Manuale di semiotica
 9788842069195, 8842069191

Table of contents :
Indice......Page 335
Indice analitico
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Frontespizio......Page 326
L'autore......Page 325
Introduzione......Page 332
1.1. Non si può non comunicare
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1.2. Comunicazione/significazione
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1.3. Ricezione
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1.4. I fattori e le funzioni della comunicazione
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2.1. Significante/significato
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2.2. L’interpretante
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2.3. Segni iconici
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2.4. Segni indicali
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2.5. Segni simbolici e codici
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2.6. Arbitrarietà
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2.7. Connotazione
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2.8. Metasegni
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3.1. Asse sintagmatico e paradigmatico
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3.2. Espressione e contenuto
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3.3. Fonemi, tratti pertinenti
......Page 44
3.4. Semantica
......Page 46
3.5. Quadrato semiotico
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3.6. Testo e discorso
......Page 60
3.7. Topic, enciclopedia, isotopia
......Page 65
4. Storie
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4.1. Livelli della narrazione
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4.2. Focalizzatori e narratori
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4.3. Ritmo
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4.4. Fabula e intreccio
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4.5. Mondi possibili
......Page 86
4.6. Il livello delle azioni
......Page 91
4.7. Attanti
......Page 100
4.8. Modalità
......Page 104
4.9. Tema
......Page 108
4.10. Passioni
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5.1. Tracce della soggettività
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5.2. Débrayage ed embrayage
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5.3. Indici linguistici dell’enunciazione
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5.4. Effetti ed efficacia
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6. Interpretazione
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6.1. Il ruolo dell’interprete
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6.2. Interpretazione come inferenza
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6.3. Abduzione
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6.4. Sceneggiature
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6.5. Generi di discorso
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6.6. Narrative artificiali e naturali
......Page 148
6.7. Interpretazione e uso dei testi
......Page 154
7.1. Lo spazio e la spazialità
......Page 158
7.2. Il visivo
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7.3. Gli oggetti
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7.4. Comunicazione non verbale e immagine coordinata
......Page 176
7.5. Oralità e scrittura
......Page 183
7.6. I processi tradottivi
......Page 184
7.7. Testi e ipertesti
......Page 191
7.8. Internet
......Page 192
8.1. Gli ambiti della comunicazione
......Page 199
8.2. Atti linguistici
......Page 200
8.3. Dialoghi e interazioni
......Page 201
8.4. Inferenze e implicature
......Page 203
8.5. Regole conversazionali
......Page 205
8.6. Regole di cortesia
......Page 207
8.7. La retorica classica
......Page 209
9.1. Culture
......Page 214
9.2. Semiosfera
......Page 218
9.3. Mode
......Page 222
9.4. Pratiche quotidiane
......Page 224
9.5. Mito e folclore
......Page 228
9.6. L'informazione in prospettiva semiotica
......Page 231
9.7. La comunicazione pubblicitaria
......Page 239
9.8. Lo spazio della politica
......Page 242
9.9. La televisione
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10.1. I linguaggi delle arti
......Page 249
10.2. Letteratura
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10.3. Teatro
......Page 257
10.4. Cinema
......Page 260
10.5. Il fumetto
......Page 262
10.6. Musica
......Page 264
11.1. Il post-strutturalismo e la ricerca dei Cultural Studies
......Page 268
11.2. Il «gender»
......Page 278
11.3. Desiderio e piacere
......Page 284
Bibliografia
......Page 295

Citation preview

Manuali di base

Ugo Volli

© 2000,2003, Gius. Laterza & Figli Nei «Manuali Laterza» Prima edizione 2000

Nei «Manuali di base» Nuova edizione aggiornata 2003 Settima edizione 2008 Questo libro è il frutto del lavoro di un gruppo di semiologi riuniti presso l'istituto di comunicazione dello IULM di Milano: Michela Deni, Cristina De Maria, Guido Ferrara, Cecilia Gallotti, Francesco Marsciani, Valencina Pisanty. Mentre la responsabilità complessiva di tutto il lavoro spetta all’autore, il gruppo ha collaborato per la concezione e la stesura di ogni parte del libro. In particolare, tuttavia, si individuano alcuni contributi individuali prevalenti: Valentina Pisanty (§§ 2.2, 4.2, 4.5, 4.6.1, 4.6.2, cap. 6), Francesco Marsciani (§ 3.4), Cristina De Maria (§§ 7.1, 7.5, cap. 11), Cecilia Gallotti (cap. 5, §§ 8.4, 8.5, 8.6), Guido Ferrara (§§ 7.7, 7.8, 9.1, 9.6, 9.7), Michela Deni (§§7.3, 10.4)

1. Comunicazione

1.1. Non si può non comunicare Il punto di partenza della semiotica e la giustificazione della sua utilità si possono trovare in un fatto elementare che è stato definito «il primo as­ sioma della comunicazione» (Watzlawick, Beavin, Jackson 1967). Questo principio afferma che «non è possibile non comunicare». Ogni persona, ogni oggetto, ogni elemento naturale o artificiale del nostro paesaggio, ogni forza o organizzazione «comunicano» continuamente. Comunicare in questo caso vuol dire semplicemente diffondere informazione su di sé, presentarsi al mondo, avere un aspetto che viene interpretato, magari ta­ citamente, da chiunque sia presente. Nel seguito, a proposito di questo fe­ nomeno, seguendo una terminologia semiotica più rigorosa, parleremo piuttosto di «significare» o di «aver senso». Tutte le cose del mondo han­ no senso per noi: questo è un fenomeno meraviglioso e decisivo, cui rara­ mente si fa caso, tanto è fondante per la nostra esperienza. Della nostra esistenza cosciente fa dunque parte, come primo presup­ posto, il fatto che il mondo ci appaia sensato. Il che significa, fra l’altro, che noi vediamo sempre le cose che ci troviamo attorno e i loro compor­ tamenti secondo certe categorie o etichette. Fin dall’inizio non abbiamo l’impressione di percepire un caotico insieme di stimoli sensoriali, cui in effetti i nostri organi sensoriali devono essere sottoposti. Da subito, inve­ ce, vediamo delle cose, relativamente stabili, che agiscono e subiscono azioni. Allo stesso tempo queste cose non sono per noi oggetti astratti, de-

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gli enti spazio-temporali come sono definiti dalla fisica. Al contrario, essi ci appaiono immediatamente concreti, sensati. Quella forma rossa laggiù, per esempio, è un’automobile; si muove in una certa direzione, sta per svoltare a sinistra e quindi si trova nella parte centrale della carreggiata. Una luce arancione lampeggiante indica l’in­ tenzione del guidatore (che deve esserci, che do per scontato, anche se non lo scorgo) di girare a sinistra. Questo squillo invece è un telefono, che so usare in una certa maniera non solo tecnica ma anche interpersonale (di giorno e non di notte, con persone che si conoscono e non a caso, per di­ re qualcosa e non per cantare, ecc.). A seconda del momento, quello squil­ lo mi dà gioia, angoscia, sorpresa, noia. Ha senso per me perché mi inseri­ sce in un contesto di relazioni interpersonali. Il profumo che sento è cibo, e viene dalla mia cucina: senso di casa. Quel fuso nero è un ombrello, se qualcuno lo ha in mano vuol dire che piove. Quella persona ha un sorriso stanco, è giovane, ha l'aria da studente, dal suo atteggiamento so che mi vuol parlare. Vedo lontano del fumo e capisco che deve esserci un incen­ dio, da qualche parte. Ogni cosa ci appare dunque etichettata secondo la sua apparenza, e fornita, per così dire, di istruzioni per l'uso. Le cose, infatti, non ci ap­ paiono in maniera astratta, come configurazioni geometriche o psicologi­ che di stimoli, ma subito le vediamo secondo la loro utilità, il loro perico­ lo, le azioni che ci sono richieste: ogni cosa è per noi. Questa ricchezza di senso del mondo mobilita moltissime conoscenze, tutta un’enciclopedia di saperi formali e informali. Ed è quindi diversa da persona a persona, da società a società, da tempo a tempo. Ma dappertutto non vi sono se non persone o cose che significano (se non altro, al minimo, che significano per me la loro mancanza di utilità e di interesse). Più le guardo e le studio, na­ turalmente, più il loro senso si arricchisce, in un processo che appare ine­ sauribile. La conseguenza di questo fatto elementare - che il mondo ab­ bia senso - è che il comportamento (o anche l’assenza di comportamento) di ogni persona o organizzazione è una potenziale sorgente di comunica­ zione. Chiameremo significazione questa condizione di ricchezza di senso. L’emergere del senso dal mondo e il suo rapporto con la percezione e con la conoscenza sono un tema centrale per la filosofia, la psicologia, la semiotica. Filosofi come Locke e Hume, Kant e Hegel, Husserl e Hei­ degger, Carnap e Quine; correnti psicologiche come il gestaltismo e il co­ gnitivismo hanno portato rilevanti contributi su questo tema. È impossi­ bile riassumere qui questo dibattito secolare. Per una informazione sulle posizioni semiotiche più recenti al riguardo, vedi Violi 1997, Eco 1997, Greimas e Fontanille 1991.

1. Comunicazione 5

1.2. Comunicazione/significazione Quando ci figuriamo una comunicazione, non pensiamo normalmen­ te a situazioni così elementari come capire la direzione del movimento di una macchina, o dedurre il tempo che fa dal colore del cielo, o identifica­ re un cane da una certa sagoma colorata nel nostro campo visivo. Ci rife­ riamo piuttosto ad attività come spedire una lettera, fare pubblicità, gri­ dare qualcosa a qualcuno, raccontare una storia. In tutti questi casi acca­ de che ci sia qualcuno (che chiameremo emittente}, il quale «trasmette» qualche cosa (che chiameremo messaggio o, in maniera più tecnica, testo) a qualcun altro (che chiameremo destinatario). In questo tipo di comuni­ cazione vi è naturalmente un lavoro da parte dell’emittente, per dare al messaggio un formato accessibile al destinatario. Tale operazione può ave­ re più o meno successo, ma l’iniziativa e il lavoro in essa spettano all’e­ mittente. Il destinatario si trova a ricostruire l’intenzione dell’emittente, a interpretare il messaggio, a reagire ad esso o a rifiutarlo. Ma la situazione di base è quella della trasmissione pura e semplice, come accade quando qualcuno spedisce una lettera a qualcun altro. È evidente che la significazione di cui si è parlato nel paragrafo prece­ dente non è un fenomeno dello stesso tipo della comunicazione vera e pro­ pria. Non c’è in questo caso un emittente che ci mandi un messaggio di cielo grigio per farci prevedere la pioggia, il ragazzo che incontriamo non sta cercando di apparire uno studente (semplicemente ha l’aria di uno stu­ dente), gli esantemi del morbillo non ci vengono inviati dai virus della ma­ lattia come una specie di lettera per informarci, ma sono una sgradevole conseguenza biologica della loro presenza nel corpo, che il medico è ca­ pace di interpretare. La significazione ha però anch’essa, indubbiamente, una certa natura comunicativa. Un passaggio di informazione avviene. In questo caso, tut­ tavia, il lavoro viene svolto tutto dal destinatario, che innanzitutto decide in proprio di assumere questo ruolo, osservando certi fatti. In secondo luo­ go il destinatario assume i fatti che gli interessano come oggetto di infe­ renza, applicando ad essi, in maniera più o meno consapevole, le proprie conoscenze. Possiamo immaginare, forzando un po’ le cose, che in questo caso si applichino delle regole. Per esempio, io so che, se c’è un incendio, allora si vede del fumo (questa potrebbe essere pensata come una regola), e io effettivamente vedo del fumo. Allora posso dire che è probabile che ci sia un incendio. Uno studente si veste in un certo modo. Tizio è vestito in quel modo, dunque mi sembra uno studente. Quando piove si usa l’om­ brello. Vedo qualcuno che porta un ombrello aperto, e penso che piova. Non c’è alcuna necessità logica nelle regole che agiscono nei processi

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di significazione. Solo una costruzione di probabilità, una specie di scom­ messa sul fatto che il mondo funzioni in maniera regolare e sensata. Sulla base dell’ipotesi generalissima che tutto ciò che accade abbia senso, noi costruiamo delle regole ipotetiche per spiegare quel che accade e le appli­ chiamo poi, in via ancor più ipotetica, ai casi che stiamo esaminando. Se­ guendo Peirce (per esempio 1984) chiamiamo abduzione questa forma di ragionamento semi-logico, ma comunissimo. TIPI DI COMUNICAZIONE

La comunicazione si capisce per via di...

Il lavoro comunica­ tivo è svolto da...

Comunicazione vera e propria

Codice

Emittente

Significazione

Regole/Abduzione

Destinatario

Perché trattare assieme i processi di comunicazione vera e propria e di significazione sotto il nome comune di comunicazione? Negli studi su questo argomento, la parola comunicazione è stata usata in modo ambi­ guo, ed è meglio rispettare tale uso per non produrre ulteriore confusio­ ne. Ma poi ci sono due ragioni di sostanza. In primo luogo, anche i mec­ canismi che rendono possibile la comunicazione vera e propria sono ca­ ratterizzati dalla logica della significazione. Perché l’oggetto che viene tra­ smesso dall’emittente al destinatario possa adempiere alla sua funzione, esso deve risultare significativo. In secondo luogo, è spesso facile e in ge­ nere assai comune lavorare sull’aspetto di una cosa o di una persona, ma­ nipolare insomma la sua significazione, in maniera tale da raggiungere de­ terminati effetti comunicativi. Dunque si può produrre comunicazione mo­ dificando la significazione di un oggetto. Pratiche come il packaging e il de­ sign degli oggetti, l’arredamento e la cura della casa, l’abbigliamento e la cura del viso e dei capelli sono mezzi comunissimi per alterare e in gene­ re migliorare la percezione di un oggetto sociale, in maniera tale da otte­ nere una certa immagine. In questo modo spesso la significazione nascon­ de una comunicazione vera e propria: il destinatario crede di scoprire il senso di qualcosa e in realtà riceve una comunicazione accuratamente ela­ borata da un emittente. E in generale è persino possibile pensare tutta la comunicazione come una complessa manipolazione dell’ambiente opera­ ta da qualcuno (l’emittente) interessato a far sì che qualcun altro (il desti­ natario) percepisca un certo senso. I fenomeni semiotici della comunica­ zione e della significazione, insomma, si incrociano fittamente e si con­ tengono spesso l’un l’altro a diversi livelli. C’è un terzo concetto importante, da non confondere con i primi due,

1, Comunicazione

7 ed è quello di informazione. In un senso che può essere formalizzato e in linea di principio calcolato matematicamente, l’informazione può essere intesa come la capacità di ridurre l’incertezza sullo stato del mondo. Esse­ re informati sul risultato di una partita di calcio, per esempio, vuol dire ri­ durre i possibili tre risultati (vittoria, pareggio, sconfitta) a uno solo che si è effettivamente realizzato. Da questo punto di vista è possibile misurare ogni informazione sulla base del numero di scelte binarie (nel gergo infor­ matico: il numero di bit) che sono necessarie per determinarla univoca­ mente. Se per esempio le possibilità sono otto, per definire quale di esse effettivamente si verifica sono necessarie tre scelte binarie e dunque quel­ l’informazione vale tre bit. Così definito, quello di informazione è un con­ cetto molto utile in ambiti scientifici, tecnologici e soprattutto informati­ ci. Ma, per quanto riguarda le interazioni umane, nelle quali il senso è im­ portante, esso risulta del tutto inadeguato. E infatti molto difficile stabili­ re a priori il numero delle alternative che fanno da sfondo a ogni comuni­ cazione, dato che esse dipendono in maniera determinante dalle cono­ scenze condivise fra gli interlocutori e in particolare dal loro linguaggio. Vi sono sempre, nei rapporti fra gli esseri umani, fenomeni di ridondanza (cioè di informazioni che non sono trasmesse nella maniera più economi­ ca, ma al contrario sono ripetute e ribadite in diversi modi, in maniera da renderle più convincenti o meno sensibili ai disturbi della comunicazione, che vengono definiti dalla teoria dell’informazione come rumore). E vi so­ no dei fenomeni di informazione ellittica o implicita, in cui l’emittente non cerca neppure di trasmettere tutta l’informazione che intende far giunge­ re al destinatario, perché fa affidamento sulla capacità di quest’ultimo di integrare col ragionamento, o con i dati che presume siano in suo posses­ so, gli elementi mancanti. Infine, la comunicazione non serve solo al pas­ saggio di informazione pura e semplice, ma consiste in vari tipi di azione-. convincere, per esempio, promettere, sedurre, far immaginare e così via. E queste azioni difficilmente si possono far rientrare nel calcolo della quantità di informazione trasmessa.

Per un approfondimento sulla nozione di abduzione e sui concetti ad essa collegati, vedi infra al § 6.3, e anche Eco e Sebeok, a cura di, 1983. E stato molto vivace il dibattito che contrapponeva una semiotica della comunicazione propugnata da Eco 1968, 1975, Barthes 1964b, Prieto 1975 a una semiotica della significazione difesa da Greimas 1966, 1970. Una proposta di analisi della comunicazione tutta dal punto di vista del­ la manipolazione della significazione è Sperber e Wilson 1992. Per la de­ finizione matematica dell’informazione: Shannon e Weaver 1949.

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1.3. Ricezione Si definisce ricezione l’atto con cui un certo messaggio o testo è fatto proprio da un essere umano (o da un altro essere vivente o da un qualche dispositivo adatto) che in questo caso viene definito destinatario, ricetto­ re o ricevente, o lettore. La ricezione è dunque il momento in cui, in una certa porzione del mondo, che per l’appunto l’atto della ricezione qualifi­ ca come testo, emerge per qualcuno un senso. In questa attribuzione di senso si trova il punto di partenza del complicato processo di interpreta­ zione. Di conseguenza si tratta dellW/o decisivo della comunicazione. Si può facilmente ammettere infatti che vi sia comunicazione senza emitten­ te, per esempio nei casi in cui dalla lettura di uno strumento scientifico o dai sintomi di una malattia o da altri indizi, cioè configurazioni rilevanti del mondo, qualcuno tragga un senso (esempi classici di indizi sono il fu­ mo per il fuoco, la febbre per la malattia, l’impronta digitale per l’assassi­ no). Ma al contrario, non vi è comunicazione efficace, anzi non vi è affat­ to comunicazione, senza ricezione. Gli stessi indizi che abbiamo citato, senza nessuno che li interpreti, sono semplici fatti del mondo, privi di ef­ fetti comunicativi. E lo stesso vale per strumenti di misura, allarmi auto­ matici, cioè dispositivi costruiti apposta per comunicare un segnale a qualcuno-, senza destinatario (o almeno un dispositivo automatico che rispon­ da loro secondo modelli predisposti da un progetto), questi strumenti fun­ zionano materialmente, ma non creano senso. Un termometro che non è letto (o non serve come input per un sistema di rilevamento automatico) può funzionare perfettamente, ma letteralmente non ha senso, resta una colonna di mercurio in un tubo di vetro. Così per una popolazione di bat­ teri nel sangue di un malato che nessuno mette sotto un microscopio, o per il fumo di un incendio che nessuno scorge. Solo un’interpretazione (magari incorporata in un termostato) mette in relazione l’espansione del mercurio con il livello della temperatura, l’aspetto dei microbi con il de­ corso di una malattia. L’universo è pieno di indizi o sistemi di misura po­ tenziali, che nessuno rileverà mai. E viceversa, forse ogni cosa del mondo potrebbe diventare significativa, se fosse inserita nel sistema adatto di do­ mande. Tale concetto si applica a maggior ragione per l’esempio più tipico del­ la comunicazione volontaria, la produzione linguistica di un essere uma­ no, che non può logicamente essere pensata senza un polo ricettivo. An­ che chi grida da solo nel deserto o prova a scrivere una lettera che poi non spedirà, mette in opera lui stesso necessariamente una qualche ricezione parziale del suo stesso testo, se non altro per controllarlo; e comunque si figura una possibile ricezione futura, si regola su un ricevente virtuale ma

1. Comunicazione 9

non per questo inefficace (per esempio sceglie di usare una certa lingua e certe espressioni, in funzione di chi pensa potrà ricevere il suo messaggio). Se guardiamo all’organizzazione di una comunicazione normale, per esem­ pio di una telefonata o di una conversazione, troviamo che senza una rice­ zione effettiva, si tratta solo di tentativi di comunicazione: in presenza di ru­ more o altri disturbi, il tentativo di comunicare continuerà finché non si sarà avuta una ricezione - e la relativa conferma, esercitata spesso attra­ verso la funzione fàtica (vedi § 1.4) in ogni conversazione. Solo allora la comunicazione si sarà realizzata. L’emittente produce il tentativo-, solo l’av­ venuta ricezione realizza la comunicazione vera e propria. Esistono certamente degli oggetti culturali che sono compiuti prima della loro effettiva comunicazione al pubblico: è il caso di opere letterarie e delle altre arti. La Divina Commedia ha avuto certamente un senso pri­ ma delle complesse vicende della sua ricezione. Ma si tratta qui di oggetti comunicativi molto peculiari, seppure importanti, che si possono qualifi­ care più come eccezioni che come casi tipici. E pure allora bisogna pen­ sare che l’artista, nel suo lavoro di riscrittura e di perfezionamento, agisca anche e soprattutto come ricettore primo del suo lavoro. Ogni comunica­ zione presuppone dunque, a diversi livelli, un atto di ricezione: una rice­ zione empirica, negli atti comunicativi riusciti; un’autoricezione e un cer­ to modello di ricezione virtuale (cioè certe ipotesi sul possibile ricettore) in ogni altro caso. Chiameremo in seguito (§6.1) «lettore modello» que­ sto modello di ricezione virtuale.

Lo stesso testo che viene comunicato, a rigore si forma solo nell’atto della ricezione. È infatti il ricettore a deciderne definitivamente i confini, cioè a stabilire col suo atto di lettura qual è esattamente il testo recepito (per esempio, un articolo di giornale, un titolo o un’intera pagina; un li­ bro letto da cima a fondo e di seguito o scorso velocemente; un verso o una cantica intera; una trasmissione televisiva isolata o il montaggio di uno zapping). È il ricettore a contestualizzare il testo alla sua enciclopedia, cioè ad attualizzare certi suoi significati a differenza di altri (per esempio, a leg­ gere VAntigone di Sofocle come un testo sul conflitto fra libertà indivi­ duale e Stato, piuttosto che sul conflitto fra diritto della polis e diritto di­ vino, o fra valori maschili e femminili). È infine il ricettore che colma gli inevitabili buchi del testo con la sua attività figurativa, che gode del testo trasformandolo da oggetto inerte in relazione sociale. L atto semiotico fondamentale non consiste dunque nella produzione di segni, ma nella comprensione di un senso. Questo non significa innan­ zitutto ricondurre un oggetto significante (o representamen) a una legge generale di tipo ipotetico (se c’è questo, allora quello), ma semmai porlo come un testo e cioè interrogarsi sul perché di quell’oggetto, dunque in-

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nanzitutto sulla sua differenza rispetto al contesto (differenza sintagmati­ ca), sulla sua differenza rispetto a quel che potrebbe essere al suo posto (differenza paradigmatica) e sulla ragione di queste differenze - che sono sempre ragioni, rete di ipotesi principali e accessorie che costituiscono la testualità dell’oggetto. Alla base di questo atto semiotico c’è dunque la me­ raviglia, l’essere stupiti - base di tutta la filosofia e la scienza. Il principio di efficacia di questa meraviglia è la rilevanza o salienza nel contesto. Il suo modo di funzionamento consiste nel rilevare identità e differenze di tipi. La produzione di segni è invece dell’ordine della manipolazione-, si tratta di realizzare degli oggetti che, per il modo in cui sono fatti o per la loro posizione, «chiedano» di essere interpretati. La ricerca semiotica ha mostrato che si possono ricostruire in ogni te­ sto dei simulacri della ricezione virtuale immaginata dall’autore come pos­ sibile interlocutore: è quel che Umberto Eco chiama lettore modello, cioè una certa competenza linguistica e di genere, un certo atteggiamento ideo­ logico, un certo bagaglio enciclopedico che permette di dare per scontata una certa forma del mondo e così via. Nessun testo può fare a meno di un lettore modello perché necessariamente esso deve formularsi secondo un codice linguistico e dare per scontate certe conoscenze sulla realtà, che so­ no presupposte comuni al destinatario. Dal lettore modello bisogna tener distinti un altro tipo di simulacri del­ la ricezione che sono presenti spesso anche se non sempre nelle comunica­ zioni letterarie, giornalistiche, televisive, pittoriche, ecc. Si tratta del desti­ natario rappresentato, che consiste in una certa figura (o più d’una) che sta nel testo, in modo esplicito a marcare enunciativamente il lettore o lo spet­ tatore: per esempio il pubblico in studio di una trasmissione televisiva, il lettore cui si rivolge eventualmente in seconda persona un narratore, i vari soggetti delle rubriche di «lettere» su un giornale e così via. In questi casi siamo di fronte a un’enunciazione enunciata, in cui l’atto della comunica­ zione (e in esso la figura della ricezione) viene rappresentato oltre che ese­ guito. Non sempre, però, la ricezione enunciata, e prevista dall’autore se­ condo il filtro del lettore modello, corrisponde alla ricezione effettiva. Da quel che si è detto risulta chiaro che la ricezione è certamente un atto del ricettore e non solo una sua passiva condizione, e soprattutto che non si tratta per nulla di un atto semplice e puntuale. Si tratta piuttosto di un processo complesso, che coinvolge numerose tappe e verifiche, che vie­ ne compiuto non nella solitudine di un soggetto astratto, ma in un rap­ porto stretto e dialogico col testo, con la società in cui la ricezione si svol­ ge, con gli altri testi che il ricettore conosce e da cui è influenzato. La co­ siddetta «estetica della ricezione» ha mostrato che alla base di ogni atto ri-

1. Comunicazione 11

cettivo esiste un «orizzonte d’attesa» del soggetto, che consiste in cono­ scenze, gusti, interessi, definizioni di genere, che egli condivide con la so­ cietà cui appartiene. Ogni nuovo messaggio e in particolare ogni nuova opera d’arte si staglia su questo orizzonte d’attesa, in parte innovandolo, spesso semplicemente confermandolo. Il suo senso dipende da questo complesso rapporto con ciò che al ricettore è già dato, in particolare con {'intertestualità in cui è immerso. La complessità della ricezione si realizza in diversi modi, che implica­ no diversi modi di lavoro da parte del ricettore. Innanzitutto vi è una com­ plessità di dimensione. Vi è una ricezione quasi esclusivamente percettiva, per esempio nel momento in cui ci accorgiamo di una spia di allarme che si accende in un pannello di controllo. Il lavoro del riconoscimento del te­ sto è qui estremamente semplice, anche se magari la ricezione completa può comportare una attività deduttiva molto complessa e una serie di rea­ zioni molto estese (le cose sono diverse se la spia che si accende è quella che indica, nel cruscotto di un’automobile, che il carburante sta scenden­ do «in riserva» oppure quella che sta a dire che vi è un’anomalia in una centrale nucleare). Al polo opposto della complessità di dimensione ab­ biamo la ricezione di testi molto ricchi ed estesi, La Divina Commedia, gli affreschi della Cappella Sistina o il Don Giovanni. Qui, prima del diffici­ le lavoro di comprensione semantica del testo, vi è una ricca attività di per­ cezione e di ricostruzione della forma del testo. Un secondo livello di complessità della ricezione riguarda i diversi ca­ nali e codici su cui avviene il lavoro percettivo. Vi è ricezione visiva, audi­ tiva, tattile, ecc.; vi è ricezione iconica, indicale, simbolica. Vi sono rice­ zioni multimediali e sinestetiche. Vi è ricezione di testi fortemente codifi­ cati, e ricezione/percezione di parti del mondo naturale, senza forti vin­ coli di codificazione. Di solito si tende ad attribuire queste caratteristiche al messaggio, ma poiché è la ricezione a determinarlo come tale, bisogna ammettere che anche queste caratteristiche ne dipendono. Da questa complessità di codice, e dal modo in cui essa è usata, dipende anche na­ turalmente quella dei contenuti del messaggio e del modo in cui essi sono attualizzati. La tradizione ermeneutica, che si è formata innanzitutto in­ torno allo studio della Bibbia, distingue per esempio un certo numero di «sensi» del testo (nella tradizione prevalente in Occidente, essi sono quat­ tro: letterale, anagogico, morale e allegorico). Questi sono, per così dire, diversi meta-codici che vengono applicati dal lettore al testo per mettere in evidenza (si potrebbe dire per costruire) altrettanti strati di senso, coi loro codici e contenuti. Vi sono infine diversi atteggiamenti del lettore. I Cultural Studies an­ glosassoni (vedi cap. 11) si sono occupati a lungo di caratterizzare diverse strategie di lettura a seconda del modo in cui il destinatario reagisce al suo

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testo. Vi può essere, a un estremo, una lettura succube, che si china all’au­ torità del testo e non dubita dei suoi contenuti. All’altro estremo abbiamo una lettura resistente, che si sforza di criticare il testo, di demitizzarlo o di decostruirlo per comprendere gli interessi per cui esso sarebbe stato pro­ dotto. Fra questi due estremi sono possibili numerosi modi intermedi di utilizzazione e di piacere del testo. Un campo di ricerca molto interessan­ te sulla comunicazione di massa riguarda per l’appunto «gli usi e le grati­ ficazioni» che il ricettore fa del testo mediatico: non bisogna chiedersi, af­ ferma questa teoria, che cosa il testo fa del suo lettore, ma al contrario che cosa il lettore fa del testo. Intorno alla ricezione e ai suoi problemi ha molto lavorato l’erme­ neutica. A questo proposito, il testo fondamentale è Gadamer 1960. Sul­ la cosiddetta estetica della ricezione, si vedano i testi antologizzati in Holub 1989. Dal punto di vista narratologico, sono importanti i contributi di Genette 1972 e Chatman 1978. La sistemazione prevalente in ambito semiotico è quella di Eco 1979. Il circuito complesso della comunicazio­ ne audiovisiva e dei suoi simulacri è descritto in Bettetini 1984.

1.4. I fattori e le funzioni della comunicazione Quali sono insomma gli elementi in gioco nella comunicazione? La li­ sta può essere molto lunga e complessa, come vedremo, ma vale la pena di usare un primo schema per delimitare il campo. Innanzitutto vanno ricordati i tre elementi di base già citati: Emittente -> Messaggio -> Destinatario

Aggiungiamo però che è tutt’altro che ovvio ciò che si debba intende­ re per «messaggio». Non va mai dimenticata la semplice constatazione per la quale (a parte l’ipotesi, del tutto marginale, di una comunicazione tele­ patica) i contenuti mentali che intendiamo comunicare - pensieri, senti­ menti percezioni, ecc. - per loro natura non possono essere spostati da una persona all’altra. Il «messaggio» non può dunque essere pensato come un insieme di contenuti o di idee; si tratta piuttosto di un oggetto materiale (un foglio di carta con tracce di inchiostro, una sequenza di onde sonore, e così via) che in quanto tale si presta a essere fisicamente spostato da una persona all’altra. Questo oggetto materiale è dunque un sostituto dei con­ tenuti mentali che si vorrebbe poter trasmettere, e gran parte della com­ plessa problematica della comunicazione trae la sua origine, com’è facile

___________________ 1, Comunicazione 13

capire, proprio da questa necessità di ricorrere a oggetti sostitutivi: quelli che tecnicamente vengono di solito definiti segnali.

K questi vanno aggiunti altri elementi di particolare importanza in tut­ ta la comunicazione: - un contatto è necessario per mettere in comunicazione emittente e de­ stinatario. Considerato secondo la metafora idraulica in uso nella teoria matematica dell’informazione, spesso il contatto viene indicato come ca­ nale. Nel campo della comunicazione tra esseri umani, il contatto va pen­ sato soprattutto come quel canale di ordine psicologico e sociale che fun­ ge da base per ogni relazione comunicativa. Se ad esempio l’emittente non trova i mezzi o le capacità per interessare il destinatario e attivare in lui una disponibilità al rapporto di comunicazione, il canale, appunto, viene a mancare. - Un altro elemento che si ritrova in tutte le comunicazioni vere e pro­ prie è un codice. Non accade mai che la comunicazione sia «nuda» o im­ mediata. Il canale costituisce il contatto, ma anche il filtro materiale fra emittente e destinatario. Sul piano immateriale il filtro è dato da un codi­ ce. Una frase dev’essere pronunciata o scritta in una certa lingua, un mo­ do di affermare la propria personalità col corpo o col tono di voce varia nelle differenti situazioni sociali, ha cioè diverse codificazioni; lo stesso av­ viene per il cibo, l’architettura, la maggior parte delle espressioni del viso. Nei casi di significazione non esiste una codificazione preventiva; ma per trattare l’oggetto o il comportamento come comunicazione il destinatario deve far ricorso a delle conoscenze generali, a delle regole; deve insomma agire come se il messaggio fosse codificato.

- Infine, i messaggi di solito vengono prodotti per parlare di qualco­ s’altro, per riferirsi alla realtà o a un certo contesto. Sotto questo nome tal­ volta in semiotica si indica la capacità del messaggio di riferirsi a elemen­ ti del mondo reale. Da quel che abbiamo detto risulta uno schema, che spesso viene asso­ ciato al nome del grande linguista russo Roman Jakobson, il quale l’ha proposto per studiare il linguaggio poetico.

1. Emittente

2. Contatto (canale) 3. Messaggio 4. Codice 5. Contesto (contenuto)

6. Destinatario

Manuale di semiotica 14

Da questo schema è possibile ricavare anche le tre principali dimen­ sioni della comunicazione, che corrispondono a tre discipline degli studi linguistici e semiotici. Innanzitutto vi è la dimensione sintattica della comunicazione, quella che studia l’organizzazione interna del messaggio (per esempio, nel caso del linguaggio, la morfologia, la sintassi, ecc.; nel caso del linguaggio visi­ vo, l’organizzazione formale di un quadro, secondo la prospettiva, i rap­ porti di colore, ecc.; per quanto riguarda la musica, l’organizzazione ar­ monica e ritmica), secondo il rapporto messaggio/codice/contatto. La dimensione semantica (messaggio/contesto) si occupa di studiare il modo in cui il messaggio si rapporta col suo contenuto, dunque col conte­ sto, comunque lo intendiamo, come una rete di concetti o come una de­ scrizione del mondo. La dimensione pragmatica è quella che invece lega il messaggio a emit­ tente e destinatario, e riguarda gli effetti, le modalità di enunciazione e co­ sì via. È stato ancora Roman Jakobson a sistematizzare il tema delle funzioni della comunicazione, che è tradizionale in linguistica. Secondo lo schema di Jakobson, le funzioni della comunicazione sono corrispondenti ai fat­ tori appena citati: qui per chiarezza le elenchiamo con la stessa numera­ zione.

1. Emotiva (espressiva)

2. 3. 4. 5.

Fatica Poetica Metalinguistica Referenziale

6. Conativa

La funzione emotiva (o espressiva) riguarda la capacità che ogni emit­ tente ha di esprimere sé, le sue emozioni, i suoi sentimenti, la sua identità nel messaggio. La funzione fatica consiste nel lavoro che si fa per garanti­ re il contatto (per esempio quando si dice «pronto!» al telefono). La fun­ zione metalinguistica definisce il codice in uso e dunque, implicitamente, i rapporti fra gli interlocutori. La funzione referenziale permette al mes­ saggio di mettersi in rapporto col mondo, di parlare di qualche cosa. La funzione poetica riguarda l’organizzazione interna del messaggio, il modo in cui esso è realizzato (e Jakobson la chiama così perché la considera do­ minante in poesia e in generale nell’arte, dove il messaggio comuniche­ rebbe soprattutto con la sua forma). La funzione conativa è invece quella per cui si cercano degli effetti sul destinatario, gli si danno degli ordini, dei consigli, ecc. È importante tener presente che ogni atto comunicativo contiene al-

_____________________________________________________________ 1. Comunicazione 15

meno in potenza tutti i fattori della comunicazione e ne comprende anche tutte le funzioni. Non esiste una comunicazione puramente fàtica, o pura­ mente referenziale, puramente poetica, ecc. Per poter raggiungere con ef­ ficacia uno di questi scopi, devono essere sviluppati in certa misura anche gli altri. Una poesia deve parlare di qualche cosa, un ordine deve conte­ nere dell’informazione su come può essere eseguito (funzione referenzia­ le), una confessione si rivolge a qualcuno per qualche scopo (funzione co­ nativa), ecc. Jakobson espone la sua teoria dei fattori e delle funzioni della comu­ nicazione in un articolo raccolto in Jakobson 1966, che elabora un mo­ dello cibernetico proposto in Shannon e Weaver 1949. Una precedente teoria analoga, anche se notevolmente più complessa, si trova in Biihler 1934.

2. Segno

2.1. Significante/significato Lo schema degli elementi della comunicazione che abbiamo appena il­ lustrato è certamente parziale e si può facilmente arricchire, ma all’atto pratico risulta molto utile, anche perché è possibile illustrare molte situa­ zioni comunicative specifiche per mezzo di sue sezioni o rielaborazioni. Per esempio, la comunicazione vera e propria, come l’abbiamo definita so­ pra si caratterizza per l’importanza accordata ai tre fattori Emittente -> Messaggio -> Destinatario

Invece, nei processi che abbiamo chiamato di significazione, remitten­ te è assente, o è virtuale, o si può considerare come una proiezione del de­ stinatario, ed è quest’ultimo che realizza una situazione di tipo comunica­ tivo, decidendo (o scommettendo) di considerare un certo elemento della realtà come messaggio. Trattare qualcosa come messaggio significa attri­ buirgli rilevanza rispetto alla realtà, cioè supporre che ci sia un contesto (se­ condo la terminologia impiegata sopra) o un contenuto cui esso rimanda o si riferisce. Dunque questa situazione può essere schematizzata come segue: Messaggio

«- Destinatario

Contesto

2. Segno 17

Per qualcuno, che implicitamente si assume il ruolo di destinatario, qualcosa appare dunque messaggio di un contesto (che, ricordiamolo, nel­ la terminologia di Jakobson equivale al nostro significato o a ciò che, con Peirce, nel prossimo paragrafo chiameremo «oggetto»). La situazione che abbiamo appena tratteggiato si descrive di solito co­ me il riconoscimento di un segno. Nella definizione classica, risalente al pensiero greco, un segno è aliquid prò aliquo, qualcosa che è riconosciuto da qualcuno come indicazione di qualcosa d'altro. Non solo: per segno si intende in genere l’elemento minimo cui si possa attribuire una tale rela­ zione di rimando: solo semplificando moltissimo si può dire che un gior­ nale o un film siano segni. In realtà essi, nella terminologia che abbiamo adottato, vanno descritti piuttosto come messaggi che contengono un gran numero di segni, variamente articolati fra loro. In seguito parleremo per questi casi piuttosto di testi. Sarà più opportuno scegliere come esempi di segni il fumo che sta per il fuoco, la bandiera bianca che indica la resa, il semaforo che impone di fermarsi o di avanzare. Studiare il segno vuol dire insomma cercare un livello estremamente semplice, quasi astratto del senso. Sia nella situazione di comunicazione che in quella di significazione è facile ritrovare questa cellula fondamen­ tale: un oggetto a due facce, o piuttosto una relazione che lega un signifi­ cante a un significato: Significante Segno =------------------------Significato

Non bisogna pensare però che il segno consista nell’aggiunta di un si­ gnificato a un significante preesistente, o viceversa, nell'attribuzione di un significante a un significato che sia già dato. E possibile naturalmente che gli oggetti materiali o astratti che vanno a coprire queste due posizioni del segno esistano già prima che il segno si costituisca. Certamente c’erano fu­ mi e fuochi prima che ci fossero esseri umani per ragionarci sopra. Ma nel momento in cui la relazione segnica, cioè il rapporto tra le due facce del se­ gno, si instaura, non è più possibile pensare il significato senza il suo signi­ ficante o viceversa. Il fumo può essere considerato un significante solo per­ ché per qualcuno ha senso, cioè rimanda a un significato. E viceversa: il fuo­ co è un significato solo se c’è un significante che lo evoca. Per usare la me­ tafora proposta dal linguista svizzero Ferdinand de Saussure, significante e significato sono inseparabili come le due facce di un foglio di carta. Come vedremo più avanti, ogni lingua possiede sia un proprio sistema di significanti sia un proprio sistema di significati. Ma precisiamo imme­ diatamente cosa si debba intendere con questi due termini. Dal punto di

Manuale di semiotica 18

vista semiotico, significato (si pensi alla definizione che il dizionario dà di una parola) è un concetto, risultato di una costruzione culturale che ci per­ mette di comprendere un certo campo di realtà. In questa prospettiva, il significato non è il riferimento a uno o più oggetti concreti. La parola «ca­ ne», per esempio, ha per significato un ben noto concetto zoologico, e può essere impiegata da moltissime persone diverse, le quali hanno in mente di fatto animali fisicamente assai diversi, o addirittura animali soltanto im­ maginati. La parola «cane», del resto, dal punto di vista comunicativo, funziona in modo del tutto analogo alla parola «unicorno», che pure de­ signa il concetto di un animale che gli zoologi ci dicono non essere mai esi­ stito. E il significato di «unicorno» è del tutto diverso da quello di un al­ tro oggetto altrettanto inesistente, come «chimera». Il significato di una parola non corrisponde dunque a quelle entità di carattere oggettivo, che i semiotici chiamano referenti-, né, d’altro canto, corrisponde a idee singole o specifiche (ciò che vale soltanto per i nomi propri). Luis Prieto, che ha approfondito il modello teorico del segno di Saussure, definisce appunto il significato come un insieme, una classe di singoli possibili contenuti mentali. In ogni particolare situazione d’uso, un segno assume un senso specifico, riguarda un certo referente concreto, che esso esista o meno; il significato è dunque l’insieme di tutti i possibili sen­ si che quel segno può avere. Ma questo vale anche dal lato del significante. Anche qui, bisogna prendere le distanze rispetto al puro dato materiale, oggettivo e indivi­ duale. Ciascuno di noi, nel parlare, ha un proprio timbro di voce, delle pe­ culiarità di pronuncia, un’intonazione legata all’umore e alla provenienza regionale: ciò fa sì che la stessa frase, o anche la stessa parola, diano luogo ogni volta a sequenze di suoni assai diverse. Se noi, sulla base di suoni co­ sì materialmente differenti, riconosciamo «la stessa parola», è perché iden­ tifichiamo delle entità stabili, fondate su codici e convenzioni culturali, e dunque non individuali ma collettive. I significanti sono appunto tali en­ tità, dotate di una identità riconoscibile da parte di tutti i membri del gruppo, dunque realtà psichiche condivise, ben diverse da quegli oggetti materiali e individualmente variabili che sono le sequenze sonore effetti­ vamente prodotte nel parlare (si tratta a questo livello di segnali). Poiché dunque il significante di una parola deve includere tutte le pos­ sibili realizzazioni da parte dei parlanti, possiamo concepirlo come un mo­ dello generale, o anche - al modo di Luis Prieto - come una classe astrat­ ta corrispondente a tutto l’insieme dei possibili segnali che vi possono cor­ rispondere. In pratica, i segnali sono ogni volta diversi: una stessa parola, ad esem­ pio, può essere pronunciata ora in modo rapido ora trascinato, con tono allegro o magari con la «erre moscia». Allo stesso modo, un cartello di di-

2. Segno 19

vieto di sosta può essere realizzato talvolta in plastica e talvolta in metal­ lo, avere altezze e grandezze diverse, colori più vivi o più slavati. Eppure noi non abbiamo dubbi sul fatto che si tratti «della stessa parola» nel pri­ mo caso, «dello stesso cartello stradale» nel secondo. Dal momento che ci è ben chiaro che queste differenze non incidono sul significato, sappiamo che tali differenze materiali non sono, appunto, significative, o, come si di­ ce in semiotica, non sono pertinenti. Per quanto si tratti di differenti ma­ teriali semiotici, dunque di differenti segnali, siamo comunque di fronte a un medesimo significante. Da questo punto di vista molto attento alla funzionalità comunicativa delle entità semiotiche, è possibile sviluppare una interessante analogia tra processi comunicativi e strumenti operativi d’altro genere, notando che ciò che definisce l’identità di un qualche oggetto semiotico è di fatto la sua ca­ pacità di svolgere un determinato insieme di funzioni. Allo stesso modo, insomma, noi possiamo definire «martelli» degli oggetti che sono di per se stessi diversi per materiale, forma, peso e misure, purché siano adatti a svolgere certe ben note operazioni. In definitiva, uno strumento, inteso co­ me concetto astratto e generale («il martello», «il lettore di CD»), può es­ sere pensato come l’insieme di tutti gli oggetti che possono avere la mede­ sima «utilità», vale a dire svolgere il medesimo insieme di operazioni. Come si vede, il concetto di strumento non collega due entità concre­ te (un certo oggetto particolare con una singola particolare operazione), bensì due differenti insiemi-, da un lato un insieme di oggetti specifici (i singoli concreti martelli, nell’esempio), dall’altro lato un insieme di speci­ fiche operazioni che è possibile realizzare servendosi di quegli oggetti (piantare chiodi, rompere sassi, appiattire ganci, ecc.). In questo quadro, il segno può essere pensato come un tipo particola­ re di strumento, elaborato per funzioni comunicative, con la possibilità quindi di applicarvi gli stessi princìpi che riguardano ogni altro strumen­ to. Così come possiamo distinguere i martelli dalle chiavi inglesi badando al modo in cui li possiamo usare, anche nel caso dei segni diremo che sia­ mo di fronte alla realizzazione di uno stesso significante fino a che le va­ riazioni nella esecuzione sonora non cambieranno il significato (facendo­ ci passare, ad esempio, dal complesso di pensieri che associamo alla paro­ la «rana» a quello assai diverso che è invece associata alla parola «vana»), L'identità degli strumenti linguistici non può consistere altro che nella loro funztonalità comunicativa. Questo modo di vedere ha delle conseguenze importanti, perché ci fa capire che in generale Yidentità degli elementi semiotici (pensiamo ad esempio a motivi narrativi o a strutture musicali) non ha nulla a che vede­ re con una analogia di aspetto concreta, ma si situa su un piano più profon­ do di capacità di senso. Se pensiamo al significato trasmesso da un se-

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maforo rosso e al gesto col braccio alzato di un vigile, è facile vedere co­ me due entità semiotiche, presentandosi in due testi diversi, possano ap­ parire molto differenti tra loro, eppure mostrino all’analisi un'identità co­ mune, in quanto equivalente è la loro funzionalità comunicativa. Per con­ verso, tutti abbiamo esperienza che è non solo possibile ma davvero fre­ quente il caso per cui, pur restando identico il segnale materiale, ne muti anche profondamente la funzionalità comunicativa. Questo capita quan­ do due persone vedono lo stesso film ma danno rilievo a componenti di­ verse (una, poniamo, fa caso a certi movimenti di macchina, al virtuosismo della fotografia e al montaggio, mentre l’altra si emoziona per la trama): per Luna risulta significativo ciò che non lo è per l’altra, e viceversa. Il se­ gnale resta lo stesso, ovviamente, ma ben diverso è il significante che cia­ scuno vi riconosce: un esempio di linguaggio cinematografico o una sto­ ria emozionante. Questo è possibile perché le entità semiotiche non sono oggetti mate­ riali bensì costrutti psichici, culturali, dipendenti da complessi fattori lega­ ti all’apprendimento, al patrimonio di competenze possedute, al continuo gioco di indicazioni che indirizzano verso alcuni percorsi di uso dei segni anziché verso altri (dei nostri due immaginari spettatori cinematografici, l’uno avrebbe potuto ad esempio essere stato influenzato dalla precedente lettura di una recensione del film, l’altro magari dal commento di un ami­ co autorevole o dalla conoscenza del romanzo da cui il film è tratto).

La nozione di segno ha origini molto antiche ed è già discussa ap­ profonditamente nella filosofia greca. A questo proposito vedi Manetti 1987. Un’antologia sul pensiero linguistico nella tradizione filosofica oc­ cidentale è Volli 1993. Per una teoria generale del segno vedi Eco 1973. Un’utile antologia comprensiva di studi con temporanei è Blonsky 1985. A cavallo fra Ottocento e Novecento la nozione di segno fu trattata indi­ pendentemente in modi assai diversi dai due più influenti studiosi mo­ derni: Charles Sanders Peirce, di cui esporremo alcuni concetti nel pros­ simo paragrafo, e Ferdinand de Saussure. Il suo Trattato, pubblicato po­ stumo (Saussure 1916), è l’origine della linguistica contemporanea. È il­ luminante consultare le ricche note della versione italiana di Tullio De Mauro all’edizione del 1967 e può essere utile l’introduzione di Prampolini 1994.1 concetti di Saussure sono stati sviluppati e sistematizzati in­ nanzitutto da Hjelmslev 1943, 1963, ma in questo paragrafo si è fatto ri­ ferimento innanzitutto a un altro originale erede del pensiero saussuriano, Luis Prieto. Un’introduzione al suo pensiero è Prieto 1966. Saggi teo­ rici e applicativi si trovano in Prieto 1989-95. Per una trattazione com­ pleta e rigorosa del segno linguistico, vedi Lyons 1968.

2. Segno 21

2.2. L’interpretante Dunque, come vedremo meglio al § 3.2, la relazione segnica implica la correlazione tra un elemento del piano del contenuto (significato) e un ele­ mento del piano dell’espressione (significante), che si costituiscono come tali proprio nella relazione. Come si vedrà, questa correlazione può esse­ re di vari tipi: talvolta è posta più o meno convenzionalmente, altre volte tra significante e significato vige un rapporto variamente motivato. L’importante, affinché si possa parlare di relazione segnica, è che ci sia qualcuno in grado di costruire l’associazione fra significante e significato. Il segno non è una cosa, ma una relazione sociale e culturale. Come abbia­ mo già sottolineato, prima che un ipotetico uomo delle caverne scoprisse il legame tra fuoco e fumo («se c’è fumo, c’è fuoco»), tra i due fenomeni non vigeva alcuna relazione segnica. Il che non significa naturalmente che il fuoco non producesse fumo fin da allora, ma semplicemente che nessu­ na mente aveva ancora collegato l’uno all’altro secondo quelle modalità particolari che costituiscono il segno. Da queste considerazioni si capiscono due cose: 1. bisogna distinguere chiaramente tra stati del mondo {referenti) e contenuti comunicativi: gli oggetti reali non significano alcunché almeno fino a quando non sono percepiti come cose autonome da una società, di­ ventando così delle unità culturali che si possono nominare-, 2. il processo di produzione e circolazione del senso (la semiosi) inter­ viene solo nel momento in cui qualcuno (un interprete) istituisce un nesso tra un’unità, che in questo modo diventa espressione (un suono, un feno­ meno atmosferico, un’immagine, ecc.), e un’unità che funge da contenuto. Tra la parola «cavallo» e il concetto di cavallo c’è sempre qualcuno o qual­ cosa (un parlante o il dizionario della lingua italiana, ad esempio) che ri­ conosce il legame che associa i due elementi della funzione segnica. Come si vede, in questa maniera allo schema binario del segno come di un’entità a due facce bisogna aggiungere un terzo elemento, che Peirce ha chiamato interpretante (attenzione: interpretante e interprete non sono la stessa cosa, e fra poco vedremo perché). La relazione segnica dev’esse­ re pensata perciò come triadica e non semplicemente binaria, come l’ab­ biamo trattata nel precedente paragrafo. Secondo il filosofo americano, un segno (o representamen, che corri­ sponde grosso modo a ciò che abbiamo chiamato il significante) è «qual­ cosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità» (1931-58,2.228). Questa definizione vale non solo per i segni elementari che abbiamo considerato finora, ma anche per testi molto più complessi, come un libro o un quadro.

Manuale di semiotica 22 LA SEMIOSI SECONDO PEIRCE

interpretante

segno (o representamen)

Il representamen è qualcosa che sta per qualcos’altro, ovvero per il suo oggetto. La macchia sulla pelle del paziente, all’occhio del medico, sta per il morbillo. Ma per cogliere il rapporto tra macchia e morbillo, occorre che ci sia un interprete competente (per l’appunto il medico) in grado di far­ lo: donde il riferimento al «qualcuno» nella definizione di Peirce. Come fa l’interprete a esprimere l’oggetto (morbillo) di un represen­ tamen (macchia)? Usa proprio la parola «morbillo», alla quale la nostra cultura ha assegnato un contenuto piuttosto ricco e articolato, fatto di sin­ tomi, cause, cure possibili, misure di prevenzione, ecc., che comprende tra le altre cose il riferimento agli esantemi come sintomo della malattia. La parola «morbillo», che lega il sintomo alla causa, è ciò che chiamiamo Vin­ terpretante del segno. Alla stessa stregua, per comprendere l’oggetto significato da un termi­ ne (mettiamo, di cane}, si deve ricorrere a una definizione dizionariale («mammifero domestico dei canidi, intelligente e fedele», ecc.), o a una descrizione linguistica di qualche tipo («animale quadrupede che ab­ baia»), o ancora a una traduzione in un’altra lingua (dog, chien, perro, Hund}, a un’immagine o a un’ostensione (il dito teso a indicare). In ogni caso, l’unico modo che abbiamo per conoscere l’oggetto di un segno pas­ sa per la formulazione di un altro segno che lo interpreti. Questo secondo segno è, per l’appunto, l’interpretante. Si osservi che l’interpretante non deve necessariamente assumere una forma verbale: per spiegare a qualcu­ no che cosa significa cane posso schizzargli un disegnino di un cane, pos­ so puntare il dito verso un cane che passa per la strada, posso mettermi a quattro zampe e latrare, posso mostrargli la fotografia del mio cane Fido, oppure posso riferirmi a qualche caso che suppongo conosciuto («Hai presente Argo? E Rintintin?»). Anche un’immagine mentale, quella che si forma nella mente dell’interprete, può essere considerata secondo Peirce un interpretante. Dunque, l’interpretante è una qualunque altra rappre­ sentazione riferita allo stesso oggetto. Bisogna sottolineare ancora la differenza tra interpretante e interpre­ te: mentre l’interprete è colui che coglie il legame tra significante e signifi­ cato, l'interpretante è un secondo significante che evidenzia in che senso si può dire che un certo significante veicola un dato significato.

2. Segno 23

Essendo a sua volta un segno, per essere compreso l’interpretante ri­ chiede di essere interpretato da un altro segno, cioè da un altro signifi­ cante: cane (representamen) -> dog (primo interpretante) -> animale do­ mestico (secondo interpretante) -> Rmtintin (terzo interpretante). E così via, in una catena potenzialmente infinita di interpretanti che Peirce chia­ ma semiosi illimitata, per cui ogni segno suggerisce qualcosa al segno suc­ cessivo che lo interpreta e così via. Pensare è necessariamente collegare se­ gni, in una concatenazione illimitata di associazioni di idee in cui siamo coinvolti costantemente, anche se di solito non ce ne rendiamo conto. Na­ turalmente la semiosi è illimitata solo potenzialmente, alla fine ogni segno perde il rilievo necessario a ulteriori interpretazioni. Ma finché un certo segno è attivo e continua a essere interpretato, la catena degli interpretanti resta aperta, senza alcun limite a priori. Il concetto di semiosi illimitata è molto interessante ai fini di un’anali­ si della cultura e delle comunicazioni di massa. Infatti, l’idea che ogni se­ gno venga interpretato da un segno successivo in una progressione po­ tenzialmente infinita, implica che la cultura continuamente traduca segni in altri segni, producendo una serie ininterrotta di interpretazioni che si «incrostano» su interpretazioni precedenti (dell’analisi semiotica dell’in­ terpretazione riparleremo nel cap. 6). Abbiamo tutti presente, per esem­ pio, il fenomeno massmediologico per cui un dato evento televisivo viene spesso ripreso dai quotidiani del giorno dopo (gli articoli giornalistici co­ stituiscono gli interpretanti del primo segno, ovvero della trasmissione te­ levisiva), i quali articoli a loro volta scatenano un dibattito televisivo o ra­ diofonico (secondo interpretante) che l’indomani riceve un ulteriore trat­ tamento sulla stampa, oppure viene mandato in onda da «Blob», dando luogo a una parodia televisiva, a un libro e così via. Lo stesso accade per i quadri famosi, le poesie, le musiche, i proverbi. La cultura è tutta, da un certo punto di vista, pratica della semiosi illimitata. A questo punto rimane da chiarire una parte della definizione che Peir­ ce dà di segno come di «qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità»: avendo identificato il qualcosa {representa­ men), il qualcuno {l’interprete) e l’altro qualcosa {l’oggetto), resta da capi­ re cosa Peirce intenda per «sotto qualche aspetto o capacità». Prendiamo ad esempio il classico omino di fiammiferi {matchstick man) con cui si usa rappresentare, con tratto infantile e minimalista, il concetto di uomo.

Manuale di semiotica 24

Questo representamen sta al posto di un qualche concetto di uomo, che è il suo oggetto. Ma di tutte le qualità che si possono predicare del­ l’unità culturale «uomo» (essere mortale e razionale, che ha occhi, capel­ li, naso, ecc., che piange quando è triste e ride quando è contento, ecc.), se ne seleziona solo qualcuna: dal disegnino si evince soltanto il fatto che l’uomo abbia una testa, un tronco, due braccia e due gambe (mentre vie­ ne trascurato il numero delle dita, per non parlare delle unghie). Ciò si­ gnifica che il representamen sta per l’oggetto non sotto ogni aspetto pos­ sibile, ma solo a partire da una determinata scelta di pertinenza. L’inter­ pretante non è perfettamente equivalente al suo oggetto, ma ne seleziona (e ne sviluppa) alcune proprietà semantiche, trascurandone altre. Questa è una caratteristica generale del senso. Ogni volta che vi è si­ gnificazione o comunicazione vi è pertinenza, cioè scelta preliminare di quel che interessa mettere in rilievo e condividere con gli altri.

Negli scritti di Peirce (Collected Papers - 8 volumi pubblicati a Har­ vard dal 1931 al 1958) si ritrovano varie definizioni di segno e di semio­ si, e talvolta tali definizioni appaiono discordanti tra loro. Ad esempio, nel 1902 Peirce definisce il segno «qualsiasi cosa riferita a una seconda cosa, il suo Oggetto, rispetto a una Qualità, in modo tale da portare una terza cosa, il suo Interpretante, in rapporto con lo stesso oggetto» (CP, 2.92); apparentemente il segno di cui parla Peirce corrisponde, come ab­ biamo già visto, alla pura espressione, la quale verrebbe riferita all’oggetto-contenuto attraverso la mediazione dell’interpretante. Ma altrove (CP, 2.274 - siamo nel 1903) Peirce definisce il segno «un Representa­ men con un Interpretante mentale», individuando dunque in esso l’unità di espressione e contenuto. In effetti è assai difficile assegnare accezioni univoche ai termini coniati da Peirce, dato che egli tendeva a impiegarli in maniera variabile di volta in volta. È per questo motivo che chiunque si accinga a utilizzare i concetti elaborati da Peirce finisce quasi inevita­ bilmente per selezionare, tra tutte le accezioni possibili, quelle che me­ glio si adattano all’impianto teorico in cui tali concetti vengono inseriti. Per venire a capo di alcuni dei problemi in cui si incorre quando si cerca di interpretare la definizione triadica di segno/semiosi proposta da Peirce è molto utile riallacciarsi alla distinzione, avanzata da Peirce stes­ so (1904), tra oggetto dinamico, «realmente efficiente ma non immedia­ tamente presente», e oggetto immediato, che è l’oggetto «così come il se­ gno lo rappresenta»; l’oggetto immediato è quindi l’effetto nel segno e at­ traverso il segno dell’oggetto dinamico (di per sé inconoscibile, trattan­ dosi del dato bruto dell’esperienza). Analogamente, l’interpretante viene suddiviso da Peirce in: 1. interpretante immediato: l’interpretante come il segno lo rappre-

2. Segno 25

senta, colto attraverso una corretta comprensione del segno; è l’effetto previsto del segno sulla mente dell’interprete; 2. interpretante dinamico: l’effetto realmente prodotto sulla mente dell’interprete, il quale si risolve nello 3. interpretante logico-finale: un’ipotesi interpretativa ben fondata che segna un provvisorio punto di non ritorno per la riflessione intellettuale, un abito interpretativo che blocca temporaneamente il processo poten­ zialmente infinito della semiosi illimitata (o fuga degli interpretanti). Per approfondire questi concetti, vedi Peirce 1980, Eco 1975, Proni 1990.

2.3. Segni iconici Sulla base del funzionamento della relazione segnica si stabilisce la più tradizionale, la più diffusa e la più utile (anche se assai discussa nella sto­ ria della semiotica) classificazione dei segni. È una divisione triadica, che distingue i segni a seconda che abbiano il representamen simile al loro og­ getto (segni iconici) in una qualche connessione fisica col loro oggetto (se­ gni indicali) o ancora che non abbiano un rapporto determinato, ma solo una relazione arbitraria con l’oggetto (segni simbolici). Cominciamo dai primi. Se la relazione fra segno e oggetto è caratte­ rizzata da una somiglianza oggettiva, o piuttosto riconosciuta come tale nel gruppo sociale che usa il segno, abbiamo una relazione iconica. Un segno iconico deve la sua capacità di significare al fatto che l’espressio­ ne è sotto un certo aspetto simile al proprio contenuto. Le illustrazioni, i ritratti, le caricature, gli schemi di un apparecchio elettrico, le carte geo­ grafiche, e perfino i suoni onomatopeici e le metafore condividono que­ sta caratteristica. Che cosa significa affermare che un segno è simile al proprio oggetto? In termini geometrici, la similitudine si può definire approssimativa­ mente come la proprietà di due figure che sono uguali in tutto salvo che nella dimensione. Tuttavia, decidere di trascurare la dimensione non è af­ fatto una scelta naturale: se si chiedesse a un bambino piccolo di dire se un modellino della Torre di Pisa è simile alla torre stessa, probabilmente ri­ sponderebbe di no. Ciò significa che anche questa definizione elementare di similitudine riposa su una convenzione (quella di trascurare il rapporto dimensionale del segno rispetto a quello dell’oggetto rappresentato). Le cose si complicano ulteriormente quando si cominciano ad analiz­ zare definizioni più articolate del concetto di similarità. Pensiamo ai ri­ tratti: si dà per scontato di solito che l’immagine debba assomigliare al per-

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sonaggio ritratto. Tuttavia, mentre il soggetto è tridimensionale e si muo­ ve, il ritratto è bidimensionale e sta fermo. Quindi, ammettendo pure che il ritratto riproduca fedelmente i tratti somatici del personaggio, questa volta si è deciso di trascurare non solo il formato, ma anche la profondità e il movimento. E la caricatura? Qui i tratti dell’individuo caricaturizzato sono accen­ tuati in maniera irrealistica. Il caricaturista seleziona alcuni tratti perti­ nenti del volto dell’individuo (i baffi di D’Alema, il sorriso di Berlusconi, le labbra della Panetti, ecc.) e li distorce, magnificandoli. Eppure noi ri­ conosciamo il personaggio al quale il caricaturista sta alludendo in base a un giudizio di somiglianza del disegno rispetto alla persona. Chiediamoci però in che misura questa nostra capacità di riconoscere l’oggetto della rappresentazione iconica riposi su convenzioni: se non conoscessimo già lo stile di Giannelli o di Forattini, se certe caratteristiche fisiche dei per­ sonaggi (per esempio i baffi di D’Alema) non fossero già state scelte ed en­ fatizzate mille volte, saremmo forse in grado di riconoscere subito una ca­ ricatura di Gianfranco Fini o di Pierferdinando Casini? Anche in questo caso, dunque, possiamo osservare come riconicità del segno visivo si ac­ compagni a un certo margine di convenzione. A maggior ragione dobbiamo ammettere che i grafici, le tabelle, le onomatopee e le metafore - tutti se­ gni che si usa considerare come iconici - richiedono un certo grado di ad­ destramento e di conoscenza preliminare, da parte dell’interprete, per es­ sere riconosciuti come simili ai propri oggetti. La similarità assoluta non esiste, se non nel caso limite dei doppi e del­ le repliche (che sono esempi specifici di un tipo generale, come le copie di uno stesso giornale). In tutti gli altri casi, il segno iconico è accompagna­ to e condizionato da convenzioni che ci consentono di identificare l’og­ getto rappresentato. E per questo motivo che a rigore non si può dire che esistano segni davvero iconici come tali, ma vi sono solo segni complessi in cui l’aspetto iconico è predominante: ci si riferisce a questi segni in ma­ niera più precisa con il termine di ipoicone (Eco 1975, pp. 256-284). Di fatto, la somiglianza è relativa alla società in cui è usata (come nelle parole onomatopeiche, tipo «chicchirichì», che sono diverse nelle varie lingue), spesso soggetta a qualche forma di codificazione (come nei colori delle carte geografiche), più o meno approfondita, dalla copia perfetta del­ la statua di cera al puro ordine logico di un diagramma di flusso. Pure ci è facile distinguere, nel flusso della comunicazione, le forme di significazione soggette al regime iconico. Esse sono organizzate e motiva­ te sulla base di un principio analogico riconosciuto. In un certo senso la re­ lazione segnica fondata sull’iconismo ci appare trasparente alla comunica­ zione. Essa sembra naturale, pare darci accesso diretto alla cosa significa­ ta. Questo effetto di realtà è particolarmente intenso per i testi multime-

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diali come la televisione e il cinema, ma funziona già ai livelli più elemen­ tari nei segni iconici semplici, come dimostrano le storie antiche sulla com­ petizione fra i pittori sulla capacità di ingannare dei loro quadri. Oggi tutta la tecnica ci parla dell’artificialità dell’iconismo. Un’imma­ gine riprodotta sul computer, o una musica registrata in un CD, ci sem­ brano iconiche, nel senso che sono prodotte per generare nei nostri occhi o sul nostro orecchio un effetto analogico che ci appaia il più possibile si­ mile a quello originale. Ma il processo di produzione e riproduzione di queste immagini visive o sonore è in realtà digitale, vale a dire che il com­ puter e il disco del CD immagazzinano, trasmettono ed elaborano nume­ ri, non elementi analogici di immagine. Mentre la distinzione fra analogi­ co e digitale riguarda dunque modi di produzione della comunicazione (la prima fondata su una somiglianza fisica, la seconda sul calcolo numerico), quella fra segni iconici e segni simbolici (di cui parleremo nei prossimi pa­ ragrafi) ha a che fare con gli effetti prodotti dai segni sulla nostra consa­ pevolezza. Oltre all’uso delle immagini, anche la riflessione su di esse ha una sto­ ria molto lunga nella nostra cultura (si pensi solo al concetto greco di «mi­ mesi» per esempio nella Repubblica e nel Cratilo di Platone e nella Poeti­ ca di Aristotele). Per una discussione su questo punto, vedi Maldonado 1992. Testi interessanti sul funzionamento delle immagini sono Pierantoni 1981, 1986 e Anceschi 1992. Per altre valutazioni dello stesso proble­ ma, più moderne e «politiche», si veda Debray 1992 e Wunemburger 1997. La tripartizione dei segni è una delle molteplici classificazioni pro­ poste da Peirce 1931-58, ma la versione che si usa oggi è piuttosto frutto dell’elaborazione di Morris 1946. Sull’iconismo vi è stata una discussione intensa in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta, che ha coinvolto fra gli al­ tri Eco 1968, 1971a, Maldonado 1974, Volli 1972. Eco 1975 propone, al posto della tripartizione tradizionale dei segni, una più complessa e arti­ colata «tipologia dei modi di produzione segnica».

2.4. Segni indicali Un secondo tipo motivato di relazione segnica è quello indicale. Qui il processo segnico non si basa su una somiglianza più o meno precisa fra se­ gno e oggetto, ma su una contiguità fisica, ovvero una traccia o un calco. In altre parole, l’indice è un segno fisicamente o causalmente connesso al proprio oggetto, e riceve senso dal rapporto fisico con tale oggetto. Ne so­ no esempi la firma (in quanto traccia della presenza fisica del firmatario),

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l’impronta digitale e la maschera mortuaria (che rinviano ai loro impres­ sori), il dito puntato che indica una direzione, i pronomi come «io» e «tu» (che rimandano ai soggetti dell’interazione), la bandierina che segna la di­ rezione del vento (per cui la direzione della bandierina è determinata da - e perciò sta per - la direzione del vento) e perfino la fotografia, che de­ ve la sua «verità» al fatto che la pellicola è stata impressionata dai raggi di luce provenienti dall’oggetto: pertanto, la presenza attuale della fotogra­ fia ci informa del fatto che, in un certo momento, l’oggetto fotografato si sia trovato di fronte all’obiettivo della macchina fotografica. Come le ipoicone, anche i segni indicali richiedono un certo addestra­ mento per essere riconosciuti come tali. Un dito puntato sta per il suo og­ getto in virtù di un legame invisibile che si istituisce tra significante (il di­ to) e significato (l’oggetto): la direzione del dito e la forza dinamica con cui si esegue il gesto di puntare sono determinate dalla direzione e dalla distanza dell’oggetto a cui ci si vuole riferire. Tuttavia, per cogliere il nes­ so fisico-causale tra indice e oggetto occorre avere introiettato la regola (convenzionale) secondo cui un dito puntato va inteso, per l’appunto, co­ me indice e non come un gesto di sfida o di maledizione, come invece ac­ cade in alcune culture. Le parole che hanno valore indicale, come «io», «tu», «oggi», «qui», ecc. hanno una forma che naturalmente dipende dal­ la lingua in cui sono espresse e pertanto sono in parte convenzionali. Più che di segno indicale come tale sarebbe dunque opportuno parlare di «di­ mensione indicale predominante» in un certo segno. A riprova del carattere non completamente motivato dei segni indica­ li c’è il fatto che, come ogni altro segno, anche l’indice può essere usato per mentire. Si può puntare un dito verso il vuoto per trarre in inganno il proprio destinatario, facendogli girare la testa in direzione di un oggetto che non c’è. Si può falsificare una firma. Alla stessa stregua, una fotogra­ fia può essere impiegata per suggerire l’esistenza di oggetti che non sussi­ stono nel mondo dell’esperienza reale. I fotomontaggi e certe fotografie pubblicitarie funzionano esattamente in questa maniera. In effetti, è sem­ pre possibile che qualcuno sia intervenuto direttamente sulla pellicola (tramite montaggi, cancellature e trucchi ottici vari), o che l’immagine sia stata contestualizzata in maniera errata: ad esempio, pare che la celebre immagine del cormorano imbrattato di petrolio, diffusa dai media duran­ te la Guerra del Golfo e assurta a simbolo della catastrofe ambientale, sia stata in realtà tratta da un filmato d’archivio. Ma la cosa interessante è che, nonostante non vi sia alcuna garanzia a priori che l’indice dica la verità, siamo solitamente portati ad assegnare alla fotografia (così come agli in­ dici in generale) un potere di credibilità che non concediamo altrettanto facilmente ad altri segni. Di conseguenza, gli indici possono essere sfrut-

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tati retoricamente per conferire ai testi un effetto di realtà (o illusione re­ ferenziale). Il rapporto segnico indicale è molto importante all’interno di testi complessi, come quelli narrativi, televisivi o pubblicitari, dove assume le forme dell’enunciazione, e serve a richiamare in qualche modo i ruoli del­ l’emittente e del destinatario e in genere le circostanze della comunicazio­ ne dentro il messaggio. Il prototipo di questo tipo di testo si trova nel fa­ moso manifesto propagandistico con cui, durante la prima guerra mon­ diale, Uncle Sam invitava i cittadini americani ad arruolarsi: la forza per­ suasiva del messaggio era accentuata dal fatto che il dito puntato verso il destinatario (indice gestuale) si accompagnasse alla didascalia «/ Want You» (indici verbali).

Uno studio sulle falsificazioni fotografiche è Jaubert 1993. Per una trattazione più completa sull’argomento, vedi § 10.1.

2.5. Segni simbolici e codici Il tipo di relazione segnica più importante e caratteristico è quello che di solito è detto simbolico (ma si tratta di una terminologia un po’ infeli­ ce, perché nella tradizione letteraria e religiosa per simbolo si intende qualcosa di molto diverso, cioè un segno fortemente motivato e ricco di implicazioni emotive e narrative). Nella terminologia della tradizione peirceiana che abbiamo adottato, una relazione segnica è invece detta simbo­ lica quando, in sua assenza, non vi sarebbe legame alcuno fra significante e significato. In altri termini un simbolo (sempre nella terminologia di Peirce) non ha altra motivazione che non sia storica o convenzionale: è, in­ somma, opaco o arbitrario. La maggior parte dei segni definiti dal codice della strada, di quelli in uso nella navigazione, dei gradi militari, della ma­ tematica sono arbitrari. Il caso più importante e più studiato di sistema ba­ sato su relazioni segniche arbitrarie è quello dei diversi linguaggi usati dal­ le varie società umane. Proprio il fatto che i tanti linguaggi dell’umanità siano così diversi fra di loro prova l’arbitrarietà su cui sono costruiti. Non c’è nessuna ragione particolare per chiamare una donna «donna» come in italiano, «woman» come in inglese, «ishà» come in ebraico, «mulier» co­ me in latino, «femme» come in francese e così via. Il rapporto fra signifi­ cante e significato si spiega qui solo per ragioni storiche. Così «donna» in italiano deriva dal latino «domina» (che vuol dire signora), il quale è il femminile di una parola indicante potere su un certo luogo, mentre «ishà»

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in ebraico viene da «ish», che significa uomo, per via dell’aggiunta di un suffisso femminile. L’inglese «woman» viene invece dalla fusione di un’an­ tica parola «wif» (da cui «wife», cioè moglie) con «man» che non conte­ neva la marca maschile, ma significava semplicemente «essere umano». E così via in altre lingue. Ci sono altre parole, poche, che hanno una natura iconica (onomatopee) e qualcuna (i richiami come «ehi», gli avverbi di luogo e di tempo co­ me «oggi», qui», i pronomi come «io») può funzionare anche in maniera indicale. Esiste poi nella lingua una dimensione fonosimbolica per cui han­ no forza espressiva i singoli suoni: la «a», per esempio, è il suono fisicamente più ricco di energia nella nostra lingua e questo fatto può talvolta essere sfruttato nella comunicazione, soprattutto in poesia e in pubblicità. Ma è evidente che queste sono determinazioni minori rispetto alla predo­ minanza dell’arbitrarietà. «Arbitrario», detto dei segni linguistici, non vuol dire però «senza cau­ sa», né tantomeno disponibile a un cambiamento puramente individuale. Se qualcuno decidesse, per via dell’arbitrarietà del linguaggio, di sentirsi autorizzato a dire «sì» per «no», «cane» per «gatto» e via dicendo, costui si condannerebbe certamente a un regime comunicativo assai difficile. In realtà proprio l’arbitrarietà del linguaggio ci obbliga a un regime gramma­ ticale molto più stretto, in questo ambito, di quanto sia necessario nel caso di comunicazioni motivate, il cui senso appare «trasparente». Possiamo in­ ventare nuove immagini per rappresentare i cani con molta più facilità di quanto potremmo imporre nuove parole, che per funzionare comunicati­ vamente hanno bisogno del consenso di tutta la comunità linguistica. Il campo della comunicazione arbitraria è infatti quello per eccellenza dei codici, che non sono altro, in linea di principio, che liste di accoppia­ menti socialmente stabiliti fra tipi di significanti e tipi di significati. Come accade, per esempio, nei dizionari, che consistono in liste alfabetiche di parole straniere, con la corrispondente parola italiana (in realtà le cose so­ no più complicate, e ne vedremo presto la ragione) o nel codice dei se­ mafori, come è previsto dalle leggi italiane: IL CODICE DEI SEMAFORI

verde rosso verde e giallo giallo lampeggiante

= «passare» = «arrestarsi» = «liberare l’incrocio» = «attenzione»

Si noti che nella realtà questo codice è arricchito da una notevole ri­ dondanza, perché la capacità di comunicare dei colori è duplicata per con­ venzione da posizioni fisse delle luci, tanto che la tabella qui sopra si po-

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trebbe riformulare sostituendo «verde» con «luce in basso», «rosso» con «luce in alto», ecc. Questo fatto permette anche ai daltonici di compren­ dere il codice semaforico. Inoltre il codice è ridondante perché non tutte le posizioni possibili sono sfruttate: non esiste un significato per «rosso e verde», né per «rosso lampeggiante». In genere, tutti i codici, per riuscire comprensibili, devono usare solo in parte le risorse comunicative disponi­ bili. La lingua, per esempio, non sfrutta affatto tutte le combinazioni di suoni possibili per trasmettere significati diversi. Questa ridondanza dei codici, che si può calcolare esattamente nei termini della teoria matemati­ ca dell’informazione (vedi supra § 1.2), è essenziale per combattere il ru­ more che interferisce sempre con ogni comunicazione: gli altri segnali con­ comitanti e i fenomeni fisici che interferiscono col segnale tendono a confondere e a introdurre errori in ogni messaggio trasmesso. Se il signi­ ficato è codificato con ridondanza, l’abbondanza di elementi concomi­ tanti nel significante ne conserva il senso anche in presenza di rumore. Proprio per la separazione fra significante e significato imposta dal­ l’arbitrarietà, i rapporti segnici simbolici sono particolarmente utili. Essi infatti conservano un certo gioco fra significante e significato, il che con­ sente una comunicazione molto più sofisticata e complessa. E vero che in genere le ipoicone sono più facili da usare, più comprensibili e intuitive. Ma con esse è assai difficile indicare rapporti logicamente e narrativamente complessi. Per esempio è quasi impossibile indicare, per via esclu­ sivamente iconica, la negazione di una situazione (dunque la proibizione): i cartelli di divieto contengono, nella nostra regolamentazione stradale, una parte iconica (la rappresentazione di due macchine che si sorpassano, di un camion, ecc.) e una parte simbolica, il cerchio rosso barrato trasver­ salmente, che indica per convenzione il divieto. Altrettanto difficile è indi­ care per via puramente iconica possibilità e impossibilità, congiunzione e disgiunzione, presente e passato, realtà e fantasia. Sul potere comunicativo della lingua e in particolare sui suoi aspetti simbolici vi è una ricchissima letteratura; si vedano per esempio Hagège 1985 e Lyons 1968.

2.6. Arbitrarietà L’arbitrarietà è dunque una risorsa importante della comunicazione, non una semplice caratteristica del linguaggio verbale e di quelli che gli sono simili. Studiando più da vicino il suo funzionamento, è facile capire che vi sono due diversi aspetti dell’arbitrarietà.

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In primo luogo, in ogni segno arbitrario, significante e significato sono legati solo in maniera storica e contingente (chiameremo questo rapporto non motivato fra i singoli significanti e significati arbitrarietà verticale). Vi sono conseguenze importanti di questo fatto sul modo in cui sono costi­ tuiti i possibili segni. Prendiamo per esempio il codice dei semafori, che abbiamo appena esposto. Non vi è nessuna connessione particolare fra co­ lori e significati. Certo, rosso e verde non sono scelti a caso, sono colori complementari e quindi si vedono meglio in contrasto. Possiamo aggiun­ gere che nella nostra cultura il rosso accenna in genere al pericolo (il fuo­ co, la bandiera rossa dei ferrovieri e quella dei politici, il sangue, ecc.) mentre il verde ha un valore tranquillizzante (il verde della campagna, quello del camice dei chirurghi, l’associazione tradizionale con la speran­ za e così via). Ma non ci sarebbe nessuna difficoltà a immaginare un siste­ ma semaforico in cui i colori fossero invertiti, o sostituiti, poniamo, dal­ l’azzurro e dall’arancione. Anche con tali cambiamenti di significante, il sistema resterebbe lo stesso, perché la sua organizzazione e la sua funzio­ ne sarebbero identici. Il comportamento degli automobilisti, insomma, non cambierebbe. Questo esempio ci mostra come, in definitiva, i significanti di un siste­ ma di segni arbitrari non siano portatori di senso in sé, ma solo per la loro capacità di differenziarsi, di opporsi l’un l’altro. Non importa che il segnale per «via!» sia verde o rosso o blu. Quel che conta è che esso sia diverso dal segnale per «stop». Lo stesso vale naturalmente per la lingua. Non impor­ ta che le contorte vicende della storia abbiano fatto sì che noi chiamiamo (a partire dalla stessa radice latina) «cosa» un oggetto e «causa» un motivo o una ragione. Potremmo benissimo usare la convenzione inversa e dire «portami quella causa rotonda» e «le cose della prima guerra mondiale fu­ rono economiche e politiche insieme». Quel che conta è che sia mantenu­ ta la differenza. E così per le differenze di suono: non importa effettiva­ mente come sono pronunciate da qualcuno o da qualche variante regiona­ le la «t» e la «d»: quel che conta, perché la lingua possa continuare a fun­ zionare, è che non vi sia confusione fra «tenti» e «denti» o fra «torto» e «tordo». E così per tutti gli altri suoni significativi (o fonemi della lingua, che in effetti vengono pronunciati in modo molto diverso dai parlanti). In un sistema simbolico i significanti servono solamente a differenziarsi reciprocamente. Per poterlo fare con efficacia, la differenza dev’essere si­ stematica, per esempio nelle parole deve procedere per variazioni dentro certi suoni considerati pertinenti dalla lingua, i fonemi. Ma anche questi fonemi dipendono dal sistema linguistico e sono arbitrari. Ogni lingua «ri­ taglia» in maniera peculiare una stessa sostanza sonora, quella dei rumori che possiamo emettere con il nostro sistema articolatorio (bocca, labbra, denti, glottide, palato, corde vocali, ecc.). Ogni lingua sceglie un certo nu-

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mero (di solito fra i venti e i trenta, di questi tipi di suoni che si oppongo­ no fra loro). E non c’è nessuna ragione per cui l’inglese abbia «scelto» un certo sistema e l’italiano un altro - a parte le solite contingenze storiche. Questa seconda arbitrarietà orizzontale, che riguarda la costituzione dei singoli significanti e i rapporti che essi intrattengono con i loro possi­ bili «concorrenti», non vale solo per i significanti, ma anche per i signifi­ cati. Il mondo non nasce «etichettato». I significati che vengono accettati da una certa società variano nel tempo. Due secoli fa non c’erano parole per dire «elettricità», «calcolatore», «automobile», perché gli oggetti stes­ si non erano stati inventati. Parole come «libertà» e «eguaglianza» esiste­ vano, ma, prima della Rivoluzione francese, avevano certo un significato sensibilmente diverso. Anche il significato di «amore» è molto cambiato nel corso dei secoli, fra il desiderio fisico dei greci, l’amore angelicato di Dante e quello passionale dei romantici. Inoltre ci sono lingue che classificano in maniera diversa dei fenomeni universali della percezione umana come i colori e i sapori: certe lingue hanno griglie più complesse, altre più semplici. Così gli animali, gli ogget­ ti naturali, gli aspetti del cielo, i sentimenti. Il modo in cui questi campi di interesse comunicativo sono organizzati dipende dalla singola società, e quindi, di nuovo, dalla sua storia. Naturalmente tutte le sfumature di co­ lore sono percepite alla stessa maniera da occhi fatti alla stessa maniera, anche se, per esempio, non vi è in una certa cultura l’«unità culturale» cor­ rispondente a una certa sfumatura di azzurro; e le lingue sono attrezzate per esprimere in qualche modo (per via di perifrasi, usando calchi, me­ tafore e altri espedienti) anche i contenuti per cui «mancano le parole» e che per caso si trovino a dover esprimere. In italiano, parole come «rosa» o «marrone» (che vengono da certe piante per analogia), «tifone» o «com­ puter» (prestiti da lingue straniere), «pomodoro» o «grattacielo» testimo­ niano di questo processo di adattamento, che è continuo e pervasivo. Ma se si bada al linguaggio (e ancora di più ad altri codici, come quel­ lo dei semafori), dobbiamo ammettere che vi è comunque un’arbitrarietà orizzontale anche nel campo dei significati. Ogni significato, come ogni si­ gnificante di un codice arbitrario, si può pensare come una sorta di getto­ ne il cui valore consiste nelle relazioni di opposizione che lo distinguono dagli altri significati che gli sono in un certo senso vicini. L’alba è il mo­ mento che non è più la notte e non ancora il giorno; l’affetto è un senti­ mento che non è così passionale come l’amore ma neppure così imperso­ nale come la simpatia, ecc. Vi è chi, come i linguisti Sapir e Whorf, ha so­ stenuto che questa diversa organizzazione dei significati nelle varie lingue implica diversi modi di pensare. La questione è controversa, ma certo la semiotica deve ritenere che anche il sistema degli oggetti che si possono comunicare, come quello dei significanti che lo esprimono, sia arbitrario.

Manuale di semiotica 34

Il tema dell’arbitrarietà del linguaggio, introdotto nel dibattito filoso­ fico fin dal Cratilo di Platone, è stato sottolineato nell’opera di Saussure 1916. Su questo problema è utile una lettura di Martinet 1962. La tradi­ zione del relativismo linguistico ha un precursore importante in Hum­ boldt (vedi l’antologia Humboldt 1989) ed è stata sostenuta da Sapir 1921 e Whorf 1956. Il punto di vista antirelativista (che non nega l’arbi­ trarietà del linguaggio, ma la considera solo superficiale e secondaria ri­ spetto alle sue uniformità universali) nella cultura contemporanea è so­ stenuto dal cognitivismo e in particolare da Chomsky. Vedi Pinker 1994, Chomsky 1975, 1988. Per una discussione contemporanea su questi te­ mi, vedi Job e Rumiati 1984 e Gambarara, a cura di, 1996.

2.7. Connotazione Torniamo al rapporto fra significante e significato. Ci sono dei casi in cui esso appare semplice, diretto, ben delimitato. Si usa parlare allora di denotazione di un segno. Altre volte il significante è usato per richiamare dei significati più ampi e vaghi. Questo alone semantico viene tradizional­ mente definito connotazione. Per esempio la fotografia di un paesaggio può indicare denotativamente (e indicalmente) un certo luogo determina­ to, ma può anche richiamare, in maniera connotativa (e iconica), la natu­ ra, la bellezza, le vacanze. Un ramo d’ulivo o una colomba connotano la pace, una bandiera rossa connota il socialismo. Possiamo sintetizzare questa opposizione in un semplice schema. La denotazione sarebbe una sorta di «nocciolo duro» del senso cui si ag­ giungerebbe un’area confusa e sfumata della connotazione.

Si tratta di un punto di vista ragionevole, che corrisponde alla forma del dizionario, ma decisamente troppo vago per la semiotica, che ha avan­ zato un’ipotesi alternativa. Secondo l’analisi semiotica, la connotazione andrebbe considerata come un effetto di una certa configurazione della re­ lazione segnica. Esso avverrebbe quando un certo segno normale, cioè de­ notativo (indicato nello schema seguente col numero 1, alla riga in basso) diventerebbe - nella sua totalità di significante e significato - il significante di un nuovo segno connotativo (numero 2).

2. Segno 35

2. segno connotativo 1. segno denotativo

significato

significante significante

significato

Per esempio, l’intero segno che ha per significante un certo numero di linee e per significato una colomba diventa (grazie alla sua collocazione sintagmatica nella storia biblica di Noè) segno della pace; in un’ambientazione pubblicitaria, il segno che identifica una nonna in certi tratti di una persona (l’età, i capelli bianchi, il tono di voce, il vestire un po’ antiquato) diventa significante di un significato secondo, la saggezza, l’esperienza, i buoni consigli che possono raccomandare un certo prodotto. E così via. È evidente, già in esempi così semplici, il peso ideologico della connotazio­ ne e la sua importanza per ogni discorso persuasivo. Non c’è pubblicità, di­ scorso politico, propaganda, in cui il peso della connotazione non sia es­ senziale. Spesso accade che, a partire dal modello indicato, si sviluppino intere catene connotative, che portano a forti valorizzazioni indirette del­ la comunicazione.

La nozione di connotazione è presente nella tradizione filosofica fin dalla Scolastica. Nel discorso semiotico è stata introdotta, in maniera piuttosto tecnica, da Hjelmslev 1943, 1963, che distingueva fra «semio­ tiche denotative» (grosso modo i linguaggi normali) e «semiotiche con­ notative», il cui piano dell’espressione è costituito da una semiotica de­ notativa. L’analisi della connotazione esposta in questo paragrafo si de­ ve a Roland Barthes 1964b che ha rielaborato in senso operativo le pro­ poste di Hjelmslev, spostandole dal livello della lingua a quello del sin­ golo segno.

2.8. Metasegni Accade anche spesso che un intero segno diventi non più il significan­ te, ma il significato di un secondo segno, invertendo in un certo senso lo schema della connotazione.

2. metasegno 1. segno denotativo

| significante

significato significante

significato

Manuale di semiotica 36

In questo caso si dice che il segno denotativo originario diventa ogget­ to di un metasegno che lo rappresenta. Un tipico metasegno è quello che indica che codice si stia impiegando nella comunicazione: per esempio, se una certa frase vada presa sul serio o sia uno scherzo, se un discorso con­ tenga o meno dei valori passionali impliciti, se un libro appartenga a un certo genere letterario piuttosto che a un altro e così via. Il metasegno, in­ somma, si vale di certe caratteristiche del significante del segno per tra­ smettere delle istruzioni per l’uso del segno stesso. Si tratta di una funzio­ ne importantissima e assolutamente generale in ogni comunicazione, che è quasi sempre necessaria per il suo buon andamento. Gli psicologi della comunicazione distinguono, in ogni scambio co­ municativo, un aspetto dichiarativo e uno relazionale. Di solito l’aspetto dichiarativo, che veicola i contenuti della comunicazione, è realizzato da segni arbitrari come quelli linguistici. L’aspetto relazionale, invece, serve ad aggiustare i rapporti fra gli interlocutori e a fornire indicazioni sul mo­ do di proseguire la conversazione; esso di solito è veicolato da tratti indi­ cali o iconici, come il linguaggio del corpo, il tono della voce, la calligra­ fia o i caratteri tipografici, il commento musicale e così via. Dal punto di vista semiotico possiamo dire che sono in gioco qui soprattutto le caratte­ ristiche del significante. Si tratta insomma di metasegni, in cui viene valo­ rizzata la funzione metalinguistica di cui abbiamo parlato nel § 1.4. Il tono di voce di un dialogo può trasformare lo stesso contenuto in una richiesta di informazioni o in un insulto, la forma epistolare può modificare la stes­ sa lettera in una dichiarazione d’amore o in una cortesia solo formale, lo stile del racconto di un fatto può decidere se si tratta di un testo giornali­ stico o di una pubblicità. Anche i metasegni, dunque, sono importantissimi luoghi di manipola­ zione ideologica, tanto più influenti quanto meno avvertiti ed espliciti. Fra i metasegni hanno particolare importanza i paratesti, cioè tutti que­ gli apparati come titoli, indici, cornici, sigle, numeri di pagine, «testatine» (cioè titoletti delle pagine dei libri), titoli di testa e di coda, annunci delle presentatrici televisive, testate di giornale, ecc., che servono a delimitare i messaggi e a fornire istruzioni sulla loro natura (ne riparleremo al § 3.6).

Anche la nozione di metalinguaggio si deve a Barthes 1964b. La di­ stinzione fra comunicazione relazionale e contenutistica è di Watzlawick, Beavin, Jackson 1967. Il concetto di paratesto è stato proposto da Ge­ nette 1972.

3. Strutture

3.1. Asse sintagmatico e paradigmatico Le considerazioni svolte sull’arbitrarietà ci portano a comprendere co­ me il funzionamento significativo di ogni elemento della comunicazione non dipenda semplicemente dal modo in cui è costituito, ma dal suo rap­ porto con gli altri elementi che gli sono vicini: una relazione che ha una natura negativa, che cioè è sempre Una forma di opposizione. Il concetto di «vicinanza» in questo caso è puramente metaforico e merita di essere approfondito meglio. Vi sono tre rapporti che ogni elemento della comunicazione intrattie­ ne necessariamente. Il primo l’abbiamo già discusso, è quello che lega un significante col suo significato, o un messaggio col suo «contesto» (nel sen­ so precisato sopra). E un rapporto «verticale» che spesso è retto da rela­ zioni di tipo arbitrario. Vi sono poi due relazioni «orizzontali» che vigono sullo stesso piano. In primo luogo un elemento è legato a tutti gli altri elementi cui è con­ giunto, insieme ai quali, cioè, si presenta. Nella vita reale non usiamo mai parole (né tanto meno segni linguistici minimi, i cosiddetti lessemi o monemi) isolati, ma solo sequenze complesse di cui essi sono componenti identificati analiticamente, le frasi. Un segno visivo è normalmente ac­ compagnato da altri segni, un elemento di abbigliamento (per esempio una giacca) si usa solo accanto ad altri elementi complementari (per esem­ pio una camicia o dei pantaloni), una trasmissione televisiva è inserita in

Manuale di semiotica 38

un palinsesto (lo schema delle trasmissioni previste durante la giornata o la settimana), un articolo in una pagina di giornale. E così via. Insomma, il primo modo in cui un elemento comunicativo è «vicino» ad altri segni è la contiguità spaziotemporale vera e propria, cioè il fatto che vi è l’ele­ mento dato e poi anche un altro, e poi anche un altro ancora, e così via. La relazione che si instaura in questo caso è detta sintagmatica (per analogia con la sintassi della frase linguistica, lo «stare assieme» dei suoi diversi ele­ menti) e la serie di tutti gli elementi congiunti in questo modo (per esem­ pio la frase o il testo più vasto in cui questa è compresa, l’abbigliamento completo, il palinsesto, ecc.) è definita asse del processo. Bisogna conside­ rare che ogni singolo processo concreto, per esempio ogni singola frase, o serata televisiva, o pagina di giornale, non viene inventato liberamente da chi lo realizza, ma risponde a certi modelli generali, che sono a dispo­ sizione di chi produce la comunicazione e di chi la riceve e ne costitui­ scono la norma, necessaria (salvo un certo grado di approssimazione) per­ ché la comunicazione funzioni. Per esempio in una frase italiana, io mi aspetto un soggetto, di solito poi un verbo concordato per numero e per­ sona con quel soggetto e un predicato; nell’abbigliamento di una perso­ na, mi aspetto che un completo di giacca e cravatta sia organizzato in un certo modo (che ci sia per esempio una camicia, e non una maglietta, del­ le scarpe e non degli zoccoli). Posso dire che nell’asse del processo i vari elementi si oppongono fra loro per categorie e insieme si pongono a vicen­ da dei vincoli. C’è però un’altra relazione di «vicinanza» fra elementi comunicativi dello stesso piano, più astratta, ma altrettanto essenziale: quella che lega ogni elemento ad altri elementi che potrebbero stare al suo posto, e che dunque gli sono in un certo senso simili. Sopra la camicia, al posto di una certa giacca, potrebbero essere indossate altre giacche di altri colori o tes­ suti, oppure un giubbetto o un golf; ma non invece una seconda camicia, oppure una maglietta. Come soggetto di una frase, al posto di un qualun­ que nome proprio in italiano, si può usare un altro nome proprio, oppu­ re un nome comune preceduto da un articolo, o un pronome; ma non un verbo o un avverbio. Al posto di un film in prima serata si può mettere un quiz, un varietà, uno sceneggiato; non un telegiornale o una trasmissione per bambini. Queste regole positive e negative non sono stabilite certo perché sarebbe fisicamente impossibile comportarsi nei modi proibiti, ma perché lo impedisce il sistema delle aspettative (il codice) che rende leg­ gibile una serata televisiva, una frase italiana, il nostro modo di vestire. La nostra cultura, certamente storica e arbitraria, è ricchissima di tali proibi­ zioni, come ne hanno di diverse (ma altrettanto storiche, contingenti, in­ somma arbitrarie) tutte le altre culture. Perché ci sia senso occorre che vi siano combinazioni permesse e altre proibite, cioè che non tutte le possi-

3. Strutture 39

bilità di combinare gli elementi di un certo campo siano equivalenti. L’ar­ te della cucina, il sapere letterario, la competenza giornalistica o televisi­ va, la composizione musicale presuppongono proprio dei sistemi di aspet­ tative e di esclusioni, magari solo per contraddirle. Infatti sono sempre possibili eccezioni, errori, giochi, evoluzioni del sistema. Ma anche in questo caso, perfino chi vuol comunicare dentro una cul­ tura in maniera innovativa o sperimentale deve comunque avere a dispo­ sizione una competenza sui possibili legami di interscambio fra elementi della comunicazione, su questo secondo asse che si usa chiamare del si­ stema (o paradigmatico). Qui gli elementi sono congiunti da un rapporto di sostituzione, che si può sintetizzare in questa maniera: in un certo luogo della catena sintag­ matica si può mettere un certo elemento oppure un altro, oppure un altro ancora. E così via. Gli elementi dell’asse paradigmatico sono dunque con­ siderati dalla loro cultura opposti sì (non è la stessa cosa mettersi la giacca o un giubbetto, mangiare un hamburger o brasato al barolo) ma simili. Lo schema dei due assi è dunque il seguente: Processo/Sistema (sis...) proc. (sis...) (sis...) proc. (sis...) (sis...) proc. (sis...) ... sis. sis. sis. sis Elemento sis. sis. sis... (sis...) proc. (sis...) (sis...) proc. (sis...) (sis...) proc. (sis...) (sis...) proc. (sis...)

