Manuale di linguistica friulana 9783110310597

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Manuale di linguistica friulana
 9783110310597

Table of contents :
Indice......Page 7
0 Introduzione al volume e stato della ricerca......Page 11
Il friulano nella storia e nel presente......Page 29
1 Friulano......Page 31
2 La posizione del friulano nella Romania......Page 51
3 «Questione ladina»......Page 67
4.1 Storia linguistica esterna......Page 83
4.2 Grammaticografia e lessicografia (dal XVII agli inizi del XX secolo)......Page 104
4.3 Storia linguistica interna......Page 125
4.4 Testi antichi......Page 146
5.1 Suddivisione dialettale del friulano......Page 165
5.2 Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione veneto-friulana......Page 197
5.3 Lingue urbane......Page 219
5.4 Tergestino/Muglisano......Page 236
6.1 Sloveno......Page 255
6.2 Tedesco......Page 284
6.3 Veneto......Page 306
6.4 Friulano, veneto e toscano nella storia del Friuli......Page 326
7 Friulano nel mondo......Page 348
Il friulano come sistema linguistico......Page 375
8 Fonetica e fonologia......Page 377
9 Morfologia e sintassi......Page 400
10 Stratificazione lessicale e formazione delle parole......Page 423
11 Toponomastica e antroponimia......Page 438
Il friulano lingua minoritaria – politica linguistica......Page 461
12 La situazione sociolinguistica......Page 463
13 Il quadro giuridico......Page 485
14 Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie......Page 502
15 Normalizzazione: grafia, grammaticografia e lessicografia......Page 521
16 Pianificazione linguistica ed elaborazione......Page 543
17 Friulano nei mass media......Page 563
18 Friulano nella scuola (e nell’università)......Page 585
Indice......Page 609

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Manuale di linguistica friulana MRL 3

Manuals of Romance Linguistics Manuels de linguistique romane Manuali di linguistica romanza Manuales de lingüística románica

Edited by Günter Holtus and Fernando Sánchez Miret

Volume 3

Manuale di linguistica friulana A cura di Sabine Heinemann e Luca Melchior

ISBN 978-3-11-031059-7 e-ISBN (PDF) 978-3-11-031077-1 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-039482-5 Library of Congress Cataloging-in-Publication Data A CIP catalog record for this book has been applied for at the Library of Congress. Bibliographic information published by the Deutsche Nationalbibliothek The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.dnb.de. © 2015 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Cover-Bildnachweis: © Marco2811/fotolia Typesetting: jürgen ullrich typosatz, Nördlingen Printing and binding: CPI books GmbH, Leck ♾ Printed on acid-free paper Printed in Germany www.degruyter.com

Manuals of Romance Linguistics La nuova collana internazionale dei Manuals of Romance Linguistics (MRL) intende fornire un panorama completo dell’intera linguistica romanza, al contempo sistematico e sintetico, che tenga conto dei più recenti risultati della ricerca. La collana MRL si prefigge di aggiornare e approfondire i contenuti delle due grandi opere finora disponibili, il Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL) (1988– 2005, otto volumi in dodici tomi) e la Romanische Sprachgeschichte (RSG) (2003–2008, tre volumi), con lo scopo di integrare gli ambiti e le prospettive nuove della ricerca, in particolare quei temi finora affrontati solo a latere o in modo non sistematico. Dal momento che non sarebbe fattibile in tempi e spazi ragionevoli una completa revisione del LRL e della RSG, la collana dei MRL si presenta in una struttura modulare e flessibile: essa prevede circa 60 volumi, ciascuno dei quali, con 15–30 contributi per un massimo di 600 pagine, affronta gli aspetti principali di un determinato tema, in modo sintetico e ben strutturato. I volumi sono concepiti in modo da essere consultabili autonomamente l’uno dall’altro, ma tali da fornire nel loro insieme uno sguardo completo ed esauriente della linguistica romanza di oggi. Il fatto che la redazione di ogni volume richieda meno tempo di quello necessario per un’opera enciclopedica della mole del LRL, consente di poter dar conto più agilmente e rapidamente dello status attuale delle ricerche. I volumi sono redatti in diverse lingue – francese, italiano, spagnolo, inglese e, eccezionalmente, portoghese – ma ognuno in una sola lingua, opportunamente scelta in base al tema. L’inglese consente di dare una dimensione internazionale e interdisciplinare a temi di carattere più generale che non attengono strettamente all’ambito degli studi romanzi (per es. il Manual of Language Acquisition o il Manual of Romance Languages in the Media). La collana MRL è divisa in due grandi sezioni tematiche: 1) lingue 2) ambiti disciplinari. Nella prima sono presentate tutte le lingue romanze (comprese le lingue creole), ciascuna in un volume a sé. La collana accorda particolare attenzione alle linguae minores che non sono state trattate finora sistematicamente in un quadro d’insieme: sono previsti perciò volumi dedicati al friulano, al corso, al gallego, al latino volgare, ma anche un Manual of Judaeo-Romance Linguistics and Philology. La seconda sezione comprende la presentazione sistematica di tutte le sotto-discipline, tradizionali e nuove, della linguistica romanza, con un volume a parte riservato a questioni metodologiche. Particolare attenzione viene accordata alle correnti nuove e dinamiche e a settori che rivestono sempre più importanza nella ricerca e nell’insegnamento, ma che non sono stati considerati in modo adeguato nelle precedenti opere d’insieme, come per esempio le Grammatical Interfaces, le ricerche sul linguaggio dei giovani, la sociolinguistica urbana, la linguistica computazionale, la neurolinguistica, il linguaggio dei segni e la linguistica giudiziaria. Ogni volume offre per il proprio ambito un panorama ampio e ben strutturato sulla storia della ricerca e sui suoi attuali sviluppi.

VI

Manuals of Romance Linguistics

Come direttori della collana siamo lieti di aver potuto affidare l’edizione dei diversi volumi a colleghi di fama internazionale provenienti da tutti i paesi di lingue romanze e non solo. I curatori sono responsabili della concezione e della struttura dei volumi, così come della scelta degli autori dei contributi, e assicurano la presenza, accanto a una presentazione sistematica dello stato attuale delle teorie e conoscenze, anche di molte riflessioni critiche e innovative. I diversi volumi, presi nel loro insieme, costituiscono un panorama generale ampio e aggiornato della nostra disciplina; essi sono destinati tanto a coloro che vogliano informarsi su un tema specifico quanto a coloro che desiderino abbracciare gli studi romanzi attuali nei loro molteplici aspetti. I volumi dei MRL offrono inoltre un approccio nuovo e innovativo alla linguistica romanza, seguendone adeguatamente e in modo rappresentativo gli ultimi sviluppi. Günter Holtus (Lohra/Göttingen) Fernando Sánchez Miret (Salamanca) marzo 2015

Indice 0

Sabine Heinemann e Luca Melchior Introduzione al volume e stato della ricerca

1

Il friulano nella storia e nel presente

1

Federico Vicario Friulano 21

2

Maria Iliescu La posizione del friulano nella Romania

3

Sabine Heinemann «Questione ladina»

4

Sviluppo storico del friulano

4.1

Giovanni Frau Storia linguistica esterna

4.2

Giovanni Frau Grammaticografia e lessicografia (dal XVII agli inizi del XX secolo)

4.3

Paola Benincà Storia linguistica interna

4.4

Federico Vicario Testi antichi 136

5

Dialetti

5.1

Paolo Roseano Suddivisione dialettale del friulano

5.2

Sabine Heinemann e Luca Melchior Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione veneto-friulana

5.3

Fabiana Fusco Lingue urbane

41

57 73

73

94

115

155

209

155

187

VIII

Indice

5.4

Sabine Heinemann Tergestino/Muglisano

6

Plurilinguismo e contatto linguistico

6.1

Liliana Spinozzi Monai Sloveno 245

6.2

Giovanni Frau Tedesco 274

6.3

Fabiana Fusco Veneto 296

6.4

Giorgio Cadorini Friulano, veneto e toscano nella storia del Friuli

7

Maria Iliescu e Luca Melchior Friulano nel mondo 338

226 245

316

Il friulano come sistema linguistico 8

Renzo Miotti Fonetica e fonologia

9

Paola Benincà e Laura Vanelli Morfologia e sintassi 390

10

Carla Marcato Stratificazione lessicale e formazione delle parole

11

Franco Finco Toponomastica e antroponimia

367

428

Il friulano lingua minoritaria – politica linguistica 12

Gabriele Iannàccaro e Vittorio Dell’Aquila La situazione sociolinguistica 453

413

Indice

13

William Cisilino Il quadro giuridico

14

Paolo Coluzzi Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie

15

Davide Turello Normalizzazione: grafia, grammaticografia e lessicografia

16

Federica Angeli Pianificazione linguistica ed elaborazione

17

Luca Melchior Friulano nei mass media

18

Alessandra Burelli Friulano nella scuola (e nell’università)

Indice

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IX

Sabine Heinemann e Luca Melchior

0 Introduzione al volume e stato della ricerca Abstract: L’interesse per il friulano è sorto in particolare, verso la fine del XIX secolo, con la prima, parziale descrizione di Ascoli e col vocabolario di Pirona. A partire dagli anni ’50 del XX secolo seguono gli studi di Francescato e Pellegrini. Dagli anni ’60 in poi l’attenzione si rivolge alla dialettologia, alla geolinguistica e alla toponomastica; in anni recenti, in seguito al riconoscimento legislativo del friulano come lingua ufficiale della Regione Friuli Venezia Giulia e lingua minoritaria dello stato italiano, l’interesse si è concentrato su aspetti legati alla standardizzazione e all’elaborazione della lingua; importanti anche i manuali per l’insegnamento. Notevole infine è l’attenzione allo sviluppo storico del friulano, con l’edizione di testi in volgare antico e la pubblicazione di un dizionario storico online. Il seguente testo vuole descrivere lo sviluppo e lo status quo della ricerca, in base al quale, almeno in parte, è stato concepito il presente volume. Keywords: linguistica friulana, stato della ricerca

1 I primordi e i primi tentativi grammaticografici I Saggi ladini di Ascoli (1873) segnano l’inizio dell’interesse linguistico rivolto agli idiomi retoromanzi o ladini; a essi fecero seguito numerosi ulteriori studi di glottologia o geolinguistica. Uno dei problemi discussi nei primi anni della ricerca scientifica è stata la cosiddetta «questione ladina», più volte ripresa nei decenni successivi e tuttora irrisolta. Sia i sostentitori di una «unità ladina» sia i suoi avversari si rifanno ad Ascoli, che da una parte definisce un tipo linguistico da lui stesso chiamato «ladino» e dall’altra assegna al friulano una forte individualità all’interno di tale «favella ladina». Il primo lavoro di Ascoli risale però all’anno 1848, un’opera in cui il giovane autore confronta il friulano al romeno; la descrizione nei Saggi ladini, originariamente progettata come parte di un’opera più vasta che doveva trattare anche la morfologia, il lessico, la sintassi, la storia linguistica e letteraria delle parlate, risulta comunque alquanto più dettagliata, anche se in generale limitata alla varietà centrale (Frau 1974). Ascoli fornisce in realtà unʼesplorazione prima di tutto fonologica del ladino includendo tra le altre anche varietà friulane (o friulaneggianti) oggi non più esistenti come il tergestino e il muglisano. A parte la rilevanza dell’opera per la «questione ladina», essa è importante anche perché vi si introduce il concetto di «amfizona». Altro testo fondamentale per la ricerca sul retoromanzo o ladino è la grammatica di Gartner (1883, cf. anche l’Handbuch di 1910), che, rispetto ad Ascoli, tratta anche la morfologia e la sintassi, con riferimento anche a singole varietà, senza però che al friulano sia concesso lo spazio necessario (Frau 1974).

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Sabine Heinemann e Luca Melchior

Il primo vero tentativo di una grammatica che confronti l’italiano e il goriziano è dato con Vignoli (1917), cui segue la grammatica pratica di della Porta (1922). Molto più esaustiva appare la grammatica (puramente descrittiva) di Marchetti del 1953 (con varie ristampe e riedizioni, l’ultima delle quali del 1985), basata sui lavori di Ascoli e utilizzata dalla Società Filologica Friulana per i suoi corsi pratici fino alla fine del secolo scorso. Anche se Marchetti fornisce una sistematica e accurata esposizione della grammatica del friulano (non una grammatica storica), risulta problematico il suo riferimento alla sola koinè di base letteraria, con pochi e parziali riferimenti ad altre parlate. Malgrado le numerose inesattezze essa rimane sempre un testo assai importante, anche in questioni legate alla normalizzazione del friulano: «Ce livre peut être considéré comme une manifestation du courant qui lutte pour l’introduction du frioulan comme langue d’enseignement dans les écoles» (Iliescu 1989, 465; cf. anche Marcato 1989; Frau 1974; Holtus/Kramer 2002, 19). In essa restano comunque irrisolti il problema della grafia e quello della classificazione dei vari dialetti del friulano. Bisogna però tener presente che fino agli anni ’50, a parte i lavori di Ascoli, di Gartner e del suo allievo Pellis (su vari temi, il più importante dei quali risulta il sonziaco, cf. Pellis 1910–1911; inoltre è di primaria importanza la sua funzione di redattore dell’Atlante Linguistico Italiano) e infine di Battisti (noto per vari lavori sulla «questione ladina», cf. le monografie del 1937, del 1941 e del 1962), vi è un relativo disinteresse nei riguardi del friulano: «ben poco di scientifico è stato fatto […] di solito su basi dilettantistiche, raramente prendendo in considerazione la totalità dei parlari implicati» (Francescato 1955, 64s.). Fino alla grammatica di Nazzi (1977), redatta in friulano, Marchetti è l’unico strumento di lavoro nell’ambito della grammatica friulana. Come la grammatica di Marchetti, che è un compendio molto accurato e che comprende anche problemi di sintassi, anche quella di Faggin (1997) mostra problemi nell’impianto teorico e nella trattazione generale, per cui il progetto di una Grammatica friulana di riferimento (con sostegno dell’OLF) coordinato da Piera Rizzolatti sembrava promettente. Questa grammatica, basata su inchieste sul campo, è rimasta però incompiuta dopo la pubblicazione dei primi due quaderni (cf. Vicario 1999; 2006). Per l’insegnamento a scuola era utilizzata in passato, accanto ad altri strumenti didattici, la già menzionata grammatica di Nazzi del 1977 (cf. anche Marcato 1989). La ricerca scientifica si è soffermata infatti in misura solo piuttosto sporadica e minore su aspetti di morfologia, morfosintassi e sintassi friulana. Tra le opere più importanti in questi ambiti si citino innanzitutto i saggi di Benincà e Vanelli su temi quali p. es. la formazione del plurale, il presente indicativo dei verbi, o diverse questioni sintattiche analizzate in chiave contrastiva. Tali contributi, pubblicati a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, sono ora raccolti, in forma parzialmente riveduta, nel volume Linguistica friulana (Benincà/Vanelli 2005), che offre «un interessante compendio, dal momento che le due autrici hanno trattato questioni cardinali e addirittura ne hanno influenzato in maniera fondamentale la trattazione» (Heinemann 2008, 668, trad. di L.M.). Siano ricordati inoltre gli studi sui verbi sintagmatici in friulano, apparsi in forma monografica (Vicario 1997) e ripresi nel secondo volume dei Quaderni della grammatica friulana di riferimento (1999). Si tratta

Introduzione al volume e stato della ricerca

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della prima corposa descrizione di un modello sintattico-lessicale assai diffuso in friulano (oltre che in altre varietà italiane settentrionali e non solo), che l’autore indaga sia in diacronia, dalle prime attestazioni scritte del friulano ai giorni nostri (cf. anche Fusco 1997), sia in chiave contrastiva con alcune altre lingue europee. Manca però tuttora un’esaustiva grammatica descrittiva e normativa del friulano (cf. Vicario 2006, 279; Finco 2013b, 72; Melchior 2014); le diverse opere grammaticali uscite nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso e agli inizi del XXI  secolo, così come anche le sezioni dedicate alla morfosintassi nelle diverse guide alla grafia friulana, risultano infatti spesso prive di velleità e rigore scientifici e assai tradizionali nel loro impianto di stampo scolastico, ambito per il quale sono state concepite.

2 Descrizioni generali Sebbene la letteratura scientifica sul friulano sia alquanto vasta e abbracci diversi ambiti della ricerca, le panoramiche d’insieme sul friulano risultano ancora piuttosto rare. Fondamentale in questo ambito è Storia, lingua e società in Friuli (Francescato/ Salimbeni 1976, riedito per cura e con una presentazione di Orioles nel 2004), tuttora opera di riferimento per lo studio del friulano e del Friuli. Il lavoro, suddiviso in quattro parti, indaga aspetti di storia politica, sociale, economica, culturale e sociolinguistica del Friuli da epoche protostoriche e fino all’età contemporanea (cf. Muljačić 1979, 149), applicando «per la prima volta ad un ambito regionale un progetto di storiografia linguistica che Tullio De Mauro aveva alcuni anni prima realizzato con riferimento all’intero ambito nazionale» (Vanelli 2006, 127; cf. anche Holtus 1978, 709). In essa si evidenziano gli intrecci e le interconnessioni tra le vicende linguistiche del Friuli e quelle di altre regioni, con una ricca documentazione, da cui emergono anche i rapporti tra le lingue del Friuli e le vicende linguistiche dell’italiano (cf. Ghinassi 1978, 96). Mentre le quattro parti che costituiscono il vero e proprio corpo del volume presentano una minuziosa ricostruzione della storia sociale, culturale e linguistica del Friuli, ben valutando i fattori esterni e le loro conseguenze sull’evoluzione della lingua, le appendici (otto nella prima edizione, dieci nella ristampa) costuituiscono un approfondimento di alcuni dei temi trattati, come il sostrato o la palatalizzazione di CA . Particolarmente importante è il contributo alla discussione della cosiddetta «questione ladina», che costituisce «una svolta fondamentale e decisiva» (Vanelli 2006, 130; cf. anche Muljačić 1979, 149s.), con la ricostruzione e l’analisi dell’isolamento politico, sociale e linguistico del Friuli rispetto al resto d’Italia e la mancanza dunque di modelli linguistici romanzi dotati di prestigio che potessero influenzare lo sviluppo della lingua popolare. Di notevole importanza risultano anche le sezioni dedicate al plurilinguismo (cf. Holtus 1978, 709) e la ricostruzione della formazione della koinè letteraria friulana, come emerge chiaramente nella seconda parte della monografia. Il lavoro, per certi aspetti insuperato e tuttora valido, ha ricoperto «un ruolo fondamentale nella formazione storico-linguistica di una generazione di studiosi di friulano» (Vanelli 2006, 127).

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Sabine Heinemann e Luca Melchior

Di dimensioni assai limitate, ma ottima prima introduzione alle principali tematiche della linguistica friulana sono gli Elementi di linguistica friulana (Rizzolatti 1981), breve sintesi di alcuni dei principali aspetti legati alla lingua friulana, con cenni di storia linguistica interna ed esterna, diffusa trattazione di fonetica storica e concisi riferimenti alla morfologia e al lessico. Un’ampia sezione del terzo volume del Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL) (1989) – otto capitoli, cui si aggiunge il capitolo di storia linguistica interna (Benincà 1995) inserito nel secondo volume dell’opera – è dedicata al friulano. Diversi eminenti esponenti della friulanistica offrono una prima sintesi degli studi al riguardo, che, pur costituendo per certi aspetti ancora insuperato riferimento, non può tuttavia essere esaustiva delle tematiche afferenti alla ricerca sul friulano (mancano infatti p. es. capitoli dedicati al bilinguismo, al contatto linguistico o all’utilizzazione del friulano nei media e nella scuola, o al fenomeno del friulano all’estero), la cui importanza è talora emersa solo negli ultimi anni, in particolare in seguito alle misure di implementazione ed elaborazione linguistica. Nonostante tali lacune, l’opera risulta ancora fondamentale per chi voglia avvicinarsi allo studio della friulanistica. Sempre nell’ambito delle opere a carattere generale si segnala il manuale Friuli Venezia Giulia (Marcato 2001), pensato per un pubblico liceale, ma valida introduzione ad alcuni aspetti interessanti, seppur poco indagati, della ricerca linguistica sul friulano e sul Friuli, come il plurilinguismo, le comunità linguistiche alloglotte e non friulane e le caratteritische dell’italiano regionale del Friuli. Il volume è arricchito da alcuni testi friulani (e triestini) antichi e moderni in versione commentata. In anni più recenti si segnala la monografia Studien zur Stellung des Friaulischen in der nördlichen Italoromania (Heinemann 2003, in traduzione italiana aggiornata con il titolo Studi di linguistica friulana, Heinemann 2007), «manuale unico nel suo genere» (Frau 2007, 165, cf. anche Iliescu 2005, 241), forse prima descrizione generale completa del friulano. Il manuale, strutturato in otto capitoli che vanno a toccare tutti i principali ambiti di interesse, dalla storia linguistica esterna alla «questione ladina», dalla fonetica e fonologia alla morfologia, sintassi e lessico (con particolare attenzione ai nomi di parentela e alle influenze germaniche cf. Iliescu 2005, 243), fino alla coscienza dei parlanti, ai problemi dell’elaborazione e ai fenomeni di contatto linguistico (cf. Iliescu 2005, 242), costituisce un capitolo fondamentale nella trattazione scientifica del friulano. Carattere introduttivo e generale ha poi Vicario (2005; anche in traduzione romena: Vicario 2006; friulana: Vicario 2007a; inglese: Vicario 2007b). Si tratta di un conciso compendio delle principali tematiche, con una breve caratterizzazione storico-geografico-sociale della regione e un capitolo dedicato alla realtà plurilingue del Friuli, ove si trattano anche sommariamente le varietà alloglotte e venete presenti sul territorio. Interessanti in particolare il sottocapitolo dedicato ai neologismi, che presenta un’analisi delle principali strategie di politica linguistica per aggiornare e incrementare il lessico, nonché il corposo capitolo dedicato alle diverse proposte ortografiche per il friulano che si sono susseguite nel corso del tempo e alla presenta-

Introduzione al volume e stato della ricerca

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zione delle regole della grafia ufficiale (cf. Heinemann 2010, 721). Chiudono il volume due importanti appendici, l’una in cui sono presentati alcuni antichi testi friulani, l’altra che raccoglie invece le normative di tutela del friulano. Sulla stessa falsariga si trova il collettaneo Manual di lenghistiche furlane per cura di Franco Fabbro (Fari 2007a), opera introduttiva rigorosa e sicuramente valida, ma che non presenta sostanziali novità rispetto a quelle precedentemente citate, ad eccezione forse dei capitoli, dal carattere peraltro più generale, dedicati alla pragmalinguistica (Tavano/Collavin 2007) e alla neurolinguistica (Fari 2007b), in cui il riferimento al friulano pare peraltro avere carattere semplicemente illustrativo (cf. Heinemann 2010, 718). Si distingue tuttavia l’interessante e assai dettagliato capitolo dedicato alla fonetica e fonologia (Finco 2007). Il principale merito del manuale sembra essere il fatto che esso viene a costituire la prima opera di linguistica friulana redatta (o, in parte, tradotta) in lingua friulana, rappresentando un importante contributo all’elaborazione estensiva della stessa (cf. Melchior 2009b, 35).

3 Dialettologia e geografia linguistica Un ambito della linguistica friulana assai ben indagato è quello della dialettologia. Tutti i lavori importanti degli ultimi decenni sono fondati sulla Dialettologia friulana di Francescato (1966). L’autore si basa su fonti diverse, inchieste personali, su dati dell’AIS e dell’ALI (all’epoca non ancora pubblicati) e su quelli di Lüdtke (1957), ragione per cui manca uniformità nella descrizione dei singoli dialetti. Il primo capitolo è dedicato ad una breve storia fonetica del friulano. Francescato divide il territorio friulano in 15 zone sulla base di 44 tratti caratteristici (di cui la massima parte fonetici e morfologici) che però non hanno tutti lo stesso peso per la classificazione. Nel secondo capitolo vengono definite quattro aree dialettali principali (friulano centro-orientale, carnico, occidentale e goriziano), che mostrano esiti diversi per la dittongazione. Il terzo capitolo è una brillante fonologia diacronica che descrive dettagliatamente il vocalismo tonico, la palatalizzazione delle consonanti velari e lo sviluppo delle sibilanti. L’ultimo capitolo, dedicato a problemi storici e geografici, sottolinea la forte individualità del friulano rispetto al ladino dolomitico e ai dialetti veneti (Iliescu 1967). Anche se non vengono trattati la sintassi, il lessico e la formazione delle parole, Francescato, con la sua Dialettologia friulana, fornisce la prima esplorazione ampia e profonda della regione friulana dall’epoca di Ascoli. La descrizione (sistematica) del vocalismo è in buona parte nuova, anche se la distinzione tra posizione forte e debole non è sempre chiara per la caratterizzazione delle rispettive vocali (Pellegrini 1974; Francescato 1982, 149). L’opera è di alto livello scientifico e rappresenta, come quella di Iliescu sui dialetti friulani in Romania, una pietra miliare nella linguistica friulana. La tesi di Iliescu (1972) offre una rappresentazione del friulano rispetto alle parlate contermini; tratta la fonetica storica, la fonologia, la morfosintassi e il lessico, per il quale l’autrice afferma una considerevole autonomia del friulano (Frau 1974;

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Sabine Heinemann e Luca Melchior

Francescato 1975; Tekavčić 1974). La classificazione di Iliescu rispecchia quella di Francescato – il friulano parlato degli emigrati in Romania a partire dalla seconda metà del XIX secolo pare quasi immutato e poco mescolato col romeno, il che permette una facile attribuzione delle parlate indagate al friulano centro-orientale, occidentale, carnico e goriziano. Il lavoro deve considerarsi dunque un autentico contributo originale alla dialettologia friulana, proprio nel campo della morfologia, parte trattata solo parzialmente da Francescato. Molto interessante risulta la discussione della formazione del plurale, per la distinzione di un plurale sigmatico e uno palatale (valido anche per i nomi uscenti in -s) che riflette probabilmente un’antica declinazione bicasuale, argomento ripreso più tardi da Benincà e Vanelli (Vanelli/Benincà 1978; Benincà/Vanelli 1995). Pare rilevante anche il fatto che non si trovino particolari affinità lessicali «specifiche» tra le aree ladine, mentre piuttosto il friulano mostri particolarità non condivise con parlate confinanti (Pellegrini 1974; Kramer 1974). Una valida descrizione del friulano è anche il volume di Frau (1984a) – l’autore tratta i diversi gruppi dialettali e sottodialettali (friulano comune/centrale, occidentale, carnico, gortano, goriziano etc.), rifiutando o rivalutando la visione «troppo» unitaria di Ascoli. Frau accentua la differenziazione all’interno del friulano e illustra gli aspetti fonetici/fonologici, morfologici e lessicali usando varie fonti, tra le quali i materiali di Francescato – precisandone ed estendendone i dati –, quelli dell’ASLEF e inchieste personalmente condotte. Egli prende in considerazione anche parlate non friulane, cioè quelle venete (gradese, bisiaco, tralasciando però le varietà urbane), slovene (delle valli del Natisone e di Resia) e tedesche (Sauris, Timau). Concorda con Francescato per la valutazione dell’ertano come varietà del friulano e non del ladino dolomitico (cf. Francescato 1985). Oltre a Frau prendono l’avvio dal volume di Francescato anche altri studiosi che si sono occupati più volte delle varietà diatopiche del friulano, come p. es. Marcato e Rizzolatti. I loro studi il più delle volte sono apparsi nei volumi dedicati alle singole parlate friulane pubblicati quali «numeri unici» dagli anni ’60 da parte della Società Filologica Friulana. I testi di Rizzolatti sono confluiti nel bel volume Il friulano «di ca da l’aga» (Rizzolatti 1996), che tratta le varietà del friulano occidentale e della fascia di transizione che si estende sempre più a est portando con sé influssi veneti più o meno forti (Vicario 1999; Holtus/Kramer 2002, 19). Diverse ricerche di stampo dialettologico, in gran parte inedite, sono inoltre state svolte a livello di tesi di laurea, in particolare presso l’ateneo patavino. Molto importante per la conoscenza del friulano, in primis per il lessico, è l’ASLEF ideato da Pellegrini, il primo atlante regionale italiano concluso (se si tralascia quello della Sardegna di Terracini, da definire come prova per la concezione di un atlante nazionale e servito da stimolo per l’ASLEF). Difatti il progetto dell’ASLEF risale all’anno 1965, le inchieste sono state effettuate dal 1966 al 1968 in 129 punti. Sono stati aggiunti 11 dei 40 punti esplorati da Pellis per l’ALI e altri 6 dell’AIS (spesso sono state condotte nuove inchieste che fanno risaltare cambiamenti fra due generazioni di informanti). È stato così messo a disposizione, almeno per il Friuli, il materiale dell’ALI

Introduzione al volume e stato della ricerca

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pubblicato in forma di atlante solo dagli anni ’90. Inoltre i materiali dell’ALI, raccolti da Pellis, e dell’AIS (dati Scheuermeier) sono inseriti rispettivamente nell’apparato critico delle carte riservato alle parole particolarmente interessanti e sotto forma di tavole per concetti che mostrano poca variazione lessicale. Interessante per la variazione è il fatto che le singole isoglosse non formano dei fasci, ma che si incrociano in numerosi casi (Lazard 1987), il che non solo riflette la forte differenziazione interna del friulano, ma anche la problematicità nella suddivisione di singole parlate (specie per le parlate del friulano occidentale). Il primo volume dell’atlante è apparso nel 1972 (l’ultimo nel 1986), anno in cui è uscita anche l’Introduzione all’ASLEF che, seguendo il modello di Jaberg/Jud (1928), fornisce informazioni dettagliate sui punti d’inchiesta, la trascrizione fonetica di indicazioni toponomastiche, la prima datazione di nomi di luogo e una caratterizzazione dei luoghi sotto il profilo linguistico-storico-culturale. L’«affiliazione» all’ALI è ben visibile dall’utilizzo del medesimo questionario, anche se non tutti i concetti vengono presi in considerazione (solo 800 su 2.800 dell’ALI; Mastrelli 1987; Iliescu 1993). Le inchieste stesse, effettuate sulla base di immagini e/o domande dirette e in parte registrate su nastro, in caso di incertezze sono state parzialmente ripetute. Dei 129 punti indagati 18 si trovano al di fuori del territorio strettamente friulanofono, cioè nella zona di transizione le cui parlate mostrano un influsso veneto più o meno forte (ancora nel medioevo come frontiera linguistica fra friulano e veneto poteva sicuramente valere il fiume Livenza). Inoltre sono state considerate le isole alloglotte tedesche (meno importanti per la storia del friulano) e slave (da distinguere sei o sette dialetti sloveni; Pfister 1975). Tutto sommato, con l’ASLEF Pellegrini vuole dimostrare l’individualità del lessico friulano e registrare ancora prima della sua sparizione la terminologia della vita rurale; inoltre, almeno per il campo lessicale, gli è così possibile evidenziare i rapporti tra le zone «ladine» e della Cisalpina, fornendo un contributo alla «questione ladina» e confutando la teoria della reromanizzazione del Friuli esposta da Gamillscheg (Iliescu 1993). È notevole la complessità dei materiali raccolti ed esposti, i volumi coprono vari campi, come il creato e fenomeni atmosferici, la divisione del tempo, il terreno, la flora spontanea (vol. 1); animali (vol. 2); il corpo umano, l’uomo in generale nel contesto sociale (vol. 3); la terminologia agraria (vol. 4); piante coltivate (vol. 5); la terminologia dei mestieri e delle loro attrezzature (vol. 6); il più denso di voci e di concetti risulta l’ultimo (Pallabazzer 1990–1991). L’ASLEF può valere dunque come «la più importante pubblicazione per l’indagazione del friulano dai Saggi ladini di Ascoli (1873) e dalla complessiva dialettologia friulana di G. Francescato (1966)» (Pfister 1975, 415; trad. di S.H.). Lo scopo dell’atlante, come tradizionalmente anche per gli atlanti nazionali, non è puramente linguistico, ma legato all’idea di «Wörter und Sachen», cioè di interesse onomasiologico (Francescato 1982, 151; cf. anche Pallabazzer 1985). Sulla base dei materiali dell’ASLEF sono apparse infatti numerose monografie di stampo onomasiologico, tra cui le più importanti sono la Flora popolare friulana di Pellegrini/ Zamboni (1982) e la Terminologia agricola in Friuli di Pellegrini/Marcato (1992). Gli studi onomasiologici, che dovevano trattare una ventina di settori lessicali, sono stati

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svolti seguendo lo stesso schema metodologico: a) individuazione e distribuzione per i tipi lessicali delle denominazioni raccolte, b) analisi etimologica delle voci registrate, comprese quelle alloglotte, c) comparazione dei tipi lessicali friulani con quelli individuabili mediante strumenti geolinguistici e lessicografici, nelle parlate settentrionali (venete – specie trevigiano, bellunese –, ladine atesine e cadorine, grigionesi, lombarde). Sulla base dei vari studi si può concludere che sono descrivibili elementi lessicali peculiari dell’area friulana, che mostrano una spiccata individualità delle varietà friulane, le quali rimandano a una differenziazione interna fra un’area aquileiese ed una concordiese. In generale si nota una concordanza con le varietà italiane settentrionali e cisalpine, anche se non pare che si possa isolare una «unità lessicale ladina» (Marcato 1992; Iliescu 1993). La Flora popolare friulana di Pellegrini/Zamboni (1982) è di un repertorio esauriente e definitivo dei nomi friulani delle piante (in totale circa 10.000 nomi dialettali); le piante vengono suddivise in rapporto all’ordine dei nomi provenienti da numerose lingue e messi in circolazione da spinte e necessità diverse. Tra i criteri presi in considerazione ci sono nuove etimologie, attestazioni in età antica, innovazioni nella denominazione, nomi diffusi da erbari medievali, nomi di origine prelatina, trasmessi da idiomi germanici, dal greco e dallo sloveno; il riferimento all’ASLEF è ben visibile dalla descrizione della distribuzione areale di tipi lessicali all’interno del territorio friulano. L’attenzione si concentra sul settore etimologico, sullo studio dei filoni lessicali di diversa origine, sulla geografia linguistica e la comparazione fra le aree confinanti col Friuli – come per l’ASLEF, uno degli scopi della Flora popolare friulana è infatti quello di studiare la posizione del friulano nella Italoromania settentrionale (Pallabazzer 1982; Frau 1984b). Nella stessa linea si pone anche il recente volume di Carla Marcato (Fevelâ. Storia e geografia di parole friulane, 2013). L’opera, dopo una prima parte introduttiva a carattere più generale sulle peculiarità del lessico friulano, la sua ricchezza e varietà dialettale, le cause e le vie dello sviluppo e mutamento semantico e la stratificazione lessicale, in cui si pone particolare attenzione agli influssi di super- e astrato, presenta e analizza, basandosi sui materiali dell’ASLEF e del Nuovo Pirona, una serie di lessemi e strutture fraseologiche friulane – afferenti in particolare, ma non solo, agli ambiti della flora, fauna, agricoltura, eventi naturali, attività artigianali e delle tradizioni popolari –, proponendone l’etimologia, la storia della parola, le diverse forme nei singoli dialetti così come, in chiave onomasiologica, eventuali altri elementi lessicali presenti nelle varietà friulane per indicare lo stesso concetto.

4 Lessicografia Un altro interessante progetto legato all’ASLEF è il DESF, dizionario etimologico tradizionale, che tra le sue fonti ha, inoltre, il Nuovo Pirona e le rispettive Aggiunte, alcune monografie e tesi, il vocabolario muglisano di Zudini/Dorsi (1981; cf. Marcato

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1989) e altri lavori. Purtroppo la sua pubblicazione si è interrotta dopo il secondo volume (giunto fino alla lettera e-). Il concetto del DESF è basato sull’etimologia precisa per ciascuna voce. La microstruttra contiene le indicazioni necessarie sull’evoluzione, con l’aggiunta delle varianti dialettali più rilevanti. È dovuta alla piena autonomia redazionale da parte dei collaboratori la differenza nella lunghezza dei rispettivi articoli e nei rinvii fra lemmi collegati (Blasco Ferrer 1989). La forma grafica dei lemmi semplici si avvicina a quella adottata dal Nuovo Pirona; i lemmi vengono elaborati in due modi: uno tradizionale con attenzione ad una sola parola elencata secondo l’ordine alfabetico, e un secondo con articoli costituiti da piccole monografie onomasiologiche. Ciò permette di rinviare anche a sinonimi regionali, etimologia, documentazione di forme antiche letterarie e d’archivio (Pellegrini 1980; Marcato 1992; cf. anche Meier 1987). Criticabile può risultare il fatto che non sono tratti esempi da testi e che per i singoli lemmi non è sempre stato preso in considerazione il lessico specialistico. Nonostante ciò il DESF è uno strumento molto importante e presenta «il vocabolario friulano analizzato nelle sue origini neolatine, integrato dallo studio dei prestiti alloglotti (specie germanici, di varia epoca, e slavi) nel complesso […] alquanto limitati, unitamente agli elementi prelatini piuttosto rari, ma non interamente assenti […] e ai ricchi filoni di origine veneta ed italiana» (DESF, p. XII, cf. anche Holtus 1987).

Ultimamente l’ambiziosa idea di un dizionario etimologico del friulano è stata ripresa sulla base di documenti del volgare delle origini pubblicati negli ultimi anni nell’ambito di un progetto iniziato nel 2003 da parte di Vicario; vengono presi in considerazione i caratteri della scripta che mostra forti intereferenze sia del latino (proprio in campo amministrativo, ristretto piuttosto al codice scritto) e del (tosco-)veneto (Vicario 2009–). Si è già accennato al Nuovo Pirona, importantissimo dizionario del friulano, i cui primi fascicoli risalgono al 1867. Giulio Andrea Pirona anticipava un vocabolario del friulano nel 1854 con un repertorio onomasiologicamente molto ristretto di Voci friulane significanti animali e piante pubblicate come saggio di un vocabolario generale della lingua friulana e con un Vocabolario botanico friulano del 1862. Il vocabolario di Jacopo Pirona serviva ad aiutare i friulani ad apprendere la lingua italiana, così come accadeva per altri dizionari locali e regionali nel resto d’Italia. Anche se la lessicografia regionale friulana ha inizio con un certo ritardo rispetto a quella di altre regioni italiane, essa ha il vantaggio di nascere con un’ottica moderna, scientifica (Zolli 1987; 1989). Spetta al primo Pirona una grandissima importanza documentaria, visto anche che nel 1871, per i vocabolari bilingui, solo Venezia e la Sardegna disponevano di un repertorio del genere con scopi puramente pratici. La seconda edizione del vocabolario, uscita nel 1935, si pone come riferimento assoluto fino alla pubblicazione del Vocabolario della lingua friulana di Faggin (1985), di quello di Tore Barbina (1991) e di Nazzi (1993), oltre che del recente GDBtf. I vocabolari citati perseguono però scopi assai diversi e si differenziano dunque sia tra loro, sia dal Pirona, per quanto riguarda l’impianto concezionale e la struttura. I dizionari moderni hanno infatti carattere

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normativo e/o letterario e presentano dunque una scelta assai limitata di varianti, trascurando completamente la diatopia. Nel Pirona è invece senz’altro positiva l’indicazione di varianti regionali, sebbene non si forniscano informazioni sulla loro pronuncia. Proprio con riferimento a singole varietà sono successivamente state pubblicate le Aggiunte al Nuovo Pirona ripubblicate nella seconda edizione del Nuovo Pirona curata da Frau, che offrono così una visione più generale del lessico friulano (Frau 1988). Il Pirona risulta inoltre interessante per le note grammaticali che forniscono un abbozzo di descrizione della grammatica friulana, anche se, vi si scrive, il friulano non avrebbe bisogno di una «grammatica in proprio senso» (XLV). Le note servono piuttosto ad evidenziare le differenze fra italiano e friulano. Accanto a questi appunti grammaticali la prima parte del vocabolario contiene dieci versioni dialettali della Parabola del Figluol Prodigo e indicazioni su ortografia e pronuncia che prendono in considerazione però solo le varianti del friulano centrale registrate quali lemmi. La grafia – semplificata – adottata nel dizionario risulta interessante per la discussione sulla grafia (ufficiale) del friulano; essa viene tuttavia spesso considerata problematica. La seconda parte del vocabolario è costituita dal dizionario friulano generale, ma anche botanico, zoologico e corografico. La terza parte infine è il vocabolario italiano-friulano che comprende anche termini storici ed elementi etimologici, inserendo inoltre confronti con altre lingue e in specie col fiorentino. Riguardo al problema dell’esclusivo riferimento alla varietà dell’area udinese risulta importante la già accennata inclusione di altri dialetti, in particolare della varietà carnica, rispecchiata dalle Aggiunte (Francescato 1982, 151). Tutto sommato, il Nuovo Pirona rimane uno dei migliori esempi di vocabolari dialettali (Marcato 1992). Il Vocabolario di Faggin ha il pregio di presentare una notevole documentazione letteraria, difatti dà esempi tratti da autori di koinè (dall’800 in poi, gli autori citati sono circa 150; Frau 1987; cf. anche Craffonara 1986). Scopo di Faggin è fornire una documentazione del friulano moderno, ma anche «della buona lingua», il che rispecchia l’idea normativa alla base del vocabolario. Essendo legato all’uso scritto letterario, il vocabolario ha solo scarso riferimento p. es. alla cultura contadina, per cui vengono escluse voci popolari e del mondo del lavoro. È però evidente, dato il diverso taglio del Vocabolario della lingua friulana, che questo non intendeva sostituire il Nuovo Pirona. Per il materiale utilizzato si nota un buon equilibrio; Faggin nella presentazione dei lessemi si mostra però piuttosto puristico, elimina i venetismi più stridenti, non integra un cospicuo numero di neologismi; interessante è poi il fatto che egli non elenchi lessemi estinti già all’inizio del XIX secolo, il che mostra un certo grado di astrazione rispetto agli autori presi in considerazione per gli esempi. Dal punto di vista delle scelte ortografiche, il dizionario risulta problematico, privilegiando il complesso sistema conosciuto anche come «grafia delle pipe» alla grafia semplificata del Nuovo Pirona (Rizzolatti 1986). Quale base lessicografica per le varietà dialettali rimane dunque sempre valido il Nuovo Pirona; tuttavia, anche nel vocabolario di Faggin vengono prese in considerazione varianti dialettali, anche carniche e goriziane. Indubbiamente però l’interesse primario è la descrizione lessicale del friulano

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moderno orientato sulla koinè letteraria (Frau 1986). Allo stesso tempo il vocabolario non vuol essere e non è un dizionario storico. Come nel Nuovo Pirona anche nella prefazione di Faggin si trova un cenno alla standardizzazione del friulano; il friulano viene descritto come «tipo di lingua scritta provvisto di una struttura grammaticale sufficientemente normalizzata» (XII), anche se l’autore ammette che «[i]l friulano conosce parecchie incertezze grammaticali» (XVIII; Holtus 1990). In anni recenti si sono susseguiti progetti e prodotti lessicografici di respiro più o meno ampio, tra cui dizionari tascabili, numerosi glossari specialistici in diversi ambiti tecnico-amministrativi e in ambito medico (al riguardo cf. Melchior 2014), alcuni dizionari ortografici nonché una serie di dizionari bilingui con diverse maggiori lingue europee (redatti peraltro non in grafia ufficiale). Recentemente è stato pubblicato anche un primo dizionario monolingue friulano del lessico fondamentale (Vicario 2009), interessante nonostante le dimensioni ridotte e la relativamente scarsa elaborazione della microstruttura dei singoli articoli. Il progetto lessicografico più rilevante è però il Grant Dizionari Bilengâl talian-furlan (2011), dizionario bilingue, ma monodirezionale, recentemente uscito in versione cartacea, dopo essere stato disponibile, dal 2001, in alcune anteprime su CD-ROM e online. L’ambiziosa impresa, che ha coinvolto un team di una trentina di collaboratori per una decina d’anni (cf. Vicario 2014), si pone l’obiettivo di fornire una corrispondenza italiana a un corpus di termini italiani selezionati sulla base del dizionario monolingue GRADIT, curato da De Mauro (1999), che vanno a coprire sia il lessico fondamentale sia diversi ambiti del lessico specialistico. L’opera – mastodontica: sei volumi, con oltre 46.500 voci lemmatizzate – costituisce un esempio di notevole sforzo nel processo di elaborazione e normalizzazione del friulano. Essa presenta tuttavia anche diversi punti critici, tra cui ne siano qui citati solo alcuni. Innanzitutto stupiscono il mancato riferimento a fonti importanti come il già citato ASLEF o il Dizionario storico friulano e la rinuncia a indicare i materiali utilizzati per lo spoglio lessicografico (cf. Vicario 2014). Problematica è anche l’attività neologica, talora guidata da principi non sempre chiaramente comprensibili e condivisibili (quali uno spiccato purismo e la riattivazione di modelli di formazione delle parole in friulano non più attivi, cf. Melchior 2014). Dal punto di vista strutturale risulta problematica la scarsità di informazioni nella microstruttura degli articoli: per gli equivalenti friulani manca infatti qualunque tipo di informazioni grammaticali e di marca d’uso – presenti invece per i termini italiani –, così che per non madrelingua o per parlanti con scarse competenze è talora impossibile sapere, p. es., quale sia il genere delle parole friulane o quale tra gli equivalenti proposti (che nella versione cartacea sono elencati semplicemente in ordine alfabetico) sia quello più comune e/o diffuso. Tali mancanze rendono difficile la consultazione del dizionario a parlanti non esperti. Problematica rimane inoltre la questione della ricezione dell’opera, che al momento pare non essere avvenuta né nel mondo della ricerca né presso la comunità linguistica (cf. Vicario 2014).

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5 Altri filoni di ricerca Anche se con Timau. Tre lingue per un paese (Francescato/Solari Francescato 1994) apparve già relativamente presto un’importante monografia di stampo sociolinguistico dedicata a temi quali il plurilinguismo, la (complessa) diglossia (cf. Plangg 1996, 267) e il contatto linguistico, che costituisce «un momento fondamentale nel procedere dell’attuale sociologia del linguaggio italiana» (Grassi 1997, 284), la ricerca sociolinguistica non pare tuttavia molto sviluppata. Classica, ma ormai alquanto datata, è l’inchiesta del gruppo Alpina (1975), volta a indagare gli usi linguistici nella Regione (comprese le aree alloglotte) e che, nonostante la relativamente scarsa diffusione del breve fascicolo in cui ne vengono presentati i risultati, costituisce spesso ancora la base su cui viene stilato il profilo linguistico del Friuli. Da citare qui, per i suoi interessi (anche) sociolingusitici, è anche il già ricordato Francescato/Salimbeni (1976). Nel corso degli anni ’80 e ’90 si sono avuti alcuni studi sparsi svolti da Strassoldo e raccolti in volume nel 1996, che afferiscono peraltro alla sociologia del linguaggio e non alla sociolinguistica tout court. In tempi più recenti si segnalano Picco (2001), ricerca anch’essa di stampo più prettamente sociologico sull’utilizzo del friulano tra la popolazione e Picco (2013), raccolta di studi effettuati tra la fine del XX e gli inizi del XXI  secolo su diverse questioni legate alla lingua e alle misure di tutela ed elaborazione della stessa, oltre a Susić/Janežić/Medeot (2010), studio con focus su questioni di politica linguistica e sulla percezione dei confini tra i diversi gruppi linguistici del territorio regionale. Si segnalano inoltre alcune analisi dedicate a singole realtà, come Buonocore/Finco (2002). Una delle discipline maggiormente sviluppate nella ricerca sul friulano è sicuramente quella dell’onomastica e della toponomastica in particolare. In questi ambiti si segnalano soprattutto il Profilo di antroponimia friulana (Marcato 2010) e I cognomi del Friuli (Costantini/Fantini 2011), «sicuro punto di riferimento per quanti desiderino approfondire la conoscenza di questa materia» (Vicario 2012, 394), nonché i due volumi di Desinan (1976–1977) e due dizionari toponomastici, l’importante e ormai classico Frau (1978), «[t]he first integral collection of the place names of this complex and interesting region» (Hamp 1988, 141) e quello più recente e assai corposo di Cinausero Hofer/Dentesano (2011). Quest’ultimo estende la trattazione al Friuli storico, offrendo «al lettore un’enorme mole di dati, messi insieme in oltre sette anni di lavoro. Esso costituisce senz’altro un utile strumento di consultazione e una base di partenza per i futuri studi toponomastici in Friuli Venezia Giulia» (Finco 2013a, 236), nonostante si segnalino alcune limitazioni nell’analisi etimologica e di evoluzione fonetica di singoli toponimi (cf. Finco 2013a, 237). In corso di preparazione è poi l’ambizioso progetto di un Atlante Toponomastico del Friuli Venezia Giulia (che, nonostante il nome, si occuperà anche dei toponimi del Friuli storico, comprendendo dunque i territori storicamente friulani, ma amministrativamente veneti), coordinato da Franco Finco per conto della Società Filologica Friulana, la cui realizzazione e pubblicazione sono previste per gli anni a venire, e del quale sono consultabili online

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all’indirizzo http://www.toponomasticafriulana.it alcuni primi materiali illustrativi e introduttivi. Notevolmente meno sviluppato è il filone della ricerca sui friulani all’estero. Dopo il pionieristico e fondamentale lavoro di Iliescu (1972), citato più sopra, la prima monografia dedicata all’argomento è Melchior (2009a), che «costituisce senza dubbio un contributo importante per la linguistica della migrazione. Grazie alla prospettiva regionale doppia ossia comparativa – una novità nella linguistica della migrazione italiana – l’autore riesce a circoscrivere l’eterogeneità della migrazione italiana nei Paesi germanofoni e in tal modo analizzarla in maniera più precisa» (Hack 2011, 397 (trad. di L. M.), cf. anche Vicario 2011).  

Molte interessanti ricerche, principalmente tesi di laurea presso l’Università degli Studi di Udine, sono rimaste purtroppo inedite. Da segnalare infine che negli ultimi tre lustri si è assistito a un intensificarsi di pubblicazioni, dal carattere spesso non scientifico, miranti alla diffusione delle conoscenze della grafia ufficiale e delle convenzioni ortografiche del friulano. Così, accanto alle grammatiche didattiche e ai dizionari ortografici cui si è fatto cenno più sopra, si contano anche guide al friulano scritto, che introducono gli aspiranti scriventi friulano alle regole della lingua comune.

6 Concetto del volume Il concetto del volume si orienta da una parte verso una descrizione tradizionale, mirata a toccare tutti i livelli della lingua, dall’altra cerca di porre in risalto i vari interessi nell’ambito della friulanistica: la dialettologia, le questioni legate al plurilinguismo e al contatto linguistico e la politica linguistica, con le misure a essa legate, diventata particolarmente importante negli ultimi anni per il riconoscimento del friulano come lingua minoritaria con la LR 15/1996 e la legge dello Stato italiano 482/ 1999. Il volume è diviso in tre blocchi tematici, di cui il primo è riferito al friulano nella storia e nel presente. I singoli contributi coprono sia questioni generali di stampo introduttivo (↗1 Friulano; ↗2 La posizione del friulano nella Romania; ↗3 «Questione ladina»), sia studi legati allo sviluppo storico (con quattro saggi riguardanti la ↗4.1 Storia linguistica esterna; la ↗4.2 Grammaticografia e lessicografia (dal XVII agli inizi del XX  secolo); la ↗4.3 Storia linguistica interna; e i ↗4.4 Testi antichi). Particolare interesse è rivolto alla dialettologia, con articoli che si occupano sia della ↗5.1 Suddivisione dialettale del friulano sia di parlate che mostrano un forte influsso veneto: così vengono trattati separatamente ↗5.2 Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione venetofriulana e le ↗5.3 Lingue urbane, prendendo in considerazione anche varietà ormai estinte per la forte venetizzazione (↗5.4 Tergestino/Muglisano). La tematica viene ripresa nel capitolo rivolto al plurilinguismo e al contatto linguistico, che è suddiviso

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in quattro articoli dedicati alla situazione specifica di contatto con sloveno (↗6.1 Sloveno), tedesco (↗6.2 Tedesco), veneto (↗6.3 Veneto) e – in prospettiva storica – al ↗6.4 Friulano, veneto e toscano nella storia del Friuli. Dato che il Friuli, nella storia, è stato luogo di forti emigrazioni, risultano interessanti anche le comunità friulane al di fuori dei confini della Regione, per cui il capitolo viene completato con appunti sul ↗7 Friulano nel mondo. Il secondo blocco tematico è dedicato al friulano come sistema linguistico ed è suddiviso in quattro saggi su ↗8 Fonetica e fonologia; ↗9 Morfologia e sintassi; ↗10 Stratificazione lessicale e formazione delle parole; e ↗11 Toponomastica e antroponimia (campo quest’ultimo da sempre molto ben indagato). La terza e ultima sezione tiene conto dei recenti sviluppi (Il friulano lingua minoritaria – politica linguistica) e copre tematiche diverse, così ↗12 La situazione sociolinguistica; ↗13 Il quadro giuridico; ↗14 Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie; ↗15 Normalizzazione: grafia, grammaticografia e lessicografia; ↗16 Pianificazione linguistica ed elaborazione; ↗17 Friulano nei mass media; e infine ↗18 Friulano nella scuola (e nell’università).

7 Bibliografia Alpina = Gruppo di Studio «Alpina». Bellinzona (1975), I quattro gruppi nazionali del Friuli-Venezia Giulia, Italiani, Friulani, Sloveni, Tedeschi: studio statistico attuato in collaborazione con le Amministrazioni comunali, Bellinzona, Arti grafiche A. Salvioni. Ascoli, Graziadio Isaia (1848), Sull’idioma friulano e sulla sua affinità colla lingua valaca. Schizzo storico-filologico, Udine, Vendrame. Ascoli, Graziadio Isaia (1873), Saggi ladini, Archivio Glottologico Italiano 1, 1–556. ASLEF = Pellegrini, Giovan Battista (ed.) (1972–1986), Atlante Storico-Linguistico-Etnografico Friulano (ASLEF), 6 vol., Padova/Trieste/Udine, Istituto di glottologia dell’Università di Padova/Istituto di filologia romanza della Facoltà di lingue e letterature straniere di Trieste con sede in Udine/ Dipartimento di linguistica dell’Università di Padova/Istituto di filologia romanza dell’Università di Udine. Atlante Toponomastico del Friuli Venezia Giulia, http://www.toponomasticafriulana.it/easyne2/SZN. aspx?ID=16&code=Topo (01.02.2014). Battisti, Carlo (1937), Storia della «questione ladina», Firenze, Le Monnier. Battisti, Carlo (1941), Storia linguistica e nazionale delle valli dolomitiche atesine, Firenze, Rinascimento del libro. Battisti, Carlo (1962), Le valli ladine dell’Alto Adige e il pensiero dei linguisti italiani sulla unità dei dialetti italiani, Firenze, Le Monnier. Benincà, Paola (1995), Friaulisch, in: Günter Holtus/Michael Metzeltin/Christian Schmitt (edd.), Lexikon der Romanistischen Linguistik, vol. 2.2: Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, Tübingen, Niemeyer, 42–61. Benincà, Paola/Vanelli, Laura (1995), Il plurale palatale in friulano: saggio di analisi autosegmentale, in: Scritti di linguistica e dialettologia in onore di Giuseppe Francescato, Trieste, Edizioni Ricerche, 25–46. Benincà, Paola/Vanelli, Laura (2005), Linguistica friulana, Padova, Unipress.

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Il friulano nella storia e nel presente

Federico Vicario

1 Friulano Abstract: I principali momenti della formazione della lingua friulana accompagnano una rassegna, essenziale, degli elementi che ne contraddistinguono lessico e fisionomia. Attenzione si presta, in particolare, alla specifica posizione della regione friulana, naturale area di contatto tra popoli e culture diverse, crocevia e punto di incontro tra le principali anime linguistiche d’Europa. Keywords: formazione della lingua, lessico, profilo linguistico, plurilinguismo, varietà dialettali

1 Il friulano. Una lingua nel cuore dell’Europa Il poeta Girolamo Biancone (ca. 1530–1589), una delle voci più alte della lirica friulana del Cinquecento, dedica alla «questione della lingua» il noto sonetto Sore iu furlans e in so honoor ‘sui friulani e in loro onore’, cf. R. Pellegrini (2000, 125–146). Nel lungo componimento, un centinaio di versi, così si esprime il poeta: […] chu l’omnipotent Dioo e nestre lenge tante nobiltaat, tant’eccelentie par so gratie ha daat, ch’e pie qualitaat de latine, de greche e de francese, de boeme, spagnolle e dall’inglese, de turche e de pugliese, de sclave, de todeschie e de crauatte, e d’ogni altri lengaz ch’al mont si chiatte.

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(trad.: ‘[…] che Dio onnipotente / alla nostra lingua tanta nobiltà, / tanta eccellenza per sua grazia ha dato, / che prende qualità / dalla latina, dalla greca e dalla francese, / dalla boema, spagnola e dall’inglese, / dalla turca e dalla pugliese, / dalla slava, dalla tedesca e dalla croata, / e da ogni altro linguaggio che al mondo si trova’).

Il friulano viene qui dipinto da Biancone come una lingua composita, che riassume in sé i caratteri di numerosi idiomi e parlate a delineare una specificità e una identità, così ben definita rispetto alle parlate vicine, che si deve in misura rilevante proprio alla sua «pluralità». L’idea di Biancone è sicuramente condivisa da altri letterati del Cinquecento – si vedano, a tale proposito, i componimenti di Nicolò Morlupino Chel uuarp che za chiantà chun grec latin ‘quel cieco che già cantò con greco latino’ o di Girolamo Sini In laude de lenghe furlane ‘in lode della lingua friulana’ –, ma anche dagli storici del tempo. Piuttosto noto è, ad esempio, il passo del cividalese Marc’Antonio Nicoletti (1536–1596), che nelle Leggi e costumi dei Furlani così scrive:

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«Non è meraviglia che Romani, Goti, Longobardi, Bavari ovvero Schiavi e quasi tutte le nazioni del continente abbiano posto in Friuli perpetue sedi, corrompendo infine, con la mescolanza barbara di tante lingue, la purità della favella romana ed inducendo un linguaggio comune all’Italia, ma così duro, così rotto per gli accenti e per le cadenze che sebbene il Furlano intende tutti gli Italiani ed è atto ad apprendere con facilità tutte le lingue, nulladimeno egli non è inteso interamente da alcuno» (cf. Nicoletti 1927, 3).

La rassegna delle opinioni sul friulano potrebbe davvero essere lunga, a partire dal famoso ces fastu del De vulgari eloquentia di Dante – per la varietà di queste opinioni si vedano, ad esempio, i due interessanti contributi di Faggin (1989; 2001) –, ma l’idea della mescolanza delle favelle, della facilità dei friulani ad avvicinarsi alle lingue degli altri e, di converso, la difficoltà degli altri ad avvicinarsi al friulano, costituisce nel Cinquecento una sorta di communis opinio sul friulano stesso. Non vi è dubbio comunque che, al di là dell’iperbolica elencazione di Biancone, e della più contenuta, ma sempre cospicua, esposizione di Nicoletti, non sia il solo friulano a caratterizzarsi per la presenza di filoni lessicali e apporti di diversa provenienza, quanto meno nel panorama delle lingue europee. Questa possiamo considerare essere la regola, più che l’eccezione, in uno scenario che presenta tanti e complessi casi di contatto linguistico e di plurilinguismo, dove così forti sono le tradizioni locali, così illustri le produzioni letterarie, anche nelle varietà considerate minori, così sensibile l’attenzione, ad un tempo, verso i valori dell’identità e della diversità, che rafforzano il sentimento di appartenenza nei confronti della propria comunità. Possiamo allora considerare il friulano, in altre parole, paradigma delle particolari condizioni storico-culturali dell’incontro tra lingue e popolazioni nel cuore dell’Europa, dove migrazioni e dominazioni hanno lasciato segni tanto profondi, dove le principali famiglie linguistiche del nostro continente hanno intessuto le loro trame, sviluppando peculiari fenomeni di contatto e di plurilinguismo, dove quegli avvenimenti storici e quelle condizioni socioculturali che hanno determinato la genesi di questa lingua, continuano a determinarne l’evoluzione (per una presentazione generale del friulano si rimanda a Vicario 2011).

2 Il Friuli prima del Friuli Accingendosi ad una descrizione del friulano, dal punto di vista storico e linguistico, pare lecito domandarsi quale possa essere il punto di partenza di questa descrizione. Lo stesso problema si pone Cesare Scalon nelle ricche parti introduttive ai tre volumi (per nove tomi complessivi) del Nuovo Liruti (cf. Scalon et al. 2006–2011), dove si affronta la definizione dello spazio geografico friulano. In quelle dense pagine si propone un affascinante excursus storico e culturale della regione, prendendo in esame il concetto stesso di Friuli, a partire dall’affermazione, nell’uso comune, dell’aggettivo foroiulianum o foroiuliense, ad indicare non soltanto quanto poteva riguardare in particolare la città di Cividale – la Forum Iulii dei romani, appunto – ma anche la sua stessa provincia, erede dalla X Regio augustea Venetia et Histria, che

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aveva in Aquileia il suo centro di riferimento. Il consolidarsi di questa realtà storica e politica muove dal rafforzamento del potere dei Longobardi, da una parte, e della Chiesa aquileiese, dall’altra, conducendo il Friuli e il suo Patriarcato attraverso i travagliati secoli del lungo Medioevo della nostra terra. La convenzionale data di nascita del friulano è di fatto comune a quella delle altre lingue neolatine, quando cioè, intorno al X –XI  secolo, i caratteri tipologicamente divergenti e innovativi tra latino e volgare, in una sorta di generale processo di «gemmazione», prendono il sopravvento su quelli convergenti e conservativi. Il punto di partenza della nostra descrizione potrebbe dunque essere proprio l’anno Mille, quando la «particolare combinazione» e la «contemporanea presenza», direbbero gli ascoliani, vanno a consolidarsi in un nuovo (dia)sistema, coeso al suo interno e ben definito rispetto a quelli contermini. La comparsa e l’assestamento di caratteri «friulani» nel latino aquileiese, di quei caratteri cioè che a posteriori, quindi dal nostro punto di vista, riconosciamo come peculiari del friulano, sono però in alcuni casi precedenti e la descrizione dovrebbe spingersi quindi più indietro, alle lingue o alle tracce linguistiche che possono aver lasciato le prime popolazioni che stabilmente hanno abitato la regione. Natura non facit saltus, come sappiamo, ininterrotta è l’evoluzione delle lingue, continuo è il mutare delle forme, delle strutture e, ancor più, del lessico (↗10 Stratificazione lessicale e formazione delle parole).

2.1 Friuli prelatino e latino Le prime presenze umane in Friuli datano al Paleolitico superiore, ma sarà nel Neolitico e, ancor più, nelle successive età del Bronzo e del Ferro, con gli insediamenti detti castellieri, che la regione verrà maggiormente abitata; a tale periodo, per altro, che vede una maggiore stabilità della popolazione e forme di cultura più evolute, risalgono le prime produzioni di utensili e di ceramiche lavorate. Non facile risulta ricondurre voci del friulano attuale all’età protostorica, in ogni caso, dove si possono forse riferire a tale periodo alcuni isolati elementi quali karra ‘roccia, pietra’ (cf. il toponimo Carso ‘monte sassoso’), pala ‘pendio erboso ove non si conduce a pascolare il bestiame, ma il cui prodotto si utilizza mediante lo sfalcio’ (friul. pala, pale, con derivati palon, palot, paluta, diffuso anche nella toponomastica: Paluce ‘Paluzza’, Plan di Paluç [Tarcento], Palavierte etc.), roggia ‘canale stabile di acqua corrente’ (friul. roie, roiâl, ben attestato anche nella toponomastica), o idronimi come Alsa, da cui il friul. Ausse ‘Aussa’, o Varamus, friul. Var ‘Varmo’. Fu la popolazione indoeuropea dei Paleoveneti o Venetici ad insediarsi per prima e stabilmente in Friuli, fino all’odierna Slovenia, assorbendo le preesistenti genti preindoeuropee, delle quali sappiamo molto poco, ma furono poi soprattutto tribù di stirpe celtica, i Galli Carni, che la occuparono, in buona parte, dopo la prima metà del primo Millennio a.C. L’interesse dei Romani per quello che sarebbe diventato il Friuli cominciò a essere abbastanza forte nel III secolo a.C. e lo fu ancora di più nel secolo

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seguente. Una migrazione di popolazioni celtiche dal nord delle Alpi, che miravano a consolidare la loro presenza nella bassa friulana, area strategica per il controllo dell’alto Adriatico, delle vie commerciali con l’est, come anche in funzione antiillirica, scatenò nel 186 a.C. la reazione di Roma, una reazione che portò cinque anni più tardi, nel 181 a.C., alla fondazione del municipium di Aquileia (così si esprime, in un famoso passo, lo storico Tito Livio: «Aquileia colonia latina eodem anno in agrum Gallorum est deducta»). Dal punto di vista linguistico, il latino dei nuovi coloni convive per un certo periodo con le parlate locali dei Galli – in situazione di generale bilinguismo, si direbbe – salvo completare, presumibilmente intorno al II secolo d.C., l’integrazione dell’elemento preromano. Se ciò è vero, è vero anche che alcuni termini celtici vengono acquisiti dal latino regionale aquileiese e che da questo passano al friulano, termini che il friulano condivide, o meno, con altre varietà della Cisalpina. Si tratta, in particolare, di elementi che si riferiscono, per lo più, alla descrizione del terreno e a oggetti della cultura materiale; tra questi si segnalano, ad esempio, il friul. bar ‘zolla erbosa’, ma anche ‘cespo (di insalata)’, friul. bore ‘parte del tronco del faggio’, friul. broili ‘verziere, poderetto, frutteto’, in generale annesso all’abitazione, friul. cjarpint ‘assale delle ruote del carro agricolo’, friul. cjarugjel ‘carrello dell’aratro’, friul. crigne ‘porcile’, friul. cumiere ‘striscia di terra rialzata prodotta dall’aratura’, friul. glasigne ‘mirtillo’, termine concorrente rispetto al più comune slavismo cerignicule, friul. grave ‘ghiaia’, molto diffuso anche nella toponomastica, friul. louze ‘slitta’, friul. troi ‘sentiero’, nonché due voci, addirittura, ad indicare il medesimo strumento agricolo, lo ‘staccio’, che sono il friul. draç e il friul. tamês – il primo di questi indica, in particolare, lo ‘staccio a maglia larga’. Decisamente numerosi sono, poi, i termini o gli appellativi celtici che si conservano nella toponomastica friulana, termini che descrivono particolari caratteri dei luoghi o che indicano l’appartenenza di un certo podere ad una famiglia gallica. Vi sono, quindi, numerosissimi toponimi prediali che terminano con il suffisso ‑ ACUM o -ICUM , ad indicare appunto i proprietari dei singoli possedimenti, cf. in particolare G.B. Pellegrini (1958). Tra questi vi sono, ad esempio, il friul. Martignà (it. Martignacco) che è il ‘podere di Martinus’, friul. Vergnà (it. Vergnacco), il ‘podere di Verinius’, e ancora il friul. Bicinins (it. Bicinicco), friul. Cicunins (it. Ciconicco), friul. Cjavalì (it. Cavalicco), friul. Dalnì (it. Alnicco), friul. Laipà (it. Laipacco), friul. Luvinà (it. Leonacco), friul. Manià (it. Maniago), friul. Pagnà (it. Pagnacco), friul. Prissinins (it. Precenicco), friul. Remanzâs (it. Remanzacco) e altri ancora. Oltre ai prediali, sempre riconducibili al sostrato prelatino, abbiamo poi idronimi come il friul. Livence (it. Livenza), friul. Lusinç (it. Isonzo), friul. Nadison (it. Natisone), friul. Tiliment (it. Tagliamento), friul. Timau (it. Timavo), friul. Tor (it. Torre), oronimi come il friul. Ledis, friul. Narvenis it. Arvenis, friul. Plauris, toponimi come il friul. Glemone (it. Gemona del Friuli), friul. Nimis, friul. Sece (it. Sezza), friul. Vendoi (it. Vendoglio) etc. (su alcuni di questi elementi, soprattutto gli idronimi, con ampi confronti per l’area celtica, cf. Trumper 2007 e 2011; ↗11 Toponomastica e antroponimia).

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Nei secoli successivi alla fondazione di Aquileia il processo di latinizzazione della regione proseguì in modo rapido e massiccio, come si diceva, procedendo anche dagli altri tre municipia, stabiliti da Giulio Cesare, di Iulia Concordia (friul. Concuardie, it. Concordia Sagittaria), di Iulium Carnicum (friul. Zui, it. Zuglio) e di Forum Iulii (friul. Cividât, it. Cividale del Friuli). La città di Aquileia si sviluppò velocemente come centro emporiale, portuale e militare, divenendo con Augusto la capitale della X Regio Venetia et Histria, che andava dall’attuale Lombardia alla Slovenia, e costituendo la base di partenza per la successiva espansione romana verso le terre danubiane e balcaniche. Punto nevralgico per trasporti e comunicazioni, la regione fu dotata di una ricca rete di vie di collegamento tra le principali arterie dell’Italia e i territori di oltralpe. L’organizzazione agraria e insediativa del territorio, con la centuriazione e la distribuzione delle terre ai coloni – solitamente veterani dell’esercito accompagnati dalle famiglie e dagli schiavi –, sviluppò l’economia della regione e ne accrebbe di molto la ricchezza. Il lessico di origine latina, di derivazione diretta o mediata da altre lingue, costituisce la parte di gran lunga più consistente del patrimonio lessicale friulano, quanto meno di quello ereditario; un filone molto interessante, all’interno di questo lessico, è costituito dai termini, o da quelle specifiche accezioni, che si possono considerare tipicamente «aquileiesi». La presenza di caratteri regionali per il latino aquileiese, ad ogni modo, è segnalata molto precocemente; la prima citazione dell’esistenza di un idioma particolare in Friuli ci viene addirittura da San Girolamo, verso la metà del IV  secolo, dal quale apprendiamo che il vescovo di Aquileia Fortunaziano, per la prima volta in Italia, aveva redatto un commento dei Vangeli nel rusticus sermo, cioè nel linguaggio del popolo, quindi nel latino regionale. Si tratta, in particolare, di una testimonianza tratta dal Liber de viris illustribus ‘Libro degli uomini illustri’ (Patrologia Latina, t. XXIII, c. 97, col. 735–738): «Fortunatianus, natione Afer, Aquileiensis episcopus, imperante Constantio, in Evangelia, titulis ordinatis, brevi et rustico sermone scripsit commentarios» ‘Fortunaziano, africano di stirpe, vescovo di Aquileia, sotto l’impero di Costanzo, scrisse commenti ai Vangeli, ordinati per capitoli, con lingua semplice e popolare’.

Tra gli elementi aquileiesi, che fanno quindi parte del fondo ereditario più caratteristico della lingua e talvolta anche del lessico di base, possiamo citare, ad esempio, forme come il friul. agâr ‘solco acquaio nei campi’, dal lat. AQUARIUM ; il friul. cercjâ nel senso di ‘assaggiare’, invece che in quello di ‘cercare’, dal lat. CIRCARE ; il friul. dumla ‘ragazza’, dal lat. DOMINULAM , in origine ‘piccola signora’, che si trova nella nota ballata cividalese Biello dumnlo di valor ‘Bella signora di valore’ (↗4.4 Testi antichi); il friul. frut ‘bambino’, inteso quindi nella specifica accezione ‘frutto dell’uomo’, dal lat. FRUCTUM ; il friul. muini ‘sacrestano, scaccino’, invece che ‘monaco, frate’, dal lat. MONACHUM ; il friul. masc. nuviç e femm. nuvice nelle accezioni di ‘sposo’ e ‘sposa’, non in quella di ‘frate giovane’ e ‘suora giovane’, dal lat. NOVITIUM . Abbiamo poi ancora il friul. pesenâl ‘antica misura per solidi’, dal lat. PENSUM SENALE ; il friul. prindi ‘lunedì’,

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dal lat. PRIMUM DIEM , riferito ovviamente al primo giorno della settimana, voce soppiantata dal moderno lunis; il friul. viliis ‘officio funebre’, dal lat. VIGILIAS . Altri termini, o accezioni peculiari di termini diffusi in aree più ampie, riguardano poi elementi come il friul. jubâl ‘pertica del carro da fieno’, dal lat. IUGALEM , l’interessante friul. revoc ‘eco’, ma anche ‘ricordo’, deverbale del lat. REVOCARE , il friul. tulugn ‘verricello’, dal lat. volg. *TOLLONEUM , il friul. vonde o avonde ‘abbastanza’, dal lat. ABUNDAT , ma anche i due termini popolari per le stagioni della ‘primavera’ e dell’‘autunno’, rispettivamente il friul. vierte, dal lat. APERTAM , e il friul. sierade, dal lat. SERRATAM . Uno strumento di primaria importanza per la vita di un tempo, cioè l’aratro, possiede due diversi continuatori, nell’area aquileiese (centro-orientale) e nell’area concordiese (occidentale): sono, rispettivamente, il friul. vuarzine, dal lat. ORGANUM , ad indicare, quindi, lo strumento di lavoro per eccellenza, e il suo analogo friul. versôr, dal lat. VERSORIUM da VERTERE , con riferimento all’operazione di ‘rovesciare’ la terra. Anche un altro concetto di uso primario come ANDARE , il verbo di movimento per eccellenza, possiede due continuatori in area friulana, trovandosi il friul. lâ, dal lat. volg. *ALLARE (friul. ant. alà), in area aquileiese, che si oppone al friul. ’sî, dal lat. IRE , dell’area concordiese. Sempre a proposito delle differenze dei continuatori latini nelle due aree, abbiamo per il concetto di ‘fulmine’ l’aquileiese folc, dal lat. FULGUR , rispetto al concordiese saeta, dal lat. SAGITTAM . Assai numerosi sono, inoltre, dal punto di vista contrastivo, i termini o le formazioni che oppongono, ad esempio, il friulano all’italiano. Pensiamo a tutta una serie di voci friulane che continuano una forma latina che viene portata al diminutivo per formare i corrispondenti elementi italiani (si tratta, come si dice, di «diminutivi banalizzati», cioè di forme originarie di diminutivo che hanno perso la loro funzione): il friul. ceve ‘scalogna’, dal lat. CAEPAM , invece dell’it. cipolla, dal lat. CAEPA + -ULLAM ; il friul. cuc, dal lat. CUCUM , invece dell’it. cuculo, dal lat. CUCUM + -ULUM ; il friul. fradi, dal lat. FRATER , invece dell’it. fratello, dal lat. FRATER + -ELLUM ; il friul. sûr, dal lat. SOROR , invece dell’it. sorella, dal lat. SOROR + -ELLAM etc. D’altra parte, il friul. soreli ‘sole’ continua il diminutivo lat. SOLICULUM , come il fr. soleil, mentre l’it. sole è dal lat. SOLEM , senza suffisso. Numerosi elementi di originalità, nel lessico latino del Friuli, sono quelli che si registrano nelle scriptae medievali di uso pratico. Nel vastissimo patrimonio mediolatino si possono isolare, di fatto, un gran numero di voci peculiari della nostra regione, voci che riflettono spesso forme del parlato debitrici di tradizioni linguistiche e culturali diverse, soprattutto germaniche e slave. Raccoglie ingenti materiali di epoca tardomedievale, periodo cruciale per la formazione della lingua friulana, il noto repertorio manoscritto Voci e cose del passato in Friuli, inedito di Giovanni Battista della Porta conservato presso il Fondo principale della Biblioteca Civica di Udine (ms. 2694), ma ora soprattutto il bel volume Lessico latino medievale in Friuli di Piccini (2006).

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2.2 Verso il friulano Caratteri peculiari assume il volgare aquileiese a seguito delle particolari vicende storiche che hanno interessato la regione friulana. Secondo Francescato (1981), il friulano si caratterizza per alcuni fenomeni fondamentali: la continuità della parlata neolatina anche dopo la plurisecolare occupazione germanica (nell’ordine Goti, Longobardi e Franchi); l’appartenenza della stessa parlata, pur caratterizzata da specifiche evoluzioni fonologiche e morfologiche, al più ampio ambito linguistico dell’Italia settentrionale (Gallia Cisalpina); il carattere del friulano come lingua del popolo, all’epoca soprattutto dei contadini, in contrapposizione alla lingua della classe dominante, germanica; la divaricazione, sempre più forte, tra il volgare parlato (cioè il friulano) e il latino, la lingua scritta del culto e dell’amministrazione. Possiamo parlare del friulano come di un idioma neolatino con caratteristiche sue proprie e ben definite, come si diceva, a partire circa dall’anno Mille (cf. anche G.B. Pellegrini 1988, che fino a tale data attesta notevole somiglianza fra friulano e veneto). Testimoniano in questo senso, tra l’altro, il totale assorbimento nel tempo, da parte del friulano, delle parlate dei coloni slavi chiamati dai Patriarchi intorno al X  secolo a ripopolare le zone della media pianura friulana devastate dalle incursioni degli Avari e degli Ungari (soprattutto nella zona compresa tra Palmanova e Codroipo). Le scorrerie compiute a più riprese da queste popolazioni provocarono devastazioni di vaste proporzioni, la decimazione della popolazione che si trovava nella pianura e la desertificazione della campagna; ancora lungo la via ungaresca che avevano percorso gli invasori, si intensifica così l’afflusso, già in atto da tempo, di coloni slavi in Friuli, che andavano a ripopolare le pustote, cioè le terre devastate e lasciate incolte. Della presenza di genti slave, cui accenna un diploma del Patriarca Popone del 1031, si ha traccia in un cospicuo numero di toponimi, relativi a località più o meno grandi, a coprire una vasta area del medio Friuli, segno inequivocabile della consistenza numerica di tali popolazioni: tra questi abbiamo, allora, i vari Belgrât, it. Belgrado, Gradiscjute, it. Gradiscutta, Jalmic, it. Ialmicco, Jutiç, it. Iutizzo, Percût, it. Percoto, Sante Marize, it. Santa Marizza, Uirc, it. Virco etc. (cf. Finco 2003; ↗11 Toponomastica e antroponimia). Ad ulteriore conferma dell’avvenuto consolidamento della parlata neolatina, in questo periodo, si consideri la resistenza del friulano alla pressione linguistica e culturale che il mondo germanico esercitò sulla regione per circa dieci secoli, a partire dall’occupazione di Goti, Longobardi e Franchi fino ai tre secoli e mezzo del potere politico del Patriarcato di Aquileia (1077–1420), un’istituzione quest’ultima fortemente legata all’Impero germanico ed essa stessa retta e controllata, almeno fino alla metà del XIII secolo, da nobili provenienti da regioni d’oltralpe. La stratificazione del lessico germanico, così vario per provenienza e momento di penetrazione nella lingua locale, risulta senza dubbio piuttosto complessa: non sempre è possibile attribuire, con sicurezza, un certo elemento ad uno o all’altro dei diversi filoni (↗6.2 Tedesco). Un elemento germanico molto antico, presente già nelle iscrizio-

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ni aquileiesi (III secolo d.C.), è dato dal friul. brût ‘nuora’ da un germ. BRUTIS , un termine che designava, almeno in origine, la ‘sposa germanica del soldato romano’, elemento che va presto a sostituire, nel friulano comune, il lat. volg. NURA . Il primo filone lessicale germanico di una certa consistenza è da ascrivere, in ogni caso, al gotico, con parole come il friul. bande ‘parte’, il friul. bugnon ‘foruncolo’, il friul. farc ‘talpa’, il friul. glove ‘biforcazione di un ramo’, il friul. lobie ‘loggia’, il friul. rap ‘grappolo’, il friul. rocje ‘roccia’, il friul. sbregâ ‘lacerare’, il friul. sedon ‘cucchiaio’ – che costituisce uno dei rari elementi lessicali comuni tra friulano, ladino dolomitico e retoromancio – e ancora il friul. tapon e taponâ ‘tappo’ e ‘tappare’, il friul. vuardiâ e vuardian ‘fare la guardia’ e ‘guardiano’ etc. La presenza di Goti è testimoniata anche nella toponomastica locale, con elementi come il friul. Godie (it. Godia), alle porte di Udine, o il friul. Gôt (it. Godo), presso Gemona del Friuli; un accampamento di Baiuvari, cioè di Bavaresi, era invece quello della località di Beivârs, alla periferia di Udine (↗4.1 Storia linguistica esterna). Un secondo filone lessicale, decisamente più cospicuo del precedente, è quello ascrivibile alla massiccia presenza longobarda in Friuli, cf. G.B. Pellegrini (1970). Termini tipici sono, ad esempio, il friul. bearç ‘terreno erboso e chiuso, attiguo alla casa’, molto produttivo anche nella toponomastica e nell’onomastica personale, il friul. bleon ‘lenzuolo’ – concorrente rispetto al friul. linzûl, dal lat. LINTEOLUM  –, il friul. bredul ‘sgabello’, il friul. crucje ‘stampella’, il friul. fara ‘famiglia immigrata’ (nel lessico comune conosciuto, però, solo nella località di Barcis) etc. Altri termini, sempre di notevole frequenza, sono ancora il friul. bancje ‘panca’, il friul. braide ‘campagna larga, aperta’, anch’esso assai diffuso nella toponomastica locale, il friul. broade ‘rape inacetite’, piatto tipico della cucina regionale, il friul. brût ‘brodo’, il friul. garp ‘acido’, il friul. grepie ‘greppia, mangiatoia’, il friul. lami ‘insipido’, e ancora il friul. nape ‘camino’ e ‘nasone’, il friul. scarfarot in origine ‘pantofola’, ma anche ‘buono a nulla, ciabattone’, il friul. spalt ‘recinto’, il friul. ’suf ‘farinata’, altro piatto tipico, etc. La presenza dei Longobardi in Friuli è testimoniata anche da una ricca serie di toponimi, cf. anche Frau (1970). Abbiamo visto il caso del sostantivo comune fara ‘famiglia immigrata’, una forma che è presente in toponimi come Fare (it. Farra d’Isonzo), anche con forma di diminutivo come Farle (it. Farla di Majano) o Farele (it. Farella di Aquileia). La voce longobarda gahagi ‘bosco recintato, terreno riservato’ non si conserva nel lessico friulano comune, ma è presente in toponimi del Friuli occidentale come Gjai di Sacon (it. Giai di Annone Veneto), i Gjai (it. Giai di Gruaro), Gjais (it. Giais di Aviano), Gjai (it. Gaio di Spilimbergo) etc. (↗11 Toponomastica e antroponimia).

3 Il Friuli friulano Fattori fondamentali, per il consolidarsi dell’individualità linguistica del friulano, sono stati senza dubbio il forte legame con il mondo germanico, dovuto anche alla presenza in loco di consistenti stanziamenti di Goti e Longobardi, e la lunga separazione, d’altra parte, rispetto alle terre italiane; maggiori rapporti commerciali e culturali con Venezia

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e con la Toscana vi sono a partire dalla metà del XIII secolo, quando già il friulano aveva acquisito, comunque, una ben precisa fisionomia, contrassegnata da importanti fenomeni tanto di conservazione, soprattutto, quanto di innovazione. Pur nell’avvicinamento al mondo italiano, anche in epoca patriarcale le relazioni con le terre tedesche restano di grande importanza. Al tardo Medioevo e ancora all’influsso germanico, appartengono importanti elementi lessicali quali ad esempio il friul. bêçs ‘soldi’, il friul. cjast ‘granaio’, il friul. cramar o cramâr ‘merciaiolo, ambulante’, il friul. crot ‘rana’, il friul. dane ‘abete bianco’, il friul. gatar ‘inferriata’, il friul. licôf ‘banchetto, merenda per la conclusione di lavori importanti’, il friul. niderlec ‘scarico delle merci in transito’, il friul. tac ‘tasso’, il friul. vignarûl ‘ditale’ etc. Di questo periodo sono tutta una serie di elementi toponomastici formati con l’elemento germanico Berg ‘monte’ o con il germ. Stein ‘pietra, roccia’, indicanti per lo più castelli, per esempio il friul. Prampar da Prantperch (it. Prampero di Magnano in Riviera), friul. Sufumberc (it. Soffumbergo di Faedis), friul. Solomberc (it. Solimbergo di Sequals), friul. Spilimberc (it. Spilimbergo), o ancora il friul. Partistagn (it. Partistagno di Attimis), friul. Rivistagn (it. Ravistagno di Montenars) e altri ancora (cf. Frau 1969, ↗11 Toponomastica e antroponimia). Un ulteriore toponimo interessante, sempre di questo periodo, è il friul. Strassolt (it. Strassoldo di Cervignano del Friuli), composto dai due elementi germ. strâße ‘strada’ e ouwe ‘isola fluviale’. Alla categoria dei germanismi più recenti, che possiamo considerare veri e propri tedeschismi (↗6.2 Tedesco), appartengono poi molte voci diffuse soprattutto nell’area goriziana, che restò sotto la Casa d’Austria fino alla fine della Grande Guerra. Si tratta di voci come il friul. asimpon o lasimpon in origine ‘ferrovia’ (ted. Eisenbahn), ma poi ‘emigrante (che lavora alla costruzione delle ferrovie)’, il friul. befel ‘ordine’, il friul. bintar ‘scioperato, perdigiorno’, in origine ‘emigrante stagionale’ (ted. Winter ‘inverno’), il friul. chifel ‘cornetto, dolce’, il friul. clanfar ‘stagnaio, lattoniere’, il friul. fraila ‘signorina’ (tipico del goriziano), il friul. lustic o alustic ‘allegro’, il friul. prenar ‘fuochista’, il friul. prossac ‘tascapane’, il friul. russac ‘zaino da montagna’, il friul. sine ‘rotaia’, il friul. spolert ‘cucina economica’, il friul. sproc ‘motto, parlantina’ (ted. Sprache ‘lingua’), il friul. ziruc e zirucâ ‘indietro’ e ‘indietreggiare’ etc. – su questo robusto filone lessicale, cf. in particolare Faggin (1981) e Frau (1994). Contribuiscono alla formazione del lessico friulano anche un consistente numero di slavismi, soprattutto slovenismi, elementi che sono entrati nella lingua a motivo del contatto, plurisecolare, tra le genti di queste terre, ma anche per l’apporto di coloni che, come accennato, furono chiamati a ripopolare la media pianura friulana devastata dalle incursioni degli Ungari. Questi slavismi, talora diffusi solo in determinate aree della regione, sono ad esempio il friul. babe ‘donna pettegola’, il friul. britule ‘coltello a serramanico’, il friul. cagnàs o cagne ‘poiana’, il friul. cernicule o cerignicule ‘mirtillo’, il friul. cocosse ‘gallina’, il friul. colaç ‘ciambella, dolce’, il friul. cos e cosse ‘paniere’, il friul. crassigne ‘cassetta del merciaio ambulante’, il friul. cudiç ‘diavolo’, diffuso anche come cognome, il friul. çutare ‘fiasca, borraccia’, il friul. gubane ‘gubana, focaccia’, apprezzato dolce delle Valli del Natisone, il friul. jeche

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‘aiola’ (nella sola area concordiese), il friul. pustot ‘arido, abbandonato’ e pustote ‘terreno abbandonato, incolto’, il friul. race ‘anatra’, il friul. ’save ‘rospo’, il friul. sligoviz ‘acquavite di prugne’, il friul. triscule ‘fragola’, elemento concorrente rispetto al friul. freule, il friul. vuisignâr ‘visciolo’ etc. Di tramite sloveno si registrano, inoltre, due germanismi come il friul. blec ‘toppa, pezzo di stoffa, ritaglio’ – termine che si usa anche nell’espressione fâ il blec o il sblec, dei bambini che vogliono o stanno per piangere – e il friul. comat, che designa il ‘collare da cavallo’, presente anche con il derivato friul. ant. comatar ‘artigiano che fa o vende i collari’. Anche lo studio della toponomastica ci consente di apprezzare l’importante presenza slovena in Friuli (cf. ancora Finco 2003; ↗11 Toponomastica e antroponimia). Nelle zone della pianura friulana ripopolate dagli sclavones dopo le incursioni degli Ungari, quindi, si registrano infatti toponimi come il citato Belgrât (it. Belgrado), dallo slov. bel-grad ‘castello bianco’, il friul. Gurize (it. Gorizia), dallo slov. gora ‘montagna’ con suffisso diminutivo, il friul. Guriciz (it. Goricizza di Codroipo), dallo slov. goričica ‘montagnola’, i vari friul. Grediscje, Gradiscje o Gardiscje, rispettivamente (it. Gradisca di Sedegliano, Gradisca di Spilimbergo e Gradisca d’Isonzo), anche al diminutivo friul. Gradiscjute (it. Gradischiutta di Faedis o di Gorizia), friul. Gridiscjute (it. Gradiscutta di Varmo), tutti dallo slov. gradišče ‘villaggio fortificato’, il friul. Jalmic (it. Ialmicco di Palmanova), dallo slov. jamnik a sua volta da jama ‘fossa, cavità’, il friul. Percût (it. Percoto di Pavia di Udine), dallo slov. prehod ‘passaggio, guado’, il friul. Topalic (it. Topaligo di Sacile), dallo slov. topolik, da topol ‘pioppo’, come lo stesso friul. e slov. Topolò, nelle Valli del Natisone, etc.

3.1 Ulteriori apporti La dominazione veneziana sulla Patria del Friuli, ma anche i contatti tra le due popolazioni sul confine occidentale della nostra regione, hanno portato il friulano ad accogliere una cospicua serie di elementi lessicali anche dal veneto. Tra questi, soprattutto moderni, si segnalano ad esempio termini come il friul. artiçoc ‘carciofo’, come il ven. articioco, il friul. pampalugo ‘scimunito’, il friul. pandolo ‘bastoncino di pasta dolce’, ma ora soprattutto ‘tonto, addormentato’, il friul. pelandron ‘scansafatiche’ etc. In alcuni casi il termine veneto ha emarginato o soppiantato, nell’uso, il corrispondente termine friulano, come ad esempio nel caso del friul. autun ‘autunno’, dal ven. autuno (come l’it. autunno) al posto dei friul. sierade e sorunvier, il friul. lui ‘luglio’, come il ven. luio, al posto del friul. ant. seseladôr ‘il mese della mietitura’, il friul. ocjade ‘occhiata’, come il ven. ociada, al posto dei friul. voglade o cjalart, il friul. vecjo ‘vecchio’, come il ven. vecio, al posto del più tipico friul. vieli ‘vecchio di persona’ (mentre la forma friul. vieri indica ‘vecchio di oggetto’) etc. (↗10 Stratificazione lessicale e formazione delle parole). L’italiano costituisce, senza dubbio, la fonte principale dei prestiti recenti in friulano, prestiti che presentano gradi di adattamento più o meno marcati alla fonolo-

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gia della lingua (cf. Vanelli 1986). Si tratta di prestiti che designano concetti legati al vivere moderno e alla quotidianità, al progresso tecnologico e all’uso amministrativo della lingua, prestiti che crescono di giorno in giorno e che mediano l’entrata in friulano di voci provenienti anche da altre lingue, su tutte dall’inglese. La lista dei prestiti italiani potrebbe essere molto lunga e conta elementi quali, ad esempio, asilo, cronist ‘cronista’, film e filmâ ‘filmare’, gjornalist ‘giornalista’, sport, spot, treno etc.

3.2 Neologismi e politica linguistica Il problema della formazione di neologismi si è posto, per il friulano, relativamente di recente. Non mancano, in realtà, tentativi abbastanza ben riusciti di utilizzo della lingua per scritti di argomento scientifico o specialistico – si pensi ad esempio, per il Novecento, alle prose di Giovan Battista Corgnali o di Giuseppe Marchetti, come anche a catechismi e prediche tra Sette e Ottocento –, ma è dalla promulgazione delle leggi di tutela, negli ultimi vent’anni, che la questione si è posta in termini più cogenti. Operazioni di aggiornamento del lessico friulano, di politica linguistica, sono stati condotti al fine di mettere la lingua nelle condizioni di essere adoperata, con proprietà e sicurezza, in qualsiasi occasione e in qualsiasi ambito comunicativo. Il friulano, di fatto, è una lingua che è nata e che si è sviluppata in un certo contesto storico, economico e culturale, e di quel contesto riflette ricchezze e povertà espressive: il lessico friulano sarà adatto, in generale, a soddisfare con proprietà le necessità della comunicazione legata alle attività tradizionali, all’agricoltura, all’ambiente montano e rurale; meno adeguato, senza dubbio, sarà per i settori relativi alle nuove tecnologie, alla giurisprudenza, agli usi pubblici e ufficiali. Questa operazione di aggiornamento del lessico friulano, se condotta con intelligenza, è anche utile al fine di segnalare soluzioni alternative all’utilizzo indiscriminato di parole italiane o straniere, che a lungo andare rischiano di alterare e di snaturare la fisionomia stessa della lingua. Rientrano in questa prospettiva di intervento sul corpus del friulano, alcune azioni promosse negli ultimi anni dall’Osservatori regjonâl de lenghe e de culture furlanis ‘Osservatorio regionale della lingua e della cultura friulana’ (OLF) e ora dall’Agjenzie regjonâl pe lenghe furlane ‘Agenzia regionale per la lingua friulana’ (ARLeF). La più importante di queste azioni, per l’ampiezza e l’impegno del progetto, è stata senza dubbio la redazione del Grant Dizionari Bilengâl talian-furlan ‘Grande dizionario bilingue italiano-friulano’ (GDBtf), a cura di Adriano Ceschia, redazione conclusa nel 2011 con la pubblicazione di sei volumi contenenti la versione friulana di parte del Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT) di De Mauro. Sono stati realizzati inoltre, sempre di recente, anche una serie di lessici specialistici, per i settori dello sport, dell’ambiente, dei trasporti e altro, su impulso dell’Università degli Studi di Udine o di altri enti pubblici e privati. Le risposte che i recenti repertori lessicali offrono per soddisfare le esigenze della comunicazione in friulano, compresa la produzione di una buona dose di neologismi,

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non si possono ovviamente considerare definitive. La lingua, in generale, è in continua evoluzione e le soluzioni pensate per l’oggi possono non essere adeguate – di regola non lo sono – per il domani. Al di là della raccolta del lessico che la comunità dei parlanti già spontaneamente produce, operazione fondamentale e preliminare all’avvio di qualsiasi ragionamento mirato all’elaborazione di parole nuove, il lessicologo si trova a dover fare i conti soprattutto con la pratica, più che con la teoria: chi si occupa di politica linguistica non ha il potere di imporre determinate soluzioni, ovviamente, ma solo di suggerirle. Il giudice delle proposte e delle scelte pensate dal lessicologo resta il singolo parlante, l’unica persona ad avere titolo per valutare, con la sua sensibilità e caso per caso, quali di quelle proposte accettare e quali rifiutare. Molto importante, da questo punto di vista, è tenere conto delle soluzioni che la lingua naturalmente offre, perché assai difficile è imporre modelli di comportamento linguistico, in particolare per una lingua, come il friulano, che non dispone di mezzi adeguati a sviluppare forti azioni di contrasto rispetto al peggioramento del quadro sociolinguistico di riferimento.

4 Caratteri della lingua Operazione certo arbitraria e non semplice è decidere i caratteri che si possono considerare tipici o distintivi per una certa lingua; ciò è anche per il friulano, naturalmente, dove tale operazione non può non tenere conto delle particolari condizioni di contatto linguistico e di generale di- o triglossia, nelle quali la lingua effettivamente vive. Alcuni di questi caratteri, tipologicamente rilevanti, saranno presentati, in particolare, con riferimenti contrastivi con l’italiano, lingua comunque parte del repertorio dei friulanofoni.

