche manifatturiere17. Nel capoluogo i flussi si dispiegano secondo logiche di adattamento al contesto: condizioni di abitabilità, offerta di lavoro, attrazione di pregressi insediamenti. La tabella nella pagina a fronte mostra l’andamento delle presenze più significative, rilevate, per dimensioni e provenienza, nel periodo 2009-2015.

  Cfr. Città metropolitana di Napoli, Cittadini stranieri 2015.   Cfr. F. Lo Passo, Analisi delle caratteristiche differenziali delle famiglie straniere a Napoli, tesi di laurea, Sapienza - Università di Roma, corso di laurea in Scienze statistiche, demografiche e sociali, a.a. 2012-2013. 16 17

­170

2015

2009

12.313

4.163

Ucraina

8.208

4.511

Cina

4.947

1.901

Bengala, Pakistan, India

3.287

741

Polonia, Romania, Bulgaria, Albania

4.664

3.516

Nigeria, Ghana, Senegal

1.603

589

Marocco, Algeria, Tunisia

1.467

800

906

552

Sri Lanka

Capoverde

Fonte: elaborazioni da Città metropolitana di Napoli, Cittadini stranieri 2015.

A parte eventuali variabili, il 42% degli stranieri residenti a Napoli proviene dall’Asia, l’8% dall’Africa, il 7% dall’Europa orientale e balcanica. Gli ultimi rapporti del Servizio regionale di mediazione culturale parlano di una complessiva decuplicazione, nell’arco di dieci anni, degli immigrati, residenti per lo più nelle municipalità di Mercato-Pendino, San Lorenzo e San Carlo all’Arena. Storie individuali e collettive che si condensano in determinati spazi, innervandosi nel sistema produttivo, nella distribuzione commerciale, nell’assistenza alle persone. Nelle scelte dei migranti conta la possibilità di svolgere lavori domestici o prendersi cura di malati e anziani, ma entra in gioco anche il «fare sistema» nell’allargamento di reti familiari o, nel caso macroscopico della comunità cinese, l’attitudine a sviluppare vocazioni imprenditoriali. La conoscenza del contesto sociale e istituzionale si rivela, in base a recenti analisi, decisiva per attività di questo tipo. Nicholas Demaria Harney osserva che i mediatori culturali africani che, nel Napoletano, lavorano a contatto ­171

con i connazionali, con o senza permesso di soggiorno, utilizzano l’esperienza maturata nell’espletamento delle procedure per svolgere una vera e propria attività professionale, fondata sulla fiducia. «La loro capacità di adattamento di fronte ai cambiamenti, procedurali o di contesto, espressa attraverso la conoscenza delle disposizioni, e la padronanza dei codici culturali etnici, rivelano la flessibilità di un vero e proprio stile imprenditoriale, riferibile ai canoni dell’economia della conoscenza». In quanto tali, essi si presentano come figure alternative di «operatori della conoscenza», essenziali per l’economia globalizzata18. In un’altra indagine di taglio etnografico, condotta su appartenenti alla comunità del Bangladesh, lo stesso autore mette in luce l’importanza che l’eco degli eventi, diffusa dai migranti bengalesi, può avere per la costruzione di percorsi imprenditoriali. Si tratta di informazioni che si diffondono al di là di un determinato ambiente e rappresentano veri e propri modelli di attività economica da apprezzare, imitare, condannare o evitare19. Sempre rimanendo in tema, va segnalata l’indagine, ancora di Harney, sulla comunità ucraina di Napoli. Basata su materiale specifico, raccolto tra il 2004 e il 2008, evidenzia le strategie messe in atto dai migranti per costruire reti transnazionali, cercare lavoro e consolidare il senso di appartenenza, necessario a superare le barriere poste all’inclusione e alla stabilizzazione socioeconomica nella società napoletana. 18   N.D. Harney, Precarious migrant knowledge workers: new entrepreneurial identities in Naples, Italy, «International Journal of Manpower», 2006, vol. 27, n. 6, p. 573. 19   Cfr. N.D. Harney, Rumour, migrants, and the informal economies of Naples, Italy, «International Journal of Sociology and Social Policy», 2006, vol. 26, n. 9/10, pp. 374-384.

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Sono in particolare le donne ucraine a costruire le reti di solidarietà, per fronteggiare le difficoltà del contesto, garantendo l’accompagnamento e la collocazione, nel mercato del lavoro, dei nuovi arrivati, spesso senza visto (circa il 30%). Riescono, in tal modo, a stabilire relazioni con le autorità municipali, i sindacati, i partiti politici, le organizzazioni internazionali e i media locali: in pratica, «come gruppo dotato di elevati livelli culturali, sviluppano le necessarie conoscenze, l’esperienza e le aspirazioni per auto-organizzarsi, rivelando un senso di appartenenza utile ad affrontare le sfide sociali e psicologiche dell’emigrazione»20. Ma sono soprattutto i cinesi, emersi con ritardo sulla scena dell’immigrazione locale, a distinguersi per la capacità di delineare una precisa strategia di inserimento nel tessuto dell’economia locale e di espansione sul territorio. All’inizio del secolo la comunità è dislocata nell’area di San Giuseppe Vesuviano e, a Napoli, nella zona retrostante la ferrovia. Si tratta di un’immigrazione a carattere familiare, proveniente in larga parte dallo Zhejiang, che, osserva Eva Malavolti, presenta «al suo interno differenze e, a volte, nette divisioni, dovute principalmente al tipo di attività svolte, ma anche all’estrazione sociale e al grado di cultura dei singoli»21. Nel capoluogo le attività economiche si dispiegano nel settore commerciale: non solo distributori al dettaglio, ma anche importatori e grossisti. La loro presenza, scrive Maurizia Sacchetti, «segna un passaggio fondamentale

20   N.D. Harney, Migrant strategies, informal economies and ontological security: Ukrainians in Naples, Italy, «International Journal of Sociology and Social Policy», 2012, vol. 32, n. 1/2, pp. 4-16. 21   Cfr. E. Malavolti, La comunità cinese a Napoli, «Mondo Cinese», gennaio-marzo 2013.

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nella storia recente dell’immigrazione nella zona vicino alla stazione centrale, perché, sebbene vi fosse già presente un numero notevole di extracomunitari, provenienti dall’Africa, i cinesi hanno costituito una comunità direttamente connessa al sistema produttivo»22. Oggi la comunità cinese di Napoli conta circa 5.000 residenti. La sfera d’azione della sua economia si è estesa all’edilizia, agli alberghi, ai sushi bar. Nell’arco di dieci anni il numero degli imprenditori è aumentato in misura maggiore rispetto alla media nazionale (+691% contro il 231%) e, tra gli immigrati, i cinesi sono quelli che inviano più soldi a casa – circa 160 milioni di euro nell’ultimo anno. Si registra anche una nuova disponibilità verso il processo di integrazione, perché sono sorte, in Campania, scuole private cinesi e molte famiglie decidono di far studiare i figli in Italia23. Non mancano, però, i segni di una presenza più invasiva e spregiudicata, che porta i cinesi a guadagnare il monopolio del controllo della prostituzione o a estendere forme di coercizione nel lavoro, nei negozi e nelle manifatture, anche ai lavoratori italiani. Un recente rapporto sul lavoro degli italiani nelle imprese cinesi mostra la foto, scattata a Napoli, di un «padrone», dai tratti asiatici, che scende da un’auto di lusso mentre, in primo piano, un anziano facchino italiano spinge un carrello con la merce24. Il trend è nazionale ma, intrecciandosi con gli effetti della recessione, presenta a Napoli maggiori rischi e si colora di sfumature culturali e 22   M. Sacchetti, Migranti cinesi in Campania, in M. Galluppi, F. Mazzei (a cura di), Campania e Cina, cit., p. 200. 23   F. Parrella, Immigrati, i cinesi di Napoli i più ricchi, «Corriere del Mezzogiorno», 10 settembre 2014. 24   Cfr. A. Corbo, Erano miei clienti. Ora lavoro per loro, «la Repubblica. Venerdì», 27 novembre 2015.

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psicologiche che non vanno sottovalutate, anche perché discordanti dalle abituali condizioni di lavoro dei migranti nel nostro territorio. Disseminati in molteplici gruppi ed etnie, i lavoratori stranieri condividono la necessità di fare mille mestieri per sopravvivere e garantirsi una minima condizione di stabilità. In primo luogo la casa. Una recente, dettagliata analisi sull’andamento della domanda abitativa da parte dei migranti e sull’evoluzione del mercato immobiliare in Campania, rileva che le particolari condizioni di Napoli «non favoriscono affatto la riduzione dei fenomeni di disagio. L’incremento consistente dei canoni, associato a un’elevata quota di famiglie in affitto, comporta un inasprimento della ‘competizione’ tra le fasce deboli per la ricerca di abitazioni a basso costo, nella quale gli immigrati, soprattutto quelli recentemente entrati nel Paese, rischiano di rappresentare il segmento maggiormente penalizzato»25. Parliamo di persone votate a un’esistenza precaria e marginale, che «ignoriamo – scrive Peppe Lanzetta – per non vedere, per non avere fastidio, per non sentirci in colpa»26. Napoli è storico luogo di transito per uomini e donne, spesso clandestini, che la crisi economica spinge nel calderone delle fasce sociali più povere, in un sistema di regolazione del lavoro che si configura come una scala in cui più si scende, più diminuiscono i diritti e aumenta lo sfruttamento. Enrica Morlicchio e Andrea Morniroli osservano che «la crisi ha provocato il sovraffollamento

25   A. Salaris, Patrimonio abitativo e mercato immobiliare in Campania, in F. Amato, P. Coppola (a cura di), Da migranti ad abitanti, Guida, Napoli 2009, p. 190. 26   P. Lanzetta, I migranti a Napoli, «Corriere del Mezzogiorno», 22 marzo 2016.