L’opposizione processo/sistema è molto generale, si può ricostruire in tutte le forme di struttura: non solo nella lingua e nei sistemi di comuni­ cazione espliciti, ma per esempio anche nei sistemi di parentela, nei gio­ chi, nel campo delle figure retoriche, dato che vi corrisponde la fonda­ mentale opposizione fra metonimia e metafora. La prima figura sostitui­ sce infatti un elemento linguistico con un altro contiguo sull’asse del pro­ cesso («le prue» per «le navi»), la seconda un elemento con un altro «si­ mile» secondo il sistema («occhi luminosi» con «stelle»). Anche certi tipi di difetti linguistici o afasie corrispondono ai due assi, come ha mostrato Roman Jakobson 1957. E importante tener presente che non vi è simmetria fra i due assi. Quel­ lo del sistema è organizzato per somiglianze più o meno prossime, e dun-

Manuale di semiotica 40

que implica un percorso di ramificazione (per esempio, un primo piatto di pasta può essere sostituito nella cultura alimentare italiana contempora­ nea da una minestra asciutta o in brodo; la prima può essere una polenta, un risotto o altro; questo può essere alla milanese, coi piselli, ecc.; la mi­ nestra può essere in brodo, oppure minestrone, ecc.). Più o meno, così: IL SISTEMA DEI PRIMI PIATTI

r- asciutto

Primo piatto

- minestra

p -

pasta riso polenta altro

E

in bianco altro risotto

-

alla milanese ai piselli ai funghi altro

p minestrone - pasta e fagioli - tortellini - in brodo - altro

Invece la struttura dell’asse del processo è fatta a caselle o slot, più o me­ no come è indicato nello schema seguente. Le parentesi angolari indicano un elemento facoltativo, la barra obliqua una scelta. La «scatola» di sinistra implica la successione dei «piatti», quella di destra la compresenza di ele­ menti di accompagnamento che restano sulla tavola per tutto il pasto. MENU DI UN PASTO ALL’ITALIANA

primo piatto

secondo

pane

acqua

«formaggio





Secondo il punto di vista strutturalista che qui stiamo seguendo, in questi schemi gli spazi (le caselle, le biforcazioni) sono molto più impor­ tanti di ciò che essi concretamente si trovano a contenere. Questi spazi, ancora più dei contenuti che li possono riempire, determinano le scelte di

_____________________________________________________ __________ 3. Strutture 41

una cultura e i contenuti possibili della comunicazione che vi si può rea­ lizzare. La struttura di un pasto francese, o americano o cinese, o di cent’anni fa, o in pizzeria invece che al ristorante o a casa, è assai diversa da quella che abbiamo esemplificato, anche se i contenuti possono essere simili. Se si esamina l’abbigliamento maschile, l’arredamento di una cuci­ na, il palinsesto di una serata televisiva, il contenuto di un quotidiano, il sistema della parentela, ecc. il risultato è analogo. Gli assi del processo e del sistema definiscono e organizzano le risorse culturali e comunicative dispo­ nibili per una certa funzione in una certa società. Sono pertanto soggetti a una forte impronta ideologica. La forma imposta su un certo campo comunicativo dai due assi sin­ tagmatico e paradigmatico (o piuttosto dalle matrici che danno luogo a questi assi in ogni caso concreto, cioè per esempio, lo schema sintagmati­ co dell’abbigliamento maschile occidentale del nostro tempo più i tipi di indumenti con cui lo riempiamo, la suddivisione standard del tempo per una serata televisiva più la tipologia dei programmi in uso, la forma gram­ maticale di una lingua e il suo lessico) si può definire come la struttura di questo campo. Per la grande generalità degli elementi cui si applicano questi concetti (sul piano del contenuto e su quello dell’espressione) abbiamo parlato in questo paragrafo di «elementi comunicativi» e non di segni, testi, messag­ gi. Per questa ragione, se si vuole comprendere il funzionamento comuni­ cativo di un testo o di un messaggio, è importante incominciare stabilen­ do il formato e i contenuti concreti degli assi che lo riguardano. Lo strutturalismo, cioè la proposta di applicare le nozioni di struttu­ ra che abbiamo appena esposto e in particolare il metodo che privilegia le relazioni di opposizioni sui contenuti positivi dei singoli elementi, ha avuto un grandissimo sviluppo soprattutto nel corso degli anni Sessanta e Settanta, investendo discipline diverse come la linguistica e la semioti­ ca, la matematica e l’antropologia (vedi Lévi-Strauss 1947, 1958, 1962). Una presentazione generale può essere trovata in Moravia 1975, una di­ scussione critica in Harland 1993, un’antologia di testi significativi in Sturrock 1979, una presentazione attenta in Boudon 1968. Per qualche analisi semiotica meno sommaria del cibo, vedi AA.W. 1998.

3.2. Espressione e contenuto Nei sistemi simili alla lingua, i due assi paradigmatico e sintagmatico definiscono dei piani, degli spazi coerenti dove hanno relazione fra loro elementi dello stesso genere. Possiamo così pensare a un piano del signifi-

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carile e a un piano del significato (o, come si dice piuttosto a partire dal lin­ guista danese Hjelmslev, del piano dell’espressione e del piano del conte­ nuto). Su uno stesso piano vigono le relazioni sintagmatiche e paradigma­ tiche cioè di continuità e di similarità. Ogni segno però (e più in generale ogni lingua) mette in relazione elementi di due piani distinti, un signifi­ cante e un significato. I due piani di una stessa lingua sono poi ulterior­ mente articolati. Si può pensare che, prima dell’articolazione che avviene a opera della struttura linguistica, e dunque in assenza di ogni forma, non ci fosse che della materia prelinguistica, per esempio che il linguaggio ver­ bale fosse espresso per mezzo dell’articolazione di una voce informe, pu­ ro suono che precede ogni linguaggio, e di una massa di contenuto che corrispondeva all’informe complessità del mondo. Ma di fatto noi possia­ mo conoscere solo espressioni già organizzate dentro un linguaggio (dun­ que limitate dall’organizzazione delle differenze in cui consiste l’asse del sistema) e per di più solo effettivamente manifestate, e dunque messe in un ordine previsto sull’asse del processo. Chiamiamo sostanza questa ma­ teria linguistica che è già in relazione con una forma. In ogni sistema se­ miotico si ritrovano dunque una sostanza dell'espressione (nel linguaggio, per esempio, la voce articolata, in pittura i pigmenti organizzati nella tela, ecc.) e una sostanza del contenuto, che comprende il nostro modo di per­ cepire e di pensare il mondo o una sua frazione. Allo stesso modo, in ogni sistema semiotico si possono distinguere una forma dell’espressione (la fo­ nologia, la morfologia, la sintassi di una lingua) e una forma del contenuto (il modo in cui la materia del mondo è organizzata, dunque per una lin­ gua, il suo schema lessicale, ecc.). Possiamo esprimere questa doppia articolazione del piano del contenuto e dell’espressione in materia, sostanza e forma secondo lo schema seguente: Espressione

Forma ------------------------------------Sostanza

Contenuto

Forma ------------------------------------Sostanza

Dunque, dal punto di vista semiotico, lo schema appena proposto co­ glie l’organizzazione reale di qualunque sistema comunicativo. Noi ci tro­ viamo di fronte solo sostanze e forme, che la cultura ha già codificato. Fra le sostanze dell’espressione, per esempio, la voce articolata, il sistema ti­ pografico con i suoi contrasti di bianco e di nero, le pennellate di un qua­ dro, l’organizzazione dei fotogrammi di una pellicola cinematografica o dei punti luminosi di uno schermo televisivo. Fra le forme, il sistema del-

3. Strutture 43

la lingua, analizzato dalla linguistica, quello del racconto che studieremo in seguito, l’iconologia dei quadri rinascimentali, i vari modi di organizza­ zione della pubblicità, del teatro, del cinema. Vi è un problema in più. Che rapporto c’è fra i due piani? C’è bisogno davvero di entrambi? Pensiamo al sistema dei semafori che abbiamo con­ siderato prima. Per ogni unità del piano dell’espressione vi è un’unità cor­ rispondente sul piano del contenuto. Per esempio «verde» significa «pas­ sare», il suo opposto che è «rosso» significa l’opposto di «passare» e cioè «arrestarsi». In un largo gruppo di sistemi, come per esempio i giochi, av­ viene qualcosa di analogo. Si dice allora che i due piani così organizzati al­ la stessa maniera sono conformi. Le lingue storiche e i sistemi comunicati­ vi più complessi hanno la caratteristica essenziale di non essere conformi, o di essere realmente biplanari, come si usa ancora dire. La biplanarità è importante perché assicura alla comunicazione il gioco per esprimere realtà complesse e nuove. Questo accade perché i piani dell’espressione e del contenuto di que­ sti sistemi sono organizzati secondo unità di dimensioni molto diverse. Ecco qualche esempio. Il singolo fonema nell’asse del processo si compo­ ne con gli altri che con lui producono una parola, e su quello del sistema si oppone agli altri fonemi che lo potrebbero sostituire. Un concetto co­ me «parallelo» si oppone, nel piano dei contenuti del discorso geometri­ co, ad altri concetti simili e opposti come «perpendicolare», «incidente», ecc., e ha come termini prossimi (sintagmatici) quello di retta o piano (ci sono «rette parallele», non «cerchi paralleli»). I concetti geometrici pos­ sono essere il contenuto di espressioni linguistiche, ma fra i due piani non vi è alcuna omogeneità. Le stesse verità geometriche possono essere espresse in molte forme linguistiche diverse. In un film, la singola inquadratura è definita dall’asse del processo in sequenza con altre inquadrature (funge per esempio da «controcampo» per un’inquadratura precedente) e si oppone ad altre possibili inquadra­ ture che il regista potrebbe aver scelto al posto suo (per esempio è un «pri­ mo piano» e non un «campo lungo»). Ma anche la sequenza in cui l’in­ quadratura è inserita è legata a un sistema e a un processo. E perfino l’in­ tero film, inserito in una serata televisiva, è un elemento congiunto con un telegiornale e della pubblicità e funzionalmente simile a un varietà. E quel­ la serata televisiva non è che un elemento della programmazione com­ plessiva della rete, che a sua volta si organizza secondo i nostri due assi. Sul piano dei contenuti, il film racconta una storia, che risponde a una sin­ tassi narrativa (un tema di cui parleremo in seguito). Vi è anche qui un’or­ ganizzazione processuale (per esempio, un’introduzione, uno svolgimen­ to, un acme, una conclusione più o meno felice). E vi sono alternative che definiscono assi del sistema. La storia per esempio potrebbe svolgersi in

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un paese diverso da quello in cui è stata ambientata, il protagonista po­ trebbe avere un’altra età o un altro lavoro e così via. Come il discorso geo­ metrico comprende un’organizzazione linguistica e una del contenuto, co­ sì anche quello cinematografico è costituito da un piano della struttura formale e da uno dei contenuti narrativi. E così via. Un sistema biplanare può anche essere detto simbolico (incrociando le terminologie e tornando a quella di Peirce esposta al § 2.3 ; per analogia cioè ai segni simbolici, che di solito fanno parte effettivamente di sistemi biplanari). Un sistema del tutto non biplanare, per esempio il gioco degli scacchi o la riproduzione fotografica, è detto conforme, come abbiamo già notato. I sistemi più interessanti sono però probabilmente quelli semi-sim­ bolici, in cui il rapporto fra i singoli elementi dell’espressione e del conte­ nuto è arbitrario, ma i due sistemi hanno in comune almeno una parte del­ la loro organizzazione. Vi è quindi una corrispondenza sistematica non fra gli elementi, ma fra le categorie che organizzano il piano dell’espressione e quello del contenuto di questi sistemi. Per esempio, sono sistemi semi­ simbolici il sistema dell’organizzazione politica secondo l’opposizione destra/sinistra, l’organizzazione formale delle immagini religiose con l’op­ posizione fra alto e basso che corrisponde a quella fra sacro e profano. Co­ me vedremo, spesso nell’organizzazione di sistemi visivi o auditivi, inclu­ si quelli pubblicitari, prevale una logica semi-simbolica.

La tipologia dei piani e delle loro articolazioni è stata definita da Hjelmslev 1943, 1963. La teoria del semi-simbolismo è un’elaborazione della scuola greimasiana. Per una sua trattazione introduttiva vedi Mar­ sciani e Zinna 1991. Sul semi-simbolismo in pittura Calabrese 1999.

3.3. Fonemi, tratti pertinenti Ogni singolo segno, dunque, che congiunge un certo significante e un certo significato, è una concretizzazione, per così dire una sezione, della lingua o del sistema complesso di piano dell’espressione (con forma e so­ stanza, asse sintagmatico e paradigmatico) e di piano del contenuto (an­ cora con forma e sostanza, asse sintagmatico e paradigmatico, ma diversi da quelli dell’espressione) cui appartiene. Per quanto riguarda il linguaggio naturale, la condizione principale della non conformità deriva dalla doppia articolazione caratteristica di tut­ te le lingue. Scomponendo il piano dell’espressione nei suoi elementi, ar­ riviamo a un certo punto agli elementi più piccoli del processo capaci di por­ tare autonomamente un significato-, sono i monemi (o in altre terminologie

3. Strutture 45

i morfemi} che corrispondono all’incirca alle parole della grammatica tra­ dizionale. È però possibile continuare la scomposizione e arrivare a un li­ vello più semplice ancora, quello degli elementi minimi del processo che in­ fluenzano il significato (scambiandoli fra loro, il significato cambia: è la co­ siddetta prova di commutazione}. E il livello dei fonemi, che più o meno corrisponde a quello che tutti conoscono, nell’italiano scritto, come le «lettere» di una parola. Mentre sul piano del contenuto esiste un oggetto corrispondente a ogni singolo monema (per esempio il concetto corri­ spondente a «cane»), che si usa chiamare lessema o semema, a seconda del­ la pertinenza di analisi (vedi § 3.4), non ci sono oggetti esattamente corri­ spondenti ai fonemi. Mentre i fonemi compaiono in ogni lingua in nume­ ro limitato (in genere circa una ventina) e pertanto sono facilmente in­ ventariabili, i semi infatti, che si possono indicare come componenti mi­ nori dei sememi (per esempio per «cane» i concetti di «animale», «qua­ drupede», «mammifero», ecc.) sono in numero molto grande e addirittu­ ra indefinito. Non è possibile in genere analizzare un lessema in maniera standard, né realizzare l’elenco dei semi disponibili per una lingua. Vi è un altro aspetto per cui i fonemi sono più facili da catturare. Men­ tre non sempre un cambiamento di suono ha effetti sul significato (si pen­ si alla differenza fra la pronuncia dura della «c» di «casa» che si usa nella maggior parte delle pronunce dell’italiano e a quella aspirata che è preva­ lente in Toscana), cambiando un fonema muta anche il monema che lo contiene: al posto di /belle/, per esempio, cambiando il fonema /b/ con un fonema /p/ otteniamo /pelle/, il cui significato è completamente di­ verso. Questa «prova di commutazione» che serve a definire i fonemi, non si può realizzare facilmente con i semi, che restano pertanto meno facili da scoprire. Il risultato di questa situazione è che l’elemento minimo auto­ nomo (cioè il frammento di processo che noi possiamo identificare con certezza) sul piano dell’espressione è il fonema, mentre sul piano del con­ tenuto è il lessema, che corrisponde sul piano dell’espressione al monema, non al fonema. Insomma, la lingua si deve analizzare a due livelli diversi: gli elementi minimi autonomi del contenuto sono molto più grandi di quelli dell’espressione. Il linguaggio ha una doppia articolazione. Esiste ancora un livello più elementare della forma dell’espressione lin­ guistica, quello per cui la differenza fra due fonemi può essere spiegata per via dei tratti pertinenti che li caratterizzano, cioè quelle caratteristiche ar­ bitrarie che la singola lingua ha «scelto» per stabilire la differenza fra due fonemi. Per esempio, nel nostro caso, la differenza fra /p/ e /b/ consiste nel modo di articolazione del suono («esplosivo» invece che «occlusivo»): la stessa che esiste fra altri fonemi come /t/ e /d/ e /c/ (duro, come in /scat­ to/) e /g/ (duro, come in /gatto/). Come abbiamo già accennato, altre dif­ ferenze, che pure sono pertinenti in altre lingue, come quella fra la /c/ du­ ra usata normalmente dalla maggior parte degli italiani all’inizio di una pa-

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rola (per esempio /casa/) e la versione aspirata che si usa in Toscana, non sono pertinenti, cioè non influiscono sul significato (anche se magari ci forniscono informazioni utili sulla persona che parla, sulla sua provenien­ za, sul suo ceto sociale, ecc.). Vale la pena di notare che in altre lingue, co­ me il tedesco o le lingue semitiche, la differenza fra una /c/ dura e una aspi­ rata è pertinente e individua effettivamente fonemi diversi. Quel che ci interessa qui, in conclusione, è stabilire che il linguaggio naturale (e con esso altri sistemi come il cinema, il linguaggio della pittu­ ra rinascimentale, ecc.) sono autenticamente biplanari. Solo i sistemi bi­ plana» possono essere considerati linguistici, o secondo la terminologia di Hjelmslev, costituiscono delle «semiotiche». I concetti di fonema, morfema, lessema, ecc. sono stati elaborati so­ prattutto nell’ambito delle lingue naturali. Per approfondirli si vedano Martinet 1962, 1967 e Lyons 1968.

3.4. Semantica Il discorso appena accennato merita di essere approfondito e precisa­ to. Abbiamo visto che il segno articola tra loro due facce, o due lati, che nella loro relazione reciproca stabiliscono quella che possiamo indicare come la funzione semiotica. Se sul lato del significante (o dell’espressione) è possibile condurre un’analisi per componenti - come ha mostrato in maniera esemplare la fo­ nologia - filosofi, linguisti e semiotici si sono posti il problema di stabili­ re un modo per condurre un’analisi altrettanto efficace anche sul piano del significato. È importante rendersi subito conto del fatto che ciò che si intende per significato può derivare da atteggiamenti diversi riguardo a ciò che un si­ stema semiotico esprime. Cos’è il significato di un segno? E uriimmagine mentale, cioè tutto quello che posso associare, nella mia mente che com­ prende un segno, a quel determinato significante? Quello che «mi viene in mente»? Oppure è ciò a cui un segno si riferisce, nel mondo delle cose che costituiscono il suo contesto? Oppure, ancora, è ciò che quel segno produce come risposta, non più mentale ma segnica? Cioè, secondo il mo­ dello interpretante, un altro segno che mi serve per interpretare il pri­ mo, sia esso un comportamento, una parola, o un’emozione? Oppure de­ ve essere trattato come un’unità culturale che non ha altra esistenza che al­ l’interno della relazione segnica, vale a dire una porzione di tutto ciò che una lingua o un sistema semiotico può significare grazie al modo in cui ri­ partisce, e seleziona, la materia significante?

3. Strutture 47

Lo studio del significato prende il nome di semantica, e sono state pro­ dotte diverse semantiche, proprio a causa della variabilità con cui può es­ sere inteso il concetto di significato. Molto sinteticamente possiamo indi­ care tre filoni principali (cfr. Violi 1997). Vi è una semantica di derivazione prevalentemente filosofica, la quale tenta di studiare alcune condizioni in virtù delle quali un segno è in grado di dire qualcosa di vero rispetto al mondo, o allo «stato di cose», cui si ri­ ferisce. Si tratta di una semantica dei valori di verità che assume come pro­ pria l’idea che il significato del segno consista per l’appunto in un’opera­ zione di riferimento, di rinvio a un referente. E una semantica di deriva­ zione filosofica perché, nel suo complesso, si propone di definire quali so­ no le condizioni logiche che consentono a un enunciato di dire qualcosa di vero sul mondo. Vi è poi una semantica che sviluppa preoccupazioni psicologiche (og­ gi essa va sotto il nome di semantica cognitiva) e che tenta di stabilire un legame stretto tra il significato dei segni e la comprensione che abbiamo di essi. Si tratta in effetti prevalentemente di una teoria della comprensio­ ne e dei processi mentali che vengono attivati ogni qualvolta una mente umana si trova di fronte un’espressione linguistica. In questo ambito di­ venta rilevante studiare quali siano le condizioni che consentono ai siste­ mi linguistici di venire compresi per i concetti che esprimono, in che mo­ do cioè si stabilisca un legame più o meno stretto tra il contenuto dei se­ gni e il sistema concettuale che organizza, per la mente umana, l’espe­ rienza. Una terza semantica è quella che interessa più da vicino una semiotica in senso stretto. Il suo carattere principale consiste nel mantenere a di­ stanza, anche quando non si intende eliminarle del tutto, le questioni re­ lative alla verità degli enunciati che affermano qualcosa del mondo ester­ no, da un lato, e le indagini sul funzionamento cognitivo della mente, dal­ l’altro. Al centro delle ricerche di una semantica di ispirazione direttamente linguistica e semiotica vi è l’elaborazione di un metodo per la de­ scrizione del piano del contenuto dei linguaggi, di quel piano, o «lato del se­ gno», che si produce precisamente nella correlazione che il segno stesso stabilisce ogniqualvolta si dà un fenomeno di semiosi (cioè ogniqualvolta si realizza una significazione). Secondo questo terzo orientamento il significato di un segno si deter­ mina all’interno del sistema semiotico che viene studiato, in quanto sele­ zione dt una porzione del piano del contenuto di quello stesso sistema. Ogni segno ritaglia, sia sul piano del significante sia su quello del significato, una sorta di materia (che costituisce tutto ciò che è articolabile, strutturabile), in modo da identificare un valore, una certa posizione, disponibile per l’in­ terpretazione. Dal lato del significante, l’analisi del modo in cui il sistema

Manuale di semiotica 48

semiotico articola la materia disponibile permette di individuare determi­ nate unità minime (i fonemi) che, componendosi tra loro in catene sintag­ matiche, possono produrre i segni di cui è costituito quel determinato si­ stema, e quindi i testi che quel sistema può generare. Dal lato del signifi­ cato, la ricerca semantica dovrebbe condurre a risultati comparabili. Una semantica di questo tipo deve assumere il significato come una unità culturale, non radicata direttamente nel rinvio ad un referente ester­ no, né immediatamente presente nella mente del parlante, bensì in quan­ to elemento circolante nella cultura e nella comunicazione interumana, co­ me un valore di senso di volta in volta determinato dal sistema semiotico che viene preso in esame. Queste unità culturali verranno dunque studiate nella loro organizza­ zione. Una prima limitazione va subito messa in luce: poiché studiare il piano del contenuto di un sistema semiotico - come una lingua ad esem­ pio, o di un codice semiotico particolare, o del sistema di senso attivato da un testo, o da un insieme di testi - vorrebbe dire in sostanza studiare l’or­ ganizzazione di ciò che quel sistema semiotico può esprimere, è evidente che il progetto semantico sarebbe votato alla sconfitta se pretendesse di esse­ re esaustivo, altrimenti detto di render conto di tutto ciò che può essere si­ gnificato. Per essere più chiari: quando i fonologi si dedicano a ricostrui­ re il sistema fonologico di una lingua naturale, il loro tentativo punta a de­ scrivere tutti i tratti elementari che, in numero sufficiente, possono, sul piano del significante di quella lingua, generare combinandosi tra loro i vari segni ammissibili in quella stessa lingua e giungono, solitamente, a in­ dividuare un numero finito di tratti che possono essere considerati gli ele­ menti fondamentali di quel sistema. Il fatto è che non tutta la materia so­ nora disponibile per la fonazione viene utilizzata da una lingua naturale, ma è evidente che ogni lingua seleziona solo alcune delle possibilità fona­ torie e acustiche, mentre lingue diverse ne selezionano e ne sfruttano al­ tre. Il piano significante di una lingua è dunque descritto dall’insieme dei soli tratti sonori che vengono da essa selezionati. Sul piano del significato questa aspirazione è sempre per principio di­ scutibile, perché non vi è nessuna limitazione a priori a ciò che una lingua, e anche un qualunque sistema semiotico non linguistico, può significare. Ci si è poi presto accorti, conducendo innumerevoli analisi sull’organiz­ zazione del contenuto, che i vari fattori che di volta in volta potevano es­ sere considerati «elementari» in un caso, si potevano rivelare non più ele­ mentari, bensì derivati da altri, in casi diversi, in altri testi, o nel passaggio da un sistema ad un altro, come avviene nelle traduzioni sia tra lingue che tra lingue e sistemi non linguistici. Tutto ciò obbliga gli studiosi di semantica a relativizzare le loro con­ clusioni e ad adottare un atteggiamento non universalistico. Anche se si so-

3. Strutture 49

no riconosciute alcune microstrutture che organizzano il contenuto in ma­ niera apparentemente molto generale, cioè alcune categorie del contenu­ to che sembrano condivise dalla maggior parte delle lingue note o da altri sistemi semiotici, concludere che queste siano «le categorie fondamenta­ li» del piano del significato è scientificamente molto rischioso. Resta il fatto che i segni che costituiscono un dato sistema semiotico organizzano, secondo il principio della correlazione tra i due piani (espres­ sione e contenuto), sia i significanti che i significati. Dipende da ciò il fat­ to, molto noto e che è già stato menzionato nel capitolo precedente, per cui alcune lingue possiedono segni che significano determinate caratteri­ stiche della sostanza significabile, mentre altre non li possiedono o ne pos­ siedono di diversi. È importante, ad esempio, far caso alle diverse riparti­ zioni del sistema dei colori che si riscontrano in diverse lingue, o del si­ stema dei tempi verbali, o del sistema delle emozioni, e così via. Sono tut­ ti casi evidenti che testimoniano il fatto che il significato esprimibile da un certo sistema semiotico dipende, per lo meno a livello elementare, dai se­ gni di cui quel sistema dispone. Non solo, ma si tratta di significazioni va­ riabili storicamente, socialmente e culturalmente, e la loro organizzazione deve ogni volta essere ricostruita a partire dal modo in cui un certo di­ scorso, o un certo testo, riarticola localmente le catene segniche. Questa, tuttavia, non è affatto una buona ragione per abbandonare gli studi semantici. Al contrario, è proprio perché si dà questa variabilità che diventa interessante studiare come di volta in volta si determina il signifi­ cato di una data realizzazione segnica; è precisamente la strada che con­ sente di conoscere meglio, di meglio comprendere, in che cosa consista il significato espresso da quel determinato enunciato, da quel determinato discorso, da quel determinato testo, nel suo modo specifico. L’analisi semantica trae, dalle analisi condotte sul piano del significan­ te (soprattutto la fonologia), un’indicazione di metodo importante. Per determinare quale sia il significato di un determinato segno è necessario scomporlo nei suoi elementi fondamentali e stabilire così, nell’ambito dei possibili percorsi che le combinazioni di questi elementi permettono, qua­ le percorso venga attivato, per l’interpretazione, nel caso in questione. Scomporre il significato di un segno nei suoi elementi fondamentali signi­ fica già ipotizzare che si tratti di un’organizzazione e che di questa orga­ nizzazione sia possibile fornire una descrizione adeguata. Si apre qui una apparente alternativa. Molte analisi semantiche sono state condotte su lessemi delle lingue naturali (grosso modo su parole qua­ li si possono trovare nei dizionari di lingua) e di questi si è tentato di ri­ costruire i valori di senso. Un’indagine di questo tipo si muove fonda­ mentalmente a partire dall’idea che esista la possibilità di determinare il significato del lessema in quanto tale. Poiché tuttavia la lingua, in se stes-

Manuale di semiotica 50

sa, è un’entità virtuale (essa si mostra soltanto quando viene parlata e non esiste se non come condizione di articolazione segnica), l’analisi del signi­ ficato di un suo segno non può che mirare alla descrizione di un’entità al­ trettanto virtuale. Condurre allora un’analisi semantica sul significato di un lessema non può fare altro che mettere a fuoco alcuni tratti che posso­ no essere considerati costanti rispetto a tutte le variazioni determinate da­ gli usi che di quel lessema vengono fatti concretamente nell’attività di pro­ duzione dei discorsi. Si crea in questa maniera una tensione tra ciò che può essere considerato, nel significato di un termine, costante e ciò che dipen­ de dalle circostanze e dai contesti all’interno dei quali esso può realizzar­ si concretamente. A questo tipo di indagine possiamo ricondurre un filo­ ne di analisi semantica che va sotto il nome di «analisi componenziale», che si chiama così proprio perché tenta di identificare le componenti fon­ damentali che costituiscono il significato di una parola. A queste compo­ nenti si darà il nome di «marche semantiche» e dovranno esserne ricono­ sciuti diversi tipi. Soprattutto, essendo esse la rappresentazione del signi­ ficato virtuale di un lessema, devono essere integrate da altre marche che funzionino da selettori e che specifichino di volta in volta in che senso de­ ve essere interpretata una determinata occorrenza, cioè una determinata realizzazione. Questi selettori dipenderanno pertanto dal contesto e dalle circostanze di produzione. Una via apparentemente alternativa è quella che va sotto il nome di «semantica strutturale». Secondo questa prospettiva la direzione che si se­ gue è quella opposta: punto di partenza non è un lessema in quanto tale, di cui si voglia determinare il significato virtuale, bensì la sua realizzazio­ ne testuale. Da questo punto di vista non si tratterà allora di aggiungere a un significato «puro», o meglio a una serie di tratti costanti, alcune speci­ ficazioni contestuali, bensì di determinare il valore di senso di un deter­ minato elemento discendendo, passo dopo passo, dal significato com­ plessivo che è possibile attribuire al testo in quanto tale, sia esso una fra­ se o un intero discorso. Il valore di un elemento segnico si troverà deter­ minato dal suo inserimento in catene più ampie, all’interno delle quali es­ so potrà essere identificato come qualcosa che svolge una certa funzione, che riempie un certo valore significativo. Le due strade appena menzionate sono solo apparentemente contrap­ poste. È evidente che il significato di un elemento si determina sia a par­ tire dal significato codificato, che appartiene virtualmente alla competen­ za dei parlanti di una determinata lingua, sia in relazione al testo in cui es­ so si inserisce e nel quale assume determinate funzioni di senso. Un’anali­ si semantica dovrà necessariamente tener conto di entrambi questi orien­ tamenti, o anche accentuare, se è il caso, l’uno o l’altro tra essi (in funzio­ ne dei propositi che di volta in volta risultano prevalenti) tenendo conto del fatto che l’altro aspetto rimane sullo sfondo delle questioni aperte.

3. Strutture 51

In ogni caso le due prospettive appartengono di diritto ad una seman­ tica di ispirazione linguistica e semiotica che prende come proprio punto di partenza il fatto che quello del significato è un terreno definito dal si­ stema semiotico e che la sua indagine deve porsi all’interno di una più ge­ nerale problematica semiotica. Analogamente a quanto emerso dalle indagini sulla struttura signifi­ cante delle lingue, l’analisi semantica sfrutta la possibilità di articolare tra loro due strati fondamentali che definiscono le strutture di senso: uno è quello della manifestazione, l’altro è quello dell’immanenza. I segni che ci appaiono come occorrenze concrete all’interno dei testi fanno parte di quella che può essere definita la manifestazione semiotica. Su questo pia­ no, che è quello della loro effettività (dove cioè producono concreti «ef­ fetti di senso»), i segni sono sempre nodi complessi di significazioni plu­ rime, sono come aggregati locali di linee di significazione. Come nel caso dei fonemi realizzati sul piano del significante, che sono i suoni concreti pertinenti per una determinata lingua, così sul piano del significato ab­ biamo i lessemi, ovvero realizzazioni concrete che assumono valore di sen­ so all’interno di testi dati. Ma, al di sotto di questi lessemi, in quello strato non immediatamente percepibile al parlante ma capace di determinare il suo comportamento linguistico che chiamiamo immanente, si presenta l’articolazione di elementi strutturali che non appaiono in quanto tali sul­ la superficie dei testi, ma le cui relazioni reciproche e le cui combinazioni possono rendere conto della realizzazione lessematica. Questi, che vengo­ no chiamati sememi, hanno in comune coi fonemi il fatto di essere unità del sistema, cioè componenti che vengono ricostruite dall’analisi senza che abbiano una natura empirica, fenomenica. Sono, proprio come i fonemi, «condizioni per la pertinenza» di ciò che appare in superficie. Anche i sememi (proprio come avviene nel caso dei fonemi, ancora una volta) possono a loro volta essere analizzati in unità più piccole, più astrat­ te e di natura completamente teorica, cioè necessariamente ricostruita co­ me condizione presupposta della loro esistenza. Queste unità di taglia mi­ nore, componenti del valore del semema, prendono il nome di semi. Il lo­ ro corrispettivo sul piano dell’espressione può essere rappresentato dai tratti distintivi, che sono quelle categorie che articolano la sostanza sono­ ra al livello più astratto e generale, categorie come «vocalico/non vocali­ co», «compatto/diffuso», «grave/acuto», ecc. ►► 3.4.1. I semi

Come i tratti distintivi fonologici, i semi, che sono gli elementi mini­ mali del contenuto, hanno una natura strutturale e vengono identificati co­ me operatori di differenza. Il loro valore è pertanto strettamente relaziona-

Manuale di semiotica 52

le ed essi vengono identificati sulla categoria semantica, cioè in quanto costitutivi di una determinata relazione significativa. Facciamo un esem­ pio qualunque, che traiamo da Marsciani e Zinna 1991: come compren­ dere la differenza di senso che intercorre tra due lessemi (due parole) co­ me «uomo» e «donna»? E una differenza che si dà in superficie come un effetto di senso, ma che dovrà essere descritta (in un’analisi testuale, ad esempio) attraverso una categoria semantica che collochi l’uno e l’altro termine ai due poli di una relazione. Possiamo allora costruire una cate­ goria come quella della /sessualità/ e assumerla come l’articolazione di due semi opposti tra loro, ai quali si potrà dare un nome che in quanto ricostruito resta puramente convenzionale. Assumiamo allora che la ca­ tegoria semantica della /sessualità/ articola tra loro i due semi «maschi­ le» e «femminile». Poiché, come abbiamo detto, essi vengono prodotti dall’analisi semantica in immanenza, cioè come costrutti teorici ricostrui­ ti per spiegare il testo, essi non dovranno essere trattati come se identifi­ cassero due tratti della sostanza del mondo (una serie di qualità biologi­ che), bensì soltanto come poli di una relazione di senso. Questo fa sì che ognuno dei lessemi «uomo» e «donna» potrà assumere significati diversi in contesti in cui quella categoria semantica della /sessualità/ non doves­ se risultare pertinente. Prendiamo due frasi che rappresentano due casi diversi: 1) «il cane è il miglior amico dell’uomo» e 2) «l’incidenza stati­ stica dell’infarto si aggira, per l’uomo, intorno al 3 per cento». È eviden­ te che nel primo caso la categoria semantica della /sessualità/ non è per­ tinente, perché si suppone che il cane sia il miglior amico dell’essere uma­ no, cioè indifferentemente sia dell’uomo che della donna, e quindi il si­ gnificato del lessema «uomo» sarà più o meno quello di «essere vivente appartenente al genere umano». Nel secondo caso, al contrario, la stessa categoria risulta pertinente, poiché l’incidenza dell’infarto per l’uomo si differenzia da quella che vale per la donna, che sarà, poniamo, dell’uno per cento; in questa frase, allora, il significato del lessema «uomo» sarà comprensivo della marca della /sessualità/ che contrappone tra loro i due semi «maschile» e «femminile». I semi possono essere divisi per tipi. L’analisi semantica ne ha ricono­ sciuti almeno tre: 1. i semifigurativi, che vengono definiti come grandezze del piano del contenuto delle lingue naturali che corrispondono grosso modo alle figu­ re del mondo (vedi §§4.9e7.1.1)eal modo in cui vi si articolano qualità sensibili; per esempio categorie come «verticalità/orizzontalità», «esterio­ rità/ interiorità», ecc.; 2. i semi astratti, che sono grandezze che non hanno corrispettivo sen­ sibile ma che servono per categorizzare le relazioni tra elementi; per esem­ pio categorie come «relazione/termine», «oggetto/processo», ecc.;

3. Strutture 53

3. i semi timici, che sovrappongono alle altre articolazioni semiche la categoria «euforia/disforia» e che le trasformano così in sistemi assiologici (che rivestono cioè un certo valore per i soggetti). Un’altra distinzione importante è quella che contrappone tra loro i se­ mi nucleari e i semi contestuali. I semi nucleari definiscono i tratti inva­ rianti che si realizzano in un lessema, quei tratti che rendono conto della specificità del suo significato, del suo valore che resta costante indipen­ dentemente dal contesto di apparizione. I semi contestuali sono invece quelli che dipendono dal contesto in cui il lessema viene inserito e servo­ no per declinare il significato invariante secondo le particolari accezioni che quel lessema può assumere di volta in volta. Il significato di un lesse­ ma dipende sempre dalla combinazione di almeno un sema nucleare con almeno un sema contestuale. E questa combinazione, variabile evidente­ mente ad ogni inserimento del lessema in un testo dato, che prende il no­ me di semema. Per fare un esempio, possiamo riprendere quello utilizza­ to da Greimas 1966: nelle frasi «il cane abbaia» e «il commissario abbaia» i sememi in cui si realizzano i semi che definiscono il significato di «ab­ baia» dipendono dalle due possibili combinazioni tra una figura semica nucleare (la costante di significazione), che possiamo indicare come «una specie di grido», e i due semi contestuali che provengono dai rispettivi contesti (e che quindi sono comuni al lessema «abbaia» e ai due distinti soggetti delle frasi): il sema contestuale «animale» nel primo caso e quel­ lo «umano» nel secondo. Così il primo significato del lessema «abbaia» sarà descritto dal semema «una specie di grido + animale» e il secondo dal semema «una specie di grido + umano». Il semema, come si vede, racco­ glie in sé fasci di semi che, combinandosi, rendono conto delle significa­ zioni specifiche di ogni occorrenza. Una domanda resta aperta: l’organizzazione delle categorie semiche, le loro possibili relazioni reciproche e le loro gerarchie, derivano da un’organizzazione del contenuto indipendente dai segni dei linguaggi che le realizzano come significati, o al contrario devono essere risolte all’in­ terno dei rapporti linguistici e semiotici tra i segni? La semiotica ha tra­ dizionalmente adottato per principio la seconda soluzione, salvaguar­ dando in questo modo una propria autonomia scientifica e disciplinare. È vero tuttavia che i segni di qualunque linguaggio vivono una vita che è

storica, sociale e, soprattutto, intertestuale. Questo significa che molto ra­ ramente il significato di un segno può essere risolto completamente da un sistema di relazioni interne al linguaggio in questione e che sono sempre operanti rinvìi e richiami ad altri testi, a situazioni extralinguistiche e ad altri linguaggi. La semantica, per questa ragione, non può esimersi dal porre la questione dei rapporti che i testi intrattengono tra loro, così co-

Manuale di semiotica 54

me dall’affrontare la questione che forse per essa è la più importante e cruciale, quella della traduzione. Il fatto che i segni siano sempre par­ zialmente traducibili tra loro, anche quando appartengono a sistemi se­ miotici diversi, rappresenta una sfida scientifica che l’analisi del signifi­ cato deve saper cogliere, perché è proprio a partire dal significato, attra­ verso il significato, sulla base del significato, che i fenomeni di traduzio­ ne si rendono possibili e che la vita reale dei segni appare in tutta la sua complessità.

Anche se in filosofia il problema del significato è stato largamente di­ scusso a partire dal Cratilo di Platone e da Dell’interpretazione di Aristo­ tele (per un’antologia di testi vedi Volli 1993), è solo a partire da Charles Morris 1938 che si afferma la tripartizione della semiotica in sintassi, se­ mantica e pragmatica, che diventa una delle basi della filosofia analitica grazie a Carnap 1942,1947. Per una classica antologia della semantica in senso referenziale e analitico, si veda Linski 1952. Una vasta e aggiorna­ ta discussione del punto di vista analitico si trova in Casalegno 1997. Il rapporto fra semantica cognitivista e semantica della semiotica è discus­ so in Eco 1997 e Violi 1997. Per una semantica strutturalista, vedi Greimas 1966,1970. Una discussione della semantica componenziale è in Eco 197la. La semantica linguistica si intreccia con la storia della linguistica del Novecento, per cui un’utile sintesi è Lepschy 1992. Un punto di vista anomalo ma stimolante, che lega la semantica al corpo è Ruthrof 1997. Per la traduzione, vedi infra § 7.6.

3.5. Quadrato semiotico Abbiamo visto che la forma standard con cui si può utilmente rappre­ sentare l’asse del sistema di una qualunque struttura si presenta spesso co­ me un albero ramificato. I fonemi italiani, per esempio, sono vocalici o consonantici; le vocali sono aperte o chiuse... e così via; un libro è fiction o non-fiction, la non-fiction si può dividere in libri didattici («how-to-do») e no, ecc. Insomma, la continuità dell’asse del sistema è solo apparente. In realtà essa è marcata da opposizioni che sono stabilite e organizzate dalle convenzioni culturali. Il modello più efficace per rappresentare questo funzionamento oppositivo dell’asse del sistema è il quadrato semiotico, un antico dispositivo logico che risale ad Aristotele e che è stato usato nella semiotica contemporanea soprattutto dalla scuola di Greimas. Esso serve a precisare e a dispiegare un concetto nei confronti dei concetti che gli so­ no opposti. Eccone lo schema generale:

3. Strutture 55 SCHEMA DEL QUADRATO SEMIOTICO

Si

non s2

s2

non si

-sles2 sono gli elementi contrari della categoria semiotica presa in con­ siderazione (per esempio bianco e nero). È importante capire che i contrari appaiono come tali per una decisione che può essere della cultura, ma anche dell’autore di un testo, o di chi lo analizza. La relazione di contrarietà non è naturale, ma è stabilita in maniera arbitraria. I soli requisiti formali necessa­ ri sono: 1) che i due termini appartengano allo stesso piano semiotico (per esempio, non è possibile trattare come contrari un significante e un signifi­ cato, ma anche oggetti che appartengono a campi diversi, per esempio un colore e un sapore, salvo che si trovi un asse paradigmatico che li compren­ da entrambi); 2) che i due termini opposti siano disgiunti, cioè non conten­ gano elementi comuni. Naturalmente è compito di chi cerca di compiere un’analisi semiotica identificare un’opposizione che sia effettivamente atti­ va e pertinente nel testo che sta esaminando. La categoria semantica defini­ ta dall’opposizione è insomma un’ipotesi operativa, che viene confermata o refutata a seconda della sua maggiore o minore fruttuosità. Per esempio l’opposto di «bianco» nella nostra cultura è normalmen­ te «nero»; ma in politica, l’opposto di «bianco» è spesso «rosso»; nel cal­ cio, se i «bianchi» sono i nazionali tedeschi, essi potranno opporsi agli «az­ zurri»; ci potrebbe essere un testo per cui il «bianco» (per esempio delle nevi) si contrapporrà al «verde» (per esempio dei campi). Ci sono poi mo­ naci bianchi e monaci bigi, globuli bianchi e globuli rossi nel sangue. E co­ sì via. Nel momento in cui si costruisce un quadrato semiotico ci si riferi­ sce di solito a una catena sintagmatica data, che si ritiene di aver ritrovato nel testo. Ed è in riferimento al modo in cui funziona questa catena che si stabiliscono i termini opposti. - si e non si, come s2 e non s2, sono contraddittori (per esempio «bian­ co» e «non bianco», oppure «nero» e «non nero»). Naturalmente la cop­ pia dei contraddittori deriva da quella di partenza (ogni nuovo termine è la negazione di uno originario) e non vi è alcuna arbitrarietà nel definirla. Chi usa il quadrato semiotico avrà semmai il compito di capire che cosa, nell’ambito testuale che sta studiando, possa corrispondere a questi ter-

Manuale di semiotica 56

mini negativi. Per esempio, in una situazione di opposizione fra bianco e nero, è facile che non bianco significhi «scuro». La stessa cosa non si po­ trebbe dire se siamo in un contesto politico. Non bianco, in questo caso, potrebbe voler dire «laico». E così via. - non si e non s2 sono detti subcontrari (per esempio «non bianco» e «non nero»). Mentre i contrari si escludono a vicenda per definizione, i subcontrari mantengono una polarità oppositiva, ma possono avere in comune delle zone intermedie. Per esempio, se interpretiamo «non bian­ co» come «scuro» e «non nero» come «chiaro», ci può essere una zona «grigia», intermedia, che può appartenere a entrambi i termini. -si e non s2, come s2 e non si sono legati da una relazione di implica­ zione o, come si dice talvolta, di deissi, cioè di indicazione esemplare (per esempio «bianco» dev’essere per forza anche «non nero» e «nero» non può che essere «non bianco»). ESEMPIO DI QUADRATO SEMIOTICO

bianco

non nero

nero

non bianco

Una volta stabilita l’opposizione che dovrà dar luogo a un quadrato se­ miotico, è importante, come si è accennato, trovare un significato per i ter­ mini contraddittori. Anche questa è un’operazione delicata, che richiede di esaminare il funzionamento del paradigma che si vuole descrivere. Da­ to che il valore dei quadrati semiotici è descrittivo e non puramente logi­ co, accade spesso che il termine contraddittorio «basso» sia una specifi­ cazione, piuttosto che una categoria generale. Per esempio, in termini ge­ nerici il nostro quadrato può essere sviluppato così: bianco

non nero (chiaro)

nero

non bianco (scuro)

3. Strutture 57

Siamo in grado, in questa maniera, di interpretare, per esempio, i va­ lori linguistici di una fotografia in bianco e nero, i giochi sottili di lumi­ nosità che la animano. Ma se stiamo parlando di una pubblicità di detersivi, sarà più oppor­ tuno interpretare i termini «bassi» del quadrato così:

nero

bianco

non bianco (sporco)

non nero (apparentemente pulito)

Abbiamo qui una classificazione, molto diffusa nel discorso pubblici­ tario sulla pulizia, dei diversi gradi o modi in cui un indumento può esse­ re affetto da sporcizia o ripulito. Tipicamente la pubblicità di un detersi­ vo dirà che i suoi concorrenti, partendo dal nero, sembrano portare al non nero (pulito in apparenza); ma questo pulito è imperfetto, perché per esempio contiene delle macchie, e dunque è non bianco, in certa misura sporco. Solo il detersivo pubblicizzato sarebbe invece in grado, grazie al­ le sue peculiari qualità, di fare il salto verso il bianco. Anche i lati del quadrato possono assumere un significato, che assom­ ma quello dei termini che vi si trovano. Ecco ora il quadrato dell’esempio, completato con gli elementi che se ne possono dedurre:

COLORI NETTI

bianco

nero

LUCE

OMBRA

non nero (chiaro)

non bianco (scuro) SFUMATURE

Manuale di semiotica 58

Oppure, nel caso pubblicitario: LA SITUAZIONE VERA

nero

bianco

LATO DELLO SPORCO

LATO DEI DETERSIVI

non bianco (sporco)

non nero (apparentemente pulito) l’apparenza

Vale la pena di considerare in particolare il quadrato di veridizione, cioè l’applicazione proposta da Greimas del quadrato al tema dell’essere e del sembrare, che è così importante nell’ambito narrativo. E questo uno sche­ ma che viene applicato molto largamente nell’ambito della semiotica greimasiana, per descrivere la situazione di personaggi ma anche di discorsi scientifici. IL QUADRATO DELLA VERIDIZIONE

verità

sembrare m e n z 0 è n a non essere

essere s e è r e t o non sembrare

falsità

Vero viene definito come ciò che è quel che sembra, segreto quel che non sembra ciò che è, menzognero è detto chi non è ciò che sembra, fal­ so chi non sembra e non è; falsità e verità sono contraddittori, segreto e menzogna contrari.

Un altro quadrato di notevole interesse pratico è quello proposto da Jean-Marie Floch per classificare diversi tipi di pubblicità, che si può fa­ cilmente generalizzare fino a ricomprendere i vari tipi di merce.

3. Strutture 59

VALORIZZAZIONE PRATICA

(per esempio Maneggevolezza Comfort Affidabilità)

Valori «utilitaristici» (d’uso)

Valori «non esistenziali» (per esempio Vantaggi Costo/qualità Prezzo) VALORIZZAZIONE CRITICA

VALORIZZAZIONE UTOPICA

(per esempio Vita Identità Avventura)

Valori «esistenziali» (di base)

Valori «non utilitaristici» (per esempio Gratuità Raffinatezza) VALORIZZAZIONE LUDICA

In sostanza, si tratta di una classificazione dei tipi di attribuzione di va­ lore che si possono rivolgere agli oggetti di consumo: il lato sinistro ri­ guarda valori «reali» dell’oggetto (la sua utilità, il suo prezzo); il lato de­ stro riguarda valori «ideali» o «immateriali». Il lato superiore ha a che fa­ re con l’oggetto nel suo momento d’uso, il lato inferiore riguarda il mo­ mento della comunicazione e dell’acquisto. Alcuni annunci pubblicitari si sforzano di coprire più di un vertice del quadrato di Floch; ma mentre alcuni sono facilmente conciliabili, come i valori «pratici» e «quelli critici», altri sono più difficili da conciliare, tipi­ camente i valori contrari e subcontrari, mentre altri ancora (i contraddit­ tori) assai difficilmente possono essere congiunti. Quello che abbiamo ricostruito finora è uno dei due usi principali del quadrato semiotico, vale a dire il suo aspetto statico. Bisogna tener pre­ sente un altro uso dello stesso quadrato, quello dinamico. In questo caso accade che il quadrato serve a formalizzare un fenomeno molto diffuso nell’ambito dei testi, soprattutto narrativi. Accade spesso, e in casi molto significativi, che un racconto non sia altro che la proiezione sull’asse del processo dell’organizzazione del sistema, come fu proposto per la prima volta da Roman Jakobson 1966. In questo caso il quadrato semiotico di­ venta uno strumento adatto a descrivere questa struttura «profonda» del­ la narrazione, come vedremo meglio nel cap. 4. Se per esempio immagi­

niamo un capo d’abbigliamento della pubblicità che deve subire un pro­ cesso di «imbiancamento», il quadrato bianco/nero che abbiamo discus­ so sopra può rappresentare uno schema per questo processo lineare. Ma

Manuale di semiotica 60

se esaminiamo un testo in cui l’opposizione bianco/nero assuma valore ideologico, per esempio nei confronti degli afro-americani, il nostro qua­ drato potrà esprimere queste complesse posizioni. Per esempio, in un li­ bro come La capanna dello zio Tom, i diversi personaggi, nelle loro diver­ se realizzazioni narrative, andranno a occupare diverse posizioni sul qua­ drato. Questo discorso va comunque rinviato in seguito, quando ci occu­ peremo di testi narrativi. Il quadrato semiotico è stato interpretato talvolta come un meccani­ smo di per sé potentissimo di interpretazione del senso. In realtà si trat­ ta solamente di uno strumento, che può essere utilizzato in maniera più o meno efficace. Per approfondire, si veda Greimas 1970,1983, Greimas e Courtès 1979, Marsciani e Zinna 1991. Il quadrato di Floch è esposto in Floch 1990. Nell’ambito greimasiano il quadrato semiotico si incontra tanto nella semantica fondamentale della lingua quanto nel livello più profondo del «percorso generativo» che dà ragione degli effetti narrativi dei testi.

3.6. Testo e discorso Tutta l’analisi del segno ci ha mostrato che un tale ipotetico messaggio elementare, pur importante come ipotesi per comprendere i meccanismi molecolari della comunicazione, non può essere considerato autonomo, perché il suo funzionamento dipende sempre dai suoi rapporti con altri segni sull’asse del sintagma e su quello del paradigma, oltre alle ricche pos­ sibilità di articolazione multipla nel rapporto fra significante e significato. I segni sono sempre in relazione con altri segni, non esistono mai-da soli, se non da un punto di vista puramente teorico. Insomma, una semiotica del segno non può rendere ragione della complessità dei messaggi reali. È ne­ cessario dunque ampliarla per ottenere un oggetto di analisi più realistico. Questa nozione allargata dell’oggetto della semiotica è il testo, che si può considerare come l’oggetto concreto di una comunicazione, un messaggio che viene effettivamente prodotto o riconosciuto come tale, il che in ter­ mini strutturali equivale a dire un segmento dell'asse del processo, autono­ mo e ben definito. Se l’asse del processo è il territorio in cui i segni convi­ vono, per esempio lo spazio della pagina per una comunicazione scritta, o il tempo di una giornata per una comunicazione televisiva, il testo è un cer­ to frammento di questo territorio, sufficientemente coerente e autonomo per poter essere considerato come unitario. Un problema importante che deriva da questa definizione è come ef-

3. Strutture 61

fettuare dei «tagli» nella continuità del processo per costituire un certo te­ sto. Studiando più da vicino la risposta si vede che le soluzioni possibili sono quasi sempre più d’una, addirittura parecchie. Una emittente televi­ siva o radiofonica trasmette ininterrottamente: come scandire la sua pro­ duzione continua in modo da ottenere dei testi autonomi? Dipende da noi. Nel corso di una ricerca possiamo voler esaminare un mese intero di trasmissioni, oppure una certa giornata dall’inizio alla fine delle emissio­ ni, o più probabilmente possiamo essere privatamente interessati a quel segmento di processo che si usa chiamare prime time, oppure magari il no­ stro testo saranno tutti i prime time di un certo periodo (il che dimostra che un testo non è necessariamente un frammento continuo del processo) o tutte le puntate di una certa trasmissione seriale. Possiamo essere ap­ passionati di una certa trasmissione (ancora discontinua, per via delle in­ terruzioni pubblicitarie), guardare con gusto una certa puntata di un se­ rial, osservare una certa sequenza dentro questa puntata, oppure solo un’inquadratura singola, o una battuta pronunciata da un attore. Tutti questi possono essere considerati testi emessi da quell’emittente. E così lo sono una collezione di giornali, un numero dello stesso giornale, un arti­ colo, la produzione intera di un certo giornalista o scrittore, una pagina, i servizi su un certo argomento, una vignetta, un titolo, una campagna pub­ blicitaria, un singolo annuncio, la parte grafica di quest’annuncio, una poesia, un’antologia; una collezione di abiti, un certo tipo di capi («la cra­ vatta»), un certo indumento. E così via. In primo luogo bisogna perciò dire che la scelta dei confini di un te­ sto, e dunque la definizione di quel testo, è responsabilità del suo lettore. Il testo è ciò che viene effettivamente ricevuto in una comunicazione. E un testo dunque qualunque frammento del processo che sia trattato come un testo da qualcuno. Come dimostrano in particolare i casi di significa­ zione di cui abbiamo discusso nel paragrafo sulla ricezione, è il destinatario che decide di trattare come testo un certo fenomeno, estraendolo dal­ la complessità del mondo: un certo colorito giallastro della pelle di un pa­ ziente («ittero») viene isolato dal suo processo (il resto del corpo) e con­ siderato dal medico come un sintomo di mal di fegato, mentre tutto il re­ sto viene ignorato; una piccola zona dell’atmosfera più ricca di polveri ri­ spetto allo sfondo («fumo») viene isolata da un vigile del fuoco e consi­ derata come un testo il cui contenuto è la possibilità di un incendio. Un passante potrà preferire di considerare tutto il paesaggio come un possi­ bile oggetto di contemplazione e dunque un testo. Un amico del malato baderà piuttosto ai suoi discorsi, un’amante cercherà un po’ di tenerezza nello sguardo. E così via. Nel caso della comunicazione veti. e propria, però, ci si trova di fronte a processi che sono stati concepiti e preparati per essere considerati come

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testi. Vi è un progetto dell’emittente che mira a determinare le modalità di lettura del destinatario. In questo caso dunque il testo è un luogo di con­ flitto, o almeno il frutto di un negoziato, che mette a confronto le inten­ zioni di chi lo prepara con quelle di chi lo riceve e soprattutto che misura le loro pratiche, in un gioco che può essere tanto di collaborazione che di scontro. Il processo di una serata televisiva («palinsesto») è in genere con­ cepito per trattenere lo spettatore, e a maggior ragione lo è la singola tra­ smissione. Lo spettatore però può evadere da questo schema e ritagliarsi, col telecomando, un testo tutto suo, saltando da un programma a un al­ tro. Così il giornale, che spesso non viene letto nell’ordine proposto e ma­ gari non viene letto affatto, o solo in piccola parte; il romanzo poliziesco, dove un lettore può saltare pagine e pagine per arrivare alla rivelazione fi­ nale, travolto proprio dai meccanismi della suspence che dovrebbero ser­ vire a stabilire la coerenza del funzionamento testuale. E così via. .

Esistono in genere nei processi comunicativi maturi dei dispositivi che servono a suggerire al lettore come ritagliare un testo e secondo che mo­ dalità leggerlo. Si tratta di metasegni molto istituzionalizzati ed evidenti sul piano percettivo, che vengono chiamati paratesti, come abbiamo già accennato (§ 2.8). Il paratesto è tutto ciò che sta attorno al testo vero e pro­ prio: il nome dell’autore, il titolo, la prefazione, la quarta di copertina, le epigrafi, ma anche le recensioni e le interviste all’autore. Nel caso dei te­ sti scritti, il paratesto può essere suddiviso in due zone editoriali distinte: il peritesto (l’insieme dei messaggi paratestuali che si ritrovano nel volume stesso del testo) e Vepitesto (l’insieme dei messaggi paratestuali che si ri­ trovano, almeno originariamente, all’esterno del libro: recensioni, corri­ spondenze, interviste, ecc.). Fra i paratesti più noti, possiamo citare titoli di libri, film, giornali, testa­ te giornalistiche, sigle televisive e radiofoniche, icone di computer, indici, copertine di libri e relative iscrizioni, fregi e «fili» di impaginazione dei quo­ tidiani, cornici per immagini, risoluzione sulla tonica di un brano musicale, sipari teatrali, ecc. Tutti questi metasegni paratestuali servono a suggerire al lettore un certo modo di tagliare il testo, e a fornirgli istruzioni per il suo uso (per esempio, specificando se si tratta di un romanzo o di un libro di storia, di una pubblicità o di informazione, di un articolo singolo o di un gruppo di articoli sullo stesso argomento e così via). Beninteso, tutte queste indicazio­ ni possono essere seguite o meno dal lettore, a seconda della loro efficacia, del contesto sociale e innanzitutto dei suoi interessi. La nozione di testo e soprattutto la sua pratica è ricca di complessità. Un testo è in genere composto di altri testi di dimensioni minori, circon­ dato da altri testi maggiori o diversi (asse del processo), sta al posto di al­ tri testi possibili (asse del sistema). La sua capacità di significazione è na­ turalmente influenzata àaff enciclopedia del lettore (il complesso delle co-

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noscenze che egli crede vere, che lo siano o meno in realtà, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo e poi al § 6.5), e in particolare dalla sua co­ noscenza di altri testi, che sono spesso presenti in un testo sotto forma di citazioni, di parodia, di critica, o anche semplicemente di conoscenze pre­ determinate, come quando il nome di un personaggio ne ricorda volonta­ riamente uno di un testo precedente, o un testo si presenta come la pro­ secuzione di un altro. Questa dimensione cotestuale dei testi è molto im­ portante e in genere determina profondamente il loro funzionamento. La chiamiamo intertestualità (vedi § 13). Anche se è assai vicino al comportamento reale degli esseri umani che comunicano, il concetto di testo resta nondimeno un'astrazione. Per testo intendiamo infatti non il singolo concreto manifestarsi di una comunica­ zione o significazione, ma il suo modello generale: non per esempio la sin­ gola copia di un giornale o di un libro, con le sue macchie e sottolineatu­ re, ma il tipo astratto da cui sono stati tratti tutti gli esemplari concreti, quel numero del giornale o quella trasmissione, così come sono stati pro­ dotti. Per testo di un libro, in genere, intendiamo qualcosa di ancora più astratto, l’insieme degli elementi linguistici che compongono il libro. Non pensiamo, in genere, che la singola edizione concreta, con la divisione in pagine, le scelte di corpo e carattere, vadano a determinare il testo di un libro. I Promessi sposi editi dall’editore x e quelli pubblicati dall’editore y ci sembrano cioè lo stesso testo, anche se il loro aspetto grafico può essere assai diverso. Ma anche questa è una decisione, in certa misura, pragma­ tica: per un bibliofilo o per un filologo possono essere pertinenti al testo delle caratteristiche che in genere sono considerate poco interessanti ed escluse dall’analisi testuale del lettore comune. E utile, a questo proposito, ricordare qui una opposizione che ha molta importanza in semiotica, quella fra type e token. Il token è la singola occor­ renza concreta di qualunque fenomeno: la singola moneta (è di qui viene questo nome, tratto dall’inglese), la singola pronuncia di una certa parola, la sua stampa in una certa pagina di un certo libro fra le mie mani, il gesto che faccio in un certo momento. Type è il tipo astratto di cui queste occorrenze concrete sono esempi: la forma della moneta progettata dalla Zecca, la con­ figurazione sonora di quella parola, la sua forma grafica secondo il sistema di convenzioni in uso, il modello di gesto che i miei interlocutori sono in gra­ do di decodificare dai miei movimenti. Inutile dire che la semiotica, e in par­ ticolare la teoria del testo, si occupa piuttosto dei types che dei tokens: il suo è uno sguardofunzionale, che bada al modo in cui qualunque elemento con­ creto (suono, gesto, segno grafico o altro) può contribuire a stabilire un si­ gnificato e a comunicarlo. Ma ci sono anche regole sulla creazione di tokens, per esempio sull’uso dell’enunciazione e del discorso.

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Mentre la fonetica, scienza fisica dei suoni, studia il modo in cui sono fatti i singoli suoni, la fonologia, parte della linguistica che ha avuto enor­ me importanza per lo sviluppo della semiotica, cerca di individuare i fo­ nemi, i modelli di suono che sono rilevanti per la capacità della lingua di veicolare significati. Partendo dal nome di queste discipline si usa con­ trapporre un atteggiamento etic (di analisi della materialità concreta dei processi comunicativi) e un atteggiamento ernie (che ne seleziona e ne met­ te in rilievo la pertinenza significativa). La semiotica si situa naturalmente dal punto di vista ernie e la nozione di testo corrisponde a questa impo­ stazione.

Una distinzione diversa va fatta per contrapporre testo a discorso. La definizione di testo che si è data finora fa astrazione da tutti gli usi con­ creti che di esso vengono fatti e in particolare dal rapporto che nei feno­ meni comunicativi spesso è molto stretto fra il testo, chi lo enuncia, chi lo riceve, il tempo e il luogo in cui questa comunicazione ha luogo. Questi fenomeni, che sono importantissimi nel linguaggio e in genere nella co­ municazione, sono legati enunciazione. Ogni atto comunicativo com­ prende un contenuto, un enunciato ed è realizzato da un'enunciazione, dall’atto che produce concretamente il testo. L’enunciazione, come ve­ dremo meglio in seguito (cap. 5), non è un fatto puramente extralingui­ stico (o extrasemiotico), anzi in genere è rappresentata in maniera molto ricca e articolata nel testo, perché consente effetti comunicativi di grande efficacia. Parole come «io», «oggi», «qui», «tu», «domani», gesti come il mostrare qualcosa puntandoci il dito sopra, segni indicali come frecce, ecc., dispositivi mediatici come lo sguardo rivolto alla macchina da presa, sfruttano tutti gli effetti di enunciazione che strutturano un testo. Mentre è possibile studiare questi effetti e altri analoghi restando all’interno del testo, il luogo semiotico in cui essi hanno propriamente effetto è il discor­ so, quando esso viene effettivamente enunciato.

Sul paratesto, vedi Genette 1966. Sull’enunciazione, un testo com­ plessivo è Manetti 1999. La nozione di testo è piuttosto problematica. Ivan Illich 1993 suggerisce che la testualità sia stata inventata nel XIII se­ colo; Lotman 1970 ne parla come di un fenomeno che va pensato al pas­ sato. Fausto Colombo 1986 propone una doppia referenza etimologica a «testis» (= testimone) e a «textum» (= tessuto). Eco 1968, 1990, 1994, 1995 ne ha studiato a lungo la dialettica fra «apertura», «intenzione» e «interpretazione» (ma parlando piuttosto di «opere» che di «testi»); Co­ lombo ed Eugeni 1996 discutono estensivamente l’applicazione di que­ sta nozione ai testi visivi.

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3.7. Topic, enciclopedia, isotopia Si è accennato prima all’aspetto arbitrario del ritaglio di un testo (o de­ coupage, come si usa dire, con un termine francese tratto dalla teoria del cinema) e a come il testo (o piuttosto chi lo produce) possa cercare di de­ terminare questo ritaglio usando opportuni metasegnali paratestuali. In realtà l’operazione di decidere un testo, e quindi di interpretarlo, non è af­ fatto semplice e non viene compiuta d’impulso o a caso, anche se per lo più, dove i segnali paratestuali sono consueti e chiari, a noi il découpage può sembrare intuitivamente evidente e già dato, obbligatorio più che ar­ bitrario. Se si bada però a casi meno banali, come quando si tratta di stabilire un testo estetico o di decidere la scansione di un testo all’interno di un flus­ so testuale continuo come quello delle radio e delle televisioni, o ancora se bisogna ritagliare un testo in un mezzo non ben noto come lingue o scritture sconosciute, emerge il processo di decisione da parte del lettore del testo. E soprattutto diventa chiaro che questo processo coincide con l’altro per cui si stabilisce «a proposito di che» è un testo, vale a dire qual è il suo argomento. Uno dei requisiti essenziali perché un segmento del processo (o l’insieme di più segmenti considerati congiuntamente) possa essere sensatamente considerato un testo è che si possa dire intorno a che cosa verte, a quale domanda risponde: in termini semiotici, qual è il suo topic. Difficilmente si potrà trovare interessante ritagliare come testo un’accozzaglia di parti del processo rispetto a cui non è possibile trovare un elemento di unificazione. Il topic (o tema) è la risposta (sempre provvisoria) a una domanda che il lettore rivolge al testo, e che grosso modo equivale a: «ma di che cosa stai parlando?». In altre parole, la scelta di un topic può essere immagi­ nata come la proposta di un titolo provvisorio con il quale il lettore cerca di riassumere il contenuto semantico di una certa porzione di testo. Dato per esempio un testo come: «prendete 200 grammi di farina, quattro uo­ va, una noce di burro e un etto di zucchero», il topic selezionato sarà qual­ cosa come «ricetta di cucina». Se invece il lettore è un po’ più esperto in materia culinaria, potrà proporre un topic più analitico, del tipo «ricetta per preparare la pasta frolla». La scelta e il livello di analiticità di un topic dipende in parte dalla competenza enciclopedica del lettore (e da quanto essa coincida con quella implicita nel testo). Quando il lettore prende in mano un testo nuovo, di solito il titolo lo aiuta a individuare il topic (un’operazione che viene detta topicalizzazione), selezionando fin dal principio il campo semantico nel quale deve muoversi per interpretare il testo. Ma si sa che talvolta i titoli sono volu-

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tamente ingannevoli o mancano. E comunque, per quanto un titolo sia fe­ dele alle intenzioni del testo, non potrà mai riassumere l’intero contenuto dell’opera. Il topic può avere varie estensioni. Può riassumere un solo segmento del testo (ad esempio, il topic della prima parte della fiaba di Cappuccetto rosso sarà «una bambina si reca dalla nonna per portarle dei dolci e, nel bosco, incontra un lupo»), oppure - a lettura ultimata - può cercare di co­ prire l’intero corso degli eventi descritti («è un racconto ammonitore su come non bisogna dare retta agli sconosciuti», oppure «è la storia dell’e­ terna lotta tra Bene e Male», o ancora «è la rappresentazione dei conflitti psicologici di un’adolescente che soffre del complesso di Edipo»). Vale la pena di ripetere che una delle condizioni fondamentali affinché una serie di enunciati possa essere intesa come un testo, e non come un semplice agglomerato di frasi staccate tra loro, è che tra gli enunciati sia possibile tracciare dei legami di coerenza semantica, cioè che si possano in­ dividuare fra loro dei riferimenti incrociati. In altre parole, è un testo un insieme di enunciati che può essere riassunto sotto un unico titolo, o to­ pic. Nel caso in cui non sia possibile trovare un topic comune che lega tra loro i vari enunciati, allora non avremo un testo: Oltre diecimila persone in piazza del Duomo, a Milano. Mistero fitto su­ gli autori dell’inserzione, ma si tende a escludere uno scherzo. Con lei salgo­ no a undici le persone contagiate dalla metà di ottobre, quando l’epidemia si diffuse nella regione. Allarme per un anziano turista olandese disperso la not­ te dell’incendio.

Ma è proprio vero che in questo caso non avremo alcun piano di coe­ renza semantica? Basta che si scelga un topic del tipo «frasi prese a casac­ cio dalla prima pagina del ‘Corriere’ del 4.12.1994», e diventa di nuovo possibile tracciare un piano di coerenza. Si capisce allora che la coerenza semantica di un testo non è data in senso assoluto, ma è sempre coerenza rispetto a qualcosa. Questo qualcosa - l’argomento di cui si sta parlando - è per l’appunto il topic, il tema del discorso (ciò di cui si parla). Bisogna allora riconoscere che il topic non è un dato interno al testo, un aspetto della sua sintassi, e non è racchiuso nemmeno nel suo sempli­ ce significato, non è definito dalla sua semantica. Esso, in definitiva, è il frutto di un’operazione pragmatica compiuta dal lettore che, sulla base dei suoi interessi e delle sue conoscenze nell’interpretare porzioni successive di testo, le riduce e le conserva sotto forma di titoli riassuntivi. La topicalizzazione di un testo è un’operazione di messa a fuoco del testo stesso in base ad una certa ipotesi di senso, e dipende dunque dall’iniziativa del let­ tore nonché dalla sua competenza enciclopedica.

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» 3.7.1. Enciclopedia

La nozione di enciclopedia (e di competenza enciclopedica, che da que­ sta deriva) è di grande importanza nell’analisi dei fatti comunicativi. Per capire come si comprenda un brano letterario, un articolo di giornale, un film o un quadro, non basta supporre che il lettore conosca il lessico, cioè le pure forme dell'espressione pertinenti a quel fenomeno comunicativo. Non basta neppure disporre di un codice, di una tabella che accoppi ogni elemento del piano dell’espressione con un elemento del piano del conte­ nuto, come fa un dizionario. Anche perché, l’abbiamo visto a proposito dell’interpretante, gli elementi che fungono da contenuto nei codici han­ no a loro volta senso solo in quanto significanti di altri codici, e così via. Ogni lettore interpreta i testi cui si trova di fronte anche sulla base del­ la sua conoscenza del mondo, che egli condivide in maniera più o meno estesa, ma in genere piuttosto completa, con il suo ambiente sociale. Per capire un articolo di giornale sulla politica degli Stati Uniti, occorre sape­ re chi siano in questa fase i nemici dell’America, chi i suoi alleati, chi sia il presidente e così via. La stessa esigenza si presenta, in maniera maggiore o minore, per comprendere un film o una poesia come un trattato scien­ tifico. Questo complesso di conoscenze e credenze sul mondo condiviso in un certo tempo e in una certa società, che chiamiamo {'enciclopedia di quel parlante o gruppo di parlanti (e che può naturalmente essere in parte fal­ so o inesatto) è lo sfondo di senso per ogni evento comunicativo. Si tratta di un insieme in parte disordinato di narrazioni, definizioni, conoscenze fattuali, immagini, luoghi comuni, elenchi di cose e di possibilità, che è pressoché impossibile rappresentare in maniera ordinata e coerente. Tale costituzione prossimativa e talvolta perfino illogica enciclopedia costi­ tuisce una delle grandi difficoltà di principio dell’intelligenza artificiale. Per comprendere correttamente La Divina Commedia bisogna condi­ videre (almeno provvisoriamente) l’enciclopedia dei contemporanei di Dante, «sapere» cioè che l’inferno sta sottoterra, che il Purgatorio è una montagna che sorge in mezzo alI’Oceano oltre le «Colonne d’Èrcole» (più o meno dove noi «sappiamo» che si trova l’America), che la Lussuria è un grave peccato e così via. Quanto un’enciclopedia rispecchi davvero la realtà non è un problema, qui: stiamo parlando del deposito delle cono­ scenze condivise in un certo tempo e luogo, e non importa se esse siano ri­ conosciute come vere o false da quell’altra Enciclopedia che noi condivi­ diamo e che crediamo vera (magari con ragioni più solide di Dante). Bi­ sogna considerare che per moltissime conoscenze, ci fidiamo semplicemente della nostra enciclopedia. Chi di noi ha davvero le prove dell’esi­ stenza di Napoleone, della bomba atomica, o delle Isole Fiji, del motore elettrico nella locomotiva del treno su cui viaggiamo? Difficilmente qual­ cuno ha visto questi oggetti o ha esaminato le prove della loro esistenza o

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funzionamento. Ci fidiamo della nostra conoscenza di sfondo o enciclope­ dia, perché senza questa fiducia non potremmo, letteralmente, vivere. ►► 3.7.2. Isotopia

Come si è visto, il topic non è una caratteristica oggettiva del testo, ma è sempre una scelta di chi lo legge, che può essere beninteso indirizzata e guidata dal testo stesso, ma che non può essere risolta definitivamente a priori - tant e vero che ci sono molti modi di ritagliare un testo. Che una poesia ci parli dell’essenza dell’amore o piuttosto della biografia del suo au­ tore, che una soap opera ci illustri una vicenda familiare o Vamerican way of life, che un film ci racconti una storia emozionante o ci esibisca le grazie di un’attrice è, entro certi limiti, una decisione nostra. Vi possono essere cioè diverse letture dello stesso testo, che dipendono dalla posizione del lettore, dal tempo in cui egli si colloca, dalla sua condizione sociale, dal genere, dal­ la classe, dall’autodefinizione etnica che egli si dà, ma anche in genere dal­ le sue credenze, dalla sua ideologia, dall’insieme delle sue conoscenze. Diverso è il caso dell’isotopia, che pure ha molto in comune con il to­ pic. Ma mentre il topic è un’operazione pragmatica compiuta dal lettore, l’isotopia è una struttura semantica che si può considerare già inerente al testo stesso. L’isotopia è definibile come «la coerenza di un percorso di let­ tura» (secondo una definizione di Eco 1979, p. 93). Si tratta di una carat­ teristica intrinseca del testo, spesso progettata come tale, la quale deve però essere riconosciuta dal lettore tramite l’operazione pragmatica della scelta del topic. Dato un enunciato come «questo tenore è un cane», il par­ lante italiano competente osserva subito che tra i lessemi «tenore» e «ca­ ne» è possibile, in base alle regole della sua enciclopedia, una sovrapposi­ zione semantica (o amalgama). Secondo l’accezione codificata di «cane» come «cattivo cantante» (dovuta all’informazione semantica che si trova nell’enciclopedia secondo cui il cane è un animale che usa produrre sgra­ devoli latrati) e quella che definisce il tenore come un certo tipo di can­ tante, c’è un punto di collegamento, di sovrapposizione tra i significati di «cane» e «tenore». In altri termini, le due parole condividono qualche marca semantica, e la loro combinazione consente l’instaurarsi di un pia­ no di coerenza semantica che percorre l’enunciato, un’isotopia. Non appena il frammento di testo considerato si faccia più esteso, al­ lora la scelta di un’isotopia che percorre il discorso può diventare più sem­ plice, perché più parole rimandano a campi semantici comuni, identifi­ candola con precisione e perfino con ridondanza e autorizzando la scelta del percorso semantico uniforme. Per esempio, se qualcuno dice che «quella segretaria è un vero cane da guardia, non tradirà mai il suo capo», il percorso isotopico riguarda un’altra marca semantica dell’animale cane,

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la «fedeltà», com’è confermato dalla presenza del verbo «tradire», dalla specificazione «da guardia», ecc. Greimas definisce l’isotopia «un insieme di categorie semantiche ri­ dondanti che rendono possibile la lettura uniforme della storia». Ridon­ danza, lo ricordiamo, è quel fenomeno per cui il linguaggio e la comuni­ cazione in generale sono più ricchi e complessi di quel che sarebbe stret­ tamente necessario, in termini matematici, per il passaggio dell’informa­ zione contenuta in un testo. Parte della ridondanza, sul piano sintattico, serve a contrastare il rumore dell’ambiente e a rendere più difficili equi­ voci e incomprensioni. Parte invece serve sul piano semantico per così di­ re da incastro per le diverse unità testuali, in modo da garantire unità al testo. Se si dice: «Paolo rovesciò la bottiglia. La tovaglia era tutta mac­ chiata», la coerenza fra le due frasi, che un computer non potrebbe risol­ vere su un piano semplicemente sintattico, è assicurata dal fatto che nella nostra enciclopedia sappiamo che nelle bottiglie si trova spesso del vino, che il vino si serve spesso a tavola, che le tavole da pranzo sono spesso ri­ coperte da tovaglie, che i liquidi contenuti in bottiglie rovesciate si spar­ gono, impregnando ciò su cui stanno appoggiati, che infine il vino è colo­ rato e quindi macchia i tessuti. Tutte queste deduzioni, che mi servono a comprendere la coerenza di un testo molto semplice e breve, sono tratte dalla nostra enciclopedia, da quel sapere di sfondo che ci permette di abi­ tare il nostro mondo e che è incamerato nella semantica del linguaggio. La possibilità di trovare dei punti di contatto tra i significati dei vari termini impiegati da un testo e di fare delle ipotesi su ciò che quel testo non dice ma può essere ricavato dal sapere comune dei parlanti, consente insomma lo stabilirsi di un percorso di lettura uniforme e internamente coerente.

Ci sono poi testi pluri-isotopici, che consentono cioè più di un percor­ so di lettura. Un esempio è fornito da certi giochi enigmistici, come le «crittografie mnemoniche»: dato, ad esempio, il crittogramma fede assoluta —> credenza piena

«l’individuazione del sinonimo appropriato, che permette la soluzione, è resa possibile solo dalla necessità della sua omonimia con un altro livello isotopico» (Violi e Manetti 1978, p. 18). In altre parole, la sostituzione si­ nonimica è resa possibile dal fatto che la seconda espressione è passibile di una duplice chiave di lettura («credenza» come fede e come mobile; «piena» come colma e come totale), e che una delle due isotopie coincide con quella attivata dalla prima espressione. Gli stessi meccanismi sono spesso all’opera nei giochi di parole che si fanno nel discorso quotidiano e nel linguaggio pubblicitario che cerca nell’arguzia una giustificazione e

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una complicità col lettore. Vi sono poi testi allegorici, come le parabole evangeliche o le favole di Fedro, che possono essere letti sia secondo il lo­ ro senso più immediato e letterale, sia secondo una chiave di lettura se­ condaria e autonoma. Ogni testo che non sia piattamente denotativo, ma che invece abbia qualche ambizione estetica, tende a giocare con le possibilità che le paro­ le gli offrono di trasmettere più percorsi di senso possibili contempora­ neamente. Si pensi al meccanismo comunicativo delle barzellette, in cui l’effetto di sorpresa comica è solitamente generato dalla connessione fra due isotopie completamente divergenti all’interno della stessa storiella. Il destinatario della barzelletta individua l’elemento disgiuntore, compatibi­ le con entrambi i percorsi isotopici, che permette il passaggio inatteso da un livello all’altro. Tipico è il caso di alcuni slogan pubblicitari, come la campagna promozionale di un’emittente televisiva imperniata sulla dop­ pia isotopia di enunciati come «la Tv senza fede», «la Tv senza sgarbi» e «la Tv senza frizzi».

Sul topic, vedi Eco 1979 e Violi e Manetti 1979. In linguistica, il topic (o tema) viene distinto dal comment (o rema): mentre il topic è «ciò di cui si parla», il comment è «ciò che se ne dice», ovvero la proprietà che viene predicata a proposito del topic. Nell’esempio fornito da Violi e Ma­ netti, data la frase «la pace è in pericolo», «la pace» rappresenta il topic, mentre «è in pericolo» costituisce il comment. Per approfondire il concetto di isotopia, vedi Greimas 1966, Greimas e Courtès 1979, Eco 1979 e Marsciani e Zinna 1991. Sulla struttura biisotopica dei crittogrammi, vedi Violi e Manetti 1978, mentre un’analisi del meccanismo semiotico della barzelletta si trova in V. Morin, La bar­ zelletta, in AA.VV. 1966.

4. Storie

Le storie sono testi particolari, che hanno grande diffusione in tutte le società umane. Alle storie affidiamo il nostro divertimento, con romanzi, film, commedie, favole, poemi. Ma sono storie anche molti testi religiosi, i miti che contengono la spiegazione che molte società danno della strut­ tura della realtà, delle proprie origini e dei propri valori. Spesso hanno ca­ rattere narrativo anche i testi che regolano la struttura sociale, i testi per­ suasivi come quelli pubblicitari, le istruzioni per l’uso di oggetti e regole sociali. La semiotica della cultura, seguendo Lotman e Uspenskij 1973, distin­ gue fra due grandi classi di sistemi sociali: le culture testualizzate, in cui prevale la narrazione e le culture grammaticalizzate in cui invece prevalgo­ no testi in cui le regole sociali sono stabilite in maniera esplicita (codici per il diritto, enciclopedie e trattati per la conoscenza, professioni di fede e trattati di teologia per la religione, manuali per le istruzioni per l’uso). Ne riparleremo in seguito (cap. 9). Naturalmente i due sistemi non sono mutuamente esclusivi: la nostra società è fortemente grammaticalizzata per quanto riguarda l’accumulo e la trasmissione della conoscenza; ma questo non le impedisce di produrre e contenere delle narrazioni in ambiti diversissimi. In generale le culture veramente testualizzate sono quelle caratterizzate dall’oralità primaria, cioè dall’assenza di scrittura (mentre le manifestazioni prevalentemente verbali di società dotate di scrittura sono raccolte sotto l’etichetta di ora­ lità secondaria, proposta da Ong; cfr. § 7.5). Le società che non hanno eia-

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borato mezzi grafici complessi per conservare la memoria sociale (scrittu­ ra, ideogrammi, sistemi di nodi degli aztechi, ecc.) si trovano a dover da­ re ai loro ricordi una forma tale da assicurarne la conservazione esclusivamente attraverso la memoria. A questo fine un racconto è molto più effi­ ciente di un trattato, soprattutto se è caratterizzato da una struttura ade­ guata: versi, ripetizione di clausole ed epiteti degli eroi e così via. Le so­ cietà grammaticalizzate sono invece in genere depositarie di un sistema misto, mescolano storie e testi non narrativi in misura variabile.

Del rapporto fra oralità e scrittura parleremo più a fondo in seguito. Vedi comunque Ong 1982. Sulla tipologia delle culture vedi Lotman e Uspenskij 1973, 1975.

4.1. Livelli della narrazione La diffusione e l’importanza delle storie giustificherebbero da sole il grande interesse che la semiotica, soprattutto negli ultimi decenni, ha de­ dicato alla narrazione. Ma vi è anche chi (come A.J. Greimas) sostiene che sotto ogni testo, si tratti di un’immagine o di una ricetta di cucina, di un libro scientifico o ovviamente di un racconto, si può trovare un livello nar­ rativo, che dà ragione delle caratteristiche più rilevanti del testo stesso. Naturalmente la fertilità di questo approccio dipende da quel che si in­ tende per narrazione, cioè da cosa l’attribuzione di una nascosta struttura narrativa possa aggiungere all’analisi di un testo che intuitivamente ci ap­ pare non narrativo. Greimas 1983 ha affrontato questa sfida analizzando per esempio la ricetta tradizionale di una zuppa al pesto con criteri narratologici, ma anche Lévi-Strauss ha mostrato come possa essere utile af­ frontare con categorie analoghe miti, strutture di parentela, altri elementi simbolici delle culture. Per verificare queste ipotesi non vale certamente la pena di lavorare su una semplice definizione di narrazione, per vedere poi in che misura que­ sto o quel testo vi corrisponda: una strategia così banale e nominalista non ci permetterebbe di procedere molto nell’analisi dei testi. È più interes­ sante cercare invece di capire come funzionano in generale le narrazioni, a partire da un repertorio comune di testi sicuramente narrativi (come ro­ manzi, racconti, fiabe, film di fiction, ecc.) per poi vedere se e quanto i concetti che emergono si possano applicare in maniera fruttuosa fuori dal­ l’ambito in cui li abbiamo ricavati. Un primo progresso importante in tale direzione può venire proprio

4. Storie 73

dall’interrogarsi, concretamente, su che cosa sia una storia. Prendiamo il romanzo Guerra e pace e la sua riduzione cinematografica. O prendiamo il testo scritto dell’Amleto, una sua messa in scena e un film che ne è sta­ to tratto (per esempio quello celeberrimo con Lawrence Olivier). O pren­ diamo ancora La Divina Commedia e la sua parafrasi che si trova in certe edizioni scolastiche; l’edizione originale francese di Madame Bovary e una sua traduzione italiana. In tutti questi casi stiamo considerando le diverse versioni di una stessa storia o storie diverse? Sembra che in generale pos­ sa essere sensato ammettere non solo che un romanzo e la sua traduzione contengano la stessa storia, ma che lo stesso accada per la sua trasposizio­ ne sullo schermo, per una sua riscrittura («fedele», possiamo aggiungere per cautela), per un passaggio dal verso alla prosa e viceversa. Insomma, è ragionevole pensare che la storia non coincida con la semplice superficie del testo (altrimenti saremmo costretti a tener conto anche delle diverse edizioni di un libro, che possono avere valore bibliografico assai diverso, dei diversi allestimenti di uno spettacolo, ecc.). Per caratterizzare dal punto di vista semiotico che cosa sia una storia, bisogna insomma considerare un altro livello più astratto e generale, quel­ lo dell’intreccio o della trama, che possiamo considerare in un certo senso sottostante alla superficie espressiva del racconto e invariante rispetto al­ le diverse versioni che se ne possono dare in lingue o sostanze espressive o codici differenti: quest’aspetto invariante della storia consiste abbastan­ za chiaramente in un certo corso di eventi, raccontati in una certa succes­ sione ben determinata. Prima di procedere nell’analisi dell’intreccio, bisogna rendersi conto di quanto sia importante quel che scegliamo di tralasciare abbandonando per il momento la superficie variabile del racconto. Al livello che abbiamo indi­ cato come superficie appartengono infatti buona parte delle caratteristiche che possono fare di una storia un’opera d’arte, o anche solo un testo grade­ vole, interessante, comprensibile. Per esempio, sta sulla superficie la «mu­ sica» di un testo, il fatto di essere in versi e la qualità di questi versi, le scelte lessicali e sintattiche di una prosa (con le eventuali punte sperimentali che rinnovano questo aspetto), le inquadrature e lo stile di montaggio di un film, gli aspetti personali dell’interpretazione di un attore, la pennellata caratte­ ristica di un pittore, l’inquadratura esatta di una foto, la grana di un’imma­ gine. Ancora, appartiene alla superficie quell’aspetto importante della nar­ rativa che è il tono di voce, cioè il modo di suggerire connotazioni ed ele­ menti impliciti attraverso una sorta di «presenza» linguistica del narratore. Anche la scelta se narrare in prima o terza persona, la focalizzazione su que­ sto o quel personaggio, la costruzione di un narratore implicito onnisciente o identificato con un personaggio: sono tutti aspetti importanti della narra­ tiva che vengono per lo più espressi a questo livello di superficie. Esaminia-

Manuale di semiotica 74

mo dunque alcuni aspetti della superficie del testo narrativo prima di ad­ dentrarci nei suoi livelli più «profondi».

La superficie espressiva (o manifestazione lineare) di un testo è, indi­ pendentemente da ogni contenuto specifico che possiamo attribuire al te­ sto, il livello del significante, della pura espressione. E la successione del­ le parole (o delle immagini) intese in se stesse, come realtà concreta e per­ cepibile. Nel caso dei testi figurativi, la manifestazione lineare coincide con la materialità dell’immagine, prima ancora che noi realizziamo in es­ sa dei contenuti, degli oggetti corrispondenti a quelli che ritroviamo nel mondo reale. Certamente, fin dal primo momento in cui il lettore si trova di fronte alla manifestazione lineare del testo, automaticamente cercherà di inter­ pretarla in base ai codici e. ai sottocodici (che sono codici più ristretti o par­ ticolari, relativi a usi specifici della lingua) a sua disposizione, per trasfor­ mare le espressioni in un primo livello di contenuto. Così, ogni parola in­ contrata farà immediatamente scattare una serie di possibili definizioni della parola stessa, dalle quali il lettore successivamente sceglierà quelle più adeguate rispetto alla sua ipotesi di quello che è il significato più glo­ bale del testo. Ci sono dei testi volutamente ambigui che resistono a un’interpreta­ zione univoca, anche a livello del significato letterale delle singole espres­ sioni che li compongono. Si pensi al Finnegan’s Wake di Joyce: l’autore gioca con le parole, le inventa, ne mescola le radici, le sovrappone. In que­ sto caso il lavoro interpretativo del lettore è reso più arduo, ed egli è co­ stretto a soffermarsi maggiormente sulla superficie espressiva. La maggiore rilevanza della manifestazione lineare del testo è una del­ le caratteristiche che distinguono il linguaggio poetico da quello quotidia­ no. Mentre nel linguaggio quotidiano - a funzione prevalentemente refe­ renziale - noi solitamente intendiamo le parole come mero veicolo per esprimere certe idee o certe asserzioni circa eventi o oggetti del mondo reale (per cui non ci soffermiamo più di tanto sulla materialità delle paro­ le che impieghiamo), nel linguaggio poetico - in cui la funzione estetica è più spiccata - vengono talvolta introdotti certi artifici mirati a manipola­ re la superficie espressiva del testo e, pertanto, a disturbare l’automatismo della percezione e dell’interpretazione referenziale. Ad esempio, viene in­ vertito il tradizionale ordine sintattico delle parole («Sempre caro mi fu quest’ermo colle»), oppure si gioca sull'allitterazione («Il pietoso pastor pianse al suo pianto») o sulla paronomasia (come nel celebre slogan elet­ torale del generale Eisenower «I \ike Ike» analizzato da Jakobson), o an­ cora vengono accostati termini che normalmente occupano campi seman­ tici remoti, come accade nelle metafore. Di fronte alla trasgressione dei co-

_______________________________________________________ 4. Storie 75 dici e dei sottocodici stilistici, l’interprete si trova inizialmente spaesato, è costretto a soffermarsi maggiormente sulla materialità concreta dell’e­ spressione e, talvolta, a giocare contemporaneamente con più ipotesi in­ terpretative alternative, senza essere in grado di scegliere immediatamen­ te tra l’una e l’altra. In questo senso si dice che la poesia deautomatizza il linguaggio quotidiano, infondendogli un rinnovato vigore.

Questo fenomeno di deautomatizzazione del linguaggio ordinario, no­ to come straniamente, si ritrova spesso anche nel copy pubblicitario o nei titoli dei giornali, dove la manipolazione del piano dell’espressione svolge il compito di attirare l’attenzione del destinatario sul messaggio. Bisogna peraltro aggiungere che l’infrazione linguistica stessa può perdere man mano il proprio originario impatto innovativo laddove venga accettata co­ me norma artistica. Se l’infrazione entra nel canone, essa perde la sua for­ za di procedimento «impediente»; la metafora si catacresizza (nessuno pensa più al senso figurato di un’espressione come «la gamba del tavolo»), il neologismo diventa una voce dizionariale riconosciuta, la deviazione sti­ listica cessa di sorprendere. Lo straniamento consiste nell’estrarre le cose percepite dal loro conte­ sto abituale per sottolinearne la stranezza, che solitamente non appare co­ me tale in quanto la cosa in questione viene data per scontata. La mani­ polazione della superficie espressiva del testo può pertanto contribuire a rendere strano ciò che a prima vista sembra abituale e banale. A titolo di esempio, si cita spesso il racconto di Tolstoj, intitolato Cholstomer, in cui l’azione narrativa viene filtrata attraverso il punto di vista di un cavallo che si interroga circa i comportamenti degli uomini, sottolineando l’assurdità di alcune delle loro istituzioni sociali, come l’istituto della proprietà: gli uomini, dice il cavallo, sembrano più interessati alla possibilità di dire che un certo terreno è loro, piuttosto che di godere dei suoi frutti.

Il concetto di straniamento è stato introdotto per la prima volta dai for­ malisti russi nei primi decenni del '900. In polemica con la tradizione criti­ ca dominante dell’epoca, che si concentrava quasi esclusivamente su fatto­ ri extra-testuali quali la biografia degli autori empirici e il contesto sociale e ideologico in cui gli artisti lavoravano, i formalisti erano interessati a ca­ pire come funzionava internamente un testo letterario (con quali procedi­ menti). Sul formalismo russo, vedi Erlich 1964 e Todorov 1965. Sullo stra­ niamento, vedi in particolare, il saggio di Viktor Sldovskij dal titolo L’arte come procedimento (in Todorov 1965). Nella storia del teatro contempora­ neo, è stato Bertolt Brecht a sottolineare l’importanza dello straniamento per dare al teatro un valore didattico e politico: vedi Brecht 1957.

Manuale di semiotica 76

4.2. Focalizzatori e narratori La questione del punto di vista merita un’attenzione particolare, come ha suggerito Gérard Genette (1972): infatti, uno dei procedimenti ricor­ renti nella narrativa moderna per movimentare la superficie espressiva di un racconto (con importanti ripercussioni sul piano del contenuto) è di filtrare la storia attraverso un punto di vista selettivo (o prospettiva). Pre­ messo che il focalizzatore di un racconto è il personaggio il cui punto di vi­ sta orienta l’azione narrativa (per cui il focalizzatore di Cholstomer è il ca­ vallo), sono possibili tre diversi tipi di prospettiva narrativa: (a) racconto a focalizzazione zero-, è il racconto tradizionale, dove il foca­ lizzatore non coincide con nessuno dei personaggi ed è onnisciente (come nei Promessi sposi), per cui al lettore è dato di conoscere i pensieri dei personag­ gi e di conseguenza di saperne di più di ciascuno di loro; (b) racconto a focalizzazione interna-, la prospettiva narrativa coincide con quella di uno dei personaggi (come nei racconti e nei film in cui la storia è fil­ trata attraverso il punto di vista di un bambino che osserva il mondo dei gran­ di), di modo che il lettore ne sa quanto uno dei personaggi. A sua volta, la fo­ calizzazione interna può essere fissa (come in Cholstomer), variabile (quando la prospettiva slitta da un personaggio all’altro, come in Madame Bovary, do­ ve il punto di vista dapprima coincide con quello di Charles e poi con quello di Emma), o multipla (come nel film Rashomon, nei romanzi epistolari o nell’Insostenibile leggerezza dell’essere) dove lo stesso evento viene evocato varie volte da diverse prospettive; (c) racconto a focalizzazione esterna, o racconto «oggettivo»: il lettore as­ siste all’azione narrativa senza che gli venga mai concesso di conoscere i pen­ sieri o i sentimenti dei personaggi; si pensi ad alcuni romanzi di Hemingway o alla pretesa naturalista e verista di fornire una rappresentazione imperso­ nale della realtà.

Talvolta un testo introduce al proprio interno un’alterazione della pro­ spettiva, «tradendo» il tipo di focalizzazione su cui si fonda. Ad esempio, può accadere che un racconto a focalizzazione interna deliberatamente ometta di fornire al lettore un’informazione importante o un pensiero del protagonista focalizzato (tale omissione viene chiamata parallissi): caso classico, il romanzo di Agatha Christie, Dalle nove alle dieci, in cui fino al­ la fine il testo tralascia di dire che il colpevole dell’omicidio è proprio il fo­ calizzatore. Il caso opposto (parallesst) si ha quando un racconto tornisce un eccesso di informazione, ad esempio facendo incursione nei pensieri di un personaggio all’interno di un racconto a focalizzazione esterna. A questo punto occorre sottolineare che il focalizzatore di un raccon­ to non coincide necessariamente con il suo narratore, sebbene molto spes-

4. Storie 77

so i due ruoli si sovrappongano. Laddove il primo corrisponde al perso­ naggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa (dunque, a co­ lui che vede), il narratore è colui che parla, ovvero la voce narrativa: Em­ ma Bovary è la focalizzatrice interna della seconda parte del romanzo di Flaubert, ma non ne è la narratrice, in quanto il romanzo è narrato in ter­ za persona. Il narratore non va nemmeno identificato con l’autore: evi­ dentemente, Daniel Pennac non è Benjamin Malaussène, Daniel Defoe non è Moli Flanders e Lev Tolstoj non è un cavallo. Né, d’altra parte, es­ so corrisponde a quel ruolo comunicativo astratto che la semiotica inter­ pretativa definisce autore modello (vedi § 6.1). Non sempre il narratore si esprime in prima persona: si dice che il nar­ ratore è extradiegetico quando esso è un narratore di primo livello che non compare come tale nel testo, come accade normalmente nelle fiabe, dove la voce narrante è impersonale: «C’era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figlioli, ma tanto disperati, da non potersi di­ re quanto». 1° livello narratore extradiegetico

>

2° livello racconto (intra)diegetico

Accade talvolta che il racconto di secondo livello (quello che fa capo al narratore extradiegetico) racchiuda un racconto di terzo livello: il nar­ ratore si definisce intradiegetico quando si trova all’interno del secondo li­ vello di racconto e, a sua volta, narra una storia di terzo livello (come fa Shahrazàd nelle Mille e una notte). 1° livello narratore extradiegetico

>

2° livello racconto > (intra)diegetico narratore intradiegetico

3° livello racconto metadiegetico

Prendiamo ad esempio una celebre filastrocca per bambini: C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva «racconta­ mi una storia». La serva cominciò: «C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva ‘racconta­ mi una storia’. La serva cominciò...», ecc.

In questo caso, abbiamo un narratore extradiegetico, invisibile nel te­ sto, al quale fa capo il racconto; all’interno del racconto si trova una nar­ ratrice intradiegetica (chiamiamola «serva 1») che racconta la storia di ter­ zo livello; a sua volta, il racconto metadiegetico racchiuderà un quarto li-

Manuale di semiotica 78

vello (narrato dalla serva 2), e così via all’infinito - o almeno fino all’esau­ rimento della pazienza dell’ascoltatore.