4.1 La fonologia La particolarità forse più interessante del vocalismo tonico friulano è data dalla presenza di una doppia serie completa di vocali, brevi (a e i o u) e lunghe (â ê î ô û). Queste vocali, in opposizione fonologica, hanno valore distintivo, quindi distinguono parole che hanno un diverso significato: lât chê mîl crôt brût

‘andato’ ‘quella’ ‘miele’ ‘credo’ ‘nuora; brodo’

vs. vs. vs. vs. vs.

lat che mil crot brut

‘latte’ ‘che’ ‘mille’ ‘nudo; rana’ ‘brutto’

Nel passaggio dal latino classico al latino tardo si verifica la generale perdita del tratto di lunghezza vocalica, anche in area friulana, e le vocali cominciano ad essere distinte,

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in particolare le medie, sulla base del loro grado di apertura, della loro altezza, piuttosto che in base alla loro lunghezza. Dal sistema a sette vocali del latino tardo, con le vocali medie distinte in medio-alte chiuse ([e], [o]) e medio-basse aperte ([ɛ], [ɔ]) si passa quindi, attraverso una serie di successivi fenomeni fonetici, all’assestamento del sistema friulano attuale caratterizzato, come si diceva, dalla presenza di vocali brevi e lunghe, cf. in particolare Vanelli (1979) e Finco (2007). Il fenomeno dell’allungamento delle vocali costituisce, pertanto, un carattere di innovazione del vocalismo, non di conservazione. Esso è stato oggetto di numerosi studi ed è determinato dai seguenti fenomeni: la sonorizzazione, cioè la lenizione, delle consonanti scempie intervocaliche e lo scempiamento delle geminate; la caduta delle vocali finali diverse da -A : la desonorizzazione delle consonanti sonore scoperte, cioè in fine di parola, e l’allungamento, per compensazione, delle vocali toniche che le precedono. Con la formazione delle vocali lunghe, altri fenomeni interessano il vocalismo friulano. Le vocali medio-basse [ɛ] ed [ɔ] del latino volgare in determinate condizioni dittongano, sia in sillaba aperta, che in sillaba chiusa, cioè nelle sillabe che terminano con una consonante: [ɛ] > [jɛ],[ɔ] > [wɛ] (/ > [wɔ] in alcune varietà occidentali). Abbiamo, così: lat. MEDICUM ME DICUM PET RAM lat. PETRAM lat. SEPT EM ROT AM lat. ROTAM lat. SCHOLAM lat. volg. *OS SUM

> > > > > >

friul. miedi ‘medico’ friul. piere ‘pietra’ friul. siet ‘sette’ friul. ruede ‘ruota’ friul. scuele ‘scuola’ friul. vues ‘osso’

Il secondo elemento del dittongo tende ad innalzarsi davanti alla nasale -n e ad abbassarsi davanti alla vibrante -r: lat. PONTEM lat. BONAM lat. PORTAM lat. PERDERE

> > > >

*puent *buene *puerte pierdi

> > > >

friul. puint ‘ponte’ friul. buine ‘buona’ friul. puarte ‘porta’ friul. piardi ‘perdere’ (solo nel friul. centro-orientale)

Un fenomeno di conservazione, piuttosto, riguarda il dittongo lat. AU , che in friulano talora si mantiene in sillaba tonica: lat. AURUM lat. TAURUM lat. TESAURUM

> > >

friul. aur ‘oro’ friul. taur ‘toro’ friul. tesaur ‘tesoro’

Per quanto riguarda il vocalismo atono, abbiamo già segnalato la caduta delle vocali finali del latino diverse da - A . Questo fenomeno, variamente presente anche nelle parlate italiane della Cisalpina, ma anche in area gallo-romanza, dipende, secondo alcuni, dall’influsso del sostrato celtico o ancora, in particolare per l’area friulana, dal

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forte accento espiratorio dei Longobardi, che avrebbe molto influenzato la pronuncia del volgare dei primi secoli. La - A stessa, infine, si indebolisce e si innalza verso la serie palatale, quindi a -e, in tutto il friulano centrale: lat. CASAM CAS AM HE RI lat. HERI OC TO O lat. OCT lat. PANEM lat. SERAM lat. VINUM

> > > > > >

friul. cjase ‘casa’ friul. îr ‘ieri’ friul. vot ‘otto’ friul. pan ‘pane’ friul. sere ‘sera’ friul. vin ‘vino’

Da notare, inoltre, è lo sviluppo di una vocale d’appoggio ogni volta sia necessario costituire un nucleo sillabico in fine di parola; la vocale, una -i, si aggiunge, dunque, quando si producono nessi consonantici non ammessi in posizione finale (in particolare C+L /C+R , risolti in -l/-r), come per esempio in: friul. zenoli ‘ginocchio’ friul. voli ‘occhio’ friul. pari ‘padre’ friul. mari ‘madre’

< *zenocl < *ocl < *padr < *madr

< lat. GE NUC ( U ) LUM < lat. OC ( U ) LUM < lat. PATREM < lat. MATREM

Lo sviluppo della vocale d’appoggio si osserva anche nei proparossitoni, come in friul. stomi ‘stomaco’ < lat. STOMACHUM , friul. miedi ‘medico’ < lat. MEDICUM e negli infiniti della terza coniugazione, come nel friul. bati ‘battere’ < lat. BATTERE o nel friul. pierdi ‘perdere’ *cjant > *clam

> friul. cjanti ‘canto’ > friul. cjante ‘canta’ > friul. clami ‘chiamo’ > friul. clame ‘chiama’

Il consonantismo del friulano si caratterizza per alcuni fenomeni di conservazione e alcuni di innovazione rispetto al latino. Tra i primi possiamo citare il mantenimento dei nessi muta cum liquida del latino, quindi i nessi formati da C + L (CL , GL , PL , BL , FL ), analogamente a quanto accade in buona parte delle parlate ladine, ma a differenza invece dell’italiano letterario, di base toscana, e delle altre varietà della pianura padana (cf. Heinemann 2007): lat. volg. *BLANC BL ANC UM lat. CLAVEM lat. FLOREM lat. GLACIAM PLE NUM lat. PLENUM

> > > > >

friul. blanc ‘bianco’ friul. clâf ‘chiave’ friul. flôr ‘fiore’ friul. glace ‘ghiaccio’ friul. plen ‘pieno’

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Ancora, si osserva la conservazione della desinenza -S latina nel plurale dei nomi e nella coniugazione verbale alla seconda persona singolare: lat. FEMINAS PET RAS lat. PETRAS lat. CLAMAS lat. PERDIS

friul. feminis ‘donne’ friul. pieris ‘pietre’ friul. (tu) clamis ‘chiami’ friul. (tu) pierdis ‘perdi’

> > > >

Tra le caratteristiche più notevoli del consonantismo friulano, questa volta in termini di innovazione, si suole indicare la palatalizzazione della occlusiva velare che precede -A ([ka] > [ca], [ga] > [ɟa]); è questo un fenomeno che si verifica sia in posizione iniziale che in posizione interna. La palatalizzazione delle velari seguita da -A costituisce una delle più importanti isoglosse che unisce il friulano alle varietà alpine ladine delle Dolomiti e romance dei Grigioni, laddove le varietà italiane palatalizzano la velare solo se seguita da vocale palatale (Ce > [ʧe], Ci > [ʧi] etc.): lat. CANEM CAS AM lat. CASAM lat. FURCAM lat. GALLUM lat. MUSCAM

friul. cjan ‘cane’ friul. cjase ‘casa’ friul. forcje ‘forca’ friul. gjal ‘gallo’ friul. moscje ‘mosca’

> > > > >

Collegata spesso, erroneamente, con il simile fenomeno del francese, che intaccava le consonanti velari già nel V secolo d.C., la palatalizzazione friulana si collega piuttosto alla tendenza all’intacco delle consonanti velari, comune alle regioni della Cisalpina alla fine del X secolo d.C.; si tratta di un processo che viene però presto abbandonato e regredisce, per la pressione culturale del volgare tosco-fiorentino, in tutte le regioni settentrionali fuorché in Friuli. Questo fenomeno conosce la sua massima espansione tra l’XI e il XIII secolo, periodo in cui la regione non partecipa della cultura italiana. In friulano sono quindi del tutto assenti le geminate, cioè le consonanti doppie. È un tratto comune, questo, alla generalità delle parlate dell’Italia settentrionale e si oppone all’italiano centro-meridionale che, al contrario, le conserva: lat. BATTERE BAT TERE ME DULLAM lat. MEDULLAM lat. TERRAM

> > >

friul. bati ‘battere’ friul. medole ‘midollo’ friul. tiere ‘terra’

A fianco dello scempiamento delle geminate, come si diceva, registriamo la sonorizzazione delle scempie sorde intervocaliche: lat. NEP NE POTE OTEM M PRE CARE lat. PRECARE lat. STRATAM

> > >

friul. nevôt ‘nipote’ friul. preâ ‘pregare’ friul. strade ‘strada’

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4.2 La morfosintassi I nomi e gli aggettivi possono avere, in friulano, due generi: il maschile e il femminile. Il genere grammaticale segue tendenzialmente il genere naturale, nel senso che una persona o un animale maschio sarà di genere maschile (per esempio il fradi ‘il fratello’, il lôf ‘il lupo’) e una persona o un animale femmina sarà di genere femminile (per esempio la sûr ‘la sorella’, la love ‘la lupa’). Per il resto non ci sono regole precise per stabilire o prevedere il genere dei nomi a partire dal loro significato o dalla loro forma, come nella generalità delle lingue del mondo. Abbiamo parole maschili che terminano in consonante, come friul. il clap ‘il sasso’, friul. il flum ‘il fiume’, friul. il gnotul ‘il pipistrello’, friul. il madrac ‘il serpente’, friul. l’om ‘l’uomo’, ma anche terminanti in vocale, come il friul. il barbe ‘lo zio’, friul. il cercli ‘il cerchio’, friul. il miedi ‘il medico’, friul. l’orloi ‘l’orologio’, friul. il Pape ‘il Papa’. Allo stesso modo anche i nomi femminili possono finire tanto in vocale, come nel friul. la agne ‘la zia’, friul. la criure ‘il freddo’, friul. la fieste ‘la festa’, friul. la mame ‘la mamma’, friul. la midisine ‘la medicina’, che in consonante, come nel friul. la atenzion ‘l’attenzione’, friul. la brût ‘la nuora’, friul. la conclusion ‘la conclusione’, friul. la gnot ‘la notte’, friul. la man ‘la mano’. Numerosi sono i casi, infine, nei quali la scelta del genere risulta diversa dal friulano all’italiano. Abbiamo parole di genere maschile in friulano e femminile in italiano, come il friul. il miluç vs. it. la mela, friul. il nûl vs. it. la nuvola, friul. il râf vs. it. la rapa, friul. il spi vs. it. la spiga; abbiamo, poi, parole femminili in friulano e maschili in italiano, come il friul. la mîl vs. it. il miele, friul. la mont vs. it. il monte, friul. la sabide vs. it. il sabato, friul. la sium vs. it. il sonno. La formazione del plurale dei sostantivi e degli aggettivi friulani è legata alla declinazione bicasuale del friulano antico, cf. Benincà/Vanelli (1978; 1998). Per questo motivo il friulano conosce due tipi diversi di plurale, uno sigmatico e uno palatale. Il primo tipo di plurale prevede l’aggiunta della marca di plurale -s alla radice del singolare e si applica alla maggior parte dei sostantivi e degli aggettivi, sia maschili che femminili, che escono al singolare in consonante o in vocale: pari – paris ‘padre/ -i’; clap – claps ‘sasso/-i’; vedran – vedrans ‘celibe/-i’; zovin – zovins ‘giovane/-i’; mont – monts ‘monte/-i’; frute – frutis ‘bambina/-e’; biele – bielis ‘bella/-e’; buine – buinis ‘buona/-e’. Il secondo tipo di plurale si ottiene attraverso la palatalizzazione della consonante finale di una serie, per altro non molto numerosa, di nomi e di aggettivi maschili terminanti in coronale: cjaval – cjavai ‘cavallo/-i’; biel – biei ‘bello/-i’; dint – dincj ‘dente/-i’ (ma fantat/-s ‘ragazzo/-i’); dut – ducj ‘tutto/-i’ (ma brut/-s ‘brutto/-i’); an – agns ‘anno/-i’ (ma cjan/-s ‘cane/-i’); bon – bogns ‘buono/-i’ (ma san/-s ‘sano/-i’). Gli articoli determinativi sono il e la per il singolare, rispettivamente maschile e femminile, i e lis per il plurale. In alcune varietà friulane troviamo al posto di il le forme el, al e lu; al posto di la, la variante le; al posto di i, la forma ju; al posto di lis, le varianti les, las e li’. I due articoli lu e ju, in particolare, conservano le forme del friulano antico, sostituite gradualmente, nel friulano centrale, a partire dal XV –XVI  se-

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colo. Gli articoli indeterminativi sono un per il maschile e une (con le varianti una e uno) per il femminile; in disuso sono ormai le forme di plurale uns e unis, adoperate anticamente con funzione di aggettivo indefinito (‘alcuni’, ‘alcune’). I numerali cardinali presentano forme flesse per il maschile e il femminile solo nel caso del numero ‘uno’, rispettivamente con un e une, e del numero ‘due’, con doi e dôs; gli altri cardinali sono invariabili: trê ‘tre’, cuatri ‘quattro’, cinc ‘cinque’, sîs ‘sei’, siet ‘sette’, vot ‘otto’, nûf ‘nove’, dîs ‘dieci’ etc. Il friulano possiede, per concludere con la presentazione dei principali caratteri distintivi nella morfosintassi rispetto all’italiano, due serie complete di pronomi personali: una serie di pronomi liberi, tonici e non obbligatori, e una serie di pronomi clitici, atoni e obbligatori. I pronomi di entrambe le serie si distinguono per persona (con l’indicazione del numero), per funzione (soggetto, oggetto diretto, oggetto indiretto) e per genere (limitatamente alla III persona singolare). La particolarità più interessante del friulano, per questo aspetto, è quella di aver sviluppato, come per esempio il francese, un sistema completo di pronomi clitici con funzione di soggetto, di pronomi cioè che accompagnano obbligatoriamente l’espressione del soggetto che compie l’azione. Le forme dei pronomi clitici soggetto sono: I pers. II pers. III pers. masc. III pers. femm.

sg. sg. sg. sg.

o tu al e

pl. pl. pl. pl.

o o a a

I pronomi clitici soggetto si trovano prima del verbo, nelle frasi dichiarative, o dopo il verbo, nelle frasi interrogative e nelle altre frasi marcate, come nella generalità delle lingue a soggetto obbligatorio.

4.3 Le varietà Si possono riconoscere, all’interno dell’area linguistica friulana, alcune varietà dialettali, che risultano in taluni casi ben differenziate le une dalle altre, cf. Francescato (1966) e Frau (1984). Un’attenta descrizione delle varietà dialettali friulane, inserite in un ampio quadro di riferimenti e confronti con le parlate delle altre regioni della Cisalpina, si ha, innanzitutto, già nei famosi Saggi ladini di Graziadio Isaia Ascoli (1873), ma molto importanti sono anche i lavori di geografia linguistica promossi con la redazione dell’Atlante Storico-Linguistico-Etnografico Friulano (ASLEF), il primo atlante regionale d’Italia, uscito in sei volumi, sotto la direzione di Giovan Battista Pellegrini, tra il 1972 e il 1986 (cf. anche ↗5.1 Suddivisione dialettale del friulano). La prima fondamentale divisione areale va operata, prima di tutto, tra il friulano occidentale (anche detto concordiese), che si parla sulla destra del Tagliamento, e il friulano centro-orientale, sulla sinistra del fiume. Questa divisione riflette ancora la partizione amministrativa del territorio in epoca romana prima e cristiana poi, andan-

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do a coincidere, grosso modo, con le antiche diocesi di Concordia (Pordenone), da una parte, e di Aquileia (Udine e Gorizia), dall’altra. Nell’ambito del friulano centroorientale, si può poi distinguere un altro tipo dialettale ben caratterizzato, il friulano carnico, che comprende l’area settentrionale della regione, un tempo dipendente dal municipio romano, in seguito anche sede di diocesi, di Iulium Carnicum (friul. Zui ‘Zuglio’). I fenomeni che consentono di distinguere le singole varietà dialettali all’interno dell’area friulana, sostanzialmente unitaria, riguardano sia la fonetica che la morfologia; tali fenomeni, quanto meno i più significativi, sono chiaramente individuati e presentati, con una serie di tavole, da Francescato (1966, 19–90). Le vocali lunghe sono comuni a quasi tutto il Friuli, ad esempio, ma alcune varietà concordiesi e carniche presentano dittonghi al posto delle vocali lunghe medie, mentre le varietà goriziane hanno solo vocali brevi; la vocale lunga alla desinenza dell’infinito, poi, si rileva solo nelle varietà dell’Alto Friuli. Tra i caratteri che più contribuiscono a distinguere i dialetti friulani, anche nel sentire comune, c’è poi l’esito della vocale - A in fine di parola, l’unica vocale in tale posizione ereditata dal latino. Nel Friuli centrale, e in parte della Carnia, si registra il tipico passaggio a -e (quindi cjase ‘casa’, femine ‘donna’, frute ‘bambina’), ma vi sono numerose varietà occidentali, carniche e goriziane che mantengono il timbro -a (quindi cjasa o ciasa ‘casa’, femina ‘donna’, fruta ‘bambina’), o altre ancora, dell’Alto Gorto, che innalzano a -o (quindi cjaso ‘casa’, femino ‘donna’, puemo o fruto ‘ragazza’). Per il consonantismo, è interessante osservare il diverso esito della palatalizzazione delle velari C e G del latino davanti alla -A , fenomeno questo considerato tipico del friulano e del ladino, con il passaggio alle occlusive palatali cj e gj ([c], [ɟ]) o alle affricate palatali [ʧ] e [ʤ]; a questo fenomeno si lega strettamente l’esito delle affricate palatali [ʧ] e [ʤ] originarie, C / G I / E del latino. Vi sono, infatti, varietà friulane che conservano tutti questi suoni ([c], [ɟ], [ʧ] e [ʤ]), come nel friulano carnico e in quello centrale (dove abbiamo cjase ‘casa’, gjat ‘gatto’, cene ‘cena’, cinise ‘cenere’ etc.), altre varietà, meridionali, occidentali e orientali, dove le occlusive palatali passano ad affricate palatali e le affricate palatali ad affricate dentali o spiranti ([ˈʧaze] ‘casa’, [ʤat] ‘gatto’, [ˈʦɛne] o [ˈsɛne] ‘cena’, [ʦiˈnize] o [siˈnize] ‘cenere’ etc.). Nella morfologia, alcune varianti si possono registrare a partire dagli articoli, dove per il maschile singolare abbiamo il nel friulano centrale, ma anche el nell’area collinare, al nel cividalese e nel goriziano, e lu nelle varietà carniche più isolate. L’articolo femminile plurale si presenta come lis, nel friulano centrale e comune, ma può essere anche les, las o li’, dove tale forma è generalmente, ma non necessariamente, collegata all’uscita del femminile plurale, anch’essa realizzata con morfemi diversi (-is, -es, -as, -os, -i’, -e). Avremo, quindi, la soluzione del friulano centrale lis feminis ‘le donne’, ma anche forme alternative come les femines, las feminas, las femines e las feminos, e poi ancora li’ feminis e li’ femini’, con distribuzione molto varia sul territorio. Piuttosto varia si presenta anche la scelta dei pronomi personali clitici soggetto. Alcuni dialetti presentano, ad esempio, la forma i al posto di o per la prima persona

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singolare (i soi ‘(io) sono’, i voi ‘(io) vado’ invece di o soi, o voi) o la forma e al posto di a per la terza plurale (e àn ‘(essi) hanno’, e san ‘(essi) sanno’, e van ‘(essi) vanno’ invece di a àn, a san, a van). In alcune parlate conservative della Carnia si distingue, poi, il genere del pronome per la terza plurale: ai disin ‘(essi) dicono’ e as disin ‘(esse) dicono’, ai fasin ‘(essi) fanno’ e as fasin ‘(esse) fanno’, rispetto al friulano comune a disin e a fasin, senza distinzione di genere.

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Maria Iliescu

2 La posizione del friulano nella Romania Abstract: Scopo di questo contributo è presentare una visione d’insieme della posizione del friulano nella Romania. La prima parte (2) cerca di stabilire il rapporto tra il friulano e le altre lingue romanze con l’ausilio di una breve ricapitolazione dei tentativi di classificazione (classici, più recenti, stereometrici), che termina con l’analisi più dettagliata (2.4), che risale a Vanelli (2005a). La seconda parte, dopo un breve sguardo alle relazioni linguistiche friulano-romene (3) e istroromanze (4), cerca di descrivere il friulano con l’aiuto di tratti positivi e negativi. La caratteristica più importante è l’appartenenza al gruppo galloitalico, con il quale il friulano condivide la maggior parte dei tratti. Altri tratti comuni appartengono a idiomi che si trovano all’est del dominio friulano, come il romeno, l’istroromanzo e parzialmente il veneto. Come ha dimostrato già Vanelli (2005a, 27), il friulano ha una posizione «a cavallo tra il sistema romanzo occidentale e il sistema romanzo centro-orientale». Keywords: classificazione delle lingue romanze, ladino, galloromanzo, istroromanzo, romeno

1 Premesse Lo scopo di questo contributo è di presentare una visione d’insieme della posizione del friulano nella Romania, tanto secondo lo stato attuale delle ricerche, quanto seguendo a grandi linee il lungo cammino necessario per arrivare a un risultato soddisfacente. Ci limiteremo, nella misura del possibile, agli aspetti generali. Le differenti spiegazioni che sono state date ai fenomeni discussi sono indicate con rinvii bibliografici, che tuttavia non potranno essere esaustivi. Per poterci accostare al tema, occorre cercare di illustrare due aspetti impliciti: a) le relazioni del friulano con gli altri idiomi romanzi e b) i tratti che caratterizzano questo idioma. Il compito di rispondere a questi due aspetti è tanto più difficile in quanto per il friulano ci si è trovati in una situazione speciale per quanto concerne le ricerche svolte fino a oggi: le classificazioni, soprattutto le più antiche, o non hanno tenuto in nessun conto il gruppo delle parlate ladine, oppure le hanno considerate come un gruppo unitario; altre classificazioni non hanno tenuto conto che di una sola parlata, supposta a torto come rappresentativa. Se facciamo astrazione delle discussioni sulla «questione ladina», le classificazioni non si sono preoccupate che eccezionalmente delle parlate gallo-italiche dell’Italia settentrionale, del veneto e dell’istroromanzo, che hanno tutte la loro importanza per l’individualità del friulano come si presenta oggi. Infine il friulano è suddiviso in più dialetti che in certi casi si mostrano molto differenziati, il che complica il confronto. A questo proposito abbiamo a disposizione

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attualmente l’utilissimo libro di Heinemann (2003) oltre a Francescato (1966), Frau (1984) e soprattutto il capitolo sui dialetti (↗5 Dialetti) del presente volume.

2 La relazione del friulano con le altre lingue romanze 2.1 Le classificazioni «classiche» Ci limiteremo a passare in rassegna le classificazioni diventate classiche, le opinioni di Francescato (1982) in Le rhaeto-frioulan, delle classificazioni che rendono conto del friulano come idioma indipendente, e per finire presenteremo l’ultima e più pertinente analisi, che dobbiamo a Vanelli (2005a, 19–31), consacrata interamente al friulano (per una visione d’insieme sulla storia delle classificazioni delle lingue romanze, nonché per le differenti spiegazioni addotte, cf. Iliescu 1998, 893–907). Come punto di partenza generale possiamo ancora oggi concordare con le parole di Ascoli nel suo Paul Meyer e il franco-provenzale (1876, 387 apud Vanelli 2005a, 20), secondo cui ogni idioma si caratterizza per la co-occorrenza di un certo numero di tratti. Essi possono essere condivisi fra più idiomi, ma la loro co-occorrenza simultanea e la loro combinazione particolare costituiscono i segnali distintivi di un idioma dato. È dunque necessario sapere quali sono i tratti che, combinandosi, caratterizzano il friulano. La linguistica variazionale moderna è pervenuta a risultati sostanzialmente molto simili, espressi chiaramente da Bossong (2008, 307) nelle conclusioni del suo libro sulle lingue romanze: «[…] les langues ignorent des délimitations exactes, elles s’articulent dans des continua, gradués et avec des zones de transitions». Già nel 1925, Bartoli aveva formulato sulla base di esempi lessicali la teoria delle aree linguistiche (centrali innovatrici e laterali conservatrici; per una critica di questa teoria si vedano fra gli altri Coseriu 1975, 42–47; Schmitt 1974, 23; Iliescu 1987, 116s.). Questa teoria perviene, nella maggior parte dei casi, a una divisione ternaria verticale: est – centro – ovest. Il friulano, non c’è dubbio, si trova nella zona romanza centrale. Prima di passare a Wartburg, ci pare importante citare la classificazione diacronica, basata su tratti fonetici e morfologici, di Trager (1934) che è giunto a una bipartizione fra est e ovest. Quest’ultimo è, secondo lui, diviso in tre gruppi: ibero-romanzo (portoghese e spagnolo), gallo-romanzo (catalano – provenzale – francese – francoprovenzale – gallo-italico) e ladino. Dunque, secondo Trager, il friulano potrebbe essere considerato come facente parte del gruppo occidentale gallo-romanzo o del gruppo ladino. La classificazione, divenuta classica, di Wartburg (1936) è basata su criteri fonetici precisi, il cui risultato è anche la bipartizione della Romania in «occidentale» e «orientale». Wartburg precisa ulteriormente che la sua divisione non è valida che in diacronia (fino al III  secolo). È noto che questa classificazione si trova in difficoltà

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quando si deve spiegare il mantenimento di - S finale, criterio di appartenenza alla Romania occidentale, poiché in friulano (in ladino e in alcuni dialetti gallo-italici) la formazione del plurale di una categoria di sostantivi maschili è realizzata anche con la palatalizzazione di certe consonanti, proveniente da un’antica -i finale di un sistema bicasuale (↗9 Morfologia e sintassi). Il friulano, oltre alle altre parlate menzionate, fa parte, in questo caso, allo stesso tempo della «Romania occidentale» e della «Romania orientale» (cf. Vanelli 2005a, 51). Alonso (1954) vede in gran parte della Romania (l’Iberia, l’Italia e la Gallia) una «Romania continua» alla quale si oppone solo la Dacia (Alonso stesso non usa il termine «Romania discontinua», che gli è stato attribuito più volte, cf. Iliescu 2010, 7–9). Per quanto riguarda la «Romania continua» occorre sottolineare che la nozione di «continuità» deve essere differenziata. Questa «continuità» può essere più «densa» o più «rarefatta». Un esempio di estrema densità è quello della zona cisalpina, dove le individualità tipologiche si dividono difficilmente in virtù di una rete molto densa di isoglosse. È Pellegrini (1985, 264) che precisa: «Mi pare che nell’area delle Alpi centrali e orientali e dei territori cisalpini confinanti non si possa realmente individuare un confine linguistico rigido e preciso». Le classificazioni in «Romania occidentale» e «orientale» e in «Romania continua», formata attraverso un lungo processo in cui entrano in gioco fattori linguistici, culturali e politici, sono state riprese e approfondite ancora da Wartburg (1955, 37) che precisa: «Quand un jour la linguistique synchronique procédera à une classification des langues romanes, elle mettra certainement à part le roumain et le français, et elle les opposera aux autres langues romanes. Elle établira probablement un groupe méditerranéen comprenant l’italien, l’occitan, le sarde, le catalan, l’espagnol et le portugais […]. Le rhéto-roman qui ne consiste qu’en dialectes extrêmement divergents, sera difficile à classer».

In questo caso il friulano è considerato come facente parte di un gruppo indipendente, che implica il problema lungamente discusso della «questione ladina» (↗3 «Questione ladina»; sulla posizione particolare di francese e romeno, cf., tra gli altri, Iliescu 2008). Nelle conclusioni del suo articolo sul reto-friulano Francescato (1982, 156) riconosce al friulano uno status speciale nell’insieme delle lingue romanze: «[…] the recognition for Friulian of a particular status, possibly even of a position on its own within the Romance family».

2.2 Classificazioni più recenti Con il tempo si è cominciato a includere un numero sempre più grande di lingue e un numero sempre più grande di criteri nei tentativi di classificazione.

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In quanto segue, terremo conto, a parte qualche eccezione, soprattutto dei lavori che esaminano il friulano come parlata individuale, spesso nel quadro del «retoromanzo». Togeby (1968), che esamina la funzione possessiva di SUUS e di ILLORUM , distingue nella Romania due aree orizzontali: una «zona centrale settentrionale» (romeno, friulano, francese, provenzale, italiano) e una seconda «zona meridionale occidentale» (ibero-romanzo, sardo, italiano meridionale e romancio). La posizione del friulano comincia a precisarsi: esso fa parte di una «zona occidentale centrale settentrionale». Lo studio di Cremona (1970), che s’incentra sui sostantivi, arriva alle stesse conclusioni, nel senso che la Romania presenta una bipartizione orizzontale: una «Romania settentrionale» (il romeno, il ladino nel suo insieme, il francese) che hanno un sistema deittico bipartito e una «Romania meridionale», che comprende le altre lingue con un sistema deittico tripartito (cf. infra, 3.1.1, f). Vanelli/Renzi/Benincà (1985) classificano le lingue romanze secondo l’uso del pronome personale soggetto, che è da considerare come un’innovazione romanza: l’uso non è obbligatorio in portoghese, in spagnolo, in catalano, parzialmente in occitano, in italiano letterario, nei dialetti centro-meridionali, in sardo e in romeno. Al contrario è obbligatorio in francese, parzialmente in occitano, parzialmente in francoprovenzale, parzialmente nei dialetti dell’Italia settentrionale, in alcune varietà ladine, nel dialetto di Firenze. Secondo questo criterio il friulano si trova nel secondo gruppo innovatore gallo-romanzo. In un volume dedicato alla morfologia verbale romanza in sincronia, Iliescu/ Mourin (1991) sono giunti alla conclusione che il romeno, l’istroromanzo, il friulano, il piemontese, il gardenese, l’engadinese, il soprasilvano, il franco-provenzale e l’occitano, i quali fanno parte della «zona centrale settentrionale», condividano alcune affinità caratteristiche comuni. Questo studio fa ancora un passo avanti per la precisazione della posizione del friulano, poiché esso permette di concludere che il friulano, pur condividendo più tratti con l’italiano, presenta molti tratti in comune con l’istroromanzo e il piemontese (Iliescu/Mourin 1991, 550).

2.3 Le ricerche stereometriche Le ricerche stereometriche occupano un posto a parte nei tentativi di classificazione. Il primo articolo di questo tipo che c’interessa è quello di Ternes (1976) che riguarda la classificazione delle lingue romanze secondo il sistema fonetico. L’autore ha scelto per il suo scopo 21 criteri, che applica dapprima a sette, quindi a sedici lingue romanze, fra cui gli idiomi che ci interessano: il friulano, il franco-provenzale, l’engadinese, il gardenese, il provenzale e il veglioto. Secondo questa ricerca, la Romania può essere divisa in una «zona centrale» e una «zona

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periferica». La zona centrale, a sua volta, può essere divisa in due parti che non si sovrappongono, ma che sono in contatto permanente. Così la zona «centrale occidentale-meridionale» rappresentata dal guascone, dal catalano e dall’italiano presenta affinità con la «periferia nord-orientale», rappresentata dal provenzale, dal friulano e dal veglioto. Muljačić (1967) pubblica un’analisi stereometrica tenendo conto di 44 criteri pancronici, non omogenei, cioè fonologici, fonetici e morfologici. Egli include nel suo paragone anche il friulano, il franco-provenzale, l’engadinese e il veglioto. Secondo questa ricerca l’idioma più prossimo al friulano è l’engadinese (19 punti), seguito dal provenzale (21 punti), dal franco-provenzale e dal catalano (22 punti). Purtroppo l’autore di questo saggio non ha fatto una distinzione fra l’italiano settentrionale e l’italiano meridionale, distinzione molto importante per poter giudicare il comportamento delle parlate settentrionali. Il saggio di Muljačić è stato il punto di partenza di molte altre classificazioni, fra cui quella di Pellegrini (1970) che ha aggiunto alla lista il lucano, il cadorino e il fassano. Un ulteriore allargamento della lista delle parlate si deve a Francescato (1973, 530), che si era interessato a «la zona ‹orientale› (in senso propriamente geografico) dell’area romanza, cioè del romeno, del dalmatico, del ladino (distinto in engadinese e friulano) e dell’italiano». Nella sua indagine, l’italiano compare due volte: l’italiano del Nord (IN) e l’italiano del Sud (IS). Il friulano (Fr) è distinto dell’engadinese (E). Secondo questa indagine «la massima distanza è quella di IN rispetto al R(umeno) e di IS rispetto al Fr». Iliescu (1969) ha fatto una ricerca stereometrica sincronica e omogenea, concernente soltanto la morfologia verbale di 13 idiomi della zona che ci interessa (fra cui l’istroromanzo, il friulano, il gardenese, l’engadinese, il soprasilvano, il francoprovenzale, l’occitano). L’autrice ha potuto trarre la conclusione che il friulano mostra una forte individualità nel quadro della zona centrale settentrionale, dove si avvicina molto all’italiano, ma più al franco-provenzale che al romancio o al ladino centrale. (Non è stato possibile integrare il dalmatico, perché l’indagine è stata sincronica, dunque attuata quando il dalmatico non esisteva più).

2.4 Lo studio di Vanelli (2005a) L’articolo di Vanelli, centrato fin dall’inizio sul friulano, parte da due citazioni (p. 19) riguardanti il ladino. La prima appartiene ad Ascoli (1890, IX): «Il Ladino, come oggi di certo ognuno ammette, non è meno gallo-romano di quello che sia il francese o il pedemontano o il lombardo». Un secolo più tardi Rohlfs (1986, 507s.) attira a sua volta l’attenzione sul graduale avvicinamento geografico della lingua d’Italia, attraverso il friulano, il ladino delle Dolomiti e il romancio, al gallo-romanzo della Francia:

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«[che] la lingua d’Italia, attraverso il tipo linguistico friulano, attraverso la parlata ladina delle valli ladine (ladino centrale) e infine attraverso le diverse forme linguistiche della favella romantscha nei Grigioni assume pian piano una forma che si avvicina sempre più al galloromanzo in Francia» (trad. di M.I.).

L’autore della seconda citazione è Pellegrini (1972, 117): «[…] i tre territori [ladini] rientrano in una serie di spazi di più ampia comunanza linguistica con legami sempre più intensi». L’autore precisa che si tratta di un territorio ampio, da cui, con restrizioni sempre più forti, si arriva per cerchi concentrici a un certo numero di varietà linguistiche. Il cerchio interno è quello della «Galloromania italiana», costituita dai dialetti italiani settentrionali, con l’esclusione di una parte del veneto. È in questo cerchio che occorre cercare il friulano. Partendo da questi dati Vanelli offre al lettore nel suo articolo cinque gruppi di fatti linguistici (soprattutto fonetici, ma anche morfologici e sintattici, presentati in una prospettiva diacronica e sincronica) organizzati secondo le caratteristiche condivise con il friulano. Lo riassumiamo qui all’essenziale (si segue l’enumerazione di Vanelli). 1. Fenomeni comuni al friulano e al romanzo occidentale (galloromanzo + iberoromanzo + veneto centro-meridionale): a) assenza delle consonanti geminate; b) lenizione consonantica intervocalica. 2. Fenomeni comuni al friulano e al galloromanzo: a) apocope delle vocali finali latine diverse da -A ; b) desonorizzazione delle consonanti ostruenti finali di parola; c) innovazione nella 1a pers. sg. pres. ind. della 1a coniugazione mediante l’aggiunta di una desinenza vocalica. 3. Fenomeni comuni al friulano e ai dialetti italiani settentrionali (Galloromania italiana o dialetti galloitalici + veneto): a) possibilità di usare il soggetto lessicale insieme con un clitico soggetto: Toni al cjante; b) presenza obbligatoria del clitico soggetto in una frase coordinata con lo stesso soggetto della precedente: Al cjante e al bale; c) la negazione precede il clitico soggetto: No tu cjantis. 4. Fenomeni comuni al friulano e al galloromanzo non condivisi dai dialetti settentrionali: a) palatalizzazione delle consonanti velari davanti ad A (si veda la discussione su questo fenomeno in Vanelli 2005a, 25); b) conservazione dei nessi latini consonante + L : (C + L >) clâf, (B + L >) blanc, (F + L >) flôr, (P + L >) ploe; c) conservazione di -S come morfema di plurale e come desinenza della 2a e 5a persona nelle forme verbali: (pl. di) flôr: flôrs; (pl. di) cjase: cjasis; (pl. di) mûr: mûrs; (pers. 5a di) cjantâ: cjantais.

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Fenomeni galloromanzi non presenti in friulano (ma presenti in varia misura nei dialetti della Galloromania italiana, comprese le altre varietà ladine): a) assenza delle vocali anteriori arrotondate [y] e [ø]; b) assenza di processi di palatalizzazione della A tonica; c) assenza di fenomeni di sincope vocalica. Per questi fenomeni il friulano è allineato al veneto (cf. Vanelli 2005a, 26s.). Fenomeni che pongono il friulano in una posizione «a cavallo» tra il sistema romanzo occidentale e il sistema romanzo centro-orientale (italiano e romeno). Troviamo in friulano due modalità per la formazione del plurale: a) un plurale sigmatico: p. es. clap, pl. claps; b) un plurale «palatale» per parole maschili terminanti nelle consonanti coronali [t], [s], [n], [l] (per tutto il problema cf. Vanelli 2005a, 27s.). Fenomeni per i quali il friulano ha una posizione peculiare all’interno del gruppo galloromanzo: a) i pronomi personali liberi di 1a e 2a pers. sg. presentano tre forme diverse a seconda del caso (cf. Vanelli 1997, 282); b) in friulano è presente un sistema vocalico costituito da vocali brevi e vocali lunghe (per questo problema cf. Vanelli 2005a, 28).

Una prima conclusione che si può trarre da questa raffinatissima analisi è che il numero dei tratti condivisi con i dialetti italiani settentrionali e il numero dei tratti non condivisi con questi dialetti è lo stesso. Secondo i gruppi presentati da Vanelli, si dimostra quanto è densa la continuità della regione gallo-italiana e in che modalità complicata si combinano le differenti caratteristiche da cui, secondo Ascoli, dipende l’identità di una parlata. La conclusione generale che s’impone è che, partendo dal fondo comune incontestabile gallo-italico, il friulano è integrato in una rete di varietà, i cui limiti esatti non possono essere tracciati solo sulla base dei tratti linguistici.

3 Il friulano in confronto col romeno Prima di passare alla seconda parte di questo contributo, cioè all’individualità del friulano, vogliamo aggiungere alcuni fatti che legano il friulano al romeno, il che prolunga la Romania orientale, spostando in qualche misura il friulano dalla sua posizione periferica, passando attraverso la romanità adriatica, cioè il dalmatico e l’istroromanzo, i cui dettagli travalicano il presente contributo; per l’istroromanzo cf. Tekavčić (1984); Zamboni (1986).

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3.1 Fenomeni comuni al friulano e al romeno 3.1.1 Fenomeni condivisi con altri idiomi Per questo problema si veda Iliescu (2003, 33): a) Dittongamento regolare di [ε] aperta tonica in sillaba chiusa, fenomeno che si ritrova nel soprasilvano, nello spagnolo, nel vallone e nell’istroromanzo: FERRU > friul. fier, rom. fier, sp. hierro; b) conservazione dei nessi PL -, BL -, FL -: PLUMBU > friul. plomb, rom. plumb (cf. supra, 2.4, 4b). Ma c’è una differenza: in friulano si conserva anche la C + L -, nesso che in romeno si palatalizza come in italiano: CLAVE > friul. clâf, rom. cheie; c) palatalizzazione di - T + I , - S + I , - L + I : Questo fenomeno spiega il plurale palatalizzato del tipo: vidiel ~ pl. vidiei, (rom. vițel ~ viței), friul. sg. dut ~ pl. ducj; rom. tot ~ toți. Tekavčić (1984, 98) parla di «[u]na catena di casi di palatalizzazione [che] collega il friulano, il lombardo e l’area dolomitica e il veglioto»; d) chiusura della [ε] aperta seguita da un nesso nasale in sillaba chiusa: [ε] + N + T > i + N + t: ARGENTU > friul. arint, rom. argint; TEMPUS > friul. timp, rom. timp; e) numero ridotto di sincopi vocaliche (cf. supra, 2.4, 5c; Iliescu 1995); f) sistema dimostrativo bipartito, come nella maggior parte della Cisalpina, in ladino, romancio e nelle lingue gallo-romanze: friul. chest/chel; rom. acest/acel; g) differenziazione del dativo e dell’accusativo dei pronomi accentati: friul. dat. a ti, acc. te; rom. dat. ție, acc. pe tine. Questo tratto è comune a tutta l’area dolomitica e al romancio, parzialmente all’occitano e al sardo (cf. supra, 2.4, 7a); h) identità di un suffisso temporale in -r- del perfetto semplice, in tutte le persone del plurale, che si ritrova in romeno, in friulano (-r-) e in una parte della zona gallo-romanza, in quasi tutte le parlate occitane (-ere/-eria), in franco-provenzale (-iar-) e in catalano, ponte fra Gallo- e Ibero-Romania (-re), friul. (-r-): pers. 4a e 6a clamarin, 5a clamaris; rom. (-r-): pers. 4a, 5a, 6a chemarăm, chemarăți, chemară (Iliescu/Mourin 1991, 354); i) nei due idiomi il suffisso diminutivo latino -UCEUS ha una grande produttività: friul. -uz, rom. -uț.

3.1.2 Un’osservazione sul lessico Per quanto concerne il lessico, di cui non si è fatto finora menzione, è difficile pronunciarsi sul friulano confrontato con le altre lingue romanze. Osservazioni pertinenti si trovano tuttavia in Heinemann (2003, 157–175; cf. anche Iliescu 1976, 513–526; 1986, 91–94). Una lunga serie di parole di origine sconosciuta si ritrova in friulano e in romeno (oltre che in differenti idiomi della zona alpina). In romeno la maggior parte di queste parole è stata spiegata con il sostrato geto-dacico, oppure con prestiti dall’ungherese

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o da una lingua slava vicina. È anche presente l’indicazione «etimologia ignota». Crediamo di aver dimostrato (Iliescu 1977, 181–185) che queste parole rappresentano il resto di un sostrato comune preromanzo che si estendeva dalle Alpi fino alla Penisola Balcanica. Rohlfs (1986, 504) aveva d’altronde già attirato l’attenzione sulla percentuale relativamente alta di vocaboli pre-romanzi esistenti nelle parlate retoromanze nel loro insieme, come per esempio friul. crap ʻpietraʼ o ruign ʻleggera caduta di neveʼ. La semantica di questi vocaboli è caratteristica del sostrato, dato che si tratta soprattutto di animali o forme del rilievo. Ci limiteremo a qualche esempio: a) friulano, albanese, romeno: friul. çore, alb. shorë, rom. cioară ʻcornacchiaʼ; friul. razza, alb. rosë, rom. rață ʻanatraʼ; b) friulano, comelicano, romeno, italiano settentrionale, galloromanzo: friul. talpe, com. talpa ʻzampaʼ rom. talpă ʻpianta (del piede)ʼ, per il gallorom. cf. FEW (s.v. TALPA ) . Heinemann (2003, 161s.) cita alcuni esempi di questo tipo in certi vocaboli per evidenziare lo sviluppo parallelo con il romeno.

4 Friulano, istroromanzo e dialetti italiani della Cisalpina Ci limitiamo qui a tre esempi: 1) In friulano, in istroromanzo l’imperativo negativo nella 2a e nella 5a persona è formato con l’ausilio del verbo STARE : 2a friul. no stâ (a) cjantâ, istr. no sta canta, 5 a friul. no stait (a) cjantâ, istr. no ste (de) canta (per il problema del posto dell’istroromanzo nella Romania cf. Kramer (1987), che sostiene che si tratti di un dialetto italiano; Blasco Ferrer (1987) lo considera una «lengua-puente» fra la Romania meridionale conservativa e la Romania centrale innovativa; per la vicinanza dell’istroromanzo con il friulano e con molti dialetti settentrionali cf. Zamboni (1986, 234–267); cf. Iliescu/ Mourin (1991, 550); Rohlfs (1968, vol. 2, § 611));

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il friulano, il piemontese e l’istroromanzo (come l’italiano) possono ricorrere a ESSE e a VENIRE come ausiliari del passivo (Iliescu/Mourin 1991, 550); 3) un tratto negativo che differenzia l’istroromanzo dal friulano, dal ladino e da alcuni dialetti italiani della Cisalpina è la presenza nel primo del suffisso verbale - IDIO (Tekavčić 1984, 100; Iliescu/Mourin 1991, 458).

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5 La spiccata individualità del friulano Per ottenere una visione d’insieme un po’ più precisa sul carattere individuale del friulano, abbiamo cercato di scegliere i tratti più pertinenti delle analisi fin qui presentate, pienamente coscienti della soggettività del procedimento. Considereremo dunque specifici per l’individualità del friulano i «tratti positivi» e i «tratti negativi».

5.1 Tratti positivi I tratti positivi che il friulano non condivide con nessun altro idioma sono: a) un sistema vocalico costituito da vocali brevi e vocali lunghe, che danno origine a contrasti con valore distintivo: lât ʻandatoʼ vs. lat ʻlatteʼ, brût ʻbrodoʼ vs. brut ʻbruttoʼ (cf. supra, 2.2.7, b, e 2.3.2 – la bibliografia per questo fenomeno è ricca: cf. Vanelli 2005a, 29; Frau 1984, 30); b) generalizzazione della desinenza -ìn della 4a pers. per tutti i tempi e a tutte le coniugazioni. I tratti positivi condivisi solamente con una delle zone che formano la rete in cui si trova il friulano (italiano, gallo-romanzo – in senso lato, cf. le zone stabilite da Vanelli 2005a; supra, 2.4 –, romeno, istroromanzo) e i «tratti negativi» che differenziano il friulano da una o da più zone della rete, sono: a) dittongazione regolare di [ε] aperta tonica in sillaba chiusa: FERRU > friul. fier, caratteristica condivisa col romeno (fier), lo spagnolo (hierro), il vallone e parzialmente l’istroromanzo (cf. supra, 2.4, 4); b) lenizione consonantica intervocalica come nel romanzo occidentale, a differenza dell’italiano (e del romeno; Vanelli 2005a, 21, 1a); c) apocope delle vocali atone finali latine diverse da -A , come nella Galloromania (inclusa la Galloromania italiana, a differenza dell’italiano; Vanelli 2005a, 22, 2a); d) il plurale maschile con la desinenza -s e parzialmente anche con i suoni palataUR SU : sg. ors ~ pl. orsj; TOTTU : sg. dut lizzati -[ʃ] < -S + I , -[c] < -T + I e in -i [j] < L + I : URSU ~ pl. ducj; VITELLU : sg. vidiel ~ pl. vidiei (il fenomeno si ritrova parzialmente anche in certe varietà ladine, cf. supra, 2.4, 6); e) palatalizzazione delle consonanti velari davanti ad -A , come in galloromanzo e in ladino, a differenza dell’italiano, Cisalpina inclusa. Gli esiti sono diversi secondo i dialetti: C + A / G + A : occlusive prepalatali [c]/[ɟ], affricate palatali [ʧ]/[ʤ], sibilanti [s]/[z] (si vedano i dettagli su questo fenomeno in Vanelli 2005b, 24; Francescato 1991, 210); f) conservazione dei nessi PL -, BL -, CL - ( CLAVE > clâf, PLENU > plen, FLORE > flôr), come in tutta l’area gallo-romanza, a differenza dell’italiano (ma si veda supra, 3.1.1, b);

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g) esistenza di una serie completa di pronomi clitici, come nella Galloromania italiana e/o nei dialetti italici e nel veneto, in opposizione con l’italiano (Vanelli 1987; 2005a, 23) e di una coniugazione interrogativa. Il presente indicativo del verbo ha sempre un pronome soggetto enclitico: piardio?, piardistu?, piardial? etc. (cf. Benincà 1989, 575s.); h) pronomi personali liberi di 1a, 2a pers. sg. che presentano tre forme diverse a seconda del caso: nominativo jo e tu per il soggetto, dativo mi e ti per l’oggetto indiretto, accusativo me e te per l’oggetto diretto, come in ladino, in sardo e in romeno (cf. supra, 2.4.7, a, e 3.1.1, g); i) sistema dimostrativo bipartito, come nella maggior parte della Cisalpina, in ladino, romancio, nelle lingue galloromanze e in romeno, in opposizione con l’italiano (antico) e con il sistema toscano (anche attuale): friul. chest/chel; j) evoluzioni semantiche caratteristiche soltanto per il friulano: lat. CERNICULU ʻverticeʼ > friul. cerneli ʻfronteʼ, *COLLARE ʻtirare su, giùʼ > friul. colâ ʻcadereʼ, FRUCTUS ʻfruttoʼ > friul. frut ʻbambinoʼ (cf. Heinemann 2003, 157–190; Iliescu 1976, 521).

5.2 Tratti negativi a) Assenza delle consonanti geminate, a differenza dell’italiano (cf. Vanelli 2005a, 21); b) assenza delle vocali anteriori arrotondate [y] e [ø] (cf. Frau 1984, 30; Vanelli 2005a, 26); c) assenza di vocali centrali (che esistono nell’italiano meridionale, nel ladino, nel catalano, nel portoghese e anche nel romeno, cf. Iliescu 2003, 32); d) assenza di sincope vocalica (che è molto rara anche in romeno, cf. Iliescu 1995; Vanelli 2005a, 26); e) assenza di processi di palatalizzazione di A tonica (cf. Vanelli 2005a, 26). Nota bene: i tratti d) e e) «sono presenti in varia misura nei dialetti della Galloromania italiana, comprese le altre varietà ladine» (Vanelli 2005a, 26); f) assenza del suffisso verbale del lat. -IDIO , presente nell’area dolomitica, nella cisalpina, in istroromanzo, in franco-provenzale, in alcuni dialetti francesi valloni, in lorenese, in burgundo e in romeno (Tekavčić 1984, 100). Il friulano conosce soltanto il suffisso verbale del lat -ISCO ( cf. Iliescu/Mourin 1991, 456–459; Iliescu 2003, 35); g) assenza della sostituzione parziale di ESSERE con FIERI , esistente nel sardo antico, nella Cisalpina, nel veglioto e nel romeno.

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6 Conclusioni La caratteristica più importante del friulano è la sua appartenenza al gruppo di varietà «galloitaliche», con il quale condivide la maggior parte dei fenomeni linguistici, ma non tutti quelli che lo definiscono. Il friulano condivide tratti anche con idiomi che non fanno parte del gruppo galloitalico. Questi idiomi si trovano a est del dominio friulano, che comincia (parzialmente) con il veneto e l’istroromanzo e finisce col romeno. Esso ha dunque «una posizione a cavallo tra il sistema romanzo occidentale e il sistema romanzo centro-orientale» (Vanelli 2005a, 27). Il friulano incarna perfettamente la definizione che Ascoli ha dato alle caratteristiche degli idiomi, forse completata con la piccola aggiunta che le caratteristiche sono non soltanto positive, ma anche negative: «Un tipo qualunque si ottiene mercè un determinato complesso di caratteri, che viene a distinguerlo dagli altri tipi […]. I singoli caratteri di un dato tipo si ritrovano naturalmente o tutti o per la maggior parte ripartiti in varia misura tra i tipi congeneri; ma il distintivo necessario del determinato tipo sta appunto nella simultanea presenza o nella particolar combinazione di quei caratteri» (Ascoli 1876, 387 apud Vanelli 2005a, 20).

In diacronia la rete di varietà di cui fa parte il friulano si spiega con una fase comune degli idiomi implicati condivisa, prima del VI sec., dal toscano antico, dal francese antico, dal franco-provenzale antico, dai dialetti italiani settentrionali e dalle varietà ladine (cf. Vanelli 1998, 105–120). Secondo Wartburg (1940, 24–26) fino al VI sec. le persone che fossero passate «dalla pianura del Po attraverso le montagne retiche fino al Danubio non avrebbero avvertito modificazioni linguistiche molto sensibili». Cruciale per la differenziazione delle lingue romanze è stato il periodo tra il VI e il XII sec. e dobbiamo spiegare la costituzione dell’individualità del friulano come una serie di accettazioni e non accettazioni di innovazioni che sono pervenute dall’occidente all’oriente prima del VI sec. Cito ancora Wartburg (ibid.): dopo il sesto secolo «la Pianura del Po volse le spalle alle Alpi Retiche e fece causa comune colla Italia centrale […]. Fra la pressione germanica dal Nord e i dialetti dell’Italia settentrionale orientati altrove – [cioè verso l’Italiano centrale con il suo prestigio] – il territorio si restrinse sempre più. Ne nacque quella striscia spesso interrotta che va dal Gottardo fino a Trieste. Questo territorio schiacciato fra le due grandi forze ha conservato, come per miracolo alcuni tratti comuni, ma le innovazioni dei centri urbani della Padania hanno raggiunto le aree periferiche in misura diversa».

Le parti comuni sono riflesse della loro identità originaria. Questa «resistenza», che ha contribuito al carattere originale del friulano, è spiegata da Francescato (1991, 219) in modo molto convincente anche con argomenti sociolinguistici: di fronte al codice parlato (friulano), l’italiano (codice scritto, di regola nella varietà venetizzante) è stato troppo debole e non ha potuto imporsi (cf. Iliescu 2003, 35s.).

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Per concludere torno alla citazione di Bossong introdotta sopra, completata da un’osservazione di Francescato: «Les langues ignorent des délimitations exactes, elles s’articulent dans des continua, gradués et avec des zones de transitions» (Bossong 2008, 307). Ogni varietà dialettale, comunque definita, rappresenta una «unità» sui generis che è raffigurabile «come un continuo variare, entro il quale si costituiscono dei raggruppamenti cronologicamente e corograficamente dotati di una certa costanza» (Francescato 1973, 533).

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3 «Questione ladina» Abstract: Per la valutazione del friulano è importante il suo rapporto con gli idiomi grigionese e ladino dolomitico; Ascoli raggruppa gli idiomi sotto la denominazione «favella ladina». Partendo dai Saggi ladini di Ascoli si è sviluppata la «questione ladina» che cerca di chiarire se gli idiomi nominati formano gruppo o se sono da tener distinti. Il contributo dà un riassunto delle varie posizioni discusse nel corso del tempo. Tuttavia ultimamente, almeno sul piano politico con la tutela delle minoranze linguistiche su suolo italiano e la standardizzazione degli idiomi, viene accentuata la distinzione degli idiomi. Keywords: ladino, retoromanzo, Ascoli, Gartner, geotipo

1 Introduzione 1.1 Ascoli e il concetto di «favella ladina» Fin dall’inizio la trattazione del friulano in prospettiva linguistica sistemica è legata alla discussione sul rapporto con il ladino dolomitico e con il grigionese. Questa relazione, o piuttosto la diatriba riguardo ad una possibile area linguistica di dimensioni maggiori delimitabile nei confronti dei dialetti dell’italiano settentrionale non solo in senso diacronico, costituisce il nocciolo della cosiddetta «questione ladina». Essa trae origine dalle argomentazioni di Ascoli nei Saggi ladini, in cui l’autore raggruppa i tre idiomi menzionati a formare la «favella ladina» (cf. tuttavia anche il raggruppamento, già presente in Schneller (1870, 9), delle varietà che creano un «proprio territorio friulano-ladino-grigionese»; trad. di S.H.): «Comprendo sotto la denominazione generica di favella ladina, o dialetti ladini, quella serie d’idiomi romanzi, stretti fra di loro per vincoli di affinità peculiare, la quale, seguendo la curva delle Alpi, va dalle sorgenti del Reno-anteriore in sino al mare Adriatico; e chiamo zona ladina il territorio da questi idiomi occupato» (Ascoli 1873, 1).

Ascoli parla di «dialetti», «idiomi», «parlari» e «vernacolari» quando si tratta di singoli idiomi; è interessante l’uso di «favella» nel brano citato, che da una parte può sempre riferirsi a singoli idiomi, ma che dall’altra designa con il più raro «lingua» gruppi di idiomi imparentati senza implicare una dicotomia dialetto – lingua (parimenti collettivi sono i termini affini «gruppo», «sistema», «tipo» e «unità», cf. Krefeld 2003, 199ss.). Come già risulta dalla definizione di Ascoli, l’idea di «favella ladina» non è da confondere col concetto moderno di «lingua», cioè non si tratta di una lingua storica, né di una lingua per elaborazione né di una lingua per distanza linguistica, ma di una costellazione geolinguistica esclusivamente sincronica.

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Nel corso dell’esposizione, Ascoli fa capire che non sussiste più alcuna continuità tra le tre aree linguistiche. Al proposito è interessante, riguardo alla possibilità di circoscrivere l’area linguistica in questione, l’influsso tedesco da Nord e quello romanzo da Sud. Manca inoltre un’unità politica, e allo stesso modo manca una lingua letteraria comune che potrebbe rispecchiarsi in una letteratura ladina (Ascoli 1873, 1, cf. già anche Schneller 1870, 9, così come, per una discussione dettagliata, soprattutto Battisti, cf. sotto). Qui i tre idiomi percorrono strade proprie e completamente indipendenti l’una dall’altra. Per la discussione successiva attorno alla ricezione dell’«unità» descritta da Ascoli, sono particolarmente rilevanti sia la forte frammentazione dialettale di ogni area, sia le divergenze riscontrabili tra i singoli territori della «favella ladina». Il concetto di «unità» si basa sulla distanza linguistica che rispetto alle circostanti varietà romanze sembra chiaramente maggiore rispetto alla diversificazione degli idiomi ladini: «La unità romana si rifrange in mirabile guisa anche per entro a un singolo dialetto ladino; e le divergenze tra le singole varietà ladine non sono di poco momento pur nelle fasi più genuine che a noi sia dato esaminarne […]» (Ascoli 1873, 2).

Più chiaro ancora sulla posizione della «favella ladina» nella Romania risulta il seguente passaggio: «Quanto all’intento e al metodo generale di questi Saggi, e in ispecie della parte ora compita, l’assunto non era solo di studiare o comparare, in modo sicuro e perspicuo, singoli idiomi o singole fasi di favelle più o meno prominenti e disformi, ma era principalmente di ricomporre, nello spazio e nel tempo, una delle grandi unità del mondo romano, accennando insieme come questa si contessa con altre grandi unità romane che le sono attigue» (Ascoli 1873, 537).

Sempre nel cenno preliminare, Ascoli fa riferimento alle zone di transizione tra i dialetti ladini e le circostanti varietà romanze (qui possono essere presi in considerazione soprattutto il lombardo, il trentino e il veneto), più tardi definite «amfizone» (cf. qui anche le varietà intermedie e le varietà miste: nel caso delle varietà miste Ascoli 1873 parla di un «confluire» (p. 250) di varietà, di una «commistione di due favelle diverse» (p. 287), mentre le «varietà intermedie» consentirebbero di riconoscere una «speciale affinità» (p. 250) tra due idiomi confinanti e reclamano evidentemente una certa autonomia: «conformità di condizioni storiche per le quali si possono indipendentemente sviluppare delle varietà intermedie» (p. 287); la distinzione rimane però poco praticabile e del resto Ascoli stesso non dà qui alcun esempio concreto). Con riferimento alla «favella ladina» e alla frammentazione interna, secondo Ascoli al friulano spetta una posizione speciale all’interno degli idiomi ladini: «I vincoli, pei quali la sezione friulana va congiunta col resto della zona ladina, sono dunque ben forti, ma non tanto forti e stretti, quanto son quelli che uniscono fra di loro la sezione occidentale e la centrale. […] Il friulano avrà, nel sistema ladino, una indipendenza non guari diversa da quella

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che ha il catalano nel provenzale. […] egli è all’incontro rimasto l’idioma principe dell’intiero sistema, per l’ampia e libera espansione della sua vitalità assai robusta» (Ascoli 1873, 476).

Nella friulanistica, questa posizione di Ascoli viene in generale accettata, o meglio sostenuta, senza riserve e lo stesso avviene per lo più anche nella romanistica. Legato all’idea di una chiara separazione degli idiomi ladini è il grado di «ladinità» che si indebolisce procedendo da Ovest verso Est (cf. anche Alessio 1939, 142; Goebl 1990b, 194). Ascoli non parte dunque affatto dall’ipotesi di un’area ladina omogenea. Si delinea piuttosto – come da ultimo chiarito nei confronti del francese e dell’occitano – che i tratti che definiscono il tipo linguistico ladino non devono per forza comparire esclusivamente nelle varietà così raggruppate. Parimenti non è necessario che tutte le caratteristiche che vengono considerate come essenziali per un tale tipo linguistico siano rappresentate assieme in tutti gli idiomi (cf. anche Kuen 1982 che ritiene sufficiente la presenza di una caratteristica in due idiomi su tre): «Un tipo qualunque – e sia il tipo di un dialetto, di una lingua, di un complesso di dialetti o di lingue […] – un tipo qualunque si ottiene mercè un determinato complesso di caratteri, che viene a distinguerlo dagli altri tipi. Fra i caratteri può darsene uno o più d’uno che gli sia esclusivamente proprio; ma questa non è punto una condizione necessaria, e manca moltissime volte. I singoli caratteri di un dato tipo si ritrovano naturalmente, o tutti o per la maggior parte, ripartiti in varia misura fra i tipi congeneri; ma il distintivo necessario del determinato tipo sta appunto nella simultanea presenza o nella particolar combinazione di quei caratteri» (Ascoli 1876, 387).

L’idea della «particolar combinazione» sta anche alla base della definizione del francoprovenzale quale tipo linguistico. Il metodo stesso è preso dalla geografia dei suoi tempi; il cosiddetto «raggruppamento sincorico» prevede concetti empirici che possono risultare quantitativamente sfumati non dovendo esserci una perfetta congruenza delle rispettive caratteristiche prese in esame (cf. Goebl 2003, 283ss.). La definizione del francoprovenzale o della «favella ladina» come tipo linguistico o anche di dialetti al tempo di Ascoli veniva negata da Paul Meyer e Gaston Paris, che prendevano in considerazione singoli caratteri linguistici e la loro distribuzione spaziale. Pur ammettendo una continuità linguistica all’interno della Romania pare possibile descrivere singoli spazi individuabili. I rappresentanti della geografia linguistica del tempo supponevano invece la presenza di una confusione dialettale, anche se al di là di questa confusione tra i singoli dialetti è possibile delineare un’area centrale di ogni singolo dialetto, dai limiti più o meno vaghi. Quale punto debole della trattazione ascoliana era chiaramente considerato il concetto di «amfizona». Ascoli descrive le «amfizone», come si è visto, quali «aree di confluenza di tratti caratterizzanti rispettivi» che dai critici venivano interpretate come «zone di trapasso dai tipi galloromanzi evoluti della pianura a quello residuale e conservatore di talune aree alpine e dell’estrema pianura nord-orientale» (Zamboni 2010, 62). Tornando al concetto di «favella ladina», Ascoli stesso (1873, 337s., partendo dal grigionese; 1882–1885, 192) nomina, per le peculiarità fonetiche che consentono una

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distinzione dei dialetti ladini da quelli circostanti, tra le altre la palatalizzazione di C / G A , la conservazione dei nessi formati da consonante e L così come di -S finale, la dittongazione di Ĕ e Ŏ toniche in sillaba chiusa, gli esiti speciali di o aperta e di e chiusa del lat. volg. (Ŏ > ue, Ē , Ĭ > ei), e infine la palatalizzazione di A tonica > e oltre che di Ū tonica > [y], anche se questi ultimi criteri non valgono per il friulano. Con alcune limitazioni si possono qui citare anche la conservazione del dittongo AU , lo sviluppo secondario della quantità vocalica distintiva e la comparsa di dittonghi «induriti» (l’ultimo fenomeno compare in friulano in contesti divergenti e molto più raramente che in grigionese, cf. Frau 2001, 157). Rilevante da un punto di vista morfosintattico è anche la continuazione dei pronomi personali nominativi (come pronomi tonici: EGO , TU ) così come, in sintagmi complessi costituiti da articolo + aggettivo + sostantivo, la presenza esclusiva della marca di plurale nel sostantivo (anche questo vale, di nuovo, non per il friulano in generale ma solo per alcuni dialetti del friulano occidentale). Interessante da un punto di vista lessicale è la continuazione di SOLICULU ( M ) (non di SOLE ( M ) ) e un’alta percentuale di germanismi (cf. p. es. il forse gotico *SKAI Ϸ O , che in lat. volg. è stato presumibilmente adattato in *SCEITONE (friul. sedon); cf. al proposito e per altre caratteristiche la lista di Krefeld 2003; Kuen 1982; 1968; e per la discussione degli elementi lessicali cf. Pellegrini 1969). Fondamentale rimane, per le osservazioni di Ascoli, il riferimento a fattori puramente linguistici. Un’unità sociopolitica, che comprenderebbe anche fattori come il giudizio o meglio la coscienza identitaria dei parlanti, vengono ignorati. Come mostrano le argomentazioni apportate fin qui, anche Ascoli è cosciente del fatto che, almeno in sincronia (oggetto principale del suo interesse) un’unità così costituita non può venire accettata (una tale unità è parzialmente visibile nel senso della funzione di lingua tetto esercitata dall’italiano sull’intero complesso dell’Italoromania; per la classificazione di idiomi italoromanzi passano però nuovamente in primo piano caratteristiche esclusivamente interne alla lingua, cf. 1882–1885, 99ss., al proposito, più in dettaglio Krefeld 2003). Resta comunque valida l’idea di un tipo linguistico ladino o retoromanzo.

1.2 Gartner (Rätoromanisch) Gartner, nella sua Rhaetoromanische Grammatik del 1883, usa, per la descrizione dei tre idiomi in questione, il termine retoromanzo al posto della denominazione ladino di Ascoli, anche se postula in maniera più forte di questi l’idea dell’unità. La designazione delle varietà come retoromanzo è motivata dal – poco felice – riferimento alla provincia della Rezia: «[Q]uesta provincia, che ha stretto un debole e ormai dissolto, ma appunto l’unico, legame storico attorno alle singole parti della nostra zona linguistica, questa provincia si chiamava

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Rezia: quindi retoromanzo è la parola più adatta e contemporaneamente più facilmente comprensibile per il nostro concetto […]» (Gartner 1883, XXI; trad. di S.H.).

Gartner sottolinea anche che non è da aspettarsi: «[…] che qui l’intera area linguistica sia caratterizzata da una serie di particolarità linguistiche nei confronti dell’italiano, del provenzale ecc. […]» (1883, XXIII; trad. di S.H.).

Le caratteristiche da lui addotte divergono in parte da quelle discusse da Ascoli. Secondo Gartner, tipiche del retoromanzo sono alcune particolarità nel lessico, la riduzione del vocalismo postonico, la conservazione di consonante + L , la palatalizzazione di C /G A , la continuazione di EGO e di TU come pronomi personali tonici, l’uscita della 2. pers. sg. in -s, il mantenimento del lat. HABEO (non ridotto a ao), così come l’uso del congiuntivo piuccheperfetto in costruzioni ipotetiche (p. XXIII; per un confronto critico con questi criteri cf. Battisti 1931, 184ss.). Anche Gartner ricorda l’esistenza di stadi di passaggio (p. XXV). Nell’Handbuch der rätoromanischen Sprache und Literatur apparso nel 1910 Gartner (p. 8), considerando l’estensione del retoromanzo (da lui così definito), fa ora riferimento esplicito ai Reti: «[…] e questo nome [cioè retoromanzo, S.H.] è ancora più appropriato se lo si riferisce ai Reti, a partire dal cui nome venne chiamata la Rezia. I Reti infatti abitavano anche il territorio a Sud della futura provincia e devono aver fondato Trento, Verona, Feltre e Belluno; lì, dove ora sono di casa i nostri dialetti e i dialetti di passaggio e quelli misti che confinano con essi» (trad. di S.H.).

In questo contesto Gsell (1997, 136) fa presente che probabilmente si deve partire dall’ipotesi che nel caso dei Reti si sia trattato di una comunità puramente di culto e di cultura.

1.3 Gamillscheg («Alpenromanisch») Problematico per il Friuli appare l’assunto di Gamillscheg, che esso sia stato ripopolato da Retoromani provenienti dal Tirolo e dall’Alto Adige (cf. Battisti 1931, 183s.). L’autore sostiene la teoria di una reromanizzazione attraverso la provincia del Norico e tenta, mediante questa soluzione, di spiegare le divergenze tra i dialetti ladini e quelli italiani settentrionali, sebbene una differenziazione fonetica sulla base dell’analoga latinità non possa probabilmente essere motivata in tal modo (Alessio 1939, 147; Schürr 1963, 111; cf. anche gli stretti contatti commerciali tra le città del Norico e Iulium Carnicum (Zuglio); nel complesso, la latinità del Norico sembra essere condizionata da quella di Aquileia a causa dell’enorme forza di irradiamento di questa città – cioè, nel caso di un reinsediamento da parte della popolazione del Norico, in Friuli rifluisce nuovamente latinità aquileiese, cf. Pellegrini 1969, 30). Problematica, quindi, si rivela soprattutto la posizione speciale del friulano, per il quale si ipotizza

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uno strato linguistico secondario: nel VI e VII  secolo popolazioni romane sarebbero emigrate dalla provincia del Norico a causa dell’invasione degli Slavi. Quindi il friulano rappresenterebbe, all’interno del gruppo di varietà chiamato da Gamillscheg «romanzo alpino» (cf. anche Schürr 1963), l’ultimo resto del latino volgare delle province Rezia e Norico (Gamillscheg 1935, 270s.). Anche qui, però, è importante il richiamo a una romanizzazione delle zone interessate incomparabilmente meno forte. Così l’Est (Norico) è ritenuto la zona romanizzata per prima e in modo più profondo, mentre la Rezia sarebbe stata romanizzata solo più tardi. La conclusione di questo fenomeno avrebbe luogo solo con il ritiro dell’occupazione romana da questo territorio, che oggi può essere considerato la pianura svevo-bavarese, e con la diffusione del cristianesimo (p. 272).

2 La posizione di Battisti Importante nel contesto della «questione ladina» è la posizione assai critica di Battisti soprattutto nei confronti di Ascoli. Oltre al sostrato e al rifiuto di tutte le altre caratteristiche linguistiche ed extra-linguistiche, che possono essere addotte in maniera più o meno forte per la definizione di una «unità ladina», a Battisti di conseguenza rimane come unico criterio per una delimitazione dei dialetti italiani settentrionali nei confronti delle varietà ladine la divergente romanizzazione: «Per chi vuole distinguere fra «una zona ladina» e gli altri dialetti dell’Italia settentrionale, rimane una base molto labile di riferimento l’originaria diversità di romanizzazione delle Alpi centrali e dell’Italia, cioè fra Italia e Provincia» (Battisti 1931, 210).

Bisogna dire però che agli inizi del secolo «tra l’appartenenza linguistica di un gruppo di individui e la sua appartenenza politica o statale esistevano stretti legami sedicenti naturali» (Goebl 2003, 289). Dopo il suo impegno irredentistico, Battisti, come già accennato, in una prima fase sul piano dialettologico cercava di combattere Ascoli negando l’esistenza di una lingua ladina: «[…] tolta la possibilità di tracciare quindi al mezzogiorno del gruppo ladino centrale un confine strettamente oggettivo che valga per tutte le leggi linguistiche regolanti la fonetica e la formologia ladina, non resta che accontentarsi d’una delimitazione fatta di caso in caso per i singoli fonemi» (Battisti 1906, 170s.).

Wartburg, al contrario, considera l’«unità ladina» o retoromanza definibile come negativo-passiva: per lui il grigionese è una forma di lingua romanza respinta ai margini da altre varietà e che si trova in contatto sia con il francese, sia con il provenzale. A Nord si ha contatto solo con il germanico, una «Stütze» (ʻsostegnoʼ), come si esprime Wartburg (1950, 147), qui non c’è. Il grigionese è dunque, come già mostrato da Ascoli, «più ladino» delle altre varietà. Le aree delle varietà ladine non

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hanno contatto tra di loro (o lo hanno solo in maniera molto limitata); più stretto risulta comunque il contatto tra ladino dolomitico e friulano, il grigionese da questi è relativamente isolato (cf. Gsell 2003, 341). Inoltre politicamente le aree sono indipendenti le une dalle altre e, infine, gli idiomi non formerebbero alcuna unità linguistica «attiva», non presentando nessuna innovazione comune e riscontrabile solo nella Ladinia, ma formerebbero piuttosto aree relitte con caratteristiche (alto)medievali. Battisti (1965, 415) fa presente, tuttavia, che nel Medioevo la zona a Sud del Lago di Costanza non era affatto germanizzata completamente. Per Battisti questa affermazione si presta bene, nel corso della sua diatriba di stampo politico-ideologico attorno all’«unità ladina», risalente ad Ascoli e Gartner, a essere usata in particolare contro Ascoli, che, come è noto, nella sua descrizione sottolinea l’osservazione sincronica: egli, per lo più, esclude quindi dalla discussione la prospettiva diacronica. Tuttavia si tenga presente che presumibilmente, da un punto di vista diacronico, una delimitazione delle aree linguistiche in questione non è sempre possibile (cf. per le differenze meno pregnanti tra le varietà ladine e i dialetti dell’italiano settentrionale p. es. Alessio 1939, 145; Pfister 1985, 59; oltre che Goebl 1990, 237 per l’ipotesi di una più ampia diffusione del «geotipo» da lui postulato nei secoli scorsi). Un importante contributo alla conoscenza della situazione nel Medioevo è fornito da Pfister (1985). Riguardo alla base costituente il sostrato si può ipotizzare una presenza del lepontino per la zona del Lago di Como, del Ticino etc. e del retico, in forma documentata per iscritto (con due sottogruppi), per la zona da Bolzano al Nord e al Sud fino a Padova (non sono noti fenomeni specifici nel ladino che si possano legare al sostrato retico, cf. Guglielmi 2009, 433). Per la Rezia settentrionale e per la provincia del Norico il sostrato è da ritenersi celtico. Anche per il Friuli odierno e per il Carso sono stati documentati insediamenti celtici ricorrendo alla toponomastica e all’archeologia. Mentre per l’area linguistica oggi grigionese un’aggregazione alla diocesi di Milano potrebbe aver avuto come conseguenza un’evoluzione linguistica analoga per i dialetti dell’italiano settentrionale e per il grigionese, l’insediamento di coloni di origine romanza nelle valli alpine (Tirolo meridionale) è avvenuto solo a partire dal X  secolo. Questo fenomeno è preceduto da una germanizzazione della zona ladina centrale a partire dal VII  secolo. La dominanza del germanico si evidenzia nella sua fissazione come lingua della politica e della Chiesa. L’idioma romanzo, al contrario, non permette di riconoscere fenomeni fonetici caratteristici e il suo lessico è arcaico. Mentre per il friulano nel corso della storia si rendono visibili chiari processi di isolamento (mantenimento della latinità di Aquileia, patriarcato di Aquileia; per l’età del confine friulano-veneto, che si è venuto a creare politicamente e attraverso i confini diocesani, cf. Battisti 1938, 59), fino al VI  secolo non si può tuttavia parlare di un’unità retoromanza o ladina. Piuttosto si può ipotizzare un’unità linguistica dell’Italia settentrionale. Questo status è osservabile fino al XI  secolo (Pfister 1985, 59ss.; cf. esclusivamente in riferimento al sostrato gallico anche Battisti 1937, 18ss.). Riguardo alla problematica storico-linguistica nell’ambito della «questione ladina» c’è secondo Gsell (2003, 340) un ampio consenso (sebbene aspetti come quello

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riportato come (2) per il Friuli debbano certamente essere controllati, cf. analogamente problematico Jodl 2004, al proposito Heinemann 2005): «(1) La romanizzazione della Rezia e del Norico (meridionale) avvenne sulla base della stessa latinità che era corrente anche nell’Italia cisalpina, incluso il futuro Friuli. (2) In età tardo antica e alto medievale gli scambi linguistici tra la Gallia/Francia transalpina e cisalpina devono essersi intensificati, cosa che condusse al distacco di quest’ultima dall’Italia interiore. (3) Il contatto delle aree di confine nord-orientali della Cisalpina con la zona alemanna-bavarese, ovvero con l’area di cultura tedesca, che era iniziato dopo il 500 e che si era rafforzato dopo l’800, condusse, attraverso l’influsso diretto e ancor più attraverso l’indebolimento degli scambi linguistici interromanzi, a uno sganciamento della zona di confine alpino-friulana dalla Padania, la quale era di nuovo, e in maniera crescente, orientata a Sud. (4) Al distacco segue la crescente autonomia delle tre sottoaree le une dalle altre e la differenziazione dialettale al loro interno (dopo il 1000). (5) Il risultato di questa dinamica è, per l’era moderna, l’autonomia linguistica delle tre lingue minori, grigionese ladino dolomitico e friulano, nei confronti del diasistema italiano» (trad. di S.H.).

Certamente non priva di problemi è la scelta delle caratteristiche classificatorie, criticabili per qualità e quantità (non irrilevante è, al proposito, anche una possibile gerarchizzazione delle caratteristiche cf. Liver 1999, 23; cf. anche Zamboni 1977, 105). Così, le caratteristiche riportate da Ascoli non devono essere per forza considerate come esclusive, ragion per cui secondo Battisti risulterebbe lo status arbitrario e astorico dell’unità postulata (cf. al proposito anche le argomentazioni di Pellegrini (1991a, 11) riguardo alla questione, secondo lui irrisolta, dell’«elemento ladino vero e proprio» discusso da Ascoli, ma cf. al riguardo le osservazioni di Ascoli stesso sulla «particolar combinazione»): «[…] essa sarebbe accettabile soltanto nel caso che questi caratteri stessi fossero presenti in tutto il gruppo o almeno nei punti più conservativi delle attuali zone ladine e che essi potessero essere, non solo al momento attuale, ma anche nei periodi precedenti caratteristici per il ladino contro gli altri sistemi dialettali dell’Italia settentrionale o dimostrassero un’unità storica dialettale omogenea piuttosto ambientata verso nuclei linguistici transalpini o indipendente […] tanto da quelli, quanto dai sistemi dialettali del lombardo e del veneto» (Battisti 1931, 182).

In contrasto con l’affermazione di Ascoli, Battisti pretende, di conseguenza, di ipotizzare un’unità, dunque la comparsa delle caratteristiche definite in tutte le varietà considerate, tenendo conto della loro rilevanza, in sincronia e in diacronia, per poter descrivere la distanza linguistica nei confronti dei dialetti italiani settentrionali circostanti. Battisti pone dunque delle condizioni per ammettere un’unità linguistica che, a causa della differenziazione delle singole aree, non trovano riscontro nella realtà (cf. Kuen 1968, 58ss.). Conformemente, per Battisti, gli idiomi ladini «erano prolungamenti molto conservatori rispettivamente del lombardo e del veneto» (Goebl 2003, 294). Pellegrini (1991a, 18) saluta con favore proprio la critica di Battisti dell’idea di un’«unità ladina» e contesta con veemenza un raggruppamento dei tre idiomi anche sotto punti di vista storici:

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«Certamente riuscita è la sua critica all’unità delle tre sezioni che non si giustifica sotto alcuna angolatura, mancandovi le premesse storiche e protostoriche e a ben guardare anche linguistiche […]. Le concordanze non si individuano in senso orizzontale, ma verticale».

Le caratteristiche utilizzate per descrivere le zone ladine – che si dimostrano storicamente fondate parzialmente anche in territori confinanti (cf. p. es. nella zona del Cordevole o nel Comelico) – sono da considerarsi più conservatrici che innovative. Per questo motivo le regioni interessate vengono di solito definite, per la presenza di diversi criteri aventi in passato una diffusione maggiore, aree relitte (Schürr 1963, 112; Kristol 1998, 941; Goebl 1990a, 237; Liver 1999, 23). Vanelli (2000, 233) sottolinea lo sviluppo analogo più o meno casuale, il che naturalmente, a grandi linee è giustificato, mentre al livello dei dialetti locali sono percepibili le differenziazioni: «Quello che oggi si presenta come un insieme di varietà che hanno alcune caratteristiche linguistiche comuni, non è il risultato di una origine comune […], ma è il risultato di sviluppi storici paralleli, ancorché separati, che indipendentemente hanno dato esiti simili».

Gli sviluppi innovativi provenienti da Sud non penetrano più – o solamente con ritardo – in questi territori. L’affermazione di Battisti che i tratti conservativi che compaiono nelle regioni più remote «non hanno altro valore dimostrativo che quello di maggior lentezza evolutiva» (Battisti 1938, 55) coincide con quella di Kramer, che «[può] avere efficacia probatoria per una qualsivoglia unitarietà del retoromanzo solo un’evoluzione fonetica in cui il retoromanzo compia un’innovazione nei confronti dell’italiano, ma non il mantenimento di tratti fonetici del latino» (Kramer 1971, 191; trad. di S.H.).

Per la delimitazione delle varietà tra di loro, questa ipotesi in sincronia – dunque anche in senso ascoliano – è irrilevante; per Ascoli è importante semplicemente la «particolar combinazione» dei caratteri che non devono essere necessariamente innovativi. Oltre a ciò anche Francescato (1972, 278ss.) osserva p. es. che il friulano senz’altro presenta, come nel caso della quantità vocalica fonologicamente rilevante, tratti innovativi (cf. anche Pisani 1969, 60 per -S ). Nella valutazione di questa questione linguistica Kramer, dopo la discussione riguardante anche la diffusione delle caratteristiche di «ladinità» addotte più spesso (conservazione di -S , mantenimento di consonante + L , palatalizzazione C / G A ), giunge alla conclusione che sia da attribuire unicamente al grigionese uno status speciale. Infatti il ladino dolomitico e il friulano dovrebbero essere considerati come dialetti annoverabili tra quelli dell’italiano (p. 195; cf. anche Kramer 2000, 62; non è qui la sede per discutere il problema della distanza linguistica fra ladino dolomitico o friulano e dialetti gallo-italici o veneto, si veda in generale Heinemann 2007). Per la classificazione qui risulta cioè decisivo il fatto che gli ultimi due idiomi subiscano la funzione di lingua tetto esercitata dall’italiano. Infine è anche interessante che a queste aree relitte si riconosca un ruolo particolare all’interno dell’Italoromania, se è vero che non vengono messe sullo stesso piano degli altri dialetti italiani. Questa

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suddivisione solleva la questione se forse la motivazione non si trovi, nonostante tutto, nella distanza linguistica o in questioni di elaborazione e di coscienza dei parlanti (per la problematica della «misurabilità» della distanza linguistica si rimanda a Iliescu 1969; Muljačić 1967; Pellegrini 1970).

3 Studi sul lessico e la negazione dell’«unità ladina» La problematica del continuum spaziale viene esplicitamente menzionata da Francescato ricorrendo al lessico. Così, per il friulano e il veneto (limitatamente al veneto settentrionale), si possono spesso constatare convergenze lessicali. D’altro lato, tra il friulano e il ladino dolomitico compaiono di frequente divergenze, mentre al ladino dolomitico e al grigionese (con un’evidente contiguità alla Galloromania) viene riconosciuta una «integrità di caratteri» (Ascoli 1873, 476; Francescato 1985, 75ss.; Hubschmid 2000, 118ss.). Allo stesso tempo se ne deduce, per Francescato, la possibilità di delimitazione già postulata da Ascoli, ovvero lo status speciale del friulano in considerazione delle restanti varietà ladine (Francescato impiega qui per il friulano il termine «reto-friulano») che, negando l’«unità ladina», è trasferibile anche agli altri idiomi (p. 79s.). La problematica di eventuali concordanze di lessico che riguardano unicamente le varietà ladine, senza che i lessemi compaiano anche nelle varietà limitrofe, si pone in primo piano anche nelle osservazioni di Benincà Ferraboschi (1973) e di Pellegrini/Barbierato (1999). Questi ultimi due studiosi, nella loro indagine su 1000 concetti registrati dall’AIS e sulla loro diffusione nelle varietà ladine, giungono infine al risultato – poco sorprendente – che l’«unità ladina» è da respingere: «Come si può parlare di una ‹lingua› che non possiede alcuna unità, che è diversa internamente per la storia, per i sostrati, per la cultura, per la politica, per i sentimenti delle popolazioni ecc.?» (1999, 470).

È tuttavia interessante anche l’elencazione, presentata da Pfister (1986), di lessemi caratteristici, che consente di farsi un’idea della stratificazione linguistica della regione alpina centrale e orientale. Come aree relitte si possono così identificare anche la Val Bregaglia, la Lombardia (varietà alpine orientali), l’Agordo così come le zone di transizione tra la Ladinia centrale e il Trentino, e infine la Val di Fiemme. Tuttavia, il numero maggiore di relitti lessicali si riscontra nelle varietà ladine, anche se questi strati lessicali si possono far derivare, come alcune altre caratteristiche già menzionate, da una precedente unità galloitaliana e risalgono al periodo dell’Impero romano e dell’Alto Medioevo. Le innovazioni linguistiche provenienti dai centri cittadini della Pianura padana conoscono, nelle zone marginali, una diffusione di intensità differente (Pfister 1986, 178ss.). La negazione di un continuum in direzione Est-Ovest e la maggiore «ladinità» del grigionese nei confronti del ladino dolomitico e del friulano, come rilevato da Ascoli e constatato da Goebl nelle sue indagini, vengono ricondotte da Battisti al sostrato

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gallico (Battisti 1931, 180s.; cf. anche Goebl 1989, 746; Rohlfs 1986; per il lessico Zamboni 1977, 103). La continuità con dialetti confinanti a Sud (o l’orientamento verso di essi), come viene sostenuta da Battisti, fa pensare allo stesso tempo ai centri dell’innovazione, anche se in questo caso, a causa della crescente toscanizzazione dei dialetti italiani settentrionali e dell’assunzione dell’italiano in funzione di lingua tetto anche nei riguardi delle varietà in questione, viene favorito un livellamento delle differenze linguistiche. Un altro importante criterio per la discussione attorno all’«unità ladina» è stato introdotto da Battisti (così come da Ascoli) con la decisa esclusione dei fattori extralinguistici che contribuiscono a definire un’unità (come l’italiano): così si può lamentare la mancanza di coscienza nazionale, ma allo stesso tempo la mancanza di un’unità che possa sorgere tramite la letteratura; anche da un punto di vista etnico, politico e storico non ci sarebbe alcun elemento per giustificare un’unità (Battisti 1931, 164). Si può aggiungere anche la mancanza di un comune centro di irradiamento, ovvero di un centro per ciascuno dei tre territori (cf. anticamente Coira, Bressanone, Aquileia), che avrebbe anche potuto portare a una diffusione di innovazioni provenienti dall’area italiana settentrionale fino in zone remote (Battisti 1938, 54; 1937, 73s.; per il ruolo di Udine nel passato e oggi cf. Francescato 1982; Melchior 2008). La «questione ladina», che secondo Battisti può essere risolta attraverso la comparabilità delle varietà ladine a quelle italiane settentrionali, viene districata in negativo anche da Pellegrini, nel suo problema centrale (quello dell’«unità ladina»), non solo – come visto – nel campo del lessico, tanto più che Pellegrini sottolinea l’esclusività delle caratteristiche delle varietà ladine, che non era intesa da Ascoli in questo modo. Pellegrini inoltre mette in risalto la possibilità di delimitare il friulano: «Quanto alla posizione del friulano […], posso affermare, con maggior sicurezza, che tale parlata […] nulla ha da spartire con il ladino del Sella o dei Grigioni […], tranne che per due o tre fenomeni di conservazione» (Pellegrini 1991b, 47).

4 Il concetto di «geotipo» Goebl (cf. p. es. 1986; 1990b; 1992; 1999), anche difendendo le idee ascoliane, rimprovera a Pellegrini il fraintendimento del concetto di «unità ladina». Secondo lui, Ascoli formulerebbe un costrutto tipologico, il ladino, e «unità» conterrebbe il significato di «unitarietà dialettale» (qualità) vs. «unità» (nel senso di un «gruppo linguistico», cioè una cosa). Questa polisemia verrebbe ignorata da Pellegrini. Goebl prende le mosse, nel caso dell’«unità ladina», dal risultato di uno spoglio di materiale linguistico su base areale ottenuto in modo induttivo, dove quest’unità deve servire non alla descrizione di un gruppo omogeneo, bensì di un gruppo delimitabile. Goebl sottolinea dunque la «particolar combinazione» di determinate caratteristiche e non la presenza esclusiva di un gruppo di caratteristiche che compaiono solo nella zona linguistica

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ladina. Tipica è solo la composizione dell’insieme di caratteristiche e con l’aiuto della dialettometria si possono rendere visibili i vari geotipi (per le caratteristiche prese in considerazione da parte di Ascoli si veda Bauer 2009, per il friulano 327ss.; 2010). Accanto al problema dell’astoricità del metodo – per quanto tuttavia sostenibile in senso ascoliano – l’esclusione della funzionalità delle unità linguistiche è, come spiega Krefeld (1994, 267), svantaggiosa in un contesto di linguistica sistemica. Sebbene l’elaborazione di modelli di distribuzione sia possibile e ne risulti un tipo retoromanzo, sarebbe utile tener presenti componenti anche qualitative (cf. anche la proposta di Krefeld 1994, 282, di sottoporre a un’indagine più precisa aree di dimensioni minori e, per le loro caratteristiche, omogenee). Seguendo le argomentazioni di Krefeld, così facendo si consentirebbe la valutazione della possibilità di delimitazione nel senso di caratteristiche tipiche ed esclusive per singole zone (qui il termine unità viene impiegato nel senso di «unitarietà»), la quale a sua volta potrebbe portare a una differenziabilità delle varietà ladine e potrebbe mostrare, passando per le «amfizone», il loro legame alle zone dialettali dell’Italia settentrionale (cf. p. es. riguardo al lessico soprasilvano Krefeld 1994, 273ss.). Indipendentemente dall’orientamento politico-ideologico dei battistiani di un tempo (cf. soprattutto Salvioni 1917 per quanto concerne pretese revansciste ovvero irredentiste con riferimento al grigionese e al ladino dolomitico), oggi – e questo si è palesato in diverse osservazioni in questo contributo – prevale l’opinione di considerare le tre aree linguistiche in questione isolate le une dalle altre. Questo, per il friulano, che qui è di primario interesse, viene accennato già da Ascoli (cf. sopra); interessante è la frequente classificazione del friulano come dialetto da parte italiana, senza riferirsi a un’«unità ladina» e senza istituire un legame più stretto tra friulano e ladino dolomitico (Pellegrini 1991a, 20; per Salvioni cf. Zamboni 2010, 60ss.; anche Verdini 2010 seppur molto criticabile). È però incontrovertibile che, per tempi più remoti, si debba ipotizzare una diffusione più ampia di caratteristiche oggi classificate come ladine, ragion per cui sono interessanti proprio i passaggi di tipo graduale dal ladino ai dialetti dell’italiano settentrionale. A causa delle strutture del continuum presenti in maniera più o meno pronunciata (cf. friulano – veneto settentrionale vs. meridionale, cf. in generale anche Pellegrini (1991a, 19): «[…] tra le aree ladine e italiane settentrionali la Romània è particolarmente continua.») la distanza linguistica nei confronti della varietà confinante si può stabilire solo in misura insufficiente, ma essa consente allo stesso tempo anche di postulare un «continuum ladino» almeno tra il friulano e il ladino dolomitico, soprattutto passando per le varietà del Cadore (il ladino cadorino presenta ancora il tratto della palatalizzazione di C / G A e la conservazione di -S finale, mentre si è persa la conservazione dei nessi + L ; cf. Guglielmi 2009, 436).

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5 Sviluppi attuali Gli attuali sforzi di elaborazione nello stabilire una lingua scritta dimostrano ugualmente la delimitazione degli idiomi, dunque anche da un punto di vista sociolinguistico la «questione ladina» si rivela problematica. Non da ultimo grazie alla coscienza dei parlanti e in parte all’appartenenza statale (funzione di lingua tetto da parte dell’italiano nel caso del ladino dolomitico e del friulano) si riscontra uno sviluppo che primariamente si orienta verso l’indipendenza degli idiomi, ma non si può negare una certa coscienza di un’«unità ladina», seppur non di tradizione popolare bensì «calata dall’alto» (o possibilmente indotta da una ricezione erronea di Ascoli, Gartner etc.), che si riflette nei vari profili di «letteratura ladina del Friuli», iniziative come la «fieste ladine», o la pubblicazione del periodico «Ladins dal Friûl» etc.). Rimane comunque intatto il concetto di «unità ladina» su base linguistica come introdotto da Ascoli sotto la denominazione «favella ladina».

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4 Sviluppo storico del friulano Giovanni Frau

4.1 Storia linguistica esterna Abstract: Il friulano risulta il moderno continuatore della lingua regionale di Aquileia sorta dall’incontro del latino con gli idiomi preesistenti. Dopo la caduta dell’impero romano il suo sviluppo fu caratterizzato da ulteriori fasi di bilinguismo – sempre risoltesi a suo favore, in quanto lingua di prestigio superiore – conseguenti alla convivenza coi germanici Goti, Longobardi e Franchi. Queste popolazioni apportarono una serie di prestiti, che accrebbero durante il periodo di dominio medievale del Patriarcato di matrice tedesca, senza tuttavia influenzare la struttura originaria del nostro idioma. Durante questa ultima epoca si registrò inoltre un distacco della regione dal resto della Penisola culturalmente significativo in conseguenza del suo orientamento verso il mondo germanico. Con la fine del potere temporale del Patriarcato nel 1420 ad opera di Venezia, il Friuli rientrò definitivamente nell’orbita italica. Fra i diversi avvenimenti che caratterizzeranno la sua storia successiva citiamo appena il riconoscimento dello status di lingua ufficiale sancito con la legge 482 del 1999 della Repubblica Italiana. Keywords: storia linguistica esterna, contatti linguistici, etnografia, ambienti sociopolitici e culturali, aspetti sociolinguistici

1 Generalità Il friulano rappresenta la continuazione del latino regionale di Aquileia, quale esso si è venuto a trasformare attraverso i mutamenti e gli sviluppi condizionati dagli eventi storici che nell’arco di più di due millenni ne hanno contrassegnato la storia. La sua individuale fisionomia si deve soprattutto a due aspetti particolari che ne hanno caratterizzato l’evoluzione: in primo luogo la situazione di più volte rinnovato ambiente di bilinguismo col quale nelle varie fasi storiche si sono trovati a convivere gli abitanti della regione come conseguenza dei ripetuti incontri con genti di volta in volta portatrici di altre lingue; e poi il lungo periodo di isolamento sociopolitico e culturale rispetto al resto della Penisola, che a partire dalla seconda metà del secolo XII , con la nascita dello Stato Patriarcale – per i primi duecento anni caratterizzato dalla presenza quasi continuativa di Patriarchi di origine tedesca –, ne segnò le sorti all’incirca sino all’inizio del dominio della Repubblica di Venezia nell’anno 1420.

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1.1 Status della ricerca Fra le lingue romanze meno diffuse il friulano può vantare la disponibilità di un’ottima opera di grande valore, fondamentale per la conoscenza della sua storia. Si tratta della monografia di Francescato/Salimbeni (22004), la quale criticamente presenta e approfondisce le principali fasi storiche e i collegati aspetti di natura etnolinguistica, sociolinguistica e geolinguistica, che nel corso dei secoli hanno contribuito a determinare la genesi e la fisionomia della nostra lingua. A essa seguono, complementari l’una all’altra, le sintesi di Marcato (1989) (dal 1420 ad oggi) e Benincà (1995) (per il periodo precedente), da ultimo l’essenziale panorama di Frau (2007). Su aspetti particolari, singole questioni e per integrazioni bibliografiche si potranno utilmente consultare Heinemann/Melchior (2011, 144–151) e Videsott (2011, 372–380). Offrono una rappresentazione complessiva della storia del Friuli le dettagliate ricerche di Paschini (52010) (fino al XVIII  secolo) e la sintesi di Menis (102002).

2 L’epoca antica La data fondamentale per la genesi e la storia della lingua friulana è rappresentata dal 181 a.C., anno della fondazione della colonia romana di Aquileia, voluta dal Senato di Roma per prevenire possibili occupazioni del territorio da parte di Galli transalpini e nello stesso tempo garantire la futura sicurezza della Repubblica al confine nordorientale. Nell’accurata descrizione dell’avvenimento, Livio narra che il primo nucleo di coloni fu costituito da 3.000 legionari e 300 cavalieri (Pellegrini 1966–1969, 7–10, 31), altri 1.500 ne furono inviati nel 169 a.C. Successivamente fu dedotta la colonia di Concordia (circa anno 42 a.C.) nello stesso periodo della nascita del vicus di Iulium Carnicum – oggi Zuglio – futura colonia e di Forum Iulii – l’odierna Cividale del Friuli – tutti centri destinati a ottenere il rango di municipia. Non è dato di sapere quale/i varietà regionale/i di latino – matrice del futuro friulano – parlassero i primi coloni romani di Aquileia, ma è possibile che essi per la maggior parte fossero originari del Sannio e delle regioni sabelliche. L’ipotesi sembrerebbe confermata dal confronto fra l’antroponimia epigrafica aquileiese e sannitica, inoltre da almeno un riscontro lessicale, quale la continuazione dialettale del latino fulgur ʻfulmineʼ, che pare attualmente circoscritto al friulano folc e ai tipi abruzzese e molisano fróvələ/ frùvələ (Pellegrini 1990, 284).

2.1 I primi contatti etnico-linguistici Quando i coloni giunsero nell’agro aquileiese vennero sicuramente a contatto con più lingue, parlate dalle popolazioni che qui abitavano da non molto tempo (di probabile matrice celtica) o da genti di ancor più antico insediamento, come i Venetici – attestati

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da varie fonti – conviventi con altri gruppi preistorici, per i quali però non si possono attribuire che vaghe etichette etniche e linguistiche (Protoilliri, Histri, Liburni?). La loro esistenza risulta comunque confermata dalla documentazione letteraria e da una consistente mole di dati linguistici perpetuatisi fino ai nostri giorni, questi ultimi rappresentati in primo luogo da toponimi quali gli odierni Aquileia, Artegna, Cormons, Gemona, Invillino Meduno, Nimis, Osoppo, oltre ai principali idronimi come Aussa, Cellina, Isonzo, Livenza, Natisone, Tagliamento, Timavo, Torre, Varmo (Pellegrini 1966– 1969, 20–32). A essi vanno aggiunti numerosi appellativi, per lo più attribuibili al sostrato celtico, riscontrabili nelle attuali parole friulane bar ʻcespuglioʼ, cervese ʻluppoloʼ, cjarugjel ʻcarretto per il trasporto dell’aratroʼ, cumiérie ʻporca (nel campo arato)ʼ, draç ʻstaccio per cerealiʼ, glàsigne ʻmirtilloʼ, etc. (Grzega 2001, passim). Se si esclude il passaggio di A tonica latina ad [ε] – oggi rintracciabile soltanto ad Artegna e a Racchiuso a ridosso delle colline prealpine oltre che a Imponzo e Lovea in Carnia – non ci sono tracce di particolari influssi tradizionalmente considerati celtici (turbamento della U lunga latina in [y], etc.) sulla fonetica del friulano, anche perchè è ormai definitivamente dimostrato che la caratteristica palatalizzazione friulana di CA - latino in cia-/cja- (CANEM che diventa cian/cjan) è assolutamente indipendente e più tarda dell’analogo fenomeno avvenuto nei territori di antica presenza gallica. Dunque fin dall’inizio i coloni romani parlanti una varietà regionale latina – matrice del futuro idioma friulano – si trovarono a convivere in un ambiente plurilingue. Questa caratteristica si perpetuerà nel corso dei secoli – sia pure in situazioni mutate – che vedranno la presenza di rinnovati o aggiunti protagonisti, rappresentati dall’arrivo di altre genti e popoli con conseguenti contatti linguistici. Ciò avverrà già in epoca romana, soprattutto da quando Aquileia, divenuta una delle principali città dell’impero, si affermerà come centro di attrazione, favorito dalla particolare collocazione geografica all’incrocio fra importanti vie di comunicazione provenienti da tutte le direzioni cardinali, specialmente dal nord e dal vicino medio oriente. A tale proposito può essere istruttivo scorrere i nomi degli offerenti che compaiono nei pavimenti musivi delle basiliche aquileiesi o in genere nell’epigrafia proveniente dalla città e dall’agro per incontrare nomi egizi, siriani, mediterranei in genere e soprattutto greci, attribuibili a mercanti, marinai, soldati, funzionari, cittadini in genere venuti da lontano, portatori di più lingue, ma soprattutto del greco, che – favorito dal prestigio culturale di cui godeva – a partire da una certa epoca come è noto divenne la seconda lingua dei territori romani. Pure il latino parlato ad Aquileia ne subì l’influenza, assorbendone alcuni elementi specialmente lessicali, ancor oggi parzialmente documentati dal friulano corrente: ancone ʻcappelletta con immagine sacraʼ dal greco EIKONA , chele ʻerniaʼ da KELE , criure ʻgran freddoʼ connesso con KRỲOS ʻgeloʼ, pladine ʻpiatto largoʼ da PLATHANE , ai quali esempi si può aggiungere almeno il fossile greco latinizzato BASILICA , iniziale denominazione per ʻchiesaʼ conservatosi nei non rari toponimi friulani del tipo Baseia, Baseis, Baseglia, Baselia, Basoa, Basaldella, etc.

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2.2 La latinizzazione aquileiese A parte la pianura, la latinizzazione del restante territorio aquileiese dovette procedere alquanto lentamente, specialmente nell’area montana più conservativa, in cui probabilmente la romanizzazione finì per estendersi del tutto profittando della diffusione in loco del Cristianesimo dopo l’editto di Costantino (anno 313 d.C.), perciò nella prima metà del IV  secolo. Questo dato spiegherebbe l’accennata assenza di influenze sulla fonetica friulana da parte della lingua dei Celti, venuta evidentemente a contatto col latino locale quando ormai la potenza dei fenomeni aveva esaurito la sua vitalità. In quell’epoca la varietà del latino regionale dei primi coloni, condizionato dall’ambiente linguistico – che abbiamo appena cercato di delineare e con il quale rimase sempre in contatto – e nel contempo sottoposto agli ineluttabili processi del mutamento linguistico cui sono soggetti generalmente tutti gli idiomi, doveva ormai da tempo avere assunto una fisionomia nuova, alla quale Giuseppe Marchetti attribuirà la fortunata definizione di «latino aquileiese», descrivendone i tratti da lui considerati caratteristici (Marchetti 41985, 43–48). Essi si evidenziano non tanto nella fonetica (cf. Zamboni 1965–1966), quanto – oltre che per i sopra nominati prestiti da altre lingue – per le innovazioni semantiche in parole di prevalente base latina, i cui esempi – solo in piccola parte rintracciabili nell’epigrafia (cf. Zamboni 1969) – si moltiplicano attraverso una ricostruzione deduttiva fondata sul confronto dei significati originali con quelli dei corrispettivi termini friulani moderni o con attestazioni d’epoca medievale. Osserviamo infatti come molte parole latine col trascorrere del tempo persero il loro valore originario – che invece può essersi mantenuto in altre varietà romanze – per assumerne di nuovi, ancora conservati dal friulano corrente: così il primitivo significato di ʻcanaleʼ, ʻluogo di raccolta delle acqueʼ che aveva il latino AQUARIUM è passato a quello di ʻsolcoʼ (agâr), FRUCTUM dalla originaria accezione di ʻfruttoʼ ha assunto quella di ʻbambinoʼ (frut), il latinismo ÒRGINUM (dall’originario greco ÒRGANON ) non indica più un generico ʻorganoʼ, ʻstrumentoʼ, ma si è specializzato a designare l’ʻaratroʼ (la vuarzine) strumento per antonomasia del contadino e così via. L’individuale fisionomia del latino aquileiese doveva essersi affermata già nella seconda metà del secolo IV quando il Vescovo Fortunaziano – stando alla testimonianza di San Girolamo, che viveva nel territorio di Aquileia – per farsi intendere dai suoi fedeli fu indotto a rivolgersi loro in «rustico sermone» ovvero ricorrendo al registro popolare (se a rustico attribuiamo questo significato), codice dal quale si svilupperà quel tipo di latino che potremmo chiamare «protofriulano».

2.2.1 Varietà areali del latino aquileiese Nel contempo comincerà a realizzarsi un processo di distinzione su base territoriale dell’originaria compattezza del latino regionale (inizialmente da ritenersi grosso modo unitario) già stimolata dal sorgere dei primi municipia di Aquileia e di Concor-

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dia (in seguito di Iulium Carnicum/Zuglio e di Forum Iulii/Cividale del Friuli che – divenuti fondamentali centri di attrazione socio-economica-culturale per gli abitanti dei rispettivi agri – finiranno per produrre importanti conseguenze anche sulla storia della lingua. In questo quadro cominceranno a formarsi le due principali varietà di friulano, che oggi definiamo rispettivamente concordiese (o occidentale) e aquileiese (o centro orientale, comprendente anche il friulano carnico). Esse si differenziano per alcuni tratti fonetici (conservazione di - A finale latina nel territorio di là da l’aghe ʻoltre l’acquaʼ sulla riva destra del Tagliamento, contrapposta all’esito di -e finale nell’altra sponda del fiume, perciò fruta ʻbambinaʼ differenziato rispetto a frute; presenza/assenza dei dittonghi quali esiti di Ĕ ed Ŏ brevi latine in determinate posizioni, quindi deis ʻdieciʼ da DĔCEM e cour ʻcuoreʼ da CŎRDEM da una parte, dîs e cûr dall’altra, etc.), oltre che per l’adozione di alcuni tipi lessicali contrapposti: zî ʻandareʼ, riesi ʻfieno di secondo taglioʼ, vuarsa ʻaiolaʼ, etc. nel concordiese al posto dei corrispondenti aquileiesi lâ, altiûl, strop/plet (Rizzolatti 1981, 48–52). All’influenza dei centri amministrativi civili si affiancherà presto l’organizzazione religiosa con la creazione delle diocesi cristiane corrispondenti grosso modo all’estensione del territorio dei singoli municipia; ad esse seguirà un crescente numero di pievi, che a loro volta diverranno luoghi di subattrazione dando avvio ad ulteriori sottovarietà, che finiranno per fissarsi già col primo medioevo, quando la cambiata fisionomia politica conseguente alla caduta dell’impero romano comporterà – fra gli altri effetti – interruzioni o difficoltà nelle comunicazioni, premesse per l’isolamento delle varie aree geografiche, che spesso soltanto nei centri religiosi o nei mercati troveranno occasione di aggregazione e scambio anche linguistico. All’interno di questo quadro prenderà così corpo la frantumata fisionomia del panorama dialettale della lingua friulana, complessivamente però rimasta nel corso dei secoli sempre unitaria nella sua fondamentale, individuale struttura.

3 Il primo periodo medievale Negli ultimi decenni del secolo V d.C. in seguito alla fine dell’impero romano (anno 476) una nuova importante fase interesserà la storia della nostra lingua: ci riferiamo ai contatti sempre più coinvolgenti e duraturi con le popolazioni di prevalente ceppo germanico, conseguenti alle prime invasioni che proprio attraverso la «porta orientale d’Italia» (l’attuale Friuli) troveranno facile accesso per l’occupazione di gran parte della Penisola a cominciare sempre dal nostro territorio. Rapporti fra mondo germanico e mondo latino non erano certamente mancati nell’epoca precedente (un primo germanesimo in forma di dativo, bruti, è attestato in un’epigrafe del III  secolo d.C. e si è conservato nel friulano moderno brût ʻnuoraʼ), ma a cominciare dalle invasioni le genti germaniche incideranno per secoli sul tessuto sociale di tutta la regione imponendole un nuovo assetto politico amministrativo (sui germanesimi, ↗6.2 Tedesco). Il primo insediamento fu quello degli Ostrogoti di Teodorico, qui

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arrivati per la prima volta nel 489. La loro presenza tuttavia risultò demograficamente poco rilevante e di durata troppo breve (una sessantina d’anni, fino all’arrivo dei Bizantini di Narsete nel 553) e l’influsso socio-culturale troppo debole per lasciare tracce linguistiche di un qualche rilievo: sopravvivono alcuni nomi di luogo del tipo Godo, Godia (noti anche ad altre parti della penisola) e una ridottissima serie di parole (non sempre di sicura attribuzione), fra le quali spicca il caratteristico sedon ʻcucchiaioʼ, cui si possono aggiungere bearç ʻterreno cinto vicino alla casaʼ (se non di tramite longobardo), glove ʻbiforcazione di un ramoʼ, ròcje ʻrocca per filareʼ, etc.