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dei gradini bassi, dando vita a meccanismi di conflitto e competizione tra poveri differenti»27. La legislazione nazionale e la disattenzione della politica locale concorrono a definire spazi di emarginazione che isolano e differenziano la figura del migrante, visto, «nei casi peggiori, come ‘clandestino’ o ‘nemico’ e in quelli, per così dire, migliori come ‘merce’ o forza lavoro e non come persona che ha dei diritti e nutre aspettative di poter vivere una vita dignitosa e civile»28. I clandestini, aggiunge Rossella Bonito Oliva, «sono destinati a rimanere a lungo ai margini, tra il dentro e il fuori, sfruttati in lavori privi d’effettive garanzie giuridiche. Una presenza che ritorna dagli schermi, più che dalle strade che si condividono o dalle case in cui spesso lavorano»29. Alle vecchie e nuove povertà si aggiungono quelle «estranee» degli extracomunitari, che vedono mettere in discussione i già ristretti margini di inclusione conquistati nel centro storico. Frammenti di mondi separati che intendono sopravvivere nel caos della metropoli, affidandosi al sostegno delle istituzioni, laiche e religiose, che ne sopportano il peso maggiore. Gli osservatori sociali colgono la scarsa presenza degli attori pubblici e registrano il ritardo nel processo di integrazione. Lo testimoniano i dati sulla dislocazione degli alunni stranieri nel sistema scolastico cittadino, a Napoli meno rilevante rispetto alle grandi città del Centro-Nord30. Qui, l’amministrazione de Magistris ha manifestato in più occasioni la propensione   E. Morlicchio, A. Morniroli, Poveri a chi?, cit., p. 58.   Ivi, p. 70. 29   R. Bonito Oliva, Elogio dell’etica, in F. Amato (a cura di), Etica, immigrazione e città, Il Torcoliere, Napoli 2012, p. 184. 30   S. Strozza, E. De Filippo, A. Buonomo, L’inserimento scolastico dei figli di immigrati, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città, cit., p. 287. 27 28

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all’accoglienza e all’integrazione, ma l’intenzione non si è tradotta in una politica di inclusione e confronto interculturale. L’impegno è stato, al massimo, di realtà associative, portatrici degli interessi differenti delle singole comunità. Altro è interrogarsi sul livello di integrazione degli immigrati nella realtà locale, o sondare la percezione di un mondo parallelo che evolve negli stessi spazi in cui ci troviamo a vivere e operare. È una presenza che si avverte e fa parte della nostra esperienza quotidiana. Non si tratta solo dei volti tormentati e rassegnati dei migranti che ci avvicinano durante le brevi soste ai semafori. Ci sono altrettanto familiari gli stranieri che, utilizzando il trasporto pubblico, vanno a prestare servizio nei quartieri del Vomero, di Chiaia o di Posillipo, e, nei giorni di festa, abbiamo imparato a riconoscere nei giovani cinesi ben vestiti o nelle famiglie indiane o cingalesi che percorrono via Toledo i tratti di una città che prova a essere multietnica. «Impressioni» che aggiungono particolari al ritratto variegato della Napoli accogliente e festosa, ma non esauriscono i modi in cui comunichiamo con «gli altri». Se la Napoli borghese si avvale dell’apporto, insostitui­ bile, dei collaboratori domestici, tenendosi, però, a distanza dalla loro essenza umana e religiosa, negli spazi del centro storico è possibile entrare in contatto, conoscersi, coabitare con modalità più aperte di quelle di altre realtà metropolitane. Il racconto dei testimoni riferisce di flessibilità dei controlli all’accesso e di disponibilità all’accoglienza di un contesto sociale e culturale aperto e non ostile verso «gli altri». I fatti sembrano confermarlo. Nel marzo 2016, il giudice del tribunale di Napoli riconosce il matrimonio contratto a Jadda da Yusuf, geometra residente in città, che ha dovuto versare alla sposa 2.000 dollari «come donazio­177

ne nuziale» obbligatoria31. Prende corpo, come scrive Ermanno Rea, «l’immagine della città spugna, capace di apporre il proprio sigillo su ogni importazione, di ridurre alla propria misura chiunque la scelga per casa; questa è una città che inghiotte, metabolizza fingendo di farsi essa stessa straniera, via via che integra lo straniero, lo divora»32. Sono in molti a sottolineare l’«inusuale» apertura della città verso visioni diverse, religiose e culturali. È il caso della regista cinematografica Paola Randi, che ambienta la sua opera prima, Into Paradiso, nel mondo dell’immigrazione napoletana. Racconta una storia di «perdenti»: un ricercatore universitario disoccupato, un ex campione di cricket srilankese e un imprenditore in nero, in fuga dalla camorra, si ritrovano nel Fondaco Paradiso, centro della comunità srilankese a Napoli, dove diventano protagonisti di «una rocambolesca parabola narrativa-esistenziale fatta di inseguimenti e sparatorie urban western; festeggiamenti cingalesi in salsa musicale reggae»33. Riescono a salvarsi grazie alla capacità dei locali di comprendere e collaborare. In questo modo il tema specifico della comunicazione interreligiosa diventa motivo di riflessione sul processo di integrazione. In Islam italiano Stefano Allievi rileva la strana attrazione esercitata da questa religione su napoletani di varia estrazione sociale e culturale34. Una propensione testimoniata in modo più esplicito nel   T. Beneduce, «Comprò» la moglie in Arabia. Il matrimonio è valido in Italia, «Corriere del Mezzogiorno», 18 marzo 2016. 32   E. Rea, Napoli Ferrovia, Einaudi, Torino 2008, p. 27. 33   R. Ciocca, Into Paradiso: etica della narrazione a Napoli, in F. Amato (a cura), Etica, immigrazione e città, cit., p. 80. 34   S. Allievi, Islam italiano: viaggio nella seconda religione del pae­ se, Einaudi, Torino 2003, p. 132. 31

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documentario di Ernesto Pagano NapolIslam: la storia di alcuni napoletani convertiti descrive il percorso di islamizzazione delle periferie, pescando nel vissuto di coloro che assumono il Corano come regola di vita. Il docufilm – ritirato dalle sale dopo l’eccidio di Parigi – entra nella vita quotidiana di un ex ferroviere, uno spazzino, un ex disoccupato organizzato, due ragazze di Fuorigrotta, un rapper e l’Imam della moschea per dimostrare che è possibile tenere insieme la fede in Allah con le tradizioni locali e la passione per i neomelodici, attestando – come dichiara l’autore – l’esistenza, a Napoli, di «forme di integrazione che non esistono altrove, nel tessuto urbano ed in quello sociale». Ne risulta un quadro inedito, ma realistico, della spiritualità della Napoli popolare, oltre che l’indicazione di aspettative sociali e civili disattese dalla realtà quotidiana35. Roberto Saviano osserva che quando «non c’è più possibilità di socialismo, di cambiamento di vita che viene dal lavoro, l’islam diventa per molti l’unica risposta», e sostiene che «popolo arabo e popolo napoletano forse hanno molto più in comune di quanto ciascuno ne abbia con il Nord Italia e il Nord Europa»36. Né si può dimenticare l’altra faccia della medaglia. Un migliaio di convertiti alla religione islamica non fa «la primavera» di un’idilliaca convivenza. In questa realtà c’è anche il conflitto. A Ponticelli, Pianura, Castel Volturno, si registrano episodi di xenofobia che causano la reazione degli stessi migranti. Alla base si trova la contrapposizione tra culture e interessi che

35   Cfr. G. Valentino, NapolIslam, «la Repubblica. Napoli», 18 settembre 2015. 36   R. Saviano, Pregare il Corano a Napoli: le storie di dieci convertiti, «la Repubblica», 13 luglio 2015.

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impediscono inclusione e integrazione. Per restare alla «questione» islamica, rimane irrisolta la carenza di luoghi di culto, recentemente denunciata dalle autorità religiose, che attestano la mancanza di risorse, da parte della comunità, per costruire una moschea37. Si inasprisce, intanto, proprio nelle strade del centro storico, il contrasto tra ambulanti e commercianti, che si contendono gli spazi di vendita. Vicende di questo tipo caratterizzano anche il rapporto con la comunità cinese. Qui bisogna tener conto del pregiudizio sui caratteri nazionali e i reciproci interessi nella competizione economica. La Cina a Napoli – come abbiamo visto – si è conquistata posizioni strategiche nel settore della distribuzione commerciale e dei servizi e ha convertito l’iniziale dipendenza dall’imprenditoria locale e la sottomissione alla malavita organizzata in gestione di attività indipendenti, che danno occupazione, in bianco o in nero, a migliaia di lavoratori locali. Il peso della camorra non sembra essersi attenuato dopo la manifestazione del 1° marzo 2007, che vide i giovani cinesi in marcia per le strade della città. Nel giorno dedicato ai diritti degli immigrati, la comunità è tornata a farsi sentire, a nove anni di distanza, per denunciare aggressioni e furti, oltre che assenze e disattenzioni delle pubbliche autorità38. L’immagine del «cinese», a lungo relegata negli spazi angusti della Chinatown commerciale, è assurta, intanto, a figura familiare, ma controversa, dello scenario cittadino. Nelle cinesi e nei cinesi, comprimari o protagonisti di storie ambientate nell’area

37   Cfr. L’Iman di Napoli: «Siamo in 50.000 e non sappiamo dove andare a pregare», «Corriere del Mezzogiorno», 8 ottobre 2014. 38   Cfr. A. Di Costanzo, Scippi, rapine e furti, la comunità cinese scende in piazza, «la Repubblica. Napoli», 2 marzo 2016.