In base a un diverso principio di classificazione, il narratore può esse­ re classificato come eterodiegetico o omodiegetico, a seconda del fatto che partecipi o meno alla storia che racconta in veste di personaggio: il narra­ tore eterodiegetico è colui che non prende parte agli eventi di cui narra (Shahrazàd), laddove il narratore omodiegetico è colui che partecipa co­ me personaggio nella storia che racconta (Carraway nel Grande Gatsby).

Si presentano dunque quattro possibilità: 1) narratore extradiegetico (di primo livello) e eterodiegetico (che non partecipa come personaggio all’azione narrativa): ad esempio, narratore di poemi epici; 2) narratore extradiegetico (di primo livello) e omodiegetico (personaggio nella vicenda), come il narratore di un’autobiografia; 3) narratore intradiegetico (di secondo livello) e eterodiegetico (assente come personaggio): Shahrazàd; 4) narratore intradiegetico e omodiegetico: Ulisse che, all’interno dell’Odissea (canti IX-XI) racconta la storia di cui egli stesso è protagonista.

In sintesi: narratore

extradiegetico

intradiegetico

eterodiegetico

Omero

Shahrazàd

omodiegetico

Silvio Pellico

Ulisse, canti IX-XI

La controparte del narratore è il narratario, ovvero colui che riceve il racconto del narratore. Nei testi a narratore intradiegetico (di secondo li­ vello), anche il narratario lo è: in Cuore di tenebra di Conrad, il narratore Marlow rivolge il suo racconto ad un pubblico di marinai; al contrario, un narratore extradiegetico può solo rivolgersi a un narratario di primo livel­ lo che, come tale, è assente dal testo (confondendosi con il suo destinatario virtuale).

Sui diversi tipi di focalizzatore e di narratore, vedi Genette 1972 e Bai 1977. Una trattazione critica di questi concetti si trova in Pugliatti 1985. Sulla nozione di narratario, vedi Prince 1973 e Genette 1972.

_____________________________________________________________________ 4. Storie 79

4.3. Ritmo Un altro aspetto essenziale della superficie di un testo narrativo è il suo ritmo. In pratica questo significa: la sua capacità di influenzare i tempi e i modi di lettura. È evidente che ci sono dei testi che presentano una dura­ ta precostituita rispetto al lettore, come il cinema, la televisione (salvo l’u­ so di telecomandi e videoregistratori), il teatro. Altri mezzi hanno invece una durata più libera, come i libri e i giornali. La possibilità, che abbiamo ammesso, di trovare la stessa storia espressa con mezzi diversi ci costringe a considerare i ritmi come espressione della superficie del racconto. È chiaro peraltro che anche i testi che non sono rigidamente program­ mati rispetto al tempo contengono implicitamente una durata standard della loro lettura «normale»; per esempio è ragionevole pensare che un te­ sto facile si possa leggere al ritmo di una pagina al minuto o poco meno. Quando questo testo standard è appena più lungo di pochi minuti, biso­ gna pensare che il lettore si amministri degli intervalli, delle sospensioni, ecc. Il racconto contiene in genere dei dispositivi per cercare di regolare queste modalità di lettura e di conservare la presenza del lettore: peripe­ zie, suspence, costruzione del lieto fine, ma anche capitoli, parti, ecc. Dal punto di vista del lettore, infatti, spesso il testo è uno strumento la cui funzione, più che cognitiva o referenziale (come prevederebbe una teoria puramente informazionale della comunicazione), è invece quella di strutturare e riempire il proprio tempo. Si legge, si vede cinema, si ascol­ ta raccontare molto più per «divertirsi» (cioè uscire dal tempo normale e strettamente finalizzato della vita normale) che per «imparare» - anche se le storie hanno spesso una valenza didattica. Che il testo abbia una dura­ ta è dunque essenziale per occupare il tempo del lettore; ma essa non de­ ve apparirgli noiosa: è una questione di ritmi. Il testo deve presentare la giusta densità di eventi, colpi di scena, personaggi, essere capace di in­ trattenere il lettore senza sconcertarlo per l’eccesso o annoiarlo per la ra­ rità dei fatti. Deve soprattutto organizzare questi eventi e personaggi in una forma che assicuri Varco drammatico del testo, che faccia cioè sì che le varie parti del racconto (inizio, centro, fine) siano formalmente riconosci­ bili. Vedremo in seguito come questa organizzazione strutturale del rac­ conto sia fondata su altri livelli della macchina narrativa. Ma già fin d’ora dobbiamo accennare alla capacità del testo di dare l’impressione di acce­ lerare, rallentare, indugiare, stringere le fila della storia, ecc. Come molti dispositivi semiotici, anche i ritmi sono culturalmente de­ terminati, hanno cioè una natura storica e contingente. Ci sono intricatis­ simi poemi mitici che appassionano certe popolazioni grazie alla loro na­ tura ripetitiva e alle sottili variazioni, che per noi risultano insopportabil-

Manuale di semiotica 80

mente noiosi. E ci sono delle forme di narrazione molto popolari in certe classi (i romanzi rosa, le soap operai, le cronache sportive) che risultano inaccettabilmente banali per altri gruppi. In realtà i ritmi narrativi non so­ no isolati da altre attività che hanno la stessa funzione di intrattenimento e divertimento, come la musica, lo sport, le trasmissioni radiofoniche e te­ levisive. Questa è una delle ragioni che consente di trattare tali forme di comunicazione con i concetti della semiotica narrativa. Sui ritmi e sui tempi narrativi vedi Volli 1989, 1994 ed Eco 1994.

4.4. Fabula e intreccio Passiamo ora a esaminare il livello (o, come scopriremo presto, i livel­ li) della narrazione situato più in profondità rispetto alla superfìcie del te­ sto. Abbiamo visto sopra che, se vogliamo costruire una semiotica della narrazione e dunque considerare le storie e non il funzionamento di que­ sto o quel testo concreto che le esprime, dobbiamo far astrazione di mol­ ti elementi essenziali della superficie del racconto e considerare invece un livello più astratto ed elementare, che abbiamo chiamato intreccio e defini­ to come un certo ordine di successione degli eventi del racconto. In gene­ rale questo ordine non sarà quello «naturale» in cui cronologicamente si sono (o piuttosto si sarebbero, dato che si tratta di finzione) svolti i fatti. In un tipico racconto di ricerca, di cui il genere giallo è una variante molto popolare, si tratta di scoprire i particolari di qualche evento che si è già svolto prima dell’ambito coperto dal racconto, e di cui si conoscono all’inizio solo alcuni aspetti: per esempio, bisogna capire chi sia il colpe­ vole di un omicidio di cui si può vedere la vittima, o ritrovare un oggetto che è stato sottratto. Se il racconto partisse invece proprio dal primo even­ to della sua catena causale e cronologica, cioè dall’omicidio o dal furto e magari dalle loro cause remote, l’interesse del lettore probabilmente sa­ rebbe molto scarso. Una cosa è dire che il rispettabile signor X è stato uc­ ciso, vedere all’opera un investigatore che indaga sulle circostanze dell’o­ micidio e nel passato della vittima, scopre dei fatti che rovesciano l’imma­ gine di X, per esempio facendone un adultero, e in seguito a tutto questo lavoro alla fine deduce che il suo assassino dev’essere Y. Altra cosa è dire subito che X e Y una volta erano legati, che X ha cambiato vita e abitudi­ ni, che i due hanno litigato per il loro passato e che Y ha ucciso X, per poi raccontare di un investigatore che si dà da fare per apprendere ciò che sap­ piamo già. Solo il primo montaggio della storia funziona, il secondo è sto­ ricamente corretto ma narrativamente inefficace. 1

4, Storie 81

Questa divergenza fra l’ordine del racconto e l’ordine dei fatti non ri­ guarda solo romanzi di genere come i gialli, ma anche poemi epici come {'Odissea, grandi romanzi d’arte come Alla ricerca del tempo perduto, film che contengono flashback, opere teatrali che si occupano della ricostru­ zione di eventi del passato come Edipo o che, come Re Lear, sviluppano contemporaneamente più trame. Insomma l’alterazione dell’ordine «na­ turale» è una pratica molto diffusa in un gran numero di narrazioni di­ verse. Il fatto è che un racconto non è, come si penserebbe intuitivamen­ te, l’immagine fedele di un frammento di realtà, ma un dispositivo di sen­ so che deve manipolare la nostra conoscenza di quel pezzo di mondo, on­ de ricavarne certi effetti di sorpresa, di piacere, di divertimento, di rico­ noscimento, perfino di realismo. Le storie non sono cose, non stanno nel mondo, ma si costruiscono solo con la narrazione.

Da quanto si è detto deriva comunque che alla fine della narrazione noi possiamo ricostruire un «ordine dei fatti» come si sono svolti, il quale dif­ ficilmente coinciderà con qualunque racconto effettivo, salvo le fiabe più semplici, ma che è presupposto da ciascuno ed è necessario perché la nar­ razione sia riconosciuta come sensata. Si tratta semplicemente della serie cronologica degli eventi e delle azioni che sono raccontate nella storia. Anche se il racconto effettivo di Sofocle (il suo intreccio) ci porta in medias res, su una piazza di Tebe a interrogarci sulla pestilenza che ha col­ pito la città e solo dopo una faticosa indagine ci permette di capire che tan­ to tempo prima Edipo ha ucciso il padre e sposato la madre, circostanza da cui deriva l’epidemia in corso, l’«ordine dei fatti» dell’Edipo parte mol­ to prima, almeno da quando l’oracolo profetizzò a Laio che suo figlio l’a­ vrebbe ucciso e questo figlio, Edipo, fu abbandonato alla morte fra i mon­ ti. Tale livello elementare presupposto da ogni racconto, in cui i fatti sono esposti nel loro ordine cronologico e causale, si usa chiamare fabula. I con­ cetti di intreccio e fabula sono stati introdotti nella teoria della letteratura dai formalisti russi, e in particolare da Boris Tomasevskij 1925.

Un altro contributo di Tomasevskij è l’idea che sia possibile indivi­ duare nel testo una serie di componenti tematiche elementari, tanto ri­ strette da coincidere con il contenuto delle singole proposizioni del testo. Esse vengono denominate motivi. Alcuni esempi di tali porzioni minime del materiale tematico fornite da Tomasevskij sono: «scese la sera», «Raskol’nikov uccise la vecchia», «l’eroe morì», «si ricevette una lettera». E evidente che i motivi di cui parla Tomasevskij non sono affatto le unità minime non scomponibili del testo (come vedremo in seguito par­ lando delle funzioni proppiane e dell’analisi greimasiana della narrazione) e che soprattutto non vi è alcuna garanzia metodologica circa la finitezza

Manuale di semiotica 82

del repertorio che li comprende. Prendiamo il motivo: «Raskol’nikov uc­ cise la vecchia». Esso è composto di almeno tre elementi: un soggetto, un’azione e un oggetto. In effetti, Tomasevskij non mira a ridurre il re­ pertorio narrativo a un numero chiuso di elementi, le cui possibili combi­ nazioni diano luogo all’infinita variabilità dei testi narrativi. Per lui, il con­ cetto di motivo è un concetto operativo che serve all’analisi del singolo te­ sto o, al massimo, del singolo genere letterario. Ciò che più lo interessa è il modo in cui tali motivi si combinano fra lo­ ro per formare la struttura tematica dell’opera. Così, la fabula è costituita dall’insieme dei motivi nei loro rapporti causali e temporali, mentre l’in­ treccio è l’insieme degli stessi motivi nella successione in cui essi sono dati nell’opera. In alcuni generi narrativi semplici, come la fiaba, fabula e in­ treccio tendono a coincidere: il narratore si attiene alla sequenza cronolo­ gica e causale degli avvenimenti senza introdurre digressioni o sposta­ menti temporali. Al contrario le forme narrative più complesse, nelle qua­ li balza in primo piano il problema del montaggio, giocano molto sulle possibilità di scarto tra fabula e intreccio. Gli esempi più lampanti di tale scarto sono date dai salti temporali (in avanti - prolessi - e all’indietro analessi}. Per esempio: FABULA E INTRECCIO: INVERSIONI CRONOLOGICHE

asse dei fatti (fabula)

In questo schema possiamo leggere il rapporto fra intreccio e fabula in un romanzo giallo: Fi può rappresentare le circostanze dell’omicidio (colpevole, movente, ecc.), F2 la falsa incolpazione di un innocente, F3 la sua liberazione e fuga, F4 un secondo tentativo di omicidio, F5 l’incarico a un investigatore, F6 le sue ricerche notturne e un conflitto a fuoco con l’assassino, F7 la rivelazione finale, con relativa punizione. Questi elementi saranno raccontati dal romanzo a partire dall’incarico attribuito all’inve­ stigatore, seguendo l’ordine delle conoscenze che egli via via accumula, e

4. Storie 83

dunque in un ordine diverso dalla «realtà», sicché l’evento «avvenuto» per primo, l’assassinio, sarà raccontato solo alla fine. Una stessa fabula può dunque essere raccontata in diversi modi, può dar luogo a più intrecci. Un esempio particolarmente significativo si può attingere da un «esercizio di stile» di Queneau: Annotazioni-, il testo base Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello flo­ scio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glie­ lo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vi­ cino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono la­ mentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si but­ ta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare SaintLazare. E con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché. Retrogrado-, analessi Dovresti aggiungere un bottone al soprabito, gli disse l’amico. L’incontrai in mezzo alla Cour de Rome, dopo averlo lasciato mentre si precipitava avi­ damente su di un posto a sedere. Aveva appena finito di protestare per la spin­ ta di un altro viaggiatore che, secondo lui, lo urtava ogni qualvolta scendeva qualcuno. Questo scarnificato giovanotto era latore di un cappello ridicolo. Avveniva sulla piattaforma di un S sovraffollato, di mezzogiorno.

Aspetto soggettivo I: variazione di punto di vista e analessi Non ero proprio scontento del mio abbigliamento, oggi. Stavo inaugu­ rando un cappello nuovo, proprio grazioso, e un soprabito di cui pensavo tut­ to il bene possibile. Incontrai X davanti alla Gare Saint-Lazare che tenta di guastarmi la giornata provando a convincermi che il soprabito è troppo scian­ crato e che dovrei aggiungervi un bottone in più. Cara grazia che non ha avu­ to bisogno di prendersela col mio copricapo. Non ne avevo proprio bisogno, perché poco prima ero stato strigliato da un villan rifatto che ce la metteva tutta per banalizzarmi ogni qualvolta i pas­ seggeri scendevano o salivano. E questo in una di quelle immonde bagnarole che si riempiono di plebaglia proprio all’ora in cui debbo umiliarmi a servir­ mene.

La narrativa moderna gioca molto sullo scarto tra tempo della fabula e tempo dell’intreccio: a eventi che nella fabula durerebbero molto a lungo nell’intreccio può essere dedicato molto poco spazio, altri possono essere ignorati, altri ancora possono essere per così dire ingranditi al di là della loro dimensione «reale» nella fabula. A seconda dei diversi rapporti che intercorrono tra durata della fabula e durata dell’intreccio, si possono con­ cepire quattro forme fondamentali del movimento narrativo:

Manuale di semiotica 84

TI TI TI TI

Ellissi: Sommario: Scena: Pausa:

= < = =

0, TF TF n,

TF = n

TF = 0

dove TI = tempo dell’intreccio e TF = tempo della fabula Per esempio, una notte in cui i personaggi dormono può essere sem­ plicemente ignorata (ellissi: è il caso, nello schema che segue, di E3), un lungo viaggio può essere menzionato molto brevemente (sommario: E2 —> R2), uno sguardo su un paesaggio o un ricordo può essere amplificato da una complessa descrizione (pausa: E4 -> R4), un dialogo può essere ri­ prodotto in tempo reale (scena: E1 —> Ri). MODIFICAZIONI DI DURATA NELL’INTRECCIO

asse dei fatti (fabula)

asse del racconto (intreccio)

I diversi mezzi hanno convenzioni diverse e diversa efficacia su questo punto. È chiaro che tutto il lavoro di espansione e di contrazione dell’in­ treccio, come quello di inversione cronologica, mira ad adeguare il testo a quei ritmi che sono essenziali per il piacere che ne trarrà il lettore e che so­ no la condizione essenziale del consumo di storie. Mentre ci sono narra­ zioni che non praticano inversioni nell’ordine dei fatti (tipicamente le fia­ be e i miti), è difficile pensare a testi che non comprimano l’azione, se non altro per motivi pratici. La fabula, intesa come una narrazione che non rea­ lizzi questi scostamenti dalla «successione naturale» degli eventi, è quindi uriastrazione, una sorta di ideale regolativo del racconto, che rappresenta il livello più semplice in cui una storia mantiene la propria fisionomia di ma­ nifestazione narrativa sull’asse del processo. Ma anche l’intreccio, in realtà, ha un carattere astratto. Il solo livello veramente empirico della narrazio­ ne è quello che abbiamo chiamato di superficie, con tutte le complessità che abbiamo indicate. Quello che rende simili i tre livelli della narrazione

4. Storie 85

che abbiamo studiato finora (superficie, intreccio, fabula) è il loro mani­ festarsi linearmente, secondo l’asse del processo, semplificando progressi­ vamente i fattori in gioco, ma mantenendo identificabili i contenuti nar­ rativi essenziali, come il modo in cui sono qualificati i personaggi, ciò che motiva la loro azione, il contesto spazio-temporale, le azioni che vengono compiute: I LIVELLI LINEARI DEL RACCONTO

superficie___________________________________ intreccio__________________________________

fabula

..........................................................................

Come vedremo meglio in seguito, è necessario ipotizzare però che an­ che il livello lineare più elementare della narrazione, quello della fabula, sia il prodotto di altri processi di senso più profondi: processi non lineari, che sono però capaci di spiegare il modo in cui si evolve il racconto, la sua coerenza, il modo in cui il suo topic è distribuito nel testo (isotopia). La­ vorare in direzione di questo senso più profondo della narrazione è un compito cui la semiotica non può sottrarsi. Per procedere ulteriormente in questa analisi si sono presentate però nel corso delle ricerche semiotiche due possibili strategie alternative. O si lavora sull’ipotesi che a ogni fabula si possa far corrispondere ef­ fettivamente un insieme di oggetti (magari solo di oggetti ideali) che il rac­ conto descrive; in questo caso si parte dal fatto che noi sappiamo che cer­ ti racconti (per esempio quelli storici o giornalistici) si riferiscono al no­ stro mondo reale - o almeno pretendono di farlo, tant’è vero che noi pos­ siamo giudicarli «veri» o «falsi», «esatti» o «inesatti», a seconda del fun­ zionamento di questa corrispondenza. Per analogia si può pensare che an­ che i racconti «di fantasia» si applichino a dei mondi, che non sono quel­ lo reale in cui si svolge la nostra vita, ma hanno certi rapporti con esso. Oppure si può trattare il racconto come un particolare dispositivo lin­ guistico che produce la fabula come suo effetto, e si cerca di trovare per via di analisi gli elementi linguistici (cioè sintattici e semantici) capaci di produrre quel certo racconto. In un caso e nell’altro, però, ci si muove in un ambito eminentemente teorico, si lavora cioè su entità che non sono manifestate nella linearità del processo del racconto, ma che devono essergli presupposte per spiegarlo. La prima strategia, che propone di presupporre dei mondi possibili di cui la fabula risulti essere una descrizione vera, interrogandosi sulle pro­ prietà caratteristiche degli oggetti del mondo che corrisponde a un certo

Manuale di semiotica 86

racconto, e sul formato di questo mondo, è stata adottata, fra gli altri, dal­ la semiotica interpretativa e in particolare da Umberto Eco. Per una illu­ strazione di questa linea, rimandiamo al paragrafo successivo. La seconda strategia è stata largamente adottata negli studi semiotici e narratologici, a partire almeno dal movimento formalista che fu attivo in Russia nei primi decenni del secolo, per proseguire poi con gli studi di Lé­ vi-Strauss sui miti «primitivi» e con la scuola greimasiana. Secondo que­ sto punto di vista, tutto il racconto coi suoi piaceri e i suoi contenuti, in­ clusa la sua capacità di darci la sensazione di parlare di un mondo possi­ bile, è l’effetto di superficie di una costruzione semantica e sintattica, di cui si possono analizzare gli elementi, smontando per così dire la storia co­ me l’analisi grammaticale fa con una frase qualunque del linguaggio. Nel seguito di questo capitolo ci occuperemo di tale strategia.

I concetti di intreccio e di fabula sono stati introdotti nella teoria del­ la letteratura dai formalisti russi, e in particolare da Boris Tomasevskij 1925. Nelle sue riflessioni sul rapporto tra tempo della storia e tempo del racconto, Gerard Genette 1972 si occupa dell’ordine temporale, ovvero delle relazioni fra la successione degli avvenimenti nella storia (nella fa­ bula) e la loro disposizione nel racconto (nell’intreccio), definendo anacronie (analessi e prolessi) le diverse forme di discordanza fra l’ordine della storia e quello del racconto. La questione della durata, invece, ri­ guarda il rapporto fra la durata degli avvenimenti nella storia e nel rac­ conto, rapporto che genera i quattro tipi fondamentali di anisocronie, o effetti di ritmo: ellissi, sommario, scena e pausa.

4.5. Mondi possibili I racconti possono essere considerati come dispositivi per generare mondi possibili narrativi, popolati da individui (umani o meno) legati in­ sieme da rapporti reciproci (del tipo madre-figlio, marito-moglie, ecc.), ai quali vengono «appese» certe proprietà semantiche. Ad esempio, il mon­ do narrativo di Cenerentola consiste di un insieme di individui (Ceneren­ tola, la matrigna, le sorellastre, il principe, la fata, la scarpetta, la zucca), i quali intrattengono rapporti reciproci e sono da essi definiti (Cenerento­ la è la figliastra della matrigna; la scarpetta è l’oggetto che fa congiungere la fanciulla al principe, ecc.). Inoltre, i mondi possibili della narratività contengono corsi di eventi, che a loro volta possono condurre a cambia­ menti nelle proprietà che caratterizzano i vari individui che li «abitano»:

4. Storie 87

Cenerentola ha inizialmente le proprietà di essere nubile e indigente, men­ tre alla fine è sposata con un ottimo partito. Chiamare in causa i mondi possibili è utile per una teoria della narratività quando si debba fare un confronto tra diversi stati di cose recipro­ camente incompatibili. Leggendo un libro di storia il quale si dichiari fe­ dele all’effettivo corso degli avvenimenti accaduti nel mondo reale, non è necessario immaginare che gli eventi narrati descrivano un mondo possi­ bile diverso dal mondo dell’esperienza attuale. Per interpretarli, è suffi­ ciente che facciamo riferimento al mondo cosiddetto «reale», di cui il mondo del libro di storia è (o almeno aspira ad essere) un riflesso fedele. Diventa utile parlare di mondi possibili solo quando lo stato del mondo descritto dal testo si dimostri in qualche modo incompatibile o alternati­ vo rispetto al mondo di riferimento reale, ad esempio se il testo introduce personaggi fittizi o fatti estranei rispetto alla nostra enciclopedia di base. Il mondo descritto da un romanzo di fantascienza (o da un qualunque pro­ dotto della fiction) può essere inteso come un mondo possibile - e non co­ me la semplice rappresentazione di un qualche aspetto del mondo reale perché racconta di fatti che non si conciliano con l’immagine che abbia­ mo del mondo dell’esperienza attuale. I mondi possibili della teoria della narratività sono costrutti culturali, strutture di dati che il testo narrativo consente al lettore di ricostruire in base agli indizi che il testo stesso gli fornisce. Man mano che procede nel­ la lettura, il lettore è in grado di aggiungere nuovi elementi alla costruzio­ ne mentale con la quale rappresenta a se stesso il mondo del testo. All’in­ terno del mondo narrativo della fabula, si aprono altri mondi possibili, corrispondenti agli atteggiamenti proposizionali (alle credenze, alle spe­ ranze, ai timori, alle previsioni) dei personaggi: ad esempio, in Otello, il protagonista sospetta la moglie di infedeltà, e perciò possiamo supporre che vi sia un suo mondo doxastico (ovvero, il mondo delle sue credenze), che si confronta - e viene contraddetto - dallo stato di cose descritto dal­ la fabula. II mondo narrativo delineato dal testo viene costantemente valutato sullo sfondo del mondo della nostra enciclopedia attuale. Prima di avere individuato il genere al quale il testo appartiene, il lettore può partire dal presupposto che la realtà descritta nel testo corrisponda in tutto e per tut­ to all’universo di riferimento (cioè all’immagine del mondo contenuta nell’enciclopedia). È il mondo di cui parlano i libri di storia e di scienze natu­ rali: un universo in cui Cesare sia morto nel 44 a.C. e in cui il cane sia un mammifero quadrupede. Questa assunzione viene data per buona fino al momento in cui il testo non indichi chiaramente che, su un certo punto, esso si discosta rispetto al mondo dell’esperienza reale, per esempio in­ troducendo un personaggio inesistente o un paese «lontano lontano», co-

Manuale di semiotica 88

me quello delle fiabe, o addirittura dei dispositivi tecnologici mirabolanti come quelli della fantascienza. Nel momento in cui si instaura tale scarto tra mondo del testo e mondo «reale», ci troviamo all’interno di un mon­ do possibile. Come si vede, i mondi possibili sono tali solo in rapporto al mondo del­ l’esperienza attuale, che funge da parametro a partire dal quale misurare le deviazioni introdotte dai testi specifici. Così, nel momento in cui il lu­ po della fiaba inizia a parlare, il lettore comincia a configurarsi un mondo della fiaba in qualche modo difforme rispetto al mondo della sua cono­ scenza. Si osservi che il mondo della conoscenza scientifica è a sua volta un costrutto culturale. Noi oggi riteniamo che le balene siano dei mammife­ ri e che i lupi non parlino (e abbiamo dei buoni motivi per farlo), ma la cultura medievale aveva elaborato delle definizioni diverse delle balene e dei lupi (ad esempio, non veniva esclusa la possibilità che ci fossero dei lupi mannari), e nessuno ci garantisce che al suo stato attuale la scienza sia pervenuta a definizioni che in futuro non possano venir rimesse in di­ scussione. Affinché sia possibile far comunicare tra di loro il mondo pos­ sibile narrativo e il mondo dell’esperienza reale, per capire in quali pun­ ti essi divergano, è necessario trattarli entrambi come costruzioni con­ cettuali. La differenza fondamentale tra il mondo possibile della narrazione e quello di riferimento è che, mentre quest’ultimo è complesso e ricco, in quanto comprende tutte le interpretazioni che la nostra cultura ha elabo­ rato attorno ai suoi oggetti, il primo è un piccolo mondo parassitario ri­ spetto al mondo di riferimento. E parassitario perché, se il testo non spe­ cifica delle proprietà alternative, il lettore dà automaticamente per scon­ tate le proprietà che valgono nel mondo reale. Se la fiaba ci parla di una casetta nel bosco, noi accettiamo implicitamente che il bosco sia fatto di alberi (vegetali, forniti di tronchi e di foglie, per lo più verticali, ecc.) e che la casa abbia una porta e delle finestre e dei muri (presumibilmente co­ struite in legno, in pietra o in mattoni, ecc.). Le nostre aspettative vengo­ no messe in discussione, costringendoci a correggere il valore per difetto di questi elementi, solo se il testo aggiunge esplicitamente che il bosco è popolato da ninfe silvestri o che i muri della casa sono fatti di cioccolato e pan di Spagna. Si possono classificare diversi tipi di mondi possibili narrativi. Per cia­ scuno di essi valgono delle regole di costruzione e di organizzazione in­ terna specifiche. (i) MP verosimili: sono mondi che possiamo concepire senza essere co­ stretti ad alterare alcuna delle leggi fisiche generali che vigono nel mondo di

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riferimento. Ad esempio, è possibile concepire, senza infrangere le nostre idee su ciò che è verosimile, un mondo in cui in futuro si troverà l’elisir di lun­ ga vita e, in passato, Sherlock Holmes sia veramente vissuto in Baker’s Street. Sono i mondi possibili descritti dai romanzi storici e dai racconti di avventu­ ra, dai gialli e dai romanzi rosa. (ii) MP inverosimili-, sono i mondi che noi non potremmo costruire a par­ tire dalla nostra esperienza attuale - ad esempio, mondi in cui gli animali par­ lino, in cui i rospi si trasformino in principi azzurri e in cui i tappeti possano volare. Questi mondi sono concepibili solo a patto che il lettore sia (a) abba­ stanza flessibile da accettare di modificare temporaneamente (per la durata della lettura) alcune delle leggi che solitamente dà per scontate, oppure (b) sufficientemente superficiale da non volere a tutti i costi trovare una spiega­ zione esauriente e scientificamente accettabile dei fenomeni che gli vengono presentati. (iii) AfP inconcepibili: mondi che vanno al di là della nostra capacità di concezione, perché contraddicono alcune leggi epistemologiche fondamen­ tali, in primo luogo la legge della coerenza interna (della non contradditto­ rietà). Ad esempio, non possiamo concepire mondi in cui i cerchi siano qua­ drati e in cui gli scapoli siano sposati. Tuttavia, certi generi testuali (si pensi ad Alice nel paese delle meraviglie) fanno uso di simili elementi, e tutto som­ mato noi riusciamo a cooperare interpretativamente e perfino a provare pia­ cere narrativo con tali testi. Si può affermare che questi mondi siano in effet­ ti menzionabili, sebbene non siano concepibili. Il linguaggio ha infatti la ca­ pacità di nominare degli enti che non si possono realmente pensare, come per esempio «il massimo numero pari». (iv) MP impossibili: in questo caso, il lettore può realizzare quanto basta per rendersi conto che i mondi in questione sono impossibili. Si pensi alle in­ cisioni di Escher: a una prima occhiata esse sembrano descrivere degli ogget­ ti possibili, ma un’analisi più attenta ci convince che gli oggetti rappresenta­ ti sono impossibili nel nostro mondo, governato da certe regole della pro­ spettiva e dell’organizzazione spaziale. Un esempio è costituito dai racconti di fantascienza che narrano dei viaggi a ritroso nel tempo: in questi racconti si producono delle situazioni paradossali in cui il protagonista incontra se stesso nel passato, o sposa sua madre per diventare il padre di se stesso, ecc. Sono tutte situazioni che, ad un’analisi critica più attenta, si dimostrano im­ possibili in quanto autocontraddittorie.

In tutti i casi citati, e a maggior ragione negli ultimi due, al lettore è ri­ chiesto un grado altissimo di flessibilità e di buona volontà cooperativa. È su questa condizione che si basa la possibilità di costruire dei mondi pos­ sibili narrativi e, pertanto, di cooperare adeguatamente con i racconti di finzione. Analizzare un testo narrativo in termini di mondi possibili signi­ fica quindi studiare la sua struttura interna nel senso di comprendere i li­ velli logici in gioco e di vedere come i mondi secondari degli atteggiamenti

Manuale di semiotica. 90

proposizionali dei personaggi interferiscano con esso. Ma significa so­ prattutto porsi il problema dell’interpretazione e della cooperazione che il lettore è richiesto di fornire al testo per il buon funzionamento del rac­ conto. Su questo punto ritorneremo in seguito (cap. 6).

La semiotica testuale prende in prestito la nozione di mondo possibi­ le dalla semantica modale (che a sua volta la eredita da Leibniz), per la quale un mondo possibile è una rappresentazione di uno stato di cose al­ ternativo allo stato di cose attuali. Su questo punto vedi Hughes e Creswell 1968, Mangione e Bozzi 1993, cap. VII. In questo ambito discipli­ nare, il concetto di mondo possibile serve a distinguere tra ciò che è lo­ gicamente necessario (è necessario ciò che è vero in tutti i mondi possi­ bili: ad esempio, che i lati di un quadrato sono quattro) e ciò che è solo possibile (è possibile ciò che è vero in almeno un mondo possibile: ad esempio, l’enunciato «se i canguri non avessero la coda, non si reggereb­ bero in piedi» descrive un mondo in cui i canguri sono fatti in maniera diversa da come sono nel mondo reale). Un mondo possibile - inteso in questo senso - è un mondo che può essere raggiunto (almeno con il pen­ siero) a partire dal mondo in cui ci troviamo effettivamente e, pertanto, esso si costruisce parassitariamente rispetto a determinate conoscenze di base assunte di volta in volta come determinanti (ad esempio, i mondi lo­ gicamente possibili sono quelli compatibili con le leggi della logica as­ sunta come riferimento; i mondi biologicamente possibili sono quelli in cui inoltre vigono le leggi accettate dalla biologia, ecc.). Diversamente dai mondi possibili della logica modale (che sono mon­ di vuoti che servono a compiere certi calcoli formali), i mondi possibili narrativi postulati da Eco 1979, 1990 sono i mondi «ammobiliati» (nel senso che sono popolati da un certo numero di individui dotati di deter­ minate proprietà) che vengono delineati da un testo narrativo. Lo stesso attributo di «possibilità», riferito ai mondi immaginari della finzione nar­ rativa, acquista un significato molto diverso rispetto alla sua definizione all’interno della semantica modale: per Eco, non è detto che un mondo possibile sia compatibile con le leggi (logiche, biologiche, fisiche, chimi­ che, ecc.) del mondo reale, in quanto è il testo stesso a postulare le pro­ prie condizioni di possibilità (vedi la classificazione dei diversi tipi di mondo possibile). Sulla teoria dei mondi possibili applicata alla narratività, vedi anche Vaina 1977 e Volli 1978.

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4.6. Il livello delle azioni Consideriamo ora l’altra grande linea di analisi della narratività, quel­ la che vede il racconto non come la descrizione di un mondo possibile, ma come un complesso dispositivo sintattico e semantico che mira a produr­ re certi effetti di senso. In generale, tale strategia d’analisi «grammaticale» della narrazione, procedendo oltre la fabula, troverà degli elementi non li­ neari, che non appartengono cioè più all’asse del processo, ma a quello del sistema: si tratta di repertori e altre strutture che, per così dire, fornisco­ no alla fabula i suoi materiali di lavoro. In pratica, le unità che verranno alla luce non saranno immediatamente identificabili con gli elementi visi­ bili della fabula: potranno essere delle componenti di certe azioni o di cer­ ti personaggi, che dovranno essere «montate assieme» per produrli (sarà il caso dei ruoli attanziali e dei ruoli tematici} oppure potranno essere va­ riamente distribuite nel corso del racconto (com’è il caso dei temi, delle modalità, ecc.). Possiamo però identificare inizialmente degli elementi che sono parti del processo della fabula: nel senso che non costituiscono testi autonomi, perché non ne hanno la dimensione adatta, ma che si possono «ritaglia­ re» direttamente sull’asse del processo. È il caso di quelli che, nel lin­ guaggio comune, sono chiamati gli episodi del racconto e che, come ab­ biamo visto, i formalisti chiamavano motivi. Alcuni di questi motivi sono essenziali allo svolgimento del racconto, gli sono legati, come dicevano i formalisti: non è possibile concepire un racconto poliziesco senza un as­ sassinio e la scoperta della sua dinamica, un romanzo d’amore ha bisogno di un innamoramento, uno d’avventura di una partenza verso un territo­ rio sconosciuto. Altri motivi - sempre secondo la terminologia formalista - sono invece liberi o facoltativi, perché l’integrità della storia principale non sarebbe affatto intaccata dalla loro eliminazione: è il caso, nei Pro­ messi sposi, non solo della storia della Monaca di Monza, che è un vero e proprio racconto estraneo incastonato nel testo, con un’altra protagoni­ sta rispetto alla vicenda principale, ma anche di episodi che parlano dei personaggi principali, come il tentativo di matrimonio clandestino fallito o la rivolta del pane di Milano. Essi si potrebbero benissimo eliminare senza perdere la logica fondamentale della storia, pagando però un prez­ zo sul ritmo della narrazione e magari anche sulla sua completezza ideo­ logica.

Sui motivi vedi Tomasevskij 1925.

Manuale di semiotica 92

►> 4.6.1. Le funzioni di Propp

La maggior parte dei motivi si possono considerare come dei piccoli racconti elementari con un inizio e una fine ben definiti, che costituisco­ no il racconto maggiore raccordandosi fra loro. Alcuni di questi episodi o motivi sono ricorrenti in molti racconti diversi: per esempio il combatti­ mento, il viaggio, l’innamoramento, la sfida. Naturalmente cambiano i protagonisti, le circostanze, gli oggetti cui si applicano le azioni, ma gli epi­ sodi sono ben riconoscibili. E possibile dunque pensare a un repertorio dei possibili motivi, e soprattutto a delle formule che caratterizzino i di­ versi tipi di testo narrativo a seconda della successione dei motivi che vi compaiono effettivamente. Qualcosa del genere è stato effettivamente ten­ tato, per esempio da Vladimir Propp 1928 in una classica ricerca sulla fia­ ba russa di magia (dove si mettevano in evidenza 31 funzioni costitutive di questo genere di testo narrativo). Propp parte da un corpus di 100 fiabe russe (tratte dalla raccolta di Afanas’ev), e osserva come al di sotto della loro apparente variabilità sia possibile trovare delle «grandezze costanti», degli elementi comuni. Pren­ diamo le seguenti azioni: 1) Il re manda Ivan a cercare la principessa. Ivan parte. 2) Il re manda Ivan a cercare una rarità. Ivan parte. 3) La sorella manda il fratello a cercare una medicina. Il fratello parte. 4) La matrigna manda la figliastra a cercare fuoco. La figliastra parte. 5) Il fabbro manda il bracciante a cercare una vacca. Il bracciante parte.

Ognuna di queste azioni è apparentemente diversa, nel senso che la storia che racconta è specifica di quella fiaba e non di altre. Ma non ci vuo­ le molto per scorgere, al di sotto di questa variabilità, la presenza di alcu­ ni elementi costanti. In tutti e cinque i casi abbiamo un personaggio che manda un altro personaggio a cercare qualcosa. Si tratta dunque della se­ quenza di due azioni (o funzioni) pressoché identiche: l’invio e la parten­ za dell’eroe. Ciò che invece cambia di volta in volta è l’identità dell’eroe e dell’oggetto cercato, nonché le precise modalità dell’invio. Continuando quest’opera di riduzione per tutti gli elementi che com­ pongono le fiabe del suo corpus, Propp giunge ad individuare 31 funzio­ ni fondamentali che, insieme, formano il modello narrativo profondo del­ la fiaba russa di magia. Ogni singola fiaba non è che una realizzazione par­ ziale di questo modello, o tipo astratto. Le funzioni sono definibili come «l’operato di un personaggio deter­ minato dal punto di vista del suo significato per lo svolgimento della vi­ cenda». Ciò significa che una stessa azione può svolgere una funzione nar­ rativa diversa a seconda della posizione che occupa rispetto al resto del

4. Storie 93

racconto. Ad esempio, il matrimonio tra l’eroe e la principessa costituirà una funzione narrativa diversa a seconda che sia collocato all’inizio del racconto (situazione iniziale, seguita da un danneggiamento) o alla fine (nozze). Le funzioni sono i mattoni basilari per la costruzione di tutti i te­ sti fiabeschi appartenenti alla tradizione narrativa russa (sebbene con qualche accorgimento possano essere adattate anche alle fiabe popolari europee). Le funzioni proppiane i

= situazione iniziale

PARTE PREPARATORIA

e

k q v w j y

= allontanamento: allontanamento di un vecchio, morte dei genitori, al­ lontanamento di un giovane = divieto = infrazione = investigazione: l’antagonista tenta una ricognizione = delazione: l’antagonista riceve informazioni sulla sua vittima = tranello: l’antagonista muta aspetto e inganna l'eroe = connivenza: l’eroe si lascia convincere dall’antagonista

AVVIO

X = danneggiamento: con questa funzione ha inizio l’azione narrativa vera e propria. L’antagonista arreca uno o più danni all'eroe x = mancanza: in alternativa a X- mancanza della fidanzata, di un mezzo magico, di un oggetto raro, di soldi, ecc. Y = mediazione: la sciagura o mancanza è resa nota W = inizio della reazione: l’eroe cercatore acconsente o si decide ad agire T = partenza: l’eroe abbandona la casa VICENDA

D E Z R L M V Rm '!■ P S

= prima funzione del donatore: il donatore mette alla prova l’eroe = reazione dell’eroe = conseguimento del mezzo magico = trasferimento nello spazio = lotta = marchiatura = vittoria = rimozione della sciagura o della mancanza = ritorno: il ritorno è solitamente compiuto nelle stesse forme dell’andata = persecuzione = salvataggio

F

= arrivo in incognito = pretese infondate: il falso eroe avanza pretese infondate

Manuale di semiotica 94

C A I Sm T Pu N

= compito difficile (proposto all’eroe} = adempimento: il compito è eseguito = identificazione: l’eroe è riconosciuto grazie a un segno particolare = smascheramento (del falso eroe) = trasfigurazione: l’eroe assume nuove sembianze = punizione (dell’antagonista) = nozze

E chiaro che, nel passaggio dall’intreccio alla fabula, e da questa al mo­ dello narrativo di Propp, si opera una drastica riduzione, che equivale ad un impoverimento progressivo del contenuto semantico del testo. Con ogni passaggio viene lasciato dietro un residuo di significato che, da un al­ tro punto di vista, rappresenta proprio la vera ricchezza del testo narrati­ vo. Propp stesso è consapevole del fatto che sono proprio gli elementi va­ riabili (l’identità dei personaggi, le esatte modalità delle loro azioni, le lo­ ro motivazioni psicologiche, le sfumature descrittive, ecc.) a costituire l’i­ nesauribile ricchezza del repertorio narrativo popolare, a conferire al rac­ conto «la sua vivacità, la sua bellezza e il suo fascino». Ciò non esclude, tuttavia, che mentre legge un testo e si compiace dei dettagli che lo compongono, il lettore contemporaneamente operi quei ta­ gli e quelle riduzioni necessarie alla sua inserzione in un genere fortemen­ te codificato che lo trascende. Questa sintesi riduttiva è ciò che consente al destinatario di compiere delle inferenze circa lo svolgimento futuro del­ la vicenda narrata.

Propp affronta l’analisi delle fiabe di magia russe, oltre che nella ce­ lebre Morfologia (1928), nel saggio La trasformazione delle favole di ma­ gia (ora in Todorov 1965). Per uno studio storico sull’origine della fiaba come genere narrativo, complementare rispetto all’approccio morfologi­ co, cfr. Propp 1946.

►► 4.6.2. La sequenza elementare di Bremond

Dopo Propp, vari autori hanno tentato di estendere la morfologia ad altri generi narrativi, come il mito, la leggenda, la letteratura popolare e perfino il romanzo moderno. Ma per fare questo, è necessario porre l’a­ nalisi a un livello più alto di astrazione, per spogliare lo schema di tutti gli elementi che lo legano troppo strettamente alle caratteristiche specifiche della fiaba. Uno di questi studiosi è Claude Bremond 1966, che tenta di indivi-

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duare le sequenze elementari presenti in ogni racconto. Prima di tutto bi­ sogna definire cos’è un racconto: per Bremond, «ogni racconto consiste in un discorso che integra una successione d’eventi d’interesse umano nel­ l’unità di una stessa azione» (AA.W. 1966, p. 102). Se non c’è successio­ ne, non c’è nemmeno racconto, ma solo descrizione, deduzione o effusio­ ne lirica. Se non c’è integrazione nell’unità di un’azione, non c’è racconto ma solo pura cronologia, ovvero enunciazione di fatti non coordinati; in­ fine, se non c’è interesse umano (ovvero se gli eventi riferiti non sono pro­ dotti da soggetti umani o antropomorfi), non c’è racconto, «poiché è solo in rapporto ad un progetto umano che gli eventi prendono senso e si or­ ganizzano in una serie temporale strutturata». Date queste condizioni preliminari, possiamo analizzare le sequenze elementari che si ritrovano in ogni racconto. Una sequenza elementare per Bremond è composta di tre funzioni (da non confondere con le funzioni proppiane): a) una prima funzione che apre la possibilità di un processo, sotto forma di comportamento da tenere o di evento da prevedere (virtualizzazione}\ b) una seconda funzione che attualizza questa virtualità, sotto forma di comportamento o di evento in atto (attualizzazione)-, c) una funzione che chiude il processo, sotto forma di risultato raggiunto (realizzazione}.

Facciamo un esempio: a) Gotham City è minacciata dal potere maligno di Joker. Batman decide di intervenire per ristabilire l’ordine minacciato; b) Batman trova Joker e combatte contro di lui; c) dopo varie peripezie, Batman vince la lotta e l’ordine di Gotham City è (temporaneamente) ristabilito.

Non è indispensabile che ciascuna delle tre funzioni sia seguita da quella successiva. È possibile che un testo apra una virtualità (ad esempio, delineando uno scopo che il protagonista vuole o deve raggiungere) e poi non si passi mai all’azione, per inerzia del personaggio oppure perché so­ praggiunge un ostacolo oggettivo che gli impedisce di agire. Allo stesso modo, non è detto che dopo l’attualizzazione (la serie di comportamenti mirati a raggiungere uno scopo) si passi alla realizzazione dello scopo, per­ ché il protagonista può subire uno scacco. Le sequenze elementari si combinano tra loro per formare sequenze complesse, che assumono configurazioni variabili:

Manuale di semiotica 96

A. Concatenazione testa-a-coda: Misfatto da commettere Malevolenza Misfatto commesso = Fatto da riparare Processo di riparazione Fatto riparato (dove = significa che lo stesso evento adempie simultaneamente due funzioni distinte). Esempio: Joker inventa un piano malvagio Lo mette in atto Provoca un danno a Gotham City =

Gotham City ha subito un danno Batman si appresta a riparare il danno Batman sconfigge Joker

B. La sacca: Fatto da riparare Processo di riparazione

Danno da infliggere Processo d’aggressione Danno inflitto

Fatto riparato

Questa disposizione si presenta quando un processo, per raggiungere il suo scopo, deve includerne un altro, che gli serve da mezzo e che può a sua volta includerne un terzo. Ad esempio, il re chiede all’eroe di recupe­ rare la figlia che è stata rapita da un orco. L’eroe si reca sul posto, ma per riprendere la principessa deve prima sconfiggere l’orco. A questo punto può ritornare al suo scopo di partenza (riportare a casa la fanciulla).

C. La legatura: Danno da infliggere Processo aggressivo Danno inflitto

vs Misfatto da commettere vs Malevolenza vs Misfatto commesso = Fatto da riparare

Dove vs (versus) significa che lo stesso evento assume funzioni diverse a seconda che lo si consideri dal punto di vista del soggetto o dell’aritisoggetto. Per rimanere nell’ambito dei fumetti, quello che per Diabolik è un danno da infliggere (ad esempio, il progettato furto di una collana di diamanti), per l’ispettore Ginkoi un misfatto da commettere. Alcuni rac­ conti giocano a spostare costantemente la prospettiva da un personaggio all’altro per mostrare lo stesso evento da due punti di vista opposti (vedi supra sulla localizzazione multipla).

4. Storie 97

I concetti esposti in questo paragrafo sono tratti da Bremond 1966.

H 4.6.3. La sequenza narrativa canonica secondo Greimas

La successione delle tre funzioni che definisce l’andamento di ogni azione narrativa (virtualizzazione, attualizzazione e realizzazione), viene ripresa da Greimas nella sequenza narrativa canonica. Greimas ritiene che ogni racconto sia organizzato da una stessa grande struttura sintagmatica, di notevole semplicità e generalità, che comprende quattro tappe fondamentali. Al centro di ogni narrazione c'è un compito che dev’essere svolto, un’azione che deve essere compiuta, un oggetto (materiale o ideale) che dev’essere conquistato, raggiunto, oppure fuggito ed evitato, insomma un valore da far proprio. Per avere un racconto non basta una serie di fatti ordinati, ci dev’essere qualcosa che deve essere compiuto, un problema da risolvere, una missione da realizzare. Questa sfida è la condizione essenziale perché la narrazione appaia sensata. Chia­ miamo performanza questa tappa centrale di ogni racconto. Prima che la performanza possa essere realizzata, bisogna però che chi è destinato a compierla conquisti i mezzi concettuali o materiali necessari per farlo: accumuli sapere, si procuri alleati, dimostri il proprio valore, av­ vicini l’oggetto, diventi sufficientemente forte e saggio. Chiamiamo que­ sta tappa competenza. Naturalmente l’accumulo di competenza, se viene narrato in maniera sufficientemente estesa, può essere l’oggetto della performanza di un precedente episodio minore del racconto, che a sua volta potrà avere bisogno di una tappa preliminare in cui sia accumulata la competenza necessaria per questa performanza preliminare, e così via. Questo è uno dei modi in cui si accumulano motivi liberi nel racconto in modo che questo raggiunga il suo spessore narrativo. Nella maggior par­ te della letteratura popolare (fantascienza, rosa, gialli, western, ecc.) un ta­ le schema a inclusione è perfettamente visibile, quasi ostentato (costru­ zione seriale). Prima ancora che si accumuli la competenza necessaria, bisogna però che l’obiettivo del racconto, la posta in gioco, sia stabilita in qualche mo­ do: ci dev’essere insomma un contratto, un mandato in cui qualcuno sta­ bilisce che cosa bisogna fare nell’ambito dell’episodio narrato e quale po­ trà essere la ricompensa per l’azione. Naturalmente questo qualcuno po­ trà essere lo stesso personaggio che poi compirà l’azione, e il contratto si ridurrà allora alla sua stessa motivazione per agire. Oppure ci sarà un qual­ che altro mandante (un re, un capo, un cliente...) interessato al compi­ mento della performanza e capace di ordinarla o di promettere una ri­ compensa adeguata per essa. Ma in ogni caso è necessario che le azioni sia-

Manuale di semiotica 98

no motivate da uno scopo, non foss’altro che la volontà di difendere la propria tranquillità iniziale. E questo scopo assume inevitabilmente una dimensione contrattuale. Infine, il racconto si può dire concluso non quando l’azione è com­ piuta, ma solo quando tale realizzazione sia stata riconosciuta come tale da chi ha dato inizio all’azione, cioè da colui che ha stipulato il contratto ini­ ziale con chi ha agito. Questa conclusione del racconto è definita sanzio­ ne e spesso richiede delle prove ulteriori per verificare l’identità dell’eroe e l’effettivo compimento dell’impresa. Queste naturalmente possono es­ sere sviluppate a loro volta come episodi narrativi con la relativa performanza da compiere e competenza da acquistare preliminarmente. La san­ zione può essere positiva (e cioè riconoscere il successo) oppure negativa (negare che il contratto sia stato adempiuto), e rifiutare la relativa ricom­ pensa, riaprendo il tema del racconto dall’inizio. In generale la sanzione presuppone la performanza, questa la compe­ tenza, questa ancora il contratto. Ciò significa che in un certo racconto possiamo non trovare espressione esplicita di alcune di queste tappe, per esempio la storia può iniziare col combattimento di un eroe noto contro un mostro o un criminale che devono essere eliminati - dunque in piena performanza. Ma in questo caso proprio la notorietà dell’eroe comporta una competenza già acquisita, e la definizione del suo avversario come mo­ stro o criminale include già di per sé un compito o un contratto (che è ideo­ logicamente implicito in molti tipi di narrativa: l’eroe è obbligato per de­ finizione a combattere il male). Analogamente può accadere - più raramente, però - il caso inverso: che alla prova dei fatti la competenza non sia stabilita, la performanza non sia compiuta, oppure la sanzione non sia accordata. In questo caso il rac­ conto si interrompe, ma resta disponibile per una prosecuzione che rime­ di l’errore. Forse il protagonista non era il vero eroe e questo deve ancora arrivare; forse il suo ambiente non era pronto a riconoscerlo, ma prima o poi lo farà; o forse la sua prova era prematura e dovrà essere ripetuta. Op­ pure c’è stato un errore che dovrà essere rimediato. In questi casi il rac­ conto è pronto a ripartire: spesso le narrazioni seriali utilizzano questa possibilità per concludere un episodio e prepararne un altro. Infine può accadere che una delle tappe del racconto debba essere ri­ petuta molte volte. Per esempio, la competenza da raggiungere può esse­ re molteplice, implicando una pluralità di strumenti e di conoscenze da accumulare, come in certi giochi da computer; oppure gli oggetti da rag­ giungere sono diversi (molti nemici da combattere, molti criminali da cat­ turare...) e dunque la performanza deve ripetersi; o i mandanti sono più d’uno e devono essere tutti convinti. In ogni caso la grande struttura sin­ tagmatica di base resta la stessa:

4. Storie 99 STRUTTURA SINTAGMATICA DEL RACCONTO

sanzione

contratto competenza

performanza

Un racconto reale sarà in genere composto da una fitta sovrapposizio­ ne di queste strutture elementari: la grande sintagmatica dell’azione sarà realizzata per mezzo di una serie numerosa di episodi minori, ciascuno dei quali riprodurrà uno schema analogo, dando luogo eventualmente ad al­ tre iterazioni e gemmazioni. GEMMAZIONE DELLE TAPPE SINTAGMATICHE

Schema complesso con iterazioni

Schema base contratto

competenza

sanzione

-|_ri

nnr-

performanza

La competenza e la performanza si possono far corrispondere a due prove che si ritrovano nell’analisi formalista delle fiabe: rispettivamente la prova qualificante (per esempio gli indovinelli di una vecchina che si rive­ lerà in seguito una potente fata e aiuterà l’eroe) e la prova decisiva (per esempio il combattimento col drago con cui lo stesso eroe libera la prin­ cipessa). Anche la sanzione può corrispondere a una prova dell’analisi del­ le fiabe, quella detta glorificante, come quando l’eroe, tornato a casa, è in­ sidiato da un impostore che vuol prendere il suo posto, e però riesce a sta­ bilire la sua identità e a ottenere il premio previsto. Quel che è molto importante è il carattere orientato di questo schema e la sua capacità di definire un inizio e una fine naturale della vicenda, or­ ganizzando così il ritmo della narrazione, le attese del lettore, dunque il funzionamento del racconto come un testo capace di produrre senso, cioè non solo significato ma anche direzione. Questo schema insomma cerca di caratterizzare quello che a livello informale viene definito come «arco drammatico» del racconto: una organizzazione che introduce nel tempo del racconto l’urgenza verso la conclusione e insieme il desiderio di di­ strazione che a sua volta implica il ritardo. In questa dialettica fra il gusto del divagare del testo, che occupa il nostro tempo, e l’impazienza di arri­ vare a una fine che spesso è già nota, come nel caso dei romanzi rosa o dei thriller - che Roland Barthes chiamava «pulsione edipica» - sta buona parte del «piacere del testo», ancora secondo un’espressione di Barthes, su cui ritorneremo al § 11.3.

Manuale di semiotica 100

La grande sintagmatica del racconto è esposta in Greimas 1970,1983, e applicata in maniera esemplare in Greimas 1976a. Le considerazioni di Barthes sul rapporto fra tempo del racconto e piacere si trovano in Barthes 1973.

4.7. Attanti Dalla struttura sintagmatica del racconto appena esposta si può rica­ vare un repertorio di azioni che appartengono a ogni racconto e soprat­ tutto una tipologia di soggetti che le compiono. Questi tipi di soggetti so­ no definiti dalla semiotica greimasiana, sulla traccia di precedenti ricerche linguistiche, come ottanti, per distinguerli dagli attori o personaggi che compaiono empiricamente nei racconti effettivi, che si ritrovano cioè «in carne ed ossa» nelle fabule e nei livelli superiori. Gli attanti sono invece strutture formali astratte, ipotesi teoriche, che non possono mai compari­ re come tali nei testi effettivi e non vanno assolutamente confusi con i per­ sonaggi «veri» in cui per così dire si incarnano. La prima azione narrativa che, secondo l’ipotesi della semiotica gene­ rativa, viene realizzata col contratto e con la sanzione, condizionando l’a­ pertura e la conclusione del racconto, ha una natura essenzialmente co­ municativa. In ogni racconto si tratta innanzitutto di comunicare qualco­ sa, di far circolare un oggetto o una proprietà, si tratti di un sapere o di un bene, del diritto di regnare o della mano di una fanciulla, della ric­ chezza di un tesoro o della conoscenza del colpevole. Questa «comunica­ zione» (da intendere in un senso molto più vasto rispetto a quello che ab­ biamo usato finora come «circolazione» di valori) consiste nel fatto che un destinante trasmetta qualcosa a un destinatario-, per esempio il manda­ to a compiere una certa azione, o il premio che le conseguirà. Il destinan­ te è insomma colui che vuole che l’azione abbia corso e alla fine ne certi­ fica il successo, il destinatario colui che si obbliga a svolgerla. Come ab­ biamo detto, è frequente il caso in cui i due ruoli siano coperti da uno stes­ so personaggio. Destinante e destinatario sono i primi due attanti del no­ stro modello. Fra il destinante e il destinatario vi è in gioco un oggetto, concreto o astratto, che deve essere trasmesso o comunicato. In ogni storia quest’og­ getto entra però in relazione anzitutto con un soggetto per cui esso ha va­ lore, che si batte per ottenerlo. La performanza consiste in questo tentati­ vo. Anche soggetto e destinatario possono essere spesso rappresentati dal-

4. Storie 101

lo stesso personaggio. Soggetto e oggetto sono la seconda coppia di attanti del modello. Vi è infine da tener conto che l’impresa del soggetto non è in linea di massima solitaria, ma richiede delle circostanze favorevoli (che spesso so­ no procurate per via della competenza), cioè degli aiutanti animati o ina­ nimati; e si trova in genere ad affrontare un ostacolo, si tratti di un av­ versario o opponente in carne e ossa o di difficoltà più impersonali, per esempio dovute all’ambiente (un bosco, una montagna, il mare) o alla meteorologia (una burrasca, il gelo). Ogni performanza nel racconto (an­ che quelle minori che servono a stabilire la competenza e la sanzione) ha in genere un carattere antagonistico, che è rispecchiato da questa rela­ zione. Dalla struttura sintagmatica del racconto abbiamo dunque tratto una serie di relazioni fra attanti: - quella fra destinante, destinatario, oggetto - quella fra soggetto e oggetto di valore - quella fra soggetto, aiutante e opponente. Questi rapporti si possono unificare in uno schema come quello che segue: ATTANTI NARRATIVI

Destinante -> Oggetto -> Destinatario

? Aiutante -> Soggetto sapere -> potere

Manuale di semiotica 106

cui seguono l’azione vera e propria e il riconoscimento. «Dovere» e «vo­ lere» sono dette modalità virilizzanti, perché determinano il soggetto come candidato a una certa azione, che resta ancora virtuale. L’acquisi­ zione della competenza rende attuale questa determinazione, e dunque «sapere» e «potere» sono modalità attualizzanti. Infine solo la perfor­ manza realizza finalmente l’azione che prima era virtuale e in seguito at­ tuale, nel senso che la «fa essere».

La cosa interessante è che spesso queste diverse modalità siano distri­ buite sui diversi soggetti che concorrono all’azione, e che i rapporti fra di loro e la loro evoluzione siano caratterizzate dalle diverse modalità. Non è un caso, per esempio, che si presentino così di frequente, nelle fiabe co­ me in pubblicità, delle figure di comprimari caratterizzati dal fatto di co­ noscere il modo di fare le cose: si tratta di una figura attanziale di aiutante caratterizzato dal fatto di possedere per sua natura (per il fatto di essere una strega, una nonna, un dottore, un tecnico, ecc.) una competenza se­ condo il sapere, che nel racconto viene in qualche modo trasmessa al sog­ getto principale, il quale ha il compito di accettarla, attuarla in una com­ petenza secondo il potere, e realizzarla con la sua performanza. Lo stesso si può dire delle complicate figure del dovere e del volere che modalizzano il destinante (spesso impersonato dallo stesso personaggio del soggetto) in testi diversi come i diari, la pubblicità, le interviste. Il mo­ do più sintetico di esprimere questi rapporti è di indicare per ogni sog­ getto un programma narrativo, che indica i suoi scopi e le sue azioni nel racconto, secondo le diverse modalità. Ogni programma narrativo princi­ pale, come si è accennato sopra, può dar luogo a programmi narrativi se­ condari, che servono ad acquisire competenze, procurare aiutanti, vince­ re opponenti secondari e così via. Per esempio, se un soggetto vuole im­ padronirsi di un certo oggetto, e per far questo deve ottenere una certa co­ noscenza e realizzare una certa competenza pratica, in modo da riuscire finalmente a ottenere il suo oggetto di valore, questo frammento di rac­ conto potrà essere sintetizzato come segue: ESEMPIO DI PROGRAMMA NARRATIVO COMPLESSO

PNp: I

(SI volere)

(SI n 01)

PN1 |

Sl^(Sln02sapere)

PN2

Sl^(Sln03potere)

4. Storie 107

Un certo soggetto SI vuole conquistare un tesoro (01). Questo è il suo programma narrativo di base. Per farlo, deve innanzitutto (PN1) trovare una mappa che gli dia la conoscenza necessaria del territorio (O2sapere), e poi (PN2) procurarsi la pala per scavare (O3potere). Solo così potrà rag­ giungere il suo oggetto. Se nello schema volessimo inserire le attività dei suoi avversari, i suoi errori, ecc., il quadro naturalmente diventerebbe molto più complesso. Ma facendo così possiamo raggiungere un buon li­ vello di analisi che ci permette di incominciare a spiegare la ragione del­ l’inclusione di certi motivi nel racconto. Insomma le modalità ci forniscono uno strumento estremamente po­ tente per descrivere i rapporti dei personaggi del racconto non solo sul piano delle azioni, ma su quello altrettanto importante delle intenzioni, delle conoscenze, delle credenze. Non si tratta di caratterizzazioni pura­ mente psicologiche, come si potrebbe credere ingenuamente. Fattori «psicologici» come il volere o il sapere sono in realtà parte essenziale del meccanismo narrativo e devono essere presenti perché anche il racconto più elementare e antirealistico (come per esempio una fiaba) possa svi­ lupparsi felicemente. Gli stessi fattori modali si ritrovano però anche nel­ la più sofisticata narrazione «realistica». Le modalità ci consentono inol­ tre di analizzare in maniera molto interessante anche diversi testi non nar­ rativi. Se ora riconsideriamo per esempio la tabella dei codici dei semafo­ ri che abbiamo esposto sopra, possiamo vedere facilmente che quel che vi viene esposto è una dimensione contrattuale secondo il dovere, imposta dal segnale e una corrispondente competenza secondo il sapere, che l’au­ tomobilista acquisisce, essendone investito: IL LINGUAGGIO DEI SEMAFORI: TRADUZIONE MODALE

Verde

= «passare» poter attraversare Rosso = «arrestarsi» non dover attraversare Verde e giallo = «liberare l’incrocio» (a incrocio impegnato) dover attraversare (prima dell’incrocio) non poter attraversare Giallo lampeggiante = «attenzione» non sapere se poter passare

Il modello attanziale descrive in maniera interessante l’universo delle azioni che realizza la storia. Ma si tratta di uno schema puramente forma­ le, che caratterizza la sintassi del racconto, un livello di relazioni necessa­ rie per comporre una storia che appaia coerente e conchiusa. Da questo schema è estranea la semantica del narrare, la capacità caratteristica di ogni

Manuale di semiotica 108

testo (in definitiva di ogni messaggio) di riportare a dei contenuti estranei da sé, su cui si fonda tutta la dimensione comunicativa. Il livello più generale della semantica di un racconto, come per ogni al­ tro testo, è il suo topic, ciò intorno a cui esso verte. Il topic, come abbia­ mo visto, è soggetto entro certi limiti a una negoziazione pragmatica fra emittente e destinatario. E però non può essere stabilito del tutto libera­ mente. A esso corrisponde nel testo una dimensione decisiva, quella della semantica del testo narrativo. Anche sulle modalità semiotiche, i testi di riferimento sono Greimas e Courtès 1979, Greimas 1970, 1983, Marsciani e Zinna 1991. Le moda­ lità semiotiche non vanno confuse con quelle logiche, per cui si veda Hu­ ghes e Cresswell 1968.

4.9. Tema I testi narrativi infatti parlano sempre di qualcosa, e l’impalcatura sin­ tattica dei rapporti fra gli attanti e della struttura sintagmatica, anche se vi si includono le modalità, non basta a dare ragione di questo contenu­ to specifico di ogni testo. Ma non bisogna pensare neppure che la se­ mantica di un testo sia completamente libera, priva di condizionamenti e di modelli. Ciò che determina innanzitutto il contenuto del testo è il suo tema, vale a dire il complesso dei valori e delle categorie semantiche che il testo esprime. Un racconto giallo ha dichiaratamente a che fare con la morte, la colpa, la punizione, l’avventura; una fiaba si occupa di un re­ gno, della decadenza del potere, della successione, del rapporto conflit­ tuale con la natura; un romanzo d’amore, di bellezza, di matrimonio, di relazioni fra i sessi. Questi elementi astratti non sono presenti direttamente nel testo, e neppure lo potrebbero, per la loro natura immateriale. Ma la loro pre­ senza distribuisce fra gli attanti dei ruoli tematici, cioè li determina come assassini e vittime, investigatori e indiziati; oppure come re e principesse, draghi e streghe; oppure ancora come fanciulle e ufficiali, madri e cugi­ ne, scapoli e vedove. È dalla coerenza di questi ruoli che noi ricaviamo la comprensione del senso di un racconto. Si può dire dunque che in ogni personaggio di una storia in ogni momento concorrano un ruolo attanziale (il fatto di svolgere la funzione definita da un certo attante) e un ruo­ lo tematico. I ruoli tematici dei personaggi, come quelli attanziali, si tra­ sformano nel corso del racconto, anzi si potrebbe dire che un racconto è

4. Storie 109

una macchina che elabora trasformazioni di ruolo per i suoi personaggi (e dà loro senso). Quel che resta fisso è il nome, l’identità di base, le pro­ prietà caratteristiche del singolo personaggio. Ma questo punto è ogget­ to di maggiore interesse da parte della semiotica interpretativa e ne par­ liamo altrove (§4.5). Come il tema si specifica in ruoli tematici che lo particolarizzano e lo individuano, così i ruoli tematici possono esprimersi in figure-, l’investiga­ tore è un ruolo tematico del tema «indagini su un delitto», la sua pistola è una certa figura che può venirgli attribuita e che può diventare a un certo punto oggetto di valore o aiutante; ma anche il fatto di coltivare orchidee o di essere grasso o di amare il whisky appartengono a questo livello del­ le figure. Se dal punto di vista logico le figure derivano dal tema, sul piano del­ le modalità di lettura certamente accade l’inverso: per lo più noi indivi­ duiamo il tema e assegniamo ruoli tematici a partire dalle figure; ma cer­ tamente nel processo concreto della lettura ha parte importante l’attri­ buzione (compiuta tacitamente e perfino inconsciamente dal lettore) di figure ai ruoli tematici che ne sono privi nel testo esplicito, per esempio a quelli della fiaba e dei racconti popolari che ne sono poverissimi. Pro­ prio per questa capacità di arricchimento figurativo da parte del lettore, l’abbondanza di figure esplicite non è essenziale al buon funzionamento di una storia. Non è affatto detto che un film, per sua costituzione ric­ chissimo di figure, racconti meglio una storia del testo scritto che gli cor­ risponde. Quel che rende essenziale il tema per il senso del racconto è il suo rap­ porto con alcune categorie semantiche, quelle che la narrazione sviluppa e articola. Non esiste narrazione che non abbia un contenuto semantico. Possiamo supporre che sotto la dimensione lineare del racconto (quella che si concretizza nella fabula e nei livelli più complessi) e anche sotto il livello non lineare dei rapporti fra ruoli attanziali e ruoli tematici si possa individuare una semantica fondamentale dove sono presenti le categorie semantiche sviluppate nel racconto, che come si è visto, possono essere espresse opportunamente in forma del quadrato semiotico. Da questo punto di vista ogni narrazione non è altro che la proiezione sull’asse del processo dell’articolazione semantica di un quadrato semiotico, cioè di una categoria semantica (o di parecchie, nei casi più complessi). Se, per esempio, riprendiamo in considerazione uno dei nostri qua­ drati semiotici, quello che esprimeva i valori corrispondenti alla pubbli­ cità dei detersivi, vediamo facilmente come molti spot articolino nel rac­ conto questi valori:

Manuale di semiotica 110 LINEARIZZAZIONE DI UN QUADRATO SEMIOTICO

linearizzazione del quadrato

Nello spot si può mostrare per esempio una signora che tenta di la­ vare con un detersivo qualunque un capo non bianco (sporco), ritrovan­ doselo solo non nero cioè apparentemente pulito. A guardar bene però (magari con l’intervento di un aiutante magico, capace di penetrare al­ l’interno del tessuto e di vedere nel mondo microscopico) fra le fibre si trova del nero. Solo il detersivo pubblicizzato, viene spiegato, può elimi­ nare questo nero, grazie al fatto di possedere il bianco (di solito per via di un altro aiutante più o meno magico, come certe scaglie di sapone, o una certa «forza lavante»). Le frecce sovrapposte al quadrato qui sopra permettono di seguire il modo in cui il quadrato è stato proiettato nel te­ sto e per così dire linearizzato. Questa proiezione dell’asse del sistema sull’asse del processo è ciò che, secondo Jakobson, caratterizza la fun­ zione poetica di ogni messaggio; ma più in generale possiamo dire che si tratta di ciò che rende i testi narrativi dispositivi di comunicazione così potenti ed efficaci. Questo lavoro di proiezione e costruzione corrisponde a uno schema molto generale che nella teoria greimasiana si usa chiamare percorso gene­ rativo del senso. In sintesi, possiamo distinguere diversi livelli nella semiotica del rac­ conto: uno più profondo, dove sono organizzate e selezionate le categorie semantiche; uno più superficiale, dove si trovano le strutture attanziali (sintassi) e quelle tematiche (semantica); uno ulteriore, dove le strutture semiotiche di superficie vengono messe in discorso. Quest’ultimo, chia­ mato «livello delle strutture discorsive», è quello in cui le virtualità del si­ stema semiotico vengono assunte dal soggetto dell’enunciazione e calate in un enunciato, che è il prodotto della sua attività. Tale messa in discor­ so delle strutture semiotiche si realizza attraverso procedure le cui com­ ponenti fondamentali sono almeno tre:

__________________________________________________________________ 4, Storie

111 - V attorializxazione, cioè il processo per cui ruoli tematici e attanziali si tra­ ducono in personaggi definiti, che sono diversi dai soggetti reali che produ­ cono e ricevono la storia anche se per caso li descrivono; - la spazializzazione, cioè il fatto di porre uno spazio interno al racconto in cui si «svolgono» gli eventi narrati, che è diverso dallo spazio reale in cui il racconto è narrato, anche se si sforza di assomigliargli, come spesso accade; - la temporalizzazione, cioè il processo per cui si pone un tempo interno al racconto, indipendente da quello della sua esecuzione. A queste tre componenti pertengono la tematizzazione, che esplicita il tema del racconto per esempio in ruoli tematici attribuiti ai personaggi, e la figurativizzazione, che dettaglia ed esplicita questi ruoli in figure. E a questo livello dunque, in cui interviene l’istanza mediatrice dell’e­ nunciazione (vedi cap. 5), che noi possiamo analizzare in un testo in che modo la componente sintattica delle relazioni, valori, attanti e modalità venga arricchita da attori, spazi e tempi, e come la componente semantica venga articolata in temi e figure.

Una spiegazione chiara dei concetti di tema e percorso generativo si trova in Marsciani e Zinna 1991.

4.10. Passioni Con l’analisi che abbiamo svolto finora sulla struttura del racconto ci siamo occupati quasi esclusivamente del corso delle azioni-, cosa fanno i personaggi del testo e quali sono i loro rapporti. Ma vi è un altro aspetto importante che si ritrova in molte narrazioni e talvolta ne costituisce in ap­ parenza il contenuto principale: ciò che sentono i personaggi, quali sono le loro passioni. Questo è anche il livello delle motivazioni-, noi capiamo che Otello uccide Desdemona perché è geloso; un altro personaggio scap­ pa perche ha paura, un terzo lo insegue perché è in collera, e così via. È ne­ cessario dare ragione di queste diverse caratteristiche che sono testuali, prima che psicologiche. Infatti noi non conosciamo certamente davvero i personaggi, ma solo le parole che li raccontano e dunque in queste paro­ le (o immagini, sequenze filmate, ecc.), unite alla nostra concezione del mondo {enciclopedia) e non certo nella loro mente (che in realtà è pura­ mente finzionale), deve trovarsi la ragione per attribuir loro certi senti-

Manuale di semiotica 112

menti, volontà, passioni, ecc. Questi stati mentali narrativi presentano fra l’altro il problema di una notevole variabilità. Da un certo punto di vista le passioni assomigliano ai ruoli tematici, nel senso di costituire delle proprietà importanti che si aggiungono ai ruoli at­ tanziali nel definire un personaggio e le sue funzioni nel racconto. Da un altro punto di vista, è consigliabile trattare le passioni come il riassunto im­ plicito di un vero e proprio racconto, secondo il principio per cui i termi­ ni lessicali (lessemi) appaiono spesso come racconti contratti alla minima dimensione possibile, e i racconti possono essere spesso intesi come espan­ sioni di una certa voce lessicale. Per esempio, «avaro» è una parola che de­ scrive il rapporto intenso e dominante di una persona con quel particola­ re oggetto di valore che è il denaro, la sua volontà di raccoglierlo (entrare in congiunzione con esso), la sua riluttanza (cioè la sua volontà di non fa­ re) a separarsene, la sua paura che questo evento sgradevole possa acca­ dere. Si vede immediatamente come sia importante, in questo ambito, la dimensione modale, e come le diverse passioni possano entrare in relazio­ ne fra loro secondo i complessi rapporti logici codificati nel quadrato se­ miotico. Un settore significativo della semiotica generativa si è dedicato ad analizzare questi racconti impliciti che vivono nella dimensione passiona­ le e a comprenderli usando gli strumenti semiotici che abbiamo appena avvicinato. La base di questo lavoro è di solito la definizione che i dizio­ nari danno del termine: come se si trattasse di un repertorio di racconti base di cui tutti disponiamo senza saperlo. Naturalmente questi racconti e i relativi ruoli semantici sono legati al­ le categorie semantiche corrispondenti, che ne articolano le opposizioni e le relazioni. Le passioni però non sono costituite semplicemente dalla pre­ senza di certe narrazioni o dalla conoscenza di certe categorie, e neppure dalla loro combinazione con nozioni modali come «volere» o «potere». Vi è infatti qualcosa di più, una sorta di dimensione fisica della passio­ ne, che fa sì che essa sia legata per noi al nostro stato d’animo, al benesse­ re o al malessere che sentiamo, in definitiva al corpo. Questa dimensione si può esprimere in una categoria semantica fondamentale (che si ritrova anche alla base della semantica linguistica, fra quegli elementi minimi del senso linguistico che esprimono la nostra percezione interna). E ('opposi­ zione detta timica fra euforia e disforia, cioè fra un sentimento positivo e negativo di noi stessi, fra il benessere e il malessere, che noi avvertiamo prima di tutto a livello del corpo e che, secondo la semiotica greimasiana, è la radice somatica dei nostri giudizi di valore. Il modo in cui una categoria timica si mette in relazione con una certa posizione di un quadrato semiotico, per esempio il modo in cui, nelle ca­ tegorie del pulito/sporco che abbiamo visto prima, l’euforia investe il ver-

4. Storie 113

tice che rappresenta la massima pulizia, cioè il bianco, viene detto assiologiizazione di quella categoria. ASSIOLOGIZZAZIONE DI UNA CATEGORIA

OPPOSIZIONE TIMICA

Euforia

investimento assiologico positivo

---------------------------- ► Disforia in vesti mento assiologico negativo

QUADRATO DELLA PULIZIA

biancoi

La situazione vera nero

lato dello sporco

lato dei detersivi

non nero (apparentemente pulito)

non bianco (sporco)

L’apparenza

Gli investimenti assiologici, cioè il modo in cui un certo termine è mes­ so in relazione al positivo o al negativo, alla felicità o all’infelicità, al bene o al male (e in definitiva al proprio corpo), sono fondamentali per la co­ stituzione degli oggetti di valore. Ma sono anche la base per qualunque ef­ fetto passionale. Le passioni infatti articolano e mettono nella forma di un piccolo rac­ conto implicito proprio il rapporto fra soggetto e oggetto di valore, usan­ do a questo scopo le molteplici possibilità offerte dalle modalità. Nel per­ corso che sviluppa una certa passione del soggetto intervengono così tut­ ti i diversi livelli below thè line della manifestazione. Un personaggio, nel momento in cui lo conosciamo nella superficie della manifestazione, ci ap­ parirà sempre già più o meno passionalizzato, per il semplice fatto che sarà stato descritto come motivato a svolgere la propria azione, più o meno in­ teressato a certi eventi e altri personaggi. Ma sotto questa caratteristica «psicologia», che può essere più o meno sviluppata a seconda del genere letterario e narrativo (e che per esempio è importantissima in pubblicità), vi è tutto il lavorio che abbiamo ricostruito.

Manuale di semiotica 114

La teoria delle passioni è un antico tema filosofico, che risale almeno all'Etica nicomachea di Aristotele e fu poi particolarmente sviluppata da Cartesio, Spinoza, Kant. La prima esemplificazione ben articolata della teoria greimasiana delle passioni è l’articolo sulla collera in Greimas 1983. Una sintesi interessante è Pezzini 1991. Il tema del corpo e del timismo è particolarmente sviluppato in Greimas e Fontanille 1991.

5. Enunciazione

5.1. Tracce della soggettività Più volte, lungo la nostra trattazione, abbiamo accennato a una sorta di doppia costituzione del linguaggio: il fatto che da un lato esso sia siste­ ma di codici e regole socialmente prestabilito, ma che d’altro lato esso esi­ sta solo attualizzandosi ogni volta nel nostro atto individuale di produzio­ ne di parola. La teoria dell’enunciazione non tratta il sistema linguistico e il messaggio individuale come entità separate, ma considera l'atto di enun­ ciazione di un soggetto come istanza di mediazione tra i due momenti, per­ ché è esso che converte le regole del sistema in discorso. L’atto di parlare non è mai solo individuale, esso è anche sociale per­ ché deve utilizzare sempre un sistema di codici condiviso; e viceversa, la lingua non è solo sociale, perché essa esiste solo nella parola degli indivi­ dui che la usano. In altre parole, la messa in discorso da un lato convoca le componenti di sistema della lingua; d’altro lato, essendo una pratica stori­ ca, culturale e anche individuale, produce delle forme che vengono reinte­ grate a loro volta nella lingua stessa. Potremmo dire dunque, introduttivamente, che il soggetto del discorso, di cui parleremo in questo capitolo, è un soggetto culturale. L'enunciazione è l’atto con cui viene prodotto un enunciato, ma non so­ lo nel senso dell’atto concreto di produzione. La questione è più com­ plessa. Con il concetto di enunciazione non si intende tanto l’attività lin­ guistica empirica, chi parla a chi, dove e quando, in quanto situazione con­ creta, ma ci si riferisce piuttosto alle tracce dell’attività di produzione di

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parola lasciate nell’enunciato, e a come, attraverso di esse, emergono le manifestazioni della soggettività nel testo. La riflessione sull’enunciazione tocca problemi di semiotica generale: attraverso quali dispositivi i materiali semantici e sintattici virtualmente a disposizione nella lingua si attualizzano in forma di discorso enunciato? Come un soggetto si appropria della lingua e come questo atto individua­ le si fa oggettivo nel testo? Tramite quali operazioni si estrinseca all’inter­ no del testo stesso la soggettività dell’enunciatore? Ma essa apre anche problemi che riguardano la situazione comunica­ tiva: se consideriamo il linguaggio non come un passaggio neutro di infor­ mazioni, ma come un’attività tra locutore e interlocutore, in cui il primo si situa rispetto al secondo, rispetto alla sua stessa enunciazione e al suo enunciato, allora si pone la domanda su come l’enunciato riflette «non sol­ tanto ciò che è detto ma il fatto di dirlo, l’enunciazione» (Maingueneau 1994, p. 13). Anche in questo caso non è necessario riferirsi alle soggetti­ vità concrete che producono la comunicazione: i giochi relazionali tra lo­ cutore e interlocutore vengono simulati nel testo. È nel testo che possia­ mo ritrovare il simulacro dell’enunciatore e quello dell’enunciatario (d’ora in poi chiameremo così i soggetti che, nel caso della comunicazione con­ creta, si chiamano locutore e interlocutore). Le tracce dell’enunciazione nel testo sono significative per l’analisi sot­ to molti aspetti: esse sono indizi dei modi di manifestarsi del soggetto e del modo in cui egli assume il suo enunciato; dei modi di installare nel testo l’enunciatore, l’enunciatario e le loro relazioni; esse propongono delle ipo­ tesi di autore e lettore e delle trasformazioni progressive dei punti di vista; producono alcuni effetti di senso particolari, come gli effetti di realtà e in genere tutto ciò che rende efficace la comunicazione.

Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, accanto allo stu­ dio dell’enunciato si delinea un approccio centrato sull’atto e il soggetto della produzione, cioè sull’enunciazione. Questa svolta s’inserisce in quella più ampia che mette in discussione il concetto saussuriano di «lingua» insieme a quello strutturalista di «co­ dice», e a quello chomskiano di «competenza», e che propone di prende­ re in considerazione innanzitutto il «testo» e il «discorso», meno riduttivi per una comprensione del senso. Si apre così il problema della soggetti­ vità nel linguaggio (vedi cap. 11): come il soggetto costruisce il suo di­ scorso e, reciprocamente, come il discorso costituisce il soggetto? Il di­ battito si sviluppa su tre linee teoriche fondamentali. Una, più tradiziona­ le, sostiene l’esistenza di un soggetto intenzionale: nel testo si attualizze­ rebbero le intenzioni, gli scopi (che essi si realizzino o meno) di un sog­ getto concreto storicamente dato. In questo caso, si studieranno le inten-

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zioni di un certo autore di un testo, i codici culturali da lui attivati, ecc. Una seconda linea teorica elabora l’idea contraria e radicale che il sogget­ to del discorso in quanto tale non esista, perché il discorso, come costru­ zione collettiva, trascende l’individuo «assoggettandolo» alla logica socia­ le e culturale. Un terzo modello teorico - che è quello cui si riferisce per lo più la teoria dell’enunciazione - rovescia la prospettiva, proponendo di non considerare né il soggetto intenzionale esterno al discorso, né il di­ scorso esterno rispetto al soggetto, ma di pensarli agenti insieme nel testo: è a partire dai testi che la soggettività può essere ricostruita, ed è quindi solo nella misura in cui essa è inscritta nel testo che può essere considera­ ta. La teoria dell’enunciazione non tratta dunque il discorso sociale (o un sistema linguistico) da un lato e il soggetto (o un messaggio individuale) dall’altro, ma cerca di analizzare nel testo le tracce della soggettività. I diversi sviluppi della teoria dell’enunciazione derivano in qualche mo­ do dalle direzioni teoriche indicate dal lavoro di Benveniste 1966,1974.

Secondo la definizione di Benveniste, l’enunciazione è la struttura di mediazione che converte la langue, il sistema della lingua, in parole, discor­ so preso in carico individualmente; e contemporaneamente, essa è l’istan­ za di instaurazione del soggetto. L’enunciazione è dunque l’atto individua­ le attraverso il quale il parlante si appropria della lingua, mettendola in fun­ zione nel discorso, e tramite il quale egli enuncia se stesso come soggetto. Mettiamo a confronto due tipi di enunciato: a) «Il 12 marzo del 1999 a Milano Paolo promise a Maria che l’avrebbe sposata».

Si tratta di un enunciato di tipo storico, caratteristico dei racconti o dei testi scritti, in cui i fatti vengono presentati senza alcun riferimento all’at­ to dell’enunciazione. b) «Io ti prometto, qui e ora, che domani ti sposerò».

Questo enunciato ha contemporaneamente un’esistenza grammaticale generale che garantisce che esso possa essere utilizzato sempre e nelle si­ tuazioni più diverse; ma al tempo stesso ha anche una esistenza individua­ le. teoricamente non posso comprenderne il senso se non conosco i due interlocutori, la loro posizione spaziale e la collocazione temporale dell’e­ nunciato. Elementi della lingua, come «io», «qui», «ora», possiedono un significato linguistico stabile e generale, che allude rispettivamente a una persona, a un luogo, a un tempo, ma all’interno di ogni enunciato essi rin­ viano alla situazione specifica e individuale di enunciazione. Per situazio­ ne di enunciazione, l’abbiamo già detto, non s’intende necessariamente il

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contesto concreto di produzione dell’enunciato. L’enunciato del secondo esempio è tipico delle situazioni comunicative reali, ma possiamo trovar­ lo anche in un testo scritto, in un dialogo o in un racconto autobiografico: elementi linguistici che istituiscono soggetti, spazi e tempi riferiti all’atto enunciativo (chiamati shifters-, in italiano tradotti a volte con commutato­ ri o deittici-, vedi Jakobson 1957), hanno il ruolo di riflettere nell’enuncia­ to la sua enunciazione.

5.2. Débrayage ed embrayage Se vogliamo studiare il fenomeno dell’enunciazione senza prendere in considerazione il contesto comunicativo concreto nei suoi aspetti sociolin­ guistici o psicosociali, ma attenendoci strettamente al testo, dobbiamo ca­ pire meglio il processo attraverso il quale un testo diventa autonomo ri­ spetto all’atto di enunciazione che lo ha prodotto, mantenendone però del­ le tracce al suo interno. Pensiamo al testo scritto: qualsiasi racconto contie­ ne uno spazio, un tempo e dei soggetti altri rispetto all’enunciatore. Le ca­ tegorie di persona, spazio e tempo si costituiscono nell’enunciato tramite un processo di distacco (che si usa spesso nominare in francese come dé­ brayage) dall’istanza dell’enunciazione. Per potersi esprimere, il discorso deve innanzitutto aggettivarsi, assumere i propri valori e significati indi­ pendentemente dal momento e dalla persona che l’ha costituito e quindi, in un certo senso, negando l’istanza dell’enunciazione, staccandosi da essa. Greimas e Courtès 1979 sostengono che la situazione di enunciazione in quanto tale è «inattingibile» all’analisi: il momento concreto in cui si produce il testo non è ricostruibile, il soggetto dell’enunciazione è solo un’istanza logica presupposta dell’enunciato. Ciò che invece si può analiz­ zare è il simulacro di quell’enunciazione, le sue tracce nel testo: gli stessi attanti dell’enunciazione (l’enunciatore e l’enunciatario) non sono diret­ tamente accessibili, ma «si possono ricostruire solo a partire dalle tracce lasciate nell’enunciato» (Courtès 1991, p. 255). Riprendiamo i nostri due esempi precedenti («Io ti prometto...»; «Il 12 marzo...»). Per ciò che riguarda le categoria di persona, i morfemi «io» e «tu» corrispondono agli attanti dell’enunciazione (enunciatore ed enunciatario); il loro simulacro nel testo produce una forma discorsiva chia­ mata enunciazione enunciata, come succede nei racconti in prima persona o nei dialoghi. Elementi linguistici come i pronomi personali e possessivi, gli avverbi, i deittici spaziali e temporali, i verbi performativi simulano nel testo l’attività dell’enunciazione. Altri morfemi, come per esempio i nomi propri (Paolo e Maria), corrispondenti agli attanti dell’enunciato, instau­ rano invece una forma di discorso oggettivo, che produce un effetto di il-

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lusione referenziale (sembra cioè che essi si riferiscano a persone e cose esterne al testo, appartenenti al mondo esterno alla comunicazione). Una volta che si è realizzato il débrayage - il processo di distacco del di­ scorso dall’istanza dell’enunciazione - esiste però anche la possibilità di una sorta di ritorno all’enunciazione (embrayage). Se un riproporsi totale dell’i­ stanza dell’enunciazione è inconcepibile, perché sarebbe come se il discor­ so non avesse alcuna esistenza in quanto tale (cioè allora il testo scritto, frut­ to del débrayage, non esisterebbe), i testi possono però produrre degli ef­ fetti di illusione enunciazionale, in cui sembra che soggetto, tempo e luogo dell’enunciato coincidano con soggetto, tempo e luogo dell’enunciazione. In sintesi, l’enunciazione è un’istanza di mediazione fondamentale che converte le strutture virtuali della lingua in discorso. Tale atto di conver­ sione dipende dalla competenza del soggetto dell’enunciazione (Greimas e Courtès 1979). L’enunciato che ne risulta porta in sé le tracce dell’enun­ ciazione: pronomi personali e possessivi, aggettivi, avverbi, deittici spaziali e temporali, verbi modalizzati e performativi sono marche linguistiche che rinviano all’enunciazione dentro al testo. Ma le procedure attraverso le quali l’enunciazione si manifesta nel discorso possono coinvolgere confi­ gurazioni di senso anche molto più complesse. Più in generale, è la messa in atto delle operazioni di débrayage ed embrayage che consente all’enunciatore di istituire nel discorso enunciato gli attori, un’organizzazione spaziale e una temporale, analizzabili con gli strumenti della semiotica del racconto (attorializzazione, spazializzazione, temporalizzazione).

A questo punto è utile precisare che la teoria dell’enunciazione, come è stata impostata da Benveniste, contiene un’ambiguità fondamentale, che corrisponde alla complessità intrinseca del fenomeno dell’enuncia­ zione in se stesso. Esso infatti coinvolge due diversi ordini di discorso: quello orale, dello scambio comunicativo, con tutti gli effetti pragmatici che comporta; e quello del testo scritto, con le sue logiche di proiezione simulacrale dell’atto enunciativo. La trattazione di Benveniste non li di­ stingue, ma il suo lavoro dà l’avvio a direzioni di sviluppo, in parte com­ plementari ma anche contrastanti tra loro (cfr. Manetti 1998). Una è quella «semiologica» che approfondisce lo studio dell’enun­ ciazione per così dire «a monte», come istanza linguistica di mediazione «che assicura la messa in enunciato o in discorso delle virtualità della lin­ gua» (è la direzione esplorata da Greimas e Courtès 1979; ma anche, con diversi scopi teorici, da Dubois 1969 e Culioli 1990). Questo approccio e interessato alle condizioni di generazione del senso nel racconto, non al testo come prodotto del processo comunicativo, e privilegia l’analisi di testi scritti o visivi.

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L’altra è più «linguistica», e studia l’enunciazione per così dire «a val­ le», approfondendo l’analisi degli indici enunciativi sulla superficie del testo e inquadrando l’enunciazione nell’ambito della situazione di comu­ nicazione (Ducrot 1978, 1984, 1989; e in generale la scuola della prag­ matica americana; ma anche, con delle differenze, l’analisi del discorso francese: Maingueneau 1987); questo approccio privilegia l’analisi degli usi del linguaggio ordinario, della comunicazione faccia a faccia, delle conversazioni (vedi cap. 8). I problemi dell’enunciazione coinvolgono molti livelli del funziona­ mento del linguaggio, dai suoi aspetti sintattici, semantici, pragmatici, al­ le sue implicazioni socioculturali. Essi vengono trattati trasversalmente da molte scuole semiotiche diverse, anche incompatibili sul piano delle loro definizioni teoriche (si vedano i concetti di autore e lettore modello di Eco 1979, trattati qui nel capitolo 6, dedicato alla semiotica interpre­ tativa, o ancora le applicazioni negli studi di narratologia: Genette 1972). Perciò, in questo libro, si trovano rimandi all’enunciazione in vari capi­ toli. Noi presentiamo qui soltanto alcuni elementi fondamentali, che co­ stituiscono le condizioni di dispiegamento dell’enunciazione nel testo.

5.3. Indici linguistici dell’enunciazione L’analisi dell’enunciazione in un testo può esercitarsi su piani molto di­ versi. A un primo livello, si possono guardare gli indici linguistici attra­ verso i quali si costruisce nel testo la relazione tra il soggetto e la sua enun­ ciazione, tra il soggetto e l’enunciato, tra l’enunciatore e l’enunciatario. Bisogna premettere che i morfemi linguistici si differenziano a seconda del tipo di referenza cui rimandano. Essi possono infatti riferire il proprio significato al contesto esterno extralinguistico (rinviano ad elementi del mondo naturale), oppure al contesto dell’enunciato (rinviano ad elementi del testo precedenti rispetto all’enunciato; sono detti anaforici), o ancora gli indici linguistici possono riferirsi all’enunciazione (detti deittici). Facciamo qualche esempio.

Alcuni elementi linguistici manifestano la relazione tra l’enunciatario e la sua enunciazione. - I pronomi personali: mentre i nomi propri hanno un significato stabile ed esterno e il pronome di terza persona può designare un personaggio che è già stato precedentemente nominato nel testo, i pronomi «io» e «tu» si defi­ niscono solo in relazione all’atto di enunciazione, perché assumono una refe­ renza ogni volta diversa in ciascuna situazione di discorso. - I pronomi dimostrativi: analogamente ai gesti ostensivi, il pronome «questo» indica oggetti in relazione con la situazione enunciativa.

5. Enunciazione 121

- I tempi verbali: anche il tempo del verbo può o meno riferirsi al mo­ mento dell’enunciazione. Il passato remoto costituisce un tempo staccato dal­ l’atto dell’enunciazione, mentre il presente è comprensibile solo in relazione al presente dell’enunciazione. - Le forme avverbiali: gli avverbi di tempo si distinguono tra quelli che si riferiscono a un tempo già enunciato nel testo {anaforici come «allora», «in quel momento», «poco prima», «poco dopo», «d’allora in poi», ecc.), quelli che si riferiscono al tempo dell’enunciazione {deittici come «ora», «adesso», «in questo momento», «oggi», «domani», «ieri», «il mese prossimo», «d’ora in poi», ecc.). Analogamente gli avverbi di luogo: «qui» si riferisce alla collo­ cazione spaziale della situazione di enunciazione, mentre il nome proprio di luoghi («Milano») stabilisce un riferimento oggettivo esterno.

Altre marche linguistiche esprimono la relazione tra l’enunciatore e il suo enunciato. L’enunciatore può marcare l’enunciato indicando verso di esso un qualche atteggiamento, attraverso i cosiddetti modali: per esem­ pio verbi che esprimono un atteggiamento proposizionale («supporre», «presumere», «credere», ecc.), oppure modi verbali che suggeriscono au­ gurio, apprensione (attraverso il condizionale o il congiuntivo), gli agget­ tivi apprezzativi, o le espressioni che indicano incertezza, possibilità, in­ decisione, ecc. («forse», «senza dubbio», «probabilmente», ecc.). In que­ sto ambito, si cerca di allargare lo studio dei modali alla considerazione non solo del livello verbale, ma anche di quello prosodico (il tono, l’enfa­ si) e ritmico (l’intensità, la tensione, la durata nel discorso). L’enunciatore può anche servirsi della lingua per stabilire una relazio­ ne con l’enunciatario, e per influenzarlo: per mezzo dell’interrogazione, dell’imperativo, ma anche dell’asserzione nella sua forma performativa («Ti prometto...»). Per questo aspetto, che coinvolge più direttamente la situazione comunicativa, rimandiamo alla trattazione del problema degli atti linguistici (vedi cap. 8).

5.4. Effetti ed efficacia L’uso degli elementi linguistici può dunque produrre degli effetti enun­ ciativi. Abbiamo già visto come la forma discorsiva che usa i nomi propri o la terza persona, eliminando il riferimento all’enunciazione e costruen­ do il simulacro di un referente esterno, sembri più oggettiva producendo un effetto di realtà. Al contrario l’uso dei pronomi personali di seconda persona, costruendo nel testo il riferimento all’istanza di enunciazione, ap­ pare come più soggettiva e produce un particolare effetto di presenza. Effetti simili possono però essere costruiti tramite procedimenti più complessi, che coinvolgono intere configurazioni testuali. Il gioco tra prò-

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cedure di débrayage ed embrayage - che simulano l’istituzione o la nega­ zione della distanza tra l’enunciato e l’istanza soggettiva dell’enunciazio­ ne - può manifestarsi, per esempio, nei passaggi in uno stesso testo dal dia­ logo al racconto e viceversa. Facciamo qualche esempio. Pensiamo al caso in cui si riferiscano le pa­ role di qualcuno dentro a un racconto o alla battuta di dialogo messa fra virgolette. E una procedura molto utilizzata dagli articoli dei giornali: La gente denuncia l’abbandono della periferia e chiede interventi radica­ li contro gli spacciatori: «Siringhe dappertutto - assicura un negoziante - pri­ ma di nascosto e poi, di giorno in giorno, in modo sempre più sfacciato».

In questo caso, le virgolette e la frase parentetica sono espedienti formali che consentono all’enunciatore di prendere distanza dall’enunciato, attra­ verso la citazione diretta della voce di qualcun altro. Queste procedure pro­ ducono due effetti: da un lato restringono la portata dell’informazione al punto di vista soggettivo del locutore citato, attribuendo ad esso la respon­ sabilità dell’enunciato; d’altro lato, danno l’impressione di una particolare veridicità dell’informazione riportata, dovuta all’atteggiamento di neutra­ lità del giornalista, il quale sembra riportare fedelmente le parole di altri. Al contrario, il giornalista può anche riportare opinioni e asserzioni di qualcun altro attraverso il discorso indiretto: La gente denuncia l’abbandono della periferia e chiede interventi radica­ li contro gli spacciatori: siringhe dappertutto, prima di nascosto e poi, di gior­ no in giorno, in modo sempre più sfacciato...