3.1 L’età longobarda Decisamente più incisiva per l’evoluzione della lingua si mostrò la dominazione dei Longobardi, che sotto la guida di Alboino nel 568 occuparono l’odierna Cividale, da dove nel tempo estesero il loro dominio a gran parte dell’Italia con la creazione di un regno, perpetuatosi fino al sopravvento dei Franchi di Carlo Magno nel 774. Come già era avvenuto nelle epoche precedenti che avevano presentato analoghe situazioni – ci riferiamo in particolare al contatto linguistico fra i colonizzatori latini e le altre popolazioni preesistenti o sopravvenute: Celtiche, genti grecofone, Goti, etc. – anche i Longobardi dopo un’iniziale fase di bilinguismo neolatino aquileiese-germanico finirono – probabilmente in tempi non lunghi – per romanizzarsi, ubbidendo al principio secondo il quale nell’incontro fra due culture normalmente finisce per prevalere quella che esprime maggior prestigio socio-culturale. Ciò si ripeterà anche in seguito con l’arrivo dei Franchi nella regione, quando essa conoscerà il secolare dominio dei Patriarchi o vedrà la presenza di genti slave nel cuore della sua pianura. I Longobardi dunque si romanizzarono, non senza tuttavia lasciare importanti tracce della loro lingua in quella con cui erano venuti a contatto. Anzi all’inizio il loro influsso dovette essere abbastanza rilevante se riuscì davvero, stando all’ipotesi di Wartburg (1950, 146) – sulla quale si soffermano, peraltro respingendola, Francescato/Salimbeni (22004, 104–106) – a porre le premesse per il processo di uno dei tratti fonetici ritenuti caratterizzanti del friulano: ci riferiamo alla presenza della distinzione fonematica nella quantità delle vocali che – forse già avviata all’interno del latino aquileiese – avrebbe ricevuto fondamentale impulso dalle abitudini foniche della lingua dei Longobardi, caratterizzata da un accento intensivo, fortemente dinamico, così che nel friulano ancor oggi si distingue fra lât ʻandatoʼ e lat ʻlatteʼ, pês ʻpesoʼ e pes ʻpeceʼ, mîl ʻmieleʼ e mil ʻmilleʼ, vôt ʻvotoʼ e vot ʻottoʼ, brût ʻnuoraʼ o ʻbrodoʼ e brut ʻbruttoʼ e così via. Il friulano ha inoltre conservato una cospicua serie di voci di matrice longobarda (in parte condivise da altri dialetti italiani), quali bleons ʻlenzuolaʼ (tipico della nostra lingua), bredul ʻsgabelloʼ, lami ʻdeboleʼ, gruse ʻcrosta della pelleʼ, ruspi ʻruvidoʼ, sbisiâ (NP 939: sbisïâ) ʻfrugareʼ, cecje/zecje ʻzecca comuneʼ, etc. (Pellegrini 1970). Agli appellativi vanno aggiunti non pochi toponimi distribuiti su tutto il territorio, come Farella, Farra, Farla, Gaio con Giais, Giaida, Guarda, Sala, Valdo,

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Vizza, etc. (cf. Frau 1970). La presenza dei molti appellativi comuni e toponimi consente di respingere la nota teoria di Gamillscheg (RG 178–180, 269–274) sulla genesi della particolare individualità del friulano, fondata sulla presunta mancanza di testimonianze linguistiche longobarde in tale lingua. Secondo lo studioso tedesco – che all’epoca non disponeva della ricchezza dei dati successivamente acquisiti dagli studiosi – il friulano non rappresenterebbe la continuità del latino importato con la conquista romana, ma sarebbe il prodotto di una neoromanizzazione avvenuta a partire dal VII secolo per opera di genti neolatine provenienti dal Norico – che perciò non avevano conosciuto i Longobardi – emigrate verso sud per sfuggire alla pressione di nuovi popoli migranti. Esse si sarebbero insediate in ampie aree della nostra regione spopolatesi in seguito alle ripetute invasioni degli Avari fra il 610 e il 663 e successivamente degli Ungari. C’è da osservare che proprio con l’occupazione longobarda prenderà avvio il già accennato processo del lungo isolamento che caratterizzò la storia del Friuli: la regione infatti, divenuta Ducato in sostanza indipendente, già in questa epoca per più motivi – non ultimo l’allontanamento dalla Chiesa aquileiese da Roma conseguente allo Scisma dei Tre Capitoli – cominciò a staccarsi dal resto della pianura padana e dell’Italia rimanendo così lontana dall’influenza dell’eredità latina.

3.2 L’età franca Per quanto attiene l’influsso socio-culturale nel periodo di dominio sulla regione dei Franchi vincitori subentrati ai Longobardi nel 774 – che ne fecero un ducato di confine, poi, all’epoca del duca Everardo (836–866), elevato al rango di marca del Sacro Romano Impero (Menis 102002, 166) – si impongono considerazioni analoghe a quelle già esposte riguardo alla presenza dei Goti: demograficamente poco rilevante e di durata relativamente breve, esso non poté contribuire se non molto marginalmente alla storia della nascente lingua friulana, lasciandole solo pochissimi prestiti per lo più riferibili alla sfera bellica, quali confenon ʻbandieraʼ, poi ʻpapaveroʼ, trop ʻgreggeʼ, vuaite ʻguardiaʼ o i toponinimi del tipo Castions (Frau 2001, 736–738). C’è da aggiungere che è in questo periodo che l’antica Forum Iulii comincerà ad essere chiamata Civitas Austriae, in quanto «città» per eccellenza della regione orientale di quello che era stato il regno longobardo, mentre la sua precedente denominazione diventerà coronimo (l’odierno Friuli) ad indicare l’intero territorio ad essa facente capo.

4 Il medioevo patriarcale L’influsso germanico sulla nostra regione si perpetuerà con il Sacro Romano Impero Germanico degli Ottoni, il quale con Ottone I nel 952 aveva assorbito la Marca orientale di fondazione franca, già Ducato longobardo, per farne poi un semplice comitato. Alla struttura politico-amministrativa vigente si sostituirà quella del Patriar-

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cato, secondo il modello del Principato vescovile germanico. Il Patriarca di Aquileia – che continuò a essere chiamato così anche dopo il trasferimento della residenza dalla sede originaria a Cormons, quindi a Cividale – veniva scelto prevalentemente fra i nobili germanici. Nel 1077 l’imperatore Enrico IV, in cambio dei favori ottenuti nelle vicende che lo opposero a Papa Gregorio VII, concesse al patriarca Sigeardo la piena investitura politica del territorio già soggetto alla sua autorità religiosa e amministrativa: nacque così un importante stato feudale, il Patriarcato di Aquileia, che continuò a esistere fino al 1420, quando la Repubblica di Venezia vi impose il suo lungo dominio, cessato solo nel 1797 con l’avvento di Napoleone. La vita socio-politicoculturale della regione si staccherà ulteriormente dal resto della Penisola per orientarsi verso l’oltralpe germanico soprattutto nei primi secoli di vita dello Stato patriarcale, durante il quale quasi tutti i patriarchi furono di estrazione tedesca, rappresentanti dell’aristocrazia tedesca di fede ghibellina: ciò durò fino al 1250 circa, quando il mutato orientamento di ispirazione guelfa cominciò a rivolgersi anche a esponenti provenienti dall’Italia o da paesi non tedeschi. Fu opportunamente osservato che in quell’epoca lungo il fiume Livenza – che separa il Veneto dal Friuli – correva il confine fra Italia e mondo tedesco (cf. Francescato/Salimbeni 22004, 132). È tuttavia opportuno ribadire che nonostante la fitta presenza di famiglie d’Oltralpe sul suolo friulano (a loro volta infeudate dal Patriarca di terre a lui appartenenti) la Regione non si intedescò, né corse mai il rischio di una germanizzazione linguistica: il tedesco, coi Signori che lo parlavano, rimase infatti circoscritto alle mura dei castelli e dei palazzi, senza radicarsi mai nella campagna e nei nascenti centri urbani in assenza di una solida base coloniale (agricoltori, artigiani e commercianti), la sola capace di influire sul tessuto etnico-linguistico di un territorio (Frau 1992, 85). Diverso è il discorso per gli insediamenti germanici medievali posti lungo il confine alpino e risalenti al XIII secolo: si tratta delle penisole linguistiche tedesche di Sappada – oggi in provincia di Belluno, ma da sempre appartenente al Friuli storico – di Sauris e di Timau, dove la prima lingua è ancor oggi rappresentata da dialetti di matrice carinziana, che però per nulla hanno interferito nello sviluppo del friulano, subendone piuttosto un parziale influsso (analoga osservazione valga per le popolazioni plurilingui tedesche e slovene della Val Canale, attualmente in provincia di Udine, ma fino alla conclusione della prima guerra mondiale soggette all’amministrazione della casa d’Austria dopo essere appartenute per secoli al vescovado di Bamberga; per una sintesi sulle aree tedescofone cf. Pellegrini 1972, 53–74). I dati in nostro possesso confermano comunque l’importanza dell’elemento linguistico germanico (che ormai possiamo definire tedesco) durante il medioevo, il quale interessò tutti i settori del lessico friulano arricchendolo e caratterizzandolo con un’importante serie di parole in buona misura ancora in uso. Fra di esse, considerata la loro particolare visibilità, sono da annoverare le formazioni toponimiche dovute prevalentemente agli insediamenti delle famiglie aristocratiche infeudate dai patriarchi, le quali nel costruire il loro castello o il loro palazzo, in assenza (o in sostituzione) di precedente tradizione toponomastica, attri-

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buirono alla nuova sede un nome tedesco, in molti casi passato poi a designare il paese circostante. Ci riferiamo ai caratteristici attuali nomi di luogo terminanti in -bergo o in -stagno (-berc e -stain nella forma popolare friulana), entrambe formanti col valore di ʻcastelloʼ, quali Prampero (già Prantperch), Solimbergo, Spilimbergo, Partistagno, Ravistagno, etc. A esse vanno aggiunti altri nomi di luogo di diversa tipologia, come ad esempio Strassoldo, Flambro, Valvasone e così via (Frau 1969, 269–282). Alla toponomastica di origine germanica (tedesca) si deve affiancare l’antroponimia, che nel suo insieme durante il Medioevo e nelle epoche successive ebbe in Friuli un ruolo più importante che in altre parti della Penisola. Già nel basso medioevo si cominciarono ad adottare – e non solo in Friuli – forme personali germaniche per rinvigorire il repertorio neolatino, che da solo non bastava più a soddisfare la richiesta derivante dal progressivo incremento demografico posteriore al Mille. I documenti antichi attestano un non quantificabile numero di forme del tipo Artuicus, Asquinus, Azonis, Beltram con Vendram, Fulchîr, Marquardus, Purcardum, Volfram, etc., molte delle quali sono diventate cognomi ancora in uso (Artico, Asquini, Beltrame con Vendrame, Fulchir, Marquardi), che si affiancano alle decine, se non centinaia, di altre forme cognominali friulane di origine tedesca penetrate nel corso dei secoli, alcune del tutto tipiche, quali Anzil/Ianzil (diminutivi dei corrispondenti tedeschi Hans/ Heinz), Buffon/Bulfon (deformazione di Wolfgang) e così via (Frau 1989a, 599). A esse va aggiunta almeno la consistente serie dei cognomi terminanti in -ero (con pronuncia sdrucciola) in origine indicanti un nome di mestiere o etnico, come Bizzaro/Sbaizero (tedesco Schweizer ʻsvizzeroʼ), Cucchiaro (da Kutscher ʻcocchiereʼ), Maiero (da Maier ʻfattoreʼ), Snaidero (da Schneider ʻsartoʼ), Sostero (da Schuster ʻcalzolaioʼ), etc. (cf. Costantini/Fantini 2011, passim). L’ambito lessicale sul quale i prestiti tedeschi medievali, ma anche dei secoli successivi, hanno inciso in misura più rilevante, è quello degli appellativi riguardanti svariati settori. Alcuni di tali termini sono stati tramandati soltanto dalle fonti scritte medievali, come niderlec ʻdeposito delle merci in transito presso una muta doganaleʼ, sloier ʻveloʼ, strit ʻlitigioʼ, altri si sono mantenuti sino ai nostri giorni, ben radicati nel friulano comune quali bearç ʻortoʼ o ʻcortileʼ, bussâ ʻbaciareʼ, cramar/cramâr/cramer ʻmerciaio ambulanteʼ, crot ʻranaʼ, dane ʻabete biancoʼ, gatar ʻinferriataʼ, licôf ʻfesta che si fa alla conclusione di un lavoroʼ o simile, vignarûl ʻditaleʼ e così via (cf. Marchetti 41985, 53s.; Frau 1999, 16s.).

4.1 L’ambiente sociale e culturale Volendo sinteticamente ricostruire l’ambiente socio-politico-culturale del periodo, si può delineare questo quadro: «una classe alta, poco numerosa e chiusa, di nobili e altri prelati, prevalentemente germanica; una classe bassa, che, soprattutto nelle campagne, assorbiva immissioni di elementi slavi conservando la sua fisionomia romanza, infine una classe media […] dalla quale provengono le

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testimonianze scritte, registri delle confraternite o conti delle famiglie e che, attraverso i notai, aveva il controllo della società e della sua economia, e talvolta si dilettava di lirica cortese» (Benincà 1995, 46).

È da tale ambiente che provengono le prime attestazioni scritte del volgare romanzo regionale, che ormai stava assumendo una fisionomia sempre più somigliante a quella che sarebbe diventata la «lingua friulana». All’inizio si tratta di semplici note amministrative, come un documento del 1284 con lingua di fondo latino, ma contenente prevalenti appellativi e nomi di persona in friulano, inoltre un elenco di iscritti ad una confraternita seguiti da varie indicazioni redatto interamente in friulano. A essi seguiranno nell’arco di pochi decenni alcune canzoni o ballate di ispirazione provenzaleggiante, quale la nota Piruç myo doç (composto prima del 1380), il Soneto furlan, Byello dumlo di valor e altre testimonianze (Corgnali 1965–1967, 112–123, 35– 54; Pellegrini 1987, 28–78). Tutti questi documenti in lingua friulana sono però preceduti da un’opera scritta nella lingua di maggior prestigio allora parlata nel Patriarcato (dove la cultura tedesca era sostenuta anche da iniziative di notevole prestigio, come fra l’altro attesta la presenza ad Aquileia del celebre Minnesänger Walther von der Vogelweide invitato dal Patriarca Wolchero). Si tratta del poemetto didascalico cortese in medio tedesco Der wälsche Gast (circa 15.000 versi risalenti al 1215–1216) di Tommasino di Zerclaria, composto da un autore di madrelingua romanza proveniente dal circondario di Strassoldo e vissuto a cavallo dei secoli XII e XIII (cf. Marchetti 21974, 108–118; Schulze Belli 1993). Il testo tedesco era stato preceduto da un suo – oggi perduto – consimile lavoro di precettistica «in welscher Zunge», cioè in una lingua romanza (provenzale? friulano? o altro?), come riferisce lo stesso autore. Dunque in un periodo focale per la formazione delle lingue romanze in Friuli la classe dominante fu la tedesca, ma chiusa e di ridotte dimensioni numeriche e quindi impossibilitata a trarre nella propria orbita culturale le altre classi, nel contempo però capace di frenarne – se non di bloccarne – l’orientamento verso superiori modelli romanzi provenienti dalle vicine regioni: in tale clima socio-culturale il friulano consoliderà la fisionomia di parlata conservativa, quale conseguenza dell’isolamento (cf. Francescato/Salimbeni 22004, 123s.).

4.2 Il contatto romanzo-slavo Quando poco sopra s’è accennato alla presenza di elementi slavi sul territorio friulano ci si riferiva non al loro insediamento nelle aree nordorientali prealpine della regione – già avvenuto nel secolo VI in seguito alla discesa dei Longobardi e perpetuatosi fino ai giorni nostri – ma alla colonizzazione da parte di nuove genti appartenenti allo stesso gruppo linguistico (su probabile iniziativa dei patriarchi) di una vasta area a cavallo di una direttrice che da Gorizia – passando per le attuali Palmanova e Codroipo – arrivava oltre il Tagliamento, fascia abbandonata dagli abitanti nel perio-

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do delle devastanti invasioni degli Ungari dall’899 al 952 attestate anche dalla sopravvivenza di toponimi del tipo Ongjarescje, Ungaresca o simili. Sul piano socioculturale, la sorte degli Slavi fu identica a quella delle popolazioni preromane e longobarde in quanto – attratti dal maggior prestigio dell’ambiente romanzo col quale erano venute a contatto – dopo un periodo di bilinguismo finirono per friulanizzarsi del tutto. Della loro presenza si sono conservate evidenti tracce toponomastiche nel cuore della pianura friulana, quali Belgrado, Gradisca, Gradiscutta (in cui il radicale grad rinvia al concetto di ʻluogo fortificatoʼ), Santa Marizza con Santa Marizzutta (con suffissi rispettivamente slavo e slavo-friulano), la ricca serie dei toponimi derivati da forme riguardanti la morfologia del terreno, quali Brdiz da confrontare con lo sloveno brod ʻchiattaʼ o ʻguadoʼ, Gorizia e Gorizzo ovvero ʻcollinettaʼ, Ialmicco da jama ʻfossaʼ, Virco, da collegare con la base *VIRŬ ʻsorgenteʼ e numerosi altri, anche risalenti all’appellativo etnico Sclavones ʻSlaviʼ, come i più Sclavons (talvolta contrapposti a Romans ʻRomanziʼ), etc. (cf. Frau 2001, 738s.). A essi si aggiunge una caratteristica schiera di appellativi comuni, per lo più d’ambito agricolo, oggi ben acclimatati nel friulano, i quali – insieme con i numerosi tedeschismi – contribuiscono a configurare la speciale individualità della lingua friulana, formatasi nell’unica regione al mondo in cui convivono lingue e culture latina, germanica e slava. Fra i numerosi esempi di slavismi, per lo più appartenenti ai settori della geomorfologia o dell’agricoltura, ci limitiamo a citare cos ʻgerlaʼ, çutare ʻborracciaʼ, jeche ʻaiolaʼ, ’save ʻrospoʼ, siespe ʻsusinaʼ, triscule ʻfragolaʼ, etc. (Marchetti 41985, 56–60; Frau 1989b, 594s.) con l’avvertimento che alcuni dei prestiti potrebbero essere penetrati nel friulano – indipendentemente dalla colonizzazione medievale – quale esito del contatto con le popolazioni slovenofone poste lungo aree di confine (sulla presenza storica delle quali in Friuli cf. Pellegrini 1972, 74–91).

5 Il periodo veneziano Il 7 giugno 1420 le truppe della Serenissima entrarono in Udine, dando inizio all’amministrazione veneziana del Friuli centro-occidentale durata fino al 1797, quando col trattato di Campoformido subentrarono i Francesi di Napoleone. Detto governo si consolidò nel 1445, anno in cui il veneziano patriarca Ludovico Trevisan fu costretto a rinunciare definitivamente al potere civile a favore della Repubblica di Venezia (Menis 102002, 251). Diversa fu negli anni seguenti la sorte della Contea di Gorizia e Gradisca (quindi del Friuli orientale), che all’interno dello Stato patriarcale aquileiese aveva per secoli goduto di una particolare autonomia. I ripetuti contrasti fra i contendenti (gli Austriaci da una parte, ai quali l’ultimo Conte di Gorizia con la sua morte, avvenuta nel 1500, con testamento aveva lasciato il feudo, dall’altra i Veneziani che vantavano un atto di vassallaggio a loro favore fatto dai predecessori del Conte) sfociarono in una lunga guerra, che dal 1508 – interrotta dal trattato di Noyon dell’anno 1516 – si concluse definitivamente soltanto nel 1523 con i patti di Venezia.

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Da allora il territorio di Gorizia, con esclusione di Monfalcone – dove si parla un dialetto di odierna impronta veneta, ma storicamente debitore del friulano (cf. Frau 2009–2010) – e successivamente di Marano acquistato dai Veneziani nel 1543 – paese in cui come nella vicina Grado è presente una parlata veneta di fondo storico (cf. Marcato 1987) – diverrà dominio della casa d’Austria (alla quale già dall’anno 1382 apparteneva Trieste, cf. Menis 102002, 261) e tale rimarrà fino alla conclusione della prima guerra mondiale nel 1918. Il Patriarcato subirà inoltre la perdita di alcune prerogative religiose conseguenti alla ristrutturazione delle giurisdizioni ecclesiastiche avvenute durante il dominio veneziano (già nel 1451 s’era assistito alla soppressione dell’antico titolo patriarcale di Grado passato a Venezia), quali la creazione della diocesi di Lubiana nel 1462 e l’istituzione di un arcidiaconato a Gorizia nel 1574. Invece il Cadore rimarrà soggetto ad Aquileia – perpetuando in tal modo l’antico legame con la nostra regione, risalente all’epoca romana – fino alla fine del secolo XIX quando verrà annesso alla diocesi di Belluno.

5.1 L’influenza culturale tosco-veneta L’amministrazione veneziana, oltre che avviare un nuovo capitolo nell’organizzazione sociale della regione, segnò la definitiva scelta culturale del Friuli, non più rivolto prevalentemente alla Germania, ma verso il mondo tosco-veneto, ovvero italiano, che già aveva iniziato ad esercitare la sua attrazione dopo il 1250, col succedersi di un alto numero di Patriarchi italiani di ispirazione guelfa (cf. Francescato/Salimbeni 22004, 165–190). Le vicende storiche del lungo periodo di dominio veneziano tuttavia non avranno particolare rilevanza sotto l’aspetto linguistico interno, in quanto non riusciranno più a incidere – almeno a livello delle strutture fondamentali – sulla fisionomia del friulano. Infatti i tratti principali della nostra lingua – sui quali si fonda la sua individualità di idioma neolatino conservativo – si erano saldamente fissati nei secoli precedenti, cruciali per la formazione delle lingue romanze, soprattutto nel periodo di isolamento della vita socio-culturale della regione dal resto della Penisola durante il governo dei Patriarchi di origine tedesca.

5.2 Ambiente sociale e riflessi linguistici Sul piano linguistico esterno, lungo i secoli del dominio veneziano sul Friuli centrooccidentale, si confermeranno situazioni già note e processi già avviati: la lingua locale rimarrà l’idioma prevalente della classe più bassa, specialmente nella campagna, mentre i ceti medi e alti, soprattutto nei centri urbani maggiori (Udine, Cividale, Palmanova, Latisana, Pordenone, Maniago, San Vito al Tagliamento, etc.), finiranno progressivamente per venetizzarsi con l’acquisizione di un tipo di veneto coloniale, preludio della futura italianizzazione e premessa per una situazione di diglossia. Un

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quadro analogo presenterà il Friuli austriaco, con Gorizia sede dell’amministrazione asburgica: qui però la lingua di maggior prestigio è il tedesco, seguita dall’italiano in uso fra i ceti nobile e borghese, che però all’occorrenza non disdegnano di parlare gli idiomi del ceto popolare friulano e sloveno, quest’ultimo diffuso soprattutto nel contado suburbano e nel territorio dell’alta valle dell’Isonzo (cf. Marcato 1989, 618). L’innegabile superiore prestigio della cultura veneta esercitato in questo periodo influenzerà la lingua friulana soprattutto nel lessico, disponibile ad accogliere una cospicua serie di prestiti, alcuni di necessità – in quanto neologismi – altri concorrenti con voci friulane. Fra i primi segnaliamo gli esempi di bulo ʻspacconeʼ, cape ʻconchigliaʼ, ocjai ʻocchialiʼ, etc., per gli altri valgano i casi di caregon per cjadreon ʻseggioloneʼ, loge per lobie ʻtettoiaʼ, secjel per cjaldiruç ʻsecchielloʼ, vecjo per vieri ʻvecchioʼ e così via (cf. Marchetti 41985, 60s.). A livello sociale, specialmente il primo periodo di governo della Serenissima – ma non soltanto esso – fu caratterizzato da un deterioramento delle condizioni di vita di gran parte degli abitanti, quale effetto dei ripetuti saccheggi prodotti da ben sei incursioni turche negli ultimi tre decenni del Quattrocento, delle ripetute guerre, da lunghe pestilenze, così come – secondo l’opinione di alcuni storici, non sempre condivisa – da uno sfruttamento piuttosto intenso da parte della Serenissima delle risorse naturali del territorio. Quale conseguenza di tali eventi il Friuli subì un notevole calo demografico e dovette assistere alle prime massicce emigrazioni dei suoi abitanti verso altre regioni italiane e/o verso Paesi europei soprattutto di lingua tedesca, con riflessi pure sul piano linguistico (cf. anche infra, 6.1.1). Nei successivi secoli XVII e XVIII del dominio veneto non si registreranno eventi particolarmente determinanti e significativi per la fisionomia e lo sviluppo della lingua friulana.

5.3 Riflessi letterari di lingua friulana Fu tuttavia durante il periodo del dominio veneziano, a partire dalla metà del Cinquecento, che prese avvio una cosciente, non irrilevante produzione letteraria in lingua friulana, della quale poche erano state le attestazioni nei secoli immediatamente precedenti, quando – oltre al latino – la lingua scritta in Friuli fu prevalentemente un tosco-veneto conseguente all’attrazione culturale dell’italiano e mediato dal prestigio di Venezia. Si assiste infatti da allora all’adozione consapevole della lingua materna a scopi letterari da parte di autori friulani, che componevano pure in lingua italiana. Il manifesto di questa scelta potrebbe essere evocato nel sonetto In laude de lenghe furlane di Girolamo Sini (1529–1602): «Al par al Mont chu cui chu scrif in rime / Al sei tignut a falu par Toscan, / Seij pur chu compogn Napolitan / Lombard o d’altre tiarre o d’altri clime. / Iò l’hai par un abùs, parcè ch’un stime / Chi chel cil sool seij rich […] Iò no soi di paree che in tal Friul / La frase sei mior, sint sparnizade / Di Talian, Frances e di Spagnul».

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ʻPare al mondo che chi scrive in rima / sia tenuto a farlo in toscano, / sia pure chi compone napoletano, / lombardo o di altra terra o di altro clima. / Io lo ritengo un abuso, perché si crede / che quel cielo soltanto sia ricco […] Io non sono del parere che in Friuli / la frase sia migliore, essendo frammista di italiano, francese e di spagnoloʼ (Pellegrini 1987, 139s., trad. in nota 10).

E a lui faceva eco negli stessi anni Girolamo Biancone: «Furlans, voo haves lu vant in plan e in mon(t) / in quaal che si voles profission / e d’ogni virtuut lu vuestri non / s’al no compaar lu prim al è ’l seont. […] E tu, dott e sapuut, / chu de lenge latine e de toscane / tu tens plui cont asai chu de furlane […] lasse hormai chei cunfins / e metghi ad honoraa la lenghe too […] Furlan, laude e a pretie / cheste too nobil lenge e tant zintiil / e faile montaa hormai sore ogni ciil». ʻFriulani, voi avete il vanto in piano e in monte / in qualsivoglia professione / e di ogni virtù il vostro nome / se non appare il primo è secondo. […] E tu, dotto e sapiente, / che della lingua latina e della toscana / tieni assai più conto che della friulana […] lascia ormai quei confini / e mettiti ad onorare la tua lingua […] Friulano, loda e apprezza / questa tua nobile lingua e tanto gentile / e falla salire ormai sopra ogni cieloʼ (Pellegrini 1987, 140–143, trad. in nota 11).

Si aggiungano ancora almeno le voci di Nicolò Morlupino, Giuseppe Strassoldo, Giovan Battista Donato, Paolo Fistulario e gli amici della «allegra brigata udinese», l’anonimo autore del travestimento dei primi due canti dell’Orlando furioso – a riprova dell’attrazione esercitata dalla letteratura in lingua italiana – e altri scrittori (D’Aronco 21982, vol. 1, 108–125, 147–166). Nelle loro opere si rispecchiano le varietà delle principali aree subdialettali e precisamente una occidentale (Donato, Stella), una di fisionomia carnica (Morlupino), una orientale o goriziana (Strassoldo) e la dominante centrale (Sini, Fistulario). Anche grazie al prestigio esercitato da Udine – conseguente al ruolo di capitale assegnatole dalla Serenissima – la varietà del friulano centrale nel secolo successivo diventerà modello di riferimento per la nascita di una koinè letteraria – per la sola lingua scritta – già riconoscibile nella produzione di Ermes di Colloredo (1622–1692, D’Aronco 21982, vol. 1, 168–182). Tuttavia «va detto che anche la varietà goriziana vanta una tradizione letteraria, sicché parlare di koiné friulana nei secc. XVII e XVIII è ancora prematuro, ed in definitiva anche nella parlata si riflette la frattura tra Friuli veneziano e Friuli austriaco» (Marcato 1989, 619).

6 L’Ottocento La vittoria di Napoleone segnò la fine della Repubblica Veneta e la contemporanea cessione del Friuli all’Austria avvenuta nel 1797 in seguito al trattato di Campoformido firmato dai belligeranti austriaci e francesi. Questi ultimi rioccuperanno la regione nel 1805, che da allora rimase inglobata nel napoleonico Regno italico fino al 1813, quando gli Austriaci – da secoli già governavano nel Friuli orientale – ne riotterranno il possesso nel 1815 sancito dal Congresso di Vienna. Dopo secoli dunque la regione si

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ritrovava riunificata sotto un’unica corona, ma di nuovo divisa amministrativamente, perché il Goriziano fu assegnato al Regno Illirico, dal 1848 divenuto provincia autonoma del Litorale. Due fatti rilevanti sotto l’aspetto storico ed ecclesiastico, con riflessi sulla storia della lingua, accaddero negli anni di amministrazione austriaca: nel 1838 il passaggio del distretto di Portogruaro – in parte friulanofono – alla Provincia di Venezia e la già ricordata assegnazione del Cadore, appartenente alla arcidiocesi di Udine, alla diocesi di Feltre e Belluno nel 1848.

6.1 Il periodo dell’amministrazione austriaca L’amministrazione austriaca estesa su tutto il Friuli storico non significò unificazione sul piano sociale, risultando privilegiata dal governo asburgico la parte orientale della regione, che proprio in quegli anni gli Italiani in alternativa a «Litorale Austriaco» cominciarono a chiamare «Venezia Giulia», denominazione proposta da Ascoli nel 1863. Furono preminenti le ragioni di interesse economico riferibili soprattutto alla fiorente attività commerciale collegata coll’importante porto franco – riconosciuto come tale già nel 1719 – di Trieste, da cui il conseguente sviluppo urbanistico della città capace di attirare consistenti schiere di immigrati da varia provenienza. È in questo periodo che gli endemici idiomi locali di fisionomia friulaneggiante, noti come tergestino (a Trieste: Ascoli 1886–1888) e muglisano (a Muggia e dintorni), lingua madre dei pescatori e degli abitanti del contado, vennero abbandonati fino a scomparire, sostituiti da una parlata veneta di impronta veneziana (da sempre lingua commerciale di prestigio nei traffici del Mediterraneo) nota come triestino (cf. Marcato 1989, 625). Gran parte della popolazione invece del Friuli già veneto sotto il governo austriaco non conobbe significativi cambiamenti di vita rispetto alla cronica situazione di indigenza, specialmente nelle aree montane e rurali, così da essere sollecitata a ricorrere all’emigrazione per lo più stagionale di nuovo preferibilmente verso paesi di lingua tedesca (cf. Melchior 2009, 25–37). Il fenomeno si accentuerà col passaggio del Friuli al Regno d’Italia, anche spostandosi verso nuovi Stati, in particolare la Romania, dove nei territori di parte dei Carpazi e nella Dobrugia i Friulani diedero origine – con altri Italiani – a colonie di contadini e boscaioli, i discendenti dei quali – sebbene rimasti isolati dalla madrepatria – hanno conservato fino ai giorni nostri i dialetti friulani dei luoghi di origine (cf. Iliescu 1972; Marcato 1989, 627). Nuove, consistenti ondate si registrarono a cavallo fra i secoli XX e XXI (con rinnovati flussi dopo le due guerre mondiali e fino agli anni Sessanta circa del secolo scorso) assumendo una nuova fisionomia caratterizzata dalla scelta di destinazioni d’oltreoceano all’inizio prediligendo le Americhe, successivamente volgendosi anche verso l’Australia e il Sudafrica. In particolare si deve ai nostri emigrati la (co)fondazione di alcune città del Sudamerica, specie in Argentina, dove gran parte della popolazione è bilingue – come ad esempio a Colonya Caroya – parlando essa correntemente spagnolo e friulano. In Nordamerica, specialmente nel Canada, coese comunità di emigrati friulani nel con-

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servare l’idioma della terra d’origine, ma a contatto con la lingua dei Paesi ospitanti, hanno dato origine ad interessanti varietà friulo-inglesi (denominate «friulese» dagli stessi emigrati, esemplificabile con l’espressione «al è lât a sopinâ tal storo», ʻè andato a fare acqusti nel negozioʼ e così via), ancora non sufficientemente indagate (Razeto 1990–1991). Sul friulano nel mondo, ↗7 Friulano nel mondo.

6.1.1 Riflessi linguistici Troppo breve fu il periodo del governo austriaco di cultura e lingua tedesca sul Friuli già veneto – durato fino al 1866 – per influenzare visibilmente la fisionomia della nostra lingua, se si eccettua l’adozione di alcuni termini militareschi (in gran parte oggi scomparsi) quali befel ʻcomandoʼ, ʻordineʼ, cavalerist ʻsoldato a cavalloʼ, fire ʻcapoʼ e qualche altro (cf. Faggin 1981, 259, 262). Essi tuttavia vanno aggiunti ai molti altri tipici prestiti adottati in seguito alle varie, continuate fasi dell’emigrazione verso i paesi di lingua tedesca nel periodo di dominio della Serenissima e soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento con l’avvento del Regno d’Italia fino alla prima guerra mondiale: citiamo appena, come esempio di termini caratteristici dell’emigrazione, alpestoc, ʻbastone di montagnaʼ, chelare ʻcamerieraʼ, russac ʻzainoʼ, sproc ʻparlantinaʼ, etc. Molto più ricco risulta l’apporto dei tedeschismi moderni alla variante goriziana del Friuli austriaco, attestati da parole quali clanfar ʻlattoniereʼ, droghist ʻdroghiereʼ, fraila o fraula ʻragazzaʼ, glasar ʻvetraioʼ, sintar ʻaccalappiacaniʼ, ringhespil ʻgiostraʼ e così via (cf. Faggin 1981, 259–268; Frau 1999, 26 e passim).

6.1.2 Riflessi letterari Dopo un periodo di relativa crisi registrato nella seconda metà del Settecento – dovuto prevalentemente alla pressione del sovrastante prestigio culturale italiano e veneto – con l’Ottocento si assiste a una ripresa della produzione letteraria in friulano, sia durante il governo austriaco (che provocò un temporaneo cedimento dell’italiano), che dopo il passaggio al Regno d’Italia. In questi stessi decenni si affermerà la koinè letteraria friulana quale oggi conosciamo specie attraverso la produzione letteraria – per quanto inconsapevole della problematica di politica linguistica – di Pietro Zorutti e di Caterina Percoto (cf. D’Aronco 21982, vol. 2, 21–85), via via arricchita dai contributi di una qualificata schiera di autori (anche del Goriziano, cf. Faggin 1973) e corroborata dai primi testi teatrali in lingua friulana oltre che da una vasta produzione pubblicistica di periodici, almanacchi e simili, il primo posto fra i quali spetta al fortunato Strolic furlan puntualmente compilato ogni anno da Pietro Zorutti dal 1821 al 1867.

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7 Il Novecento Entrato a far parte del Regno d’Italia nel 1866, il Friuli già veneto dovrà attendere la fine della prima guerra mondiale nel 1918 per assistere – dopo secoli di separazione – alla definitiva riunione della regione storica, avvenuta con il passaggio all’amministrazione italiana del Friuli già austriaco, cui si aggiunsero Trieste e l’Istria. L’annessione accelerò il processo di italianizzazione del territorio, già da secoli avviato col tramite veneto. Da questa epoca difatti sarà sempre più incisivo per la storia della nostra lingua l’influsso dell’idioma nazionale soprattutto a livello lessicale attraverso la massiccia introduzione di parole nuove in sostituzione dei corrispondenti termini di tradizione friulana o con la mutuazione di prestiti di necessità compresi gli odierni forestierismi provenienti dai settori scientifici e tecnologici. Per il primo gruppo valgano gli esempi di autun ʻautunnoʼ al posto di sierade, farmacist ʻfarmacistaʼ per spiziâr, ripôs invece polse, primevere ʻprimaveraʼ al posto di viarte, profum ʻprofumoʼ per bonodôr, silenzi ʻsilenzioʼ per cidin, etc.; per il secondo citiamo soltanto le voci aeroplano, gjilè, coragjo, orchestre, radio, teatro, television e così via (cf. Marchetti 41985, 61–63; Frau 2007, 26).

7.1 Aspetti sociolinguistici Accanto all’uso del friulano e dell’italiano in situazioni di bilinguismo e/o diglossia, nel disegnare il quadro linguistico complessivo della regione (anche attuale) non si può trascurare l’importanza avuta dal veneto che continua a indebolire – oggi però nelle aree tradizionalmente friulane molto meno che una volta, eventualmente sostituito dall’italiano – la tenuta della nostra lingua e a eroderne aree storicamente friulanofone: ciò avviene non solo a occidente lungo la fascia di confine con la regione Veneto (la città di Pordenone è ormai da tempo quasi completamente venetizzata), ma anche – sempre però in convivenza col friulano o/e in situazioni di diglossia – nei centri urbani minori (Spilimbergo, Cividale, Palmanova), oltre che a Udine – dove per secoli fu la lingua dominante della classe borghese –, a Gorizia e nei territori della bassa pianura orientale (Cervignano), qui per influenza del veneto triestino (cf. Francescato 1964). Più complessa appare la situazione nelle aree germanofone e slovenofone, nelle quali al registro italiano – in alcune zone anche friulano – si aggiungono i dialetti alloglotti locali (talora conviventi nello stesso parlante come avviene in alcuni paesi della Valcanale), se non – fra il ceto più acculturato – pure le corrispondenti lingue letterarie tedesca o/e slovena, per cui non è raro il caso di incontrare persone che hanno competenza di sette diversi idiomi parlati in loco (cf. Frau 1984, 11–14). Per quanto più strettamente riguarda la lingua e la cultura friulana, fondamentale è stata, per la sua tutela e il suo progresso, la fondazione – avvenuta a Gorizia il 23 novembre 1919 – della Società Filologica Friulana, che da allora – sopravvivendo

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alla politica nazionalistica del fascismo, pur con fasi di chiaroscuro e a fronte degli atteggiamenti di alcune frange critiche – attraverso una molto intensa attività editoriale (ma pure con corsi di scolarizzazione in friulano, di formazione docenti, con conferenze, convegni, annuali congressi ed altro ancora) ha avuto – e tutt’oggi ha – un ruolo di primo piano nel mondo culturale locale. Nel periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale si registra – all’interno della politica particolarmente nazionalista dei governi fascisti dell’epoca, preoccupati della difesa dell’italianità – una marcata ostilità non soltanto contro le parlate «alloglotte» (in primo luogo quelle slovene), ma pure nei confronti del friulano, come del resto verso i tanti dialetti della Penisola, mentre sempre più si diffonde l’uso dell’italiano favorito anche dalle allora incipienti trasmissioni radiofoniche, in cui la lingua nazionale detiene l’esclusivo monopolio comunicativo. Nonostante ciò la lingua locale resiste specie negli ambienti rurali e la letteratura vernacolare continua a produrre opere anche di buon livello, privilegiando la poesia in versi e il teatro.

8 L’età contemporanea In conseguenza pure del risveglio di una coscienza identitaria friulana, di cui furono emblema più movimenti autonomistici – ma, a parte qualche frangia priva di seguito, non indipendentisti in senso nazionalistico, consapevoli che il Friuli almeno dal XV  secolo ha sempre guardato alla cultura italiana (cf. Marcato 1989, 623) – nel secondo dopoguerra si assisterà a una nuova, rigogliosa ripresa della produzione letteraria friulana, anche con pregevoli opere in prosa e soprattutto con il contributo di autori di grande valenza, capaci di proporsi all’attenzione nazionale, primo fra tutti Pier Paolo Pasolini (cf. Pellegrini 1987, 295–301). È soltanto con la nuova Costituzione repubblicana del 1948 che le minoranze linguistiche vedranno riconosciuti in via di principio i loro diritti. Nell’epoca contemporanea l’evento che indirettamente ha maggiormente influito sulla storia linguistica esterna del friulano è rappresentato dal terremoto del 6 maggio 1976, il quale – dopo un periodo di smarrimento conseguente alla devastazione – produsse un forte risveglio della coscienza culturale e linguistica nella popolazione, che si rese protagonista di una petizione popolare per ottenere l’Università di Udine, poi istituita con la legge n. 546/1977 dell’8 agosto 1977. Fra gli altri fini – rivolti alla rinascita civile ed economica della regione – a essa fu attribuito anche il compito «di divenire organico strumento di sviluppo e di rinnovamento dei filoni originali della cultura, della lingua, delle tradizioni e della storia del Friuli» (art. 26). Un secondo evento di consimile fondamentale importanza per il futuro della nostra lingua si realizzerà con la tanto a lungo auspicata legge della Repubblica italiana n. 482 del 1999 per il riconoscimento, la tutela e la valorizzazione delle minoranze linguistiche storiche della Penisola, compresa la friulana. Essa era stata preceduta dalla consimile, innovativa legge della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia n. 15 del 1996 (↗15 Normalizzazione: grafia, grammaticografia e lessicografia). Tali provvedimenti, che fanno ben

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sperare per l’avvenire, sono da considerare strumento essenziale per la conservazione e il successivo rafforzamento delle nostre parlate: essi infatti consentono di intervenire – non senza qualche difficoltà – nei principali settori e ambiti della vita sociale a cominciare dalla scuola (↗18 Friulano nella scuola (e nell’università)) e dalla pubblica amministrazione (alla quale ultima fra l’altro è demandata la promozione della cartellonistica toponomastica con dizione locale), di ricorrere a convenzioni con l’Università per corsi di formazione degli insegnanti, studi e ricerche scientifica (quale il monitoraggio sulla vitalità del friulano, che pur a fronte di una lenta diminuzione di parlanti mostra ancora una buona tenuta e una ripresa dell’interesse generale per gli aspetti relativi alla sua tutela e promozione: cf., da ultimo, Picco/Strassoldo 2013), con le biblioteche, con interventi per l’editoria, coi mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, mondo dello spettacolo in genere), e così via. A seguito della promulgazione delle leggi, molto intensa e produttiva si è rivelata l’attività in tutti questi settori anche grazie alla regia degli organismi dalla Regione Friuli Venezia Giulia delegati alla politica della lingua friulana (dapprima OLF – Osservatorio regionale della lingua e della cultura friulane, successivamente l’ARLeF – Agenzia Regionale per la Lingua Friulana subentrata nel 2004, ↗16 Pianificazione linguistica ed elaborazione) in collaborazione – oltre che con le istituzioni pubbliche sopra citate – con la Società Filologica Friulana, ma pure con le associazioni private. Per un reale successo e per un avvenire sicuro del friulano è necessario tuttavia che leggi ed iniziative siano accompagnate dal coinvolgimento dei parlanti da realizzarsi in primo luogo attraverso la tutela ed il consolidamento della lingua nella famiglia, accompagnato dallo sviluppo generalizzato di una coscienza convinta di appartenere ad una comunità linguistica per tante ragioni degna di essere conservata e valorizzata.

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4.2 Grammaticografia e lessicografia (dal XVII agli inizi del XX secolo) Abstract: Lingua di prevalente diffusione orale, nel corso dei secoli sempre affiancata per gli usi ufficiali da dominanti idiomi di maggior prestigio, il friulano soltanto in tempi relativamente recenti cominciò ad attirare l’attenzione degli studiosi sugli aspetti grammaticali e lessicali costitutivi della sua individualità. In epoca prescientifica – a cavallo dei secoli XVIII e XIX  – essa si limitò a qualche casuale riferimento in opere di eruditi. Una svolta si ebbe nei decenni centrali dell’Ottocento, quando l’Italia conobbe un rinnovato interesse per le parlate locali. Pure nella nostra regione si avviò la produzione – all’inizio frammentaria – di studi grammaticali e opere lessicografiche finalizzati alla conoscenza del friulano. Nuovo impulso ne conseguì con l’obbligo della istruzione elementare, che nell’affrontare il problema della educazione linguistica non poté ignorare la reale situazione di dialettofonia del Paese. Nel presente contributo si illustrano gli aspetti fondamentali della storia della grammaticografia e lessicografia friulane e se ne forniscono esaurienti dati sulla relativa produzione sino alla metà del secolo XX . Keywords: secoli dizionari

XVII -inizio XX ,

storia linguistica, grammaticografia, lessicografia,

1 Generalità L’attenzione agli aspetti grammaticali e alla rappresentazione del lessico della lingua friulana ha origini relativamente recenti e deriva da interessi di matrice inizialmente intellettuale, poi scientifica, sorti e sviluppatisi con la nascita della linguistica, per quanto ci riguarda soprattutto a partire dalla seconda metà del sec. XVIII . Il ritardo è dovuto al fatto che nell’arco della sua storia secolare la nostra lingua – sempre sovrastata da idiomi di maggior prestigio, quali in origine il latino, per un certo periodo concorrente col tedesco della corte patriarcale, poi il tosco-veneto, infine l’italiano – non conobbe mai nel territorio di sua diffusione un qualche uso o riconoscimento ufficiale tantomeno nell’insegnamento scolastico, nel quale il friulano è stato parzialmente coinvolto soltanto in epoca recente (con l’emanazione della legge della Repubblica Italiana del 15 dicembre 1999, n. 482 per la tutela delle minoranze linguistiche storiche della Penisola, preceduta dall’analoga legge della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia del 22 marzo 1966, riservata alla lingua e alla cultura friulane). Con il termine «grammaticografia» si intende qui la trattazione dello sviluppo e la illustrazione dell’insieme delle grammatiche prodotte nel corso della storia linguistica

Grammaticografia e lessicografia (dal XVII agli inizi del XX secolo)

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del friulano, che complessivamente per il periodo preso in esame – dalle origini agli inizi del XX secolo – presenta pochi e tardi esempi di esposizioni organiche di tipo manualistico tradizionale, poiché la maggior parte dei titoli che citeremo contempla esposizioni superficiali o analisi parziali di portata limitata, per lo più appendici o riferimenti generici inseriti in opere con diversa finalità primaria quali dizionari o simili. Nella sezione riservata alla «lessicografia», in quanto soprattutto attività che ha per oggetto la composizione di dizionari e simili, inseriremo i titoli comprendenti essenzialmente raccolte lessicali pur senza escludere del tutto – quando ritenuti opportuni – cenni ad opere di natura diversa (specie storico-etimologica). Il quadro complessivo più esauriente attualmente disponibile sulla grammaticografia e lessicografia della lingua friulana corrisponde alla disamina di Marcato (1989). Ai titoli della bibliografia generale ivi citati – e che per doverosa informazione riproponiamo: Frau (1974); Volpini (1957–1958); Peressi (1974–2004); Iliescu/Siller-Runggaldier (1985) – si devono ora aggiungere per la grammaticografia Swiggers (2001a, 484s.), il capitolo Lexikologie und Lexikographie di Turello (2007, 125–143) – rivolto soprattutto alla produzione lessicografica successiva alla edizione di NP (anno 1935) –, la importante monografia di Cescutti (2008) per gli aspetti generali e lessicografici, Frau (2010) per la lessicografia, inoltre le specifiche varie sezioni rivolte ad aspetti grammaticali e lessicografici presenti nelle fondamentali, aggiornate bibliografie di Siller-Runggaldier/Videsott (1998), di Heinemann/Melchior (2011) e Videsott (2011). Le due direzioni di ricerca, soprattutto la lessicografia, conoscono in Italia una discreta tradizione specialmente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento con la nascita del Regno, quando – contemporaneo alle discussioni concernenti la questione della lingua nazionale – si intensifica fra gli studiosi l’interesse per le parlate dialettali. Ciò avviene in primo luogo per soddisfare le già ricordate esigenze di carattere scientifico da parte dei ricercatori, consapevoli dell’importanza della documentazione, successivamente anche per finalità didattiche. Queste ultime – lungi dal preoccuparsi dell’insegnamento e della tutela delle parlate locali – riguardano l’apprendimento della lingua italiana sia da parte degli scolari che degli adulti da ottenersi tramite progetti che dovevano muovere tenendo presente la situazione linguistica dell’epoca, in cui la stragrande maggioranza degli abitanti del nuovo Stato era soltanto dialettofona: si doveva perciò partire dal dialetto per arrivare alla lingua nazionale.

2 Grammaticografia Come è noto, l’attività grammaticale durante il Medio Evo riguarda prevalentemente il latino: fra le lingue vernacolari fanno eccezione soltanto l’antico provenzale e l’antico francese (Swiggers 2001b, 39–46). All’interno di questo quadro, volendo un po’ forzatamente uscire dal limite della tradizione grammaticografica del friulano sopra accennata, è lecito affermare che un primo esempio – sia pure con riferimento indiretto a essa – si può far risalire già al sec. XIV . In proposito citiamo i Frammenti gramma-

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ticali latino-friulani, pubblicati da Schiaffini 1921 (su di essi si veda pure l’intervento di Swiggers 1991), che trovano riscontro in consimili grammatiche latino-volgari, resesi necessarie «a mano a mano che nella coscienza de’ parlanti s’affievoliva il senso del latino come lingua viva», tanto che «si doveva, nell’insegnamento della grammatica, far continui richiami ai singoli volgari, e se, da principio, solo oralmente, in seguito anche per iscritto» (Schiaffini 1921, 4s.). Consimili strumenti erano finalizzati evidentemente non alla descrizione né tanto meno all’insegnamento (di cui non si sentiva bisogno) delle parlate locali, ma all’apprendimento del latino, che rimarrà ancora a lungo lingua dotta e ufficiale prevalente nell’uso amministrativo compresi gli atti notarili, come testimoniano – quasi loro applicazione pratica – anche gli esercizi di versione dal latino al friulano provenienti da una scuola notarile del cividalese (Schiaffini 1922). Considerata la particolare situazione di bilinguismo – sia pure limitato alle classi e gli ambienti più elevati, rappresentati da intellettuali, corti e cancellerie feudali – che caratterizzò la storia sociolinguistica del Friuli medievale soprattutto nel corso del lungo periodo di dominio dei Patriarchi di estrazione germanica (durato quasi ininterrottamente per circa due secoli a partire dall’anno 1077), verrebbe da chiedersi se in quei tempi non sia mai stato predisposto un qualche analogo strumento grammaticale (del quale peraltro non possediamo notizia neanche indiretta) questa volta finalizzato all’apprendimento del tedesco da parte dei friulanofoni.

2.1 I primordi Si dovrà arrivare agli anni a cavallo fra i secoli XVIII e XIX per incontrare le prime testimonianze di un sia pur parziale interesse per gli aspetti grammaticali del friulano, non attestato però da opere specifiche, ma da occasionali riferimenti inseriti in repertori di prevalente carattere lessicale. Esemplificativo è il caso della ricca silloge manoscritta dal titolo Lingua carnica o gallo-carnica di Girolamo Asquini (cf. Cescutti 2008). Composta fra gli ultimi anni del Settecento e il 1836 (data ante quem) ed edita soltanto di recente, essa comprende una serie di fascicoli con raccolte lessicali variamente classificate. Nel primo fascicolo è riservata una breve parte alla trattazione di argomenti grammaticali, preceduta dall’avvertenza che «[n]on essendo il dialetto friulano mai stato soggetto a regole, non potrebbe dirsi quante sono le declinazioni de’ suoi nomi né le conjunzioni de’ suoi verbi» (Cescutti 2008, 255); seguono quindi la coniugazione quasi completa di tempi e modi dei verbi essere e avere, di verbi tratti da ciascuna delle quattro coniugazioni, inoltre essenziali riferimenti ai pronomi, alle preposizioni e agli avverbi (cf. Cescutti 2008, 255–267). Riferimenti ad aspetti grammaticali, ma occasionali e assolutamente sporadici, ovvero non sistematici, si riscontrano pure in opere antecedenti di alcuni decenni al lavoro di Asquini, delle quali furono autori Giusto Fontanini (1666–1736) e Gian Giuseppe Liruti (1689–1780), rivolti a indagare sulla natura e sull’origine del friulano, con prevalente attenzione per la fisionomia lessicale, come si ribadirà nella sezione

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riservata alla lessicografia (cf. infra, 4.). A loro riguardo si deve perciò nell’insieme riconoscere che si tratta di «lacerti e anche riunendo le note [morfologiche] fonetiche e lessicali il quadro è ancora scarno» (Cescutti 2008, 43s.). Il riferimento di questi primi studiosi a tratti grammaticali del friulano non proviene dunque da interessi diretti, motivati cioè da una trattazione-descrizione grammaticale fine a se stessa, ma è secondario, in quanto conseguente alla ricerca su genesi e collocazione della nostra lingua all’interno di un panorama linguistico più generale e alla individuazione di possibili parentele o interdipendenze con altri idiomi con l’ausilio di analisi esemplificative di tipo che, con termine anacronistico, potremmo definire «contrastivo».

2.2 Il primo Ottocento Sicuramente l’eco delle teorie linguistiche diffuse in tutta Europa nel primo Ottocento dalla scuola tedesca e basate sul metodo comparativo proposto da Schlegel (1808), consolidate dall’edizione della sistematica grammatica comparata delle lingue indoeuropee di Bopp (1816), era giunta anche negli ambienti culturali più elevati della Penisola. A ciò si aggiunsero in campo romanzo le grammatiche comparate in lingua francese di Raynouard (1821) e la corrispondente tedesca di Diez (1836–1844). Nell’ambito di una visione innovativa e del conseguente sviluppo della scienza linguistica si colloca la produzione di opere di interesse dialettologico da parte di alcuni studiosi, collaboratori del milanese «Poligrafico», fra i quali un posto preminente spetta a Carlo Cattaneo, che si occupò anche di friulano, come attesta Ascoli (1873, 477), il quale si limita a nominarlo insieme con Francesco Cherubini senza altro riferire riguardo al contenuto del suo studio: «In Lombardia, il Cherubini e il Cattaneo, si fermarono con predilezione a questo dialetto [il friulano], e in ispecie il primo, che sen era pur formato un vocabolario abbastanza copioso». Sappiamo ora che si tratta di una sintetica descrizione del friulano, come attesta un manoscritto incompiuto, proveniente dall’Archivio Cattaneo e oggi conservato nella Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, portante il titolo Sui dialetti veneti: la seconda parte del testo è riservata proprio alla nostra lingua. Scoperto e segnalato da Laura Vanelli, il manoscritto è stato fatto conoscere di recente da Agnoletti (2001). Dopo un’introduzione di carattere letterario, Cattaneo offre un essenziale quadro del friulano, del quale presenta tratti e dati fonologici (vocalismo e consonantismo) e morfologici (articoli, pronomi personali, pronomi possessivi, verbi) posti a confronto con la lingua italiana, in conformità con consimili, contemporanee descrizioni linguistiche di carattere contrastivo (una di esse – riservata al valacco e all’italiano – si deve ancora proprio a Cattaneo 1837, ma da una nota dell’autore risulta che il testo fu redatto già nel 1830). Probabilmente senza conoscere ancora lo studio di Cattaneo (1837; Orlandi 2003, 32), il giovane diciassettenne Graziadio Isaia Ascoli affrontò un analogo argomento, proponendo un confronto – convinto di una loro particolare affinità – fra il friulano e il valacco col ricorso a esempi tratti dalle coniugazioni, da nomi, articoli (p. 17s.),

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aggettivi, formazione dei diminutivi e dei superlativi (p. 19s.), pronomi e altro della lingua friulana (cf. Ascoli 1848, 17–20). Come è noto, l’operetta fu in seguito sconfessata da Ascoli (fra le ingenuità in essa contenute segnaliamo la proposta di usare l’alfabeto cirillico per scrivere il friulano; per una disamina critica di questo lavoro giovanile di Ascoli si rinvia a Orlandi 2003).

2.3 Il secondo Ottocento Intorno al 1860, occasionalmente e indirettamente, di «elementi grammaticali, fonetici e morfologici del friulano» si occuperà Giandomenico Ciconi (Cenno sui dialetti della provincia di Udine (ms. 513, fasc. 4, cc. 113–142 della Biblioteca Civica di Udine «Vincenzo Joppi»: cf. pure infra, 5.) destinato ad essere edito in Ciconi (1861; cf. Cescutti 2008, 80–84, in particolare 83). Un saggio riguardante Il dialetto friulano pubblicò pure Giovanni Gortani sulla rivista di Fanfani Il Borghini nell’ottobre del 1863, nel quale articolo si sofferma su tratti morfologici e unisce liste di parole latine, celtiche e tedesche attinte dal suo dialetto (Cescutti 2008, 103, nota 1; cf. anche infra, 6.). È ancora inedito il quaderno autografo di Caterina Percoto, datato «Milano 1867» (portante l’intestazione Note linguistiche sul friulano: ms. 4104 della Biblioteca Civica di Udine «Vincenzo Joppi»), contenente «lo schizzo di una grammatica friulana» oltre che un glossario friulano-italiano accompagnato da un repertorio fraseologico (in tutto 63 carte) e una sezione con proverbi e sentenze in friulano (altre 17 carte): su di esso riferisce Rizzolatti (1988, 185s.), avvertendo che la grammatichetta della «contessa ‹contadina› ha valore eminentemente pratico, serve come guida di riferimento alla scrittrice». Notevole risulta la parte riservata alla descrizione dei suoni propri (in particolare delle occlusive postpalatali) e alle differenze del friulano rispetto all’italiano. Note e appunti grammaticali linguistici si riscontrano, inseriti in ordine sparso, nelle «prelezioni» ai testi letterari editi da Leicht (1867a; 1867b) con l’intento prevalente dell’autore di trattare la particolare genesi storica e collocazione del friulano rispetto agli altri idiomi italiani (piemontese, lombardo, veneto) o stranieri (francese, ma non solo), per dimostrarne (per lo più col ricorso ad argomentazioni ascientifiche) ora l’indipendenza, ora la correlazione: a tal fine si serve di riscontri contrastivi presi dal lessico, ma anche dalla fonetica e dalla morfologia.

2.3.1 Le Note grammaticali di Pirona Quale prima rappresentazione di una grammatica del friulano normalmente intesa – in quanto strutturata in sezioni organiche e ordinatamente rivolta alla illustrazione delle varie parti del discorso così da offrire una, sia pure indirettamente e non esaustiva, descrizione della lingua – si possono considerare le Note grammaticali del Vocabolario friulano di Pirona (1871, XLV–LXXIV). Inserite fra i Prolegomeni insieme

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con le pagine riservate all’Ortografia (pp. XXI–XXX), alla Pronuncia (pp. XXXI–XLIV) e alle Attenenze (pp. LXXV–XCVI), esse costituiscono la prima parte del dizionario. L’autore, convinto che – in quanto lingua di prevalente uso orale – «il Friulano, del pari che ogni altro dialetto, non abbia bisogno di una grammatica in proprio senso», si propone essenzialmente di illustrare la nostra lingua muovendo dalle divergenze che essa mostra rispetto all’italiano scritto («Mettere sott’occhio queste divergenze, queste specialità, è lo scopo delle presenti Note. […] Così la lingua italiana scritta ci darà la forma-base per entrar a conoscere la friulana parlata», p. XLV), ma così facendo finisce invece per compilare una grammatica friulana, per quanto di tipo che oggi definiamo «contrastivo». Il confronto con l’italiano prende avvio dal capitolo sugli articoli, per procedere con i nomi e aggettivi (formazione del femminile, formazione del plurale), pronomi (personali, possessivi, relativi), numerali, per concludere con la più sostanziosa parte riservata al verbo sviluppata con il ricorso a numerosi esempi di coniugazioni (dei verbi ausiliari, regolari, anomali).

2.3.2 Contributi grammaticali di Ascoli e Gartner Avrebbe potuto assumere la fisionomia di una completa grammatica, anche di carattere storico (ancora oggi inesistente), la parte riservata alla lingua friulana in Ascoli (1873), il cui originario programma prevedeva «sette capi: 1. Spogli fonetici. 2. Riassunti fonetici. 3. Spogli morfologici. 4. Riassunti morfologici e Saggi sintattici. 5. Appunti lessicali. 6. Appunti storici, critici, bibliografici. 7. Saggi letterarj» (Ascoli 1873, 3). Come è noto, il progetto si fermò alla prima parte, in cui con una magistrale trattazione (anche in parte diacronica) l’autore esamina lo sviluppo e l’esito del vocalismo e del consonantismo latino nelle varie condizioni e posizioni, quale realizzatosi nelle diverse parlate ladine, compreso il friulano. Pur senza esserne fatto oggetto di trattazione autonoma (come del resto le altre varietà ladine ivi considerate, data la particolare struttura dell’opera), il friulano è ben rappresentato nell’organica grammatica retoromanza di Gartner (1883, parzialmente ripresa da Gartner 1910), nella quale trovano ampia illustrazione la composizione del lessico, la fonetica e le varie parti del discorso, soprattutto sulla base di materiali tratti dalla lingua parlata, direttamente raccolti dal ricercatore austriaco. La legge Casati (recepita integralmente nel 1861 dal neonato Stato italiano) con l’istituzione dell’obbligo della formazione scolastica elementare rispondeva al bisogno di alfabetizzazione e nel contempo alla necessità di favorire il processo di italianizzazione da attuarsi in primo luogo attraverso l’educazione linguistica mediante l’apprendimento della lingua italiana, muovendo dagli idiomi locali per arrivare alla padronanza della lingua nazionale lungo la direttrice perciò «dal dialetto alla lingua». Diversamente da quanto si potrebbe credere, non c’è testimonianza in questo periodo di una particolare produzione di edizioni a stampa di sussidi grammaticali concepiti secondo l’orientamento appena indicato, cioè di grammatiche dal friulano

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all’italiano (non mancheranno invece idonei strumenti sul versante dei repertori lessicali: cf. infra, 6. e 7.).

2.3.3 Note grammaticali goriziane: Simzig In questi anni – a riprova della vivace attenzione per la lingua locale all’epoca di gran lunga più parlata nel Goriziano – particolare interesse al friulano dedicherà Federico Simzig con due scritti, in qualche modo comprendenti, sia pure indirettamente, anche osservazioni di carattere grammaticali. Nel primo (Simzig 1878), dopo aver elencato le più importanti isofone ladine già proposte da Ascoli 1873, l’autore si limita a brevi cenni intorno alla pronuncia e alla grafia dei suoni friulani. Nel secondo, più articolato (Simzig 1889), traendo spunto da (supposte) sgrammaticature (o «solecismi», come egli li definisce) della varietà goriziana rispetto al friulano comune (prendendo a modello Pirona 1871) l’autore, dopo aver diviso in capitoletti una tipologia selettiva di parti del discorso tratte da testi letterati pubblicati in Pagine Friulane (articolo e concordanze, uso dei pronomi e degli affissi, nessi preposizionali, uso dei tempi e dei modi, e così via), le compara coi corrispondenti goriziani, rimarcando i «solecismi». Così, per esempio, sarebbero errori grammaticali della varietà friulana locale la ripetuta omissione dell’articolo (fatto dovuto all’influenza della lingua slovena) e l’analoga omissione del pronome soggetto ripetuto o pleonastico – come nel caso di jo soi ʻio sonoʼ invece del «corretto» comune jo o soi – oppure, nella coniugazione verbale, «il dileguo del così detto passato e trapassato remoto» (Simzig 1889, 18), per cui a Gorizia non si sente più dire disè per ʻdisseʼ, e così via: evidentemente non si tratta di «errori», ma di diverso sviluppo di un tratto linguistico. Notevole comunque è la segnalazione fatta da Simzig (1889) di elementi grammaticali della varietà friulana di Gorizia.

3 Il primo Novecento Si comincia col citare un singolare lavoro inedito, che oltretutto rappresenta l’unico esempio di interesse grammatografico registrabile nel Friuli Occidentale. Si tratta della «Grammatica ertana tradotta in italiano sull’esemplare del professo [sic!] Giobatta Grandisi dall’edizione di Portogruaro, 29 gennaio 1905, classe 4^», come si legge nella nota premessa dall’autore, Domenico De Filippo. Risultando il testo originale pasticciato a causa di una intervenuta malattia del redattore, il figlio sacerdote Giampietro ne fece un compendio, unendolo al testo del padre in un quaderno rilegato comprendente una settantina di pagine (manoscritto n. 3675 della Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine). L’opera – notevole soprattutto per la consistente lista di esempi di coniugazioni verbali – riporta la traduzione ertana a fronte del modello italiano. La parte normativa è seguita dalla trascrizione di testi occasionali in versi dello stesso D. De Filippo, la cui datazione va dal 1910 alla fine della prima guerra mondiale.

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Nel 1910 Ugo Pellis (che si affermerà come uno dei maggiori studiosi della lingua friulana), da poco laureatosi a Vienna, programmò l’edizione di una grammatica della varietà del friulano orientale, che egli definì «sonziaco», in quanto parlato nel territorio a cavallo del fiume Isonzo con capoluogo Gorizia. Già Pirona (1871) e Ascoli (1873), pur privilegiando le varietà del friulano centrale, avevano illustrato «alcune caratteristiche più spiccate di questa o di quella parte del territorio friulano. Ma data l’indole di queste opere, esse non potevano offrire descrizioni linguistiche più o meno vaste. Uno studio, o meglio singoli studi dettagliati su tutta la regione friulana non esistono. Ed è appunto nell’intenzione di colmare – parzialmente – questa lacuna che m’accingo a descrivere il sonziaco» (Pellis 1910–1911, 3). Ma come già capitò ad Ascoli (1873) – che egli dichiara di prendere a modello –, anche Pellis finì per fermarsi alla prima parte dell’impresa, comprendente la fonologia, edita nell’Annuario del Ginnasio superiore di Capodistria in due fasi consecutive (vocali e consonanti), poi raccolte in volume a parte: la morfologia e la sintassi però non videro mai la luce. Il sonziaco rappresenta un lavoro accurato e approfondito, fondato su una ricca documentazione di materiali lessicali originali o tratti da testi a stampa.

3.1 Grammatiche descrittive Pochi anni dopo il saggio di Pellis (1911–1912) la varietà di Gorizia sarà fatta argomento di nuova descrizione da Vignoli (1917), opera che si colloca sulla scia delle grammatiche finalizzate all’insegnamento dell’italiano partendo dalla parlata locale. Pur segnata da un’impronta nazionalistica, promossa dalla Società Filologica Romana – presieduta da Ernesto Monaci, che nella Prefazione fra l’altro annota che «Al concetto della grande patria non si giunge che dalla piccola» (p. 2), la grammatica di Vignoli – che si proponeva di contribuire all’apprendimento della lingua italiana da parte delle popolazioni dialettofone delle terre irredente – risulta comunque apprezzabile per la correttezza dei dati forniti e per la esauriente trattazione delle varie parti del discorso. Il volume è arricchito da un’appendice di Testi dialettali (pp. 58–65) e da un più consistente Vocabolarietto (pp. 66–84). Il contributo di Vignoli offerto a Gorizia liberata apparve nello stesso periodo in cui (ottobre del 1917) della Porta (1922) aveva appena incominciato a correggere le bozze di una sua grammatica, della quale però gli eventi bellici – precipitati alla fine dello stesso mese con la ritirata di Caporetto – portarono alla quasi completa dispersione. Dopo la guerra l’autore ne riprese il completo rifacimento, adeguando la stesura alla grafia proposta dalla Società Filologica Friulana (Pellis 1920), sodalizio fondato nella Città isontina nel novembre del 1919 per la tutela e la promozione della lingua friulana (per una sintesi della storia della grafia della lingua friulana cf. Moretti 1985; il sistema della nostra grafia è stato ufficialmente normalizzato nel 1998 secondo quanto previsto dalla legge regionale n. 15 del 1996). La grammatica di della Porta non si riduce più – come in gran parte delle esperienze precedenti – a mero ausilio per l’apprendimento della

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lingua nazionale, ma – in conformità col programma della Società Filologica Friulana – intende proporre un modello normativo «pratico» (aggettivo che compare nel titolo del volume) per l’insegnamento del friulano. La trattazione dei vari capitoli è abbastanza ricca e chiara, sorretta da un sufficiente numero di esempi, in particolare nei paragrafi dedicati ai pronomi, alla coniugazione verbale e ai consistenti elenchi di verbi irregolari e di avverbi. Si mostrò invece ostile alle indicazioni della Società Filologica Friulana (e specialmente alla grafia da essa propugnata) Blanch (1928), autore di una sorte di grammatica (Linguaggio friulano) contenente – con altri scritti – astruse proposte di purismo linguistico esemplificate da traduzioni in friulano (Turello 2007, 30–32): essa non conobbe alcun seguito, esclusa la stroncatura della critica. C’è da osservare che il testo di della Porta rimarrà nella pratica l’unico disponibile per i maestri che vorranno dare seguito alle direttive della riforma Gentile del 1923, la quale introdusse nella scuola lo studio dei dialetti e delle culture locali, esperimento lodevole, presto interrotto però dalle nuove direttrici dalla politica del governo fascista tese a far tacere le specificità regionali. La fisionomia della grammatica di della Porta tuttavia non risultò tale da soddisfare le esigenze degli studiosi, che abbisognano di informazioni le più ampie e complete possibili.

3.1.1 I Lineamenti di grammatica di Marchetti A colmare almeno parzialmente il vuoto provvederanno i Lineamenti di grammatica friulana di Marchetti (41985, la prima edizione risale al 1953), opera che – nonostante il titolo riduttivo – rappresenta ancora oggi un sicuro riferimento per gli studiosi di linguistica friulana. Pensata come testo di base per gli studenti dei corsi di lingua e cultura friulana (da allora mai interrottisi) avviati in quegli anni dalla Società Filologica Friulana, questa grammatica si configura non soltanto come un tradizionale strumento didattico rivolto a una rappresentazione più completa possibile delle varie parti del discorso della lingua friulana, ma nelle pagine introduttive affronta anche tematiche di carattere storico che – sebbene con affermazioni e risultati non sempre condivisibili sul piano scientifico (cf. la recensione di Pellegrini 1954) – offrono interessanti spunti per la futura auspicabile edizione di una grammatica storica del friulano. Sapendo di rivolgersi principalmente a «insegnanti delle scuole elementari: non dunque […] persone digiune di ogni preparazione filologica, né […] glottologi addestrati alle sottigliezze della moderna romanistica» (Marchetti 1985, 9), l’autore fa la scelta di un metodo che si colloca a metà fra scientifico e divulgativo-empirico, il che costituisce un limite di cui è consapevole lo stesso compilatore. La varietà linguistica descritta nei Lineamenti fa riferimento al modello della koinè letteraria del friulano (oggi corrispondente per lo più al tipo parlato nel Friuli Centrale), che già ebbe in Ermes di Colloredo (sec. XVII ), Pietro Zorutti e Caterina Percoto (sec. XIX ) i rappresentanti più illustri. Si può concludere ribadendo l’importanza dell’opera di Marchetti «per l’ampiezza del materiale grammaticale esposto (ordinato in modo

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tradizionale)» e in quanto «ancora una base cui si fa riferimento» (Marcato 1989, 638): da lui infatti principalmente muoveranno gli autori delle grammatiche friulane edite nei successivi decenni, fervidi di studi friulani, per le quali ↗15 Normalizzazione: grafia, grammaticografia e lessicografia.

4 Lessicografia L’interesse per lo studio e la rappresentazione del lessico friulano prende avvio allo stesso modo di quanto osservato per la grammaticografia (cf. 2.1), cioè in forma occasionale all’interno di indagini e saggi finalizzati prevalentemente all’esame delle caratteristiche della lingua friulana nel suo insieme o alla ricerca del suo rapporto con altre parlate. Tale quadro è ben percepibile nelle ricerche di Cescutti (2008; 2010), che complessivamente rappresentano gli studi più fidabili per completezza di informazioni ed approfondimento di analisi oggi disponibili in tema di lessicografia friulana (con apporto di dati originali e inediti specialmente per il Settecento e l’Ottocento). A essa vanno affiancati la pregevole sintesi di Marcato (1989, 639–645) e il più recente contributo di Frau (2010).

4.1 I primordi Le attestazioni più antiche di repertori di parole friulane sono dunque rappresentate da brevi, occasionali elenchi di parole, inseriti in ordine sparso e con valenza esemplificativa in opere di vari autori del XVIII secolo. Esse provengono da documenti manoscritti, quale il n. 395 della Civica Biblioteca di Udine attribuito a Giusto Fontanini (1666–1736) risalente forse già agli anni a cavallo fra i secoli XVII e XVIII . Il testo comprende una decina di fogli, divisi in quattro brevi sezioni, in cui compaiono voci friulane (c.1: «avonde, abunde / […]. / chenzi, quinci / […]. / uadià, sposar. Wadiare, promettere.», etc.), cenni di etimologie (Per la lingua furlana e altre cose, cc. 2–7r°), un elenco di Voci e maniere furlane (cc. 7v°–9) e un’ultima carta con Analogie della lingua francese colla furlana: «vale, trace, place, face, glace dice il francese, e il furlano rustico ancora», etc. (Cescutti 2008, 37–41). Ben più ampio e articolato risulta il De lingua forojulianorum dissertatio – databile intorno al 1741 – di Gian Giuseppe Liruti (1689–1780), edito da D’Aronco/Pauluzzo (1954–1956). L’opera fornisce, fra gli altri dati, un elenco diviso in tre classi di diversa tipologia (per complessivi 750 vocaboli) di parole passate dal latino al friulano (voces latinae forojuliensi dialecto: «tu das for[lanum] tu das», «aequalis for aual», «acinus for asin», etc.) e un’analoga lista di più di 880 riscontri fra il francese antico ed il friulano (voces franci sermonis praesertim antiqui oris in vulgari forojuliano: «eghe, acqua – aigue […] scherpes, scarpe – escherpers […] peri et pari, peris et paris, padre, padri, – pere, pers», etc. (Cescutti 2008, 41–45).

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4.1.1 Il Vocabolario furlano di Someda Il primo repertorio lessicale friulano degno di tale definizione («esordio della lessicografia friulana», Cescutti 2008, 31) rimasto anch’esso manoscritto (n. 2271 fondo comune della Biblioteca Civica di Udine) è costituito dal Vocabolario furlano e toscano della seconda metà del sec. XVIII , attribuito a Pietro Someda (1707–1775), avvocato del Comune di Udine dal 1747 al 1770, comprendente un elenco di più di 380 termini friulani individuati fra quelli maggiormente discordanti dai corrispondenti toscani compresi nella quarta edizione del vocabolario della Crusca. I lemmi sono inseriti in una rubrica dalla A alla Z, ma all’interno della lettera non rispettano l’ordine alfabetico, talora si trova citato il corrispettivo termine latino, molto rara appare la fraseologia (cf. «Azzalin. Focile. Ignarium / Asin d’ue. Acino / Ai. Aglio, e aglietto quando è fresco e ancora non capituto / Agrest. Agresto. […]. Bore. Brace, bragia. Pruna. Slargià lis boris, sbraciare.», etc.). È documentata inoltre una raccolta oggi dispersa, quasi sconosciuta pure agli specialisti (ma non a Cescutti 2008, 34s.): si tratta di un vocabolario (del quale non conosciamo l’effettiva dimensione) probabilmente posteriore, se non coevo con quello di Someda, di cui ci dà notizia Giovanni Rinaldo Carli in una sua opera del 1790: «[…] ultimamente il sig. Conte Girolamo de Renaldis Canonico della Metropolitana di Udine […], con l’intelligenza anche del P. Angelo Maria Cortenovis, m’inviò un vocabolario, che […] mirabilmente serve per farci conoscere l’affinità [del friulano] col provenzale» (Cescutti 2008, 34). «Bastino i seguenti esempi: aghe, per acqua; allar, allon, andare, andiamo […]; blanc, bianco; chais, lumaca; […]; peri, padre; mere, madre; […]; voeli o veli, occhio […]; soleli, sole, etc.» (Frau 2010, 53s. nota 10).

4.1.2 La Lingua friulana o gallo-carnica di Asquini Dopo l’ammirevole edizione curata da Cescutti (2008) si deve riservare posto particolare – considerato la sua importanza fra i prodromi della lessicografia friulana – alla Lingua friulana o gallo-carnica, opera di Girolamo Asquini (1762–1837), il cui originale databile fra la fine del sec. XVIII e il 1836 è custodito fra i manoscritti della Biblioteca Arcivescovile di Udine (ms. 350). Esso è costituito da otto fascicoli numerati comprendenti, oltre che un’essenziale trattazione grammaticale (cf. 2.1.), una cospicua serie di materiali lessicali (compresi diversi toponimi) esposti in ordine alfabetico, ordine inizialmente ripreso in ogni fascicolo. In molti casi nei lemmi sono inserite spiegazioni etimologiche per lo più cervellotiche e ascientifiche, con particolare predilezione per presunte matrici ebraiche «Quarn: corno, dall’ebreo keren, […] – Quesse coscia. Viene dall’ebraico kos […]» (Cescutti 2008, 414). Premessa alla trascrizione del manoscritto, notevole risulta la parte dedicata dalla curatrice alla storia degli inizi della lessicografia friulana e alla figura di Asquini inquadrata nella cornice culturale dell’epoca.

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5 Il primo Ottocento Abbiamo già accennato (cf. 2.2) all’interesse per la ricerca linguistica e in particolare per la dialettologia italiana che nei primi decenni dell’Ottocento coinvolse l’ambiente scientifico-culturale milanese. In tale ambito occupa un ruolo primario l’attività di Francesco Cherubini (1789–1851), conosciuto specialmente per il suo Vocabolario milanese-italiano (Cherubini 1814 e 1839–1853). Nel suo progetto rivolto a illustrare la dialettologia italiana, speciale attenzione mostrò alla nostra lingua, compilandone elenchi di parole dall’italiano al friulano, ma soprattutto redigendo un Saggio di Vocabolario Friulano-Italiano con intenti di documentazione linguistica: si tratta di una silloge di circa tremila parole trascritte su 1443 schede raccolte in tre volumetti, opera rimasta inedita insieme agli elenchi minori e oggi custodita dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano Fondo Sussidio (mss. B 50, 51 e 52; in fotocopia presso la biblioteca della Società Filologica Friulana di Udine), intorno alla quale cf. soprattutto Faré (1970). Cherubini cominciò a compilare il vocabolario già nel 1845 arricchendolo fino alla conclusione della sua vita. I materiali provengono fondamentalmente da attestazioni letterarie, incrementate da termini raccolti dalla viva voce di informatori, fra i quali un figlio di Pietro Zorutti (Cescutti 2008, 65). Gli spogli inseriti nel Saggio mostrano la predilezione dell’autore per termini della vita quotidiana e del mondo contadino, dei quali talora si offrono varianti riferite a più paesi. Non mancano indicazioni etimologiche («Ciruch. Addietro. La voce è corrotta dal tedesco Zurück»), talora del tutto erronee («Giò. Giove Giò ’i dèi pas. Giove gli dia pace. È singolare questo avanzo mitologico comunissimo nel Friuli»: Giò invece è l’esito regolare di *DEÙM ʻdioʼ attraverso la fase intermedia *DIÙ con conseguente palatalizzazione di i semivocale). Di frequente i lemmi sono arricchiti da fraseologia tradotta e/o commentata: «An bisest, umign senze sest o vero l’an bisest a lè un an senze sest. Di questo proverbio (che accusa l’anno bisestile d’incostanza di stagioni e di mala temperie) io non ho trovato orma scritta in nessun altro dialetto d’Italia […]. / Morteàne. Scherzoso Balà la morteane. Da un paese prossimo a Udine detto Mortegliano e dai paesani Morteàn deriva per l’isofonia morte lo scherzevole dettato» (cf. Cescutti 2008, 70s.). Risulta notevole in qualche lemma il disegno posto a schizzo descrittivo dell’oggetto corrispondente alla parola. Risalgono agli stessi anni i Brevi cenni sul dialetto friulano del goriziano Della Bona (1849), privi di riferimenti descrittivi grammaticali, ma interessanti per la lessicografia. L’autore presenta un panorama del vocabolario friulano inserendone alcune voci (significative a suo parere) in gruppi distinti e caratterizzati dalla affinità con le varie lingue: parole o espressioni schiettamente latine (cinise ʻcenereʼ da CINIS , glumus ʻgomitoloʼ da GLOMUS , Tu vivis in tantis miseriis ʻTu vivi in tante miserieʼ esattamente allo stesso modo latino), rassomiglianza con voci greche (con esempi quasi sempre non pertinenti, quale il bleon ʻil lenzuoloʼ fatto derivare da EPIBOLAION , mentre la parola è di matrice longobarda), col francese («Il friulano lov, lupo, e lova, lupa, sono forse il loup e louve francese»), col tedesco (bez, ʻbezzi, monetaʼ, da

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Batzen), con lo slavo (Patoc, ʻrivoʼ, da patock), etc. (cf. Della Bona 1848, 67–77). (Gran parte degli esempi verranno ripresi nella parte finale della Raccolta di voci friulane di Della Bona 1860, cf. 5.1). Particolarmente intensa e varia fu l’attività del già ricordato (cf. 2.3) medico udinese Giandomenico Ciconi (1802–1869), autore oltre che di note pubblicazioni storico-geografiche (la principale fu Udine e la sua Provincia, Ciconi 21861) pure di una serie di inedite raccolte lessicali risalenti a metà dell’Ottocento, i cui manoscritti sono conservati nella Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» (busta 513 contenente più fascicoli). Procedendo secondo l’ordine della maggiore ricchezza dei contenuti, si tratta in primo luogo di un Dizionario o Saggio di alcune voci friulane (fascicolo 3, 53–112) comprensivo di oltre ottocento termini locali affiancati dai corrispondenti italiani o da perifrasi quando l’immediato corrispettivo della lingua nazionale risulti sconosciuto; così incontriamo «buinz, legno curvo su cui portansi le secchie dell’acqua o altro in spalla», «chialzumit, acconciavetri e caldaie, girovago», «ingusìt, che non può parlare inghiottire», etc. Esso è preceduto dal Dizionario delle piante medicinali che allignano in Friuli (fascicolo 2), che in 26 carte riporta in tre stesure variamente ordinate complessivamente 94 fitonimi. L’elenco principale procede secondo l’ordine alfabetico della forma italiana, alla quale segue il termine scientifico latino, affiancato – ma solo in una cinquantina di casi – dal nome friulano: «Colchico – Colchicum – fr. cidivòc», etc. (per la lessicografia botanica friulana aveva mostrato particolare interesse già Pirona 1854, confermato da Pirona 1862; un allievo carnico di quest’ultimo, l’abate Leonardo Morassi, ne seguirà le orme compilando negli stessi anni di Ciconi un Saggio di flora medica amarese contenente un numero di voci botaniche friulane superiore a quello di Ciconi: cf. Cescutti 2008, 75–77). Citiamo infine l’ultima lista (fascicolo 4, cc. 115–116) unita allo scritto (nello stesso fascicolo) portante il titolo di Cenno sui dialetti della provincia di Udine e destinato alla pubblicazione in Ciconi (21861): essa comprende una cinquantina di voci selezionate da un elenco di circa seicento parole (c. 125– 134) inserito nel Cenno con lo scopo di segnalare quelle che più si allontanano dalle corrispondenti venete e italiane («agàr ʻsolcoʼ, ardiel ʻlardoʼ, articioc ʻcarciofoʼ», etc.).

5.1 L’attività lessicografica nel Goriziano Non mancano attestazioni di interesse per la lessicografia della nostra lingua coeve all’opera di Ciconi nella parte nel Friuli austriaco, specialmente per merito del già citato Giuseppe Domenico Della Bona – affermata personalità del particolarmente fervido e vivace mondo culturale goriziano – autore di due opere rimaste manoscritte: la prima è costituita dalla Raccolta di voci friulane rilegata in un volume di 420 pagine (molte delle quali rimaste bianche) datato al 1860 (ms. n. 69 della Biblioteca Comunale Isontina di Gorizia). La silloge – trascurando le forme letterarie – si preoccupa di documentare l’uso vivo della varietà goriziana (caratterizzata, fra l’altro, dalla terminazione delle parole in -a contrapposta ad -e del friulano comune). Qualche lemma è

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arricchito da elementi fraseologici («Aga. Aghe. La in aga. Trasudare. […]. Fa aghe. Pigliar baldanza»), da proposte etimologiche o confronti con parole di altre lingue («Alto! Voce di comando che ingiunge l’arrestamento. […]. Sembra venire dal halt tedesco»). Cescutti (2008, 85–91) – che ne fa un’ampia presentazione – sottolinea la «lampante e a tratti sorprendente» (p. 85) somiglianza con Pirona (1871), tuttavia da considerare casuale, dato che quest’ultimo si cominciò a pubblicare a fascicoli del vocabolario soltanto dall’anno 1867. Le ultime quattro pagine dedicate a Voci friulane evidentemente derivate dalle greche, latine o latino-barbare (Ancona ʻcapitelloʼ correttamente derivato dal greco, Avonda giustamente dal lat. abunde, allo stesso modo di Agne ʻziaʼ da amita) riprendono il tema già trattato da Della Bona (1849). Si aggiunga – autografo dello stesso autore – il contemporaneo inedito breve Vocabolario del dialetto friulano (ms. n. 70 di detta biblioteca), del quale Della Bona compilò le voci della sola lettera A, portandole dalle 350 della Raccolta a più di 1.000, numero superiore a quello della stessa lettera in Pirona (1871). Il testo è integrato da aggiunte e integrazioni, che non possono essere di Della Bona, perchè in buona parte riprese da Pirona (1871), pubblicato quando il lessicografo goriziano era già morto da oltre un decennio. Era goriziano anche il sacerdote Giuseppe Vuk che – con visione di studioso operante in una città plurilingue, a sua volta collocata nel più vasto mondo cosmopolita dell’impero austro-ungarico – avverte l’utilità di uno strumento capace di soddisfare il bisogno dell’intercomunicazione, alla quale corrisponde con la pubblicazione a dispense dell’Onomastico tecnico-poliglotto concluso nel 1864, vocabolario di oltre quattrocento pagine plurilingui di carattere tematico, rivolto ai nomi di cariche, professioni, mestieri e simili. Prendendo a modello la forma tedesca, ne indica il corrispondente in sette lingue, fra le quali «il dialetto friulano» (della varietà goriziana) oltre che italiano, francese, inglese, sloveno, latino, greco. Sul versante del friulano, l’opera appare interessante anche per la proposta di non pochi neologismi, talvolta presi dal tedesco, per esempio archivari (dal ted. Archivar(ius), it. ʻarchivistaʼ), arestànt (ted. Arrestant, it. ʻdetenutoʼ), pipila (ted. Pupille, it. ʻpupilla (órfana sotto curatela)ʼ), e così via. All’incirca alla stessa epoca se non di qualche anno posteriore risalirà un altro repertorio – non datato – che si potrebbe considerare plurilingue, stando almeno al titolo riferibile alle intenzioni dell’anonimo autore (cf. Marcato 1989, 639): si tratta del modesto e incompleto, inedito Vocabolario italiano-friulano-sloveno (manoscritto n. 2271 fondo comune della Biblioteca Civica di Udine «Vincenzo Joppi», comprendente circa 150 pagine, molte delle quali rimaste bianche), in cui il friulano (indifferentemente introdotto ora come termine intermedio, ora finale o iniziale) in realtà spesso compare solo come sostituto dell’italiano o dello sloveno, dove questi manchino. Per esempio, sotto la lettera B, in mancanza della corrispondente parola italiana, si trova incolonnato solo il friulano seguito dalla traduzione slovena: batti il falcet [ʻrifare il taglio alla falceʼ] – clépate / bastona [ʻbastonareʼ] – otriescate / brazola [ʻportare in braccio, dei bambiniʼ] – balojate, etc. Altrove alla parola italiana segue solo la corrispondente friulana (bisbigliare, cisica / canchero, cancar / canaglia, canaia, canai).

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6 Il secondo Ottocento La diffusa opinione di una stretta parentela fra friulano e francese (si vedano più indietro, fra gli altri Fontanini e Liruti per il Settecento, cf. 4.1) perpetuatasi nell’Ottocento trova conferma nel lungo copioso elenco di parole (una settantina di esempi non sempre pertinenti) riguardanti «modificazioni della lingua italiana comuni al francese» inserito nella Introduzione di Leicht (1867a, 18–20): «italiano accatastare – francese entasser – friulano intassà» (l’intera lista è ripresa da Cescutti 2010, 46–48). Per quanto poco nota, sebbene meritevole di attenzione, si segnala qui l’attività dello scrittore e studioso carnico Giovanni Gortani (1830–1912) anche perché inserita «[n]el quadro di un ’800 friulano vivacemente attento alla questione della lingua» (Cescutti 2008, 96). Fra le carte del suo copioso lascito manoscritto (conservato presso l’Archivio di Stato di Udine) si trovano alcuni quaderni che testimoniano i suoi interessi lessicografici. Si tratta del Glossario friulano (Archivio Gortani, Parte II, Manoscritti, B. 2, n. 27) datato «Avosacco, 1.–31. ottobre 1869» comprendente materiali fino alla lettera p, la cui continuazione fino alla lettera z riprende in un successivo distaccato fascicolo, che questa volta porta il titolo di Vocaboli carnici (B. 6, n. 128). Nella realtà gli elementi carnici caratteristici si confondono in una raccolta di prevalenti forme prese dal friulano comune, che non disdegnano di mescolarsi coi numerosi prestiti dall’italiano («obbedì, obbedire / obbliquo, obbliquo, obliquo / oberat, oberato […], / onglisie, pepita / opifici, opificio», etc.). Un secondo quaderno (Busta 6, n. 129) contiene una raccolta che nel titolo rinvia a «Fanfani, Vocabolarii dell’uso toscano, e lingua italiana». Dai vocabolari di Fanfani (non ci è detto a quali precisamente dei non pochi compilati dal lessicografo pistoiese) prende spunto Gortani per la sua fraseologia friulana: alla voce principale fa seguire la frase in friulano e la trascrizione dell’esempio italiano da essa comparato o tradotto: «Chiarte. Voltà chiarte – voltando carta, per altro si veda id. (pag. 1 II)» / Di. Hai di là, di fà etc. «s’ha ire, o a ire a Prato» / Estro. Mott. All’estro, al mott. «Ma come, non vuol pagarti? Al vedere! Al sentire. etc.» (Cescutti 2008, 96–102, in particolare 97, 100). Si ricorda che G. Gortani aveva precedentemente pubblicato nella rivista di Fanfani Il Borghini nell’ottobre del 1863 un saggio su Il dialetto friulano comprendente pure un elenco di voci latine, celtiche e tedesche del suo dialetto preceduto dalla esposizione di alcuni dati morfologici (cf. Cescutti 2008, nota 1, e cf. supra, 2.3). Giovanni Gortani prestò «un efficace aiuto» all’avvocato Giacomo Scala (1870), il pordenonese autore di un essenziale «vocabolario domestico friulano-italiano» con una limitata scelta di lemmi attinenti la sfera terminologica comune trattati in ordine alfabetico. L’opera si inserisce, come analoghe iniziative in varie regioni della Penisola (avviate già a cominciare dalla prima metà del secolo con la produzione di alcuni ampi, eccellenti dizionari locali da considerare «come opere di alto valore», Tagliavini 61966, 11s., note 21 e 22) nel rinnovato clima culturale unitario, in cui all’attività lessicografica dialettale di carattere documentario – che già nella prima metà del secolo aveva dato risultati eccellenti – si accompagna la preoccupazione che le

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parlate locali costituiscano un ostacolo all’unione culturale e linguistica nazionale: ne derivava il bisogno di allestire strumenti lessicali finalizzati alla già avvertita urgenza (cf. supra, 1; 2.3.1) di favorire l’apprendimento dell’italiano muovendo dal dialetto. In effetti G. Scala, nell’Avvertenza del suo repertorio, dichiara esplicitamente di dedicare il lavoro «Ai giovanetti furlani» per aiutarli a conoscere «le voci che più spesso cadono nel famigliare discorso e che men si conoscono in italiano» (Scala 1870, 5), da cui la necessità di uno strumento idoneo «ad apprendere la corrispondenza che ha coi nostri termini la lingua nazionale che tutti dobbiamo sapere» (cf. anche Cescutti 2008, 103–108).

6.1 I vocabolari dei Pirona L’anno successivo alla pubblicazione del vocabolario di Scala, si concluderà finalmente l’edizione del primo completo Vocabolario friulano dell’abate Jacopo (Pirona 1871), uscito postumo per cura del nipote Giulio Andrea Pirona. La stampa tuttavia era stata già avviata alcuni anni prima, essendo stato pubblicizzato l’annuncio dell’impresa e l’invito alla sottoscrizione il 1° agosto 1867 (per questo ed altri dati riguardanti il «vecchio» e Il Nuovo Pirona cf. NP, XIII–XVI). C’è subito da avvertire che ancora oggi Pirona (1871) (ricompreso nel rifacimento di NP), è considerato il «vocabolario friulano» per antonomasia, il «discrimine» nel panorama delle opere consimili, divenuto testo di riferimento per tutta la lessicografia friulana successiva. Il dizionario di J. Pirona era stato preceduto dalle Voci friulane significanti animali e piante e dal Vocabolario botanico friulano pubblicati alcuni lustri prima dal nipote Giulio (Pirona 1854; 1862). Ma un saggio oggi perduto del Vocabolario friulano era apparso molto tempo prima dell’inizio della stampa definitiva, come risulta da un denigratorio sonetto di Antonio Broili del 1846, rivolto contro «Il gnûf vocabolari friulàn / Stampât pe prime volte za pôs dîs / Al è tant miserabil che duc’ dîs / Ché zonte pur no ’l val un carantàn. / Chel sior dotôr che lu à metût a man / podeve zirà prime pai paîs / Discori cui bifòlcs fres’chìns e grîs / E notà le peraule plui a man, etc.» (cf. Ce fastu? 4 (1928), 131; NP, XIII).

Il ciclo si concluderà con Il Nuovo Pirona (NP), opera a più voci, dagli specialisti considerato come uno dei migliori esempi di vocabolari dialettali italiani.

6.1.1 Il Nuovo Pirona A questo punto è opportuno soffermarsi sulle vicende che portarono all’edizione di Il Nuovo Pirona. Esso è in sostanza la continuazione di Pirona (1871), voluta e riavviata da Giulio Andrea Pirona nel 1890, quando il Ministro Boselli bandì un concorso a premi per la compilazione di vocabolari dialettali. G. A. Pirona lavorò a lungo all’im 

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presa, senza però vederne la conclusione a causa della scomparsa sopravvenuta quando aveva settantatré anni nel 1895. Per quanto la redazione del repertorio alla scadenza per il concorso fissata al 30 giugno 1893 si fosse fermata alla lettera O, nel giudizio della Commissione ministeriale per il Vocabolario «l’opera parve ben degna di considerazione», così che le fu assegnato un premio di mille lire (NP, XVs., nota 6). Al manoscritto, comprendente 3.615 colonne, custodito presso la Biblioteca Civica di Udine (ne aveva pubblicato un breve saggio nel 1896 Domenico Del Bianco, Pagine friulane 8, 187), cominciò ad interessarsi dopo la prima guerra mondiale la Società Filologica Friulana, che con il consenso di Venanzio Pirona, figlio di Giulio Andrea, nel 1927 ne favorì la ripresa, affidandone la revisione – fusa con i consistenti ampliamenti apportati dai due curatori – ad Ercole Carletti (per la parte letteraria) e a Giovan Battista Corgnali (per gli aspetti lessicali), mentre si finì per rinunciare alla prefazione di Ugo Pellis, annunciata fino alla dispensa 81–82 (delle 92 apparse per pubblicizzare il vocabolario). Edito a dispense da Arturo Bosetti sotto gli auspici della Società Filologica, il primo fascicolo vide la luce nel gennaio del 1928, l’ultimo nel 1935. Il nuovo vocabolario pone parziale rimedio a quello che era stato il principale difetto di Pirona (1871), cioè l’aver privilegiato la varietà udinese a discapito delle altre. Inoltre arricchisce sensibilmente il contenuto dei lemmi con fraseologia, attestazioni letterarie e documentarie antiche. Gli indici onomastico, il botanico e lo zoologico (questa volta presentati secondo l’ordine alfabetico dei nomi scientifici dei concetti) riprendono – aumentandole – analoghe sezioni di Pirona (1871): lo stesso dicasi per il più consistente Repertorio italiano-friulano. Nuovi risultano invece il ricco indice toponomastico e il più ridotto indice onomastico (a partire dal 1952 si cominciò a pubblicare una consistente serie di Aggiunte tratte dalle parlate locali di numerosi paesi e ora fuse nelle Aggiunte e correzioni della seconda edizione di NP, cf. Frau 2010, 66). Nel periodo compreso fra le due edizioni dei Pirona appare un discreto numero di lavori di interesse lessicografico (se ne scorra l’elenco in NP, XXI–XXIX), ma di portata e valenza modeste. Cominciamo col ricordare il vocabolario metodico italiano dal titolo Il piccolo Carena di Fornari (1877), in cui i termini dialettali di diverse regioni, fra i quali il friulano, sono posti in nota alla voce italiana. Il repertorio – ristretto alla terminologia friulana della casa e della campagna – sarà imitato, ma con modesti risultati, dal Vocabolarietto metodico di Collini (1899).

7 Il primo Novecento La raccolta lessicografica più interessante per i contenuti e per l’eleganza del volume edita in questo periodo va considerata una pubblicazione plurilingue che ebbe per promotore e mecenate l’arciduca Luigi Salvatore d’Asburgo Lorena (figlio dell’ultimo Granduca di Toscana): si tratta di un originale repertorio di carattere tematico, in quanto riservato alla raccolta di Frasi d’affetto e vezzeggiativi (d’Asburgo Lorena 1996), come l’editore ha titolato la versione italiana di Lacroma et al.

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(1915) uscita a Praga durante la prima guerra (Ugo Pellis ne curò il glossario). Nello stesso anno in cui appariva la prima dispensa di NP, la rivista Studi Goriziani pubblicava il Vocabolario integrativo friulano-italiano (Carrara 1928), che per la verità quasi nulla aggiungeva a quanto già noto, limitandosi esso a proporre una grafia diversa da quelle già in uso. Di tenore più alto risulta il Vocabolario scolastico friulano-italiano (Lazzarini 1930) sufficientemente rappresentativo del friulano specie della varietà centrale (esemplificato anche coll’ausilio di una selezionata fraseologia). Nella dichiarata intenzione dell’autore (direttore didattico) esso si propone quale ausilio da una parte per i maestri delle scuole elementari, dall’altra per gli scolari al fine «di potere, con il concorso della parlata locale, giungere alla lingua italiana» (Lazzarini 1930, 8). Si avverte infine che per la conoscenza del lessico friulano nel suo complesso e in particolare delle varianti locali risultano fondamentali le parti riservate al vocabolario nelle tesi (quasi tutte rimaste inedite) discusse a partire dagli anni Quaranta presso l’Università di Padova in buona parte sotto la guida di C. Tagliavini (una sintetica rassegna in Frau 2010, 56, nota 12) e successivamente di G.B. Pellegrini. L’impresa lessicale – ideata e portata a termine da G.B. Pellegrini – di gran lunga la più importante e rilevante apparsa dopo NP sarà l’ASLEF: per essa e le opere posteriori a NP ↗0 Introduzione al volume e stato della ricerca.

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Paola Benincà

4.3 Storia linguistica interna Abstract: Il capitolo contiene una ricostruzione dello sviluppo diacronico del friulano, concentrata sul confronto fra latino attestato o ricostruito e le caratteristiche grammaticali romanze, cioè le linee fondamentali di fonologia, morfolologia e sintassi tuttora riconoscibili come struttura unificante delle varietà della regione. I testi antichi su cui è basata la ricostruzione sono quelli che meglio si prestano a fornire i dati utili, sia per la loro antichità, sia per la varietà e la coerenza sistematica. La sezione 2 è dedicata a fenomeni della fonologia diacronica, collegati al contesto immediato o alla struttura della parola. La sezione 3 tratta l’evoluzione della morfologia verbale e nominale, sia in seguito a processi analogici, sia in seguito a innovazioni avvenute nella sintassi. La sezione 4 è dedicata alla sintassi, e illustra le peculiari caratteristiche friulane, comparando il friulano antico col friulano moderno e con altre varietà nord-italiane e romanze. Keywords: friulano antico, fonologia, morfologia, sintassi

1 Introduzione La ricostruzione dell’evoluzione della grammatica si concentrerà sulla fase che va dagli inizi della documentazione scritta in volgare fino al XV –XVI secolo, quando si è avuto il passaggio dalla grammatica medievale alla grammatica moderna; per la fonologia e la morfologia, le regolarità individuate ci permettono di proiettare il sistema all’indietro, allo stadio che porta dal latino al romanzo. La ricostruzione dei sistemi antichi dei dialetti friulani (soprattutto morfologia e fonologia) si basa sul saggio di Ascoli (1873, 474–537), con le sue preziose annotazioni ai testi antichi editi da Joppi (1878). Un profilo grammaticale del friulano del ’300, basato sui testi editi da Schiaffini (1921; 1922) si trova in Benincà/Vanelli (1998). Utili e rigorose sintesi di storia linguistica friulana sono Pellegrini (1979) e Rizzolatti (1981). Il presente profilo si basa su edizioni testuali classiche, tuttora valide allo scopo, sia per l’alta datazione dei documenti, sia per la comparativamente ricca tipologia di contesti linguistici, sia anche per il livello eccellente degli editori: le edizioni di Joppi (1878) e D’Aronco (1960; 1982); la nuova edizione della ballata Biello dumnlo di Barbieri/Vanelli (1993); l’edizione diplomatica di registri di varie istituzioni di Giovanni Frau (1971); gli esercizi di versione della scuola notarile di Cividale, secolo XIV , pubblicati, assieme a parte di una grammatica contrastiva latino-friulana, da Alfredo Schiaffini (1921; 1922). Quest’ultimo testo è stato rivisto sugli originali e pubblicato, assieme all’edizione di Schiaffini, con un ampio commento linguistico in Benincà/ Vanelli (1998). Sono stati utili su singoli punti i lavori di Corgnali (1968), le parabole

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ottocentesche pubblicate nella prima edizione del Pirona (1871), successivamente ristampata, e le versioni ottocentesche della novella di Boccaccio, contenute in Papanti (1875, 517–531). La Società Filologica Friulana, in particolare, si è molto impegnata negli ultimi anni nella pubblicazione di testi antichi, soprattutto registri di confraternite (in gran parte curati da Federico Vicario); per i testi in generale ↗4.4 Testi antichi. I primissimi testi «letterari» friulani sono della fine del XIV secolo, e i tentativi di retrodatarli non hanno fondamento obiettivo: sono due ballate, ispirate alla lirica cortese di stampo provenzale. È probabile che Treviso e la Marca Zoiosa abbiano avuto la funzione di tramite con l’Alta Italia e con la cultura francese e quella provenzale. In base ai dati e alla ricostruzione sistematica, si può affermare che la lingua dei testi antichi è schiettamente e coerentemente friulana. Esempi di lirica del XIV –XV secolo (Joppi 1878, in appendice), chiaramente venetizzanti, non sono stati considerati.