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di Porta Capuana, della ferrovia, del centro storico, si rispecchiano giudizi e pregiudizi riscontrabili nella gente comune. È emblematico che nel film Gorbaciof, del regista Stefano Incerti, una giovane cinese, figlia dell’indebitato proprietario di un ristorante, diventi oggetto d’amore del grigio protagonista del film – interpretato da Toni Servillo –, per lei eroe romantico, impegnato a liberarla dai suoi lacci familiari e comunitari. Passando alla pagina scritta, leggiamo di personaggi e costumi della comunità cinese nella trama del noir San Gennaro made in China, di Michele Serio, ambientato nella Napoli dei nostri giorni39. Il protagonista, un giovane napoletano impegnato nell’avventurosa ricerca dell’amata scomparsa, lavora come commesso in un negozio cinese. Uno spazio angusto configurato come teatrino di figure (padroni, clienti, boss), riprese a tinte forti, che animano il mondo del commercio e della malavita cinese. Immagini degli «altri» che si moltiplicano intorno a noi, rivelandosi, a volte, in modo inaspettato e senza mediazioni. Anni fa mi è capitato di intervenire in un corso di lingua italiana per cittadini extracomunitari, organizzato dalla Croce rossa italiana. Cercai di tracciare un breve panorama storico della città, mettendolo in relazione col contesto sociale e culturale. L’uditorio era composto da immigrate russe e ucraine, dotate di un buon livello di istruzione, spesso laureate, che seguirono le lezioni con interesse, discutendo animatamente della Napoli di oggi. Non solo apprezzamenti e testimonianze sulla vita quotidiana, ma anche quesiti e critiche sul funzionamento dei servizi pubblici, sulle difficili condizioni am39   M. Serio, San Gennaro made in China, Edizioni Cento Autori, Avellino 2015.

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bientali, sui vuoti e le omissioni della formazione scolastica, sull’inadeguatezza, infine, delle istituzioni locali, rimaste, nell’immaginario di queste donne – cresciute negli anni del regime comunista –, tutori dell’andamento della vita pubblica e civile della comunità. Dunque, l’elencazione dei mali della città, ma anche la presa di coscienza del contrasto tra il loro attuale, decaduto, status sociale e il malcelato orgoglio di una precedente, perduta condizione professionale e sociale. Incursioni in mondi diversi dal nostro che, facendo salve le barriere linguistiche, andrebbero ripetute attraverso pratiche di mediazione interculturale. «Gli altri» – cinesi, islamici, europei dell’Est, africani – entrano progressivamente nel nostro immaginario collettivo grazie a giornalisti, scrittori e registi cinematografici, mentre sul versante dell’analisi sociale si osserva che la città non è il luogo «ospitale e accogliente che tanta retorica diffonde, ma, con il contributo dei migranti, sta diventando un’altra città, meritevole di essere studiata e interpretata»40. È vero; ma, oltre a indagare e rappresentare, oggi, forse, è il momento di farne la conoscenza. 2. Internazionalizzare Napoli Non è facile raccontarsi e farsi apprezzare al di là delle mura domestiche. Ma per la Storia, Napoli non ha bisogno di presentazioni. I tratti ambientali, culturali e artistici che, nel tempo, ne hanno definito l’identità, hanno un peso riconoscibile a livello mondiale. E tuttavia essa ha subito, per lungo tempo, un calo d’immagine che le

40   F. Amato, Le migrazioni internazionali in Campania. Dal transito alla stabilità, in Id. (a cura di), Etica, immigrazione e città, cit., p. 38.

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ha impedito di affermarsi sulla scena internazionale in forme diverse dalla colorita vivacità dei suoi abitanti o dal marchio della criminalità organizzata. Ha potuto contare sul contributo di chi ha onorato la propria origine affermandosi in campo musicale e letterario, o nel cinema e nel teatro, e si è avvantaggiata del valore e del prestigio, ancora consistente, dell’establishment scientifico locale. Ma non è riuscita a produrre ed esportare iniziative culturali di alto livello, svolgendo il ruolo di metropoli meridionale che le spetterebbe. I grandi eventi mediatici della prima giunta de Magistris non si sono tradotti nella capacità di acquisire risorse, mettere in rete le iniziative disperse, valorizzare energie creative e competenze – anche tecniche –, costrette spesso a rea­lizzarsi altrove. Il San Carlo, gli enti teatrali, il sistema museale, operano in un contesto di assoluta frammentazione e scontano i vuoti e le omissioni di una politica culturale che non riesce a promuoverne l’immagine su scala internazionale. Un’immagine che però – bisogna riconoscerlo – non è rimasta uguale a se stessa ed è mutata anche grazie alla fortunata stagione turistica. Le iniziative realizzate nel luglio 2016 da Dolce & Gabbana e Givenchy hanno promosso gli splendori e i «guasti» dei suoi siti urbani a set dell’Italian fashion, facendone il luogo privilegiato dei loro eventi di fronte all’immaginario collettivo internazionale. Un’occasione vissuta come dono fruttuoso e insperato, ma anche sollecitazione a coglierne e potenziarne gli effetti nel quadro di una più ampia visione del ruolo internazionale della città. Esiste un altro modo per misurarsi con «gli altri», più attivo e determinato. Riguarda il vivere, non passivamente, l’era della globalizzazione dei mercati e del lavoro: un’epoca d’innovazione e di sviluppo, oltre che di conflitti e drammatiche contrapposizioni. Dalla tragica notte dell’eccidio di Pa­183

rigi, fra il 13 e il 14 novembre 2015, il fantasma della «guerra» aleggia sull’Europa bloccata da politiche di sicurezza che rimettono in discussione la mobilità del lavoro fuori dai recinti nazionali e fomentano paure che credevamo superate con la fine della guerra fredda. La città, all’ombra del Vesuvio, non sembra accorgersene. Non sa misurare gli effetti della coabitazione, al suo interno, di comunità di cultura e religione diverse, né si interroga sulle ricadute che la frenata subita dal sistema delle comunicazioni internazionali può determinare sull’andamento dei flussi turistici. È consapevole, però, del significato che il «fattore esterno» – l’esistenza di collegamenti economici e culturali, riconoscibili attraverso oppressive «dipendenze» o modernizzatrici spinte propulsive – ha avuto nella sua vicenda storica. Una sensazione avvalorata dal rapporto che lega la crisi del suo status di metropoli meridionale alla difficoltà di proiettarsi sulla scena internazionale. A questo tema è dedicato un posto di primo piano negli scenari della Napoli del futuro; un obiettivo quasi irraggiungibile se ci riferiamo alle occasioni sprecate dal ceto politico nell’utilizzazione dei fondi europei, ma una prova che riserva qualche inaspettata opportunità. Si continua a parlare di vocazione marittima e di ruolo strategico di Napoli nel bacino del Mediterraneo. Ma bisogna intendersi. Luigi de Magistris lo interpreta come possibilità di farsi carico delle frustrazioni e dei bisogni delle metropoli del Sud, rivendicandone autonomia e «diritti» di fronte alle vessazioni dell’Europa «nordista». Altri, «volando più basso», si confrontano con il tema della collocazione economica del Mezzogiorno negli scambi internazionali. I venti di guerra che agitano le rive del Mediterraneo hanno smorzato aspettative e slanci, ma l’ampliamento del Canale di Suez avvalora la centralità del porto di Napoli nel sistema ­184

dei traffici marittimi tra Oriente e Occidente. Si dischiudono nuove prospettive per l’export, impegnato in un difficile sforzo di internazionalizzazione, e si profila la possibilità di intercettare i flussi commerciali, che possono ridare lustro al mare di casa nostra. Certo, bisogna guardare con realismo all’altra faccia della medaglia: l’inarrestabile ecatombe di profughi, i vincoli e le resistenze che impediscono il rilancio del porto di Napoli, l’esiguità delle comunicazioni economiche e interculturali con le altre aree del Mediterraneo. I geografi osservano che «quella mediterranea è una scala debole, un’area che conosce la separazione più che la composizione, la distanza più che la prossimità», e aggiungono che «l’azione della politica, sia nazionale che europea, non aiuta a rinforzarla»41. A ben vedere, però, Napoli è in buona posizione nel sistema degli scambi mediterranei. Ritenendola nodo strategico del commercio transnazionale, la geografa francese Camille Schmoll ricostruisce le dinamiche sociali che ruotano intorno alla zona della stazione centrale, parlando di una forma di globalizzazione dal basso, come «sviluppo del commercio con la valigia e delle migrazioni transnazionali»42. Sospinta dal successo delle importazioni nel Maghreb, indotto dalle aspettative di una classe media emergente, la città è diventata «un grande centro di acquisto»43, luogo di incontro tra etnie che sperimentano una forma di «cosmopolitismo quotidiano», non ispirato a un progetto «ideologico di ordine armonioso», ma determinato 41   E. Mazzetti, Introduzione a Società geografica italiana, L’Italia nel Mediterraneo, Rapporto annuale 2005, Roma 2006, p. 23. 42   C. Schmoll, Economie della circolazione e mercati locali. Un’etnografia del commercio transnazionale a Napoli, «Meridiana», 2008, n. 61, p. 101. 43   Ivi, pp. 108-109.

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dalla «situazione di scambio, generata dal commercio e dalla circolazione»44. Uno scenario che sfugge all’analisi corrente del fenomeno migratorio. Esiste, dunque, un «commercio» che, da locale, si fa provinciale e regionale, mettendo direttamente in connessione le bancarelle di via Toledo con i negozi di Casablanca e il Cis di Nola, e, allo stesso tempo, un orizzonte sconosciuto alle rilevazioni che sorvegliano l’andamento dei terms of trade tra la città e i competitors internazionali. I dati sull’andamento della produzione manifatturiera dimostrano che le «vie ufficiali» del commercio sono ancora limitate, per vocazione e competenze. Il rafforzamento dell’export risulta strategico: rientra, in larga parte, nelle prerogative della Regione e figura tra gli obiettivi della nuova governance metropolitana. Gli enti locali hanno profuso risorse, nazionali ed europee, per promuovere l’export delle imprese campane, organizzando servizi di informazione e fornendo assistenza e sostegno finanziario per la partecipazione a fiere internazionali, ma i risultati sono stati deludenti, anche per difficoltà nelle modalità di intervento. Il problema va affrontato alla luce della crescente diffusione dell’ecommerce e considerato in un più ampio quadro d’insieme. La competitività nel meccanismo degli scambi non si basa sul confronto tra i singoli operatori, ma coinvolge l’intero territorio: richiede la sua valorizzazione come «sistema», promuovendone l’efficienza e l’attrattività. Il che significa accompagnare le imprese nella gestione dei problemi legati a logistica e dogane, fornire loro competenze giuridiche, finanziarie, linguistiche, istituire «premi» commisurati ai risultati ottenuti per volume d’affari

  Ivi, p. 112.