In questo modo, egli mescola il proprio punto di vista a quello altrui senza soluzione di continuità, rinforzando così l’impressione che l’infor­ mazione data non sia opinione di qualcuno ma costituisca una realtà og­ gettiva. Anche nei racconti di finzione possiamo trovare effetti enunciativi par­ ticolari. Pensiamo al caso estremo di quando in un racconto si apre un al­ tro racconto, dentro al quale, magari, se ne apre un altro (come accade spesso nelle Mille e una notte)-, il personaggio che produce la prima enun­ ciazione (Shahrazàd, ma anche il narratore, inteso non come emittente empirico, ma come figura di un romanzo, come accade nell’introduzione ai Promessi sposi o in molte opere di Conrad) ne risulta collocato, rispet­ to al débrayage di quell’enunciazione, dallo stesso lato semiotico del let­ tore, e quindi risulta appartenere a uno strato di realtà più esterna, dun­ que più reale. Lo stesso accade nei telegiornali che sempre più spesso utilizzano col­ legamenti e servizi incassati l’uno dentro l’altro: Mentana annuncia (enun-

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dazione prima) che vi è un collegamento con un corrispondente {enuncia­ zione enunciata di primo grado), il quale «chiama» un servizio {enuncia­ zione enunciata di secondo grado), dove si fa parlare un intervistato {enun­ ciazione enunciata di terzo grado), e così via. Anche qui, l’effetto che ne ri­ sulta è di una maggiore veridicità del contenuto dell’enunciazione, che au­ menta la credibilità del telegiornale stesso. E il problema dei punti di vi­ sta, che nello studio della narrativa è stato chiamato della focaltzzazione (come abbiamo visto nel § 4.2), che mette in gioco in modo evidente i di­ versi movimenti enunciazionali.

Nel caso di testi visuali, pittorici, filmici e televisivi, l’enunciazione spesso è determinata dal punto di vista, da fenomeni come l’uso della pro­ spettiva che colloca l’osservatore di un quadro in una certa posizione del­ lo spazio enunciato, oppure da movimenti della macchina da presa. In un film, noi vediamo una certa scena come se fosse oggettiva: il punto di vi­ sta della telecamera che filtra la nostra visione non appare esplicitamente e gli attori sembrano agire nella storia indipendentemente dal fatto di es­ sere visti da noi spettatori; ma se improvvisamente un personaggio guar­ da verso la macchina da presa, producendo l’effetto di fissarci negli occhi, è come se egli coinvolgesse lo spettatore dentro la scena, la quale diventa meno oggettiva ma più presente. Aggiungiamo che l’uso dello sguardo in macchina, effetto enunciativo che «buca il video» proponendo un embrayage diretto sullo spettatore («sto guardando proprio te») è general­ mente proibito nel linguaggio cinematografico, perché turba la finzione, ma viene sempre usato in televisione, la quale tende a coinvolgere gli spet­ tatori in uno spazio enunciativo comune. Un altro esempio molto comu­ ne è quello della ripresa in soggettiva, fatta in modo da suggerire il punto di vista di un personaggio, in cui quanto appare sullo schermo sembra coincidere con quanto vede un certo personaggio. L’analisi degli effetti enunciativi in un testo visivo partirà dunque dal­ lo studio dei punti di vista: come il testo manifesta le tracce dell’autore, come orienta la lettura e l’interpretazione dello spettatore, come lo coin­ volge attraverso l’interpellazione o effetti metalinguistici come il trompel’oeil nel quadro o la mise en ahimè (il film nel film) nel cinema. Effetti in una certa misura analoghi a quelli visivi si ritrovano in testi scritti con finalità persuasive molto orientate. Il caso della pubblicità è il più eclatante. I messaggi pubblicitari usano poco enunciati del tipo «La Coca Cola è buona»; più frequenti sono gli enunciati come «Bevi Coca Co­ la!», che installano all’interno dell’enunciato il destinatario stesso (attra­ verso un simulacro dell’enunciatario) producendo quindi un effetto per­ suasivo più diretto. Enunciati come «Io bevo Coca Cola perché mi piace» tentano di eliminare ogni distanza tra enunciatore, enunciato e enunciata-

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rio: l’«io» rappresenta allo stesso tempo il soggetto dell’enunciazione (l’e­ mittente della pubblicità), il soggetto dell’enunciato (l’attore che beve Co­ ca Cola) e, nella misura in cui quest’ultimo simula le caratteristiche di un eventuale destinatario (un giovane sufficientemente «normale»), anche l’enunciatario.

Abbiamo presentato qui solo qualche esempio tra i più noti, per chia­ rire che cosa s’intenda con enunciazione. L’analisi complessiva delle ope­ razioni di embrayage e débrayage, come esse si articolano progressiva­ mente nello sviluppo di un testo, consente di capire come il testo presen­ ti l’immagine di chi sta parlando (enunciatore), come esso costruisca pa­ rallelamente il suo enunciatario, cioè il suo simulacro, ma anche le strate­ gie manipolative del discorso stesso e le sue opzioni ideologiche; più in ge­ nerale, come nel testo venga a costituirsi una sorta di «stile» del discorso e di «identità» dell’enunciatore. Stile e identità che - ora lo capiamo me­ glio - non sono espressione di un soggetto individuale in quanto tale: in­ dividuale e sociale si fondono nel discorso di quel soggetto culturale che ogni testo esprime e produce al contempo; ogni testo a modo suo e crea­ tivamente. Un tema di grande importanza per semiotica e linguistica connesso al­ l’enunciazione è quello della temporalità dei testi. Nelle lingue indoeuro­ pee l’indicazione cronologica degli eventi avviene in maniera assai com­ plessa, avvalendosi soprattutto del sistema dei tempi verbali. In realtà però, come mostrano Weinrich 1978 e Benveniste 1974, i tempi verbali servono soprattutto a collocare l’enunciazione e a determinare l’atteggia­ mento dell’enunciatore rispetto al testo. Questi studi sono stati estesi da Bettetini 1979 a testi diversi da quelli letterari. Oltre all’informaztone sul tempo cronologico degli eventi e sull’enunciazione, i testi sono in genere orientati a produrre effetti «aspettuali», cioè a suggerire che una certa azione è usuale o solo puntuale, continua oppure sta iniziando o termi­ nando. Per una discussione di questo punto, si veda Marsciani 1994.

La riflessione sull’enunciazione penetra negli ambiti più diversi della teoria semiotica e va ad applicarsi a campi anche molto lontani da quelli tradizionali: dall’enunciazione nel teatro (Segre 1984), a quella nel cine­ ma (Casetti 1986), nella pittura (Calabrese 1985a), nei media (Veron 1984 per un’analisi dell’enunciazione nel giornalismo della stampa e Marrone 1998 per il giornalismo televisivo), nella pubblicità (Semprini 1990), fino a quella delle pratiche sociali. Una sintesi è impossibile, e il dibattito è an­ cora aperto (per una rassegna cfr. Manetti 1998).

6. Interpretazione

Un testo può essere analizzato in quanto sistema di livelli strutturali, oppure in quanto posta in gioco del processo interpretativo. L’assunto di partenza della semiotica interpretativa è che un testo sia incompleto senza l’intervento di un lettore che ne riempia gli spazi vuoti con la sua attività inferenziale. Detto altrimenti, un testo ci comunica molte più informazio­ ni di quante non ne appaiano nella sua manifestazione lineare, ossia nella sua struttura espressiva esplicita. Essendo sempre «intessuto di non det­ to», esso lascia implicita una gran quantità di informazioni che il destina­ tario è chiamato a estrapolare in base alla sua conoscenza del contesto co­ municativo: per fare un solo esempio, un enunciato come «si torna a ca­ sa», se pronunciato da un ufficiale alle sue truppe, si carica di contenuti che vanno ben al di là del significato puramente denotativo della frase. Se dovessimo rendere espliciti tutti i nessi logici tra le proposizioni che enunciamo, i nostri discorsi sarebbero insopportabilmente noiosi. Anzi, non potrebbero nemmeno esserci discorsi, perché rimarremmo invischia­ ti nella ridondanza più totale e non potremmo mai dire nulla di nuovo. Le regole della comunicazione interpersonale richiedono che venga raggiun­ to un equilibrio soddisfacente tra ciò che viene detto esplicitamente e ciò che viene lasciato implicito dal parlante, il quale in genere suppone giu­ stamente che l’interlocutore sia in grado di completare il suo testo con informazioni tratte dal suo bagaglio di conoscenze precedentemente ac­ quisite. Per raggiungere un simile equilibrio tra il detto e il non detto, il produttore del messaggio deve indovinare quale sia la competenza end-

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clopedica del suo destinatario. A questo scopo egli viene guidato, nella pro­ duzione del testo, da una certa immagine di destinatario che si è formata in qualche modo e che egli spera coincida il più possibile con quello che sarà il destinatario in carne ed ossa. Nella comunicazione orale i due interlocutori si vedono e possono scambiarsi continui segnali di reazione (feedback) per rendere scorrevole la comunicazione, per cui il parlante può sempre precisare l’immagine che si è fatta del suo destinatario ideale man mano che procede nella conver­ sazione. Nella comunicazione scritta, invece, l’autore e il lettore non si ve­ dono in faccia, sono separati da una distanza spaziale o temporale per lo più incolmabile. Ne deriva che entrambi vanno un po’ a tentoni e non possono fare altro che prefigurarsi il proprio partner nell’atto comunica­ tivo attraverso una serie di congetture, le quali possono anche dimostrar­ si fallaci. Il caso della pubblicità è sintomatico. Qui, essendo l’obiettivo dell’e­ mittente convincere il suo pubblico a comportarsi in un certo modo, bal­ za in primo piano l’aspetto strategico del suo atto comunicativo. Il pub­ blicitario sceglie un target, ne studia le abitudini di consumo e il profilo psicologico e sociologico per poter familiarizzare con i suoi codici e con il suo linguaggio, e poi struttura il messaggio in modo da venire incontro al­ le aspettative del suo pubblico. In altre parole, l’emittente del messaggio pubblicitario è perennemente guidato da un’immagine abbastanza preci­ sa del suo destinatario potenziale. Ma anche i testi che non mirano aper­ tamente a convincere il destinatario di alcunché sono disseminati di ap­ pelli impliciti al lettore. Perfino nel caso limite dei diari, in cui si suppone che l’autore scriva solo per se stesso, è possibile sostenere che in effetti egli sia guidato da una certa immagine di lettore del suo testo - non foss’altro che l’immagine che egli si è fatta di come potrà essere tra vent’anni, quan­ do rileggerà il diario.

6.1. Il ruolo dell’interprete Si tende spesso, ingenuamente, a credere che il senso di un testo sia già dato nella sua struttura interna, e che il lettore non debba fare altro che decodificare - magari con l’aiuto di un dizionario - le singole espressioni una a una per pervenire a una comprensione del «vero» significato dell’o­ pera. Ma immaginiamo una situazione limite: un testo scritto in una lin­ gua ignota (diciamo, la stele di Rosetta prima che Champollion la inter­ pretasse). È chiaro che, in assenza di una comunità di interpreti in posses­ so dei codici necessari per comprenderne il contenuto, il testo in questio-

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ne non significherebbe più nulla, se non in potenza. Senza una comunità di interpreti competenti, esso diventerebbe puro rumore di sfondo, una curiosità o un mistero. Un altro esempio potrebbe essere costituito da te­ sti che appartengono a culture distanti (in senso spaziale o temporale) dal­ la propria, come potrebbe essere per noi questa breve fiaba eschimese: C’era una donna, vecchia, cieca e che, per di più, non era in grado di cam­ minare. Una volta chiese alla figlia un po’ di acqua da bere. La figlia era così stufa della vecchia madre che le diede una ciotola piena del proprio piscio. La vecchia lo bevve fino all’ultima goccia e poi disse: «Sei proprio una brava figlia! Dimmi: chi preferiresti come amante, un pidocchio o un pesce scor­ pione?». «Ma un pesce scorpione, si capisce», rise la figlia «perché non sarebbe tan­ to facile schiacciarlo quando ci dormo insieme». La vecchia allora cominciò a togliersi scorfani dalla vagina, uno dopo l’al­ tro, fino a cadere morta (Vecchiaia, in Carter 1991).

Anche se, grazie alla traduzione, siamo in grado di afferrare il signifi­ cato dizionariale di ognuna delle parole che compongono questo testo, il suo significato complessivo ci sfugge completamente. Non riusciamo a ca­ pire che cosa il testo voglia da noi: è umoristico? è allegorico? L’unico mo­ do per arrivare a una qualche parvenza di comprensione sarebbe di tra­ sferirci in Groenlandia in una comunità di eschimesi per qualche anno al­ lo scopo di familiarizzare progressivamente con i codici, con la tradizione narrativa, con i costumi, ecc. di chi racconta questa storia. In breve, do­ vremmo interpretare questo testo particolare alla luce del testo più gene­ rale costituito dalla cultura in cui esso è inserito. Ma, a partire dal solo te­ sto isolato, non ci è possibile fare altro che congetturare una serie di pos­ sibili sensi. Ci manca il terreno di prova su cui verificare (o falsificare) le nostre congetture. Data la fondamentale apertura del testo, il quale deve interagire con il suo lettore per acquistare significato, è sempre possibile che il destinatario lo interpreti in maniera diversa da come l’autore intendeva che il testo fosse interpretato. Ci si riferisce a questa eventualità di scarto tra i codici del produttore del testo/messaggio e i codici dell’interprete con il termi­ ne di decodifica aberrante. Per ridurre al minimo la possibilità di una de­ codifica aberrante da parte del suo pubblico di lettori, dunque, l’autore potrà cercare di indirizzarne l’interpretazione nel senso desiderato. Que­ sto scopo può essere raggiunto in vari modi: (i) in primo luogo l’autore può introdurre dei segnali che selezionino il suo pubblico fin dall’inizio. Sono tipici segnali di questo tipo le formule introdurti-

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ve della fiaba, che fanno capire da subito il tipo di testo che il lettore sta per leg­ gere (e di conseguenza il tipo di atteggiamento fruitivo che deve mantenere); (ii) per incoraggiare un certo percorso di lettura piuttosto che un altro, l’autore può introdurre nel testo una certa ridondanza semantica - ad esem­ pio, descrivendo un temporale che dovrebbe riflettere e sottolineare lo stato di disperazione in cui si trova il protagonista della sua vicenda; (iii) il testo può evidenziare i suoi snodi narrativi principali attraverso un appello diretto al lettore («e indovinate ora cosa succede?») oppure attraver­ so altri artifìci stilistici mirati a stimolare l’attività previsionale del destinatario (come la suddivisione in capitoli o in puntate); (iv) l’autore può anche istituire la competenza del suo lettore, oltre che presupporla, fornendogli le informazioni che egli ritiene utili per una corret­ ta comprensione del testo: informazioni di sfondo, interventi diretti del nar­ ratore, ecc.

Il seguente brano, tratto dall’Autopresentazione di Peirce, costituisce un caso piuttosto evidente di come un testo selezioni il proprio lettore pre­ visto, istituendone la competenza e avvertendolo fin dall’inizio circa l’at­ teggiamento fruitivo da assumere nella lettura delle pagine successive. Ma, prima di ogni altra cosa, lasciatemi fare la conoscenza con il mio let­ tore ed esprimere la mia sincera stima per lui e la mia profonda soddisfazio­ ne di avere a che fare con una persona così assennata e paziente. Conosco il suo carattere abbastanza bene, perché tanto il soggetto quanto lo stile di que­ sto libro assicurano che il mio lettore non potrà essere che uno scelto fra mi­ lioni di persone. Il mio lettore saprà comprendere che questo libro non è sta­ to scritto allo scopo di confermarlo nelle sue opinioni preconcette; anzi, se così fosse, non si darebbe certo la pena di leggerlo. E preparato a incontrare proposizioni dalle quali sulle prime è incline a dissentire; ma dalle quali, al­ meno da alcune di esse, è disposto a farsi convincere, dopo tutto. Terrà anche conto che pensare e scrivere questo libro ha preso, non voglio dire quanto, ma certo più di un quarto d’ora, e capirà di conseguenza che le obiezioni fon­ damentali di natura così ovvia da venire in mente subito a tutti saranno ve­ nute in mente anche all’autore, sebbene le risposte a queste obiezioni possa­ no non essere di quel genere che si impone immediatamente.

Come si vede, in questo frammento i ruoli dell’emittente e dell’inter­ prete sono resi espliciti: il primo si rivolge direttamente al secondo, de­ scrivendone preventivamente le caratteristiche distintive, motivandolo anche tramite una certa dose di adulazione - alla lettura attenta e pazien­ te del libro, e prevenendone le obiezioni in modo da scongiurare il rischio di una decodifica aberrante (che in questo caso assumerebbe la forma di un’interpretazione superficiale del testo). Non sempre gli obiettivi comunicativi di un testo sono altrettanto di-

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chiarati: solitamente l’interpretazione del lettore è manipolata in maniera più indiretta di quanto non accada nel brano di Peirce, sfruttando quelle parti dell’enciclopedia di cui si suppone che l’interprete sia già in posses­ so per innestarvi conoscenze nuove o per sollecitare il destinatario a in­ traprendere determinati percorsi interpretativi a discapito di altri. Man mano che tra il testo e il suo lettore si apre una distanza (in ter­ mini di spazio e/o di tempo), la decodifica aberrante diventa una norma, più che un’eccezione. È assai difficile per un lettore occidentale contem­ poraneo aderire completamente ai codici culturali dei filosofi presocrati­ ci o della poesia cinese antica: è probabile che chiunque si illuda di pos­ sedere l’interpretazione «vera» di quei testi compia una decodifica aber­ rante particolarmente ingenua e radicale. Il che non significa che uno sfor­ zo di comprensione di testi lontani dalla propria cultura sia necessaria­ mente destinato allo scacco, ma che in questi casi sono indispensabili un’opera paziente di avvicinamento progressivo all’orizzonte di senso del testo e una certa dose di dubbio sistematico: gli strumenti primi di ogni fi­ lologia. Così, non avrebbe senso leggere La Divina Commedia, oggi, senza te­ nere conto di quanto sappiamo circa il contesto culturale nel quale si muo­ veva Dante, ovvero delle conoscenze enciclopediche che si ritiene fossero condivise dal suo pubblico originario. Inoltre, per quanto accurata sia la ricostruzione filologica, il testo non cesserà mai di custodire un residuo di opacità, se non altro per il fatto che le domande che gli si possono rivol­ gere sono teoricamente infinite. Vi sono testi che sfruttano la fondamentale ambiguità e incompletezza di ogni testo a fini strategici: i testi aperti sono strutturati in modo da la­ sciare al lettore un ampio margine di manovra interpretativa, conceden­ dogli una grande libertà, incoraggiandolo a seguire dei percorsi di lettura personali e idiosincratici. Al contrario, i testi chiusi cercano di fare in mo­ do che «ogni termine, ogni modo di dire e ogni riferimento enciclopedico [che essi impiegano] sia quello che prevedibilmente il lettore può capire» (Eco 1979, p. 57), nel tentativo di guidare il destinatario nella sua inter­ pretazione, di prenderlo per mano e di spingerlo nella direzione deside­ rata. Nulla poi impedisce al singolo lettore empirico di disattendere le «istru­ zioni per l’uso» che il testo gli fornisce, e di applicare chiavi di lettura ar­ dite a un testo chiuso come l’orario ferroviario. Solo che, così facendo, egli rinuncia a cooperare con il testo, e dunque a calarsi nei panni del suo let­ tore modello. L’autore e il lettore empirici sono gli individui in carne ed ossa che co­ municano attraverso il testo. Siamo io e voi, o chiunque altro, quando ci accingiamo a comunicare attraverso testi. In quanto entità concrete e idio-

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sincratiche, dotate ciascuna di una propria storia biografica, essi non in­ teressano la semiotica. Ciò che ci interessa è invece il ruolo astratto che l’autore e il lettore assumono nel processo comunicativo, il modo in cui ciascuno di essi si adegua alle aspettative dell’altro, le strategie che essi adottano per perseguire i propri obiettivi comunicativi specifici. Autore e lettore modello sono delle strategie testuali. Il lettore modello è: un insieme di condizioni di felicità, testualmente stabilite, che devono essere soddisfatte perché il testo sia pienamente attualizzato nel suo contenuto po­ tenziale (Eco 1979, p. 62).

È un lettore tipo che il testo prevede come proprio interlocutore ideale e che esso non solo presuppone come collaboratore, ma che cerca anche di costruire. Vi sono anche testi che prevedono al proprio interno un du­ plice percorso di lettura, e dunque un duplice lettore modello. Ad esem­ pio, un fumetto come Dylan Dog si rivolge contemporaneamente a un let­ tore di primo livello il quale, sprovvisto della competenza necessaria per cogliere tutti i rimandi da un episodio all’altro del fumetto, si limita a leg­ gere ciascuna storia come un racconto a sé stante, e a un lettore fedele e competente che si può definire di secondo livello, in grado di collegare tra loro i vari episodi per riassumerli in una metanarrazione unica e di ap­ prezzarne la struttura complessiva. Si parla a questo proposito di lettori ingenui e di lettori critici di un testo: il lettore ingenuo è colui che attualiz­ za la superficie lineare del testo secondo le indicazioni fornite dal testo me­ desimo solo allo scopo di estrarne il senso letterale; il lettore critico è in­ vece colui che, avendo interpretato letteralmente il testo, ripercorre le pro­ prie mosse cooperative per capire in che modo il testo le ha favorite. L’in­ terpretazione critica è insomma un’interpretazione di secondo grado: si pensi alla rilettura dei gialli, dove l’interprete ritorna sui suoi passi per comprendere in che modo il testo lo ha ingannato o lo ha depistato. Specularmente al lettore modello, \'autore modello è la strategia te­ stuale impiegata dall’autore empirico per indirizzare nel senso voluto l’at­ tività cooperativa del lettore. In un certo senso, l’autore modello si iden­ tifica con lo stile di un testo. L’autore modello è una voce che parla affettuosamente (o imperiosamen­ te, o subdolamente) con noi, che ci vuole al proprio fianco, e questa voce si manifesta come strategia narrativa, come insieme di istruzioni che ci vengo­ no impartite a ogni passo e a cui dobbiamo ubbidire quando decidiamo di comportarci come lettore modello (Eco 1994, pp. 18-19).

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Lettore modello e autore modello sono iscritti nel testo. Questo signi­ fica che la superficie espressiva del testo reca in sé le tracce della presen­ za del lettore e dell’autore in quanto ruoli comunicativi astratti. Un esem­ pio piuttosto vistoso di questa duplice presenza nel testo è fornita dagli appelli diretti al lettore che talvolta troviamo nei testi a vocazione peda­ gogica. Nell’effettivo processo di comunicazione, dunque, «l’autore empirico, quale soggetto dell’enunciazione testuale, formula un’ipotesi di Lettore Modello e, nel tradurla in termini della propria strategia, disegna se stes­ so quale soggetto dell’enunciato» (Eco 1979, p. 62), quale autore model­ lo. D’altra parte il lettore empirico (il soggetto concreto degli atti di coo­ perazione) si disegna un’ipotesi di autore modello deducendolo dalle stra­ tegie testuali iscritte nel testo. Per approfondire le nozioni di autore e di lettore modello, vedi Eco 1979, 1990, 1994. Prima di (o contemporaneamente a) Eco, altri studio­ si si sono occupati della centralità del ruolo del lettore nel processo in­ terpretativo. Tra questi, ricordiamo Iser 1972,1976 il quale, sulla scia de­ gli studi di estetica della ricezione sviluppatisi a Costanza, elabora il con­ cetto di «lettore implicito», simile ma non identico al lettore modello di Eco; Riffaterre 1971, che postula un «superlettore» il quale riunisce in sé una molteplicità di competenze diverse ed è pertanto in grado di inter­ pretare i punti di particolare densità semantica del testo; Wolff 1971, che parla di un «lettore progettato», ovvero dell’idea di lettore che l’autore aveva in mente. Per orientarsi tra i numerosi lettori virtuali, lettori liminali, arcilettori, metalettori, ecc., che si sono moltiplicati a partire dagli anni Sessanta, si vedano Pugliatti 1985 e Ferraresi e Pugliatti 1989. Sul versante dell’autore, il primo a parlare di «autore implicito» è stato Wayne Booth 1961.

6.2. Interpretazione come inferenza Anche nel caso dei testi chiusi, il lettore è chiamato ad avanzare delle ipotesi di senso e a sottoporre queste ultime ad un processo di verifica o di confutazione testuale. L’unica differenza è che, in questo caso, la scelta delle ipotesi è guidata e univoca. Un esempio di ipotesi quasi obbligata è costituito dalla percezione degli stimoli visivi. Nel momento in cui si rico­ nosce un dato oggetto, si sovrappone a un campo sensoriale ambiguo (l’in­ sieme degli stimoli che colpiscono la retina) un certo modello percettivo preconfezionato, già registrato in memoria. Di conseguenza, si cercheran-

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no nel campo visivo degli elementi che confermino l’adeguatezza di que­ sto modello percettivo. In altre parole, si tenterà di trovare degli ulteriori elementi di riscontro che confermino l’ipotesi percettiva iniziale. La per­ cezione è un processo che solitamente avviene in maniera automatica o se­ miautomatica, nel senso che il lavoro che noi applichiamo per riconosce­ re certi oggetti come occorrenze di determinati tipi percettivi generali non è cosciente. Ma non è sempre così: di fronte a un campo sensoriale ambi­ guo, può darsi che ci troviamo a riflettere consapevolmente, incerti circa l’esatta natura dell’oggetto percepito. È quanto accade, ad esempio, di fronte alla figura della giovane vecchia analizzata dallo psicologo americano E.G. Boring, nella quale i significati che si attribuiscono alle linee cambiano a seconda del modo in cui si os­ serva l’immagine, ovvero del contesto visivo a partire dal quale si inter­ pretano i tratti che la compongono: la linea che, nel contesto della «gio­ vane», viene intesa come un nastrino allacciato al collo, in quello della «vecchia» diventa una bocca arcigna; la mascella della ragazza è il naso adunco della vegliarda; e così via. L’immagine è strutturata in modo tale da indurre il destinatario a oscillare tra le due interpretazioni senza riu­ scire a decidere definitivamente quale sia quella giusta. Chi legge un testo è continuamente chiamato ad avanzare ipotesi circa il significato da attribuire alla superficie espressiva che ha di fronte. Inol­ tre, nella lettura di un testo narrativo, l’interprete si ritrova costantemen­ te ad anticipare le mosse dell’autore, immaginandosi che cosa accadrà nel­ le fasi successive della narrazione. D’altra parte, come abbiamo visto, per indirizzare nel senso voluto l’interpretazione del testo, lo stesso autore avanza una serie di ipotesi circa il comportamento interpretativo del pro­ prio lettore modello. Per descrivere il gioco a due in cui sono coinvolti l’autore e il lettore di un testo, si suole impiegare la metafora della partita a scacchi, dove ciascun giocatore cerca di anticipare le mosse dell’avver­ sario in base all’immagine che si è formata circa lo stile di gioco dell’altro; l’unica differenza con gli scacchi, forse, è che nel caso di una «buona» let­ tura entrambi i giocatori sono interessati a fare vincere l’altro (non per niente si parla di cooperazione interpretativa). Il testo stesso stimola l’attività inferenziale del lettore attraverso una se­ rie di segnali di suspence di cui esso è disseminato. I segnali di suspence possono assumere diverse forme: l’appello diretto, gli stacchi musicali piazzati in un momento di rilievo di un film, la suddivisione del romanzo in capitoli o della telenovela in puntate. Inoltre, in genere il destinatario sa già dove aspettarsi dei momenti di suspence grazie alla sua precedente conoscenza del genere narrativo al quale appartiene il testo in questione.

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Ad esempio, sa benissimo che in un film giallo quando un personaggio de­ cide di andare in cantina non c’è mai da stare tranquilli. Talvolta il testo si diverte a frustrare le aspettative del destinatario, sti­ molando una certa previsione circa il futuro svolgimento della vicenda per poi capovolgere tale previsione con un esito del tutto diverso. In questo caso lo scarto tra le aspettative create e l’effettivo corso di eventi può crea­ re un effetto di sorpresa comica, come accade nella parodia, oppure può suscitare un senso di spiazzamento che accresce il piacere della lettura (come nei finali a sorpresa dei gialli), o infine può provocare smarrimen­ to nel destinatario che sente mancare la base dell’accordo fiduciario che aveva stabilito con il testo (e con il suo autore modello). I punti nel testo in cui è stimolata l’attività previsionale e inferenziale del destinatario vengono chiamati disgiunzioni di probabilità (Eco 1979): sono degli snodi che aprono nella trama una serie di possibilità inizial­ mente equiprobabili, che noi possiamo visualizzare in modo analogo agli svincoli di una rete ferroviaria. Arrivato allo snodo, il lettore è chiamato ad immaginare che cosa accadrà (l’investigatore catturerà l’assassino o sarà ucciso? Riuscirà l’eroe a dimostrare la propria innocenza o verrà ac­ cusato di un crimine che non ha commesso?), e in questo senso avanza un’ipotesi circa il futuro corso degli avvenimenti. Spetterà poi al testo va­ lutare l’abilità previsionale del lettore, e quindi fornire un giudizio impli­ cito circa la sua competenza. Fin qui ci siamo occupati esclusivamente delle previsioni con cui il let­ tore anticipa le ramificazioni che formano la trama. In realtà, egli deve avanzare ipotesi a tutti i livelli, e non solo a quello della storia vera e pro­ pria. Ad esempio, nel caso di un racconto di fantascienza deve capire se il mondo possibile che gli viene proposto dal racconto sia paragonabile al mondo della sua esperienza reale, o se presenti degli elementi incompati­ bili con esso. Oppure, deve cercare di comprendere se vi sia un significa­ to simbolico o allegorico profondo che percorre l’intero testo. O, ancora, deve chiedersi quali siano le motivazioni che spingono un dato personag­ gio ad agire in un certo modo piuttosto che in un altro. Ad un diverso livello di analisi, il lettore deve scegliere quale accezio­ ne di una certa parola considerare nell’ambito di una certa frase. Prendiamo il seguente esempio: (1) Il vescovo ordinò i nuovi sacerdoti. (2) Il vescovo ordinò un pollo.

Di fronte a queste due espressioni, il destinatario è chiamato ad avan­ zare 1 ipotesi che in (1) il verbo «ordinare» vada inteso come «conferire a qualcuno gli ordini sacri», mentre in (2) lo stesso verbo significhi «chie-

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dere all’addetto al servizio ciò che si desidera consumare». Nulla di tutto ciò ci viene detto esplicitamente nell’espressione lineare del testo. Sem­ plicemente, spetta a noi inferire questo senso dal contesto in cui l’enun­ ciato è inserito, nonché dalla nostra esperienza del mondo. Ogni parola presa in isolamento, infatti, contiene una serie indefinita di sensi potenziali, di connotazioni virtuali, di possibili usi contestuali. Di questo bagaglio di possibili accezioni, ciascuna delle quali sta all’origine di una storia virtuale, nel momento in cui la parola viene inserita nel suo contesto linguistico immediato, ne viene selezionata solo qualcuna, men­ tre le altre sfumature di significato lasciate inutilizzate rimangono per co­ sì dire sospese nell’aria, temporaneamente narcotizzate, ma sempre pron­ te ad essere richiamate in causa qualora le porzioni successive del testo lo richiedessero. Così, se all’inizio di un racconto ci viene presentato un personaggio umano, la sua qualità di essere umano non attiva automaticamente tutte le caratteristiche che la nostra enciclopedia attribuisce agli uomini. Ad esem­ pio, sebbene noi sappiamo che tutti gli uomini hanno un cuore, dei pol­ moni e un sistema immunitario, queste informazioni non balzano in pri­ mo piano, non sono determinanti per la nostra comprensione del testo a meno che il testo ad un certo punto non ci dica che il protagonista è car­ diopatico, nel qual caso il fatto che egli possegga un cuore riacquista la sua pertinenza in rapporto alla narrazione. Il lettore è dunque chiamato a selezionare, dalle possibili accezioni de­ gli elementi linguistici presentati dal testo, solo quelle che gli sembrano pertinenti alla luce di una determinata ipotesi di senso. La scelta delle ac­ cezioni da rendere pertinenti è sempre guidata da un’ipotesi generale cir­ ca il senso complessivo della frase inserita nel suo contesto più ampio. Ad esempio, nell’enunciato «i tuoi occhi sono carboni ardenti», le qualità del carbone rese pertinenti sono l’intensa nerezza e il bagliore, mentre ne ven­ gono messi tra parentesi il peso atomico, la consistenza al tatto, l’odore, il sapore, nonché tutta una serie di conoscenze che la nostra enciclopedia comunemente associa all’unità semantica «carbone», tra cui il fatto che la Befana porta carbone ai bambini cattivi. Ognuna di queste proprietà se­ mantiche resta tuttavia disponibile per essere pertinentizzata in un diver­ so contesto comunicativo. Per illustrare meglio il concetto di pertinenza, così come lo si sta im­ piegando in queste pagine, può essere utile rifarsi a un esempio proposto da Luis Prieto 1975: prendiamo un insieme qualunque di oggetti, come può essere l’insieme composto da un portacenere di cristallo, un bicchie­ re di carta e un martello. Questo insieme potrà essere suddiviso in modi diversi a seconda che il principio di classificazione interna sia costituito dall’insieme degli oggetti in grado di raccogliere liquidi (nel qual caso an-

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dranno bene sia il portacenere di cristallo, sia il bicchiere di carta) oppu­ re dall’insieme degli oggetti contundenti che possiamo impiegare a scopi di difesa personale (nel qual caso raggrupperemo insieme il portacenere di cristallo e il martello, mentre il bicchiere di carta si dimostrerà inutile allo scopo che ci siamo prefissati). Nel caso degli oggetti recipienti, avre­ mo reso pertinente solo la caratteristica della concavità (del portacenere e del bicchiere), indipendentemente dal materiale di cui sono composti gli oggetti in questione. La qualità materiale degli oggetti (la loro durezza e il loro peso) si dimostrerà invece essenziale nel secondo caso, quello in cui decidiamo di riunire insieme gli oggetti contundenti, ma allora sarà del tutto irrilevante la forma più o meno concava degli oggetti in esame. Na­ turalmente la nostra scelta del criterio di pertinenza dipenderà da circo­ stanze materiali della nostra vita: se per esempio abbiamo bisogno di be­ re o di difenderci da un’aggressione. Questo esempio dimostra come ogni nostro atto interpretativo sia il ri­ sultato di una serie di scelte che noi compiamo in base a una ipotesi com­ plessiva di senso. K partire da questa ipotesi preliminare, noi selezioniamo (rendiamo pertinenti) solo quegli elementi del testo che sembrino utili ai fini della nostra interpretazione, mentre mettiamo temporaneamente tra parentesi tutti gli altri aspetti che, per il momento, non si dimostrino utili ai fini della nostra ipotesi iniziale. Nell’esempio di Prieto, il testo è costi­ tuito dall’insieme degli oggetti citati (portacenere, bicchiere di carta e martello). (Ricordiamo di nuovo qui che, quando si parla di testo, si intende que­ sto termine nel senso più largo possibile, che non coincide necessaria­ mente con il testo scritto. «Testo» sta qui per ogni porzione del mondo sen­ sibile sulla quale decidiamo di esercitare la nostra attività interpretativa. In un certo senso, tutto il mondo fisico è un grande testo da interpretare: il compito istituzionale degli scienziati è per l’appunto di leggere i fenome­ ni naturali come se fossero i segni visibili di una serie di leggi fisiche da scoprire. Un testo è insomma una qualunque occorrenza espressiva che noi decidiamo di interpretare come il segno di un contenuto ancora da stabilire. ) L’interprete del nostro esempio prende dunque il testo così come gli appare a prima vista, e fin dall’inizio - in base a certi segnali che il testo stesso gli fornisce e a seconda dell’obiettivo che si propone di realizzare avanza una ipotesi preliminare di significato. Se il suo scopo pratico è di lanciare un oggetto contro un potenziale aggressore, allora selezionerà dal testo solo quelle caratteristiche che lo aiuteranno a svolgere il suo compi­ to: dunque, la qualità resa pertinente dal suo atto interpretativo sarà la du­ rezza o meno dell’oggetto, mentre altre qualità (come la capacità di rac­ cogliere liquidi) verranno messe da parte. Un principio simile di selezione guida l’interprete di un testo nella sua

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lettura. In ogni caso egli deve avanzare una certa ipotesi globale di senso fin dalle prime pagine della sua lettura. Ad esempio, di fronte a un testo che cominci con la formula «c’era una volta» e che prosegua introducen­ doci, quali personaggi della vicenda, un re e una regina, egli potrà sup­ porre che il testo in esame sia una fiaba e non un romanzo psicologico o un trattato scientifico. In base a questa ipotesi iniziale di senso, egli si pre­ disporrà a cercare nel testo quegli elementi che sembrino confermare la sua ipotesi iniziale e, al contempo, metterà tra parentesi gli elementi che non ritiene pertinenti alla luce del suo progetto di senso. Non avrebbe sen­ so interrogarsi sui motivi psicologici profondi che inducono la regina a de­ siderare un figlio, così come sarebbe fuori luogo chiedersi con ansia come sia fisiologicamente possibile che all’interno del testo in questione gli ani­ mali siano in grado di parlare. Può sempre accadere che l’ipotesi iniziale si dimostri infondata in base all’ulteriore comprensione del testo. Ad esempio, se dopo avere introdot­ to i personaggi del re e della regina il testo prosegue dicendo che il re si chiamava Enrico Vili e che la regina si chiamava Caterina d’Aragona, il let­ tore è indotto a modificare la sua ipotesi iniziale che vedeva nel testo un’occorrenza del genere narrativo fiabesco e a sostituire questa congettura infondata con una diversa ipotesi interpretativa: mi trovo di fronte a un li­ bro di storia, oppure a un romanzo storico (nel qual caso agli animali non è più concesso di parlare). Come si vede, l’interprete è tenuto a rimettere continuamente in gioco le sue congetture, rielaborandole e correggendole attraverso una serie di aggiustamenti di tiro. Questo processo di costante revisione delle ipotesi di senso è un esempio di quel principio generale det­ to circolo ermeneutico che consiste nel fatto paradossale ma necessario di interpretare le parti alla luce del tutto e il tutto alla luce delle parti. Buona parte dell’attività del lettore si risolve dunque in una serie di ipo­ tesi che egli avanza in base alle informazioni che estrae man mano dal te­ sto, unite alle sue conoscenze precedentemente acquisite circa il modo in cui i testi dello stesso genere funzionano. Le ipotesi vengono poi messe al­ la prova, ossia applicate a settori successivi del testo. Se questi ultimi si la­ sciano interpretare docilmente secondo l’ipotesi iniziale, allora tale ipote­ si risulta corroborata (rafforzata) e viene mantenuta fino a prova della sua inadeguatezza. Ma se l’ulteriore lettura del testo fa emergere degli ele­ menti che si dimostrano incompatibili con l’ipotesi di partenza, allora l’i­ potesi è falsificata e l’interprete è costretto a sostituirla con un’ipotesi più calzante. Ovviamente, egli non potrà essere certo della validità della sua ipotesi se non forse a lettura ultimata, quando il testo non ha più nessuna sorpresa o colpo di scena finale da riservargli. Almeno fino a questo mo­ mento, ogni ipotesi formulata o formulabile è eminentemente fallibile, ov­ vero passibile di essere rielaborata o sostituita.

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L’attività congetturale del lettore che parte dalle pagine di un testo (dalla sua superficie lineare) per tentare di ricostruirne le strutture se­ mantiche soggiacenti - un livello di coerenza interpretativa che consenta di ordinare le informazioni disparate offerte dal testo in base a un’unica ipotesi interpretativa di fondo - non è poi tanto diversa dall’operazione di ricostruzione degli indizi compiuta da un detective quando si reca sulla scena del delitto. Il detective va alla ricerca di tracce lasciate inconsapevolmente dal­ l’autore del crimine. Trova un portasigari che poi scopre appartenere a uno degli indiziati. A questo punto gli è possibile, tentando la formula­ zione di un’ipotesi, supporre che vi sia un legame tra la presenza attuale del portasigari sul luogo del delitto e la presenza passata del suo posses­ sore nel medesimo posto. In altre parole, il detective prova a tracciare un rapporto di causa ed effetto tra un agente assente e inaccessibile ai sensi (l’assassino) e un oggetto presente e percepibile (il portasigari). A partire dall’indizio attuale, il detective si inventa una storia che gli appaia plausi­ bile (l’indiziato X si è recato a casa della vittima e l’ha uccisa, ma nella fret­ ta ha fatto cadere il suo portasigari), e poi scommette sul fatto che questa storia inventata coincida con l’effettivo corso degli eventi che è chiamato a ricostruire. A questo punto va alla ricerca di altri indizi che rafforzino la sua ipotesi. Sia ben chiaro che, in questa prima fase, non vi è alcuna garanzia che la storia inventata dal detective sia quella giusta, ovvero che la sua scom­ messa verrà dimostrata ben fondata. Infatti, possono benissimo darsi tan­ te altre possibilità che egli non ha contemplato: ad esempio, il portasigari poteva essere stato regalato dall’indiziato alla vittima qualche giorno pri­ ma del delitto, oppure qualcuno (il vero assassino) può aver cercato di in­ castrare l’indiziato portando sul luogo del delitto un oggetto che chiunque avrebbe associato a lui, ecc. E per questo motivo che l’ipotesi, da sola, non è sufficiente a dimo­ strare alcunché. È fallibile e costantemente riformulabile. È il frutto di una scommessa abduttiva. Affinché l’ipotesi venga rafforzata dai fatti, oppure sostituita con un’ipotesi più adeguata, occorre che essa venga messa alla prova. Per tornare al nostro esempio di prima, il detective dovrà andare alla ricerca di altri indizi che puntino all’indiziato come al possibile col­ pevole. Sebbene non si possa aspirare mai a raggiungere un grado totale di certezza, perché può sempre saltare fuori un nuovo fatto che si dimo­ stri incompatibile con la congettura accettata (ad esempio, una lettera del defunto che dice di essersi suicidato), diciamo che quanto maggiore è il numero di conferme che l’ipotesi incontra, tanto maggiore è il suo grado di corroborazione, di probabilità.

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Come il detective che cerca di conoscere l’identità dell’assassino a par­ tire da certi indizi che quest’ultimo ha inavvertitamente lasciato sulla sce­ na del delitto, il lettore di un testo tenta di ricostruire ciò che è ancora ignoto (il significato del testo) a partire da ciò che è noto e percepibile (in questo senso la superficie espressiva del testo è paragonabile alla scena del delitto). In entrambi i casi, il processo interpretativo si impernia sul mec­ canismo dell’abduzione. Il circolo ermeneutico è il procedimento circolare (dalle parti che compongono il testo al tutto e, viceversa, dal tutto alle parti) che fonda ogni atto interpretativo. Il filosofo e teologo ottocentesco F. Schleiermacher è stato il primo ad occuparsi in maniera estesa della natura circola­ re del comprendere, sebbene questo concetto si ritrovi in forma abboz­ zata già nella filologia ellenistica, e riceva un’attenzione particolare da parte degli esegeti biblici fin dall’epoca della Controriforma. Il termine è stato introdotto da Dilthey nell’Origine dell’ermeneutica (1900) ed è sta­ to ripreso nel Novecento da vari filosofi, tra cui Heidegger 1927 e Gada­ mer 1960. Le analisi dei metodi investigativi di Sherlock Holmes, del Dupin di Poe e dello Zadig di Voltaire, riletti alla luce della teoria dell’abduzione di Charles Sanders Peirce, si trovano in Eco e Sebeok 1983.

6.3. Abduzione Secondo Peirce, tutta la conoscenza assume la forma dell’inferenza, nel senso che essa è sempre mediata da un ragionamento e non è mai sempli­ cemente intuitiva. Questo è un altro modo per dire che non abbiamo in­ tuizioni immediate, non abbiamo alcun accesso diretto alle cose che ci cir­ condano, ma al contrario tutto quello che possiamo conoscere circa il mondo è il frutto di un complesso ragionamento. Tale ragionamento av­ viene per lo più a livello inconscio e automatico: non ci rendiamo conto di compierlo. Ciò non toglie, tuttavia, che ogni volta che impariamo qualche cosa sul mondo, lo facciamo mediante una serie di operazioni concettuali complesse, le inferenze. Gli elementi che possono entrare in gioco in qualsiasi processo inferenziale sono tre: un caso (antecedente, causa), un risultato (conseguente, effetto) e una regola che propone un legame fra i due elementi preceden­ ti. Ad esempio, se il caso è fuoco e il risultato è fumo, la regola dice: se c'è fuoco, c’è fumo. A seconda della disposizione assunta da questi tre elementi, avremo tre diversi tipi di inferenza: la deduzione, l’induzione e \’abduzione. Peirce in-

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troduce i tre tipi di inferenza attraverso un esempio ormai celebre, che chiameremo qui l’esempio dei fagioli. Immaginiamo di essere in una stanza dove si trova un tavolo. Sul tavo­ lo c’è un sacco di tela con su scritto: fagioli bianchi. Sappiamo dunque che dentro al sacco vi sono solo fagioli bianchi. Di conseguenza, se estraiamo a caso una manciata di fagioli dal sacco, abbiamo la certezza che essi sa­ ranno tutti bianchi (a meno che la scritta sul sacco non ci abbia mentito). Questa è la struttura della deduzione. REGOLA: Tutti i fagioli in questo sacco sono bianchi CASO: Questi fagioli provengono da questo sacco RISULTATO: Questi fagioli sono bianchi (sicuramente)

Come si vede, il ragionamento deduttivo non comporta alcun accre­ scimento del sapere. Noi sapevamo fin dall’inizio che i fagioli nel sacco erano bianchi, e ci siamo limitati a calcolare le conseguenze logiche di que­ sto assunto: se estraiamo dei fagioli dal sacco, questi saranno necessaria­ mente bianchi. L’induzione procede diversamente. In questo caso noi non sappiamo ancora che cosa ci sia nel sacco (manca la scritta). Per scoprirlo, proce­ diamo sperimentalmente. Infiliamo la mano nel sacco, ed estraiamo una manciata di quello che vi troviamo dentro. Sono fagioli bianchi. Ma siamo sicuri che nel sacco non ci sia altro che fagioli bianchi? Assolutamente no. Allora ripetiamo l’operazione: ancora fagioli bianchi. Ogni volta che estraiamo una nuova manciata di fagioli bianchi, aumentiamo le possibi­ lità che il sacco contenga solo fagioli bianchi. Ma in linea di principio, non possiamo esserne sicuri fino al momento in cui non abbiamo tirato fuori l’ultimo fagiolo del sacco. La struttura logica dell’induzione sarà allora la seguente: CASO: Questi fagioli provengono da questo sacco RISULTATO: Questi fagioli sono bianchi REGOLA: Tutti i fagioli in questo sacco sono bianchi (forse)

L’induzione, dice Peirce, ci consente di allargare orizzontalmente la nostra conoscenza del mondo. La sua essenza è la generalizzazione: noi immaginiamo che ciò che è vero per un certo campione preso a caso da un insieme sia vero anche per tutti gli altri componenti dell’insieme. Non ci vuole molta inventiva per compiere questo salto logico, che comunque è sempre passibile di errore. L’unico modo per penetrare più a fondo nella comprensione delle co­ se e delle leggi che ne regolano il funzionamento è attraverso la formula-

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zione di ipotesi o abduzioni. Entriamo nella stanza e vediamo il tavolo. Sul tavolo vi sono già, sparsi, dei fagioli bianchi, ma noi non sappiamo anco­ ra da dove provengano. Guardando in giro, scopriamo che uno dei sacchi della stanza contiene solo fagioli bianchi. Cosa facciamo? Congetturiamo (ipotizziamo) che i fagioli sparsi sul tavolo provengano da quel sacco, os­ sia che costituiscano un caso di questa regola generale. Ma possiamo sba­ gliarci. Scomponendo il nostro ragionamento nelle sue parti costitutive avremo: 1) RISULTATO: Questi fagioli sono bianchi 2) REGOLA: Tutti i fagioli che provengono da questo sacco sono bianchi 3 ) CASO: Questi fagioli provengono da questo sacco

Il rapporto causale tra 1) e 2) non è immediato e inevitabile, bensì è il frutto di un salto logico rischioso: può sempre darsi che i fagioli nel sacco siano neri o che il sacco sia pieno di segatura, e che qualcuno abbia mes­ so i fagioli bianchi sul tavolo per depistarci oppure per qualsiasi altra ra­ gione (per caso). L’abduzione è un ragionamento rischioso perché implica un salto logi­ co piuttosto ardito. La regola inventata per rendere ragione del fatto con­ statato (in questo caso, la presenza di fagioli bianchi sul tavolo) potrebbe essere valida, ma come abbiamo visto sono ugualmente possibili altre re­ gole altrettanto ragionevoli. Ogni volta che formuliamo un’ipotesi, noi fac­ ciamo una scommessa. Come facciamo a controllare che la scommessa sia stata ben formula­ ta? Andando a controllare dentro al sacco. In altre parole, calcoliamo le conseguenze logiche della nostra abduzione (deduzione) e procediamo a una verifica sperimentale (induzione): se tutti i fagioli che provengono da questo sacco fossero bianchi, allora - andando a prelevare una manciata di fagioli dal sacco - ne estrarremmo fagioli bianchi; preleviamo una man­ ciata di fagioli dal sacco per verificare se essi siano tutti bianchi, come vo­ leva la nostra ipotesi. Ammettiamo che ciò accada. Neanche a questo pun­ to saremmo completamente sicuri della validità della nostra ipotesi. L’u­ nico modo per esserlo sarebbe di controllare i fagioli uno a uno, fino al­ l’ultimo. Prima di giungere alla fine, tuttavia, possiamo dire che quanto maggiore è il numero di casi che confortano la nostra abduzione, tanto più possiamo dichiararci certi della sua validità. Mentre nel caso dei fagioli ci è possibile fare un controllo completo, che non dia adito più ad alcun dubbio, nella vita quotidiana ci troviamo co­ stantemente costretti a scommettere su certe regole che non potremo mai verificare esaustivamente. Ciò è dovuto al fatto che il mondo in cui viviamo

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non è dotato di confini precisi, e che non possiamo mai essere sicuri di ave­ re esaurito tutti gli esemplari di una certa categoria. Ad esempio, fino al 1798 si pensava che nessun mammifero deponesse uova. E in effetti di tut­ te le specie di mammiferi conosciute non ve ne era nessuna che deponesse uova, tanto che la gestazione interna era diventata uno dei tratti che defini­ vano la categoria dei mammiferi in quanto contrapposta ai rettili o agli uc­ celli. Ma ecco che dall’Australia spunta uno strano animale, l’ornitorinco, il quale - pur presentando molte delle caratteristiche distintive dei mammi­ feri - depone uova. A questo punto la regola secondo la quale i mammife­ ri non possono essere ovipari si incrina irrimediabilmente: si deve ammet­ tere la possibilità che i mammiferi talvolta depongano uova (abduzione for­ mulata per la prima volta da W.H. Caldwell nel 1884, cioè ottantasei anni dopo la scoperta dell’animale. Su questo esempio, vedi Eco 1997). Il meccanismo dell’abduzione è in gioco ovunque ci sia interpreta­ zione. Non tutte le abduzioni sono ugualmente creative: la maggior par­ te delle nostre abduzioni quotidiane avvengono in maniera quasi auto­ matica, come quando riconosciamo il volto di un amico che ci viene in­ contro o quando conferiamo senso alle parole di un testo che non pre­ senti particolari difficoltà interpretative. In generale, diremo che un’abduzione è tanto più originale (e pertanto rischiosa), quanto più si disco­ sta dai percorsi interpretativi precedentemente battuti. La differenza fondamentale tra il dottor Watson e Sherlock Holmes è che, mentre le congetture di Watson sono sempre banali (in quanto si rifanno pedisse­ quamente a schemi consueti), le ipotesi di Holmes sono eccentriche e ar­ rischiate, ma proprio per questo hanno una capacità esplicativa di gran lunga superiore (anche grazie al fatto che Conan Doyle si premura di creare un mondo narrativo che si piega docilmente alle abduzioni più bi­ slacche di Holmes).

L’esempio dei fagioli, con il quale Peirce illustra la propria definizio­ ne di abduzione, si ritrova in CP, 2.619 sgg. (1877), ora in Peirce 1984. La teoria peirceiana dell’inferenza viene esposta e commentata in Bonfantini 1987 e Proni 1990.

6.4. Sceneggiature Generalmente le nostre abduzioni assomigliano più a quelle di Watson che a quelle di Holmes: la cultura in cui viviamo ci fornisce una serie di modelli esplicativi stereotipati grazie ai quali ci muoviamo nel mondo cir-

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costante piuttosto agilmente e con un minimo di dispendio interpretativo. Tali modelli si rivelano inoltre utili per la lettura dei testi, in quanto ci for­ niscono un bagaglio di conoscenze enciclopediche che ci suggeriscono quali siano le piste più promettenti da seguire nell’indagine interpretativa. Parte di queste conoscenze provengono dalla possibilità di riconosce­ re le circostanze di enunciazione dei testi, per cui un’espressione come «scendere in campo» assume significati differenti a seconda che a pro­ nunciarla sia Trapattoni in un’intervista al «Processo del lunedì» o Berlu­ sconi durante un comizio elettorale, mentre l’annuncio dello sbarco dei marziani sulla terra viene recepito diversamente a seconda che compaia al­ l’interno di un radiodramma o di un’edizione straordinaria del notiziario. Inoltre, a partire dai sottocodici stilistici di cui si è in possesso, si è in grado di interpretare varie espressioni «fatte», registrate dalla tradizione retorica, grazie alle quali si riconoscono le connotazioni stilistiche di que­ ste espressioni e si avanza qualche ipotesi circa il tipo di discorso che si sta leggendo. Un testo infarcito di espressioni legali del tipo «con la presente il sottoscritto dichiara che...» verrà immediatamente riconosciuto come un esemplare di testo giuridico-burocratico, mentre un testo che impieghi la formula introduttiva «c’era una volta» predisporrà il lettore ad assume­ re un atteggiamento fruitivo adeguato all’interpretazione di una fiaba. Al­ lo stesso modo, l’uso di certe espressioni con forti connotazioni ideologi­ che («compagno», «camerata», «patria», ecc.) fa intravedere il tipo di competenza ideologica che il testo prevede nel suo lettore. Molto spesso accade che l’orientamento ideologico del lettore lo induca a scegliere una certa interpretazione piuttosto che un’altra ugualmente possibile. La competenza enciclopedica di cui il lettore si avvale per riempire gli spazi vuoti del testo può essere concepita almeno in parte come una serie di rappresentazioni mentali schematiche (o sceneggiature} di natura semi­ narrativa che i membri di una certa cultura hanno elaborato sulla base di ripetute esperienze. La sceneggiatura (o script} è «una struttura di dati che serve a rappre­ sentare una situazione stereotipata» (Minsky 1968). Ogni sceneggiatura comporta un certo numero di informazioni che vengono organizzate se­ condo una sequenza logica e temporale, che assomiglia a una storia in­ completa. Ad esempio, nello schema corrispondente ad una visita al su­ permercato, ci sono varie caselle (o slot}, del tipo: prendere il carrello (in­ filare un euro nell’apposita fessura), camminare lungo i corridoi, sceglie­ re gli articoli (magari secondo le indicazioni fornite da una lista della spe­ sa), mettersi in coda, prendere i sacchetti, riempirli, pagare la cassiera, ecc. Si sa inoltre che il supermercato è organizzato secondo una struttura in­ terna di suddivisione per generi di articoli alimentari e non, ecc. Ogni frui­ tore competente del supermercato deve essere in possesso di tutte queste

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informazioni per potersi muovere efficientemente nella situazione specifi­ ca in cui si trova, e infatti una mancanza di competenza in merito allo sche­ ma d’azione pertinente crea un effetto di rottura e di insensatezza che può, ad esempio, essere sfruttato a fini comici. Nei discorsi non c’è bisogno di esplicitare tutti gli elementi di cui è composta una sceneggiatura comune, perché essi vengono automaticamente assunti quali valori di sfondo del discorso in questione. Gli studio­ si di Intelligenza Artificiale si riferiscono a questo fenomeno con il termi­ ne di default value (valore per difetto), intendendo con ciò quegli elemen­ ti della sceneggiatura che verranno dati per buoni fino a prova contraria. Così, se qualcuno mi racconta di essere andato al cinema, io darò per scon­ tato che abbia pagato il biglietto di ingresso prima di entrare, perché l’ac­ quisto del biglietto fa parte della sceneggiatura comune «andare al cine­ ma». I testi fanno ampio uso di queste conoscenze codificate, che essi pos­ sono tranquillamente presupporre condivise dal lettore modello e non so­ no obbligati a dichiarare. Oltre alle sceneggiature comuni, o «regole per l’azione pratica», i testi sono anche corredati di un certo numero di sceneggiature intertestuali, schemi retorici e narrativi che formano la competenza letteraria del letto­ re modello. Appartengono a questa categoria le regole di genere, che con­ sentono al lettore di riconoscere il tipo di testo di fronte al quale si trova in base alla sua conoscenza di altri testi precedentemente fruiti.

I concetti di schema e di sceneggiatura derivano dagli studi di intelli­ genza artificiale e dalla psicologia cognitivista. Lo schema, inteso come or­ ganizzazione attiva di esperienze passate, può essere fatto risalire a Bartlett 1932 e a Piaget 1937. Intorno agli anni Settanta, il concetto di schema vie­ ne recuperato per riferirsi al sistema di rappresentazione delle conoscen­ ze, e variamente denominato frame, pian, o script da psicologi e studiosi di intelligenza artificiale come Marvin Minsky, Roger Schank, Robert P. Abelson e David Rumelhart. Una sistemazione critica di questi concetti si trova in Levorato 1988. Per una analisi delle applicazioni del concetto di frame alla semantica lessicale, si veda Violi 1997. La distinzione tra sceneggiature comuni e intertestuali viene posta da Eco 1979 per cui, se le sceneggiature comuni «provengono al lettore dal­ la sua normale competenza enciclopedica, che condivide con la maggior parte dei membri della cultura a cui appartiene, e sono per lo più regole per l’azione pratica», le sceneggiature intertestuali «sono schemi retorici e narrativi che fan parte di un corredo selezionato e ristretto di cono­ scenza che non tutti i membri di una data cultura posseggono» (Eco 1979, p. 84). Sull’intertestualità, vedi infra (§ 6.5).

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6.5. Generi di discorso Nessun testo viene letto indipendentemente dal sistema letterario più ampio nel quale è collocato e quindi dall’esperienza che il lettore ha degli altri testi incontrati in passato. I vari testi che formano l’enciclopedia di una data cultura si richiamano a vicenda, si citano l’un l’altro, si strizzano l’occhio reciprocamente, e il lettore competente deve essere in grado di cogliere questi rimandi da un testo all’altro. Così, un film come Mezzo­ giorno e mezzo di fuoco non avrebbe molto senso, e non potrebbe eserci­ tare la sua funzione comica e parodistica, se lo spettatore non fosse a co­ noscenza degli stereotipi cinematografici più comuni legati al western clas­ sico (nella sua forma canonica costituita da Mezzogiorno di fuoco/High Noon). Non solo il cinema ma anche la televisione, le vignette dei giorna­ li, la letteratura umoristica, sono ricchissimi di questa forma di interte­ stualità parodistica. Che però non è affatto l’unico uso dell’intertestualità: si pensi, ad esempio, al modo in cui la pittura europea ha usato le storie bibliche e della mitologia greca, o come i fumetti usano personaggi e sto­ rie cinematografiche e viceversa, o del rapporto di parassitismo reciproco che il giornalismo politico e sportivo intrattiene con la televisione. L’insieme dei testi di una cultura viene chiamato Yintertesto (la rete di testi uniti tra loro da una serie di richiami vari), e la conoscenza dell’intertesto viene chiamata competenza intertestuale del destinatario. La com­ petenza intertestuale del lettore deriva dall’esperienza che questi ha di al­ tri testi fruiti in precedenza. In base alle sue letture passate, l’interprete si forma un repertorio di sceneggiature relative a ciascun genere di discorso. Ad esempio, lo spettatore abituale dei film western ha introiettato la re­ gola secondo cui, a un certo punto della storia, inevitabilmente si giunge al duello tra lo sceriffo e il cattivo. Il testo presuppone che il destinatario sia in possesso di tale schema di azioni stereotipate e, talvolta, può anche decidere di infrangere le regole del genere per disattendere volutamente le aspettative dell’interprete. È quanto accade, ad esempio, nel caso della parodia. Tuttavia, affinché la deviazione dalla norma possa essere intesa e apprezzata come tale, occorre che il destinatario sia dotato della compe­ tenza intertestuale necessaria per riconoscere quali convenzioni sono sta­ te violate. Anche i testi apparentemente più innovativi - quelli che sembrano rom­ pere con tutte le tradizioni precedenti, come possono essere le opere di avanguardia artistica - in realtà condividono una gran parte di presuppo­ sti e di regole implicite con la tradizione che si propongono di superare. La condizione indispensabile affinché un testo acquisti un significato per il suo

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lettore è che esso contenga un numero sufficiente di elementi conosciuti af­ finché il destinatario possa appendervi le informazioni nuove. L’interpretazione vive nello spazio che si apre tra la familiarità e l’e­ straneità, e nessuno dei due poli può essere del tutto sacrificato a vantag­ gio dell’altro: un testo che sia del tutto familiare perde ogni valore inno­ vativo e quindi informativo; non ci dice nulla che non ci sia già stato det­ to, facendo uso di esattamente gli stessi artifici espressivi. Si pensi a certi generi di letteratura di consumo, come i romanzi rosa o i fumetti di av­ ventura, che si limitano a riproporre stancamente delle formule già col­ laudate centinaia di volte, senza aggiungervi pressoché nulla. In questo ca­ so, la conoscenza, da parte del lettore, della tradizione in cui si colloca il testo fa sì che il testo in questione venga interpretato in modo quasi total­ mente automatico, senza che nel processo interpretativo subentri alcuna tensione abduttiva. Bisogna inoltre aggiungere che anche questo tipo di fruizione ripetitiva e formulaica svolge una sua funzione: essa esercita un effetto consolatorio, nel senso che rincuora e tranquillizza il destinatario confermando sistematicamente tutte le sue aspettative. L’estremo opposto è costituito da quei testi che frustrano sistematicamente tutte le aspettative del destinatario, vuoi a scopi parodistici, vuoi a scopi genericamente artistici. Ma anche in questo caso, una totale rinuncia ad agganciarsi alle conoscenze precedenti (una oscillazione troppo drasti­ ca verso il polo dell’estraneità) ha come effetto inevitabile di lasciare il de­ stinatario in uno stato di totale confusione, di non fornirgli alcun appiglio a partire dal quale esercitare la sua attività interpretativa e inferenziale. La nostra capacità di avanzare ipotesi di senso, di fare inferenze sul si­ gnificato di un testo, e quindi di interpretare il testo medesimo, dipende dal delicato equilibrio tra ciò che è noto prima della lettura (e che il testo presuppone come parte della conoscenza enciclopedica del suo destina­ tario modello) e ciò che c’è di inedito nel testo in esame. Nel tentativo di indirizzare l’interpretazione del lettore nel senso desi­ derato, il testo può cercare di fargli capire fin dall’inizio il genere al quale esso appartiene, in modo da incoraggiare il destinatario ad assumere l’at­ teggiamento fruitivo adeguato al tipo di testo che sta leggendo. L’indivi­ duazione del genere è resa possibile prima di tutto sulla base delle circo­ stanze di enunciazione e del contesto situazionale in cui si verifica lo scam­ bio comunicativo, cioè dalla presenza di marche paratestuali (vedi § 2.8). E chiaro che, se un certo articolo appare sulla prima pagina di un quoti­ diano, noi siamo automaticamente portati ad attribuirlo al genere della cronaca, piuttosto che del romanzo d’avventure. Si badi bene che talvol­ ta, a livello di puro contenuto, sarebbe difficile distinguere una notizia da­ ta come realmente accaduta da un racconto di fantasia. E un luogo co­ mune che spesso la realtà superi la fantasia romanzesca. Tuttavia, l’indivi-

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dilazione esatta delle circostanze di enunciazione non è sempre immedia­ ta. È per supplire alla mancanza originaria, costitutiva del testo scritto (la mancanza dell’interazione diretta tra locutore e interlocutore), che la pa­ gina stampata deve essere più esplicita, meno ellittica, del discorso orale, e deve badare di più a quelli che possono essere gli eventuali fraintendi­ menti che sopraggiungeranno a turbare il buon esito dello scambio co­ municativo. A questo scopo, ogni testo è disseminato di segnali di genere, di artifi­ ci espressivi mirati a fornire delle utili indicazioni circa il tipo di testo che il lettore ha di fronte. Un esempio tipico è costituito dalle formule intro­ duttive della fiaba, che rendono questo genere narrativo particolarmente riconoscibile. Appena sente le parole «c’era una volta», il destinatario si predispone ad assumere un certo atteggiamento interpretativo molto co­ dificato, quello del lettore/ascoltatore di fiabe. Ciò significa che non si scandalizzerà quando i lupi cominceranno a parlare e non si arrovellerà il cervello per capire come diavolo fa una principessa a dormire cento anni senza mai invecchiare. La copertina dei romanzi gialli (da cui viene il no­ me del genere), un certo tipo di inquadrature sempre in interni a mezzo­ busto di persone che parlano fra loro per le telenovelas, le sigle e le testa­ te dei vari organi di informazione, svolgono la stessa funzione di defini­ zione di genere. E il testo stesso, in quanto si tratta del prodotto di un insieme orche­ strato di strategie discorsive, a incoraggiare la scelta del genere al quale at­ tribuirlo. Dunque la libertà del lettore, in questo senso, non è affatto illi­ mitata. Non posso leggere un romanzo rosa come se si trattasse di un trat­ tato filosofico, a meno di non uscire dal dominio della cooperazione in­ terpretativa. Certo, vi sono alcuni testi complessi che non consentono un immediato riconoscimento del genere al quale appartengono, perché pro­ babilmente giocano con le regole di due o più generi contemporanea­ mente. Un buon esempio è costituito dai cosiddetti racconti fantastici di Poe, Hoffmann, Nerval, ecc. La caratteristica fondamentale di questi rac­ conti è di stare sempre in bilico tra lo «strano» e il «meraviglioso». In al­ tre parole, al lettore vengono presentati degli avvenimenti molto strani e spesso inquietanti. L’inquietudine è provocata dal fatto che il lettore non riesce a decidere una volta per tutti se questi avvenimenti possano essere spiegati secondo le leggi razionali del «mondo reale», o se al contrario es­ si debbano essere ascritti ad un mondo possibile soprannaturale. L’una o l’altra soluzione, se accettata pienamente, ridurrebbe l’ansia del lettore. Ma i testi in questione sono costruiti in modo che questa dialettica tra ge­ neri diversi non si possa in alcun modo risolvere senza lasciare aperto un margine di dubbio e di esitazione. Di conseguenza il lettore si trova pe­ rennemente in bilico tra il credere e il non credere.

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Nella fiaba, che appartiene a pieno titolo all’ambito del meraviglioso puro, il lettore accetta tutte le inverosimiglianze che gli vengono proposte perché fin dal principio sa che il mondo narrativo che gli verrà proposto dal testo non coincide con il mondo della sua esperienza attuale. Dunque, la fiaba non suscita alcun turbamento. Il genere del romanzo giallo, inve­ ce, appartiene al dominio dello «strano»-, un giallo ben costruito è infatti un racconto in cui tutte le apparenti anomalie che esigono di essere spie­ gate alla fine ricevono una spiegazione in linea con le leggi che noi abi­ tualmente applichiamo nella nostra comprensione del mondo reale. Il rac­ conto fantastico, infine, gioca con entrambe le possibilità, ma di solito non opta definitivamente né per l’una, né per l’altra - donde l’effetto pertur­ bante che esso genera nel lettore.

Il termine intertestualità, che si riferisce a «fatti notissimi come la re­ miniscenza, l’utilizzazione (esplicita o camuffata, ironica o allusiva) di fonti, la citazione» (Segre 1985, p. 85), è stato diffuso da Kristeva 1969, 1970 e presenta molteplici affinità con il concetto di pluridiscorsività esa­ minato da Bachtin 1975 a proposito del romanzo. Per una rassegna di diverse definizioni del concetto di genere lettera­ rio, si rimanda a Corti 1976, la quale - nel ricordare che un genere lette­ rario è «il luogo dove un’opera entra in una complessa rete di relazioni con altre opere» (Corti 1976, p. 151) - distingue tra le definizioni astrat­ te e deduttive che classificano i tipi di testi in base alla presenza/assenza di determinati tratti distintivi (vedi Genette 1966; Todorov 1970; van Dijk 1972), e l’approccio storico-induttivo che prende in esame i generi realmente esistenti (o esistiti) per tracciarne l’evoluzione e i rapporti col contesto socioculturale (vedi ad esempio Jauss 1967). I criteri in base ai quali classificare i generi sono vari e possono coin­ volgere, tra gli altri parametri, il rapporto tra il piano tematico e quello formale, il rapporto che il testo stabilisce col proprio pubblico previsto (come in Frye 1957), la modalità di presentazione - scritta o orale - del testo (come in Scholes e Kellog 1966). La definizione che Todorov 1970 dà del genere fantastico, ad esempio, è basata sul rapporto tra elementi tematici particolari (l’incursione di elementi apparentemente sopranna­ turali in un mondo narrativo altrimenti verosimile) e determinati artifici formali (ad esempio, l’uso della prima persona narrante), rapporto che a sua volta si ripercuote sull’atteggiamento fruitivo (di esitazione) che il te­ sto incoraggia nel proprio destinatario.

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6.6. Narrative artificiali e naturali Forse la prima scelta che il lettore è chiamato a compiere nel ricono­ scere il genere di appartenenza di un testo riguarda il mondo possibile al quale far risalire gli avvenimenti raccontati. Si tratta del mondo della no­ stra esperienza reale (come accade quando leggiamo gli articoli di un gior­ nale o un saggio storico) oppure di un mondo alternativo, magari fanta­ sioso (come nella fiaba) oppure verosimile ma non reale (come nei ro­ manzi «realistici»)? Talvolta la scelta nell’uno o nell’altro senso è determinata dal contesto comunicativo più ampio, oppure da certi segnali paratestuali ben precisi, come il titolo, la collocazione (una raccolta di novelle o di saggi?), o da informazioni circa l’emittente (è un giornalista o un cantastorie?). In altri casi sono necessarie delle informazioni supplementari, fornite dal testo stesso, che riguardano gli aspetti stilistici, retorici, discorsivi, ecc., che compongono il testo. La distinzione tra narrative naturali e narrative artificiali è utile per in­ quadrare i due tipi fondamentali di testo in base all’atteggiamento fruiti­ vo incoraggiato nel lettore. Entrambe descrivono dei corsi di azione, ma mentre le narrative naturali si riferiscono a eventi pensati o presentati co­ me realmente accaduti, quelle artificiali riguardano «individui e fatti at­ tribuiti a mondi possibili diversi da quello della nostra esperienza» (vedi Eco 1979, p. 70). Le narrative naturali sono racconti che si riferiscono a eventi che si sup­ pongono essere avvenuti all’interno del mondo reale, o mondo di riferi­ mento: ne fanno parte gli articoli di un giornale, i trattati scientifici, i libri di storia, i documentari o i telegiornali. L’enunciatore (e quindi il testo stesso) invita implicitamente il lettore a credere che ciò che gli viene narra­ to sia effettivamente avvenuto nel mondo dell’esperienza reale. Di conse­ guenza, il destinatario mette in pratica un atteggiamento interpretativo adeguato al tipo di testo di fronte al quale ritiene di trovarsi, per esempio giudicandone i contenuti sulla base di parametri come la verosimiglianza (gli eventi raccontati si adeguano al suo modello di mondo reale?) oppu­ re andando a cercare riscontri della veridicità del testo in altre zone del­ l’enciclopedia. Una volta accettato che il testo è attendibile, l’interprete si predispone ad ammettere che tutto ciò che gli viene detto sia realmente accaduto. Si badi bene che ciò non significa necessariamente che gli eventi ri­ portati da una narrativa naturale siano effettivamente «veri», se per verità si intende la semplice definizione di corrispondenza con i fatti reali. Una narrativa naturale può anche mentire, spacciando per veri fatti che sono

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tutt’altro che comprovati (si pensi ai falsi scoop, come quello compiuto per gioco o per scommessa da Minoli su «Mixer» del 5 febbraio 1990, e poi confessato dall’autore come un’invenzione, sul presunto broglio relativo ai risultati del referendum per la repubblica del 1946; o alla radiocronaca di uno sbarco dei marziani, una trasmissione fantastica scritta da Orson Welles che fu erroneamente interpretata come «vera» dal pubblico). Sem­ plicemente, fino a prova del contrario, il lettore si predispone ad accettare come veri gli eventi proposti da un testo che ha riconosciuto come narra­ tiva naturale. Un esempio tipico della categoria delle narrative naturali è fornito dal discorso storico, il quale stipula con il proprio lettore un patto fiduciario basato sul riconoscimento della veridicità del testo e della competenza del suo autore. Evidentemente, un lettore che legga scetticamente un saggio storico non si identifica con il lettore modello del testo ma mette in prati­ ca una decodifica aberrante del testo medesimo. Quest’ultimo farà allora di tutto per convincere il lettore che si può fidare. A grandi linee, si pos­ sono immaginare due strategie opposte per ottenere questa adesione fidu­ ciaria del lettore: (a) il testo può cercare di apparire come il riflesso inevitabile di una realtà già formata prima della sua azione su di essa. Esso può ostentare la sua neu­ tralità rispetto agli eventi raccontati, per non dare adito al sospetto che abbia in qualche modo manipolato questa realtà, interpretandola in modo parziale. Tale strategia, che è stata chiamata da Greimas mascheramento oggettivante, consiste nella cancellazione dal testo di tutte le marche dell’enunciazione che possano far pensare ad una parzialità del punto di vista proposto. L’autore si nasconde dietro ai fatti narrati e non appare mai in prima persona; di conse­ guenza, i fatti sembrano raccontarsi da soli - donde l’uso di forme imperso­ nali («si dice», «si prendano due grammi di cloruro di sodio», «si osserverà che»), del «noi» nei discorsi scientifici (l’autore modello si barrica dietro la collettività della comunità scientifica, come se ne fosse il portavoce), del pre­ sente di definizione, ecc. (b) la strategia opposta - mascheramento soggettivante - consiste nel fare leva sull’autorità già accettata dell’autore per fare passare la sua argomenta­ zione senza tante cautele e esitazioni. In questo caso, la sua presenza nel te­ sto verrà accentuata: l’autore modello parla in prima persona, si rivolge di­ rettamente al lettore, gli espone sinceramente la sua posizione. Alla fine il let­ tore non può che accettare la versione proposta dall’autore, a meno di non volere contestare apertamente la sua autorevolezza in merito alla materia trat­ tata. In altre parole, l’autore (già circondato da un’aura di autorevolezza) po­ ne se stesso come garante della verità delle affermazioni contenute nel testo. E un po’ la logica del testimonial pubblicitario.

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Se l’obiettivo delle narrative naturali è di ottenere la fiducia del letto­ re nei confronti della verità dei contenuti veicolati dal testo, le narrative artificiali propongono un diverso contratto cooperativo. Il lettore di un racconto di finzione sa benissimo che gli eventi narrati non appartengono al mondo «reale», ma debbono essere fatti risalire ad un mondo narrativo alternativo, e in certi casi incompatibile, rispetto a quello dell’esperienza attuale. Ciò nonostante, almeno fino a quando si ritrova a «guardare» al­ l’interno di questo mondo, il lettore è tenuto a «sospendere la sua incre­ dulità», ovvero a fare finta di credere che ciò che gli viene raccontato sia vero all’interno di quel determinato mondo possibile narrativo. Dunque, non avrebbe senso leggere una fiaba assumendo un atteggiamento scetti­ co, ossia commisurando le apparenti inverosimiglianze che si verificano al­ l’interno della fiaba con la propria esperienza reale. Uno spettatore di Guerre stellari non deve sorprendersi che uno Yeti se ne vada in giro per le galassie pilotando un’astronave. Se, invece, la stessa storia venisse rac­ contata da un telegiornale, lo spettatore avrebbe tutti i diritti di pensare che lo si stia prendendo per il naso. Per certi versi, il destinatario di una narrativa naturale è più esigente di quello di una narrativa artificiale, per­ ché pretende che ciò che gli viene raccontato sia vero non solo all’interno di un mondo possibile narrativo, ma che lo sia nel mondo della sua espe­ rienza attuale. Un caso a parte è costituito dai romanzi storici, in quanto al loro in­ terno alcune informazioni sono sottoposte al vaglio della verifica rispetto ad altri documenti storici (che senso avrebbe un romanzo storico in cui i francesi avessero vinto a Waterloo? Eppure un sotto-genere di «ucronie» come questa esiste e ha un suo posto dentro il grande genere della fanta­ scienza), mentre altre informazioni appartengono più propriamente alla sfera della narrativa artificiale, e quindi la loro verità storica non va con­ trollata (di solito si tratta delle informazioni riguardanti i personaggi se­ condari, di cui la storiografia ufficiale non parla). Di fronte a un romanzo storico, quindi, il lettore applica simultaneamente (o piuttosto alternati­ vamente) due regimi interpretativi: il primo, più esigente, in cui si aspetta che il testo si adegui scrupolosamente alla rappresentazione enciclopedi­ ca corrente del contesto storico nel quale è ambientata la storia; l’altro, più flessibile e superficiale, in cui sospende l’incredulità per quanto riguarda le ricostruzioni dei dialoghi tra i personaggi (di cui non esistono attesta­ zioni documentarie) o di altri segmenti narrativi in cui è accettabile che l’autore sacrifichi l’accuratezza storiografica in favore delle esigenze com­ positive del racconto. Nel secondo caso, il lettore non chiede più al testo di essere vero (nel senso di conforme alla realtà dei fatti storici), ma sem­ mai si aspetta che esso appaia verosimile-, è difatti chiaro che, anche lad­ dove l’autore si conceda un certo margine di licenza narrativa, è auspica-

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bile che egli rispetti nella sua ricostruzione i codici (linguistici, enciclope­ dici, ecc.) vigenti all’epoca dell’azione narrata. Visto che normalmente un soggetto comunicativo competente è per­ fettamente in grado di distinguere un racconto finzionale da un resocon­ to fattuale, chiediamoci ora se esistono dei tratti formali specifici della narratività artificiale {segnali di finzione) o della narratività naturale {segnali di referenzialità) che gli permettono di compiere tale distinzione. Pren­ diamo i seguenti brani: I palazzi fatati si illuminarono tutti prima che la pallida luce dell’alba ri­ velasse i mostruosi serpenti di fumo che si snodavano sopra Coketown. Uno scalpiccio di zoccoli sul selciato, un rapido squillare di sirene ed eccoli!, gli elefanti in preda a una triste follia, pronti ad affrontare la pesante fatica quo­ tidiana, ben lustrati e oliati in vista del monotono lavoro. Attento, pacato, tenace, Stephen si chinò sul telaio. Strano contrasto quel­ lo fra gli uomini immersi nella foresta di telai e le macchine su cui ciascuno di loro faticava, che stridevano, laceravano, stritolavano (C. Dickens, Tempi dif­ ficili, trad. it. di G. Lonza, Garzanti, Milano 19886). In Inghilterra, un paese assai lucroso per la Chiesa romana, ascese al tro­ no Enrico III (1216-1272), figlio di Giovanni Senza Terra, che governò e fu governato attraverso dei commissari papali. In Francia, i Capetingi non solo erano schierati con i papi, ma erano in rapporto ancora più stretto con loro. Il dominio dei Capetingi si era esteso al sud della Francia, non solo in nome della supremazia feudale, ma in seguito a una disputa ecclesiastica. Era nata lì la setta degli albigesi, che ammetteva delle concezioni religiose che si allon­ tanavano dalla chiesa romana e che era appoggiata dal conte di Tolosa. Que­ sti fu scomunicato dal papa, ed il re Luigi Vili di Francia (1223-1226) fu l’e­ secutore della proscrizione papale (L. von Ranke, Epoche della storia moder­ na, trad. it. Bibliopolis, Napoli 1997).

Non vi sono molte difficoltà a riconoscere che il primo brano è un esempio di narrativa artificiale (difatti è tratto da un romanzo di Dickens), mentre il secondo appartiene alla categoria delle narrative naturali, e più in particolare a quella dei saggi storici (Ranke, Epoche della storia moder­ na). Naturalmente l’attribuzione di un testo a un genere di discorso im­ plica sempre una scommessa abduttiva, e di conseguenza comporta un certo margine di errore possibile. Tuttavia, cerchiamo di capire che cosa, nei due brani, renda più probabile la scommessa che abbiamo proposto rispetto a quella opposta. II primo brano reca alcuni specifici segnali di finzionalità. L’uso diffu­ so delle metafore e del linguaggio figurato, che fa pensare a un uso «poe­ tico» del mezzo espressivo, è ui( primo indizio del fatto che l’intenzione

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del testo non è semplicemente di veicolare delle informazioni, ma è anche di farlo in modo piacevole ed evocativo. Questo artificio stilistico, sebbe­ ne non sia proprietà esclusiva dei testi di finzione, viene tradizionalmente associato ad essi. Un altro segnale è l’assenza di coordinate temporali ben precise e intersoggettivamente verificabili (che invece troviamo nel secon­ do brano). D’altronde, il secondo brano presenta alcuni specifici segnali di realtà: le date, che oggettivizzano gli eventi e consentono a chiunque di aggan­ ciare questi ultimi a un punto ben preciso della scala temporale socializ­ zata che è il calendario; la menzione di alcuni personaggi storici e di even­ ti conosciuti, che esulano dalla pura sfera privata dei protagonisti della vi­ cenda; il carattere densamente informativo del testo, che non perde tem­ po con descrizioni di paesaggi o di stati d’animo; il fatto che la competen­ za enciclopedica del lettore venga chiamata in causa dal testo stesso, il qua­ le presenta una forte vocazione didattica. Questi, e altri segnali testuali, indirizzano le nostre ipotesi circa l’attri­ buzione dei brani a determinati generi di discorso. Ma non possiamo es­ sere sicuri di avere formulato l’ipotesi giusta se non (a) a lettura ultimata, e (b) dopo avere letto il titolo (che comunque può essere ingannevole) o ricostruito le intenzioni comunicative dell’autore modello in base ad indi­ zi esterni al testo stesso (nome e reputazione dell’autore, collocazione del suo scritto, ecc.). Infatti, è già stato osservato (Eco 1994) che non esistono limiti alle pro­ prietà mimetiche dei racconti di finzione in quanto una narrativa artificiale può benissimo appropriarsi dei dispositivi formali tipici del saggio storico o dell’articolo giornalistico. Un incipit come «Il 16 agosto 1968 mi fu mes­ so tra le mani un libro dovuto alla penna di tale Abate Vallet...» sembra l’inizio di un saggio o di un articolo giornalistico, mentre invece si tratta dell’avvio del Nome della rosa. Vi sono poi alcuni generi di confine che, ponendosi «a cavalcioni» tra narrative naturali e artificiali, mettono in crisi la tradizionale dicotomia fattuale/finzionale, favorendo il fraintendimento: le leggende metropolitane, la Tv verità, i falsi scoop. Ciascuno a modo suo, questi generi si ap­ propriano dell’apparecchiatura formale tipica della narratività naturale, ostentando la propria (presunta) appartenenza al genere del resoconto fat­ tuale.

Ad esempio, le leggende metropolitane sono fondate sul meccanismo semiotico della menzogna: si tratta di narrative artificiali mascherate da narrative naturali. Sono storie che viaggiano «di bocca in bocca» e che, pur essendo inventate, vengono presentate come resoconti di fatti real­ mente accaduti. Solitamente si riferiscono a temi scabrosi o inquietanti le-

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gati a qualche aspetto della società moderna: lampade abbronzanti che cuociono il cervello, alligatori che si nascondono nelle fognature di New York, baby-sitter assassine, donne sconosciute che, dopo una notte d’a­ more, scompaiono lasciando scritto sullo specchio del bagno «Benvenuto nel mondo dell’Aids», francobolli allo Lsd distribuiti ai bambini delle ele­ mentari, e così via. Nonostante la loro indimostrabilità (le leggende urba­ ne non vengono mai attribuite a qualche fonte sicura), queste storie ap­ paiono credibili perché confermano i timori inconfessati di chi le ascolta. Smascherare il carattere menzognero delle leggende metropolitane è un’impresa molto difficile, implicando un complesso lavoro investigativo che raramente si è disposti a intraprendere nella vita quotidiana. Infatti, la maggior parte delle informazioni di cui disponiamo sul mondo circostan­ te è composta da notizie di seconda mano, mentre solo un porzione mini­ ma delle nostre conoscenze deriva dall’esperienza diretta. Ne consegue che siamo abitualmente portati a credere a ciò che ci viene raccontato co­ me vero, senza avvertire la necessità di controllare da vicino l’attendibilità delle nostre fonti. Il fatto è che fino a quando il destinatario crede nella veridicità del testo, questo continua a funzionare semioticamente come una narrativa naturale. In altre parole, il carattere naturale o artificiale di un racconto sembra dipendere più dal contesto comunicativo ed enciclo­ pedico in cui questo è inserito, che dalle caratteristiche insite nel raccon­ to stesso. La grande diffusione delle leggende metropolitane nel tessuto sociale potrebbe essere interpretata come un sintomo della crisi di veridizione at­ traversata dalla comunicazione contemporanea, che fa sì che la percezio­ ne collettiva dei confini tra fatto e finzione si faccia sempre più sfumata e che noi oggi leggiamo i resoconti fattuali con lo stesso velato scetticismo con cui ci accostiamo ai prodotti della fiction. In questo contesto si po­ trebbe inquadrare l’odierna tendenza della cosiddetta Neotelevisione a su­ perare la tradizionale dicotomia tra programmi di informazione e pro­ grammi di finzione. La Tv verità merita un’attenzione particolare poiché in essa le due mo­ dalità comunicative (fattuale e finzionale) si trovano inestricabilmente in­ trecciate. Ad esempio, un programma come «Chi l’ha visto?» appartiene al genere delle narrative naturali perché vuole descrivere dei particolari corsi di eventi realmente accaduti. A questo scopo, esso cerca di presen­ tare i fatti nel modo più immediato possibile, per conferire ad essi un’ap­ parenza di realtà, ovvero per ottenere un effetto di autenticità dell’evento televisivo: l’impressione non è quella di un prodotto televisivo preconfe­ zionato, la cui struttura sia già chiusa prima dell’inizio delle riprese, ma quella di un evento in atto di svolgersi. Tuttavia, nel momento in cui cer­ ca di descrivere la dinamica degli avvenimenti, la trasmissione può far prò-

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pri alcuni procedimenti tipici della narrativa artificiale, calando la realtà bruta (il materiale grezzo di partenza) in un’impalcatura fortemente nar­ rativa. La commistione dei generi ha delle evidenti ripercussioni sull’at­ teggiamento fruitivo adottato dal telespettatore, il quale oscilla tra il rico­ noscimento degli elementi artificiali delle ricostruzioni e l’accettazione del carattere fattuale del testo televisivo. Uno spettatore competente, il quale disponga del bagaglio di conoscenze necessarie per riconoscere i diversi generi televisivi (e l’estrema velocità con cui in genere si opera lo zapping è indice della diffusione di tale competenza), si orienta senza problemi nell’alternarsi dei diversi regimi comunicativi. Una specificazione dell’accordo fra destinatario e testo che sta alla ba­ se delle nozioni di letteratura naturale e artificiale si può trovare nella no­ zione di «contratto di lettura» proposto da Eliseo Veron 1984: ogni testa­ ta giornalistica, e in genere ogni emittente mediatico impegnato a un’e­ missione regolare e organizzata di testi, offre ai suoi lettori un certo stile di enunciazione stabile, certi argomenti, un certo livello di artificialità o di naturalità della narrazione, che è tenuto implicitamente a rispettare. Insomma, fra il «Corriere della Sera» e «Cronaca vera», fra il TG1 e «Scher­ zi a parte» vi è una differenza non casuale ma sistematica e, in un certo senso, contrattuale, che può essere studiata come tale e che difficilmente il giornalista potrebbe violare senza sanzioni. Qualcosa del genere avvie­ ne anche con la pubblicità, anche per la garanzia di appositi organi con­ trattuali, come il Giurì di autoregolamentazione.

I termini «narrativa naturale» e «narrativa artificiale» sono stati co­ niati da van Dijk 1974 e ripresi da Eco 1979. Sulla Neo-Tv, vedi Eco 1983 e Casetti 1988. Sulla Tv-verità, vedi Cavicchioli e Pezzini 1993. L’analisi del discorso storico è stata affrontata semioticamente da Lozano 1991.

6.7. Interpretazione e uso dei testi Come abbiamo visto nel cap. 2, la semiotica interpretativa insiste mol­ to sull’importanza che il lettore ha nella costruzione del significato di un testo. A seconda delle conoscenze di cui dispone, ciascuno di noi immet­ te sensi diversi nello stesso testo. Una lettrice abituale di romanzi rosa può identificarsi nei personaggi di questi libri e commuoversi per le loro vi­ cende; un lettore più cinico può mettersi a ridere di fronte ai sentimenti sdolcinati che essi contengono.

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A questo punto si potrebbe essere tentati di sostenere - come fanno i decostruzionisti - che visto che non si troveranno mai due lettori esatta­ mente identici, e visto che nessun singolo lettore può arrogarsi il diritto di possedere l’unica chiave di lettura valida di un testo, allora ogni interpre­ tazione vale un’altra a seconda del punto di vista prescelto dal lettore. Il ruolo attivo del lettore è qui spinto all’estremo, in quanto il margine di li­ bertà interpretativa che gli è concessa è illimitato. In linea di principio, se­ condo questa teoria nulla ci impedisce di leggere La Divina Commedia co­ me se fosse un giallo o di sostenere che Topolino possieda dei significati iniziatici nascosti. Eco si oppone a una simile tesi estrema e ribadisce l’importanza del la­ voro cooperativo che si stabilisce tra il testo e il suo destinatario. Il testo non ammette di essere interpretato in qualunque modo concepibile, ma si pone sempre come parametro delle proprie interpretazioni possibili. E ve­ ro che in alcuni casi (opere aperte) il testo conferisce al lettore un massi­ mo di libertà di manovra. Tuttavia, il testo rimane comunque sullo sfondo per costituire l’universo delle sue interpretazioni legittimabili: un’opera come VAmleto di Shakespeare può senz’altro essere letta a più livelli (co­ me si evince dal fatto che per commentarla sono stati versati fiumi d’in­ chiostro), ma ciò non significa che tutte le letture siano ugualmente vali­ de: se qualcuno sostenesse che, alla fine della tragedia, Amleto sposa Ofe­ lia, si potrebbe tranquillamente replicare che questo lettore non ha capi­ to niente della trama. Naturalmente il lettore empirico è liberissimo di tralasciare tutti i se­ gnali che il testo gli propone per guidarne l’interpretazione. Ma in questo caso egli sta rinunciando ad interpretare il testo (a cooperare con esso), e all’interpretazione subentra invece un uso incontrollato. Come distinguere tra l’interpretazione più o meno azzardata di un te­ sto e il suo wro? In 1 limiti dell’interpretazione, Eco cerca di fornire alcuni criteri operativi che consentano di chiarire questa distinzione, classifican­ do tre tipi di intenzione: (i) Vintentio auctoris-, quello che voleva dire l’autore empirico; (ii) Vintentio operisi ciò che il testo vuole dire in riferimento ai propri si­ stemi di significazione e alla propria coerenza testuale; (iii) Vintentio lectoris-. ciò che il destinatario fa dire al testo in riferimento ai propri sistemi di significazione e ai propri desideri, pulsioni, credenze, ecc.

La semiotica testuale, così come il decostruzionismo, si allontana da ogni tentativo di fondare l’interpretazione sv&’intentio auctoris, che con­ sidera irrilevante ai fini della critica letteraria e della narratologia. Nell’i­ stante in cui l’autore ha terminato la sua opera, egli diventa un interprete

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come un altro, privo come tale di un diritto di lettura preferenziale con il quale decidere d’autorità il giusto senso del proprio testo. Già nell’Ottocento si diceva che il compito dell’ermeneutica è di capire un testo anco­ ra meglio di quanto non lo abbia compreso il suo stesso autore. Ma mentre Eco vede l’interpretazione come l’oscillazione sintetica tra X'intentio operis e X'intentio lectoris, i decostruzionisti spostano vistosa­ mente l’accento sull’iniziativa libera del destinatario, di modo che il testo diventi il puro stimolo per la deriva interpretativa (o per la semiosi illimi­ tata): di esso si può dire ciò che si vuole, e in linea di principio non c’è nes­ sun criterio per decidere se una certa lettura sia migliore o peggiore delle altre, o meglio, come vedremo in seguito, questo criterio è principalmen­ te legato a considerazioni di ordine politico: secondo i decostruzionisti, un testo si leggerebbe sempre sulla base di interessi, posizioni, ideologie. In altre parole, non ci sarebbe un vero senso di un testo. In questo modo, il testo cessa di essere il parametro a partire dal qua­ le valutare le sue letture possibili e ogni interpretazione diventa una mismterpretazione, un fraintendimento più o meno felice, ovvero una ri­ scrittura radicale del testo stesso. L’interprete è dunque libero di «battere il testo in modo da adattarlo ai propri propositi» (Rorty 1989). Questo to­ tale sganciamento delle letture àdTintentio operis implica l’abbandono dell’interpretazione letterale del testo, che per Eco rimane invece una condizione preliminare essenziale a qualunque ulteriore elaborazione con­ cettuale. Bisogna però ammettere che molto spesso la distinzione tra interpre­ tazione critica e uso dei testi si fa un po’ indefinita. Lo scrittore scozzese Andrew Lang (The Blue Fairy Book, 1889) ricorda il caso di una bambina di quattro anni che, dopo aver ascoltato la fiaba di Cappuccetto rosso, esclamò «le gentil petit loup!» perché era rimasta molto ben impressiona­ ta dall’educazione del lupo, che nella storia si astiene dal mangiare le fo­ cacce che Cappuccetto Rosso porta nel cestino. Ora, è chiaro che il let­ tore modello della fiaba non è tenuto a identificarsi con il lupo e ad ap­ prezzarne le buone maniere. Però è anche vero che, effettivamente, il lu­ po non mangia le focacce (si limita a mangiare la nonna e la bambina), per cui l’interpretazione fornita dalla bambina non è priva di una certa coerenza rispetto al testo. D’altronde, la stessa fiaba di Cappuccetto rosso è stata fatta oggetto di una quantità sterminata di letture/usi diversi (in chiave psicoanalitica, etnologica, femminista, alchimistica, politica, ecc.), tanto da far supporre che la fiaba sia un genere narrativo fatto apposta per essere usato. Si può allora postulare che esistano gradi diversi di uso testuale. Se, in generale, l’uso del testo corrisponde a un atteggiamento non cooperativo del lettore che impone su di esso una chiave di lettura estranea (se non in-

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compatibile rispetto) all’intentio operis, su quale versante (interpretazio­ ne o uso) collocheremo lo smascheramento di una leggenda metropolita­ na o di un falso scoop? È difatti chiaro che colui che rifiuta di credere al­ la verità della notizia (sulla base di una serie di princìpi interpretativi intersoggettivamente verificabili), nell’istante in cui decide di leggere il te­ sto come una narrativa artificiale che si nasconde sotto le mentite spoglie di una narrativa naturale, sta in effetti respingendo il contratto interpreta­ tivo proposto dal testo stesso. Salvo il fatto che l’uso che in questo caso egli fa del suo testo è giustificato in base all’evidenza riscontrata in altri testi reperiti nell’enciclopedia, i quali falsificano la pretesa veridicità dello scoop. Da questo punto di vista, gli storici professionisti sono perennemente coinvolti in un’attività di uso testuale, nella misura in cui aspirano a met­ tere a nudo le eventuali inesattezze, sbavature o manipolazioni ideologi­ che presenti nei documenti consultati. E tuttavia, mentre decostruisce i documenti per rivelarne il carattere inesatto o menzognero, lo storico si attiene a una serie di criteri interpretativi rigorosissimi: è in base a tali cri­ teri (di coerenza, di esaustività, di economia interpretativa) che non si può sostenere, come fanno i negazionisti, che le testimonianze che attestano l’esistenza dell’olocausto siano il frutto della propaganda sionista, perché tale lettura non è confortata da alcun dato documentario e dunque trava­ lica i limiti, non solo dell’interpretazione, ma anche dell’uso testuale.

La contrapposizione fra uso e interpretazione è proposta da Eco 1990 e poi ribadita in Eco 1994,1995. Il punto di vista decostruzionista si tro­ va in Rorty 1989 (ma vedi anche l’illustrazione più complessa che di que­ ste posizioni è data nel capitolo 11 e la relativa bibliografia). L’analisi del negazionismo e delle sue fallacie si trova in Pisanty 1998.

7. Oltre i confini del testo

Come si è visto nei capitoli precedenti, la semiotica si è intensamente occupata negli ultimi decenni dell’analisi del racconto, fino al punto di tra­ sformarsi da una teoria dei segni, secondo la sua antica definizione, in una teoria dei testi e in particolare dei testi narrativi, che sono considerati sia dalla semiotica generativa che da quella interpretativa come i modelli più interessanti per comprendere la comunicazione e la significazione. Ma per molti versi il testo letterario è un modello limitato, che richie­ de di essere oltrepassato per cogliere tutta la ricchezza e la varietà del sen­ so. Le direzioni di ricerca più stimolanti della semiotica contemporanea vanno dunque al di là dei confini classici del testo narrativo puro. In dire­ zione del senso dello spazio, di altri testi come quelli visivi e degli oggetti, ma anche di forme di comunicazione più vicine al corpo come la cosid­ detta «comunicazione non verbale» e altre aree contigue. In questo capi­ tolo esaminiamo questi territori teorici.