2 Fonologia Vedremo che fin dalle più antiche attestazioni il friulano mostra caratteristiche morfologiche e fonologiche che nel loro complesso sono direttamente collegabili a quelle che si riscontrano nelle varietà odierne; sono semmai interessanti le differenze nella localizzazione geografica di alcuni fenomeni, come vedremo. I centri che hanno dato il maggior numero di attestazioni sono Cividale, Gemona e Udine; Aquileia, all’epoca in cui si hanno le prime testimonianze scritte in volgare, è ormai decaduta dalla sua antica posizione di prestigio. Citeremo esempi tratti dagli esercizi editi da Schiaffini (1922), che si citerà come Sch. seguito dal numero della frase, da Joppi (1878), D’Aronco (1960: D’Ar.), Frau (1971), con il numero della pagina; salva indicazione contraria, i testi sono del XIV secolo. Le annotazioni fonologiche che si ricavano dagli antichi documenti e dalle analisi che sono state proposte possono anche fornire criteri utili alla corretta interpretazione degli stessi testi antichi. Vorrei sottolineare che la grafia non può darci prove dirette della fonetica e fonologia del friulano antico, sia perché la lingua veniva scritta solo occasionalmente e in ambito privato e non aveva norme grafiche fissate, sia perché in ogni lingua i fenomeni regolari tendono a non venire indicati con grafemi propri, in quanto vengono spontaneamente ricostruiti da chi conosce la lingua. Va dato inoltre il giusto peso all’attrazione esercitata da modelli grafici ben fissati, in uso per il latino e per altri volgari italiani.

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2.1 Il vocalismo: le vocali finali Anche se molte vocali finali vengono variabilmente ripristinate nella grafia, dobbiamo pensare che fossero cadute da tempo: anche nei testi latini più antichi, in cui siano inseriti toponimi e soprattutto cognomi e soprannomi nella loro forma genuina, troviamo tracce della caduta delle vocali finali diverse da -a. Vediamo alcuni esempi che attestano questo fenomeno. Nel rotolo censuale del Capitolo di Aquileia – datato 1201, ma copia di documento precedente (D’Ar. 6–8) – ricco di toponimi e soprannomi di forma friulana inseriti nel testo latino, possiamo notare: Vitalis Rizot, in cui viene latinizzato solo il nome, mentre il cognome o soprannome ha forma friulana (ʻricciottoʼ); Domeni Mus; Marianus che alterna con Marian ʻMaranoʼ (toponimo); Stomarel; Polit ʻIppolitoʼ; Feles, da FILICETUM (toponimo). Fra i contribuenti del monastero di S. Maria in Valle di Cividale (1284: D’Ar. 9–13) abbiamo Blancuç ʻBiancuccioʼ, Marcuç ʻMarcuccioʼ; nell’elenco degli iscritti alla Confraternita dei Battuti di Cividale (1290c.: D’Ar. 14) troviamo soprannomi come Çot ʻzoppoʼ < *CIOTTU , pup < *PUPPU ʻragazzoʼ (?). La caduta di una -I lascia in posizione finale consonanti palatalizzate: è il caso, per esempio di alcuni plurali maschili (cf. sotto, 3.1). Troviamo così -gl o -lg /ʎ/ < -LI : oggi l’esito è /j/, ma dobbiamo supporre che fino al XV secolo la pronuncia fosse /ʎ/, dato che non troviamo grafie errate gl, lg per /j/ moderno che non corrisponda a palatalizzazione di /l/. Abbiamo quindi i pl. vasegl VASELLI , magl ʻmaliʼ, egl ILLI , chegl ECCU ILLI , etc. Da -LJ - abbiamo ugualmente /ʎ/: lugl < JULIU , mogl < MULIER (dal nom.), megl < MILIU , etc. Il valore /ʎ/ si ha anche all’interno di parola, davanti a vocale non anteriore, come in intaglare, glu art. masc. pl. (oggi ju, di oscura spiegazione), figla, etc. È interessante il valore /j/ da attribuire al grafema g (anche non seguito da i): Charargo (Carraria, cit. da Frau, 194n.), fiergis (/ˈfjeris/, pl.: D’Ar. 84), Nojarges (/nojaˈrjeːs/, toponimo: D’Ar. 7), Mugmacho (/mujˈmako/, toponimo: D’Ar. 11): cf. su questo Ascoli (in appendice a Joppi 1878, 354s. e n. 1), e sotto, 2.2. In posizione finale e davanti ad a, può essere attribuito a g il valore /c/ (velare palatalizzata); in posizione finale abbiamo: dug glu sie amis (D’Ar. 49) che va letto /ˈduc ʎu/ etc. ʻtutti i suoi amiciʼ. Non è chiaro se grang pl. valga /granc/ o /graɲ/: i grafemi gn/ng hanno il valore di nasale palatalizzata in ang, agn ʻanniʼ e umign ʻuominiʼ, ma altertagn ʻaltrettantiʼ, vign ʻventiʼ vanno probabilmente letti con /nc/ in posizione finale, in quanto plurali palatali da -nt (torneremo sul valore di elemento palatale generico da attribuire a g). Si trova fin dai più antichi testi la vocale -i di appoggio in nessi consonantici che, con la caduta delle vocali finali, risulterebbero in posizione finale non ammessa, MATRE E , *madr, favri < FABRU , *fabr (oggi fari) (D’Ar. 14); spesso già semplificati: mari < MATR anche fradri (Frau 180) ha la stessa origine < FRATRE ; l’attuale fradi potrebbe risultare dalla perdita della seconda r per dissimilazione, come predi < PRE ( SBI ) TRE (cf. anche il

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francese prêtre, che rappresenta lo stadio intermedio, rispetto a FRATRE > frère). Una spiegazione alternativa per fradi, predi è suggerita da Frau (1971, 180); si partirebbe dal nominativo, *FRATER , *PRETER (come in italiano); la vocale postonica si innalza > fradir, predir, in base a una regola del friulano (cf. uarfin < ORPHANU ), e la -r finale cade, come ad es. negli infiniti. Fenomeni del tutto analoghi produce la -i finale degli infiniti rizotonici dei verbi in Ĕ della 3. coniug., come crodi (Sch. 69) < CREDĔRE , *crodr, *crodir; tueli (Sch. 70) < TOLLĔRE , *tollr, *tollir; bati (Sch. 53) < *BATTĔRE , *batr. Questa interpretazione degli esiti degli infiniti in -ĔRE ci è suggerita dalle – sia pur isolate – oscillazioni che rincontriamo, le quali attestano le diverse possibilità: accanto ad aricev (Joppi 192) ʻricevereʼ, senza vocale di appoggio, abbiamo iestri ʻessereʼ < *esr (Joppi 196 e 199), con -r conservata e -t- che ottimizza l’attacco sillabico appropriato; scrivir (Joppi 189, da leggere scrìvir < SCRIBĔRE ), con la vocale d’appoggio (sul modello di miedi(c) < MEDICU , uàrfin < ORPHANU , o la 3. pl. del presente '-ANT > '-in). Anche i nessi con -l- in posizione finale richiedono la stessa vocale d’appoggio: spali < *SPAG ( U ) L ( U ) , soreli < *SOLI ( C ) ULU . Si noti che la -i di appoggio non provoca palatalizzazione della consonante, in quanto è necessariamente un nucleo sillabico, diversamente da -i del plurale, o i etimologica seguita da vocale, come in mogli (D’Ar. 14; Sch. 70), da intendere /moˈʎi/ < *MǑLJERE (con la caduta di -r finale: cf. Sch. 43: muglir).

2.1.1 Esiti di -A L’unica vocale che non viene cancellata in posizione finale è, come in tutta la «grande Galloromania», la vocale -a. Gli esiti di -A atona finale sono oggi -a, -e, ‑o. L’area di -o è ridotta a una piccola zona della Carnia (comuni di Forni Avoltri e Rigolato) e alcune borgate di Montereale Valcellina (cf. Castellani 1980). A partire dalla metà del XIV  secolo, -o per -A è forma normale dei testi antichi cividalesi: il prestigio culturale di Cividale, la città da cui provengono più numerosi i testi antichi (da qui le due ballate e i documenti delle scuole notarili), ci fa pensare che l’esito -o di -A fosse una forma di prestigio, presto insidiata dall’influsso del veneziano, che coincide con l’italiano e col latino, e probabilmente dalla varietà udinese, che nel XIV secolo aveva nei testi -a, e nel XV , come oggi, -e. L’esito -o regredì (intorno al XV –XVI sec.) allo stato di variante marginale conservativa. L’influsso veneto (o italiano, o latino) appare in tutti i testi pervenuti, per il fatto che -o alterna sempre con -a, e inoltre per il fatto che -o non sempre rappresenta l’esito di -A ma può essere anche la restituzione della vocale finale dei maschili (cioè -Ŭ etimologica); forme maschili con e senza vocale finale compaiono anche nello stesso testo (cf. ad es. Joppi 10: et d un naph … et lo naffo), e nella stessa frase -o può avere i due valori (Joppi 5: a la zelo per un ano ʻalla cella per un annoʼ). In particolare, i nomi propri possono diventare ambigui fra un maschile venetizzante e un femminile friulano.

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Già nei testi antichi compare un fenomeno che è anche del friulano moderno, cioè il diverso timbro della vocale finale nel femminile dell’articolo definito e del nome. Tenendo presenti i fattori che abbiamo indicato sopra, notiamo che mentre il nome e l’aggettivo femminile possono terminare in -o, -a, -e, l’articolo definito è sempre la: la figlo ʻla figliaʼ, la riceto ʻla ricevutaʼ, la vigno ʻla vignaʼ, la priòlo ʻla prioraʼ (Frau 184). Anche nelle varietà odierne l’articolo mantiene più spesso la vocale bassa, e le località che oggi hanno i femminili in -o hanno sempre la come articolo. La ragione è che -a dell’articolo definito non è da considerare una vocale atona finale, dato che l’articolo, monosillabo, riceve un debole accento all’interno del sintagma nominale; a riprova di questo, si noti che l’articolo indefinito UNA , che riceve il suo debole accento non sulla desinenza, ma sulla vocale radicale U -, presenta nella desinenza le stesse oscillazioni del nome: une letire ʻuna letteraʼ a Udine (Joppi 203, a. 1411), uno galino ʻuna gallinaʼ a Cividale (Frau 184), etc. Inoltre, ci sono alcuni esempi antichi di articolo femminile lo, ma solo se l’articolo è preceduto da una preposizione, a cui esso viene encliticizzato perdendo l’accento: de lo vegleço ʻdella vecchiaiaʼ (Sch. 81), pe lo so contrado ʻper la sua contradaʼ (Sch. 75), de lo çelo ʻdella cellaʼ (Joppi 189). Si noti che in questo stesso contesto l’articolo maschile, normalmente proclitico con la forma lu, viene encliticizzato e perde la vocale finale: del, etc. L’esito -o di -A è anche l’esito della desinenza di 3. singolare del presente indicativo di 1. coniugazione, delle persone singolari del presente congiuntivo di 2. e 3. coniugazione, della 1. e 3. singolare dell’imperfetto indicativo: monto ʻammontaʼ, studo ʻspegneʼ < *EXTUTA ( T ), clamo ʻchiamaʼ; avigno < ADVENIA ( T ) , ebo ʻabbiaʼ < *aiba, HABEA ( T ) , ueglo ʻvogliaʼ, scunfundo ʻconfondaʼ (ess. da Sch.); yo alavo ʻandavoʼ, un avevo barbo ʻuno aveva barbaʼ (Sch. 62). Nonostante i dubbi sollevati da Francescato/ Salimbeni (1976, 128s.), la lingua delle ballate ci appare il riflesso di una grammatica coerente per fonologia, morfologia e sintassi: si può citare il congiuntivo presente – fonologicamente regolare – metto ʻmettaʼ, dio ʻdicaʼ, vigno ʻvengaʼ (sostituito più tardi dalle forme con -i), l’alternanza di enclisi e proclisi regolata dalla sintassi, etc.

2.1.2 Vocali toniche Si osservano già dagli esempi più antichi indizi dello sviluppo particolare delle vocali toniche quando si trovano in sillaba aperta latina che diventa sillaba chiusa finale in friulano per la caduta delle vocali finali diverse da -A : Francescato (1966) ha descritto i fenomeni che si verificano in questo contesto, che egli chiama «posizione forte». Per le vocali medie gli esempi antichi sono: Ó Ò

< Ō, Ŭ churtyel, VET VE T ( Ĕ ) RU > viedris (pl.), RE CĔPTU CĔPT U > ariziet, EXSPĔCT EXSPĔC TET ET > FAES STA TA > fiesto spyet (cong. pres.), FAE TŎSTU > tuest, NŎS NŎSTRU TRU , *VŎSTRU > nuestri, vuestri, P PŎSS ŎSSU U > pues, SC S CHŎLA HŎLA > scuelo, T TŎLL ŎLLE ERE RE > tueli.

Davanti a r in coda la vocale e del dittongo si abbassa ad a (l’abbassamento è categorico per uèr > uàr, facoltativo per ièr > iàr): tyaro ʻterraʼ, çiart ʻcertoʼ, subiarbio ʻsuperbiaʼ (ma anche fier etc.); fuarço ʻforzaʼ, uarfin ʻorfanoʼ, quarp ʻcorpoʼ, etc.; per -er in posizione forte, e ugualmente per il suff. -iere di origine romanza, non si ha abbassamento ma l’esito î: mugli(r) (*MULJÉRE ), gir (HERI ), volantir ʻvolentieriʼ. Davanti a n + C dentale, la vocale e del dittongo si alza a i: da Ŏ abbiamo quindi uin + C (cuincin < COMPTIANT : Sch. 22), da Ĕ abbiamo i (< ii), per esempio nella serie sistematica di participi-gerundi disint, vuglint, etc., inoltre arint < *RENDIT (Biello AR GENTU . dumnlo) e arint < ARGENTU Le rimanenti vocali toniche (< Ā , Ă , Ē , Ī , Ō , Ū del latino), si mantengono in friulano, e dove non si presentano le condizioni per l’allungamento esse sono da considerare brevi.

2.2 Consonantismo 2.2.1 Consonanti iniziali o postconsonantiche La regola di palatalizzazione di /ka, ga/ presenta esiti foneticamente variati, che vanno dall’articolazione avanzata della velare fino alla palatalizzazione completa;

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nelle due ballate è usato con coerenza lo stesso segno per la velare palatalizzata sorda e sonora e per l’esito della dentale + i nel pronome clitico ti: nel Piruç si usa chi: chi vyot ʻti vedoʼ e chiançunito ʻcanzonettaʼ; nel Biello dumnlo si usa cgi: stacgi ʻstattiʼ, cgiantarai ʻcanteròʼ, mancgià ʻmangiareʼ. L’aggiunta di h alle velari non ha, nei testi antichi, alcun valore particolare, tranne davanti a vocale anteriore, dove impedisce la lettura palatale affricata. Anche i testi di Schiaffini mostrano chiari segni, ma non coerenti, della palatalizzazione di ka: il suono viene indicato con g o gh. Abbiamo già accennato che g può valere j, e può indicare la palatalizzazione di l, n; nel Biello dumnlo viene aggiunto a c per indicarne la palatalizzazione: possiamo dire quindi che il grafema , oltre al valore di velare sonora che certamente può avere nei contesti appropriati (p. es. davanti a vocale posteriore, ma non necessariamente), aveva anche un valore di suono palatale generico, nella gran parte dei casi ricavabile dal contesto fonetico. Abbiamo quindi in Sch. gar ʻcaroʼ /car/, 18; ghaçado ʻcacciataʼ /caˈʦado/, 7; ghacat ʻcacciatoʼ, 80 (ma anche chaçador e chaçar); si ghatin ʻsi trovanoʼ (< CAPTARE ), 54 e si chata, 63; mangant ʻmancandoʼ, 22, mangin ʻmancanoʼ, 63, e manchant ʻmancandoʼ, 5; si noti anche sopergo ʻsoverchiaʼ, 81, che proviene direttamente dall’italiano soperchio, -a non dalla base *SUPERCULU , perché in quest’ultimo caso troveremmo cl conservato. Nei casi che abbiamo esemplificato, g indica dunque un’occlusiva palatale sorda /c/. Un esempio isolato di questa grafia in D’Ar. 12 in un etnico latinizzato (1284): Gadubrinus ʻCadorinoʼ (nello stesso testo anche Mugmacho, da leggere ʻMuimacoʼ, cf. sopra, 2.1). La grafia g è stata usata a lungo per indicare nei cognomi di origine slava la /c/ finale ć, ed è noto che aveva questo valore, per esempio, nella grafia dei testi bergamaschi (tug ʻtuttiʼ /tuc/, etc.). Si è molto discusso sulla datazione della palatalizzazione di CA , GA , con lo scopo di dimostrare che qui il processo è indipendente – essendo molto più tardo – dall’analogo fenomeno francese. Si è concluso che in friulano non possa essere anteriore di molto al sec. XIII (cf. Pellegrini 1979, 1008), sulla scorta soprattutto di un contributo di Anton Grad (1969), che ha studiato alcuni antichi prestiti friulani nello sloveno: essi sono databili alla fine del XII secolo e non presentano nella grafia la palatalizzazione di /ka, ga/ (ad es. sloveno pogača, senza palatalizzazione di /ga/ > /ja/, da confrontare col friul. mod. fujace < FOCACEA ; slov. degan, friul. mod. deàn, < DECANU ; slov. podgana, friul. mod. pantiane < *PONTICANA ) . L’argomento non sembra decisivo (cf. anche Finco 2009), perché non è chiaro come si possa stabilire che i termini considerati vengano dal friulano, o non piuttosto dal veneto, che costituiva la lingua di comunicazione di tutta l’area orientale (come mostrerò sotto, abbiamo indizi per dire che ka, ga intervocalici fossero già -ja- almeno alla metà del XII sec.). A spostare più indietro la comparsa della palatalizzazione mi sembra che induca la considerazione del resto dell’Italia settentrionale, dove si sono trovate e si continuano a trovare tracce dell’esistenza del fenomeno (cf. Vigolo 1986), che però già nel 1200 appaiono come relitti di un processo concluso e in regressione (cf. Schmid 1956, 53–80, e in particola-

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re 71). Sia che si consideri l’Italia settentrionale come un’unità linguistica, per questo come per altri fenomeni, sia che si voglia invece pensare, come Pellegrini (1986), che la palatalizzazione di ka, ga abbia avuto origine nella pianura e sia stata poi «trasmessa» alle aree marginali ladine, friulane, romance, dove è sopravvissuta, in ogni caso sembra difficile supporre che questo fenomeno abbia avuto inizio nel friulano quando nel resto dell’Italia settentrionale era già estinto. Il fatto che se ne trovino indicazioni grafiche esplicite e coerenti solo alla fine del XIV  secolo mostra anzi che a questo punto il processo fonologico non era più produttivo: gli esiti di qua > ka, gua > ga e la continua immissione di parole venete o italiane con ka, ga conservato costringono a distinguere nella grafia i ka, ga palatalizzati da quelli velari, quindi a fissare nell’ortografia un processo fonologico ormai concluso. Probabilmente la palatalizzazione di ka, ga nella «grande Galloromania» è da considerare uno di quei fenomeni che compaiono spontaneamente e indipendentemente (cioè non in seguito a un diretto influsso linguistico o culturale) in lingue strutturalmente affini, per motivi spesso misteriosi, ma verosimilmente dipendenti da analogia di condizioni grammaticali in senso lato: in questa prospettiva il problema della datazione diventa irrilevante allo scopo di stabilire legami linguistici fra i fenomeni nelle diverse aree (cf. anche Benincà 21996, 15–17; più recentemente Videsott 2001). Per quanto riguarda le labiovelari, l’elemento labiale si è perso anticamente davanti a i, e nei pronomi interrogativi (che possono essere usati per gli esclamativi o per i relativi indefiniti): QUI ( D ) > /ʧe, ʦe, se/ ʻche cosaʼ, QUI ( S ) > /ʧi, ʦi, si/ ʻchiʼ, quasi ovunque sostituito da cui < CUI ; si noti che ci, si non ha mai comunque il valore di pronome relativo, per cui è da correggere l’interpretazione in Frau (183s. n.): il si di quel testo trecentesco è la frequentissima particella sì. Inoltre zir < QUAERE (Piruç), sozentri < SEQUENTE ( cf. Frau 195 n.), il toponimo Zerclaria < QUERCULARIA (cf. Marcato 1990, 22). Davanti a vocale non anteriore, l’elemento labiale si perde: coder ʻquadernoʼ (Joppi 195), chà, achà ʻquaʼ (D’Ar. 26, 57), da labiovelare secondaria; si conserva in quatri, quand, quant. L’introduttore con ʻquandoʼ è più probabilmente da riportare a CUM , come il veneto co; una prova in questo senso per i due casi è che questo elemento non può introdurre interrogative dirette o indirette, come invece ci aspetteremmo se fosse derivato da QUANDO , che è pienamente pronominale. Gli esiti delle velari davanti a vocali palatali (lat. CE , CI ), sempre in posizione iniziale o postconsonantica, si distribuiscono oggi fra un’area conservativa con /ʧe, ʧi/, un’area innovativa con /se, si/, e un’area intermedia con /ʦe, ʦi/. È interessante che è quest’ultima – e non quella conservativa – quella che è rispecchiata nei testi antichi. Tenendo presente che spesso le cediglie sono trascurate dai copisti, e Schiaffini stesso avverte di averne aggiunte senza segnalarlo, si osserva che i grafemi c, ç e z vengono usati indifferentemente sia per gli esiti di CE , CI , TJ (QUE , QUI , etc.) sia per t + s nei plurali sigmatici; non possiamo che ricostruire quindi un valore /ʦ/, quello appunto che oggi è dell’area da considerare per altri aspetti intermedia dal punto di vista della conservatività: abbiamo infatti sutiligeco /sutiliˈjeʦo/ < SUBTILIS + -ITIA ,

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ghaçado < CAPTIATA , çera < CERA , doç < DULCE , daç ʻdadiʼ (dad-s), cunsorç, ʻconsortiʼ (< -ʦ), fiç ʻaffittiʼ; zelo ʻcellaʼ, zep ʻceppoʼ, marz < MARTIU , daz ʻdatiʼ, etc. Si noti inoltre che gli stessi segni sono usati per i corrispondenti esiti sonori: maço MAJU , zamay ʻgiammaiʼ, inçen ʻingegnoʼ, zenar ʻgennaioʼ, etc.

2.2.2 Consonanti in posizione intervocalica latina Tutte le consonanti doppie del latino sono diventate foneticamente brevi (a prescindere dalle loro rappresentazioni grafiche). Tutte le consonanti semplici del latino in posizione intervocalica vengono sonorizzate, se sono sorde, e subiscono poi lo stesso trattamento delle sonore originarie. Per le occlusive abbiamo questi esiti: VP V > b > v: PAPYRU > paver; CCABALLU ABALLU > cjaval; FRATAL IA > fradagllo; CRE DERE > crodi; FRATALIA VT V > d: VK V > g > (ø) (per gli esiti davanti ad -a cf. sotto): SICURU > siur.

Il trattamento di -d- intervocalico è caratteristico del friulano e lo distingue dal veneto, dove d viene facilmente cancellata in questo contesto. Si ricordi che i, u semivocali valgono come consonanti per il contesto. Le consonanti sonore o sonorizzate che vengono a trovarsi in fine di parola per la caduta delle vocali finali diventano sorde e la vocale precedente diventa lunga (vedi sopra). Talvolta l’assordimento non viene indicato nella grafia, forse solo per motivi di ricostruzione etimologica, o meglio morfo-fonologica. Rispetto alle condizioni odierne, si osserva nei testi antichi una più frequente caduta di consonanti in posizione finale friulana, come in pani < PANĪCU (Biello dumnlo), fu < FOCU (Sch. 67); -r, la cui cancellazione è oggi limitata agli infiniti dei verbi, cadeva molto frequentemente: volanti ʻvolentieriʼ, signo ʻsignoreʼ, çita ʻcittaio, pentolaioʼ); -t non cade mai in questa posizione, e viene talvolta erroneamente ricostruita al posto di un’altra consonante caduta: termit per termin; nei toponimi, (San) Vit è in molti casi una falsa ricostruzione su un Vi < Vic < VICU ( cf. Corgnali 1937). Parallelamente alla palatalizzazione di /ka, ga/ in posizione iniziale o postconsonantica, in posizione interna postvocalica troviamo VKA > ga > ja. Questa j subisce poi la stessa sorte di j intervocalica di diversa origine, cioè assorbe la vocale che la precede, se si tratta di una vocale anteriore (DOMINICA > *domeneja > doménia), mentre dopo vocale non anteriore può variabilmente restare o cadere, anche nelle varietà moderne: PACARE > paiâ, paâ. Se pensiamo, come è ragionevole, che la palatalizzazione di ka, ga sia da considerare un fenomeno unitario, che dà come esito /ca, ɟa/ in posizione iniziale e post-consonantica, e /ja/ in posizione postvocalica, esso andrà retrodatato nel suo insieme almeno all’epoca in cui riconosciamo tracce di uno degli esiti previsti. Un indizio importante può essere allora il nome proprio Stephanus Ziala < *zejala, cioè ʻcicalaʼ, tipo onomastico diffuso,

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che troviamo in un testo della metà del XII secolo (D’Ar. 6), pervenuto in una copia del 1201. Anche se le copie possono avere ritocchi, non ci aspettiamo assolutamente interventi sui cognomi, che anche nei testi latini vengono adattati di rado e solo superficialmente. Nello stesso testo (D’Ar. 7) troviamo il già citato Noiarges < NUCARIA , che attesta più chiaramente lo stadio /j/ dell’esito di CA postvocalico; questo è importante in quanto -g- intervocalica può cadere anche davanti a vocali diverse da a, ma solo davanti ad a dà l’esito j (diversamente da quanto scrive Francescato 1966, 207, § 14.32). È interessante che le grafie con g e con j si alternano anche nello stesso testo, nelle stesse parole o in parole con la stessa struttura sillabica e accentuale, come apaga e apaia (< ADPACAVIT : in Frau 191; 192), nudriar e nudrigat (< NUTRICARE , - ATU : Sch. 1921, 12; 17), etc. Concludendo, quando ad es. troviamo bagarciis per il 1182, e baiarcio per il 1200, non possiamo considerare questi dati come indici di due diverse pronunce di -ga-, e in particolare non possiamo utilizzare una grafia ga come prova che la palatalizzazione non era ancora avvenuta; possiamo solo considerare queste varianti degli indizi invece del fatto che la regola non era più operativa. L’insieme degli indizi indicati porta a concludere che la palatalizzazione di ca, ga fosse già conclusa alla metà del XII secolo. Sulla base delle puntualizzazioni fatte sopra si può metter ordine negli esiti, le rese grafiche e relative correzioni di un termine che compare frequentemente nei testi antichi, anche friulani, cioè il derivato di HOC ANNO col significato di ʻl’anno scorsoʼ, talvolta ʻquest’anno (= il prossimo)ʼ. L’esito, perfettamente regolare, è uian, con palatalizzazione di CA postvocalico; la forma si trova in Frau 182 e nei testi editi da Schiaffini (cf. Benincà/Vanelli 1998, 98); le supposte varianti (u)nyan (Sch. 17, o più correttamente u(n)yan), unjan (NPirona), unguant, etc., derivano da fraintendimenti (cf. Benincà 1995, 53s.).

3 Morfologia 3.1 Flessione nominale L’articolo maschile singolare ha ancora le due forme, l e lu: il primo compare, sempre nella forma l, solo come enclitico di una preposizione o di una congiunzione terminanti per vocale: al, del (ma per lu, in lu); chu l Patriarca ʻche il Patriarcaʼ (Sch. 2), ni l pastor ʻné il pastoreʼ (Sch. 12). Anche per il plurale esistono due forme, gli e glu, più liberamente variabili (si trovano ambedue in iniziale assoluta). Glu, che era molto frequente nei testi antichi, anche udinesi, oggi si conserva, nella forma ju, solo in alcune località della Carnia, come forma esclusiva nei comuni di Forni Avoltri e Rigolato. La spiegazione fonologica di queste forme non è del tutto chiara, ma sembra da confrontare con fenomeni che si osservano nel friulano occidentale, dove la -u viene aggiunta per formare un nucleo sillabico, tipicamente in parole funzionali come

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kest ʻquestoʼ, pl. kescju; la coppia lu, pl. ju sarebbe quindi da analizzare come sg. l, pl. lj a cui si aggiunge -u per avere una sillaba stabile, e una forma stabile (per la storia dell’articolo cf. Vanelli 1998a, in particolare 169–240). Per l’articolo femminile abbiamo sg. la (vedi sopra per -a), pl. normalmente li (che può generare ambiguità con un pl. masc. di foggia veneto-italiana), più raramente lis; a Udine las, e, come venetismo o italianismo, le. Anche il plurale dei nomi e aggettivi femminili in -a/-o è generalmente in -i, oppure -is, mentre nelle varietà odierne tende più chiaramente ad uniformarsi all’esito che ha -a nel singolare. In particolare oggi i femminili in -o hanno il plurale in -os, tranne che a Montereale Valcellina dove si conserva il paradigma antico -o, -is (cf. Castellani 1980, 52). I nomi e aggettivi femminili in consonante hanno il plurale in -s: lis gnoç ʻle nottiʼ (leggi /ʦ/; Sch. 31), etc. Un doppio plurale in -ans si trova in Sch. 60: o domlans, ʻo donneʼ: la -s è aggiunta a un morfema -an, originariamente un caso obliquo femminile galloromanzo, diffuso in varietà alto-italiane, tuttora conservato come morfema di plurale femminile in varietà lombarde, etc. (cf. Meyer-Lübke 1895, vol. 2, 18, 110; Rohlfs 1968, § 371). Abbiamo già accennato a esempi di consonanti palatalizzate per effetto di una -i, poi caduta, nei plurali maschili: le consonanti di cui viene indicata la palatalizzazione sono n, l, t, d; non compare nei testi antichi segno di palatalizzazione di -s nei plurali maschili, che oggi si trova invece sistematicamente in zone relativamente ampie (Benincà/Vanelli 1978; 1995). Ampie e sistematiche sono nei testi le forme di maschile plurale in -s: i plurali dei nomi e aggettivi in -t sono spesso indicati con ç (/ʦ/); in alcuni casi cade la consonante finale, come in us (< uf-s ʻuovaʼ), citas (< citars ʻpentolaiʼ), scolas ʻscolariʼ, batados ʻbattitoriʼ, lus (< luc-s) ʻluoghiʼ (D’Ar. 57). Ma, come si è detto sopra, la caduta di consonanti finali era molto frequente indipendentemente dall’aggiunta di -s di plurale.

3.1.1 Pronomi I pronomi soggetto hanno in friulano antico solo la serie tonica: per il singolare abbiamo 1. yo, 2. tu; 3. masc. el, femm. ella, ello; al plurale 1. no(s), 2. vo(s), 3. masc. egl; non trovo esempi di pronome soggetto femminile plurale nei testi anteriori alla metà del XV secolo. Le forme oggettive hanno invece due serie distinte, la clitica e la tonica. Le forme oggettive clitiche distinguono il caso retto (oggetto diretto) dal caso obliquo (oggetto indiretto) solo nella 3. persona: le forme oggettive sono masc. sg. lu, masc. pl. glu; femm. sg. la, femm. pl. li(s). Il caso obliquo ha per i due generi gli; per il plurale maschile è documentato (Sch. 46) lu ʻloroʼ (dat. clitico), che corrisponde a lur con caduta di -r ed è continuato dal friulano moderno ur, con comportamento di clitico. Le altre persone non distinguono in genere i due casi: 1. sg. mi, 2. sg. ti; 1. pl. nu(s), 2. pl. vu(s); solo nei testi di Schiaffini troviamo distinti per la 2. sg. il

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dativo gi/ci (Sch. 20, 45) dall’accusativo ti (Sch. 20, 25; cf. Benincà/Vanelli 1998, 75). Le forme oggettive pronominali toniche sono poco documentate: solo in testi quattrocenteschi troviamo indizi della differenza, che sussiste ancor oggi, fra le forme rette dalla preposizione a (a mi, a ti), e le altre forme oggettive, rette da altre preposizioni o direttamente dal verbo (me, te). Ind ʻneʼ è documentato nei testi antichi, con forme diverse a seconda del contesto: nei testi di Sch. abbiamo per es. travat-int ʻtolti-neʼ, d an portat peno ʻne hanno portato penaʼ, no s-in darà un ʻnon se ne darà unoʼ; nel Biello dumnlo: vacgi-nt ʻvatteneʼ, cgi-n zir ʻ(te ne cerca), cèrcateneʼ. Il clitico mostra già segni della restrizione moderna (↗9. Morfologia e sintassi, 1.1.3.2), in quanto non compare in casi in cui ce lo aspetteremmo, come con tu cognos poc ʻcome (ne) conosci pochiʼ, com maçarin gir un gli becars ʻcome (ne) ammazzarono ieri uno i macellaiʼ.

3.2 Morfologia flessiva del verbo Con i testi del XIV –XV secolo ci troviamo, per la morfologia verbale, ad uno stadio ancora molto conservativo, mancando molte delle innovazioni che si osservano già a partire dal XVI  secolo. Si possono distinguere, come oggi, quattro coniugazioni a partire dalla formazione dell’infinito: I -ĀRE > -à (mangià); II -ĒRE > -é (vedé); III -ĚRE > -i (bévi < *bevr, *bevir); IV -ĪRE > -ì (durmì). Gli accenti sono ovviamente tutti ricostruiti, ma sono sicuri, perché gli esempi si trovano tutti in verso, nella ballata Biello dumnlo.

3.2.1 Presente indicativo Lo schema delle desinenze personali è il seguente (le vocali tematiche, indicate nello schema con V, sono -a- per la I coniug., -e- per la II-III, -i- per la IV): singolare plurale 1. -ø 1. -ìn 2. -V-s 2. -Vːs 3. -V-ø 3. '-in Nel singolare, gli esiti delle vocali tematiche rispecchiano quelli delle vocali finali dei nomi: cadono quindi tutte, tranne -A . La 1. singolare non ha vocale tematica e la desinenza -ø è la regolare continuazione di -O latina, in tutte le coniugazioni. Solo dal XVI secolo si trova attestata l’aggiunta di una vocale d’appoggio -i (cf. Benincà/Vanelli 2005 [1975], 243–256; il fenomeno è comune a tutte le varietà romanze con caduta delle vocali finali diverse da -A ) . Per ʻessereʼ e ʻavereʼ abbiamo già a quest’epoca una 1. singolare in -i: soy ʻio sonoʼ si sarà modellato su ay ʻhoʼ, in cui -i è etimologica, da un romanzo comune aio. Altri

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esempi di 1. singolare -ø sono: chiat (< CAPTO ), domant ʻdomandoʼ (Soneto); am ʻamoʼ, m’inamor ʻm’innamoroʼ (Sch. 1921); viot (< VEDO , Piruç); pri ʻpregoʼ (< *preg, con esito vocalico in posizione forte e caduta della consonante finale: Biello dumnlo). La 2. singolare nella I coniugazione è -is (< -AS ), con un esito identico a quello dei plurali dei femminili; nelle altre coniugazioni è -s, come i plurali dei maschili: impiglis (< IMPILIAS : Sch. 21); inparis (*IMPARAS ); cognos (< COGNOSCIS ), pars < *PARIS (Biello dumnlo). La 3. singolare nella I coniugazione è -o, -a, -e, a seconda delle aree linguistiche, come i singolari dei femminili, nelle altre coniugazioni è ø, come i singolari dei maschili: es. (da Sch.): abundo < ABUNDA ( T ) , achalo < AD CALAT , clamo < CLAMAT , vent < VENDIT , tray < TRAHIT , vul < *VOLIT . Sia pure sulla base di poche forme, possiamo dire che la 1. plurale ha già in friulano antico un unico tipo di morfema, -ìn, una innovazione che cancella le diverse vocali tematiche distintive delle coniugazioni: vignìn ʻveniamoʼ, avìn ʻabbiamoʼ (Sch. 15, 31), etc. Tuttora sono attestate varietà moderne che conservano desinenze di 1. plurale distinte fra tre (-àn, -én, -ìn) o due (-àn, -ìn) coniugazioni (cf. Benincà 1995, 54s.). Tracce antiche di un sistema analogo in una lettera del 1400 circa, da Plezzo (località oggi linguisticamente slovena): si rechomandàn ʻci raccomandiamoʼ, no savén ʻnon sappiamoʼ (D’Ar. 56s.). La tendenza a unificare le desinenze della 1. plurale è largamente rappresentata in tutti i dialetti italiani e in tutta la Romania. Per la 2. plurale, da - ATIS , - ETIS , - ITIS troviamo gli esiti regolari -às, -és, -ìs, che – oltre alla caduta della vocale della sillaba finale – mostrano una precoce e fissata soluzione di -ʦ in -s, ristretta a questo contesto morfologico: es. (da Sch.): sforças, voles, vedes. Le vocali sono toniche e da supporre lunghe. Non è invece ancora attestata l’inserzione di -j- nella desinenza di 2. plurale nella 1. coniugazione (-/'ajs/), un’innovazione oggi estesa a tutta l’area friulana (cf. Benincà/Vanelli 2005 [1975], 258–263). L’innovazione sarebbe partita dalla 2. plurale dell’imperativo, che troviamo infatti attestata già in questi testi (vedi sotto, 3.2.4). La 3. plurale presenta omogeneità delle coniugazioni con la desinenza -in atona. In questo contesto, -i- può essere la confluenza di esiti regolari di vocali diverse (cf. ORPHANU > *orfan > uàrfin, etc.): da Sch. ricaviamo: quincin < COMPTIANT , disvigin < -ANT , vendin, scrivin < - UNT .

3.2.2 Presente congiuntivo Il presente del congiuntivo nelle attestazioni antiche mostra una mirabile regolarità nella derivazione fonetica dal latino, oggi cancellata da desinenze innovative. Gli esempi non sono molto numerosi: per la I coniugazione abbiamo alla 3. singolare, da lat. -ET regolarmente in friul. -ø: ch’el abandun ʻabbandoniʼ, spyet ʻaspettiʼ (Sch. 69 e 53); nel Biello dumnlo: si dio cgi aiut ʻse (o ʻcosìʼ) dio ti aiutiʼ e, con una -i di appoggio al nesso cons. + r, mostri < MONSTRET . Le altre coniugazioni hanno esiti regolari di

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-A ( M ), - AS , - A ( T ): per la 2. pers. sg. chu tu no debis ʻche tu non debbaʼ, per la 3. sg. vigno < VENIAT , dio < DICAT , dal Biello dumnlo: scunfundo ʻconfondaʼ, ueglo < *VOLIAT , ebo < *aiba < *ABIAT .

3.2.3 Passato remoto Il passato remoto è molto documentato, in particolare nei rendiconti, soprattutto per alcuni verbi ricorrenti (ʻdareʼ, ʻpagareʼ, ʻricevereʼ). In questo paragrafo, inseriamo, per chiarezza, gli accenti, dove sono ipotizzabili con sicurezza. La 1. singolare è generalmente in -i, la 3. -ø, anche se la base etimologica dovrebbe essere la stessa per le due voci: 1. DEDI , 3. DEDI ( T ); 1. PAGAVI , 3. PAGAVI ( T ) ( ma cf. Rohlfs 1968, 565ss., per analoghi sviluppi nelle varietà italiane). Abbiamo per ʻdareʼ 1. d(i)ei, 3. d(i)è; 1. pagay, 3. pagà; una 1. singolare in -ø è recevè ʻricevettiʼ (Frau 181). I perfetti forti presentano in alcuni casi una desinenza -s analogica, come in vens ʻvenni, venneʼ (Sch. 26 e 1921, 23), cors ʻcorseʼ, tols ʻtolseʼ, vos ʻvolleʼ (cf. toscano e italiano antico volse). La -s è etimologica in dis ʻdisseʼ, romans ʻrimaseʼ, dus < DUXI ( T ), fes ʻfeceʼ. Etimologicamente regolare è stiè ʻstetteʼ. Esempi di 2. sg., da Sch., sono: vedés ʻvedestiʼ, disés ʻdicestiʼ, façés ʻfacestiʼ, gitàs ʻgettastiʼ. Alla 3. plurale abbiamo frequentemente la desinenza -in, analogica sul presente indicativo: ulírin ʻvolleroʼ, adusérin ʻaddusseroʼ, fúrin ʻfuronoʼ. Sono attestate le forme senza l’aggiunta del morfema analogico: aiudár ʻaiutaronoʼ (Gemona: Joppi 196), for ʻfuronoʼ (Joppi 194) e fur (Cividale: Frau 201), bivir ʻbevveroʼ (Frau 198).

3.2.4 Imperativo (e altro) Nel Biello dumnlo si trovano alcuni importanti esempi di imperativo: stayt accanto a lasat. Oggi le varietà moderne hanno la desinenza -àit per l’imperativo in tutti i verbi della I. coniugazione, oltre che per la 2. plurale dell’indicativo, che nei testi antichi è invece regolarmente -ât. Si tratta di una desinenza analogica (‑ATE darebbe infatti - ât), originata nei verbi atematici (dâ, fâ, lâ, stâ); come primo passo del processo, questi verbi si sono modellati sull’imperativo di 2. plurale fàit, dove la desinenza è etimologica (< FACǏTE , come plàit < PLACITU ), e da qui la desinenza si è estesa a tutta la 1. coniugazione, imperativo e indicativo. Lo stadio attestato nella ballata è una prova in favore dell’ipotesi (cf. Benincà/Vanelli 1975, 31ss.). Nei testi antichi non ci sono esempi di tempi «bicomposti», formati cioè con due ausiliari (↗9 Morfologia e sintassi, 1.2.1). Interessante, se sicuro e se l’interpretazione è corretta, un passivo-impersonale di verbo intransitivo con dativo di agente, nella lettera dei mercanti della Carniola (D’Ar. 15s.): a Ropretto seres stat vent a Civitate ʻda (parte di) Ropretto (nome proprio) sarebbe stato venuto a Cividaleʼ (cioè ʻR. sarebbe venuto a C.ʼ).

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4 Sintassi 4.1 Sintagma nominale e preposizionale Una peculiarità della sintassi nominale del friulano antico è la presenza di genitivi senza preposizione, in particolare complementi di nomi di parentela: Imprimis recevè io Bartolomeo de Brios fradi Iosep de Flumisel… ʻPrima ricevetti io Bartolomeo da Ambrogio fratello di Giuseppe da Fiumicello…ʼ (Frau 181). Qui de, che alterna con di, corrisponde all’it. da; altrove può corrispondere a di, come in Francescho mogli Iachu di dono Belent ʻFrancesca moglie (di) Giacomo (figlio) di donna Belendeʼ (Frau 194). Notevole Pieri lu filg fra Iachu, se vale ʻPiero il figlio (del) fratello (di) Giacomoʼ. Con nomi non di parentela abbiamo in prisinza Eler ʻin presenza di Elleroʼ (D’Ar. 33), suma la fava, come titolo, ʻsomma della favaʼ (Frau 199). Tracce di genitivo senza preposizione ancor oggi si trovano nel dialetto di Collina, p. es. con nomi retti da sorto ʻsorte, tipoʼ, come sorto fonc ʻtipo di fungoʼ, sorto puemo ʻtipo di ragazzaʼ etc. (comunicazione personale di Piera Rizzolatti). Ancor oggi la preposizione di svolge buona parte delle funzioni dell’it. da, e viceversa da ha molti dei valori dell’it. di. Non è escluso che il fatto sia connesso con la persistenza del genitivo senza preposizione, che ha permesso un ampliamento dell’uso di di, e ha poi provocato un’utilizzazione del tutto particolare di da che nei testi antichi non si trova. Va ricordato che la vocale finale di queste preposizioni è conservata perché non è da considerare atona, così come abbiamo visto sopra a proposito dell’articolo definito femminile.

4.2 Sintagma verbale: accordo del participio Dato il largo uso nei testi antichi del passato remoto, si hanno scarsi esempi di passato prossimo, e quindi di participio. Possiamo osservare che, come nella lingua moderna, si trova l’accordo del participio passato del verbo transitivo con l’oggetto, in particolare quando questo è relativo: di cgiosis ch’el ebo fatis ʻdi cose che egli abbia fatteʼ (D’Ar. 49); chestis animis lis quals yo ay nominadis ʻqueste anime le quali io ho nominateʼ (1400: Joppi 57); potrebbe essere un esempio contrario acuglé ch’ay simpri sirvit ʻcolei che ho sempre servitoʼ (Piruç: ci aspetteremmo sirvide ʻservitaʼ): ma probabilmente sirvir è da intendere con reggenza dell’oggetto indiretto (ʻservire aʼ), che nella relativa può scomparire, lasciando la congiunzione relativa che, chu (vedi sotto). Non trovo esempi pertinenti per l’accordo del participio con l’oggetto clitico, che nella lingua moderna è la regola: un esempio di Sch. (72) è con tutta probabilità da correggere: la qual (…) bon favri l’à favrià ʻla quale buon fabbro l’ha fabbricataʼ: ci aspetteremmo favriada con accordo, o tutt’al più favriat senza accordo; meglio leggere quindi la favrià ʻla fabbricòʼ (cf. Benincà/Vanelli 1998, 78s.).

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4.3 Sintassi della frase I testi più antichi friulani sono purtroppo scarsamente utili per ricavare una descrizione della sintassi medievale della frase. Fino al XV secolo, epoca in cui tutte le lingue romanze mostrano un cambiamento linguistico in atto che porterà nel giro di un secolo alla fissazione di una diversa struttura sintattica, in Friuli abbiamo quasi esclusivamente elenchi e registri contabili. I pochi testi di tipo diverso hanno limitazioni che possono interferire con le caratteristiche sintattiche fondamentali della frase: per le ballate bisogna tenere nel dovuto conto i condizionamenti del verso sull’ordine delle parole, per gli esercizi di versione in latino due fattori opposti sono in gioco: l’influsso del latino, a cui l’allievo notaio doveva arrivare, e un’enfatizzazione di alcune peculiarità sintattiche del friulano, che l’allievo doveva invece correttamente interpretare ed evitare nella sua traduzione; quest’ultimo fattore è però in effetti utile: le peculiarità sintattiche su cui gli esercizi si concentrano sono probabilmente enfatizzate, ma sono anche sicuramente reali fenomeni della lingua.

4.3.1 Struttura della frase semplice Come abbiamo visto in 3.1.1, il friulano antico ha un’unica serie di pronomi soggetto, riconducibili al nominativo latino: come nelle lingue romanze coeve, i pronomi soggetto non possono accompagnare altri pronomi soggetto, e neppure altri soggetti (ma vedi qualche eccezione più avanti), come invece succede in alcune lingue romanze moderne e nel friulano stesso (cf. Benincà 1994 [1986], 109–125). Abbiamo tuttavia indizi che ci permettono di vedere il friulano medievale in sintonia con un ampio gruppo di lingue romanze medievali, la cui sintassi è delineata in Vanelli/ Renzi/Benincà (1994 [1985]), Benincà (2006). Fra questi indizi indichiamo la mancanza di verbo iniziale, con conseguente presenza di parole semanticamente vuote come riempitivi della posizione preverbale; una netta tendenza ad avere il verbo come secondo costituente della frase; infine una caratteristica asimmetria fra frase principale e frase dipendente, per cui le principali possono non avere un soggetto espresso, purché il verbo sia preceduto da un qualsiasi costituente, mentre le dipendenti hanno il soggetto pronominale, anche se questo è identico al soggetto della principale o è ricavabile dal contesto. Quest’ultima caratteristica è più facilmente esemplificabile: Fonchs e ceredans, la gnot ch’egl nasin, cresin miravigliosomentri ʻFunghi e cerretani, la notte che essi nascono, crescono…ʼ (Sch. 9); lu conestabil… ven talis oris abatut di caval, per la prodeco degl inimis, degll quagll el ve arsaglut ʻil conestabile… viene talvolta abbattuto da cavallo, per la prodezza dei nemici dai quali egli viene assalitoʼ (Sch. 4). Il pronome soggetto compare nella dipendente, ma non nella principale, pur essendo il soggetto nominale separato dal verbo anche nella principale. Nel Piruç troviamo strutture ancor più chiare: per vo mi ven tant ardiment e si furç soy di grant vigor ch yo no crot… ʻper voi mi vien tanto ardimento e così forte _ sono di grande

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vigore, che io non credo…ʼ; nel Biello dumnlo: sirvido vuestri sarai fin cg io viviraj al mont, ben mi par cg io se un cont quant cg io viot… ʻservitore vostro _ sarò finché io vivrò al mondo, ben mi pare che io sia un conte quando io vedo…ʼ. È possibile individuare indizi della legge Tobler-Mussafia, un fenomeno collegato con la stessa caratteristica della sintassi romanza di quest’epoca: i pronomi clitici non possono trovarsi infatti all’inizio di frase, e vengono protetti da un costituente (talvolta un riempitivo), oppure il verbo stesso si sposta in avanti, in casi ben precisi (cf. Benincà 1994, 213–245; Benincà 2006). Nel Biello dumnlo troviamo vacgint vio cul mal an e si cgin zir uno altro flor ʻvattene via…e sì te ne cerca…ʼ: il primo verbo, iniziale, ha i pronomi enclitici, il secondo, preceduto da sì, un tipico riempitivo della prima posizione, ha i pronomi proclitici. Il pronome soggetto maschile è talvolta usato come soggetto non referenziale: Quant non è del pan in archa, el no pores gessi pior nuvyelo (Sch. 3) probabilmente da interpretare come una struttura predicativa ʻquando non (cʼ)è del pane nella madia, questo non potrebbe essere una notizia peggioreʼ (Sch. 3). Sono interessanti i casi in cui esso compare benché ci sia un soggetto lessicale presente, ma posposto al verbo: Gli viners, chu non è a vendi del pes, el si vendin pluy gl us ‘i venerdì, quando non c’è da vendere del pesce, (egli) si vendono più le uovaʼ (si noti che il verbo si accorda al plurale, cioè col suo soggetto posposto). Un soggetto non argomentale compare all’inizio di frase principale in El tray gran vint (Sch. 68) ʻegli tira un forte ventoʼ. Si compari infine – dal Biello dumnlo – el mi ven di te pecgiat ʻegli mi viene di te penaʼ, con ben mi par cg io se un cont ʻben mi sembra che io sia un conteʼ: nella seconda frase ben occupa la posizione preverbale e rende non necessaria l’espressione di un soggetto pronominale non referenziale; nella prima frase non c’è un primo costituente e il soggetto non argomentale viene inserito con questa funzione. L’obbligatorietà del clitico soggetto (in particolare, quello di 3. persona) è un’evoluzione moderna di un sistema che fino alla fine dell’800 aveva il clitico soggetto obbligatorio solo se non c’era un soggetto realizzato; nei testi anteriori all’800 troviamo il verbo senza clitico soggetto se c’è un soggetto, sia che esso lo preceda, oppure lo segua, come in: Jeve a misdì, …Clorinde la sdavasse ʻsi alza a mezzogiorno Clorinda la sciattonaʼ (cf. Benincà 1994 [1986], 120; cf. inoltre le parabole ottocentesche pubblicate nella prima edizione del Pirona (1871), e le versioni ottocentesche della novella di Boccaccio in Papanti (1875, 517–531)).

4.3.2 Frase relativa In molti esempi di relativa il pronome relativo ʻcheʼ o ʻil qualeʼ sta per un sintagma preposizionale, ma non ha la preposizione coerente con la sua funzione: zardin chu se flor ʻgiardino che (= in cui) sia un fioreʼ (Biello dumnlo); lu poc sen ch egl abundin ʻil poco senno che (= di cui) essi abbondanoʼ (Sch. 13); glli quagll algun è fuart, algun è

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grant ʻil quali (= dei quali) qualcuno…ʼ (Sch. 47); la grant savianca la qual el abundo ʻla grande sapienza la quale (= della quale) egli abbondaʼ; lu qual legnan fo fato lo spalto ʻil quale (col quale) legname fu fatto il recintoʼ. Nei testi di Schiaffini si nota una particolare frequenza del relativo ʻil quale, la qualeʼ, sorprendente se si pensa che esso facilitava il traduttore, esplicitando la relazione sintattica del relativo: si tratta evidentemente di un italianismo, forse usato nella lingua parlata in situazioni formali. Al n. 77 viene usato come soggetto di un verbo alla 2. singolare: di te lu qual as çurat ʻdi te il quale hai giuratoʼ, uso eccezionale, che può forse attestare l’artificiosità del pronome stesso. La congiunzione relativa compare nelle forme chi, che, chu, la cui distribuzione è per il momento oscura. La variante cha è più tarda e sembra sia sempre da interpretare come unione di che + il clitico a (che ha la stessa forma anche in friulano moderno); i pochi esempi antichi di cha sono tutti da correggere: cha dus (Joppi 189, Frau 198) = ch adus ʻche portòʼ (cf. chu aduserin ʻche portaronoʼ, Joppi 192); cha davour (Frau 188, trad. ʻche ha dietroʼ) è chiaramente, dal facsimile (p. 185), che davour (cioè ch è davour ʻche è dietroʼ); cha vent chu t’es vignut (Joppi 215) ʻche da dove che sei venuto…ʼ è da leggere ch avent…(< ABINDE ʻda doveʼ). Le relative con soggetto relativizzato mostrano chiaramente in friulano antico la doppia struttura, oggi scomparsa: la relativa restrittiva è senza pronome soggetto di ripresa, e l’appositiva ha il pronome soggetto di ripresa. Oggi il friulano non distingue le due classi di relative: le relative sul soggetto hanno sempre la ripresa del pronome, mentre quelle sull’oggetto non l’hanno mai. Nei testi antichi le relative sul soggetto con la ripresa pronominale (che è tipica delle appositive) sono quelle che espandono un nome proprio: a Zuan Cillo ch el ziè a Udine ʻA Z. C. che (egli) andò a Udineʼ; Dumini Brich ch el fo a Puriesin ʻD. B. che (egli) fu a P.ʼ. Esempi di restrittive sul soggetto (senza ripresa pronominale) sono: al so canzilir chi ni fes lu sigel su ʻal suo cancelliere che ci fece…ʼ, lu solar chi è sot li chanpanis ʻil tavolato che è sotto le campaneʼ; a 24 pedoni che debevin alar a Cavadistria ʻa 24 fanti che dovevano andare a C.ʼ (ess. da Joppi). Le relative con oggetto relativizzato sono molto più scarse, sono restrittive, e non hanno mai la ripresa pronominale: chel che io debeva aver ʻquello che dovevo avereʼ; doy chiavalg chi io chiatai (Joppi 199) ʻdue cavalli che io trovaiʼ; glu quagl io gli mandai ʻi quali io gli mandaiʼ. In esempi di frasi infinitive finali manca l’oggetto pronominale che riprende il costituente di cui la frase stessa è complemento: livra una d oglo per far meti ʻuna libbra d’olio per far(la) mettere…ʼ; una maza di tela di lin per meti ʻ… per metter(la)…ʼ. Una costruzione analoga si ha in italiano nelle infinitive con da: una libbra di olio da far mettere…

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4.3.3 Frase interrogativa Data la natura dei nostri testi, gli esempi di interrogativa sono molto scarsi. L’interrogativa diretta ha l’inversione del soggetto pronominale: con es tu achì vignut e parce es tu tant ardit? (Biello dumnlo) ʻcome sei-tu qui venuto e perché sei-tu tanto ardito?ʼ Ce fas tu achì…? ʻChe fai-tu qui…?ʼ (Soneto furlan). Gli eventuali clitici complemento restano invece al loro posto, anche se così si trovano in prima posizione, il che non è ammesso nelle principali: la savares tu smenbrà…? ʻla sapresti-tu tagliare…?ʼ (cf. Benincà 2006 per un’analisi di questa caratteristica, condivisa con altre varietà romanze). Un esempio di interrogativa indiretta è … yo no say con el à non ʻio non so come egli ha nome (= come si chiama)ʼ: il soggetto pronominale della interrogativa dipendente si trova in posizione preverbale (come ci si aspetta). Usano i pronomi (e la struttura) interrogativi le relative indefinite: il pronome interrogativo è seguito dalla congiunzione relativa: ci chu vul ʻchi (che) vuoleʼ; ch avent chu t’es vignut tu pueschis tornà (Joppi 215, 1431) ʻche da dove (che) tu sei venuto tu possa tornareʼ.

5 Bibliografia Ascoli, Graziadio Isaia (1873), Saggi ladini, Archivio Glottologico Italiano 1, 1–556. Barbieri, Alvaro/Vanelli, Laura (1993), Una nuova edizione di «Biello dumnlo», Ce fastu? 69, 143– 165. Baroni, Marco/Vanelli, Laura (2000), Vowel Lengthening and Final Obstruent Devoicing in Friulian, in: Lori Repetti (ed.), Phonological Theory and the Dialects of Italy, Amsterdam/Philadelphia, Benjamins, 13–44. Benincà, Paola (1994 [1986]), Punti di sintassi comparata dei dialetti italiani settentrionali, in: Paola Benincà (1994), La variazione sintattica. Studi di dialettologia romanza, Bologna, il Mulino, 105– 138. Benincà, Paola (1994), La variazione sintattica. Studi di dialettologia romanza, Bologna, il Mulino. Benincà, Paola (1995), Friaulisch, in: Günter Holtus/Michael Metzeltin/Christian Schmitt (edd.), Lexikon der Romanistischen Linguistik, vol. 2.2: Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, Tübingen, Niemeyer, 42–61. Benincà, Paola (21996), Piccola storia ragionata della dialettologia italiana, Padova, Unipress. Benincà, Paola (2006), A Detailed Map of the Left Periphery of Medieval Romance, in: Raffaella Zanuttini et al. (edd.), Negation, Tense and Clausal Architecture: Cross-linguistic Investigations, Washington D.C., Georgetown University Press, 53–86. Benincà, Paola/Vanelli, Laura (1975), Morfologia del verbo friulano: il presente indicativo, Lingua e contesto 1, 1–62. Benincà, Paola/Vanelli, Laura (1978), Il plurale friulano. Contributo allo studio del plurale romanzo, Revue de Linguistique Romane 42, 241–292. Benincà, Paola/Vanelli, Laura (1995), Il plurale palatale in friulano: saggio di analisi autosegmentale, in: Scritti di linguistica e dialettologia in onore di Giuseppe Francescato, Trieste: Edizioni Ricerche, 25–46.

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4.4 Testi antichi Abstract: I documenti di uso pratico in volgare di epoca tardomedievale costituiscono fonti fondamentali per lo studio del friulano delle origini, per il lessico e l’onomastica, prima di tutto, ma anche per la fonologia e per la morfosintassi. Numerosi sono i ricercatori e gli studiosi che, dalla metà dell’Ottocento, si sono occupati dell’edizione e del commento di questi materiali, conservati nei principali archivi e biblioteche della regione friulana (Udine, Cividale del Friuli, Gemona del Friuli, Tricesimo, Venzone). Ultimata recentemente la sistematica pubblicazione delle cospicue collezioni della Biblioteca Civica «Vicenzo Joppi» di Udine e dei trecenteschi quaderni gemonesi, è avviato finalmente il progetto della redazione del Dizionario storico friulano, uno strumento che si propone di illustrare la ricchezza della lingua a partire dall’ingente tradizione manoscritta delle origini; si tratta di un lavoro che risulta fondamentale e preliminare anche nella prospettiva di un’analisi etimologica e storica della lingua. Keywords: manoscritti, storia della lingua, edizioni, lessico, onomastica

1 Premessa I documenti di uso pratico in volgare di epoca tardomedievale costituiscono senza dubbio le fonti dirette più importanti per la conoscenza del friulano delle origini. Molto modesto, in termini quantitativi, è infatti il numero dei testi poetici e d’autore giunti fino a noi databili tra Tre- e Quattrocento, testi sui quali, per altro, molto si è già scritto. Si tratta, per questi ultimi, di liriche di stile cortese non estranee a influenze provenzali: si possono ricordare la ballata Piruç myo doç inculurit ‘Pera mia dolce colorita’, attribuita al notaio cividalese Antonio Porenzoni, il contrasto amoroso Biello dumnlo di valor ‘Bella signora di valore’, forse di Simone di Vittore, altro notaio cividalese, e la frottola rusticana anonima E la four dal nuestri chiamp ‘E là fuori dal nostro campo’ (cf. Marchetti 1935; D’Aronco 1992; Barbieri/Vanelli 1993 e relative bibliografie). Ulteriori pagine di poesia in friulano, comunque rare, sono ancora offerte dal Quattrocento, dove possiamo contare uno scongiuro, del 1431, e una nuova frottola, probabilmente del 1484 (cf. R. Pellegrini 1987, 72–78). Tornando ai documenti di uso pratico di area friulana, dobbiamo dire che il latino resta saldamente il codice più adoperato almeno fino al sec. XV , con i tipici caratteri della scripta latina rustica, un latino che sovente presenta – soprattutto nell’onomastica, ma anche nel lessico relativo alla cultura materiale – l’immissione di elementi tratti direttamente dalla lingua del popolo, talora semplici travestimenti latini di forme friulane. Le scritture usuali in friulano, comunque, fanno la loro comparsa alla fine del Duecento e si fanno frequenti soprattutto a cavallo tra Tre- e Quattrocento: si tratta, in particolare, di elenchi di contribuenti appartenenti a confraternite di arti e

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mestieri o istituzioni religiose, di minute di notai, camerari e cancellieri, di rendiconti di affitti, livelli, messe di suffragio, incarichi di lavoro, di missioni e altro ancora. L’insieme di questa documentazione fornisce a studiosi e ricercatori materiali davvero molto consistenti per meglio seguire lo sviluppo del lessico, dell’onomastica e delle strutture della lingua, offrendo al contempo elementi per valutare l’interferenza di altri codici che, nella scripta, si affiancavano al friulano del tempo. Mi riferisco, in particolare, al così chiamato «tosco-veneto» – la definizione si deve a Giuseppe Francescato (cf. Vicario 2001a) –, un codice franco di ampia circolazione nella Cisalpina, che presenta una varia combinazione di tratti venezianeggianti tendenti ad una norma lato sensu toscana. Nella seconda metà del Quattrocento, anche a seguito della dedizione del Patriarcato di Aquileia alla Repubblica di Venezia, avvenuta nel 1420, assistiamo comunque al progressivo abbandono del friulano, per le scritture usuali, a favore di un codice di più ampia diffusione, emendato dei caratteri municipali più marcati. Piuttosto rari sono, di fatto, i documenti di uso pratico in friulano già tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento, una diminuzione ampiamente compensata, però, da una produzione letteraria che nello stesso Cinquecento troverà la sua definitiva affermazione – pensiamo, per dire solo dei principali, ad autori come Girolamo Biancone, Girolamo Sini, Nicolò Morlupino, Giovan Battista Donato e Joseffo di Strassoldo (cf. Virgili 1968; Chiurlo/Nicoloso Ciceri 1975; D’Aronco 1982).

2 Gli studi di filologia friulana Nel clima di generale interesse per aspetti legati all’illustrazione della cultura e delle tradizioni popolari, la metà dell’Ottocento vede anche gli inizî degli studi di filologia friulana. Antesignano di questi studi possiamo considerare il tarcentino Vincenzo Joppi (1824–1900), medico e ricercatore di vasta erudizione, appassionato di storia e di tradizioni del Friuli. Il suo primo lavoro in questo campo risale al 1864 ed è il Saggio di antica lingua friulana, un fascicoletto di una ventina di pagine pubblicato per i tipi della Seitz di Udine e dedicato dall’autore al conte Girolamo Codroipo, come usava al tempo, in occasione delle sue nozze. Si tratta, in particolare, di un «saggio di lingua patria quale parlavasi e scrivevasi nel secolo XIV XV », dice Joppi; nel fascicolo vengono riportati una serie di brani di documenti, talora appena frammenti, provenienti soprattutto da Udine, da Cividale del Friuli e da Gemona del Friuli. Nel 1867 appaiono a Venezia, in due fascicoli, le «centurie» di canti popolari raccolte dal cividalese Michele Leicht (1827–1897), dove vengono riportate anche una serie di note di amministrazione, sempre risalenti al Tre- e al Quattrocento, per lo più cividalesi e gemonesi. Cividalesi sono anche le brevi note, poco più di qualche appunto, che Giusto Grion (1899) presenta in appendice alla Guida storica di Cividale e sempre di questi anni, o forse immediatamente precedenti, sono le trascrizioni di tale abate Placereano, relative a carte quattrocentesche della confraternita di Santa

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Elena di Montenars – il manoscritto del Placereano è conservato, ancora inedito, presso la Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine (Fondo principale, ms. 397). Dopo i pionieristici lavori di Joppi e di Leicht, compare nel 1874 sugli Annali scientifici del Regio Istituto Tecnico di Udine il saggio Un testo friulano dell’anno 1429 dello studioso tedesco Alexander Wolf (1826–1904), che molto lavorerà, in biblioteche e archivi, anche per la raccolta di toponimi da tutta la regione. Nel contributo del 1874 Wolf presenta la trascrizione non integrale, ma ampia, di un consistente gruppo di carte tratte da un registro di Venzone, prodotto dalla locale confraternita di Santa Maria; la trascrizione, abbastanza accurata, è accompagnata da alcune considerazioni generali sulla diversità delle varietà dialettali della regione e sull’utilità dello studio dei documenti antichi per la conoscenza della storia della lingua. Il lavoro del Wolf, sicuramente di maggiore impegno rispetto ai precedenti, attirò l’attenzione di Graziadio Isaia Ascoli, che non trascurò di segnalarne l’uscita sul secondo numero dell’Archivio Glottologico Italiano 1876 (cf. anche Vicario 2009). Appena un paio di anni dopo il contributo di Wolf, si segnala l’uscita della nota raccolta dei Testi inediti friulani dei secoli XIV al XIX di Vincenzo Joppi (1878) sul quarto volume dell’Archivio Glottologico Italiano, con l’importante corredo di note linguistiche a cura dello stesso Ascoli (1878), che ne aveva caldeggiato la pubblicazione – cf. anche Occioni-Bonaffons (1880). Di particolare interesse risultano le trascrizioni di manoscritti di uso pratico dalla seconda metà del Tre- alla prima del Quattrocento, talora solo qualche riga per ogni documento, trascrizioni che occupano la prima parte dell’antologia di Joppi (1878, 188–219); compresi tra il 1290 e il 1437, sono poi ulteriori undici pezzi raccolti nella prima delle due appendici al lavoro, i Testi italianeggianti, scritti nel Friuli dal 1290 alla metà del secolo XV (pp. 329–333). I brani presentati da Joppi sono in maggioranza inediti, come dichiara il titolo della raccolta, o al più ripresi dal suo stesso fascicolo del 1864; un certo numero di questi manoscritti si trova ancora depositato presso la Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine, altri sono confluiti e conservati nel fondo Documenti storici friulani dell’Archivio di Stato di Udine. Appassionato continuatore degli studi di Joppi fu Giovan Battista Corgnali (1887– 1956), anch’egli per molti anni, come Joppi, direttore della Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine. Valente paleografo e lavoratore infaticabile, Corgnali rivide molte delle edizioni a suo tempo presentate da Joppi, aggiornando le collocazioni dei manoscritti e fornendo i testi di un nuovo apparato di commenti e note. I suoi studi filologici sono stati raccolti alla sua morte da Gaetano Perusini nel volume Scritti e testi friulani, un numero monografico del Ce fastu? (1965–1967), la rivista della Società Filologica Friulana. Di notevole interesse linguistico e storico, tra i numerosi pezzi dei quali si occupò, vi sono senza dubbio il Documento friulano del 1284, il consistente Frammento di «rotolo» di famiglia cividalese dei primi del Quattrocento, ottimo esempio di cividalese antico, e gli Esercizi di versione dal friulano in latino del XV  secolo. Il nome di Corgnali è comunque legato alla pubblicazione del vocabolario friulano Nuovo Pirona 1935, che realizzò per la Società Filologica Friulana in collaborazione

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con Ercole Carletti, vocabolario che lui stesso corredò con la citazione dei testi antichi e arricchì con due consistenti repertori onomastici. Oltre a quanto pubblicato, il suo contributo al progresso degli studi friulani, soprattutto linguistici, è dato anche dalle raccolte di carte e documenti inediti e, ancor più, da tre imponenti schedari manoscritti, depositati sempre presso la Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine – le tre raccolte costituiscono, nel loro insieme, materiali di straordinario interesse per il completamento del Vocabolario friulano. La filologia friulana compie un ulteriore passo avanti con l’edizione degli Esercizi di versione dal volgare friulano in latino nel secolo XIV in una scuola notarile cividalese, che un giovane Alfredo Schiaffini pubblica sulla Rivista della Società Filologica Friulana 1922, documento ripreso in anni recenti da Benincà/Vanelli (1998). Forniti dell’interessante complemento dei Frammenti grammaticali, che Schiaffini aveva presentato l’anno precedente sulla stessa rivista, gli Esercizi di versione propongono una serie di 81 brevi testi in volgare, che gli allievi notai del tempo avevano il compito di tradurre in latino. Le prove di traduzione sono studiate per passare dal codice di comunicazione orale, il parlamentum, cioè il friulano, a quello dell’ufficialità, il latino, e addestrano alla soluzione di tutta una serie di difficoltà di ordine grammaticale, abituando all’uso, al contempo, del lessico di maggiore utilità per lo svolgimento della professione. Dopo i Saggi di antico dialetto friulano tratti dall’Archivio Comunale di Gemona, che Valentino Baldissera pubblica sul primo fascicolo di Pagine friulane 1888, notevole attenzione alle scritture friulane della stessa città dedica Giuseppe Marchetti, sacerdote e studioso di storia e cultura locale. Oltre ad alcuni interventi sul riordino dei fondi gemonesi antichi, dei quali si occupa per la stesura della sua tesi di laurea, discussa a Milano, il Marchetti cura l’edizione completa del quaderno di conti del camerario Muzirino a. 1380 e brani del registro di Foncasio aa. 1336–1337 (cf. Marchetti 1962 e 1964). Altre carte gemonesi, questa volta del Quattrocento, sono pubblicate da Alida Londero (1994, 97–111) in appendice ad una ricerca sull’Ospedale cittadino di San Michele. La pubblicazione di antiche carte friulane inedite, questa volta cividalesi, prosegue grazie a Giovanni Frau, che presenta nel 1971 e nel 1991 una cospicua serie di materiali, sempre di uso pratico, con il corredo di ampi apparati di note linguistiche. Piuttosto scarsi sono i documenti antichi provenienti da località diverse rispetto a Udine, Gemona o Cividale. Per l’Alto Friuli, a parte il manoscritto di Venzone del 1429 trascritto dal Wolf, possiamo segnalare l’edizione di alcuni stralci del Registrum expensarum Camere ecclesie sancti Martini di Tolmezzo aa. 1469–1482, della quale si occupò Pio Paschini nel 1920; per quanto riguarda poi Tricesimo, registriamo la trascrizione di un consistente rotolo di 52 carte della confraternita di Santa Maria aa. 1450–1453 curata da Carlo Costantini nel 1978.

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3 Nuove ricognizioni ed edizioni Lo stato degli studi di filologia friulana, ai primi anni Novanta, è così presentato da Giovanni Frau (1991, 327): «Quando (sono trascorsi ormai due lustri) in uno dei primi incontri rivolti alla programmazione del Dizionario etimologico storico friulano si avvertì la necessità di poter disporre di abbondanti materiali documentari, frutto di spogli e di revisioni curate da specialisti, forse (sull’onda dell’entusiasmo) non si tenne conto sufficiente delle risorse (soprattutto umane) e delle difficoltà implicite nell’allestimento di un archivio di forme antiche: così l’urgenza rimase inevasa e ci si dovette accontentare dei materiali esistenti (che sono pochi e oltre a tutto per gran parte scarsamente fidabili, pur con eccezioni)».

Il giudizio può apparire severo e definitivo, ma la penuria di buone edizioni di manoscritti delle origini e la conseguente indisponibilità di un repertorio di forme antiche costituivano senza dubbio uno dei punti più deboli del progetto di redazione del Dizionario etimologico storico friulano (DESF), ideato e avviato da Giovan Battista Pellegrini alla fine degli anni Settanta. La rassegna dei materiali a disposizione dei redattori del DESF, brevemente tratteggiata dallo stesso Pellegrini nella Prefazione al primo dei due volumi pubblicati (1984, IX–XIII), comprendeva, alla fine, i Testi inediti friulani di Vincenzo Joppi, con le revisioni e le integrazioni di Giovan Battista Corgnali; le fonti riprese dal Nuovo Pirona (edizione del 1935, con successive Aggiunte); alcuni materiali, per lo più in latino, offerti dal repertorio Voci e cose del passato in Friuli di Giovan Battista della Porta (inedito conservato presso la Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine, ms. 2694) e dalla tesi di laurea Contributo al lessico friulano antico di Daniela Piccini, discussa presso l’ateneo di Padova, successivamente pubblicata con integrazioni (cf. Piccini 2006). Al fine di colmare questa importante lacuna per gli studi friulani, segnalata da Frau, e giungere alla costituzione di un solido corpus di forme antiche, indispensabile all’avvio di lavori lessicografici di prospettiva storica, mi sono impegnato, una quindicina d’anni fa, in un vasto programma di lavoro articolato in due azioni principali: la segnalazione dei documenti antichi in volgare, attraverso una mirata ricognizione degli archivi e delle biblioteche della regione, e la loro contestuale pubblicazione.

4 La Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine La Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine, erede del museo cittadino e tuttora fondamentale punto di riferimento per la cultura friulana, è luogo di conservazione di raccolte documentarie di straordinario rilievo, storico e culturale, per tutta la regione. Molti dei manoscritti oggetto dei primi lavori di edizione delle fonti tardomedievali in volgare, da parte di Vincenzo Joppi, Alexander Wolf, Giovan Battista Corgnali e altri, sono conservati proprio presso la Biblioteca Civica «V. Joppi», anche se di provenien-

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za non udinese. Grazie al sostegno dell’attuale direttore della stessa, Romano Vecchiet, ha preso avvio nel 1998 il progetto di ricognizione degli ampi fondi dell’istituzione, con la segnalazione e l’edizione dei manoscritti antichi in friulano; il progetto ha prodotto, ad oggi, la pubblicazione di dodici volumi della collana Fonti e documenti contenenti l’edizione di carte e la redazione dei relativi repertori lessicali e onomastici. Il primo di questi documenti è stato, in particolare, un registro del 1382 della Confraternita di Santa Maria dei Battuti di Udine, con note sull’amministrazione dell’ospedale cittadino, per passare poi ad un quaderno di cameraria della Pieve di Tricesimo aa. 1426–1437 e quindi ai cospicui rotoli della Confraternita dei Calzolai di Udine, presentati in cinque volumi. La pubblicazione di ulteriori carte antiche, di varia provenienza e ampiezza, è seguita negli anni successivi; tra queste segnaliamo, a titolo di esempio, l’Elenco di iscritti a una confraternita cividalese (sec. XIII ), l’Elenco di contribuenti di Santa Maria in Valle a. 1284, l’Elenco di iscritte a un pio sodalizio di Venzone (sec. XIV ), il Registro dei camerari dell’ospedale di Santa Maria della Misericordia di Udine aa. 1356–1360, il Libro di spese di ser Niculau di Çuan di Cerneglons aa. 1379–1384, l’Inventario dei redditi della Confraternita di Santa Maria di Venzone (sec. XV ), il Quaderno della Fabbrica del Duomo di Udine a. 1440, gli Statuti e laudario della confraternita dei Battuti di Udine (sec. XIV ), gli Esercizi di scrittura e di traduzione latina (sec. XV ).

5 Altri fondi archivistici censiti e pubblicazioni recenti La seconda azione di ricognizione sulle scritture tardomedievali in volgare, dopo quella compiuta sui fondi della Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine, è stata avviata su base regionale nel febbraio del 2003 grazie al pluriennale progetto di ricerca Documenti antichi dagli archivi friulani promosso dalla Società Filologica Friulana di Udine in convenzione con il Ministero per i Beni e le Attività culturali. Grazie alla collaborazione di una ventina tra archivisti e paleografi, si è intrapreso un censimento generale degli archivi friulani raccogliendo o segnalando, contestualmente, le fonti documentarie antiche in volgare (friulano, ma anche tosco-veneto) dalle origini fino alla fine del XV secolo. I primi anni di lavoro hanno portato alla produzione di circa 4.000 schede catalografiche su archivi, fondi, serie e singoli documenti, coprendo più o meno la metà del territorio regionale e degli enti conservatori presenti nel Friuli storico. Per quanto riguarda la distribuzione delle scritture in volgare, resta netta la loro concentrazione in fondi conservati nelle città che hanno giocato ruoli importanti in epoca bassomedievale, dal punto di vista politico ed economico, quindi soprattutto Udine, Cividale e Gemona; sono stati censiti, comunque, anche numerosi pezzi non segnalati in precedenza e provenienti da altre località, come ad esempio Venzone, San Daniele,

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Spilimbergo, Tolmezzo, Codroipo o Tricesimo. Mancano ancora – ma si auspica, naturalmente, di poter colmare tale lacuna – dati precisi sulle aree friulane marginali, quindi sull’area concordiese, interessata più di altre dalla pressione dei modelli di scrittura venezianeggianti, e sull’area tergestina e muglisana, ai confini con l’Istria. Si segnalano, di pari passo con i lavori di ricognizione e di catalogazione dei fondi manoscritti, una serie di edizioni per pezzi, raccolte o serie di particolare interesse. Molto importante per la qualità della lingua, ad esempio, è il quaderno del notaio Odorlico di Cividale del Friuli (cf. Vicario 1998), ottimo rappresentante del cividalese antico, un quaderno della seconda metà del Trecento rinvenuto, con altri testi e frammenti di minore rilevanza, in una delle buste del fondo Notarile antico presso l’Archivio di Stato di Udine. Ancora cividalesi sono poi le carte e i fogli inseriti, come allegati, tra i documenti della serie delle Diffinitiones Magnificae Communitatis, allocata presso la biblioteca del Museo archeologico nazionale della stessa Cividale (cf. Vicario 1999b). Notevoli apporti alla documentazione del friulano antico, a Udine, dipendono dai precisi programmi di condizionamento e di inventariazione condotti negli archivi delle storiche parrocchie del centro cittadino, in particolare in quelle di San Giacomo Maggiore, del Santissimo Redentore, di San Cristoforo, di San Giorgio Maggiore e di San Quirino. Di indubbio rilievo linguistico, già segnalato da Vincenzo Joppi (1878, 209s.) e copiato da Giovan Battista Corgnali (ms. 1676 del Fondo Principale della Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine), è il bel registro quattrocentesco della confraternita dei Pellicciai di Udine, pubblicato ora in Vicario (2003). Le carte tardomedievali in volgare provenienti da Gemona, come accennato dianzi, hanno attirato già dalla seconda metà dell’Ottocento l’attenzione dei ricercatori locali. Il patrimonio archivistico di Gemona è sicuramente molto importante, per la storia del Friuli, dal momento che lì si conservano, condizione questa assai rara, serie pressoché complete a partire dai primi del Trecento. La parte che hanno i documenti in friulano, in questo insieme, è anch’essa molto rilevante, essendo oltre una cinquantina i quaderni trecenteschi appartenenti alle tre serie della Pieve di Santa Maria, dei Massari e dell’Ospedale di San Michele, pubblicati integralmente in Vicario (2007– 2013); ulteriori quaderni in volgare friulano delle stesse serie, alcune decine, datano alla prima metà del Quattrocento.

6 Prospettiva degli studi sul friulano antico Il problema della segnalazione delle scritture antiche, grazie ai recenti lavori di censimento degli archivi e di schedatura dei documenti di interesse, si può considerare vicino alla soluzione. Discorso diverso è quello della pubblicazione, il più possibile sistematica, di tali documenti, pubblicazione che deve procedere contestualmente all’allestimento di un corpus di forme antiche, impegno che già doveva essere assolto alla fine degli anni Settanta, ce lo ricordava Giovanni Frau, con l’avvio del progetto

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del Dizionario etimologico storico friulano. Si tratta di un lavoro di fondamentale importanza, quello della pubblicazione delle fonti, preliminare non solo alla redazione di un dizionario storico ed etimologico del friulano, del quale si avverte ormai l’urgenza, ma anche alla produzione di ulteriori lavori di storia della lingua. L’esperienza di questi anni insegna che l’esame della documentazione di uso pratico, così abbondante e ancora non sufficientemente investigata, garantisce un continuo incremento di elementi lessicali e onomastici (soprattutto antroponimi) utili alla migliore descrizione del friulano delle origini. Se l’obiettivo dell’edizione completa di tutte le fonti non è in realtà praticabile, in considerazione dell’ampiezza delle stesse, certo non possiamo ancora accontentarci di quanto ad oggi pubblicato: manca la maggior parte della documentazione cividalese, con la serie dei Camerari e camerlenghi (Museo archeologico nazionale) e i fondi della Biblioteca comunale; manca tutto il Quattrocento gemonese; mancano le fonti di Tricesimo (archivio della Pieve) e quelle di Venzone (archivi parrocchiali e fondi del Pio istituto elemosiniere); mancano le carte delle antiche parrocchie udinesi e le collezioni dell’Archivio di Stato di Udine. In attesa di poter disporre di ulteriori materiali, occorre quanto meno segnalare l’avvio di un progetto per utilizzare da subito ciò che è stato prodotto nel corso degli ultimi anni. Si tratta, in particolare, della redazione e della pubblicazione del Dizionario storico friulano, un repertorio curato dallo scrivente e già consultabile in rete da circa tre anni all’indirizzo www.dizionariofriulano.it. Il progetto, per una prima presentazione del quale si rimanda a Vicario (2010), è promosso dal Dipartimento di Lingue dell’Università di Udine e sostenuto dalla Società Filologica Friulana e dalla Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine; ad esso hanno collaborato, e collaborano, ricercatori con competenze in archivistica, paleografia e filologia. I dati caricati sul sito, in costante aggiornamento, sono organizzati in schede relative al lessico friulano, alle fonti documentarie utilizzate e alla bibliografia di riferimento. Per quanto riguarda la sezione del lessico, che riguarda anche il vastissimo patrimonio di onomastica friulana antica (antroponimia e toponomastica), la scheda fornisce indicazioni sulla presenza della voce nei documenti analizzati, segnalandone la posizione, le varianti grafiche o le voci di significato affine e consente il legame, diretto, alla scheda documento. Sulla scheda documento, invece, si possono ottenere notizie sulla datazione del pezzo, sull’autore (che, però, nel caso dei documenti di uso pratico, non è sempre identificabile), nonché sull’ente produttore e sull’ente conservatore dello stesso. Sicuramente utile, anche per studi di argomento diverso da quello linguistico, è la possibilità di scaricare la trascrizione dell’intero documento in formato pdf, operazione questa che consente di recuperare parti di testo non citate direttamente nella scheda relativa al lessico. Chiudono la scheda documento le indicazioni bibliografiche relative a tale pezzo e, quindi, l’elenco alfabetico di tutte le voci di lessico estratte da esso. La bibliografia caricata sul Dizionario storico friulano e organizzata anch’essa in schede, rappresenta una delle raccolte più copiose di titoli su lingua e linguistica

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friulana, una raccolta che si affianca ai repertori bibliografici, soprattutto recenti, che bene illustrano la ricchezza della disciplina (cf. Heinemann/Melchior 2011 e Videsott 2011). Nelle sezioni del sito dedicate alla presentazione del progetto, infine, sono inserite le norme di redazione e di consultazione del repertorio, con l’elenco delle sigle adoperate. Per quanto riguarda la dimensione del repertorio e la consultazione dello stesso da parte di utenti della rete, alla fine di agosto 2013 risultano caricate e validate oltre 16.000 schede relative a voci di lessico e onomastica, più di 3.200 titoli di bibliografia e 89 fonti documentarie; piuttosto incoraggiante è l’utilizzo del sito, pure essendo questa una raccolta piuttosto specialistica, potendosi rilevare circa 4.000 visite all’anno, in aumento, con una media di nove visualizzazioni di pagina per ogni visita. Il Dizionario storico friulano si pone l’obiettivo di valorizzare i peculiari caratteri del friulano delle origini, in primo luogo, ma anche di contribuire, per la nostra regione, all’investigazione del complesso fenomeno della scripta volgare di area italiana; è questa una linea di ricerca che registra, in anni anche recenti, un notevole fervore di studi, si pensi, ad esempio, al grande progetto del Tesoro della lingua italiana delle origini, promosso dall’Accademia della Crusca, l’Atlante linguistico degli antichi volgari italiani, l’Archivio testuale del siciliano antico e altri ancora. Ci si augura, naturalmente, che il prosieguo di questo impegnativo lavoro possa portare a significativi progressi negli studi di storia della lingua friulana, aprendo la strada alla successiva riflessione etimologica sul lessico friulano; si tratta di un lessico che, nella più ampia prospettiva romanza, esprime caratteristiche e peculiarità ancora pienamente da indagare e da apprezzare.

7 Appendice documentaria L’esame dei documenti friulani antichi costituisce, come detto, un importante contributo al progresso degli studi di storia della lingua, in particolare per quanto riguarda la conoscenza del lessico comune e dell’onomastica – antroponimia e toponomastica. Si propongono, a seguire, due brani tratti da manoscritti della seconda metà del Trecento, di uso pratico e di provenienza gemonese, che bene illustrano la ricchezza e l’utilità della lettura degli stessi, nonché un brano della nota ballata cividalese Biello dumnlo di valor ‘Bella signora di valore’, già segnalata in precedenza.

7.1 Registro della Pieve di Santa Maria (ms. n. 1042) Il primo registro data al 1397–1398 e fa parte della serie della Pieve di Santa Maria (ms. n. 1042 dell’inventario dell’archivio storico del Comune presso la Civica Biblioteca Glemonense «V. Baldissera»). Il quaderno, cartaceo, misura mm. 221 × 302, si compone di 84 carte, alcune bianche, ed è stato vergato dal camerario Nicolò di Cramis.

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Oggetto di restauro, in tempi recenti, il documento è stato pubblicato in Vicario (2007–2013, vol. 3, 420–454), edizione alla quale si rimanda per ulteriori indicazioni. Si riproduce, a seguire, la c. 9r-v del quaderno. c. 9r

Item spendey per far glu gustars alg predis | quant elg façin lis processions suma in dut ss. c ss. c Item spendey glu qualg io dey alg previç per la | messa chi si cantà sul altar di sent Tomat per | lu legat di Cilia libr. vj ss. libr. vj ss. Item spendey glu qualg io dey a Vuarnir per passi | l di soya per mudar alg cesendegli per piç. | xviij lu pas sumo in dut ss. lxxv ss. lxxv Item spendey glu qualg io dey a Simon di Stalis | per lis vilys di Cresima dnr. xvj dnr. xvj Item spendey per mays vj a Pascha di may dnr. lxx dnr. lxx Item spendey glu qualg io dey a Iançil capelar | per orna ja di vueli libr. xviij dnr. libr. xviij dnr. Item dey al Blanc per misuriduris dnr. ij dnr. ij Item spendey per centenar j ÷ di cerclis per | far legar glu vaselg dnr. xxviiijor dnr. xxviiijor Item spendey glu qualg io dey a ij mestris | chi legarin glu deç vaselg sterin dis ij libr. iiijor ss. libr. iiijor ss. Item spendey glu qualg io dey al Sclaf | Linardino per lu concordi chi fo fat so di Pieri | Mulion libr. xxxvj ss. libr. xxxvj ss. S. march. octo dnr. centum triginta sex

c. 9v

Item spendey glu qualg io dey a iiijor caradors | chi menarin lis breis de spedal menarin | oris ij per cischadun per dnr. viij lu trat s. dnr. lxiiijor dnr. lxiiijor Item spendey glu qualg io dey a ij chi | aduserin lis breis entala glesia e | meterin lis in tasa dnr. xxiiijor dnr. xxiiijor Item spendey glu qualg io dey a Marabot | per l-amor di Dio dnr. xviij dnr. xviij Item spendey glu [qualg io] dey al muni per inplir ja | piera di aqua sancta dnr. iiijor dnr. iiijor Item spendey glu qualg io dey per ricever glu | previç e-lg fraris in lu dì del Corpo di | Crist dnr. x dnr. x Item spendey glu qualg io dey a Pieri Pignau | per Pieri Mulion ch-el gli dè fier libr. xij dnr. libr. xij dnr. Item spendey glu qualg io dey a mestri | Nuvel per lis ligiduris de canpana meçana dnr. xxxij dnr. xxxij Item spendey in plusors oris per dar < g > alg povers dnr. xij dnr. xij Item spendey glu qualg io dey a Stela per glu | dinars chi riçevè Pieri Mulion mar. ja dnr. mar. ja dnr. Item spendey glu qualg io dey ad Avril per | la realia del Patriarcha dnr. vij dnr. vij S. march. tres dnr. lxxxxj

Grafia Si osserva l’uso, regolare nelle carte friulane antiche (cf. Vicario 1998, 55–65), della ‹ç› per la resa del complesso delle affricate, sia in fine di parola – per la dentale sorda, come marca di plurale, [t] + [s], come in deç ‘detti’, previç ‘preti’ –, che in corpo di parola: façin ‘fanno’, Iançil ‘Giovannino’, meçana ‘mezzana, di mezzo (di campana)’,

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piç per piçui ‘piccoli, moneta’, riçevè ‘ricevette’. Utilizzati regolarmente sono anche i digrammi ‹gl›/‹lg› per la laterale palatale, ‹gl› in corpo di parola e ‹lg› in fine di parola, nonché di ‹gn› per la nasale palatale: alg ‘ai’, elg ‘essi’, gli ‘gli, a lui’, glu ‘i’, qualg ‘quali’, vaselg ‘botticelle’; Pignau (appellativo). Fonologia Si registra la presenza di forme con la conservazione della muta cum liquida in tutti i contesti attesi (cf. Heinemann 2007): cerclis ‘cerchioni’, Sclaf ‘Schiavo’ (appellativo da un etnico ‘sloveno, slavo’), glesia ‘chiesa’, inplir ‘riempire’, plusors ‘molte, varie’. Attesa è anche la dittongazione della media tonica, in sillaba aperta o chiusa: fier ‘ferro’, piera ‘pietra’, Pieri ‘Pietro’ (appellativo), vueli ‘olio’ – ma muni ‘sacrestano’ con monottongazione. Interessante è anche notare la presenza di alcune spie dell’innalzamento del lat. -A > -o, in fine di parola, evoluzione questa regolare nel cividalese antico e presente, in misura più o meno marcata, in altri coevi quaderni gemonesi: Linardino ‘Leonardina’ (appellativo), sumo ‘somma, totale’. Tale esito si trova anche nelle parlate moderne dell’alta Val Degano (Rigolato, Forni Avoltri), in Carnia, e a Grizzo di Montereale Valcellina. Morfologia e sintassi Sono presenti, nel testo, tutti e quattro gli articoli sia per il singolare, lu ‘il’, la ‘la’, che per il plurale, glu ‘i’, lis ‘le’, nonché varie preposizioni, più o meno articolate: a ‘a’, al ‘al’, alg ‘agli’, di ‘di’, entala ‘nella’ (lat. INTUS ), in ‘in’, per ‘per’, sul ‘sul’. Da notare che le forme dell’articolo maschile del friulano antico si conservano ancora nell’area della Val Pesarina e dell’alta Val Degano (lu e ju < glu), mentre la generalità delle parlate friulane moderne presenta forme innovative (il/el/al per il singolare e i per il plurale), cf. Vanelli (1992). Per quanto riguarda i pronomi, si registra la presenza dei pronomi personali el ‘egli’, elg ‘essi’, gli ‘gli, a lui’, io (iò) ‘io’, lis ‘le’, si ‘si’, del relativo invariabile chi ‘che’ e del variabile glu qualg ‘i quali’, relativo variabile di uso comunissimo nelle carte antiche di uso pratico. Per quanto riguarda la coniugazione verbale, decisamente saldo resta l’uso del perfetto (e del piuccheperfetto): aduserin ‘condussero, portarono’, cantà ‘cantò’, dè ‘diede’, dey ‘diedi’, fo fat ‘fu fatto’, legarin ‘legarono’, menarin ‘portarono’, meterin ‘misero’, riçevè ‘ricevette’, spendey ‘spesi’, sterin ‘stettero’. Per quanto riguarda la sintassi, infine, si osserva il rispetto della legge ToblerMussafia, che riguarda la generalità delle lingue romanze medievali, per la posizione del clitico – nel nostro caso un pronome personale oggetto – a destra del verbo dopo e, cf. Renzi (1994, 275–282) e Benincà/Vanelli (1998, 85–88): spendey glu qualg io dey a ij chi aduserin lis breis entala glesia e meterin lis in tasa dnr. xxiiijor ‘spesi ventiquattro denari i quali io diedi a due che portarono le tavole nella chiesa e miserole in pila’.

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Lessico e onomastica Numerosi sono gli elementi lessicali e le locuzioni che meritano di essere segnalati. Alcuni di questi elementi sono legati ad aspetti devozionali e alle funzioni sacre, tra i quali glesia ‘chiesa’, messa ‘messa’, altar ‘altare’, la coppia di voci per ‘preti’, previç e predis, le festività religiose del Corpo di Crist il ‘Corpus Domini’, della Cresima ‘Quaresima’ con le relative vilys ‘vigilie’, della Pascha di may ‘Pasqua di maggio, Pentecoste’ e la tradizionale preparazione dei mays ‘maggi, alberi o rami fronzuti per inaugurare una sagra religiosa’. Registriamo, ancora, la comune locuzione per l-amor di Dio ‘per beneficienza’, i cesendegli ‘lampade, lanterne’, che si tenevano in chiesa, e il riferimento alla canpana meçana ‘campana mezzana’. Tra i sostantivi si segnalano breis ‘tavole’, due comuni nomi di mestiere come capelar ‘cappellaio’ e caradors ‘carrettieri, conducenti di carro’, due elementi di lessico amministrativo come concordi ‘accordo, patto’ e legat ‘legato’, altre forme più o meno comuni come gustars ‘pranzi’ (cf. friul. mod. gustâ), misuriduris ‘misurazioni’, soya ‘fune’, spedal ‘ospedale’, tasa ‘catasta, pila’, trat ‘momento, occasione, circostanza’. L’elemento lessicale forse più interessante, tra quelli qui attestati, è il cultismo realia ‘regalia, dono’, che presenta la regolare lenizione e il successivo dileguo della velare (lat. REGALIA ), voce che si trova anche in altri coevi registri gemonesi con le forme reyallia e areallya (cfr. friul. mod. regalie, italianismo con restituzione della velare). Numerosi sono anche gli appellativi personali di origine latina, germanica o greca presenti nel testo: abbiamo Cilia ipocoristico di ‘Cecilia’, Iançil un ‘Giovanni’ di tramite germanico, Linardino ‘Leonardina’, anch’esso germanico, Pieri ‘Pietro’, Simon ‘Simone’, Tomat forma friulana di ‘Tommaso’ e Vuarnir ‘Guarnerio’, altro nome germanico. Ulteriori antroponimi entrano dal lessico comune, come soprannomi o nomi aggiunti, tipo Avril ‘Aprile’, Blanc ‘Bianco’, Nuvel ‘Novello’ per ‘giovane’ o ‘inesperto’, Sclaf un etnico per ‘sloveno, slavo’, Stela ‘Stella’. L’unico toponimo è Stalis ‘Stalle’, toponimo comune ma qui indicante una località nelle vicinanze di Gemona.

7.2 Registro della Pieve di Santa Maria (ms. n. 1044) Il secondo registro data al 1399–1400 e fa parte anch’esso della serie della Pieve di Santa Maria (ms. n. 1044 dell’inventario dell’archivio storico del Comune presso la Civica Biblioteca Glemonense «V. Baldissera»). Il quaderno, cartaceo, misura mm. 222 x 304, si compone di 92 carte, con numerose bianche, ed è stato tenuto dal camerario Candido Coletti. Anch’esso restaurato dopo il sisma del 1976, come la generalità della documentazione gemonese più antica, è stato pubblicato in Vicario (2007–2013, vol. 3, 509–556). Si riproducono, a seguire, le cc. 9r–10v del quaderno. c. 9r

Item si dey a Iachuç Muntisan per glu çeris di Pascha delg | ùs per librs. lij di so çera lavorada e per librs. l | di gnostra çera monta la so çera e la so fadiga

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in duto | marchis di dinrs. v e dinrs. lxxx marchis di dinrs. v e dinrs. Lxxx Item spendey per xiiijor pieris chi manchiavin a la chorona (vergato charona) | dinrs. xxiiijor dinrs. xxiiijor Item spendey per ariçevi glu previç la domenia d-ulif | per vj boçis di ribola (vergato robola) dinrs. viiijor dinrs. viiijor Item si dey per Deu dinrs. xij Item si dey ad achuluy chi alà ad Ouleia per la crisma | dinrs. xv dinrs. xv Item spendey lu dì di Io[y]ba santa chi fo fata la çena | dinrs. xxvij dinrs. xxvij Item si dey al muini ch-el adùs l-aga del batim ed implì | la piera de l-aga san ta dinrs. viij dinrs. viij S. march. sex et dnr. xv c. 9v

Item si dey al muini chi lavà glu mantilg a Pascha delg ùs | dinrs. xvj dinrs. xvj Item spendey chi io fes vignir di Vignesia sfogli d-aur | c° montarin chum la chasuta ducati j frs. iij ducati j frs. Iij Item si dey al mestri chi fes la chorona chonçi di vin iij | e ducati j e dinrs. lxxx chonçi di vin iij e ducati j e dinrs. lxxx Item spendey lu dì di Viners sainç chi fo fat lu plant | dinrs. xiij dinrs. xiij Item dey a pre Gaspar per lu ariodul delg infantulins | ss. xl ss. xl Item dey a pre Gaspar ch-el alà cum lu schurçifìs in- | torn Sabida di batim dinrs. xl dinrs. xl S. m. duas et dnr. xxij

c. 10r

Item dey a pre Adurlý per un mesal chi el avè chuviert | ad Indrea dinrs. lxx dinrs. lxx Item dey a pre Gaspar per un çengul ch-el fes façint | dinrs. viij dinrs. viij Item dey alg previç per la mesa di Çilia librs. di ss. vj libr. di ss. vj Item si dey ad Indrea per una çintura chi Indrea avè | indavur delg previç e per pan ch-el avè aibut | di lor ss. xl ss. xl Item dey a Simon di Stalis ch-el fo agnul lu dì de | Anunciaçion per un par di scarpis dinrs. xij dinrs. xij Item dey per Deu (vergato dey) dinrs. x Item spendey per un çochul alg previç lu dì di sent | March ch-elg alarin in torn Chistiel dinrs. xiiijor dinrs. xiiijor S. m. j et dnr. lxxxxj

c. 10v

Item spendey chi io dey per un fit del Pat[r]iarcha per lis chiasis | chi fo del Girilin dinrs. vij dinrs. vij Item si lasay per Deu al Biliòs per chomandament delg mie | perchuridors dinrs. xxiiijor dinrs. xxiiijor Item si dey per Deu dinrs. xij dinrs. xij Item si dey al muini chu implì la piera del-aga santa dinrs. iiijor dinrs. iiijor Item si dey ad Agnilùs per chomandament delg mie perchuridors | per Deu dinrs. xxiiijor dinrs. xxiiijor Item spendey per far gità lu çeri chi si rompè chi pesà | libr. xxiij dinrs. xxiij dinrs. xxiij Item si dey al muini per implì la piera del-aga santa | dinrs. iiijor dinrs. iiijor S. dnr. lxxxxviij

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Grafia Rispetto al quaderno precedente si nota, qui, l’uso del trigramma ‹chi› a segnare l’occlusiva palatale [c], cioè chiasis ‘case’ e manchiavin ‘mancavano’, davanti ad -a-, cui si aggiunge Chistiel ‘Castello’; per rappresentare lo stesso elemento il camerario utilizza la ‹ch› nel caso di Patriarcha ‘Patriarca’. Il digramma ‹ch› è utilizzato, piuttosto, per l’occlusiva velare sorda, anche davanti a vocale posteriore e in fine di parola: achuluy ‘colui’, chasuta ‘cassetta’, chi ‘che’, chomandament ‘comando, ordine’, chorona ‘corona’, Iachuç ‘Giacometto’, March ‘Marco’, marchis ‘marche’, Pascha ‘Pasqua’, perchuridors ‘procuratori’, schurçifìs ‘crocifisso’. Fonologia Rispetto ai casi di dittongazione delle medie già osservati precedentemente, per le voci piera e pieris ‘pietra’ e ‘pietre’, troviamo ancora Chistiel ‘Castello’, chuviert ‘coperto’ e muini ‘sacrestano’ (ma sopra muni). Regolarmente si osserva poi la conservazione del dittongo lat. AU - in aur ‘oro’. Il fenomeno della prostesi di a- davanti a vibrante, considerato tipico del friulano antico, è qui rappresentato dai casi di ariçevi ‘ricevere’ e di ariodul ‘rotolo, registro, libro di conti’; conservazione di a- pretonica etimologica, che dilegua in friulano moderno, si ha invece in alà ‘andò’ e alarin ‘andarono’ (ma friul. mod. lâ). Morfologia e sintassi Si registra l’occorrenza della seconda forma di pronome relativo invariabile del friulano, molto più frequente un tempo rispetto ad oggi, che è chu ‘che’ (friul. mod. cu). Per la morfologia nominale, troviamo poi l’occorrenza del suffisso diminutivo -ut, tipico del friulano, nella forma chasuta ‘cassetta, piccola cassa’; ulteriore suffisso diminutivo, applicato questa volta ad un appellativo, è -ùs per la forma Agnilùs ‘Angelina’. Un interessante caso di verbo analitico, quindi di verbo con indicatore di direzione avverbiale, locuzioni di grande fortuna nel friulano moderno, è quello di avè indavur ‘ebbe indietro, riebbe, recuperò’, dove indavur ha funzione reversiva: si dey ad Indrea per una çintura chi Indrea avè indavur delg previç ‘diedi ad Andrea per una cintura che Andrea ebbe indietro dai preti’. Lessico e onomastica Il lessico religioso, con festività e liturgie, si arricchisce di parecchi nuovi elementi. Per le festività troviamo, in particolare la Domenia d-ulif ‘Domenica d’ulivo, Domenica della Palme’, e quindi Ioyba santa ‘Giovedì santo’, Viners sainç ‘Venerdì santo’, Sabida di batim ‘Sabato del battesimo, Sabato santo’ e Pascha delg ùs ‘Pasqua delle uova, Pasquetta’. Collegate alle festività ci sono le importanti funzioni della çena ‘cena, ultima cena’, per il Giovedì santo (in coena Domini), e l’interessante e ora non più in uso plant ‘pianto, lamentazione (di Maria)’ davanti a Gesù crocifisso, con riferimento al planctus Mariae del Venerdì santo, canto di antica tradizione aquileiese che veniva

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eseguito dopo il Passio – si noti che per ‘piangere’ è ora prevalente in friulano la voce vaî, dal lat. VAGIRE , piuttosto che planzi, limitato ad alcune varietà occidentali. Sempre alla Settimana santa è legata la processione del Sabato santo che pre Gaspar ‘don Gaspare’ condusse cum lu schurçifìs intorn ‘in giro con il crocifisso’; al periodo della Novena, piuttosto, appartiene il canto del Missus, anch’esso di radicata tradizione in Friuli, che ci viene ricordato dalla festa della Anunciaçion ‘Annunciazione’ e dal fatto che tale Simon di Stalis svolse, in quella occasione, la parte dell’agnul ‘angelo’. Ad un’altra processione si riferisce la spesa di un çochul ‘un capretto’, destinato alg previç lu dì di sent March ch-elg alarin intorn Chistiel ‘ai preti il giorno di san Marco, che andarono intorno al Castello (di Gemona)’. Ulteriori elementi di lessico religioso sono inoltre il batim ‘battesimo’ (aga del batim ‘acqua del battesimo’), che assume talora anche il significato di ‘battistero’, la crisma ‘crisma, olio per i sacramenti’ (si dey ad achuluy chi alà ad Ouleia per la crisma ‘diedi a colui il quale andò ad Aquileia per il crisma’), i mantilg ‘tovaglie d’altare’ e il mesal ‘messale, libro liturgico’. Ancora a proposito di lessico comune, abbiamo poi il citato ariodul ‘rotolo’ riservato agli infantulins ‘bambini piccoli, neonati’, il çengul ‘cingolo, cintura di cuoio o di stoffa’, la çintura ‘cintura, cinta’ e la ribola ‘ribolla, qualità di vino’. Tra gli appellativi personali si segnalano, quindi, il germanico Adurlý ‘Odorlico’, Agnilùs ‘Angelina’, il soprannome Biliòs ‘bilioso, rabbioso’, Gaspar ‘Gaspare’, Iachuç ‘Giacomino’, Indrea ‘Andrea’, March ‘Marco’ (di sent March) e Simon ‘Simone’. Per i toponimi, oltre a Stalis, abbiamo il borgo cittadino di Chistiel ‘Castello’, la capitale dello stato patriarcale Ouleia ‘Aquileia’ e Vignesia ‘Venezia’.