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e occupazione in specifiche aree di mercato, affiancarle, infine, nelle campagne di comunicazione e di promozione pubblicitaria. Ma, ragionando in termini strutturali, non basta puntare sui prodotti locali. Va allargata la base produttiva, rendendo il territorio nuovamente appetibile per gli investitori esterni: un capitolo considerato chiuso, dopo le dismissioni degli anni Settanta e Ottanta. Da allora la precarietà dell’ordine pubblico, le panie burocratiche, i servizi inadeguati sotto il profilo logistico e professionale, hanno concorso a erigere barriere insormontabili all’ingresso di nuove energie imprenditoriali, mentre i caratteri stessi del modello di produzione postfordista e la flessibilità e mobilità di professionalità e tecniche richiederebbero sinergie, non solo finanziarie. Napoli non è nuova a simili esperienze. Già in passato si è avvalsa della presenza di imprenditori stranieri. È il caso di un’immigrazione d’élite, per lo più svizzera, di religione protestante e lingua tedesca, che all’inizio dell’Ottocento sceglie la Campania per la propria attività imprenditoriale e Napoli come luogo di residenza. La condotta di questi «immigrati» sembra ritagliata su quella dell’idealtipo weberiano, perché, scrive Daniela Luigia Caglioti, che ne ha ricostruito il percorso economico e sociale, non ostentarono «il proprio benessere e, all’apice del successo, non investirono né in terra né in immobili di altro genere», ma tesero, piuttosto, a reinvestire i profitti nelle imprese. Gli affermati banchieri, industriali del cotone, commercianti che ne fanno parte, e che portano i nomi di Wenner, di Meuricoffre e di Caflisch, «sono inseriti in un’ampia rete di relazioni internazionali, sociali ed economiche»45. Gli svizzeri di 45   D.L. Caglioti, Vite parallele. Una minoranza protestante nell’Italia dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 2006, p. 37.

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Napoli rivelano la distanza che separa la città dall’Europa moderna e avanzata, vagheggiata dalla cultura napoletana del tempo, e si avviano a un rapido declino con lo scoppio della prima guerra mondiale. Non è da escludere, però, che la serietà e il rigore professionale abbiano lasciato tracce significative nella storia industriale e civile della città. Pensiamo a uomini come Giuseppe Cenzato e Maurizio Capuano e al loro impegno per consolidare un moderno apparato industriale, ma immaginiamo, anche, che questa élite cosmopolita abbia proiettato sul contesto sociale valori e stili di vita tipici dell’Europa protestante, trasmettendo costumi e comportamenti, riservatezza e parsimonia, riscontrabili in alcune frange dell’alta borghesia del secolo scorso. Attitudini che vanno considerate per il loro peso nella storia, non solo economica, della città, ma che oggi appaiono improponibili. Perdura, come allora, il vantaggio rappresentato dalla presenza di alcuni elementi di attrazione degli investimenti stranieri: la forza lavoro giovanile qualificata, le risorse culturali e ambientali, un largo mercato di consumo. Essi però non sono sufficienti. Riflettendo sulle potenzialità turistiche e manifatturiere del litorale Domitio, Federico Fubini rileva che le pur valide capacità competitive dell’area sono vanificate dalla mancanza di «istruzione e sicurezza» e, quindi, di investimenti. «Il Sud Italia – osserva – oggi è come un titolo azionario crollato ai minimi. Chi avesse il coraggio di puntarci con decisione, adesso, potrebbe far registrare all’intero Paese enormi guadagni»46. Si tratta, dunque, di valorizzare le aree privilegiate, rendendole attraenti sotto il profilo delle agevolazioni, tutelate sul piano della 46   Cfr. F. Fubini, Il Sud è come un titolo azionario crollato, «Corriere della Sera. Sette», 4 dicembre 2015.

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sicurezza e garantite su quello della certezza e della rapidità delle procedure amministrative. Ma non solo. Decisiva risulta l’abilità di promuovere l’immagine della città sul piano della comunicazione. «Una politica volta ad aumentare l’attrazione degli investimenti esteri – osserva Mariano D’Antonio – dovrebbe far leva in primo luogo su una buona comunicazione riguardo alle condizioni del territorio»; e Ugo Marani parla di «una diplomazia campana che presenti progetti integrati»47. Lo scopo è quello di delineare una rete di contatti funzionali all’attrazione degli investimenti. Un obiettivo rivelatosi estraneo alla sensibilità politica e culturale delle amministrazioni fin qui susseguitesi. Il tentativo della giunta de Magistris di costituire, nel 2011, un advisor board, composto da membri della business community internazionale formatisi a Napoli, a sostegno delle politiche volte alla promozione dell’economia napoletana, si esaurì in pochi mesi per la mancanza di adeguati supporti logistici e per la palese disattenzione verso il lavoro svolto dagli esperti, impegnati a titolo gratuito. Lasciandosi alle spalle improvvisazioni e colpevoli velleità, è necessario operare su scala metropolitana per disegnare la cornice internazionale utile allo sviluppo economico e sociale del territorio. Non basta mettere in sicurezza e rendere attrattive, sul piano fiscale e burocratico, le aree deputate (zone omogenee, distretti metropolitani, Bagnoli, Napoli Est), o costitui­ re un’agenzia per l’internazionalizzazione dotata delle competenze (linguistiche, finanziarie, tecnologiche)

47   M. D’Antonio, L’economia italiana nei mercati globali, in M. Galluppi, F. Mazzei (a cura di), Campania e Cina, cit., p. 318; U. Marani, Perché la Campania non attrae investimenti, «la Repubblica. Napoli», 24 settembre 2016.

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necessarie alla promozione del «sistema» Napoli. Serve una qualificata task force come interfaccia o «punto di vista terzo» del rapporto tra il contesto economico locale e gli operatori internazionali. Essa dovrebbe avvalersi della presenza di «cervelli» napoletani che operano con successo nel mondo dell’impresa e della finanza internazionali e che potrebbero affiancare l’amministrazione municipale, a titolo gratuito, svolgendo un lavoro consultivo e di elaborazione delle scelte progettuali, facendo da garanti «morali» per i potenziali investitori e accompagnandoli nei contatti con il mondo produttivo locale. Una strada che può essere resa più agevole da iniziative e spinte esterne proiettate sul territorio. Nel gennaio 2016 la Apple, come abbiamo visto, decide di sbarcare a Napoli e la Cisco, leader mondiale della information economy, seleziona l’Itis Galileo Ferraris di Scampia come testa di ponte per un investimento di cento milioni, destinati a un progetto di formazione allo sviluppo locale48. Il discorso si sposta, dunque, sulle risorse di cui la città dispone, avviandosi sui sentieri di un rilancio che dipende, in larga parte, dalla valorizzazione, in senso lato, del suo capitale umano. Lo status di «città del mondo» non si misura solo attraverso le partite attive dei prodotti made in Naples, del turismo e degli investimenti esteri, ma si riflette anche negli effetti dell’emigrazione intellettuale e nella conseguente perdita di risorse qualificate. A Napoli la geremiade per la fuga dei cervelli rappresenta una costante nel racconto della città ai nostri giorni; la denuncia di un esodo di massa che acquista rilievo sociale e culturale, oltre che economico. Il fatto non è nuovo: l’emigrazione, specie intellet48   P. Barbuto, Scampia dal degrado al rifiuto, «Il Mattino», 22 gennaio 2016.

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tuale, costituisce un elemento congenito della vicenda storica della città in età contemporanea. Sul finire dell’Ottocento i contadini in fuga dalle campagne meridionali verso le Americhe decretarono la fortuna del suo scalo marittimo, ma un secolo prima le vicende politiche del regno borbonico avevano costretto all’esilio esponenti dell’élite intellettuale della capitale e questa fuga, estesa all’intero Mezzogiorno, si sarebbe ripetuta al tempo delle repressioni del 1820 e del 1848. Nel Risorgimento l’«esule», col suo carico di cultura e ideali, si erge a simbolo di una Napoli fuori di Napoli che si rifonda nel più aperto clima politico e civile di grandi città italiane ed europee. A unificazione avvenuta, il fuoriuscito riporterà in «patria» esperienze che si sarebbero imposte nell’età del nation building. Una costante: la Napoli liberale e, poi, fascista non sperimenta l’esodo di intellettuali e professionisti verso mete politicamente più consone; assiste, però, alla diaspora di semplici impiegati, quadri burocratici, magistrati e militari, inseriti nel circuito di una pubblica amministrazione che asseconda le aspirazioni professionali della piccola e media borghesia meridionale49. La città contribuisce significativamente, con l’apporto della sua upper class, al funzionamento dello Stato nazionale: partono magistrati e prefetti, ufficiali dell’esercito ed esponenti del servizio diplomatico, che contribuiscono all’osmosi delle classi dirigenti italiane, prima e dopo l’avvento del fascismo. Le cose cambiano all’indomani della seconda guerra mondiale. Letterati, musicisti, uomini di cinema e di teatro soffrono la costrizione di un ambiente che offre 49   Si veda S. Cassese, Questione amministrativa e questione meridionale: dimensioni e reclutamento della burocrazia dall’unità ad oggi, Giuffrè, Milano 1977.