7.1. Lo spazio e la spazialità Tra le categorie recentemente esplorate dall’analisi testuale incontria­ mo quella dello spazio, che risulta pertinente sia per il livello narrativo, sia per il livello discorsivo dei testi. Considerare il modo in cui un testo orga­ nizza la dimensione spaziale significa innanzitutto ampliare la nostra ri-

7. Oltre i confini del testo 159

flessione integrandovi la problematica della percezione, insieme al rico­ noscimento della centralità del piano dell’enunciazione, cioè della presen­ za del soggetto al discorso, un tema che abbiamo discusso a parte nel ca­ pitolo 5. Per essere adeguatamente compresa, l’analisi delle spazialità pro­ posta dalla semiotica necessita perciò di un esame che tenga conto dei molteplici strati e percorsi della significazione, che ora cercheremo di ar­ ticolare brevemente. Il nostro linguaggio e in genere il nostro sistema di significazione è profondamente intessuto di spazio. E sufficiente pensare a tutte le volte che ci esprimiamo in termini di distanza, di luogo, di sito, di percorsi o di orizzonti. In ognuna di queste occasioni utilizziamo figure dello spazio che rendono possibile l’espressione dei nostri stati d’animo, delle nostre emo­ zioni (es. «mi sento piuttosto giù», «mi sembra una persona distante»), ma anche delle nostre disposizioni cognitive (es. «questa è una risposta su­ perficiale»-, «Carlo è una persona profonda»). Grazie a queste figure siamo in grado di esprimerci passando continuamente dal piano sensibile a quel­ lo concettuale. La figuratività spaziale iscritta nei linguaggi della grande famiglia in­ doeuropea (vi sono infatti ricerche che sostengono come questo sfrutta­ mento metaforico dello spazio sia estraneo a linguaggi non indoeuropei quali quelli degli indiani Hopi), indica infatti una forma del senso che na­ sce dal rapporto di ogni soggetto con il mondo e con gli oggetti che lo cir­ condano, a partire dal suo schema corporeo. Questo schema, risultato del­ l’interazione tra la postura e l’ambiente, rappresenta l’immagine che cia­ scuno di noi elabora della propria strutturazione fisico-corporea. Grazie al­ lo schema corporeo riusciamo a segmentare la nostra localizzazione (dove sta l’alto e dove il basso, la destra e la sinistra, le distanze dagli oggetti, ecc.), orientando così aspetti del nostro sistema cognitivo che poi si riflet­ tono nel sistema semantico. A partire da questo lavoro di localizzazione, lo schema corporeo costruisce, in un certo senso, la nostra percezione dello spazio stesso in quanto sistema di polarità a cui si legano forme di attribu­ zione di valore. Alle dimensioni fondamentali dello spazio si collegano in­ fatti valori semantici (per esempio, Yalto come valore positivo in contrap­ posizione al basso) che rimandano alla dimensione timica. Come si è già visto (§ 4.10), «timia», che vuol dire «umore, disposizione affettiva di ba­ se», è il concetto che circoscrive il livello profondo dell’articolazione del­ la sostanza del contenuto profondamente legato alla dimensione fisico­ corporea. È la categoria che si articola nella coppia oppositiva euforia/disforia, come variazione della dicotomia piacere/dispiacere. Ci soffermiamo su questo aspetto per sottolineare l’ipotesi di un livel­ lo di organizzazione del contenuto posto direttamente in connessione con la percezione corporea. Tale livello risulta già valorizzato, o, meglio, defi-

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nibile entro un processo di organizzazione della sostanza del contenuto dove intervengono investimenti di valore ancorati alla percezione corpo­ rea (vedi il paragrafo sul corpo nel capitolo 11). Ciò significa ipotizzare che, nella formazione del senso, emergano delle restrizioni psicofisiche le­ gate alla percezione dello spazio, e quindi alla percezione della direzione e del movimento. Questo livello profondo viene però interpretato dalle diverse società, e perciò differentemente connotato. Alla coppia euforia/disforia si aggiun­ gono significati connotativi che mutano a seconda dei contesti: alto/basso (l’alto, come abbiamo visto, è sovente valorizzato positivamente); destra/sinistra (si pensi alle connotazioni politiche, ma anche al fatto che in molte lingue una persona «destra» è abile, una «sinistra» sembra pertur­ bante, ecc.); avanti/dietro (dove l’essere avanti connota per noi evoluzio­ ne e progresso). Oltre a fornire un orientamento e una collocazione spa­ ziale, tali opposizioni organizzano perciò delle griglie culturali a cui sono collegate le disposizioni cognitive e passionali dei soggetti. Per ciascuno di noi lo spazio è quindi orientato a partire dai movi­ menti, dai programmi e dai fini che entro di esso dispieghiamo. Ciascuna direzione orientata, in altre parole, è già di per sé un significato. Nell’at­ tribuzione di un senso dello spazio assume un ruolo di mediazione fonda­ mentale la direzione, intesa come progetto non solo motorio, ma anche nar­ rativo. «Andare avanti» o «procedere» si configurano come dei program­ mi narrativi, implicano cioè degli scopi e delle azioni del soggetto, un vo­ ler fare, un voler essere, o un saper/dover/poter fare o essere-, mettono in moto un racconto, che unisce competenze e performanze. Abbiamo già di­ scusso nei paragrafi precedenti (§§ 4.6 e 4.7) di come per la semiotica il soggetto si costituisca solo in relazione all’oggetto, formando una struttu­ ra diadica in cui interviene un’istanza narrativa. Tale istanza emerge per­ ciò già a livello della percezione del nostro schema corporeo, in funzione dei nostri fini, e cioè in rapporto a un voler fare che si pone come un pro­ gramma narrativo di base, dove gli oggetti a cui rivolgiamo la nostra at­ tenzione divengono poli d’azione. Lo spazio e il movimento entro lo spa­ zio partecipano, in altri termini, alla costruzione del senso. Date queste premesse, occuparsi di spazialità implica riflettere sui rap­ porti tra spazio, soggetto e semiosi. Significa, nel momento in cui ci oc­ cupiamo dello spazio rappresentato, ad esempio, in un racconto, ma an­ che in uno spot pubblicitario o in un film, guardare a uno dei modi attra­ verso cui il testo organizza e fornisce di senso il mondo che mette in sce­ na. La rappresentazione e la descrizione di un mondo narrativo costitui­ scono un modello di senso che si pone, al tempo stesso, come un’inter­ pretazione del mondo-, allo spazio si collegano dei valori e dei temi, dei ruo-

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li attanziali e dei ruoli patemici. In sintesi, analizzare un testo dal punto di vista del ruolo che vi gioca lo spazio, e in generale la spazialità, non vuol dire limitarsi a descrivere lo scenario in cui si dipana un racconto, oppu­ re la particolare scenografia di una pubblicità. Vuol dire invece porre la nostra attenzione sullo spazio come veicolo di significazione testuale, come luogo che determina o ostacola le trasformazioni dei soggetti e dei valori in gioco. Lo spazio, oltre a fornire una topografia, è soprattutto il supporto di un’assiologia. Lo spazio in quanto veicolo di significazione ci permette così di veri­ ficare, ad esempio, quei meccanismi che fanno di un testo un’opera «rea­ lista», come un romanzo di Emile Zola, oppure di indagare gli effetti di senso reperibili nei racconti di Virginia Woolf, i quali sembrano confon­ dere lo spazio all’azione, legandolo in modo peculiare alla soggettività de­ gli attori. Quando parliamo di romanzo «realista» indichiamo perciò la sintesi fi­ nale di una formazione discorsiva della significazione. In questo caso, ma in generale nelle analisi dello spazio, si tratta di cercare le relazioni tra le fi­ gure del discorso e la costituzione dei suoi effetti referenziali, o, al contra­ rio, la costituzione dei suoi effetti di soggettività. Ciascuna formazione discorsiva spaziale (sia essa verbale o visiva), è co­ sì una formazione sociale del sapere, in grado di esercitare un’efficacia cul­ turale. Lo spazio si pone come il luogo della visione, ma anche come quel­ lo di una specifica valorizzazione del mondo, che coinvolge le relazioni e le interazioni tra soggetto, corpo e mondo (vedi nel capitolo 11 i paragrafi su desiderio e piacere). » 7.1.1.1 livelli di analisi dello spazio

Abbiamo constatato come la categoria dello spazio sia saldamente in­ trecciata a quella del valore e della formazione stessa del senso. A questo punto vediamo come i valori si trasformano e si incarnano nelle azioni e nelle figure, indagando il livello discorsivo e quello narrativo, e in en­ trambi i casi considerando la dimensione sintattica e quella semantica. Ri­ troviamo qui gli stessi elementi che abbiamo evidenziato introducendo le tappe dell’analisi testuale, con alcune specificazioni. Iniziamo dalla su­ perficie, dallo spazio allestito, come viene narrato nei testi. A questo gra­ do le strutture profonde del senso si sono già realizzate in oggetti, forme e colori. È questo dunque il livello dello spazio agito, visto e attraversato, che diviene lo scenario delle relazioni tra attori e tra soggetti e oggetti. Qui ritroviamo sia una dimensione sintattica, sia una dimensione se­ mantica. Nel primo caso, si tratta delle procedure di spazializxazione te­ stuale, che si realizzano attraverso un procedimento di débrayage (distac-

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co dal soggetto dell’enunciazione) con cui viene posta le distinzione tra un «qui» e un «non qui» (come abbiamo spiegato meglio nel capitolo 5, de­ dicato all’enunciazione). A questo livello emergono dunque particolari fi­ gure del mondo, che, se prendiamo in considerazione il caso molto comu­ ne della narrazione «realista», sono in grado di creare impressioni referen­ ziali e determinati effetti di iconicità. Generalmente, tali effetti si possono scoprire prendendo in considerazione: a) le strategie di isotopizzazione, cioè quelle mosse nel testo che legano fra loro diversi aspetti, componenti o oggetti della narrazione, in modo da in­ trecciarli nello spazio del testo; b) i movimenti di débrayage ed embrayage interni al discorso, vale a dire tutte le possibili distanze che il discorso stabilisce tra enunciatore e discorso prodotto (es.: il passaggio dalla descrizione al dialogo): il testo rappresenta uno spazio in cui si situa la voce narrante, ovvero un altrove? E uno spazio del presente, oppure uno spazio della memoria?; c) le procedure di anaforizzazione (la co-referenza per esempio dei pro­ nomi e delle descrizioni alternative dello stesso oggetto o personaggio e tutte le strategie di ripresa e di anticipazione come l’analessi) che definiscono un luogo narrativo; d) l’uso di forme sociolettali del discorso: il «far apparire vero» che si pro­ pone come iconizzazione dell’universo sociale di riferimento, collocandolo come un luogo socioeconomico.

Sul piano semantico, assumono invece importanza i luoghi in quanto spazi d’azione (i canonici luoghi delle prove nella struttura sintagmatica del racconto, ma anche i viaggi e gli spostamenti) degli attanti narrativi. Questi spazi si specificano attraverso procedure di tematizzazione, che fanno riferimento ad assi paradigmatici di opposizioni figurativo-tematiche. L’opposizione città/campagna può collegarsi a quella tra caos (città) e pace (campagna); la distinzione casa/foresta a quella tra sicurezza (casa) e pericolo (foresta); la divisione in terno/esterno a quella tra familiare (in­ temo, e quindi conosciuto) e ostile (esterno, e quindi sconosciuto). Ma la percezione e la descrizione dello spazio riguarda sempre una realtà abitata da qualcuno che in essa si muove. Pensare alla spazialità a partire dalle azioni e dal movimento ci costringe a considerare come ele­ menti costitutivi per l’analisi due ulteriori questioni fondamentali: il sog­ getto e la temporalità, che ci introducono al livello più profondo e im­ manente delle strutture narrative, prima della loro espressione di super­ ficie. Nel momento in cui vi inseriamo un attore e un tempo, lo spazio si anima e diviene il percorso di un soggetto che vi dispiega la sua proget­ tualità.

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Se pensiamo alle diverse tappe che scandiscono lo schema narrativo ca­ nonico, ci rendiamo infatti conto che sovente la disgiunzione spaziale si pone come uno degli elementi principali che danno forma al racconto. Lo dimostra l’esempio classico delle fiabe, in cui l’eroe deve sempre allonta­ narsi dal suo spazio familiare per entrare in uno spazio estraneo e com­ piere la sua prova decisiva, in seguito all’acquisizione delle competenze adeguate. In alcune tipologie testuali e in alcuni generi, lo spazio narrati­ vo entra così in una relazione di dipendenza nei confronti dell’intreccio, mentre in altri è proprio lo spostamento in un altro spazio a determinare svolte nell’intreccio e nella curva drammatica del racconto. A questo proposito, possiamo distinguere tra uno spazio utopico, luogo in cui avviene la performanza dell’eroe, uno spazio paratopico, in cui av­ vengono l’acquisizione della competenza e la sanzione, e uno spazio eterotopico, che circonda le azioni salienti, fungendo da sfondo della narrazione. In questo spazio ancora, per così dire, immobile, si inserisce il movi­ mento del soggetto cognitivo che costruisce e ordina lo spazio stesso. E questo movimento del soggetto che delinea uno specifico regime di visio­ ne degli oggetti, un tipo di sguardo sul mondo. La spazialità è infatti sem­ pre connessa all’instaurarsi di un particolare soggetto interno al discorso: tale soggetto è orientato, si muove nel tempo e, muovendosi, modifica lo spazio intorno a sé. La semiotica chiama questo soggetto attante osserva­ tore, considerandolo come una specie di delegato nel discorso del soggetto dell’enunciazione, di personificazione del suo sguardo. Attraverso l’osservatore, l’istanza dell’enunciazione manifesta nel di­ scorso i limiti intrinseci della propria competenza cognitiva: quel che un testo fa vedere rappresenta quel che un lettore può vedere, e quindi cono­ scere. In altre parole, la porzione di spazio rappresentata è legata al sape­ re che il testo presenta e offre al proprio lettore. L’osservatore a volte si so­ vrappone (ovvero, nella terminologia semiotica, è in sincretismo) con il narratore, altre con un attore enunciato nel testo (vale a dire che è rap­ presentato da tale personaggio sulla superficie della narrazione; abbiamo discusso di questi fenomeni nel § 4.2 sulla fecalizzazione dei racconti). Nel primo caso il lettore, accompagnato dal narratore, vede e sa spesso di più dei singoli attori, nel secondo partecipa invece della visione limitata di uno di essi che il testo sceglie di presentare. L’osservatore è un’istanza che può essere dunque esplicitamente iscritta nel mondo rappresentato, oppure ri­ sultare implicita e nascosta, ma è comunque sempre presupposta dall’orga­ nizzazione del racconto. In sostanza, essa risponde alla domanda: di chi è il punto di vista? Chi organizza il discorso? L'osservatore rende conto del punto di vista sotteso a un testo, in cui convergono, come abbiamo già anticipato, una dimensio­ nepercettiva (lo spazio visibile), una cognitiva (ciò che si vede, e dunque

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ciò che si può conoscere), e una timico-assiologica (i valori legati a una spe­ cifica rappresentazione dello spazio). Nell’analisi di un testo il punto di vi­ sta non si riduce a un semplice ornamento retorico, bensì costituisce una delle procedure fondamentali attraverso cui il mondo rappresentato è ca­ ratterizzato secondo determinate condizioni di osservabilità e di conosci­ bilità e dunque è definito qualitativamente. A diversi tipi di osservatori corrispondono diversi tipi di presa sullo spazio. L’osservatore mostra uno spazio e quindi un sapere già costituito e precedente alla percezione dello spazio stesso, oppure vi è immerso e ci rac­ conta la sua percezione in atto? A seconda del peso che assume l’una o l’al­ tra modalità, l’osservatore prefigura una visione oggettivante (pensiamo ai narratori onniscienti, a romanzi quali 1 Promessi sposi), oppure ne propo­ ne una soggettivante (pensiamo a molta narrativa contemporanea, dove spesso l’osservatore coincide con il narratore). Accanto ^'osservatore emerge la figura All'informatore, vale a dire un’ulteriore strategia che pertiene agli oggetti o agli attori, e che interagi­ sce con le competenze e la visione del soggetto: l’oggetto resiste allo sguar­ do del soggetto, ovvero vi contribuisce permettendo una visione «com­ pleta»? Vi è qualcuno o qualcosa nel testo che si assume il compito di ri­ velare ciò che è necessario sapere? Scorporato così in più strategie di vi­ sione, il punto di vista diviene un particolare regime della conoscenza costi­ tuito congiuntamente da chi osserva e da chi è osservato. Con la figura del­ l’informatore si narrativizza lo spazio discorsivo, e il conseguimento della conoscenza si popola di eroi e antagonisti, di programmi di sfida, di con­ quista e di vittoria. Le istanze dell’osservatore e dell’informatore ci permettono di specifi­ care alcuni dettagli relativi a quel livello dello spazio discorsivo che chia­ miamo allestimento figurativo, in cui il testo produce determinati effetti di realtà e differenti impressioni di tipo referenziale. È il livello, dicevamo, in cui il mondo si dà a vedere attraverso la figurativizzazione di scene e og­ getti - scomponibile in configurazioni topologiche, cromatiche, eidetiche, come vedremo meglio parlando della struttura delle immagini (§7.2). I luoghi testuali deputati a questa funzione sono generalmente le de­ scrizioni, che possono risultare più o meno realistiche, più o meno oniri­ che. Una descrizione può essere così efficace da darci l’impressione di po­ ter toccare l’oggetto rappresentato, o di poter camminare nel luogo im­ maginato, oppure può ridursi a pochi tratti, e basarsi sulla semplice per­ cezione della voce narrante. L’efficacia spaziale si trova così a dipendere dagli effetti di senso che un testo è in grado di produrre: effetti di distan­ za, di lontananza, di profondità, di vicinanza. Per meglio comprendere questo aspetto, pensiamo al nesso che lega visione e movimento, attraver-

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so la direzione dello sguardo che coglie e orienta il movimento stesso. Per produrre, ad esempio, effetti di visibilità, non basta accatastare dei detta­ gli descritti staticamente: lo sguardo vi deve girare intorno. La profondità stessa (di un paesaggio, di un ambiente) si ottiene così cercando di rende­ re i movimenti e le azioni di una scena rappresentata, e cioè attraverso il modo in cui è percorsa, o risulta percorribile da uno sguardo. Lattante osservatore risulta perciò un concetto estremamente utile an­ che nelle analisi dei testi visivi (film, spot, quadri, fotografie), in cui l’or­ ganizzazione della prospettiva è il perno attorno a cui ruotano gran parte degli effetti di senso che siamo in grado di rintracciare. In ogni immagine è sempre possibile cogliere uno spazio simulato (il luogo o la persona rap­ presentati) e uno spazio relativo invece alla superficie e alla cornice che rac­ chiude l’immagine: uno spazio relativo a ciò che viene raccontato, ed uno che riguarda invece l’enunciazione del racconto. ►► 7.1.2. Un esempio: lo spazio in pubblicità

Consideriamo ora un esempio tratto dalla pubblicità delle automobili, mezzi spaziotemporali per eccellenza, in cui il ruolo dello spazio è fonda­ mentale. In questo tipo di testo pubblicitario l’automobile sovente per­ corre un qualche tipo di spazio: da quello aperto di un deserto, di una stra­ da di montagna o di campagna, a quello chiuso e delimitato di una pista di collaudo, a quello ancora più angusto delle vie di una città medievale. Accanto allo spazio in cui l’automobile si muove, vi è anche lo spazio in­ terno dell’auto e quello occupato dal suo volume. In generale, possiamo individuare tre specificazioni dello spazio testualizzato negli spot delle automobili: - lo spazio esterno in cui l’automobile si muove e agisce come vettore spa­ ziotemporale; - lo spazio dell’automobile in quanto volume e superficie, e cioè in quanto oggetto dotato di tridimensionalità che il discorso filmico ci restituisce in quanto luogo percorribile: si pensi a quando la macchina da presa inquadra e si muove lungo la linea di una carrozzeria, sottolineandone, ad esempio, la sinuosità; - lo spazio interno all’auto, l’abitacolo, che trasforma il mezzo in una po­ tenziale seconda casa.

Distinguere questi tre tipi di spazio, peraltro spesso intrecciati all’inter­ no del medesimo spot, ci permette di circoscrivere le tematizzazioni conte­ nute nel testo, e i processi di valorizzazione del prodotto pubblicizzato. Se il testo, ad esempio, tematizza lo spazio esterno, insistendo sulle di­ stanze che l’auto può percorrere, il processo di valorizzazione riguarderà

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l’auto come mezzo che può vincere lo spazio e anche, eventualmente, do­ minare gli agenti atmosferici. L’automobile è padrona dello spazio che ci fa percorrere. Quando invece lo spot sottolinea lo spazio del volume dell’auto, la va­ lorizzazione del prodotto si pone innanzitutto su un piano estetico-eroti­ co, dove l’oggetto automobile diviene un corpo, con una linea e un profi­ lo desiderabili. Si pensi a tutti gli spot in cui l’automobile è posta accanto al corpo di una donna, a volte fino a confondersi con esso. Nei casi in cui lo spot si sofferma sull’abitacolo, l’oggetto automobile costruito dal testo sarà invece valorizzato come luogo di rifugio, come uno spazio dilatato e accogliente, familiare. Accanto a questa prima suddivisione, gioca un ruolo predominante il punto di vista desumibile dalla grammatica filmica propria di ciascuno spot: in che modo ci viene mostrato lo spazio? Attraverso quali inquadra­ ture? Quale è la posizione osservatore'? Quale è il punto di vista? Al­ lo spazio rappresentato si aggiunge così la problematica dell’osservazione che delinea un tipo di sguardo-, distaccato o coinvolto, cognitivo o passio­ nale; e un percorso: lo sguardo si allontana o si avvicina all’automobile, ne è attratto oppure ne è distanziato. La spazialità prescelta, in altri termini, prefigura a sua volta un tipo di destinatario a cui lo spot si rivolge, cercando di sollecitare adesione e iden­ tificazione in o attraverso un certo spazio/mondo. Nel primo caso lo spa­ zio esterno di cui l’auto diviene padrona può, ad esempio, rivolgersi a un destinatario maschile, a cui interessano le prestazioni del veicolo. Lo spa­ zio interno e la comodità dell’abitacolo chiameranno invece in causa le esi­ genze di un destinatario famiglia, ecc. Grazie al punto di vista rappresen­ tato, possiamo altresì delineare il percorso attraverso cui lo spot pone in relazione l’oggetto automobile con un eventuale soggetto fruitore. Inoltre, possiamo definire il modo in cui lo spot ritaglia le caratteristiche del pro­ prio oggetto di valore: l’automobile è desiderabile perché è efficiente (vin­ ce lo spazio), o perché è bella, oppure perché è comoda. Questo insieme di elementi ci indica il modo in cui il testo prova a se­ durre il proprio destinatario proponendogli un insieme di valori più o me­ no desiderabili iscritti in uno spazio. Lo spazio si distribuisce dunque su più livelli di generazione del senso, e non si limita ad assolvere una fun­ zione strettamente rappresentativa. Infine, è importante sottolineare co­ me in ogni testo le associazioni tra valori e articolazioni spaziali, benché depositate nell’enciclopedia e sostanzialmente stabili, possono essere ca­ povolte. Ciascun testo, inteso in quanto microsistema, può variamente riorganizzare e ridistribuire le correlazioni tra spazio e valori, agendo su più livelli di coerenza testuale.

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Tra i primi a trattare la categoria di spazio da un punto di vista estetico-filosofico e a fornire quindi un impulso determinante alla ricerca sul­ lo spazio nei testi troviamo un filosofo come Bachelard 1957 e un critico come Blanchot 1955. Il dibattito su spazialità e semiotica è stato però inaugurato da Barthes 1968, e successivamente ampliato e approfondito da Greimas 1976a. Bertrand 1985 prosegue invece le riflessioni di Grei­ mas, applicandole al romanzo «realista». Anche Lotman e Uspenskij 1975 discutono dello spazio rispetto alle conformazioni e alle tipologie di una cultura. Nel panorama della semiotica italiana ha lavorato sullo spa­ zio Cavicchioli, i cui saggi, oltre a sintetizzare il dibattito semiotico sullo spazio e a proporre numerosi esempi, discutono i contributi provenienti da discipline come la filosofia e l’antropologia: cfr. Cavicchioli 2002 e a cu­ ra di, 1996. Per una discussione approfondita sulla semantica dello spa­ zio, e in particolare sui concetti di timismo e di schema corporeo, cfr. in­ vece Violi 1991,1996. Per quanto riguarda lo spazio nelle arti figurative e il problema della percezione delle forme, sono importanti le riflessioni di Arnheim 1982. Per un’applicazione della categoria dello spazio nella se­ miotica visiva, si veda Calabrese 1985; per un’analisi dello spazio dei tele­ giornali si veda invece Marrone 1998. Per un confronto con concetti filo­ sofici reintegrabili nell’analisi semiotica, ricordiamo le categorie di «spa­ zio liscio» e di «spazio striato» evidenziate da Deleuze e Guattari 1980.

7.2. Il visivo Non vi sono solo testi linguistici. La comunicazione è particolarmente ricca di testi visivi, che possono assumere varie funzioni fra cui anche quel­ la narrativa (come nel caso del cinema o di molta pittura figurativa). Que­ sti testi sono di estremo interesse e importanza. Capirli è una sfida impor­ tante per la semiotica. Vi sono parecchie difficoltà. Sembrerebbe per esempio che le immagini non abbiano la caratteristica doppia articolazio­ ne che si trova nel linguaggio naturale, e che pertanto in molte immagini non sia facile distinguere il piano dell’espressione da quello del contenu­ to (si pensi per esempio alla pittura cosiddetta astratta). Sembrerebbe an­ che che, se la capacità delle immagini di comunicare andasse pensata sul­ la base di codici, questi dovrebbero essere molto numerosi, almeno tanti quanti sono i modi di rappresentare visivamente la stessa cosa, e che dun­ que sarebbe forse più opportuno parlare di idioletti (cioè di lingue perso­ nali, usate solo una volta per la singola opera) piuttosto che di vere e pro­ prie lingue visive. Un’altra difficoltà importante è data dal fatto che le im­ magini non sono lineari, come invece sono il linguaggio verbale e quello scritto, il che rende molto difficile un’analisi del processo.

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Un primo modo per descrivere i testi visivi è quello, che abbiamo già suggerito al § 2.3, di parlarne come icone, cioè segni che sono similio con­ dividono alcune proprietà del loro contenuto. Quest’analisi sommaria può essere utile per orientarsi, per comprendere per esempio l’opposizione fra scrittura e immagine in un testo complesso, ma risulta molto imper­ fetta. Intanto si parla di «segni» - una nozione assai superficiale per la se­ miotica, come si è accennato. Poi non tutte le immagini sono icone. Si ca­ pisce molto meglio il funzionamento di una fotografia che ritrae un lea­ der politico sulla prima pagina del giornale, o quella che portiamo nei no­ stri documenti di identità, pensando che si tratta di indici, piuttosto che di icone, perché quel che ci interessa e rende documentarie tali immagi­ ni è il fatto che la fotografia sia stata effettivamente fatta alla persona ri­ tratta. Infine, come abbiamo visto, non è affatto chiaro che cosa sarebbe la «somiglianza» di cui si parla: un quadro è bidimensionale, la persona ri­ tratta tridimensionale, il quadro è composto di pigmenti colorati, la per­ sona di carne e di sangue, ecc. In generale è importante notare che tutte le icone sono radicali semplificazioni rispetto alla complessità del reale: le «proprietà comuni» a oggetto e rappresentazione sono molto poche di fronte all’infinita ricchezza della realtà. Si potrebbe obiettare che quel che conta è «la forma». In effetti il rapporto centrale in ogni immagine rap­ presentativa lega la sua forma dell’espressione con la forma del contenuto di un’altra semiotica, quella che organizza il nostro modo di vedere il mondo e che è fortemente influenzata dalla semantica della lingua. In particolare noi diciamo che qualcosa è un’immagine se la sua forma si può analizzare in parti che corrispondono ad alcune delle figure che il linguaggio natura­ le attribuisce all’oggetto rappresentato. Così, in un’immagine di una casa, facilmente potremo identificare delle pareti, un tetto, delle finestre, ecc.; la rappresentazione di un cane avrà zampe, coda, muso, ecc.: esattamente le figure che per casa e cane si ritrovano nella forma del contenuto del no­ stro linguaggio, che coincide con quella che è stata chiamata la semiotica del mondo naturale. Naturalmente non si può dire altrettanto della forma dei nomi del lin­ guaggio verbale, che per via arbitrarietà del linguaggio non avranno in genere parti corrispondenti a quelle del contenuto. Si può pensare dun­ que all’«iconico» come l’effetto di realtà provocato da una particolare or­ ganizzazione della forma dell’espressione delle immagini. Possiamo im­ maginare, in particolare, che vi siano testi in cui, al di là della tematizzazione e della figurativizzazione, il lavoro enunciativo possa arrivare a un’zconizzazione del racconto: come quando, per esempio, una sceneggiatura viene filmata, o un certo tema religioso viene dipinto. È necessario allora scegliere che cosa includere effettivamente nell’immagine: che dettagli, se

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i colori o solo il bianco e nero, ecc. L’iconizzazione può avvenire in molti modi diversi e con differenti intensità. Vi sono effetti di enunciazione, che chiamano in campo lo spettatore, per esempio attraverso il punto di vista fissato dalla costruzione prospettica; vi è l’uso, importantissimo per la tra­ dizione pittorica europea, di codici iconologici, che attribuiscono certe proprietà visive a certi personaggi (per esempio la tunica rossa e il manto azzurro alla Madonna, la cattedra e il leone a san Girolamo, il fulmine a Giove). Molte ricerche interessanti si possono compiere a questo livello, soprattutto interrogandosi sulla retorica dell'immagine. In generale l’uso delle immagini nella nostra cultura, in arte come in pubblicità, nel cine­ ma come nella pittura, non è puramente referenziale, ma utilizza al massi­ mo la capacità delle immagini di veicolare sensi secondi (secondo l’anali­ si della connotazione che abbiamo proposto sopra, al § 2.7) e narrazioni implicite. Finora abbiamo considerato il testo visivo dal punto di vista dei suoi effetti iconici, partendo dunque dal punto di vista del destinatario. E pos­ sibile però studiare il testo visivo innanzitutto come il risultato di un cer­ to modo di operare per produrre senso, vederlo quindi come una certa combinazione di tratti e di forme, che coesistono sul piano bidimensio­ nale. Questo è il modo di guardare alle opere d’arte di chi si occupa, ad esempio, della tecnica di un certo pittore. Più in generale, è a questo li­ vello che si è posta, nel nostro secolo, la cosiddetta «arte astratta». Se il li­ vello di discorso che abbiamo accennato in precedenza si può definire se­ miotica figurativa, si parla per questa seconda linea di indagine di semio­ tica plastica. Si usano distinguere, in questo ambito plastico, tre tipi di categorie che, quando sono articolate e realizzate da un testo visivo, contribuiscono alla formazione del senso. Innanzitutto troviamo le categorie topologiche, che in un certo senso precedono l’articolazione plastica vera e propria. So­ no quelle che orientano la nostra percezione di qualunque immagine, op­ ponendo per esempio dal punto di vista rettilineo-, alto a basso, e destra a sinistra e da quello curvilineo-, periferico e centrale, e circoscrivente e circo­ scritto. Le categorie plastiche vere e proprie sono quelle cromatiche, che ri­ guardano i colori, con la loro diversa lunghezza d’onda, intensità e satura­ zione, che si affermano come proprietà di certe superfici delle immagini, e infine le categorie eidetiche, come i contorni e le linee (per esempio, cur­ vo e diritto, acuminato e arrotondato, ecc.). Queste diverse categorie sono organizzate dall’artista (o da un appara­ to tecnico come la macchina fotografica) in maniere tali da costituire dei formanti plastici, cioè delle configurazioni che possono riuscire significa­ tive, unirsi a un significato, contribuire alla costruzione della semiotica fi­ gurativa dell’immagine. Il modo in cui sono costituiti i formanti e il modo

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in cui si compongono è naturalmente assai variabile: in un quadro im­ pressionista riconosceremo un primato delle categorie cromatiche su quelle eidetiche, il contrario in un quadro rinascimentale o in una stampa al tratto (che peraltro sono assai lontani fra loro). Quel che però è comune a tutti i testi plastici/figurativi è un particola­ re rapporto fra forma dell’espressione e forma del contenuto, che vale la pena di definire perché lo ritroviamo anche in altri tipi di testi, come quel­ li gestuali. Non vi è arbitrarietà dell’espressione, perché, come abbiamo vi­ sto, la forma è vincolata all’organizzazione dei suoi contenuti. Non siamo cioè in un sistema simbolico. Ma la stessa abbondanza dei linguaggi visivi ci chiarisce come non sarebbe corretto supporre un calco totale del piano dell’espressione rispetto a quello del contenuto, come avviene invece in certi giochi, per esempio gli scacchi, o in certi codici secondi, come il lin­ guaggio Morse rispetto alla scrittura, dove ogni unità dell’espressione è correlata univocamente a una del suo contenuto, che coincide a sua volta con la forma dell’espressione del linguaggio naturale (per esempio: «- - -», le tre linee del codice Morse corrispondono alla lettera «O» della scrittu­ ra, i tre punti «. . .» alla lettera «S»; di conseguenza, l’invocazione di aiu­ to «S O S» si traduce in Morse con «... —.. .». Ci troviamo invece in un ambito intermedio, dove vi è un rapporto non fra unità dell’espressione e unità del contenuto, ma fra categorie dell’e­ spressione e categorie del contenuto. Così, per fare un esempio molto co­ mune, l’opposizione topologica fra alto e basso in molti quadri della tra­ dizione religiosa corrisponde sul piano del contenuto a quella fra Cielo e Terra, nel loro senso più completo (comprese quindi le possibili connota­ zioni di sacro e profano, ecc.). Lo stesso accade per categorie cromatiche come chiaro e scuro, che possono corrispondere, per esempio a bene e ma­ le. Su questa base è possibile analizzare certe grandi scelte di stile cultu­ rale e significativo, come quelle che oppongono per esempio lo stile clas­ sico e quello barocco. Questa organizzazione è ciò che già prima (nel § 3.2) abbiamo nominato sotto l’etichetta di sistema semi-simbolico.

Per una storia e una teoria della visibilità dei testi, vedi Colombo ed Eugeni 1996. Il punto di vista di Greimas sulle immagini è espresso nel suo saggio riportato in Corrain e Valenti 1991 (dove sono contenute an­ che molte analisi pittoriche), la sua «semiotica del mondo naturale» si tro­ va nel capitolo dallo stesso titolo in Greimas 1970. Per analisi dell’aspet­ to visivo della pubblicità si vedano Semprini, a cura di, 1990 e 1997, Floch 1995. Una interessante sintesi della teoria semiotica del testo visibile si trova in Eugeni 2000. Sul semi-simbolismo Calabrese 1999.

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7.3. Gli oggetti Gli oggetti d’uso hanno sempre rappresentato un argomento stimo­ lante e una sfida dal punto di vista semiotico poiché mettono in gioco un ampio panorama di interrogativi sul senso, la significazione, la comunica­ zione. Come accade nel caso di diversi testi specifici - in particolare tutti i testi visivi - sono presenti da sempre molti interrogativi sulla possibilità degli oggetti di essere considerati e interpretati come «segni» costitutivi di un «linguaggio». Alla fine degli anni Sessanta in Italia c’è stato un dibattito importante (principalmente fra Umberto Eco e Tomàs Maldonado) volto a stabilire le ragioni d’interesse della semiotica per gli oggetti d’uso quotidiano e per l’architettura. Una delle questioni più discusse riguarda l’opposizione tra la comunicazione degli oggetti o la loro funzione: gli oggetti comunicano o funzionano'? A questo proposito il dibattito si è svolto intorno alla legitti­ mità di individuare la pertinenza semiotica (la funzione o la comunicazio­ ne della funzione) e alla necessità di costruire una metodologia d’indagi­ ne: la critica mossa dai progettisti accusava la semiologia di applicare le ca­ tegorie linguistiche per descrivere gli oggetti architettonici e gli oggetti d’uso limitandosi a un semplice processo di traduzione che non aggiun­ geva alcun valore conoscitivo. Tali critiche hanno stimolato la presa di co­ scienza di alcuni limiti ma soprattutto una riflessione che ha dato origine a una notevole evoluzione teorica da parte della semiotica. Nello stesso periodo anche in Francia gli oggetti d’uso sono stati i pro­ tagonisti di molte riflessioni importanti (Barthes e Baudrillard) che non si sono soffermate, come in Italia, sulla funzione o sulla comunicazione del­ la funzione ma si sono orientate a stabilire la potenzialità degli oggetti di comunicare valori sociali e connotazioni culturali come ad esempio, ele­ ganza, femminilità, tradizione, modernità, status, ecc. Dopo un lungo periodo di silenzio, negli ultimi tempi assistiamo a un rinnovato interesse per la semiotica degli oggetti. La nostra disciplina è di­ ventata anche un territorio di scambio fertile con altre scienze sociali co­ me l’antropologia, la sociologia, il marketing. Infatti, gli oggetti d’uso ven­ gono analizzati e studiati secondo una prospettiva sempre più orientata al confronto e al dialogo tra questi diversi ambiti teorici. Attualmente, in particolare in ambito specificamente semiotico, si as­ siste a due differenti modalità di approccio agli oggetti, una di matrice co­ gnitivista (Eco e Violi), l’altra di origine generativa e di scuola francese (Greimas, Floch, Fontanille). Questi approcci, sebbene diversi, partono dalle qualità percettive e sinestesiche degli oggetti (forma, colore, dimen­ sione, materia, peso, ecc.) per descriverli come veri e propri processi di si-

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gnifìcazione che invitano a certe azioni e comunicano certi valori piutto­ sto che altri. Inoltre l’aspetto peculiare delle pratiche d’uso, fino a poco tempo fa sottovalutato, emerge particolarmente in tutte le ricerche attua­ li che si interrogano per comprendere come gli oggetti d’uso vengano nel­ lo stesso modo interpretati e usati. L’approccio interpretativo individua sostanzialmente gli aspetti semiosici connessi all’uso degli oggetti, si orienta sull’osservazione dei compor­ tamenti degli utenti e delle sequenze d’azione messe in atto di fronte agli oggetti durante il loro uso quotidiano. Inoltre, come mostrano le ricerche attuali (Eco 1997, Violi 1997), queste modalità di interpretazione degli og­ getti si ispirano al cognitivismo. Gli oggetti in questi termini vengono de­ finiti per la loro natura di protesi (quando amplificano una funzione del corpo) o di interfaccia (per la loro capacità di comunicare la propria fun­ zione anche agli utenti inesperti). Le affordances sono letteralmente gli «in­ viti all’uso» (forma, materia, dimensione, ecc.) presenti nella morfologia di ogni oggetto e ne comunicano la funzione: ad esempio, un oggetto con­ cavo è adatto a contenere, un oggetto ergonomico possiede le impronte dell’uso previsto e anticipa la postura o l’intervento del corpo sull’ogget­ to stesso (poltrone, sedili, spazzolini da denti), la maniglia di una porta può informare se per aprirla è necessario spingere o tirare. Naturalmente le affordances possono comunicare in maniera adeguata o inadeguata l’u­ so corretto di ogni oggetto per cui può capitare, ad esempio, che gli uten­ ti tendano a far ruotare un pulsante che invece andrebbe premuto: è un caso di cattiva progettazione comunicativa di quell’oggetto. Secondo que­ sta posizione teorica, infatti, gli inconvenienti che possono verificarsi nel­ l’uso della maggior parte degli oggetti (spingere quando bisogna tirare e così via) non dipendono generalmente dall’incapacità di chi li usa ma so­ no causati nella maggior parte dei casi dalle qualità percettive di ogni og­ getto: tali qualità producono semiosi percettiva e condizionano l’agire di ciascun utente che, quando non sono progettate opportunamente, li in­ terpreta con fatica o nel modo sbagliato. È necessario comunque non dimenticare che la funzione di un ogget­ to non è un problema semiotico, a differenza della comunicazione della funzione (l’organizzazione dell’interfaccia) che è un aspetto di pertinenza semiotica. In altri termini, l’efficacia comunicativa degli oggetti consiste nel comprendere come e per quali caratteristiche morfologiche e del con­ testo d’uso un oggetto comunica la propria funzione: tale problema, che riguarda l’interpretazione, è un aspetto sostanziale per la semiotica. Anche la semiotica generativa considera gli oggetti come dei veri e propri processi di significazione e, precisamente, come testi. Come tali, gli oggetti vanno interpretati all’interno di una dimensione narrativa-, da questo punto di vista gli oggetti d’uso non sono soltanto dei manufatti

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dotati di una forma più o meno «funzionale» e investiti di valori ma so­ no dei veri e propri attori che prendono in carico un ruolo preciso e for­ temente attivo all’interno della vita sociale. Si definisce il carattere narra­ tivo degli oggetti interpretandoli, ad esempio, a partire dal loro statuto attanziale di attori-non-umani, che tuttavia possono assumere lo statuto di soggetti competenti nelle relazioni con gli esseri umani (e di volta in vol­ ta «aiutanti», «opponenti», «antisoggetti», ecc.), e non soltanto quello di attanti-oggetti. La dimensione narrativa che caratterizza gli oggetti, come tutti i testi, si può mettere in evidenza sulla base del fatto che qualsiasi processo di significazione contiene più o meno esplicitamente una se­ quenza d’azione e dunque manifesta un universo di valori. Infatti ogni se­ quenza d’azione si può descrivere come se manifestasse un programma narrativo (vedi §§ 4.6 e 4.7). Negli stessi termini, ogni oggetto manifesta un universo di valori (gli oggetti connotano certi valori) raccontando qual­ cosa di chi lo possiede. Come abbiamo visto nel capitolo 4, la struttura minima di ogni nar­ razione è l’azione poiché essa è segmentabile in un percorso narrativo che prevede uno stato iniziale, alcune trasformazioni e uno stato finale. Gli oggetti d’uso, proprio in quanto coinvolti in programmi d’azione stan­ dard, sono quindi da considerare degli attori sociali del mondo che ci cir­ conda: la loro funzione, per essere assolta, ha bisogno infatti di determi­ nate sequenze di gesti e di comportamenti. Gli oggetti inoltre struttura­ no lo spazio in cui viviamo e lo arricchiscono di significati; regolano for­ temente le azioni individuali e sociali. Inoltre, alla stregua di qualsiasi te­ sto, gli oggetti prevedono un «utente modello», prescrivono e seleziona­ no comportamenti e atteggiamenti. In termini semiotici, ciò significa che gli oggetti d’uso possono essere considerati dei veri e propri attanti-manipolatori poiché producono un «far fare» (sul piano reale o simbolico). Da questo punto di vista si possono individuare e definire come «ogget­ ti fattitivi» a partire dalle modalità fattitive (del far fare appunto) della se­ miotica generativa. Vale la pena anche di segnalare che le categorie plastiche di cui si è parlato a proposito del visivo si possono applicare anche direttamente agli oggetti del mondo reale, per comprendere per esempio come il desi­ gn di un certo elettrodomestico o di un modello di automobile possa riu­ scire altamente significativo e comunicare dei valori complessi (ad esem­ pio tenerezza o giovinezza, umanità o sportività), per mezzo di un uso ac­ corto della sua struttura eidetica o cromatica. Nell’ambito di questi fe­ nomeni, un posto molto importante spetta alla sinestesia, quel fenomeno cioè per cui forme di significazione e categorie caratteristiche di un cer­ to canale sensoriale vengono spesso ed efficacemente trasferite a un altro canale.

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Anche nel caso degli oggetti avremo dunque categorie topologiche, ei­ detiche e cromatiche, con la differenza che le prime due potranno essere estese al livello tridimensionale, e per esempio contenere delle opposizio­ ni come concavo/convesso. Inoltre vi saranno dei valori tattili, come li­ scio/rugoso o molle/duro. Nel caso degli oggetti, poi, sarà opportuno considerare un’organizza­ zione del senso più ricca e complessa, che individua tre «componenti» e tre «configurazioni»: 1. Componente configurativa, che scompone l’oggetto nelle sue parti co­ stitutive e lo ricompone come una forma (è l’analisi che sta alla base degli ef­ fetti di iconizzazione). Esiste una configurazione standard di una maniglia, di un computer, di un volante, di una casa, che può essere variata o innovata dal progetto di ogni oggetto; 2. Componente tassica, che rende conto delle opposizioni e delle differen­ ze che mettono in relazione l’oggetto con quelli che gli sono vicini sull’asse del sistema. Questa componente è particolarmente importante in situazioni dove vi sono complesse stratificazioni degli oggetti, come nel caso degli uten­ sili, o delle merci in concorrenza fra loro; 3. Componente funzionale, che dà ragione dei diversi usi che sono previ­ sti per l’oggetto, e in particolare 3.1 la dimensione strumentale vera e propria; 3.2 la dimensione mitica-, 3.3 la dimensione estetica. Tutte e tre queste dimensioni contribuiscono a determinare la funziona­ lità sociale di ogni oggetto.

Gli oggetti infatti sono apprezzati e funzionano non solo per quello che si può fare con essi in senso materiale, ma anche per i valori «immagina­ ri» o sociali che è possibile associare loro (per esempio lo status symbol, che fa parte della dimensione simbolica), e per il godimento estetico che se ne trae. Entrambi questi fattori sono spesso complicati da un funziona­ mento connotativo dell’oggetto, per cui esso non denota solo la propria funzione socialmente definita (come sempre accade: per esempio se, stan­ do in un edificio, vedo qualcuno per strada che porta un ombrello aper­ to, ne deduco che questo ombrello possa essere usato razionalmente, e dunque che piova). Un ombrello può anche connotare un funzionario del­ la City di Londra (in unione a una bombetta); una falce, strumento del contadino, può connotare il lavoro agricolo e così via. Attualmente tale schema, sviluppato da Jean-Marie Floch, è l’unico che permette di rendere conto di un processo di significazione complesso come l’oggetto d’uso, poiché tiene in considerazione sia gli aspetti fun-

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zionali che quelli inerenti alla dimensione valoriale legata all’oggetto stes­ so. Inoltre, questo modello è adatto sia per la descrizione di oggetti sem­ plici, come uno spazzolino da denti, che per oggetti più complessi e arti­ colati dove l’interazione con l’utente è maggiore e gli elementi da prende­ re in considerazione sono più numerosi (un’automobile, un computer, un videoregistratore). Naturalmente per interpretare un oggetto questo sche­ ma può rappresentare il metodo analitico di partenza da seguire, privile­ giando in modo approfondito alcuni aspetti, o può essere utilizzato come base teorica per proseguire in altre direzioni d’analisi. Infatti, una buona analisi pone una domanda al testo e, a seconda di questa domanda, ap­ profondisce maggiormente un livello rispetto a tutti gli altri. Per quanto riguarda gli oggetti, il procedimento di analisi deve seguire le stesse rego­ le. Ad esempio, a seconda dell’interesse per le pratiche d’uso (le azioni) o per i valori dell’oggetto (l’universo assiologico) si dovrà scegliere di ap­ profondire la dimensione strumentale o la dimensione mitica della compo­ nente funzionale-, al contrario per l’analisi comparata di due oggetti simili (due rasoi maschili di marche diverse, ad esempio) sarà necessario soffer­ marsi maggiormente sulla componente tossica.

Un altro aspetto del mondo degli oggetti su cui la semiotica si è sof­ fermata è la capacità che le cose hanno di indicare il loro uso. Gli ogget­ ti cioè non solo sono protesi che sostituiscono e amplificano una funzio­ ne del corpo (il martello è protesi del pugno chiuso con cui si percuote; gli occhiali, ma anche i cannocchiali e le televisioni sono protesi dell’oc­ chio e così via). Essi sono anche interfacce, che, nei limiti del possibile, devono riuscire a comunicare la loro funzione anche a chi non vi è per­ fettamente abituato, sulla base delle capacità degli esseri umani di for­ mulare dei principi d’azione naturali (quella na’ivephysics per cui sappia­ mo che per contenere un liquido abbiamo bisogno di un oggetto conca­ vo, ecc.) ma soprattutto del repertorio degli oggetti e delle funzioni co­ muni a una certa cultura. Le caratteristiche che esercitano questa funzio­ ne, come le maniglie delle porte, o le modanature di gomma che indica­ no come impugnare uno spazzolino da denti o un rasoio da barba, eser­ citano un’azione manipolatrice sull’utilizzatore, cioè lo fanno agire in un certo modo. Nel linguaggio della psicologia cognitiva le caratteristiche performative degli oggetti sono dette affordances. Esse possono essere più o meno corrette sul piano ergonomico (cioè di quella scienza, l’ergono­ mia, che studia i rapporti fra oggetti e loro uso da parte degli uomini, sul­ la base delle caratteristiche fisiche e psicologiche degli esseri umani). Ma è importante anche studiarne l’efficacia comunicativa, il che è un compi­ to della semiotica.

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Per quanto riguarda il dibattito sulle teorie semiotiche per l’interpre­ tazione degli oggetti architettonici e degli oggetti d’uso Eco 1968, 1997, e Maldonado 1970, 1997 ne sintetizzano chiaramente le linee generali. Eco 1968 inoltre propone le «funzioni prime» e le «funzioni seconde» per l’analisi e pone le basi della semiotica degli oggetti in Italia. I pionie­ ri della semiotica degli oggetti in Francia sono Barthes 1957,1964b, 1985; Baudrillard 1968; Moles 1972; Lévi-Strauss 1958. Di grande interesse so­ no anche i lavori di Prieto 1975, 1989-95. Per quanto riguarda la semio­ tica interpretativa, gli ultimi lavori di Eco 1997 e Violi 1997 sono i più im­ portanti e riprendono alcuni assunti del cognitivismo e delle teorie di Gibson 1979, già concretamente applicate all’analisi degli oggetti da Nor­ man 1988. Gli strumenti metodologici e i fondamenti teorici della semiotica ge­ nerativa, per quanto riguarda gli oggetti d’uso, sono presentati da Grei­ mas 1983, Floch 1995 e Fontanille 1995. In Semprini 1996, 1999, Cala­ brese 1993, Landowski e Marrone 2002, Deni 2002, Bonfantini e Zingale 1999 e Floch 1995, oltre all’apporto teorico, si trovano numerosi esem­ pi d’analisi. Per l’analisi degli oggetti secondo una prospettiva sociose­ miotica e antropologica sono molto utili Semprini 1996, 1999 e Latour 1993. Alcuni aspetti particolari degli oggetti, come il discorso sul fetici­ smo, sono trattati da Volli 1997 e Latour 1996.

7.4. Comunicazione non verbale e immagine coordinata La comunicazione faccia a faccia, sia essa costituita dalla presenza di­ retta degli interlocutori o dalla «telepresenza» di persone raffigurate al ci­ nema o in televisione, costituisce senza dubbio il principale sistema di re­ lazione degli esseri umani, in parte ereditato dal mondo animale, e dun­ que innato, in parte riccamente elaborato dalle diverse culture. Questo ti­ po di comunicazione è particolarmente interessante anche perché di soli­ to non agisce su un solo canale come capita spesso a quella mediata (il ca­ nale visivo per la stampa, quello acustico per la radio, ecc.), lasciando co­ sì ampio spazio alla comunicazione non verbale. Del registro non verbale fanno parte tutti quegli elementi comunicati­ vi diversi dal linguaggio articolato che usiamo per chiarire rapporti reci­ proci, per sottolineare discorsi, per creare intimità, per raggiungere l’in­ terlocutore sul piano emotivo: gesti, come quelli per l’affermazione e la negazione, gesti di richiamo, ge­ sti insultanti, ecc.; espressioni, come il sorriso, il riso, il riconoscimento, il pianto;

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posture (posizioni del corpo) aperte, chiuse, tese, rilassate, ecc.; movimenti e azioni (afferrare qualcuno per il braccio, accarezzare, colpi­ re, guardare, ecc.); distanze e strutture fisiche che organizzano le relazioni spaziali-, atteggiamenti (stare seduti, in piedi, ecc.); distanze (stare vicini per espri­ mere intimità, usare una scrivania per marcare differenze, ecc.); intonazioni della voce-, odori-, impronte-, grafie e scritture del corpo-, abbigliamento e così via.

La comunicazione non verbale è continua, per lo più involontaria, pro­ dotta dalla semplice presenza di una persona da cui «trasuda» senza sosta. La si può chiamare con Ering Goffman «espressione».

Sulla comunicazione non verbale, vedi Hinde 1972, Birkenbihl 1990.

►► 7.4.1. Immagine coordinata

Di solito si pensa alla comunicazione come un processo esplicito e omogeneo. Chi parla o scrive, secondo questo punto di vista, «trasmette un messaggio» il cui contenuto è dato dal significato delle parole che usa. Questa concezione forse funziona per un testo di matematica o per un bol­ lettino di borsa. Ma essa non è certamente realistica per comprendere la vita interpersonale, né per la comunicazione d’impresa, soprattutto per quella che si rivolge al pubblico. Quando si discorre nella vita quotidiana, fra amici o in famiglia, la maggior parte delle cose importanti non vengo­ no dette esplicitamente, ma sono sottintese e trasmesse sólo con il tono del­ la voce, l’atteggiamento del corpo, o anche solo scegliendo questo o quel­ l’argomento di conversazione. E possibile, esattamente con le stesse paro­ le, esprimere amore o indifferenza, sincero interesse o banale educazione. Quella parte di comunicazione che non è esplicita, che non viene co­ dificata nel significato delle parole, che non è un puro passaggio di infor­ mazione, viene di solito chiamata dagli studiosi di comunicazione espres­ sione. Ogni comunicazione comprende dunque una parte di informazione esplicita e una parte di espressione. C’è chi sostiene che espressione, per esempio la postura del corpo, il tono della voce, la distanza che si assume in un dialogo, in genere la comunicazione non verbale, sia di gran lunga più consistente della parte esplicita della comunicazione. Questa è una te­ si suggestiva, anche se è difficile misurare in questo ambito le quantità di comunicazione trasmesse. Una cosa è certa. Informazione ed espressione non adempiono alla stessa funzione comunicativa. Mentre in genere l’informazione esplicita ri-

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guarda i contenuti della comunicazione, l’espressione ha a che fare piut­ tosto con la relazione fra gli interlocutori. Se qualcuno mi chiede di cono­ scere, poniamo, su un risultato sportivo, il dato puro e semplice di come sono andate le cose, questo può essere trasmesso con sufficiente precisio­ ne solo in maniera esplicita («Ha vinto la squadra tale, con questo pun­ teggio; i gol sono stati segnati da...»). Il tono della voce, il modo in cui l’informazione è organizzata, gli elementi enunciativi (come le persone del verbo: «abbiamo vinto», «hanno segnato», i possessivi, ecc.) servono in­ vece a comunicare e molto spesso perfino a stabilire la relazione fra gli in­ terlocutori: amici o estranei, tifosi della stessa squadra e dunque alleati o avversari, membri dello stesso ambiente sportivo o no, ecc. Naturalmente questo esempio sportivo si può estendere a qualunque argomento, dalla politica all’amore agli affari. Questo principio non vale solo per la comunicazione orale: uno stesso testo, per esempio un appuntamento, scritto a macchina su carta intesta­ ta o su un foglio sottile vergato da una scrittura femminile azzurro pallido (per citare il titolo di un noto romanzo) cambia molto del suo senso, co­ me sanno bene coloro che cercano di personalizzare l’impersonalissima posta elettronica. La distinzione fra informazione ed espressione regge perfettamente anche nel caso della comunicazione aziendale. Le imprese devono certamente comunicare molte informazioni ai loro fornitori, con­ correnti e soprattutto ai loro consumatori. Ma ancor più che trasmettere correttamente le informazioni sulla sua attività, all’impresa interessa sta­ bilire un’immagine sufficientemente ricca, corretta e favorevole di se stes­ sa, definirsi in maniera adeguata, cioè stabilire una buona relazione con la sua clientela. Il che significa lavorare sul piano dell’espressione. Questa è la funzione più importante della marca. E sempre possibile trasformare l’espressione in informazione, renden­ do esplicita la relazione. In certi casi non basta stringersi la mano, bisogna dirsi che si è amici oppure è opportuno stabilire esplicitamente che si sta parlando sul serio, senza accontentarsi del tono della voce. Le aziende la­ vorano spesso per comunicare esplicitamente la propria identità e la rela­ zione che cercano col pubblico, producendo per esempio la pubblicità istituzionale. Ma ogni volta che un’azienda agisce ed è presente ai suoi clienti e for­ nitori (cioè ogni volta che apre dei locali, che usa dei mezzi di trasporto propri, che prepara cataloghi, che scrive lettere commerciali, che rispon­ de al telefono e scrive dei fax, che esercita la sua attività) vi è sempre un aspetto espressivo in questa sua presenza. Non si può rispondere al telefo­ no, scrivere una lettera, effettuare un trasporto, ecc. senza trasmettere un 'immagine dell’azienda, attraverso i lati espressivi che sono connessi a ta­ le attività: la lettera sarà scritta su una carta intestata, fatta in una certa ma-

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niera, con certe immagini, un certo lettering; i mezzi di trasporto saranno caratterizzati da certi colori e da certe parole, la centralinista risponderà indicando l’azienda in un certo modo, ecc. Questo è particolarmente ve­ ro per le società che agiscono per un vasto pubblico. Gestire tutta questa espressione - se essa è davvero gestita e in molte aziende essa non lo è se non per una piccola frazione - vuol dire realizza­ re l’immagine coordinata di un’impresa. Si tratta di un’attività progettuale di ampio respiro, che deve stabilire le regole, per così dire la grammatica dell’espressione aziendale. Non si tratta semplicemente di mettere a posto la presentazione estetica, di rendere coerente e organizzata l’ornamenta­ zione dell’attività aziendale, come qualcuno potrebbe pensare. Vi è molto di più. L’importanza decisiva dell’immagine coordinata sta nel proiettare all’esterno una concezione dell'azienda e della sua missione, di stabilire un’identità, di far capire al pubblico - implicitamente ma efficacemente quali siano i vantaggi competitivi su cui l’impresa punta, quale sia la sua differenza dai concorrenti. Insomma, l’immagine coordinata è la proiezio­ ne concreta della marca. Sono passi essenziali, soprattutto nel momento in cui, per la maggior parte dei prodotti e i servizi, i dati di base - la pura fun­ zionalità - sono in genere garantiti e non troppo diversi tra un concorren­ te e l’altro. Si dice spesso che oggi sui mercati la differenza è per lo più da­ ta da fattori immateriali, cioè comunicativi. Ora questi fattori sono per lo più veicolati da quel livello comunicativo che abbiamo definito come espressione, i quali sono sempre presenti, siano o meno progettati, siano o meno coordinati. La percezione della marca dipende fortemente dalla qua­ lità della sua espressione.

Sulla progettazione dell’immagine coordinata vedi Anceschi 1992, Anceschi, a cura di, 1993, Ferraro, a cura di, 1987.

►► 7.4.2. Cinesica

Le caratteristiche di continuità e obbligatorietà che abbiamo rilevato nella comunicazione non verbale aprono lo spazio a un’interpretabilità senza limiti, che in effetti è largamente praticata nella nostra cultura come in molte altre. Anche senza considerare le pratiche divinatorie che cerca­ no di indovinare un senso o un destino nelle linee della mano, nelle mac­ chie dell’iride o delle unghie, la medicina psicosomatica tende a leggere come messaggi della psiche i sintomi corporei, molte diverse scuole psi­ cologiche che si rifanno a Lowen e Reich fanno la stessa cosa con la forma stessa del corpo, coi gesti e con le posture, spesso prendendo alla lettera metafore consolidate nel linguaggio come «avere i piedi ben piantati per

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terra» o «la testa nelle nuvole». Oggi poi sono disponibili ottimi reperto­ ri antropologici dei gesti, che identificano i valori simbolici attribuiti loro dalle diverse culture, analisi etologiche che ne mostrano la parentela con il comportamento animale, ecc. Queste diverse linee di lettura del corpo coprono pratiche assai diver­ se, alcune preziose ed efficaci, altre organizzate scientificamente, altre cu­ riose e bizzarre, altre ancora semplicemente truffaldine. Nessuna di esse è però stata in grado di articolare una grammatica precisa della loro lettura. Ci ha provato invece quel ramo della semiotica che si occupa dei gesti, ed è nota come cinesica. Ad esempio Michael Argyle 1972 classificain dieci gruppi i movimenti umani che hanno funzione significativa e di coordina­ zione: - contatto fisico - prossimità - orientamento - aspetto - postura - cenni del capo - espressioni del volto - gesti - sguardo - aspetti non verbali del parlato.

Per quanto riguarda in particolare i gesti, che sono i movimenti più ar­ ticolati e complessi, lo stesso Argyle 1975 li classifica ulteriormente in que­ sta maniera: 1. gesti illustratori (che sottolineano il linguaggio verbale) e altri segnali correlati al linguaggio; 2. gesti convenzionali e linguaggio dei segni (per esempio gli alfabeti dei sordomuti); 3. movimenti che esprimono stati emotivi e atteggiamenti interpersonali; 4. movimenti che esprimono la personalità-, 5. movimenti usati nei rituali e. nelle cerimonie.

Una classificazione simile a questa ma più rigorosa è quella di Ekman e Friesen 1969, che si ispira a un lavoro di Efron 1941: 1. emblemi- segnali emessi intenzionalmente con un significato specifico che può essere tradotto verbalmente. Per esempio, le braccia larghe del vigi­ le urbano che significano «alt»;

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2. illustratori - segni che commentano il linguaggio verbale e lo sottoli­ neano. Si dividono in: - bacchette, che scandiscono le parti del discorso, come fossero una punteggiatura; - ideografici, che indicano un movimento di pensiero. Per esempio, i ge­ sti in direzioni diverse con cui si sottolinea un modo di dire come «da un la­ to... dall’altro...»; - deittici, che indicano un oggetto o una persona; - spaziali, che individuano una posizione o un luogo; - cinetografici, che illustrano un’azione del corpo (una sorta di metagesto); - pictografici o mimetici; 3. regolatori, che servono a sincronizzare gli interventi in una conversa­ zione, indicare il turno di parola, ecc.; 4. indicatori dello stato affettivo, come per esempio il torcersi le mani per l’impazienza o l’ira; 5. adattatori, che regolano la posizione del corpo rispetto a un’altra per­ sona, a un oggetto, o a se stesso.

Questo tipo di classificazioni non sono fini a se stesse. Esse consento­ no delle notazioni molto particolareggiate dei movimenti e costituiscono la griglia per vedere come le differenti culture trattano in modi diversi il canale della comunicazione non verbale. Al di là dei problemi di notazio­ ne e di classificazione, in pratica la comunicazione non verbale è sempre soggetta di,'interpretazione più o meno consapevole di chi vi assiste: gli es­ seri umani sono tutti bene addestrati a leggere nel comportamento altrui i sintomi di minaccia, disponibilità, affetto, menzogna, interesse, e di nu­ merose altre passioni, disposizioni psicologiche, relazioni sociali. E diffi­ cile proporre un sistema di regole per tale lavoro interpretativo, che per lo più è informale e opinabile. Su alcuni punti però c’è un sufficiente accor­ do fra gli studiosi che si sono occupati dell’argomento. Per esempio, si possono distinguere differenti gradi di apertura/chiusura del corpo. La chiusura consiste in un atteggiamento di protezione delle zone vita­ li del corpo, ripiegandolo su se stesso (assumendo, per esempio, posture inclinate in avanti) o coprendo viso, gola, torace e ventre con gli arti e al­ tri accessori (quindi incrociando le braccia e le gambe, maneggiando bor­ se e incartamenti, ecc.). ^apertura al contrario consiste nell’esporre la go­ la, il petto, l’addome, il palmo della mano: dunque nel tenere il corpo eret­ to e magari inclinato all’indietro, nel portare le braccia dietro la testa o sui fianchi, nel non opporre barriere allo sguardo altrui. L’atteggiamento aper­ to può sconfinare nell’imposizione e nell’arroganza, quello chiuso nella sottomissione e nella timidezza.

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Oltre ai libri di Efron, Ekman e Friesen e Argyle, già citati nel testo, una sintesi interessante sulla comunicazione non verbale è in Synnott 1993. Si veda anche Sebeok, Hayes e Bateson 1964, con la discussione contenuta nell’introduzione all’edizione italiana. Un punto di vista di­ vulgativo ma interessante è D. Morris 1967. Analisi parziali in Magli 1996 e Volli 1998. Si veda anche sul corpo il § 11.2.

►► 7.4.3. Prossemica

Uno dei sistemi di comunicazione non verbale più semplici e più siste­ matici, quindi più facili da descrivere, ma più influenti e concreti è quello che regola il senso delle distanze fra le persone. Secondo Edward Hall 1966 (pp. 147 sgg.) si distinguono quattro diverse zone, ognuna suddivi­ sa in due fasi. La posizione che le persone assumono nella loro relazione spaziale è indizio dei loro rapporti sociali o dei loro sentimenti reciproci, o delle due cose assieme. Vi è una distanza intima, dove la presenza dell’altro è evidente e può es­ sere eccessivamente coinvolgente, a causa dell’intensificarsi e dell’ingigantirsi degli apporti sensoriali, come la vista (spesso deformata), l’olfatto, il calo­ re del corpo dell’altra persona. La fase di vicinanza di tale distanza è il con­ tatto: la condizione dell’amplesso e della lotta, del conforto e della protezio­ ne. Nella fase di lontananza (cm 15 - 45) il capo, le cosce e le parti pelviche non si toccano facilmente, ma le mani possono raggiungere e afferrare le estremità. Mantenere una distanza intima in pubblico è considerato general­ mente scorretto nella nostra cultura. Nella fase di vicinanza (cm 45 - 75) della distanza personale, si può teori­ camente trattenere o afferrare l’altro. È la condizione in cui generalmente si tengono due persone che si conoscono e parlano fra loro. La fase di lonta­ nanza (cm 75 -120) si estende da una soglia appena oltre l’intervallo che con­ sente di toccare facilmente l’altro, a un limite in cui due persone possono toc­ carsi le dita allungando ciascuno il braccio. È il rapporto naturale con gli estranei. Nella fase di vicinanza (m 1,20 - 2,10) della distanza sociale si trattano gli affari impersonali, e nella fase di vicinanza c’è maggior coinvolgimento che in quella di lontananza. Tendono a usarla le persone che lavorano assieme. La fase di lontananza (m 2,10 - 3,60) può essere usata per isolare o scher­ mare reciprocamente gli individui: è una distanza che rende possibile conti­ nuare a lavorare in presenza di altri senza apparire sgarbati. La distanza pubblica è quella che si stabilisce automaticamente intorno a importanti personaggi pubblici ma può occorrere a chiunque in occasioni pubbliche.

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Bisogna notare che le misure di Hall e anche buona parte delle reazio­ ni che egli classifica rispetto alle distanze sono specifiche alla cultura ame­ ricana (in particolare alla sua variante bianca e borghese). In altre culture, le convenzioni sul significato dell’occupazione dello spazio possono esse­ re molto diverse, anche se un codice è sempre presente. Per esempio, è evi­ dente che la cultura prossemica italiana è più «stretta» di quella america­ na e tutte le distanze, in particolare quelle della situazione «personale», andrebbero da noi di molto accorciate. Ma proprio questa variabilità sot­ tolinea il carattere comunicativo e non puramente biologico delle reazio­ ni umane allo spazio e alle distanze. Anche il tema del significato tran­ sculturale delle distanze è un argomento prossemico.

La teorizzazione dell’importanza comunicativa delle distanze e i ri­ sultati delle ricerche prossemiche di Hall si trovano in E. Hall 1966,1959. Per un’utilizzazione della prossemica nella comunicazione interculturale vedi Balboni 1999.

7.5. Oralità e scrittura Una distinzione importante e tradizionale nell’ambito della comunica­ zione contrappone oralità e scrittura. Già Platone nel Fedro teorizzava quest’opposizione, a tutto vantaggio dell’oralità. L’oralità, sosteneva il fi­ losofo, comporta la presenza degli interlocutori, quindi il dialogo, la pos­ sibilità per chi parla di «difendere il discorso». La scrittura al contrario produce una comunicazione in assenza dell’autore, quindi significa im­ possibilità del dialogo: «il libro, interrogato, non risponde o ripete sempre la stessa cosa». La discussione sulle differenze fra culture orali e scritte è stata molto accesa negli ultimi decenni, sulla base di ricerche storiche, filologiche (sui testi di Omero) e antropologiche (su popolazioni in condizioni di «oralità primaria», cioè che non hanno mai conosciuto la scrittura). Una sintesi è stata elaborata da Walter Ong. La cultura orale - non potendo fare affidamento su fonti scritte come deposito di informazione e dovendo contare solo sulla memoria e dunque su tecniche mnemoniche basate su ritmo e ripetizione -, secondo Ong è: - Paratattica piuttosto che ipotattica cioè preferisce coordinare il discorso con brevi proposizioni indipenden­ ti o unite da congiunzioni semplici («e», «ma», «allora») invece che organiz-

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zare architetture sintattiche complesse, con molte proposizioni subordinate. - Aggregativa piuttosto che analitica cioè sul piano dei contenuti mette assieme i fenomeni secondo un princi­ pio analogo: unire in serie piuttosto che mettere in luce la complessità dei le­ gami. - Ridondante piuttosto che economica usa cioè ripetere le proprie informazioni molte volte, per ricordarle meglio. - Tradizionalista piuttosto che innovatrice cioè privilegia la memoria sull’invenzione di nuove forme e contenuti. - Agonistica piuttosto che oggettiva perché privilegia la partecipazione di chi parla nel discorso, e ciò porta spesso alla competizione dei tecnici della memoria (aedi, cantori, ecc.). - Enfatica e partecipativa piuttosto che oggettiva e distaccata perché i contenuti sono sempre profondamente personalizzati e fatti pro­ pri anche dall’uditorio. - Situazionale piuttosto che astratta cioè preferisce raccontare storie piuttosto che elencare contenuti, perso­ nifica le idee astratte che usa (spesso sotto la forma di dei). Nei termini di Lotman è piuttosto testualizzata che grammaticalizzata.

Sulla contrapposizione fra oralità e scrittura e sulle sue conseguenze comunicative, si è sviluppato un grande dibattito, a partire dallo slogan provocatorio di McLuhan 1964 («Il medium è il messaggio») e dal libro di Ong 1982. Fra gli autori che hanno sostenuto l’importanza non solo pratica dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione, e di quella conse­ guente sono interessanti gli studi di Goody 1986 sull’antropologia della scrittura, di Havelock 1978 sull’antichità greca, di Illich 1993 sulle inno­ vazioni medievali, di Eisenstein 1983 sul passaggio alla stampa, di De Kerckhove 1991 sui nuovi mezzi elettronici. Si veda anche il numero mo­ nografico 72 (1995) della rivista «Versus» dedicata all’argomento.

7.6. I processi tradottivi Tra le molteplici forme di interpretazione che in vari sensi modificano o riscrivono il testo (tra cui, ad esempio, il riassunto, la parafrasi, la valu­ tazione critica, la lettura ad alta voce), incontriamo il campo dei processi traduttivi, in cui sono inclusi tutti quei modi di trasposizione endolingutstica, interlinguistica e intersemiotica di un testo in un altro testo. Nel pri­ mo caso interpretiamo un testo riformulando i suoi segni per mezzo di al-

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tri segni della stessa lingua, come nella perifrasi. Nel secondo, che è il ca­ so della traduzione così come normalmente la si intende, riscriviamo un testo in un’altra lingua. Nel terzo caso invece siamo di fronte a fenomeni di trasmutazione, in cui un sistema semiotico, quale quello verbale, viene tradotto in un altro sistema di segni, ad esempio visivi o musicali. Rien­ trano in questa tipologia gli adattamenti cinematografici, ma anche feno­ meni come il doppiaggio o la sottotitolazione, in sostanza tutti quei testi frutto di un lavoro di trasposizione tra sostanze dell’espressione. Al di là delle tipologie, è importante sottolineare che una semiotica del­ la traduzione si sviluppa a partire dall’analisi dei processi traduttivi. Non disponiamo perciò di una teoria della traduzione di stampo prescrittivo, capace di indicarci il modo in cui si debba tradurre. Quelle che esporre­ mo sono riflessioni utili all’analisi dei testi tradotti e del processo traduttivo in generale, da cui possiamo trarre alcune ipotesi su questa particola­ re modalità di produzione e d’interpretazione testuale. La semiotica non produce dunque modelli utili all’atto concreto del tradurre, bensì stru­ menti adeguati all’analisi di ciò che avviene in un processo traduttivo: qua­ li sono i vincoli di una certa traduzione? Quali livelli testuali effettiva­ mente si traducono e quali no? In che modo, ad esempio, un film «tradu­ ce» un romanzo? Che cosa si mantiene e che cosa scompare nelle sue im­ magini? Quali trasformazioni della forma del contenuto induce un lavoro di trasposizione della sostanza dell’espressione? Il campo delle traduzioni interlinguistiche è sicuramente l’area di ri­ cerca su cui la riflessione semiotica si è più soffermata. Proviamo a immaginare la traduzione di un qualsiasi romanzo dall’in­ glese all’italiano. Considerare tale processo traduttivo da un punto di vi­ sta semiotico implica passare da un modello strettamente linguistico, ba­ sato suA'equivalenza (dove il testo italiano equivarrebbe all’originale in in­ glese, di cui si sarebbe tradotto segno per segno o parola per parola), a un modello che invece guarda al testo nel suo complesso. Ciò significa consi­ derare le strategie narrative e discorsive dell’originale, il suo lettore mo­ dello, ma anche le culture che circondano il testo inglese e quello italiano, l’eventuale differenza di contesto storico, di conseguenza le norme esteti­ che e sociali e le ideologie che possono separare i due testi in traduzione. Da un punto di vista semiotico, la traduzione non è perciò una sempli­ ce operazione di trasposizione linguistica in grado di produrre un testo d’ar­ rivo del tutto fedele a quello di partenza. Non vi sono, in sostanza, delle regole e delle norme applicabili al processo traduttivo che siano valide per ogni testo. La sola «regola» è quella di considerare sempre l’enciclopedia e la cultura che caratterizzano sia il momento di produzione del testo di partenza, sia quello di ricezione del testo d’arrivo.

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Ogni traduzione comporta perciò un lavoro semiotico complesso, è un’in­ terpretazione testuale che pone in comunicazione non solo due linguaggi, bensì due culture. Ogni testo costruisce il suo universo di discorso che ne delimita le direzioni interpretative e, di conseguenza, traduttive. ►► 7.6.1. Vincoli e strategie della traduzione

L’ipotesi che ciascun processo traduttivo (non solo interlinguistico) comporti anche la trasposizione di universi di discorso, diviene ancora più evidente se pensiamo che ciascun testo in traduzione ha origine in un am­ bito di intertestualità. Qualsiasi testo, ancora prima di essere tradotto, è in­ fatti già il risultato di un lavoro di reinterpretazione di una tradizione pree­ sistente. La traduzione, a sua volta, è uno dei modi dell’intertestualità, una forma di interpretazione e di rielaborazione testuale che crea non una co­ pia, bensì un altro testo. Di conseguenza, nel processo traduttivo diviene fondamentale il rapporto tra testo e lettore-traduttore, oltre alla disponi­ bilità cooperativa di quest’ultimo. Si può pensare a una catena di comuni­ cazione in cui, intervenendo più livelli di cooperazione interpretativa, con­ fluiscono l’emittente-autore, il ricevente-traduttore (a sua volta emittente), e un secondo ricevente, identificabile con la figura del lettore straniero. La traduzione si delinea così come una strategia complessa di lettura e scrit­ tura che si situa in un preciso momento storico-culturale, dando vita a te­ sti che sono a loro volta in grado di generare ulteriori letture. Nel momento in cui ci troviamo ad analizzare una traduzione, dobbia­ mo perciò considerare ciascuno dei due testi rispetto allo specifico posi­ zionamento socioculturale che li caratterizza. In particolare, se si tratta di un romanzo o di una raccolta di poesie, dobbiamo vederli entro il sistema letterario a cui appartengono, ma anche entro i sistemi culturali che li cir­ condano, dove ciascuna lingua è partecipe di un’interazione costante con altri sistemi semiotici, dove cioè è parte di una dinamica culturale (si con­ fronti il paragrafo sulla cultura nel capitolo 11). Ciò significa che la tradu­ cibilità di un testo si correla all’insieme di vincoli o di norme proprie del­ la cultura che intende accoglierlo. Può però accadere che il testo entri in conflitto con essi e li modifichi, importandovi, ad esempio, uno stile fino a quel momento mai sperimentato. In questo caso la traduzione può esse­ re considerata un processo in grado di costituire, e spesso di rinnovare una tradizione culturale. Ma quali sono allora i vincoli semiotici e le norme che bisogna tener presente quando traduciamo, o quando analizziamo una traduzione? Tro­ vandoci di fronte a un testo in cui è riflessa una cultura, si tratterà di vin­ coli pragmatici, di vincoli legati alle strategie testuali impiegate, di vincoli stilistici, e di vincoli enunciazionali. Di conseguenza, tradurre o descrive-

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re le strategie di una traduzione significa in primo luogo compiere un’a­ nalisi testuale capace di evidenziare le peculiarità stilistiche, enunciative o pragmatiche di un testo. Vi possono essere molte traduzioni di uno stesso testo, distanti Luna dall’altra non solo perché redatte in contesti storico­ culturali differenti, ma perché compiute in nome di valori, di ideologie e di scelte stilistiche diverse, che reinterpretano i vincoli e le norme in mo­ do più o meno compatibile con altre norme, più o meno creativo. Anche l’interpretazione di un testo in traduzione può dunque oscillare tra aper­ tura e chiusura, tra libertà interpretativa e vincoli a un tempo testuali e in­ tersoggettivi, tra intentio auctoris, intentio operis e intentio lectoris. Affrontare il problema della traduzione ci permette così di esercitare l’analisi del testo, ma anche di approfondire l’organizzazione semiotica di un sistema culturale. Quali saperi di volta in volta circondano e influen­ zano la nostra traduzione? Quelli codificati, legittimati dalle istituzioni, in­ segnati nelle scuole, oppure quelli dotati di minore legittimazione, più soggetti a trasformazioni e mutazioni radicali? In questo caso si tratta di conoscenze che appartengono, ad esempio, a delle sub-culture, a delle avanguardie, a delle mode e delle tendenze non ancora istituzionalizzate. La traduzione si colloca così in una struttura che è aperta, ma organiz­ zata, dinamica e non rigida, dove i saperi stessi, a seconda della loro loca­ lizzazione e dei processi di assestamento e di mutamento culturale, sono costantemente in traduzione. Pensiamo alla traduzione di opere poetiche, per eccellenza luogo te­ stuale di difficile e faticosa interpretazione/traduzione. Di un qualsiasi au­ tore, da Dante a Baudelaire, esistono non solo più edizioni, ma anche più traduzioni di uno stesso originale, che a volte presentano differenze note­ voli. Come abbiamo già accennato, le varianti che possiamo incontrare so­ no il risultato di scelte che l’interprete-traduttore compie a livello testua­ le: sintattico, semantico, enunciazionale, stilistico. Ma accanto a questi vincoli testuali, vi sono altri livelli che influenzano l’operazione di tradu­ zione. Ogni traduttore deve infatti tener presente il sistema metaletterario di interpretazione che circonda l’originale, in cui sono inclusi saggi critici o esempi precedenti di traduzione della medesima opera. Questo sistema mette in campo un sapere che influenza il traduttore, un complesso di co­ noscenze depositate, spesso popolato da immagini sedimentate e da ste­ reotipi dell’autore che si traduce. Ciò che ogni traduttore compie a parti­ re dalle informazioni che gli fornisce il sistema metaletterario conduce a un tipo di testo che può, di conseguenza, confermare o sfidare le immagi­ ni già sedimentate nell’enciclopedia. In questo modo, la sua traduzione può contribuire a ridefinire non solo l’immagine della cultura a cui ap­ partiene l’originale, ma anche quella della cultura d’arrivo in cui il testo tradotto si inserisce.

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Se il traduttore sceglie di confermare le immagini depositate, egli attua un processo di normalizzazione sia formale, sia tematico del testo, riducen­ done, ad esempio, il potenziale innovativo. E questo può avvenire non so­ lo selezionando alcune poesie a scapito di altre, ma anche per mezzo di modificazioni della punteggiatura o della sintassi. Vi può essere però il ca­ so in cui una traduzione, esaltando aspetti del testo rimasti fino a quel mo­ mento narcotizzati, proponga un’interpretazione/traduzione da cui sia possibile trarre una nuova lettura critica dell’opera. Una traduzione è quindi in grado di ricreare, oppure di disattivare il potere di sovvertimen­ to delle metafore poetiche.

Un esempio concreto sono le traduzioni delle poesie di Emily Dickinson, di cui in Italia, a partire dagli anni ’50, sono state pubblicate all’incirca una decina di raccolte. Non possiamo soffermarci, ovviamente, su ciascuna delle edizioni esistenti. Chiunque però può controllare come ognuna utilizzi stili e strategie retoriche spesso molto distanti, che rivela­ no visioni contrastanti dell’opera della Dickinson. In altri termini, ciascu­ no di questi esercizi di traduzione propone un modello di interpretazione dell’opera dickinsoniana, privilegiando l’aspetto politico, le caratteristi­ che spirituali, gotiche o mistiche, oppure una prospettiva di gender (si ve­ da il paragrafo dedicato al gender nel capitolo 11). Ciò significa che sta­ bilire una chiave di lettura privilegiata porta anche a tradurre il testo in modo differente a livello linguistico, connotativo e metaforico; viceversa, stabilire un certo stile o privilegiare un certo lessico o una certa sintassi può sostanziare, oppure indebolire, una determinata chiave di lettura. Quel che ci interessa sottolineare è perciò che, se consideriamo qualsiasi insieme di traduzioni della stessa opera, avremo la dimostrazione concre­ ta dell’impossibilità di un senso unico e definitivo, e dunque di una tra­ duzione perfetta, in grado di riprodurre il testo di partenza con traspa­ rente neutralità. Consideriamo questo estratto da Because I could not stop for death... (1863), dominato dalla metafora della morte: Because I could not stop for Death He kindly stopped for me The Carriage held but just Ourselves And Immortality

We slowly drove - He knew no haste And I had put away My labor and my leisure too, For his Civility

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Traduzione di Guidacci 1961: Non potevo fermarmi per la Morte. Essa, benigna, si fermò per me. Il cocchio conteneva noi due sole E l’immortalità. Era lento (la Morte non ha fretta) E dovetti riporre Il mio lavoro ed anche i miei trastulli Per quella visita.

Traduzione di Lanati 1986: Poiché per la Morte non potevo fermarmi, gentilmente la Morte si fermò per me. Per noi soli in carrozza c’era spazio E per l’immortalità.

Lentamente - non aveva fretta, io, per la sua cortesia, avevo messo da parte l’ozio e anche il lavoro.

L’analisi di queste traduzioni ci porta in un campo dominato da una ve­ ra e propria «disputa sul significato». In tale processo di negoziazione del senso dell’originale intervengono più mosse interpretative: dall’individua­ zione del topic all’esame delle condizioni storiche di enunciazione, senza cui non è possibile comprendere correttamente le isotopie semantiche contenute nel testo originale. A questo proposito, si noti il simbolismo dei generi (maschile/femminile) legato al termine Death, e quindi il modo in cui le due traduzioni rendono la personificazione della morte. In inglese il termine è maschile, nella prima traduzione è reso al femminile, nella se­ conda è mantenuto ambiguo, per cercare di tradurre il legame della don­ na-voce enunciante con l’uomo-Morte. In un caso la traduzione seleziona un senso privilegiato, nell’altro cerca di tradurre il simbolismo di parten­ za, fino a ridefinire quello della cultura di arrivo, dove la morte, come in tutte le altre lingue latine, è femminile. Nel primo esempio la traduzione si limita a esprimere valori e norme tradizionali, nel secondo prova a dar voce alle differenze di genere, mantenendo parte dell’efficacia delle me­ tafore dell’originale.

Molti dei vincoli, o al contrario delle potenzialità insite nei processi tra­ buttivi interlinguistici sono riscontrabili anche nelle traduzioni intersemiotiche, quelle che traspongono un testo da una sostanza dell’espressio-

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ne a un’altra, com’è il caso dei film tratti da romanzi, o dei quadri che trag­ gono il loro senso da storie bibliche. Di fronte a questo tipo di traduzio­ ni, è interessante stabilire quali isotopie (semantiche, tematiche, ecc.) ven­ gano narcotizzate, e quali invece attivate nel passaggio da una sostanza al­ l’altra, ovvero quali trasformazioni subisca l’apparato dell’enunciazione. Ma in questa particolare tipologia dei processi traduttivi, diviene assai più complicato stabilire quale sia il confine, nel caso ad esempio di un film tratto da un racconto, tra adattamento, libero adattamento, ispirazione, ci­ tazione: fino a che punto possiamo ancora parlare di traduzione, o, inve­ ce, di manipolazione? Il dibattito sulla traduzione intersemiotica, tuttora in corso, coinvolge perciò tutti i testi sincretici di cui la nostra cultura è sempre più ricca: pro­ grammi televisivi, fumetti, spot pubblicitari, ipertesti, sia rispetto ai modi in cui le diverse sostanze dell’espressione si traducono tra loro, sia rispet­ to alla traduzione di un testo, quale, ad esempio, una pubblicità a stampa, nei diversi contesti culturali e linguistici in cui migra. Le riflessioni che ci hanno guidato in questo paragrafo ci spingono così a interrogarci sulle conformazioni ma, soprattutto, sulle trasformazioni della nostra cultura contemporanea, in cui la categoria di traduzione assume una valenza eu­ ristica sempre più determinante.

I primi scritti che documentano l’esistenza di una riflessione sulla tra­ duzione nel mondo occidentale risalgono a Cicerone. La storia delle teo­ rie che hanno accompagnato la pratica del tradurre è perciò densa e pro­ segue nei secoli, sebbene in modo molto discontinuo e saltuario, grazie ad autori quali San Girolamo, Lutero, Goethe, Croce e Benjamin. Le tap­ pe principali di questa storia sono raccolte nell’antologia a cura di Nergaard 1993. La traduzione fu inoltre al centro del Romanticismo e degli scritti, ad esempio, di Novalis e di Herder: il dibattito sull’importanza della traduzione per la crescita culturale di una nazione è raccolto in Berman 1984. Nergaard ha anche curato una seconda antologia di argomen­ to contemporaneo (1995), in cui sono riuniti alcuni dei saggi più signifi­ cativi che recentemente hanno impresso una svolta alle riflessioni sulla traduzione, indicando un approccio nel complesso più attento al conte­ sto, alle culture che circondano la pratica traduttiva e ai processi di pro­ duzione e interpretazione testuale che vi sono implicati. Tra questi saggi segnaliamo quello di J. Derrida, Des Tours de Babel, comparso per la pri­ ma volta in Graham, a cura di, 1985, che ha impresso una svolta post­ strutturalista agli studi sulla traduzione. Ricordiamo peraltro che fu R. Jakobson a trattare per primo la traduzione da un punto di vista semioti­ ci

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co, nel saggio On Linguistic Aspects of Translation, in Brower, a cura di, 1959 e tradotto in italiano in Jakobson 1966. Nel campo semiotico, J. Lotman e la scuola di Tartu hanno invece lavorato sulla traduzione come me­ tafora delle dinamiche e dei cambiamenti culturali: si veda in particolare Lotman 1992. Nel campo degli studi sulla traduzione va però segnalata la cosiddetta «scuola di Tel Aviv», che in parte mantiene una vocazione semiotica applicativa, attenta all’analisi sia dei singoli processi traducivi, sia del polisistema che circonda le opere in traduzione: cfr. I. Even-Zohar, Papers in Historical Poetics, in Hrushovski e Even-Zohar, a cura di, 1978 e Toury 1995. Vi è anche una corrente di studi sulla traduzione di ispira­ zione peirceiana, ben rappresentata dal lavoro di Gorlée 1994. Un testo fondamentale, ma al tempo stesso peculiare, sulla traduzione, in cui con­ fluiscono filosofia, critica letteraria ed estetica, è sicuramente quello di Steiner 1975. Negli ultimi anni la riflessione sulla traduzione ha quindi riunito più discipline, e gli odierni Translation Studies si presentano come un cam­ po di studi in cui convergono i Cultural Studies, gli studi postcolonia­ li, la critica femminista e la semiotica: a questo proposito cfr. BassnettMcGuire 1980; Bassnett e Trivedi 1991 e Baker, a cura di, 1997.

7.7. Testi e ipertesti Anche alcuni dei moderni mezzi di comunicazione di massa hanno un funzionamento analogo a quello dell’oralità, di cui abbiamo parlato sopra (§ 7.5), perché si basano su forme di trasmissione e di memoria che sono essenzialmente fondate sulla presenza e non sulla traccia. Si può notare ad esempio che, nel caso della televisione, l’uso della «di­ retta» presenta, nei confronti delle trasmissioni costruite in studio e mon­ tate a posteriori, molte delle caratteristiche che distinguono la comunica­ zione orale da quella scritta: costruzione per inquadrature puramente giu­ stapposte e per serie analogiche più che per strutture logicamente con­ nesse, ridondanza, tendenza all’enfasi partecipativa e alla forma agonisti­ ca, ecc. Evidente, soprattutto, è l’inclinazione all’atteggiamento «situazio­ nale», per il quale idee e conoscenze di ordine generale vengono presen­ tate attraverso concrete, individuali storie esemplificative, anziché trami­ te una esposizione di carattere più generale. Ma è stata la comunicazione in rete, e dunque Internet in particolare, ad avere portato in questi ultimi anni a rivedere con uno sguardo nuovo la relazione non solo tra forme di comunicazione orali e scritte ma, ben al di là di queste, tra i modelli antropologici rispettivamente sottesi dalle cul­ ture fondate sull’oralità e quelle orientate alla scrittura.

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►► 7.7.1. Forme ibride e costruzione ipertestuale

Il caso più evidente è quello della presenza di elementi tipici della co­ municazione orale pur all’interno di forme di comunicazione scritta. Que­ sto è rilevabile in certi modi di impiego della posta elettronica, poiché di fatto quest’ultima si configura immediatamente come un ibrido tra gli im­ pieghi consueti della comunicazione epistolare e quelli della comunica­ zione telefonica. Ponendosi le funzioni del mezzo a metà strada tra due forme prima separate, altrettanto ibrida risulta essere la forma linguistica impiegata. Ancora più evidente è quanto accade nel caso della comunicazione in spazi di chat, ove il dialogo in forma sincrona riproduce i tempi e i modi della comunicazione faccia a faccia, allontanando anche gli usi linguistici da quelli che sarebbero propri di una situazione di «scrittura». Si potreb­ be dire che solo contingentemente si usa la tastiera per comunicare, in quanto ancora poco efficiente è la tecnica per la comunicazione vocale in rete; ma si potrebbe anche sostenere che i concetti stessi che oppongono la comunicazione «scritta» e «orale» sono da rivedere, e che questo non è certo l’unico esempio di uso in chiave di cultura orale di quella che si pre­ senta formalmente come comunicazione scritta. Ciò che è più interessante è però rilevare il sempre più frequente pre­ sentarsi di forme comunicative che innovano in quanto ibridano forme precedenti, attribuendo loro nuove capacità funzionali o nuove occasioni d’impiego. E ci potremmo chiedere se non sia proprio questo uno degli aspetto più interessanti dei cosiddetti «nuovi media».

Per una storia dei mezzi di comunicazione vedi Mattelart 1991, Flichy 1991. Sui problemi di integrazione dei mezzi, De Kerchkove 1991. Sugli ipertesti, Perissinotto 2000.