7.3 Biello dumnlo di valor Decisamente rari sono i componimenti poetici in friulano tra Tre- e Quattrocento (cf. sopra), tra i quali il noto contrasto amoroso Biello dumnlo di valor ‘Bella signora di valore’, una ballata in stile cortese attribuita al notaio cividalese Simone di Vittore, già segnalata da Joppi (1864; 1878) e da Leicht (1867b). Se ne propone qui un brano, le prime due sestine, nell’edizione di Barbieri/Vanelli (1993), cf. anche Corgnali (1934), S. Pellegrini (1969). Biello dumnlo di valor jo cgiantaraj al vuestri honor Biello dumnlo inchulurido ch’el no’nd’è al mont zardin chu se flor chusì flurido com vo es sichu un flurin vo ses achel zintil rubin ch’a Cividat arint splendor Biello [dumnlo di valor

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jo cgiantaraj al vuestri honor] Biell infant va pur chun Diò e no m’alà pluj atentant [.] cg’iò mi’nd’aj un Amador chu per me va pur cgiantant. Si tu fos vignut inant non curavo d’altri amador

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(trad.: Bella signora di valore / io canterò in vostro onore / Bella signora colorita / che non c’è al mondo giardino / in cui ci sia fiore così fiorito / quanto voi siete come un fiorellino / voi siete quel gentile rubino / che a Cividale rende splendore / Bella [signora di valore / io canterò in vostro onore] / Bel giovane vai pure con Dio / e non andarmi più insidiando / che io ce l’ho già un innamorato / che per me va anche lui cantando / Se tu fossi venuto prima / non mi sarei curata di un altro innamorato)

Grafia Notevole risulta la soluzione del trigramma ‹cgi› per l’occlusiva palatale, quindi cgiantaraj ‘canterò’ e cgiantant ‘cantando’, mentre il digramma ‹ch› resta per la resa della velare sorda, come per inchulurido ‘colorita’, chusì ‘così’, sichu ‘come’, achel ‘quello’, chun ‘con’, chu ‘che’ (relativo), pur trovandosi anche la ‹c› semplice come in com ‘quanto’ e in curavo ‘mi sarei curata’. L’affricata sorda, palatale o dentale, è ancora ‹c› in Cividat ‘Cividale (del Friuli)’, mentre la sonora è resa con ‹z› per zardin ‘giardino’ e zintil ‘gentile’. Debitrice di uso colto è, infine, la ‹h› di honor ‘onore’. Fonologia Oltre all’attesa dittongazione delle medie nei casi di biello ‘bella’, biell ‘bello’ e vuestri ‘vostro’, si conferma la prostesi di a-, non infrequente nel friulano antico, davanti a vibrante, per arint ‘rende’, e nel dimostrativo achel ‘quello’. Tipico del cividalese antico è l’esito -A > -o (cf. sopra), che interessa qui gli elementi biello ‘bella’, dumnlo ‘signora’, inchulurido ‘colorita’, flurido ‘fiorito (riferito ad un fiore, quindi femminile)’, curavo ‘mi sarei curata’ (condizionale semplice). Morfologia Il pronome relativo invariabile è ancora presente con la forma chu ‘che’: el no’nd’è al mont zardin chu se flor chusì flurido ‘non c’è al mondo giardino nel quale ci sia un fiore così fiorito’; un amador chu per me va pur cgiantant ‘un innamorato che per me va anche lui cantando’. Si trova ben due volte, inoltre, il pronome genitivo-partitivo nd ‘ne’, dal lat. INDE , nei casi el no’nd’è al mont zardin ‘non c’è al mondo giardino’ e cg’iò mi’nd’aj un amador lett. ‘che io me ne ho un innamorato’, con il mi come dativo di vantaggio. Lessico Tra le voci di lessico che qui si registrano, merita segnalare dumnlo ‘signora’, dal lat. DOM ( I ) NULA , con suffisso diminutivo con valore vezzeggiativo, in origine quindi ‘signo-

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rina’, mentre varie sono le occorrenze di ‘fiore’, a partire da flor, regolarmente al femminile, che si accorda con il seguente flurido ‘fiorita’ (ma in friul. mod. flôr è sia femminile che maschile) e ancora flurin ‘fiorellino’, che però richiama anche ‘fiorino’, moneta di valore, che rima proprio con rubin ‘rubino, pietra preziosa’. Solo del friul. ant. è infant nel senso di ‘giovane, ragazzo’, dove il friul. mod. adopera i derivati di fant ‘fante (in particolare al gioco della briscola)’, quindi fantat, fantulin, fantacin, fantaçat, fantacet etc. Poco usato nel friulano moderno è poi l’avverbio inant ‘prima, innanzi’.

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5 Dialetti Paolo Roseano

5.1 Suddivisione dialettale del friulano Abstract: Il capitolo contiene una descrizione della suddivisione dialettale del friulano. Il § 1 è dedicato alla presentazione degli strumenti a disposizione dei dialettologi, in particolar modo agli atlanti linguistici che contengono dati dell’area friulana. Nel § 2 si riassumono i fattori storici, geografici ed antropici che hanno contribuito a definire il panorama dialettale del friulano che si descrive nel § 3. La parte più ampia del capitolo è costituita dal § 4, in cui si presenta – con il supporto di mappe – una selezione degli aspetti fonetici, fonologici, morfosintattici e lessicali che differiscono in modo più evidente tra i dialetti del friulano. Keywords: dialetti, dialettologia, atlanti linguistici

1 Lo stato dell’arte Gli esordi dello studio della variazione dialettale della lingua friulana possono essere fatti risalire idealmente già ai Saggi Ladini di Ascoli (1873), opera che segna simbolicamente l’inizio della riflessione scientifica matura sul friulano. Tuttavia è solo nel XX  secolo che tale disciplina conosce un maggiore sviluppo, che si è tradotto nella realizzazione di pubblicazioni raggruppabili in quattro filoni principali: gli atlanti linguistici, le descrizioni generali dei dialetti del friulano, le opere che analizzano molteplici aspetti di un solo dialetto o un solo fenomeno linguistico in più dialetti e, infine, gli studi contrastivi tra il friulano ed altre varietà geograficamente vicine. Nelle prossime pagine offriremo una breve panoramica delle risorse disponibili in ciascuna di queste categorie. Un atlante linguistico è, com’è noto, un insieme di mappe che presentano le diverse parole che si utilizzano in varie località di un determinato territorio per indicare un certo oggetto o concetto. Tentativi che oggi definiremmo prescientifici di cartografare la diversità linguistica europea si ebbero già in epoca illuminista, come la mappa Europa Polyglotta di Hensel (1741), in cui compare anche il friulano (che l’autore colloca per errore nell’area di lingua occitana).

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Figura 1: Mappa linguistica Europa Polyglotta di Gottfried Hensel (1741)

Il primo degli atlanti linguistici moderni è l’Atlas Linguistique de la France o ALF, realizzato da Gilliéron e Edmont (1902–1910) sulla base di dati raccolti tra il 1897 ed il 1900. La rilevazione dei dati sul campo effettuata da Gilliéron e Edmont era caratterizzata da alcuni principi metodologici di base: a) all’interno del territorio studiato, venivano scelti dei punti di inchiesta – città o villaggi – considerati rappresentativi di una determinata area, b) in ogni punto di rilevazione venivano scelti uno o più informatori rappresentativi del dialetto della località in questione, c) i dati venivano elicitati in base ad un questionario standard, che veniva somministrato in un modo che cercava di minimizzare la possibile influenza dell’intervistatore. Questi stessi pilastri metodologici furono la base dei vari atlanti linguistici che si iniziarono a realizzare in Europa sul modello dell’ALF. Tra questi, almeno nove sono esclusivamente o parzialmente dedicati al Friuli. Il primo di essi, in ordine cronologico, è lo Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz o AIS (Jaberg/Jud 1928–1940), tra i cui punti di rilevazione figurano anche quindici località friulane, anche se non tutte friulanofone, dove le inchieste furono realizzate nel 1922. Pochi anni più tardi, nel 1925, il friulano Ugo Pellis iniziò la raccolta dei dati per l’Atlante Linguistico Italiano (Massobrio et al. 1995–), attività che fu costretto a sospendere allo scoppio della seconda guerra mondia-

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le. Grazie all’opera di Pellis, l’ALI comprende 53 punti d’inchiesta nel territorio del Friuli storico, non tutti di lingua friulana. Gli anni ’60 del XX secolo vedono la nascita dell’atlante più importante ai fini dello studio del friulano, l’Atlante Storico-LinguisticoEtnografico Friulano o ASLEF (Pellegrini 1972; 1972–1986). I 129 punti di inchiesta dell’ASLEF coincidono in parte con quelli dell’AIS e dell’ALI (i cui materiali vengono ripresi e controllati con nuove rilevazioni sul campo), ma nella maggior parte dei casi si tratta di località in cui non erano ancora stati raccolti dati linguistici. Più di recente, anche l’Atlante Sintattico d’Italia o ASIt (Benincà 1989; Pescarini/Di Nunzio 2010) ha raccolto informazioni in 20 punti dell’area friulana. Tra la fine del XX secolo e gli inizi del XXI si è assistito alla nascita di atlanti linguistici di seconda generazione. Gli sviluppi tecnologici, infatti, hanno permesso di realizzare atlanti multimediali che offrono, oltre alle tradizionali mappe e trascrizioni fonetiche e ortografiche, anche registrazioni audio e video delle interviste. Tra gli atlanti multimediali che comprendono l’area friulana possiamo ricordare l’Atlant linguistich dl ladin dolomitich y di dialec vejins o ALD (Goebl 1998), il Vivaio Acustico delle Lingue e dei Dialetti d’Italia o VIVALDI (Kattenbusch 1998), l’Atlant Multimediâl di Prosodie des Varietâts Romanichis (Roseano/Fernández Planas 2009–2013), l’Interactive Atlas of Romance Intonation (Prieto/Borràs-Comes/ Roseano 2010–2014) ed il recente progetto @lant! (D’Agostini/Melchior 2012). L’Atlant linguistich dl ladin dolomitich y di dialec vejins, i cui dati sono stati raccolti in due fasi (1985–1992 e 1999–2001), comprende 27 punti di rilevazione dell’area storicamente friulana, ancora una volta non tutti di lingua friulana. Il Vivaio Acustico delle Lingue e dei Dialetti d’Italia, per la parte friulana del quale le attività sul campo sono state condotte tra il 2007 ed il 2011, comprende 28 località friulane (tra friulanofone, venetofone, germanofone e slovene). Dei due atlanti che contengono informazioni sull’intonazione del friulano, l’Atlant Multimediâl di Prosodie des Varietâts Romanichis (AMPERFRIÛL) contiene dati per le località di Agrons, Beivars, Gradisca d’Isonzo e Tesis, mentre l’Interactive Atlas of Romance Intonation o IARI, pur basandosi su dati di nove località, presenta solo quelli relativi ad Agrons e Remanzacco. Il panorama delle descrizioni dialettologiche generali del friulano – di quelle opere, cioè, che puntano a descrivere numerosi aspetti linguistici di tutti i dialetti di tale lingua – comprende un numero ristretto di monografie ed una serie non particolarmente ampia di scritti più brevi che ne ripropongono i contenuti, riassumendoli e, a volte, integrandoli. Le due opere di riferimento sono la Dialettologia Friulana di Francescato (1966) e I dialetti del Friuli di Frau (1984), che presentano una descrizione sostanzialmente concorde dei dialetti del friulano, con la quale è in linea anche l’opera di Iliescu (1972). La somiglianza delle conclusioni cui giungono le opere di Frau e Francescato deriva anche dal fatto che condividono le scelte metodologiche di fondo: entrambe si basano sui materiali degli atlanti linguistici – integrati sulla base di rilevazioni proprie – che analizzano con il fine di tracciare delle isoglosse. In linea con le conclusioni delle opere maggiori di Francescato e Frau sono anche gli scritti più sintetici degli stessi autori (Frau 1989; Francescato 1965; 1982) e di altri (come, per esempio, Iliescu 1964; Marcato 2001; Vicario 2005; 2007; Heinemann 2007).

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Mentre le descrizioni dialettologiche generali del friulano sono poco numerose, sono più abbondanti le opere che potremmo definire di dialettologia specifica (per una panoramica aggiornata, si veda Heinemann/Melchior 2011, 182–200). La specificità di tali saggi può essere: a) di tipo geografico (nel senso che uno studio non si occupa di tutti i dialetti, bensì di una sola varietà friulana, della quale fornisce una descrizione completa), b) di tipo tematico (nel senso che tratta di un solo fenomeno linguistico in tutti i dialetti), o c) di entrambi i tipi (e, quindi, analizza un solo aspetto di un unico dialetto). Tra i numerosi studi che descrivono tutte le caratteristiche di un dialetto, si può individuare un crescendo geografico che va dalle pubblicazioni che si incentrano sulla parlata di un centro abitato specifico (come per esempio, tra i molti, Ilić 1944; Marcato 1985; Ghidina 2008; Finco 2008; oltre ai contributi contenuti nella serie dei Numars Unics della Società Filologica Friulana) a quelle che si occupano di tutta una macroarea dialettale, come gli studi di Frau (1988) sul friulano orientale, di Francescato (1950) sul carnico o dello stesso Francescato (1963a), di Benincà (1990), Vanelli (1990) e Rizzolatti (1996) sul friulano occidentale. Gli studi che esaminano un solo fenomeno linguistico nell’intero territorio friulano considerano spesso aspetti lessicali, analizzando i vari termini utilizzati per uno stesso oggetto o concetto in tutta l’area friulanofona (un esempio per tutti possono essere i commenti di Pellegrini (1969; 1982; 1985; 1989; 1995) alle carte dell’ASLEF), ma sono presenti anche saggi su temi di fonologia dialettale (p. es. Roseano/Vanrell/Prieto in stampa). Un ultimo filone di ricerche comprende un insieme variegato di pubblicazioni, accomunate dalla finalità di comparare il friulano – nel suo complesso o in una sua forma dialettale specifica – con altre lingue, spesso al fine di determinarne la posizione e di classificarlo (su questo tema si veda anche ↗2 La posizione del friulano nella Romania e ↗3 «Questione ladina»). Tra i molti titoli che si possono ricordare, è utile citare gli studi di tipo dialettometrico, basati sui dati dell’AIS o dell’ALD, che descrivono la posizione del friulano nell’ambito delle parlate dell’area che comprende l’Italia settentrionale e la Svizzera meridionale (Lazard 1985; Goebl 1986; 1988; 1992; 1995; Bauer 2004; 2010).

2 Le radici della divisione dialettale del friulano Prima di passare ad illustrare le caratteristiche delle diverse varietà del friulano, è opportuno presentare brevemente i fattori che hanno determinato l’attuale configurazione dialettale del friulano. Le linee che separano tra di loro i dialetti di tale lingua coincidono in buona parte con confini di tipo naturale (orografico o idrografico), con antiche divisioni amministrative ed ecclesiastiche o con le aree di influenza di determinati centri urbani. La mappa della Figura 2, che si basa sulle proposte di Francescato (1966), Frau (1984) e sulle tavole introduttive del primo volume dell’ASLEF, presenta gli elementi storici, geografici ed antropici più rilevanti. Dal punto di vista orografico, all’interno dell’area linguistica friulana (che nella mappa è delimitata da

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una linea a punto e tratto) si può osservare la presenza di un’estesa zona montagnosa al Nord. Essa si può dividere a sua volta in due sezioni, separate dallo spartiacque Tagliamento-Meduna: in Provincia di Udine troviamo la zona che corrisponde all’alto corso del Tagliamento con i suoi principali affluenti alpini (Degano, But e Fella), mentre in provincia di Pordenone troviamo l’area montagnosa che comprende la parte alta del bacino del Cellina, del Meduna e dell’Arzino. Nella montagna pordenonese va considerata a parte la valle alpina del Vajont, che comprende le località di Erto e Casso e che, a differenza delle altre, non si apre sulla pianura friulana bensì sulla valle del Piave (sulle peculiarità dell’ertano nel quadro dialettale friulano si veda ↗5.2 Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione veneto-friulana). Per quanto riguarda l’idrografia, l’elemento più notevole è senza dubbio il fiume Tagliamento, il cui medio e basso corso divide a metà, in direzione Nord-Sud, tutta la pianura friulana. A oriente, invece, il corso dell’Isonzo a Sud di Gorizia segna il rapido passaggio dalla zona propriamente friulana alla zona della Bisiacaria (sulla cui discussa relazione con l’area friulanofona si vedano Frau 1984, 197–203; Zamboni 1986; Heinemann in preparazione). A occidente, al contrario, la transizione dal friulano al veneto non corrisponde a nessun elemento geografico concreto ed è di carattere più graduale (↗5.2 Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione veneto-friulana e ↗6.3 Veneto). Dal punto di vista antropico, le città più importanti del Friuli odierno sono Pordenone (nella mappa della Figura 2 abbreviato con la sigla PN), Gorizia (GO), e Udine (UD), mentre la cittadina di Tolmezzo (TZ), pur essendo di dimensioni più ridotte, è di fatto il centro di riferimento dell’area montana udinese. A partire dagli ultimi secoli del Medio Evo, Udine si è progressivamente affermata come principale polo urbano dell’area ed ha esercitato un ruolo di primo piano nella diffusione di alcuni fenomeni di cambio linguistico. La rete urbana friulana contemporanea è nettamente diversa da quella antica. In epoca romana, infatti, l’attuale territorio friulanofono era diviso tra quattro municipia: Aquileia (abbreviato con AQ nella mappa), Forum Julii (FJ), Julium Carnicum (JC) e Concordia (CS). Nella mappa della Figura 2 i probabili confini tra i quattro municipia sono indicati da una linea punteggiata. A Nord, il municipium di Julium Carnicum comprendeva la parte montagnosa dell’area linguistica friulana e si estendeva anche nella zona collinare immediatamente a Sud della confluenza tra Tagliamento e Fella. A Est, il municipium di Forum Julii includeva gli attuali territori friulanofoni della fascia prealpina e collinare orientale, fino ai primi lembi di pianura. A Ovest, il municipium di Concordia si estendeva su quasi tutti i territori friulanofoni a Sud e ad Ovest del Tagliamento. A Sud, infine, la città di Aquileia era la capitale di buona parte della pianura ad Est dello stesso fiume. La divisione romana in quattro municipia trovò una continuità quasi perfetta nella ripartizione del territorio tra le tre diocesi paleocristiane della zona: mentre i vescovi di Julium Carnicum e di Concordia controllavano i territori degli omonimi municipia, quello di Aquileia estendeva la propria autorità sul municipium della stessa città e su quello di Forum Julii. Ad un livello di organizzazione religiosa più basso rispetto a quello diocesano si situano le

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pievi, sorte nel Medio Evo, le demarcazioni territoriali delle quali spesso coincidono anche con aree subdialettali (Francescato 1963b; Marchetti 1963). La tripartizione tra un’area concordiese, una carnica ed una aquileiese/forogiuliese è una costante che riemerge, con alcune varianti e trasformazioni, nel corso di tutta la storia friulana. Più recente, invece, è la separazione della parte friulanofona del Friuli Orientale, che comprende le terre tra l’Isonzo e la linea Cormons-Cervignano. Essa avvenne nel 1500 dal punto di vista politico, con il passaggio della Contea di Gorizia agli Asburgo, e nel 1751 dal punto di vista religioso, con la divisione della diocesi patriarcale di Aquileia tra gli arcivescovati di Udine e Gorizia (↗4.3 Storia linguistica interna). Va sottolineato che i diversi tipi di confini citati nei paragrafi precedenti spesso combaciano. Il corso del medio e basso Tagliamento, per esempio, oltre ad essere un elemento idrografico di primaria importanza, segna anche il confine tra municipia romani e tra diocesi paleocristiane. Analogamente, l’alto bacino del Tagliamento, con i suoi affluenti alpini, corrisponde al municipium ed alla diocesi di Julium Carnicum.

Figura 2: Mappa dell’area friulanofona con i principali elementi geografici, i confini dei municipia romani ed i più importanti centri abitati attuali ed antichi

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3 La classificazione dei dialetti del friulano Le proposte di classificazione dei dialetti del friulano sono fondamentalmente due: quella di Francescato (1966) e quella di Frau (1984), che in buona parte coincidono. La differenza fondamentale tra le proposte dei due autori risiede nella strutturazione delle relazioni tra i diversi dialetti: mentre Frau propone una chiara articolazione in dialetti e sottodialetti gerarchicamente organizzati, Francescato preferisce definire tre dialetti-base (carnico, centro-orientale e occidentale o concordiese), che sono suddivisi in sottodialetti e sono separati da parlate di transizione che l’autore non ascrive esplicitamente a nessuna delle aree dialettali che congiungono. Tali aree di transizione sono rappresentate dai dialetti fornesi (di transizione tra il carnico e l’occidentale), quelli delle fasce lungo il Tagliamento (di transizione tra il centro-orientale e l’occidentale) e quelli del Medio Tagliamento e del Fella, che segnano il passaggio graduale tra il friulano centro-orientale ed il carnico. La Figura 3 propone la classificazione dei dialetti di Frau (1984), con l’aggiunta della distinzione tra alto e basso gortano che riprendiamo da Francescato (1966). Nella Figura 4 le aree dialettali così definite vengono riportate su una mappa, con un certo grado di approssimazione e di semplificazione. Le lettere che identificano i dialetti nel grafico della Figura 3 compaiono anche nella mappa della Figura 4. Nella stessa mappa si indica anche (con la lettera Z) l’area bisiacca, ai margini dell’area linguistica propriamente friulana. Sia Francescato (1966) che Frau (1984) definiscono le aree dialettali a partire dall’osservazione dell’andamento delle isoglosse (che, come è noto, sono delle linee immaginarie che racchiudono i territori che condividono un determinato tratto linguistico). I tracciati di una parte importante delle isoglosse si possono stilizzare, semplificando molto, con linee che dividono il Friuli in modo geometrico. Se si immagina l’area friulanofona come un quadrato (cf. Figura 5), un primo tipo di isoglossa, che possiamo definire di tipo I perché il suo andamento verticale ricorda la forma di tale lettera maiuscola, divide in due verticalmente l’area friulana, separando le parlate occidentali e parte di quelle carniche dal resto. Un secondo tipo di confine linguistico ha un andamento di tipo orizzontale, la cui forma può ricordare la lettera T (formata da un tratto orizzontale da cui si dirama un segmento verticale sottostante), e separa l’area carnica, cui spesso si aggiunge l’Alto Friuli udinese, dal complesso dalle parlate centro-meridionali. Un terzo tipo di isoglossa segue un movimento a forma di V e separa le aree sudoccidentali e sudorientali dalle rimanenti. Va notato che, soprattutto nel Friuli occidentale, le varie isoglosse di tipo V non coincidono tra loro, ma corrono parallele le une alle altre, frazionando notevolmente l’area concordiese. Infine, un quarto modello ricorrente di linea è di tipo circolare, come la lettera O, e suole delimitare l’area di influenza di alcuni centri urbani (normalmente Udine, ma in alcuni casi anche altri, come Tolmezzo).

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Figura 3: Classificazione dei dialetti del friulano secondo Frau (1984), con integrazioni tratte da Francescato (1966)

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Figura 4: Mappa dell’area friulanofona con l’indicazione dei principali dialetti e sottodialetti, basata su Frau (1984), Francescato (1966) e ASLEF

Figura 5: Rappresentazione schematica dell’andamento delle isoglosse dell’area friulana

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Ovviamente la realtà linguistica è molto più complessa della schematizzazione che abbiamo appena presentato e le isoglosse, come quelle che si esemplificano nel § 4 di questo capitolo, seguono tracciati ben più tortuosi, che spesso risultano dalla commistione di due o più degli schemi citati nei paragrafi precedenti.

4 Criteri di classificazione dei dialetti friulani Le isoglosse considerate da Francescato (1966) e Frau (1984) corrispondono ad una cinquantina di caratteristiche linguistiche cui gli autori in questione attribuiscono un’importanza particolare. Tali criteri di classificazione riguardano, in misure diverse, vari settori della linguistica, soprattutto la fonologia e la morfosintassi, mentre un’attenzione minore viene riservata agli aspetti fonetici e lessicali. Nelle sottosezioni di questa parte del capitolo si presentano, per ciascuna di tali quattro aree tematiche (con maggiore attenzione agli aspetti fonologici), alcune delle isoglosse più importanti. La discussione di ogni isoglossa è, per ragioni di spazio, sintetica e semplificata. Per una trattazione più precisa si rimanda alle due opere dialettologiche più volte citate. Per le trascrizioni fonetiche di questa sezione si utilizza, come nella maggior parte dei capitoli di questa pubblicazione, il sistema IPA. Per omogeneità con il resto del volume, per la rotica è stato adottato il simbolo [r], nonostante la realizzazione normale sia monovibrante, cioè [ɾ] (Miotti 2002, 242; Finco 2009, 63).

4.1 Fonetica Le differenze tra i dialetti friulani a livello strettamente fonetico non sono state ancora esplorate in modo sistematico. Il ritardo in questo ambito si deve alle difficoltà dell’analisi fonetica di tipo acustico, che non può fare affidamento solo sulle trascrizioni fonetiche dell’ASLEF, che si basano solo sulla percezione da parte dell’intervistatore e non sono suffragate da prove strumentali. Ancora maggiori sono le difficoltà insite nelle analisi di tipo articolatorio. Tra le differenze fonetiche interdialettali citate nella letteratura, ne ricordiamo quattro (per ulteriori dettagli, si veda anche ↗8 Fonetica e fonologia). La prima riguarda il punto di articolazione della consonante /d/ che, come suggerito già da Frau (1984, 119), nei dialetti carnici sarebbe più arretrato. La seconda, già notata da Francescato (1966, 44), consiste nella realizzazione come [ɪ] ed [ʊ] delle vocali /i/ ed /u/, rispettivamente, nei dialetti della zona compresa tra le Prealpi Orientali e Udine. La terza riguarda esclusivamente le varietà carniche del Canale di Incaroio, che presentano la vibrante uvulare [R] laddove le altre varietà friulane utilizzano normalmente l’alveolare [r]. Nella stessa vallata, come anche nella Val d’Arzino, la - A atona latina in posizione finale di parola ha come esito [ə] (Frau 1984, 126).

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4.2 Fonologia Più sistematico è stato lo studio della fonologia segmentale del friulano, in particolare del sistema vocalico tonico, ma anche – sebbene in misura minore – del sistema consonantico e di alcuni processi fonologici. Gli aspetti fonologici sovrasegmentali, invece, sono stati esplorati solo negli ultimi decenni.

4.2.1 Sistema vocalico tonico Il sistema vocalico tonico del friulano, per la sua particolarità nell’ambito romanzo, è stato oggetto di numerose ricerche sincroniche e diacroniche che, pur facendo riferimento soprattutto al friulano centrale, contemplano anche dati di altre varietà (si vedano, tra gli altri, Francescato 1966; Frau 1984; Prieto 1992; Vanelli 1998; Finco 2005; 2007a; Iosad 2012; Torres Tamarit 2012; oltre ai capitoli ↗8 Fonetica e fonologia e ↗4.3 Storia linguistica interna di questo volume). Il motivo dell’interesse suscitato dalle vocali toniche ha origine nell’evoluzione dal latino volgare al friulano: una serie di processi diacronici (per la descrizione dei quali si rimanda a Francescato 1966 e Vanelli 1998) hanno portato alla comparsa di vocali toniche bimoraiche che, a seconda della vocale e del dialetto, si possono realizzare come vocali lunghe o come dittonghi.

4.2.1.1 Vocali lunghe vs. vocali brevi Nella maggior parte dei dialetti le vocali toniche alte */i/, */u/ e la vocale bassa */a/ del latino volgare hanno dato luogo a vocali lunghe, quando si trovano in un contesto che Francescato (1966, 19) chiama «posizione forte», cioè quando rappresentano la continuazione di una vocale latina in sillaba aperta seguita da una sillaba atona il cui attacco è costituito da un’ostruente scempia e la cui vocale è stata eliminata in seguito ad una serie di processi diacronici. Va notato che generalmente la vocale è lunga anche nei casi in cui la consonante in questione sia una liquida, sebbene i processi diacronici alla base di tale allungamento siano diversi (Pellegrini 1979, 1007; Frau 1984, 31). Sulla base dell’evoluzione di */i/, */u/ ed */a/ in posizione forte è possibile distinguere tra i dialetti che presentano vocali lunghe (come in [ˈnaːs] ‘naso’, [ˈpaːl] ‘palo’, [uˈliːf] ‘olivo’, [ˈfiːl] ‘filo’, [ˈkruːt] ‘crudo’, [ˈnuːl] ‘nuvola) e i dialetti che, negli stessi casi, presentano vocali brevi [ˈnas] ‘naso’, [ˈpal] ‘palo’, [uˈlif] ‘olivo’, [ˈfil] ‘filo’, [ˈkrut] ‘crudo’, [ˈnul] ‘nuvola’). Si noti che, in entrambi i tipi di dialetti, quando la vocale tonica in questione passa a essere atona, si realizza sempre come breve ([naˈzut] ‘nasino’, [paˈlut] ‘paletto’, [uliˈvut] ‘olivetto’, [fiˈlut] ‘filino’, [kruˈdut] ‘crudetto’, [nuˈlut] ‘nuvoletta’). La Figura 6 contiene una mappa in cui si può osservare come l’isoglossa che divide i dialetti con e senza vocali lunghe è di tipo V. Essa separa, cioè,

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le varietà carniche e centrali da quelle della periferia orientale ed occidentale, geograficamente in contatto con dialetti veneti che non conoscono l’opposizione di quantità vocalica.

Figura 6: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica delle diverse evoluzioni delle vocali alte e basse toniche del latino volgare in posizione forte, adattata da Francescato (1966)

4.2.1.2 Vocali lunghe vs. dittonghi discendenti (o iati) L’evoluzione delle vocali medie */e/, */o/, */ɛ/ e */ɔ/ del latino volgare in posizione forte ha dato vita ad un quadro più complesso di quello che è stato descritto nel paragrafo precedente. La Tabella 1 esemplifica la diversa evoluzione delle vocali in questione in alcuni dialetti che rappresentano le diverse soluzioni (le lettere che compaiono a fianco dei nomi dei dialetti fanno riferimento alle Figure 3 e 4). La prima grande distinzione è quella tra i dialetti che in questo contesto presentano dittonghi da quelli che non ne presentano (l’isoglossa che li separa è rappresentata con una linea continua nella mappa della Figura 7). Più nel dettaglio, le soluzioni principali, rappresentate nella metà alta della tabella, sono quattro: a) dialetti che presentano dittonghi sia per la coppia di vocali medio-alte che per quella di vocali medio-basse (*/e/ > [ej], */o/ > [ow], */ɛ/ > [ej], */ɔ/ > [ow]), b) dialetti in cui si hanno dittonghi

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Figura 7: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica delle diverse evoluzioni delle vocali medie toniche del latino volgare in posizione forte, adattata da Francescato (1966)

solo per la serie medio-alta (ma non sempre davanti a liquida) (*/e/ > [ej], */o/ > [ow], */ɛ/ > [iː] e */ɔ/ > [uː]), c) dialetti in cui i dittonghi compaiono solo per le due vocali medio-basse (*/e/ > [iː], */o/ > [oː], */ɛ/ > [ej], */ɔ/ > [ow]) e d) dialetti che non presentano mai dittonghi (*/e/ > [iː], */o/ > [oː], */ɛ/ > [iː] e */ɔ/ > [uː]). Le varietà che presentano dittonghi sia per le vocali medio-alte che per quelle medio-basse sono quelle occidentali, cui si aggiunge il fornese (cf. Figura 7). In questo modo l’isoglossa in questione è di tipo I. Un’isoglossa di tipo T, invece, separa i dialetti di tipo carnico – che dittongano solo le vocali medio-alte – dagli altri. I dialetti che dittongano solo le vocali medio-basse (basso gortano e il friulano di una fascia a cavallo del Tagliamento) si configurano invece come parlate «cuscinetto» tra le varietà occidentali e quelle carniche e centrali. Le parlate centro-orientali, infine, non presentano dittonghi ma vocali lunghe. Accanto a questi quattro tipi principali, esistono vari sottotipi, di cui si offre una selezione nella parte bassa della Tabella 1. All’interno del gruppo centro-orientale, la

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variante più notevole è quella dell’area goriziana, dove una semplificazione del sistema vocalico ha portato alla scomparsa delle vocali lunghe (diversa è invece un’evoluzione, apparentemente simile, che si è avuta nell’Alta Val Cellina, cf. Francescato 1966, 28). Peculiari sono le soluzioni dell’alto gortano e dell’asìno, che presentano dittonghi discendenti in corrispondenza con le vocali medio-basse, mentre nel caso delle vocali medio-alte hanno sviluppato gruppi vocalici di altro tipo, fondamentalmente iati in cui il primo elemento è tonico. Più isolata è la situazione dell’ertano, per la cui descrizione rimandiamo al capitolo ↗5.2 Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione veneto-friulana e a Francescato (1963c). La Tabella 1, che è stata compilata a partire dai dati dell’ALI e dell’ASLEF (in qualche caso integrati in base a rilevazioni ad hoc), contiene la trascrizione fonetica ampia di parole che esemplificano l’evoluzione delle vocali medie toniche del latino volgare in posizione forte seguite da consonante etimologica ostruente scempia o liquida scempia. Le voci che vi compaiono corrispondono al friulano standard pês ‘peso’, pêl ‘pelo’, pît ‘piede’ (a volte nella forma plurale), sîr ‘siero’, fûc ‘fuoco’, cûr ‘cuore’, vôs ‘voce’ e flôr ‘fiore’. Per l’ertano, in sostituzione di pêl ‘pelo’ e sîr ‘siero’ sono stati rilevati gli equivalenti di pêr/piruç ‘pera’ e mîl ‘miele’. Va ricordato che, mentre le realizzazioni in sede tonica sono molto diversificate dialettalmente, quando gli elementi vocalici in questione passano ad essere atoni si realizzano come vocali brevi in tutte le varietà (con alcune differenze di timbro tra un dialetto e l’altro). Tabella 1: Esemplificazione dell’evoluzione delle vocali medie toniche del latino volgare in posizione forte seguite da consonante etimologica ostruente scempia o liquida scempia. Occidentale comune (Q) Carnico comune (J)

Basso gortano (O)

Centrale comune (A)

*/e/

[ˈpejs] [ˈpejl]

[ˈpejs] [ˈpeːl]

[ˈpeːs] [ˈpeːl]

[ˈpeːs] [ˈpeːl]

*/ɛ/

[ˈpejt] [ˈsejr]

[ˈpiːt] [ˈsiːr]

[ˈpejt] [ˈsejr]

[ˈpiːt] [ˈsiːr]

*/ɔ/

[ˈfowk] [ˈkowr]

[ˈfuːk] [ˈkuːr]

[ˈfowk] [ˈkowr]

[ˈfuːk] [ˈkuːr]

*/o/

[ˈvows] [ˈflowr]

[ˈvowʃ] [ˈfloːr]

[ˈvoːʃ] [ˈfloːr]

[ˈvoːs] [ˈfloːr]

Goriziano (H)

Alto gortano (N)

Asìno (T)

Ertano (V)

*/e/

[ˈpes] [ˈpel]

[ˈpios] [ˈpiol]

[ˈpejs] [ˈpiəl]

[ˈpɛjs] [ˈpɛjr]

*/ɛ/

[ˈpit] [ˈsir]

[ˈpejʃ] (pl.) [ˈsejr]

[ˈpejʃ] (pl.) [ˈsiər]

[ˈpia] [ˈmial]

*/ɔ/

[ˈfuk] [ˈkur]

[ˈfowk] [ˈkowr]

[ˈfowk] [ˈkowr]

[ˈfɛwk] [ˈkɛwr]

*/o/

[ˈvos] [ˈflor]

[ˈvuoʃ] [ˈfluor]

[ˈvuəʃ] [ˈfluər]

[ˈɛwʃ] [ˈfjɛwr]

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4.2.1.3 Dittonghi ascendenti vs. vocali Le vocali medio-basse */ɛ/ e */ɔ/ del latino volgare presentano esiti diversi, a seconda del dialetto, quando si vengono a trovare davanti a quelli che Francescato (1966, 135) chiama «gruppi consonantici deboli» del latino, cioè fondamentalmente un gruppo formato da una rotica ed un’altra consonante (RR , RM , RN , etc., conosciuti anche come «erre complicate»), ma anche i gruppi NT , ND , etc. («enne complicata»), LL , CT o SS . All’interno del quadro piuttosto complesso di esiti delle due vocali in questione davanti ai diversi tipi di gruppi consonantici deboli (Francescato 1966, 31–36; 130– 143), ai fini della classificazione dei dialetti del friulano è particolarmente utile concentrare l’attenzione sugli esisti di */ɛ/ davanti ad erre complicata e di */ɔ/ davanti a enne complicata. Gli esiti di */ɛ/ sono distinti a seconda del gruppo consonantico debole che segue. Davanti ad erre complicata, si distinguono tre zone (Figura 8). Nella prima, che possiamo considerare rappresentativa della soluzione più conservatrice, l’esito è [jɛ], come in [ˈtjɛre] ‘terra’. Nella seconda, che è separata dalla prima da un’isoglossa di tipo V, si ha invece [ja], come in [ˈtjare] ‘terra’, che in alcune zone viene pronunciato [ˈtjaːre] (cf. § 4.2.3). Nell’ultima zona, che corrisponde all’ertano, non si ha un dittongo bensì [ɛ].

Figura 8: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica delle diverse evoluzioni di */ɛ/ davanti ad erre complicata, adattata da Francescato (1966)

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Quando */ɛ/ precede gruppi consonantici deboli diversi dalla erre complicata, le zone dialettali si dividono in due: mentre la quasi totalità dell’area friulana presenta [jɛ], l’ertano ha [ɛ]. La vocale */ɔ/ ha, davanti alla maggior parte dei gruppi consonantici deboli, tre esiti principali: [wɛ], [wɔ] e [wa]. Il primo, [wɛ], è caratteristico della maggior parte dell’area linguistica friulana (Figura 9), dove si registrano forme come [ˈkwɛt] ‘cotto’. Il secondo, [wɔ], appare nell’area occidentale più prossima al Veneto, dove sono maggioritari gli esiti del tipo [ˈkwɔt] ‘cotto’. La terza, [wa], è caratteristica dell’ertano, nel quale si ha [ˈkwat] ‘cotto’.

Figura 9: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica delle diverse evoluzioni di */ɔ/ davanti ad un gruppo consonantico debole, adattata da Francescato (1966)

La distribuzione geografica degli esiti di */ɔ/ davanti ad enne complicata segue uno schema che combina una isoglossa di tipo V con un’isoglossa di tipo I (Figura 10). Le diverse aree dialettali sono caratterizzate dalla presenza, rispettivamente, di [wi] (come in [ˈpwint] ‘ponte’, forma che caratterizza le parlate della Carnia, di parte della montagna pordenonese e della maggior parte del Friuli udinese), che si oppone a [wɔ] ([ˈpwɔnt], nella fascia occidentale dell’area concordiese e nel fornese) e [u] ([ˈpunt], variante predominante nel Friuli orientale, in quello occidentale e nella fascia a

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cavallo del medio e basso Tagliamento). L’ertano, che ancora una volta si distingue dal resto delle parlate friulane, presenta invece [ɔ] ([ˈpɔnt]). Va infine notato che */ɔ/ davanti ad erre complicata evolve in [wa] in tutto il dominio linguistico. Caratteristica comune a tutti i dialetti è anche il mantenimento dei dittonghi ascendenti in sede atona (p. es. da [ˈfwart] ‘forte’ si ha l’accrescitivo [fwarˈtoŋ] ‘fortissimo’). In relazione a quest’ultimo aspetto, i dittonghi derivanti da vocali in posizione debole differiscono da quelli che rappresentano l’evoluzione di una vocale in posizione forte, giacché questi ultimi in posizione atona vengono ridotti a una vocale breve (§ 4.2.1.2).

Figura 10: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica delle diverse evoluzioni di */ɔ/ davanti ad enne complicata, adattata da Francescato (1966)

4.2.2 Sistema consonantico Le principali differenze interdialettali in relazione al sistema consonantico emergono in corrispondenza dei fonemi coronali non anteriori (le occlusive /c/ e /ɟ/, le fricative ͡ A grandi linee, possiamo distinguere tra i dialetti che /ʃ/ e /ʒ/ e le affricate /tʃ͡ / e /dʒ/). conservano tutte tre le coppie di fonemi dai dialetti che, nel corso del tempo, hanno sostituito uno o più di essi con altri fonemi.  

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Le consonanti /ʃ/ e /ʒ/ vengono conservate in un’area che comprende quasi tutta la zona montuosa ed una fascia della zona collinare e della pianura. In tale zona si registrano opposizioni come [ˈpeːʃ] ‘pece’ vs. [ˈpeːs] ‘peso’ e [peˈʒute] ‘piccola pece’ vs. [peˈzute] ‘piccola pesa’. La separazione tra l’area conservatrice e quella innovatrice che ha sostituito /ʃ/ con /s/ e /ʒ/ con /z/ è segnata da un’isoglossa che combina l’andamento di tipo V con quello di tipo O (quest’ultimo attorno a Udine e a Tolmezzo; Figura 11). Laddove si è persa l’opposizione tra sibilanti alveolari e postalveolari, non si ha differenza tra [ˈpeːs] ‘pece’ e [ˈpeːs] ‘peso’ né tra [peˈzute] ‘piccola pece’ e [peˈzute] ‘piccola pesa’. Va notato che la presenza di isole conservatrici nella pianura suggerisce che /ʃ/ e /ʒ/ fossero presenti, in passato, in tutta l’area friulanofona. Il regresso di tali fonemi pare essere tuttora in corso: descrizioni recenti del friulano centrale (Frau 1984; Finco 2005) suggeriscono che negli ultimi decenni la loro area di diffusione si sia ulteriormente ridotta rispetto a quanto sostenuto da Francescato (1966) sulla base di dati raccolti nella prima parte del XX secolo.

Figura 11: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica dei fonemi /ʃ/ e /ʒ/, adattata da Francescato (1966)

Per quanto riguarda le occlusive palatali, si osserva una divisione dell’area friulana in due zone, separate da un’isoglossa di tipo V. Nella più conservatrice di esse, /c/ e /ɟ/

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vengono mantenute (e si registrano, quindi, forme come [ˈcaŋ] ‘cane’ e [ˈɟat] ‘gatto’), ͡ ([ˈtʃaŋ] ͡ mentre nel resto dell’area friulanofona sono state sostituite con /tʃ/͡ e /dʒ/ ͡ ‘cane’ e [ˈdʒat] ‘gatto’; Figura 12). Si osserva anche che i centri urbani di Udine, Cividale e Tolmezzo sono separati dai territori limitrofi, più conservatori, da isoglosse di tipo O.

Figura 12: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica dei fonemi /c/ e /ɟ/, adattata da Francescato (1966)

La sostituzione delle occlusive palatali con le affricate postalveolari è spesso accompagnata da altri cambiamenti fonologici, in una specie di «effetto domino». La più evidente di queste sostituzioni a catena è quella che interessa le affricate postalveolari: in un’ampia zona – a grandi linee coincidente con quella innovativa della Figu͡ passa a /z/ o a /dz/. ͡ Il passaggio da /tʃ/ ͡ passa a /s/ o a /ts/, ͡ mentre /dʒ/ ͡ a ra 12 – /tʃ/ ͡ è conosciuto come /s/ prende il nome friulano di sicament, mentre il passaggio a /ts/ ͡ zicament. Nei casi in cui le varietà conservative hanno forme come [ˈtʃiŋk] ‘cinque’, i ͡ dialetti con sicament presentano [ˈsiŋk] e quelli con zicament hanno [ˈtsiŋk]. La Figura 13 presenta la diffusione geografica di sicament e zicament sulla base del fonema sordo (per quello sonoro l’isoglossa è leggermente diversa, cf. Francescato 1966, 49). Nella stessa mappa si osserva anche che i dialetti della fascia in prossimità

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del Veneto presentano, in sostituzione delle affricate postalveolari, le fricative dentali /ð/ e /θ/ (come in [ˈθiŋk]).

͡ Figura 13: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica della conservazione del fonema /tʃ/, adattata da Francescato (1966)

4.2.3 Processi fonologici Tra i processi fonologici rilevanti, alcuni – come la desonorizzazione delle ostruenti finali – interessano tutta l’area friulana e, quindi, non sono rilevanti per tracciare distinzioni tra dialetti. Altri processi sembrano essere invece limitati ad alcune varietà. Tra questi possiamo ricordare la caduta del morfema /s/ del plurale femminile all’interno di un sintagma (Francescato 1966, 76), la sonorizzazione della /s/ finale dei determinanti femminili davanti ad una parola che inizia con vocale o consonante sonora (Francescato 1966, 66; Finco 2007b), l’epentesi dopo consonante nasale in posizione finale di parola (Francescato 1966, 65s.; Heinemann 2001), l’allargamento di una vocale tonica davanti a sibilante sonora (Hajek/Cummins 2006) o davanti a gruppo formato da laterale più occlusiva/affricata (Roseano 2012, 49).

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Tra i processi che sono stati descritti in un numero sufficiente di varietà, è interessante l’allungamento della vocale tonica davanti ad una /r/ che deriva da una erre complicata etimologica (come, ad esempio, nel caso di CARRU > /ˈcar/ ‘carro’). Si possono differenziare i dialetti conservatori in cui la vocale tonica in tale contesto si realizza come breve ([ˈcar] ‘carro’, che si oppone a [ˈcaːr] ‘caro’) dalle varietà innovative in cui la stessa vocale si realizza come lunga ([ˈcaːr] ‘carro’ e ‘caro’, indistinguibili), in base ad un processo che in sincronia può essere sintetizzato come ˈV → ˈVː / __r. L’isoglossa che separa i due tipi di dialetti segue un andamento ad O che ha il suo centro nella città di Udine e comprende un’ampia area della pianura e della collina (Figura 14).

Figura 14: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica dell’allungamento della vocale tonica davanti a /r/, adattata da Francescato (1966)

4.2.4 Fonologia sovrasegmentale Lo studio della variazione dialettale degli aspetti sovrasegmentali della fonologia friulana è una disciplina che si trova ancora nelle sue fasi iniziali. Recenti studi (Roseano 2012; Roseano/Prieto/Vanrell in stampa) suggeriscono che l’elemento di differenziazione più evidente a livello intonativo è il diverso andamento della curva

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della frequenza fondamentale nelle sillabe postoniche finali delle frasi dichiarative. Mentre nel friulano centro-orientale in tali sillabe si osserva normalmente una risalita significativa della curva (superiore a 1,5 semitoni), nelle varietà carniche ed occidentali tale risalita è statisticamente meno frequente e quantitativamente più ridotta (normalmente inferiore a 1,5 semitoni).

4.3 Morfologia Le opere di Francescato (1966) e Frau (1984) offrono una rassegna ampia degli aspetti morfologici che differiscono da un dialetto all’altro (forma degli articoli determinativi, formazione del plurale dei nomi femminili, realizzazioni fonetiche dei plurali in /t+s/, forme della 3 pers. sg. femminile dell’indicativo presente del verbo jessi, etc.). In questo capitolo si presenteranno dati su tre elementi che permettono di delineare differenze dialettali chiare: il morfema che caratterizza i nomi femminili singolari, il morfema dell’infinito presente dei verbi ed il morfema della prima persona plurale dell’indicativo presente.

Figura 15: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica dei morfemi del femminile singolare, adattata da Frau (1984) con integrazioni

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4.3.1 Morfema dei nomi femminili singolari La -A atona latina in posizione finale di parola, sia quando costituisce il morfema dei nomi femminili singolari che in altri casi (come la desinenza della terza persona singolare dell’indicativo presente dei verbi della prima declinazione), ha tre esiti principali ([a], [e] ed [o]), cui si aggiunge la variante [ə]. La forma [a] è quella geograficamente più diffusa (cf. Figura 15). La forma [o], oggi limitata ad aree periferiche, ha conosciuto una diffusione maggiore in epoca medievale (↗4.3 Storia linguistica interna). La variante [e], attestata in una fascia verticale che va dalle Alpi all’Adriatico, sembra invece essere di introduzione più recente. Il morfema [ə], infine, è attestato nelle varietà del Canale d’Incaroio e della Val d’Arzino. Può essere interessante ricordare che la diversità degli esiti della -A atona latina è percepita come particolarmente rilevante dai friulani, che tradizionalmente caratterizzano i dialetti come fevelâ cul a (letteralmente ‘parlare con l’a’, cioè con [a] finale), fevelâ cul e (‘parlare con l’e’, cioè con [e]) e fevelâ cul o (‘parlare con l’o’, cioè con [o]).

4.3.2 Infinito dei verbi I dialetti friulani si dividono in due grandi aree in relazione con il morfema dell’infinito presente dei verbi della prima, seconda e quarta coniugazione. Ad un’area conservatrice che presenta vocali lunghe (come in [klaˈmaː] ‘chiamare’, [taˈzeː] ‘tacere’ e [kuˈziː] ‘cucire’) si oppone una zona che presenta vocali brevi ([klaˈma], [taˈze], [kuˈzi]). Nella mappa della Figura 16 si può notare come un’isoglossa di tipo T separa la zona conservatrice dal resto dell’area friulanofona.

4.3.3 Prima persona plurale dell’indicativo presente Un terzo aspetto che permette di distinguere aree dialettali è il morfema che contraddistingue la prima persona plurale della forma dichiarativa dell’indicativo presente. Il morfema più diffuso è /+ˈin/, che caratterizza i dialetti carnici, quelli centro-orientali e parte di quelli occidentali. Ad occidente della confluenza tra Cellina e Meduna, i dialetti concordiesi presentano il morfema /+ˈen/ (per la III terza coniugazione; ↗9 Morfologia e sintassi), mentre nell’area più prossima al Veneto si ha /+ˈon/ (Figura 17).

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Figura 16: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica delle vocali lunghe nell’infinito verbale, adattata da Francescato (1966) con integrazioni

Figura 17: Mappa che rappresenta la distribuzione geografica dei morfemi di prima persona plurale dell’indicativo presente, adattata da Francescato (1966)

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4.4 Sintassi La sintassi del friulano è stata oggetto di un discreto numero di studi (↗9 Morfologia e sintassi), alcuni dei quali prestano attenzione anche alle differenze dialettali (che non sono numerose), soprattutto dell’area concordiese rispetto a quella centrale (Benincà/ Vanelli 1984; Benincà 1986; Poletto 2000). Ciò nonostante, la rilevazione dei dati non copre il territorio in modo capillare e sistematico e, per questo motivo, non è possibile tracciare con certezza isoglosse che dividano l’area friulanofona. Tra gli aspetti che potrebbero rivelarsi interessanti in chiave dialettale vi è senz’altro quello dell’uso dei pronomi soggetto clitici nelle forme verbali interrogative dell’indicativo. In questo senso, sembra probabile che l’area friulana si divida in zone in cui non vi sono differenze sintattiche tra la forma dichiarativa e quella interrogativa (come a Gorizia, dove [ˈklama] ‘chiama’ e [ˈklamistu] ‘chiami’ sono forme sia dichiarative che interrogative) ed aree in cui tale differenza è data dalla posizione del soggetto clitico (come nella zona centrale e carnica, in cui le forme dichiarative con pronome soggetto proclitico come [tu ˈklamis] si oppongono a quelle interrogative con pronome soggetto enclitico come [ˈklamistu]). All’interno delle aree che distinguono sintatticamente le forme dichiarative ed assertive, vanno trattate a parte le varietà – concentrate nella zona concordiese – in cui possono comparire due pronomi clitici nelle forme interrogative di alcune persone verbali (come in [i ˈklamitu] ‘chiami’, che si oppone alla forma dichiarativa [ti ˈklamis]).

4.5 Lessico I termini presenti nelle mappe degli atlanti linguistici possono essere divisi in quattro categorie. La prima comprende i casi in cui il friulano non differisce lessicalmente dalle parlate romanze vicine. I derivati del latino LUNAM , per esempio, non permettono di distinguere il friulano dai dialetti veneti che lo circondano. I termini del secondo gruppo, invece, consentono di differenziare l’area friulana nel suo complesso dalle lingue neolatine vicine. Un esempio di questo tipo è quello del friulano cjâf, che continua il latino CAPUT , mentre le parlate romanze con cui confina a occidente presentano forme del tipo TESTA (Frau 1984, 98). La terza categoria di termini è rappresentata dai casi come quello dei nomi friulani della coda di volpe (code di volp, morene, altissime…), che presentano una distribuzione territoriale a macchia di leopardo che non consente di tracciare isoglosse di facile interpretazione. Per il quarto gruppo di termini, invece, è possibile individuare aree di diffusione che corrispondono ad aree dialettali di maggiori o minori dimensioni. Le isoglosse che si possono tracciare sulla base del lessico seguono andamenti di diverso tipo. Le mappe di questa sezione del capitolo, basate sui dati dell’ASLEF, offrono alcuni esempi delle forme più notevoli di distribuzione delle varianti lessicali sul territorio. Nella Figura 18, relativa ai nomi friulani dell’AIUOLA , si nota una

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tripartizione tra l’area carnica (in cui prevalgono forme del tipo plet), un’area concordiese (in cui sono comuni le forme del tipo jeche) ed un’area centro-orientale (che predilige le forme del tipo strop; Vicario 2005). In altri casi si rendono evidenti bipartizioni dialettali. Per esempio, in base al nome della PATATA (Figura 19), si possono distinguere le parlate carniche (e, più in generale, montane) che preferiscono forme come cartufule dalle parlate pianigiane occidentali e centro-orientali, in cui predominano nettamente le forme del tipo patate. Se si considera invece la distribuzione dei nomi del SALICE BIANCO , si osserva una linea di divisione che separa le forme del tipo molec, tipiche del friulano centro-orientale, da quelle del tipo vencjâr, che predominano in area carnica e concordiese (Figura 20). Un ulteriore esempio, questa volta di separazione tra il friulano occidentale ed il resto dei dialetti, è quello dei nomi della PIOTA riportato nella Figura 21, in cui si può notare la presenza di due aree: il Friuli occidentale presenta forme del tipo çope, mentre la zona carnica e centrooccidentale preferisce bar.

Figura 18: Mappa che rappresenta le aree di prevalenza dei nomi friulani dell’AIUOLA

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Figura 19: Mappa che rappresenta le aree di prevalenza dei nomi friulani della PA P ATATA TATA

Figura 20: Mappa che rappresenta le aree di prevalenza dei nomi friulani del SALICE BIANC BIANCO O

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Figura 21: Mappa che rappresenta le aree di prevalenza dei nomi friulani della PIOTA PIOT A

5 Considerazioni conclusive Il friulano, pur configurandosi come una lingua facilmente distinguibile dalle varietà neolatine vicine, presenta al suo interno una ricca diversificazione dialettale. Fattori storici, geografici ed antropici, unitamente al contatto con altre lingue (§2), hanno portato alla nascita di varianti geolinguistiche che la dialettologia tradizionale ha distinto e classificato soprattutto in base a criteri di tipo fonologico (§4.2), morfologico (§4.3) e lessicale (§4.5), mentre gli elementi fonetici (§4.1) e sintattici (§4.4) sono rimasti in secondo piano. Sulla scorta di tali aspetti linguistici, si è soliti raggruppare i dialetti del friulano in tre grandi blocchi: nell’area montuosa settentrionale si ha il carnico (conosciuto anche con il nome friulano di cjargnel), nella zona di collina e di pianura ad Est del Tagliamento si ha quello centro-orientale (che in friulano viene denominato furlan di ca da la aghe, letteralmente ‘friulano al di qua dell’acqua’, cioè al di qua del Tagliamento) e, infine, ad Ovest dello stesso fiume troviamo quello occidentale (in friulano furlan di là da la aghe, ovvero ‘friulano al di là dell’acqua’). All’interno di queste tre grandi formazioni è possibile individuare una ventina di varietà principali (Figura 4), tra le quali figurano anche varietà di transizione tra i tre blocchi. La definizione delle relazioni gerarchiche tra blocchi dialettali, dialetti e sottodialetti (Figura 3) è stata effettuata, come è tipico della metodologia della dialettologia classica, a partire da considerazioni di tipo geografico e dall’osservazio-

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ne dell’andamento dei fasci di isoglosse. L’applicazione di tecniche di analisi dialettometrica alle basi di dati dell’ALI e dell’ASLEF potrebbe portare ad una conferma – o ad una precisazione – di tale proposta di gerarchizzazione. La digitalizzazione dei materiali esistenti, assieme alla creazione o al potenziamento di atlanti linguistici multimediali (che includano anche informazioni più abbondanti su fenomeni fonetici segmentali, sulla fonologia sovrasegmentale e sulla sintassi) sono alcune delle frontiere di espansione della dialettologia friulana nel XXI secolo.

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5.2 Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione veneto-friulana Abstract: Il presente capitolo descrive idiomi o gruppi di varietà che fanno parte del territorio linguistico friulano, che non sono facili da caratterizzare: così per l’ertano è stato discusso ripetutamente il suo status di varietà del ladino dolomitico o del friulano, mentre non è ancora stato definitivamente chiarito se il bisiaco sia un idioma di base veneta fortemente friulanizzato o un friulano di profonda venetizzazione. Infine le varietà della fascia di transizione veneto-friulana sono sì di struttura friulana, ma mostrano influssi fonetici/fonologici e morfologici che non permettono una caratterizzazione univoca come varietà friulane, bensì piuttosto come varietà miste in un quadro sociolinguistico complesso. Keywords: fascia di transizione veneto-friulana, amfizona, bisiaco, ertano, cassano

1 Introduzione La composizione linguistica del Friuli è caratterizzata da una forte complessità, sia interna al sistema friulano, sia dovuta alla presenza di (e ai fenomeni di contatto con) varietà non appartenenti a esso, in particolare con le varietà venete. Per il contatto con il veneto bisogna distinguere tre gruppi (cf. Ursini 1989; ↗6.3Veneto): il veneto coloniale derivante dall’egemonia della Serenissima dal ’400 si riflette nella continua influenza delle parlate friulane di confine e nella diffusione di un veneto «importato» nei centri cittadini. Molte città oggi sono trilingui (friulano, italiano, veneto) o addirittura, come p. es. a Trieste, il friulano è stato soppiantato e sostituito dal veneto (cf. ↗5.4 Tergestino/Muglisano), vista la sua percezione come low variety rispetto al veneto, high variety di maggior prestigio. In questo caso dunque è importante non solo il contatto sull’asse orizzontale, ma anche su quello verticale, sebbene con la crescita di prestigio del friulano a Udine si noti un continuo declino del veneto. Accanto al veneto coloniale sono poi da tenere in considerazione il veneto originario o lagunare, diffuso cioè storicamente su territorio friulano con forti influssi dell’idioma dominante – oltre forse al bisiaco, il cui status è discusso nel presente contributo, si ricordano maranese e gradese –, e quello di contatto o di confine, qui trattato con riferimento al confine occidentale del territorio friulano (sui confini linguistici del friulano in generale cf. Heinemann in preparazione). Il presente capitolo illustrerà quattro realtà linguistiche marginali, ma di notevole interesse per la loro controversa classificazione geolinguistica: l’ertano, il cassano, il bisiaco e le varietà della fascia di transizione veneto-friulana.

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2 Ertano e cassano Il piccolo comune montano di Erto e Casso (424 abitanti; Francescato 1991d [1979], 96 ne contava 572 solo a Erto; prima della tragedia del Vajont su cui cf. infra erano decisamente più numerosi) è situato nella valle del Vajont in Valcellina, all’estremo confine occidentale del Friuli (subito a ovest comincia il Cadore bellunese) e volto non a questo, ma alla veneta Valle del Piave. Esso spicca nel panorama linguistico regionale per l’originalità delle tra loro assai diverse parlate delle due comunità, unite nell’unica entità amministrativa nel 1886, ma la cui storia fin dalle origini si sviluppò secondo linee separate e distinte. In particolare l’attribuzione geolinguistica dell’ertano è (stata) oggetto di controversie tra gli studiosi.

2.1 Ertano Fu Ascoli (1873) «[i]l primo ad occuparsi da un punto di vista scientifico» (Francescato 1963, 493) dell’ertano, ma la prima descrizione completa di tale parlata risale a Gartner (1892, nella Zeitschrift für romanische Philologie), che ne sottolineava la peculiarità e rimarcava la difficoltà nella determinazione della posizione di tale idioma in rapporto alle parlate «tirolesi, friulane e venete» (cf. Gartner 1892, 183) circonvicine. Una settantina d’anni dopo – ancora sulle pagine della ZrP – seguì un altrettanto fondamentale contributo del linguista friulano Giuseppe Francescato (1963). Il 1963 purtroppo segnò però anche una dolorosissima cesura per la comunità ertana, poiché in tale anno occorse il cosiddetto «disastro del Vajont»: la tracimazione d’acqua conseguente alla caduta di un’enorme frana nel bacino idroelettrico artificiale creato sul corso del torrente Vajont causò migliaia di vittime e danneggiò a tal punto Erto che questo dovette essere abbandonato. La popolazione si trasferì temporaneamente nelle vicine, ma dialettalmente diverse, Cimolais e Claut. In seguito circa un terzo degli abitanti rientrò nel nucleo ertano originale, ma la struttura sociale e linguistica della comunità ne fu profondamente modificata (cf. Francescato 1989, 607s.; 1991d [1979] e infra; la situazione sociolinguistica si complicò ulteriormente poiché gran parte della popolazione ertana e cassana si trasferì, mescolandosi, in un nuovo nucleo abitativo, Vajont (ora comune autonomo), in cui le condizioni sociali e i contatti con parlanti di varietà altre sono diversi da quelli originari. Come rimarcato dal Francescato, la trattazione dell’ertano aveva risentito della «pregiudiziale ascoliana del carattere ‹centrale›» (Francescato 1963, 493) di tale parlata, che Ascoli riteneva come varietà del ladino centrale, connessa con le varietà dell’alto bellunese (cf. Ascoli 1873, 390), seppur a stretto contatto con le varietà friulane circonvicine. Su tale scorta infatti, nella sua disquisizione Gartner aveva affermato di riscontrare grandi somiglianze tra l’ertano e il ladino gardenese (e lo zoldano; sul perché tale vicinanza linguistica e geografica non rivesta un’importanza decisiva per il Gartner cf. Francescato 1963, 495); escludendo un’immigrazione dalla

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Val Gardena, egli ipotizzava un’antica unitarietà dei due dialetti, interrotta solamente dalla venetizzazione delle parlate del Piave (cf. Gartner 1892, 370, cf. anche Francescato 1979, 118, sull’infondatezza di tale ipotesi). La questione così impostata è stata dibattuta – e combattuta – specialmente da Battisti, acerrimo avversario di ogni teoria dell’«unità ladina», che tuttavia propendeva per l’attribuzione dell’ertano al ladino dolomitico, non ritenendo improbabile e tantomeno negata un’immigrazione dal Livinallongo (Battisti 1947, 40). Francescato (1966, 170; 1979, 118s.) propendeva invece prudentemente per un’antica friulanità della valle del Piave, rilevando come l’ertano condivida sì con le varietà della fascia friulano-veneta la maggior parte delle sue peculiarità, mostri però anche concordanze con altre varietà friulano-occidentali (e addirittura orientali), ed abbia invero ben poche caratteristiche sue precipue (cf. Francescato 1966, 121). La friulanità di Erto per Francescato è dunque incontestata (cf. anche Francescato 1978, 113–115). Frau (1984a, 169s.) concorda con tale posizione, rileva tuttavia un influsso veneto assai profondo, sebbene di data recente (cf. Frau 1984a, 170); anche Croatto (2010, 205) colloca l’ertano nel diasistema friulano, pur rimarcando a sua volta il «debito» verso le varietà venete circonvicine. Rizzolatti (1996b, 297; 1996c, 111s.) imposta la questione in altri termini, rilevando, sulla scorta di Pellegrini (cf. p. es. 1988, passim), un fondo comune antico veneto-friulano-ladino (sulla presunta unitarietà di sviluppi nel friulano e veneto medievali cf. già Battisti 1959), cui si accompagnerebbe una lunga e profonda pressione veneta. La stessa autrice (Rizzolatti 1996b, 291s.) nega, in base a dati orografico-geografici e storici, una colonizzazione di Erto a partire dal municipium concordiese, propendendo per l’ipotesi «di una colonizzazione delle vallate del Cellina e del Vajont proveniente dalla vallata del Piave (teoria di Ascoli) successivamente fusasi con ulteriori ondate provenienti dal Friuli Occidentale» (Rizzolatti 1996b, 292; cf. anche 1996a, 62). L’autrice rileva affinità con i caratteri dei dialetti rustici dell’antico bellunese e delle varietà agordine arcaiche, ma riconduce le affinità con il Livinallongo a sviluppi indipendenti da comuni condizioni di partenza – il contatto tra varietà ladine e rispettivamente friulane con il modello veneto arcaico di stampo bellunese. Erto presenterebbe dunque tendenze che lo accumunano ai dialetti della fascia di transizione friulano-veneta da una parte e altre che coincidono con sviluppi di tipo cadorino (cf. Rizzolatti 1996a, 76). È soprattutto il vocalismo dell’ertano che presenta caratteristiche che, per Francescato (1963, 501), pertengono al «diasistema» fonologico friulano, in particolare occidentale (la limitazione dell’autore a tale ambito è criticata da Rizzolatti 1996b, 294s.). Tra le peculiarità più rilevanti si segnalano la mancanza di allungamento (come nelle varietà friulane occidentali e non solo) e la tendenziale resa di -A - latina tonica in posizione forte con [ɛ] (cf. Francescato 1963, 502s.; Rizzolatti 1996a, 73), p. es. in [ðeˈnɛr] ‘gennaio’ (cf. ALD I 341), caratteristica presente anche in altre varietà friulane, seppur accompagnata da allungamento della vocale (cf. Francescato 1963, 502) e che avviene in condizioni diverse da quelle del ladino dolomitico (cf. Frau 1989, 635). Dovuta a influsso veneto è la scelta di [e] come vocale d’appoggio contro l’[i] di altre varietà friulane (p. es. [ˈaltre] ‘altro’ (ALD I 21) contro friulano [ˈaltri], cf. Frau

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1984a, 172). Da rimarcare come – non diversamente peraltro da analoghi sviluppi in altri dialetti friulani – /ɛ/ ed /e/ in posizione forte diano come esito rispettivamente lo iato [ˈia] e il dittongo [ei ̯] (che però non coincide in esiti e condizioni con quella friulano-occidentale, cf. Rizzolatti 1996a, 74) mentre /ɔ/ e /o/ dittongano in [ɛu̯], p. es. [ˈfɛu̯ k] (cf. Frau 1989, 635; ALD I 331 ha – riporto in IPA – [ˈfæu̯k]; cf. anche Rizzolatti 1996a, 75; 1996b, 309s., che riscontra la confluenza dei due esiti anche in varietà friulano occidentali e cadorine e la ritiene frutto di semplificazione tipica delle zone di transizione). /ɛ/ conosce la stessa evoluzione talora anche in posizione debole (non davanti a nasale complicata, dove passa a [ɛi ̯]); in tali contesti /ɔ/ passa a [wa] (p. es. [ˈkwaʃa], cf. Francescato 1966, 266; Frau 1989, 635), ma vi sono anche casi di non dittongazione (per influsso veneto, cf. Frau 1984a, 174; il tipo [wa] si estende talora anche alla posizione forte, cf. Rizzolatti 1996a, 74); manca la dittongazione anche davanti a nasale o [r] + consonante (davanti a n complicata si ha mantenimento di [ɔ]). Conclusa questa sommaria descrizione dei tratti più interessanti del vocalismo, per il consonantismo paiono degni di nota: 1) evoluzione di CA > [ʃa], p. es. [ʃalt] ‘caldo’ (ALD I 92), forse per mantenere tali esiti distinti da quelli di CL ; 2) CL > [tʃ͡ ], p. es. [tʃ͡ ɛ] ‘chiave’ (ALD I 149), come anche a Cimolais, e soluzione dei nessi BL , GL , PL , FL , TL sia iniziali che in corpo di parola, per Francescato (1963, 521) e Frau (1984a, 171) segno di venetizzazione; 3) CE e CI > [te], [ti] (come anche a Claut, cf. Francescato 1966, 263s., e nella fascia friulano-veneta, cf. Frau 1984a, 175); 4) - C - intervocalica dà come esito [d͡ ʒ] e non [i ̯] o zero come nelle altre varietà friulane (cf. [froˈmid͡ ʒa] ‘formica’ (ALD I 309) contro friulano centrale furmie); 5) G davanti a E , I > [ð], p. es. [ˈðɛi ̯nt] (cf. ALD I 342), [ðenˈðiva] (cf. ALD I 340); 6) /t/ davanti ad [j] > [t], p. es. [konˈtɛi ̯nt] ‘contenti’(ALD I 184, ma /tj/ antico ha come risultato finale [ʃ], cf. Frau 1984a, 175); 7) generale caduta di -v- sia originaria che derivata da B , P , nonché di v-; 8) /d/ davanti a /r/ > [ð]; 9) /s/ sempre palatalizzata in [ʃ] o, in posizione intervocalica, [ʒ] (cf. Francescato 1966, 267); 10) [ʃ] è il risultato anche del nesso SC + A , come in altre varietà dell’alta Valcellina e nell’Agordino (Francescato 1963, 514). In posizione finale dopo vocale forte (p. es. nei participi passati, cf. infra) vi è caduta di -t e -f (fenomeno presente nei dialetti della (alta) Valcellina e di Paularo, in Carnia, cf. Francescato 1966, 25s.). Vi sono poi casi di prostesi vocalica o consonantica, come nel nome del paese, dialettale Nert (cf. Francescato 1966, 267). In particolare il passaggio di C davanti a e ed i a [t] (qui fenomeno 3) e l’analogo passaggio di G nelle stesse condizioni a [ð] (qui numero 5) hanno dato luogo a interpretazioni diverse; per Francescato (1963, 512s.) la distribuzione dei due suoni risponde alle condizioni del diasistema friulano, diverso da quello veneto e ladino, Trumper (1972, 41s., nota 22) propende per un modello veneto (adducendo a corroborare la sua ipotesi anche il passaggio, di matrice veneta, di /d/ davanti a /r/ > [ð], qui fenomeno 8; le argomentazioni non paiono convincenti). Rizzolatti (1996b, 307) sottolinea che l’influsso veneto è antico e si manifesta spesso diversamente da quello sulle varietà della fascia di transizione. Per la morfologia si segnalano: 1) pronomi possessivi pl. [ˈmiak] ‘miei’, [ˈtʃ͡ iak] ‘tuoi’ e [ˈʃiak] ‘suoi’ (cf. Frau 1984a, 177); 2) pronome personale soggetto di 1. pers.

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[ˈjua] (cf. Francescato 1966, 268; Frau 1989, 635), analogo al friulano jo (contro veneto mi), 3) generalizzazione della desinenza [ˈɔŋ] per la 1. pers. pl. (in accordo con la fascia di transizione friulano-veneta, il feltrino bellunese e il trevigiano settentrionale rustico, cf. Heinemann 2007, 103); 4) la desinenza dei pl. femm. con sg. in -a è -e (per Frau 1984a, 172, di influsso veneto); 5) invariabilità al plurale dei femminili terminanti in consonante, p. es. [maŋ] ‘mano’, ‘mani’ (ALD I 434; cf. Frau 1984a, 176); 6) i maschili normalmente hanno plurale in [-ʃ], mentre [-l] spesso > [i ̯], come nelle altre varietà friulane; si segnalano anche forme invariate; 7) participi passati masc. vocalici in [ˈɛ], [ˈu], [ˈi] (femm. in [ˈada], [ˈuda], [ˈida], cf. Francescato 1966, 266); 8) 2. pers. sg. e pl. asigmatica, p. es. [tu to ˈvei ̯ŋ] ʻ(tu) vieni’ (ALD I 849), [to ˈkonte ˈʃempri] ‘racconti sempre’ (ALD II 208), [ˈai ̯ŋ ʃe parˈlɛ ˈpjaŋ ˈpjaŋ] ‘anche se parlate piano piano’ (ALD II 301; cf. Frau 1984a, 178s.; Francescato 1963, 500, la riscontra anche nella fascia di transizione friulano-veneta); 9) analogamente ricondotta a influsso veneto (e presente nella fascia di transizione) è l’identità tra 3. pers. sg. e pl. dei verbi, anche ausiliari (Francescato 1963, 519; Rizzolatti 1996a, 76); 10) mancanza di vocale d’appoggio nella 1. pers. sg. del presente dei verbi risalenti alla I coniugazione latina (p. es. iúa port invece che jo o puarti, cf. Rizzolatti 1986c, 455). Tale caratteristica, presente anche in testi friulani occidentali antichi, oltre che nel cividalese, nel trevigiano e nel bellunese antichi (cf. Rizzolatti 1996b, 312), potrebbe dunque non essere di derivazione veneta, bensì «si dovrà forse supporre una più prolungata resistenza delle varietà occidentali ad accogliere la vocale d’appoggio e a sanare l’asimmetria delle prime tre persone» (Rizzolatti 1986c, 455). Per il lessico, meno studiato, Frau (1984a, 179) sottolinea il forte influsso veneto; Croatto (2010) rileva corrispondenze tra ertano e le varietà venete dello zoldano (ma anche del bellunese e dell’agordino), che in parte non paiono peculiari dell’ertano, ma presenti anche in altre varietà valcellinesi (in particolare nel clautano), come balzèul ‘striscia di cuoio degli zoccoli’, cabótola ‘capriola’, golagna ‘giogaia del bue’ (cf. Croatto 2010, 207). Numerose sono anche le voci valcellinesi, con parziali corrispondenze anche in varietà venete (e in parte anche nel friulano), come p. es. dòrch ‘fieno di secondo taglio’ o tamai ‘trappola’ (Croatto 2010, 208). Numerosissime le corrispondenze con il friulano centrale, anche – in tal caso pure con altre varietà dell’Italia nord-orientale – nella toponimia (cf. Croatto 2010, 209–212).

2.1.1 «Morte o trasfigurazione»? I cambiamenti sociolinguistici allora in atto nella «vecchia» e «nuova» Erto, a pochi anni di distanza dalla tragedia del Vajont, furono studiati da Francescato (1991d [1979]), con un’indagine tra scolari delle scuole elementari e medie di Vajont e i loro genitori. Questa mostrava una progressiva perdita generazionale dell’ertano (più che del cassano), con tenuta del veneto, ma soprattutto notevole crescita dell’italiano. Nell’ertano si manifestava una situazione complessa, con un progressivo arretramen-

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to – soprattutto in chiave diafasica – di alcune delle caratteristiche più tipiche, sia a livello fonetico-fonologico, sia morfologico, sia lessicale, a fronte della relativa tenuta (seppur con una discreta varianza) di altri tratti peculiari. I cambiamenti in atto erano, secondo Francescato, comuni sia ai parlanti rientrati nella «vecchia» sia a quelli rimasti nella «nuova» Erto, cosa che egli faceva risalire a quattro fattori: a) la convivenza dei due gruppi dopo la tragedia del 1963; b) la pressione di veneto e italiano, analoga per i due gruppi; c) lo sforzo di mantenimento dell’identità linguistica peculiare; d) l’ancora troppo breve periodo di separazione delle due comunità. Tre decenni e mezzo dopo tale ricerca mancano studi che mostrino se e in quale misura le due comunità si siano differenziate dal punto di vista linguistico e nei repertori sociali e individuali e quanto l’ertano sia cambiato.

2.2 Cassano «Una varietà dimenticata»: così caratterizzava Francescato (1979) la parlata di Casso, piccolo paese amministrativamente unito a Erto, da cui dista circa quattro chilometri. In tal modo evidenziava come tale varietà non avesse attratto l’attenzione della ricerca glottologica e dialettologica come avrebbe meritato, anche in riferimento alla questione su quale delle due sia «la parlata ‹antica› della valle del Piave» (Francescato 1979, 121). La situazione da allora, purtroppo, non è cambiata: l’interesse del mondo della ricerca non si è volto che in maniera marginale a questa varietà – emblematico in tal senso è Frau (1983), che in un articolo dedicato al confine veneto-friulano sul cassano non spende più di un inciso. In anni recenti si registra un breve intervento di Croatto (2011, identico in altra sede 2013), che rimarca come «nessun atlante linguistico (AIS, ALI, ASLEF, ALD) abbia condotto inchieste in questa località» (Croatto 2011, 201). A differenza dell’ertano, la veneticità del cassano non pare dubbia. Francescato (1979, 118s.) la riconduce da un lato alla composizione della popolazione, insediatasi probabilmente dalla valle del Piave (i primi documenti su Casso non sono anteriori al XIV sec., cf. Rizzolatti 1996a, 67; 1996b, 302; 1996c, 43) e apportante una parlata influenzata dal modello cittadino bellunese (cf. Rizzolatti 1996a, 67) alla ricerca di terreni idonei all’agricoltura montana, mentre gli ertani erano dediti «all’artigianato del legno e al commercio ambulante» (Francescato 1979, 118). Dall’altro lato egli considera anche fattori esterni, come l’orientamento ecclesiastico verso Belluno (rispetto a Erto, a lungo territorio del patriarcato friulano, e solo più tardi inglobato nella diocesi bellunese, cf. Francescato 1991d [1979], 95) e la più facile raggiungibilità della Valle del Piave venetofona rispetto alla pianura friulana. Francescato (1979, 119) caratterizza il cassano come veneto con «corrispondenze con l’agordino meridionale, da una parte, e con certi fenomeni delle parlate dell’alto Piave, dall’altra» (p. 121). Concorda Rizzolatti (1996c, 44), che ritiene tali fenomeni arcaici, seppur la parlata di Casso sia più innovativa dei circonvicini clautano, cimoliano ed ertano (Rizzolatti 1996c, 102; sull’ipotesi di caratteristiche antiche comu-

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ni nelle parlate della zona, cf. supra). Croatto (2011, 202) infine parla di «bellunese di tipo arcaico». Passando ora alla descrizione di tale varietà, tra le peculiarità del cassano, Francescato indica in ambito fonetico le dittongazioni di /ɛ/ e /ɔ/ in [jɛ] e [wɔ] così come di /e/ in [ei ̯] (cf. Francescato 1979, 120; Rizzolatti 1996c, 50; Croatto 2011, 203), comuni anche al friulano, in particolare occidentale (↗5.1 Suddivisione dialettale del friulano; cf. anche infra). Croatto (2011, 203) segnala un isolato caso di dittongazione /o/ > [jo] nel lessema [ˈrjoza] ‘rosa’, esito più tipicamente triestino e veneziano (per /o/ Francescato 1979, 120, ha solo un esempio di innalzamento in krus). Frequente (ma non generalizzata) l’apocope delle vocali finali atone diverse da a ed e (cf. Francescato 1979, 120; Croatto 2011, 203), cui però in diversi casi si accompagna un ripristino di una vocale d’appoggio, e oppure o (di stampo veneto, più recente), come in [ˈstomege] (cf. Croatto 2011, 203). Francescato (1979, 120) indica inoltre epitesi di -i invece che -e (p. es. [ˈpare]) come in ertano, friulano occidentale e veneto e casi di sincope di e postonica. Nell’ambito del consonantismo, sempre sulla base di Francescato (1979, 120s.) e Croatto (2011, 203–205) (le due descrizioni non collimano in tutti i punti) si segnalano i seguenti fenomeni: 1) assenza di palatalizzazione di CA , GA (cf. anche Rizzolatti 1996c, 65s.); 2) trattamento dei nessi (-)BL -, (-)CL - e (-)GL - alla veneta [bj], [tʃ͡ ], [d͡ ʒ]: [ˈbjank] ‘bianco’, [ˈoŋd͡ ʒa] ʻunghia’, [deˈnotʃ͡ o] ʻginocchio’; 3) [t] > [f], come «sporadicamente, anche nel bell. rustico, nel feltrino, ma anche nello zold., nel cador. e nell’agordino centromeridionale» (Croatto 2011, 204): [ˈbraf] ‘braccio’, [faˈvata] ‘ciabatta’; 4) riduzione di [ð] > [v] (rara nei dialetti vicini), indicata da Francescato come sporadica, ma ritenuta sistematica da Croatto; 5) [d͡ ʒe], [d͡ ʒi] > [de], [di] (fenomeno non segnalato da Croatto 2011); 6) (frequente) sviluppo di -r- primaria a -d-; 7) (frequente) riduzione di -dprimaria a -l-; 8) (frequente) sviluppo di l- e -l- primarie a ‑d‑; 9) evoluzione di l- a d- o, rispettivamente, a n- ([skuˈdjer] ‘cucchiaio’, ma [neˈʃura] ʻgiuntura’, cf. Croatto 2011); 10) sonorizzazione di [k] in posizione iniziale; 11) r- > l-; 12) caduta di -l, -n e -r negli infiniti verbali; 13) al > an davanti a dentale, ma 14) an > al nello stesso contesto; 15) caduta di -v-; 16) vocalizzazione di -v- > -u- nel nesso -vr-, fenomeno presente anche in altre varietà venete. Croatto (2011) indica i fenomeni qui ai punti 6)–11) e 14) come «sporadici e isolati». Tra le poche indicazioni sulla morfologia in Francescato (1979, 121) si segnalano 1) forma al o el dell’articolo masc. sg. e del pronome di 3. pers. sg., come in varietà venete e friulane; 2) invariabilità al plurale di diversi sostantivi, come in varietà venete trevigiano-feltrino-bellunesi; 3) regolare formazione del plurale in -i per i nomi terminanti in -l, conosciuta anche in friulano; 4) generalizzazione della desinenza -e per la 1. pers. sg. (come nel veneto trevigiano-feltrino-bellunese, cf. Zamboni 1974, 59) e 5) di [ˈɔŋ] per la 1. pers. pl. (come a Erto). Per il lessico, Croatto (2011, 205) rileva un’isoglossa «valcellinese spesso bellunesizzante», entro la quale sono compresi Casso, Erto e la vicina Claut; numerose sono le corrispondenze con altre aree, friulane e non, come nel caso di [ˈswor] ‘sorella’; puntuali, ma frequenti, quelle con lo zoldano, non di rado patrimonio alpino comune, e i prestiti dal friulano.

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3 Bisiaco Problematica risulta l’attribuzione del gruppo di idiomi parlato in alcuni comuni della zona meridionale della provincia di Gorizia (Friuli orientale) «[n]el triangogolo Sagrado – San Canziano – Monfalcone, che noi friulani chiamiamo ‹il teritori›» (Pellis 1930, 23s.; cf. anche Pellis 1933, 232). Tale gruppo è conosciuto con il glottonimo (piuttosto recente: prime, sporadiche attestazioni sono in testi italiani, friulani e sloveni della seconda metà del XIX sec., cf. Crico 2006, 324; Vidal 2010, 22–24) di origine dibattuta e non ancora definitivamente chiarita (ma slava, cf. p. es. Domini/Miniussi 1978; Vidal 2010, 21s., e soprattutto Frau 2009–2010, 205–207), di bisiac(c)o. Pellis (1930, 24) lo caratterizza come parlata sorta «dalla fusione incompleta del veneto col substrato originario friulano», ma sostanzialmente d’impronta veneta. Crevatin (1978, 10s.), riprendendo Battisti (1961, 22), e Francescato (1980, 502; questi si era inizialmente astenuto da considerazioni sull’origine del bisiaco, rimarcandone le affinità col veneto, cf. Francescato 1970 [1964], 59), seguiti da Frau (1984a) ritengono invece si tratti di «parlata veneta autoctona» (Frau 1984a, 197), situata in un’area che corrisponderebbe alla zona di influenza originaria del dialetto veneto del gradese, ma sottoposta a influsso friulano. Anche Domini/Fulizio/Miniussi (1978, 10s.) si accodano alle posizioni battistiane, sostenendo che l’Isonzo abbia costituito da sempre una frontiera linguistica forte. Doria (1984, 24) fa risalire la peculiarità del Territorio alla sua attribuzione, in epoca romana, all’ager tergestinus. Zamboni (1986, 638; 1987) ritiene – basandosi solo su criteri linguistici interni – si tratti di varietà a base veneta arcaica, ma sottoposta a diverse ristrutturazioni a causa della pressione di sistemi egemoni; la friulanizzazione della stessa sarebbe tuttavia solamente parziale e superficiale (cf. Zamboni 1986, 640). Lo studioso ipotizza una continuazione del latino aquileiese diverso dagli sviluppi friulani, per le diverse vicende storiche che Grado e i territori ora bisiachi avrebbero vissuto in seguito alle invasioni barbariche e alla divisione, dopo lo scisma tricapitolino del 606 d.C., tra la sede patriarcale aquileiese, orientata progressivamente al mondo germanico, e quella gradese, rivolta verso il mondo bizantino e poi veneziano (cf. Zamboni 1986, 641–644; 1987, 90s.). Marcato (2005, 512) ritiene invece che i tratti di tale parlata «si confrontano piuttosto col veneto nordorientale che con il gradese e con il maranese» e che sottolinea il forte influsso veneziano e friulano e i rilevanti apporti sloveni, seppur romanizzati. Doria (1986, 419) fa risalire la (a suo avviso recente e percentualmente non troppo significativa) presenza di elementi lessicali friulani nel bisiaco all’autoctonia veneta dello stesso (cf. anche Doria 1985). Trumper (1979, 17) caratterizza il gruppo bisiaco come «un tipo di veneto molto friulanizzato nel lessico; nella sintassi vi è la transizione dal tipo euganeo al tipo giuliano [scil.: con passaggio da un tipo con inversione interrogativa, ancora presente nella parlata degli anziani, a uno privo di tale inversione, L.M.] […]; nella struttura della parola vi sono le stesse condizioni del trevigiano rurale-liventino (veneto), mentre la fonologia è prettamente veneta».

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Frau (1986, 112–114), sulla scorta di Domini et al. (1985), data le prime attestazioni del bisiaco al XIV secolo e prova a misurarne la «distanza» dal sonziaco. Egli fa risalire la separazione fra i due idiomi alla fine del VI secolo, ritenendola dunque coeva a quella tra sonziaco e gradese e rimarcando come attualmente tuttavia le comunanze lessicali tra friulano e bisiaco siano più numerose che quelle tra quest’ultimo e il gradese. Lascia tuttavia aperto il quesito se si tratti di continuazioni di lessico originario comune friulano-bisiaco o di prestiti posteriori, pur riconoscendo spie a favore della prima ipotesi (forme antiche senza palatalizzazione di CA , la cui penetrazione potrebbe risalire però anche al gradese). Recentemente (Frau 2009–2010, 209–211) ribadisce che a suo avviso l’area fosse originariamente friulanofona, in un continuum territoriale e linguistico friulano che andava fino a Muggia e Trieste. Infine Crico (2006, 327) attribuisce al bisiaco carattere di veneto coloniale, sovrappostosi a una base di stampo friulano. La questione dell’origine del bisiaco non pare tuttavia risolvibile in maniera definitiva solo sulla base di meri fatti linguistici interni. In due recenti studi, Puntin (2003, 559s.; 2006; ↗6.4 Friulano, veneto e toscano nella storia del Friuli), in base a dati storici esterni (e a fatti linguistici – peraltro non sempre scevri di problemi – ricavati da attestazioni antroponimiche e toponomastiche storiche e moderne e dal lessico locale) pare smentire l’ipotesi di una base di fondo veneta sottoposta a influsso friulano. Egli nega la presenza di popolazioni venetofone stabili nell’attuale «Bisiacaria» prima del XVI o addirittura del XVII secolo, affermando invece, per le fasi storiche precedenti, la presenza di elementi friulanofoni accanto a una maggioranza di slovenofoni. La venetizzazione – di base non gradese – sarebbe avvenuta in fase posteriore, a causa di un ripopolamento della zona con contadini dell’entroterra veneto dopo le crisi demografiche causate da due guerre tra XVI e XVII secolo. Ne deriverebbe «un tipo di dialetto veneto rustico» (Puntin 2003, 559; cf. anche Puntin 2006, 101s.; le ricerche di Puntin parrebbero fornire in certo qual modo la «conferma storica», seppur non «di tipo documentario» che Francescato (1991e [1980], 170) riteneva necessaria per affermare che l’apporto veneto nella zona sia posteriore alla formazione dell’identità linguistica del friulano). Il bisiaco presenterebbe caratteristiche vicine a quelle del tergestino, ossia all’estremità orientale della friulanità. Sebbene l’origine del bisiaco non sia definitivamente chiarita, è indubbio che diversi caratteri di tale idioma – anche al di là di quelli riconducibili alla profonda triestinizzazione avvenuta nel XX secolo (cf. Del Missier 1983; Domini et al. 1985, XXI; Doria 1986, 405; Frau 1986, 111; Marcato 2005, 512s.; Trumper 1979, 20; Zamboni 1987, 81) – ne mostrino ora una facies chiaramente veneta (soprattutto a livello fonologico e morfologico), nonostante numerose concordanze lessicali con il friulano, più evidenti in alcune varietà locali, come quella – conservativa – di San Martino del Carso (su cui cf. Vidal 2010), da Vicario (2012, 139) considerata «varietà-ponte tra bisiaco e friulano». Passando ora a un’analisi delle caratteristiche linguistiche di tale gruppo di idiomi, Zamboni (1987, 83) indica che la fonologia è di stampo sostanzialmente veneto (settentrionale, analogo al liventino, cf. anche Frau 1984a, 198). A favore di tale

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ipotesi vi sarebbe il mantenimento dell’opposizione fonologica tra /e/ ed /ɛ/ e tra /o/ e /ɔ/, non presente nel triestino e nel veneto coloniale e discussa nel friulano, che anche Trumper (1979, 18) ritiene di stampo veneto, poiché presente in «dialetti veneti delle provincie di Verona, Vicenza, Rovigo, Padova, Venezia, Belluno, Treviso, fino ai dialetti liventini ed anche nel dialetto veneto di Grado», non però nel friulano circonvicino al bisiaco. Analogo al friulano è il tendenziale innalzamento di /e/ e /o/ atone in posizione pro- e postonica (cf. Zamboni 1986, 622s.; 1987, 84), con rapporti metafonici più o meno regolari del tipo /tok/ ‘pezzo’ ~ /tukeˈin/ ‘pezzettino’ o /ˈretʃ͡ a/ ʻorecchia’ ~ /riˈtʃ͡ in/ ‘orecchino’ (cf. Zamboni 1986, 622). Soluzioni analoghe al friulano e al veneto nordorientale (ma differenti di gradese e maranese) sono nel trattamento delle vocali medie atone finali, per le quali si ha apocope, generalizzata dopo /p, t, k/, ͡ f, s/ (cf. Zamboni 1986, 624s.; 1987, con poche eccezioni dopo /tʃ͡ /, frequente dopo /ts, 85), ma non dopo le corrispondenti sonore (caratteristica questa liventina e trevigiana rustica, secondo Trumper 1979, 19). Vi è apocope anche dopo /r, l, n/, come nelle varietà venete nordorientali, /j/ e /v/ e, parzialmente, dopo /m/ (dopo riduzione a /n/, di stampo friulano). Diversamente da friulano e veneto nordorientale non vi è apocope dopo /ɲ/ (cf. Zamboni 1987, 85). Restando in ambito del vocalismo, Trumper (1979, 19s.) indica come tratti venetizzanti l’esito di Ŏ in sillaba aperta > [o], come nei dialetti padovani e bellunesi (poche eccezioni in [ɔ] riconducibili probabilmente a influsso del veneto coloniale alla base del giuliano, per contro friulano meridionale > [uː]) e l’innalzamento di /ɛ/ > [e] davanti a n + consonante o a n «storicamente scempia» (Trumper 1979, 20). Frau (2009–2010, 203) infine indica come chiaro segno della diversità tra i sistemi vocalici friulano e bisiaco la mancata fonologizzazione della quantità vocalica in quest’ultimo (ma l’opposizione vocalica lunga/breve manca anche nelle varietà friulane finitime, seppure dia luogo a esiti diversi, ↗5.1 Suddivisione dialettale del friulano). Per il consonantismo, Zamboni (1986, 630; 1987; 86) indica sostanziale identità con il sistema veneto; Trumper (1977, 277) rileva in particolare un sistema consonantico privo di «affricate ‹sistematiche›», di stampo veneto e con paralleli nei dialetti cittadini di Padova, Venezia, Borgon nella Valsugana, Verona, Treviso, Vicenza, Rovigo, di Grado, Udine, Palmanova, e nei dialetti «istrioti». Diversamente dal veneziano si mantengono le opposizioni /s/ ~ /z/ e /ʃ/ ~ /ʒ/ (cf. Zamboni 1986, 631s.). Frequenti i casi di restituzione di consonante intervocalica, in particolare di /d/ (cf. Zamboni 1986, 630) e la caduta di dentale in posizione finale. Vi è tendenza (di stampo friulano) al dileguo di /i ̯/ intervocalica, mentre /v/ in analoga posizione ha comportamento diverso (dileguo, restituzione e addirittura inserzione, come in contínevo ‘continuo’, cf. Zamboni 1986, 631). Come in friulano (ma diversamente dal veneto), non vi è semplificazione del nesso /vr/; i nessi /pl/, /bl/ presentano vocalizzazione del secondo elemento; /kl/ e /gl/ in corpo di parola palatalizzano confluendo in /tʃ͡ /, mentre in posizione iniziale gli esiti sono rispettivamente /tʃ͡ / e /d͡ ʒ/; i pochi casi di conservazione sono in generale prestiti. Pochi casi di palatalizzazione di C A (cf. Frau 1984a, 199; supra). /v/ è vocalizzata in /u̯/, fenomeno che Trumper (1979, 19) ricollega a analoghi

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sviluppi nei dialetti veneti del bellunese (cf. anche Zamboni 1986, 627s.), come per esempio in nov [ˈnou̯ ]; per Frau (1984a, 199) /u̯ / è dovuta al dileguo di /v/ (anche secondaria) tra vocali etimologicamente uguali e chiusura dissimilatoria della vocale finale (su un eventuale influsso sloveno ↗6.4 Friulano, veneto e toscano nella storia del Friuli). La morfologia è di stampo prettamente veneto (cf. Zamboni 1987, 88). In ambito (pro)nominale, si segnalano i plurali maschili sempre in -i (con eventuale restituzione, intervocalica, di [v] primaria o secondaria, cf. Frau 1984a, 199s.), mentre i femminili presentano -e. Rarissimi i casi di plurale invariato; nei sostantivi terminanti in vocale tonica in seguito a caduta di consonante vi è restituzione della stessa consonante etimologica (cf. Frau 1984a, 200). Si ha poi generalizzazione di me ‘mio’ proclitico sia per il masc. che per il femm. sg. (cf. Frau 1984a, 200) e soprattutto l’estensione di se riflessivo a tutte le persone (cf. Zamboni 1986, 635), non diversamente da (parte del) friulano e analogo al modello sloveno. Per la morfologia verbale, di stampo veneto sono la tendenza a non differenziare 3. pers. sg. e pl. (cf. Zamboni 1986, 636), la desinenza tonica -emo, -imo di 1. pers. pl. del presente indicativo contro il friulano -ín e il veneto arcaico e rustico -ón (cf. Zamboni 1986, 636); le desinenze di 1. e 2. pers. pl. dell’imperfetto indicativo sono identiche tra loro (cf. Frau 1984a, 201); pochi casi di participi passati con desinenza [-ˈɛst] (cf. Frau 1984a, 201). Interessante è la «tendenza, di influsso friulano, a spostare l’accento sulla penultima sillaba delle forme rizotóniche proparossítone» (Frau 1984a, 200), seppure solo per i verbi in [-eˈnar], [‑uˈlar]/[‑oˈlar], [-eˈgar]/[-iˈgar] e [-iˈʃar] (cf. Zamboni 1986, 629); il fenomeno è conosciuto anche in varietà ladine, istriane e in alcuni dialetti veneti (cf. Zamboni 1986, 629). Dal punto di vista sintattico, Zamboni (1986, 637) rimarca la tendenziale mancanza della preposizione a nei costrutti locativi, per introdurre infinitive e il complemento oggetto indiretto; (tendenziale) mancanza di particella locativo-esistenziale; uso del condizionale sia nella protasi che nell’apodosi del periodo ipotetico; esistenza di un’unica preposizione de per ‘di’ e ‘da’ (come friulano di). Assai marcato è l’influsso friulano nel lessico, in particolare tradizionale e agricolo-zootecnico (cf. Frau 1984a, 202s.; Doria 1986; Zamboni 1986, 637s.), ricco di elementi friulani (più o meno morfo-fonologicamente adattati e dunque riconoscibili, cf. Doria 1986, passim), ma anche in diversi altri ambiti nozionali legati alla sfera degli eventi e fenomeni atmosferici, l’essere umano e i rapporti di parentela (rari prestiti, cf. Doria 1986, 416), caratteristiche fisiche e caratteriali, funzioni fisiologiche, malattie, abbigliamento, alimentazione, abitazioni e insediamento, flora, fauna, mestieri e attrezzi, vita religiosa (pochi elementi, riferentisi «quasi sempre ad aspetti negativi della stessa» (Doria 1986, 418) etc.). Elementi friulani (di contatto) anche nella toponomastica (cf. Frau 2009–2010, 202s.) e in elementi funzionali come le preposizioni (cf. Zamboni 1986, 637). Presenti in discreto numero (ma meno numerosi che in triestino o nelle varietà friulane di confine, cf. Doria 1985, 58) slavismi in svariati ambiti nozionali, legati alla vita quotidiana e nella toponomastica (cf. Frau 2009– 2010, 203s., ma soprattutto Cerasuolo Pertusi 1989–1990, che rimarca la diversità tra

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gli slavismi del bisiaco e quelli del triestino, segno di un contatto avvenuto con modalità e tempi differenti, cf. Cerasuolo Pertusi 1989–1990, 91s., ma che sono talora comuni al friulano o a sue varietà, come p. es. raza ‘anatra’, colaz ‘ciambella’, cudic’ ‘diavolo’) e i tedeschismi.