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scarse possibilità di affermazione. Comincia la «fuga» di chi, andando a lavorare negli studi televisivi o nelle case editrici e cinematografiche di Roma e Milano, appaga esigenze e aspirazioni che la città «matrigna» non riesce a soddisfare. Napoli, secondo Raffaele La Capria in Ferito a morte – romanzo cult del secondo Novecento –, «addormenta» come la provincia di Michele Prisco, ma sa anche «ferire», e spesso mortalmente50. Questa nuova percezione del distacco, salvezza e lacerazione a un tempo, sembra accompagnare le successive e sempre più intense ondate migratorie della metropoli del dopoguerra, ma con una differenza sostanziale. La scelta compiuta dal ceto medio degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso si profila come opzione tra prospettive di vita ancora possibili: vivere la normalità del «grigiore» impiegatizio e professionale o mettersi in gioco in altri contesti per realizzare le proprie vocazioni. Da oltre un ventennio questa strada è preclusa. Gli studenti, i laureati, i ricercatori, ma anche gli operai, i tecnici, gli artigiani, che lasciano la città per studiare o lavorare fuori, non hanno scelto, perché costruiscono il loro percorso professionale sul presupposto che l’intero sistema produttivo, il terziario avanzato, l’area delle professioni e del pubblico impiego, non hanno più niente da offrire, né possono più garantire la legittimazione economica adeguata al loro status. È cambiato anche lo scenario di riferimento. Si sono accorciate le distanze tra la città e il resto del mondo: bastano due ore e mezzo di volo per Londra e poco più di un’ora per Milano, mentre la tratta Roma-Napoli risulta la più frequentata dal popolo dell’alta veloci-

  R. La Capria, Ferito a morte, Bompiani, Milano 1962.

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tà. Quel che rimane della classe dirigente napoletana, scrive Claudio Velardi, si dà appuntamento sulla Tav, di prima mattina, intesse relazioni, parla di carriere e di affari, ormai tende a spostarsi nella capitale, «dove sono concentrate le funzioni direzionali di una città, quelle che Napoli ormai non ha più»51. Ma chi non ha occupazione o affari da sbrigare deve spingersi più lontano. Nell’anno accademico 2014-2015 36.000 giovani campani hanno scelto di frequentare i corsi di università situate in regioni del Centro-Nord52. Di questi, alcuni ingrossano il flusso dei laureati italiani che ogni anno cercano lavoro all’estero, prevalentemente in Inghilterra, Germania, Svizzera, Francia e Stati Uniti. Napoli rientra in questa tendenza, anche se guarda maggiormente alle città del Nord. L’analisi della mobilità sui cambi di residenza la pone, in relazione al numero di abitanti, al primo posto per abbandono del luogo d’origine. Allontanamenti che impoveriscono le opportunità di sviluppo, in quanto, osservano Michele Colucci e Stefano Gallo, «tali flussi sono sempre di più composti da quella parte della popolazione con maggiori livelli di istruzione e quindi tendenzialmente con maggiori competenze tecniche e intellettuali»53. Chi lavora nell’alta formazione sa che alla fuga di cervelli degli ultimi vent’anni si è accompagnato un epocale esodo di massa. Dalle università della Campania sono state sistematicamente dirottate verso le imprese, le agenzie finanziarie e i mestieri rivolti al mondo 51   C. Velardi, Quella classe dirigente pendolare sulla TAV, «Corriere del Mezzogiorno», 27 giugno 2015. 52   A. Lomonaco, Studenti con la valigia, «Corriere del Mezzogiorno», 19 agosto 2015. 53   M. Colucci, S. Gallo (a cura), L’arte di spostarsi, Donzelli, Roma 2014, p. 13.

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dell’internazionalizzazione e al sistema delle comunicazioni, le competenze professionali più qualificate della città e della regione. Si tratta di un’emigrazione che, per intensità e volume, ha selezionato la crema delle classi medie: trentenni e quarantenni che costituiscono una potenziale e significativa quota della classe dirigente della città. Emigra, dunque, un pezzo di ceto medio che qui, più che altrove, disegna il proprio progetto di vita su parametri in linea con i mercati del lavoro nazionali e internazionali. La politica sembra preoccupata. Il giovane outsider alle primarie Pd, Marco Sarracino, 26 anni, inaugura così la campagna elettorale: «Mi candido perché la mia generazione da questa città sta scappando. Il mio ultimo anno di liceo, Vittorio Emanuele, bella classe, ora sono tutti quanti al Nord o all’estero. Qui siamo rimasti in 4 su 22»54. La casistica è varia e riconoscibile nell’esperienza di padri e madri che, negli ultimi vent’anni, hanno assecondato, accompagnato e sostenuto le scelte dei figli, subendone le ricadute con la trasformazione degli assetti familiari. Cambiano anche i riti del «costume» locale. Sabato sera: all’uscita da un cinema di via dei Mille si ripete lo «struscio» della Napoli borghese. Donne e uomini vestiti alla moda, giubbotti e maglioni su jeans di buona marca, qualche volto abbronzato, confermano i tratti distintivi di una middle class che si informa, si aggiorna e si riconosce nei gusti e nei comportamenti. Ma qualcosa è cambiato. Tra di loro i «giovani», quelli della fascia tra i 25 e i 45 anni, non sono molti e si confondono tra gli ultrasessantenni che sciamano verso i luoghi di ritrovo della Chiaia by night. A tavola si parla del film appena visto 54   C. Sannino, Mi candido perché i giovani restino qui, «la Repubblica. Napoli», 3 febbraio 2016.

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e della prossima partita del Napoli, ma, inevitabilmente, ci si sofferma sul tema del cuore: lo scambio di notizie sui «convitati di pietra», gli assenti, figli e nipoti che, per motivi di studio e lavoro, vivono in un altrove più promettente. Sono partiti e difficilmente torneranno. Vite parallele rievocate in uno story-telling tratto dalle nuove abitudini della classe media cittadina. Trasferte sempre più frequenti con la Tav o in aereo, conversazioni serali via Skype per scrutare condizioni di salute e stati d’animo, mantengono la solidità dei legami familiari e a volte sanciscono l’irrimediabilità dei distacchi e delle fratture. Ma significano pure la condivisione di emozioni e conoscenze che allargano gli orizzonti anche di chi è rimasto, genitore o nonno, «a distanza», e tuttavia sintonizzato con luoghi e mondi lontani. Una spinta al superamento di barriere spaziali e culturali che fa intravedere l’altra faccia della fuga di braccia e cervelli. «C’è una retorica della fuga da sgombrare», spiega Alessandro Rosina, docente dell’Università Cattolica di Milano e organizzatore a Perugia della terza edizione del MeeTalents (2014), occasione di incontro per laurea­ti espatriati all’estero. La mobilità internazionale è «un valore positivo che va incoraggiato, ed è sempre più nelle corde delle nuove generazioni»55. Per molti ventenni in giro per l’Europa, lavorare a Londra, a Parigi o a Francoforte significa cambiare città, non Stato. Inoltre – per tornare alla fredda contabilità della dispersione del capitale umano locale – va osservato che l’impoverimento delle energie intellettuali non è incolmabile. I giovani che si spostano, lasciandosi alle spalle affetti e memorie, costituiscono anche una potenziale 55   Cfr. S. Favasuli, Giovani talenti in fuga: non chiedete loro di tornare, «Linkiesta», 21 dicembre 2014.

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risorsa. Danno corpo a reti di competenze professionali, scientifiche, economiche, integrandosi in nuove realtà lavorative, ma restano legati ai luoghi di origine sul piano umano e culturale. In altre regioni lo hanno capito, e si muovono per recuperare le loro capacità professionali al processo di sviluppo locale. La Regione Umbria ha avviato un progetto per mettere in contatto giovani espatriati e imprese locali; a Belluno si è operato per rendere i laureati all’estero strumenti di promozione e sviluppo delle imprese italiane. Si fa largo l’idea di costruire una rete di orientamento e sostegno alternativa a quella degli istituti di promozione nazionale. Anche Napoli dovrebbe tenerne conto, censendone dimensione e qualità e studiando, sul piano politico e organizzativo, la possibilità di coinvolgere chi può operare, da fuori, per il rilancio economico della città. Ancora una volta, come in passato, il «fattore esterno», inteso come elemento decisivo per il progresso della città, si riaffaccia all’orizzonte come riserva di risorse intellettuali: un treno da non perdere, per non mancare gli appuntamenti decisivi del domani. Il ruolo di metropoli internazionale, rivendicato dal racconto sulla Napoli futuribile, si fonda sulla capacità di stare al passo con i processi di conoscenza che ne regolano e orientano l’evoluzione. Il turismo, il successo del made in Naples, la stessa propensione a investire sul territorio, si inseriscono in un articolato sistema di «reti lunghe» che sovrastano e bypassano l’intero quadro geo-economico nazionale. Sono i binari su cui deve correre la città dei prossimi decenni, sospinta e guidata dalle tante «energie» che ha formato e, per necessità, lasciato andare e che oggi dovrebbe riconoscere e valorizzare. Ma questo è il futuro.