7.8. Internet Rileviamo innanzitutto che, nella prospettiva delle scienze sociali, ha poco senso definire Internet sulla base di generiche indicazioni di carat­ tere tecnologico. Piuttosto che «una rete di computer», Internet è una for­ ma specifica di comunicazione, molto più complessa e culturalmente de­ terminata della mera base tecnologica che la rende possibile. La forte attenzione ottenuta da questo nuovo mezzo a partire dalla metà degli anni Novanta è certamente da collegare all’impiego di struttu­ re di carattere ipertestuale - strutture che negli stessi anni stavano del re-

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sto destando interesse anche nello sviluppo di altre parallele forme di co­ municazione. E la forma ipertestuale favorisce di per se stessa i processi di ibridazione e l’inclusione l’una nell’altra di componenti comunicative fun­ zionalmente assai diverse. Secondo la visione ormai comunemente nota, ciò che distingue la for­ ma ipertestuale è innanzi tutto la libertà con cui i componenti del testo possono essere fruiti da parte del lettore. Tali componenti vengono gene­ ralmente chiamati nodi, e possono grosso modo corrispondere al concet­ to di «pagina» o di «paragrafo», quali siamo abituati a considerarli nel campo dell’editoria tradizionale. Tra un nodo e l’altro esistono dei colle­ gamenti {links), cioè dei percorsi di passaggio predisposti da chi crea l’i­ pertesto. Di norma, questi sono resi visibili tramite l’impiego di un qual­ che piccolo simbolo codificato, o grazie all’uso di evidenziare, con colori diversi o con sottolineature, le parole (dette ancore) che fungono da pun­ to di partenza di questi «salti» verso altre porzioni dell’ipertesto. E facile riconoscere la particolare importanza che in questo caso assu­ mono i collegamenti e le virtualità di connessione e di passaggio che que­ sti offrono - o anche propongono più esplicitamente - all’interno dei con­ tenuti testuali. Ne deriva che nei modi di realizzazione di un ipertesto uno speciale rilievo assumono tutte le indicazioni di tipo metatestuale. Non ba­ sta introdurre dei contenuti e collegarli tra loro, ma bisogna rendere in qualche modo visibili questi collegamenti, far percepire la struttura d’in­ sieme, evidenziare le opzioni possibili, differenziare i livelli del testo e se­ gnalare i punti e le modalità di transizione fra diverse modalità di forma e di funzionalità comunicativa. L’ipertesto può essere addirittura concepi­ to, in tal senso, come un grande meta-testo, potremmo dire come un gran­ de «contenitore» (non del tutto casuale è l’analogia con l’impiego di que­ sto termine in campo televisivo), all’interno del quale si collocano più o meno numerosi micro-testi. Si tenga anche presente che un ipertesto combina spesso componenti che dipendono da differenti codici comunicativi: elementi grafici e pitto­ rici, fotografie e filmati, animazioni, brani musicali e così via; anche que­ sti, alla pari delle porzioni di testo scritto, possono ovviamente fungere da nodi dell’ipertesto. È così possibile spostarsi da uno spazio visivo a uno so­ noro, da un particolare di una fotografia a un brano che la commenta, e così via. O si può andare ancora più in là, passando ad una versione pro­ priamente «multimediale» dell’ipertesto. In tal caso non si passerà più semplicemente, poniamo, da un articolo scritto a una fotografia (ciò che del resto riproduce ancora in sostanza quanto accade sulla pagina di una qualunque rivista), ma da una zona comunicativamente organizzata come un giornale ad una concepita come una radio, o da un’area che funziona come una sala da concerto ad una che riproduce l’interazione tipica di una

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riunione tra conoscenti. Colleghiamo in questo caso non semplici compo­ nenti di forma eterogenea ma modi profondamente diversi di pensare la comunicazione, tradizioni di approccio al sapere che si erano sviluppate per lungo tempo seguendo linee indipendenti. Colleghiamo insomma tra loro più «media», dando vita a quella che in senso proprio possiamo chia­ mare «multimedialità». Già da questi brevi accenni, si può capire che quella della multimedia­ lità è una delle maggiori rivoluzioni che il mondo della comunicazione ab­ bia conosciuto. La portata di questa trasformazione è tale che oggi nessu­ no può prevedere tutte le possibilità e le modificazioni cui potranno por­ tare l’intreccio tra media diversi, la fusione fra differenti forme di comu­ nicazione, dunque in prospettiva una ridefinizione dell’intero sistema dei media che ricomponga in un quadro più compatto quella che fino ad ora era stata una vicenda di progressive diversificazioni e specializzazioni. Ma tutto questo ci fa anche comprendere quanto delicato diventi il la­ voro di chi si occupa di costruire i collegamenti, per certi versi quasi an­ cora più significativo rispetto al lavoro di chi si occupa della redazione dei contenuti stessi dell’ipertesto. Le diverse logiche di strutturazione possi­ bili conducono a una percezione molto diversa della struttura e dei temi di un ipertesto. Se in certi casi si consente al lettore di «navigare» in mo­ do molto libero e personale, in altri casi (si pensi ad esempio a un settore come quello della formazione) le variazioni di tragitto sono più che altro superficiali, nascondendo una struttura portante che mantiene molte fun­ zionalità tipiche dell’organizzazione lineare, o di quella gerarchica (in que­ st’ultimo caso, da un punto di ingresso si passa a nodi sempre più specifi­ ci tramite una serie di successive ramificazioni). Sono possibili soluzioni tanto semplici quanto raffinate; alcune molto efficienti e organizzate (co­ me le forme basate sui modelli della griglia o della scacchiera}, altre più li­ bere e irregolari (come è il caso delle tipiche forme a rete}. Queste differenze dipendono anche dal fatto che un ipertesto può pre­ vedere non solo collegamenti diretti locali da nodo a nodo (come è ap­ punto caratteristico della forma a rete}, ma anche connessioni di carattere più logico e globale, che valgono allo stesso modo per molti nodi diversi. Tale è il caso, ad esempio, di connessioni che, in un ipertesto a tema arti­ stico, consentano un passaggio regolare dalla visione delle opere alle infor­ mazioni sugli autori, o il passaggio da un secolo a un altro all’interno di ciascun genere artistico, o ancora il passaggio da un ambiente con carat­ teristiche «televisive» a un ambiente funzionante come «biblioteca». Si noti l’uso non casuale del termine «ambiente», poiché la forma iper­ testuale induce in effetti ad una percezione fortemente «spazializzata» del­ la sua struttura e dei suoi contenuti (non a caso si parla di «navigare» e di «spostarsi», di «siti» e di «portali»...). Ciò comporta una trasformazione -

7. Oltre i confini del testo 195

ancora tutta da studiare - nel rapporto tra il testo e i suoi fruitori, collo­ cati non più in una posizione frontale (quale è la nostra impressione ri­ spetto alla pagina scritta o allo schermo del televisore) bensì in una posi­ zione in qualche modo più interna, di più complessa e più varia correla­ zione. ►► 7.8.1. Rete telematica e rete culturale

Poiché per sua natura l’ipertesto consente di spostarsi da una porzio­ ne all’altra del contenuto secondo percorsi molteplici e non prefissati, la sua fruizione viene comunemente contrapposta alla lettura tendenzial­ mente lineare suggerita (ma non imposta) dalle forme tradizionali di te­ stualità - il libro costituisce in questo senso il modello esemplare. L’insi­ stenza sul solo fattore della libertà di lettura dell’ipertesto - se non addi­ rittura di un suo carattere propriamente anarchico - può risultare ecces­ siva ed ingenua; si dimentica tra l’altro che anche nel caso dell’ipertesto vi sono percorsi di lettura predisposti e, di solito, segnalati dall’autore. Que­ st’ultimo - quando possa ancora essere fatto corrispondere a un soggetto individuale - organizza dunque il testo come un insieme di virtualità di percorsi attivabili; non è però più in grado di prevedere con precisione il tragitto che effettivamente sarà compiuto nel corso di ciascun atto di let­ tura. Anche una stessa persona, a contatto con il medesimo ipertesto, è portata ad esplorarne volta a volta porzioni diverse, o anche a mettere in sequenza le stesse informazioni secondo un ordine e una logica d’atten­ zione differente. Questo avverrà tuttavia all’interno di un insieme di pos­ sibilità predisposte e introdotte come tali nella struttura testuale. Possiamo dire che un ipertesto, quando sia chiuso e delimitato (diver­ so è il caso di una realtà aperta e illimitata come Internet), possiede una struttura definita a livello di opzioni virtuali-, si possono analizzare le pos­ sibilità che esso offre, ma non i percorsi definiti che esso predispone. Men­ tre un testo sequenziale può guidare anche con una certa risolutezza il suo «lettore empirico», sollecitandolo ad adeguarsi al «lettore modello» (vedi § 6.1) che esso prevede, questo non può dirsi nel caso dell’ipertesto. Come si vede, quella che a prima vista può apparire come una distin­ zione di carattere relativamente tecnico si carica rapidamente di valori ideologici ed etici, nonché di rimandi a questioni chiave nel campo della comunicazione, come quella che concerne il grado di libertà con cui un lettore può percorrere un testo. Alcuni studiosi hanno significativamente riconosciuto in alcune caratteristiche dell’ipertesto ben più di una super­ ficiale affinità con quanto sostenuto dai teorici di una testualità aperta, che non predetermina i percorsi del lettore ma si offre a fruizioni molteplici, attive, personalizzate. Se Roland Barthes è in questo senso l’autore più ci-

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tato (si veda in particolare Barthes 1970b), molti riferimenti vengono fat­ ti anche a Jacques Derrida (in particolare Derrida 1967) e ai vari filoni del cosiddetto «post-strutturalismo». Sorprendenti sono in particolare le analogie con alcune idee di Barthes, poiché questi, venticinque anni prima che si parlasse di Internet, conside­ rava i testi letterari in termini di reti a percorsi multipli, formati da porzio­ ni dette «lessìe», legate fra loro da molteplici princìpi di connessione: ciò che determinava per lui la trasformazione del lettore in soggetto fortemen­ te attivo, compartecipe della costruzione - infinitamente variabile - di quell’entità fluttuante che chiamiamo «testo», e dunque collocato in rap­ porto molto più paritario rispetto alla figura tradizionale dell’«autore». L’eccesso di fervore con cui queste idee sono state riprese, in una pri­ ma fase di affermazione (e di moda) degli ipertesti, ci appare oggi ingenuo e del tutto parziale, di fronte alla complessità e alla varietà di forme e di impieghi di questi strumenti. Tuttavia, molte indicazioni preziose sono scaturite dalle discussioni sulla trasformazione della figura del lettore co­ me di quella dell’autore, sulle modalità tutt’altro che ovvie dei percorsi di lettura, sull’interrelazione che lega i testi in un grande reticolo (fenomeno noto in semiotica come «intertestualità»). Un punto in questo senso di grande interesse riguarda la trasforma­ zione dell’autore, che le nuove tecniche di scrittura tendono a rendere sempre meno riducibile all’idea tradizionale di un individuo che agisce sulla base di un suo pieno progetto personale. La forma ipertestuale di per se stessa non solo consente ma favorisce varie modalità di collaborazione autoriale; la sua trasposizione in rete moltiplica queste modalità, mo­ strandoci nei fatti la realtà tutt’altro che teorica di una produzione testua­ le operata in continuo riferimento e connessione con altri testi, altri per­ corsi discorsivi, altre logiche e motivazioni espressive. L’ipertesto favori­ sce così l’affermarsi dell’idea di un soggetto collettivo, che si manifesta tra­ mite la produzione di un’infinità di frammenti che compongono un dise­ gno globale di cui nessuno detiene realmente il controllo. Ritorniamo in questo senso all’idea della cultura organizzata come re­ te di testi, in cui il valore di ogni elemento componente può essere colto solo se si tiene conto della sua relazione con altri all’interno della rete te­ stuale complessiva. Ne parleremo in seguito (cfr. § 9.5), a proposito dei ri­ sultati dell’imponente lavoro di ricerca svolto da Lévi-Strauss sulle mito­ logie primitive. La concezione della cultura come rete testuale, sviluppa­ ta dai semiotici negli anni Sessanta, ha nella realizzazione della attuale re­ te telematica la sua concreta manifestazione a livello di forme comunica­ tive d’uso quotidiano. Su Internet, l’intrecciarsi dialogico fra le diverse fonti discorsive, e l’in­ clusione senza fine di una porzione di testo in un’altra pagina che lo ri-

7. Oltre i confini del testo 197

chiama e se ne rende dipendente, si uniscono alla perenne trasformabilità dei contenuti testuali - che non hanno più la definitiva stabilità.cui il pro­ cedimento di stampa li innalzava, o li condannava. E queste sono tutte ca­ ratteristiche tipiche della comunicazione orale, e di forme di vita sociale che fino a poco tempo fa credevamo appartenere al nostro passato piut­ tosto che al nostro futuro. In effetti, le riflessioni di vari studiosi su questi temi ci hanno ormai abituati a non stupirci del fatto che le nuove forme di comunicazione ri­ portino sul piano della più stretta attualità modelli teorici nati nello stu­ dio di culture orali. Siamo di fronte a nuove forme di enunciazione che, travalicando l’opposizione semplice tra «individuale» e «collettivo», ci av­ vicinano a proprietà che identificavamo come tipiche dell’universo folclo­ rico. Ma siamo di fronte anche allo sviluppo di nuove forme di socialità si pensi alla crescente insistenza sul concetto di «comunità virtuale» -, che tra l’altro modificano profondamente i rapporti abituali tra «privato» e «pubblico», e che segnano il definitivo distacco dell’identità sociale degli individui dalla loro primaria fisicità, tanto corporea quanto territoriale. Non importa più la città in cui si vive, né l’aspetto visibile del proprio cor­ po: l’interazione comunicativa è guidata per intero dai propri interessi e dalle proprie competenze. Tramite le sue raffinate tecnologie, la rete tele­ matica ricupera una dimensione di socializzazione tra individui cultural­ mente affini che si era andata perdendo dall’epoca della rivoluzione ur­ bana, a causa della tendenza di quest’ultima ad «ammassare» persone sen­ za tener conto delle loro specificità di cultura e di abitudini (ciò che ha portato appunto allo sviluppo di una cultura e di mezzi di comunicazione «di massa»). La de-materializzazione degli oggetti, tipica dell’economia postindu­ striale (dove la funzionalità concreta dei prodotti lascia sempre più posto al valore dei loro «significati» e della loro «immagine»), ha il suo paralle­ lo in questa de-materializzazione dei soggetti e in questa nuova fluidità delle produzioni discorsive. E si noti che questo non risulta affatto con­ traddetto dal fenomeno - ben prevedibile, del resto - per cui, dopo un fer­ tile periodo di iniziale sviluppo caotico, vengono sempre più ad affermar­ si grandi centri che coagulano intorno a sé la comunicazione in rete. Si tratta di realtà che coniugano significativamente componenti e finalità di ordine culturale, sociale, commerciale e di intrattenimento, operando sul­ la base di partnership via via più complesse tra istituzioni, aziende, inizia­ tive private. Questa, del resto, è la manifestazione della logica di una cul­ tura che, dopo l’epoca industriale, rifiuta sempre più le segmentazioni del1 esperienza sociale quotidiana, le specializzazioni professionali e discorsi­ ve, le stesse artificiose separazioni tra l’universo del «fare» e quello del «di-

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re», tra il piano insomma della tangibile funzionalità materiale e quello della immateriale rete comunicativa.

La più classica teoria degli ipertesti è in Landow 1991. Una teoria del­ la rete si trova in De Kerckhove 1991. Vedi anche Lévy 1995.

8. Pragmatica

8.1. Gli ambiti della comunicazione I fenomeni comunicativi sono classificati usualmente da semiotici, lo­ gici e linguisti secondo tre livelli o modi di organizzazione, cui corrispon­ dono tre diversi campi disciplinari: - La sintassi studia l’ordinamento degli elementi della comunicazione, dei codici e delle lingue, la loro organizzazione interna, i modi della loro combi­ nazione. - La semantica si occupa del rapporto fra comunicazione (lingue, codici, segni) e i suoi oggetti. Si distingue una semantica referenziale o logica che stu­ dia il riferimento (vedi supra § 2.4) dei segni e le nozioni connesse come quel­ la di verità-, e varie altre forme di semantica (componenziale, strutturale, con­ cettuale, ecc.) che si occupano del significato, inteso in senso concettuale. - La pragmatica si occupa del rapporto fra comunicazione, interlocutori e ambiente in cui avviene. In particolare il suo oggetto comprende le azioni che si svolgono per mezzo del linguaggio e della comunicazione.

Considerazioni di ordine pragmatico sono dunque ineliminabili da ogni analisi sul funzionamento del linguaggio. Nel corso delle nostre ana­ lisi abbiamo già avuto a che fare con alcuni concetti chiave di natura prag­ matica, come quelli di topic, di enunciazione, di uso e interpretazione. E uti­ le integrarvi altri concetti relativi all’uso del linguaggio, alle regole che reg­ gono le conversazioni, alle possibilità di compiere azioni vere e proprie per

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mezzo del linguaggio e di altri sistemi semiotici non solo limitati all’ambi­ to verbale.

La distinzione fra semantica, sintassi e pragmatica si trova formulata chiaramente in Morris 1938. Per uno sguardo di insieme sulla pragmati­ ca contemporanea vedi Bertuccelli Papi 1993.

8.2. Atti linguistici Queste ultime azioni sono note col nome di «atti linguistici». Una pri­ ma distinzione va fatta fra due modalità fondamentali del linguaggio: - quella constatativi!, in cui si descrive il mondo, si parla della realtà, si or­ ganizzano informazioni (per esempio: «Parigi è la capitale della Francia», «2 + 2 = 4»); - e quella performativa, che costituisce un’azione del parlante. La sua enunciazione equivale a compiere quella azione. Esempio: «Prometto che verrò», «Vi dichiaro marito e moglie».

Anche gli atti constatativi si possono considerare particolari perfor­ mativi, in cui l’azione che si compie è affermare, asserire. Ogni atto comunicativo si può poi studiare rispetto a tre diversi livelli di azione: - atto locatàrio-, organizzato in maniera tale da combinare opportuna­ mente suoni (atto fonetico), parti del discorso (atto fatico), significati (atto reticó)-, - atto illocutorio, cioè l’azione intrapresa dall’emittente per il fatto di co­ municare, che si può sintetizzare da un pronome di prima persona più un performativo. Per esempio: (io chiedo se)...; (io ordino che)...; (io asserisco che)... ; - atto perlocutorio. L’enunciazione mira a effetti più lontani dalla sempli­ ce azione che compio. Esempio: interrogando qualcuno posso lusingarlo, metterlo in difficoltà, persuaderlo, ecc. Informando qualcuno posso allar­ marlo, tranquillizzarlo, educarlo, ecc.

Questa classificazione degli atti linguistici si presta anche a certificare il loro buon esito, o come si dice tecnicamente, la loro felicità: felicità locutoria-. le parole o i suoni sono articolati bene? Il significato è univoco?:

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felicità illocutoria-, ci sono le condizioni (giuridiche e fattuali) perché l’at­ to si realizzi? (Per esempio, per «comandare» bisogna averne il diritto, per «promettere» bisogna avere la disponibilità della cosa, ecc.); felicità perlocutoria-, l’effetto raggiunto sul ricevente è minore o maggiore di quello previsto? Per esempio lo si intimidisce, invece di sollecitarlo; lo si annoia, invece di persuaderlo?

La buona riuscita di ogni comunicazione è condizionata dalla felicità di tutti i suoi livelli. In relazione alle loro forze performative, i verbi si classificano poi se­ condo Austin in cinque categorie: - veridittivi (esprimono un giudizio, come una sentenza. Ad esempio: con­ dannare, calcolare, valutare); - commissàri (dichiarano un intento o assumono un obbligo. Ad esempio: promettere, supplicare); - esercitivi (si riferiscono all’esercizio di un comando, di un potere, ecc. Per esempio: sposare, votare, promuovere); - comportamentali (reazioni al comportamento altrui. Ad esempio: rin­ graziare, disapprovare); - espositivi (per argomentare, dichiarare idee, ecc. Ad esempio: spiegare, chiarire).

Un’utile antologia degli studi sugli atti linguistici è Sbisà, a cura di, 1978. Vedi anche Searle 1969 e Austin 1962. Aggiornamenti in Bertuccelli Papi 1993.

8.3. Dialoghi e interazioni L’approccio pragmatico ci permette di considerare un tipo di testi che fin qui non abbiamo quasi trattato: il testo orale, inteso come scambio co­ municativo tra interlocutori in presenza; possiamo chiamarlo «interazio­ ne», «dialogo», «conversazione». Le diverse forme d’interazione diretta sono la base delle relazioni sociali che animano la nostra vita quotidiana. Un’interazione conversazionale, o un dialogo, presenta i seguenti trat­ ti generali (Stati 1982): - oralità-, gli interlocutori parlano tra loro; l’analisi procede poi alla regi­ strazione e quindi alla trascrizione scritta dello scambio, mantenendo però le caratteristiche della sua originaria natura orale;

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- contatto immediato-, gli interlocutori, minimo due, sono simultanea­ mente presenti nello stesso posto (conversazione faccia a faccia) o collegati tramite un canale tecnico (telefono, radio, Internet); - posizioni gerarchiche semioticamente paritarie-, anche se lo scambio si svolge tra interlocutori le cui posizioni sociali siano fortemente gerarchizzate, una conversazione (per esempio, quella tra un professore e uno studente) prevede che ognuno possa dare e possa ricevere comunicazione in qualsiasi momento e con ampio margine di autonomia; - un piano dell’interlocuzione non prestabilito-, il testo conversazionale è un’interazione naturale, spontanea e improvvisata, ma può essere anche un’interazione dove il piano dell’interlocuzione contenga delle restrizioni contestuali preliminari (per esempio, una seduta tra paziente e terapeuta): an­ che in questo caso, però, il piano dell’interlocuzione non è prestabilito, ogni partecipante può cambiare argomento e contribuire alla modificazione o mo­ dulazione del piano interlocutorio.

La conversazione è, come qualsiasi altro scambio comunicativo, un passaggio di informazioni. Ma bisogna tenere conto che in questo tipo di interazioni spesso prevale l’aspetto della comunicazione fatica-, cioè il fatto che spesso parliamo meno per trasmetterci informazioni e più per creare e mantenere solidarietà sociale, siamo meno interessati a ciò che si dice e più al fatto che ci si parla e a come ci si parla (vedi § 1.4). La conversazio­ ne è un intenso canale di scambio umano, che produce il piacere di intes­ sere legami, di esplorare l’identità propria e altrui, di partecipare alla vita sociale.

Nella sociolinguistica contemporanea si è progressivamente afferma­ to l’interesse verso l’interazione verbale in situazione naturale. Tale pro­ spettiva produce, a partire dagli anni ’50, diversi studi: dall’indagine sul­ le stratificazioni linguistiche in relazione a parametri sociologici (Giglioli 1973), all’analisi delle interazioni linguistiche nei vari contesti cultura­ li (Hymes e Gumperz 1980), fino allo sviluppo di una corrente specifica, chiamata «etnometodologia», che prende in considerazione i «modi» dell’interazione, culturalmente marcati, modi con cui gli individui ren­ dono il loro mondo quotidiano descrivibile e interpretabile (Garfinkel 1967; una introduzione ragionata e critica all’etnometodologia è propo­ sta da Giglioli e Dal Lago 1983). Per una sintesi della storia di questi stu­ di, vedi Cesanelli e Marcarino 1984.

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8.4. Inferenze e implicature Un’interazione è stata così definita: la produzione, protratta nel tem­ po, di catene di atti dipendenti l’uno dall’altro, costruite da due o più agenti, ognuno dei quali esercita un controllo e costruisce sulle azioni del­ l’altro (Levinson 1993). Ciò significa più semplicemente che un’interazio­ ne conversazionale è uno scambio interattivo, dove le azioni comunicati­ ve si determinano reciprocamente. Questa definizione fa riferimento alla nozione di «retroazione» elaborata dalla pragmatica della comunicazione di Bateson e Watzlawick: la comunicazione non è una trasmissione unidi­ rezionale di informazione da un emittente a un destinatario, ma è il pro­ cesso di circolazione delle informazioni, tra azione e retroazione, che si modifica progressivamente e relazionalmente. La considerazione del contesto è l’elemento che distingue l’approccio pragmatico, su cui si appoggia l’analisi della conversazione. I problemi del significato vengono studiati dal punto di vista degli «utenti della lingua»: per chi conversa, la comprensione del significato di ciò che si comunica dipende dalla consapevolezza del contesto in cui la conversazione si sta svolgendo, dove questo termine indica l’identità dei partecipanti (chi so­ no gli interlocutori), i parametri spaziotemporali dell’evento comunicati­ vo (dove e quando si svolge la conversazione), le credenze, le conoscenze, le intenzioni di chi partecipa. La comunicazione intenzionale è costituita da un riconoscimento reciproco tra «emittente» e «ricevente»: il primo ha intenzione di far sì che il secondo pensi o faccia qualcosa, e questi ricono­ sce che l’emittente sta cercando di causare in lui quel pensiero o quell’a­ zione. In questo senso, si considera che in una conversazione il significa­ to di ciò che viene detto non sia circoscritto al suo contenuto convenzio­ nale né a quello semantico, ma sia inteso in senso lato, comprendendo il contenuto implicito, ironico, metaforico di un enunciato, cioè includendo tutte le inferenze che si possono generare dato il contesto. La frase «Ho freddo» può assumere significati diversissimi a seconda del contesto in cui viene pronunciata: se per esempio il locutore è qualcu­ no seduto in uno scompartimento di un treno con i finestrini spalancati, un’inferenza possibile di un interlocutore sarà «la signora vuole che io chiuda il finestrino». In questo caso si può pensare che «chiuda il fine­ strino» sia una possibile implicatura dell’enunciato «ho freddo» in quel contesto. Ma ci possono anche essere discrepanze tra il significato per il parlante e il significato della frase. La frase «Com’è interessante questa lezione» può essere detta ironicamente e assumere senso opposto. Per riconoscere l’in­ tenzione comunicativa della frase, bisogna considerare i meccanismi con-

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creti (ironia, impliciti, metafore, ecc.) che possono causare una divergen­ za tra il significato teorico e ciò che è effettivamente comunicato in un con­ testo particolare. L’analisi prende dunque in considerazione un prodotto discorsivo conversazionale, specifico e concreto, che si realizza in un certo contesto, cioè con certi partecipanti, in una certa situazione, in un dato momento. Essa tiene conto del fatto che un’azione comunicativa, un enunciato, non è un fatto isolato, ma è una sequenza inserita in un ciclo di atti comunicativi, da esso dipendente; cioè che un enunciato è per lo più una reazione a un al­ tro enunciato ed è il prodotto di una serie di inferenze che ogni interlo­ cutore produce a partire dalla consapevolezza del contesto in cui entram­ bi sono inseriti. Quando analizziamo una conversazione, non ci limitiamo a considerare i significati convenzionalmente inscritti nella lingua, ma cer­ chiamo di ricostruire le inferenze che gli interlocutori attivano, cioè i pro­ cessi di manifestazione della lingua in contesto. Poiché non sempre è pos­ sibile l’osservazione dal vivo dello scambio conversazionale né si può pre­ vedere di andare personalmente a chiedere a un membro della conversa­ zione quali tipi di inferenze egli ha prodotto, nostro oggetto di analisi sarà solo il testo prodotto (la trascrizione della conversazione) e le implicature che il testo sembra suggerire all’interno del contesto. Possiamo avere informazioni circa il contesto psicologico-sociale (chi sono gli interlocu­ tori, dove sono, quando, cosa fanno, quali rapporti li uniscono, quali ge­ rarchie, ecc.) che ci aiutano a identificare le implicature, ma possiamo an­ che non averne a sufficienza o non averne per niente; in questo caso il con­ testo di riferimento che chiarisce la natura delle implicature degli enun­ ciati è il testo stesso nella sua struttura, cioè appunto il fatto che gli enun­ ciati sono sequenze regolate da alcuni princìpi strutturali.

Lo studio delle interazioni si è applicato a molti campi diversi, svilup­ pando una serie di metodologie specifiche. Una messa a punto sistemati­ ca di concetti e strumenti è elaborata da quella parte di studi, chiamata «Analisi della Conversazione», che si concentra sulle caratteristiche interazionali e inferenziali della scelta di un enunciato. Scopo principale di questo approccio non è tanto far luce su ciò che accade in questa o quel­ la interazione, bensì scoprire le proprietà sistematiche dell’organizzazione sequenziale di qualsiasi conversazione. Tra i numerosi contributi, Sacks, Schlegloff, Jefferson 1974 tentano l’identificazione delle componenti co­ stitutive della costruzione e della distribuzione del turno (turn-taking). Per una sintesi complessiva di nozioni e metodi dell’analisi della conver­ sazione vedi Cesanelli e Marcarino 1984 e Orletti 1994. Per un approccio più generale alle interazioni verbali, vedi Kerbrat-Orecchioni 1990,1992.

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8.5. Regole conversazionali Una sottoclasse delle implicatine sono le «implicatine conversaziona­ li». Grice 1975 ne descrive le caratteristiche. Una conversazione è regolata secondo il principio di cooperazione-, cer­ te mosse sono escluse perché conversazionalmente improprie e ogni par­ tecipante «riconosce uno scopo o un insieme di scopi comuni, o almeno un orientamento mutuamente accettato» (Grice 1975, trad. it. 1978, p. 204). Ne deriva un fondamentale principio di cooperazione-. Il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo e dall’orientamento accettati nello scambio linguisti­ co in cui sei impegnato.

Quattro massime definiscono tale principio: 1) Quantità («fornisci il quantitativo di informazioni che ti è richiesto, non di più né di meno»). 2) Qualità («tenta di dare un contributo che sia vero»: non dire il falso e non dire se non hai prove adeguate). 3) Relazione («sii pertinente»; parla coerentemente agli argomenti in con­ versazione o cambia argomento legittimamente). 4) Modo («sii perspicuo»: evita l’oscurità, l’ambiguità, la prolissità, il di­ sordine).

Apparentemente queste sono solo prescrizioni di senso comune. Ma esse acquisiscono importanza paradossalmente proprio perché nelle con­ versazioni ordinarie tali massime vengono continuamente violate. Le mas­ sime di cooperazione consentono di spiegare i fenomeni comunicativi ap­ parentemente incoerenti ma che invece vengono compresi dai parteci­ panti: anche quando il comportamento discorsivo appare incoerente o non pertinente e, per esempio, un interlocutore sembra non rispondere al­ la domanda dell’altro («Ha da accendere?» «Mi spiace, non fumo») l’a­ scoltatore assume che il parlante si attenga al Principio Conversazionale e alle sue massime; allo stesso modo il parlante si aspetta che l’ascoltatore adotti questa strategia ed è quindi libero di approfittarne. Queste assun­ zioni spiegano il funzionamento continuo delle implicature, cioè il fatto che nella conversazione si comunichi molto di più di ciò che si dice. Le implica­ ture dei destinatari, così come i contenuti impliciti inseriti negli enunciati dai parlanti, sono comprensibili in riferimento a queste massime. Per esempio:

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A: Sembra che Sabrina non esca più con nessuno B: Va a Bologna tutti ifine settimana

B sembra violare la massima della relazione, cioè sul piano dei signifi­ cati letterali sembra che la sua risposta non sia pertinente; in realtà, sicco­ me A presuppone che la massima sia rispettata, per questo inferisce alcu­ ne implicature (che B intenda dire che, siccome Sabrina non ha altro mo­ tivo per andare a Bologna, probabilmente ha un ragazzo). Insomma è pos­ sibile anche violare le massime in modo che questo suggerisca delle implica­ ture. Gli interlocutori non solo tendenzialmente rispettano queste massi­ me, ma si aspettano anche che esse vengano rispettate dagli altri; nel caso in cui vi siano delle violazioni, a loro volta esse risultano comprensibili proprio in riferimento al fatto che quelle massime esistono. Quando ana­ lizziamo un testo, la dinamica conversazionale ci diventa chiara solo te­ nendo conto di questo gioco tra rispetto e violazione delle regole. Faccia­ mo qualche esempio di casi possibili: - Nei casi in cui un interlocutore utilizzi un’ambiguità deliberata che l’a­ scoltatore può riconoscere, un’oscurità altrettanto evidente (per esempio se si è in presenza di un bambino che non deve capire l’argomento della con­ versazione), o una mancanza di concisione e di brevità significative, egli tra­ sgredisce la massima del modo per far capire all’altro delle implicazioni non dette esplicitamente. - Nel caso invece di una risposta succinta del tipo «non ho elementi per dirti di più», ci troviamo di fronte a un conflitto tra due massime diverse: qui il locutore trasgredisce la massima della quantità per rispettare quella della qualità. - Le massime possono anche essere sfruttate per provocare implicature conversazionali. Per esempio, un professore che deve scrivere una lettera di referenze può sfruttare la massima della quantità scrivendo quasi niente, ciò implica che non può scrivere niente di buono.

Allo stesso modo, ironia, metafora, iperbole possono essere usate per violare le massime e implicare. In alcune situazioni conversazionali particolarmente conflittuali, come per esempio i dibattiti politici, le regole sono utilizzate strategicamente; esse sono costantemente trasgredite, anche se non esplicitamente: si affer­ ma senza prova, si risponde «di lato», cioè si mente, ecc. L’individuazio­ ne, in ambito di analisi del testo, di questi diversi giochi strategici consen­ te di chiarire la dinamica conversazionale, le intenzioni dei parlanti, le di­ verse implicature che vengono attivate, cioè il senso e i modi di compren­ sione dello scambio comunicativo. Dunque, l’idea delle massime come riferimento di analisi non è inte-

8. Pragmatica 207

ressante perché stabilisce delle norme alle quali il parlante deve attenersi, ma perché essa rende conto degli usi discorsivi che sono apparentemente illogici ma che invece trasmettono molto di più di quello che viene detto.

8.6. Regole di cortesia Oltre alle regole conversazionali, si è ipotizzata l’esistenza di alcuni princìpi che regolano i rapporti di cortesia. Gli enunciati rispecchiano an­ che l’atteggiamento del parlante nei confronti degli altri: cioè i suoi assunti sulle persone con cui sta comunicando, i loro sentimenti nei suoi con­ fronti, il loro rango rispetto al suo; sulla situazione effettiva in cui sta co­ municando, il grado di ufficialità di essa, e così via; sull’effetto che egli vuole ottenere: rafforzare le differenze di status, eliminarle, non dare loro peso, ecc. In questo senso Goffman (1967) parla di «restrizioni rituali». Nelle in­ terazioni sociali il partecipante assume una linea, un modello di atti ver­ bali e non verbali, con i quali esprime la sua visione di sé e degli altri; che lo voglia o no, gli altri riterranno che egli ha assunto una linea. E l’imma­ gine di se stessi, in termini di attributi sociali positivi. C’è un «attacca­ mento sentimentale» alla propria faccia che provoca reazioni emotive alla conferma o alla «perdita» di questa in una certa situazione. Si può «per­ dere la faccia», o si può assumere una «faccia sbagliata» quando le infor­ mazioni sulla propria posizione sociale sono incoerenti rispetto al proprio comportamento; o si può essere «fuori posto» rispetto alla propria faccia quando non si è in grado di assumere la linea di condotta coerente alla fac­ cia che gli altri si attendono. Molte strategie conversazionali hanno il fine di «far perdere la faccia» a qualcuno o di indurlo ad assumere una faccia sbagliata o a mostrarsi senza faccia. Si può «salvarsi la faccia», ma solo nei limiti della coerenza con quella. Goffman chiama «gioco di faccia» tutto ciò che si fa per rendere le proprie azioni coerenti con la propria faccia. Il gioco di faccia si svolge anche a partire da alcuni princìpi o massime che regolano i rapporti di cortesia (Lakoff 1973): 1) Non t’imporre; 2) Offri delle alternative; 3) Metti il destinatario a suo agio. Sii amichevole.

Come le massime della conversazione, anche le regole della cortesia a volte coesistono, rafforzandosi reciprocamente; a volte vengono utilizzate

Manuale di semiotica 208

l’una contro l’altra, o semplicemente violate. Alcuni esempi per ciò che ri­ guarda la prima massima: - Chiedere il permesso è un’applicazione strategica della regola «Non t’im­ porre». Se nella conversazione si presenta qualcosa che ha a che fare con la sfera personale, con ciò che non può esser richiesto senza violare la privatez­ za, questa regola ci dice di evitarla. Chiedere il permesso mostra di offrire al destinatario una via d’uscita, anche se di fatto non gliela dà. - Allo stesso modo le espressioni passive e impersonali (come formulazio­ ni del tipo «Il pranzo è in tavola»), che tendono a creare un distacco tra par­ lante ed enunciato o tra parlante e destinatario, sono espedienti linguistici che sfruttano la prima massima. - Così come, sempre la prima massima, regola l’uso di termini tecnici per evitare di nominare direttamente certe cose («copulare» per indicare attività sessuali; «condizioni disagiate» per indicare difficoltà economiche).

La seconda massima a volte agisce in accordo con la prima, a volte la sostituisce. Essa dice: lascia che sia il destinatario a decidere, lasciagli aper­ te delle alternative. Può essere usata per lasciare al destinatario la scelta su come reagire. Ad esempio, alcune espressioni attenuative (dicendo «For­ se Giorgio avrebbe potuto insistere un po’ meno», si può intendere: «Giorgio è un invadente») o eufemistiche, lasciano la decisione finale cir­ ca la verità dell’enunciato al destinatario. Formulazioni di questo tipo im­ plicano: «Te lo dico ma non sei obbligato a credermi». La terza massima, «Metti il destinatario a suo agio. Sii amichevole», en­ tra spesso in contrasto con la prima: se entrambe le massime coesistono dobbiamo supporre che, per una ragione extralinguistica, i partecipanti stiano trasformando i loro rapporti. Questa massima crea un senso di ca­ meratismo, suscita un senso di uguaglianza, dà l’impressione di essere ami­ ci. Naturalmente se chi parla è di rango inferiore al destinatario, essa sarà interpretata come un «prendersi delle libertà». Ecco alcuni esempi: - L’utilizzo del tu, nelle lingue che lo usano come segno di familiarità, può essere considerata un’applicazione della terza massima, così come l’utilizzo di nomignoli o nomi propri al posto dei cognomi. - La terza massima dà anche luogo a intercalare che esprime l’atteg­ giamento del parlante verso quello che sta dicendo, e che permette al desti­ natario una partecipazione più attiva (per esempio: «Se ti va»/«Voglio dire»/«Sai»).

Le regole di cortesia dipendono comunque sempre dal contesto extra­ linguistico. «Che fame!» al posto di «Fai da mangiare», è interpretabile

_______________ _________________________________ 8. Pragmatica 209 differentemente a seconda dei rapporti gerarchici. Se i due interlocutori sono pari, allora può essere interpretata come un esempio della seconda regola, cioè come un modo di lasciare il destinatario libero di scegliere; se uno si considera inferiore per rango all’altro, allora può essere interpreta­ ta come un comando rinforzato. Lo schema delle tre regole basilari è una semplificazione; molti autori hanno studiato la grande ricchezza e varietà dell’universo relazionale del­ la cortesia. Ma esse sono abbastanza generali e diffuse da poter essere uti­ lizzate come base per cominciare un’analisi del gioco di cortesia all’inter­ no di un’interazione conversazionale. E necessario ricordare però che, sebbene tali regole siano basilari di ogni interazione sociale, i modi speci­ fici di applicarle, i contenuti e i significati che esse veicolano mutano a se­ conda delle consuetudini culturali.

Anche lo studio della cortesia o dell’«etichetta» ha avuto sviluppi di­ versificati, dagli studi più strutturali a quelli sulla comparazione tra di­ verse culture. Ricordiamo qui l’apporto fondamentale di Goffman 1967, che analizza per esempio i rituali che segnano l’inizio di un incontro tra estranei in situazioni pubbliche, il reciproco riconoscimento attraverso lo sguardo e i vari modi per misurare la disponibilità all’interazione, e le in­ dicazioni generali offerte da Lakoff 1976; per un contributo in italiano di questo autore cfr. Lakoff 1973.

8.7. La retorica classica La retorica classica è stata la prima tecnica comunicativa e la prima teo­ ria pragmatica costruita nella cultura occidentale. Elaborata nell’Atene del V secolo a.C. dai sofisti, fu codificata già da Aristotele ed è stata conser­ vata per molti secoli nella terminologia latina coniata da Cicerone. Il suo aspetto più importante consiste nel considerare la comunicazione dal pun­ to di vista della persuasione. I discorsi e le loro parti sono cioè studiati e classificati per gli effetti che sono capaci di realizzare sul loro destinatario. Nei termini delle funzioni semiotiche esaminate da Jakobson, insomma, (§ 1.4) l’interesse verte essenzialmente su quella conativa. E un punto di vista certamente parziale, che però compensa utilmente la prevalenza di un approccio referenziale, caratteristica del modo logico-filosofico più co­ mune di guardare al linguaggio e alla comunicazione. La retorica è stata per un millennio e mezzo il luogo teorico caratteristico dello studio del lin­ guaggio e della comunicazione nella cultura europea. Caduta in discredi-

Manuale di semiotica 210

to come tecnica pedante e inutile dopo il Rinascimento, la retorica ha co­ nosciuto una rinascita importante nella seconda metà del Novecento, quando sono state proposte numerose nuove teorie e classificazioni. Quel­ la che viene offerta qui è una breve ricapitolazione della sua organizzazio­ ne classica. H 8.7.1. L’analisi della persuasione

Si usa suddividere il campo della retorica classica in cinque parti: in­ nanzitutto vi è Veuresis o inventio, cioè la tecnica per costruire gli argo­ menti del discorso. Segue la taxis o dispostilo, che si occupa dell’ordine de­ gli argomenti e del ritmo. Vi è poi la lexis o elocutio, che nella definizione classica era l’arte di «ornare» il discorso e oggi è considerata piuttosto lo studio delle figure che organizzano l’asse del processo tanto sul piano del­ l’espressione che su quello del contenuto. Infine vi sono due sezioni de­ stinate soprattutto a dare ragione del lavoro di recitazione orale dei di­ scorsi, caratteristica delle condizioni di enunciazione dell’antichità classi­ ca: la mneme o memoria, cioè il complesso delle mnemotecniche necessa­ rie per ricordare efficacemente composizioni anche lunghe senza l’appog­ gio di un testo scritto (una tecnica mentale che ebbe grande importanza anche nel Rinascimento) e Xypocrisis o actio, l’arte della recitazione, del­ l’uso del corpo e del tono di voce, insomma in genere della comunicazio­ ne non verbale. ►► 8.7.2. Inventio (costruzione degli argomenti)

Alla base di qualunque atto persuasivo sta la costruzione di un’argo­ mentazione con cui ottenere il consenso del destinatario. Secondo la tra­ dizione retorica si possono seguire due strade principali per ottenere que­ sto risultato: la commozione del pubblico, basata sulla manipolazione dei suoi sentimenti e il suo convincimento, basato su argomentazioni più o meno razionali. Questa grande suddivisione delle possibilità di argomen­ tazione si sviluppa ulteriormente in una serie di opzioni pragmatiche, che si possono scegliere o praticare successivamente nel corso della stessa ar­ gomentazione. Si può cercare così di coinvolgere emotivamente (commuovere) un de­ stinatario vantando la franchezza, la saggezza o la simpatia dell’oratore, dunque lavorando sulla definizione passionale dell’enunciatore-, o eccitan­ do le passioni che già dominano il pubblico. Il convincimento si può cer­ care per via di prove estrinseche (cioè non costruite nell’argomentazione ma prese dall’esterno già pronte) come i pregiudizi comuni, le voci, i giu­ ramenti, le testimonianze, gli atti-, o ancora cercare di convincere per pro­ ve intrinseche, cioè realizzate all’interno dell’argomentazione, come gli esempi storici, le parabole o gli entimemi.

8. Pragmatica 211

L’entimema è un ragionamento fondato su verosimiglianze e segni, non sul vero o l’immediato. Si tratta dunque di un sillogismo retorico o quan­ tomeno abbreviato. Procura persuasione, non dimostrazione. I materiali per queste premesse vengono spesso dai topoi o luoghi comuni: stereoti­ pi, ma anche forme vuote per sviluppare il discorso. Si classificano in di­ versi modi: topoi grammaticali, logici, metafisici-, oppure topoi dell’orato­ ria, del comico, della teologia, dell’immaginazione. Ancora c’è una topica generale {«loci generalissimi»: possibile/impossibile, reale/irreale, più/me­ no) e una topica particolare relativa all’argomento, organizzata in forma di quaestio, che dà forma alla specificità del discorso. Il cuore dell’argomentazione retorica, nello spazio del convincimento intrinseco dell’inventio, è la quaestio, il problema da decidere. Lo si con­ sidera da due punti di vista, uno generale (tesi) e uno specifico detto ipo­ tesi, ma anche causa, che è il problema vero e proprio. La causa va esami­ nata da tre punti di vista {status): la realtà del fatto da giudicare {conget­ tura), la sua definizione e la sua qualità. ►► 8.7.3. Dispositio (ordinamento del discorso)

Il discorso può essere classificato secondo il modo in cui espone il suo argomento. Può essere cioè diretto (dire quel che si vuol dire), ma spesso, per esempio in ambito politico si presenta come obliquo o indiretto (per esempio, proverbialmente, «parlare a suocera perché nuora intenda» o at­ tenersi a casi generali alludendo solo al problema specifico che sta a cuo­ re). Infine può funzionare al contrario (per esempio, secondo la tecnica dell’ironia). Si usa dividere il discorso in quattro parti: un esordio per conquistarsi il pubblico, una narratio, in cui si espongono i fatti in discussione, una confirmatio, in cui si propone una teoria o una spiegazione dell’oggetto in di­ scussione e un epilogo, in cui si propone un’azione o una decisione. L’esordio e l’epilogo del discorso hanno di solito carattere emotivo (il «commuovere» inventici), quelle centrali sono invece dimostrative (il «convincere» àdììinventio). Il discorso è articolato per frammenti minori {periodi) che hanno al­ meno due membri (innalzamento o tasis e abbassamento o apotasis). Su questa base si sviluppa una ritmica del discorso (nel linguaggio di Cicero­ ne, concinnitas) che non ha semplicemente un valore estetico, ma contri­ buisce a costituire il senso e a orientare opportunamente l’ascoltatore. ►► 8.7.4. Elocutio (messa in parola)

Due assi principali dominano la retorica della «messa in parola»:

Manuale di semiotica 212

- Velectio (cioè la scelta delle parole sull’asse paradigmatico), cui corri­ sponde innanzitutto la metafora - e la compostilo (cioè la riunione delle parole, sull’asse sintagmatico), cui corrisponde la metonimia.

Oggetto della elocutio sono le figure retoriche, che sono state classifi­ cate minuziosissimamente, fino a raggiungere il numero di diverse centi­ naia di tipi. Tutte consistono nella sostituzione di un’espressione base con un’altra, giudicata più gradevole o espressiva, più adatta al contesto o al­ l’uditorio. Alcune opposizioni dominano tradizionalmente questo campo assai ricco e disordinato. Le figure possono essere classificate: a) per dimensione-, tropi (la sostituzione riguarda solo un’unità linguistica) contro figure (la sostituzione riguarda un’espressione più ampia); b) per efficacia-, figure grammaticali (ormai stabilizzate nel linguaggio e senza forza comunicativa, come «le gambe del tavolo») contro figure retori­ che (ancora ricche di effetti e capaci di attirare l’attenzione); c) per piano linguistico-, figure di parola (riguardano solo la pura superficie dell’espressione) contro figure di pensiero (non dipendono dalle semplici for­ me delle parole, ma investono il piano dei contenuti).

La classificazione del campo delle figure risulta quindi sempre proble­ matica e assai complessa, nell’ambito delle teorie classiche, come in quel­ lo delle teorie contemporanee. Quello che segue è un elenco di alcune del­ le figure più comuni, tanto di parola che di pensiero, seguite da un esem­ pio nei casi meno chiari: 1. allitterazione (lo zelo di Lazzaro) 2. anacoluto (Il risotto, mi piace sempre) 3. catacresi (le prue della flotta inglese) 4. ellissi (veni, vidi, vici) 5. iperbole (più veloce del vento) 6. ironia 7. perifrasi 8. reticenza 9. sospensione.

Un posto a parte, per la loro capacità di organizzare tutta la materia re­ torica e quella, cui abbiamo già accennato, di mettersi in relazione con l’as­ se del sistema e quello del processo, hanno la metafora (sostituzione del «simile» col simile) e la metonimia (sostituzione del «contiguo» col conti­ guo. Es.: pars prò toto).

8. Pragmatica 213

Il luogo canonico di esposizione della retorica greca è la Retorica di Aristotele. Un’esposizione moderna molto accessibile, si trova in Barthes 1970a. Un’analisi più articolata in Mortara Garavelli 1988. Ancora la re­ torica classica è esposta in Lausberg 1967. Tre diverse interessanti pro­ poste di aggiornamento della teoria retorica sono Meyer 1993, Perelman e Olbrechts-Tyteca 1958 e Gruppo p 1970. Fra i numerosi e interessanti studi sulla metafora citiamo Lakoff e Johnson 1980, le due antologie cu­ rate da G. Conte 1981 e Cacciari 1991 e il saggio filosofico di Ricoeur 1975.

9. La vita sociale dei testi

9.1. Culture Siamo giunti al punto in cui l’analisi testuale va integrata con una ri­ flessione sulla conformazione e sulle dinamiche della cultura. Da un pun­ to di vista semiotico, la cultura agisce sempre sullo sfondo di qualcosa che è percepito o rappresentato come non culturale («naturale»), rispetto alla quale essa interviene come sistema di segni. L’appropriazione semiotica della realtà, ciò che si può definire come il lavoro della cultura, emerge da un orizzonte non ancora semiotizzato, non ancora strutturato e ordinato, contro cui si ritagliano le lingue e i testi propri dei diversi spazi culturali. Va sottolineato che la maggior parte degli antropologi culturali ha sem­ pre individuato il punto di distacco dell’uomo dall’animale - e dunque il luogo cruciale di origine della cultura - nella capacità di usare sistemi di comunicazione, il linguaggio in primo luogo. Dobbiamo infatti a que­ st’ultimo la nostra prerogativa di vivere non soltanto in un mondo di «co­ se», ma anche in un mondo di pensieri, di rappresentazioni, di significati. Appare quindi largamente condivisa l’idea che la cultura corrisponda in primo luogo ad un meccanismo di semiotizzazione del mondo. L’idea di una sostanziale corrispondenza tra l’ambito del «culturale» e quello del «semiotico» non è nuova. Già a partire dal 1947 l’antropologo Claude Lévi-Strauss aveva proposto una prima visione semiotica dell’in­ tera cultura umana, rilevando come essa si componga di un insieme di dif­ ferenti sistemi di comunicazione connessi da una sostanziale analogia fon-

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zionale, benché si tratti a seconda dei casi di una comunicazione di beni economici, di atti linguistici, o di esseri umani (nei sistemi di parentela, le donne vengono scambiate come «segni»). Più conseguente è però il semiologo Jurij Lotman, che inserisce la cultu­ ra nella semiosfera, continuum semiotico in cui è virtualmente immerso cia­ scun sistema linguistico. E nella semiosfera che si svolgono la produzione, lo scambio e la ricezione di ogni informazione; al di fuori di tale ambiente non esiste semiosi, né, di conseguenza, alcuna forma di comunicazione. I confini tra le culture agiscono perciò come meccanismi bilinguistici che continuamente traducono ciò che è esterno, e non ancora dotato di signifi­ cato, nel linguaggio interno, organizzato in molteplici sistemi semiotici. Pensiamo dunque la cultura come un organismo composto da più con­ gegni intellettuali che, al contatto con la realtà extrasemiotica, producono segni, vale a dire traducono l’informazione «grezza» in linguaggio. Ciò che sfugge a questo meccanismo di crescita della conoscenza, che è scono­ sciuto o indecifrabile, deve essere tradotto e integrato in un dialogo per sua natura sempre incompleto, senza fine. E in questo senso che il risulta­ to della relazione dell’uomo con il mondo è la cultura. Una semiotica della cultura così concepita assume come modello del­ la strutturazione e del funzionamento del sistema culturale le lingue natu­ rali. La lingua, strumento primo di pensiero e di traduzione semiotica del­ l’esperienza, è considerata come sistema modellizzante primario, una sor­ ta di calco in base al quale è possibile considerare le altre produzioni cul­ turali come sistemi modellizzanti secondari. In altre parole, l’organizzazio­ ne e il funzionamento dei sistemi semiotici non linguistici riproducono lo schema strutturale delle lingue. Tale struttura prevede regole di combina­ zione (una sorta di grammatica), la cui rottura può alternativamente esse­ re vista come errore (ad esempio i tabù), crimine (ad esempio i peccati), o invenzione (ad esempio le avanguardie artistiche). Ogni sistema culturale si differenzia infatti secondo modalità che determinano, alternativamente, la possibilità, l’impossibilità, la contingenza o la necessità di obbedire a de­ terminate regole. Pensando al sistema culturale, dobbiamo perciò immaginarci uno sce­ nario popolato da conflitti e da scontri, attraversato da una tensione che contrappone modelli culturali diversi. La stessa descrizione dei sistemi culturali (quale è l’esercizio di analisi semiotica), muta l’organizzazione in­ terna di ciascuna cultura, che diviene così una somma di regole che si rior­ ganizzano costantemente. Lo spazio della semiosfera, che ha ovviamente carattere astratto, permette di concepire l’universo culturale non come un insieme di testi e di linguaggi separati, bensì come un unico meccanismo, in cui ogni elemento è collocato a livelli diversi di organizzazione, in co­ stante rapporto di azione reciproca e in continua dinamica.

Manuale di semiotica 216

►► 9.1.1. Culture grammaticalizzate e culture testualizzate

S’intende che le culture differiscono tra loro in termini di riuscita di questa integrazione dinamica: vi sono sistemi ordinati ed altri che mostra­ no diversi gradi di disordine. Tendenzialmente, però, ogni sistema cultu­ rale si organizza attorno a un centro, dove sono collocati i saperi istituzio­ nalizzati e consolidati, propri di una cultura. Via via che ci si allontana ver­ so la periferia si incontrano saperi invece sempre meno condivisi, propri, ad esempio, di sub-culture particolari, di avanguardie e di mode non an­ cora al centro del sistema. L’ordinamento di questa gerarchia non è però mai stabile: i saperi mi­ grano, e ciò che ieri si collocava alla periferia del sistema oggi si situa nel centro, iscritto in testi e comportamenti che introducono valori e stili nuo­ vi. Il dinamismo è dunque una proprietà ineliminabile dei sistemi cultu­ rali: essi sono attraversati da processi che tendono all’unità, e da dinami­ che che tendono alla pluralità, alla diversificazione e alla differenziazione. Da una parte, la cultura è un insieme di regole e di costrizioni, è strut­ turazione dell’informazione, dall’altra parte questa stessa strutturazione è continuamente osteggiata da dinamiche asimmetriche che rendono lo spa­ zio culturale intrinsecamente eterogeneo. Ogni sistema culturale, ospitan­ do più linguaggi e continui processi di traduzione, è dunque poliglotta. La semiosfera, va ricordato, è anche spazio di diffusione e di scambio, in cui circolano testi, artefatti, oggetti di consumo, abiti e pensieri. Non è anzi affatto escluso che si possa concepire la cultura come un in­ sieme di entità specifiche di questo genere (entità materiali come un tipo determinato di oggetti d’uso, entità comportamentali come un modo di gestire o di danzare, entità psicologiche come un insieme di credenze, en­ tità testuali come un canto o una leggenda, e così via), anziché come un puro insieme organizzato di linguaggi modellizzanti. D’altro canto la cul­ tura, in quanto memoria collettiva, è anche programma per i comporta­ menti sociali: è deposito, e insieme meccanismo generatore di testi. La storia del pensiero antropologico giustappone del resto concezioni della cultura molto diverse. In alcuni casi si pensa in termini di modelli, categorie di pensiero, piani d’azione, vedendo la cultura come un sistema essenzialmente cognitivo, un insieme di norme, di valori, di capacità; re­ cita ad esempio la classica definizione di.Tylor 1871: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che in­ clude la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società». In altri casi si pensa invece a un insieme formato da com­ ponenti diverse che non si limitano al livello cognitivo ma includono le realizzazioni, anche materiali, di queste capacità. Citiamo ad esempio la

9. La vita sociale dei testi 217

prospettiva di Franz Boas (1911), che vede la cultura come somma totale delle attività intellettuali e fìsiche dei membri di un gruppo sociale, com­ prendendo anche i prodotti di queste attività (dalla cultura materiale alle realizzazioni d’arte decorativa, dai racconti tradizionali al concreto agire sociale...). In modo non dissimile, ma in termini più nettamente semiotici, Lotman (1975) considera la cultura tanto come un insieme di sistemi semioti­ ci (di norme, di grammatiche) quanto come un ampio insieme di contenu­ ti, corrispondenti a tutta l’informazione non ereditaria posseduta da un gruppo sociale. In quest’ottica, i testi sono il luogo in cui l’informazione si deposita, si elabora e si traduce. Se lo spazio della cultura è attraversato da differenze interne e da processi costanti di organizzazione e riorganiz­ zazione, i testi divengono essenzialmente modi di organizzare creativa­ mente le differenze e i significati in forme trasmissibili. Tuttavia, non limitandosi ad accostare le due diverse prospettive sulla cultura, Lotman osserva che ciascuna cultura tende a preferire per sé l’una o l’altra definizione, tanto da poter parlare di culture appunto «gram­ maticalizzate» da un lato, e di culture «testualizzate» dall’altro. Il problema concerne anche il modo in cui si trasmette il codice di una cultura, e di conseguenza il modo in cui possiamo individuarlo. Le cultu­ re che considerano se stesse e il loro passato come una somma di testi, fan­ no appello a una tradizione esistente e codificata, ponendo al centro il principio della consuetudine. Le altre si pensano invece come un insieme di norme e di regole, facendo perno dunque intorno all’idea di legge. Una cultura testualizzata generalmente non riflette sulle regole della propria costituzione, né prova ad autodescriversi. La cultura grammaticalizzata è al contrario un sistema capace di autodescriversi, in cui vi è spa­ zio per il metalivello in cui il sistema stesso esplicita le regole della propria costituzione. Questa prospettiva aggiunge all’inventario di strumenti per l’analisi la categoria della coscienza culturale. Questa categoria ci permette di descri­ vere il modo attraverso cui i testi vengono assorbiti e riorganizzati non so­ lo per il loro significato individuale, ma per il loro assortimento all’inter­ no del sistema, per la maniera, dice Lotman, in cui vengono usati dal si­ stema stesso.

Per una introduzione, purtroppo non aggiornata, alla problematica antropologica relativa al concetto di cultura, si veda Rossi 1970. Fra le prospettive teoriche più vicine alla semiotica ricordiamo quelle di LéviStrauss 1947,1958, 1962 e di Geertz 1973.

Manuale di semiotica 218

9.2. Semiosfera Riprendiamo il concetto di semiosfera, che abbiamo introdotto nel pa­ ragrafo precedente, per approfondirlo ulteriormente. Oltre alla biosfera, la sottile striscia di territorio che condividono con tutto il mondo animato, gli esseri umani vivono anche in un altro ambien­ te; con un termine di Lotman lo possiamo chiamare semiosfera-. è l’ambi­ to in cui noi facciamo circolare idee, messaggi, segni, artefatti, abiti, mer­ ci, pensieri... Vale la pena di ricordare che questa intuizione di Lotman non è affatto isolata. Uno studioso trasversale rispetto alle normali barrie­ re disciplinari, ma molto autorevole come Edgar Morin ha per esempio proposto di recente in termini analoghi la nozione di «noosfera» (Morin 1991). Da questo punto di vista diventa decisiva la questione della «demo­ grafia della noosfera» (Morin), o dei «confini della semiosfera» (Lotman 1985), cioè del modo in cui questo spazio particolare in cui viviamo riesce a mantenere la sua differenza contro le invasioni dall’esterno e la degra­ dazione interna. Si è pensato a lungo, e forse molti pensano ancora, che anche questa semiosfera, questo mondo dello spirito immateriale fosse infinita, sicché al suo interno non c’erano problemi di saturazione. In realtà ci stiamo ac­ corgendo che, come la biosfera, anche tale spazio è limitato. Vi sono in­ torno ad esso, immateriali ma precisi, i confini fisici determinati dalle tec­ nologie di trasmissione dei segnali, i limiti di canale: per esempio, in un certo territorio possono trasmettere solo un certo numero di stazioni tele­ visive via etere; se se ne attivano di più, i canali si sovrappongono e non si capisce più niente. Questo vuol dire, per esempio, che la quantità dei mes­ saggi televisivi che si possono trasmettere con le tecnologie oggi in eserci­ zio, è limitata. Lo stesso vale, con piccole variazioni, per la radio, per la stampa, per la voce, e anche per le tecnologie più avanzate della Tv via ca­ vo e dei satelliti - insomma per tutti i media. Ma il limite di canale più stringente lo troviamo in noi stessi, nella no­ stra capacità di apprendere. Di fatto i limiti temporali, fisici, della nostra ca­ pacità di informazione sono molto ristretti rispetto alle capacità produtti­ ve dell’industria culturale. Ancor più in profondità vi sono dei limiti che potremmo chiamare antropologici, derivanti dal fatto che in generale le grammatiche proibiscono più che costruire; di conseguenza siamo forte­ mente limitati da esse nel percepire le possibilità di espressione alternati­ ve, viviamo alTintemo di codici inevitabilmente limitati. Anche in questo caso, il fatto determinante è l’arbitrarietà del linguaggio che riguarda il modo di ritagliare il mondo, non solo il modo di dare i nomi alle cose: noi

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viviamo dentro un ambito di possibilità delimitato da questi ritagli del mon­ do che il nostro linguaggio ha stabilito. In questo secolo ci si è accorti in maniera diffusa che non solo la bio­ sfera ma anche la semiosfera è un luogo di possibile sfruttamento econo­ mico-. la nostra mente, il nostro linguaggio, il nostro spirito, la nostra cul­ tura, sono risorse importanti per far marciare il processo industriale. Il luogo tipico di tale sfruttamento della produzione della domanda è la pub­ blicità; ma pure il giornalismo, l’industria culturale. Anche la moda, inte­ sa come regola del cambiamento, agisce su questa semiosfera. La mossa più semplice in questo sfruttamento razionale della semiosfera consiste nel conquistare spazi sia nuovi che già in qualche modo definiti da altre pro­ duzioni culturali, come storie, musiche, film, e usarli per la creazione di do­ manda, come elemento di fascino. In generale tutti i fenomeni culturali usano altri fenomeni culturali come materia prima. Ciò sarebbe senza dubbio sempre un lavoro produttivo se questo spazio semiotico fosse in­ finito, perché allora la moltiplicazione dei messaggi si limiterebbe ad esplorare, a dissodare, a definire nuovi spazi. Di fatto però questo mondo percepibile e significativo in cui ci muoviamo è limitato e questo riuso comporta sempre anche una parte distruttiva, un consumo di senso, che di­ pende dalla qualità e dall’uso dei nuovi prodotti culturali. Ogni nuova im­ magine consuma una parte, magari piccolissima, del nostro repertorio di immagini, o del suo senso. La produttività della riscrittura dipende dun­ que dal rapporto fra la qualità informativa del nuovo prodotto e quella delle sue fonti. Usare la Gioconda per trarne cartoline postali, decorazio­ ni per boccali o per carta igienica, per una pubblicità o per un nuovo qua­ dro (ma di quale valore?) sono tutti esempi di consumo dell’immagine di­ pinta da Leonardo, che non la toccano fisicamente, ma attingono al teso­ ro grandissimo (però non infinito) del suo senso. Esempi però, di valore e di costo culturale molto diverso. Per capire meglio questo problema, bisogna pensare Vecologia semio­ tica (Volli 1989) o la demografia (Morin 1991) delle idee, o in genere dei prodotti culturali. Un modo interessante di modellizzare questa dinami­ ca può essere quello di immaginare un modello di cultura senza soggetti, composto solamente da una specie di brodo di cultura, dentro a cui si agi­ tano idee, pensieri, mode: qualcosa di simile alla proposta di un teorico della biologia come Richard Dawkins (1976). Si sa che tutta la vita sul no­ stro pianeta è determinata dai geni, certe particelle di Dna che si combi­ nano e si riproducono; è possibile però pensare a delle unità astratte del­ lo stesso tipo, capaci di veicolare informazione, che Dawkins chiama memi. Si tratta di unità di informazione, o meglio di cultura, che sono equi­ valenti ai geni: puntiformi, capaci di riprodursi e «interessati» solo a que-

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sto, ottengono la loro influenza e combattono la loro concorrenza indu­ cendo comportamenti (o veicolando credenze, opinioni, conoscenze, co­ stumi, mode, regole - il che è lo stesso). Come i geni non sono visibili né influenzabili a livello del fenotipo, vale a dire della loro espressione sog­ gettiva, dove agiscono però le caratteristiche di cui sono portatori. Dun­ que i memi non si identificano con le unità culturali che determinano, ma sono selezionati attraverso di esse, e la loro capacità di riprodursi e di dif­ ferenziarsi sta alla base, secondo questo modello, dell’evoluzione cultu­ rale. La funzione fondamentale dei geni è la loro capacità di riprodursi e di sfruttare l’ambiente a questo scopo: tutto il resto è secondario. Questa ca­ ratteristica si può forse applicare anche ai memi; da questo punto di vista, un giornale, o una sfilata di moda, o un libro di teologia, o una scuola, o persino un oratore, non è altro che un sistema, una specie di altoparlante, un apparecchio con cui un meme produce altri memi, copie di se stesso. Ci sono, secondo questo approccio, degli stratagemmi che i memi usano per riprodursi; fra cui il principale è il gioco di squadra. Per esempio, un me­ me che ha avuto grande successo è il meme teologico, il meme di dio, il quale è riuscito a costruirsi attorno altri memi: un meme-promessa di vita oltremondana, che è il meme-Paradiso, e poi anche il meme-proselitismo o evangelizzazione e così via. Qualcosa del genere si trova in quelle trap­ pole biologiche con cui i geni inducono dei corpi, degli esseri viventi, a ri­ produrli, a portarli in giro. Insomma, si potrebbe pensare che tutto quello che ci interessa, in realtà, consista nella propagazione conflittuale, concorrenziale, di certe unità culturali, quelle che abbiamo chiamato memi, le quali vivono una lo­ ro vita tutto sommato abbastanza indipendente da noi che li ospitiamo e li riproduciamo. Questa è un’idea molto affascinante nell’ambito delle co­ municazioni di massa, perché vi sono delle analogie importanti fra il mo­ do in cui mutano storicamente i contenuti dei mass media e il modo in cui si evolvono le popolazioni animali. Troviamo in tutti e due i campi delle specie che individuano una loro nicchia, oppure che diminuiscono di nu­ mero, poi scompaiono, si estinguono; certe specie diventano parassiti di certe altre; certe lasciano dei relitti o dei residui. Vi sono anche dei processi di inflazione o di eutrofizzazione della semiosfera. Il limite fisico al mondo dei memi esiste: un segno vive nel mon­ do delle idee, ma fra noi è solo nel momento in cui è trasmesso, cioè pro­ duce nuovi interpretanti. Il principale confine della semiosfera è dunque la capacità di trasmissione del canale. Nel momento in cui un meme non riesce a riprodursi o a far parlare di sé, esso è morto, ne restano solo dei frammenti o delle tracce. Noi, le comunicazioni di massa, la società pos­ siamo parlare solo di un numero limitato di oggetti allo stesso tempo-, così

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le singole emissioni di ogni messaggio hanno dei limiti temporali precisi. Se sono orali nascono e muoiono in un secondo; se sono scritte vivono un po’ di più, ma comunque hanno un loro ciclo di consumo-, se sono dei libri stanno in libreria per poche settimane, hanno una lunga agonia nei ma­ gazzini e nelle bancarelle di libri usati, sono sepolti nelle biblioteche, do­ ve si corrodono lentamente e, se non sono riprodotti, scompaiono defini­ tivamente; se sono dei film vanno nei cineclub, se sono quadri possono fi­ nire in un museo, finché il tempo non li distrugge. Vi è dunque una possi­ bilità limitata di conservazione, di conservare l’informazione come «diffe­ renza che crea differenze» e anche come differimento, effetto protratto nel tempo. Ma se noi badiamo ai messaggi attivi, quelli in grado di riprodursi an­ cora, essi hanno un tempo di vita e una possibilità di affollamento ancor più limitati, e hanno un costo di emissione abbastanza alto. In generale si può ipotizzare una curva statistica a campana per la possibilità di vita di un messaggio: alla prima emissione segue una rapida propagazione (per un numero limitato di memi), poi una cresta e una caduta. Quando una coppia di memi (o di aggregazioni di memi) competono, si può verificare invece una interdipendenza disegnata da una doppia sinusoide fuori fase, come quelle studiate dalla teoria delle popolazioni per il rapporto preda/cacciatore. Ci sono però dei memi che invece hanno in qualche modo la capacità di autoalimentarsi, perché hanno trovato una specie di nicchia ecologica, e allora la curva si appiattisce da sé a un certo livello e vi resta a lungo, con piccole oscillazioni. Questo vale per certi tipi di libri, o di film, la cui conservazione o diffusione è riconosciuta come un obbligo cul­ turale: Italo Calvino ha notato una volta che di un classico non si sente mai dire «ho letto», ma sempre «ho riletto»... In genere però la sopravvivenza dei memi nello spazio culturale richiede sostegno energetico, che spesso vuol dire in sostanza sostegno economico-, gli abitanti della semiosfera, esat­ tamente come quelli della biosfera, non vivono da soli; hanno poca auto­ nomia vitale e vengono poi gradualmente divorati, corrosi, metabolizzati da altri memi, esattamente come gli esseri viventi e in genere gli oggetti possono vivere più o meno a lungo, ma tutti finiscono e di solito i loro ele­ menti vengono rifusi dal ciclo biologico.

La nozione di meme è elaborata da Dawkins 1976, Ianneo 1999. Ma vedi anche Morin 1991, Lotman 1985,1992.

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9.3. Mode Non bisogna confondere la moda con un settore industriale o con il campo degli oggetti per vestire cui normalmente si applica questa parola nel linguaggio comune. In realtà la moda è un fenomeno molto più com­ plesso e vasto dell’abbigliamento, da cui pure è nata e da cui ha preso le mosse per conquistare una forte influenza sull’intera società. L’accosta­ mento coi cicli economici è illuminante: la moda è essenzialmente un mec­ canismo di regolazione dei cambiamenti culturali, in parte organizzato e sfruttato razionalmente, ma per lo più inconscio, incontrollato e almeno apparentemente irrazionale. Ed è un meccanismo che ha una natura es­ senzialmente comunicativa, il che giustifica l’interesse della semiotica. Tutte le società conoscono il valore significante del corpo umano, dei suoi accessori e di quelle protesi della pelle che costituiscono l’abbiglia­ mento; e tutte usano questo spazio simbolico come strumento di differen­ ziazione sociale. Ne parliamo altrove, nei paragrafi dedicati alla comunica­ zione non verbale e al corpo (7.4 e 11.2.1). Ma la grande maggioranza fra esse tendono a conservare più o meno immobili i loro codici, di modo che essi subiscono solamente una deriva molto lenta, analoga a quella che mo­ difica nel corso dei secoli ogni lingua o perfino meno veloce. È il caso del­ le società tradizionali senza storia (o «fredde», nei termini di Claude LéviStrauss), ma anche di molte società «calde», come quella greca o romana. La moda comporta al contrario una forte accelerazione del mutamen­ to e la possibilità di una sua manipolazione in termini di differenziazione. È legata dunque (non solo etimologicamente) alla modernità, alla religio­ ne del progresso che la anima, a una dialettica dei costumi che finisce col mimare la democrazia, se non altro per l’importanza che viene attribuita al consenso collettivo - il quale in ultima istanza determina là «modifica­ zione obbligatoria del gusto» che costituisce l’essenza della moda. Chi accusa l’industria o altri poteri di manipolare le mode per indurre il pubblico a comportamenti di consumo dispendioso o inutile, farebbe bene a considerare il caso dei nomi propri. Essi, come è noto, sono gra­ tuiti. Eppure ci sono degli studi, come in Italia quelli di Emidio De Feli­ ce (1987), che mostrano come l’attribuzione di nomi propri sia soggetta a forti fenomeni di moda. Non solo perché in certi periodi furoreggiano cer­ ti divi o personaggi. Anche i nomi senza un referente preciso subiscono dei cicli precisi: c’è l’anno delle Barbare e quello delle Patrizie, il periodo dei Luca e quello dei Giovanni. Il meccanismo dell’imitazione e del contagio delle idee è irresistibile per gli esseri umani, che sono animali sociali. Naturalmente per i beni di consumo fomiti allo stesso tempo di valore economico e simbolico, com’è

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il caso dei tessuti e soprattutto degli indumenti, l’industria e il commercio cercano di usare a proprio profitto il ciclo delle mode; ma più che cerca­ re di crearlo artificialmente, che sarebbe assai difficile, o anche di accele­ rarlo, provano a regolarne il flusso in maniera ordinata, coordinando l’in­ vecchiamento estetico dei prodotti e la programmazione della produzio­ ne. Per questa ragione l’aspetto decisivo delle mode, dal punto di vista economico, è la loro prevedibilità: capire in anticipo se e quando partirà una certa tendenza, e soprattutto quando essa rallenterà può essere un vantaggio prezioso. Il meccanismo delle sfilate, delle collezioni e delle tendenze in fondo ha questo significato di marketing degli atteggiamenti culturali: un tenta­ tivo di controllare le oscillazioni del gusto anticipandole e regolarizzan­ dole usando come pretesto il passaggio meteorologico delle stagioni. Que­ sto meccanismo è relativamente recente: risale agli anni Settanta del seco­ lo scorso quando il grande sarto parigino Charles Worth inventò il mec­ canismo della haute couture parigina. Esso suppone però una forte auto­ nomia dell’offerta sulla domanda, un potere per così dire imperativo del sarto. Non a caso la sua nascita coincide con l’emancipazione definitiva degli artigiani e degli artisti che un secolo prima erano stati l’orgoglio del­ le case nobiliari, ma in una condizione semi-servile: sarti, cuochi, decora­ tori, musicisti, ecc. Il buon funzionamento della regolazione operata per mezzo delle sfilate (e quello delle fiere e delle esposizioni, che gli è molto simile) suppone che il produttore elabori dei prototipi dei suoi prodotti senza rivolgersi a clienti precisi e li offra liberamente sul mercato, almeno per una piccola cerchia. In precedenza il sarto lavorava per un cliente de­ terminato, che gli forniva le stoffe e lo vincolava con le sue scelte di gusto. Il meccanismo della moda era allora determinato secondo il modello «a goccia» teorizzato da Georg Simmel (1895): un’innovazione è adottata dal vertice della società (idealmente dal monarca) e si diffonde in basso per la piramide sociale, fino a generalizzarsi e a suggerire un’altra ondata di dif­ ferenziazione dall’alto. Dopo le invenzioni di Worth il suo lavoro è rima­ sto un bene di lusso, accessibile a pochi, ma il «potere estetico» era in ma­ no al sarto e non più al principe. Il cliente, se voleva essere «alla moda» aveva solo la possibilità di obbedire, magari introducendo soltanto qual­ che elemento di ulteriore personalizzazione. Nella società contemporanea questo meccanismo si è fatto molto più complesso, per la globalizzazione del mercato, per l’accesso di nuovi ceti al consumo del lusso e soprattutto per l’interazione coi mezzi di comuni­ cazione, che presentano nuovi modelli e informazioni. Il risultato è stato una forte deregolamentazione del mercato della moda, una perdita di au­ torità del sarto, l’esplosione di stili sostanzialmente immobili e intercam­ biabili.

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Quel che interessa la semiotica nel mondo della moda è però il fatto di fornire un modello comunicativo per la diffusione senza soggetto di idee, gusti, atteggiamenti collettivi: una vera e propria rete basata sul bisogno di conformità e di differenziazione, sull’imitazione, sulla comunicazione interpersonale, che costituisce il più importante dispositivo di comunica­ zione sociale e anche di regolazione disponibile per le società umane.

A parte Simmel 1895, sulla moda si possono consultare utilmente te­ sti di impostazione sociologica come Squicciarino 1986 e Ragone, a cura di, 1986, studi psicologici come Flùgel 1930 e AA.W. 1972, ma anche la­ vori francamente semiotici come Calefato 1992,1996, Volli, 1988a, 1998.

9.4. Pratiche quotidiane GB oggetti e le questioni teoriche esaminate in questo capitolo intro­ ducono una nozione sempre più allargata di testo, che viene integrata dal concetto di testualità. Dal testo considerato come sistema immutabile, coerente e ordinato, vale a dire da un tipo di strutturalismo rigido, giun­ giamo alla testualità come forma e contenuto di un «reale» intelligibile grazie allo sguardo semiotico che ne ritaglia di volta in volta i confini. La nozione di testualità suggerisce perciò un diverso modo di intendere la produzione e la ricezione culturali, definibili come pratiche testuali in cui circolano e si trasformano i significati e i discorsi. Ne consegue che la stes­ sa divisione tra testo e contesto si fa sempre più sfumata, dal momento che anche il contesto può divenire, all’occorrenza, un testo interpretabile. Ta­ le prospettiva ci porta a considerare i singoli testi come parte di una te­ stualità che rappresenta il sistema generale della formazione e della tra­ sformazione degli enunciati e dei discorsi. L’obiettivo dell’analisi semiotica si estende dunque fino a comprende­ re gli atti sociali che trasformano le relazioni intersoggettive: il discorso, ca­ pace di migrare tra più testi, diviene non solo la forma specifica di un in­ sieme di valori e di temi, bensì uno spazio di interazione entro cui si espli­ ca l’efficacia sociale della comunicazione e della significazione. In altre pa­ role, il discorso e le forme di testualità in cui esso si iscrive divengono ri­ levanti in quanto luoghi in cui è possibile comprendere meglio «quello che facciamo», e cioè tutte quelle pratiche a partire dalle quali la vita sociale si costituisce e produce senso.

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Possiamo dunque pensare le pratiche come modi di fare che organizza­ no e riorganizzano i significati depositati nei testi, dando luogo a letture particolari quali, ad esempio, le pratiche di consumo: dall’andare al cine­ ma al fruire un game show in televisione, dall’acquistare un abito al muo­ versi all’interno dei percorsi della metropolitana. Ciascuna di queste pra­ tiche di consumo ritaglia una testualità che, oltre a riunire comportamen­ ti e oggetti sociali, è il risultato di un vero e proprio atto enunciativo in gra­ do di produrre altri discorsi enunciati. Nella pratiche, così come in un te­ sto visivo o verbale, in un romanzo o in un film, si conservano tracce del­ l’enunciazione: ogni pratica è infatti il frutto di un atto, di una realizza­ zione (come l’enunciazione verbale è una trasformazione del sistema in un processo); è il risultato àeW appropriazione di un comportamento da parte di chi lo attua; presuppone la costituzione di un contratto relazionale (così come si parla a qualcuno, anche le azioni non avvengono nel vuoto); in­ staura un presente relativo a un momento e a un luogo. Qualsiasi pratica diviene così un testo interpretabile da un osservatore, scomponibile in un piano discorsivo, ma anche in programmi narrativi entro cui si dispiegano sistemi di valori. Ricapitolando, quando ci accingiamo ad analizzare una pratica, dob­ biamo considerare un piano discorsivo, che riguarda questioni pragmati­ che. L’assunzione di un discorso da parte degli attori in gioco implica però l’esistenza di questioni semantiche, che ci conducono a considerare la co­ stituzione e l’organizzazione dei valori, e di questioni sintattiche, che ci portano ad analizzare i ruoli e le relazioni tra i soggetti entro cui si attua la circolazione dei valori stessi. In questo modo, le pratiche quotidiane divengono delle vere e proprie strutture testuali, il cui codice dipende però dalle operazioni discorsive re­ lative al tipo di contesto in cui esse si iscrivono. La riflessione sulle prati­ che non ha infatti prodotto un modello di analisi o una griglia di lettura valida per ogni tipo di testo. Quel che rimane fermo in ogni occasione è il tentativo di porre in luce il ruolo dei processi di valorizzazione e di riap­ propriazione dei significati sociali, di cui non si insegue tanto la logica, quanto la grammatica sottesa alla loro stessa costituzione. Queste forme significanti si stabilizzano infatti all’interno di comunità culturali di cui ogni soggetto è al tempo stesso ospite e autore. Ciascun soggetto è immerso in queste forme, e al loro interno stabilisce o varia il proprio progetto di vita che, se da una parte dipende da un sentimento condiviso, da forme e usi calcificati, dall’altra cresce e si determina anche in base a una singolare e peculiare assunzione di percorsi sensibili e co­ gnitivi, vale a dire nell’enunciazione di una pratica che esprime valori che possono contraddire oppure confermare i significati dominanti. L’enfasi non è perciò sull’ora e qui dell’enunciazione, ma sull’intera

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pratica enunciativa, che raccoglie al suo interno il percorso e le trasforma­ zioni possibili del senso: la sua emergenza nell’atto percettivo, in cui il sog­ getto si costituisce nella relazione con l’oggetto (che può anche essere un altro soggetto); e la sua sedimentazione in significato, e cioè in unità cul­ turale. L’atto sensibile incontra le determinazioni della cultura in cui ha luogo, e allo stesso tempo agisce al suo interno deformandone i significa­ ti prestabiliti attraverso nuove connotazioni o griglie di lettura, istituendo cioè nuove forme di vita, che sono un modo per dare un altro senso al mondo. Le pratiche quotidiane e i comportamenti che le articolano sono così reinterpretabili come configurazioni discorsive che traducono valori e riscrivono norme culturali. Un caso di pratica quotidiana su cui la semiotica ha lavorato riguarda, per esempio, l’analisi dei tragitti e delle tipologie comportamentali dei viaggiatori della metropolitana di Parigi. L’analisi è partita dall’osserva­ zione dettagliata e dalla trascrizione del percorso di alcuni viaggiatori, dal momento in cui entravano a quello in cui uscivano dalla metropolitana. In questo esempio, è il percorso compiuto da alcuni viaggiatori a trasformarsi in un testo analizzabile: un percorso è dotato di un inizio e di una fine suf­ ficientemente circoscrivibili (l’entrata e l’uscita dalla metropolitana), che permettono l’individuazione di un’organizzazione strutturale; può essere segmentato in tappe o momenti, legati tra di loro da un insieme di regole; è dotato di un orientamento. Le diverse tappe di cui si componeva il tragitto dei viaggiatori osser­ vati sono state inoltre reperite non tanto suddividendo il percorso rispet­ to ai diversi spazi attraversati (scale, corridoi, binari), quanto secondo ma­ crosequenze gestuali (immobile/mobile; in piedi/seduto; di fretta/indugiante) e prossemiche (apertura/chiusura, distanza/vicinanza) proprie dei soggetti osservati. I luoghi che compongono il tragitto, suddiviso in sin­ tagmi, sono stati così riconfigurati rispetto a categorie che a volte fanno del percorso un solo spazio (come nel caso di chi è mobile, frettoloso e chiuso in se stesso), o, viceversa, un insieme infinito di microspazi in cui indugiare e osservare il prossimo. Ciascuno dei percorsi osservati è stato inoltre considerato come un programma narrativo, vale a dire come un orientamento che trasforma il tragitto stesso in un percorso dotato di sen­ so. Il modo in cui i viaggiatori percorrono e si muovono nello spazio, in cui si destreggiano tra le diverse indicazioni, e in cui si relazionano al­ l’ambiente circostante ovviamente trasforma il programma narrativo di base in un microracconto a cui sono sottesi diversi sistemi di valori. I tra­ gitti considerati come testi, grazie all’osservazione, divengono in sostanza un processo significante composto di tanti microracconti, i quali, una vol­ ta trascritti, sono stati confrontati per reperire le similitudini e le differen­ ze. Questo processo di astrazione ha permesso all’analisi di riscontrare

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che, sottesa ai gesti e ai comportamenti dei viaggiatori, vi era la categoria semantica continuità/discontinuità. In altre parole, i tragitti erano in pri­ mo luogo articolabili grazie a strategie che, alternativamente, segmentava­ no ovvero rendevano omogeneo lo spazio percorso: da chi si lascia porta­ re dal flusso della folla e non bada al percorso, a chi invece si ferma in con­ tinuazione, cerca le indicazioni o si sofferma a guardare chi sta intorno. Nello specifico, proiettando sul quadrato semiotico la categoria conti­ nuità/discontinuità, l’analisi ha circoscritto quattro differenti valorizza­ zioni del tragitto considerato come pratica testuale-, quattro valorizzazioni che si legano a quattro tipologie interdefinite di viaggiatori: gli esplorato­ ri, che amano tragitti discontinui, i professionisti, che cercano percorsi non discontinui, i sonnambuli, che valorizzano la continuità, e i bighello­ ni, che amano la non continuità e passeggiano per la metropolitana. L’a­ nalisi di un testo anomalo quale il percorso in metropolitana ci permette di ribadire come ciascuna pratica metta in scena uno stile d’azione, così come ciascun romanzo o ciascun quadro rileva di uno stile letterario o di una maniera di dipingere. Tale stile o, come si scriveva, tale uso, è un mo­ do di riorganizzare e di interpretare i significati culturali, è una delle pra­ tiche attraverso cui, quotidianamente, produciamo senso. A partire dagli anni Novanta il tema dell’analisi semiotica delle prati­ che sociali è stato riassorbito dalla sociosemiotica, un’articolazione del campo semiotico che ha acquistato sempre più importanza e ricchezza di contenuti, anche se la sua definizione è ancora sotto discussione. Per so­ ciosemiotica si intendono in realtà atteggiamenti teorici abbastanza diver­ si, da quello che si sforza di integrare la semiotica alle scienze sociali, con­ dividendo risultati e provando a integrare metodi, a quello che cerca di fondare una semiotica empirica che parta dalle interpretazioni testuali che si possono scoprire negli atteggiamenti dei lettori, fino a quello che prova a estendere alla vita sociale nozioni e metodi tradizionalmente usati dalla semiotica per descrivere la struttura interna dei testi, soprattutto narrati­ vi, come quelli di attante o di programma narrativo. Quest’ultimo atteg­ giamento, adottato in particolare nell’ambito della semiotica generativa, ha prodotto molti lavori di analisi interessanti, fra cui il più ricco è Mar­ rone 2001.

Con la nozione di pratica quotidiana ci poniamo in una zona di con­ fine che riguarda non solo l’oggetto semiotico, bensì la stessa metodolo­ gia attraverso cui reperire e costituire l’oggetto d’analisi. Si tratta di un confine che spinge la semiotica verso campi di applicazione propri di di­ scipline quali la sociologia, l’etnometodologia, l’antropologia e l’etnogra■=>

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fìa. Per chi voglia approfondire tali zone di confine, segnaliamo Goffman 1959,1967, che attua una microsociologia dei comportamenti e delle in­ terazioni quotidiane; Garfinkel 1967 e Dal Lago e Giglioli 1983, per una panoramica dell’etnometodologia; Bourdieau 1964,1980, che unisce macro e microsociologia grazie alla nozione di pratiche simboliche; Geertz 1973, 1995, che discute di come interpretare i «fatti» che l’antropologo si trova ad osservare; Augé 1994, che discute di un’antropologia della contemporaneità applicata alla nostra cultura. Anche all’interno di que­ ste stesse discipline non vi è però accordo definitivo sullo statuto delle pratiche, sul ruolo e sul peso dell’osservatore, e sulle modalità di passag­ gio dall’osservazione alla trascrizione, e da questa all’astrazione dei signi­ ficati iscritti nelle pratiche. Landowski 1989 non a caso parla di socio-se­ miotica, indicando con questa denominazione la necessità di un approc­ cio interdisciplinare, e introducendo le nozioni di discorso e di efficacia sociale dei testi, applicate però non tanto alle pratiche quotidiane, quan­ to alla comunicazione politica. De Certeau 1975 ipotizza invece per pri­ mo la possibilità di considerare le pratiche quotidiane come tattiche, co­ me usi che rileggono i significati dominanti, interpretabili attraverso la categoria di enunciazione. Floch 1990 utilizza invece la semiotica greimasiana nell’analisi dei percorsi nella metropolitana di Parigi, da con­ frontare con il lavoro di un etnologo che si è esercitato sul medesimo og­ getto (cfr. Augé 1986). Successivamente, Greimas e Fontanille 1991 ana­ lizzano un comportamento, nel caso specifico il «bel gesto», unendo alla nozione di pratica quella di forma di vita, ripresa da Wittgenstein 1953, 1967. In Pozzato, a cura di, 1995 sono raccolte diverse analisi, compresa quella di Greimas e Fontanille, in cui le pratiche e gli oggetti interessano soprattutto in quanto forme di estetizzazione della vita quotidiana. Tra queste si veda in particolare la discussione di Bertrand 1995 sulle rela­ zioni tra usi individuali e usi collettivi.

9.5. Mito e folclore Si è visto che la semiotica coniuga l’interesse per l’analisi delle struttu­ re testuali con quello per la comprensione del funzionamento più globale dei sistemi culturali. Questo spiega tra l’altro la speciale attenzione con cui sono guardati i testi folclorici, e il rilievo che tale tipo di indagine ha as­ sunto nell’evoluzione dei concetti e degli strumenti della disciplina. In particolare, lo studio delle fiabe e dei miti è stato decisivo per la costru­ zione delle attuali teorie della narrazione. Il fattore in tal senso più decisivo va individuato nella speciale qualità di questi racconti, che costituiscono al tempo stesso tanto testi particolari

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quanto oggetti di valore e di appartenenza sociale. Non siamo cioè di fron­ te a creazioni individuali quanto a dirette forme di espressione della col­ lettività e di rappresentazione di una cultura. Questo spiega perché si trat­ ti di configurazioni testuali dotate di eccezionale forza (prova ne sia la grande stabilità e ripetitività, pur in un universo culturale privo di scrittu­ ra), nonché di una grande capacità di condensare significati e strutture concettuali. Il classico studio delle fiabe di magia russe condotto da Vladimir Propp (di cui abbiamo già parlato al § 4.6) ha fatto affiorare, sotto la su­ perficie cangiante e ricca di elementi fantastici tipica di questi racconti, una struttura logica e narrativa costante, basata evidentemente su elemen­ ti davvero fondamentali nella costruzione di una rappresentazione orga­ nizzata dell’esperienza umana. In tale prospettiva, le fiabe non appaiono più come un genere specifico per l’infanzia, bensì come un patrimonio cul­ turale essenziale, la cui ricchezza ne rende possibile una ripresa infinita­ mente variata all’interno di generi (letterari, cinematografici, ecc.) anche adulti e culturalmente «alti». Ci viene anche, dalle ricerche stesse di Propp, l’idea che le strutture narrative tipiche della fiaba non siano limitate all’ambito della narrativa orale, ma siano parallele all’organizzazione logica che emerge nel caso di importantissime e diffusissime configurazioni di azioni rituali, legate ai co­ siddetti «riti di iniziazione». Questo ci aiuta a comprendere la collocazio­ ne centrale della fiaba all’interno del patrimonio concettuale delle società umane. La fiaba tratta di questioni fondamentali relative al modo in cui si costruisce l’identità dell’individuo che accede all’età adulta, tramite un percorso di azioni che vengono alla fine sanzionate dall’autorità sociale. La fiaba descrive una strutturazione dello spazio che oppone il luogo ci­ vilizzato a quello selvaggio, illustra categorie etiche e giuridiche come quelle di proprio/altrui o il meccanismo del contratto (si pensi al «bando» che sta a fondamento di molti racconti fiabeschi).

Un altro campo fondamentale per l’evoluzione degli strumenti semio­ tici è stato lo studio delle mitologie dei popoli preletterati. Il mito, più complesso ed enigmatico rispetto alla fiaba, si presenta come denso con­ tenitore di valori culturali e sociali, tanto che alcuni antropologi hanno proposto di considerare tali racconti come l’equivalente di quello che è per noi la carta costituzionale (Malinowski 1926). Un così forte, ma al tem­ po stesso così ermetico contenitore di valori e significati non poteva non costituire una sfida particolarmente affascinante per i semiotici. Tale sfida è stata raccolta in particolare da Claude Lévi-Strauss, che vi ha dedicato un lavoro di analisi davvero imponente. Il metodo semiotico riesce a mostrare come l’apparentemente inaffer-

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rabile fantasiosità degli elementi che compongono questi racconti na­ sconda una logica precisa, un discorso che allude ad esempio alla logica della struttura sociale, al valore da riconoscere a certi rituali o a certe isti­ tuzioni, alla spiegazione di talune apparenti anomalie dell’universo in cui si vive. Un tema importante cui molti racconti mitici fanno riferimento è quello del rapporto tra i dati naturali e i prodotti dell’agire trasformatore umano, insomma tra natura e cultura. Ma il modo in cui questi valori con­ cettuali sono rappresentati può essere molto diverso. Ci è facilmente com­ prensibile se in un racconto la «cultura» è rappresentata dal gesto di man­ giare cibi cotti, in opposizione al «mangiare crudo», certo più tipicamen­ te «naturale». Analogamente, un vegetale coltivato può rappresentare la «cultura» in opposizione a un’erba che cresce in natura. Ci è già meno im­ mediato capire che per certe popolazioni il silenzio può essere «cultura­ le», in opposizione al baccano, che appare «naturale» - ma forse capiamo che debba essere così per chi vive ai margini di una foresta piena di ani­ mali rumorosi. Ma se proseguiamo su questa strada, entriamo in aspetti affascinanti della logica di questi simbolismi, scoprendo ad esempio che per certe po­ polazioni sudamericane ciò che è intero, unito e resistente simboleggia la cultura umana, in opposizione a ciò che è sparso, frammentato, molle, che sta invece dalla parte del «naturale». Questo ci spiega non solo perché, come ci appare logico, il legno imputridito simboleggia i processi natura­ li, ma anche perché la roccia, per opposizione, si carica di valori cultura­ li. Ancora diverso è il caso del giaguaro, animale «culturale» non per qual­ che ragione effettivamente osservabile, ma solo perché collegato al fuoco da cucina all’interno dei racconti stessi: il giaguaro sarebbe stato infatti il possessore mitico del fuoco, prima che gli umani riuscissero ad impadro­ nirsene. Disponiamo a questo punto di una catena di equivalenze notevolmen­ te complessa (e tutt’altro che esaustiva, stando alle ricchissime analisi di Lévi-Strauss). Elementi apparentemente assai diversi come la roccia e il giaguaro, il silenzio e i piatti cucinati, vengono ad assumere una medesi­ ma identità sul piano profondo. Ciò consente, tra l’altro, la costruzione di grandi discorsi collettivi, i cui temi centrali vengono sviluppati tramite una serie di continue variazioni. Queste - in analogia anche con le osservazio­ ni di Lotman riportate più sopra (§ 9.4) - coinvolgono anche gruppi etni­ ci confinanti, le cui produzioni narrative si richiamano e si trasformano, in un continuo processo di traduzione a molteplici livelli. Stando alle ricerche di Lévi-Strauss, gli elementi simbolici che com­ paiono in un mito possono assumere il loro valore sul piano del reale, del simbolico o dell’immaginario. Tra gli esempi precedenti, il mangiare cibi cucinati, come simbolo della cultura umana, illustra il caso di corrispon-

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denza diretta, sul piano del «reale». Il piano del simbolico è caratterizzato invece da relazioni di carattere sostanzialmente metaforico o metonimico. L’associazione tra «legno putrido» e «natura» rientrerebbe dunque in que­ sto caso. L’esempio del giaguaro ricadrebbe infine sul piano dell’immagi­ nario, dal momento che solo all’interno dei racconti esistono i motivi che possono collegare la sua figura al fuoco e quindi alla «cultura». Tutto questo, come si vede, ci offre indicazioni di grande interesse sui meccanismi del pensiero simbolico, tanto da aver dato vita ad interi set­ tori della ricerca antropologica. Ma la complessità della visione che ne ri­ caviamo, a proposito del funzionamento di un sistema mitologico, ci offre il modello teorico di una cultura costruita come una rete di testi, dove il valore di ogni singolo elemento costitutivo può essere colto solo nel mo­ mento in cui si tiene conto della sua relazione con altri all’interno di una rete testuale che non solo ricopre la dimensione dell’intero sistema cultu­ rale ma la supera, estendendosi via via ad ambiti culturali sempre più am­ pi. Abbiamo già accennato a questa concezione della cultura come rete te­ stuale parlando del fenomeno Internet - ma la possibilità stessa di opera­ re tale collegamento con studi condotti in ambito folclorico non può non apparirci immediatamente assai significativo.

9.6. L'informazione in prospettiva semiotica Uno studio semiotico dell’informazione, tanto stampata quanto au­ diovisiva, muove spesso da una riflessione critica sul rapporto che questo tipo di produzione discorsiva intrattiene con i meri dati informativi. Vie­ ne immediatamente rifiutata come ingenua ed irrealistica l’idea per cui sa­ rebbe possibile concepire una corrispondenza semplice tra testi di infor­ mazione ed eventi del «mondo reale». Non si tratta soltanto di riconosce­ re l’impossibilità di quella astratta «obiettività» che era, e in parte ancora è, vagheggiata da alcuni. Si tratta, se vogliamo, di un giudizio più reciso sull’irrilevanza stessa di una «informazione obiettiva», di una corrispon­ denza speculare tra notizie e realtà, e sugli equivoci che queste idee pos­ sono aver generato. Nella prospettiva che è tipica delle scienze sociali, si deve piuttosto puntare a rilevare le funzionalità effettive di questo settore comunicativo. L’informazione, ben lungi dall’essere in primo luogo una sorta di calco im­ personale degli eventi, è selezione, organizzazione, interpretazione opera­ ta sui dati di partenza. Ed è questo che in effetti le si chiede di essere. Qualunque lettore di giornale, o ascoltatore di telegiornale, chiede in­ nanzitutto di essere messo di fronte a un insieme ristretto di notizie, «quel-

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le realmente interessanti o importanti»: una selezione - di fatto una for­ tissima selezione rispetto all’universo delle «notizie possibili» - che non può ovviamente che fondarsi su complessi codici di rilevanza, certamente dipendenti da un insieme di criteri tanto di efficienza produttiva quanto di posizione ideologica e, non ultimi, di buona forma comunicativa. Se in effetti non è difficile riconoscere la razionalità di un criterio co­ me quello per cui un evento è più rilevante in misura della sua vicinanza spaziale e culturale con il lettore, più difficile è riconoscere come siano più adatti a tradursi in notizia eventi cui può essere assegnata una conforma­ zione particolare-, ad esempio, una costruzione antagonistica (come nel ca­ so dello scontro tra due leader politici o del testa a testa tra due campioni di ciclismo), una grande componente narrativa, un forte senso di unicità o magari un difetto di razionale connessione logica («Si arruola nella legione straniera per non passare il Natale con la suocera») o una anomalia rispet­ to all'ordine comune delle cose («Ladri sciolgono un cane poliziotto con­ tro un guardiano notturno»). Tra l’altro, come è facile vedere, questa tendenza dell’informazione ad enfatizzare le anomalie e i casi eccezionali contrasta violentemente con l’i­ dea del giornale come «specchio del mondo»; semmai, ci indurrebbe a pensare proprio l’opposto. Ma le cose non sono così semplici. Potremmo osservare che una delle grandi funzioni dei mezzi di informazione è pro­ prio la determinazione del grado di anomalia (irrazionalità, imprevedibi­ lità, eccezionalità...) o viceversa di sistematicità (logicità, prevedibilità, stretta connessione e congruenza con altri eventi dello stesso settore...). Tale carattere, che come s’intende è variamente graduabile, non costitui­ sce una proprietà degli eventi in se stessi bensì un effetto della costruzione discorsiva. E facile rendersi conto che molti eventi presentati in chiave si­ stematica acquistano i caratteri dei fatti anomali se vi si toglie ogni riferi­ mento al contesto, alle motivazioni che lo hanno preceduto o agli obietti­ vi che ne hanno sorretto l’attuazione. Si comprende dunque che l’effetto di anomalia dipende soprattutto dalla decisione di operare un ritaglio stretto sulla realtà, giusto intorno all’evento, separandolo dal suo contesto, mentre {'effetto di sistematicità discende dalla decisione di operare un ri­ taglio decisamente più ampio, che include un buon numero di altri dati e avvenimenti, e dunque di connessioni logiche e causali. Ma si tratta allo­ ra, evidentemente, di tipiche decisioni che riguardano i modi di confezio­ namento delle notizie. Il sistema dell’informazione opera del resto sulla base di una suddivi­ sione in grandi aree tematiche che corrispondono a generi discorsivi rico­ nosciuti con molta chiarezza, sia pure a livello implicito. Nessuno si at­ tende, in linea generale, che l’informazione politica o quella economica siano confezionate nello stesso modo della cronaca nera o della sezione de-

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dicata agli spettacoli. Quando ciò avviene, il destinatario è il primo a rile­ varlo e ad attribuirvi una forte dose di significato. » 9.6.1. La narrazione giornalistica

La suddivisione in grandi aree tematiche è la prima e più generale ope­ razione di topicalizzazione (vedi § 3.7), ma altre via via più specifiche so­ no attuate a livello di costruzione della pagina (concetto peraltro valido an­ che in televisione) e tramite le varie componenti della titolazione. I mede­ simi dati informativi assumono valori e significati indubbiamente diversi se definiti tramite differenti attribuzioni di topic. Per fare un esempio mol­ to semplice, si pensi alla differenza che viene percepita se .una stessa noti­ zia è collocata nella pagina della politica nazionale o in quella dei proce­ dimenti giudiziari. Contestualizzazione e definizione tematica sono dunque operazioni fondamentali, nel quadro in cui il sistema dell’informazione tratta i dati grezzi. D’altro canto, la prima domanda che il lettore pone al giornale, scorrendo i titoli per orientare le sue decisioni di lettura, non è tanto «che cosa si dice» (qual è l’informazione nuova) quanto «di cosa si parla» (a quale riferimento tematico già noto è possibile agganciare le no­ tizie del giorno). Il che è già in se stesso indice del fatto che è importante per noi collocare le nuove informazioni in uno schema ordinativo già pos­ seduto, introducendo gli elementi nuovi in un quadro già da tempo orga­ nizzato. Gli organi di informazione rispondono a questa esigenza anche trami­ te il mantenimento sistematico di generi e formule espositive. Di fronte ai nuovi dati di fatto, il giornalista confeziona le «notizie del giorno» riuti­ lizzando modelli già sperimentati, configurazioni narrative di portata assai più generale, o anche richiamando esplicitamente altri eventi per analogia («Torna il terrorismo degli anni Settanta»), o riproponendo una etichetta comune («Delitto di mafia», «Sciopero per il rinnovo del contratto»... tal­ volta basta anche una sola parola, come nel caso di «Tangentopoli»), Si dovrà allora riflettere sul fatto che le strutture semiotiche conduco­ no per loro natura a varie forme di classificazione. Come abbiamo avuto modo di vedere più sopra a livello teorico (§§ 3.1, 3.4), una entità semio­ tica non collega di norma un singolo elemento a un suo specifico, singolo valore semantico, ma tende piuttosto a collegare gruppi, insiemi, tanto dal lato in cui si pongono i dati che vengono interpretati quanto da quello dei sensi ad essi attribuiti. Anche nel campo dell’informazione, appare senz’altro più efficiente e più economico, ma soprattutto più rilevante dal punto di vista del mantenimento di un sistema culturale organizzato, fare in modo che circolino sui media non singole assegnazioni di senso a sin­ goli avvenimenti quanto valutazioni e interpretazioni più globali, valide per

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gruppi di eventi considerati appartenenti ad una stessa classe, e dunque «simili». Una parte importante del lavoro del giornalista è dunque quella di classificare gli eventi, ai diversi livelli delle aree tematiche, dei tipi fun­ zionali, dei modelli logico-semantici. Compito del sistema dell’informa­ zione non è quello di «riprodurre» la realtà, bensì quello di organizzarla, classificarla, interpretarla. Non a caso la forma tipica del discorso informativo è quella narrati­ va, scelta tra altre che pure sarebbero in teoria possibili, e che vengono in effetti impiegate, ma in misura minore. La caratteristica forse prima­ ria della costruzione narrativa è in effetti proprio quella di dare senso agli eventi tramite la loro concatenazione in una serie connessa. Qualsia­ si costruzione narrativa costituisce sempre già una interpretazione degli eventi, poiché attribuisce agli elementi di fatto una consequenzialità, uno sviluppo più o meno logico, dunque un senso rispetto alle prospettive va­ loriali attribuite ai protagonisti, una comprensibilità in termini di rela­ zioni causa-effetto, e così via. Trasformare un insieme di dati grezzi in un racconto (articolo di giornale o servizio televisivo) è sempre dunque un atto interpretativo, indipendentemente dall’aggiunta di qualsiasi com­ mento. La narrazione giornalistica possiede poi le sue specificità, a partire da quella più evidente: molto spesso, si tratta forzatamente di una narrazio­ ne incompleta, nel senso che essa prosegue giorno per giorno, aggiungen­ do nuovi elementi a un racconto di cui lo stesso giornalista non conosce in anticipo gli sviluppi. Questo implica in prima istanza una certa inferio­ rità della posizione del giornalista rispetto a quella, diciamo, del roman­ ziere, che può assai meglio predisporre l’esposizione della sua storia. Mol­ te narrazioni giornalistiche possono essere dette incomplete, nel senso che non comprendono tutte e quattro le fasi fondamentali dell’architettura narrativa (vedi § 4.6). È anzi possibile operare una classificazione dei rac­ conti informativi sulla base della loro corrispondenza primaria con una delle quattro fasi canoniche. Potremo parlare innanzitutto di notizie virtuali, quando siano centra­ te sulle fasi di apertura di una configurazione narrativa (notizie che espri­ mono previsioni, intenzioni, o che rappresentano persone che incitano a compiere una certa azione - ciò che appunto corrisponderebbe al concet­ to semiotico di manipolazione). Accanto a queste, distingueremo delle notizie potenziali, dove si mo­ stra l’acquisizione di competenze, vale a dire di conoscenze o capacità che potranno poi consentire di compiere una determinata azione (queste no­ tizie sono in effetti molto comuni, specialmente se puntate sulle compe­ tenze cognitive: si va, per esempio, dalle comunicazioni operative di una dirigenza aziendale alle rivelazioni dei pentiti...).