4 «Fascia di transizione veneto-friulana» 4.1 «Amfizona» vs. «fascia di transizione veneto-friulana» Come già accennato, risulta particolarmente interessante il contatto del friulano con i rispettivi dialetti veneti, proprio per il confine occidentale del territorio linguistico friulano: nel nord-est le varietà ladino-venete del comelicano e del cadorino confinano col territorio del friulano gortano, varietà estremamente arcaica. Più a Sud sono idiomi di contatto il bellunese e l’ertano che mostra, come si è visto, caratteristiche del ladino dolomitico. Ancora più a Sud si trovano le zone di contatto tra friulano occidentale e, rispettivamente, trevigiano e veneziano (in epoca medievale la distanza linguistica fra friulano e veneto è meno pronunciata, cf. Pellegrini 1988). Anche per l’area goriziana risulta interessante il passaggio dal friulano a varietà venete arcaiche o coloniali (specie per il triestino; cf. Bidwell 1967; Folena 1968–70); diversamente dal contatto linguistico per il confine occidentale del friulano però, il contatto fra friulano e veneto in questo caso è dovuto al progredimento continuo del veneziano e alla parziale sovrapposizione a dialetti friulani, il caso più importante essendo quello del tergestino sostituito dal triestino che, simile a Udine per il restante territorio friulano, in passato ha irradiato veneticità in città circostanti (cf. Francescato 1991c [1983]; 1991b [1983]; 1982 per la situazione udinese; Finco/Rizzolatti 2005 per il veneto cittadino). Perciò è possibile tracciare una linea di frontiera da Cormons a Cervignano (ancora bidialettale) – le città a est di questa linea, come Gorizia, Palmanova o anche Aquileia, dove esiste un dialetto veneto di stampo triestino accanto al friulano, mostrano un forte influsso veneto di tipo triestino (cf. l’appartenenza della zona orientale del Friuli agli Asburgo fino alla fine della Prima Guerra mondiale, Vanelli 1987, 30–35; per la situazione linguistica di Palmanova si veda Vanelli 1976; Buonocore/Finco 2002; per i tratti delle varietà orientali Frau 1988). Al contrario il confine occidentale è uno storico – il Livenza può fungere come limite geografico solo approssimativamente – e anche se al tempo di Ascoli esiste solo una stretta fascia di transizione fra friulano e veneto, dovuta all’estendersi del veneto/ veneziano confinante, questa nel corso del tempo si è allargata. Il confine linguistico per il territorio già completamente venetizzato risulta dislocato più a est rispetto a quello amministrativo. Fanno eccezione alcuni paesi friulanofoni nell’area portogruarese (Portogruaro stessa, oggi veneta, fino al 1815 faceva parte del Friuli; cf. Vanelli 2005, 381–383).

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«Ma è opportuno sottolineare subito il fatto che, mentre ad oriente l’influenza veneta è essenzialmente indiretta, penetra cioè nell’elemento friulano trasformandolo, e si diffonde da antica data attraverso centri tipicamente friulani, come la stessa Udine, a occidente al contrario questa influenza è immediata e diretta, e benché probabilmente non si possa sempre dire più recente, nasce dall’accostamento geografico di parlate non troppo diverse tra loro, fatto che ha permesso la graduale migrazione di concreti elementi fonetici (che subentrano, soltanto qui, nello schema fonologico di base), morfologici e lessicali, tendendo alla costituzione di una ‹amfizona›» (Francescato 1966, 92).

Per quanto segue si fa esclusivamente riferimento alla «fascia di transizione venetofriulana» come intesa da Francescato (1966, 121s.), cioè descrivendo solo le varietà della zona di transizione fra friulano occidentale e veneto. Considerando la zona di transizione, comunemente caratterizzata come un’«amfizona», è notevole, che mentre esiste un confine netto tra bellunese e friulano (nel caso concreto ertano e cellinese), come già accennato lungo il Meduna e il Livenza ci sono forti interferenze col bellunese, col trevigiano e infine col veneziano. Lüdtke nel 1957 ha definito la zona dal Livenza fino alla laguna di Caorle come confine sociolinguistico che descrive un territorio bidialettale (dialetto locale friulano/koinè veneta) che non sarebbe facilmente isolabile tramite isoglosse (Zamboni 1988, 524). Il concetto di «amfizona», spesso adoperato per le varietà di transizione, risale ad Ascoli anche se lui stesso per motivi ancora da vedere non lo adopera alla fascia di transizione veneto-friulana. Nota per gli idiomi ladini che: «L’elemento ladino si avverte poi, in maggiore o minor copia, per un’anfi-zona, tutta cisalpina, e specialmente nei seguenti territorj: l’alta valle del Ticino e la valle superiore della Mera, al versante lombardo; la Val Fiorentina e il Cadore centrale, nel versante veneto. Le valli di Bormio presentano una speciale e cospicua fase di connessioni ladino-lombarde; e l’elemento ladino brilla o traspare anche nei più antichi saggi dialettali dell’estuario di Venezia [cf. gli atti del podestà di Lio Mazor, S.H.]» (Ascoli 1882–1885, 102).

In altra sede però egli si riferisce più chiaramente anche alla situazione di contatto fra friulano e veneto nella pianura, senza peraltro descrivere le particolarità delle rispettive varietà in contatto: «Pure alla Livenza, e in varj punti della costa adriatica, non tarderemo a notare come il ladino, cioè il friulano, venga cadendo il terreno alla favella veneta» (Ascoli 1873, 394).

Comunque per la scarsezza di materiale e probabilmente per il fatto che il territorio in questione è limitato a pochi chilometri di larghezza Ascoli stesso non lo considera come «amfizona» (Francescato 1966, 175, n. 44) e Frau (1984a, 188) la caratterizza come «una stretta fascia, che dalle sorgenti del Livenza va lungo il corso del fiume fino al confine meridionale con l’attigua Regione non friulana». Francescato (1966, 100) constata inoltre che:

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«Un’amfizona vera e propria nell’oltre Tagliamento sembra in realtà – oggi come oggi – soltanto in formazione, mentre indagini più adeguate meriterebbero i dialetti dove il friulano si snatura per confondersi col veneto» (Francescato 1966, 177)

e: «[…] le località di Mezzomonte di Polcenigo, Budoia, Dardago, […] Pieve di Aviano[,] […] Vigonovo, Fontanafredda, Porcìa e Palse, […] Pordenone, […] Fiume Veneto, Bannia, Azzano Decimo e Chiòns. Tutti questi centri, come altri sul rovescio del confine veneto-friulano, sono naturalmente bilingui, parlano cioè (e nel centro dei paesi spesso prevalentemente) anche il veneto. Tuttavia qui, a differenza che negli altri centri bilingui friulano-veneti, l’influsso veneto sul friulano mostra di avere cominciato ad intaccare il sistema del friulano stesso (che resta però sempre individuabile), mentre altrove questo intacco, malgrado pressante influsso veneto, non è ancora avvenuto. […] In conclusione, solo quest’area potrebbe essere chiamata ascolianamente ‹amfizona›, al confine tra il veneto e il friulano: la sua esiguità geografica attuale spiega facilmente perchè essa sia stata trascurata o non veduta da Ascoli e dai suoi continuatori. Le caratteristiche geolinguistiche della zona si spiegano facilmente tenendo presente l’andamento delle vie di comunicazione, che divergono da Sacile (veneto) verso Aviano e verso Pordenone (ormai da tempo completamente venetizzato), e il gravitare di tutte le località indicate dell’amfizona verso l’uno o l’altro dei centri urbani maggiori, ambedue veneti» (Francescato 1966, 93).

Sulla base delle indagini svolte nei decenni scorsi il confine estremo del friulano corre dunque lungo le città/i comuni di Pordenone, Porcìa, Fiume Veneto, Villotta, Portogruaro (oggi veneta). Il confine è primariamente di tipo sociolinguistico, e descrive il passaggio da un territorio linguisticamente omogeneo, monodialettale (veneto) a uno bidialettale con vernacoli fortemente differenziati, in cui predomina comunque la rispettiva varietà veneta (Lüdtke 1957; Vanelli 1987, 29; Francescato 1991f [1976], 46). Per quanto riguarda lo sviluppo del confine linguistico, secondo Frau (1984b, 35; cf. anche Francescato 1991a [1986], 18) sarebbe da chiarire se «questa dicotomia [Tagliamento friulano vs. Livenza veneto-friulano, S.H.] sia recente e dovuta soltanto alla più aperta esposizione dell’area vicina a Concordia ai fenomeni innovatori provenienti da occidente, o piuttosto non rifletta anche condizioni antiche, quali l’appartenenza a diverse giurisdizioni plebanali, se non addirittura a confini naturali, oggi non più visibili, perché scomparsi da secoli […]».

La zona fra Sacile e Pordenone (a sud di Pordenone il confine linguistico segue più o meno il corso del Livenza) è appunto la zona definita da Francescato come fascia di transizione veneto-friulana (o fascia occidentale), a ovest della quale «si stende la vera e propria, ristrettissima amfizona» per le varietà della quale risulta difficile precisare se «si tratti di veneto oppure di friulano» (Francescato 1966, 122; cf. anche Francescato 1991a [1986], 21). Gli idiomi della fascia di transizione mostrano il mantenimento di caratteristiche friulane, mentre quelli situati più a ovest si caratterizzano per una venetizzazione ancora più forte, il che porta a varietà miste friulano-venete (cf. Marcato 2005, 510– 512; Vanelli 2005, 390s.). Risulta importante in confronto con le varietà di veneto o veneziano coloniale che sia il veneto che il friulano vengono percepiti come dialetti

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anche se il veneto il più delle volte viene considerato più prestigioso per il fatto di servire da «lingua ponte» tra friulano e italiano. Il veneto di confine entra dunque in concorrenza col friulano, non con l’italiano regionale (Vanelli 1987, 44; Francescato 1991a [1986], 19; ↗6.3 Veneto). Queste varietà miste, talvolta descritte pure come «parlate semi-friulane» (cf. Vanelli 1987, 43; 2000) hanno pur sempre una base friulana e risultano più resistenti all’influsso veneto in zone rurali. Per il carattere misto delle varietà e la coesistenza di varietà urbane più venetizzate e altre rurali più friulane «appare difficile separare con un taglio netto ciò che si ascrive al veneto e ciò che si può ascrivere al friulano» (Francescato 1991f [1976], 27). Problematica per l’assegnazione all’uno o altro idioma è la perdita della lunghezza vocalica che nel friulano è fonologica (si nota la perdita per il friulano occidentale in generale, i risultati della dittongazione riportano però all’opposizione quantitativa preesistente). Anche la palatalizzazione di C A e il mantenimento o lo scioglimento palatale dei nessi consistenti in muta cum liquida permettono una caratterizzazione delle rispettive parlate come friulane o venete (Francescato 1991f [1976], 32–34). Risulta molto interessante sotto quest’aspetto il caso delle «isole linguistiche» friulane in territorio veneto (portogruarese) situate all’ovest della frontiera: «[…] le varietà friulane parlate in provincia di Venezia […] e già da un secolo staccate dal corpo del Friuli si presentano assai più conservative delle parlate occidentali presenti sul confine col trevigiano. Mancano ad esempio i segnali più clamorosi dati dalla coincidenza delle terze persone singolari e plurali, si mantengono i plurali sigmatici, risultano del tutto assenti i suoni interdentali» (Rizzolatti 1989, 309).

Il confine pare comunque essere abbastanza stabile, un ulteriore spostamento verso est per adesso ancora non si fa notare (cf. però Francesato 1991a [1986], 24). Il friulano, con le misure di politica linguistica per le zone di contatto col veneto, tenendo in considerazione la lealtà dei parlanti, potrebbe rinvigorirsi (cf. Vanelli 1987, 44; Rizzolatti 1996a, 29s.; ↗6.3 Veneto), sebbene parallelamente l’italiano, che figura da madrelingua per tanti parlanti, venga utilizzato in contesti che prima erano riservati alla parlata locale (Fusco/Benacchio 2010, 43). Bisogna però anche considerare che «[l]a mescolanza consapevole e inconscia è un aspetto irrinunciabile del comportamento odierno dei friulanofoni: allo stesso tempo segno di incapacità di rinnovare la lingua dall’interno» (Fusco/Benacchio 2010, 49).

4.2 Caratteristiche delle varietà della fascia di transizione veneto-friulana Per una descrizione più dettagliata della fascia di transizione anche in studi recenti si ricorre sempre a quello di Lüdtke (1957; cf. anche Frau 1984b, 29s.). I parametri da lui

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presi in considerazione naturalmente si ritrovano nella descrizione generale delle parlate della fascia di transizione da parte di Francescato (1966, 120s.), che serve come base di confronto per sviluppi particolari di singole varietà (↗5.1 Suddivisione dialettale del friulano). Molti degli sviluppi coincidono con quelli del friulano occidentale comune, che viene preso come punto di riferimento per mettere in evidenza le differenze particolari delle varietà della fascia di transizione con questo e non col friulano centro-orientale, più distante linguisticamente. Così, per il friulano occidentale si ha la doppia dittongazione delle vocali medie aperte e chiuse in posizione forte (lat. volg. [ɛ], [e] > [ei ̯]; [ɔ], [o] > [ou̯ ]); davanti a r [jɛ] (risultato della dittongazione in posizione debole) si mantiene inalterato; [wɛ] (risultato per [ɔ] in posizione debole almeno per la zona del Meduna vs. [wɔ] per il Cellina) davanti a nasale (complicata) dà [u]; -A del latino si conserva. Le occlusive palatali [c], [ɉ] nella zona del Meduna si mantengono, mentre nella zona del Cellina si sviluppano in [tʃ͡ ] e [d͡ ʒ] rispettivamente; le stesse affricate dovute alla palatalizzazione di lat. C / G I / E subiscono però una deaffricazione portando a [s] e [z]. Anche – [ts͡ ] mostra la perdita della plosiva (> [s]). L’opposizione delle sibilanti [s] e [ʃ] si neutralizza a favore di [s]. [w]- mostra una tendenza alla consonantizzazione a [vw]-, mentre N - davanti a -iprevocalica secondaria non si palatalizza (dunque lat. NOCTEM > [not]/[nwot] e non [ɲɔt] come in friulano centro-orientale). L’epitesi nasale è rara, ma in alcune varietà si hanno i cosiddetti dittonghi «induriti». Per la vocale finale accanto a -a si nota che spesso prestiti (dal veneto) escono in -u e -o. L’articolo maschile singolare è il, mentre quello femminile è la (pl. li, sostantivi/aggetivi in -i(s)). Il possessivo della 1. pers. sg. è [ɲɔ] (senza differenziazione di genere), quello della 2. pers. sg. mostra la palatalizzazione dell’occlusiva iniziale ([tjɔ]/[tʃ͡ ɔ]). Il clitico soggetto della 1. pers. sg. è i (il paradigma dei clitici soggetto nelle varietà in questione risulta spesso ridotto), mentre quello tonico è [jɔ]. La desinenza della 1. pers. sg. varia tra -e, -i, la 1. pers. pl. è -in (-[iŋ]), più raramente -en (-[eŋ]), per la 3. pers. sg. e pl. infine non c’è una differenziazione formale. Le varietà della fascia di transizione, anche se mostrano un gran numero di coincidenze con quelle del friulano occidentale d’Oltre Tagliamento, si caratterizzano per alcuni tratti particolari che sono dovuti alla massiccia esposizione delle varietà all’influsso veneto. Per le vocali toniche si nota per lat. volg. [ɔ] in posizione debole il risultato [wɔ] visto già per la zona del Cellina (vs. [wɛ] della zona del Meduna) che davanti a nasale complicata si mantiene. Le affricate palatali diventano fricative interdentali ([tʃ͡ ] > [t], [d͡ ʒ] > [ð]); anche – [ts͡ ] subisce la riduzione a [t]. Per la morfologia si indica il morfema dell’articolo masc. sg. al (vs. il), per il femm. sg. è la come per il friulano occidentale, ma le per il plurale, e pure i nomi plurali finiscono in -e (e non in -i(s), manca dunque il plurale sigmatico). Per i possessivi si ha per la 1. pers. sg. (masc./femm.) me, probabilmente su modello veneto, anche [tɔ] per la 2. pers. sg. potrebbe riflettere influsso veneto. Nella parte meridionale della zona si ha il pronome personale della 1. pers. sg. mi (come in veneto), per i verbi della 1. pers. pl. si ha la desinenza -en (-[eŋ]) e ancora più a ovest -on (-[oŋ]). Infine i prestiti veneti, che nella

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fascia di transizione sono molto più numerosi rispetto alle altre varietà friulane, terminano in -u (cf. Francescato 1991a [1986], 22; 1991e [1980], 181; ↗6.3 Veneto). Tutto sommato la struttura di base delle varietà rimane friulana, anche se il lessico e parzialmente la grammatica mostrano influssi veneti, che però non hanno portato ad una venetizzazione profonda: «le varietà qui parlate rientrano nel più ampio contesto del friulano occidentale, col quale condividono alcuni tratti caratterizzanti. Tuttavia esse oggi appaiono, nonostante la omogeneità fondamentale, divise in due sezioni: senz’altro più ‹friulane› risultano quelle rivolte verso la riva del Tagliamento, mentre quelle che guardano alla sponda del Livenza mostrano vistosi cedimenti ad isofone veneto-italiane […]» (Frau 1984b, 35s.).

Per l’illustrazione di alcuni sviluppi particolari si fa qui primariamente riferimento alle parlate di Aviano e Azzano Decimo, interessanti perché fungono anche da esempi per una forte reazione nei confronti del veneto (si veda Rizzolatti 1986b). Le caratteristiche più vistose della varietà di Aviano come pure quella di Azzano Decimo sono i dittonghi [ɛi ̯] e [ɔu̯ ] che riflettono l’originaria lunghezza vocalica in posizione forte e che mostrano l’apertura dissimilatoria della vocale, il mantenimento dei nessi consistenti in occlusiva + L e inoltre il mantenimento del plurale sigmatico per alcuni nomi. Allo stesso tempo le varietà mostrano comunque tipici tratti della fascia di transizione. Così per lat. Ŏ in posizione debole si mantiene il dittongo [wɛ] insieme alla variante [wɔ] di influsso veneto (Rizzolatti 1984b, 191). [ɛi ̯] e [ɔu̯ ] possono essere anche sostituti da [jɛ] e [wɔ]/[wɛ] che sono pure il risultato primario di dittongamento in posizione forte (e si mantengono in quella debole) sia a Aviano che a Azzano Decimo (cf. Rizzolatti 1986a, 246s.). Il processo di sostituzione è documentato inoltre anche per il dialetto di Claut, comune geograficamente isolato e per motivi economici orientato su Belluno, che mostra altrimenti fortissimi influssi veneti, tratti tipici della fascia di transizione (Rizzolatti 1984a, 277; 1986b, 328s.). Diversamente da Aviano e Azzano Decimo il clautano ha dunque [e] e [o] come risultati moderni delle vocali medie chiuse e aperte in posizione forte, mentre in posizione debole le dette vocali si sviluppano in [ɛ] e [ɔ], il che porta ad una opposizione di qualità vocalica: [pes] ‘peso’ vs. [pɛs] ʻpesce’, [os] ʻvoce’ vs. [ɔs] ‘osso’ (Rizzolatti 1996c, 50). La tipica chiusura della vocale nel dittongo di posizione debole [wɔ] davanti a nasale complicata ad Azzano Decimo si ha solo eccezionalmente. Per la palatalizzazione di C A - è da notare la sovrapposizione del risultato con quello di palatalizzazione del nesso CL -, p. es. [tʃ͡ a] ‘chiave’ < CLAVEM , ma anche ‘capo’ < CAPUT (Rizzolatti 1996c, 65ss.). Per le affricate si è già detto della tendenza alla deaffricazione e lo sviluppo a fricative interdentali, che originariamente sono presenti nei dialetti veneti meridionali fortemente influenzati dal veneziano nel ‘400 e ‘500; perciò [t] e [ð] oggi si trovano solo nelle varietà periferiche del trevigiano e nelle varietà ladino-venete, varietà che non sono state esposte all’influsso veneziano. L’introduzione delle fricative interdentali data del XVI , forse anche solo dell’inizio del XIX secolo, e avviene comunque in un

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periodo in cui l’opposizione tra affricate e sibilanti era ancora esistente, il che risulta evidente dal fatto che le interdentali non continuano mai sibilanti latine (Rizzolatti 1986a, 249). Vista la realizzazione spesso postdentale della interdentale sonora, questa viene sostituita in parte da [d] – questa tendenza si trova p. es. anche nel clautano, che parallelamente mostra la sovrapposizione di [t] con [f]. Il caso di dret ‘dritto’ – [dret] ‘dritti’ riflette la sostituzione anche di – [ts͡ ] secondario con la fricativa interdentale (Rizzolatti 1996c, 84s.). Per vaste aree del friulano occidentale nei sintagmi nominali con sostantivi femminili si nota una riduzione della marca -s nei primi elementi del sintagma, per cui soluzioni come li puartis o duti li cjasis sono abbastanza diffuse. Per la fascia di transizione si nota inoltre una frequente sostituzione del morfo di plurale. Così a Azzano Decimo si ha la perdita del plurale sigmatico per i nomi femminili, il che potrebbe portare ad un’ulteriore estensione del plurale vocalico anche per i nomi maschili; anche se in alcuni casi si ha ancora una chiara marca di plurale (p. es. floc ‘fioccho’ – flocs), per i lessemi della II e III declinazione latina l’opposizione è già stata neutralizzata (p. es. caret ‘carretto’, ‘carretti’, rap ‘grappolo’, ‘grappoli’). La base di tale riduzione potrebbe essere la neutralizzazione nell’ambito di sibilanti e affricate per cui si ha in parte la sovrapposizione dei risultati delle forme singolari e plurali (p. es. [brat] ‘braccio’, ‘braccia’; cf. Rizzolatti 1986b, 339–343). Interessante per diversi dialetti del friulano occidentale e anche della fascia di transizione è il caso di un doppio plurale per nomi in nasale come ben visibile nell’esempio del clautano ains – l’originale formazione del plurale tramite vocale palatale (per cui la palatalizzazione della [n] a [ŋ] sviluppato di seguito in [i ̯n]) è diventata opaca, il che porta ad una seconda formazione del plurale di tipo sigmatico (cf. Rizzolatti 1994, 260; 1996a, 87). Dovuto alla riduzione di nessi finali consistenti in consonante + [s] in clautano, si hanno forme plurali ridotte come nos ‘nuovi’ (singolare nof) e os ‘uova’ (singolare of) che in altri casi possono fungere da base per forme singolari analoghe (come nel caso di ras ‘rape’, ‘rapi’, as ‘ape’, ‘api’; cf. Rizzolatti 1996c, 84s.). Interessanti risultano anche i plurali vocalici con l’innalzamento della vocale tonica per metafonia, dunque davanti a vocale alta palatale in fine di parola; così si hanno chis ‘questi’ (chesti > chisti > chisç > chis), chi ‘quelli’, ciavis ‘capelli’, ‘capelli’ (*ciaveli > ciavili > ciavii > ciavi, parallelamente con plurale sigmatico ciavis, che è la base per il singolare analogico ciavis), fenuzi ‘finocchi’, uzi ‘occhi’ (Rizzolatti 1996c, 86). In alcune frazioni di Aviano per l’articolo maschile accanto a el si ha anche al, in altri dialetti si hanno el e al parallelamente (così a Giais, Pjante; cf. Frau 1975, 302). Per il femminile si è già alluso alla perdita della marca del plurale, cf. anche per Claut femm. sg. la, pl. le (Rizzolatti 1996c, 83). Per la morfologia verbale si nota l’epitesi -i nella 1. pers. sg. per le varietà del friulano occidentale che, per analogia sulla I coniugazione, si trova anche nelle altre coniugazioni; proprio nelle zone di contatto col veneto si ha anche la variante -e. Nelle rispettive varietà si ha inoltre la riduzione della desinenza -is della 2. pers. sg. a -i (tu

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lavori), per Azzano Decimo si nota però la forma ti cianta, similmente per Aviano to cianta (Rizzolatti 1984a, 280; 1986b, 345; Frau 1975, 303) – la perdita della -s si nota pure per la coniugazione interrogativa (Azzano Decimo lavòretu? vs. friulano centroorientale lavoristu?). Nelle varietà della fascia di transizione si ha non solo la generalizzazione della 1. pers. pl. in -èn (ad Aviano per la I coniugazione si ha -àn; il clautano ha -òn per tutte le coniugazioni), ma anche la coincidenza delle 3. pers. sg. e pl. Nella 2. pers. pl. la varietà di Aviano mantiene la dentale (portàit, spietèit ‘aspettate’, volèit, cf. Frau 1975). Altre varietà della fascia di transizione mostrano una forte riduzione, così lavorè (Azzano Decimo), simile a Claut (parlà). Nelle varietà della fascia di transizione si hanno infine spesso clitici soggetto solo per la 2. e 3. pers. sg. e per la 3. pers. pl. (così per Aviano, cf. Frau 1975, 303).

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5.3 Lingue urbane Abstract: Nel presente contributo si intende descrivere e commentare l’intreccio di lingue presente in alcuni centri urbani della regione Friuli Venezia Giulia (nello specifico Udine, Pordenone e Gorizia), focalizzando particolare attenzione agli articolati sviluppi sociali ed economici che hanno investito tali centri e che hanno nel tempo determinato rilevanti riflessi (socio)linguistici sia a livello di repertorio sia a livello di comportamento linguistico dei parlanti. Keywords: plurilinguismo urbano, repertorio, città

1 Il plurilinguismo urbano Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le ricerche (socio)linguistiche che hanno tematizzato con dovizia di dati ed elaborazioni il plurilinguismo urbano, ponendo via via in rilievo la portata del significato sociale della variazione all’interno delle dinamiche proprie degli spazi urbani (interventi puntuali e approfonditi sono rintracciabili in De Blasi/Marcato 2006 e nel recente Nesi 2013, cui rinviamo per un dettagliato aggiornamento bibliografico; di notevole importanza è anche la serie di «storia linguistica cittadina» pubblicata dall’editore Carocci e promossa da Trifone sino ad ora dedicata a Venezia, Roma, Torino, Milano e Napoli). Posta l’acclarata difficoltà di definizione della città e delle sue caratteristiche essenziali, non si è pur tuttavia mancato di far riferimento a uno dei ruoli cruciali svolti dagli aggregati urbani nelle diverse epoche: la capacità di attrazione di persone e risorse che permette al centro urbano di fungere da fulcro di irraggiamento, anche linguistico, su un area circostante più o meno estesa. Il processo di crescita di dimensione, dovuto all’aumento di popolazione, e di sviluppo economico va di pari passo con il ridisegno della spazialità linguistica di cui gli abitanti sono portatori. Il plurilinguismo e la dinamicità linguistica diventano i tratti distintivi che illuminano i nuovi modelli di repertorio, compatibili di volta in volta con le nuove esperienze spaziali, sociali e culturali in atto. Nelle comunità urbane la variabile «spazio» non può quindi essere disgiunta da quella correlata all’estrazione sociale e alla mobilità sociale del parlante. La variazione interna allo spazio urbano è infatti per lo più determinata dalla variazione diastratica, che tradizionalmente si esprimeva nella dicotomia città vs. campagna, riscontrabile anche nelle situazioni linguistiche della regione Friuli Venezia Giulia. Se la città rappresenta la sede da cui si dipartono le innovazioni linguistiche, cioè il centro irradiante, la campagna è il centro irradiato, quindi più conservativo. Lingue urbane e lingue rurali si pongono in una relazione monodirezionale di innovazione vs. conservazione, ma, come vedremo, la situazione non è sempre così stabile. La

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vicendevole dipendenza tra diatopia e diastratia ha infatti subito nel tempo degli assestamenti che necessariamente hanno lasciato spazio sempre più ampio alla variazione diafasica, ovvero alle più diverse tradizioni discorsive legate ai contesti e alle funzioni dei codici interrelati. L’integrazione di comunità urbane linguisticamente e socialmente differenziate caratterizza pertanto lo spazio urbano come il luogo elettivo di incontro e scontro di gruppi eterogenei, la sede di interscambi comunicativi che spesso diffondono modelli di prestigio e che in ogni caso costituiscono il punto di riferimento e di convergenza di una comunità. La città svolge un ruolo cruciale all’interno della regione di cui rappresenta (o rappresentava) il centro linguistico, ovvero, come si è detto dianzi, il centro di irradiazione linguistica verso le zone contermini. L’urbanizzazione e l’industrializzazione della società italiana hanno quindi reso nel tempo sempre più problematici il concetto di «città» e la sua riconfigurazione di volta in volta adattabile alle nuove spinte interne ed esterne al tessuto urbano. Osservando nei dettagli le problematiche linguistiche proprie degli aggregati urbani non possiamo che rilevare la stratificazione nello spazio di molteplici modelli linguistici e culturali in contatto, e talora in attrito, l’uno con l’altro. In tale cornice la comunicazione urbana rappresenta un considerevole banco di prova per ipotesi e metodi innovativi che consentono allo studioso di pesare e analizzare ora la variabilità diasistematica, riferita ai rapporti tra le varietà nel diasistema, ora la coesistenza di più lingue, che possono essere native, di minoranza e straniere. In questo contributo intendiamo sia testimoniare l’indubbia fecondità della prospettiva cittadina sia valutare le specificità di taluni contesti urbani della nostra regione, ovvero Udine, Pordenone e Gorizia, che nel tempo hanno rappresentato, con modalità diverse, mete di un considerevole afflusso di migranti mossisi dal contado, dalle aree periferiche (in specie la montagna), da altre regioni e da altre zone del mondo (lasciamo sullo sfondo il ruolo giocato da Trieste a causa dell’assenza del friulano nel repertorio linguistico cittadino). Sull’insieme delle relazioni linguistiche che correlano parlanti di provenienza diversa influisce, anche in Friuli, l’evolversi del contesto sociale, che si presenta con tratti particolarmente accelerati a partire dal secolo scorso, basti rammentare il repentino sacrificio delle attività agricole a favore dell’industria e il conseguente spostamento di distribuzione della popolazione (si veda l’articolato quadro proposto da Francescato/Salimbeni 1976 e dai densi saggi rintracciabili in Finzi et al. 2002). Tali fatti hanno inevitabilmente creato dei contraccolpi sulle varietà linguistiche compresenti nelle diverse comunità, determinati per lo più dalla perifericità vs. centralità dell’area indagata: Francescato/Salimbeni (1976, 283) a tal proposito fanno giustamente notare come nelle località isolate («relativamente arretrate e meno esposte dal punto di vista culturale») la diffusione del friulano sia stabile, «mentre il contrario avviene nelle località urbane, dove c’è maggior addensamento e varietà di popolazione, come nei centri industriali, e che sono più esposte ad influenze culturali e a suggestioni di mobilità sociale». In tale prospettiva gli studiosi affermano come sia naturale scorgere «larghe zone di

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scarsa e minima friulanità […] in corrispondenza dei maggiori centri regionali: Udine, Gorizia, e soprattutto Pordenone, […] oramai praticamente del tutto veneta». La variabile distribuzione areale del friulano e del veneto, cui è doveroso affiancare la ferma e continua espansione dell’italiano, sono dati importanti perché, come cercheremo di dimostrare nei prossimi paragrafi, le motivazioni e i processi che conducono a questa situazione differenziata sono di natura essenzialmente difforme: infatti da un lato postulano premesse diverse e dall’altro avviano verso esiti finali divergenti. Il nostro obiettivo è però anche quello di confutare con argomentazioni solide quanto affermava parecchi anni fa Marchetti (1932, 113) a proposito della concorrenza, a suo parere pericolosa, subita dal friulano nei confronti del veneto e dell’italiano: «psicologicamente il fenomeno ha varie cause, e non è, nemmeno questo, limitato alla nostra regione. Anzitutto, l’apostasia parte dalle città e dal ceto borghese dei centri più grossi, fra gente cioè che, per natura, per educazione, per promiscuità d’origini, non sente tanto fortemente il culto delle tradizioni della nostra terra, fra gente che vuole ad ogni costo distinguersi dai contadini e dai montanari e che dice contadino o montanaro in tono di dileggio a coloro che vuol insultare. Vorreste che una signora parlasse abitualmente il linguaggio della sua cameriera? O che il padrone parlasse come gli operai, anche quando non parla con loro? E l’esempio è supremamente contagioso. D’altra parte la tendenza all’urbanesimo implica anche la smania di rinnegare il proprio idioma materno per celare, da parte di chi s’inurba, l’origine campagnola».

2 Udine La città di Udine e la sua caratterizzazione linguistica sono state a lungo oggetto di ricerca del compianto maestro Giuseppe Francescato che già in un breve saggio del 1950 richiama l’attenzione sul peculiare repertorio del centro urbano: «è cosa notoria che a Udine, come in gran parte dell’area friulana di pianura, si parla normalmente veneto accanto al friulano, e anzi la maggior parte delle persone usa indifferentemente l’uno o l’altro dialetto, a seconda delle possibili preferenze dell’interlocutore. Anzi, questo singolare fenomeno, per cui la stessa persona usa, per es., il friulano rivolgendosi ad un contadino, e il veneto chiedendo una informazione per la strada (senza contare, naturalmente, il caso in cui viene usato l’italiano), qualsiasi ne siano le cause, merita certamente uno studio più approfondito di quello che non vogliano essere queste nostre noterelle» (p. 60).

Francescato ha infatti mantenuta la sua promessa e ha continuato a occuparsi del dialetto veneto udinese, la sua varietà nativa (accanto al friulano), per i fenomeni di contatto dello stesso con il friulano e l’italiano in città: facciamo soprattutto riferimento al pregevole volume dedicato alle lingue della città (Francescato 1982), cui più di una volta rimanderemo (la bibliografia su Udine e il suo plurilinguismo negli anni si è notevolmente accresciuta, in questa sede rinviamo ai titoli più noti quali Vanelli 1987; Vicario 2004; Cescutti 2006; Melchior 2008).

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La lucida fotografia della situazione sociolinguistica prima evocata dal linguista friulano, per quanto siano passati parecchi anni, non si è sostanzialmente modificata, perché è ancora possibile ascoltare, mentre si passeggia per le vie del centro cittadino, parlanti che alternano e mescolano idiomi diversi (rinviamo a Coluzzi 2009 e in questo volume, ↗14 Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie, per un confronto tra due «paesaggi» linguistici, come Milano e Udine). Ciò che è cambiato sono vuoi la frequenza e le situazioni d’uso, vuoi la varietà dei tipi linguistici implicati, poiché la città nei suoi più recenti sviluppi economici e commerciali si è trasformata in un punto attrattivo e di incremento demografico che ha visto via via crescere la presenza di numerosi cittadini provenienti da altre regioni italiane e anche dall’estero. Ma andiamo con ordine, focalizzando la nostra attenzione prima su ciascuna componente linguistica del repertorio poi sulla loro interazione. Udine, che di fatto si trova geograficamente all’interno di un territorio linguisticamente friulano, occupa un posto centrale nell’ambito delle varietà linguistiche friulane. A questa centralità geografica non ha tuttavia corrisposto un’analoga centralità storica: come argomenta brillantemente Francescato (1982) la città non è stata in grado di adempiere al meglio alla sua funzione di centro linguistico regionale. Tuttavia il friulano adoperato a Udine, pur con le riduzioni e le semplificazioni che lo contraddistinguono, si configura come un tipo senza dubbio che possiede una propria omogeneità, facilmente dimostrabile, e agisce comunque in una sia pur contenuta area di influenza, entro la quale favorisce l’affermazione dei suoi modelli. Dal punto di vista dialettale, il friulano di Udine appartiene a quell’insieme di varietà che viene denominato per l’appunto «friulano centrale», che, nonostante qualche disappunto, preserva una propria fisonomia: «sarà forse una fisionomia che non piace a certi friulani legati a un loro modo più o meno tradizionale di immaginare la ‹friulanità›; avrà forse un’aria eccessivamente civilizzata e cittadina; ma è, insomma, anch’esso una parlata dialettale vivace ed efficace! Basta sentirla in bocca alle contadine di Piazza S. Giacomo o agli operai di via Grazzano o via Villalta!» (Francescato 1982, 69).

La distribuzione radiale delle arterie stradali che muovono dalla città in tutte le direzioni costituisce un’altra ragione grazie alla quale si sono diffuse e consolidate le forme dell’udinese nelle zone contermini, che per molto tempo sono state anche le forme dotate di maggior prestigio (Frau 1984, 10–12). Un altro grande merito di Francescato è stato quello di monitorare con indagini e descrizioni l’andamento e dell’atteggiamento e del comportamento linguistico dei suoi locutori nel capoluogo friulano. Le varie inchieste condotte sia da lui sia da altri studiosi (compendiate e commentate anche in Francescato 1982), a partire dal 1956 in poi, hanno sempre concluso per una diminuzione del numero dei parlanti, ovvero di un calo di tale numero nel passare da una generazione all’altra. Sebbene in verità le cifre e le interpretazioni si siano rivelate per lo più pessimistiche, poiché la resistenza del friulano è imputabile soprattutto allo sviluppo economico e demografico della

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città che ha richiamato numerosi parlanti friulanofoni di altre zone, venuti soprattutto alla ricerca di una migliore occupazione lavorativa. Si tratta di un fenomeno legato a circostanze extralinguistiche che tuttavia va compensato, come vedremo, con lo spostamento di altri parlanti non friulanofoni che hanno invece accelerato l’espansione dell’italiano: Frau (1984, 10) addita tra le cause dell’imponente italianizzazione la massiccia presenza dei militari e spiega che «più che i soldati di leva, incideranno sulla fisionomia sociolinguistica dei paesi che li ospitano i militari di carriera, provenienti soprattutto dalle regioni centromeridionali: essi infatti – soggiornando in loco per lunghi periodi con le loro famiglie – se da un lato subiscono l’influenza linguistica dei nativi, dall’altro ne possono condizionare il comportamento verbale, inducendoli – in determinate circostanze – ad un uso più frequente dell’italiano, a discapito del friulano, specialmente nei centri minori, dove il rapporto numerico fra militari e indigeni è meno sfavorevole per i primi (si pensi soprattutto alla situazione di paesi come Palmanova, Gradisca, ma anche Codroipo, Cividale, Cervignano, Spilimbergo, Casarsa, e pure delle città più grandi, quali Gorizia e Udine)».

In tale contesto è pur tuttavia innegabile che si è potuta osservare in questi ultimi decenni una netta ripresa nell’uso del friulano anche nell’ambito cittadino e in particolare presso i gruppi giovanili. Si riscontra infatti fra i giovani l’esigenza di affermare una propria «identità linguistica» che si esibisce con il recupero del friulano, inizialmente come lingua dei pari e più tardi come varietà privilegiata nell’uso familiare e, ove possibile, nel contesto lavorativo (Marcato/Fusco 1994 e Fusco/Marcato 2006). Tuttavia non si dimentichi che anche a Udine si manifesta largamente il fenomeno per cui i genitori, che si valgono tra loro dell’idioma materno e che si dichiarano orgogliosi della loro friulanità, esigono però dai loro figli che adoperino l’italiano con il quale essi stessi rivolgono loro la parola. Tale tendenza va ora corretta dalle azioni di sostegno e di rinforzo nell’uso del friulano, anche in una prospettiva di educazione plurilingue, promossa dalle leggi regionali e nazionali per le minoranze linguistiche. La storia linguistica sarebbe incompleta se ci limitassimo a considerare solo il ruolo e gli spazi del friulano. Infatti la situazione sociolinguistica della città risulterebbe incomprensibile senza tener conto della presenza del veneto e dell’italiano e delle loro interrelazioni con il friulano. Del veneto a Udine va subito precisato che si tratta di un veneto importato dal di fuori, cioè di un veneto «coloniale» (come è stato definito, ↗6.3 Veneto): l’analisi delle sue specificità dialettali si salda con le conoscenze che abbiamo della storia del Friuli per indurci a considerare questo tipo di veneto come una varietà che ha una matrice veneziana, benché abbia poi sviluppato tratti almeno in parte divergenti rispetto al modello (Vanelli 1987, 37–42, passa in rassegna alcuni fenomeni rilevanti, quali i processi di lenizione delle consonanti intervocaliche che a Udine danno esiti notevolmente diversi ovvero alcuni fatti di sintassi, cioè l’estensione dell’uso del clitico soggetto). Ma non c’è dubbio che alla base della sua diffusione nei centri urbani, in specie a Udine (si parla infatti di veneto udinese per alludere a questo

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tipo di veneto in Friuli), emerga proprio il prestigio detenuto da Venezia e dalla sua classe dirigente presso una porzione della popolazione cittadina a partire dalla prima metà del XV secolo, quando una parte del Friuli si aggrega al dominio della Serenissima, dominio durato fino alla caduta della stessa Repubblica alla fine del XVIII secolo. Pertanto la relazione tra friulano e veneto avviene per un contatto per così dire verticale, mediante un processo di acquisizione da parte delle classi sociali più agiate di una varietà che assume lo statuto di lingua di prestigio, cioè di lingua che può favorire la promozione sociale. Il veneto udinese, che si configura proprio come una varietà urbana, diventa anche una sorta di lingua borghese, adottata infatti dai ceti borghesi e piccolo-borghesi, in contrasto con gli strati popolari che si rivolgono al friulano. Sebbene il veneto di tipo udinese risalga come origine al XV  secolo, la sua qualifica di lingua della borghesia ha determinato una sua notevole diffusione e un suo intenso radicamento soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX  secolo e la prima metà del XX  secolo, in concomitanza con l’avvio dello sviluppo industriale nell’area di Udine e con l’espansione di una classe borghese cittadina particolarmente ricettiva nei confronti di modelli linguistici ritenuti più prestigiosi. Da Udine l’impiego del veneto si è irradiato via via anche in altri centri cittadini di piccole e medie dimensioni della regione sempre con le stesse modalità di penetrazione. Si riscontra infatti una diffusione che agisce attraverso i contatti sociali e non territoriali: sono di nuovo i ceti piccolo-borgesi urbani che adottano l’udinese, laddove le classi popolari cittadine e della campagna sembrano privilegiare l’uso del friulano, però con qualche certa apertura verso il veneto di tipo udinese come dimostra Pellegrini (2006). L’irradiamento dell’udinese si incontra a sud e a est con un analogo processo di venetizzazione che si muove dall’altro centro veneto della regione, ossia Trieste: a titolo esemplificativo, ma importante, menzioniamo Palmanova, in cui si parla una varietà nettamente udinese, e Cervignano (a pochi chilometri di distanza) in cui il veneto è di tipo goriziano-giuliano, dunque di emanazione triestina. Si rammenti che Palmanova è un piccolo centro urbano della Bassa friulana, un tempo città-fortezza fondata dai veneziani nel 1593 a difesa delle invasioni dei Turchi, dove il veneto coloniale è stato presente fino dagli inizi come lingua veicolare prestigiosa, perché lingua della Serenissima, mentre la campagna circostante è friulana e il friulano entra solo più tardi nel repertorio linguistico della cittadina. Il veneto udinese si affaccia alle porte di Palmanova alla fine del XIX  secolo quando il ceto borghese decide di avvalersene in quanto varietà socialmente marcata rispetto al friulano, varietà ritenuta più bassa, anche dopo la fine della Repubblica di Venezia. In tempi più recenti, come ha ben dimostrato Vanelli (1976), Palmanova ha aderito a un plurilinguismo in cui il veneto cede il passo all’italiano, oramai ritenuto il codice alto, come nel resto della regione (rinviamo a Buonocore/Finco 2002 per un aggiornamento sulla situazione linguistica palmarina). Posto quindi il successo del veneto udinese anche al di là del confine urbano, va però segnalato che la sua tenuta nel tempo ha subito dei considerevoli riassestamenti,

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dovuti per lo più all’intenso influsso dell’italiano, varietà egemone con cui è entrato subito in concorrenza: Francescato (1982, 103) con acutezza rileva infatti che «il veneto di Udine sarà quindi il risultato dell’incontrarsi di queste molteplici influenze, cioè fondamentalmente veneziano, ma non senza elementi di qualche altra varietà veneta (soprattutto il trevisano e il triestino), sviluppatosi su un terreno nel quale continuano ad agire le influenze del sostrato friulano e del superstrato italiano» (su alcuni tratti linguistici peculiari del veneto udinese rinviamo a ↗6.3 Veneto).

L’influenza dell’italiano esercitata sul veneto di tipo udinese è così accentuata da essere responsabile anche dei giudizi per lo più negativi attribuiti a questa varietà, solitamente additata come una sorta di ibrido veneto-italiano (si leggano le sentenze raccolte e commentate da Vanelli 1987, 32). La maggiore forza di attrazione dell’italiano determina nel tempo anche un cambiamento nella fisionomia generale della parlata udinese (avvertibile soprattutto a livello lessicale, come argomenta Vanelli 1987), tanto da indebolire il suo status agli occhi dei parlanti. Il veneto udinese, lingua della borghesia e della promozione e della mobilità sociale verso l’alto, si trova insomma nella seconda metà del Novecento in competizione con un’altra varietà altrettanto prestigiosa che oltretutto è anche la lingua nazionale. Tale attrito fra due idiomi ritenuti alti non può che risolversi con una ristrutturazione del repertorio che vede da un lato l’allocazione dell’italiano nel gradino superiore e dall’altro la continua regressione del veneto udinese: tale riposizionamento passa anche attraverso una fase transitoria del veneto che per un certo lasso di tempo veste i panni della linguaponte verso l’italiano. A mano a mano che l’idioma nazionale avanza, il veneto arretra dai suoi tradizionali ambiti d’uso, favorendo altresì una graduale ma accentuata ripresa del friulano, fino ad allora intesa come la lingua dell’uso familiare e popolare e della comunicazione quotidiana. In sostanza, il friulano, che è rimasto ai margini di tale contrapposizione, ne trae beneficio poiché rappresenta, anche alla luce del sostegno legislativo, il simbolo del radicamento nella tradizione culturale e di appartenenza alla comunità friulana. Anche a Udine, quindi, le occasioni di scambi comunicativi in italiano, anziché in veneto udinese, sono rafforzate dalle trasformazioni sociali ed economiche che attraversano il paese dopo il secondo conflitto mondiale. La ricostruzione, l’intensa industrializzazione e la spinta demografica che richiamano ingenti flussi migratori dalle altre regioni (si ricordi anche in questo contesto, come del resto a Pordenone, il ruolo decisivo giocato sia dal cruciale inurbamento dal contado e dalle valli montane sia dal consistente numero di militari di leva non friulanofono cui si affiancano via via la capillare diffusione dell’istruzione obbligatoria e la crescente popolarità dei mezzi di comunicazione) hanno inciso profondamente sugli usi linguistici, generando via via una ristrutturazione della composizione del repertorio linguistico urbano e una diversa attribuzione di valori alle varietà implicate (cf. Cescutti 2006). La forza di tali variabili socioeconomiche, affiancate da altre di natura sociopolitica (alludiamo ai forti richiami identitari sfociati nelle tutele del friulano da parte delle istituzioni regionali e naziona-

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li), ha candidato Udine ad assumere una nuova funzione linguistica, anche in virtù della sua posizione di capoluogo dell’area friulanofona. La città lascia infatti sullo sfondo la varietà friulana dai tratti cittadini per allinearsi alla fascia centrale, ovvero a un modello comune, letterario (la cosiddetta koinè friulana), e non interviene nella cedevole regressione del veneto udinese che si rifugia nell’alveo della comunicazione familiare e quotidiana di un residuale manipolo di parlanti (si veda, a tal proposito, la possibilità di un rilancio del veneto udinese da parte di trentenni come un fatto di moda e di tendenza, che varrebbe la pena di approfondire: cf. Cescutti 2006, 187). Tali dinamiche di assestamento permettono alla lingua nazionale di farsi spazio (anche nella sua variante regionale ben scandagliata da Marcato 2001), generando numerosi fatti di interferenza tra italiano e friulano (cambiamenti di codice, enunciazioni mistilingui, prestiti e calchi) che si producono, con modalità e gradi di diffusione assai differenziati, a tutti i livelli nel parlato cittadino, non solo tra le giovani generazioni. La città di Udine ha svolto dunque nei secoli passati la funzione di centro rilevante di influenza, grazie al suo prestigio culturale, sociale e politico-amministrativo: tuttavia, come ricorda Frau (1984, 10) i tratti linguistici da essa irradiati (ad esempio -a, -as di posizione finale trasformate rispettivamente in -e, -es → -is, oppure il passaggio della pronunzia da occlusiva palatale ad affricata postaleveolare) non hanno spesso valicato i limiti della pianura e da questa non sono sempre riusciti a raggiungere le aree più periferiche. Tale distanza ha così permesso la creazione di altri centri di attrazione che, posizionati in aree strategiche, hanno assunto il ruolo di modelli sociali e culturali, con evidenti ripercussioni linguistiche: ad esempio Tolmezzo per la Carnia, Maniago per la Valcellina, Latisana e Cervignano per la bassa pianura. Ma questi agglomerati dalle medie dimensioni, data la lontananza dal capoluogo friulano e la sporadicità delle relazioni con esso, «non sempre percepivano le innovazioni e solo in parte erano dotati, a loro volta, di un proprio prestigio, tale da consentire di irradiare novità agli altri centri minori e di qui ai centri rustici. Così che le principali varietà friulane conservano ancora pressoché intatte le loro caratteristiche municipali, riflesso (tutt’altro che impallidito) di situazioni antico-medievali, rinforzate da tradizionali confini giuridici, ma soprattutto ecclesiastici»,

come ben argomenta Frau (1984, 11). In definitiva, per la città di Udine, il volgere veloce da centro medio e piccolo borghese del primo Novecento, con i suoi borghi storici e le sue mura caratteristiche, a nucleo urbano esteso, espressione della crescita economica e delle migrazioni interne, è stato cruciale nel passaggio da una realtà linguistica articolata (friulano, veneto udinese e italiano) a una altrettanto composita, ma con una spiccata tendenza al livellamento sull’italiano. Francescato (1982, 173) conclude il suo bel saggio, affermando che: «un crescente numero di persone non conosce più, o conosce poco e male, tutte e tre le varietà. D’altra parte le differenze tra una varietà e l’altra sembra che diventino più sfumate, meno recise.

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A questo punto possiamo ammettere che anche Udine tenda ad allinearsi con le altre città italiane, la cui storia linguistica si ingrigisce sullo sfondo uniforme di un ‹italiano› ormai indifferente agli spunti regionali».

Pur condividendo il pensiero del compianto linguista, siamo più inclini a pensare che la storia linguistica della città sia invece particolarmente screziata dai colori degli spunti locali e regionali e soprattutto dai colori che provengono dalle molteplici varietà dei tanti gruppi di immigrati comunitari ed extracomunitari che scelgono Udine come approdo o passaggio, i cui componenti, in parte occupati nei poli artigianali-industriali della zona friulanofona limitrofa, hanno via via cambiato in questi anni il tessuto sociale della città, consegnandoci modi diversi di vivere lo spazio urbano le cui ricadute (socio)linguistiche sono ancora tutte da esplorare.

3 Pordenone Pordenone è una città che ha adottato il veneto, impostosi a spese del friulano, tra il XVIII e il XIX secolo; non è estranea a tale fenomeno la «perifericità» geografica della città stessa che, pur trovandosi al di qua della linea che segna il limite estremo della friulanità storica, si è sentita legata anche per via fluviale (il Noncello) al territorio veneziano e trevigiano (sulle vicende storiche e linguistiche di Pordenone, rinviamo a Rizzolatti 1991; 1995; 1996, nonché a Begotti 1991). Nella raccolta del Papanti (1875) il friulano risulta ancora vitale ma giudicato come «dialetto contadinesco», laddove nel tessuto urbano emergono due varietà venete: la koinè di matrice veneziana adoperata dai ceti medio-alti (cioè la classe mercantile e le famiglie della nobiltà veneta presenti in città) e il dialetto degli «artieri», ovvero della classe degli artigiani e commercianti (cf. Rizzolatti 1996, 109–115). Quest’ultimo tipo predominerà sulla koinè con l’espansione della piccola borghesia e diventerà il dialetto pordenonese che godrà di ampio consenso anche fuori dalle mura cittadine. Ma nel secondo dopoguerra, in una situazione socioeconomica profondamente trasformata, la parabola del veneto pordenonese declina di fronte a una dilagante italofonia, assottigliandosi sempre più il numero dei parlanti e ammantandosi di valori simbolici e nostalgici. Al cedimento del pordenonese fa però da contraltare una timida ripresa di un tipo dialettale veneto allineato sulla koinè veneziana, in specie da parte di quei gruppi sociali che per vocazione socioculturale si orientano verso Venezia (Rizzolatti 1996, 122, fa notare che «volontà snobistiche sembrano alla base di questo uso, che contribuisce a sancire la morte del codice più debole, il veneto pordenonese, schiacciato tra italiano e veneziano»). La facies linguistica del veneto pordenonese manifesta una pluralità di sviluppi: essa sembra oscillare tra i tipi standardizzati della koinè veneta e le caratteristiche tipiche del veneto a base liventino (soprattutto le scelte fonetiche), con qualche tratto carsico imputabile al sostrato friulano (ad esempio il suffisso diminutivo -út/-úta). Tale intreccio stratificato di varietà ha comportato nel pordenonese una polimorfia di esiti:

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Rizzolatti (1991; 1996) discute ad esempio i diversi trattamenti dei segmenti vocalici finali, l’irregolarità della lenizione delle consonanti labiali, labiovelari e dentali, la variabilità della morfologia nominale e verbale, con alcune ricadute nella sintassi. Insomma essa potrebbe costituire, sulla scorta del veneto udinese, una varietà coloniale, «paracadutata» dall’alto, importata dall’esterno da un centro che vicende storiche avevano enucleato dal Friuli («Pordenone ancora a metà del XIX secolo viene percepita come città non solo geograficamente e amministrativamente, ma anche culturalmente friulana», sostiene Begotti 1991, 135). Si rammenti però che il pordenonese odierno si allontana dal veneziano (come del resto anche l’udinese), sviluppando tratti indipendenti, quali l’assenza dell’indebolimento di -l- intervocalica (semplice o geminata) che viene conservata e non vocalizzata come nel veneziano. I fattori che hanno determinato il processo di venetizzazione sono essenzialmente due, correlati tra di loro, ma nessuno dei quali è di matrice propriamente linguistica: da una parte l’urbanizzazione e dall’altra l’industrializzazione. Pordenone ha assunto il ruolo di città che via via abbandonava la funzione di modesto centro agricolo e portuale, per affermarsi come centro, anche attrattivo, di produzione industriale. Questi fenomeni di natura sociale hanno inevitabilmente comportato anche uno sforzo di promozione e mobilità sociale da parte degli abitanti, che si è espresso linguisticamente con l’adozione di quella che appariva la lingua della classe privilegiata, il veneto, e con il rifiuto della parlata rustica, il friulano. Tali dinamiche non hanno però coinvolto l’area rurale attorno alla città che, tradizionalmente attaccata alle proprie consuetudini campagnole, ha resistito nella propria friulanità. Ma più tardi la vorticosa espansione industriale di Pordenone ha raggiunto anche la campagna, dalla quale proveniva la manodopera necessaria. Tale flusso migratorio dalla campagna alla città avrebbe dovuto determinare una diffusione del veneto anche nell’area contermine che fa capo a Pordenone. Tuttavia la situazione sociolinguistica della provincia di Pordenone è assai complessa sia per la convivenza sul territorio di friulano, veneto e italiano, sia per lo sfrangiarsi del friulano in una molteplicità di parlate. È ben radicata, presso la sfaccettata comunità cittadina, l’idea di una netta cesura tra il centro urbano, veneto, e l’area limitrofa (in specie nella campagna al di sopra della strada statale che collega Udine e Pordenone, arteria che agisce come linea di demarcazione tra l’area soggetta a venetizzazione e le varietà più saldamente occidentali), all’interno della quale resiste tenacemente l’elemento friulano, rustico e dall’aroma campagnolo, come il folpo ʻpolipoʼ parlato a Cordenons (termine alquanto denigratorio, adottato dai parlanti friulani della località, ma assegnato loro dai venetofoni) ovvero chiuso e conservativo come quello della fascia collinare e montana. Preme qui attirare l’attenzione sulla fascia più esterna della provincia di Pordenone, dove la contiguità con il Veneto ha posto in reale pericolo le varietà a base friulana che si parlano (o meglio si parlavano) lungo il confine con tale regione (↗6.3 Veneto). Va segnalato che comunque dal capoluogo provinciale si è irraggiato il veneto pordenonese anche al di fuori della città verso la Destra Tagliamento, senza però oltrepassare i comuni cittadini attigui, quali Cordenons, Fiume Veneto, Roveredo in

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Piano, San Quirino, Porcia e anche la «friulanissima Casarsa» («una frazione […] Cimpello, mostra nell’arco di un centinaio di anni tre mutamenti di codice, passando da un dialetto semifriulano ad una varietà veneta liventina per approdare infine al tipo dialettale pordenonese», spiega Rizzolatti 1996, 122). Al veneto si sono accostati anche altri centri, seguendo per imitazione i comportamenti linguistici registrati vuoi di Pordenone vuoi di Udine: Latisana, Maniago, Spilimbergo, S. Vito al Tagliamento che mostrano nell’uso della borghesia emergente, a livelli piuttosto informali e familiari, per l’appunto il veneto a base veneziana e non il friulano, le cui tracce (lessicali) però restano ancora ben visibili (cf. Finco/Rizzolatti 2005). A cavallo degli ultimi due secoli l’intensa gravitazione verso il centro urbano e industriale ha inciso in profondità sulle abitudini e sugli usi linguistici della città, cui si sono accompagnati altri processi sociali, quali la sempre più frequente mescolanza di cittadini provenienti da altre regioni, spinti per l’appunto da opportunità lavorative più proficue (a ciò non è estranea la cospicua presenza di caserme nel territorio che ha richiamato militari di leva e di carriera) e la capillare diffusione dei mezzi di comunicazione. Il risultato dell’interazione di questi fattori è che il concorrente del friulano nella prospettiva linguistica non è più, e solo limitatamente, il veneto, ma è piuttosto l’italiano, anzi, nella fattispecie, un italiano di tipo regionale. Si è quindi assistito a un processo di italianizzazione diverso da quello di venetizzazione che ha agito nel passato perché difformi sono i presupposti e le peculiarità sociolinguistiche (la varietà veneta infatti «non è pertinente alle nuove esigenze delle giovani generazioni, che si rivolgono all’italiano […]», precisa Rizzolatti 1996, 122). Il veneto è stato cioè assunto come un mezzo di promozione e mobilità sociale, molto spesso come una specie di lingua-ponte verso quella che oggi è diventata la vera lingua di prestigio, l’italiano: questa è anche la ragione per la quale a Udine e a Pordenone l’interferenza non è tra veneto e friulano, bensì tra veneto e italiano (Vanelli 2000). Begotti (1991, 137), a tal proposito, interrogandosi sul futuro, afferma: «anche a Pordenone, come in quasi tutte le città italiane, la prima lingua con cui viene spontaneo o utile rivolgersi a persone sconosciute, funzionari statali, commesse, baristi, insegnanti e impiegati è l’italiano. Il dialetto pordenonese nato fra Settecento e Ottocento si estinguerà, come l’antico vernacolo friulano?».

Come sempre fare delle previsioni è poco ragionevole, ma crediamo valga la pena auspicare un monitoraggio costante dell’articolata situazione sociolinguistica della realtà urbana che, non dimentichiamoci, negli ultimi decenni ha visto anche l’afflusso ingente di cittadini provenienti dalle zone più povere o indifese del mondo. Sarà quindi nostro compito anche chiederci quali ristrutturazioni e riassestamenti nel repertorio linguistico della città (ma anche di centri minori) ha provocato/provocherà tale massiccia immigrazione.

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4 Gorizia Periferica per posizione geografica, isolata dal corpo del Friuli, per le note vicende della Contea (in seguito ereditata dagli Asburgo), in contrasto fin dall’inizio alla politica del Patriarcato e veneziana, Gorizia con il territorio di sua pertinenza non è coinvolta dagli sviluppi delle varietà friulane ed elabora nel tempo, calibrando innovazione e conservazione, un tipo peculiare, anche per il suo indiscusso prestigio, in netta antitesi a quello udinese (sulla situazione linguistica di Gorizia e dell’area limitrofa, rimandiamo a Francescato 1970; Rizzolatti 1989; Doria 1998; Frau 2013). La storia linguistica di Gorizia, unica località friulana oltre Isonzo, è caratterizzata dalla compresenza in città di varie lingue e culture che nel tempo hanno rivestito ruoli e funzioni diversi: è nel giusto Ferrari (2002, 316) quando afferma, nel suo pregevole affresco della Gorizia ottocentesca, che «i particolari del quadro cambiano nel tempo, in un gioco di intrecci e sovrapposizioni che hanno origine proprio nella natura della città, di incrocio, punto di passaggio, luogo di confine». Il repertorio della comunità goriziana contempla attualmente il friulano, lo sloveno (parlato per lo più dalla comunità slovena presente in città e provincia) e l’italiano e, a partire dalla fine del XIX secolo (sebbene la sua presenza in città sia documentata fin dal XVI secolo), anche il veneto di tipo triestino o giuliano, mossosi a ritroso fino in città, grazie anche al prestigio esercitato da Trieste in seguito alla sua rapida crescita e fortuna mercantile e ai considerevoli flussi immigratori giuliani (in specie istriani) del secondo dopoguerra (talora esso è altresì adoperato come lingua franca nei contesti sociali informali). Si può quindi affermare che il triestino a Gorizia sia quasi «paracadutato» dall’alto e non sia avanzato, con un suo procedere lineare, lungo direttrici terrestri, ovvero lungo successive contiguità areali (Doria 1998, 583, individua un canale di trasmissione importante nel contributo dei «lavoratori friulani che si recavano a lavorare a Trieste anche per lunghi periodi e ritornavano, poi, nelle loro sedi d’origine linguisticamente mutati»). La lingua tedesca, diffusa come lingua dell’amministrazione già in epoca bassomedievale e rivitalizzata nel tempo in modo discontinuo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, ma in verità già fortemente regredita fin dagli anni dell’immediato primo dopoguerra (1918–1920), fa perdere completamente le sue tracce in città (testimonianze dell’influsso del tedesco sono però ancora ben visibili nel lessico). Ben più salda la presenza slava nella composizione plurilingue della città, visto che circonda a tutt’oggi l’area del friulano isontino. Espressione di un’interazione di fattori storici, geografici e culturali, anche l’individualità del tipo friulano parlato a Gorizia è imputabile soprattutto al peculiare plurilinguismo che contraddistingue(va) la città: taluni sviluppi, documentati nella sola lingua cittadina, che non trovano riscontro nelle varietà del contado, sembrano ispirati dalla situazione di contatto linguistico che in città, in specie nel XIX secolo, doveva spingere verso la semplificazione della struttura friulana (ad esempio l’opposizione fonologica basata sul contrasto tra vocale breve e vocale lunga in sillaba finale; Frau 2013). Si ricordi però che Gorizia, in particolare a partire dal XVIII secolo,

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guadagna una posizione culturale di rilievo, tanto da sviluppare una propria tradizione letteraria in friulano, idioma che a Gorizia (diversamente da quanto già da qualche secolo si è verificato a Udine, condizionata dal prestigio del dialetto veneto importato) non conosce complessi di subalternità (almeno fino alla prima guerra mondiale). In città infatti la varietà friulana ha goduto di un’alta considerazione a tutti i livelli e non è mai stata percepita come un elemento di disturbo rispetto all’italiano, semmai come un suo complemento (cf. i contributi contenuti in Tassin 1988). L’ascesa economica e sociale della città dell’Isonzo ha però generato nel dialetto cittadino gli adattamenti che contribuiscono a renderlo più raffinato, a nobilitarne i tratti più municipali, a eliminare quelli troppo rustici, insomma a livellarlo accostandolo sempre più al friulano centrale e udinese. A mano a mano che ci si allontana dalla città i rapporti di dipendenza da quel modello si fanno però più fragili; già a Lucinico (località alle porte di Gorizia) si manifesta un tipo dialettale sostanzialmente coincidente con quello goriziano ottocentesco. Insomma, in assenza di fenomeni di interferenza, la campagna isontina mantiene ciò che la città ha invece abbandonato. Francescato (1970), a tal proposito, sottolinea che Gorizia e altre località sono diffusamente penetrate da infiltrazioni dialettali provenienti da due direttrici: una che si muove dal friulano, l’altra dal triestino. In effetti nella fascia friulana del confine orientale e più a occidente tracciando una linea che da Cormons raggiunge il basso Friuli, si assiste a una situazione di bidialettismo analoga a quella attestata nella fascia di transizione occidentale fra friulano e veneto; accanto al friulano coesiste infatti un dialetto veneto di tipo triestino, nella stessa Gorizia e Cormons, ma anche a Cervignano, Palmanova, oltre che Romans, Gradisca, Aquileia, Ruda, per citare soltanto i centri principali. Quanto agli sviluppi di questa particolare situazione di bidialettismo, secondo Francescato (1970, 64) «se si può prevedere una sempre maggiore diffusione del dialetto triestino in questa zona, si può anche supporre che la tenace resistenza linguistica del tipo friulano non sarà tanto facilmente soverchiata […]. Anche il confine orientale friulano-veneto ha raggiunto una certa stabilità, ed è presumibile che per ora non si determinino le condizioni necessarie per modificarlo profondamente».

Anche a questo proposito sarebbe necessario avviare al più presto delle indagini sul campo per convalidare ovvero invalidare l’ipotesi avanzata dallo studioso, a nostro parere ancora ragionevole. Veniamo ora al ruolo giocato dall’avanzamento dell’idioma nazionale nella città e nei territori attigui. Va innanzitutto precisato che attorno alla fine del XIX secolo inizia, nonostante l’estromissione dell’italiano dall’insegnamento, un processo di estensione e consolidamento della italofonia che sembra divenire inarrestabile nei tre decenni successivi, dal momento che coinvolge anche la comunità slovena e quella tedesca. La borghesia goriziana, che in massima parte aveva l’italiano come lingua di cultura e d’uso (insieme al veneto e al friulano), fa proprie in quegli anni le dottrine nazionaliste che si stavano diffondendo nel vicino Regno d’Italia rivendicando l’ado-

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zione ufficiale di tale idioma. Non può essere estranea a tale azione la posizione assunta da Ascoli che, in uno scritto del 1848 (dal titolo Gorizia italiana, tollerante, concorde), a proposito della città, che storicamente era sempre appartenuta al mondo germanico ed era per l’appunto caratterizzata da un accentuato plurilinguismo, dichiara: «questo popolo è attaccatissimo per suolo all’Italia […] ed è di lingua italiano […] di costumanze in grandissima parte italiano […] e più non si soffra che per il barbaro sistema di UNIONE FORZATA, in Gorizia italiana s’insegni in lingua tedesca, per trascinarvi dai contorni lo Slavo a germanizzarsi e l’Italiano a parlare di Dio e coltivare le scienze con favella alemanna» (citato in Santeusanio 1988, 196).

Riflessioni pacate che richiamavano la necessità di sviluppare una coscienza nazionale che puntasse anche alla convivenza delle varie comunità presenti sul territorio, la cui identità, come è ben noto, è stata oggetto di discussioni e di attriti nel secondo Ottocento e nel primo Novecento. E ancora si rammenti il «culto della nostra favella» più volte rivendicato e riaffermato dal giornalismo goriziano e triestino negli anni antecedenti il conflitto mondiale (Santeusanio 1988, 200–204). Attualmente anche a Gorizia e nel goriziano, dove, come si è detto dianzi, è abbastanza recente la diffusione del veneto di matrice triestina, sembra che la comunità (includendo anche i gruppi giovanili) prediliga un repertorio ridotto che vede interagire l’italiano con il veneto-triestino. Considerazioni particolarmente rilevanti provengono dagli usi in cui sono compresenti più codici nelle varie situazioni comunicative e soprattutto in presenza di locutori non friulanofoni (sebbene si osservi ancora qualche resistenza del friulano nei contesti privati e familiari): a Gorizia, infatti, dove comunque il plurilinguismo è un dato di fatto, figura raramente il passaggio dall’italiano al friulano o viceversa (alludiamo a fenomeni di mescolanza linguistica e di enunciazione mistilingue) se l’interlocutore non è friulano, laddove casi ricorrenti di mescolanza si verificano tra italiano e veneto-triestino, anche in presenza di forestieri, dato che i parlanti avvertono una minore distanza fra i due idiomi. L’inclusione del veneto triestino nel repertorio linguistico della città sembra in qualche modo correlata all’esigenza avvertita dai parlanti di riaffermare, nel quadro di una recente ristrutturazione dell’identità urbana, una componente cruciale in funzione oppositiva rispetto alla specificità friulana e alla minoranza slovena.

5 Qualche considerazione conclusiva Nei paragrafi precedenti è stato tracciato un profilo di alcune realtà urbane della regione Friuli Venezia Giulia, cercando di mettere in rilievo gli elementi dovuti per lo più a fenomeni di contatto tra le varietà implicate nei repertori cittadini. Esaminando più da vicino la situazione sociolinguistica, le tre città prese in esame, cioè

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Udine, Pordenone e Gorizia, sono accomunate da una serie di fatti sociali che ha investito in maniera indifferenziata molti spazi urbani a partire dalla seconda metà del Novecento: alludiamo nello specifico alla capacità di attrazione di persone e di risorse che ha avuto delle ricadute rilevanti sui comportamenti linguistici dei cittadini vecchi e nuovi. Nel caso di Udine si è collegata la sua vocazione di capoluogo della friulanità con la graduale perdita di prestigio del veneto udinese e l’accelerata avanzata dell’italiano che ha, per certi versi, favorito la formazione di un repertorio urbano polarizzato (italiano/friulano), non privo di interessanti fatti di interferenza diffusi a tutti i livelli nel parlato cittadino. Anche per ciò che riguarda Pordenone abbiamo messo in relazione l’urbanizzazione, l’industrializzazione e l’esplosione demografica dei primi decenni del secondo dopoguerra, anche in conseguenza di flussi immigratori provenienti dalle aree meridionali del paese, con l’indebolimento della varietà veneta urbana (il friulano ha fatto perdere le sue tracce tra il XVIII e il XIX secolo, pur preservando una certa vitalità nei territori limitrofi) in favore di una più prestigiosa italianizzazione. Infine Gorizia, città di confine dai conflitti ancora non del tutto risolti (alludiamo in particolare ai rapporti talora tumultuosi con la minoranza slovenofona), si è contraddistinta nei secoli per l’inedita compresenza di lingue e culture (nella fattispecie friulano, varietà venetofone di matrice triestina, italiano, tedesco, sloveno che hanno rivestito ruoli e funzioni diversi) che ha candidato la città a significativo emblema di un plurilinguismo urbano dalle tinte più variegate. Pur all’interno di dinamiche assai difformi, è del tutto chiaro che anche una sommaria disamina dell’attuale realtà sociolinguistica delle tre città qui indagate non può fare a meno di confrontarsi sempre con il loro essere oggi e l’esser state in passato aggregati urbani peculiari, con le loro dinamiche economiche, demografiche e sociopolitiche.

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Sabine Heinemann

5.4 Tergestino/Muglisano Abstract: Le varietà friulane tergestino e muglisano sono state soppiantate dal «veneto coloniale» nel corso dell’800. Le due parlate mostrano forti somiglianze con le varietà del friulano occidentale. Dopo qualche cenno allo sviluppo storico-culturale delle due città si fa riferimento alla problematica della distinzione fra friulano e istriano – mentre per Trieste e Muggia si può supporre uno strato friulano preesistente, per Capodistria questo, data la scarsa documentazione, è meno facile. I documenti disponibili per il tergestino e il muglisano risalgono agli ultimi decenni della presenza delle varietà e permettono comunque una descrizione almeno parziale delle parlate ora estinte. Visto che il triestino ha soppiantato il tergestino pare interessante un’analisi dello sviluppo storico tenendo conto della problematica della definizione della varietà (cf. la discussione e la differenziazione dei concetti di «veneziano de là da mar», «veneziano/veneto coloniale»); vengono poi discussi esempi di friulanismi nel triestino. Keywords: tergestino, muglisano, triestino, veneto

1 Introduzione Come gran parte della costiera adriatica, anche il capoluogo della Regione Friuli Venezia Giulia (con la vicina Muggia) oggi è un centro importante di irradiamento per quel tipo di veneto chiamato «coloniale» (nel caso concreto il triestino), essendo stato in passato un centro commerciale di primaria importanza per la Serenissima (e in seguito per gli Asburgo). Fino agli inizi del XIX secolo però a Trieste si parlava ancora il tergestino (e – fino al 1870 circa – il muglisano a Muggia), varietà friulana o friulaneggiante, soppiantata definitivamente dal triestino col quale ha coesistito per più secoli. Interessanti sono di conseguenza le influenze reciproche in questa fase, anche se non è sempre possibile (o anzi è addirittura impossibile) identificare o ricondurre i friulanismi a vecchi influssi di sostrato o spiegarli con recenti interferenze. Per quanto segue si vuole dare una descrizione del tergestino e del muglisano basata sugli scarsi documenti a disposizione, cercando anche di determinare la posizione delle varietà all’interno del sistema variazionale friulano.

2 Cenni storici Anche se esiste un forte «sentimento campanilistico tra friulani e triestini» (Francescato/Salimbeni 1976, 251) sono comunque ben visibili «i legami profondi tra Friuli, Trieste e la Venezia Giulia» (ibid.). Come l’odierno Friuli, anche Trieste (Tergeste) fu parte della X Regio Venetia et Histria dominata da Aquileia; con la diffusione del

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cristianesimo il rapporto tra Aquileia e Trieste si rispecchia anche nelle strutture ecclesiastiche. Solo col ducato longobardo avviene una prima separazione – mentre il Friuli viene sottomesso, la fascia lagunare rimane sotto il dominio bizantino. Sul piano ecclesiastico però l’unità è stabile. Mentre l’Istria dal ’300 in poi, per il totale assoggettamento a Venezia, è staccata dal Friuli, Trieste, pur indipendente dal patriarca, resta comunque legata al Friuli. Anche più tardi Trieste è autonoma, malgrado la dominazione della Serenissima nell’Alto Adriatico e la dedizione triestina alla Casa d’Austria dal 1382, e mantiene il contatto con il Friuli. Importanti sono da una parte la soppressione del Patriarcato nel 1751 e la dominazione veneziana e dall’altra il parallelo sviluppo economico di Trieste, che diventa porto franco (nel 1719, pratica attuazione nel 1749), sviluppo che comporta anche l’estinzione del tergestino. Difatti, con l’afflusso di immigranti di gruppi etnici diversi, la città cresce rapidamente, raggiungendo oltre 100.000 abitanti in poco più di un secolo (Luzzatto Fegiz 1929): «Trieste, infatti, ereditando la funzione economica e commerciale che era stata di Venezia ed i suoi empori mediterranei, doveva necessariamente ereditarne anche il linguaggio, che era stato per secoli la lingua franca del Mediterraneo orientale» (Francescato/Salimbeni 1976, 253).

Infatti, diventando Trieste un grosso centro commerciale, pur con una certa iniziale resistenza, presto il tergestino si perde. L’ampliamento della città avviene a svantaggio della piccola borghesia, e l’uso del tergestino all’epoca rimane più o meno limitato al nucleo primitivo della stessa da una parte e al vecchio patriziato dall’altra – con l’estinzione de lis tredis cjasadis e con lo sviluppo di una borghesia di stampo mercantile, il tergestino scompare a favore del veneto triestino, che però mostra sempre forti influssi friulani (Mainati 1972, VIII; Zudini 1972, 23–25; Pellegrini 1960, 3; Marcato 2005, 510; Crevatin 1975, 61). L’apertura della borghesia al veneziano è naturalmente dovuta al fatto che esso era l’idioma veicolare nell’ambito del commercio marittimo nell’Alto Adriatico. Inoltre, come già accennato, il «veneziano» o «veneto coloniale» era presente a Trieste da più secoli accanto al tergestino, che si trova documentato – come pure il muglisano a Muggia – con una certa continuità dal 1300 ma «[p]er i suoi tratti municipali non poteva arrivare alla dignità della scrittura» (Zudini 1972, 20). Lo sviluppo economico e sociale di Trieste e Muggia, che è diverso specie dal 1700 in poi, porta anche ad una differenziazione linguistica; difatti Muggia rimane un centro subordinato che conserva meglio alcuni tratti friulani (Zudini/Dorsi 1981, XIX). L’importanza del veneziano nell’Alto Adriatico si può desumere anche dai testi antichi che mostrano il predomonio appunto del veneziano e dell’italiano letterario; difatti fino al XVI secolo si è sviluppata una netta opposizione di registri col veneziano come varietà alta e il friulano come bassa, percepito come linguaggio «plebeo» o «rustico» (Ursini 1989, 545; Mainati 1972, 7). Sul piano storico l’ulteriore differenzazione del Friuli e di Trieste avviene con l’annessione di gran parte del Friuli al Regno d’Italia nel 1866, mentre Trieste rimane sotto l’Austria.

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È importante rimarcare che, nonostante gli sviluppi storici assai diversi, i contatti prima di tutto linguistico-culturali tra il Friuli e Trieste sono sempre rimasti intatti, il che spiega – almeno parzialmente – la forte somiglianza del tergestino con altre varietà friulane, specie occidentali (Francescato 1983, 279).

3 Tergestino, muglisano e istriano Nell’ambito della descrizione del tergestino e del muglisano risulta di una certa importanza la questione della frontiera linguistica – mentre per esempio per Battisti (1964, 107) l’Isonzo segna il confine storico orientale del friulano, altri autori cercano di argomentare anche a favore dell’appartenenza di Capodistria e territori più meridionali al dominio friulano. Mentre i legami tra Muggia e Capodistria sono col tempo diventati abbastanza saldi, rapporti culturali tra Trieste e Istria sono quasi inesistenti (Doria 1978b, 16). Sicuramente Trieste è legata però fin dall’inizio al Friuli, essendo esposta anche in epoca langobarda ad una specifica influenza di Aquileia (la dominazione patriarchina friulana è più prolungata per Muggia; Mainati 1972, 7). Battisti nega però un influsso diretto aquileiese sia per il periodo della costituzione del comune Tergestinae Civitatis (metà XII secolo) sia durante la dominazione veneziana (dal XIII secolo). Col passaggio agli Asburgo nel 1382, sempre secondo Battisti, il tergestino si sarebbe sviluppato come parlata autoctona, indipendente dal friulano (cf. Zudini 1972, 23). A Trieste – come pure nella costa istriana – sarebbe stato presente un particolar tipo di latino volgare, il cui centro di irradiamento sarebbe stato proprio Trieste (Ursini 1989, 544). La posizione battistiana non spiega però la forte somiglianza del tergestino col friulano occidentale, il che suggerisce così due «aree laterali» di friulanità che (ancora) non riflettono innovazioni diffuse dal friulano centro-orientale (Francescato 1983, 279). Per altri autori (tra i quali Ive, Kranzmeyer, Skok, Merlo, Tekavčić, cf. Bartoli 1945, 25–28; Vidossi 1945, 63–66; Crevatin 1975, 95s.) Trieste è indubbiamente friulana, inoltre essi estendono la frontiera della friulanità molto più a Sud. Mentre pare almeno possibile che anche a Capodistria in passato fosse parlata una varietà friulana (Crevatin 1978, 8, parla di un friulano meridionale; cf. anche Zudini/Dorsi 1981, XIX) – il problema di non riuscire a distinguere bene le aree linguistiche non sta solo nel continuum linguistico di per sé, ma prima di tutto nella scarsa documentazione delle parlate per il passato, nella sovrapposizione di una varietà veneta «coloniale» e nell’estinzione delle parlate friulane e dalmatiche originarie più di un secolo e mezzo fa – per Skok e altri è possibile che anche città come Dignano e Rovigno siano state friulane. Così p. es. Skok valuta come prova di una certa ladinità il mantenimento di -S finale, di AU e dei nessi consistenti in consonante + L , un tempo esistenti anche nelle città nominate. Bartoli conferma che ci sono sì concordanze fra il ladino e l’istriano di Rovigno e Dignano che contribuiscono così a una distinzione fra idiomi conservativi e innovativi, gli sviluppi riportati da Skok però non gli paiono rilevanti, perché «quei suoni sono esistiti un giorno in tutta quanta l’Italia» (Bartoli 1945, 26); molto più significativa sarebbe invece

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la palatalizzazione di C / G A non documentata per l’istriano. Come Crevatin, anche Vidossi ritiene possibile la presenza del friulano a Capodistria, mentre la esclude per le regioni meridionali dell’Istria. La tesi esposta da Skok prevede invece che nessuno dei dialetti tuttora in uso sia da identificare col più antico romanico istriano (che probabilmente corrisponde al dalmatico), cui si sarebbe anzi sovrapposto uno strato ladino anche a Rovigno e Dignano, soppiantato ulteriormente dal veneto. Come Bartoli anche Vidossi fa notare che: «La presunta ladinità dell’istriano non è altro che un’eco delle teorie ascoliane sulle concordanze tra veneto e ladino e per così dire un’esasperazione del pensiero espresso dall’Ascoli sui rapporti fra istriano e friulano» (Vidossi 1945, 65; cf. anche Crevatin 1975, 66–68, 78; 1978, 9; Vigevani/D’Aronco 1946, 10; per il caso particolare delle vocali medie a Trieste, Muggia e Capodistria cf. Bartoli 1905). Un’importante differenza fra lo sviluppo storico-linguistico di Trieste/ Muggia e Capodistria sta nel fatto che le prime due città resistettero molto meglio all’influsso veneto; l’Istria invece rappresenta un tipico esempio di colonia linguistica veneta (Zudini/Dorsi 1981, XXs.; secondo Crevatin (1975, 65s.) l’Istria invece non è una tipica colonia, essendo la zona veneziana dal XIV secolo; linguisticamente interessanti sono i forti legami tra veneziano e veneto istriano caratterizzato dalla presenza di un gran numero di lessemi colti, mentre mancano quasi del tutto arcaismi). Per la questione della friulanità di Capodistria, essa non è sicuramente dimostrata a causa della mancanza di documenti (cf. anche Ascoli per il testo della novella del Decameron – è dubbia la precisa localizzazione, comunque il testo mostra marcate impronte friulane; cf. Pellegrini 1960, 1s.). Probabile sembra un fondo comune di sostrato per Friuli e Istria. I riflessi linguistici che si trovano nella toponomastica sono legati alle già accennate relazioni dell’ager tergestinus (cf. Doria 1960; 1962).

4 Tergestino/muglisano 4.1 Documentazione Essendo le due varietà del tergestino e del muglisano estinte da più di un secolo e mezzo (il tergestino anzi da quasi due secoli) si pone il problema della documentazione, che a sua volta è la base per un’adeguata descrizione degli idiomi. Le prime testimonianze si trovano presso Dante (De vulgari eloquentia), che accomuna Friuli ed Istria. Nella seconda metà del ’300, in una copia del Pianto della Vergine fornita da Dominicus Zulianis, si trovano forme tergestine come mein ‘meno’, bein ‘bene’. Nel ’500, in una lettera del capodistriano Girolamo Muzia a Pier Paolo Vergerio il Giovane, allora vescovo di Capodistria, il mittente fa riferimento alla «propria favella» (Zudini/ Dorsi 1981, XIIIs.). Che il tergestino avesse già subito una forte venetizzazione nel corso del ’600 risulta da un commento da parte del vescovo di Cittanova Filippo Tommasini, che nei Commentari dell’Istria (ca. 1650) lo definisce un «friulano corrotto» (Doria 1995, 95,

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nota 3; 1972, 3). Interessante è inoltre la descrizione dell’idioma da parte di Girolamo Agapito nella Compiuta e distesa descrizione della fedelissima città e portofranco di Trieste (1824) come «un dialetto italiano il quale originariamente aveva molte sue proprietà e si scostava alquanto dal dialetto veneto a cui però è andato a poco a poco avvicinandosi, di modo che, al presente, si può dire che sia il medesimo vernacolo veneziano» (cit. in Zudini/Dorsi 1981, XIV).

Non solo l’autore percepisce un certo rapporto del tergestino coll’italiano – per motivi di distanza linguistica pure il friulano potrebbe essere classificato come dialetto italiano, importanti per la classificazione come lingua minoritaria sono piuttosto lo sviluppo storico della regione (con una certa isolazione e il mancato riferimento al mondo romanzo), la coscienza dei parlanti (riconducibile parzialmente alla storia) e l’elaborazione dell’idioma – ma anche la forte venetizzazione, conclusasi con la sostituzione dell’idioma originale friulano. Similmente Francesco Cherubini nella sua traduzione di Adelung pubblicata nello stesso anno (Prospetto nominativo di tutte le lingue note e dei loro dialetti) sotto «dialetto friulano», in una nota riferita al tergestino, scrive «dialetto italiano che trae al friulano» (cit. in Zudini/Dorsi 1981, XIV). Mentre per la letteratura si è già detto di una dominanza del veneziano o dell’italiano letterario, nei documenti amministrativi anche nella fase di dominazione veneziana predomina il latino. Gli estratti di documenti dell’Archivio diplomatico di Trieste sono redatti in latino, ma raramente si trovano anche testi in veneto che riflettono il veneziano cancelleresco. Talvolta si trovano sparse relique consistenti in singole parole o frasi (cf. Camerari, Vicedomineria, Banchus Maleficiorum, Liber Reformationum, Testamenta, Mainati 1972, VII). Per il friulano ci sono al massimo alcuni spunti; importante fonte per la ricostruzione di sviluppi fonetici sono antroponimi o toponimi, se non sono indicati in forma latina o latinizzata (Zudini/Dorsi 1981, XV; Zudini 1972, 18; cf. anche Salvioni 1908; 1910; Goidànich 1904). Interessante si rivela sotto questo aspetto il manoscritto edito e analizzato da Crevatin (1983), che risale al 1550 e che consiste in un elenco di nobili e popolani triestini. Paragonando le «reliquie» del friulano locale si nota – a parte qualche differenza – una primitiva unità dialettale tra Trieste e Muggia (Zudini 1972, 19). Bisogna però tener presente anche il fatto che il veneziano verso l’anno 1000 mostra alcuni tratti tipici del friulano antico e moderno, così il mantenimento della - S nella 2. pers. sg., lo sviluppo di I - prevocalica a [z] (ʼsúdeç, ʼsúdiç ‘giudice’, cf. Pellegrini 1988). A parte alcuni cimeli e reliquie più o meno antichi, la fonte migliore e studiata in dettaglio da Ascoli rimangono i Dialoghi piacevoli in dialetto vernacolo triestino di Mainati (Ascoli 1878, 358; 1886–1888, 459; cf. anche Crevatin 1978, 10). Vengono attribuiti al Mainati anche la versione tergestina della Parabola del Figliuol prodigo, il Sonet de l’am 1796 e un Racont, tutti e due legati alla funzione per la consacrazione del vescovo Ignazio Gaetano de Buset di Fraistemberg (Memoria per i nuestri posterior della consacrazion fatta nella Glesia de San Zust martir del nov Vesco, nella persona dell’illustrissem e reverendissem monsignor Ignazio Gaetan de Busel in

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Fraistemberg, ecc. nel am 1796; Racont della funzion fatta nella Glesia cattedral de San Zust Martir al 23 d’ottober dell’am 1796 quant ch’an consacrà vesco de Triest el Lustrissem e Reverendissem Monsignor Ignazi Gaetam de Buset in Fraistemberg ecc.; Zudini 1972, 17; Mainati 1972, IX; Ziliotto 1947). Per l’accenno alla consacrazione del vescovo Giovanni Francesco Miller nel 1692 si è ipotizzato che l’autore sia uno dei sacerdoti dell’epoca. Il Sonet de l’am 1796 dopo la pubblicazione sul Caleidoscopio nel 1845 (versione utilizzata anche da Ascoli) è stato più volte ristampato ed è circolato in copie più o meno corrette; lo stesso vale per il Racont, nuovamente pubblicato nel 1911 da Vidossi (cf. Zudini 1972, 27). Per il muglisano (da Ascoli denominato «muggesano») accanto alla novella del Decameron (Papanti 1972) sono importanti le reliquie raccolte e commentate dal Cavalli (1890–1892) – non si tratta di un documento scritto, ma piuttosto di indagini sul dialetto locale di Muggia ancora parlato da anziani di alcune famiglie. Cavalli fornisce cioè una diretta documentazione sulla base di indagini svolte negli anni 1870–1890 a Muggia; bisogna però naturalmente tener conto che si tratta dell’uso degli ultimi parlanti anziani; uno degli informatori è conosciuto anche per nome – si tratta di Niccolò Bortoloni, morto nel 1898 (Bartoli 1926, 166; cf. Zudini/Dorsi 1981, XIX). Le Reliquie, per questo e per la loro organicità e completezza, sono da ritenere superiori ai documenti scritti esistenti per il tergestino (Zudini/Dorsi 1981, XVIII). Inoltre nell’appendice che riguarda testimonianze del tergestino, Cavalli elenca frasi e parole che persone anziane tra il 1870 e il 1890 ancora ricordavano d’aver sentito dai loro genitori e nonni (cf. Mainati 1972, XI). Ascoli all’epoca dei Saggi ladini (1873) conosceva solo alcuni testi dovuti all’ingegner Vallon (muglisano) e la versione della novella del Decameron (istriano). Il grande vantaggio appunto è che al tempo di Ascoli il muglisano veniva ancora parlato (Zudini/Dorsi 1981, XV–XVIII). Interessante per l’unica fonte tergestina di Ascoli, cioè i Dialoghi piacevoli di Mainati, è la discussione in Zenatti (1888). Sulla base dell’esame di un lungo documento amministrativo del comune di Trieste del 1426 in volgare veneziano (si tratta del Quaderno di un Camerare) l’autore nega la genuinità dei Dialoghi, sostenendo che si tratti di «una imitazione della parlata friulana» – il problema fondamentale sta nel fatto che Zenatti non ha considerato che il documento era scritto «in lingua» (dunque veneto; Pellegrini 1964, 21–23; Zudini/Dorsi 1981, XVII). Ascoli nel suo saggio Il dialetto tergestino (1886–1888) vi fa riferimento – il testo scritto in veneto (con influssi tergestini) verrebbe confrontato da Zenatti con testi friulani; diversamente da Trieste, il Friuli ha però mostrato resistenza nei confronti del veneto, per cui esistono testi schiettamente friulani pure per l’epoca medievale. Mancano però per Trieste testi friulani paragonabili agli Statuti o ai Camerari triestini. Zenatti inoltre non considererebbe Muggia e non prenderebbe nota del Sonetto tergestino, affermando invece che il dialetto dei Dialoghi non fosse mai esistito: «Il suo ragionamento è questo: Il Mainati […] s’è poi spinto a inventar di sana pianta il dialetto de’ suoi Dialoghi, mescolando, per la composizione di questa sua favella apocrifa, tre quarte parti

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del friulano che udiva parlato per le vie di Trieste dai braccianti che vi vengon numerosi dal Friuli, e una quarta parte di triestino schietto» (Ascoli 1886–1888, 457).

Accanto alla palatalizzazione di C / G A , che secondo Mainati (1972, 9) prova l’autenticità del testo, ci sono tratti che non sono né friulani (con riferimento al friulano centroorientale) né veneti, come fa notare Ascoli: così p. es. il plurale in ‑s nei Dialoghi è ristretto al femminile (vs. in friulano plurale sigmatico anche per nomi maschili); mentre nel friulano c’è un’alterazione nella riduzione nei nessi consonantici di muta cum liquida dipendente dalla posizione pro- vs. postonica del nesso (soréli vs. soreglón), nel tergestino e nel muglisano non c’è (rimane conservato lo stadio consonante sonora + liquida in tutte le posizioni); inoltre lo sviluppo di -n in -m pare tipico per il tergestino, mentre è ignoto alle altre varietà friulane. Perciò pare dimostrata la genuinità del testo dei Dialoghi, fatto importante anche per gli altri testi tergestini che, come è già stato detto, possono essere ricondotti al Mainati (Ascoli 1886–1888, 461– 464; cf. anche Mainati 1972, IX). A parte il fatto che sulla base dei vecchi documenti si può ipotizzare, anche con riferimento al territorio, un legame del tergestino e del muglisano con la parlata friulaneggiante della zona monfalconese (oggi veneta) e goriziana per quanto riguarda le varietà del Carso, la versione istriana della novella 1,9 del Decameron fornita dal Salviati, per le caratteristiche linguistiche sembra paragonabile al tergestino – anche l’Ascoli nota la presenza di alcuni friulanismi, i quali potrebbero rimandare a una possibile fascia di transizione tra ladino e istriano (Doria 1972, X).

4.2 Caratteristiche Come si è già detto, la più dettagliata descrizione del tergestino è sempre quella di Ascoli, che forma un capitolo dei Saggi ladini, in cui però l’autore si riferisce come ben noto quasi esclusivamente alla fonetica e fonologia degli idiomi trattati. Per il dialetto friulano di Trieste – proprio da Ascoli battezzato «tergestino» per tenerlo distinto dal triestino di stampo veneto (Ascoli 1873, 479) – si basa sui Dialoghi piacevoli di Mainati, redatti nel 1828, mentre per il friulano di Muggia, chiamato da lui «muggiese», nota che al suo tempo era «sullo spegnersi», essendo parlato solo dai vecchi di due o tre famiglie per la conversazione fra di loro, come registrato dall’ingegner Vallon, e ovviamente con forti influssi veneti. Il tergestino e il muglisano sono abbastanza simili, ma le parlate mostrano comunque termini tipici e si distinguono per alcuni tratti da altre varietà friulane (Vigevani/D’Aronco 1946, 10).

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4.2.1 Fonetica/Fonologia Cominciando col vocalismo tonico, si nota la mancanza dell’opposizione quantitativa nel tergestino e muglisano; le due parlate sono così paragonabili sia al goriziano che al friulano occidentale, mostrando però per le vocali medie sempre contrasti tra vocali in posizione forte e debole (Zudini 1986, 201s.; di seguito si adotta la grafia ufficiale friulana per facilitare la lettura partendo dal friulano moderno, vista anche la diversità nella resa grafica dei differenti suoni da parte degli studiosi). Per il tergestino e il muglisano si nota, che -Á - lat. rimane intatta. Per -Ĕ - , - Ŏ - tonica si ha anche in tergestino e muglisano dittongazione in sillaba aperta e chiusa (terg. dies ‘dieci’, ues ‘osso’, grues ‘grosso’, cuel ‘collo’, cuet ‘cotto’, nuestro ‘nostro’, scuende ‘nascondere’; mugl. liever ‘lepre’, gruos, kuol, kuot, kuosta ‘costa’, skuonder, kuorp ‘corpo’; vues, dues ‘schiena’, nuestri con [wɛ], molto più raro in muglisano). Come in friulano, il dittongo si mantiene in posizione debole, ma diversamente dal friulano anche in posizione forte (dove il friulano già in epoca antica ha la rimonottongazione in [iː] e [uː] rispettivamente). Davanti a R (+ cons.) in tergestino si nota la tendenza all’apertura della vocale tonica in [a], come pure in altre varietà friulane, mentre il muglisano mostra l’esito originale (terg. biel ‘bello’, gruessa, inuiar ‘inverno’, descouiart ‘scoperto’, tiara ‘terra’, mi jar ‘ero’, jara ‘era’, mugl. puorta ‘porta’). Anche per il contesto davanti a N + cons. si nota il mantenimento del dittongo nel tergestino/muglisano, dove in altre varietà si ha l’innalzamento della vocale tonica, che porta a risultati come timp (terg./mugl. tiemp; cf. anche terg./mugl. ʼsient vs. friul. int, mugl. puont vs. friul. puint; Ascoli, 1873, 484– 492; 1886–1888, 462; Benincà 1989, 583; cf. per i tratti in generale anche Doria 1995, 96). Interessante sono pure i risultati per [e] e [o] del latino volgare, che spesso rimangono inalterati (specie in sillaba aperta, cf. sor, el mor, foc), ma si hanno anche dittongazioni. Così Francescato (1983, 280s.) nota un parallelismo tra il muglisano e il friulano occidentale per la duplice dittongazione in posizione forte ([ɛ], [e] > [ei ̯]; [ɔ], [o] > [o]): mugl. meil (friul. occ. meil), mugl. dei(t), freit, mei, azei, louc, fouc, nou(f), doul, sour, crous, sou(l). Interessante è qui che nel muglisano la dittongazione in parola avviene anche in lessemi che mostrano la caduta delle consonanti finali -t, -l, -f (fenomeno conosciuto anche per Erto). Pare bloccata la dittongazione nel caso di -u finale aggiunta dopo la caduta delle consonanti (neu ‘neve’, seu ‘sego’, aulíu ‘olivo’). Per la vocale chiusa romanza si hanno in parte dittonghi diversi: mugl. cuor < CŬRRO , zou < *JŬSUM , terg. teila < TĒLA , miet < MĬTTO  – la diversa dittongazione rinvia forse all’istriano (Benincà 1989, 583; cf. anche Ursini 1989, 541s.). Il dittongo [ei ̯] < [e] inoltre si trova raramente, di preferenza negli infiniti (vs. friul. [eː]): terg. [h]ave(i) ‘avere’, sauei (con perdita di -r finale), mugl. dopleir, forasteir, carneir (Ascoli 1873, 484–492; Francescato 1983, 281; Zudini 1986, 203)). La simmetria nel comportamento delle vocali palatali e velari è disturbata dall’esito [jo] per [wo], cf. terg. lioc, liog accanto a loc, che risente però probabilmente l’influsso veneziano.

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Forme dittongate si trovano anche davanti a nasale: foint < ‘fondo’, graint ‘grande’, taint ‘tanto’, maint saint ‘monte santo’, mains ‘manzo’, çalsoins ‘calzoni’ – l’ultimo esempio rinvia ad una possibile analogia a forme plurali (cf. sotto; Francescato 1983, 281; Benincà 1989, 583). Il dittongo AU latino rimane intatto, au in tergestino è anche risultato della velarizzazione di L davanti a consonante: aut ‘alto’, sauta ‘salta’, fauz ‘falce’, lo stesso vale per ou: uout ‘volto’; venetismi sono altro, cjolt (< *tjolt; cf. anche friulano cjolt); a Muggia il nesso consonantico si mantiene inalterato (Ascoli 1873, 486; Cavalli 1890– 1892, 262). Per le vocali atone si nota una tendenza all’assimilazione di a davanti a consonante labiale (> o). In posizione finale -A viene mantenuta sia in tergestino che in muglisano (Francescato 1983, 281), mentre per le altre vocali si ha l’apocope come in friulano (Benincà 1989, 583). I - iniziale e prevocalica spesso si sviluppa in [j] (just, joibe, cf. anche in posizione interna pejor); l’esito [z] è ristretto alla posizione iniziale. Il nesso (-)LI - prevocalico in tergestino si riduce a [j] (p. es. jour ‘lepre’, jett ‘letto’ vs. mugl. liever, liett; Ascoli 1873, 508s.). Tornando al consonantismo, per le occlusive è interessante, a parte l’assibiliazione davanti a vocale palatale (C E / I > s, G I / E > z) e la palatalizzazione davanti a -A - (C A > [ʧ], cf. çaf ‘capo’ [ʧaf], G A > [ʤ], cf. zat ‘gatto’ [ʤat] che è avvenuta probabilmente solo verso il XIV secolo a Trieste e che in muglisano si ha anche in casi dove in friulano è assente; si tratta spesso di C / G A secondario (ormai antico) o straniero: mugl. çaglo – friul. cali, mugl. buçal – friul. bocâl, mugl. zatul – friul. gatul (Cavalli 1890–1892, 262; Francescato 1983, 281s.). Nel contesto intervocalico (davanti a vocale velare) l’occlusiva sonora si perde nel muglisano e nel tergestino (fiura vs. udin. figure). Infine sia menzionata la perdita anche della -B - intervocalica (cf. terg. hau ‘ha’, stau ‘sta’, fau ‘fa’; cf. Ascoli 1873, 525–529). Il nesso -DI - in posizione intervocalica e in finale romanza spesso si sviluppa in [j] (cf. anche (-)I -), parallelamente si ha in tergestino [dz], mentre il risultato muglisano è [z], con deaffrizione probabilmente dovuta a influsso veneziano (Zudini 1986, 202). Come accennato sopra, tra i nessi consonantici è particolare lo sviluppo friulano di muta cum liquida in dipendenza dall’accento. Così si ha soreli ‘sole’ con la perdita dell’occlusiva, mentre nel derivato soreglon essa si mantiene come sonora. Per il tergestino e il muglisano anche in posizione postonica il nesso rimane conservato, cf. terg. auregula ‘orecchio’, pedogli ‘pidocchi’, (v)oglo ‘occhio’, mugl. oglo, vieglo ‘vecchio’, oregule (nel NP sono indicate le varianti vogli e spiegli ‘specchio’, Ascoli 1873, 513; Mainati 1972, 11; Vidossi 1911, 392). Dopo consonante [kl], [gl] rimangono inalterati: sklinchi, sklop, masklo (vs. veneto -[ʧ]-: očo, sčinke). Anche gli altri nessi consonantici consistenti in occlusiva/fricativa + L si mantengono (Francescato 1983, 282). Un altro fenomeno diffuso in friulano è la consonantizzazione di [w] iniziale (in dittonghi ascendenti ue, uo) o la protesi di [v] davanti a vocale velare – processi non sempre chiaramente divisibili (cf. uaruele, vuaruele con conservazione di [w]); il

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muglisano in questi casi mostra un rafforzamento ulteriore della consonanza nell’onset della sillaba iniziale e anche interna: guei ‘oggi’, guess ‘osso’, çagual ‘cavallo’ (Ascoli 1873, 516; cf. anche Zudini 1986 per il rafforzamento, per il friulano Heinemann 2010). Spesso si hanno parallelamente varianti che mostrano la consonantizzazione mantendendo o meno la [w] e quelle con rafforzamento: lavar/lavuar/laguar ‘lavare’, credeva/credegua ‘credevo’, udía/udeva/udevua/udega ‘udiva’. Gli ultimi due esempi mostrano la rilevanza del fenomeno anche per la morfologia verbale (Zudini 1986, 203 nota 62). In finale di parola è caratteristico il comportamento delle nasali. In tergestino -n muta in -m, mentre in muglisano domina piuttosto lo sviluppo di -m in -n (più diffuso anche nel friulano in generale), cf. terg. lontam ‘lontano’, am ‘anno’, plam ‘piano’, bem ‘bene’ (così anche per il capodistrano del ’500: ser Zuam, venditiom, terrem, parentim), anche -nv- si cambia in -mv- (imuiar ‘inverno’), mugl. ran ‘ramo’, an ‘(un) amo’ (come nel veneto). Per il nesso (secondario) -M ('( ')) N - si nota l’assimilazione progressiva a [m] (il terg. dagn pare però riflettere un antico *dann; Ascoli 1873, 519s.). Per il muglisano si ha perfino lo sviluppo di -mp-/-mb- a -np-/-nd- per dissimilazione (Cavalli 1890–1892, 262). -[k] etimologico o epitetico è molto più diffuso che non in friulano: amic, miedic, monic vs. friul. amì, miedi, muini.