EPILOGO

Napoli si presenta come un Giano bifronte. Da una parte sembra giunta al capolinea di un irreversibile declino, come un pugile al tappeto a cui nessun gong può concedere tregua. Dall’altra, veste i panni della città allegra e chiassosa che si apre al turismo internazionale e morde la mela di Apple per rientrare nel paradiso terrestre, nascondendo sotto il tappeto la polvere dei primati negativi accumulati negli ultimi decenni. Immagini che abbiamo cercato di fissare e analizzare, dipanando l’intreccio di contraddizioni che danno volto alla città dei nostri giorni, ma che, specie in tempo di elezioni, continuano a riaffiorare. Questo libro non ha una fine, e tanto meno un lieto fine. Dischiude una serie di scenari della Napoli di oggi, dedotti dalla cronaca corrente, filtrati dallo sguardo di testimoni diretti e di osservatori qualificati e interpretati alla luce della propensione a coniugare il presente con il passato della sua vicenda urbana. La città non è ferma: si scompone e ricompone secondo articolazioni sociali che non corrispondono alla rappresentazione iconografica dei suoi presunti «caratteri» identitari. La maschera di una napoletanità cementata dalla «fratellanza» della tifoseria calcistica, o dalla memoria mitizzata di Pino ­197

Daniele, non fa velo alle diversificazioni e alle «fratture» che attraversano il «popolo», addensato tra Mergellina e Scampia. È in atto una svolta che ne estende la dimensione oltre le pendici del Vesuvio e rimodella, con l’istituzione dell’area metropolitana, il rapporto tra il capoluogo e le comunità limitrofe, che dovranno procedere verso forme di necessaria integrazione e disegnare un comune percorso di sviluppo, entro nuove coordinate spaziali e sociali. «Napoli città», del resto, sta cambiando: patisce le ricadute che il calo demografico, l’avanzare dell’economia del sommerso e l’immigrazione determinano sul tessuto sociale. Rimane la separazione tra le «due città»: quella segnata dall’emarginazione e vessata dalla criminalità organizzata e l’altra, privilegiata, che se ne distanzia, per reddito, cultura, dislocazione residenziale. Ma in una nuova accezione. Le autorità giudiziarie annunciano che al Vomero, quartiere «borghese» per eccellenza, la presenza dei clan camorristici è stabile, anche se poco visibile. Ed è davanti ai nostri occhi la realtà di una Napoli post-popolare che, cominciando a confrontarsi con le vaste e disastrate periferie, vede abbassarsi tenore di vita e livelli di formazione, omologandosi nel linguaggio (nuovamente dialettale), nei gusti, nei comportamenti. Bordeggia tra zone bianche e grigie del terziario povero, tentando, con fantasia e intraprendenza, di inventarsi un proprio spazio economico e sociale. Anche la città «di mezzo» è in movimento. Durante la crisi ha perso le residue prerogative di capitale del Mezzogiorno – le funzioni direzionali e il sistema creditizio, in primis –, conservando però la capacità di creare capitale umano altamente qualificato, di tenere in vita e rinnovare il sistema produttivo, di inserirsi, in ordine ­198

sparso, nei circuiti della comunicazione internazionale. Energie, frammentate e disperse, che animano un variegato e capillare tessuto associativo, senza definirsi e distinguersi per interessi e orientamenti professionali o politici, né riconoscersi in una precisa articolazione di società civile; ma che significa un serbatoio, di risorse umane e culturali, unico nel panorama meridionale. La città «bassa» e quella «alta» sono diverse, ma non lontane. Condividono il «mal di vivere» nel perenne stato di eccezione del disordine civile e dell’illegalità diffusa, ma tendono ad aprirsi a nuove forme di produzione e di lavoro. Il sistema manifatturiero è in via di trasformazione. La filiera post-industriale (meccanica, aeronautica, cantieristica) tiene e cerca di acquistare posizioni nella scala della competizione globale, ma la «fabbrica sotto il Vesuvio» non è più strategica. Il terziario povero e quello avanzato, contigui o separati dall’economia del malaffare, diventano, con il turismo, il banco di prova di un’imprenditorialità diffusa, che torna a sfruttare la storica vocazione mercantile nelle forme più aderenti alla domanda di beni di consumo made in Naples, che si estende dal Nordafrica agli Stati Uniti. I problemi non mancano, e ce n’è per tutti. Pensiamo alla collaborazione tra ricerca e impresa, all’esperienza di chi si proietta sui mercati nazionali e internazionali oppure opera nei settori dei servizi alle imprese, della distribuzione, del turismo. Attendono, senza successo, di essere sostenuti da interventi di ricollocazione degli spazi e di individuazione di aree economiche avvantaggiate. Non possono ambire a svilupparsi senza una coerente visione di insieme, né «fare sistema» con i comparti dispersi di una piccola scala artigianale, tesa a trasmutare nel modello distrettuale della moda, del cibo, del gioiello. È la scelta ­199

che consentirebbe di proteggere e valorizzare la miriade di botteghe artigiane sopravvissute alla decimazione delle precedenti stagioni industriali: una ricchezza da custodire e coltivare. Anche le capillari iniziative di tanti giovani, conquistati dalle pratiche digitali germinate un po’ dappertutto sul territorio, non risultano familiari all’establishment politico locale. Essi costruiscono, a mani nude, senza aiuti né riconoscimenti, lo scheletro di una Napoli tecnologicamente innovativa e culturalmente inedita. Coniugano la competenza specifica con la cultura dei costi e benefici: si proiettano sul web per vendere e comprare; cercano di far quadrare i conti e, spesso, ci riescono. Si dirà: è un’esperienza di nicchia. Sì, ma, come attesta la scelta di Apple, sufficiente a legittimare l’aspirazione a traghettare la città nell’era digitale e a stimolare una più approfondita riflessione sull’odierna identità sociale e culturale. Prendiamo il caso della valorizzazione del patrimonio artistico ambientale. La sua ricchezza è stata portata alla luce da una vera e propria riscoperta. Per quanto riguarda i media internazionali, e anche sul piano locale, si sono fatti passi in avanti, concretizzati dall’entrata in funzione della linea 1 della «metropolitana dell’arte». Essa ha cambiato l’organizzazione della mobilità cittadina, diventando, allo stesso tempo, vettore di conoscenza, museo all’aperto e sistema connettivo della «città dell’arte». Una fase nuova, dunque, ma non esaustiva del controverso rapporto tra i napoletani e la memoria storica dei beni artistici e culturali. Nel comune sentire delle persone – meno nell’establishment culturale – cresce l’esigenza di una nuova gestione consona al significato che le attribuisce la Napoli d’oggi: non solo tutela e contemplazione, ma anche occasione di lavoro e scoper­200

ta, per i «giovani», di un valore d’uso diverso dall’astratta ed edificante funzione culturale. Non è in discussione il dovere di preservare il centro storico per trasmetterlo, intatto, alle future generazioni, ma piuttosto il limite di una visione «conservatrice», guardinga e perplessa di fronte alla possibilità di mettere a frutto «l’oro di Napoli», e che si affida alle tante iniziative bottom up che, «disarmate», operano in tal senso. Come dimostra il caso degli scavi di Ercolano, servono un sostegno economico più sostanzioso e la volontà di proiettare il tema della valorizzazione in un sistema di collaborazioni e sinergie su scala nazionale e internazionale. Una direzione seguita dai nuovi responsabili dei musei regionali, finora poco assecondati dall’establishment culturale. La loro azione – Pompei docet – suscita apprezzamenti sul piano internazionale, ma andrebbe incoraggiata anche sul piano locale, contaminando la formazione umanistica, «alta» e distaccata, di università e istituti culturali con le tecniche del saper fare dell’economia e del management dei beni culturali. Una sfida che tocca il cuore dell’odierna questione urbana, perché investe il focus di conflitti e contrapposizioni, culturali oltre che economici, e si profila come un possibile banco di prova di una nuova classe dirigente. Siamo giunti a un appuntamento troppo a lungo rinviato. La modernizzazione urbana, intesa come intervento dall’alto per costruire un ordine civile, fondato su regole condivise e rispettate e basato sul merito, sull’organizzazione e l’efficienza economica, è fallita, franando con l’esperimento della fabbrica fordista. Costituisce ancora il presupposto per ogni rilancio economico e civile della città, ma assume, oggi, il volto di una sperimentazione dal basso. Si tratta di attività molecolari, germogliate dalle radici della vitalità e dell’inven­201

tiva del genius loci, in cerca della legittimazione di una governance politica rinnovata nelle competenze e nei valori. Dovrebbe fronteggiare l’avanzata della Napoli Gomorra, e rigenerare la macchina burocratica, mostrandosi nuovamente in grado di parlare al resto del Paese. Un passaggio necessario, ma finora contraddetto, nei «fatti», da un agire politico incapace di mettere a fuoco la Napoli odierna, interpretandone esigenze e potenzialità. Nell’area metropolitana cresce e si consolida, ad esempio, la presenza dei lavoratori extracomunitari. Napoli è diventata, come altre città italiane, una metropoli interetnica, ma non se ne rende conto. Lo rivelano gli studiosi, per lo più stranieri, che continuano a riservarle le attenzioni che la sua complessa morfologia sociale merita, tratteggiando il quadro di relazioni, circuiti, reti di solidarietà e di lavoro che producono ricchezza e fanno girare risorse, in un quadro di scambi economici e culturali tra noi e «gli altri». La città sa essere accogliente e, mostrandosi solidale con i migranti che affluiscono nei centri di assistenza, non si lascia prendere dalle paure che incombono in altre parti del Paese. Altra cosa è la capacità di integrare, attraverso politiche di inclusione rispondenti a una strategia di rilancio economico e sociale. Il che significa passare dal generico assistenzialismo a interventi che sostengano vocazioni imprenditoriali già dispiegate in alcuni settori dell’area metropolitana; creare contatti e reti di comunicazione con i paesi di origine; attrezzarsi, infine, per sfruttare le possibilità offerte dalla mutata collocazione della città nel mercato internazionale del lavoro. Anche il vuoto creato dall’emigrazione intellettuale può essere, in qualche modo, colmato. La fuga dei cervelli è intrinseca al processo di globalizzazione, fa parte dell’ordine delle cose del mondo in cui viviamo. ­202