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Le notizie performative presentano lo svolgersi di un’azione decisiva’, la conclusione di una trattativa, lo svolgimento di una gara sportiva, una bat­ taglia tra banditi e forze dell’ordine. E a queste ci aspettiamo che seguano le notizie cerimoniali, quelle cioè che ci presentano la fase di sanzione-, casi del tutto evidenti sono la con­ clusione di un processo penale con relativa sentenza, l’insediamento di un nuovo Presidente, la cerimonia di ratifica di un accordo o quella di pre­ miazione di un successo sportivo. Per farsi un’idea della differenza di effetto tra questi tipi di notizia, si può provare a immaginare quanto apparirebbe diverso un telegiornale che desse prevalentemente notizie «virtuali» (ove si avrebbe la sensazio­ ne di un mondo quasi surreale, ridotto a pure intenzioni) ovvero notizie «performative» (certi notiziari americani tutti puntati sull’azione ne pos­ sono dare un’idea), o magari ancora incentrato sulle notizie «cerimonia­ li» (i telegiornali dei primi anni della Rai mostravano chiaramente questo tipo di tendenza, ufficiale e celebrativa). Questo esercizio ci rende evi­ dente, ancora una volta, che non sono tanto i fatti di per se stessi ad esse­ re «performativi», «cerimoniali», ecc.: è il modo in cui le notizie sono con­ fezionate da parte della redazione a sospingerle verso l’una o verso l’altra tipologia. La narrazione giornalistica può del resto sfruttare in modi vantaggiosi la sua condizione di incompletezza. Il modo di presentazione di una noti­ zia può infatti giocare sulla tendenza dei destinatari a completare, incon­ sapevolmente, le parti mancanti. Come gli psicologi della percezione han­ no abbondantemente dimostrato, la mente umana ha tendenza a rappre­ sentarsi forme compiute e regolari, e tende perciò a completare automati­ camente le parti mancanti, ad esempio in un disegno o in una composi­ zione grafica. Poiché lo stesso avviene, sia pure a un livello più comples­ so, per le forme narrative, è possibile portare i destinatari a rappresentar­ si mentalmente delle parti della vicenda che vengono indirettamente sug­ gerite, pur senza essere di fatto riferite. Le notizie sono incomplete sulla pagina del giornale, ma saranno completate nella mente del lettore. E anche necessario superare l’idea che la struttura narrativa abbia ne­ cessariamente un andamento pienamente lineare. Ci sono, ad esempio, molti racconti che ruotano intorno a un tema o a un problema, mostran­ done via via le diverse soluzioni possibili, ad esempio tramite le vicende di cui sono protagonisti diversi personaggi. Queste vicende si pongono logi­ camente l’una in alternativa all’altra, piuttosto che l’una dopo l’altra. La costruzione narrativa possiede tra l’altro questa capacità di esplorare al­ ternative possibili, mostrando ad esempio le conseguenze di eventuali de­ cisioni diverse. La narrativa giornalistica esalta in effetti questa capacità, giocando moltissimo sulla esposizione di sviluppi possibili nel futuro, di

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illazioni sull’andamento dei fatti, di ipotesi alternative anche rispetto a quanto ormai ha già avuto modo di verificarsi. Un esercizio assai utile può essere in questo senso quello di prendere alcune prime pagine di quoti­ diani e vedere quanto sorprendente sia la presenza di elementi di infor­ mazione esposti non nella classica forma del passato narrativo, bensì in quella del futuro di ipotesi o di previsione, o nella forma del condiziona­ le o del congiuntivo ipotetico, ovvero retti da costruzioni del tipo «si ri­ tiene», «si dice», «secondo tale prospettiva», «nel caso in cui», «alla luce di», e così via. Anche tale esercizio contribuisce a renderci conto di quanto ingenua sia l’idea per cui ai mezzi di informazione sarebbe affidato semplicemen­ te il compito di «riferire ciò che accade», e non ad esempio anche quello di aiutarci a formulare previsioni sul futuro, a comprendere le connessio­ ni tra azioni e possibili effetti, a valutare le conseguenze di condizioni al­ ternative, che possono del resto dipendere anche da noi (dal nostro voto, ad esempio). Non a caso risulta particolarmente utile in questo campo la nozione di mondo possibile (vedi § 4.5). Lo spazio dell’informazione agi­ sce anche come luogo di esplorazione, o addirittura di sperimentazione, in­ torno alla logica degli eventi, alla connessione tra azioni e conseguenze, o alla diversa identità che i fatti assumono a seconda delle varie prospettive di osservazione. Si tratta in effetti di funzioni cognitive non meno rilevan­ ti rispetto al semplice bisogno di ricevere dati informativi. ►► 9.6.2. L’enunciazione giornalistica

Un altro risultato dei modi in cui è realizzata la messa in discorso dei dati fattuali è quello che si chiama effetto di verità, che poco ha a che ve­ dere con la corrispondenza tra il discorso giornalistico e i «dati di fatto». Mentre quest’ultima corrispondenza può essere verificata soltanto uscen­ do dal discorso di informazione, l’effetto di verità può essere pienamente realizzato con una valutazione tutta interna al piano discorsivo. La co­ struzione di effetti di verità viene attuata dai mezzi di informazione del tut­ to indipendentemente dal loro grado di «sincerità» o di «affidabilità infor­ mativa». Molto dipende tra l’altro proprio dalle opzioni relative ai modi di rappresentazione, all’interno dello stesso testo giornalistico, del rap­ porto tra i dati informativi e la costruzione del discorso. Rileviamo anche, a questo proposito, che ogni racconto di informazio­ ne contiene insieme due storie diverse. Da un lato vi è la storia riferita, svol­ tasi indipendentemente dall’operato dei giornalisti, e dall’altro lato vi è la storia della ricerca degli elementi di questa storia, dell’accertamento della verità, della raccolta delle impressioni dei protagonisti, ecc., insomma la storia dell’accesso ai dati informativi e della stessa elaborazione del di-

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scorso giornalistico. Talvolta questa seconda storia, benché non assente, resta nell’ombra, e l’operato dei giornalisti appare del tutto trasparente, se­ condo quella che abbiamo definito (§ 6.6) strategia oggettivante. Ma spes­ so i dati di fatto non sono presentati come autoevidenti. Il lavoro di ricer­ ca è difficile e questo va fatto presente al destinatario, alcuni elementi de­ vono essere avanzati in forma di ipotesi esplicita, o magari è importante far sentire la presenza del giornalista sul luogo dei fatti o delle indagini, proprio per accrescere l’effetto di verità (questa è regola corrente specialmente nel caso degli «inviati», che sono tenuti a far sentire la loro effetti­ va presenza sulla scena dei fatti, differenziando fortemente l’articolo da quanto potrebbe essere realizzato lavorando sui dispacci d’agenzia). Ab­ biamo allora una strategia soggettivante. L’universo dell’informazione ci rende particolarmente consapevoli del­ le complesse e decisive relazioni che legano i due piani dell’enunciato e dell’enunciazione, della notizia e della sua messa in discorso. Questo può risultare ancora più evidente nel caso dell’informazione televisiva, dove la messa in discorso corrisponde all’impiego di complesse tecniche audiovi­ sive e alla tendenza ad introdurre una componente di spettacolarizzazione. Assume dunque uno speciale significato il rapporto tra gli eventi riferiti e i modi della loro rappresentazione, o come si suol dire tra il piano fattua­ le e quello discorsivo. Possiamo in questo senso definire casi diversi. Quando il fattuale appare dipendente dal discorsivo si ottiene un effet­ to tranquillizzante: il discorso domina gli eventi, ne ricostruisce per inte­ ro la logica e la struttura, si mostra tanto forte da esplorare i meccanismi profondi dello svolgimento della vicenda, anziché riprodurre l’ordine contingente in cui si è venuti a conoscenza dei singoli elementi. In altri casi, si può dire che il fattuale è distinto dal discorsivo, ma non vi è contrapposizione. La forma espositiva non può dominare interamen­ te la sequenza degli eventi, ma riesce tuttavia a superarne la frammenta­ rietà o l’incertezza, riempiendo le lacune con previsioni, ricostruzioni, va­ lorizzazioni anche passionali. Il discorsivo è comunque presentato come un di più rispetto ai semplici dati di fatto. Quando invece il fattuale è staccato dal discorsivo la forma espositiva non appare più in grado di reggere al senso di irregolarità o di imprevedi­ bilità degli eventi. Sembra in questi casi che si debba accettare l’idea per cui negli eventi vi è un di più rispetto a quanto la costruzione discorsiva è in grado di organizzare e dotare di senso. E questo il caso in cui più alto può risultare il senso - a seconda dei casi - di inquietudine, di scandalo, di angoscia, di incomprensibilità del reale. Ben diverso è infine il caso in cui ilfattuale è complementare rispetto al discorsivo. Apparentemente si tratta di due piani che muovono ciascuno secondo una propria logica indipendente. E tuttavia la forma dell’esposi-

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zione giornalistica risulta perfettamente adeguata, confezionata in modo da aderire punto per punto allo svolgimento di eventi pur in se stessi non interamente prevedibili. E come se fosse possibile prevedere, degli even­ ti, non il contenuto specifico ma la forma complessiva (si pensi alla ripre­ sa diretta di un evento sportivo, dove nessuno può prevedere chi vincerà, ma al tempo stesso è possibile predisporre minutamente la ripresa televi­ siva poiché si possono prevedere con precisione i tempi, i modi, le fasi di svolgimento). Quest’ultima è spesso la condizione preferita dai giornalisti, perché consente non solo una loro perfetta presenza sulla scena degli eventi ma anche un pieno controllo sui modi del loro svolgimento e della loro espo­ sizione, pur mantenendo alto l’effetto di realtà, l’impressione di autenti­ cità e di contatto diretto con la scena dei fatti (effetto dovuto alla sensa­ zione di una evidente indipendenza del piano degli eventi rispetto a quel­ lo della loro messa in discorso). L’ideale del giornalista, definito in questo modo, appare senz’altro più interessante e meno ingenuo di quello della «obiettività»: è l’ideale del possesso di un insieme di strumenti linguistici e comunicativi che esisto­ no e valgono indipendentemente dagli accadimenti specifici, ma che sono costruiti a partire dagli eventi, vale a dire in termini di modelli elaborati sulla base di un’analisi delle modalità tipiche e delle logiche organizzative profonde di quei «fatti» cui saranno applicati.

Il settore della comunicazione giornalistica non ha ricevuto fino ad ora dai semiotici le attenzioni che al contrario meriterebbe, sia in ragio­ ne del suo interesse intrinseco, sia in considerazione delle possibilità che esso offre in termini di una dimostrazione della concreta efficacia di mol­ ti strumenti e nozioni teoriche. Vanno ricordati alcuni studi precursori, come quello di Barthes 1964a sulla struttura del fatto di cronaca, di Gritti 1966, e di Eco 1971b. Studi più specifici sul giornale a stampa sono quelli di Violi 1977, di Calabrese e Violi 1980,1984, e di Cipolli 1981. Sul giornalismo radiofonico e televisivo segnaliamo Calabrese e Volli 1983,1995, Marrone 1998, Balestrieri 1984 e Semprini 1997, i capitoli 8, 9 e 10. Alcune analisi delle strutture dell’informazione in generale si tro­ vano in Dayan e Katz 1992, Ferraro 1981 e Landowski 1989. Infine, ricordiamo alcuni studi di carattere linguistico, non recenti ma interessanti e approfonditi: Beccaria 1973 e Dardano 1973.

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9.7. La comunicazione pubblicitaria I primi studi sistematici di carattere semiotico sulla comunicazione pubblicitaria - collocabili intorno agli anni Settanta - si sono principal­ mente concentrati sulla componente linguistica, riattualizzando da un la­ to i concetti classici della retorica (in quanto disciplina attenta ai modi del­ la comunicazione persuasiva), e impiegando, dall’altro, gli strumenti del­ la linguistica moderna, allo scopo di evidenziare le specificità del linguag­ gio pubblicitario. Si è però presto avviata una diversa corrente di studi, impegnata ad af­ frontare in modo più globale la comunicazione pubblicitaria, considerata nelle sue logiche interne e in tutta la complessità delle sue componenti. Non a caso, del resto, molti dei più significativi rappresentanti di questa corrente hanno partecipato anche all’affermazione delle metodologie se­ miotiche nel mondo professionale, vale a dire nel quadro degli istituti che svolgono ricerche applicative su pubblicità e marketing. Si tratta in questo caso di indagare le strategie di comunicazione che reggono la promozione commerciale, i processi di costruzione e di tra­ sformazione dell’identità stessa dei prodotti e delle marche, tenendo con­ to anche del fatto che nella determinazione del valore di tali entità pesa sempre di più la componente propriamente semiotica, immateriale, for­ mata cioè da quei costituenti semantici cui corrispondono i cosiddetti «ef­ fetti di immagine». In tale quadro, i riferimenti metodologici fondamentali sono quelli del­ la teoria della narrazione e della comunicazione visiva e audiovisiva. Nel­ la maggior parte dei casi, infatti, le strutture portanti di un testo pubblici­ tario poggiano o sulla - anche implicita - costruzione di un microraccon­ to, o su una organizzazione essenzialmente visuale. La costruzione narrativa dei testi pubblicitari poggia in buona misura sull’impiego di una serie di modelli fondamentali, dei quali vengono ope­ rate infinite variazioni. Tra i più semplici, e più ricorrenti, citiamo ad esem­ pio il modello della messa alla prova, o quello più specifico dell’esame a confronto, non a caso formule ben note anche per la loro diffusione nei racconti folclorici di ogni parte del mondo. Strutture di questo genere consentono, anche in un testo di poche righe o in un filmato di pochi se­ condi, di rendere evidenti le qualità del prodotto in termini di efficacia, di praticità d’uso, di superiorità rispetto ai concorrenti. Un altro esempio classico può essere quello del paradosso-, il messaggio pubblicitario propone un problema apparentemente impossibile da supe­ rare, per poi mostrare come il prodotto in questione sia invece in grado di

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superarlo brillantemente. Una variante di grande interesse, dal punto di vista teorico come da quello applicativo, spinge tale difficoltà fino ai limi­ ti di una opposizione estrema, i cui termini appaiono inconciliabili (come è il caso, per fare un esempio notissimo, dell’opposizione tra il mangiare dolci e il restare magri). La capacità attribuita al prodotto è dunque quel­ la di riuscire a superare le opposizioni, armonizzando insieme ciò che pa­ reva incompatibile. Come si vede, quello della pubblicità è in buona parte, narrativamen­ te, un universo irto di problemi da superare, soluzioni da escogitare, com­ promessi da porre in atto. Per quanto le formule siano di fatto elementa­ ri e ripetitive, risultano comunque capaci di suggerire valori di utilità e di efficacia. Costruzioni un po’ più complesse sono di norma riservate alla promozione di beni di valore meno immediatamente funzionale, ove si può ad esempio mostrare come l’impiego del prodotto pubblicizzato con­ senta a un soggetto di esprimere la sua identità o di raggiungere obiettivi per lui significativi. Non casualmente, le tipologie proposte per le forme narrative in uso nel settore pubblicitario introducono spesso, quale asse fondamentale, l’opposizione tra configurazioni atte a suggerire «valori d’uso» (vale a di­ re praticità e funzionalità rispetto a un’azione da compiere), e altre che corrispondono invece all’espressione di «valori di base» (l’impiego del prodotto non ha più qui un carattere meramente strumentale, ma corri­ sponde alla realizzazione effettiva di un valore). A partire da tale opposi­ zione fondamentale, si possono distinguere testi pubblicitari orientati ad esempio su valorizzazioni di carattere «pratico» oppure «ludico», o altri ancora giocati su intenti «critici» (informativi e valutativi), oppure «uto­ pici», ossia «mitici», nel senso di impegnarsi in una costruzione di valori che va ben al di là delle funzionalità dell’oggetto. Per vedere come i me­ todi semiotici consentano di organizzare in maniera sistematica queste dif­ ferenze e trame una tipologia, si veda lo schema proposto da Jean-Marie Floch, riportato al § 3.5. Come si può già comprendere da questi pochi accenni, l’analisi delle strutture testuali conduce rapidamente verso uno studio delle possibili lo­ giche di valorizzazione dei prodotti, delle possibili configurazioni discor­ sive, delle stesse differenti concezioni dei fatti pubblicitari. La semiotica compie in questo senso un salto di qualità, andando a indagare ciò che si cela dietro le diverse «filosofìe della pubblicità», elaborando quindi com­ plesse tipologie delle funzioni semiotiche e dei regimi discorsivi messi in gioco in questo settore. Aggiungiamo che, in tale quadro, la pubblicità tende a non essere più considerata quale mero fenomeno di promozione commerciale, bensì quale componente rilevante e significativa del sistema sodoculturale.

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Meno operativamente avanzata, ma non meno affascinante di quella che poggia sulle strutture narrative, è la determinazione delle configura­ zioni visuali. Questo genere di indagine va ben al di là delle semplici tipo­ logie descrittive, relative all’organizzazione grafica nell’uso della pagina (posizionamento deWheadline e del copy, spazio attribuito all’immagine, eventuale sovrapposizione tra questa e il testo, ecc.), ovvero, in un filma­ to, alle modalità di uso del colore, dell’inquadratura e del montaggio. Si tratta, piuttosto, di indagare la logica profonda con cui sono impiegati i colori e le linee, i pieni ed i vuoti, le simmetrie o le forme imperfette, e co­ sì via, in relazione agli obiettivi espressivi cui queste categorie corrispon­ dono. Si tratta, cioè, di pensare che le categorie visive possiedono un im­ portante valore concettuale, che può costituire la base stessa della strut­ tura del messaggio. Citiamo ad esempio, tra le categorie il cui rilievo è emerso con parti­ colare chiarezza, l’opposizione tra continuo e discontinuo (con tutte le sue possibili varianti e modi di realizzazione). Tale categoria può, ad esempio, essere impiegata in una pubblicità di medicinali per suggerire l’idea del passaggio da uno stato di malessere (caratterizzato da elementi visivi con­ fusi, colori scuri, tratti sfocati) a uno stato di benessere (reso visivamente da una rappresentazione in cui ogni cosa è nitida, chiara, al suo posto, in una forma semplice e simmetrica). Ma la stessa opposizione può servire, per fare un altro esempio, a suggerire l’idea di una pausa gradevole (cor­ rispondente magari a una bibita, a un cioccolatino, a una sigaretta), intro­ dotta in un tessuto quotidiano continuo e faticoso. Si noti tra l’altro che l’analisi delle configurazioni visive porta la se­ miotica anche fuori dell’ambito dei testi pubblicitari, estendendone la portata a settori rilevanti come lo studio del packaging (la confezione del prodotto) o dello stesso design dell’oggetto (chiedendosi, ad esempio, co­ sa può comunicare un certo restyling dell’estetica di un’automobile, o l’in­ troduzione di nuovi colori nel rivestimento di una linea di computer). Par­ ticolarmente avanzato è lo studio dei marchi, o logo, chiamati a sintetizza­ re il carattere e l’identità di un’azienda in pochi, essenziali tratti visivi. Ma l’uscita da una dimensione «testuale» intesa in senso stretto è fe­ nomeno più ampio e significativo, tanto da poter costituire uno dei con­ tributi più interessanti che questo settore di ricerca può portare all’avan­ zamento generale delle prospettive semiotiche. E ad esempio possibile studiare, considerandoli a tutti gli effetti come testi, tanto dei comporta­ menti (quelli, poniamo, dei clienti all’interno di un supermercato) quanto degli oggetti d’uso corrente o dei prodotti commerciali d’impiego quoti­ diano (un nuovo tipo di rasoio, una nuova merendina): ciò che apre agli strumenti semiotici vasti e inediti spazi di applicazione. Tra l’altro, non ci si colloca più, a questo punto, soltanto nell’area propriamente pubblicità-

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ria, bensì si entra a buon diritto in molte differenti aree d’azione degli stru­ menti di marketing. Se si riflette poi sul fatto che i contenuti di interviste e colloqui di grup­ po - strumenti chiave delle ricerche «sul campo» (fteld} - costituiscono ovviamente dei testi, si comprende quanto possa risultare limitativa l’idea corrente che assegna alla ricerca semiotica il solo spazio dell’analisi a ta­ volino (desk} dei messaggi concepiti dai creativi. Al contrario, nel corso degli ultimi quindici anni si sono moltiplicate le metodologie semiotiche destinate all’indagine in settori chiave come quelli della formazione d’im­ magine, delle strategie di marca, del naming e del posizionamento simbo­ lico del prodotto, della anticipazione delle «tendenze» di stile e di merca­ to, e così via. Si può dire in definitiva che questo settore di impiego degli strumenti semiotici, sviluppatosi in origine in termini di applicazioni mol­ to puntuali e strettamente finalizzate, si rivela ora come uno dei più pro­ mettenti per la dimostrazione delle capacità a disposizione dalla semioti­ ca per l’approfondimento di aspetti significativi della cultura diffusa.

Tra gli studi di carattere prevalentemente linguistico, segnaliamo Cor­ ti 1973, Cardona 1974, Di Sparti 1975, Medici 1986. Testo anticipatore di un nuovo atteggiamento di analisi è invece quello di Péninou 1972. Esem­ pi più maturi di analisi testuali possono invece essere trovati in Floch 1990,1997, Semprini 1990 e a cura di, 1997, Codeluppi 1997. Una sinte­ si teorica sulla semiotica della pubblicità è Volli 2003. Per i quadri teori­ ci più complessivi sulle funzionalità e le «filosofie» del discorso pubblici­ tario si vedano il già ricordato Floch 1990, cui tra l’altro si deve la distin­ zione sopra citata tra impostazioni «pratiche», «utopiche», «critiche» e «ludiche», Semprini 1993, Ferraro 1999. Quanto infine agli allargamenti dello sguardo semiotico su altri aspetti della comunicazione nel marketing che esulano dall’ambito pubblicitario, segnaliamo Grandi 1993, Ferraro 1987, 1998, Semprini 1999. Sulle «forme brevi» della comunicazione pubblicitaria vedi Pezzini, a cura di, 2002.

9.8. Lo spazio della politica Secondo la classica definizione di Talcott Parsons 1949, un sistema po­ litico è costituito dalla totalità delle azioni e istituzioni sociali che agisco­ no per guidare una comunità verso scopi condivisi dai suoi membri. Tale funzione è necessaria perché la comunità perduri come un sistema capa­ ce di sopravvivere. Anche nei limiti di una tale definizione moderna e de-

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mocratica, la politica copre un ambito molto vasto. L’intera organizzazio­ ne della vita sociale ed economica, la violenza come limite permanente per questa e il suo monopolio da parte dello Stato, la possibilità della libertà individuale e dell’uguaglianza (o dell’oppressione e della diseguaglianza) dipendono da essa. Più specificamente, secondo Lasswell 1948 e Almond e Powell 1966, un sistema politico è costituito da quelle attività, istituzio­ ni, organizzazioni, che mantengono in vita o cercano di cambiare una par­ ticolare struttura di potere o alcune sue regole. Lo Stato, il governo, i par­ titi, i sindacati, i gruppi di potere, gli enti locali sono gli elementi perma­ nenti principali di un sistema politico moderno; ma naturalmente ne fan­ no parte in ruoli diversi anche la stampa e i cittadini, individualmente e collettivamente. Come propone Lasswell 1936, la parola chiave nella maggior parte del­ le moderne definizioni di politica è «potere»: si ha politica dovunque il po­ tere esiste, è condiviso, trasmesso, conteso, sovvertito, sopportato - dalle relazioni fra stati all’amministrazione dei condomini, dai Parlamenti ai di­ partimenti universitari. Non è facile dire esattamente che cosa sia il pote­ re, almeno in termini sostantivi. «In effetti, il potere è un fenomeno sociale e politico che sfugge a un’analisi precisa [...]. Non può essere definito co­ me un’azione, benché abbia sicuramente delle azioni fra le sue conse­ guenze; non è solo un fatto sociale, anche se i risultati dell’uso del potere sono fra i fatti più significativi per la struttura di una società. Piuttosto è una relazione fra persone o gruppi di persone» (Messeri 1973, p. 2). E pro­ prio questo aspetto relazionale del potere, e dunque della politica, che lo inserisce naturalmente fra gli oggetti di natura semiotica. Per comprendere meglio questo punto conviene prendere in conside­ razione la classica distinzione di Max Weber fra forza e potere (Macht e Herrschaft)-. per forza si intende ogni possibilità di realizzare la volontà di qualcuno in una relazione sociale, anche contro un’opposizione, quale che sia il fondamento di questa possibilità (1922, III, 1, p. 52). Per potere bi­ sogna intendere la possibilità per qualche ordine (o per ogni ordine) di trovare obbedienza da parte di un certo gruppo di persone; non si tratta semplicemente di una qualunque possibilità di usare «forza» o «influen­ za» sugli altri. Questo tipo di potere (o di autorità) può essere fondato, in ogni singolo caso, sulle più diverse ragioni per obbedire, dall’abitudine cieca alla considerazione razionale (ivi, p. 207). Qui Max Weber pone il tema semiotico (e politico) fondamentale del potere: le ragioni per obbedire, cioè la legittimità-, il problema fondamen­ tale di ogni sistema politico è di farsi accettare dai suoi membri e indurre questi a cedere una parte della loro libertà. In generale, non è corretto con­ siderare anche la forza una semplice determinazione causale, fisica o eco­ nomica, cioè qualcosa di non semiotico. Gli esempi proposti da Max We-

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ber negli sviluppi del testo appena citato, come il potere monopolistico di una banca o altri che se ne potrebbero inventare come una dittatura mili­ tare, implicano pur sempre complesse mediazioni e collaborazioni per po­ tersi realizzare. Dal punto di vista semiotico, potremmo classificare questi casi nella categoria della manipolazione. Quanto al potere, poi, che sia ra­ dicato in un sistema di regole, nella sacralità della tradizione o nel carisma di un leader (ancora secondo la classificazione weberiana), possiamo pen­ sarlo semioticamente come una qualche sorta di contratto, nel senso nar­ rativo proposto da Greimas, senza con questo dover accettare la tradizio­ ne giusnaturalistica degli Hobbes e dei Grazio. Dobbiamo dunque consi­ derare la partecipazione attiva al sistema politico, l’obbedienza weberiana al potere, come una forma di sanzione per tre diversi tipi di contratto, do­ ve la differenza è data da vari tipi di competenza e di performanza implici­ ti nei tre diversi sistemi (per esempio la corretta formazione costituzionale delle regole nel primo caso, la trasmissione legittima di una tradizione o di un lignaggio nel secondo, il comportamento eccezionale del leader cari­ smatico nel terzo). Bisogna anche notare che si incontra qui una sorta di incrocio semiotico, estremamente significativo: nella vita di ogni giorno è il potere politico ad assegnare compiti, proibizioni, obblighi ai suoi mem­ bri, comportandosi da destinante, pretendendo certe performanze e riser­ vandosi di assegnare sanzioni positive o negative: ogni legge, dal codice della strada alla guerra santa, ha questa evidente struttura semiotica. Ma sullo sfondo di questa subordinazione contrattuale della persona comune al sistema politico, si trova una struttura inversa, quella per cui il sistema è legittimato dai suoi membri, sulla base di un qualche principio di legit­ timità e di certi comportamenti attesi (tutela della pace civile, rappresen­ tanza degli interessi nazionali, devozione religiosa o altro ancora). Vale la pena di notare ancora che qui si realizza un’altra e più fonda­ mentale vicinanza fra spazio politico e semiotica: quella per cui si può sem­ pre individuare una radice narrativa del potere politico. Per stabilire la sua legittimità, qualunque potere ha bisogno di essere raccontato, sia secondo una modalità naturale (per esempio, con la storia delle sue origini, col gior­ nalismo dei suoi cambiamenti) che in maniera artificiale (il mito della fon­ dazione, l’epica degli eroi...). (Per questa distinzione vedi § 6.6.) Se si approfondiscono i meccanismi di azione del potere, per esempio distinguendo violenza, dominio e manipolazione, come propongono Goldhamer e Shils 1961 (p. 334), è chiaro che la violenza (non semiotica e immediata) è sempre sullo sfondo, la dominazione, come pura imposi­ zione autoritaria di comportamenti, abbastanza rara nelle società demo­ cratiche ma frequente altrove, si può considerare innanzitutto come un at­ to illocutorio (vedi § 8.2), mentre la manipolazione (cioè la propaganda di­ retta, le cerimonie di partecipazione, l’uso di simboli, ecc.) rientra nel do-

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minio semiotico come evento contrattuale di una struttura narrativa e, più in generale, come atto perlocutorio. Insomma, in generale le relazioni di potere hanno una natura semiotica essenziale, che sta alla base del sistema politico, tanto che ne è stata proposta più di una definizione che privile­ gia questo terreno «simbolico» sul più tradizionale fondamento in termi­ ni di uso della violenza. Luhman 1975, per esempio, ne parla in termini di «facoltà di influenzare la trasmissione di simboli ed atti». Da queste considerazioni sulla natura della politica seguono diversi ambiti di interesse possibile per uno studio semiotico di questo campo. In primo luogo, come ha ricordato Hannah Arendt, la politica e in partico­ lare la democrazia ha bisogno di uno spazio pubblico, ha luogo dove vi è un terreno di scambi comunicativi. La struttura e il funzionamento di que­ sti spazi sono molto diversi a seconda delle società, tanto da consentirne una classificazione proprio su questa base. Quali siano i criteri per essere ammessi dentro questi spazi, quale sia la sua struttura interna, che stru­ menti di comunicazione, che tempi, che modalità di parola siano accetta­ ti, quale sia la sua permeabilità rispetto all’esterno, quali argomenti siano ammessi, ecc. sono problemi essenziali in quest’analisi della politica come spazio discorsivo. In secondo luogo bisogna considerare che nelle definizioni che ab­ biamo proposto, spesso si parla di «fini condivisi» o di sistemi di valori della società che la politica si assume l’obbligo di realizzare. Questi siste­ mi di valori, in una società aperta, possono essere anche in concorrenza fra loro, ma vengono comunque stabiliti da discorsi assiologici o ideologi­ ci, che si assumono il compito, esplicito o implicito, di proporre, diffon­ dere, rafforzare quest’ambito dei fini e dei valori. Con strumenti come quelli di connotazione (§ 2.7), assiologizzazione (§ 4.10), quelli relativi al­ l’enunciazione (cap. 5), alla retorica (§ 8.7), all’analisi post-strutturalista della soggettività e del desiderio (cap. 11), la semiotica è particolarmen­ te attrezzata per esaminare questi «discorsi fondativi» e comprenderne la struttura. Un altro tema interessante per la semiotica è quello della negoziazio­ ne, cioè dei modi e delle tecniche linguistiche con cui si contemperano e si scambiano i diversi interessi che costituiscono il campo di tensioni sot­ tostante a ogni sistema politico. John Elster 1993 ha individuato un’inte­ ressante contrapposizione, in questo ambito, fra argomentazione e nego­ ziazione, cioè fra argomenti e interessi. Entrambi hanno importanza nel processo di decisione che si svolge sistematicamente nelle assemblee, ne­ gli organismi rappresentativi e dirigenziali, dovunque si tratti di prendere decisioni che hanno a che fare contemporaneamente con interessi e con ideali. Lo studio del funzionamento dei sistemi politici come organizza-

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zioni di parti sociali e delle relative tattiche negoziali, è un tema estremamente promettente. Infine vi è il vasto ambito della comunicazione politica, cioè del com­ plesso delle tecniche per cui sistemi di valori, scelte politiche, attori poli­ tici sono propagandati e resi popolari. Questo campo ha avuto immenso sviluppo con la crescita delle tecniche della comunicazione di massa e di quelle pubblicitarie e di marketing (vedi il paragrafo precedente) cui si so­ no spesso ispirate. L’analisi semiotica di questi processi è l’ambito in cui più utilmente la semiotica è entrata nella ricerca politologica empirica.

Anche se il campo della politica è di grande interesse semiotico, non vi sono opere generali sul tema, ma piuttosto analisi applicative. Vedi in particolare quelle contenute in Landowski 1989, Livolsi e Volli 1996, 1997 oltre alla bibliografia politologica richiamata nel testo. Per una sin­ tesi sulla comunicazione politica, vedi Mazzoleni 1998. Sugli spot eletto­ rali, vedi Pezzini 2001 e a cura di, 2002.

9.9. La televisione Quel che chiamiamo genericamente televisione è insieme un certo si­ stema tecnico di trasmissione delle immagini in movimento, l’apparecchio domestico che ci permette di ricevere queste immagini, l’apparato che le produce, il complesso dei contenuti che vi circolano, la forma concreta che questo sistema tecnico ha assunto in termini di generi, di organizza­ zione nel tempo {palinsesti), di effetti cercati sul pubblico, di struttura eco­ nomica e sociale. Come si vede, qualunque discorso sulla televisione co­ me mezzo non può che essere ambiguo e finisce col muoversi contempo­ raneamente su diversi piani, ingenerando facilmente confusione. Questo avvertimento vale in generale per i mezzi di comunicazione, che di solito trovano la loro definizione un po’ di tempo dopo l’invenzione tecnica da cui dipendono e spesso in maniera imprevedibile: Ivan Illich ha mostrato che gli apparati che fanno di un libro quel che conosciamo noi (indici, ti­ toli, apparati vari, numerazione, ecc.) fu inventato nel tredicesimo secolo, quasi un millennio dopo l’adozione del codex a pagine al posto del volumen a rotolo. Passano quasi tre secoli prima che la stampa arrivi alla sua versione più caratteristica, il giornale quotidiano; la radio nasce inizial­ mente come strumento di comunicazione privato, mentre il telefono è concepito inizialmente come uno strumento di comunicazione circolare. La televisione stessa, almeno in Italia, è concepita inizialmente come uno

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strumento di comunicazione collettiva, nel senso che la sua fruizione av­ viene prevalentemente in ambienti pubblici come bar, cinema, ecc. e solo in un secondo momento si trasforma in un mezzo familiare, «caminetto elettronico» a canale unico; infine solo in tempi abbastanza recenti la mol­ tiplicazione dei canali e dei televisori disponibili nelle case la trasforma in uno strumento di comunicazione personale, in attesa della sua promessa fusione con le tecnologie telematiche. Questi esempi servono a mostrare come il provocatorio slogan di Marshall McLuhan «il mezzo è il messag­ gio», vada preso con molta cautela e come non si possa pensare a un fata­ le determinismo tecnico del modo di trasmissione sui contenuti trasmessi. Del resto la televisione è solo un elemento di un’ondata assai più ricca di tecnologie elettroniche delle immagini, di cui fanno parte i computer, Internet, e in qualche modo anche il cinema, dove le innovazioni tecniche si intersecano e si sovrappongono. Per fare solo un esempio, la realizza­ zione di videoregistratori affidabili negli anni Cinquanta e poi la loro dif­ fusione economica di massa, a partire dagli anni Ottanta, hanno cambia­ to profondamente la natura della televisione stessa, staccandola dall’obbligo, se non dalla vocazione alla trasmissione in diretta. Innovazioni or­ ganizzative come la diffusione per cavo e per satellite del segnale o il pre­ valere anche in Europa di modelli «americani» di televisione commercia­ le, hanno provocato cambiamenti altrettanto importanti. Non è dunque possibile immaginare una teoria semiotica della televi­ sione in quanto tale. Vi è invece abbondanza di studi su singoli generi te­ levisivi, per esempio il telegiornale, le trasmissioni contenitore, le teleno­ velas e in genere la serialità, che mostrano in atto peculiari meccanismi se­ miotici che utilizzano il complesso circuito sociale della televisione, cioè il suo apparato tecnico e le abitudini sociali della sua fruizione. Vi sono la­ vori che provano a caratterizzare certe modalità socioculturali della tele­ visione, come la teoria della «Neo-tv» sviluppata da Eco e Casetti, che mette a fuoco le caratteristiche piuttosto autoreferenziali della televisione prevalente negli anni Ottanta e Novanta: una televisione che si guarda vo­ lentieri parlare, che include al suo interno il pubblico e in generale il mon­ do, in cui conta il gesto del contatto - e in genere l’enunciazione - piutto­ sto che la capacità referenziale. Gli strumenti semiotici più utili, per comprendere il funzionamento di certe trasmissioni o modalità televisive, sono quelle relative all’enuncia­ zione (cap. 5), alla focalizzazione (§ 4.2), alle narrative naturali e artificia­ li (§ 6.6) e agli effetti, in particolare quelli di veridizione (vedi § 3.5 e so­ prattutto 9.6), al gender e alla gratificazione degli spettatori (§§ 11.2 e 11.3). In effetti la televisione si è sviluppata, a partire dallo stesso nome che le è stato attribuito, come un apparato capace di produrre forti effet­ ti di realtà. L’illusione della «finestra sul mondo» agisce non solo nelle tra-

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smissioni giornalistiche, ma anche su quelle dedicate all’intrattenimento o alla finzione (con gli effetti di «tele-amicizia» descritti da Meyrowitz 1985 per cui i protagonisti di serial diventano «persone di famiglia»). Nel caso dell’informazione televisiva e dei contenitori di intratteni­ mento, però, il punto fondamentale non è il ritorno quotidiano di un mon­ do finzionale, capace per questo solo fatto di suscitare quell’effetto («Lutzu e la farfalla») spesso descritto da scrittori come Borges e Queneau, per cui non sarebbe possibile distinguere fra realtà e sogno, se quest’ultimo fosse davvero ricorrente ogni notte («l’imperatore sogna di essere una far­ falla che sogna di essere un imperatore»). Vi sono forti effetti enunciativi, contenuti soprattutto nella figura dei «conduttori» i quali con la presen­ za, con gli usi linguistici, con la comunicazione non verbale si sforzano di costruire un «ponte enunciativo» fra pubblico e contenuti trasmessi, ga­ rantendo fiduciariamente effetti di realtà allo spettatore. Altre caratteristi­ che della televisione, come il pubblico rappresentato in scena, i-«collegamenti» con altre sedi, le «grandi cerimonie» in occasione di eventi specia­ li come elezioni, catastrofi, matrimoni e funerali, eventi sportivi, ecc. han­ no la stessa funzione.

Per la storia dei media, vedi il § 7.5 e inoltre Mattelart 1991, McLuhan 1964, Illich 1993. Per le ricerche sul telegiornale, vedi Calabrese e Volli 1983,1995 e Marrone 1998. Sulla Neo-tv vedi Eco 1983, Casetti e Odin 1990, Cavicchioli e Pezzini 1993, Casetti 1988. Sulle cerimonie dei me­ dia, vedi Dayan e Katz 1992. Sul pubblico televisivo vedi Pozzato 1995. Sul «piacere» del pubblico televisivo, soprattutto nel caso delle soap operas, vedi la nota bibliografica al § 11.3. Sui «culti tv», Volli, a cura di, 2002. Un manuale generale di analisi del testo televisivo è Casetti e Di Chio 1998. Sui talk show, Pezzini, a cura di, 1999. Sul telegiornalismo, Pozzato, a cura di, 2000.

10. Campi applicativi: le arti

10.1. I linguaggi delle arti La ricerca semiotica ha molto lavorato sulle diverse arti, la letteratura, il teatro, la musica, la pittura, ecc. La ragione di questo interesse sta nel­ l’idea che vi siano, sotto lo splendore e la ricchezza della manifestazione artistica, dei meccanismi generativi di tipo linguistico. E un’idea potente e suggestiva, capace di spiegare la grande capacità dell’arte di produrre senso e di trasmettere significati politici, religiosi, ideologici, oltre che spe­ cificatamente artistici. Su questa base, si tratta di capire allora quali siano le caratteristiche specifiche, sul piano sintattico, semantico e pragmatico, delle diverse arti, se tali regole esistono; oppure di provare a leggere come lingue le forme peculiari del singolo periodo o movimento, di un artista o addirittura di una sola opera, se invece il livello di organizzazione linguistico effettivo è da cercarsi in tali ambiti più limitati. C’è chi ha parlato, per la lingua di un singolo artista o di una sola opera di idioletto, cioè di lingua privata e in­ dividuale. Nei paragrafi che seguono non abbiamo la pretesa di seguire nel det­ taglio e neppure in maniera adeguatamente riassuntiva il dibattito esteti­ co, storico e tecnico riguardante le diverse arti, che spesso è stato influen­ zato dal paradigma semiotico. Quello che intendiamo offrire sono indica­ zioni molto sommarie, che considerano essenzialmente l’interesse e il va-

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lore dei vari contributi dal punto di vista semiotico e non la loro influen­ za specifica. ►► 10.1.1. Le arti figurative

Il campo in cui si è più tentati di cercare un linguaggio visivo è quello delle arti figurative, sia perché la nostra tradizione culturale tende a unifi­ carlo secondo una prospettiva gerarchica (arti maggiori e minori, periodi, tendenze, ecc.), sia perché nel registro visivo alle opere d’arte è assegnato un ruolo di invenzione e di sperimentazione (almeno nell’ideologia arti­ stica dell’ultimo secolo). E questo, per esempio, il pensiero di Susanne Langer 1953. Che si accetti o meno una classificazione del genere e l’idea così auto­ referenziale della comunicazione artistica che essa in definitiva comporta, resta il problema di capire che cosa, nell’arte funziona come linguaggio e in che modo.

Per delineare brevemente l’applicazione degli strumenti semiotici a og­ getti quali i dipinti, dobbiamo innanzitutto evidenziare gli ostacoli che la semiotica della pittura ha dovuto affrontare. Come sottolineava Calabre­ se 1980, ancora in quel momento i tentativi di elaborare una metodologia unitaria e coerente, valida per la pittura nel suo complesso, si erano rive­ lati alquanto insoddisfacenti. A differenza della semiotica della letteratu­ ra e della semiotica del cinema, ambiti in cui, a quell’epoca, il dibattito ave­ va già prodotto teorie e numerose applicazioni (vedi i paragrafi dedicati al cinema e alla letteratura), la semiotica della pittura doveva in primo luo­ go cercare la propria specificità rispetto a categorie quali «comunicazione visiva» ed «estetica semiotica», con il rischio costante di omologare l’ana­ lisi della pittura a quella dell’arte tout court, oppure a quella di qualsiasi altro testo visivo. Il primo ostacolo verso l’elaborazione di una semiotica della pittura era dunque la confusione che circondava l’idea stessa di pit­ tura, alimentata dalle tendenze dell’arte contemporanea, sempre più in­ cline a realizzare progetti multimediali dove la pittura era, e tuttora è, so­ lo uno degli strumenti possibili della pratica artistica. La semiotica della pittura, questa volta insieme ad altre semiotiche, si scontrava inoltre con un problema di traduzione tra metodi e tra tipolo­ gie testuali, limitandosi inizialmente a spostare su altri oggetti quel che funzionava con i testi verbali, oppure tentando di formulare, nel caso del­ la pittura, un’iconologia semiotica o una riflessione vicina alla psicologia dell’arte. Fino agli anni Ottanta, la semiotica della pittura è perciò so­ pravvissuta stagnando in una sorta di impasse, divisa tra teorie e riflessio­ ni contrapposte, dando vita a un numero limitato di analisi concrete, e

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perciò senza riuscire a proporre una metodologia adeguata al «testo pit­ torico». Non è dunque un caso che, insieme al contesto teorico e disciplinare, gli ulteriori ostacoli che hanno impedito uno sviluppo consistente di que­ sta branca della semiotica riguardano proprio le caratteristiche intrinse­ che al testo pittorico. Vediamo quali. Prima fra tutte vi è la questione dell’iconismo, e quindi della natura del­ la somiglianza delle rappresentazioni pittoriche alla «realtà» (cfr. Cala­ brese 1977). Il problema dell’iconismo applicato alla pittura ha visto con­ trapporsi i sostenitori di una semantica intensionale (convenzionalisti), e i sostenitori di una semantica estensionale (i cosiddetti materialisti: cfr. in particolare Maldonado 1974 e vedi anche § 3.4). Accanto a questo problema, che peraltro non ha smesso di essere at­ tuale (cfr. Eco 1997), si colloca il dibattito sul linguaggio della pittura in quanto sistema disegni. Per Benveniste 1966 la pittura non è paragonabi­ le al linguaggio verbale, in quanto si costituisce a partire da elementi, qua­ li ad esempio i colori, che non possono essere riuniti in un sistema chiuso di unità significanti. Come è accaduto per il cinema, anche per la pittura si è dunque posta la questione della doppia articolazione, vale a dire della possibilità di scomporre il piano dell’espressione in unità minime parago­ nabili ai fonemi. Il risultato è negativo. In altre parole, non è possibile cir­ coscrivere una «fonologia plastica» in grado di descrivere il processo di costituzione della significazione pittorica. Tra i diversi tentativi di elaborare una lettura dell’immagine, non biso­ gna dimenticare quello di Barthes 1964b, che prova a individuare le figure retoriche e i sistemi di connotazione di rappresentazioni visive non necessa­ riamente pittoriche. L’impresa di Barthes non ha avuto però seguito nel­ l’ambito della semiotica della pittura, in quanto si limita a censire le figure retoriche dei segni pittorici, avvicinandosi al reperimento dei motivi, dei te­ mi e dei contenuti propri di discipline quali l’iconografia e l’iconologia. Un percorso analogo è stato compiuto, durante gli stessi anni dalla se­ miotica dell’architettura, dove vi è stato un lavoro per cercare di determi­ nare quali fossero i caratteri percepiti che permettevano di comprendere il significato sociale degli edifici (Martin Krampen) e si è discusso a lungo dell’articolazione dello spazio interno come significato dell’architettura costruita. L’insieme di questi problemi è stato però superato nel momento in cui la ricerca ha iniziato ad assumere l’inevitabile diversità che separa un te­ sto letterario da un testo visivo, e quindi ad accettare l’esistenza di confi­ gurazioni semiotiche che non presentano due articolazioni fisse (cfr. Eco 1968, 1980). Le difficoltà presentate dalle caratteristiche del linguaggio pittorico vengono così superate non tanto grazie a una teoria semiotica dei

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segni della pittura, quanto grazie a un cambiamento di prospettiva incen­ trato sul testo pittorico, e dunque sulla verifica degli strumenti a partire da un’analisi testuale non più tesa alla ricerca delle unità minime, bensì con­ centrata sugli elementi macrostrutturali che governano la significazione di un’opera.

Due sono i principali percorsi teorici utilizzati dalla semiotica per af­ frontare la questione della comunicazione artistica: la prima è quella dei modi di produzione segnica, secondo Eco. L’altra è quella greimasiana, di cui parleremo in seguito. Per Eco, interessato da sempre all’innovazione linguistica così caratte­ ristica dell’arte contemporanea, nella semiotica dell’arte ha particolare im­ portanza ['invenzione di nuove modalità comunicative. Vi sono due tipi di procedimento, di cui uno sarà definito moderato e l’altro radicale. Si ha invenzione moderata quando si proietta direttamen­ te da una rappresentazione percettiva in un continuum espressivo, realiz­ zando una forma dell’espressione che detta le regole di produzione del­ l’unità di contenuto equivalente. Dal punto di vista dell’emittente, una struttura percettiva viene considerata come modello semantico codificato e le sue marche percettive vengono trasformate in un continuum basan­ dosi sulle regole di similitudine più accettate. Ma, dal punto di vista del destinatario, il risultato appare ancora come un semplice artificio espres­ sivo. Egli pertanto deve procedere all’indietro per inferire ed estrapolare le regole di similitudine implicate e ricostruire il percetto originario. Quando il processo è coronato da successo, ecco che un nuovo piano del contenuto si configura. Non si tratta tanto di una nuova unità quanto di un discorso. Quello che era un bruto continuum organizzato pèrcettivamente dal pittore, a poco a poco si fa organizzazione culturale del mondo. Una funzione segnica emerge dal lavoro esplorativo e dal tentativo di isti­ tuzione di codice e nello stabilirsi genera abitudini, sistemi di aspettative, manierismi. Alcune unità espressive visive si fissano in modo da diventare disponibili per successive combinazioni. Appaiono delle stilizzazioni. Il caso delle invenzioni radicali è invece alquanto diverso, perché qui l’emittente praticamente «scavalca» il modello percettivo e «scava» diret­ tamente nel continuum informe, configurando il percetto nello stesso mo­ mento in cui lo trasforma in espressione. In questo caso la trasformazio­ ne, l’espressione realizzata, appare come un artificio «stenografico» attra­ verso cui l’emittente fissa i risultati del suo lavoro percettivo. Ed è solo do­ po aver realizzato l’espressione fisica che anche la percezione assume una for­ ma e dal modello percettivo si può passare alla rappresentazione sememtca. Tale è, per esempio, il principio secondo cui si sono avute tutte le grandi innovazioni della storia della pittura. In questo caso si ha violenta istitu-

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zione di codice, radicale proposta di nuova convenzione. La funzione se­ gnica non esiste ancora, né si può imporla. Di fatto l’emittente scommet­ te sulle possibilità della semiosi e di solito perde. Talora ci vogliono secoli perché la scommessa renda e la convenzioni si instauri. L’altra prospettiva è un percorso che segue le categorie della semiotica generativa. Tra i primi esperimenti che adottano questa prospettiva si col­ loca il lavoro di Marin 1975, 1978, che, a partire dai gesti e dalle posizio­ ni del viso e del corpo dei soggetti rappresentati, applica la teoria dell’e­ nunciazione al testo pittorico, distinguendo ciò che in un quadro appartie­ ne al discorso, e ciò che appartiene invece alla storia. Successivamente, questa impostazione è stata ripresa e ampliata da Thùrlemann 1981, da Calabrese 1985a e da Fontanille 1989, nei cui lavori iniziano a comparire categorie come quella di .osservatore e di informatore, utilizzate anche nel­ l’ambito della semiotica del cinema e nelle analisi dello spazio (cfr. para­ grafo su spazio e spazialità). Ma l’apporto fondamentale a questa svolta testuale è dato da Greimas (cfr. Greimas 1984; Corrain e Valenti 1991; Corrain 1996 per una discus­ sione dei rapporti tra semiotica plastica e teorie della rappresentazione vi­ siva), e in generale dai lavori della scuola di Parigi, che a una semiologia dell’immagine sostituiscono il progetto di una semiotica visiva o semiotica plastica, raccogliendo l’eredità della linguistica hjelmsleviana e del forma­ lismo russo. Tale semiotica risolve il problema dell’iconismo trattandolo come una tra le forme possibili della figuratività propria, ad esempio, di oggetti planari quali i dipinti. L’iconicità di un oggetto pittorico appartie­ ne cioè alle strategie del testo, al modo in cui, al suo interno, i tratti figu­ rativi risultano più o meno predominanti. Di conseguenza, il riconosci­ mento della somiglianza con il «reale», la lettura «iconizzante», dipende dalla visione culturale in cui si situa l’interpretazione: astrazione e figura­ tività non sono elementi intrinseci all’immagine pittorica, bensì fanno par­ te del percorso di lettura dell’immagine stessa. Date tali premesse, diviene possibile ipotizzare un piano di significa­ zione dell’immagine comune sia alla pittura figurativa, sia alla pittura astratta, vale a dire un linguaggio plastico scomponibile in categorie eideti­ che, topologiche e cromatiche (vedi § 6.4). La dimensione eidetica è de­ scrivibile grazie a categorie quali diritto vs curvo, spigoloso vs arrotonda­ to, concavo vs convesso. La dimensione topologica indica invece la posi­ zione (alto vs basso) e l’orientamento delle forme, mentre quella cromati­ ca circoscrive le categorie dell’espressione visiva che permettono di di­ scriminare gli elementi che la compongono: i colori e la loro saturazione, ma anche il rilievo delle superfici (liscio vs ruvido). Queste categorie seg­ mentano il piano dell’espressione in formanti plastici, a cui corrisponde un

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significato, ovviamente legato al contesto storico e culturale proprio di cia­ scun dipinto. Il piano dell’espressione risulta così interpretabile sia ri­ spetto a una griglia di lettura figurativa (che individua gli oggetti e i sog­ getti rappresentati), sia rispetto a una griglia che isola invece i formanti plastici di un quadro, le reciproche interazioni di forme, colori e luci - al di là di ogni sua funzione rappresentativa. È questo il piano in cui un qua­ dro «significa» (cfr. Thùrlemann 1982). La lettura di un testo pittorico è perciò orientata, è il risultato dell’e­ quilibrio complessivo e della disposizione delle sue forme e dei suoi colo­ ri, e non lineare, come avviene per il linguaggio verbale. Da queste consi­ derazioni emerge una modalità di significazione propria degli oggetti pla­ stici, che lega il piano dell’espressione a quello del contenuto grazie a una relazione di tipo semi-simbolico. Nel linguaggio della pittura non sono le singole unità, bensì le categorie plastiche a regolare la significazione: un quadro non deve perciò essere segmentato in unità, bensì considerato, ad esempio, per la ruvidezza della sua superficie, o per l’insieme delle sue for­ me spigolose, oppure per il modo in cui le figure si dispongono al centro o ai limiti dell’immagine. A ognuna di queste categorie corrisponde un si­ gnificato, così come quando scuotiamo il capo orizzontalmente da sinistra a destra, o verticalmente dall’alto al basso, intendiamo fornire una rap­ presentazione visiva della negazione e dell’affermazione.

La letteratura sulla semiotica dell’arte è molto accidentata, centrata sulle opere più che sui problemi teorici e, fino a tempi recenti, priva di una metodologia stabile. Il punto di vista greimasiano si trova in Greimas 1984, Calabrese 1985, Fontanille 1989, Còrrain e Valenti 1991, Corrain 1996. L’analisi di Eco è nel suo saggio del 1980. Negli ultimi anni la se­ miotica delle arti visive si è molto arricchita di analisi e teorie. Si vedano Calabrese 1999, Basso, a cura di, 2001 e 2002, Lancioni 2001.

►► 10.1.2. La fotografia

Apriamo ora una breve esposizione sui problemi relativi all’immagine fotografica, benché non esista una vera e propria «semiotica della foto­ grafia». Ad esclusione delle riflessioni contenute in Camera chiara di Barthes 1980, la semiotica non ha prodotto una metodologia specificamente dedicata alla fotografia. In quel testo peraltro Barthes attua una let­ tura non strettamente semiotica della fotografia, paragonandola più al tea­ tro che alla pittura, ma soprattutto discutendo del punctum, vale a dire ciò che colpisce individualmente e del tutto soggettivamente un fruitore, con-

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trapposto allo studium, ciò che invece la fotografia fa vedere. L’assenza di una riflessione omogenea e di categorie euristiche valide per l’analisi del­ la fotografia nel suo complesso, è sicuramente imputabile all’impossibilità di definire una volta per tutte ciò che si intende per «testo fotografico». Se risulta infatti difficile stabilire oggi che cosa sia la pittura, ancora più complicato è circoscrivere l’ambito del fotografico: vi sono infatti foto­ grafie considerate come oggetti d’arte, vi sono fotografie pubblicitarie, vi è la fotografia amatoriale (a questo proposito cfr. Bourdieu 1964), la foto­ grafia di cronaca, ecc. A seconda degli ambiti discorsivi e testuali in cui compare, l’immagine fotografica può perciò comportare problemi e me­ todi d’indagine peculiari, che spesso riguardano altri linguaggi, e quindi richiamare la questione dei testi sincretici. Dovendo affrontare un’imma­ gine fotografica, ci rivolgeremo perciò, a seconda dell’oggetto che dob­ biamo esaminare, alla semiotica della pubblicità (cfr. § 9.7), a quella del­ l’informazione (cfr. § 9.6), ma anche alla semiotica della pittura. A un’im­ magine fotografica si possono infatti applicare alcune delle categorie di cui abbiamo appena discusso, dall’individuazione delle tracce dell’enuncia­ zione, alle caratteristiche del linguaggio plastico. E vero però che l’imma­ gine fotografica gioca in modo particolare con alcuni effetti di senso veridittivi. La fotografia è dunque un’icona o un indice? Della fotografia dob­ biamo considerare la sua somiglianza con il reale, oppure il fatto che è il prodotto di una tecnica, dell’impressione della luce su di una pellicola (cfr. Vacchiano 1992)? Ad esempio, vi èchi sostiene (cfr. Krauss 1990) che l’im­ magine fotografica, grazie alle sue proprietà di indice, unita all’idea di ri­ produzione e di doppio meccanico evidenziata da Benjamin 1955, abbia introdotto in un campo come quello dell’arte figurativa la relativizzazione dei concetti di autore e di opera. L’opera d’arte fotografica ha condotto, in sostanza, a rivedere l’idea di originalità e di differenziazione qualitati­ va, e quindi a riconsiderare sotto una nuova luce lo statuto stesso del di­ scorso artistico. Come però evidenziavamo, se i concetti di indice e di ri­ producibilità tecnica hanno minato alcune categorie proprie della foto­ grafia d’arte, lo stesso non si può dire della fotografia di cronaca, dove in­ vece l’immagine fotografica interagisce in modo peculiare con il testo ver­ bale, restituendo la «realtà» che le parole possono solo suggerire. In conclusione, dal momento in cui le immagini fotografiche, in modo sicuramente più preponderante della pittura, hanno invaso le comunica­ zioni di massa, l’analisi semiotica deve tener conto, oltre ovviamente che delle discipline che riflettono sulla fotografia da un punto di vista socio­ logico o storico, di tutti gli elementi che, di volta in volta, contribuiscono a costruire uno specifico testo fotografico.

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10.2. Letteratura A partire dagli anni Sessanta la semiotica soprattutto europea si è ri­ petutamente misurata con la letteratura, fino a usare la capacità di com­ prendere i testi letterari come criterio di adeguatezza delle teorie. Questo confronto si è svolto però su linee diverse, senza raggiungere mai la sinte­ si complessiva di un metodo condiviso. È impossibile dunque dare in que­ sta sede più di qualche indicazione di massima, storico-bibliografica, sul­ le diverse correnti e i diversi presupposti analitici. Si può dire che la linea teorica complessiva, che caratterizza il pensie­ ro semiotico sulla letteratura, sia costituita dal paradigma linguistico. Ap­ plicando in pratica, anche se non condividendo in teoria, il paradosso pro­ posto da Roland Barthes, per cui non è la linguistica ad essere parte della semiotica, come descrizione di un codice specifico come quello delle lin­ gue storico-naturali, ma la semiotica una parte della linguistica, quella im­ pegnata a descrivere le strutture «lunghe» (transfrastiche) o quelle speci­ fiche di generi e linguaggi specifici, la semiotica si è per lo più accostata alla letteratura cercando di individuare i fenomeni linguistici caratteristi­ ci della letteratura in generale o di certi generi o autori. In questo senso si è impegnato per primo lo stesso Roland Barthes, con le sue ricerche sul linguaggio di Balzac (1970b), di Sade, Fourier e Loyola (1971), di nume­ rosi altri autori in saggi meno sistematici (1964a, 1985). A parte «l’avventura semiologica» di Barthes, così peculiare, si posso­ no distinguere grosso modo tre grandi linee di ricerca semiotica sulla let­ teratura. La prima, maggiormente influenzata da una tradizione filologica e critica, si occupa prevalentemente della manifestazione linguistica e del significante letterario, cercando di usare gli strumenti della semiotica per descriverne la specificità e la ricchezza. Si possono indicare a questo pro­ posito i nomi di Cesare Segre 1985,1994, Maria Corti 1976, Silvio Avalle D’Arco 1975, Marcello Pagnini 1971, Serpieri 1975, Geninasca 2000. Una seconda linea si occupa ancora di significante, ma lo fa sotto l’in­ flusso delle teorie psicoanalitiche soprattutto lacaniane, del decostruzio­ nismo, del pensiero femminista. In questo ambito la voce più interessan­ te è quella di Julia Kristeva (1969,1970,1974). Altre indicazioni su tale li­ nea di analisi si possono trarre dai §§ 11.2 e 11.3, a proposito del concet­ to femminista di écriture. Tutti questi contributi sono rimasti però piuttosto isolati rispetto allo sviluppo delle ricerche semiotiche. Le analisi che si sono sviluppate in ma­ niera più continua e che sono state più influenti nell’ambito semiotico, so­ no quelle ispirate ai temi narratologici, che hanno lavorato per mostrare,

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sotto la superficie del testo, delle strutture portanti di carattere generale: quelle che sono state illustrate sopra nei capitoli 4 e 6. Anche in questa linea di ricerca prevalentemente narratologica, biso­ gna distinguere due correnti principali. Una è quella che nasce intorno al­ la «scuola di Parigi» di A.J. Greimas, l’altra è quella che si raccoglie in­ torno ai contributi di Umberto Eco. Entrambi i caposcuola si accostano alla letteratura solo in una fase avanzata del loro lavoro. Greimas inizia a sperimentare su Maupassant (1976a) le sue teorie sul percorso generativo del senso, e poi continua a lavorare a lungo su questo piano (per esempio, 1983,1986,1995, Greimas e Fontanille 1991). Anche se negli ultimi anni l’attenzione al valore estetico del testo diventa evidente, il lavoro si svolge prevalentemente a livello esemplificativo, districando pazientemente le complessità delle strutture sottostanti al testo manifestato in modo da mo­ strarne la capacità di produrre i propri effetti. Nel caso di Eco l’attenzione per il funzionamento del testo letterario coincide cronologicamente in maniera prevalente con un periodo di pro­ duzione letteraria creativa, ma derivano da un’iniziale interesse estetico, già visibile nella tesi di laurea sul problema estetico in San Tommaso e poi in Eco 1962 e 1965.1 problemi che Eco si pone a partire da Eco 1979 ri­ guardano però prevalentemente il ruolo del lettore nell’interpretazione del testo, la presenza nel testo stesso di segnali o simulacri che guidano la cooperazione interpretativa (un problema che in quegli anni si è posto contemporaneamente a molti autori vicini ma non interni al pensiero se­ miotico, come il gruppo dell’estetica della ricezione di Costanza, che ha radici ermeneutiche, conjauss 1967, Iser 1972,1976; epoiChatman 1978, Booth 1961 e altri ancora). In quel momento Eco proponeva l’utilizzazio­ ne, nell’analisi letteraria, delle nozioni di mondo possibile tratte dalla lo­ gica. In seguito il suo interesse si è spinto verso i paradossi del tempo nar­ rativo e gli effetti estetici che ne nascono (1994) e verso una polemica ser­ rata col punto di vista decostruzionista (1995), per sostenere l’esistenza di interpretazioni più o meno legittimate del testo letterario. Le sue idee han­ no generato diversi lavori collettivi, per esempio su Manzoni e sulle lettu­ re «anomale» di Dante (Pozzato, a cura di, 1989).

10.3. Teatro L’analisi semiotica del teatro è resa particolarmente complessa, ma an­ che molto interessante, dalla struttura del campo di fenomeni comunica­ tivi che riassumiamo sotto questo nome. Si tratta di diverse tradizioni cul­ turali: il teatro è nato indipendentemente in Grecia, in Giappone, in Ci-

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na, in India e altrove; anche in Europa vanno considerati due inizi in un certo senso indipendenti, quello ateniese del V secolo e quello cristiano nell’alto medioevo che prelude al teatro moderno. Ma vi sono anche di­ verse forme di spettacolo che sono riassunte sotto questo nome: oggi il tea­ tro musicale nelle sue diverse forme (opera, musical, rivista, ecc.) è assai diverso per struttura e convenzioni di contenuto dalla danza e questa dal­ la «prosa», la quale a sua volta si articola in generi del tutto differenti, dal­ la tragedia per versi al monologo comico. Accade poi che la maggior par­ te dei fenomeni teatrali interessanti sul piano estetico attraversi in un cer­ to senso trasversalmente queste differenze e ridefinisca i generi e le con­ venzioni ogni volta di nuovo. Questo fenomeno è particolarmente sensi­ bile nel Novecento sotto il nome di «avanguardia teatrale», ma in realtà è diffuso pressoché universalmente nella storia del teatro. Vi è dunque un lavoro di analisi del funzionamento comunicativo, delle convenzioni e del­ le forme espressive che si può giovare degli strumenti della semiotica, ma che ha natura essenzialmente storica. Un secondo ordine di complessità riguarda il singolo evento teatrale. E sempre possibile ritrovarvi degli strati di senso, relativamente indipen­ denti fra loro, o piuttosto, seguendo la proposta di Schechner 1984, dei diversi testi che interagiscono. In ogni spettacolo teatrale si sovrappongo­ no infatti un testo drammatico, che può essere più o meno scritto in un lin­ guaggio naturale (nella nostra tradizione di solito lo è, anche se magari non è pubblicato, ed è il copione dello spettacolo), un testo dello spettacolo e un testo della performance. Come hanno mostrato molti studi a partire dal­ la Poetica di Aristotele, il testo drammatico si differenzia notevolmente non solo da altri testi descrittivi o normativi, ma anche dai testi narrativi. Il testo drammatico è mimetico più che diegetico, cerca cioè degli effetti di imitazione dell’azione e non la narra. Contiene quasi solo enunciazioni enunciate e nella quasi totalità dei casi nasconde accuratamente l’esisten­ za di un enunciatore o di un narratore (vedi § 4.2 e cap. 5). Si tratta di una distinzione avvertibile al livello della superficie testuale per la struttura a dialogo (enunciazione enunciata), con i pochi altri testi eventualmente presenti ridotti a «didascalie», guide cioè per la messinscena del testo che non sono effettivamente recitate. Spesso in realtà il testo drammatico con­ tiene qualche tipo di didascalie interne, cioè introduce l’esistenza di oggetti e ambienti attraverso la descrizione che ne fanno i vari personaggi (per esempio, se qualcuno dice «fammi vedere questa lettera», dev’essere pre­ sente in scena una lettera al momento della rappresentazione). Questo sti­ le di scrittura implicitamente performativo comporta una presenza lingui­ stica molto forte di fenomeni come la deissi e l’analessi, che caratterizza­ no il testo drammatico non solo rispetto alla narrazione ma anche all’uso quotidiano della lingua.

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Vi è poi il testo dello spettacolo, quell’oggetto culturale più o meno sta­ bile che permane nelle diverse repliche di uno spettacolo. Nell’organizza­ zione attuale del teatro, si tende a identificarlo con la regia, ma si tratta di molto di più, e cioè della composizione, che avviene secondo diverse tec­ niche in dipendenza dalle forme di organizzazione storiche e sociali del teatro, dei diversi fattori che fanno dello spettacolo un testo sincretico-, un ambiente (sala teatrale), di solito costruito apposta secondo certi criteri, un testo linguistico, uno musicale, degli arredi, degli elementi dipinti, dei costumi, degli attori, dei movimenti, gesti, distanze che costituiscono un testo non verbale, le luci, l’uso di oggetti e effetti speciali. Perché uno spet­ tacolo si realizzi (come evento unico, in certi casi, ma di regola come pro­ dotto replicabile) tutti questi diversi elementi devono essere decisi in mo­ do da condurre a certi effetti (di verità, ma anche effetti emozionali, gio­ chi estetici e così via). Devono insomma essere montati in un processo, co­ struire una forma dell’espressione. Non vi sono regole fisse a priori per la costruzione di questo testo dello spettacolo, la cui struttura e la cui deter­ minazione dipende molto dalle convinzioni e dalle tecniche vigenti nel luogo e nel tempo della rappresentazione. Ma è chiaro che si tratta di un fenomeno insieme semiotico ed estetico, da cui dipende la capacità di co­ municazione del teatro e il piacere estetico che ne deriva. Un esempio im­ portante di questo livello è lo sviluppo dell’architettura teatrale, che non è semplicemente il prodotto di una tecnica della rappresentazione via via più sofisticata, o un fenomeno di iscrizione monumentale dell’istituzione teatrale nel tessuto urbano (anche se questi due livelli sono importanti e ben documentabili). Nel passaggio dal teatro all’aperto greco a quello eli­ sabettiano, dalla sala all’italiana agli impianti novecenteschi senza distri­ buzione fissa degli spazi fra attori e pubblico, vi è in gioco anche l’idea del­ la rappresentazione corrente, un sistema di relazioni in cui il teatro ri­ specchia e caratterizza dinamiche sociali profonde. Un livello ulteriore è quello del testo della rappresentazione, che si com­ pone giorno per giorno. A differenza da altre arti dello spettacolo (e na­ turalmente dalla maggior parte delle forme narrative), il teatro esiste ve­ ramente solo nella concreta compresenza di attori e spettatori. Questa è la sua specificità, come hanno sottolineato Peter Brook e Grotowski, so­ prattutto da quando le tecniche della rappresentazione hanno messo a no­ stra disposizione forme mimetiche che funzionano sulla base di tracce, analoghe alla scrittura (per esempio, il cinema e anche la televisione in dif­ ferita). Almeno in prima istanza, il teatro sembra assomigliare più all’ora­ lità che alla scrittura (vedi § 7.5). Vi è un’interazione reale fra un certo nu­ mero di persone che guardano e altre che agiscono, mediata da certi co­ dici (il silenzio del pubblico, per esempio, che non è sempre stato un ob­ bligo così rigido come nella tradizione europea novecentesca), il regime di

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illuminazione della sala e della separazione fra zona dell’azione e zona de­ gli spettatori, ecc. Se guardiamo le cose più da vicino, però, esse si com­ plicano notevolmente. La compresenza c’è ed è necessaria sul piano rea­ le, ma non si realizza in maniera normale sul piano comunicativo: duran­ te uno spettacolo non è possibile, per esempio, da parte del pubblico in­ terpellare chi agisce, né sotto l’identità fittizia del personaggio, né tanto­ meno sotto quella «reale» dell’attore. Si pone così un problema semiotico e psicologico molto tradizionale come quello dell’«identificazione» o del­ lo «straniamento» dell’attore rispetto al suo personaggio, della «verità» o della «menzogna» che egli pratica. Tutti temi che hanno avuto risposte poetiche, politiche, estetiche e anche pedagogiche diverse nel corso della storia del teatro (si pensi a Diderot, Brecht, Stanislavskij) e che però sono giocate in realtà concretamente sera per sera nel rapporto concreto che l’attore intrattiene col suo pubblico. Su questo punto, si veda Volli 1989. Vi è qui un ultimo problema importante per una semiotica del teatro, che è quello della capacità dell’attore di intensificare la propria presenza in maniera tale da attirare l’attenzione del pubblico sulle sue azioni e pa­ role. E come se la presenza (e in definitiva il corpo) dell’attore fosse un ca­ nale, su cui dovesse essere concentrata una funzione fàtica particolarmen­ te efficiente per garantire il buon funzionamento dello spettacolo. Que­ st’azione in un certo senso precedente alla rappresentazione, che però ne condiziona la microstruttura delle azioni fisiche, è stata definita da Euge­ nio Barba (1993, 1997) il «livello pre-espressivo» del lavoro teatrale e co­ stituisce un vincolo importante non solo sul testo della rappresentazione, ma anche su quello dello spettacolo e su quello variabile. Perché vi sono condizioni formali per il suo buon funzionamento, la prima delle quali è un elevato livello di apertura o di ambiguità di tali testi, che consentano al­ lo stesso tempo all’attore di riuscire sorprendente e allo spettatore di in­ tervenire per completare la trama delle azioni e di saturarsi all’azione, con effetti di identificazione che talvolta diventano perfino sinestesici.

Per una rassegna generale, vedi De Marinis 1982, Elam 1980, Volli 1989, Pavis 1996.

10.4. Cinema Il cinema ha sempre rappresentato un grande interesse per la semioti­ ca e ha dato origine a numerosi dibattiti a partire dalla fine degli anni Ses­ santa, in particolare in Francia e in Italia. Metz nel 1964 è stato il primo

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teorico del cinema a riferirsi in senso proprio al «linguaggio» cinemato­ grafico. Più compatto e più «linguaggio» della televisione (che è invece consi­ derata piuttosto un «mezzo»), il cinema si può considerare il modo di co­ municazione visiva (e da un certo punto in poi audiovisiva) più caratteri­ stico del nostro secolo. Si è discusso a lungo sui livelli di articolazione e sul montaggio, sull’esistenza di veri e propri segni e linguaggi cinematografi­ ci. Le questioni emerse nei dibattiti riguardano soprattutto la legittimità di considerare il cinema come un vero linguaggio dotato o meno di una doppia articolazione. In questo caso diversi studiosi si sono riferiti al ci­ nema come mezzo di comunicazione audiovisivo dotato di un codice co­ municativo proprio e costituito da «segni cinematografici». Oppure, in al­ tri termini, il cinema è stato considerato interessante proprio per l’etero­ geneità di codici che interagiscono e si condizionano reciprocamente in ogni film e caratterizzano la riconoscibilità e l’identità dei singoli autori: in questa prospettiva, lo studio dello sviluppo narrativo del film viene ri­ tenuto necessario all’interpretazione dei codici differenti ma contempora­ neamente presenti in ogni film. Inoltre, la semiotica del cinema ha fatto molto uso di tutti gli strumen­ ti nati in origine per analizzare i testi narrativi (le funzioni narrative, il per­ corso generativo, il concetto di attori e attanti, lo «spettatore modello» e così via). In effetti, ogni film è normalmente caratterizzato da una «storia» con una trama, un inizio, uno svolgimento e una conclusione e questa struttura narrativa canonica si presta particolarmente a manifestare l’effi­ cacia della semiotica di matrice generativa e in alcuni casi delle funzioni proppiane. Il testo filmico, come mostra un buon manuale d’analisi (Casetti e Di Chio 1990), può essere analizzato facilmente seguendo vere e proprie procedure metodologiche che si sviluppano in una serie di tappe preordinate e presentate come vere e proprie «istruzioni per l’uso»: la scomposizione, la ricomposizione del film e l’individuazione dei criteri di validità dell’analisi. Privilegiando un’altra prospettiva c’è anche chi è andato al di là di que­ sto dibattito e, come Gilles Deleuze, ha criticato l’approccio strutturali­ sta al cinema, ha ripreso la semiotica interpretativa e in particolare ha la­ vorato sulla classificazione dei segni di Peirce. I «segni» cinematografici hanno interessato il filosofo francese in particolare per lo studio di quegli aspetti che nei saggi ha definito come immagine-movimento e immaginetempo. In generale, considerando la varietà dei contributi sulla semiotica del cinema, si può osservare come di volta in volta siano stati privilegiati, a sca­ pito di altri, alcuni aspetti come il montaggio, le inquadrature, le tracce grafiche, i codici sonori, la messa in scena, la rappresentazione dello spa-

Manuale di semiotica 262

zio e del tempo cinematografici, il punto di vista, l’interpellazione, i per­ sonaggi, l’enunciazione, il livello narrativo e così via. La ricerca sul cine­ ma come sistema comunicativo si è estesa in seguito alle problematiche dell’audiovisivo in genere (televisione, video, computer, nuove tecnologie) soprattutto grazie all’opera di Gianfranco Bettetini.

Il dibattito sulla doppia articolazione del «linguaggio cinematografi­ co» si trova in Eco 1968, Pasolini 1972, Metz 1964,1968,1971. Per quan­ to riguarda un approccio metodologico d’analisi del film basato sulla se­ miotica di Peirce è fondamentale il lavoro di Deleuze 1983, 1985: il con­ tributo del filosofo francese rende anche conto - sia a livello teorico che storico - dei dibattiti che in Italia e in Francia hanno determinato lo svi­ luppo della semiotica del cinema. Deleuze inoltre arricchisce le sue pro­ poste teoriche con l’analisi dei registi e dei film più importanti della sto­ ria del cinema. Il manuale di Casetti e Di Chio 1990 è uno strumento utile per com­ prendere come analizzare un testo filmico, poiché spiega molto detta­ gliatamente i modi di procedere di un’analisi semiotica: da una parte ven­ gono raggruppati i concetti teorici della semiotica narrativa finalizzati al­ l’analisi, dall’altra tali concetti vengono applicati a degli esempi specifici. Da questo punto di vista sono interessanti anche i contributi di Bettetini 1984, 1996, Casetti 1986, Aumont 1988. Sull’audiovisivo vedi Bettetini 1984,1996.

10.5. Il fumetto Sebbene non esista una vera e propria semiotica del fumetto, è possi­ bile applicare gli strumenti della semiotica e della narratologia ai linguag­ gi del fumetto. Si veda, a questo proposito, Barbieri 1991. Storicamente, il linguaggio del fumetto deriva dai linguaggi dell’illu­ strazione, della caricatura, e della letteratura illustrata. Di conseguenza, esso condivide alcuni tratti tipici di questi linguaggi, pur discostandosene per altri versi. La differenza principale tra il fumetto e l’illustrazione è che «l’immagine del fumetto racconta, [mentre] l’immagine dell’illustrazione commenta» (Barbieri 1991, p. 13). L’illustrazione è normalmente illustra­ zione di qualcosa, e quel qualcosa può esistere anche senza l’illustrazione. Dunque, il ruolo dell’illustrazione è di fornire un commento esterno, che aggiunge qualcosa al racconto di partenza (un’interpretazione, un’inte-

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grazione, un arricchimento). Nel fumetto, invece, la singola vignetta ha una funzione direttamente narrativa: la vignetta racconta un momento dell’azione che costituisce parte integrante della storia, e non la si può eli­ minare senza pregiudicare in qualche modo la comprensione della storia. Dunque, l’immagine del fumetto è un’immagine narrativa (di azione), laddove quella dell’illustrazione è un’immagine commentativa. Infatti, le illustrazioni sono generalmente più descrittive che narrative, e tendono a rappresentare non tanto la dinamica delle azioni, quanto le sfumature emotive e i dettagli assenti nel testo di partenza. Gli effetti di questa diversità di funzione si vedono nel modo in cui so­ no strutturate le immagini. Mentre l’illustrazione privilegia le vedute d’in­ sieme (il campo largo), la vignetta privilegia di volta in volta quello che le serve per far procedere l’azione narrativa: il dettaglio significativo inqua­ drato in primo piano, ad esempio, ma anche le inquadrature soggettive (quando il punto di vista del destinatario coincide con quello di uno dei personaggi). Le immagini del fumetto tendono perciò ad essere più concise, meno ridondanti delle immagini delle illustrazioni: la loro lettura deve essere ra­ pida, per poter procedere alla lettura delle vignette successive che com­ pongono la sequenza, senza inutili sperperi di tempo e di attenzione da parte del destinatario. Al contrario, le illustrazioni richiedono tempi di let­ tura più dilungati. Nei fumetti accade spesso che le immagini evochino il movimento (at­ traverso l’uso delle linee cinetiche), proprio per sottolineare il carattere di­ namico delle azioni. Altra caratteristica del fumetto è, ovviamente, il fatto che è composto da una serie di vignette poste in sequenza: il fumetto non è il semplice suc­ cedersi di scene contenute ciascuna in un’immagine: al contrario, è un lin­ guaggio in cui i rapporti tra le singole immagini sono più importanti del­ le immagini stesse. Come il regista cinematografico, il fumettista deve «montare» insieme le singole inquadrature per dar luogo ad una sequen­ za diegetica. Ci sono vari modi di montare insieme i «mattoni di costru­ zione» (le vignette)', le vignette solitamente sono rettangolari, ma possono essere più o meno larghe e, talvolta, possono sfondare verticalmente in al­ to o in basso. A seconda dello schema prescelto (regolare o dinamico), il fumettista comunica delle informazioni supplementari. Uno schema rego­ lare è più facile da leggere, mentre uno schema dinamico e articolato ri­ chiede un tempo di lettura più lungo e un maggiore sforzo da parte del let­ tore: l’effetto grafico di maggiore dinamismo fa sì che l’aspetto puramen­ te diegetico e narrativo venga sacrificato a vantaggio di altri elementi, qua­ le quello emotivo (la funzione referenziale cade in secondo piano rispetto alle funzioni emotive ed estetiche del messaggio).

Manuale di semiotica 264

Infine, c’è la questione delle didascalie, dei grandi rumori (CRASH, BANG BANG, ecc.) e dei balloons (che veicolano i dialoghi): nella vi­ gnetta, le immagini si trovano intrecciate con stringhe verbali e interagi­ scono con esse. Infatti, il fumetto è un testo sincretico, in quanto combina insieme elementi tratti da sistemi semiotici diversi che interagiscono reci­ procamente. Diversamente da ciò che accade nel racconto, nel fumetto le parole non hanno un valore autonomo rispetto alle immagini, ma sono soltanto una componente in un gioco più ampio. Insieme, immagini e parole contribui­ scono a far procedere l’azione narrativa. Vi sono fumetti in cui le didascalie sono pressoché assenti: solitamente, si tratta delle strisce comiche, in cui se ci sono - le didascalie svolgono una funzione assai ridotta: ad esempio, possono essere impiegate per marcare i salti temporali e spaziali («il giorno dopo», «più tardi», «nel frattempo a Gotham City», ecc.). In altri casi le di­ dascalie svolgono un ruolo narrativo fondamentale, contribuendo a realiz­ zare un effetto di polifonia (presenza di più voci narrative - ad esempio, un monologo interiore nelle didascalie e l’azione esterna nelle vignette).

Oltre al libro di Barbieri 1991, vedi Eco 1965 - in particolare Lettura di 'Steve Canyon’, Il mito di Superman e II mondo di Charlie Brown - e Fresnault-Duruelle 1977,1990. Una buona introduzione ai linguaggi del fumetto si trova in McCloud 1996, libro a fumetti sui fumetti in cui, seb­ bene l’impostazione non sia accademica né apertamente semiotica, si ri­ scontrano delle convergenze interessanti con alcuni concetti della semio­ tica testuale: vedi, ad esempio, la nozione di closure, la quale ha molto in comune con la cooperazione interpretativa teorizzata da Eco 1979.

10.6. Musica L’analisi dei testi e dei sistemi musicali costituisce per la semiotica uno dei settori più difficili, tanto da rappresentare per certi versi quasi una sfi­ da alla possibilità di estendere in modo omogeneo le sue concezioni a tut­ te le forme d’espressione. È vero che molte delle nozioni tipiche della di­ sciplina sono state riproposte anche per l’analisi dei testi musicali, tutta­ via in molti casi si può avere l’impressione di riprese piuttosto forzate, o di semplici vaghe assonanze con il senso che le stesse nozioni assumono in altri contesti. La difficoltà con cui finalmente si è giunti all’elaborazione di prospettive metodologiche più fondate e convincenti appare dunque ri­ velatrice di problemi del tutto specifici di questo campo applicativo.

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Da un lato, si potrebbe dire che una parte di ciò che gli studi semioti­ ci hanno portato come novità in altri settori - in termini ad esempio di for­ malizzazione ed elaborazione di modelli, di messa in evidenza di reti in­ tertestuali, ecc. - era già stato fatto precedentemente dall’analisi musico­ logica; mentre da un altro lato certamente non risulta facile riproporre in campo musicale il modello «biplanare» del segno, che prevede una co­ stante corrispondenza tra un piano espressivo e un piano di contenuti. Uno dei problemi maggiori può anzi consistere proprio nell’insistente ri­ fiuto a concepire la musica come portatrice di «contenuti»: un rifiuto che ha caratterizzato buona parte del pensiero musicologico del Novecento, in aperto contrasto con le precedenti teorie romantiche, e in particolare in contrasto con ogni concezione di musica «a programma», vale a dire ba­ sata su un riferimento esterno di tipo letterario o filosofico. Gli studi semiotici hanno certamente contribuito al superamento di una rigida visione della musica come «linguaggio senza contenuti», ripor­ tando la questione dal piano delle «poetiche» e delle aspirazioni (ciò che la musica in astratto dovrebbe essere) a quello dei fatti d’osservazione (ciò che la musica è nell’effettiva realtà culturale). In quest’ultima prospettiva, non c’è dubbio che la musica «significhi» qualcosa, almeno per moltissi­ mi dei suoi ascoltatori, pur se questo non vuol dire che si debba far riferi­ mento a significati «extramusicali»: la musica «significa» anche quando offre il senso di una pura forma che si libra al di là di ogni materialità, e per un altro verso è indubbiamente sintomatico il forte riconoscimento di corrispondenza tra un testo musicale e un certo tipo di «stile», di «atmo­ sfera», o se si vuole di «spirito di un’epoca». Ma questo non è che il gra­ do minimo delle capacità di significazione della musica. Le analisi semio­ tiche colgono strutture di significato che, lungi dal ridursi a semplici espressioni di stati d’animo, corrispondono non di rado a complesse strut­ ture concettuali. La pratica di ricerca dimostra del resto che, se si proce­ de oltre il livello di una visione d’insieme delle realtà musicali e si entra in una loro analisi dettagliata, si colgono molti fattori strutturali che possie­ dono significative affinità con elementi basilari nel campo della semiotica visiva e, soprattutto, narrativa. Facciamo immediatamente un esempio, ricorrendo al notissimo e abu­ sato primo movimento del concerto per pianoforte di Cajkovskij (op. 23). Il brano è celebre soprattutto per il tema esaltante che lo apre, esposto dal pianoforte con una brillante successione di accordi. Dopo questo inizio, il lungo Allegro non troppo e molto maestoso trascorre attraverso tutta una serie di episodi sempre più tormentati, che portano l’ascoltatore ad uno stato di crescente attesa di una festosa riproposizione del tema iniziale un obbligo peraltro sentito come ovvio e imprescindibile, secondo le ben assestate convenzioni della forma musicale. Ma la tensione, sempre più forte, non porta mai alla risoluzione attesa e prevista. Dunque, come non

Manuale di semiotica 266

vedere in questa soluzione formale, e insieme in questo percorso emotivo, la traduzione musicale di una struttura narrativa e ideale - se non addirit­ tura filosofica - tanto tipica del pensiero e della sensibilità romantici da ri­ tornare in innumerevoli creazioni letterarie? Ci riferiamo alla struttura ben nota per cui la bellezza e la felicità, assaporate per un attimo, saranno poi vanamente cercate per tutto il resto della vita, senza che sia mai possi­ bile ritrovare quello che resta ormai come un ricordo luminoso ma non più riproducibile... L’esempio mostra come un testo musicale (e si noti che non stiamo certamente parlando di una composizione di particolare raffi­ natezza o complessità) possa essere in grado di dare rappresentazione a strutture narrative e concettuali del tutto simili a quelle che possiamo tro­ vare alla radice di un’opera letteraria o cinematografica: ciò che giustifica l’attuale tendenza della semiotica della musica a far uso soprattutto di stru­ menti di derivazione narratologica. Il sistema tonale sul quale è organizzata gran parte della musica occi­ dentale è del resto tale da creare per sua natura un’alternanza di stati di tensione e di equilibrio, di implicazioni e di attese, di sensazioni di perdi­ ta e di recupero di un ordine: tutti elementi che hanno molto a che vede­ re con la logica costruttiva di una narrazione. Inoltre, i testi musicali sono tipicamente fondati su coppie contrastanti come individuale/collettivo (si pensi anche solo al rapporto tra il solista e l’orchestra), languido/energico, oppure anche sensazione di affondare/sensazione di sollevarsi-, coppie che generano strutture oppositive quali possono essere trovate in ambiti te­ stuali molto diversi, e che possono essere analizzate con strumenti tipici della semiotica generale. Alcuni autori propongono una ripresa degli stessi specifici ruoli narra­ tivi, mostrando come in un brano musicale possa esservi un tema-soggetto accanto al quale si pone un tema secondario dello stesso genere {tema-aiu­ tante'}, in opposizione a un contrastante tema-opponente, e così via. E pos­ sibile anche ritrovare l’opposizione tra fare ed essere - tra azioni e stati che abbiamo visto essere così fondamentale nel caso dei testi narrativi. Ad esempio, Tarasti 1994 (cap. 5), analizzando il primo movimento della ce­ lebre sonata Waldstein di Beethoven, mette in luce l’opposizione concet­ tuale tra una prima componente musicale molto attiva e volitiva, corri­ spondente a un voler fare semiotico (un tema martellante, teso, che muo­ ve in direzione ascendente e cresce in sonorità, esibendo sensibili disso­ nanze) e una seconda componente che porta a uno stato finale di comple­ ta distensione, a una chiusura risolutiva finale (equilibrio armonico): que­ sta seconda componente viene fatta corrispondere all’affermazione di un voler essere semiotico. Quanto in musica - come nella costruzione di mol­ ti comuni testi narrativi - non è dunque costruito sul tragitto che porta da una tensione e da un’aspirazione iniziale al raggiungimento di uno stato fi­ nale di equilibrio?

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Aggiungiamo, in chiusura di questo paragrafo, che il campo della se­ miotica musicale è poi ulteriormente complicato dal fatto che - in modo sostanzialmente analogo a quanto avviene ad esempio anche per la semio­ tica del teatro - si deve distinguere tra il testo scritto (lo spartito) e la sua esecuzione, che ne è la vera traduzione in fatto musicale. E possibile se­ condo alcuni applicare a tal proposito la diffusa distinzione tra «enuncia­ to» ed «enunciazione», parlando di una struttura musicale (enunciato) che ha la sua enunciazione nel momento in cui viene eseguita. In ogni caso è certo che il processo di significazione musicale passa attraverso una dop­ pia fase di interpretazione (interpretazione da parte dell’esecutore e inter­ pretazione da parte dell’ascoltatore), facendo del testo musicale il risulta­ to di un complesso intreccio di strategie che coinvolgono diversi soggetti e differenti punti di vista. Secondo motivazioni in parte analoghe, J.-J. Nattiez ha ritenuto che l’analisi dei fatti musicali debba sempre essere condotta a tre differenti livelli: quello «poietico» (corrispondente alla pro­ spettiva del compositore), quello «estesico» (concernente il lato della ri­ cezione), e quello «neutro» (oggettiva definizione delle caratteristiche del­ l’opera in sé). Questa compresenza di prospettive diverse ci aiuta a spie­ gare la capacità della musica di agire come forma simbolica costruttiva e dinamicamente inesauribile, capace di dar vita a quella che Nattiez chia­ ma «una complessa e infinita rete di interpretanti» (1987, p. 28).

Gli autori più rappresentativi nel campo della semiotica musicale so­ no il francese Jean-Jacques Nattiez, l’italiano Gino Stefani e il finlandese Eero Tarasti. Di Nattiez, segnaliamo in particolare due testi di carattere generale (1987, 1988). Alcuni testi di Stefani hanno parimenti un inten­ to introduttivo (1976, 1987, 1992), più particolare, anche per il collega­ mento con i modi di fruizione sociale della musica, è invece il saggio sul­ la musica barocca (1974). Il testo più rappresentativo di Tarasti (1994) in­ tende costituire una sorta di manuale, in parte teorico e in parte applica­ tivo. Tra le analisi più mature e approfondite di singoli testi musicali va inoltre segnalato Hatten 1994. Tarasti è anche organizzatore di una serie di seminari di altissimo li­ vello, che hanno dato vita a pubblicazioni collettive di grande interesse; segnaliamo in particolare Tarasti, a cura di, 1995,1996. Una buona anto­ logia di testi di semiotica musicale tradotti in italiano è quella curata da Marconi e Stefani 1987. Tra gli altri «classici» autori che hanno aperto la strada alla semiotica della musica ricordiamo infine Ruwet 1972, caratte­ rizzato da un taglio più formale e dall’attenzione al rapporto tra musica e lingua, e Lévi-Strauss 1964, 1971, che ha scritto pagine molto citate a partire dalla connessione tra i meccanismi della variazione musicale e le forme di relazione tra i testi mitici.