4.2.2 Morfologia Morfologicamente importante è il comportamento di -S finale. Come in friulano, si mantiene non solo nella morfologia nominale, ma anche in quella verbale dove, in parte con funzione di desinenza, si estende a persone che etimologicamente non terminerebbero in sibilante. Per la flessione nominale si nota che in tergestino la ‑S è conservata nel femminile (desinenza -is), mentre non viene più usata per il maschile, se non in pochi esempi, spesso nella combinazione -ns (Ascoli 1886–1888, 461); il friulano per i maschili conosce un plurale palatale/vocalico e uno sigmatico, mentre in tergestino il maschile spesso non ha desinenza; le poche forme con -i potrebbero riflettere un vecchio plurale palatale anche per il maschile in tergestino: agn, chei altri, curti gruessi, li aulin ‘gli ulivi’, anemai ‘animali’; con -s si trovano chei uiarmis, i matezis ‘le pazzie’. Strana risulta la forma omis, probabilmente una forma plurale con estensione al singolare (Benincà 1989, 583). Importante per i nomi femminili che hanno il plurale in -s è lo sviluppo di -A /- AS a -a/-is, risultato anche delle varietà periferiche e del cividalese: chiasa, la plui granda de dutis lis chiadenis, chelis, chestis bestiis, tantis glesiis, nelis mam ‘nelle mani’, de-lis flor (Ascoli 1873, 502 nota 2, 518 nota 2). Il muglisano a sua volta si differenzia dal tergestino per la conservazione della -s al plurale maschile, ma non più al femminile, il cui -i (< *-is) rinvia alla forma antica: ciantons, semo ʼsus in glesia ‘siamo stati (andati) in chiesa’ (i rispettivi articoli definiti sono per il tergestino i e le, per il muglisano li (li femini); sono però interessanti i

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parallelismi rispetto al risultato di alcune parlate venete, cf. Benincà 1989, 583). Con ciò il muglisano pare accostarsi al Friuli occidentale (femm. madoni, monedi; masc. amis, perfums). Ci sono anche nomi maschili uscenti in -s al singolare, se da [ʦ] (anche in participi passati): stas, armas, partis. Il muglisano mostra esiti di un plurale palatale: duz ‘tutti’, tainz ‘tanti’, loinz ‘lunghi’. Sono inoltre documentate anche forme come furlains, plains ‘piani delle case’, limoins; Cavalli 1890–1892, 264; cf. anche Ascoli 1886–1888, 461). Le forme mostrano una depalatalizzazione (cf. casi simili in alcune parlate estreme del friulano occidentale, agn > *ain → ains però con -s come segno di plurale più diffuso); secondo Francescato (1983, 282) si potrebbe trattare anche di una metatesi della nasale e della vocale palatale (si vedano anche forme singolari come taint ‘tanto’, foint ‘fondo’). Sono inoltre interessanti i nomi con forma identica al singolare e al plurale (maras, tier, cusin, rap, soult). Per la morfologia verbale si nota in generale che in friulano antico la 1. pers. sg. termina in consonante (solo più tardi si ha per analogia la desinenza -i) – anche in tergestino si ha una finale consonantica (impar ‘imparo’, stim ‘stimo’). Probabilmente questo è un indizio di un’antica separazione del tergestino dal friulano (solo in verbi di alta frequenza si trova la desinenza -i, anche p. es. nel futuro, cf. ai ‘ho’, uoi ‘voglio’, prei ‘prego’ con -i del paradigma; in muglisano però si ha -i (gussi < ACUTIO , scumiensi ‘comincio’) che potrebbe essere un’innovazione; cf. Benincà 1989, 584). Per la 2. pers. sg. in tergestino si ha sempre l’enclisi di tu. Nella frase assertiva questo comportamento è anche noto nel goriziano e in alcuni dialetti italiani settentrionali. In epoca antica si conosceva l’inversione in qualsiasi frase principale, oggi è una caratteristica sintattica della frase interrogativa. Nel tergestino il ‑tu dunque non è legato alla frase interrogativa, non c’è inversione con nessuna persona: Come havei (2. pers. pl.) fat?, Quanti agn la pol havè tua sor?, Ze uoress (2. pers. sg.) fa, ti? Anche il triestino non mostra una flessione interrogativa. Ma probabilmente il -tu non va spiegato con la perdita della flessione interrogativa, ma piuttosto come relitto della situazione antica (Benincà 1989, 584). La -s della desinenza verbale si mantiene in forme monosillabiche di verbi irregolari anche dove nella 2. pers. pl. del presente indicativo manca (auei, volei, se sauessi-o ‘se sapeste(-voi)’): no vest-tu, fastu, vastu, cf. per il futuro: quand che ti auarás-to (cf. anche Ascoli 1878, 364); è possibile influsso veneziano in casi come terg. tu sons ‘sei’. Per la 1. pers. pl. si ha per tutte le coniugazioni la desinenza generalizzata -on (lavuron, lason, çapon; vale anche per gli altri tempi, p. es. von ‘abbiamo’, gavion ‘avevamo’, zeron ‘eravamo’) come nelle parlate dell’estrema fascia friulana occidentale. Per il congiuntivo si nota l’estensione di -s alla 1./3. pers. sg. del congiuntivo presente (possis ‘(io/egli) possa’) e del condizionale. Qui si nota un parallelismo col veneziano che ha come il tergestino la stessa forma per le prime tre persone. La formazione del condizionale corrisponde invece a quella del friulano (clamaress < *CLAMARE HABUISSEM , il tipo è ignoto al veneziano; Mainati 1972, 12; Cavalli 1890–1892, 265s.; Ascoli 1886–1888, 463s.).

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L’imperfetto nella prima coniugazione è livellato nei Dialoghi a quello della seconda coniugazione e mostra in ciò una congruenza con parlari istrioti. Il perfetto non è più usato e per il gerundio si nota la variante in -anti (pluranti, prinsipianti) accanto a -andi (imparandi).

4.2.3 Morfosintassi Per i pronomi si ha nuovamente una forte somiglianza col friulano occidentale. Sono comunque non obbligatori nel tergestino/muglisano, dove inoltre manca come in friulano un clitico locativo-esistenziale (si ha qualche ghe in tergestino, risultano però più interessanti i casi in cui manca): terg. Quand che la ladris xe aimo uiua, Xe squasi fora el mes de auril; mugl. Vien fora del puort mio barba Toful, e m’a ciapà su li spali, Compare Jacum, co l ze sta in cuntrada, gà incontrà Bastian, I franzeis son zuz via. Anche nelle relative sul soggetto manca il clitico soggetto (Benincà 1989, 583s.).

4.2.4 Lessico Un raffronto lessicale mostra che ci sono parole tipicamente friulane, estese anche al muglisano come batei ‘sodaglia’, burala ‘varietà di erba pungente’, burlas ‘temporale’, sabieda ‘sabato’, che si trovano anche nel friulano occidentale (cf. inoltre alsiel ‘uccello’, covol ‘rete’, soul ‘sole’, butivo, caligo, salà ‘salame’, buata ‘bambola’) e in veneto (Francescato 1983, 283). Per la formazione delle parole è tipicamente friulana -ut(a) che si alterna coll’italiano -uç(a); friulaneggiante è infine -at peggiorativo (Cavalli 1890–1892, 266).

5 Triestino 5.1 Sviluppo storico Per una classificazione dell’odierna parlata di Trieste, il triestino, bisogna tener presente la diffusione del veneziano in seguito all’espansione della Serenissima. L’idioma «esportato» viene descritto da Muljačić spesso come varietà livellata (da lui chiamata «veneziano illustre»), più diffusa però risulta la denominazione di «veneto» o «veneziano coloniale», termine che rinvia al fatto che la funzione dell’idioma in questione va oltre quella di un semplice strumento veicolare: «Lingua coloniale indica per noi quel complesso di fenomeni che accompagnano il trasferimento di una comunità da un habitat naturale, da una madrepatria (che in questo caso è una metropoli marinara) in un habitat nuovo e separato, distante nello spazio e comunicante a distanza con la

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base di partenza, talora a lungo separato da essa o con comunicazioni rare in stretto contatto d’altronde col nuovo ambiente che lo circonda […]» (Folena 1968–1970, 366s.).

Con l’instaurarsi di una colonia linguistica è connessa la conservazione di strutture che altrimenti sarebbero sottomesse al cambio linguistico naturale; anche il livellamento, la perdita di tratti troppo marcati è tipico in un tale contesto, come pure la variazione fono-morfologica e il contatto con gli idiomi locali preesistenti che nel corso del tempo – come nel caso concreto – vengono almeno in parte sostituiti lasciando delle impronte (sostrato; Eufe 2006, 80). Su questa base è opportuno suddividere i vari tipi di «veneziano coloniale» considerando la parentela linguistica degli idiomi coinvolti (così si potrebbe dividere un «veneziano coloniale» del Friuli (Udine/Trieste) da uno della Dalmazia, della Grecia e infine dell’Oriente, cf. Eufe 2006, 87). Ma anche all’interno dei vari tipi si possono notare delle differenze legate ai diversi sviluppi linguistici (difatti il veneto di Udine che irradia nelle zone occidentali e quello di Trieste sono facilmente distinguibili, il raggio di influenza dipende naturalmente dai vecchi confini). Il ’400 è la fase della scripta veneziana consolidata, che però mostra sempre più influssi del toscano, mentre prima del 1400 ha un’impronta nettamente veneziana (o veneta; l’aggettivo veneziano fino al ’800 viene spesso adoperato con riferimento alla città di Venezia, ma anche al dominio intero della Serenissima, cf. Eufe 2006, 13). Difatti l’originario «veneziano de là da mar» mostra anche un’estensione minore rispetto al «veneziano/veneto coloniale», che funge come lingua veicolare nell’Adriatico settentrionale e che vale quindi per l’Istria e la Dalmazia, ma per la sua posizione sul mare – nonostante il dominio austriaco – anche per Trieste (cf. Folena 1968–1970, 354s., per le caratteristiche). Spesso, proprio anche con riferimento alla situazione (tardo)medievale, per l’Adriatico e per gran parte del Meditteraneo si parla di una lingua franca di base veneziana – esiste un continuum tra il «veneto coloniale» e la lingua franca, della quale però bisogna tener presente il carattere di idioma veicolare a livello L2, con una forte riduzione nel lessico e nelle strutture morfosintattiche degli idiomi di base (cf. Eufe 2006, 85). Il dialetto triestino è ben distinto dal veneziano a partire dall’ultimo ventennio del XVIII secolo; il «veneziano coloniale» di stampo triestino assomiglia al veneziano parlato nell’Istria veneta; a questo però si contrappone un tipo vernacolare localmente meno caratterizzato, ossia un triestino con influssi veneziani moderni (Doria 1978b, 15). Le testimonianze dirette del triestino per i primi secoli sono abbastanza scarse (cf. p. es. plusor volte in un documento del 1445, Doria 1979, 95 nota 3) e si riscontrano per lo più in componimenti poetici (la massima parte scritta da un avvocato monfalconese stabilitosi a Trieste, Valentino Mazorutta). Più tardi si hanno le poesie di Lorenzo Minusi (1812–1813) che mostrano alcuni arcaismi come buoni (oggi boni), niovo (oggi novo). Tra il 1800 e il 1830 si trovano prima di tutto testi di carattere venezianeggiante (raccolti di Giuseppe Caprin) e infine la versione triestina della Parabola del Figliuol prodigo (prima del 1842) curata dal Mainati e con alcune innovazioni non mantenute però nelle fasi successive (p. es. lo sviluppo di -m etc.) in opposizione a testi venezia-

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neggianti che predominano fino al 1860 (Doria 1978b, 8–14). Il triestino, per la sua storia, mostra diversi friulanismi, specialmente nel lessico, ma ci sono anche alcuni fenomeni sintattici che sono riconducibili al sostrato friulano (Pellegrini 1960, 4). L’idioma comunque è molto vitale e, come già detto, mostra differenziazioni interne (Marcato 2005, 510). Così sono da distinguere un «triestìn», descrivibile come varietà alta, uno schietto «triestìn patoco» e una varietà bassa e popolare, il cosiddetto «triestìn negròn». Non solo il cambio linguistico a Muggia si ha per il tramite del triestino, ma «[l]’importanza economica e culturale di Trieste e della sua lingua ha favorito l’espansione di tratti triestini in varietà venete geograficamente prossime se non di una varietà veneta, di uso sociolinguisticamente circoscritto alle classi medio-alte, in alcuni centri urbani: […] Gorizia, e da qui a centri che su Gorizia si sono orientati. A partire dal 1920 a Gorizia si può parlare della presenza di un (veneto) goriziano-triestino espressione di paracadutismo linguistico» (Marcato 2005, 510; cf. anche Zudini 1986, 194s.).

5.2 Caratteristiche Secondo Bidwell (1967) il dialetto di Venezia si sarebbe imposto sull’Adriatico orientale, rivelando tratti arcaici estinti poi nella varietà veneziana stessa. Per Trieste, che avrebbe subito una venezianizzazione abbastanza tarda, però si ha il sistema del veneziano come descritto dal Boerio (31867). L’unica differenza sta nella debolissima opposizione per le vocali medie ([e]/[ ɛ], [o]/[ɔ] neutralizzate in [e] e [o] rispettivamente); per la varietà di Muggia i due gradi di apertura sono spiegabili con la metafonia dissimilativa, mentre per il triestino l’apertura sul piano fonetico è dovuta al contesto linguistico (davanti a nasale la pronuncia risulta più chiusa, davanti a [r] invece più aperta) – queste tendenze valgono specialmente per il «triestìn negròn» ipercaratterizzato (Ursini 1989, 545s.; cf. anche Pellegrini 1960, 4). Per le caratteristiche del triestino si nota inoltre, nel vocalismo, che /a/ in protonia rimane intatta, mentre /e/ tende ad aprirsi in /a/ in posizione pro- e postonica per analogia col friulano. Sempre in protonia si nota l’innalzamento di /o/ a /u/ (davanti a consonante palatale) o /i/. Per le vocali finali si ha l’apocope (come in veneziano) con alcuni casi collegabili al friulano – essa difatti ricorre soprattutto nei friulanismi (si tratta dell’apocope di -o finale). Anche per l’aferesi abbastanza frequente la somiglianza col veneziano è ovvia. Per il consonantismo si rinvia alla tendenza alla restituzione soprattutto di -d- intervocalica primaria e secondaria e ad una generale tendenza alla antilenizione. Occasionalmente la /v/ primaria e secondaria si dilegua, ma viene inserita come consonante epentetica in iato. Delle affricate sembrano genuine quelle dentali, mentre quelle palatali secondo Vidossi (1899–1900, 297) sono importate – anche Bidwell (1967, 19) fa notare che nel veneziano all’epoca dell’espansione nell’Alto Adriatico non si trovavano ancora le affricate palatali /ʧ/ < CL e /ʤ/ < GL sviluppatesi solo nel tardo Medioevo (cf. Eufe 2006, 81). Interessante risulta in questo contesto la conservazione dei nessi PL , BL , FL etc. nelle colonie, mentre nel veneziano sono stati sciolti; si osserva però la variabilità per i nessi

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e CL rispettivamente, ma anche la presenza dell’esito /j/ davanti a vocale (iazo, ioza, saniuz), non sconosciuto a diverse varietà venete rustiche. Piuttosto marginali sono il dileguo della continua in posizione intervocalica, specialmente dopo /e/ che può essere rafforzata in /ʤ/, l’influsso palatale della /i/ sulle dentali, l’epentesi di nasale (cf. rondolar ‘rotolare’, etc.) e la tendenza alla metatesi per sciogliere nessi consonantici (cf. fardel ‘fratello’; Ursini 1989, 546). Per la morfologia sono interessanti sia il metaplasmo in alcuni sostantivi (cf. la lume, la late) sia una chiara marca del genere negli aggettivi (cf. grando/granda). I pronomi personali sono analoghi a quelli del veneziano, il pronome di 2. pers. sg. è te. Nei verbi è da notare l’identità formale delle 3. pers. sg. e pl. distinte dal pronome clitico obbligatorio. La 1. pers. sg. del presente indicativo dei verbi della II e III coniugazione porta la desinenza ‑i; per contrasto la -i del presente congiuntivo si estende alla I coniugazione. È particolare la forma della 2. pers. sg. di ‘essere’ son (cf. anche in gradese) accanto a [ʃe] con concrezione del clitico ge. Le coniugazioni sono tenute distinte, si trova però un’estensione analogica della desinenza dell’imperfetto -evi ai verbi della I coniugazione; forme parallele in -ava sono invece dovute a influsso veneziano. Il triestino mostra inoltre i participi forti savesto, volesto etc. accanto alle rispettive forme deboli savudo, voludo etc. Diversamente dal friulano il triestino non ha particolari forme interrogative con pronome enclitico, probabilmente per motivi di ipercaratterizzazione o per influsso tergestino (cf. sopra); sono difatti molto diffuse nelle altre varietà venete (Pellegrini 1960, 5–8). Di conseguenza il pronome soggetto è sempre preposto. Il tipo sintattico del pronome proclitico nella frase interrogativa comincia però a diffondersi anche a Venezia e rende visibile la tendenza di sdialettalizzazione. Per la sintassi è significativa l’omissione di a nelle costruzioni con l’infinito dipendente p. es. da verbi di moto; inoltre è presente a dopo verbi servili ed assimilabili; a viene inoltre utilizzato prima del pronome per segnare sia il caso dativo che l’accusativo. Al posto del condizionale viene usato il congiuntivo imperfetto sia nel periodo ipotetico che nell’ottativo, il che significa un’analogia col tergestino e col friulano in genere. Importante è anche la sistematica rinuncia alla concordantia temporum. Da ricondurre al sostrato tergestino o a contatti recenti col friulano sono la tendenza all’apocope, il suffisso -ario (cf. terg. -ar) accanto a -er, i suffissi alterativi -at, -az, -uz, -ez, -iz e -ul. Probabilmente sono d’influsso friulano la -i generalizzata per il congiuntivo presente e forse anche la forma della 2. pers. sg. di ‘essere’ (te son), l’assenza dell’enclisi pronominale nelle interrogative e l’utilizzo del congiuntivo imperfetto al posto del condizionale (Ursini 1989, 547s.). Tracce importanti del sostrato friulano nell’attuale dialetto si trovano nell’onomastica – anche in soprannomi triestini, che spesso ripetono lessemi primari senza alterazioni, così Bech (cf. terg. *bec ‘becco’, mugl. bec), Berlota (cf. terg. *berlota ‘sberletto’), Brumba (cf. mugl. bronbui ‘borborigmi, gorgoglii intestinali’, cf. anche friul. brombulâ ‘rumoreggiare’, ‘brontolare’), Monich, Monch (cf. mugl. monic ‘monaco’), Paver (cf. terg. *paver ‘lucignolo’, mugl. paver) etc. (Merku 1999; Vicario 2008).

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Il campo più significativo è quello del lessico (anche modi di dire). Con Doria (1979, 67–76; cf. anche Doria 1978a) sono da distinguere voci definibili come triestinismi, parole presenti nel solo dialetto triestino, formatesi probabilmente di recente e sulla base di friulanismi con tracce friulane nella fonetica e nella morfolgia (cf. anche Doria 1995, 97) e friulanismi veri e propri. Per i friulanismi risulta dunque necessario adoperare criteri molto severi: sono da escludere tutte le forme che appaiono ladineggianti unicamente sulla base di tratti fonetici e morfologici friulaneggianti che sono sempre vitali e produttivi. Fanno parte di un primo gruppo di friulanismi elementi isolati riconoscibili per particolari tratti fonetici (non trasferiti ad altri elementi come basíto, gombada, grest, klóča ‘bolla di sapone’, kovolar, melonáte, pividúl, ploiár, spalavír etc.). Classificabili come possibli friulanismi sono parole derivate come ankonéta (ankóna), blave, klinkáda (klinkár), pampalugéto ‘fante di spade’ (pampalugo), plóča, ratáda (ratár), sforzanón (sforzána; per la grafia si rinvia a Doria 1979, 1995; cf. per il lessico triestino in generale Doria 1987). Formano un secondo gruppo i friulanismi documentati per il tergestino e/o il muglisano, per cui sono probabilmente prestiti risalenti all’epoca di coesistenza di veneto e friulano: a) terg.: čáʃis, fintamái, pontár, primário, b) mugl.: amorín, andívia, ankóna, baíkolo, čin, dandán, filáina, formentín, kebátolo, kókola, klíña, muʃič, ñéspola, ñespolér, nuʒéla, pis, sforzána, spanakolóna, spanamúro, spelúko, strapáza, ʃgrif, ʃbruf, ʃlapañóto, tartúfola, úrče. In questo contesto sono interessanti le concordanze col friulano che si mostrano per le seguenti parole: amorín, ankóna, baíkolo, čáʃis, fintamái, kebátolo, kókola, muʃič, ñéspola, ñespolér, pis, primário, spelúko, ʃbruf, ʃgrif, ʃlapañóto, sforzána. Un terzo gruppo di friulanismi è costituito da voci riconoscibili per la loro presenza nel friulano senza che siano parallelamente documentate per il tergestino o il muglisano – criterio che potrebbe fare ipotizzare un recente influsso friulano, ma non necessariamente, considerando la scarsa documentazione del tergestino e del muglisano: bilóʃo, bombáda, diavolát, finamente, gómba, impanírse, madónzola, pampalúgo, paradór, porkonár, raukír, serpentína, skuréta, visigá. Per quanto riguarda la frequenza d’uso dei friulanismi, questa non è molto alta, essendo alcune parole addiritura desuete – le rispettive voci non sono necessariamente termini tecnici, anzi, spesso rappresentano concetti comuni: ronfigàr ‘russare’, ratár ‘bastonare’, porkonár ‘bestemmiare’, skotón ‘scottatura’, čáʃis ‘casa’, klinkáda ‘bevuta’, diavolát ‘semplicione’, spudáč ‘saliva’, pločár ‘sguazzare’. È interessante invece che ci siano alcuni friulanismi impiegati per designare parti del corpo umano anche al di fuori della sfera sessuale (krápa ‘testa’, melonáte ‘testone’, nuʒéla ‘rotula del ginocchio’, pipinót ‘pene del bambino’ pidín/pidón ‘piedino’, ‘piedone’, stálfa ‘piedaccio’, skenáta ‘grande e bella schiena’, spelúk ‘pelugine’, sekondína ‘placenta’) in confronto con termini propri d’uso molto più esteso (testa, múʃo, píe) veneti: «Il fenomeno si spiega col fatto che spesso nel parlare quotidiano e familiare le parti del corpo umano ricevono una connotazione affettiva […] che la lingua si incarica immediatamente di registrare con l’impiego appunto di termini sostitutivi, in massima parte prestiti» (Doria 1979, 75).

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Tra i termini espressivi vanno elencati quelli che si riferiscono a organi genitali, busse, percosse, altre attività fisiologiche o di comportamento umano contrarie alla decenza, bestemmie, furto, menzogna, ebbrezza, imbroglio, bruttezza, pazzia etc.: basariól, čáʃis, kráča, melonáte, mískliza, plič-ploč, skenáta, stálfa, takonadóra – solo kagár è volgare. Chiaramente da riportare al tergestino/muglisano sono i friulanismi che rispecchiano il mondo economico del passato di Trieste e dintorni, comprendendo anche il mondo agricolo (p. es. agricoltura: strapáza, ʃbruf, zividín; attività forestale: faséto; attività marinaresca: palotár, ʃbregadúre; arti e mestieri: čvéta, filér, impanírse, skorodigár, porzitéra, skuréta; vita religiosa: ankonéta, ankóna, cf. Doria 1979, 75s.).

6 Riassunto Come si è visto le principali differenze tra tergestino e friulano sono la diversa distribuzione di -s finale, estinta in plurali maschili e presente anche nella 3. pers. sg. del congiuntivo presente, la labializzazione di -n e l’estensione di -eva quale desinenza dell’imperfetto alla prima coniugazione e la -e rimasta salda o reintegrata dopo la caduta della -r- in infiniti sdruccioli (Vidossi 1911, 392). Bisogna però tener distinti il tergestino e il muglisano, che in alcuni tratti si comportano diversamente, così nel trattamento delle vocali medie e di nasale finale e nella formazione del plurale, a causa della diversa storia linguistico-culturale di Trieste, diventata un importante centro commerciale con forti influssi veneziani, e di Muggia, rimasta una piccola cittadina nel retroterra e quindi meno esposta. Il materiale disponibile sui dialetti estinti tergestino e muglisano mostra una forte correlazione col friulano, specie con le varietà friulane occidentali. Così Francescato (1983, 279–281) individua due aree laterali, e Crevatin nota che: «la concordanza ha luogo tra due aree estreme, conservative, il che fa risaltare una volta di più il carattere innovativo del friulano ‹centrale›» (1978, 8).

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6 Plurilinguismo e contatto linguistico Liliana Spinozzi Monai

6.1 Sloveno Abstract: Il contributo offre una panoramica delle vicende dei quattro dialetti sloveni di antico insediamento, tuttora parlati lungo il confine italo-austro-sloveno del Friuli. Al di là dell’unico fattore condiviso, dato dalla marginalità rispetto ai dialetti centrali del diasistema sloveno, questi dialetti differiscono tra loro per il diverso percorso storico e il diverso configurarsi del territorio, che ne hanno condizionato l’evoluzione. Lo ziljsko, proprio della Valcanale, gravitante da sempre verso il dominio germanico, porta prevalentemente i segni dei contatti secolari con il tedesco, mentre le varietà della cosiddetta Benecia/Slavia Veneta (il rezijansko della Val Resia, il tersko delle Valli del Torre e il nadiško delle Valli del Natisone), gravitanti verso l’area romanza, sono permeate, quale più, quale meno, di elementi d’influsso friulano – assai meno del veneto –, e solo in seconda istanza di quelli dell’italiano, introdotto come unica lingua ufficiale nel 1866 (e solo dopo il 1919 nella Valcanale). Nel contributo si prendono in considerazione alcuni fenomeni di contatto presenti nei quattro dialetti ai vari livelli della grammatica. Keywords: dialetti sloveni, contatto linguistico

1 Presentazione dell’area di studio in funzione della sua storia linguistica 1.1 Prospetto storico-amministrativo A partire dal confine italo-austriaco e proseguendo verso sud lungo il confine italosloveno, si snoda la serie di 34 Comuni con popolazione di lingua slovena, appartenenti rispettivamente alle Province di Udine, Gorizia e Trieste, per un totale di 1.500 kmq (cf. Carta 1).

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Carta 1: Comuni del Friuli Venezia Giulia con popolazione slovena

L’attuale denominazione della Regione in cui rientrano queste tre Province, «Friuli Venezia Giulia» (FVG), dà conto della giustapposizione di due «sottoregioni». Il Friuli (esclusa la Valcanale), erede e continuatore del Friuli patriarcale, occupato dai veneziani nel 1420 e, dopo i brevi interregni francese (1805–1813) ed austriaco (1797–1805 e 1813–1866), annesso al Regno d’Italia nel 1866, è abitato prevalentemente da una popolazione che parla una delle varietà (gallo-)italoromanze, rappre-

Sloveno

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sentata dal friulano. La Venezia Giulia, ovvero quel che resta del Küstenland austriaco, rinominato secondo Graziadio Isaia Ascoli dopo l’annessione all’Italia (1920), presenta invece come idioma maggioritario una varietà di veneto coloniale, il triestino – sovrappostosi al tergestino, varietà friulana –, e, in subordine, alcune varietà antico-venete parlate da ca. 20.000 persone: il gradese, il maranese e il bisiacco (cf. Frau 1998, 226). Essendo nostro obiettivo esaminare la situazione linguistica delle varietà slovene del solo Friuli, comprese tutte nella Provincia di Udine, inizieremo dalla varietà carinziana dello zegliano/ziljsko (zilj.) della Valcanale (Alta Valle del Fella), per passare al resiano/rezijansko (rez.) della Val Resia (laterale del Canale del Ferro), quindi al dialetto delle Valli del Torre (tersko: ter.), sulle Prealpi, e a quello della Val Natisone (e convalli; nadiško: nad.). Gli ultimi tre dialetti, appartenenti al gruppo del Litorale, vengono denominati «beneciani», e l’area corrispondente Benecia/ Benečija o Slavia veneta, per via della secolare dominazione veneta, cui si è accennato. Per la classificazione dei dialetti in parola ci siamo avvalsi del fondamentale lavoro del Ramovš (1935, XXV–XXXII), e per una rivisitazione del tema a Toporišič (1984, 672–677). Quanto all’area corrispondente a dette varietà, essa viene indicata mediante la numerazione dei rispettivi Comuni elencati sulla cartina allegata. Valcanale: nrr. 1, 2, 3; Resia: nr. 4; Valli del Torre: nrr. 5–12; Valli del Natisone: nrr. 13–19. Il Comune di Prepotto (nr. 20), per quanto geograficamente rientri nel Collio, ove si parla il briško, linguisticamente fa parte (anche) del nadiško. Pur risalendo le quattro comunità a insediamenti avvenuti in una medesima epoca – secc. VI –VII  –, tra il complesso beneciano e la varietà della Valcanale esiste una notevole differenza, data anzitutto dalla diversa provenienza e dunque dalla diversa compagine dei rispettivi gruppi slavi, penetrati nell’un caso dall’Isontino e dalla Carniola Superiore (l’odierna Gorenjska), nell’altro dalla Carinzia. Questa distinzione resterebbe verosimilmente tale anche se venisse accolta l’ipotesi di un insediamento tardivo (seconda metà del sec. X ) rispetto a quello sopra indicato e ufficialmente accolto dagli studiosi (cf. Frau 1998, 230). La divaricazione iniziale si è poi perpetuata e rafforzata in un differente cammino storico, rimasto tale fin quasi ai nostri giorni. Infatti, mentre dal punto di vista politico-amministrativo tra la Valcanale e il suo entroterra sloveno non c’era mai stata soluzione di continuità, e i contatti con elementi stranieri sono avvenuti soprattutto con i tedescofoni, la Benecia era rimasta tagliata fuori dal suo naturale background etnolinguistico, condividendo il destino del Friuli patriarcale e veneto, il che ha comportato rapporti pressoché esclusivi, o comunque privilegiati, con il mondo romanzo.

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1.1.1 Alcuni dati storici ed etno-demografici A fronte della storia relativamente lineare della Benecia, la storia della Valcanale risulta assai complessa. Dopo l’arrivo degli slavi alpini, la Valcanale entra a far parte del Ducato slavo di Carantania (secc. VI –VII ), passa sotto il dominio franco (secc. IX –X ), quindi sotto il Ducato di Carinzia ad amministrazione bavarese-asburgica (dal sec. XI fino al 1918, ivi compreso il periodo bamberghese (1007–1675)). Dal sec. XIV l’attività mineraria favorisce l’immigrazione tedesca e friulana, fissatasi a Tarvisio, a Malborghetto e a Fusine, con conseguente emarginazione degli elementi sloveni nelle aree meno favorite. Un’ulteriore crescita dell’elemento tedesco si ha nel sec. XV grazie al commercio, praticato lungo la direttrice Venezia-Vienna, mentre quello friulano conosce una battuta d’arresto sia con lo sviluppo del centro tedesco di Pontafel (it. Pontebba/slov. Tablja), avvenuto durante la Guerra di Gradisca (1616–1617) – che induce i friulani all’esodo o all’assimilazione –, sia con il passaggio della Valcanale sotto il dominio austriaco (1675). Con l’annessione all’Italia, il tessuto demograficolinguistico della Valle viene bruscamente modificato dall’arrivo dell’elemento romanzo (impiegati, militari, addetti alle ferrovie etc.) e dalle due opzioni, quella del 1919 e quella del 1939, che davano la possibilità di scegliere la nazionalità tedesca. La seconda opzione creò una vera emorragia di parlanti di lingua tedesca: dei ca. 6.600 su una popolazione complessiva di 11.542 unità, ben 5.600, insieme ad un centinaio di slovenofoni, si trasferirono in Austria, favorendo così un secondo massiccio afflusso di italiani nell’immediato dopoguerra, venuti ad occupare le proprietà lasciate dagli autoctoni, parte dei quali (il 20% circa), invero, fece ritorno dopo il 1945. Le vicende fin qui riportate hanno determinato una situazione linguistica assai variegata, che va dal monolinguismo (italiano) al bilinguismo (italiano/friulano, italiano/veneto, italiano/patois sloveno e/o italiano/patois tedesco), al trilinguismo e al quadrilinguismo, ma che, considerando i possibili, vari registri (con ai due poli il letterario e rispettivamente il dialettale), fa sì che uno stesso parlante possa esprimersi in ben sette varietà, creando situazioni di una pluriglossia unica nel suo genere (cf. Frau 1992, 253s.). Nella Benecia, infatti, vige perlopiù una diglossia innestata su un bilinguismo sbilanciato a favore del romanzo, dove l’unico registro alto è dato dall’italiano. Nell’offrire alcuni dati statistici sugli sloveni dell’Udinese, tratteremo più dettagliatamente quelli della Valcanale, data la complessità della configurazione etnolinguistica. I dati relativi alla Valcanale sono frutto di una sintesi di Bonetti (1960), Valussi (1974, passim), Steinicke (1984, passim); quelli relativi alla Benecia, oltre che a Valussi (1974), si debbono ad AA.VV. (1978) ed a Stranj (21992): gli uni e gli altri sono stati aggiornati sulla base delle fonti ISTAT. In tutti i casi va premesso che i rilevamenti demoscopici per questa, come per altre aree slovenofone della Regione FVG, non sempre riflettono la reale situazione, in quanto condizionati dalla temperie storico-politica o da fattori di tipo psicologico e/o opportunistico (istruttiva, a questo proposito, la discussione polemica di Baudouin de Courtenay (d’ora in poi anche solo: Baudouin) riguardo alla popolazione resiana: 2000 [1876], 24–40).

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Valcanale anno 1864: totale abitanti 6.139, di cui 2.958 sloveni (San Leopoldo Laglesie 419, Ugovizza 1.181, Camporosso 958, Malborghetto 100, Tarvisio 300) – 3.181 tedeschi (Pontebba 520, Malborghetto 648, Tarvisio 2.013). Noteremo che, all’epoca, i paesi di San Leopoldo Laglesie, Ugovizza e Camporosso erano esclusivamente sloveni, mentre Pontebba era esclusivamente tedesca; anno 1921: totale abitanti 8.224, di cui 1.106 sloveni (San Leopoldo Laglesie 61, Ugovizza 548, Camporosso 205, Malborghetto 8, Tarvisio 251, Pontebba 6, Fusine 27) – 4.185 tedeschi (San Leopoldo Laglesie 203, Ugovizza 179, Camporosso 525, Malborghetto 488, Tarvisio 2.012, Pontebba 352, Fusine 426) – italiani 1.207 (San Leopoldo Laglesie 61, Ugovizza 33, Camporosso 44, Malborghetto 57, Tarvisio 654, Pontebba 315, Fusine 44) – stranieri 1.726 [sic]; anno 1982: totale abitanti ca. 8.900, di cui 1.650 autoctoni (sloveni e tedeschi), con il 53% circa di sloveni (cf. Steinicke 1984, 65, cui rinviamo per i dettagli); anno 2010–2011: totale abitanti 7.096, per la cui distribuzione etnica non disponiamo di dati.

Benecia anno 1871: totale abitanti 24.153, tutti di lingua slovena, di cui 3.275 a Resia, 5.164 nelle Valli del Torre, 15.714 nelle Valli del Natisone; anno 1921: totale abitanti 33.932, con il 100% di sloveni nella Val Resia, il 97,6% nelle Valli del Natisone, il 95,6% nelle Valli del Torre (con il 48,5% nei paesi dell’entroterra montuoso dei Comuni pedemontani di Attimis, Faedis e Prepotto, nel cui capoluogo si parla il friulano); anno 1971: totale abitanti 15.667, di cui 1.805 resiani. Il 75,55% degli abitanti delle Valli del Torre e del Natisone si dichiara appartenente alla minoranza slovena; anno 2011: totale abitanti 9.155, di cui 1.091 resiani, senza specificazione di tipo etnico.

1.2 Prospetto geomorfologico Le differenze di ordine politico-amministrativo hanno inciso non poco sull’evoluzione delle singole parlate, che hanno subito pure gli effetti della diversa configurazione geofisica del territorio, relativamente favorevole per talune, decisamente sfavorevole per altre.

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1.2.1 La Valcanale Riprendendo da nord, vediamo una Valcanale spaziare verso la Carinzia, da cui affluiscono sacerdoti di lingua slovena, impiegata non solo nella liturgia e nella catechesi fino alla metà del secolo XX , ma, dalla metà del secolo XIX , anche nelle scuole cosiddette concordatarie. Senza contare che dal centro culturale di Klagenfurt trovava ampia diffusione la stampa di lingua slovena, promossa dalla Mohorjeva družba/Società di Sant’Ermacora. Negli stessi anni, d’altro canto, con il rientro degli Asburgo, si ha un forte processo di germanizzazione, attuato soprattutto con le scuole dell’obbligo di lingua tedesca (1869), codice da sempre privilegiato per le scritture di carattere ufficiale e pertanto ambíto ai fini della promozione sociale. Il graduale passaggio dallo sloveno locale (Windisch) al tedesco standard venne promosso con l’istituzione della scuola utraquistica nel 1872 (cf. Šumi-Venosi 1995, 53), che in tal modo favorì il consolidarsi del tedesco a danno dello sloveno. Con l’annessione al Regno e la riforma Gentile (1923), la lingua italiana fu l’unica riconosciuta ed insegnata nelle scuole, mentre gli altri due idiomi vennero relegati all’ambito privato o quantomeno informale, alla stregua di quanto avvenuto da sempre per il friulano. Nel 1933 il Prefetto della Provincia di Udine emise un decreto che proibiva al clero di predicare in lingua slovena. Per converso, nel 1939, grazie agli accordi italo-germanici, nella maggioranza dei paesi della Valcanale furono istituiti corsi di lingua tedesca, riconfermati nel 1946 per i figli degli autoctoni a Malborghetto, Ugovizza, Camporosso e Tarvisio. L’anno 1976 segnò un risveglio delle attività a difesa delle due lingue minoritarie «straniere»: venne infatti ripreso l’insegnamento dello sloveno standard (d’ora in poi: slov.) in corsi facoltativi, grazie alla sensibilità di operatori culturali del luogo e ad un associazionismo attivo, volentieri sostenuto da istituzioni scientifiche della Slovenia, che promuovono studi e ricerche di livello. Da allora si è assistito a una fioritura della stampa, delle organizzazioni e delle associazioni slovene sia nella Valcanale che nella Benecia (cf. Cernetig/Negro 2009, 88–91). Sul versante del tedesco, nel 1976 ci fu la nascita dell’Associazione culturale della Valcanale/Kanaltaler Kulturverein, voluta dall’enclave tedesca a sostegno della propria lingua e della propria cultura. Attualmente le minoranze linguistiche slovena e tedesca sono tutelate dalle leggi nazionali nr. 482/1999 e nr. 38/2001, e dalle leggi regionali del FVG nr. 26/2007 (per la slovena) e nr. 20/2009 (per quella tedesca).

1.2.2 La Val Resia Ben diversa la situazione della Val Resia, appartata com’è, arrampicata su un altipiano solcato da canaloni impervii, a cominciare dal difficile accesso sia da ovest, dalla Valle del Fella, che da est, dall’Alta Valle dell’Isonzo. Ancor più impedito il passaggio

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verso la finitima Val Torre, data la barriera montuosa dei Musi, superabile unicamente attraverso il valico di Uccea, in passato pressoché impraticabile. L’isolamento geografico rispetto al mondo esterno e la difficoltà di comunicazione al suo interno hanno fatto sì che gli sloveni della Val Resia abbiano sviluppato in modo del tutto singolare il loro idioma, con una serie di sottovarietà facenti capo a San Giorgio/Bila, a Gniva/Ńíwa, a Oseacco/Osojane ed a Stolvizza/Sòlbica. Da qualunque angolazione la si osservi, la comunità resiana si presenta come un microcosmo a sé stante, fiero e geloso della propria individualità, di cui ha preso coscienza grazie agli studiosi che su di essa si sono concentrati dalla fine del sec. XVIII , primo fra tutti Baudouin, che alle esplorazioni dialettologiche sul terreno (nel secondo Ottocento) accompagnò quelle demologiche, offrendoci uno spaccato socioeconomico altrimenti sconosciuto. Apprendiamo così che a Resia il parroco veniva eletto dalla gente, che l’insegnamento sia scolastico che catechetico veniva svolto da cappellani locali su catechismi stesi in resiano, per cui qui le condizioni risultavano migliori che altrove. Riguardo alla scolarizzazione, gli analfabeti erano il 90% della popolazione, a fronte del 98,5% di altri Comuni, ma assai più bassa del 60% degli «slavi austriaci», per i quali l’Austria stava provvedendo con scuole slovene (cf. Baudouin de Courtenay 2000 [1876], 24 e 43–46). Tra i motivi invocati dai resiani a sostegno della loro peculiarità figurano le loro tradizioni – racconti e canti popolari, danze, musica e strumenti musicali – ma prima ancora l’unicità del loro idioma, che non accettano di ritenere sloveno, preferendogli altre matrici, e invocando perciò una legge di tutela speciale. L’idea di essere altra cosa rispetto agli sloveni, e di discendere ad es. dai russi – secondo un’antica leggenda –, era stata involontariamente confortata dall’ipotesi di Baudouin di un sostrato turanico, più tardi da lui stesso smentita. Senza entrare nel merito della questione, sarà interessante notare che recentemente l’ipotesi di un sostrato sconosciuto, comune al resiano e al friulano dell’area contigua, sia stata avanzata per spiegare una monottongazione anomala riscontrata nei due sistemi (ie > ī, uo > ū: cf. Vermeer 1993, 124). D’altronde l’eccezionalità dei resiani emerge anche dalla mappatura genetica operata dal Servizio di Genetica Medica dell’Irccs «Burlo Garofolo» di Trieste (cf. Cesare 2010; Cesare 2013; s.a. 2013). Quanto all’azione volta ad affermare il loro idioma, va ricordato il tentativo di creare una varietà standard del resiano (cf. Steenwijk 1993). Un simile atteggiamento, se da un lato favorisce la promozione di iniziative, anche di carattere letterario, nell’idioma locale, dall’altro rischia di perpetuare uno stato di isolamento culturale sempre più anacronistico (per l’immagine di sé dei resiani cf. Dapit 2005b; Cesare 2013; s.a. 2013).

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1.2.3 Le Valli del Torre Le differenze di natura geo- e oromorfologica osservate per la Valcanale e la Val Resia, oppongono tra loro, anche se in termini diversi, gli altri due ambiti della Benecia, le Valli del Torre e quelle del Natisone. Nel primo caso abbiamo valli strette, parallele e profonde, difficilmente valicabili, che degradano da nord-est a sud-ovest verso la pianura friulana, il che ha fatto gravitare la popolazione verso i centri pedemontani di Tarcento, Nimis, Attimis, Faedis e Torreano, ed ha scoraggiato i contatti fra le singole valli. La struttura accidentata del terreno, la mancanza di strade carraie e di ponti stabili, oltre ad aver impedito qualsiasi forma di aggregazione all’interno del territorio, ha tenuto lontani i rappresentanti del clero, unici potenziali promotori di una qualche forma di socializzazione. Peraltro, i rari cappellani che vi prendevano servizio erano di origine friulana (cf. De Cillia 1987, 93; Mirmina 1987, 142). Solamente nella seconda metà dell’Ottocento, e solamente nella parte orientale, si instaurò una qualche forma di collaborazione con i sacerdoti delle Valli del Natisone, i quali erano tradizionalmente di lingua slovena, colti, e interessati alla promozione spirituale e intellettuale dei loro parrocchiani (cf. Merkù 1978, 47). Le condizioni di estremo degrado degli sloveni del Torre sono descritte in toni realistici da Sreznevskij (1844). Un’ulteriore ben più ricca documentazione ci proviene da Baudouin (1998 [1893]; 1904) e dal suo Glossario (Spinozzi Monai 2009a). Quest’ultimo riporta notizie raccolte dalla viva voce degli informanti sull’istruzione, sulla lingua della chiesa, sulle abitudini e differenze linguistiche nelle varie contrade e vallate, ma pure giudizi di natura politica, come l’insofferenza verso i friulani, il rimpianto per l’Austria e l’auspicio di riunire tutti gli sloveni in un’unica nazione, sul fondamento della lingua Il millenario isolamento, i rari rapporti tra le singole vallate e con l’entroterra isontino, l’assenza di un centro economico e culturale e la mancanza dell’opera acculturatrice del clero, che avrebbe potuto produrre un minimo di amalgama linguistico, spiegano da un lato la straordinaria varietà delle parlate locali, dall’altro la compresenza di tratti estremamente conservativi e di tratti altrettanto innovativi (dovuti al contatto con il romanzo), che assegnano al tersko una posizione unica fra tutti i dialetti sloveni (cf. Merkù 1978, 44 e 47).

1.2.4 Le Valli del Natisone A fronte dell’esposizione naturale delle Valli del Torre al mondo friulano, la Valle del Natisone, con le sue convalli piuttosto ampie e disposte a ventaglio attorno ad un unico punto di convergenza – l’attuale capoluogo di San Pietro al Natisone tuttora fondamentalmente slovenofono –, presenta i caratteri opposti, atti a preservare i tratti peculiari dei gruppi umani che la abitano, a cominciare dalla lingua, che

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pertanto risulta meno sottoposta a interferenze e più omogenea, a parte lievi differenze. L’omogeneità del nadiško deriva pure dall’ininterrotta comunicazione con gli sloveni d’oltre confine, grazie alla valicabilità della valle principale e di altri punti sparsi qua e là lungo lo spartiacque, e grazie all’impegno dei sacerdoti locali, tesi a trovare un equilibrio tra la parlata dialettale e il modello offerto dalla stampa slovena (catechismi e libri della Mohorjeva družba). Quanto ai contatti con il mondo romanzo (friulano e, in minor misura, veneto), qui, come altrove, essi sono avvenuti principalmente per motivi economici, ma in misura assai inferiore che nelle Valli del Torre.

2 Studi sui dialetti sloveni del Friuli L’interesse per i dialetti sloveni del Friuli fu portato alla ribalta del mondo scientifico internazionale da Baudouin, ritenuto perciò pioniere della dialettologia slovena. In verità, durante le sue esplorazioni sulle parlate della fascia slavo-romanza, egli ebbe, per così dire, un compagno di viaggio ideale nella persona di Hugo Schuchardt, impegnato come lui, in proporzioni e con intenti diversi, a studiare i fenomeni di contatto tra i domini linguistici dell’area contigua, ma esterna, rispetto a quella qui considerata (cf. Schuchardt 1884). Tra i due ci fu un denso carteggio che ci immette nel vivo della discussione sull’interferenza linguistica, permettendoci, talora, di chiarire alcuni punti della trascrizione fonetica adottata da Baudouin per i testi raccolti sul terreno (cf. Eismann/Hurch 2008, 45). Per inciso, sarà interessante sapere che nel suo lavoro Schuchardt aveva toccato il tema della doppia serie del pronome soggetto, su cui torneremo sotto, in 3.2.2, tipica dei dialetti italiani settentrionali (cf. Schuchardt 1884, 99ss.), ignorando che Baudouin un decennio prima l’aveva registrata nel resiano e nel dialetto del Torre come calco morfosintattico sul friulano, cosa che sarebbe emersa dalla pubblicazione dei materiali (Baudouin de Courtenay 1895; 1904), e ancor più dall’articolo apparso subito dopo (Baudouin de Courtenay 1905), a dimostrazione che, per lui, lo studio dei dialetti, preferibilmente di quelli soggetti alla «mistione linguistica», non era fine a se stesso, ma costituiva il primo passo verso la ricerca di tipo teorico, fondata sull’analisi di documenti di prima mano, attinti a idiomi scevri da interventi normativi, come quelli da lui prescelti. Dopo l’importante articolo di Baudouin del 1905, questo genere di studi sull’area in questione ha avuto una battuta d’arresto, ed è stato ripreso, qui come altrove, grazie alla magistrale lezione di Uriel Weinreich. Negli ultimi decenni gli studi sull’interferenza slavo-romanza si sono intensificati, come documentano le due «summae» rispondenti rispettivamente a Skubic (2000) e a Benacchio (2002). Nessuno dei due studiosi, tuttavia, ha esteso la propria indagine alla Valcanale, quella da cui prenderemo le mosse in questa sede, e per la quale terremo conto di due tesi di laurea relativamente recenti, incentrate su contatti

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romanzo-tedeschi, ma non prive di preziose informazioni sui parlanti di lingua slovena (cf. Colavizza 1983–1984; Di Giusto 1987–1988). Alle indicazioni bibliografiche appena fatte ne aggiungiamo altre per le singole realtà: per una descrizione dello ziljsko si vedano Ramovš (1935, 7–10) e Logar (1971); per la Val Resia si vedano Baudouin de Courtenay (1875; 1895; 2000 [1876]), Ramovš (1935, 30–41), Steenwijk (1992, ma anche www.resianet.org/ – ResiaNet, data di accesso: 12.06.2013), Matičetov (1975), Minervino (2003–2004), Paternu/Toporišič (2008); per le Valli del Torre ancora Baudouin de Courtenay (1904; 1905), quindi Spinozzi Monai (2009a), Ramovš (1935, 53ss.), AA.VV. (21987), Dapit (2001), Molaro Ferrari (2003 [1952]), Merkù (1977; 1978; 1980; inedito), Šekli (2006); per le Valli del Natisone cf. Baudouin de Courtenay (1988), Ramovš (1935, 56ss.), Raffo (1972), Zanon (1976–1977), Budal (1979–1980), Petricig (2000). Per uno sguardo d’insieme sui dialetti sloveni del Friuli rinviamo a Frau (1984, 210–218); per una rassegna bibliografica relativa alla Benecia cf. Dapit (1995); per gli antichi manoscritti, su cui non ci soffermiamo, cf. Michajlov (1997); per i dizionari dialettali cf. Weiss (2007); per la situazione attuale degli sloveni dell’Udinese cf. Dapit (2005a).

2.1 Dati statistici sui prestiti: la Valcanale La plurisecolare convivenza degli sloveni della Valcanale con i tedeschi, a paragone di quella relativamente recente con i friulani e i (veneto-)italiani, spiega da sé come lo zegliano porti i segni dell’influsso tedesco in misura ben più significativa di quelli di matrice romanza. La sproporzione tra l’apporto tedesco, e rispettivamente romanzo (nella fattispecie friulano) allo sloveno, diventa evidente se calcoliamo che dei ca. 7.200 lemmi del Dizionario zegliano di Ugovizza (Oman 2011), i termini di origine friulana sono solamente 15, a fronte di ca. 2.000 tedeschismi, pari al 28% del totale, percentuale che tocca il 40% in un’indagine condotta a Camporosso (cf. Di Giusto 1987–1988, parte II, 118). Che nei rapporti intersistemici il friulano abbia un ruolo limitato pare dimostrato anche dai dati (prodotti qui di seguito) da noi estrapolati dall’insieme delle risposte ottenute alle domande dei questionari ASLEF e ALI nel corso di un’inchiesta risalente ad una trentina d’anni fa (cf. Colavizza 1983–1984). Le due sigle di riferimento corrispondono ad altrettanti atlanti linguistici, che prendono in considerazione anche le parlate slovene della fascia slavo-romanza – l’Atlante Storico-Linguistico-Etnografico Friulano (cf. ASLEF) e rispettivamente l’Atlante Linguistico Italiano (cf. ALI) –, accanto ai quali andranno ricordati lo Slovenski Lingvistični Atlas (cf. SLA; Benedik 1999; Weiss/Škofic/Kenda-Jež 2009), l’Obščeslavjanskij lingvističeskij atlas (cf. OLA) e lʼAtlas Linguarum Europae (cf. ALE). Lo sloveno della Valcanale, oltre che negli atlanti citati, rientra nel progetto per la Carinzia dellʼAccademia delle Scienze Austriaca, che pubblica il Thesaurus der Slowenischen Volkssprache in Kärnten (cf. Thesaurus), giunto al vol. 7 (2012).

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Lo schema che segue considera l’orientamento delle risposte a partire da ciascuna delle tre parlate prese in esame, per cui la prima riga significherà che 197 risposte ottenute nel patois tedesco figurano anche nello ziljsko: Dal patois tedesco allo ziljsko:   " " " al friulano:   " " " a zilj. e friul.: Dallo ziljsko al patois tedesco:      " " " friulano: Dal friulano al patois tedesco:   " " allo ziljsko:

197 61 142 108 65 196 83

Come si può vedere, l’attenzione dei ricercatori si concentra sulle varietà comparabili dal punto di vista dell’uso, rappresentato dal registro più basso, colloquiale/informale, a prescindere da quello formale, correlato qui come altrove all’italiano standard, con cui tutti i parlanti debbono necessariamente misurarsi, ricevendone l’inevitabile influsso. Nel caso della Valcanale tale influsso si manifesta più nei cosiddetti prestiti di necessità – estranei alla parlata locale, ancorata alle attività agricole e boschive ormai in disarmo – di quanto non incida sulla sua grammatica. Nella Benecia, invece, a parità di prestiti dall’italiano, non solo abbiamo un numero di friulanismi ben più rilievante, ma vi è pure una maggiore incidenza dei moduli grammaticali del friulano, grazie alla prolungata contiguità tra le due etnie. Tornando sui prestiti di necessità, diciamo fin d’ora che essi riguardano tutti i dialetti qui considerati, data la discrepanza tra una semantica legata ad attività tradizionali come l’agricoltura, la silvicultura e l’allevamento, ed i tecnicismi della burocrazia introdotta contestualmente alla lingua italiana e/o la terminologia di un progresso tecnologico in continua espansione.

2.2 Dati statistici sui prestiti: la Benecia (Valli di Resia – del Torre – del Natisone) Passando alla Benecia, esistono diversi studi sui fenomeni di contatto, taluni dei quali riportano dati statistici sui prestiti, che tuttavia riesce difficile mettere d’accordo e il cui valore, pertanto, è puramente indicativo di una tendenza. A titolo di esempio riferiamo alcune percentuali di romanismi, ovvero friulanismi, registrate per il dialetto del Torre: a Lusevera essi ammonterebbero al 50% (cf. Francescato 1960a, 46), mentre dall’analisi dei 3.500 termini raccolti da Merkù in più località essi scenderebbero al 27% (cf. Merkù 1980, 173). A questo punto vogliamo riportare la situazione emersa dai materiali del Glossario di Baudouin (Spinozzi Monai 2009a), raccolti un secolo prima in tutta l’area: su un totale di 5.257 lemmi, di cui 4.122 appellativi, si contano 780 prestiti (19%), di cui 701 dal friulano (17%), 23 dal tedesco (0,56%), 20 dal veneto e 35 dall’italiano (che insieme danno l’1,33%), per un totale del

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18,33% di romanismi. Questo dato, assolutamente affidabile, perché ricavato dal campione universo, non può tuttavia giovare ad una quantificazione altrettanto affidabile dell’incremento dei prestiti in diacronia, a causa della forte sfasatura dei dati in sincronia. Più equilibrato il quadro emerso per il nadiško dalla comparazione di un numero chiuso di dati considerati in diacronia (metà Ottocento e seconda metà del Novecento) e distinti per tipologia (testi folklorici, tendenzialmente conservativi, a fronte di dialoghi informali, senz’altro innovativi). Su 900 lemmi, le percentuali di prestiti, compresi i germanismi, ammontano al 9% e rispettivamente al 15% per l’epoca più antica, salendo al 13,4% e rispettivamente al 21,3% per quella moderna (cf. Spinozzi Monai 1995b, 371s.). Considerato che i germanismi, perlopiù di antichissima data, costituiscono un buon terzo dei prestiti, e che l’aumento in diacronia riguarda quasi esclusivamente i romanismi, le punte massime dei prestiti (13,4% e 21,3%) risultano comunque inferiori a quelle del tersko di epoca moderna (il 50% e rispettivamente il 27%), confermando il carattere conservativo del nadiško, come ribadito dagli esiti di una ricerca del 1979, che parla di una percentuale di romanismi pari al 15% (cf. Francescato 1985, 154). Per quanto riguarda il resiano, l’unico dato certo è il numero di prestiti presenti nei Materiali I di Baudouin (Baudouin de Courtenay 1895) – 740 romanismi contro 70 germanismi (per questi ultimi cf. Matičetov 1975): numeri assoluti, che diverrebbero significativi solo se rapportati al complesso dei termini da cui li abbiamo estrapolati. Quanto ai dizionari resiani, quello predisposto da Baudouin (cf. Tolstoj 1966) e curato dalle Accademie Slovena di Scienze e Arti e dall’Accademia delle Scienze Russa, attende di essere pubblicato. Quelli compilati di recente mancano dei presupposti per un loro impiego ai nostri fini, dati gli obiettivi che li hanno ispirati (cf. le pagine introduttive di Chinese 2003 e Steenwijk 2005).

3 Fenomeni di contatto linguistico Nel presentare i fenomeni di contatto più rilevanti nello sloveno dell’Udinese, dobbiamo premettere che in molti casi essi dipendono da tendenze evolutive proprie del sistema ricevente, senza contare l’azione di principi universali, a cominciare dalla semplificazione dei sistemi, che segna il graduale passaggio dal tipo sintetico a quello analitico, secondo la lontana ma sempre attuale lezione di Baudouin (cf. Baudouin 1972 [1901]). Quanto all’ordine di presentazione di detti fenomeni, nel distribuirli ai vari livelli della grammatica, distingueremo tra i fatti di conservazione, generalmente di minore evidenza, e i fatti di innovazione.

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3.1 Interferenza fonologica Vediamo ora quali e quanto incisivi siano gli effetti del contatto linguistico, iniziando dal livello fonologico. Per quanto riguarda la grafia degli esempi offerti via via, riproduciamo quella delle opere da noi consultate, dandone una chiave di lettura alla fine del presente contributo. Gli esempi relativi alla Valcanale, se non diversamente segnalati, si intendono attinti a Di Giusto (1987–1988, parte 1, 159s., 218, 224s.; parte 2, 151); a Colavizza (1983–1984, 176s.); a Oman (2011). Allo stesso modo, gli esempi riguardanti i tre dialetti beneciani si intendono implicitamente attinti a Skubic (2000) per l’intera Benecia; a Steenwijk (1992; 2005) per il rezijansko, a Budal (1979–1980) per il nadiško, a Spinozzi Monai (2009a) per il tersko. Nel settore dell’interferenza fonologica si registra un unico fatto di conservazione, circoscritto alle varietà della Benecia, e riguarda le consonanti occlusive prepalatali sorda e sonora t’/ć e d’/ǵ (altrove passate a č e rispettivamente a j: per d’ > j cf. slov. meja < ie. *mĕdi ̯ā; per t’/ć > č cf. qui sotto nuć vs. noč), acusticamente identiche a friul. ḱ ǵ, e quindi rafforzate dall’ingresso dei prestiti: nad. obráːćat ~ slov. obračati ʻrivoltareʼ; ter. nuóić, rez. nuć, nad. nùọi ̯ć ~ slov. noč ʻnotteʼ; ter. ćárta, rez. ćarta ~ friul. ciàrta ʻcartaʼ; nad. bròːća ~ friul. bròcia ʻbullettaʼ; ter. d’áti (per riduzione vocalica da dejáti) ~ slov. dejati ʻdireʼ; ter. d’enьtɷ́ rjь (pl.), rez. ǵenitör (sg.) secondo friul. genitòrs ʻgenitoriʼ. Tra le innovazioni, l’unica di una certa rilevanza registrata nella Valcanale consiste nell’articolazione lievemente uvulare della liquida vibrante, ȓ, un tratto tipico delle varietà tedesche locali che si è esteso anche al friulano, ma che nel contempo ha subito l’influsso delle due parlate contigue, indebolendosi notevolmente. Abbiamo così per ted. Kröte ʻrospoʼ e per friul. mòra ʻmoraʼ (bot.) le forme kȓə́ ta e móȓa, comuni ai tre domini; e inoltre zilj. gȓábat per slov. grabiti ʻrastrellareʼ. Nelle varietà della Benecia i fatti innovativi sono i seguenti: – passaggo della laterale palatale l’ > j secondo friul. vòja ʻvogliaʼ: rez. jüdi, ter. júdje, nad. judjèː ~ slov. ljudje ʻgenteʼ; – passaggo di -m ad -n, comune anche ad altre aree slovene, ma qui favorito dal parastrato friulano (cf. friul. fan ~ it. fame): rez. sëdän, ter. sédan, nad. séːdan ~ slov. sedem ʻsetteʼ (cf. Pellegrini 1969, 771s.); – passaggio g > γ > h > h > ø, che riguarda un’area più vasta della Benecia, ma che qui parrebbe influenzato dal friulano, dove g > ø (cf. friul. fiât ~ it. fegato), e che ha il seguente andamento: Val Resia occidentale permanenza di g (göra ~ slov. gora ʻmonteʼ), con progressiva spirantizzazione e assordimento procedendo verso sud-est (γöra, höra), con dileguo a Stolvizza (öra) e con cammino inverso nella Val Torre – dileguo ad occidente (óra), spirantizzazione in γ verso est, comprese le Valli del Natisone (γóra) (cf. Merkù 1978, 56); – importazione dei suoni romanzi ǯ/ǧ e ʒ/’z insieme ai rispettivi prestiti, ma presenti talora anche nei termini indigeni: ter. ǯák ~ it. giacché; nad. ǯeláto, rez. ǧeláto ~ it.

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gelato; come allofono di slov. ž, in ter. ǯeliéza accanto a želiézo ~ slov. železo ʻferroʼ; ter. ʒornda, rez. ʒornáda ~ friul. ’zornàda ʻgiornataʼ (il suono ʒ è ignorato dal nadiško). La discrepanza intersistemica inerente alla sibilante palatale sonora ž dello sloveno, assente nel romanzo, ha dei riflessi anche sulla fonetica di termini prettamente sloveni, provocando il passaggio ž > z (cf. ter. Muzac ~ slov. Mužac ʻMusiʼ e, qua e là, júzina ~ slov. južina, buózac ~ slov. ubožec).

3.2 Interferenza morfosintattica 3.2.1 Fenomeni di conservazione Per quanto riguarda l’interferenza morfologica, tra i fatti conservativi osserviamo la persistenza nel resiano del tempo imperfetto, scomparso da tempo nelle lingue slave. È interessante notare che qui l’imperfetto, oltre ad indicare un’azione passata in svolgimento, ricalca il valore contrafattuale del romanzo – ignoto alle lingue slave –, indicante un’azione che avrebbe dovuto realizzarsi nel passato, ma che non si è realizzata, solitamente espressa con il periodo ipotetico della irrealtà: Ma ći bé̤šajo paršlə́ ti drṳ́gi […], ni té̤šajo ga wstrílit […] ʻSe venivano gli altri […], lo fucilavano […]ʼ ~ slov. Če bi prišli drugi […], bi ga ustrelili […] ʻSe fossero venuti gli altri […], lo avrebbero ucciso […]ʼ (Steenwijk 1992, 196, testo 12). Accanto all’imperfetto, il resiano conserva pure il piuccheperfetto, condiviso da tersko e nadiško, ma obsoleto nel restante dominio slavo. A differenza dell’imperfetto, esso è privo di tratti modali ed indica o (propriamente) un’azione anteriore rispetto ad un’altra passata o una avvenuta in un passato lontano. La prolungata conservazione di questi due tempi sembrerebbe supplire ad una codificazione debole dell’aspetto verbale nei dialetti beneciani, o, all’opposto, sarebbe proprio il carattere arcaico del sistema temporale di quest’area, «puntellato» dal romanzo, ad avere ostacolato un pieno sviluppo dell’aspettualità (cf. Benacchio 2002, 88).

3.2.2 Fenomeni di innovazione Tra i fatti innovativi figurano invece l’indebolimento del genere neutro e del duale, un fenomeno del resto comune all’intero diasistema dialettale sloveno, attribuibile alla marcatezza di queste categorie, ma qui favorito dal contatto con il romanzo (cf. Benacchio 2002, 78s.). Qualche esempio per il neutro: zilj. ːđ ʻunoʼ acc. masc. riferito a neutro prə́ se ~ slov. prase ʻmaialeʼ; zilj. nom. femm. pl. mìːknẹ áːvčẹ ʻpiccole meleʼ per slov. neutro majhna jabolka (Kenda-Jež 2005, 136, 138); nad. femm. sg. jabuka per slov. neutro

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jabolko ʻmelaʼ. Qualche esempio per il duale: zilj. mi (duà) sma [1. pers. pl.] uáčne [pl.] ʻnoi (due) abbiamo fameʼ, letter. ʻsiamo affamatiʼ, a fronte di slov. Midva sva [1. pers. du.] lačna [du.] (esempio fornito da Alessandro Oman, di Malborghetto); rez. dwa brata ni su muradorje per slov. dva brata sta zidarja ʻdue fratelli sono muratoriʼ (Skubic 2000, 72). Come in tutta la fascia slavo-romanza, pure qui abbiamo sintagmi preposizionali «ridondanti», in quanto impiegano una preposizione equivalente alla desinenza casuale (che risulta così indebolita), primo fra tutti od + genitivo (nad. puna od otrok ~ slov. polna otrok ~ it. piena di bambini), conosciuto anche nella lingua standard parlata, ma in misura assai minore di quella registrata nei dialetti occidentali, evidentemente influenzati dal romanzo (cf. Skubic 2000, 76). Innovativa anche la struttura analitica del grado comparativo di maggioranza dell’aggettivo qualificativo, in luogo della suffissazione: zilj. ƀǝl xuːđa ~ slov. hujša ʻpeggioreʼ (Kenda-Jež 2005, 150); nad. bui ̯ve'sok ʻpiù altoʼ ~ slov. višji. L’aggettivo conosce un altro fenomeno di natura morfosintattica, e precisamente l’impiego del cosiddetto articolo determinativo, strettamente connesso con quello indeterminativo (attinto, come in altre lingue, al numerale «uno»), per esprimere l’opposizione forma determinata vs. forma indeterminata, segnalata nello sloveno standard mediante il morfema -i vs. ø, limitatamente al nom. masc. sg. (e all’acc. per i nomi di inanimati). Negli esempi che seguono vediamo come tra le due formule vi sia confusione, a dimostrare che l’innovazione non è affatto consolidata: nad. te làːχan (indet.)/te la'χni (det.)/'paš ~ slov. lahki korak ʻil passo leggeroʼ. Nel sintagma te la'χni 'paš il tratto di determinatezza risulta ridondante, in quanto espresso sia dall’articolo che dal morfema. Un caso inverso è dato da rez. na ma den lípi bṳ́kuw gó̤st ~ slov. (ona) ima lep bukov gozd ʻ(lei) ha un bel bosco di faggio/un bel faggetoʼ, dove vi è contraddizione tra la presenza dell’articolo indeterminativo an e la forma determinata dell’aggettivo. Talora la particella ta funge da semplice indicatore di determinatezza, indeclinabile. Così nello ziljsko, come si può vedere confrontando tra loro gli esempi: ta máli ʻmignoloʼ, letter. ʻil piccoloʼ ~ slov. mezinec; za ta bòːu̯ne ʻper i malatiʼ ~ slov. za bolne (Kenda-Jež 2005, 135). Quello che è stato interpretato come articolo dovuto al romanzo (cf. Pellegrini 1969, 772), è presente nello sloveno – dialettale e non – sin dai testi più antichi, e per quanto sia stato espunto dallo standard, è tuttora vivo nell’intera Slovenia (cf. Kacin/ Jevnikar 1955, 106; Skubic 2000, 68; Benacchio 2002, 43ss.). Questa circostanza lo farebbe riguardare come un fatto conservativo, forse favorito dal romanzo, ma prima ancora lo assegnerebbe alla tendenza verso i moduli analitici, cui si è accennato, documentata dalle lingue germaniche e da quelle neolatine, ed estendibile ai due fenomeni precedenti (esemplificati con nad. puna od otrok e bui ̯ ve'soki). Vediamo ora un fenomeno del tutto singolare, sicuramente dovuto all’influsso del friulano. Quest’ultimo conosce il cosiddetto clitico soggetto, ovvero la forma atona del corrispondente pronome tonico della coniugazione verbale, che compare anche con i

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verbi «meteorologici» nella 3. pers. sg. nella mera funzione di soggetto grammaticale. Tale paradigma ha informato il resiano e il dialetto del Torre, lasciando fuori i dialetti della Valcanale e del Natisone. Diversamente che nel friulano, tuttavia, qui il paradigma non trova un’applicazione rigorosa, denotando le incongruenze tipiche di un sistema instabile. Alcuni esempi: ter. ónε̆ dwá ní (clit. masc. pl.) ɟε̆ jɷ́ ~ friul. lôr dòi a (clit. masc. pl.) uèlin ~ slov. onadva hočeta ʻloro due (essi) voglionoʼ (in questo esempio possiamo osservare, tra l’altro, che tanto i pronomi tonico e clitico quanto il verbo prendono il plurale anziché il duale); rez. to lye, ter. to arḿí ~ friul. al plûf, al tòne ~ slov. dežuje, grmi ʻpiove, tuonaʼ (cf. Pellegrini 1969, 733; per l’intera problematica dei clitici cf. Benacchio/Renzi 1987). Ben più stabile presso i nativi l’uso della forma negativa dell’imperativo, ricalcata sul romanzo. Come si può vedere dagli esempi che seguono, il costrutto sloveno «negazione + imperativo», valevole sia per la 2. pers. sg. che per la 2. pl., in quest’area per la 2. sg. viene reso con il costrutto italiano «negazione + infinito» in tutte e quattro le varietà; per la 2. pl., invece, troviamo il modulo veneto/friulano «negazione + imperativo di stare + infinito», che nello ziljsko sostituisce il fraseologico stare con il servile dovere: zilj. ne šríbat na míza ~ slov. ne piši na mizo ~ it. non scrivere sul tavolo, e rispettivamente ne sméste šríbat… letter. ʻnon dovete scrivere…ʼ per it. non scrivete… ~ slov. ne pišite; nad. ni dešiderat ~ slov. ne želi ~ it. non desiderare, e rispettivamente ne stujte se bat letter. ʻnon state a temere…ʼ per it. non temete ~ slov. ne bojte se (cf. Pellegrini 1969).

3.3 Sintassi: frase – periodo Per quanto riguarda la costruzione della frase, lo ziljsko risente dell’impronta tedesca, come emerge dal confronto tra je’sn na kuarta šribu, ted. ich habe eine Karte geschrieben (Steinicke 1984, 118) e slov. napisal sem razglednico, dove abbiamo la presenza anomala del soggetto je, contemplato dallo standard solamente in funzione enfatica, e la separazione dei due elementi del predicato verbale, con il participio šribu in posizone finale. I moduli sintattici dei dialetti beneciani risentono invece di quelli romanzi, e ciò accade sia a livello sintagmatico che nei costrutti frasali, semplici e complessi: – per la valenza verbale cf. rez. ja was [acc.] zafalen ~ slov. jaz se vam [dat.] zahvalim ~ it. io vi ringrazio (it. ringraziare in sloveno è intransitivo e vuole il caso dativo); – per l’ordine dei costituenti della frase cf. nad. niesan hodu u šolu slovejsko ~ slov. nisem hodil v slovensko šolo (con posposizone, anziché anteposizione, dell’aggettivo attributivo) ~ it. non andavo alla scuola slovena; nad. takua mlekar je ušafu samua Vuka ~ slov. tako je mlekar ujel samo Volka ~ it. così il lattaio ha catturato solamente il Lupo (l’ausiliare je dovrebbe occupare la seconda posizione nella frase: cf. Skubic 2000, 98; Benacchio 2002, 89–95);

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per la struttura del periodo cf. nad. se mu je zdielu jih na poznat ~ slov. zdelo se mu je, da jih ne pozna ~ it. gli pareva di non conoscerli (subordinata soggettiva implicita – infinitivale –, anziché esplicita).

Sempre a proposito del periodo, uno dei calchi più comuni nelle varietà della Benecia (ma non nella Valcanale) riguarda la subordinata finale, che nello sloveno è sempre esplicita ed è introdotta esclusivamente dalla congiunzione da. Qui tale congiunzione viene rafforzata con le preposizioni slov. za o friul./it. par/per, oppure la frase assume la forma infinitivale introdotta da za o par: nad. An zene oblečejo kutuline na robe, za de na pride tuča ~ slov. An žene oblečejo spodnje krilo narobe, da ne bi prišla toča ~ it. E le donne indossano la sottoveste alla rovescia, perché non venga la grandine; rez. Ni so bižali […], za se salvat ~ slov. Bežali so […], da bi se rešili ~ it. Fuggivano […] per salvarsi.

3.3.1 Interferenza al livello paradigmatico A chiusura del discorso sull’interferenza sintattica vorremmo accennare all’ipotesi di un calco paradigmatico da parte di rezijansko e tersko sul modello friulano, vale a dire la formazione di un congiuntivo, ignoto allo sloveno, a partire dall’imperativo, con un procedimento ad incastro dell’uno e l’altro sistema, tra loro strettamente legati sul piano funzionale. Il nuovo paradigma consiste nell’estensione della 2. pers. sg. dell’imperativo sloveno alla 3. sg., e rispettivamente della 2. pl. alla 1. e 3. pl. (cf. Spinozzi Monai 2009b). Limitandoci al numero singolare, potremmo visualizzare il paradigma tipo di nuova formazione mediante le forme di ter. bite e friul. jèssi ʻessereʼ (Marchetti 1977, 265), tenendo presente che le seconde fungono da modello per quelle ricalcate dal tersko, che darebbero come risultato finale le forme poste a destra dello schema: 1. friul. ch’o sédi (cong.) ʻche (io) siaʼ → ter. (da/ke) bodi (cong.) 2. ter. bodi (imperat.) ʻsii (tu)ʼ → ter. bodi (imperat.) 3. friul. ch’al sédi (cong.) ʻche (egli) siaʼ → ter. (da/ke) bodi (cong.).

A questo punto il discorso dovrebbe vertere sull’interferenza lessicale, ma riteniamo di poterlo fare in modo più proficuo – ed economico – contestualmente alle modalità d’integrazione morfologica dei prestiti (sotto, 4.2), imprescindibile dal concetto stesso di prestito, e lo faremo subito dopo aver presentato, qui di seguito, la loro integrazione fonologica.

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4 Integrazione dei prestiti 4.1 Integrazione fonologica Le modalità dell’integrazione fonologica degli esotismi raccolte sotto le lettere a)–c) interessano l’intera area; quelle sotto le lettere d)–f) la sola Valcanale; le rimanenti la sola Benecia: a) semplificazione delle consonanti doppie (zilj. pûtǝr ~ ted. Butter ʻburroʼ; rez. madòna ~ it. madonna); b) akanje, ovvero il passaggio di e ed o paleoslave pre- o postoniche ad a (zilj. palǝntr ʻtafferiaʼ ~ friul. polentâr ʻmangiatore di polentaʼ […]; rez. marénda ~ it. merenda); c) passaggio della sibilante alveolare sorda s, seguita da consonante, alla palatale š: considerato che (soprattutto) le varietà friulane contigue all’area slovena e tedesca presentano di già tale passaggio (per la Valcanale si veda Francescato 1966, 153), per cui la sibilante palatalizzata fa ingresso nello sloveno insieme al prestito, per tutti gli altri romanismi – come potrebbe essere ter. školā̀ r ʻscolaroʼ, attestato nella scheda n. 5879 del Glossario di Baudouin (Spinozzi Monai 2009a, 411) – si tratterà di un fenomeno di ipercorrettismo «tutt’altro che insolito in un regime di bilinguismo come quello in cui si è sviluppata la koinè slavo-romanza: siccome il parlante veneto o friulano rendeva, in assenza di schiacciate nel proprio sistema fonologico, slavo /š/ con /s/ […], gli Slavi sono stati indotti a riprodurre con le corrispondenti schiacciate le sibilanti alveolari delle parole romanze che apprendevano dai loro interlocutori» (Gusmani 21986, 330). d) il passaggio di vocali atone all’indistinta ǝ (zilj. fǝcǝlèt ~ friul. fazzolèt; zilj. tǝnsúra ~ ted. Tonsur ʻchiericaʼ); e) l’applicazione dello švapanje, cioè il passaggio della laterale l alla semiconsonante u̯ davanti alle vocali velari a, o, u (zilj. škǝdéu̯a ~ it. scodella, ma slov. škodela!; zilj. gu̯ǝš ~ ted. Glas ʻbicchiereʼ); f) passaggio della fricativa labiodentale sonora v alla bilabiale  (zilj. narés ~ friul. nervôs ʻnervosoʼ; zilj. ána ~ ted. Wanne ʻvascaʼ); g) allineamento di friul. ḱ ǵ ai suoni indigeni ć ǵ (ter. ćárta ~ friul. ciàrta; rez. ǵenitör ~ friul. genitòr(s), dove ci = ḱ e ge = ǵ, secondo quanto detto sopra, in 3.1); h) assunzione dei fonemi romanzi ǯ/ǧ (nad. ǧelato ~ it. gelato), ʒ/’z (ma non nel nadiško; ter. ʒornda ~ friul. ’zornàda; per quest’ultima tipologia ci siamo avvalsi di alcuni esempi riportati sopra, in 3.1). I fenomeni appena visti non interessano le rispettive parlate con pari intensità ed estensione, ma rispecchiano la stratificazione temporale dei contatti. Così, ad es., il prestito zilj. gu̯ǝš ~ ted. Glas ʻbicchiereʼ denota una penetrazione antica, quando lo švapanje era fenomeno attivo, mentre il prestito kanóltol ~ ted. Kanaltal è più recente, in quanto rende fedelmente la liquida laterale tedesca (cf. Gusmani/Venosi 1981, 18).

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Esistono poi dei prestiti difficili da analizzare, in quanto potrebbero essere penetrati per più vie: il termine špageti deriva direttamente dal romanzo spaghetti o attraverso la forma Spag(h)etti/špageti comune al tedesco e allo sloveno standard? Un dilemma cui accenniamo qui una volta per tutte, perché si ripresenta volentieri in tutta la fascia slavo romanza.

4.2 Integrazione morfologica 4.2.1 Sostantivi e aggettivi (Valcanale) Passiamo ora all’integrazione morfologica dei prestiti lessicali, contestualmente, come detto in 3.3.1, alla presentazione di una loro lista. La Valcanale viene trattata a parte, dato che qui i romanismi sono piuttosto rari ed i pochi friulanismi presentano perlopiù la forma originaria, rientrando così tra i cosiddetti «prestiti bruti», come ad es. fǝcǝlèt, citato sopra, bǝšk ~ friul. bòsc ʻboscoʼ, ladrík ~ friul. ladrìc ʻradicchioʼ. Quando l’adattamento morfologico ha luogo, esso avviene o per rideterminazione della marca straniera con una indigena, come nel caso di parájtənga ~ ted. Berechnung ʻcomputoʼ, dove il suffisso -ung dei femminili prende in sovrappiù la desinenza -a; oppure avviene per suffissazione, tanto dei romanismi che dei tedeschismi. Iniziando da quella nominale troviamo il suffisso -(í)za (slov. -ica), come in mantelín(i)za ~ it. mantellina, čík·lza· ʻgonnellaʼ ~ ted. Kittel ʻcamiciottoʼ, secondo il modello indigeno spabadníza ~ slov. spovednica ʻconfessionaleʼ; e il suffisso -(ǝ)č (slov. -ič), come in krag lč ~ ted. Kragen ʻcollettoʼ, secondo il modello kámčǝč ~ slov. dial. kámenčič ʻsassolinoʼ (Pleteršnik 1894–1895, I, 383). Passando agli aggettivi, troviamo il suffisso -ǝst (slov. -ast), indicante somiglianza o attitudine (cf. Toporišič 1984, 151), generalmente con sfumatura peggiorativa: u̯érčǝst ʻguercioʼ ~ friul. vuèrz ʻguercioʼ. Non mancano forme ibride, ovvero calchi prestiti (cf. Gusmani 21986, 72 e passim) accostati il più possibile alle strutture della lingua ricevente: così a fronte del composto Lederhandschuhe ʻguanti di pelleʼ, abbiamo il sintagma aggettivale lédraste rakaíze, dove il determinante Leder viene reso con il corrispondente derivato aggettivale, in ossequio alla predilezione dello sloveno per la derivazione, e ricalcando, nel caso specifico, il modello indigeno ónaste rakaíze ʻguanti di lanaʼ ~ slov. volnene rokavice. La resa del composto tedesco con un sintagma, inoltre, fa riguardare il calco prestito come calco strutturale imperfetto (cf. Gusmani 1986, 234ss.).

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4.2.2 Sostantivi e aggettivi (Benecia: Valli di Resia – del Torre – del Natisone) Il quadro offerto dai dialetti sloveni della Benecia è assai diverso, non tanto per l’alto numero dei romanismi, quanto per l’alto grado della loro integrazione, spiegabile con la plurisecolare contiguità dei due sistemi. Iniziando dalla categoria nome, accanto a forme d’integrazione di piena evidenza, dovute alla coincidenza delle marche morfologiche, come ad es. ter./nad. fadíja ~ friul. fadìa ʻfaticaʼ, rez./ter./nad. kužïna/kužína ~ friul. cusìna ʻcuginaʼ, troviamo delle modalità complesse: rez. midih, ter./nad. miédih ~ friul. mièdi ʻmedicoʼ, rez./ter./nad. larin/lárin friul. làri ʻladroʼ; nad. nom. kóro, gen. kóruna (cf. Baudouin de Courtenay 1988, 86). Come si può osservare, i tre termini friulani uscenti in vocale (-i, -o) vengono integrati mediante suffissazione: la replica in -h potrebbe riflettere il penultimo stadio della lenizione di friul. -g- (lat. volg. *MEDICU ( M ) > antico friul. *mediγu > *mediγ > *medih/*miedih > miedi) ed un allineamento al tipo ter. múnih ~ friul. mùni ʻsagrestanoʼ; il suffisso -n, invece, per i nomi in -i potrebbe essere dovuto ad allineamento a friulanismi del tipo kontadìn (cf. Francescato 1960b, 29), e per i nomi in -o, ad allineamento ai neutri slavi in nasale (cf. Cronia 1950, 324). La differenza tra rez. midih e ter./nad. miédih rispetto a friul. mièdi ripropone l’ipotesi di una monottongazione anomala sia dal punto di vista del sistema sloveno che da quello friulano, dovuta forse ad un comune sostrato, come ricordato più su, in 1.2.2. Passando agli aggettivi, è interessante osservare che la maggior parte dei qualificativi penetrati nel resiano risultano indeclinabili, indipendentemente da una loro integrazione morfologica (cf. Steenwijk 1992, 116). Ciò premesso, troviamo rez. dolč ~ friul. dolc’/dolz ʻdolceʼ; rez. fürbast, nad. fúrbast ~ friul./it fùrbo/furbo; nad. štrapacàn ʻstrapazzatoʼ, rikamàn ʻricamatoʼ. Come si vede, quando l’integrazione ha luogo, essa avviene per suffissazione: o mediante -ast, incontrato come -ǝst in Valcanale, o con il suffisso -an del participio passato sloveno, ricalcato su friul./it. -at/-ato. Gli aggettivi in -an presuppongono ovviamente una buona conoscenza del lessico e del sistema verbale/aggettivale del romanzo, per cui è indifferente ricondurli all’infinito o al participio corrispondenti: friul. strapazzâ, ricamâ rispettivamente strapazzât, ricamât.

4.3 Il verbo L’integrazione dei verbi in tutto il dominio qui considerato avviene con un adattamento morfologico collaudato, secondo «formule di conversione automatica» (nella terminologia del Weinreich) tra morfemi indigeni e alloglotti, anche se nella Valcanale i verbi sono di provenienza tedesca. Ecco una serie di prestiti nello ziljsko: cvájfljate ~ ted. zweifeln ʻtentennareʼ, tôlmečate ~ ted. dolmetschen ʻtradurreʼ, ma anche pacúkrate ~ ted. zuckern ʻzuccherareʼ, padhácate ~ ted. heizen ʻattizzareʼ, dove l’integrazione si arricchisce di una

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prefissazione atta a rendere la forma perfettiva del verbo, ravvisabile negli equivalenti dello standard posladiti e podžgati. Nei dialetti della Benecia abbiamo le corrispondenze it. -are, -ire, friul. -â, -î e slov. dial. -ati, -iti o -at, -it: cf. rez. štimät ~ friul. stimâ ʻstimareʼ, rez. kapýt (ma anche kapíjet), ter. kapíti (ma anche kapišáti, dal tema dell’indicativo presente di it. capisc-i, capisc-e) ~ friul. capî ʻcapireʼ. I verbi in it. -ere e friul. -ê/-i sono invece integrati in maniera meno prevedibile, con predilezione per il suffisso -n- (incontrato per i nomi masc. in -i, -o del friulano), teso ad allinearli alla lista in -at(i): rez. parvïdinat, sucëdinat se ~ friul. prevedê, sucédi ʻprevedereʼ, ʻsuccedere/accadereʼ. Assai comune l’inserimento di verbi sentiti come imperfettivi nella coppia imperfettivo-perfettivo, creata sulla base dei primi, con un procedimento produttivo che denota una certa vitalità del sistema ricevente. Limitandoci al solo resiano, emblematico per l’intera area, riportiamo le coppie komadát – pokomadát ʻaccomodare/aggiustareʼ (cf. Baudouin de Courtenay 1895, testi 1006–1007), e vijáwat – viját ʻgettare (via)ʼ (cf. Steenwijk 2005, sotto le voci relative). La seconda coppia è in realtà una formazione autonoma che muove dall’avverbio friul./it. vìa ʻviaʼ, da cui il perfettivo viját, reso imperfettivo dal suffisso -aw- slov. -av-.

4.4 I numerali Un cenno soltanto ai numerali, che rappresentano uno degli aspetti più arcaici dello ziljsko, del rezijansko e del tersko. Per i numerali indicanti le decine da 40 a 90 lo ziljsko usa la parola red ʻfila/ordine di dieci (covoni)ʼ, secondo il sistema carinziano, per cui 60 = šjǝstréd, letter. ʻsette ordiniʼ, a fronte di slov. sedemdeset. Il resiano conosce il sistema vigesimale da 60 a 90, per cui 60 = tri ̯krat dwísti letter. ʻtre volte ventiʼ. Ai tempi di Baudouin, tuttavia, il sistema carinziano, usato anche nella Val Torre, era già in declino. Il Glossario fornisce un gran numero di testimonianze dirette sulla variegata situazione in questo campo, come si può evincere dalle schede 705, 955, 1028, 1412s., 2652 (peraltro non le uniche) in Spinozzi Monai (2009a). Dal punto di vista del contatto, ad esclusione dello ziljsko, che in questo settore appare conservativo, le altre varietà attingono al friulano perlopiù prestiti di numeri alti, e ne ricalcano i costrutti da ʻdieciʼ in su, per cui avremo ter. dužínte ~ friul. dusìnte ʻduecentoʼ e, per ʻtrentunoʼ trídeset œ̨ dą́ , letter. ʻtrenta e unoʼ, invece di dą́ , œ̨ trídeset, secondo slov. enaintrideset (cf. Spinozzi Monai 2009a, 89 – scheda 12).

4.5 Categorie invariabili Quanto alle categorie invariabili della grammatica, generalmente vengono prese di peso: per gli avverbi citeremo zilj. èndlih ~ ted. endlich ʻfinalmenteʼ, ter. almánku ~

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friul. almànku ʻalmenoʼ. Il tersko, comunque, registra anche avverbi di modo tratti da aggettivi d’importazione cui viene aggiunta la desinenza di neutro in -o, secondo un procedimento tipicamente sloveno. Es.: friul. fázzil ʻfacileʼ > ter. fáčilo ʻfacilmenteʼ (cf. Persici 1969, 328). Non mancano strutture ibride, ovvero semicalchi strutturali, come zilj. cvə́ č < cu + və́ č (dove və́ č = slov. več ʻpiùʼ), rifatto su ted. zu viel ʻtroppoʼ. Per le interiezioni citeremo madóna ʻmadonnaʼ, èko ʻeccoʼ, diffuse in ognidove; per le congiunzioni ma, però, inveci (~ friul. invèzzi ʻinveceʼ), altrettanto comuni in tutta l’area.

4.6 Calchi semantici e strutturali Assai frequenti sono i calchi semantici e di locuzione. Qualche esempio dei primi: ter./nad. sinuóvi ~ slov. otroci ʻfigli = figli + figlieʼ, mentre slov. sinovi indica solamente i figli maschi; rez. jïskat 1) ʻcercare (per trovare)ʼ, secondo slov. iskati, ma anche 2) ʻtentareʼ, secondo it. ʻcercareʼ, investito di entrambi i significati. Tra i calchi di locuzione (che trascriviamo in forma semplificata), s’incontrano ovunque espressioni del tipo držati kont + gen., secondo friul./it. tignî cònt di/tener conto di; reči mašo secondo friul./it. dî mèssa/dir messa e via dicendo. La categoria dei calchi (strutturali) di locuzione offre l’occasione per ricordare che è proprio da qui che più facilmente prendono avvio prestiti e calchi semantici: se ne ha riprova dai testi del passato e del presente, che documentano la compresenza di elementi indigeni e forestieri, i secondi atti a tradurre i primi, nell’intento da parte del parlante nativo di aiutarne la comprensione all’interlocutore; oppure, caso tutt’altro che raro, nell’intento di esibire la conoscenza della lingua dell’altro, mostrandogli così la propria solidarietà. Ancor più fondamentali per i fenomeni di interferenza il code-switching nel parlato dei bilingui del livello qui considerato, per un cui inventario rinviamo ai testi illuminanti in Steenwijk (1992, 189–229).

5 Conclusioni Nel concludere il presente lavoro corre l’obbligo di una riflessione sul rapporto tra il quadro emerso dai fatti di interferenza e la situazione reale delle parlate coinvolte. Per dialetti come il tersko, il più colpito dall’influsso del friulano, si è parlato di decesso linguistico e di semiparlanti, sulla base di materiali esplorativi necessariamente circoscritti all’obiettivo da perseguire, e sulla base di liste di parole, anch’esse parziali rispetto all’insieme del lessico distribuito sul territorio. L’intento di simili ricerche è dichiaratamente quello «di studiare i modi del cedimento/cambiamento linguistico e di mettere in luce le costanti generali» (cf. Zamboni 1990, 125). In tale ottica, gli slovenofoni dell’Udinese rispondono appieno all’identikit tracciato per il «semiparlante ideale», che prevede assenza di opzione stilistica, tendenza a sostituire

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costruzioni sintetiche con altre analitiche, oscillazioni ed incertezze di esecuzione, e via dicendo. Tuttavia, dal punto di vista di chi, come la scrivente, durante le sue capillari ricerche sul terreno ha avuto modo di assistere dal vivo all’uso dei dialetti sloveni negli ambiti loro propri, quelli in cui essi affondano le radici socio-affettive – assai più resistenti di quanto non appaia ad uno sguardo dall’esterno –, ebbene, da questo punto di vista tali dialetti si possono definire tuttora vitali. Lo sono nella misura in cui gli elementi esterni sono stati assimilati nel corso del tempo fino a creare un idioma «terzo», sentito come lingua materna e usato con estrema disinvoltura. Ma cessano di esserlo nel momento in cui la presenza, anche di un solo forestiero, fa affiorare nei parlanti la consapevolezza che il loro è un idioma «impuro», di cui doversi quantomeno giustificare, denigrandolo prima che lo facciano altri. Un tale sentimento ricorre in tutti i testi raccolti in quest’area, aventi per argomento la lingua (per il resiano, ad es., cf. Spinozzi Monai 1995a, 86). Così, gli effetti ormai decantati di un’interferenza linguistica inavvertita e indolore si fanno riconoscere brutalmente nel caso di un’interferenza per così dire in carne e ossa, che porta scompiglio, sia pure momentaneo, in una comunità altrimenti paga di se stessa.

6 Chiave di lettura di segni e simboli fonetici Data la disomogeneità delle soluzioni grafico-trascrittorie dei singoli autori, citati nel presente contributo ai fini di un’esemplificazione dei dialetti sloveni del Friuli, abbiamo ritenuto opportuno offrire la lista e relativa descrizione di segni e simboli di meno agevole lettura. Vocali (i segni con base [a] stanno per qualunque vocale): [ā, ă] [ä, a̤] [ą] [aa] [є, ẹ] [œ] [ɷ, ọ] [Ь] [ǝ]

= = = = = = = = =

lunga, rispettivamente breve turbata, ocupa, del resiano (dove [ï/i ̤] viene trascritta anche come [y]) nasalizzata pronunzia estremamente debole della vocale indicata con la lettera in apice [e] chiusa [e] aperta [o] chiusa [i] ultrabreve indistinta

Accenti: [á, , áː] = sillaba lunga, accento tonico ascendente (per il resiano [á] costituisce l’unico tipo accentuale, non melodico) [ȃ, ā,̀ àː] = sillaba lunga, accento tonico discendente ['a, à] = sillaba breve, accento dinamico

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Consonanti: [ƀ] [đ] [c, ʒ] [č, ǯ] [ć, ɟ, t’] [ǵ, d’] [k, g] [h, x, χ] [γ] [ḿ] [] [ȓ] [s, z] [š, ž] [i ̯, j] [u̯, w] [·] ‹~› ‹Ø›

= fricativa bilabiale sonora = fricativa dentale sonora = affricata alveolare sorda, rispettivamente sonora ([c] compare come [z] in zilj. mantelín(i)za, čík·lza, spabadníza, rakaíze) = affricata palatale sorda, rispettivamente sonora = affricata prepalatale (alias postpalatale) sorda = affricata prepalatale (alias postpalatale) sonora = occlusiva velare sorda, rispettivamente sonora = fricativa velare sorda = fricativa velare sonora = nasale bilabiale palatalizzata = nasale alveolare sillabica = vibrante alveolare con intacco uvulare = sibilante alveolare sorda, rispettivamente sonora = sibilante palatale sorda, rispettivamente sonora = semiconsonante palatale = semiconsonante velare = pausa di distacco tra due consonanti = differenza = grado zero

Gli esempi per il resiano compaiono in tre varianti grafiche: la più complessa è riferita a Steenwijk (1992), dove le vocali turbate figurano come [a̤]; quella semplificata si riferisce a Steenwijk (1994) (con le turbate trascritte [ä]), usata da Skubic per tutti e tre i dialetti beneciani (cf. Skubic 2000, 63); e infine quella ancor più essenziale riferita a Steenwijk (2005), con le turbate mantenute come [ä]. Maggiori delucidazioni per gli esempi del tersko tratti dal Glossario di Baudouin de Courtenay si possono trovare in Spinozzi Monai (2009a, 35–72), consultabili aprendo il sito citato nella nostra Bibliografia. Per quanto riguarda gli esempi per il friulano, essendo stati tratti dal Nuovo Pirona, ci limitiamo a ricordare in questa sede che la grafia ivi adottata per le consonanti prepalatali (alias postpalatali), trascritte come [ḱ, ǵ] nell’ambito della dialettologia italiana, e corrispondenti a [t’/ć] e [d’/ǵ] della dialettologia slovena, è ci, gi, cia, gia, cie, gie (cf. Pirona/Carletti/Corgnali 1935, XVIII; per ogni altra questione grafica si vedano le pagine XVI–XX di quel vocabolario). Andrà notato infine che -e finale dei nomi femminili tratti dal Nuovo Pirona è stata da noi sostituita con -a, tipica delle varietà parlate nella fascia slavo-romanza (per questo fenomeno cf. Francescato 1966, 41 e 43; Frau 1984, 110).

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Giovanni Frau

6.2 Tedesco Abstract: Quale conseguenza degli eventi storici e per la posizione geografica del territorio in cui si parla, nel friulano i germanesimi occupano una posizione molto importante. Già attestati con un esempio documentato nel III secolo d.C., il loro numero accrebbe sensibilmente dopo la caduta dell’impero romano con gli insediamenti nella regione di genti gotiche e soprattutto longobarde, seguite dai Franchi. Nuovo impulso ne venne con gli apporti dei numerosi tedeschismi medievali specialmente durante i secoli caratterizzati dal governo di Patriarchi provenienti dalla Germania, né esso cessò nelle epoche successive, anzi aumentò coi contributi derivati dalle periodiche emigrazioni dei Friulani nei Paesi d’Oltralpe fino alla prima guerra mondiale. Una posizione particolare ricoprono i tedeschismi nelle parlate del Friuli orientale, il quale fece parte del dominio asburgico dai primi anni del secolo XVI al 1919. Il presente articolo offre una sintesi dei vari aspetti e momenti, fornendo una serie di esemplificazioni tratte dal lessico comune, dalla toponomastica e dalla antroponomastica. Keywords: contatto linguistico, gotismi, longobardismi, franconismi, tedeschismi

1 Generalità È noto che il Friuli – da sempre considerato porta nord-orientale dell’Italia per la facilità di accesso dai confinanti valichi delle Alpi – rappresenta l’unica regione in cui storicamente si sono insediate e tuttora convivono popolazioni appartenenti ai principali gruppi etnico-linguistici, che nel loro incontro e compartecipazione hanno dato origine – con l’apporto della religione cristiana – a quella che chiamiamo civiltà o mondo occidentale: si tratta dei Latini (nei quali era confluito il fondamentale apporto culturale greco), dei Germani e degli Slavi. Il gruppo di abitanti di gran lunga maggioritario è rappresentato dagli eredi della locale tradizione romanza (friulanofoni e/o venetofoni, tutti ormai anche italianofoni): ad essi nel corso dei secoli si sono aggiunte (a partire dal VI secolo in alcune aree montane del confine e dopo il 1000 nella pianura) genti slave di ceppo sloveno, mentre popolazioni germaniche antagoniste degli Slavi già nel primo medioevo occuparono parte della Val Canale. Risalgono invece ai secoli XIII –XIV le colonie alpine di Sappada (attualmente appartenente alla Regione Veneto, ma storicamente friulana), Sauris e Timau (cf. per uno sguardo d’insieme Pellegrini 1972, 53–91). Rispetto agli slavismi i germanesimi occupano un ruolo preminente nella storia della lingua friulana specialmente fra le componenti del lessico da appellativi comuni.

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1.1 Stato della ricerca In calce alle pagine introduttive a Il sonziaco Ugo Pellis annotava: «[u]n mio lavoro sugli elementi germanici vedrà, spero, la luce fra non molto» (Pellis 1910–1911b, 4). Ai germanesimi del friulano, ma limitatamente alla varietà orientale del Goriziano («Isonzofriaulisch» o «sonziaco» per usare la sua terminologia) egli aveva dedicato la sua manoscritta tesi di laurea viennese (Pellis 1909–1910), opera utile, ma criticabile per l’eccessivo peso dato ai (supposti) germanesimi: ad essa Pellis aveva fatto precedere – e farà seguire pubblicandoli su periodici vari – alcuni contributi etimologici intorno a singole parole. L’annunciato «lavoro» non fu mai compiuto. Prima di Pellis si incontrano solo cenni sporadici alla nostra tematica in autori, che fra ’700 e ’800 (quindi in una fase prescientifica per la nostra disciplina) si erano occupati di lingua friulana, quali Giusto Fontanini, Jacopo Pirona, Giandomenico della Bona (cf. Cescutti 2008, 32–44, 85–95), con la proposta di elenchi di parole e di etimologie non sempre attendibili; in gran parte fidabili sono invece le spiegazioni di Gartner (1883, 13–23 limitatamente ai riferimenti friulani). Solo con la tesi patavina di Casarsa (1953–1954) – rientrante nel programma ideato da Carlo Tagliavini rivolto a illustrare i dialetti italiani specie settentrionali (per le varietà friulane del progetto cf. Frau 2010a, 56, nota 12) – troverà una prima realizzazione l’opera auspicata da Pellis sui germanesimi del friulano. Un anno prima Battisti (1953, in particolare 17–21, 30– 41) e Marchetti (41985, 50–60, ma la prima edizione risale al 1953) pubblicheranno delle sintesi sul tema. Argomento analogo alla tesi di Casarsa sarà fatto oggetto della dissertazione di Moretti-Rieder (1970), priva tuttavia di novità. Negli anni successivi seguiranno il poco fidabile elenco sui tedeschismi di Bulfoni (1974), la tesi di laurea udinese – limitata ad un paese – di Crosilla (1976–1977), quindi la fondamentale indagine di Faggin (1981), l’importante contributo di Orioles (1983), altre tesi udinesi, quale l’ampio compendio di Fabbro (1985–1986) o le più ristrette indagini di Candoni (1993–1994) e De Sanctis (1993–1994), per arrivare a Frau (1999), Heinemann (2007) e Frau (2008). Non mancano lavori settoriali, quali la tesi sulla toponomastica di Fantini (1979–1980), la ricerca sull’onomastica di più antica tradizione germanica di Kribitsch (1986) e la ricerca su analogo argomento di Rossi (1987–1988) (le ultime tre citate indagini si fondano sugli spogli dei fondamentali schedari di Corgnali A e di Corgnali T). Per una aggiornata rassegna bibliografica di sintesi sui germanesimi cf. inoltre Heinemann/Melchior (2011, 98–102) e Videsott (2011, 319s.).

1.2 Limiti cronologici Sebbene siano molto pochi i prestiti germanici documentati dagli autori latini, la loro eventuale comune presenza nelle attuali lingue romanze (escluso il rumeno, che fa storia a parte) autorizza a ritenerne certa l’introduzione nella lingua volgare già prima della caduta dell’impero d’occidente specialmente per opera dei veterani germanici

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che avevano militato sotto le insegne di Roma per poi stabilirsi nei suoi territori. All’apporto degli accatti linguistici avrà contribuito sicuramente anche un sia pur minimo interscambio commerciale, favorito per il nostro territorio dalla sua particolare collocazione geografica e dal ruolo svolto da Aquileia, cerniera fra i flussi economici e culturali nei vicendevoli rapporti con l’oltralpe. Per la storia linguistica del friulano (come delle altre lingue) risultano però interessanti non le voci germaniche ricevute col tramite del latino comune o altomedievale o successivamente dell’italiano (per una sintesi cf. Bertoni 1914), ma quelle che sulla base della analisi scientifica fondata su documentazioni storiche, norme fonetiche o di linguistica areale si possono considerare rappresentative della sua identità lessicale. Resta comunque difficile – se non talora impossibile in assenza di adeguati strumenti – stabilire la cronologia dei prestiti e la conseguente loro attribuzione stratigrafica: in effetti chi può dire se il verbo [friulano] barufâ ‹accapigliarsi› vada ricollegato direttamente al longobardo b i - h r o f f i a n , o piuttosto al medio-alto-tedesco b e r ü e f e n o semplicemente all’italiano ‹baruffa›? (Marchetti 41985, 50).