Se si manifesta, però, sotto forma di flusso a senso unico di «capitale umano» qualificato, determina l’ulteriore impoverimento del territorio. Da oltre un ventennio Napoli sconta questi effetti negativi, per il progressivo contrarsi dell’offerta di lavoro nei settori della finanza, delle professioni, dell’industria, del pubblico impiego. La diaspora di cervelli e quadri, formatisi nelle sue università, costituisce un passaggio decisivo della sua storia demografica. Ha inaridito le fonti del ricambio della classe dirigente e inciso sulla consistenza, lo status e il costume della middle class urbana. Una condizione che può essere ribaltata. Gli scenari del rilancio urbano si proiettano oltre gli orizzonti nazionali. I laureati made in Naples, dislocati nell’establishment industriale e finanziario del Paese, o all’estero, rappresentano una risorsa per la costruzione dei sistemi di comunicazione, indispensabile alla promozione dello sviluppo, e possono contribuire a promuovere la vocazione all’export della manifattura locale, a inserire la città nei circuiti turistici internazionali, a elaborare le sinergie finanziarie capaci di attrarre investimenti. Il fattore esterno, dunque, che torna alla ribalta, ma anche lo stimolo al rinnovamento endogeno della classe dirigente locale. Un processo che l’esito delle elezioni comunali può accelerare o rallentare. È difficile armonizzare gli scenari, finora tratteggiati, della metropoli sotto il Vesuvio con l’immagine della città al voto. Il «viaggio» ci ha consentito di mettere a confronto il racconto di un irreversibile declino con la visione di una comunità in lento movimento verso possibili orizzonti di sviluppo. Nel giugno scorso l’universo di figure sociali che, dentro e fuori la città, danno corpo alla sua variegata fisionomia urbana si è tramutato in un elettorato stanco e disilluso, chiamato a concentrarsi ­203

sul duello tra leader vecchi e nuovi, privi del sostegno dei partiti. Un viaggio nel deserto della politica che ha reso la città «laboratorio» sperimentale delle emergenti tendenze della politica nazionale: delegittimazione del ruolo storico dei partiti e personalizzazione della politica1 – de Magistris che vince promettendo, come altri fanno altrove, di colmare il deficit di classe dirigente. Ma anche l’espressione della difficoltà di stabilire una congruenza tra domanda e offerta politica, di trovare, attraverso il voto, risposte adeguate ai problemi della città. L’astensione, finalmente, come segnale di rifiuto e ansia di cambiamento; ovvero un ceto politico sostenuto da forze sociali in grado, per ruolo, merito e competenza, di farla ripartire. Nelle ultime elezioni la prospettiva della ricostruzione civile, oltre che economica, non ha guidato il confronto tra i candidati, e la possibilità di affrontare i mali endemici della sua conformazione sociale – al di là dei condizionamenti ideologici e delle suggestioni umorali – è, ora che de Magistris ha ripreso a governare, tutta da dimostrare. La città si è rimessa in moto e comincia a sintonizzarsi su lunghezze d’onda più ampie di quelle del circuito politico e culturale, ma non può farcela da sola. Per tornare alle motivazioni di questo libro e all’identità dei suoi destinatari, bisogna allargare lo sguardo oltre la collina di Posillipo e le pendici del Vesuvio. Nell’area metropolitana di Napoli vivono poco più di tre milioni di persone, che costituiscono il 52% degli abitanti della Campania e il 14% di quelli dell’intero Mezzogiorno. Esiste, inoltre, una Napoli fuori di Napoli che attende di essere «riconosciuta» e coinvolta nel 1   Cfr. M. Calise, La democrazia del leader, Laterza, Roma-Bari 2016.

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processo di rinascita economica e civile. E ci sono, poi, l’opinione pubblica, la cultura e la politica nazionali. Il Paese tutto, insomma, che non può ridurre il «caso» Napoli a palcoscenico di sempiterne «sceneggiate» di camorristi e Pulcinella, a laboratorio di sperimentazioni politiche senza politica o, come insegnano le ultime elezioni, a spazio di confronto elettorale tra poteri nazionali e locali che riducono il racconto della città a sterile esibizione del suo ceto politico. La scuola, l’ordine pubblico, l’equilibrio ambientale, con il sistema delle infrastrutture interregionali, non rientrano nel dominio esclusivo delle malandate istituzioni locali, né suscitano la dovuta attenzione. Rimangono di pertinenza delle funzioni pubbliche che, su scala nazionale e regionale, dovrebbero garantire, con l’equiparazione del livello dei servizi di base – nella sanità come nell’istruzione e nella viabilità –, la percezione di una comune appartenenza, rendere chiaro il significato di un’identità. Napoli, capitale del Mezzogiorno, rivendica oggi, sotto la guida di Luigi de Magistris, la propria autonomia, ma non può estraniarsi dalla comunità nazionale e questa, diradata la nebbia che continua ad avvolgere il suo futuro economico e politico, dovrà tornare a riflettere sul ruolo che la città, e l’intero Mezzogiorno, possono e devono svolgere nella sua ricostruzione sociale e civile. Al di là di ogni scorciatoia mediatica, il «viaggio» che abbiamo intrapreso, nel tempo della riscoperta turistica della città, mira a farla riconoscere dal resto del Paese, rendendolo nuovamente consapevole delle sue risorse materiali e immateriali, prima che la loro dispersione o il loro dissolvimento ci rendano tutti più poveri.

RINGRAZIAMENTI

Giovanni Carletti ha incoraggiato e sostenuto la scommessa di un libro sulla Napoli d’oggi. Lo ringrazio vivamente. Questa «precoce» e non ortodossa «storia» della Napoli di oggi è stata resa possibile da quanti, sulla carta stampata e sul web, nonché nel dibattito politico locale, forniscono dati e testimonianze sulla città che cambia. Li ringrazio per avermi consentito di riflettere sul significato del mutamento, consapevole dell’impossibilità di contenere e selezionare il flusso di informazioni e immagini sulla sua vita che ho raccolto. Da esse ho tratto le idee per un ipotizzabile futuro che ho avuto la fortuna di scambiare, ancora una volta, con Pucci. Gliene sono immensamente grato.

INDICI

INDICE DEI NOMI

Belfiore, Pasquale, 110 e n. Belli, Attilio, 121 e n, 161n. Beneduce, Titti, 178n. Benucci, Francesco, 147 e n. Bergman, Ingrid, 137. Berrino, Annunziata, 166 e n. Biondi, Gennaro, 90 e n, 145 e n. Bonito Oliva, Rossella, 176 e n. Bonocore, Vincenzo, 31. Bonomi, Aldo, 48, 49n, 92 e n, 98 e n, 148 e n. Borrelli, Valeria, 132. Borromeo, Carlo, 130. Brancaccio, Luciano, 16n, 19n, 28 e n, 33 e n, 43n, 67, 68n, 88n. Brandolini, Simona, 157n. Braucci, Maurizio, 56 e n. Bricco, Paola, 92 e n. Buccaro, Alfredo, 135n, 138n, 146n. Bucciarelli, Rosanna, 97n. Buonajuto, Ciro, 157. Buonomo, Alessio, 176n.

Abate, Gianluca, 37n. Agrippa, Angelo, 96n. Alaia, Valentino, 76. Albanese, Ernesto, 130. Albrizio, Mariella, 32n. Allievi, Stefano, 178 e n. Allum, Percy, 10n, 19 e n, 20 e n, 32 e n. Amato, Fabio, 115n, 144 e n, 175n, 176n, 178n, 182n. Amaturo, Enrica, 16n. Anderson, Laurie, 129. Apicella, Valeria, 129. Aponte, famiglia, 72. Arcidiacono, Caterina, 128. Arminio, Franco, 161 e n. Auricchio, Giuseppina, 84. Ausiello, Gerardo, 76n, 107n. Avallone, Piero, 56. Bacchini, Dario, 57. Baculo, Liliana, 87n. Balbi, Rosellina, 37. Barbarisi, Paola, 102n. Barbuto, Paolo, 106 e n, 190n. Barracco, Mirella, 27n, 119. Bassolino, Antonio, ix, 4, 12, 14, 17, 19, 21, 25-27, 29, 33, 51, 110-111, 119, 126, 155. Bassolino, Eufemia, 102.

Cacace, Paola, 72n, 77n, 80n, 87n. Cacciari, Massimo, 49n. Caflisch, Luigi, 187.

­211

Cruz, Penelope, 82. Cuccurullo, Corrado, 96.

Caglioti, Daniela Luigia, 187 e n. Caldoro, Stefano, 110. Calise, Mauro, 12, 13n, 63, 204n. Candela, Guido, 125n. Cantone, Luigi, 140n. Capasso, Aldo, 111, 112n. Capone, Mariagiovanna, 67n, 166n. Capone, Nicola, 152. Cappelli, Ottorino, 15 e n, 156n. Capuano, Maurizio, 188. Capuozzo, Rosa, 158. Caputo, Antimo, 87 e n. Carpentieri, Venanzio, 156 e n. Carriero, Giancarlo, 166. Casaburi, Salvatore, 167, 168 e n. Cassese, Sabino, 191n. Castellano, Carolina, 88n. Cavola, Lucia, 129n. Cazzullo, Aldo, viiin. Cenzato, Giuseppe, 188. Cercola, Raffaele, 84. Cersosimo, Domenico, 18n. Cervasio, Stella, 99n. Chetta, Alessandro, 97n. Cicelyn, Eduardo, 124 e n. Cilento, Marco, 156n. Cimino, Gianluigi, 82. Cimmino, Francesco Saverio, 128n. Ciocca, Rossella, 178n. Colucci, Michele, 193 e n. Compagnone, Luigi, 36. Coppola, Pasquale, 144 e n, 175n. Corbo, Antonio, 156n, 174n. Corona, Gabriella, 20 e n, 34n, 35, 43n, 154n. Corrado, Sergio, 22 e n. Corsicato, Pappi, 41. Cozzi, Tiziana, xin, 99n, 165n, 167n. Croce, Benedetto, 22, 48.

D’Agnese, Alfredo, 130n. D’Alema, Massimo, 14. D’Alessandro, Libera, 58 e n, 59n. Dalisi, Riccardo, 114. Daniele, Pino, 39, 164, 197-198. D’Antonio, Mariano, x e n, 10 e n, 68n, 87n, 125 e n, 129n, 164n, 189 e n. D’Avanzo, Giuseppe, 47, 48 e n, 64 e n. De Angelis, Tommaso, 96. De Blasio, Davide, 129. De Caro, Giuseppe, 55n. De Fazio, Bianca, 131n. De Felice, Francesca, 164n. De Filippo, Elena, 176n. De Gennaro, Antonio, 5n. De Giovanni, Biagio, 14 e n, 18 e n. de Kerckhove, Derrick, 97 e n. Della Corte, Valentina, 166 e n. Della Pia, Pasquale, 79, 80 e n. Delle Donne, Barbara, 145n. De Luca, Vincenzo, 8, 66. De Lucia, Vezio, 20, 22, 119 e n. de Magistris, Luigi, viii-ix, 3-4, 7-8, 47, 66-67, 105, 107-108, 118-120, 149, 161, 165, 167, 176, 183-184, 189, 204-205. Demarco, Marco, 7 e n, 14 e n, 64 e n. De Masi, Domenico, 43. De Matteis, Antonio, 83. De Rita, Giuseppe, 49 e n, 85 e n. de Seta, Cesare, 135n, 138n, 146n. De Sica, Vittorio, 39. De Vivo, Paola, 73 e n, 75n, 140, 141n, 145n. Diamanti, Ilvo, 49 e n. Diappi, Lidia, 53n.