11. Identità, soggettività e genere

11.1. Il post-strutturalismo e la ricerca dei Cultural Studies Per la sua fondamentale impostazione metodologica (che privilegia i rapporti astratti ai termini concreti messi in relazione da tali rapporti, e che cerca di ricostruire livelli non visibili sulla superficie del testo) la se­ miotica è stata spesso associata al movimento strutturalista, una grande ondata culturale degli anni Cinquanta e Sessanta che ha messo in atto con grande successo mosse teoriche analoghe in territori così diversi come l’antropologia e l’architettura, la matematica e la psicologia. A partire però dai primi anni Settanta, e quindi lungo gli anni Ottanta, in ambito anglo­ sassone si è affermata l’esistenza di un movimento «post-strutturalista», che insieme continua e rovescia la metodologia semiotica di approccio ai testi, lavorando in maniera nuova su nozioni quali cultura (vedi § 9.6), soggetto e genere. Il post-strutturalismo si sviluppa a partire da una crisi difiducia nel me­ todo di indagine strutturalista, che non conduce tanto a rifiutarne le basi teoriche, bensì a favorire il dialogo con discipline quali l’ermeneutica, l’an­ tropologia, la teoria della letteratura e la sociologia e a privilegiare la di­ mensione sociale e politica delle scienze umane. Nel cercare di interseca­ re questi diversi ambiti disciplinari, l’analisi post-strutturalista si trova co­ sì a dover fronteggiare e a porre in questione i limiti e gli assunti di fondo dei diversi metodi che in essa confluiscono. Con il post-strutturalismo ci inoltriamo in un campo di studi che dunque non possiede una sola meto-

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dologia, né confini oggettivi esclusivi. Più che a una teoria, ci troviamo di fronte a numerosi stili analitici che indagano in maniera molto specifica le diverse forme e pratiche della cultura contemporanea, utilizzando anche strumenti tratti dalla tradizione semiotica, sebbene in maniera per lo più polemica e originale. Tale insieme di ricerche, facendo in primo luogo ri­ ferimento al concetto di cultura, inoltre dialoga e a volte si confonde con un’area di ricerca sviluppatasi nel mondo anglosassone denominata Cul­ tural Studies. Il post-strutturalismo ha dunque lavorato per una critica della cultura che, accanto all’analisi degli effetti di senso prodotti dai testi, provi a met­ tere in questione e a collocare storicamente i processi che producono i si­ gnificati culturali. A questa prospettiva d’analisi interessa la testualità co­ me processo di produzione e di deposito di significati. Nella testualità so­ no perciò compresi i testi, ma anche le pratiche culturali che producono e interpretano i testi stessi. Insieme al concetto di testo, si utilizzano così frequentemente quelli affini di discorso e di pratiche, intesi come insiemi di rappresentazioni che attraversano i singoli testi e migrano tra loro. Il concetto di discorso, con la sua relazione alle circostanze concrete dell’enunciazione, è usato per descrivere il modo in cui si fissano i signifi­ cati, insieme alla loro riproduzione e circolazione in forma di rappresen­ tazioni. Il discorso, da questo punto di vista, è il processo sociale di crea­ zione e di riproduzione del senso che avviene all’interno di formazioni so­ ciali, istituzionali e storiche. L’insieme di testi che, confluendo nelle rap­ presentazioni, definisce uno spazio discorsivo, è rilevante in quanto ogget­ to di scambio e di negoziazione intorno a significati intersoggettivamente condivisi. Le rappresentazioni si installano alla base delle pratiche attra­ verso cui si producono e circolano i significati-, sono il risultato di forme di produzione e di consumo, sono legate alla formazione dell’identità, e al tempo stesso sottostanno a varie coercizioni o norme culturali e sociali che determinano, oppure mettono in causa, il processo di interpretazione cui sono sempre sottoposti i significati stessi. Enfatizzare i concetti di discorso e di pratica culturale nell’illustrazione del funzionamento dell’interpretazione di un testo, comporta l’assunzio­ ne che ciascun significato è sempre accolto in un processo, in un contesto d’u­ so, in un gioco linguistico, in una cornice (frante, framework), in altre pa­ role, in una pratica. A sua volta, la pratica è il luogo in cui si articolano ed emergono le rappresentazioni degli oggetti e dei soggetti, il modo in cui ne parliamo, le passioni che ci fanno sorgere, le storie che raccontiamo. Le rappresentazioni costituiscono le forme attraverso cui il linguaggio lavora e si organizza per produrre determinati significati, che a loro volta con­ corrono a costituire i soggetti sociali e gli eventi storici, tanto quanto i fat­ tori materiali o economici. Ciascun insieme di rappresentazioni può con-

Manuale di semiotica 270

correre a definire un discorso, vale a dire a elaborare un tipo di cono­ scenza, un insieme di idee, immagini e pratiche che circoscrivono un ar­ gomento specifico, un’attività sociale o uno spazio istituzionale. Nell’am­ bito del post-strutturalismo si parla inoltre di formazioni discorsive, capa­ ci di delimitare l’ambito di ciò che in un certo contesto e a proposito di una questione o un argomento, è ritenuto utile, appropriato o vero. L’insieme di queste categorie euristiche è inoltre posto al servizio di un’ulteriore mossa critica. Il fatto che un testo o una pratica producano un significato, implica che vi siano degli effetti materiali e politici propri di ciascun sistema di rappresentazioni. In altri termini, la conoscenza pro­ dotta da un discorso, oltre a stabilire forme del contenuto e dell’espres­ sione, regola dei comportamenti, è connessa a forme di potere, definisce identità, soggettività e statuti della corporeità. Poiché i discorsi sono sem­ pre prodotti in un certo tempo e in un certo luogo da certe persone, l’ac­ cento sull’jjpetto discorsivo indica la specificità storica dei regimi di rap­ presentazione. Ciascun discorso e ciascuna pratica va perciò collocato sia nel proprio contesto di produzione, sia nei propri diversi e possibili con­ testi di interpretazione. Ai Cultural Studies non interessa perciò stabilire una gerarchia tra uso e interpretazione, dal momento che sovente sono gli usi, e non le inter­ pretazioni attente alla coerenza interna di un testo, a circolare maggior­ mente nella cultura rendendola un sistema articolato, differenziato e plu­ rale. Non distinguere tra uso e interpretazione non significa però rinun­ ciare a valutare criticamente le formazioni discorsive (e di conseguenza, al­ cune interpretazioni); ad esempio, quelle che delimitano ciò che è «nor­ male» da ciò che è «deviarne», che assicurano un certo significato al fem­ minile rispetto al maschile, al nero rispetto al bianco, all’omosessualità ri­ spetto all’eterosessualità. Ciascuna di queste opposizioni non è infatti fis­ sa e immutabile, bensì è frutto di costruzioni storiche e culturali, è il ri­ sultato di rappresentazioni e di formazioni discorsive a volte anche in net­ to contrasto. Uno dei compiti dell’analisi è allora proprio quello di deco­ struire tali dicotomie, indicando la loro natura discorsiva e semiotica. In altre parole, il testo diviene inscindibile dal contesto che di volta in volta lo interpreta; inoltre, la determinazione e la scelta di un contesto non sono mai operazioni neutre, innocenti, trasparenti o disinteressate. Al con­ trario, sono attività interpretative che contengono una dimensione «poli­ tica». Ogni contesto implica cioè la scelta di valori, di ruoli e di temi che sovradeterminano i soggetti in gioco, e dunque il meccanismo stesso di si­ gnificazione. Il post-strutturalismo e la ricerca dei Cultural Studies provano in altre parole a decostruire e a de-naturalizzare i significati culturali, praticando un movimento incessante di decontestualizzazione e di ricontestualizza-

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zione. Queste mosse indicano in sostanza come i processi di determina­ zione e di indeterminazione del significato siano anche lo spazio per un conflitto di forze: ogni stabilizzazione del significato è sempre relativa e storica, il risultato momentaneo di un equilibrio sempre precario di ten­ sioni opposte. I contesti interpretativi stabiliscono dunque delle regole di competenza, dei criteri di discussione e di consenso. L’analisi in questo modo prova a individuare i meccanismi di costruzione della conoscenza condivisa socialmente, che a volte si rivelano meccanismi di mantenimen­ to, oppure di destabilizzazione di relazioni di potere. Non è dunque un caso che in queste ricerche ricompaia il concetto di ideologia come insieme di discorsi che, costituendo il senso comune, tra­ sforma ciò che è parziale e aperto al cambiamento, in qualcosa di universa­ le, immutabile ed eterno, insomma nella «realtà». Il senso comune così de­ finito non appartiene esclusivamente alla cultura popolare, o a quella che un tempo si definiva «cultura bassa». Qualsiasi orientamento teorico o metodologico, persino quello più legato alla struttura o al funzionamento interno degli apparati e indipendente dei sistemi testuali o culturali, è già il prodotto di una posizione relativa alla storia, alla cultura, alla politica, alle istituzioni, alla classe e all’identità sessuale; vale a dire, è già il prodotto di un’ideologia. Così concepita, l’ideologia non rappresenta una struttura di senso ri­ gida, una griglia di valori immutabile, una «falsa coscienza» politica, ben­ sì l’universo di discorso entro cui singoli individui o gruppi sociali inter­ pretano e riscrivono la loro esperienza, stabilendo i valori che reggono let­ ture e usi dei prodotti culturali per scopi diversi, primo fra tutti l’articola­ zione della propria identità. Resta però l’assunto che, in generale, la co­ noscenza discorsiva non possa essere considerata come il prodotto di rap­ presentazioni trasparenti del reale, ma come il modo in cui il linguaggio ar­ ticola e determina concettualmente condizioni e relazioni reali. Qualsiasi tipo di discorso, comprese le immagini cosiddette iconiche, si regge su co­ dici ed esprime un’ideologia. L’ideologia giunge così a indicare quei pro­ cessi per cui si costituiscono e ricostituiscono le identità, e grazie ai quali i soggetti si fanno agenti di un mondo dotato di senso. ►► 11.1.1. Le domande da porre ai testi

L’insieme di questi concetti pare tracciare percorsi interpretativi mol­ to ampi e generici. Quel che qui ci preme sottolineare, invece, è l’amplia­ mento che ne viene al concetto di testo, messo in gioco da quelli di di­ scorso, rappresentazione e pratiche, oltre che dall’attenzione per gli effet­ ti di soggettività e di identità prodotti nell’ambito di diverse formazioni di­ scorsive.

Manuale di semiotica 272

Vediamo ora le domande che una lettura così concepita può rivolgere ai testi. Abbiamo già constatato come una delle ipotesi di fondo di queste ricerche sostenga che i testi e le rappresentazioni offrano ai propri lettori e consumatori determinate identità e specifiche forme di identificazione. Di fronte, ad esempio, a immagini che sembrano offrire una forma mimetica o riflessiva di rappresentazione del reale (come un quadro «realista» o una fotografia), una lettura così concepita si sofferma sul modo in cui si ottiene l’effetto mimetico: come lavora la rappresentazione in quel testo? Come es­ sa dice quel che sembra dire e come offre al proprio destinatario una posi­ zione con cui identificarsi? Quest’ultima domanda chiama in gioco il livel­ lo enunciativo del testo: come essa invita il proprio destinatario a guarda­ re? Vale a dire, come viene organizzato il suo sguardo in relazione ai signi­ ficati che l’immagine produce? Queste domande vertono peraltro su con­ cetti semiotici di indagine testuale: come si articola l’enunciazione dell’im­ magine, e quali sono le tracce dell’enunciatore? L’analisi si sofferma anche sull’enunciatario, e da questi ai modi in cui viene dunque raffigurato lo spettatore nel testo: come viene costruita la sua identità? Quali figure reto­ riche, quali stereotipi vengono utilizzati, come vengono iscritti e magari tra­ sformati all’interno della rappresentazione? In fondo è un altro modo per dire che i simulacri testuali, in quanto strategie tese a creare effetti di identi­ ficazione e di realtà, rinviano a modelli di identità che vengono negoziati da chiunque consumi il testo. A questo punto il procedimento di indagine te­ stuale fa un passo ulteriore e, accanto all’attenzione per l’organizzazione e per i diversi elementi che compongono una rappresentazione, situa quella per il processo concreto di fruizione testuale: in che modo la posizione so­ ciale e le competenze culturali dei lettori pesano sul processo di interpre­ tazione? In che modo il contesto di lettura influenza la maniera in cui i te­ sti vengono interpretati nell’ambito della vita quotidiana? La convinzione dei post-strutturalisti è che molti di questi elementi ex­ tra-testuali si riflettano nella struttura del testo, in particolare nel mo­ mento della sua ricezione. La ricerca dei Cultural Studies si sofferma così sulle potenzialità sovversive e creative della ricezione: accanto alle posizio­ ni iscritte nel testo, posizioni che offrono modelli di identità, vi è infatti il soggetto sociale che interpreta quelle stesse posizioni, a sua volta influen­ zato da altri testi e altri discorsi. Accanto all'intertestualità compare allo­ ra l’inter-discorsività, che indica come, sottesi al momento interpretativo, vi siano sempre una molteplicità di discorsi che derivano dalla contempo­ ranea collocazione del soggetto in altre pratiche. Il processo comunicativo è così definito come una struttura comples­ sa in cui si possono isolare i momenti della produzione, della circolazione e del consumo, a cui però si aggiunge quello della riproduzione {vale a di­ re della ricezione come momento interpretativo «produttivo»). Tale struttu-

11. Identità, soggettività e genere 273

ra è quindi articolata da un insieme di pratiche, ognuna delle quali ha una sua specificità, una sua forma e le sue «condizioni di esistenza». E in que­ sto senso che il significato è sempre articolato in una pratica entro cui eser­ cita i suoi effetti (pratica di lettura, consumo, citazione, uso particolare). Da ciò consegue l’ipotesi che ogni evento comunicativo acquisti una for­ ma narrativa e discorsiva la quale non è immutabile: il testo così come è sta­ to prodotto non è il testo che viene ricevuto. Lo scarto dipende dalle posi­ zioni di chi produce il messaggio, e da quelle di chi lo riceve e lo interpre­ ta. Il lavoro dell’interpretazione peraltro si esercita a partire da testi che di per sé sono già polisemici, dal momento che ospitano livelli diversi di si­ gnificati denotativi e connotativi. Ma i codici connotativi non sono tutti uguali: ogni cultura tende, in modo diverso e con diverse modalità di chiu­ sura e di apertura, a imporre una propria classificazione del mondo, vale a dire un ordine culturale dominante, e a proporre quindi un insieme di si­ gnificati privilegiati. La produzione così concepita sottintende peraltro un lavoro di testualizzazione complesso, inteso a sollecitare un’interpretazio­ ne che corrisponda, o comunque non si sottragga, al dominio dei signifi­ cati privilegiati e dominanti.

Il dibattito sul post-strutturalismo e sulle ricerche che confluiscono nei Cultural Studies è qui solamente accennato. Innanzitutto, con il ter­ mine post-strutturalismo si indica un’area dai contorni assai sfumati, in cui sono inclusi, ad esempio, i lavori di Michel Foucault (in particolare, cfr. Foucault 1969a, 1969b, 1971, 1975, 1982), di Jacques Lacan (in par­ ticolare cfr. Lacan 1966) e di Jacques Derrida (in particolare cfr. Derrida 1967a, 1967b), ma soprattutto la lettura che di questi autori è stata fatta in ambito anglosassone. Per la ricezione americana di Foucault si veda Dreyfus e Rabinow 1982, per il modo attraverso cui la decostruzione di Derrida è dilagata nell’accademia statunitense si veda invece Culler 1982 e Kamuf, a cura di, 1991. La vastità di tale dibattito, oltre ai rapporti e al­ le reciproche influenze tra post-strutturalismo, semiotica ed ermeneuti­ ca, sono affrontati in Franci e Fortunati (AA.W. 1989). I Cultural Stu­ dies, area di ricerca oggi sempre più frammentata e indefinita, nascono al contrario da una ben precisa tradizione di studi letterari marxisti britan­ nici influenzata dalle riflessioni sull’industria culturale della Scuola di Francoforte, che però i Cultural Studies leggono ridefinendo il concetto stesso di cultura, ed esaltando le potenzialità della cultura popolare (cfr. in particolare Adorno e Horkheimer 1944; Hoggart 1958; Thompson 1963; Williams 1958). Verso la fine degli anni Settanta, Stuart Hall intro­ duce la semiotica nei Cultural Studies, per poi indirizzare le ricerche sul tema delle rappresentazioni e della costruzione testuale dell’identità cul­ ti*

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turale (cfr. in particolare Hall 1974,1980,1997). La storia complessiva di quest’area di ricerca, unita a una discussione sul tipo di impostazione cri­ tica avanzata dai Cultural Studies e sulle metodologie impiegate è illu­ strata in Agger 1992. Grossberg, Nelson e Triechler, a cura di, 1992 e During, a cura di, 1993 tratteggiano invece i campi di applicazione più rile­ vanti su cui si è esercitata la ricerca: dalla cultura popolare alle pratiche quotidiane, dallo studio delle subculture ai problemi di identità cultura­ le, di genere e di etnia. I concetti e le categorie principali utilizzati dai Cul­ tural Studies sono invece riuniti in O’Sullivan et al. 1994, vero e proprio dizionario in cui compare anche una bibliografia delle ricerche compiu­ te soprattutto nell’ambito della comunicazione.

►► 11.1.2.1 processi di testualizzazione della cultura

Nell’insieme di processi che abbiamo descritto si configura un’inter­ pretazione della cultura fondata su processi di testualizzazione. Che si par­ li di discorsi, rappresentazioni o pratiche, si pensa comunque a un insie­ me di significati che è possibile leggere a partire dall’organizzazione dei loro linguaggi. Testualizzare una cultura può quindi voler dire cercare di leggere azio­ ni, rituali e pratiche come se si trattasse di testi, descrivibili grazie a un me­ talinguaggio. Per testo in questo caso si intende il risultato di processi di produzione e di interpretazione che momentaneamente e contingentemente fanno emergere la significazione di una realtà culturale costruita e orga­ nizzata. Considerare le pratiche o altri tipi di prodotti culturali come un testo comporta però alcuni problemi di metodo, in quanto sovente i mo­ delli costruiti a partire dal linguaggio verbale mal si accordano con la so­ stanza dell’espressione e del contenuto dei linguaggi non verbali. Come segmentare dunque la testualità e come considerare l’interazione fra i suoi diversi e possibili linguaggi? A un altro livello, che non esclude quello citato, indicare la testualità di una cultura può voler dire sottolineare come e fino a che punto un te­ sto rifletta, ridefinisca o entri in conflitto con la cultura entro cui viene al­ la luce, fornendone una determinata e specifica rappresentazione: elabo­ rando un testo, contemporaneamente si testualizza una porzione di cultu­ ra. Nel caso, ad esempio, della produzione di un’opera letteraria, se ne propone una particolare interpretazione; nel caso invece di una descrizio­ ne antropologica o di un commento critico, si tratterà di un’interpreta­ zione di un’interpretazione. Sebbene questo processo paia addirittura ov­ vio e scontato, oggi comporta conseguenze esplicite e dichiarate, in quan­ to ciò che la ricerca fin qui esposta contesta, è proprio un insieme di rap-

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presentazioni del corpo e dei soggetti poco attento alle differenze cultu­ rali e alle relazioni di potere insite nelle rappresentazioni stesse. La possibilità di elaborare altre rappresentazioni, altre testualizzazioni di una cultura è così rivendicata in quanto strumento analitico e critico. Se nel caso dell’antropologia e dell’etnografia la direzione è quella che va dal­ la cultura al testo - passaggio per gli antropologi sovente non così sconta­ to - in questo caso il percorso procede dal testo alla cultura in cui esso è venuto alla luce, sia in senso spaziale, sia in senso temporale. In questo pas­ saggio il tentativo è quello di descrivere un’intertestualità che non preve­ da esclusivamente scambi e citazioni tra testi, bensì tra diversi domini di­ scorsivi, diverse tipologie di discorsi, e tra discorsi e pratiche, ripropo­ nendo il dibattito sui confini di un testo. In ogni caso, seguendo tale pro­ spettiva, la comprensione e l’interpretazione dei testi è sempre il risultato di un atto di straniamento, e quindi di presa di coscienza di una distanza, e di un successivo atto di appropriazione, e perciò di riscrittura della sto­ ria e della cultura.

Il modello del testo per lo studio della cultura è utilizzato sia nell’am­ bito dei Cultural Studies, sia in quello dell’antropologia culturale, in par­ ticolare da Geertz 1973, 1995, che definisce la cultura e i rituali che la compongono come una rete di significati stratificati, ispirandosi anche al­ le riflessioni sulla semantica delle azioni di Ricoeur 1986. Negli anni Ot­ tanta ha però inizio una discussione interdisciplinare sul processo stesso di «scrittura della cultura», che mette a confronto antropologi, semiologi, critici letterari e storici sul modo in cui si passa dall’osservazione al te­ sto scritto, e dal testo scritto alla descrizione della cultura che quel testo dovrebbe rappresentare: si vedano a questo proposito Clifford e Marcus, a cura di, 1986; Marcus e Fisher 1986; Clifford 1988. Da un punto di vi­ sta opposto, ma complementare, si situa la corrente statunitense del co­ siddetto Neostoricismo, alla quale aderiscono critici letterari che, par­ tendo da una singola opera, ne costruiscono l’interpretazione a partire da documenti sulla cultura materiale ed economica che circonda l’opera stessa: a questo proposito si vedano le due antologie curate da Franci e Fortunati 1996a, 1996b.

►► 11.1.3. Identità, soggettività e lettore

Soffermiamoci a questo punto su uno dei luoghi più evidenziati dalle questioni e dalle domande appena elencate, vale a dire sull’identità e sul­ la soggettività iscritte e rappresentate nelle pratiche culturali. Parlare di soggetto, della sua scrittura e della sua messa in scena, della sua eventuale

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reinvenzione discorsiva, presuppone l’abbandono dell’idea tradizionale di soggetto come individuo singolare dotato di coscienza, entità autonoma e stabile, fonte originale, indipendente e autentica delle azioni e dei si­ gnificati. Presuppone cioè l’accettazione di alcune posizioni e mosse filo­ sofiche in cui non possiamo inoltrarci, ma che hanno in ogni modo con­ dotto a ritenere che siano i discorsi (i testi e le narrazioni) a produrre i soggetti, a offrire loro le «posizioni» (rappresentazioni, significati) da cui partire per definire le proprie identità e la propria soggettività. Il sogget­ to viene così «assoggettato» al discorso, viene storicizzato. Come abbiamo già sottolineato, la posizione offerta da un testo non è però immutabile: chi legge può sempre riscrivere o reinterpretare i mo­ delli di soggettività e di identità culturale che gli vengono proposti. Da un lato i sistemi di rappresentazione comprendono le pratiche significanti e i sistemi simbolici che ci posizionano in quanto soggetti. Le rappresentazio­ ni sono cioè dei serbatoi di significati attraverso cui la nostra esperienza in generale, e in particolare quella di «ciò che siamo», ma anche di ciò che possiamo essere e divenire, acquista un senso: la produzione di significati e le identità collocate entro e dai sistemi di rappresentazione sono così strettamente interconnessi. Dall’altro, invece, tali posizioni propongono un’identità che, per la sua stessa natura discorsiva, è processuale e sempre costituita entro, e non fuori, dalle trasformazioni dei sistemi di rappresenta­ zione. E in questo senso che ogni discorso risulta socialmente collocato. Non vi sono quindi posizioni dominanti date (produzione), o la riscoper­ ta di un’essenza, di un’esperienza preesistente e condivisa (ricezione), ben­ sì processi di produzione e di interpretazione che ogni volta riscrivono o ri­ narrano un’identità. Identità diviene il nome che assegniamo alle diverse modalità attraver­ so cui siamo collocati e con cui ci collochiamo, nella narrazione della nostra storia e del nostro passato. Di conseguenza, le identità culturali sono i luo­ ghisemiotici di identificazione (per caratterizzare questo processo di iden­ tificazione, possiamo anche parlare di sutura) costruiti nella e dalla storia e dalla cultura. Non un’essenza ma un posizionamento (a positioning), ri­ spetto a confini che definiscono le differenze in relazione a punti di riferi­ mento sempre diversi. La differenza (di genere, di classe, di razza, ecc.) è dunque iscritta al­ l’interno dell’identità, in quanto produzione semiotica di significati e di va­ lorizzazioni che può chiudersi strategicamente. Chiusura strategica che si in­ carna in tutte quelle pratiche (vestimentarie, gastronomiche, musicali, ci­ nematografiche, ecc.), attraverso cui una cultura si autodefinisce, delimi­ tando i propri confini e le proprie norme. A proposito di questi fenome­ ni si può parlare di politiche dell’identità e dell’interpretazione, che non

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rappresentano perciò un conflitto tra soggetti naturali, bensì un conflitto per l’articolazione discorsiva dell’identità che si gioca, in fin dei conti, a li­ vello semiotico. Se l’identità fa riferimento a modelli e sistemi di rappresentazione, la soggettività è quella specificazione dell’identità legata alla percezione e al senso del sé. La soggettività può divenire però il luogo ove si mescolano identità contraddittorie, oppure identità complementari. Anche la sog­ gettività è perciò costituita da processi di significazione e articolata entro il discorso, le ideologie e i sistemi di rappresentazione. In quest’idea di soggettività si congiungono quella di soggetto come luogo della coscienza e di formazione del sé, e quella di soggetto del discorso. L’identità e la soggettività così concepite divengono un modo di concettualizzare le relazioni tra testo e lettore, senza che l’uno o l’altro siano intesi come categorie fisse: i testi producono soggettività (posizioni del soggetto), e nei testi questa soggettività può a sua volta essere spiazzata, sia al momento del consumo, sia da una lettura critica. La «differenza cultu­ rale» (come ridefinizione delle soggettività e delle identità culturali) ri­ sulta così, in primo luogo, un processo di interpretazione culturale che si costituisce a partire da un lavoro sul discorso e sulle sue modalità di enun­ ciazione.

Abbiamo già ampiamente discusso la categoria di lettore nel cap. 6. Per quanto riguarda invece l’ambito discusso in questo paragrafo, è d’obbligo menzionare l’influenza esercitata dalla rivista britannica «Screen», che negli anni Settanta ospita un dibattito ispirato alla riflessione di Althusser 1974 sul rapporto tra soggetto e ideologia, dalle categorie di «interpellazione» e di soggetto avanzate da Lacan 1966, e dalla teoria del cinema e dello spettatore di Metz 1968, 1971. A partire dalla rielabora­ zione di queste nozioni, i Cultural Studies avanzano ipotesi sulle relazio­ ni tra significato del testo e formazione della soggettività. A questo pro­ posito si veda innanzitutto Hall 1974, che gradua i diversi livelli di lettu­ ra, giungendo a proporre il concetto di decodifica aberrante come lettu­ ra antagonista. Successivamente, la riflessione femminista (cfr. in parti­ colare Spivak 1988), e in generale la questione del multiculturalismo (cfr. Taylor 1992), pongono il problema della differenza e delle identità cul­ turali: l’evoluzione di questo insieme di riflessioni è ben tratteggiata in Rutheford 1990; Mills 1994; Woodward 1997, oltre che in Hall 1997, che situa la questione della costituzione delle identità culturali all’interno di un discorso più ampio sulle rappresentazioni e sulle pratiche quotidiane (a questo proposito, si veda anche cap. 9).

Manuale di semiotica 278

11.2. Il «gender» Facciamo ora un esempio che, collocandosi nell’orizzonte metodolo­ gico finora descritto, elabora l’interpretazione dei testi a partire dalla ca­ tegoria della differenza culturale, della soggettività e dell’identità. Occu­ piamoci del concetto di gender (genere), con cui circoscriviamo la costru­ zione sociale delle categorie del femminile e del maschile. Utilizzato in par­ ticolare dalla critica culturale di stampo anglosassone, il gender nasce nel­ l’ambito del femminismo. Ciononostante, vi sono aspetti della riflessione sul gender che possono interessare chiunque si accinga a un’analisi semio­ tica dei comportamenti e delle pratiche culturali attraversati da rappre­ sentazioni del genere femminile. In quanto costrutto culturale, in primo luogo il gender si oppone al sesso, che è invece un dato biologico. Nel gen­ der confluiscono le unità culturali che, storicamente, si sono coagulate in­ torno alle rappresentazioni del femminile e del maschile, definendo i si­ gnificati della differenza sessuale. In altri termini, la categoria di gender permette di evidenziare come la differenza sessuale sia il risultato di un processo di costruzione di senso, che dà luogo a un sistema di rappresentazioni complesso in grado di tra­ sformare il maschio e la femmina della specie umana nell’«uomo» e nella «donna». Il concetto di gender rappresenta e sintetizza così il processo semiotico e storico di definizione della soggettività maschile e femminile. Introdurre questa categoria nell’ambito dell’analisi testuale e cultura­ le ci porta innanzitutto a riflettere sul concetto di langue come sistema uni­ versale e astratto, struttura neutra e indifferenziata. Ricordiamo che la lin­ guistica, e al suo seguito la semiotica, si è costituita a partire da Ferdinand de Saussure come lo Studio del sistema astratto della lingua, non della pa­ rola concreta e assunta in circostanze sociali e culturali determinate. Di conseguenza, la semiotica ha tradizionalmente ignorato le caratteristiche sociali e culturali dei parlanti (di cui si occupa un’altra scienza, la socio­ linguistica). In particolare, la linguistica e la semiotica hanno tacitamente supposto che la lingua e in genere la comunicazione fossero indifferenti al genere. Pensare al significato del genere come qualcosa di culturalmente co­ struito concentra invece l’attenzione su come la differenza sessuale possa intervenire nella sintassi e nella semantica delle lingue, manifestando un simbolismo legato al corpo. A partire dal genere in quanto categoria gram­ maticale (maschile vs. femminile), l’organizzazione del senso inizia a con­ figurarsi non più come un dato puramente arbitrario, bensì come un fat­ tore la cui significazione rinvia a un ordine legato anche alla nostra espe­ rienza corporea. Al genere si può quindi attribuire una valenza semantica

il. Identità, soggettività e genere 279

che determina l’iscrizione linguistica di dimensioni essenziali della nostra esperienza. Questo non esclude che in alcune lingue la divisione tra paro­ le maschili o femminili sia in parte un caso legato all’arbitrarietà del lin­ guaggio; ma è altrettanto possibile leggere queste contingenze grammati­ cali per la carica di significato che esse possono veicolare. Il modo attra­ verso cui il sistema linguistico seleziona alcuni tratti semantici come per­ tinenti per la definizione del genere contribuisce infatti a determinare la nostra interpretazione del mondo, dando forma all’esperienza. Intorno a quest’esperienza, si apre un intero campo metaforico, un deposito di sen­ so potenziale. Esaminare il gender e la sua costituzione semantica porta così ad affer­ mare che la langue non è affatto una struttura neutra e indifferenziata. La differenza sessuale è iscritta nella struttura simbolica della lingua, a ini­ ziare dalla categoria del genere grammaticale, che normalmente viene ana­ lizzata come un dato linguistico arbitrario e immotivato, indipendente da qualsiasi forma di attribuzione di valore. Considerare la costruzione linguistica del genere implica in sostanza iniziare a considerare il modo in cui la lingua iscrive e simbolizza all’in­ terno della sua stessa struttura la differenza sessuale in forma già gerarchizzata e orientata. Nelle lingue indoeuropee il maschile è infatti al tem­ po stesso termine specifico e generale, mentre il femminile è sempre deri­ vato, e si definisce esclusivamente in rapporto al maschile. Quest’ultimo sta a significare l’universalità del genere umano, entro cui vengono ricon­ dotte e annullate tutte le specificità del femminile. In breve, il linguaggio delle società occidentali dà voce a un solo soggetto, apparentemente uni­ versale e neutro, in realtà maschile, all’interno del quale viene ricondotta ogni differenza. Il linguaggio può perciò essere considerato inadeguato e carente nei confronti del femminile: è un sistema che occulta la differen­ za e la rimuove. Il «senso» del genere riguarda perciò l’articolazione del­ l’opposizione tra maschile e femminile: la differenza sessuale, fondando la nostra percezione, e di conseguenza la nostra rappresentazione del mon­ do, presiede l’organizzazione degli universi di senso entro cui il femmini­ le acquista un determinato e preciso posizionamento. Ma quali siano i rapporti tra questa soglia inferiore della semiosi, e i modi in cui si organizza la sua interpretazione; quale la relazione tra il pre­ semiotico, in quanto materia non ancora formata, e i sistemi simbolici di rappresentazione, rimane un problema estremamente controverso. Riflet­ tere sulla costituzione semiotica del gender porta a ipotizzare che il pre­ semiotico intervenga nella strutturazione dei sistemi linguistici e semioti­ ci al suo interno già attraversato dalla differenza sessuale. Questo proces­ so contribuirebbe in altre parole ad assicurare al livello grammaticale del-

Manuale di semiotica 280

la lingua un investimento semantico originatosi da un’opposizione prece­ dentemente già dotata di senso, già simbolizzata. Ma ritenere che la differenza sessuale operi a livello della struttura sim­ bolica del linguaggio non significa che lo stesso processo si riproponga identico nel discorso, sovradeterminando l’uso concreto e particolare del­ la lingua, e definendo una pragmatica specifica della differenza sessuale. Né significa che sia possibile rintracciare un modello di discorso della dif­ ferenza, in cui includere le caratteristiche e le proprietà di un genere fem­ minile distinto da quello maschile, al quale ricondurre singolari meccani­ smi di significazione definibili a priori. Il genere è infatti in primo luogo una categoria sociale, e non solo grammaticale. La ricerca che si è indiriz­ zata verso l’analisi dell’uso concreto del linguaggio ha cercato di identifi­ care una differenza di genere nel modo, ad esempio, in cui donne e uomi­ ni narrano delle storie, partecipano a una conversazione, utilizzano figure retoriche o espressioni idiomatiche. Il punto di queste indagini è quello di stabilire se esiste un «linguaggio delle donne», vale a dire sia un linguag­ gio parlato dalle donne, sia un linguaggio utilizzato per parlare delle don­ ne, contraddistinto, per fare ulteriori esempi, da formule particolari di cortesia, da una diversa aggettivazione, o anche da una certa pronuncia e dall’accuratezza del vocabolario utilizzato. Provando a individuare empi­ ricamente queste differenze, l’attenzione si è concentrata sulle modalità con cui il linguaggio gioca un ruolo particolare nel riflettere, creare e so­ stenere divisioni di genere. Ma il limite di queste ricerche si è rivelato l’a­ vallo di alcuni stereotipi di genere, in altre parole l’esclusione del contesto e delle variabili che intervengono nell’uso concreto di un particolare tipo di linguaggio. La categoria di gender ci aiuta però a considerare con maggior atten­ zione come l’uso dei segni e la produzione di interpretanti ci attraversino, come i loro effetti ci investano passando anche per il corpo, sedimentan­ do abitudini individuali che sono sia il risultato, sia la condizione della produzione sociale del significato. L’esperienza, benché parziale o fram­ mentaria, non l’esperienza pura, bensì l’organizzazione e l’interpretazione delle nostre percezioni, non è così dissociabile dal significato del mondo come del nostro sé, alla cui costituzione contribuiscono i testi, le pratiche e i linguaggi. Introdurre la categoria di genere ci serve così a sottolineare la profonda interdipendenza tra esperienza e significati all'interno del pro­ cesso di costituzione semiotica della soggettività. Il genere si può conside­ rare allora come un’abitudine (inglese habit), come l’adozione di un con­ testo interpretativo entro cui si produce, si trasforma e si negozia il signi­ ficato della nostra soggettività: il genere è una differenza semiotica. In sintesi, i significati relativi al genere sono riconducibili a rappresen­ tazioni sociali e culturali, le quali, a loro volta, sanciscono termini atti a or-

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ganizzare e comprendere le relazioni sociali e culturali. Il genere è una co­ struzione culturale identificabile sia come categoria dell’interpretazione, sia come relazione sociale che informa ogni altra relazione e attività umana. Assumere questa prospettiva comporta inoltre ipotizzare che le carat­ teristiche e le variabili dell’identità di un soggetto influenzino i suoi modi di conoscenza, di accesso, di produzione e di ricezione del discorso. La corporeità, intesa come matrice dell’esperienza, e perciò della costituzio­ ne dei significati individuali e collettivi, si riflette sul piano della testualità, in quanto matrice, funzione e prodotto del discorso. Al tempo stesso, nel corpo come testo, nel corpo sovradeterminato dal genere, si insinuano prospettive di letture plurime, che confondono e dividono i percorsi pos­ sibili della stessa esperienza e della sessualità femminile e maschile. Il ge­ nere può dunque aiutare a interpretare l’iscrizione del soggetto nella cul­ tura, e cioè la sua testualizzazione, rintracciabile nell’insieme eterogeneo dei testi e delle rappresentazioni sociali e culturali.

Il dibattito femminista sulla categoria di gender, oltre a presentare una bibliografia sterminata, ha prodotto e ancora produce posizioni e teorie contrastanti. Inoltre, la riflessione sul gender ha investito molteplici cam­ pi del sapere, dalla filosofia della scienza alla storia e all’antropologia, dal­ la critica letteraria agli studi sui media e il cinema. Non è perciò possibi­ le tentare una sintesi di questo dibattito, sebbene in Eretteli e Sargent, a cura di, 1993 e in Moore, Walby, Chodorow et al. 1994 siano ripercorse le tappe fondamentali e i campi di ricerca principali in cui si è utilizzata la categoria di gender. L’influenza specifica esercitata dal gender nel mondo anglosassone, in particolare nell’ambito della riflessione episte­ mologica e delle teorie della comunicazione, è ben illustrata in Farnham, a cura di, 1987; Hekman 1990 e Rakow 1992. Il modo in cui la critica fem­ minista accoglie voci diverse, mantenendo viva una visione plurale, ben­ ché a volte contraddittoria, è invece esemplificato nel testo curato da Hirsch e Fox Keller 1990. Tra le spaccature più vistose vi è quella che negli anni ha contrapposto una riflessione sul genere di stampo essenzialista ad una di impronta post-strutturalista: a questo proposito si vedano Daly 1978, portatrice di un femminismo radicale ed essenzialista; Alcoff 1988, che discute dei rapporti con il post-strutturalismo, Probyn 1993, che trat­ ta del posto della categoria di gender nei Cultural Studies e il numero 25 della rivista italiana «Memoria» (1989), dedicato alle strategie del fem­ minismo tra Europa e America. A partire dagli anni Ottanta il femmini­ smo si è però scontrato con le posizioni delle donne di colore, che alla ca­ tegorie di gender uniscono anche quelle di razza e di etnia, dando vita a un filone «post-coloniale»: si veda Spivak 1990. Nell’affrontare l’analisi

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culturale secondo una prospettiva di gender, alcune autrici si sono affi­ date anche alla semiotica: si veda in particolare De Lauretis 1984. Un grande peso nell’evoluzione della categoria di gender è rivestito dal di­ battito di area francese, in cui nasce la nozione di écriture femmine, e nel quale spesso la categoria di differenza sessuale sostituisce quella di gen­ der: si vedano in particolare Cixous 1975 e Cixous e Clement, a cura di, 1986, oltre che Kristeva 1969, 1974, autrice che, unendo semiotica e psi­ coanalisi, ipotizza un livello di formazione del senso in cui intervengono il corpo e la juissance, vale a dire il godimento femminile. Per quanto ri­ guarda invece il dibattito sul linguaggio femminile, è d’obbligo menzio­ nare Lakoff 1975, le cui posizioni essenzialiste negli anni sono state sosti­ tuite da ipotesi sempre più costruttiviste. Un buon riassunto dei diversi ti­ pi di posizioni e di ricerche sul linguaggio femminile, da studi sulle diffe­ renze di pronuncia e sul tipo di lessico impiegato dalle donne, ad analisi di conversazioni in diverse famiglie e diverse culture, è contenuto in Talbot 1998. In campo linguistico o strettamente semiotico la bibliografia non è certo ricca: cfr. Irigaray 1987, un intero numero della rivista «Langages» dedicato al linguaggio femminile; Violi 1986, che si pone come uno studio approfondito ed esaustivo delle posizioni del linguaggio femmini­ sta e della possibilità di una semantica influenzata dalla differenza sessua­ le, e Violi, a cura di, 1997, che raccoglie un insieme prezioso d’analisi te­ stuali applicate alla scrittura poetica femminile.

►► 11.2.1. Sul corpo

Fino a questo momento abbiamo saltuariamente utilizzato il termine corpo, sempre accanto ad altre categorie e ad altri concetti. Qualsiasi de­ finizione di corpo è peraltro delimitata e circoscritta da un campo episte­ mologico e culturale particolare. Non abbiamo qui la pretesa di definire il corpo, né, tantomeno, di esaminare i sistemi di significazione che inter­ vengono nella costituzione dei corpi. E importante però evidenziare come il corpo possa essere considerato un particolare tipo di testo, ambivalente, mobile e aperto, al tempo stesso un sistema di classificazione e un ogget­ to governato e disciplinato. La materializzazione dei corpi, processo che include i significati attri­ buiti al corpo e le modalità della sua presentazione e rappresentazione, è infatti spesso il frutto di coercizioni discorsive; contemporaneamente, i modi attraverso cui si interpreta la «materia» dei corpi sovente costitui­ scono alcuni tra i confini principali dell’intelligibilità culturale. Accanto alle forme di rappresentazione del corpo, l’analisi semiotica può guardare alle sue conditions of embodiment, alle condizioni di materializzazione e di iscrizione del senso del corpo. Il corpo ci interessa perciò come limite e al

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tempo stesso come origine dei processi di significazione, per la sua ambi­ valenza in grado di destabilizzare l’unità della soggettività e delle identità culturali. Le società e le culture per secoli hanno letto e scritto i propri corpi; oc­ cuparsi oggi della lettura del corpo significa anche cercare di rendere me­ no familiari queste stesse costruzioni, la naturalizzazione messa in opera da alcuni sistemi di rappresentazione del corpo: non solo quali costruzio­ ni del corpo, ma quale cultura si forma a partire da queste stesse costru­ zioni, quali processi di organizzazione o di riorganizzazione del senso. Il corpo inteso da un punto di vista semiotico è un veicolo, un canale mate­ riale di significazione che pone limiti al discorso stesso, ma che a sua vol­ ta è materializzato dal discorso. Quali sono dunque le influenze e le con­ nessioni tra corporeità e forme discorsive e sociali? Il corpo spesso deborda le discipline e i discorsi che provano a fissar­ lo, a interpretarlo, e magari anche a liberarlo. Il corpo sembra essere sem­ pre in tensione con ciò che prova a dirlo e a spiegarlo. Coscienti di queste trappole, ci preme comunque indicare come in parte sia stata proprio una crisi dei modelli di genere sessuale e l’impatto del femminismo a modifi­ care «l’assetto generale dei corpi», rivendicando la dimensione della cor­ poreità, e storicizzandone le forme tradizionali. Il corpo è così divenuto parte della sostanza e della forma di un’identità, un confine tra forma ma­ teriale della vita e discorso, negoziabile e diverso da cultura a cultura. Si fa così interessante esaminare le modalità attraverso cui la «materialità» e la «corporeità» interagiscono con il linguaggio e da esso sono iscritte, la­ sciandovi delle tracce e producendo determinati effetti: in che modo il corpo o la materialità determinano dei campi semantici e discorsivi, e vi­ ceversa, in che modo il discorso si appropria del corpo. La corporeità su­ bisce infatti successivi processi di semiotizzazione, trasformandosi nel li­ mite non solo materiale che segna lo spazio di costituzione del soggetto. È dunque necessario riformulare la materialità dei corpi in rapporto ai loro effetti di significazione, tenendo ovviamente presente che, parlando della «materia dei corpi», indichiamo norme e codici che a loro volta re­ golano la significazione degli stessi effetti materiali. Se seguiamo questa prospettiva, il sesso e il genere si pongono in quanto norme culturali che governano la materializzazione dei corpi, processo che a sua volta regolamenta pratiche identificatorie e identitarie. Non vi è dunque un’essenza della soggettività che precede l’attribuzione di genere, né il genere si ri­ solve esclusivamente entro giochi linguistici, ma emerge in qualità di ma­ trice di relazioni di genere. In conclusione, affermare che un discorso o una pratica formano un corpo non significa semplicemente ritenere che tale pratica origini, causi o componga esaustivamente ciò che riconosce e descrive. Allo stesso tem-

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po, non vi può mai essere rimando a un corpo puro che non sia già una formazione del corpo. Il riconoscimento e la descrizione ripetuta di un corpo, ad esempio di un corpo sessuato, è ciò che costituisce la sedimen­ tazione e la produzione di un effetto materiale. Anche il non costruito (l’e­ videnza del corporale) non può porsi come materia muta e ottusa, come una sorta di hors texte assoluto, bensì come un confine delimitato a sua volta da una pratica significante.

Come sostiene Gii 1978 nella sua voce enciclopedica dedicata al cor­ po, del corpo non si possono che fornire chiarimenti frammentari, de­ terminati peraltro da campi epistemologici e culturali particolari. Dei corpi si è occupata la scienza, la filosofia, l’antropologia; il corpo richia­ ma i gesti, la fisiognomica (a questo proposito cfr. Magli 1996) e la pros­ semica. In Galimberti 1983 è sintetizzata la discussione che, a partire dal­ la filosofia greca e dalla divisione tra anima e corpo, ha condotto alla con­ cezione occidentale del corpo e dell’incarnazione del sapere. Recente­ mente però il corpo ha iniziato a interessare da vicino i sociologi e i criti­ ci culturali, attenti soprattutto alla costruzione sociale e quindi semiotica dei corpi, e alla loro rappresentazione culturale. Si veda a questo propo­ sito Featherstone, Hepworth e Turner, a cura di, 1991, una raccolta di saggi comparsa sulla rivista «Theory, Culture & Society» che riunisce al­ cune riflessioni e un’ottima bibliografia sul corpo come processo sociale e culturale. Sulla stessa scia si collocano anche Scott e Morgan 1993. An­ che la riflessione femminista ha posto al centro il corpo, inteso non solo come oggetto costruito culturalmente, ma come luogo in cui si ancorano il pensiero e la conoscenza stessa: cfr. Bordo 1993, Butler 1993 e Welton 1998, un’antologia in cui sono raccolti i saggi più importanti di questo di­ battito su corpo, conoscenza e rappresentazioni. In campo semiotico, so­ no invece le riflessioni sull’enunciazione e sul rapporto tra sensi, discor­ so e figure ad aver prodotto le prime riflessioni sul corpo come trasdut­ tore e come matrice di significazione: si vedano Costantini e DarraultHarris 1996 e Marsciani 1999a.

11.3. Desiderio e piacere Nel corso di questo libro abbiamo già parlato di passioni (§ 4.10) e ab­ biamo accennato alla tematica del sensibile (§§ 7.1,7.2); nelle pagine pre­ cedenti abbiamo invece accennato alle categorie di identità, di gender e di corpo. Abbiamo inoltre potuto constatare come questo insieme di con­ cetti converga sulle modalità di iscrizione della soggettività testuale. Pro-

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veremo ora ad approfondire questo processo attraverso il concetto di de­ siderio, termine di recente introdotto nella pertinenza semiotica. Introdurre il desiderio tra gli strumenti di comprensione dei testi non significa però indirizzarsi verso le modalità attraverso cui il desiderio vie­ ne raccontato. Non ci interessa semplicemente considerare come, ad esempio, un romanzo o un film mettano in scena la narrazione di un in­ namoramento, entro cui, peraltro, si riuniscono ruoli tematici e configu­ razioni passionali complesse. La categoria del desiderio è utile invece per­ ché ci aiuta a esplorare ulteriormente i meccanismi stessi della narrazione e quindi il legame tra testo e lettore; in generale, perché illumina alcuni aspetti dei processi di produzione e soprattutto di ricezione del senso. Il li­ vello di indagine semiotica aperto dalla categoria di desiderio conduce in­ fatti al piacere che possiamo trarre da un testo, e dunque al suo potere di seduzione-, quali valori desiderabili un determinato testo è in grado di crea­ re, oppure di riprodurre? Quale tensione narrativa lo regge, sollecitando o favorendo quale processo di identificazione? Possiamo dunque identificare il meccanismo del desiderio come uno dei nodi principali del percorso di lettura di un testo. In tale percorso, trovano posto tutte quelle pratiche che possono, alternativamente, interpretare o usare un testo. Nel primo caso pratiche che aderiscono alle strategie del testo, conducendo il lettore a identificarsi con il mondo e i personaggi rap­ presentati. Nel secondo, pratiche che trasformano e manipolano il testo stesso. In ogni caso, mosse interpretative che, insieme al senso, possono produrre piacere. Seguendo questa prospettiva, in un testo cercheremo quelle strategie narrative e discorsive che conducono alla seduzione del let­ tore, mettendolo ad esempio a confronto con determinati modelli di ge­ nere e di soggettività. Non vi è però un livello testuale privilegiato, e il let­ tore può essere sedotto dallo schema narrativo come dallo stile enunciazionale, dal suo allestimento figurativo o dalle procedure di tematizzazione. Quel che importa è che alcuni elementi testuali sono variamente in gra­ do di regolare l’identificazione e la sutura del lettore con il testo. In questo modo, la ricezione, godendo più o meno del testo, desiderandolo, trasfor­ mandolo, lo muta da oggetto inerte in una relazione sociale e culturale. Dobbiamo perciò trattare la ricezione come un luogo complesso, che include un lavoro percettivo articolato da più canali e più codici. Pensia­ mo alle nostre letture quotidiane, o alla visione di pellicole o di telefilm. Alla base dell’atto di comprensione sotteso alla nostra fruizione, luogo se­ miotico fondamentale attraverso cui individuiamo e costruiamo il senso dei testi, vi è sempre della sorpresa, della meraviglia, oppure dell’indiffe­ renza o del disgusto. In altre parole, accanto alle passioni rappresentate, vi sono le passioni del lettore e dello spettatore che influenzano profon­ damente la sua comprensione del testo.

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Esaminare un testo dal punto di vista del desiderio, vuol dire in sinte­ si analizzare il modo attraverso cui quel testo costruisce la sua lettura, ac­ celerandola, dilazionandola, intrigandoci o annoiandoci. Ogni testo pro­ duce infatti un ritmo del proprio racconto che si accorda o che sollecita un desiderio di lettura. Un esempio fra tutti è quello del meccanismo del­ la suspence, presente nei film d’azione come nei romanzi gialli, capace di regolare la fruizione secondo la paura e il piacere. ►► 11.3.1. Il desiderio del racconto

Posto dunque che i nostri rapporti con i testi siano influenzati dal mec­ canismo del desiderio, come individuarlo? Il meccanismo del desiderio comprende sempre un’attribuzione di valore: desideriamo ciò che per noi ha un valore. Un testo in grado di sedurre è quel testo che innanzitutto sa creare, oppure suscitare, un valore adeguato al suo lettore. Ma un valore, insieme al desiderio che suscita, nasce nella tensione tra una mancanza e un piacere: desideriamo ciò che non abbiamo e a cui attribuiamo valore, e, quando lo otteniamo, proviamo piacere. La mancanza si configura così come la condizione prima del desiderio. Ma la mancanza è anche la con­ dizione prima della narrazione, della relazione che lega un soggetto a un oggetto di valore, uniti da un programma narrativo di congiunzione o di disgiunzione. Il desiderio è ciò che fa incominciare il racconto. L’iscrizione del desiderio nel racconto si nasconde dunque nella strut­ tura semantica di ogni narrazione, costituita dal movimento di un sogget­ to verso un oggetto di valore. Il movimento di una forma narrativa, che si guardi ai generi letterari o ai discorsi sociali (tra cui la pubblicità), è sem­ pre quello di un passaggio, di una trasformazione messa in moto da un de­ siderio che coinvolge un soggetto e un oggetto di valore. Ma il desiderio è anche ciò che fa incominciare la lettura. Discutendo dell’interpretazione, avevamo infatti evidenziato come ogni testo fosse un nodo di tracce e di indizi più o meno evidenti. Pensiamo al movimento in­ terpretativo che definiamo abduzione, in cui partendo da alcqni indizi ri­ saliamo alla comprensione del tutto, riempiendo i vuoti dell’intreccio, completando le allusioni, disambiguando le suggestioni disseminate nel testo. Non a caso si parla di intreccio, tessuto che collega più tracce entro le maglie di un racconto. L’intreccio ordina e connette gli elementi di una storia, ma al tempo stesso, oltre a lasciare sempre degli spazi bianchi, com­ pone un testo che rimanda a un tempo e a un autore sempre assenti. L’at­ to di leggere costituisce in questo modo un soggetto (il lettore), e due og­ getti: l’uno presente (il testo stesso), e l’altro assente (l’autore). Un testo, mettendo in scena una mancanza, implica una lettura che parte da un de­ siderio e si dirige verso la soddisfazione di un piacere, entro un movimento di appropriazione del testo stesso.

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Partendo dal modo in cui un testo è stato scritto, dalle strutture su cui si regge, dalle strategie che mette in atto, dal modello di autore che pro­ pone, in breve dai suoi effetti di senso, possiamo allora ipotizzare la natu­ ra del piacere che informa le pratiche di lettura che lo accolgono. Un esem­ pio già accennato è quello della lettura ingenua e della lettura critica, due estremi entro cui si dispiegano molte altre sfumature e pratiche di lettura/piacere del testo. Vi è dunque il piacere della lettura ingenua, che na­ sce dal seguire l’intreccio, succube della pressione del racconto verso la sua estinzione. E vi è il piacere della lettura critica, che si sofferma sul lin­ guaggio e lo stile del testo, che gode delle sue strategie, riconoscendo le ci­ tazioni e i rimandi, soffermandosi e ripercorrendone le descrizioni. In ogni caso, stiamo parlando della lettura che rende ragione del testo, della possibile sutura del lettore al testo, delle diverse forme della sua ade­ renza'. del modo in cui può introdursi nel testo per il suo piacere di iden­ tificarsi in un ruolo o in un mondo. Il piacere è quindi unito alla capacità che un testo possiede di sortire determinati effetti: in che modo l’istanza della scrittura lavora per il piacere del lettore? Che cosa domanda al let­ tore? Chi gli chiede di essere? Quali competenze pretende che egli abbia, ovvero quali competenze gli fornisce o gli suggerisce? Va però specificato che parlando di effetti testuali e delle forme di piacere che tali effetti so­ no in grado di suscitare, facciamo riferimento a degli oggetti culturali. È per questa ragione che un piacere può essere costruito, differenziandosi e opponendosi ad altri piaceri, seguendo il meccanismo attraverso cui si crea ogni forma del senso. Quel che in ogni modo ci interessa è sottolineare come, seguendo tale ipotesi, la produttività di un testo riguardi in primo luogo i processi di for­ mazione del soggetto. Ogni testo pone il proprio fruitore in una determi­ nata posizione di conoscenza/identificazione. Ma tale posizione, ovvia­ mente, non è mai del tutto automatica o facilmente determinabile, non è mai, cioè, un’adesione del tutto istintiva e «naturale». La discontinuità che caratterizza ogni processo di identificazione è ben illustrata dalla catego­ ria di sutura. La sutura indica infatti una cucitura, un atto di ricomposi­ zione, proprio come avviene nella congiunzione chirurgica delle due lab­ bra di una ferita. Nel caso della congiunzione di un lettore e di un testo, la sutura indica il doppio movimento che costituisce la relazione del testo stesso con lo spettatore. In questa relazione, a un primo momento in cui chi fruisce il testo si perde totalmente nella narrazione e, nel caso di un film, nelle immagini, segue la coscienza dei limiti del testo stesso, del suo essere incorniciato, di possedere dei bordi ben determinati. La sutura in­ dica quindi la coincidenza spezzata, la discontinuità che si cerca di annul­ lare nell’identificazione, mossa dunque dalla mancanza, dalla non coinci­ denza della rappresentazione con la realtà.

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Piacere e desiderio, benché ampiamente trattati in ambito filosofico e psicoanalitico (cfr. in particolare Lacan 1966), fino ad ora non hanno tro­ vato posto nella riflessione semiotica, ad eccezione di Barthes 1973, che tratta del piacere della scrittura e del godimento del testo e di Greimas e Courtès 1979, che dedicano al desiderio un breve spazio nel loro dizio­ nario di semiotica. Nell’ambito dei Cultural Studies, il piacere è invece divenuto una categoria fondamentale dell’analisi della cosiddetta «popular culture», giungendo a indicare tutti quegli usi testuali «resistenti» che sovvertono i significati dominanti iscritti, ad esempio, nella programma­ zione televisiva: si veda Fiske 1989a, 1989b. Anche la critica femminista ha introdotto e a lungo dibattuto la questione del piacere rispetto alla ri­ cezione dei testi culturali, in particolare per quanto riguarda la fruizione di testi visivi e cinematografici, nell’ambito dell’elaborazione di una «teo­ ria dello sguardo»; si veda innanzitutto il saggio di Mulvey 1975, a cui ri­ spondono i lavori di Doane e Mallencamp 1984 e di Doane 1991; ma si veda anche De Lauretis 1996, che riunisce tradotte in italiano alcune ana­ lisi su desiderio e cinema e Cavarero 1997, che propone invece una «fi­ losofia della narrazione» in cui al centro vi è il desiderio di raccontare e di essere raccontati. Le ipotesi avanzate dalle autrici femministe, rifacen­ dosi in parte alla psicoanalisi lacaniana e a nozioni quali quella di «sutu­ ra» (cfr. Oudart 1969), elaborano le caratteristiche della «spettatrice fem­ minile» e del piacere voyeuristico e feticistico che scaturisce dalla visione/identificazione con le immagini in movimento. Il tema dell’iscrizione del desiderio nel linguaggio e nelle narrative in generale inizia però ad es­ sere trattato anche al di là di ricerche femministe applicate al cinema: Harvey e Shalom, a cura di, 1997 è un’antologia che riunisce lavori di lin­ guisti, critici culturali e letterari e analisti della conversazione impegnati nell’analisi di testi verbali al cui centro vi sono l’intimità, la sessualità e l’amore, in breve, la costruzione del desiderio.

►► 11.3.2. Le posizioni del soggetto

Il desiderio non è perciò solo un investimento tematico da situarsi a li­ vello del contenuto, ma un meccanismo che opera all’interno della logica del racconto, a cui rispondono le diverse logiche della ricezione. Esplora­ re il desiderio vuol dire esplorare il lavoro stesso del meccanismo narrati­ vo, la natura dei processi che strutturano o destrutturano la produzione semiotica: che cosa sortisce e produce un testo narrando? È in questo sen­ so che l’attività di produzione testuale si estende al processo di ricezione, nel momento in cui si fa esperienza del testo, senza cui non vi è piacere, ma nemmeno senso. Facciamo ora un passo ulteriore. Sottolineare il momento della ricezio-

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ne conduce inoltre a considerare la natura del rapporto tra narrazione e soggetto fruitore: il suo coinvolgimento, la sua dipendenza o la sua sovver­ sione nei confronti dei significati che le/gli sono proposti. Tornano qui gli effetti trasformativi prodotti nei processi di lettura e nelle pratiche di scrittu­ ra, a cui abbiamo accennato nel paragrafo dedicato alla ricerca dei Cultu­ ral Studies. Tali effetti, coinvolgendo il lettore e il suo desiderio, interven­ gono nella formazione della sua stessa soggettività. In altre parole, l’ipote­ si è che il processo narrativo sotteso a un testo coinvolga la soggettività del lettore, che si costituisce a partire dai meccanismi stessi della narrazione. Seguendo una narrazione e facendola nostra, riconoscendola, ci tro­ viamo infatti automaticamente coinvolti in certe posizioni di senso e di de­ siderio. La produttività di un testo, l’insieme dei suoi effetti, il movimen­ to della narrazione, ci spostano e ci collocano in determinate posizioni del­ lo spazio dell’intreccio, posizioni che sono sature di senso. Compito dell’a­ nalisi sarà allora quello di individuare con quali posizioni si identificano i lettori o gli spettatori di un testo. Un esempio ricavato dall’analisi dei film riguarda la creazione del pun­ to di vista dello spettatore, inteso come l’insieme delle possibilità di iden­ tificazione di cui chi fruisce dispone, in specifico nel cinema narrativo. L’i­ potesi è che il testo filmico (ma è un esempio che può valere anche per al­ tri tipi di testi), offra al suo spettatore una serie di posizionatiti identifica­ tone (subject positions), collegate da una grammatica narrativa. La narra­ zione, in altre parole, lungo l’intreccio dispiega una serie di elementi (te­ mi, valori, passioni, strategie enunciative), che coinvolgono il soggetto spettatore nel testo. Dispiega cioè un insieme di posizioni del soggetto e per il soggetto. Vediamo come. Ogni testo filmico impone una successione di immagi­ ni che non sono mai del tutto neutrali o immediate: ogni scena e ogni mo­ vimento sono frutto di un’inquadratura, di un’impostazione, di una cen­ tratura. Grazie alla prospettiva che ciascuna immagine propone, al punto di vista che suggerisce e dunque all’osservatore che costituisce (cfr. § 7.1), 10 spettatore è vincolato a un posto, a una posizione di sutura che diviene 11 fulcro di quell’immagine, e di conseguenza il punto di contatto con lo spettatore. In altre parole, questa posizione è ciò che permette allo spetta­ tore di completare l’immagine, di terminare il «montaggio» della scena. Lo spettatore si trasforma così nel soggetto dell’immagine. E grazie a questo processo che l’immagine contribuisce a quell’operazione di riproduzione della vita che ciascun testo filmico opera insieme allo spettatore. Se egli non entra nel testo e non diviene soggetto delle sue immagini, non vi è al­ cun movimento del desiderio e quindi, come abbiamo già ribadito, alcun orientamento del senso. La riproduzione della vita perde la sua coerenza, e il testo resta muto. Volendo considerare la posizionalità del soggetto of-

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fetta da un testo bisogna perciò immaginare che, paradossalmente, chi si muove nel film è lo spettatore, benché egli resti immobile al suo posto, av­ vinto in un continuo spostamento e posizionamento del desiderio. Ma il movimento e lo spostamento di uno spettatore apparentemente immobile, il suo passaggio attraverso il testo, sono ovviamente regolati dalla grammatica narrativa che diviene la saldatura di spazio e spettatore. Lo spettatore è dunque mosso, e allo stesso tempo trattenuto, in una coe­ renza di senso e di visione. Il movimento narrativo che articola la visione si dota inoltre di un piano enunciazionale entro cui la seduzione del film diviene sempre più evidente. Questo piano riguarda principalmente il re­ gime e l’orchestrazione degli sguardi che regolano la visione di un film: lo sguardo della macchina da presa, lo sguardo dello spettatore e lo sguardo intradiegetico di ciascun personaggio. Ognuno di questi sguardi non esi­ ste senza l’altro: la macchina da presa propone una prospettiva a cui ri­ sponde lo sguardo dello spettatore, il personaggio viene a sua volta guar­ dato dalla macchina, e quindi dallo spettatore, e così via. Questi sguardi si mescolano e si sostituiscono a vicenda in un sistema che struttura la vi­ sione e il senso stesso del testo. Il regime di sguardi definisce così un’im­ palcatura su cui si sorregge l’identificazione del soggetto, in cui si combi­ nano il piacere della visione e quello della narrazione. La possibilità del piacere, come abbiamo visto strettamente connessa alla questione del de­ siderio (desiderio di sapere, di vedere e anche di ammirare), in questo mo­ do si correla drappello che il testo rivolge allo spettatore e alla sua sog­ gettività, alle possibilità che gli offre di identificarsi nel e con il film. Ma gli effetti di piacere di un testo filmico, insieme alle posizioni che offre al proprio spettatore, possono anche derivare dalla sua capacità di intrattenimento e di evasione, o dal suo interesse considerato da un pun­ to di vista critico. In ognuna di queste possibilità, che vanno dal piano del­ l’espressione a quello del contenuto di un testo, si cela un potenziale mec­ canismo di identificazione, e quindi una posizione del soggetto. Gli schemi o le possibilità di identificazione iscritti in un testo possono inoltre riguardare sia lo spettatore come individuo, sia come appartenente a un gruppo, a un cultura, o a una nazione. Se pensiamo alla costruzione dello sguardo (piano dell’espressione), e quindi a una tecnica cinemato­ grafica che coinvolge lo spettatore dentro la scena, l’appello sarà per lo più individuale. Se pensiamo invece ai contenuti, ad esempio ai film di Alber­ to Sordi o di Paolo Villaggio, l’appello è innanzitutto a un gruppo cultura­ le in grado di riconoscere e di ironizzare sull’«italianità» messa in scena. Ma anche il genere (genre) a cui un film fa riferimento, che sia d’avventura, una commedia o un western, assolve a questa funzione di identificazione. Un genere infatti propone delle modalità di visione attraverso cui la soggetti­ vità dello spettatore viene coinvolta nel processo di attribuzione di un sen-

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so del testo, da cui sarà più o meno sedotta. In questo processo entrano per­ ciò in gioco piacere e senso, in grado di stabilire i termini dell’identifica­ zione, oltre che di orientare il movimento del desiderio. ►► 11.3.3. Fruire il gender

Passando dal cinema alla televisione, consideriamo ora un esempio trat­ to da ricerche sull’audience femminile, incentrate sul modo in cui il pub­ blico usa un testo e sullo specifico piacere che ne trae. La categoria del gen­ der in questo caso è considerata la chiave di una corretta comprensione delle relazioni tra una forma testuale come quella di un genere televisivo, e le specifiche competenze culturali delle spettatrici. Dal piano del testo ci spostiamo quindi al suo contesto d’uso, e perciò alle relazioni che posso­ no intercorrere tra genre (genere testuale) e gender (inteso qui come insie­ me di variabili culturali che informano le pratiche di consumo di un testo). Un genere, inteso come genre, divenuto ormai classico per questo tipo di analisi è la soap opera, forma narrativa spesso descritta come intima­ mente legata alla cosiddetta «cultura orale femminile». Questa cultura comprenderebbe un insieme di pratiche informali che condivide con la cosiddetta «cultura popolare», tra cui racconti e canzoni, chiacchiere e pettegolezzi. Allo stesso tempo, la soap opera presenta un’organizzazione discorsiva che richiama le forme della cultura orale femminile: una simili­ tudine di topic («storie di donne»); la molteplicità degli intrecci disposti in ordine non gerarchico; una struttura narrativa contraddistinta da una mancanza programmatica di finale. Nelle soap, gli argomenti trattati sono vari e molteplici, in continua definizione, senza un vero e proprio inizio o una fine. La soap opera condividerebbe in sostanza con alcune forme del­ la cultura femminile una struttura, che nel testo televisivo si specifica nel clima di intimità che si viene a creare con i personaggi del racconto, nei modi di espressione confidenziali e poco letterari, oltre che nell’atmosfe­ ra di chiacchiere e pettegolezzi. Le ricerche che hanno analizzato il con­ sumo di tale genere si sono così concentrate sui meccanismi di piacere e di identificazione delle spettatrici con i ruoli attanziali, attoriali, tematici e patemici messi in scena dal testo. Ma sovente questi ruoli, ispirati al me­ lodramma, dipingono personaggi femminili tormentati e passivi, quando non infingardi e crudeli. Posto dunque che abbia luogo un meccanismo di identificazione, in che senso si può parlare del piacere di riconoscere ruo­ li o modelli di soggettività apparentemente non gratificanti e vincenti, so­ vente tormentati e in crisi? Alcune ricerche ipotizzano che si tratti di un piacere legato al desiderio di vivere «pienamente» attraverso la finzione ruoli spesso negati nella vita quotidiana. Le spettatrici, in altre parole, si concedono di sperimentare delle crisi fittizie e di negoziarle, indugiando

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nel piacere di assaporare il dolore e la nostalgia per qualcosa che assomi­ glia alla vita, ma è finzione. La posizione del soggetto proposta dal testo non è certo positiva, ma l’identificazione non avviene con un personaggio reale o con un’immagine realistica, bensì con la costruzione testuale di possibili declinazioni del femminile. La finzione offre uno spazio perso­ nale, privato e non troppo restrittivo entro cui posizioni del soggetto so­ cialmente inaccettabili o impossibili, troppo pericolose o troppo rischio­ se, possono essere adottate o anche solo fantasticate. Assumendo tempo­ raneamente tali ruoli nello spazio della finzione, si evita ogni sanzione so­ ciale sull’identità che si sperimenta. L’analisi del consumo di soap opera, in altre parole, ha permesso una lettura in termini di «problema dei ruoli di genere». Ulteriori ricerche in questo campo hanno evidenziato come, proprio tramite il confronto tra X'intentio operis e le proprie esperienze, le donne giudichino e riqualifi­ chino la loro vita, non solo dunque identificandosi, ma anche distanzian­ dosi dalle posizioni del soggetto che il testo propone. Il processo di con­ sumo si delinea come un vero e proprio atto di appropriazione, attraverso cui le donne valutano e regolano il loro godimento proprio a partire da un prodotto di quella società che solitamente le relega a un ruolo subordina­ to. Questo particolare tipo di piacere può essere meglio compreso se visto in relazione al contesto di consumo in cui la soap viene fruita, vale a dire se viene reinterpretato nei termini di pratiche specifiche del discorso fem­ minile. Tale discorso comprende delle forme di interazione che permetto­ no alle donne di confrontarsi sulle proprie opinioni, dando valore ad ar­ gomenti considerati banali, all’interno di un gruppo che ne condivide gli interessi. Un ulteriore motivo di godimento deriverebbe perciò dal rico­ noscimento reciproco tra il gruppo e l’individuo, basato su una comu­ nanza di interessi. Si tratta allora di un consumo produttivo che produce sia piacere, sia appartenenza a un gruppo di «uguali», oltre che veri e pro­ pri testi nei termini di discussioni, arricchimenti e approfondimenti dei contenuti narrativi. Le soap opera considerate come testi si configurano dunque come il prodotto non tanto di letture individuali e isolate, quanto di costruzioni collettive, di letture di collaborazione condotte da piccoli gruppi, in cui si sviluppa l’abitudine di contare l’una sull’altra, per compensare la manca­ ta visione, o la parziale comprensione di alcuni episodi. Il piacere della soap opera - spesso considerato ingenuo per la sua approvazione degli ste­ reotipi del genere melodrammatico, o addirittura reazionario per il tacito consenso accordato ai suoi contenuti - si rivela sovversivo all’interno del­ le pratiche di gestione e di manipolazione di questi stessi contenuti, che si ridefmiscono nelle relazioni sociali di gruppo. In questa gestione privata del testo, un altro aspetto riguarda il rico-

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noscimento del ruolo della donna, che avviene tramite la legittimazione delle tematiche femminili articolate dal testo. Le donne si riconoscono nel­ la competenza e nell’abilità che viene loro accordata dalle rappresenta­ zioni testuali, innanzitutto rispetto alla gestione della sfera delle relazioni interpersonali, un terreno comune nel quale possono confrontarsi su pro­ blemi e sentimenti che tutte condividono. In questo caso, si può allora so­ stenere che il testo offre loro delle posizionatiti identificatone riferite prin­ cipalmente a un’identità di genere. Il piacere del consumo non deriva così soltanto dalla struttura seriale delle soap, che si accorda facilmente con la fruizione frammentaria e di­ stratta a cui sono costrette le donne dal ritmo del lavoro domestico, ma anche dai contenuti della narrazione, che valorizzano appieno le loro competenze e, riconoscendo i loro problemi, li legittimano. A causa dei bi­ sogni che crea in termini di letture collettive, questo tipo di testo ha un po­ tenziale considerevole per raggiungere il mondo dei suoi fruitori, e per agi­ re nel contesto di consumo come punto di riferimento da cui valutare le proprie esperienze. La maggior parte delle ricerche condotte sulle soap opera dimostra per­ ciò la tendenza delle audience ad apprezzare e trarre piacere non dalle sin­ gole porzioni del testo, ma da una fruizione assidua e continuata del ge­ nere soap opera. Di questo genere apprezza non solo i contenuti, le tema­ tiche e le strutture narrative, ma anche la rilevanza sociale, in quanto ma­ teriale con cui confrontare le proprie esperienze di vita, a partire da una distanza critica che non sottovaluta però il piacere di un coinvolgimento emotivo.

Le prime ricerche sul consumo femminile del genere soap opera na­ scono negli anni Ottanta: si vedano Brunsdon 1981, incentrato su «Crossroads», soap opera britannica e Ang 1985, in cui si discute dell’immagi­ nazione melodrammatica femminile e delle spettatrici di Dallas, argo­ mento ripreso anche in Ang 1996 e ampliato con analisi di altri pro­ grammi statunitensi. Questo tipo di ricerche ?si vedano anche Brown

1990; Seiter, Borchers, Kreutzner e Warth, a cura di, 1989 e Geraghty 1991) incentrato sui rapporti tra consumo televisivo e cultura femminile, si inseriscono di fatto nei cosiddetti Audience Studies-, per una storia di questo campo di ricerche e delle reciproche influenze tra Audience Stu­ dies, Cultural Studies e critica femminista cfr. Grandi 1992. Con questo paragrafo abbiamo voluto brevemente descrivere un esempio di ricerca su quelle pratiche di consumo in cui interviene espli­ citamente l’elemento del «piacere del testo». Come abbiamo già eviden­

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ziato nel paragrafo sul concetto di gender, il limite di queste ricerche è quello di ipotizzare una «cultura orale femminile» facilmente definibile e delimitabile, ma soprattutto estendibile a ogni membro di tale ipotetica cultura. Chi voglia approfondire le ricerche a cui abbiamo accennato cfr. Hobson 1982. In ogni caso, la critica femminista ha introdotto negli Au­ dience studies, e in generale nelle analisi sulla televisione, la questione del­ le comunità culturali che fruiscono il testo trasformandolo e adattando­ lo, provando così a unire le strategie di un genere testuale con le tattiche proprie delle pratiche di lettura. Per ulteriori esempi, che non chiarisco­ no i limiti di una ricerca così concepita, ma forniscono spunti interessan­ ti, si veda Brown, a cura di, 1990. Per chi intenda invece approfondire il ruolo della variabile di genere nell’ambito della ridefinizione dei pubbli­ ci non solo televisivi, segnaliamo Ang 1996. Con queste analisi ci allonta­ niamo sempre più da una metodologia semiotica, e ci addentriamo in un campo che, per indagare le pratiche di consumo, utilizza l’etnografia e il metodo dell’osservazione partecipante, corredato da interviste in profon­ dità: tra i primi a elaborare questo tipo di indagine vi è Morley 1989.

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Indice analitico

A abduzione, 138-39. accordo fiduciario, 133. adesione fiduciaria, 149. afasie, 39. affordance, 172. aggregativa (cultura orale), 184. agonistica (cultura), 184. aiutante, 101,106. allitterazione, 74,212. amalgama, 68. anacoluto, 212. anaforici, 120-21. anaforizzazione, 162. analessi, 82. analisi componenziale, 50. analitica (cultura), 184. analogico, 26. antisoggetto, 96. apertura del testo, 127, 129. apertura/chiusura del cor­ po, 181. appello, 290. appello diretto, 128. arbitrarietà, 29-32,168. architettura, 251.

arco drammatico, 79, 99. arti figurative, 250. aspetto dichiarativo, 36. aspetto relazionale, 36. asse del processo, 38-40, 60,62, 109-10. asse sintagmatico, 37. assiologia, 161. assiologizzazione, 113. atlante, 100. aitante osservatore, 163. atteggiamento fruitivo, 128. atteggiamento proposizio­ nale, 87, 121. atti linguistici, 200. attori, 100. attorializzazione, 111. attribuzione di valore, 59. attualizzazione, 95, 97. autore, 195-96. autore modello, 130-31, 133.

B biplanarità, 43. bit, 7.

C canale, 13. canone, 75. catacresi, 212. categorie semantiche, 109. chat, 192. cinema, 260-61. cinesica, 179. circolo ermeneutico, 136. circostanze di enunciazio­ ne, 142. codice, 13,30,71. codici iconologici, 169. codici secondi, 170. coerenza semantica, 66. commissivi (verbi), 201. commutatori, vedi shifters. competenza, 65-66, 97, 101,105-6,128, 142. competenza intertestua­ le, 144. comportamentali (verbi), 201. comprensione, 47. comunicazione, 3, 16, 61, 199. comunicazione azienda­ le, 178.

* In questo indice sono riportate solo le occorrenze più significative dei termini di rilevanza semiotica.

Indice analitico 322 comunicazione non verba­ le, 176. comunicazione politica, 246. comunità virtuale, 197. conativa (funzione), 14. concatenazione testa-a-coda, 96. conforme (sistema), 44. congiunzione, 102. connotazione, 34. constatativa, 200. consumo produttivo, 292. contatto, 13. contesto, 13-14,203. contraddittori (termini), 55. contrari (termini), 55. contratto, 97-98,100,104. contratto di lettura, 154. contrazione, 84. conversazione, 201. cooperazione interpretativa, 132. corpo, 222,282. cromatiche (categorie), 253. cultura, 214, 216. Cultural Studies, 269.

D débrayage, 118-19, 161-62. decodifica aberrante, 127. decostruzione, 155. découpage, 65. deduzione, 138-39. default value, 143. deissi, 56. deittici, 118, 120. denotazione, 34. descrizione, 164. desiderio, 285,288-90. destinante, 100. destinatario, 5, 13, 100, 166. dialogo, 183,201. didascalie inteme, 258. differenza, 32-33. digitale, 27. diretta televisiva, 191. discorsivo (piano), 225. discorso, 64,225,269. disforia, 112. disgiunzione, 102. disgiunzioni di probabilità, 133. dispositio, 211. dono, 103. doppi, 26. doppia articolazione, 44-45, 251.

E ecologia, 219. economica (cultura), 183. effetto di enunciazione, 169. effetto di presenza, 121. effetto di realtà, 26, 29, 116, 121,164, 168. effetto di verità, 236. eidetiche (categorie), 169,253. ellissi, 84,212. elocutio, 210. embrayage, 119,162. emittente, 5. emotiva (funzione), 14. enciclopedia, 62, 67-68. enfatica (cultura), 184. enunciato, 64,115. enunciato d’azione, 103. enunciato di stato, 102. enunciazione, 64, 110, 115, 120,158,272. enunciazione enunciata, 10, 118. episodio, 91. epitesto, 62. esercitivi (verbi), 201. espansione, 84. espositivi (verbi), 201. espressione, 21, 176-77. euforia, 112-13.

F fabula, 81, 85. faccia, 207. faccia a faccia, 192. fàtica (comunicazione), 202. fàtica (funzione), 14. fattuale (piano), 237. feedback, 126. felicità, 200-1. fiaba, 229. fiction, 72. figura, 109, 168. figura dello spazio, 159. figura retorica, 212. figurativa (semiotica), 169. figuratività, 159,253. figurativizzazione, 111, 164. focalizzatore, 76. fecalizzazione, 73,123,163. fecalizzazione esterna, 76. fecalizzazione interna, 76. fecalizzazione zero, 76. fonema, 32,45. fonosimbolismo, 30. forma, 42. forma del contenuto, 42.

forma dell’espressione, 42. formalismo russo, 81. formante plastico, 169,253. formazione discorsiva, 270. fotografìa, 168,254. fumetto, 262. funzionalità comunicativa, 19. funzione semiotica, 46. funzioni della comunicazio­ ne, 14. funzioni narrative, 93, 95. furto, 103.

G genere, 72, 81-82, 94, 145, 150, 156,278,281-82,291. genre, 290. gesto, 176,180. gioco di faccia, 207. gioco strategico, 206. giornalismo, 232. grammaticalizzata (cultura), 184,216.

I icone, 168. iconismo, 251. iconizzazione, 162, 168-69. identità, 276. ideologia, 271. idioletto, 167, 249. illocutorio, 200. illusione enunciazionale, 119. illusione referenziale, 119. illustrazione, 262. immaginario, 230. immagine, 178. immagine coordinata, 179. immanenza, 51. implicatura, 203. indice, 168. induzione, 138. inferenza, 5,203. informatore, 164. informazione, 7,177,231. innovatrice (cultura), 184. intendo auctoris, 155. intendo lectoris, 156. intendo operis, 156. interazione conversazionale, 203. interfaccia, 172,175. interlocutore, 116. Internet, 191-92. interpretante, 21-22, 24-25, 46.

Indice analitico 323

M

0

mancanza, 286. manifestazione, 51. manifestazione lineare, 74, 125. manipolazione, 104,244. marca, 178. marca semantica, 50. marketing, 239,242. mascheramento oggettivan­ te, 149. mascheramento soggettivan­ te, 149. massima di cooperazione, 205.

oggetti di valore, 113. oggetti d’uso, 171. oggettiva (cultura), 184. oggetto, 101. opponente, 101. oralità, 183. ordine dei fatti, 81. ordine del racconto, 81. osservatore, 166.

paratattica (cultura), 183. paratesti, 36. parole, 117. paronomasia, 74. passioni, 111. pausa, 84. percezione, 158. percorsi isotopici, 70. percorso di lettura, 128. percorso generativo del sen­ so, 110. performanza, 97, 100, 105-6, 163. performativa, 200. peritesto, 62. perlocutorio (atto), 200. personaggi, 100. personaggio, 108. pertinenza, 134. piacere, 81,84,133,159,161, 284-85,288-91. piacere del testo, 99. piano del contenutoci, piano dell’espressione, 21. pittura, 250. plastica (categoria), 169,173. plastica (semiotica), 169,253. pluri-isotopico (testo), 69. poetica (funzione), 14, 110. politica, 242. posizione (iscritta nel testo), 272, 288. posta elettronica, 192. post-strutturalismo, 268. posture, 177,181. potere, 243. pragmatica, 14, 199. pratica culturale, 269. pratica testuale, 227. principio di cooperazione,205. programma narrativo, 106. prolessi, 82. prossemica, 182. protesi, 172, 175. prova, 99. decisiva, 99. di commutazione, 45. glorificante, 99. qualificante, 99. pubblicità, 59,165,239. pulsione edipica, 99. punto di vista, 123,164,289.

P

Q

interpretazione, 130,154. interprete, 21, 126. intertesto, 144. intertestualità, 63, 144, 186, 196. intonazione, 177. intreccio, 73, 80-82. inventio, 210. invenzione moderata, 252. invenzione radicale, 252. inversione cronologica, 82, 84. iperbole, 212. ipertesto, 191. ipoicone, 26. ipotattica (cultura), 183. ipotesi di senso, 131. isotopia, 65, 68-70, 85. isotopizzazione, 162. istituzione di codice, 252.

L [angue, 117,278. lavoro cooperativo, 155. legatura, 96. lessema, 45,49-50. lessìa, 196. letteratura, 256. lettore critico, 130. lettore di primo livello, 130. lettore di secondo livello, 130. lettore empirico, 129. lettore ingenuo, 130. lettore modello, 10,29,132. linguaggio poetico, 13, 74. linguaggio quotidiano, 74. link, 193. livello pre-espressivo, 260. localizzazione, 159. locutore, 116. locutorio (atto), 200.

materia linguistica, 42. memi, 219. messaggio, 5, 12. metadiegetico, 77. metafora, 212. metalinguistica (funzione), 14, 36. metasegno, 62. meta-testo, 193. metonimia, 212. mezzi di comunicazione di massa, 191. micro-testo, 193. misinterpretazione, 156. mito, 228. moda, 219,222. modalità, 104,113. modi di produzione segnica, 252. mondi possibili, 85-86. monema, 45. motivazione, 97. motivo, 81, 91. multimedialità, 194. musica, 264.

N narratario, 78. narrative artificiali, 148. narrative naturali, 148. narratore eterodiegetico, 78. narratore extradiegetico, 77. narratore intradiegetico, 77. narratore omodiegetico, 78. narratori, 76, 163. narrazione, 72. nodi, 193. non detto, 125. noosfera, 218. notizie, 231. nuovi media, 192.

parallessi, 76. parallissi, 76.

quadrato di veridizione, 58. quadrato semiotico, 54, 109.

Indice analitico 324

R racconto, 80. realizzazione, 95, 97. referente, 18,21. referenziale (funzione), 14. regola di cortesia, 207. regola di genere, 143. relazione, 178. relazione segnica, 17. replica, 26. representamen, 9,21-22. rete, 194,196,231. retorica, 209. ricezione, 8. ridondante (cultura), 184. ridondanza, 7, 30. ridondanza semantica, 128. ritmo, 79. rito di iniziazione, 229. rumore, 31. ruolo attanziale, 101, 108. ruolo tematico, 108.

S sacca, 96. sanzione, 98, 100,105. scena, 84. sceneggiatura, 142. sceneggiatura intertestuale, 143. schema corporeo, 159. script, 142. scrittura, 183. seduzione, 285. segnale, 13, 18. segnale di finzione, 151. segnale di genere, 146. segnale di referenzialità, 151. segnale di suspence, 132. segno, 17, 21-23, 25, 28, 46, 63. segno iconico, 25. segno indicale, 25,27. segno simbolico, 25,29,31. semantica, 14, 46, 199. semantica cognitiva, 47. semantica fondamentale, 109. semantica strutturale, 50. sema, 45,51-52. sema astratto, 52. sema contestuale, 53. sema figurativo, 52. sema nucleare, 53. sema ùmico, 53. semema, 45,51. semiosfera, 215-16,218.

semiosi, 21,47,160. semiosi illimitata, 23,156. semiotica del mondo natura­ le, 169. semi-simbolico (sistema), 44. senso, 51. senso comune, 271. sequenza complessa, 95. sequenza elementare, 94-95. sequenza narraùva canonica, 97. sguardo in macchina, 123. shifters, 118. significante, 17-18,55. significato, 17-18, 33, 46-47, 54. significazione, 4-5,16,47,61. simbolico, 230. simbolico (sistema), 44. simbolo, 29. similitudine, 25. simulacro, 116, 118. sincretismo, 163. sintassi, 14, 199. sistema, 39. sistema modellizzante, 215. situazionale (cultura), 184. situazione di enunciazione, 117. soap opera, 291. socioletto, 162. soggettiva (ripresa), 123. soggetto, 96, 100, 275, 287, 289. sommario, 84. sostanza, 42. sostanza del contenuto, 42, 159-60. sostanza dell’espressione, 42. spazializzazione, 111, 161. spazio, 158-59. spazio discorsivo, 269. spazio eterotopico, 163. spazio paratopico, 163. spazio utopico, 163. spettacolarizzazione, 237. straniamento, 75,275. strategia, 164. strategia oggettivante, 237. strategia soggettivante, 237. strumento, 19. strutturalismo, 41,268. subcontrario (termine), 56. successione, 95. superfìcie, 85. superficie del testo, 73.

superficie espressiva, 76, 131-32. sutura, 276,285,287,290.

T target, 126. tattile (valore), 174. teatro, 257. tema, 65,108. tematizzazione, 111, 162,165. tempo, 79. tempo del racconto, 99. temporalizzazione, 111. testo, 61-62, 64 , 71-72, 79, 129,135,216,274,277. testo della rappresentazio­ ne, 259. testo dello spettacolo, 259. testo drammatico, 258. testo filmico, 261. testo plastico, 170. testo sincretico, 190. testo visivo, 167. testualità, 224,269. testualizzata (cultura), 184, 217. testualizzazione, 274. tùnica (dimensione), 159. tùnica (opposizione), 112. tono di voce, 73. topic, 65 , 68, 85, 108, 189, 199. topologica (categoria), 169, 253. topos, 211. traccia, 191. traccia testuale, 118. tradizionalista (cultura), 184. traduzione, 54, 185,187. traduzione intersemiotica, 189. trama, 73. tratto distintivo, 51. tratto pertinente, 45. tropo, 212.

U uso del testo, 155.

V valore, 33 , 58-59, 103, 161, 286. valore di verità, 47. valorizzazione, 165. veridittivi (verbi), 201. virtualizzazione, 95, 97. visibilità, 165.

Manuali di base

Ugo Volli insegna Semiotica del testo e della pubblicità all’Università di Torino. Per i nostri tipi ha pubblicato, tra l’altro, 1 telegiornali. Istruzioni per l'uso (con Omar Calabrese, 20012) e Semiotica della pubblicità (2003).

€ 22,00 (i.i.)

Ugo Volli

Manuale di semiotica

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6919-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice del volume

Introduzione

IX

1. Comunicazione

3

1.1. Non si può non comunicare 1.2. Comunicazìone/signìficazione 1.3. Ricezione 1.4.1 fattori e le funzioni della comunicazione

3 5 8 12

2. Segno

16

2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 2.6. 2.7. 2.8.

16 21 25 27 29 31 34 35

Significante/significato L'interpretante Segni iconici Segni indicali Segni simbolici e codici Arbitrarietà Connotazione Metasegni

3. Strutture 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5. 3.6.

Asse sintagmatico e paradigmatico Espressione e contenuto Fonemi, tratti pertinenti Semantica Quadrato semiotico Testo e discorso

37 37 41 44 46 54 60

Indice del volume vi 3.7. Topic, enciclopedia, isotopia

65

4. Storie

71

4.1. Livelli della narrazione 4.2. Focalizzatori e narratori 4.3. Ritmo 4.4. Fabula e intreccio 4.5. Mondi possibili 4.6. Il livello delle azioni 4.7. Attanti 4.8. Modalità 4.9. Tema 4.10. Passioni

72 76 79 80 86 91 100 104 108 111

5. Enunciazione

115

5.1. 5.2. 5.3. 5.4.

Tracce della soggettività Débrayage ed embrayage Indici linguistici dell'enunciazione Effetti ed efficacia

6. Interpretazione 6.1. 6.2. 6.3. 6.4. 6.5. 6.6. 6.7.

Il ruolo dell’interprete Interpretazione come inferenza Abduzione Sceneggiature Generi di discorso Narrative artificiali e naturali Interpretazione e uso dei testi

115 118 120 121

125 126 131 138 141 144 148 154

7. Oltre i confini del testo

158

7.1. Lo spazio e la spazialità 7.2. Il visivo 7.3. Gli oggetti 7.4. Comunicazione non verbale e immagine coordinata 7.5. Oralità e scrittura 7.6.1 processi traduttivi 7.7. Testi e ipertesti 7.8. Internet

158 167 171 176 183 184 191 192

8. Pragmatica

199

8.1. Gli ambiti della comunicazione 8.2. Atti linguistici 8.3. Dialoghi e interazioni 8.4. Inferenze e implicature 8.5. Regole conversazionali 8.6. Regole di cortesia 8.7. La retorica classica

199 200 201 203 205 207 209

Indice del volume VII

9. La vita sociale dei testi

214

9.1. 9.2. 9.3. 9.4. 9.5. 9.6. 9.7. 9.8. 9.9.

214 218 222 224 228 231 239 242 246

Culture Semiosfera Mode Pratiche quotidiane Mito e folclore L’informazione in prospettiva semiotica La comunicazione pubblicitaria Lo spazio della politica La televisione

10. Campi applicativi: le arti

249

10.1.1 linguaggi delle arti 10.2. Letteratura 10.3. Teatro 10.4. Cinema 10.5. Il fumetto 10.6. Musica

249 256 257 260 262 264

11. Identità, soggettività e genere

268

11.1. Il post-strutturalismo e la ricerca dei Cultural Studies 11.2. Il «gender» 11.3. Desiderio e piacere

268 278 284

Bibliografia

295

Indice analitico

321

Introduzione

Da qualche decennio si usa chiamare semiotica la disciplina che si oc­ cupa dei segni, del senso, della comunicazione. Per gli argomenti che tratta, essa ha radici antichissime: di segni e di linguaggio si sono occupati i Presocratici, Platone, Aristotele, gli Stoici, Agostino e la Scolastica e poi tutta la filosofia moderna, da Cartesio in poi. In India, in Cina, nel mondo ebraico e musulmano si trovano riflessioni altrettanto antiche e ricche di stimoli. Nei suoi aspetti di scienza moderna, la semiotica è stata fondata due volte più o meno contemporaneamente, a cavallo fra Ottocento e Nove­ cento: da un grande linguista europeo come Ferdinand de Saussure, che la vedeva come disciplina madre della linguistica e come parte della «psi­ cologia sociale»; e dal filosofo americano Charles Sanders Peirce, che la concepiva come una disciplina essenzialmente filosofica, apparentata alla logica e alla fenomenologia. Questa doppia anima della semiotica è presente ancora oggi. Innanzi­ tutto perché nel lavoro semiotico contemporaneo le correnti principali so­ no due: quella «strutturale» o «generativa» che si rifà al lavoro di Saussu­ re (attraverso l’opera di un altro linguista importante come il danese Louis Hjelmslev, di un antropologo come Claude Lévi-Strauss e soprattutto del semiologo che ne ha raccolto l’eredità, Algirdas J. Greimas); e la semioti­ ca interpretativa sviluppata principalmente, sulla scorta del lavoro di Charles Sanders Peirce, da Umberto Eco. Ma soprattutto la semiotica è divisa fra la vocazione a essere filosofia

Introduzione x

del segno, del senso e della comunicazione e l’ambizione di essere una del­ le scienze umane, specializzata nelle tecniche di lettura dei testi, in stretto rapporto con tutte le altre teorie scientifiche, sociologiche, psicologiche, ecc. che si occupano della comunicazione. In questo lavoro noi adotteremo decisamente il secondo punto di vi­ sta: come scelta operativa, prima che teorica. Raccoglieremo dunque, sen­ za alcuno spirito di scuola o dogmatismo, contributi che si trovano disse­ minati in tutte le tendenze o scuole semiotiche e che possono essere usati per comprendere i testi. In questo volume, insomma, vengono esposti con­ cetti molto diversi fra loro, elaborati dalla semiotica nella sua storia, e in particolare negli ultimi decenni, in quadri concettuali assolutamente non omogenei. La nostra esposizione non si propone però di essere storica né filologica, e neppure di elaborare un quadro teorico unificato, un sistema coerente basato su un numero limitato di concetti e di assiomi definiti ri­ gorosamente; ma solo di mettere a disposizione degli interessati un insie­ me di strumenti utili per l’analisi dei testi. La scommessa non banale sot­ tostante a questa scelta è che questi diversi concetti non siano legati ai si­ stemi concettuali dei loro autori, ma che la loro validità analitica regga an­ che in assenza delle grandi assunzioni teoriche che ne hanno condiziona­ to la formazione, perché dal nostro punto di vista essi sono modelli effi­ caci per reperire e descrivere diversi livelli di articolazione effettivamente presenti nei testi. Così avviene nella generalità delle scienze empiriche: il concetto darwi­ niano di selezione naturale, l’analisi infinitesimale proposta da Newton e Leibniz, il concetto weberiano di idealtipo, la relatività einsteiniana, l’os­ sigeno di Lavoisier, hanno senso e valore scientifico oggi (o non lo hanno) indipendentemente dai presupposti del pensiero dei loro autori, anche se queste furono costruzioni intellettuali di grande interesse storico e filoso­ fico, che meritano di essere studiate di per sé. Accade anche che, nella stes­ sa scienza, convivano teorie diverse i cui presupposti appaiono per lungo tempo di difficile conciliabilità, come la fisica quantistica e quella relativi­ stica. Entrambi però sono utili nella descrizione di diversi aspetti o livelli della realtà fisica e vengono conservati nel canone teorico della scienza fi­ sica, nonostante la loro incompatibilità, in attesa di una teoria unificata. Se dunque la semiotica vuol essere una scienza, essa deve adottare sui pro­ pri concetti lo stesso punto di vista non dogmatico e «annessionista» ca­ ratteristico della cumulatività della conoscenza scientifica. Inoltre, l’origine dei concetti e degli strumenti semiotici e il dibattito che ha dato loro forma sono rilevanti per comprenderli in maniera cor­ retta. Il campo semiotico non è dato, ma è stato costruito lentamente. No­ zioni anche fondamentali come quella di segno, di testo, di significato si sono costituite progressivamente e fra molte controversie. Anche se lo

Introduzione

scopo principale di questo volume è la ricostruzione di una «cassetta de­ gli attrezzi semiotici», tale assortimento sarà giustificato, e in parte pro­ blematizzato, da brevi note storico-bibliografiche che forniranno gli ele­ menti per un approfondimento critico dei diversi contributi pertinenti ri­ spetto a ogni singolo paragrafo. Nonostante l’aspetto esplicitamente com­ pilativo di questo manuale, esso contiene un’ambizione e un progetto ori­ ginale. L’ambizione è quella di organizzare gli strumenti della semiotica in un metodo di analisi, complesso ma unitario, al di là delle differenze di su­ perficie e delle polemiche fra scuole, e cioè di ridurre molti contributi di natura saggistica ed episodica a strumenti produttivi di analisi. Il buon successo di questo manuale e la ricchezza del lavoro semiotico in corso ne hanno imposto una revisione. Questa nuova edizione, senza modificare l’impianto del testo, aggiorna bibliografia e note storico-bi­ bliografiche e corregge alcune imprecisioni.

Sono poche le esposizioni semiotiche di carattere sistematico. Per quanto riguarda la semiotica interpretativa, Eco 1979 è un grande tenta­ tivo di sintesi, purtroppo superato da molti lavori dello stesso autore e mai più aggiornato. La semiotica generativa è sintetizzata nei due volumi di un dizionario (Greimas e Courtès 1979, 1986). Un buon manuale di sintesi è Marsciani e Zinna 1991. Per quanto riguarda la storia della se­ miotica, una sintesi sull’antichità si trova in Manetti 1987. Negli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni lavori di sintesi. Segnaliamo qui la ricca antologia di Fabbri e Marrone 2000-2001, il manuale di Bettetini e del suo gruppo (1999; il secondo volume è annunciato per il 2003), la Storia della semiotica di Omar Calabrese (2001). I testi di riferimento per i fon­ datori della semiotica moderna sono Saussure 1916 e Peirce 1931-58 (tra­ duzioni parziali in Peirce 1980, 1984).

Indice analitico Frontespizio L'autore Introduzione 1. Comunicazione

2. Segno

3. Strutture

4. Storie

1.1. Non si può non comunicare 1.2. Comunicazione/significazione 1.3. Ricezione 1.4. I fattori e le funzioni della comunicazione 2.1. Significante/significato 2.2. L’interpretante 2.3. Segni iconici 2.4. Segni indicali 2.5. Segni simbolici e codici 2.6. Arbitrarietà 2.7. Connotazione 2.8. Metasegni 3.1. Asse sintagmatico e paradigmatico 3.2. Espressione e contenuto 3.3. Fonemi, tratti pertinenti 3.4. Semantica 3.5. Quadrato semiotico 3.6. Testo e discorso 3.7. Topic, enciclopedia, isotopia 4.1. Livelli della narrazione 4.2. Focalizzatori e narratori 4.3. Ritmo 4.4. Fabula e intreccio 4.5. Mondi possibili 4.6. Il livello delle azioni 4.7. Attanti 4.8. Modalità 4.9. Tema 4.10. Passioni

5. Enunciazione

5.1. Tracce della soggettività 5.2. Débrayage ed embrayage 5.3. Indici linguistici dell’enunciazione 5.4. Effetti ed efficacia

6. Interpretazione

6.1. Il ruolo dell’interprete 6.2. Interpretazione come inferenza 6.3. Abduzione 6.4. Sceneggiature 6.5. Generi di discorso 6.6. Narrative artificiali e naturali 6.7. Interpretazione e uso dei testi

321 326 325 332 3 3 5 8 12

16 16 21 25 27 29 31 34 35

37 37 41 44 46 54 60 65

71 72 76 79 80 86 91 100 104 108 111

115 115 118 120 121

125 126 131 138 141 144 148 154

7. Oltre i confini del testo

158

8. Pragmatica

199

9. La vita sociale dei testi

214

10. Campi applicativi: le arti

249

11. Identità, soggettività e genere

268

Bibliografia

295

7.1. Lo spazio e la spazialità 7.2. Il visivo 7.3. Gli oggetti 7.4. Comunicazione non verbale e immagine coordinata 7.5. Oralità e scrittura 7.6. I processi tradottivi 7.7. Testi e ipertesti 7.8. Internet 8.1. Gli ambiti della comunicazione 8.2. Atti linguistici 8.3. Dialoghi e interazioni 8.4. Inferenze e implicature 8.5. Regole conversazionali 8.6. Regole di cortesia 8.7. La retorica classica 9.1. Culture 9.2. Semiosfera 9.3. Mode 9.4. Pratiche quotidiane 9.5. Mito e folclore 9.6. L'informazione in prospettiva semiotica 9.7. La comunicazione pubblicitaria 9.8. Lo spazio della politica 9.9. La televisione

10.1. I linguaggi delle arti 10.2. Letteratura 10.3. Teatro 10.4. Cinema 10.5. Il fumetto 10.6. Musica 11.1. Il post-strutturalismo e la ricerca dei Cultural Studies 11.2. Il «gender» 11.3. Desiderio e piacere

158 167 171 176 183 184 191 192

199 200 201 203 205 207 209 214 218 222 224 228 231 239 242 246

249 256 257 260 262 264 268 278 284