­212

Di Costanzo, Antonio, 57n, 180n. di Francia, Antonio, 32n. di Gennaro, Antonio, 158 e n. Di Maio, Luigi, 156. Dines, Nick, 25 e n, 43n, 54 e n. Di Nocera, Antonella, 117n. Discepolo, Bruno, 20 e n, 113 e n, 146n, 167 e n. Di Vico, Dario, 83, 84n. Donzelli, Carmine, 18n. Durante, Francesco, 34n.

Ginsborg, Paul, 48n. Giuliano, Nicola, 26. Governale, Sergio, 76n. Graziani, Augusto, 18n. Greco, Pietro, 93 e n. Gribaudi, Gabriella, 52, 53n, 88 e n, 154 e n. Guida, Melania, 129n. Harney, Nicholas Demaria, 171, 172 e n, 173n. Hugues, Pascale, 164n.

Esposito, Gennaro, 111 e n. Esposito, Roberto, 37 e n. Esposito, Vincenzo, 58n, 111n.

Iaccarino, Lucio, 108 e n. Impronta, Rosa Alba, 129. Incerti, Stefano, 181. Incoronato, Luigi, 36. Iuliano, Marco, 138n. Izzo, Antonio, 166.

Favasuli, Silvia, 195n. Ferrante, Elena, 38, 168. Festa, Natascia, 119n. Figliolia, Vincenzo, 156-157. Fittipaldi, Emiliano, 56n. Forte, Francesco, 150n. Fortini, Daniele, 154 e n. Frallicciardi, Anna Maria, 145n. Franceschini, Dario, 129. Frascani, Paolo, 71n. Froment, Pascale, 115n. Fubini, Federico, 188 e n. Fucini, Renato, 36. Furfaro, Rachele, 26, 131.

Jobs, Steve, 99. Kerstin, Rodgers, 132n. Labriola, Arturo, 50. La Capria, Raffaele, 192 e n. Lagioia, Nicola, 38n. Laino, Giovanni, 46 e n, 122 e n. Lanzetta, Peppe, 41, 175 e n. La Trecchia, Patrizia, 41, 42n. Lauro, Achille, 155. Leopardi, Giacomo, 35. Lettieri, Gianni, 75. Levi, Primo, 31. Lezzi, Pietro, 29. Loffredo, Antonio, 130. Lomonaco, Angelo, 62n, 193n. Lo Passo, Flavia, 170n. Loy, Nanni, 28, 39.

Galasso, Giuseppe, 10 e n, 142 e n. Galli della Loggia, Ernesto, 24 e n, 34n. Gallo, Stefano, 193 e n. Galluppi, Massimo, 81n, 174n, 189n. Gambardella, Caterina, 129. Gargiulo, Alessandra, 7n. Garrone, Matteo, 39-40. Gemelli, Monica, 101. Gemma, Alessio, 111n. Geremicca, Federico, 108n. Ghirelli, Antonio, 36, 37n.

Macina, Roberto, 98. Macry, Paolo, 7 e n, 10n, 36 e n, 159 e n. Mah, Ann, 168 e n. Malafronte, Susy, 165n.

­213

Malavolti, Eva, 173 e n. Manfredi, Gaetano, 62, 63n. Mangiaterra, Sandro, 92n. Manna, Alessandro, 113n, 161n. Marani, Ugo, 189 e n. Marcucci, Stefano, 55n. Marin, Brigitte, 145 e n. Marlow-Mann, Alex, 39 e n. Marmo, Marcella, 34. Marrelli, Massimo, 113n. Marrone, Titti, 163 e n. Martiniello, Antonio, 129. Martone, Mario, 35. Mattiucci, Cristina, 55 e n. Maugeri, Mariano, 16n, 147 e n. Mazzacane, Lello, 137 e n. Mazzei, Franco, 81n, 174n, 189n. Mazzetti, Ernesto, 185n. Meldolesi, Luca, 89. Menna, Antonio, 94 e n. Merone, Anna Paola, 27n, 56n, 80n, 82n, 84n, 129n. Meuricoffre, Oscar, 187. Micelli, Stefano, 100 e n, 114n. Montanari, Tommaso, 118, 119n. Morante, Elsa, 38. Morlicchio, Enrica, 30n, 42 e n, 44 e n, 143 e n, 175, 176n. Morniroli, Andrea, 42n, 44n, 175, 176n. Morra, Dino, 129. Musella, Luigi, 10 e n. Musi, Aurelio, 60 e n, 67 e n, 131n.

Pasolini, Pier Paolo, 41. Perrone, Francesco, 95. Persico, Pasquale, 149, 150n. Pezzullo, Pasquale, 142n, 143. Pfirsch, Thomas, 53 e n, 55n, 58n, 65 e n. Pine, Jason, 42 e n, 43. Pirone, Francesco, 30 e n. Pisani, Stefano, 93 e n. Polese, Nello, 29. Primavera Saggese, Michela, 101. Prisco, Michele, 36, 134 e n, 137, 140, 152, 192. Quaglia, Renato, 131. Ragone, Gerardo, 141 e n. Ragone, Ottavio, 63n, 68 e n. Randi, Paola, 178. Ranieri, Umberto, 8 e n. Ravveduto, Marcello, 43n. Rea, Anna, 155. Rea, Domenico, 36. Rea, Ermanno, ix, 31 e n, 178 e n. Renzi, Matteo, 3, 66, 108, 119, 161. Ricciardi, Antonio, 80. Roano, Luigi, 5n. Rosa, Riccardo, 54n, 120n. Rosi, Francesco, 136. Rosina, Alessandro, 195. Rossellini, Roberto, 137. Rossi, Nicola, 18 e n. Rossi, Ugo, 21n, 55, 110n. Rossomando, Luca, 46n, 55n, 65n, 68n, 120 e n, 176n. Ruffo, Antonio, 130 e n. Ruotolo, Francesco, 112. Russo, Antonio, 96. Russo, Stefano, 96. Russo Iervolino, Rosa, 4, 17, 51.

Nastasi, Salvatore, 107. Orientale Caputo, Giustina, 46n. Ortese, Anna Maria, 38. Ottieri, Ottiero, 28, 41. Pagano, Ernesto, 179. Pane, Giulio, 111. Paoletti, Marco, 5n. Parrella, Francesco, 174n.

Sacchetti, Maurizia, 81n, 173, 174n. Sacco, Antonio, 132.

­214

Salaris, Antonio, 175n. Sales, Isaia, 15 e n, 67 e n. Sangiovanni, Vincenzo, 129. Sannino, Conchita, 7n, 194n. Santalucia, Anita, 169 e n. Santelli, Filippo, 99n. Santonastaso, Nando, 74n. Sarracino, Marco, 194. Saviano, Roberto, viii e n, 56, 152, 158, 179 e n. Savonardo, Lello, 19 e n, 94n, 99 e n. Scalella, Dario, 76. Scarfora, Paolo, 80. Schmoll, Camille, 185 e n. Scotto di Luzio, Adolfo, 24 e n. Selvaggio, Maria Antonietta, 32n, 153n. Serao, Matilde, 36. Serio, Michele, 181 e n. Servillo, Toni, 181. Severgnini, Beppe, 163 e n. Siniscalchi, Silvia, 135n. Sommella, Rosario, 144n. Sorrentino, Carlo, 84n. Sorrentino, Paolo, 39, 164.

Stefanile, Michele, 165 e n. Stewart, Stanley, 54 e n. Strozza, Salvatore, 176n. Tayer, Al, 76. Teti, Vito, 124, 125n. Trigilia, Carlo, 18 e n. Tuccillo, Domenico, 156. Tuggi, Caterina, 83n. Valensise, Marina, 91n. Valentino, Gianni, 179n. Vallat, Colette, 145 e n. Velardi, Claudio, 15, 193 e n. Verde, Franco, 29 e n. Viesti, Giancarlo, 18 e n, 61 e n. Viganoni, Lida, 58n, 59n, 144. Visone, Massimo, 146n. Vitale, Augusto, 71n. Vitale, Marco, 130. Weitin, Thomas, 22n. Wenner, Federico Alberto, 187. Wolf, Burkhardt, 22n. Zagaria, Cristina, 159n.

INDICE DEL VOLUME

Premessa

vii

I. Storie di oggi e di ieri

3

1. La prova fallita, p. 3 - 2. Un passato che non passa, p. 17

II. Napoli oggi: non solo Gomorra

34

1. Raccontare Napoli, p. 34 - 2. La città di mezzo, p. 47

III. Oltre il fordismo

70

1. L’industria in mezzo al guado, p. 70 - 2. «Se Steve Jobs fosse nato a Napoli», p. 85

IV. Il volo della Fenice

104

1. «L’oro di Napoli», p. 104 - 2. Governare il cambiamento: beni da salvare, imprese da creare, p. 117

V. La metropoli riluttante 1. Si sveglia la provincia, p. 134 - 2. La città metropolitana: spazi, comunità, conflitti, p. 145

­217

134

VI. Noi e gli altri

162

1. Coming to Naples, p. 162 - 2. Internazionalizzare Napoli, p. 182

Epilogo

197

Ringraziamenti

207



211

Indice dei nomi