Uguale osservazione può valere per le parole bancje ʻbancaʼ, borc ʻborgoʼ, gratâ ʻgrattugiareʼ, robe ʻcosaʼ, spacâ ʻspaccareʼ, che – pur di sicura origine germanica – assieme a molte altre consimili – non possono essere attribuite ad una precisa epoca della germanizzazione. È comunque possibile proporre una periodizzazione generale che tenga distinti alto medievo (con gotismi, longobardismi, franconismi), epoca tardo medievale (dall’anno 1000 all’avvento della Repubblica di Venezia nel 1420), epoca moderna fino alla cessazione del dominio della Serenissima e periodo del governo austriaco.

2 L’alto medioevo Un prestito germanico entrò nel latino aquileiese già prima che con la fine dell’impero d’occidente si aprisse l’epoca medievale: si tratta della voce brût ʻnuoraʼ – attualmente ancora di larga diffusione nel friulano – documentata nella forma di dativo latinizzato bruti in una epigrafe dedicatoria di Aquileia databile al III sec. d.C., in cui si legge Iuliae / Speratae / an(norum) XXII / Iul(ia) Secund(a) / socr(us) bruti / pientissime ʻalla nuora (bruti)ʼ (cf. Zamboni 1969, 134s.). Il termine – al quale corrisponde il tedesco moderno Braut – penetrò pure nella Gallia transalpina e nella Rezia, come attestano i moderni francese bru ed engadinese brüt (DESF 276).

2.1 Il periodo gotico Considerato che poco numerosi furono gli Eruli ed altre popolazioni germaniche venute in Italia con Odoacre nel 476, si può affermare che il primo apporto germanico

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di un qualche rilievo al latino aquileiese (matrice del friulano) sia stato quello del regno degli Ostrogoti di Teodorico (494–555), parte dei quali rimasero in Italia anche dopo la sconfitta dei Goti ad opera del bizantino Narsete, fondendosi con le preesistenti popolazioni romane e successivamente coi nuovi venuti Longobardi. Il breve periodo del loro dominio unito ad una presenza demograficamente debole e priva di prestigio culturale lasciò solo poche tracce linguistiche, fra le quali hanno particolare visibilità i toponimi (noti anche ad altre regioni d’Italia) provenienti dall’etnico goticum quali Godia presso Udine (attestato come de Godig dal 1170) oltre che in Comune di Corno di Rosazzo, e Godo di Gemona, mentre pochi (non sempre ristretti al solo friulano) sono gli appellativi di sicura attribuzione, primo fra tutti il tipico sedon ʻcucchiaioʼ derivabile da *SKEITHO con uguale significato (Pellegrini 1986, 138–140). Ad esso si aggiungano agagn ʻgranchio, crampo, contrazione spasmodica di un muscoloʼ, forse deverbale del gotico WANKJAN ʻvacillare, ritirarsi, piegareʼ (DESF 28), bearç ʻterreno cinto vicino alla casaʼ (ma forse di tramite longobardo, cf. Pellegrini 1970, 149–152), brotule ʻgarzuoloʼ, ʻmanipolo di tiglio di canape o di lino pettinato e netto del quale le donne formano il pennecchio sulla roccaʼ attestato dal 1257 (cf. BR UT ʻgermoglioʼ (DESF 27), glove ʻbiforcazione di Piccini 2006, 120) fatto derivare da *BRUT un ramoʼ da KLUBA (Fabbro 1985–1986, 15), lami ʻinsipidoʼ da *LAMIJS ʻfiacco, spossatoʼ (RG 276; Pellegrini 1970, 146), gli antichi guadia, uadia, wadia ʻspese pecuniarie civili, dette anche multeʼ e il corrispondente verbo wadiare ʻpromettere, garantireʼ (attestati rispettivamente dal 1291 e dal 1290, cf. Piccini 2006, 488) dal verbo WADJON (cf. Pellegrini 1970, 144s.), infine smalfïâ ʻgualcire palpeggiando; brancicareʼ (NP da GAMALWJAN ʻmaciullareʼ, cf. Heinemann 2007, 135).

2.2 I Longobardi Nel 568 i Longobardi di Alboino posero termine alle loro migrazioni attraverso l’Europa insediandosi definitivamente nel territorio dell’antica Forum Iulii (oggi Cividale del Friuli), ponendovi la base per l’espansione in gran parte d’Italia, dove diedero vita ad un Regno durato fino all’arrivo dei Franchi nel 774. Il governo longobardo – durato per più di due secoli – rappresenta uno fra gli eventi più significativi per la storia della regione e in particolare della lingua friulana: ad essa però i Longobardi diedero un contributo quasi esclusivamente lessicale, senza interferire sulla sua struttura morfo-sintattica e tanto meno senza minacciarne mai l’esistenza a favore di una possibile longobardizzazione. Al contrario – nonostante il loro ruolo assolutamente dominante sul piano socio-politico – furono proprio i Longobardi che, attratti dal superiore prestigio della civiltà con la quale erano venuti a contatto, dopo un periodo di bilinguismo finirono per snaturalizzarsi, assorbendo lingua e cultura neolatina. Secondo Wartburg (1950, 146) tuttavia l’influsso linguistico da loro esercitato non si sarebbe limitato al lessico, ma avrebbe interessato anche il sistema vocalico del friulano. Ci riferiamo a uno dei tratti principali dell’individualità lingui-

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stica del friulano, caratterizzata da uno speciale vocalismo, la cui struttura si fonda sull’opposizione di quantità vocalica (per cui ad esempio si distingue fra lât ʻandatoʼ e lat ʻlatteʼ): per Wartburg tale opposizione sarebbe dovuta all’influsso dell’accento germanico (ovvero longobardo), di tipo intensivo, fortemente dinamico. L’ipotesi però non è né di facile, né tantomeno di sicura dimostrazione come sostengono pure Francescato/Salimbeni (22004, 104–106), secondo cui il processo evolutivo si sarebbe manifestato già in epoca tardo imperiale, ricevendo poi dai Longobardi soltanto un impulso secondario.

2.2.1 Prestiti longobardi nel lessico da appellativi I prestiti longobardi entrati nel lessico comune italiano ammonterebbero a circa 280 unità (cf. Bonfante 1977). Nel lessico friulano di appellativi ne è presente una cospicua rappresentanza in parte comune ad altre varietà dialettali e/o all’italiano letterario. Come già osservato (cf. 1.2), in mancanza di documentazione idonea non è sempre possibile definire l’epoca di introduzione dei termini germanici e la precisa matrice etnico-linguistica di provenienza. In alcuni casi tuttavia l’analisi linguistica e/o areale, unita alle attestazioni documentarie, consente di individuare longobardismi friulani tipici – in quanto presenti solo nel nostro idioma – quali bleon ʻlenzuoloʼ riconducibile al longobardo BLAHJÔ (Pellis 1910–1911a) ʻpezzo di tela grossolanaʼ (DESF 232s.) e cecje, zecje (NP 112: cécie, zécie con z sorda) ʻzecca comuneʼ da ZEKKA (Pellegrini 1970, 148s.). Di provenienza longobarda sono alcuni termini d’uso quotidiano (parzialmente conosciuti anche da altri dialetti) attinenti la sfera semantica della casa compresi gli oggetti domestici come balcon ʻfinestraʼ, brédul ʻsgabello, predellino di legno, seggiolinoʼ da brëdel ʻkleines Brettʼ, gasi ʻcucitura a spinaʼ, fara ʻfamiglia immigrataʼ (a Barcis) al quale corrisponderanno più toponimi, giàide ʻfalda dell’abito maschileʼ da GAIDA ʻqualcosa a forma di puntaʼ, nape ʻcappa del caminoʼ da NAPP ( J ) A ʻnasoʼ, patele ʻstriscia di panno sovrapposta alle tascheʼ e patelon ʻpezzo quadro sul davanti dei calzoniʼ (le due ultime voci risultano desuete) da PAITA ʻGewandʼ, etc. Per l’ambito del mondo agricolo citiamo bâr ʻpartita del carroʼ, bare ʻcatalettoʼ, barele ʻcarretta a due ruoteʼ (DESF 156, 167), blàcie ʻbelletta, melmaʼ, farc ʻtalpaʼ (NP 296) accostabile a *FAR ( H ) O ricostruito sull’antico alto tedesco FAR ( H ) A ʻporcoʼ (Pellegrini 1983, 508), pline ʻnumero di buoi necessari per un aratroʼ, scjaton ʻbordone delle penne nascoste degli uccelliʼ, stoc ʻgambo d’erba falciata stoppiaʼ da STOK ; per le parti o aspetti del corpo grinte ʻrugaʼ, sgrìmie ʻfisionomiaʼ, sgrife ʻartiglioʼ. Citiamo inoltre qualche aggettivo come garp ʻasproʼ, lami ʻinsipidoʼ, ruspi ʻruvidoʼ e una serie di verbi con connotazione affettiva od onomatopeica quasi tutti caratterizzati da s- inziale: sbisiâ ʻfrugareʼ, sbrovâ ʻscottare con l’acqua bollenteʼ, brovâ, sbrovâ ʻimmergere una cosa nell’acqua bollenteʼ (NP 947) da BREOWAN , slapâ e slapagnâ ʻmangiare imbrattandosiʼ da SLAPPÔN , etc. (RG 132–169; Battisti 1953, 30–40; Pellegrini 1970, 142–153).

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2.2.2 Toponomastica longobarda Notevole risulta pure la presenza di una consistente serie di toponimi longobardi sparsi su tutto il territorio della regione. Tralasciando i numerosissimi derivati da BRAIDA ʻpodere vicino alla casaʼ – nella stragrande maggioranza di tradizione indiretta e secondaria, perché il termine, divenuto appellativo friulano comune, ha prodotto toponimi in tutte le epoche – a titolo esemplificativo si possono elencare continuatori (alcuni attestati solo nelle fonti antiche) di BINDA ʻfascia (di terreno)ʼ (Bindiš, Bindan, Pìndia, etc.), BIUNDA ʻterra recintataʼ (Pion, Piunc più luoghi), blahha ʻterra neraʼ (Blachis, Blacje, etc.), il significativo FARA (cf. supra, 2.2.1) ʻcorpo di spedizioneʼ, ʻluogo di insediamento di un nucleo longobardoʼ (Farella, più Farra, Farla), GAHAGI ʻbanditaʼ, ʻterreno riservatoʼ (Gaio, Giais, Giaieda, Giaiut, etc., in alcuni casi celati dalla forma italianizzata Gallo), SALA ʻcasa di campagnaʼ (Sala, Sale a Buia, Treppo Grande e Forni di Sotto), SCULCA ʻposto di vedettaʼ, ʻpattuglia di esplorazioneʼ (Corgula, Scorca più toponimi), SNAIDA ʻincisione su alberi per indicare confineʼ (Fenade e Sinate più luoghi), STAFFAL ʻpalo di confineʼ, ʻcippoʼ (non pochi toponimi del tipo Staffala, Staffalota, Stafful, Stafula, etc.) e altri (cf. Frau 1970, 169–179). L’approfondimento dell’indagine toponomastica consentirà sicuramente di riconoscere altri toponimi longobardi, come è avvenuto di recente per il nome del paese Chiopris, fatto risalire all’antroponimo Teopertus o Teupert (cf. Frau 2010b, 277s.). La copiosa presenza di nomi comuni e specialmente di toponimi longobardi vanifica – per quanto affascinante – la teoria di Gamillscheg (RG 178–180, 269–274), secondo il quale la speciale individualità del friulano si dovrebbe alla neoromanizzazione operata da genti latinizzate provenienti dal Norico – e che quindi non avevano conosciuto l’apporto dei longobardismi – spinte a trasferirsi nella nostra regione sotto la pressione di altre popolazioni. Il nostro territorio difatti offriva ampie aree abbandonate dagli abitanti Latini e Longobardi costretti a sfuggire per le ripetute invasioni degli Avari fra il 610 e il 663 e poi degli Ungari. Ma i nuovi dati linguistici oggi disponibili (cf. Frau 1970; Pellegrini 1970) – che Gamillscheg non poteva conoscere – e varie altre considerazioni (cf. Francescato/Salimbeni 22004, 107–110) non consentono più di accettare tale ipotesi.

2.3 Prestiti franconi Per quanto attiene l’apporto alla storia linguistica del friulano dovuto ai Franchi vincitori dei Longobardi nel 774, si deve ripetere quanto già osservato per il periodo gotico: demograficamente irrilevante e di durata relativamente breve, la loro presenza non potè contribuire se non molto marginalmente alle vicende della nascente lingua friulana, lasciando ad essa solo pochissimi prestiti (RG 278–283) – in parte comuni con l’Italia Cisalpina – riferibili alla sfera bellica, quali uaite o vuaite ʻguardiaʼ da connettere con WACHTA , vuere (NP uère) da WERRA e confanon o confenon passato dal

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significato di ʻgonfaloneʼ a quello di ʻpapaveroʼ (NP 179) da GUNDFANO ʻbandieraʼ (cf. Pellis 1911–1912, 49; RG 281; REW 3918) per via della somiglianza degli ampi petali con uno stendardo, inoltre l’antico termine blâf ʻbiavo, azzurroʼ e forse nome di una stoffa, attestato dal 1396 (NP 1340) da ricondurre a BLAO latinizzato in BLAVUM (REW 1153, DESF 29s.) e trop ʻgreggeʼ da THORP con analogo significato (RG 278).

2.3.1 Toponomastica francone Per la toponomastica non conosciamo denominazioni di matrice francone all’infuori dei luoghi del tipo Castions e simili, forme di origine francone soprattutto per via dell’originario suffisso -illion (cf. Frau 2001a, 736–738).

3 Antroponimia germanica antica Un ruolo importante nella storia dei rapporti fra mondo romanzo friulano e mondo germanico già nell’alto medioevo e soprattutto nei secoli del Patriarcato tedesco spetta all’antroponimia, in parte perduta, in parte conservata dalle forme cognominali moderne (cf. Costantini/Fantini 2011). Bisogna preliminarmente avvertire che se è abbastanza facile riconoscere le forme di introduzione tedesca (altomedievale) – perché spesso supportate da attestazioni scritte – non altrettanto si può dire per i nomi di persona gotici, franconi e longobardi. La difficoltà deriva anche dal fatto che questi ultimi sono stati ereditati e fatti proprii dalla successiva antroponimia tedesca finendo per fondersi in essa, per cui solo una precisa cronologia documentata dalle fonti e/o perspicui dati linguistici possono renderci sicuri sull’epoca dell’introduzione e quindi sull’originaria appartenenza etno-linguistica dei vari nomi. Per un panorama complessivo sull’antroponimia friulana di matrice gotica, longobarda, franca da una parte e tedesca medievale dall’altra si rinvia rispettivamente a Kribitsch (1986) e a Rossi (1987–1988). In assenza di dirette attestazioni documentarie coeve di nomi di persona gotici, franconi e longobardi, possiamo tentare in qualche modo di ipotizzare una loro già antica esistenza muovendo da fonti scritte risalenti alle epoche immediatamente posteriori o dai cognomi moderni.

3.1 Antroponimia di matrice gotica Fra i cognomi attualmente in uso si possono collegare ad etimi gotici forme quali Caimo (a Mortegliano già nel 1300) risalente ad HAIMO , a sua volta da HAIMS ʻcasaʼ (cf. Förstemann 21900, 731), Sguerzi (cf. Nicolao Werçio nel 1272) da ÞWAÍHRS ʻadiratoʼ, quindi ʻbiecoʼ poi ʻguercioʼ (cf. Kribitsch 1986, 61s.). Si aggiungano alcuni nomi antichi come Johanne Aspan (nel 1234) da *HASPA ʻarcolaioʼ, Johannes Glube (ad Attimis

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nel 1341) da GLOBA (cf. 2.1), Johannes Stecca (nel 1293 a Marsùris) da STIKKA ʻbastoneʼ, Cibertus dal radicale GIB che si ritrova in GIBAN ʻdareʼ (cf. Förstemann 21900, 630), BAR A ʻuomoʼ, oltre alla consistente schiera dei personali in -ric Jacomo Beran da *BARA collegabili al formante gotico REIKS ʻpotenteʼ quali Hendrigonis nel 1336, Indrici nel 1336, Indrì nel 1533, etc., conservatisi nell’odierno cognome Dri e derivati (cf. Kribitsch 1986, rispettivamente 58, 61s., 64s., 60, 72, 80, 84–86), etc.

3.2 Antroponimia di matrice longobarda Fra le forme longobarde attestate nei documenti ricordiamo i personali derivati da BAR A (Barelli più appellativi ancora vivi nel moderno friulano (cf. supra, 2.2.1) quali BARA BLAH HA (cf. Nicolao Blache nel 1344, etc.), BLEON (Ricardinus nomi dal 1260 a Gemona), BLAHHA Blajonus nel 1275 a Cividale, etc.), BRAIDA (molti Breda documentati dal 1318; Braida e BR AND derivati sono oggi cognomi molto diffusi, ma scarsamente significativi, cf. 2.2.2), BRAND ʻspada lucenteʼ (cf. Jacobus Prandonis nel 1288 a Gemona), GAHAGI (Giaiat nel 1491), GASTALT (Gastaldo è cognome corrente, attestato dal 1550 a Cividale), HARIMANN (Armani è cognome attuale, già Armanus dal 1393 a Udine), WÎZZ ( J ) A (Jeronimus Guiz a Cividale dal 1498): per le attestazioni si rinvia a Kribitsch (1986, 80, 93, 98s., 125, 101s., 155s., 94). A questi va aggiunta la lunga schiera dei cognomi di tradizione longobarda – ma quasi sempre filtrata dalla posteriore tradizione onomastica medievale, per cui, come s’è più volte osservato, è molto difficile stabilire l’effettiva matrice del prestito – comuni al repertorio antroponimico italiano, quali i tanti Bernardi (a. 1276 Pernardus de Clusa, cf. Rossi 1987–1988, 81) e simili, Berto e derivati (Bertoia dal secolo XV ), Bertoni, Contardo (Contardi dal 1338), Gandolfo (già Gandulfo nell’anno 1000, cf. Kribitsch 1986, 120–124, 135s.), Manfredi (cf. Manfredo de Porcillis dal 1297, Rossi 1987–1988, 138) e Stolfo (cf. Zuan Stolf nel 1355, Kribitsch 1986, 160s.). Le forme come Pertoldi, Pìttolo e simili (cf. Frau 1997) o gli antichi Pernardus Prandonis, etc. mostrano ancora l’originaria fisionomia longobarda per via del mantenimento della p iniziale.

3.3 Antroponimia di matrice franca Più esigua risulta la serie degli antroponimi di possibile diretta provenienza francone, poiché anche essi – come quelli gotici e longobardi – entrarono a far parte del ricco patrimonio antroponimico germano-tedesco medievale, dal quale in gran parte furono tràditi. A titolo esemplificativo citiamo gli odierni cognomi Bargagna (cf. Johannes dictus Bargagna a Udine dal 1333) connesso col verbo *BORGANJAN ʻhandelnʼ, italiano ʻbargagnareʼ, ʻmercanteggiareʼ, Beltrame (a. 1444 Beltram a Basiliano) dal personale francone latinizzato B ERTRAMNUS col significato originale di ʻrisplendente corvoʼ, Bis (cf. Leonardo Bisi a Gemona nel 1408) da BISI ʻgrigioʼ (cf. Kribitsch 1986, rispettivamente 187, 203–205, 184), Botto (Bot a Udine dal 1018) connesso col francone BUTO

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ʻcolpoʼ (cf. Rossi 1987–1988, 92), teoricamente i molti Carli e derivati (specie se con forma palatalizzata come Nicolo Zarly nel 1330, Çarle nel 1338 a Maniago, Zarli e Çarli nel 1413 e 1422 a Buia, Çarluty nel 1426) dal personale francone Karl a sua volta dal germanico KARL ʻuomo di condizione liberaʼ, Lenardo (Di -), Lenart e derivati (Lenardan nel 1390 a Mortegliano) da un personale di tradizione francone Leonard (Kribitsch 1986, rispettivamente 196s., 210s.), inoltre gli antichi Blave e Blavet (rispettivamente a Cividale nel 1374 e a Gemona nel 1401) da BLÂO ʻbluʼ, Brant (a Cividale dal 1331) da BRAND ʻspada lucenteʼ, Johannes Guayte (nel 1400 a Gemona) da WACHTA (cf. 2.3), Henricus Maresalch (a Cividale nel 1397) da MARH - SKALK - ʻservitore del cavalloʼ (cf. Kribitsch 1986, rispettivamente 183, 124s., 182s., 185s.), etc.

4 L’epoca tardo medievale Il periodo più fertile per l’adozione di prestiti di matrice germanica (che ormai possiamo definire «tedeschismi») fu senz’altro quello corrispondente al governo medievale del Patriarcato di Aquileia, che dall’imperatore ottenne nel 1077 il riconoscimento di stato autonomo durato fino al 1420, quando subentrò la Repubblica di Venezia. Questi secoli conobbero almeno fino al 1250 una quasi continuativa presenza di Patriarchi di estrazione tedesca, coadiuvati da una corte feudale e da un apparato amministrativo di uguale provenienza. Non ne conseguì tuttavia una possibile tedeschizzazione del Friuli, perchè la sua azione rimasta circoscritta ai palazzi dei nobili non fu sostenuta dalla compresenza di classi popolari contadine, artigianali e mercantili tedesche, assenti a causa della scarsità di risorse economiche del territorio. All’epoca la lingua e la cultura di maggior prestigio circolanti nella corte patriarcale e nei circoli feudatari parlavano tedesco. Ciò non esclude che per ragioni di convenienza e/o di necessità anche una parte del popolo friulano rappresentato da commercianti, locandieri, trasportatori, etc. ne possedesse una conoscenza magari di livello colloquiale e limitata alla terminologia dei settori di competenza, come sicuramente avveniva a Gemona, città di transito dei traffici verso settentrione, dove vigeva l’istituto del niderlech (ovvero l’obbligo di sosta di tutte le merci in entrata ed in uscita e di almeno un pernottamento dei conducenti), privilegio di natura economica concesso alla città, che comportava continue occasioni di contatto con i viaggiatori da o per paesi di lingua tedesca. Perciò «non appare più strano che negli istrumenti e nei diplomi redatti in latino quando un termine viene chiarito in volgare, quel ʻvolgareʼ sia talora il friulano, ma spesso anche il tedesco (Sicut in vulgari dicitur sellen… […]; qui vulgo dicitur morgengab; uti dieneswip …» (Marchetti 21974, 109; per sellen ʻconsegnareʼ, ʻinviareʼ e dieneswip o dienestwîp ʻragazza che fa da servaʼ cf. Lexer 1992; per morgengab – attestato quale morgengrab [sic!] dall’anno 1242: cf. Piccini 2006, 238 – latinizzato in morgengabium ʻdono che lo sposo faceva alla sposa dopo la notte nuziale, più tardi assegno vedovileʼ, si rinvia a Fabbro 1985–1986, 204).

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4.1 Prestiti tedeschi medievali nel lessico da appellativi Il settore sicuramente più ricco dei tedeschismi penetrati nel friulano durante l’epoca tardomedievale specialmente nei secoli dei Patriarchi di estrazione germanica è rappresentato dagli appellativi comuni, una presentazione esauriente dei quali esula dai limiti del presente contributo: ci limitiamo perciò a proporne un quadro soltanto esemplificativo. Va preliminarmente avvertito che il flusso dell’interferenza germanica sul friulano – sia pure con fasi alterne – dai tempi dei primi contatti non si è mai interrotto neanche durante il dominio della Serenissima (1420–1797), incrementato a più riprese dall’emigrazione dei Friulani nei paesi di lingua tedesca e dal periodo di amministrazione austriaca durato pochi decenni nel Friuli già veneto, per molti secoli (dal 1550 alla fine della seconda guerra mondiale) nella parte orientale della regione – corrispondente all’incirca all’odierna Provincia di Gorizia – dove risulta concentrato il maggior numero di tedeschismi. Nell’accostarsi a una loro sia pure sommaria illustrazione si deve considerare l’aspetto della cronologia al fine di distinguere almeno in generale fra parole entrate nell’età patriarcale e prestiti delle epoche successive, problema non sempre risolvibile. Si potrà comunque ricorrere, quando i singoli casi lo consentano, a criteri linguistici (soprattutto fonetici), documentari (da fonti scritte), areali e più genericamente storico-culturali (questi ultimi per i neologismi creati dall’innovazione tecnica, da particolari usi giuridici e/o amministrativi e così via). Non sempre agevole inoltre è stabilire il percorso dell’introduzione dei prestiti, che può essere avvenuta per via diretta (migrazioni e/o rapporti socio-economici) o indiretta, cioè col tramite di altre lingue in particolare dello sloveno (specie nel Friuli austriaco). Ininfluente invece va considerato sul versante dei tedeschismi nel friulano il contatto (quasi esclusivamente unilaterale: dal friulano alle parlate germanofone locale) con le popolazioni delle citate oasi di Sappada, Sauris, Timau (cf. paragrafo 1); uguale osservazione vale per paesi mistilingui della Valcanale già appartenenti all’Impero austro-ungarico (Pontebba, Ugovizza, Malborghetto, Valbruna, Tarvisio, Camporosso e Fusine; per una sintesi sulla situazione linguistica di questo territorio si veda, da ultimo, Frau 1991b). Un primo gruppo di tedeschismi, dei quali può dirsi certa l’introduzione perlomeno dall’età medioevale, è rappresentato dalle parole già documentate nelle carte di quell’epoca. Alcune di esse ebbero vita breve finendo per scomparire, altre si sono ben acclimatate nel lessico comune tanto da conservarsi fino ai giorni nostri. Fra le voci scomparse citiamo clenodiis ʻgioielliʼ (documentato dal 1366, cf. Piccini 2006, 170s.), da confrontare col tedesco moderno Kleinode, galaytum ʻaccompagnamentoʼ, attestato dal 1300, dal medio alto tedesco geleite (cf. Heinemann 2007, 137), mume e mumo ʻziaʼ (dall’anno 1355), riconducibile al medio alto tedesco muome (Frau 1991, 349), frisachensi (dal 1176) in quanto moneta coniata a Friesach (cf. Frau 2008, 131), seiter ʻboccaleʼ (documentato dall’anno 1367), per cui si rinvia al tedesco corrente Seidel (cf. Corgnali 1965–1967, 286), strit ʻlitigioʼ (dal sec. XIV ), per cui si veda il tedesco moderno Streit, etc.

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Le voci di matrice tedesca – se non da precedente origine germanica – già attestate nei documenti medievali e conservatesi fino ai giorni nostri (per un quadro complessivo si rinvia a Frau 2008, 119–129, 135s.) rientrano prevalentemente nella terminologia di un settore che potremmo definire genericamente «domestico», legato cioè alla vita di ogni giorno. Cominciamo col citare il nome di un cibo, cioè ame ʻspalla del maiale salata e affumicataʼ (NP 12), noto dall’anno 1260, già medio alto tedesco hamme (cf. Corgnali 1965–1967, 266s.); aggiungiamo alcuni termini riguardanti parti della casa come gater ʻinferriataʼ dall’anno 1350 (cf. Marchetti 1933, 181), da accostare all’antico alto tedesco gataro (cf. Fabbro 1985–1986, 82s.), pruc ʻsgabelloʼ o simile (NP 816) con documentazioni dal 1368, per cui cf. il bavarese bruck ʻspecie di pedana di legno davanti alla stufaʼ (cf. Corgnali 1965–1967, 276–279), rincj, rincje, ʻanello od anche gancioʼ (NP 879: rincʼ, rìncie) documentato dal 1437 (cf. Piccini 2006, 398), ma – considerata la presenza della palatalizzazione nella forma attuale – riportabile almeno all’antico medio alto tedesco rinke ʻfibbiaʼ, ʻfermaglioʼ (cf. Pellis 1909–1910, 43.3); inoltre cramer ʻmerciaio ambulanteʼ (con crame ʻcassettaʼ in cui il merciaio ambulante porta la sua merce: NP 193), già attestato in forma di personale (Benvenutus Cramarius) dal 1307 (Piccini 2006, 188), collegabile con il medio alto tedesco krâmeare ʻmerciaioloʼ (cf. Orioles 1983, 294), steure, oggi limitato al Goriziano (e noto ad altri dialetti, specialmente del Trentino), ma con documentazione friulana risalente già al 1361 (cf. Piccini 2006, 455), da confrontare col moderno tedesco Steuer ʻimposta, tributo, tassaʼ (cf. Fabbro 1985–1986, 306), etc.

4.2 Toponomastica tedesca medievale Durante il medioevo la tedeschizzazione del nostro territorio ottenne particolare visibilità anche con l’apporto della toponomastica (per un quadro complessivo cf. Fantini 1979–1980), sia attraverso l’adattamento di forme romanze preesistenti o col ricorso a traduzioni o ad allomorfi (per lo più di uso cancelleresco e di diffusione limitata, perciò destinati a scomparire), sia soprattutto con la creazione di nuovi, caratteristici nomi di fisionomia germanica. Rientrano nel primo settore gli esempi di Aglaar per ʻAquileiaʼ, Klemaun ʻGemonaʼ (fra i casi di adattamento), Gutenbrunn ʻFontanabuonaʼ, Oesterich ʻCividaleʼ, da CIVITAS AUSTRIAE AUSTR IAE (per le traduzioni), Peitscheldorf per ʻVenzoneʼ, Schönfeld al posto di ʻTolmezzoʼ, etc. (che sono allomorfi: sulla polimorfia toponimica della regione, comprendente le aree plurilingui, cf. Desinan 1977, 155–167). Il gruppo più interessante è però rappresentato dalle neoformazioni generalmente conseguenti a costruzioni di edifici da parte della nobiltà germanica d’oltralpe. Si tratta in origine soprattutto di roccheforti o castelli, la cui denominazione passò poi a designare i centri abitati sorti intorno ad essi e ancora oggi esistenti (questi nomi sono stati studiati ed illustrati soprattutto da Frau 1969). Essi si possono raggruppare fra toponimi con formanti in -berg (italianizzato in -bergo) e -stein (oggi ufficialmente

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-stagno), significanti ʻcastelloʼ ovvero ʻluogo fortificatoʼ, e nomi di altra origine (da personale, collegati alla morfologia del luogo e così via). Alcuni di essi risultano documentati soltanto dalle fonti scritte medievali come Ahrenberg o Arensperch sulla strada Cividale-Pulfero attestato dal 1146, Grozumberch fra Gemona ed Ospedaletto (1222 quod colles de Glemona et de Grozumberch) da gross ʻgrandeʼ, Satimberc (anno 1190) nel territorio di Venzone, collegabile col tedesco Schatten ʻombraʼ; altri corrispondono a luoghi – in parte divenuti paesi importanti – quali Prampero, oggi anche nome di famiglia, da collegarsi con Brand ʻdissodamento ottenuto col fuocoʼ, Solimbergo già Soneberch nel 1149, dall’antico alto tedesco sconi ʻbelloʼ, ʻlucenteʼ, Spilimbergo, con doppia, coeva tradizione archivistica delle forme antiche (Spilimbergo e Spengenberch), che farebbe pensare alla presenza di due distinti castelli dai nomi riconducibili rispettivamente al medio alto tedesco spinge ʻnome di uccelloʼ o spengel ʻfalcoʼ e spigel ʻluogo di vedettaʼ (cf. Lexer 1992). Fra i meno frequenti toponomi in -stein (da -STAIN in origine ʻ(casa) di pietraʼ) si segnalano Partistagno fra Attimis e Racchiuso e Ravistagno presso Montenars, per la prima parte rispettivamente dall’antico alto tedesco berht ʻbrillanteʼ e dal medio alto tedesco raben (cf. Lexer 1992) ʻcorvoʼ. Alla citata, tipica serie dei toponimi in -berg e -stain c’è da aggiungere il gruppo dei nomi di varia origine tedesca medievale, quali Flambro, paese posto fra Codroipo e Mortegliano confrontabile col personale Flampraht (Förstemann 21900, 408), Strassoldo (in Comune di Cervignano) verosimilmente da strasse ʻstradaʼ e da hou, hau ʻparte del bosco dissodataʼ, Valvasone sulla destra del Tagliamento forse dai medio alto tedeschi wal ʻcumulo di terraʼ e waso ʻpratoʼ, etc., per i quali si rinvia a Frau (1969).

4.3 Antroponomastica tedesca medievale Dell’influsso culturale esercitato dal mondo tedesco durante il medioevo in Italia è testimone anche la straordinariamente ricca presenza di antroponimi germanici nei documenti medievali posteriori all’anno 1000, che in Friuli assume una rilevanza particolare, sia per la maggiore diffusione che i nuovi nomi introdotti dalla nobiltà di stirpe ultramontana ebbero nel nostro territorio, sia specialmente per la originalità di alcune forme, meno diffuse o sconosciute al resto della Penisola. Così accanto agli usuali continuatori e derivati di Corrado, Federico, Guglielmo, Lodovico, Raniero, etc., nei documenti medievali friulani incontriamo numerose – ignote o rare altrove, ma da noi parzialmente perpetuatesi fino ad oggi –, quali Amalricus, Asquinus (rimasto nel cognome Asquini) da aska (cf. Förstemann 21900, 147) ʻfrassinoʼ, Artuicus (si confronti la forma attuale Artico) da harda e viga (cf. Förstemann 21900, 749, 1576) quindi ʻforte lottatoreʼ, Fulcherius (oggi Furchir) da fulca e hari (cf. Förstemann 21900, 547 e 760) ovvero ʻesercito del popoloʼ, Hengilpretus, Kanzil, Lanfrit, Maginardo dal 1397 dall’antico alto tedesco magan ʻpotenzaʼ e harda ʻduroʼ (cf. Förstemann 21900, 750, 1071) continuato dai diffusi odierni cognomi Mainardi, Mainardis, etc. Marquardus

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(cfr. Marquardo a Cividale dall’anno 1191 e l’odierno cognome Marquardi) da marca e vardu (cf. Förstemann 21900, 1094, 1538) cioè ʻcustode del confineʼ, Mondolo dall’alto tedesco mund ʻdifesaʼ, Odalricus (a Moggio già dal 1152) connesso con l’antico alto tedesco uodal ʻpatriaʼ (cf. Kribitsch 1986, 171s.), da cui gli odierni cognomi Durì, D’Odorico, Odorico, etc., Pupon, Sigardus, Sivridus, Valterus, Veningarius, Wecillus (oggi Vezzil o simili) e moltissimi altri.

4.3.1 Antroponomastica tedesca di più recente introduzione Anche nei secoli successivi al medioevo l’antroponimia friulana continuò ad arricchirsi del contributo dell’elemento tedesco conseguente a nuove correnti di migrazione e alla nascita di nuove professioni, le quali diedero origine a un’interessante serie di cognomi – in gran parte d’uso corrente – derivanti da appellativi che indicano mestieri o etnici a conferma dell’importante ruolo ricoperto durante i secoli dai mai interrotti contatti di natura lavorativa e commerciale con l’oltralpe germanico. A riguardo citiamo (riportandone la forma italianizzata) un esemplificativo gruppo di cognomi in -ero (con pronuncia sdrucciola) quali Clonfero da klampfer ʻlattoniereʼ forma dialettale del tedesco austriaco Klampfer (cf. paragrafo 5), Cramero, Cremaro (corrispondenti al moderno Krämer ʻmerciaioʼ) già Cramarius dal 1307 (cf. 4.1), Cucchiaro (cf. il tedesco moderno Kutscher ʻcocchiereʼ), Maiero (in tedesco Meier ʻfattoreʼ, già ʻsindacoʼ), Snaidero e Snider (tedesco moderno Schneider ʻsartoʼ), Sostero da Schuster ʻcalzolaioʼ e così via; inoltre i cognomi da etnici Bisaro e Sbaisero cioè ʻSvizzeroʼ, Londero (forse abitante del Land oppure nel significato di ʻgirovagoʼ, dal verbo dialettale ländern ʻandar vagandoʼ), Paiero (da collegare col tedesco letterario Bauer ʻcontadinoʼ o con coronimo Bayern) già Payer nel 1327 (cf. Marchetti 1934, 92), gli antichi Suap, Svup (dal 1381 a Cividale) ʻsvevoʼ (cf. Kribitsch 1986, 110) per non dire dei tantissimi Tedesco, Todesco e derivati. C’è da aggiungere infine che alcune forme oggi diffuse su una più vasta area provengono dal contatto con le aree germanofone della Regione, come nel caso di Buffon, Bulfon o simili – attestati come esiti romanzi di Wolfgang già in documenti del ’500 provenienti dalla Valcanale – o di Puicher, cioè abitante della località Puiche ʻ(luogo del) faggioʼ, che è uno dei borghi di Sappada.

5 Tedeschismi dell’epoca moderna Il numero dei prestiti tedeschi accolti dal friulano anche dopo la fine dello Stato patriarcale aquileiese, divenuto territorio della Repubblica di Venezia nell’anno 1420, è considerevole. L’epoca e la via di introduzione delle singole parole mutano naturalmente di volta in volta, né – come per i periodi precedenti – in assenza di sicure attestazioni documentarie scritte possono essere determinate con certezza. È lecito

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tuttavia tenere separate almeno le voci che presumibilmente risalgono ai primi secoli dell’era moderna da quelle riferibili al periodo dell’amministrazione austro-ungarica dell’Ottocento o conseguenti alle più recenti emigrazioni. Un capitolo a parte andrà riservato alle voci tipiche del solo Friuli orientale, le quali riflettono – come s’è già annotato – la lunga epoca di sudditanza di quel territorio agli Asburgo. Il primo gruppo di questa vasta mole di materiali, che raccoglie le voci di origine tedesca d’epoca relativamente più antica, si può dividere in ampi settori semantici riguardanti la terminologia della casa (ovvero della vita domestica in senso lato, quindi anche degli abiti), dei cibi, delle piante, degli animali, dei mestieri e annessi attrezzi, dei pesi e misure, del divertimento, oltre alle parole per aggettivi, verbi e concetti astratti. Cominciando dalle voci appartenenti alla sfera semantica della «casa» (inserendovi parti o tecniche costruttive e, più generalmente, le espressioni della vita domestica) citiamo brito ʻedificio abitato temporaneamenteʼ in Carnia, probabilmente con tramite tirolese, accostabile al medio alto tedesco brët ʻasseʼ (DESF 269), clanfe ʻgrappa, spranga di ferro, ripiegata […] che serve a collegare armature di traviʼ, etc. (NP 159) dal carinziano klampfer o dal tedesco bavarese austriaco klampfe ʻgrappa, rampinoʼ (DESF 414); acarli ʻuncinetto per lavori donneschiʼ probabilmente dal bavarese austriaco häckerle (DESF 11), vignarûl ʻditaleʼ (NP 1257) adattamento di una voce dialettale connessa col tedesco letterario Fingerhut (cf. Fabbro 1985–1986, 259s.); i nomi di due contenitori, cioè il puç sorta di ʻborracciaʼ dal carinziano putsch di identico significato (cf. Marcato 1984, 191) e la raine a San Daniele ʻcatino di terracotta per uso di cucinaʼ dal carinziano reine (cf. Orioles 1983, 301); infine il (relativamente) recente (dall’Ottocento) spoler o spolert con la variante goriziana spargher ʻcucina economicaʼ, da Sparherd di uguale significato (cf. Marchetti 41985, 55). Per la terminologia degli indumenti menzioniamo appena chitil (Isonzo) ʻgiubba troppo corta e stretta, in senso dispregiativoʼ (NP 1349) dal tedesco Kittel ʻcamiciotto, blusaʼ (cf. Fabbro 1985–1986, 219) e coth ʻspecie di giubbotto tipico dei zattieri della Val Cellinaʼ, da avvicinare a consimili voci dell’altobellunese, dal tirolese kotzen ʻtessuto grezzo di lanaʼ (cf. Pellegrini 1984, 61). Più consistente appare il gruppo dei nomi rientranti nel settore della culinaria, per lo più di introduzione abbastanza recente. Ricordiamo fra gli altri il verbo clumpî ʻispessire il brodo con farinaʼ (NP 163) dal tedesco klumpen ʻformare grumi, raggrumarsiʼ (cf. Pellis 1909–1910, 18.3), cui sono da aggiungere alcune denominazioni di forme di pane o di dolci come chifel ʻsorta di paninoʼ (NP 120) da confrontare col tedesco Kipfel ʻcornettoʼ, ʻspecie di dolceʼ (cf. Pellis 1909–1910, 18.1), struzze ʻforma di pane a pasta molle, assai lungaʼ a Udine, dal carinziano strutz ʻtipo di paneʼ o dal tirolese strutz’n (cf. Fabbro 1985–1986, 253); inoltre il caratteristico ghiringhel ʻmerenda o pasto in allegra compagniaʼ (NP 375), che si fa derivare dal tirolese geringel ʻgirotondoʼ (REW 3741) e sgnape o snops (NP 1031, 1072) corrispondente al tedesco Schnaps ʻacquaviteʼ (cf. Fabbro 1985–1986, 268), ’zuf ʻfarinataʼ, ʻpolentaʼ (NP 1323) dal tedesco medievale suf, noto pure al ladino dolomitico (cf. Heinemann 2007, 131), etc.

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Non mancano nomi di piante mangerecce come per esempio bescher ʻsusina, prugnaʼ (NP 52,149), tedeschismo tipico del friulano, da Eberesche ʻsorbo selvaticoʼ (DESF 207), calarabi ʻcavolo navone, rutabagaʼ (NP 92, 1269), anche esso limitato al friulano, da collegare al tedesco Kohlrabi ʻcavolo rapaʼ (DESF 295), il carnico cartufule ʻpatataʼ (NP 106, 716), evidente prestito dal tedesco Kartoffel (DESF 315), lufe o ufe ʻluppoloʼ (NP 534, 1242, 1248) dal tedesco Hopfen (REW 4175.2.), etc. Fra le denominazioni delle piante non commestibili vanno ricordati almeno condrede ʻedera terrestreʼ (NP 178) dal tedesco Gundelrebe con lo stesso significato (REW 3917), dane ʻabete biancoʼ (NP 225, 25) che richiama il tedesco Tanne (cf. Fabbro 1985–1986, 224), elbai ʻstella alpinaʼ, adattamento del tedesco Edelweiß (cf. Pellegrini 1974, 5), etc. Il settore degli animali risulta invece scarsamente rappresentato. Si segnalano comunque i termini blausin ʻsparvieroʼ (noto ad Ampezzo), forse da connettere coll’antico alto tedesco blauuz ʻfalco lanariusʼ per il colore azzurro (DESF 231), crot ʻranaʼ e crote ʻrospoʼ (NP 200, 624), conosciuti da parlate ladine e venete, da riscontrare col tedesco Kröte (se non già direttamente dal medio alto tedesco krot, cf. Lexer 1992), cute ʻcapra adulta con cornaʼ, limitato alla variante di Clauzetto, forse dall’antico alto tedesco cutti ʻmandriaʼ, ʻgreggeʼ (cf. Rizzolatti 1980, 116), sturlic, nome di uccello noto come ʻpiro-piroʼ e pure ʻtonto, scioccherelloʼ (NP 770, 1143), dall’omonimo termine bavarese (cf. Pellis 1909–1910, 58.3), etc. Appartiene alla sfera semantica dell’attività lavorativa (mestieri, attrezzi) un cospicuo numero di parole (alcune di esse furono introdotte verosimilmente all’epoca dell’emigrazione più recente, cf. 5.1). Tipico tedeschismo friulano è cjalzumit ʻnorcinoʼ (NP 121) da un termine connesso col tedesco moderno Kaltschmied ʻaggiustapentoleʼ (DESF 343), nome di mestiere, al quale aggiungiamo slosser ʻmagnanoʼ (NP 1054) da confrontare col tedesco Schlosser ʻfabbroʼ. Fra i nomi degli attrezzi e connessi ricordiamo la cracse ʻgerlaʼ dal tirolese krax’n, krax ʻgerlaʼ o ʻcavalletto che viene portato sulla schienaʼ (cf. Marcato 1984, 187) e la rêfe ʻsorta di gerla per trasportare a spalla in montagna legna o altro materialeʼ (NP 859), come il precedente noto ad altri dialetti dell’Italia settentrionale, collegabile col tedesco Reff ʻgerlaʼ (REW 7153); infine slaif ʻmartiniccaʼ (NP 1049) dal tedesco Schleif(zeug) con uguale significato e snizzil ʻforaggio tritato per i cavalliʼ (NP 1062) da collegare al verbo schnitzeln ʻtrinciareʼ (cf. Fabbro 1985–1986, 246, 251). Ben rappresentato risulta il settore delle monete e delle misure con numerosi prestiti (oggi per lo più desueti) che – inizialmente adottati dal Goriziano – si diffusero in parte anche in altre aree della regione. Primo fra tutti va ricordato proprio il nome generico per ʻdenaroʼ, cioè bêçs – ancor oggi ben noto a tutto il Friuli – già designazione anche di una moneta veneziana che valeva mezzo soldo (NP 53: bêz), probabilmente dalla forma svizzero-tedesca bätze, a sua volta dal medio alto tedesco betz ʻpiccola monetaʼ (DESF 212); inoltre clincars o clingars e slincars ʻsoldi, quattriniʼ – usato specialmente al plurale clincars quale voce scherzosa e gergale – connesso col verbo tedesco klingen ʻ(ri)suonareʼ, i desueti fenig ʻquattrinoʼ chiaramente da Pfennig ʻcentesimo di marcoʼ (cf. Faggin 1981, 260s.), svanzighe ʻsvanzica, lira austriaca da venti

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soldiʼ (NP 1154) da Zwanziger ʻmoneta da ventiʼ, etc., tutte voci diffuse anche in altri territori dell’Italia settentrionale. Indicavano varie forme di misure parole quali claftar ʻmisura austriaca di lunghezzaʼ (m. 1,90) adoperato nel Friuli orientale fino al 1876 (NP 1353) dal tedesco Klafter ʻcatastaʼ (cf. Pellis 1909–1910, 17.2) e funt ʻlibbraʼ di nuovo nel Goriziano (NP 358), evidentemente da Pfund, etc. Per quanto riguarda il divertimento, ricordiamo perlomeno il nome di alcuni balli come bolz, bolze, bolzare, valz ʻvalzer o mazurca; ballo in genereʼ (NP 64, 1256) dal bavarese austriaco bols, bolsere, corrispondente a Walzer (attestato in tedesco dal 1760), noto ad altri territori dell’Italia settentrionale (DESF 281), inoltre staiare nome di ballo popolare, deformazione da Steier(mark) regione dell’Austria. Traendoli dallo scarno gruppo degli aggettivi, citiamo gli esempi di farflutar ʻmaledettoʼ da verflucht (cf. Marchetti 41985, 55), lusper ʻvivace, irrequietoʼ a Clauzetto (cf. Rizzolatti 1980, 117) collegabile col medio alto tedesco lustbaere (cf. Lexer 1992), mentre il più usuale alustic o lustic ʻallegro, mattacchioneʼ o simile (cf. Marchetti 41985, 55) deriva direttamente da lustig, penetrato pure in altri dialetti dell’Italia settentrionale (DESF 55s.), ruig come interiezione per dire ʻsta zitto, sta fermo!ʼ dal tedesco ruhig (cf. Marchetti 41985, 55), etc. Fra i verbi annoveriamo bailâ ʻaffrettarsiʼ (NP 31), che è un tedeschismo tipico del friulano della Carnia, da (sich) beeilen ʻaffrettarsiʼ (cf. Marchetti 41985, 55), sirucâ o zirucâ ʻrinculareʼ connesso con sirùc o zirùc ʻindietro e si usa per far rinculare i cavalli e buoi attaccatiʼ (NP 1047, 1314), dal tedesco dialettale ziruck per zurück ʻindietroʼ (cf. Pellis 1909–1910, 46.4), slofen specie nell’espressione lâ a slofen ʻandare a dormireʼ (NP 1054), da schlafen ʻdormireʼ, etc. Non sono molti neppure i nomi riferibili a concetti astratti, fra i quali asse ʻuggia, nimistàʼ (NP 23) accostabile al tedesco Hass ʻodioʼ (DESF 115), snait ʻcoraggioʼ, avvicinabile al tedesco Schneid con lo stesso significato (cf. Faggin 1981, 266s.), sluc ʻsorsoʼ, da Schluck (cf. Faggin 1981, 266), sproc ʻlingua parlataʼ, ʻparlantina, facondiaʼ da una forma dialettale del letterario Sprache (cf. Marchetti 41985, 55), l’esclamazione tartaifel ʻal diavoloʼ, cioè der Teufel (cf. Marchetti 41985, 55) e così via.

5.1 Tedeschismi della emigrazione Un rilevante numero di tedeschismi (talora di durata e circolazione areale limitate) penetrarono nel friulano dopo la caduta della Repubblica Veneta in seguito ai rinnovati contatti con l’ambiente di lingua tedesca. Essi sono dovuti non tanto al non lungo periodo di amministrazione austriaca (inoltre non continuativa) sul Friuli già veneziano fra il 1797 e il 1866 (nel Friuli orientale il dominio degli Asburgo instaurato in pratica nel 1500 cessò soltanto con la fine della 1ª guerra mondiale), quanto ai nuovi flussi emigratori incrementatisi dopo che la Regione nel 1866 entrò a fare parte del Regno d’Italia. Come per i precedenti tedeschismi non è sempre agevole – in mancanza di attestazioni letterarie o di adatti strumenti linguistici – datare con precisione i prestiti entrati in questa epoca. Tuttavia la conoscenza di alcuni elementi storici ci

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consente in alcuni casi di fornire una plausibile approssimata cronologia. Sapendo ad esempio che folte schiere di fornaciai friulani, per lo più stagionali, si diressero continuativamente verso la Germania e i paesi dell’Austria-Ungheria negli ultimi decenni dell’Ottocento e fino allo scoppio della prima guerra mondiale potremo riportare a quei tempi prestiti come acordant ʻassuntore d’operai emigranti, spec. fornaciaiʼ (NP 4), parola esclusiva del friulano da (Ziegel)akkordant ʻchi prende accordi (per i mattoni)ʼ (cf. Orioles 1983, 279), palîr ʻcapo operaio, assistente nelle imprese di costruzioneʼ (NP 686) da Polier ʻcapomastroʼ (cf. Marchetti 41985, 55), prenar ʻfuochistaʼ, ʻfornaciaioʼ dal dialettale prenner (cf. Orioles 1983, 298) collegato col letterario Brenner (cf. Marchetti 41985, 55), etc. A questi termini va unito un manipolo di voci attinenti il lavoro dei boscaioli quali bauf ʻgrido usato dai boscaioli della Carnia a indicare che un lavoro si sospendeʼ, etc. (NP 46), riconducibile a pass auf ʻattenzione!ʼ o al tirolese paufâ (DESF 186), loita a Barcis ʻpunto di scaricoʼ nella fase di scivolamento verso valle dei tronchi (NP 531) dal tirolese loite, loit ʻcanale di tronchi d’albero, in cui viene fatto scivolare a valle il legnoʼ, rucias ʻsolco naturale per il quale si fa scivolare a valle il legnameʼ, tipico di Vito d’Asio, da confrontare col tedesco Rutsche (cf. Pellegrini 1984, 66, 69). Citiamo infine il significativo lasimpon ʻterra stranieraʼ, noto ad altri dialetti, che riflette la pronuncia dialettale di Eisenbahn ʻferroviaʼ (cf. Faggin 1981, 262) e richiama pure l’attività svolta da molti friulani nella costruzione di grandi ferrovie europee; ad esso si collega la parola sinis ʻrotaieʼ, d’area anche triestina e veneta, prestito del tedesco Schiene con uguale significato (cf. Marchetti 1985, 55). I viaggi (spesso a piedi) e i soggiorni degli emigranti nei paesi d’oltralpe favorirono l’introduzione di parole come prossac ʻtascapaneʼ (cf. Faggin 1981, 265), russac ʻzainoʼ, da confrontare rispettivamente con le voci del tedesco letterario Brotsack ʻtascapaneʼ e Rucksack ʻzainoʼ (cf. Faggin 1981, 265s.), sachimpac ʻzaino, sacco da viaggioʼ (NP 911) da Sack und Pack ʻarmi e bagagliʼ della terminologia militare (cf. Pellis 1909–1910, 48.1; Casarsa 1954, 72; Fabbro 1985–1986, 243), alpestoc ʻbastone da montagna, piccozzaʼ, cioè Alpenstock (cf. Faggin 1981, 258); inoltre chelare ʻcameriera di birreriaʼ da Kellnerin ʻcamerieraʼ non esclusivo del friulano, crichil ʻbicchiere di birraʼ (cf. Marchetti 41985, 55), connesso con Krügel, come l’ampezzano crighel ʻmezzo litro di birraʼ (cf. Kramer 1984, 259) e così via.

5.2 Tedeschismi dell’amministrazione austriaca Si saranno introdotte durante il periodo di governo austriaco sull’intero Friuli alcune parole (oggi in disuso) acclimatatesi prevalentemente nel Goriziano quali ameldâsi ʻiscriversi (presso qualche ufficio)ʼ (NP 12) da (sich) anmelden d’analogo significato (DESF 61), cost nell’espressione vivi a cost ʻvivere a dozzinaʼ (NP 191) da Kost ʻvitto, pensioneʼ, da cui costir ʻdozzinante, pensionanteʼ (cf. Faggin 1981, 260), noto anche all’ampezzano (cf. Kramer 1984, 257), lot ʻmisura di peso austriacaʼ da lot ʻpiombinoʼ

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(cf. Pellis 1909–1910, 36.2) e così via. Allo stesso periodo andranno riportate voci appartenenti alla terminologia militare a cominciare da befel ʻcomandoʼ, ʻintimazioneʼ da Befehl ʻordine, comandoʼ (cf. Faggin 1981, 259; DESF 197), per proseguire con cavalerist (attestato dal 1864) ʻsoldato di cavalleriaʼ proveniente da Kavallerist, feldpater ʻcappellano militareʼ, riconducibile nella prima parte al tedesco Feldkaplan, recrut ʻreclutaʼ, come il tedesco Rekrut, l’ordine recsum ʻdietro front!ʼ da rechtsum kehrt (cf. Faggin 1981, 259, 261, 265). Viene qui indirettamente anche il termine tretars (al plurale) ancora usato per ʻscarpe da calcio (football)ʼ dal tedesco popolare Treter ʻscarpa(ccia)ʼ, poi ʻscarpe dei soldatiʼ (cf. Frau 2001b).

5.3 Tedeschismi del Goriziano Il lungo periodo della dominazione austriaca durato più di quattro secoli fino al 1918 favorì l’introduzione nel Goriziano di molte parole (cf. Pellis 1909–1910; De Sanctis 1993–1994) in parte ignote al resto del Friuli. Così, per esempio, ai prestiti della culinaria già elencati (cf. paragrafo 5) si possono aggiungere almeno prezl ʻspecie di ciambella per la quaresimaʼ (NP 1388) da avvicinare a Brezel ʻciambella salataʼ (cf. Pellis 1909–1910, 41.3), smirchês ʻqualità di formaggio teneroʼ (NP 1397) da Schmierkäse ʻformaggio da spalmareʼ (cf. Marchetti 41985, 56) e zemel ʻpaninoʼ dal bavarese austriaco sem(e)l ʻpanino, rosettaʼ accostabile al letterario (ma diffuso prevalentemente nel bavarese) Semmel (cf. Pellis 1909–1910, 65.4). Si riferisce infine a vari settori semantici una serie di termini sparsi, quali floska ʻschiaffoʼ dal dialettale viennese flazka, noto anche al triestino (cf. Pellis 1909–1910, 26.1), fraula ʻragazzaʼ (fràule secondo NP 343, fràila per Marchetti 1985, 56), adoperato anche in altri territori già appartenenti all’Austria, evidentemente da Fräulein (Pellis 1909–1910, 26.3), ringhespîl ʻgiostra, caroselloʼ dal tedesco austriaco Ringelspiel con significato simile (cf. Faggin 1981, 265), slinga ʻcorreggia, stringaʼ (NP 1053) da Schlinge ʻnodoʼ o simile (cf. Pellis 1909–1910, 53.3), etc. Fra i tedeschismi friulani (specialmente quelli tipici del Goriziano) ce ne sono alcuni che possono avere conosciuto il tramite sloveno e in questo caso si dovrebbero considerare più propriamente slovenismi: citiamo appena gli esempi di pec ʻfornaioʼ (NP 721) dallo sloveno pek, a sua volta dal tedesco Bäcker (cf. Štrekelj 1890, 74), chibla ʻmastellettoʼ dallo sloveno kîbla a sua volta connesso col tedesco Kübel (cf. Pellis 1909–1910, 18.1), clep ʻpagnottaʼ (NP 1353, 682) da hleb, collegato col tedesco Laib ʻforma di formaggio o di paneʼ (cf. Pellegrini 1978, 35). Non sempre però è agevole stabilire – in assenza di dati sicuri – l’effettiva consistenza del prestito, come nei casi di mesnar ʻscaccinoʼ (NP 593), sloveno meznar da Mesner con identico significato, sintar ʻscorticatoreʼ (in altre aree del Friuli ʻaccalappiacaniʼ: si confronti NP 1395) identico allo sloveno, corrispondente al tedesco letterario Schinder (cf. Pellegrini 1978, 36, 76), etc. Per il caratteristico termine licôf ʻpasto che il proprietario dà di regola agli operai occupati nella costruzione di un edificio, quando giungono al

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copertoʼ (NP 521) si può invece escludere il ricorso al tramite sloveno likovo, perché derivabile direttamente dal medio alto tedesco litkouf – cioè ʻcompera del lit, che era una sorta di mosto di meleʼ (cf. Corgnali 1965–1967, 330s.) – sia per ragioni fonetiche (mantenimento di -f finale), sia soprattutto perché attestato nel friulano già dal 1332 (cf. Piccini 2006, 287). Può tuttavia verificarsi anche il caso inverso, come nella parola panfriulana comat (NP 173), noto anche alle aree ladine, documentata dal 1402 (cf. Piccini 2006, 175), che è sì un prestito dal medio alto tedesco komat, a sua volta però derivato dallo sloveno chomatŭ, passato al tedesco nel sec. XII (cf. Fabbro 1985–1986, 170). Simili incertezze esistono per altre parole, per esempio per pocâ ʻcozzareʼ e pocade ʻcozzataʼ (NP 786) circoscritti alla sola nostra regione, accostabili al carinziano pocken, ma probabilmente col tramite sloveno (cf. Štrekelj 1890, 484). Quantunque pressoché ininfluenti sulla lingua comune, per desiderio di completezza dedichiamo infine un breve cenno allo scarno capitolo dei tedeschismi affioranti dai gerghi creati nella nostra regione: si tratta dei linguaggi delle venditrici di utensili da cucina in legno (ovvero delle sedonaris, le cucchiaiaie della Valcellina) e degli stagnini di Tramonti studiati da Pellis (1930) e recentemente riconsiderati in parte da Marcato (1981–1982). I termini rientranti in questo raggruppamento sono nel complesso molto pochi, ancora meno numerosi quelli di derivazione sicura, per cui ci limitiamo a darne un breve elenco esemplificativo, nel quale inseriamo bocera ʻacquaʼ del gergo delle sedonaris (cf. Pellis 1930, 78) collegabile con Wasser, clain ʻpocoʼ, ʻpiccoloʼ come l’omofono tedesco (cf. Marcato 1981–1982, 156), milic e milicaria ʻlatteʼ, evidentemente accostabile a Milch, infine tecar ʻuomoʼ, ʻcontadinoʼ, ʻclienteʼ dal tirolese togger, togker ʻuomo stupidoʼ (cf. Marcato 1981–1982, 156). Alla fine di questa amplia, ma incompleta trattazione sui tedeschismi nel friulano si deve valutare correttamente la loro effettiva importanza per il lessico friulano corrente. In realtà il loro ruolo, storicamente importante, va oggi ridimensionato, perché molte voci – se non già scomparse – hanno attualmente una vitalità e circolazione limitata. Un’auspicabile approfondita indagine porterebbe a constatare da una parte l’indebolimento dei prestiti più recenti e di area ristretta, dall’altra la resistenza dei più termini panfriulani acclimatati da secoli nel nostro vocabolario, che nel corso dei secoli hanno contribuito a renderlo più speciale col loro ricco, originale apporto.

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6.3 Veneto Abstract: Nel presente contributo si intende descrivere e commentare l’insieme delle varietà venete presenti nella regione Friuli Venezia Giulia (il veneto coloniale, il veneto originario e il veneto di contatto o di confine), ponendole altresì in relazione con gli altri idiomi del repertorio linguistico, nella fattispecie il friulano e l’italiano. Keywords: dialetti veneti, friulano, italiano, plurilinguismo, contatti linguistici

1 Introduzione Giuseppe Francescato, a proposito del «trilinguismo dialettale» tipico di alcune aree della nostra regione, così si esprimeva: «Forse tanti friulani non hanno saputo interpretare convenientemente i molti avvisi della Società Filologica Friulana ‹Furlans, fevelait furlan› che una volta erano diffusi un po’ dappertutto. Ma se ben avessero meditato sull’enorme lavoro, anche scientifico, oltre che, naturalmente, affettivo e di tradizione, che rappresenta la conservazione del nostro parlare, si sarebbero accorti che i cartelli avevano ben ragione di essere. E, intendiamoci, si doveva ben comprendere che detti cartelli, nell’invitare i friulani a parlare Friulano, non li invitavano affatto a trascurare l’Italiano, che è pur sempre la loro lingua, e neppure il Veneto, che, malgrado sia considerato da molti, forse a torto, bastardo e poco simpatico, ha pure il suo buon diritto a vivere e le sue brave ragioni di interesse per il linguista. Anzi, è proprio per questo che in Friuli vediamo oggi in svolgimento uno dei fenomeni più interessanti che si possono sottoporre alla considerazione della linguistica: l’incontro, cioè, contemporaneo, di tre linguaggi differenti, con tutti i problemi e le questioni che questo incontro comporta. Vale la pena dunque di considerare rapidamente quale sia la situazione che attualmente si presenta in Friuli dal punto di vista linguistico, situazione, dicevamo, profondamente interessante» (Francescato 1955, 7).

Con entusiasmo e rispetto per uno dei più autorevoli Maestri della linguistica friulana raccogliamo qui l’invito a passare in rassegna le vivaci presenze del veneto, di matrice difforme, che, come vedremo, hanno nel tempo instaurato un rapporto differenziato con le altre varietà del repertorio, in specie con il friulano e l’italiano. Il veneziano si afferma come codice di prestigio in seguito alla conquista del Friuli da parte della Repubblica di Venezia (1420). Esso si propaga per lo più tra le élites aristocratiche, la nobiltà di toga e l’alta borghesia friulana. La sua diffusione presso gli altri strati sociali intermedi avanza invece gradualmente in concomitanza con la crescita del settore terziario e con l’emergere della media e piccola borghesia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo (per una trattazione storica d’insieme rinviamo senz’altro a Francescato/Salimbeni 1976 e ai densi contributi in Finzi et al. 2002). L’influenza del veneto agisce anche secondo direttrici diverse: da un lato emerge la sua pressione sui dialetti della campagna, più marcata quanto più ci si accosta al

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confine occidentale, dall’altro Venezia irrompe linguisticamente nei centri cittadini della regione generando quella frattura tra città vs. campagna su cui molti si sono già pronunziati. A titolo esemplificativo ricordiamo che Pellegrini e Francescato avevano avuto più volte modo di ribadire come l’assunzione di tale varietà da parte dei parlanti fosse percepita come uno strumento di promozione sociale tanto da assumere, in epoca postunitaria, il ruolo di lingua-ponte verso l’idioma nazionale. Analogamente avevano puntualizzato come soprattutto nei centri urbani tale parlata si affiancasse via via al friulano, collocandosi però nella fascia alta del repertorio linguistico della comunità, vuoi come conseguenza del prestigio detenuto da questa varietà vuoi per l’antico radicamento della venetofonia in alcune aree laterali della regione. Il profilo delineato appare chiaro: il veneto è assunto come prima lingua da borghesi e nobili e nel contesto cittadino (sebbene Udine aderisca a tale convenzione a partire dal XX  secolo); il friulano è inteso come idioma familiare, circoscritto diatopicamente a precise aree della regione e diastraticamente a precise comunità (famiglia, contado, etc.). Tale differenziazione funzionale ha provocato nella regione una situazione di plurilinguismo in cui aree venetofone si sovrappongono ovvero si accostano ad aree friulanofone (in alcuni centri come Pordenone e Latisana il veneto soppianta completamente il friulano nel corso del XIX  secolo). Una dinamica analoga si verifica lungo il territorio litoraneo orientale, come ben sottolinea Pellegrini (1960, 1), in cui l’antico idioma, il tergestino, equiparabile al friulano, è sostituito da uno di tipo veneto, il triestino: «È ben noto che la regione di Trieste con Muggia (e forse con territorî a sud di Muggia, ivi compresa Capodistria), rappresentava ancora alla metà del secolo passato una propaggine dell’area linguistica friulana in terra giuliana in via di totale assorbimento ad opera del dialetto veneto».

Una utile e accreditata distinzione che riguarda le varietà venete in Friuli Venezia Giulia contempla da un lato il veneto coloniale e dall’altro il cosiddetto veneto originario, a questi va altresì aggiunto il veneto di contatto o di confine (Ursini 1988; Marcato 2002; 2005). Le varietà nella nostra regione riconducibili alla fortunata coniazione di «coloniale», che ricalca il Colonial Venetian postulato da Bidwell (1967), non rappresentano lo sviluppo di una autonoma parlata romanza, bensì la stratificazione su sostrati romanzi (non veneti) e più in là, ovvero in Istria e in Dalmazia, su sostrati slavi (sloveni e croati). Anche Folena (1968–1970), discutendo del veneziano «de là da mar», fa riferimento all’area altoadriatica in Istria, in Dalmazia e oltre, inquadrandola però in un’ampia e articolata prospettiva di storia linguistica e culturale, tra Medioevo ed età moderna, correlata agli itinerari commerciali e della colonizzazione, in cui l’espansione di Venezia assume un ruolo decisivo. Attualmente questo tipo è esemplificato dalle parlate presenti nei centri urbani (Udine, Cividale, Spilimbergo, Palmanova e Trieste con alcune specifiche distinzioni), attualmente in progressiva regressione di fronte all’avanzata dell’italiano.

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Preservano un tipo veneto non sovrapponibile a quello di espansione coloniale i dialetti circoscritti in alcune aree della costa, quali il gradese a Grado (Gorizia) e il maranese a Marano Lagunare (Udine) per i quali si ipotizza per l’appunto un’antica continuità delle condizioni storiche e culturali con il litorale veneto. Una varietà più difficile da ascrivere a un tipo preciso è il cosiddetto bisiàc o bisiac(c)o, la parlata veneta dell’area collocata nel retroterra di Monfalcone entro l’ansa compresa tra il corso terminale del fiume Isonzo e il Carso, nota anche con la denominazione di Bisacarìa o Territorio (in friulano il teritori). Il veneto di contatto o di confine è invece quel veneto che, serpeggiando lungo la fascia occidentale dell’area friulana al confine con il Trevigiano con centro a Sacile, ha finito per emarginare o scalzare completamente le originarie parlate friulane, erodendone qua e là gli spazi funzionali. Va inoltre segnalato che la vitalità delle diverse parlate venete del Friuli Venzia Giulia registra oscillazioni continue. Se il triestino mostra una accentuata popolarità, tanto da assumere le funzioni di un italiano regionale, il veneto udinese è in forte crisi, tanto da lasciare il passo alla varietà nazionale, in specie tra le giovani generazioni; il veneto gradese e maranese nonché il bisiac(c)o, pur sottoposto a forte pressione triestina, con riflessi sulla lingua, attestano invece una buona tenuta, presumibilmente dovuta a uno spiccato senso di appartenenza comunitaria dei parlanti, nonostante l’incalzante pressione sia del triestino sia dell’italiano. Qualunque sia il tipo di veneto, è doveroso ricordare che di recente il governo regionale si è pronunziato in favore di una tutela delle comunità interessate, raccogliendo anche aspri dissensi: la legge regionale n. 5 del 17/2/2010 dal titolo «Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella regione Friuli-Venezia Giulia» è infatti volta alla promozione di tale ricco e peculiare patrimonio linguistico che concorre significativamente a una giusta e organica definizione del plurilinguismo regionale. Appare evidente da questo inquadramento che il friulano mostra non trascurabili influssi del veneto (e successivamente dell’italiano): l’area veneta, anche prima dell’annessione del Friuli ai domini della Repubblica di Venezia, rappresenta un punto di riferimento naturale per i contatti commerciali e culturali e funge da tramite per i rapporti (sia pure, per estesi periodi, non molto intensi), con il resto d’Italia. La contiguità geografica con il veneto ha senza dubbio favorito l’ingresso di venetismi specie nel friulano occidentale, ma il prestigio del veneto e del veneziano in modo particolare, nonché la presenza del veneto coloniale, «paracadutato» nei centri urbani friulani dopo la conquista del 1420, hanno determinato una cospicua occorrenza di venetismi nel friulano in generale (sull’adeguamento fonetico dei prestiti e sull’incertezza dell’attribuzione del prestito all’italiano o al veneto si leggano le puntuali considerazioni di Francescato 1954–1957, riprese e approfondite da Vanelli 2005a; 2005b; 2006). L’influsso del veneto ha altresì determinato il mutamento di taluni tratti locali del friulano: Francescato (1991 [1983], 180s.) richiama ad esempio il dileguo dell’opposizione quantitativa delle vocali in area occidentale e goriziana e osserva che

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«la parte del Friuli dove meno marcata è la presenza veneta è la Carnia; malgrado la tradizionale ‹fedeltà› alla Repubblica Serenissima, questa regione ha mantenuto più che altrove la propria identità friulana».

Il flusso di venetismi, particolarmente fitto proprio a partire dal XV secolo, contempla non solo neologismi, come canòn ʻcannoneʼ, gazète ʻmonetaʼ e ʻgiornaleʼ (imposti dalle invenzioni, dalle scoperte e dalle nuove tecnologie), ma anche voci che affiancano ovvero rimpiazzano quelle preesistenti, quali ocjade al posto del genuino voglade ʻocchiataʼ, vecjo al posto di vieli/vieri ʻvecchioʼ, caregon al posto di cjadreon ʻseggioloneʼ, etc. Anche nei testi antichi è possibile rinvenire analoghe tracce: ad esempio nel quaderno del notaio cividalese Odorlico (sec. XIV ) ricorre luyo (in produzioni coeve si rintraccia altresì luglo, lugl) per ʻluglioʼ che preserva la -o finale di contro alla forma moderna lui. Tale voce via via sostituisce quella schietta friulana seseladôr (dal lat. volg. *SICILATORIU , da SICILIS ʻfalce messoriaʼ) che allude al ʻmietitoreʼ, al ʻmese in cui si mieteʼ ben documentato nel friulano antico (a. 1380: in seselador) e non continuato in quello moderno. Il veneto, nello specifico il veneto coloniale di matrice veneziana, funge in aggiunta da lingua mediatrice per l’ingresso di prestiti da altre lingue nel friulano. Facciamo soprattutto riferimento a francesismi (bisù dal fr. bijoux, buinegrazie dal fr. bonne grâce, etc.) che di rado rappresentano delle interferenze dirette nell’idioma locale ma semmai delle mediazioni favorite da «quell’apertura a modelli culturali veneti e italiani avvenuta nel corso della dominazione della Serenissima in Friuli» (Marcato 1988, 242). Il prestigio del veneto (in specie del veneto parlato a Venezia) è ben documentato anche nella lingua scritta. Infatti produzioni letterarie, ma anche testi dai contenuti pratici sono stati redatti dai friulani oltre che nella loro lingua materna e in toscano anche in questa varietà. Sulla scelta di ricorrere al veneto e al toscano hanno influito da una parte modelli di scrittura che avevano una tradizione solida e ben consolidata e dall’altra l’ascesa di Venezia come centro propulsore della cultura. Un caso rilevante in tal senso, abbondantemente citato nella letteratura di riferimento, è costituito dal volgarizzamento delle marquardiane Constitutiones Patriae Foriiulii (raccolta dei fondamenti del diritto friulano stampata a Udine nel 1484), per mano di Pietro Capretto (Pordenone 1427–1504) che si avvale non del friulano ma del veneto, nella fattispecie nella varietà «trivisana» (vale a dire una varietà veneta toscanizzata e ripulita): tale opzione linguistica si motiva, dalle parole dell’umanista pordenonese, dal carattere difforme e disomogeneo degli usi scritti e parlati del friulano in contrapposizione alla larga comprensibilità, per il suo carattere comune e interregionale, della «lengua trivisana», intesa non nella parlata di Treviso, ma in quella in uso nella Marca trevigiana, cioè la koinè veneta: «Pietro Capretto compì un’operazione che andava molto al di là dei confini municipali: egli, vissuto sì a Pordenone ma anche a Gemona, aveva in mente l’intera situazione regionale. Cosciente

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della confusione esistente a livello linguistico nella penisola italiana, scrisse le sue opere letterarie cercando un’espressione di ampia diffusione e – soprattutto – di livello culturale superiore al parlato, che non conosceva regole precise. Si diresse coerentemente verso la koinè fornita dalla Repubblica veneziana, in cui si identificavano i gruppi intellettuali della città lagunare e della terraferma, qualunque fosse il loro dialetto di partenza. D’altra parte, cessato nel XV secolo l’uso scolastico del friulano (o almeno non più documentato), l’apprendimento della lettura e della scrittura avveniva sulla base dell’italiano (tosco-veneziano)» (Begotti 1991, 129s.).

Quindi appare chiaro che il «trilinguismo dialettale», invocato all’inizio, segna in modo rilevante la fisionomia linguistica di molte delle zone della nostra regione; ancora una volta Francescato è nel giusto quando afferma: «i tre linguaggi si perpetuano tutti tre nel nostro parlare, agendo diversamente gli uni rispetto agli altri (e qui entra in gioco la cultura dei parlanti, il loro grado di capacità linguistica, l’ambiente prevalente, ecc.), secondo un complicatissimo gioco, le cui leggi è assai difficile riconoscere, ma i cui effetti si riscontreranno immancabilmente tra alcune generazioni» (Francescato 1955, 9).

2 Veneto coloniale Tale varietà si configura come una varietà veneta importata o «paracadutata» in località non immediatamente confinanti con l’area venetofona. Questo veneto coloniale è stato altresì sanzionato come un «veneto di imitazione, ibrido, venetoide» e da parte dei parlati viene apostrofato semplicemente come «dialetto». Non mancano altri appellativi del tipo «veneto cittadino», fedele all’espressione friulana parlà o ciacarà citadìn ʻparlare cittadinoʼ, che si riferisce al suo utilizzo particolarmente vivace nei centri urbani del Friuli Venezia Giulia, all’interno dei quali convive con il friulano e rispetto al quale ha sempre detenuto il rango di varietà più alta. I molteplici casi che rientrano nella tipologia del veneto coloniale sono, per la loro origine, diversi tra di loro: qui passeremo in rassegna le caratteristiche peculiari di alcune varietà cittadine (per un approfondimento delle lingue urbane, ovvero Udine, Pordenone e Gorizia, ↗5.3 Lingue urbane).

2.1 Il veneto udinese Il veneto coloniale che s’impianta a Udine a partire dal XV secolo è dovuto al prestigio politico e culturale della Serenissima, esercitato a seguito della presenza in città dei luogotenenti della Repubblica di Venezia che dal 1420 ha annesso buona parte del territorio del Friuli e che fa della città il capoluogo della «Patria del Friuli». Il veneto attecchisce soprattutto per ragioni sociolinguistiche nella funzione di varietà di prestigio delle classi alte in contrapposizione alla varietà più bassa, rappresentata dal friulano proprio delle classi popolari. La fase di maggiore sviluppo del veneto udinese

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si dispiega tra la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo con lo sviluppo di quel ceto borghese che se ne avvale nelle sue pratiche comunicative (Francescato 1982; Vanelli 1987); tale fatto motiva la persistenza del veneto anche dopo la fine della Repubblica di Venezia, tanto da raggiungere, per imitazione, anche le classi borghesi di centri urbani minori come Cividale, Palmanova e Spilimbergo, senza sostituire il friulano, ma costituendo sempre, rispetto a questo, il modello linguistico da emulare. I caratteri veneziani dell’udinese si sono inevitabilmente modificati anche in ragione della compresenza del friulano prima e dell’italiano poi; quanto a tratti veneziani conservativi si ricorda la conservazione di -s nella seconda persona singolare alla forma interrogativa, ovvero il tipo fastu? ʻfai?ʼ, gastu? ʻhai?ʼ e vustu? ʻvuoi?ʼ. Al contatto con il friulano si devono tratti fonetici ma anche morfosintattici: ad esempio l’uso del suffisso diminutivo -ùt, -ùta tipicamente friulano o l’assenza di ghe ʻciʼ «per specificare ʻessereʼ esistenziale, come avviene normalmente in veneziano: domàn ghe zè una festa, rispetto all’udinese domàn la zè una festa» (Vanelli 1987, 38, che del resto precisa che «in generale, mentre dal punto di vista morfologico le forme dei clitici udinesi sono quelle tipicamente venete (el, la, i, le, ecc.), la sintassi segue piuttosto le regole friulane […]»). Anche il lessico si è screziato di friulanismi, quali screàr ʻusare per la prima volta, soprattutto abitiʼ (in friulano screâ) o taponàr ʻturare, coprire, chiudereʼ (dal friulano taponâ). Talora il distacco dal veneziano è determinato dal contatto con l’italiano che ha favorito la diffusione di certe pronunzie (cento o cinque, anziché sento e sinque del veneziano) o di certi lessemi arancia o prènder, al posto dei veneziani naransa e ciòr. L’odierna situazione del veneto-udinese così come nelle altre cittadine mostra un impiego sempre più episodico, occasionale, mescolato per lo più all’italiano, il codice attualmente più prestigioso; talora i parlanti ricorrono a forme del veneto-udinese come risorsa gergale che accomuna persone che si conoscono o che appartengono allo stesso gruppo sociale. Non appartenendo come strumento comunicativo alle giovani generazioni, è ragionevole parlarne nei termini di una situazione di obsolescenza linguistica (Vanelli 2000). Il giudizio da parte dei parlanti è piuttosto negativo, come di una parlata ibrida da rimuovere anche dal repertorio della comunità sulla spinta della rinnovata rappresentatività del friulano, promosso a lingua regionale in seguito della legge 482/99.

2.2 Il veneto pordenonese Il veneto nel centro urbano di Pordenone (sulla cui storia linguistica rinviamo a Rizzolatti 1996), che ha soppiantato il friulano sul finire del XIX secolo, è ascrivibile sia al tipo coloniale, dovuto all’imitazione da parte delle classi sociali più elevate del modello della koinè veneta di matrice veneziana, sia al tipo di contatto o di confine, popolarizzato dalle classi medio-basse grazie alla contiguità con il territorio veneto in cui si parlano varietà trevigiano-bellunesi (Zamboni 1974). Con il trascorrere del

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tempo però, il primo tipo ha perso la sua funzione di varietà di prestigio ed è stato rimpiazzato dall’italiano, l’altro, ancora relativamente vitale, ha visto via via ridursi i domini d’uso in seguito alla poderosa avanzata dell’italiano e alla recente ripresa del dialetto venezieggiante, che pare per lo più rispondere a ingenue volontà snobistiche. Circa la sua fisionomia linguistica, va ricordato che il veneto pordenonese non documenta le fricative interdentali; la prima persona del presente indicativo termina in -o; il condizionale ha la forma in -ía e non in -ave; sempre nell’ambito della flessione verbale le forme dell’indicativo imperfetto sono -avo, -avi, -ava/-evo, -evi, -eva, etc. e la prima persona plurale del presente esce in -emo. In questa cornice, in cui il veneto e l’italiano si fronteggiano, il friulano è stato completamente abbandonato, se non respinto, perché correlato alle modalità espressive proprie dei popolani e del ceto contadino. C’è da segnalare però che il territorio circostante ha preservato la parlata friulana, tanto che i paesi dalle dimensioni più contenute, sparsi nella campagna e meno esposti alle pressioni linguistiche, manifestano ancora tipi friulani. A lungo varietà urbana di prestigio, il veneto di Pordenone ha finito per propagarsi anche nelle cittadine del circondario dove il friulano si è perso del tutto (ad esempio a Fiume Veneto) o si è variamente mantenuto (in specie a S. Vito al Tagliamento, Maniago, Spilimbergo).

2.3 Il veneto triestino e muggesano Nell’area di Trieste e della contigua Muggia si parla un dialetto veneto noto rispettivamente con l’appellativo di «triestino» e «muggesano» (↗5.4 Tergestino/Muglisano). Le prime produzioni che documentano l’occorrenza del veneto nel territorio risalgono al XIV , ma questo dialetto si propaga presso la popolazione agli albori del XIX secolo (Doria 1978). Nello stesso periodo il preesistente idioma, simile al friulano, inizia a cedere il passo, lasciando purtuttavia delle tracce dopo un lungo periodo di convivenza nel repertorio della città (a Muggia l’antica parlata sopravvive almeno fino all’inizio del secolo seguente): «entrambe le varietà (di Trieste e Muggia) hanno già molto sofferto nella fase in cui le vediamo, i caratteri friulani o ladini turbandosi o sperdendosi variamente in ispecie per gl’influssi veneti» (Ascoli 1873, 479). Per tenere distinta tale varietà da quella moderna, ci si avvale delle denominazioni di tergestino e muglisano. Il veneto qui insediatosi è di tipo veneziano, ovvero un veneto coloniale, che si consolida grazie alle relazioni commerciali e marittime praticate con successo da Venezia lungo la litoranea adriatica. Ma ciò non basta, come rileva Pellegrini (1960, 3): «il vorticoso aumento della popolazione a Trieste e l’estendersi dell’abitato, specie dopo la proclamazione della cittadina a porto franco, l’affluenza di forestieri da ogni paese d’Italia e d’Europa, il formarsi di una coscienza nazionale molto sentita, rese assolutamente inefficiente ed

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insufficiente l’uso del vecchio dialetto tergestino che venne via via ripudiato e ritenuto di rango inferiore soprattutto nelle classi borghesi e dai numerosi commercianti e, in un secondo tempo, anche tra il popolo e tra le poche famiglie nobili, in questo caso singolarmente attaccate alla tradizione avita».

La nuova società triestina sempre più incline ai commerci e all’urbanizzazione privilegia dunque l’adozione del dialetto di tipo veneziano, inteso un po’ ovunque lungo le coste e altrove, che finisce per prevalere sull’antica parlata friulaneggiante sia a Trieste sia a Muggia, oramai incomprensibile ai forestieri e avvertita come subalterna dalla borghesia commerciale perché espressione del mondo semplice del contado, preservata però tenacemente dal patriziato triestino che costituisce le tredis ciasadis (cioè le ʻtredici casateʼ). Nel corso del XIX secolo a Trieste il registro più veneziano resta ancora valido, ma agli inizi del XX  secolo si dissolve a vantaggio di una triestinità dialettale più spontanea, attualmente assai vitale, tanto da esibire differenziazioni al suo interno. In particolare si distingue un triestìn (o triestin in cìcara o cichera ʻin chiccheraʼ), varietà alta e curata, che in certi domini ha un ruolo analogo, per così dire, a quello di un italiano regionale (fermo restando che se parlando in triestino, ci si avvale di parole italiane, si farà uso di un dialeto slavazzà o slavazzado) da un triestino patoco, il triestino schietto e genuino, da un triestin negròn, più basso e popolare, che deriva da negròn, ovvero ʻil ragazzaccio di stradaʼ, il popolano che si esprime con modalità volgari e scurrili (Marcato 2001, 55s., in cui si ricorda che tipici del triestìn negròn sono i participi del tipo savèsto, podèsto, volèsto, cioè ʻsaputo, potuto, volutoʼ, rispetto a savùdo, podùdo, volùdo, di gran lunga preferite dal triestìn in cìcara). Nel repertorio fanno capolino anche gli usi linguistici giovanili che dimostrano un pervasivo impiego del dialetto, anche in domini di solito estranei alla dialettalità come la comunicazione in classe tra professori e studenti (Marcato 2007). Il triestino (come anche il muggesano), dall’antica base veneziana, ha preservato una sua netta individualità di varietà veneta sia per la sua posizione di marginalità sia per il tipico ambiente culturale triestino, che ne perpetua la vitalità; però è rilevante notare che tale parlata ha subito notevoli evoluzioni che si devono in parte alle pressioni del tergestino e in parte ai contatti con il tedesco (intesa lingua di cultura nella città) e con lo sloveno, sparso nelle aree cittadine fino alle località del Carso. Non fa mancare il suo influsso anche l’italiano compresente nelle interazioni verbali dei parlanti triestini che ricorrono volentieri a fenomeni di mescolanza linguistica e soprattutto di enunciazione mistilingui a qualsiasi livello socioculturale anche con interlocutori italofoni. L’italianizzazione in atto genera in molti casi una varietà assai annacquata (il dialeto slavazzà o slavazzado evocato sopra) che, agevolando l’assorbimento e il travestimento degli italianismi, garantisce un saldo mantenimento del dialetto anche in domini sociolinguistici altrove occupati dall’italiano regionale. È interessante osservare che talune caratteristiche del triestino risultano distanti dal veneto: nella fonologia esso è caratterizzato da un vocalismo tonico a cinque e

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non a sette elementi (tratto peraltro non riconosciuto da tutti), con alcune assonanze friulane nel vocalismo atono (innalzamento-chiusura di /e, o/; maggior estensione dell’apocope; nel consonatismo dal blocco della lenizione (in specie per quanto riguarda /d/), dall’assenza di /l/ «evanescente», dal recupero delle affricate /ʦ, dz/ (in contrasto con le fricative veneziane /s, z/, tipiche però del triestino negròn) che in epoca recente tendono a cedere al modello italiano /ʧ, ʤ/. Nella morfologia verbale, si noti l’uscita /i/ della desinenza di terza persona nel presente dei verbi in /e, i/ (el credi, el senti vs. veneziano el crede, el sente) e la tendenza a parificare il pronome riflessivo nella forma se di terza persona anche per la prima e la seconda spesso e volentieri attribuita all’influsso slavo, ma ricorrente anche in vari dialetti italiani. Nella sintassi, tra l’altro, l’uso del congiuntivo imperfetto in luogo del condizionale nel periodo ipotetico (presente anche nel friulano ma in aree marginali) e nell’ottativo (lezesi ʻleggereiʼ) con inversione tuttavia nel caso dell’irrealtà (se mi vorìo, podarìo), analogica col tergestino-friulano meglio che con lo slavo, e la rinunzia alla concordanza dei tempi. Di rilievo anche il fenomeno segnalato da Pellegrini (1960) dell’assenza di enclisi pronominale nelle interrogative (veneziano cosa gastu?, cosa fastu? vs. triestino cosa te ga? cosa te fa?), probabile tratto d’ipercaratterizzazione nel rifiuto di una tradizione dialettale obsolescente (nella fattispecie quella tergestina che osservava la norma veneta e friulana della posposizione ed agglutinazione). Nell’ambito della formazione delle parole, rilevanti sono gli influssi friulani nei suffissi -at, -az, -uz, -ez, -iz e -ul anche con basi non friulane. Quanto al lessico è da sottolineare la presenza di tedeschismi e di slavismi come riflesso del contatto con queste realtà linguistiche, ma anche la persistenza di elementi lessicali friulaneggianti (bleda ʻbietolaʼ, daspuò ʻdopoʼ, glesia ʻchiesaʼ), come ha ben dimostrato Doria (1978; 1998a). In definitiva un quadro in cui è di certo ipotizzabile un periodo di influssi vicendevoli che hanno operato durante la fase della convivenza e della sostituzione, ma che allo stato attuale si presenta non sempre trasparente quando si tenta di discriminare tra fattori riconducibili vuoi a pressione di sostrati romanzi (tergestinofriulani e veneti in generale) vuoi a adstrati slavi e tratti dovuti a contatti più recenti con il friulano e l’italiano (Ursini 1988). Il ruolo cruciale economico e culturale di Trieste ne ha fatto un centro di irradiazione di «veneticità» tanto da favorire l’espansione di tratti triestini, di uso sociolinguisticamente circoscritto alle classi medio-alte, nelle parlate del territorio limitrofo, quali Gorizia e Cormons che, come del resto altre località, si orientano inevitabilmente sul modello linguistico prestigioso del capoluogo. A Gorizia, ad esempio, la realtà dialettale si mostra vitale e articolata in varii sottotipi e le linee direttrici delle innovazioni si intersecano da occidente a oriente, da nord a sud e viceversa in una rete fitta di scambi vicendevoli, in cui Gorizia dapprima fornisce il modello più prestigioso e caratterizzato, e poi diventa testa di ponte da un lato della udinesizzazione (cf. l’articolo maschile il e l’assenza di opposizione circa le affricate e fricative), abbandonando tratti avvertiti troppo rustici, presenti invece nella campagna isontina (ma anche nell’area circostante come a Lucinico) rimasta lingui-

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sticamente più conservatrice, e dall’altro della venetizzazione (Rizzolatti 1989a). Infatti a partire dal 1920 si osserva a Gorizia una compresenza di friulano, sloveno cui si affianca il (veneto) goriziano-triestino, espressione di paracadutismo linguistico (Doria 1998c, 582s.), ma soprattutto codice indispensabile, come del resto a Trieste, per la strutturazione identitaria della popolazione non slovenofona della città, sia in opposizione alla specificità friulana, verso la quale comunque vige sempre un atteggiamento di distacco, sia soprattutto nei confronti della minoranza slovena (per un approfondimento sul repertorio della città di Gorizia, ↗5.3 Lingue urbane). Altrove, come a Monfalcone, l’influsso del triestino è di matrice difforme e recente, poiché risale all’intenso periodo dell’industrializzazione del secolo scorso che ha ridisegnato la fisionomia linguistica dell’area imponendosi a danno del dialetto bisiacco del luogo (Doria 1998c, 583).

3 Veneto originario Con tale dizione si comprendono le varietà di Grado (gradese o gravisano; in dialetto si dice graisàn o graesàn) e di Marano Lagunare (maranese) situate sulla fascia costiera lagunare, le cui caratteristiche non consentono di collegarle al tipo coloniale, ma di ipotizzare un veneto di fondo storico giustificato da condizioni ambientali, culturali e storiche (Marcato 1987). Infatti si tratta di comunità contraddistinte da una economia fondata sulle attività marinare e alquanto appartate rispetto all’entroterra friulano tradizionalmente dedito all’agricoltura. Il distacco dalla terraferma, favorito da fatti storici e geografici, e i preziosi contatti economici con la costa adriatica piuttosto che con l’interno hanno permesso l’evoluzione di un tipo dialettale peculiare, seppur non facilmente ricostruibile data l’assenza di documentazione per i secoli passati (Cortelazzo 1993), che si preserva, nonostante i vistosi cedimenti in tempi recenti verso il veneto-triestino. Ascoli, già alla fine del XIX secolo, colloca Grado in una precisa dimensione storica e geografica e dalle informazioni da lui raccolte ed esaminate desume che: «Grado […] non solo mantiene il linguaggio veneto, ma lo serba, o almeno lo serbava quand’eran giovani quelli che oggi sono vecchi, in condizioni così arcaiche, da far veramente sbalordire. Questo privilegio ripete di certo la sua ragione dalla natura del luogo, poiché Grado giace al mare, sull’estremo isolotto della propria laguna» (1898, 325)

e poco più in là precisa che «si tratta dunque di un dialetto veneto, e vuol dire tale, che piuttosto rappresenti l’‹antico veneto di terraferma e anche dell’estuario›, che non il ‹veneziano vero e proprio›» (p. 328). Con queste considerazioni il glottologo goriziano tocca il nucleo centrale della questione, e la chiarezza con cui lo osserva è tanto più meritevole di attenzione se la si affianca al riconoscimento del netto distacco dal vicino friulano: «e si tratta di una rappresentazione veramente cospicua, la quale viene anche a togliere ogni illusione circa i supposti incrociamenti che qui fossero

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avvenuti tra veneziano e friulano» (p. 328). Ascoli infatti ammette l’occorrenza di qualche tratto lessicale, ma, per ciò che concerne la fonetica e la flessione, ritiene che gli influssi del friulano siano di scarsa rilevanza: sarebbero di matrice friulana solo i suffissi diminutivi -uto e -uso (anche Frau 1984a, 189ss.). Della stessa opinione è anche Cortelazzo (1978) che, nella sua poderosa inchiesta, mira a verificare l’apporto friulano al lessico e alla derivazione, assieme all’occorrenza di altri tratti esogeni, i quali documentano il contatto del gradese con le vicine parlate slave e con il tedesco, presumibilmente nell’ambito della più estesa area giuliano-friulana, che in larga parte li contempla. Definito, insomma da Ascoli «importante» ma «ignorato», dichiarato da Cortelazzo (1969) «un problema aperto», il dialetto di Grado resta ancora un oggetto di ricerca assai interessante, come del resto il dialetto di Marano. Si tratta di varietà tra loro molto affini (ma non sono rare le specifiche individualità), piuttosto conservative, in specie il gradese, che si distanziano dal veneziano e dal vicino friulano per la presenza di alcuni tratti peculiari, quali la metafonesi, cioè la chiusura delle vocali toniche /e, o/ (ma talvolta anche atone: màmuli, mùsculi, bìguli), quando alla diversa finale subentra una -i, ad esempio nei plurali: vérde, pl. virdi, paése, pl. paìsi, fiór, pl. fiùri, pescaór, pl. pescauri, e la conservazione della vocale alla fine della parola: fatti che permettono di congiungere questo tipo di veneto a quelli parlati lungo la costa veneta fino a Chioggia, concorrendo a definire il cosiddetto «veneto lagunare» (un esauriente profilo linguistico del gradese è documentato in Ursini 1988). Qualche cenno merita il caso parallelo di Marano, che collega il tratto lagunare alla terraferma in un continuum territoriale, che in passato doveva essere molto più omogeneo e che motiva le innegabili concordanze col veneto centro-meridionale non solo con la persistente, vigorosa metafonesi, ma, soprattutto, con un altro fenomeno, che a fatica riterremo indipendente dallo sviluppo pavano: la riduzione del participio passato e dei nomi in -ato a -ò (Marcato 1985a; 1987) del tipo prò ʻpratoʼ, cugnò ʻcognatoʼ, e magnò ʻmangiatoʼ (laddove a Grado si nota l’uscita in -ào, ovvero prào, cugnào e magnào). Altro fatto interessante è la risoluzione -ada dei participi femminili (magnàda ʻmangiataʼ e lavàda ʻlavataʼ) che si differenzia dalla tipica terminazione gradese in -àgia (magnàgia e lavàgia). La separazione geografica e culturale tra l’area lagunare e le zone restrostanti alla costa non ha tuttavia impedito che nel tempo si creassero dei contatti con i centri vicini ma posizionati per l’appunto nell’entroterra (del resto nel lessico maranese furlàn non solo è il «friulano», ma anche il forestiero per antonomasia, seppur privo di accezioni negative): nel maranese infatti non è raro rintracciare elementi lessicali friulani, riferiti specialmente a nozioni della cultura agricola, quali falsùt ʻfalce fienaiaʼ (con il suffisso diminutivo tipico friulano), fassùt ʻfascinaʼ e ronseia ʻroncoloʼ; ma non mancano, come ha ben rilevato Marcato (2012), tratti che alludono non solo a cose e prodotti friulani, entrati assieme alle parole, ma altresì a «un insieme di voci del lessico quotidiano e familiare che lascia intendere una consuetudine – nel tempo – di contatti e di scambi» (p. 353).

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Attualmente tanto per il gradese quanto per il maranese va rilevata una notevole vitalità, per quanto si rintraccino inevitabili influssi dell’italiano, mediato dalle varietà regionali, e prima ancora del triestino, la varietà urbana alla quale tali località marinare sono più esposte per la vicinanza attraverso il mare. In questo senso i materiali raccolti da Cortelazzo (1978), tesi proprio a verificare lo stato di vitalità di alcuni tratti tipici del dialetto, se non danno l’idea di una «parlata moribonda» (come dichiarava lo stesso Cortelazzo nel 1969), esibiscono di certo segni di cedimento: una ricaduta dell’italianizzazione sul gradese è, ad esempio, un progressivo indebolimento della metafonesi, laddove si riscontrano tracce dell’influsso triestino nella convivenza di coppie lessicali, l’una autoctona (vogi ʻocchiʼ) e l’altra, per l’appunto, del capoluogo (oci). Tali pressioni sono soprattutto favorite e rese più capillari dalle condizioni economiche dell’isola di Grado, trasformatasi in pochi decenni in moderno centro balneare che richiama intensi flussi turistici. Pur con le erosioni in atto, le parlate della laguna, favorite senz’altro dall’insularità di Grado e dalla posizione appartata di Marano, mostrano, come si è detto dianzi, una solida lealtà linguistica tesa a tutelarne la trasmissione. L’uso di tali varietà rappresenta la modalità di orgogliosa identificazione delle comunità rispetto alla friulanità dell’interno. Si pensi, a tal proposito, che la spiccata individualità di Marano è dichiarata da un cartello all’entrata della cittadina che accoglie i turisti e visitatori con la specificazione «Marano. Comunità di parlata veneta» (Marcato 2012, 350).

3.1 Il veneto bisiàc(c)o La denominazione si connette alla parola bisiàc che designa sia la parlata sia l’abitante della Bisiacarìa o del Territorio, ovvero l’area situata tra la costa del Golfo di Panzano, il corso dell’Isonzo dalla foce (Sdobba) fino a Sagrado e la cresta collinare, con cui termina l’altopiano carsico sino alle porte di Monfalcone. Il bisiac(c)o è una particolare varietà di veneto sulla cui origine e più in generale sulla storia linguistica dell’area in cui è essa popolare non c’è ancora una convergenza di opinioni. Zamboni (1986; 1987), che traccia un convincente profilo storico e linguistico della parlata, sulla scorta di talune penetranti linee interpretative (suggerite da Franco Crevatin, Giuseppe Francescato e Mario Doria), precisa che si tratta di un veneto di fondo storico, vale a dire l’epilogo di una «storia linguistica imperniata ab antiquo sul veneto» per premesse storiche tra tardo antico e alto medioevo non dissimili da quelle che contraddistinguono il veneto gradese e maranese (Zamboni 1986, 644). Le ipotesi di ricostruzione della storia linguistica dell’area devono tuttavia contemplare da una parte la cruciale incidenza del friulano e dall’altra l’incisiva penetrazione slava, per cui sostanzialmente si può ipotizzare un dialetto veneto con posteriore sovrapposizione del friulano oppure un dialetto friulano poi modificato da un superstrato veneto, come sottolinea Zamboni (1986, 619), aggiungendo che si affianca

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pure «una terza variabile, ossia la dipendenza della situazione moderna (anche) da un consistente processo di romanizzazione di nuclei slavi». I tratti linguistici del bisiac(c)o attestano un trattamento delle vocali finali (che cadono quando sono diverse da -a) analogo a quelle del veneto settentrionale (ma in contrapposizione con il veneto di Grado e Marano) e una fonologia nettamente veneta (che talora, per influsso del veneziano, preserva ovvero ripristina la vocale finale in parole quali fógo ʻfuocoʼ, frédo ʻfreddoʼ, legno ʻlegnoʼ e così via); anche a livello di morfosintassi le congruenze con il veneto sono chiare come pure le discordanze con il friulano (tranne fatti singoli, dovuti alla pressione del friulano, quale, nella morfologia lessicale, l’impiego del suffisso -àr che prevale su -èr, esito veneziano, altoveneto e gradese, per cui, ad esempio, si dice scarpàr ʻcalzolaioʼ invece di scarpèr; di recente lo stesso suffisso, per influsso dell’italiano e del triestino, si è ritramutato in -èr; infine l’occorrenza di altri suffissi, -it, -ul e -uz, talora assunti con i lessemi propri). Risulta pertanto più verosimile supporre un veneto di fase remota molto friulanizzato che il contrario; i contatti con il friulano sono particolarmente evidenti nel lessico, come ha ben dimostrato Doria (1998b) che ha estrapolato una nutrita serie di friulanismi nel lessico contadino, ma anche in altri ambiti nozionali (sedón ʻcucchiaioʼ, cialciùt ʻincuboʼ), fino a comprendere avverbi e preposizioni, del tipo dògna ʻvicinoʼ, s’ocóre ʻforseʼ, modànt ʻun momento faʼ, riconducibili ai friulani dònge, salacòr, (mai)modànt. Si sostanzia quindi la tesi di «una varietà fondamentalmente veneta di base arcaica poi soggetta ad una serie di pressioni di sistemi superiori ed egemoni (vuoi per prestigio, vuoi per importanza geografica) ed aperta quindi a reiterati processi di ristrutturazione che non ne hanno tuttavia intaccato profondamente la fisionomia essenziale» (Zamboni 1986, 638).

Lo studioso infatti delinea con precisione le ricadute linguistiche della pressione storica dei due grandi sistemi, il friulano e il veneziano (il ruolo di Venezia nella zona di Monfalcone, considerata strategica, inizia a farsi sentire tra il XII e il XIII secolo), di presenza antica ed operanti sia in successione sia in coordinazione. Recenti indagini sulla toponomastica dell’area hanno però messo in luce molteplici tracce slovene e friulane che depongono a favore di un friulano di fondo storico sul quale si sarebbero sovrapposte nuove realtà di matrice veneta: tale assunto testimonia quanto sia davvero complicato districare la variegata situazione di stratificazioni e interferenze storiche e linguistiche che caratterizzano l’area (Marcato 2005). Il bisiac(c)o gode ancora di una certa vitalità anche tra le giovani generazioni (un valido esperimento didattico è esemplificato in Toplikar 1993), ma si è via via orientato sul modello giuliano e triestino già a partire dall’Ottocento (tipiche sono le coppie che oppongono la varietà autoctona e il triestino, come oc’ e òcio ʻocchioʼ, stòmego e stòmigo ʻstomacoʼ, nónzul e nònzolo ʻcampanaro, sacristaʼ): Zamboni (1986, 640) mette in luce come la preminenza economica e culturale di Trieste e la progressiva dipendenza da essa del territorio monfalconese rendono più popolare e prestigiosa la koinè

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triestino-giuliana a danno della parlata locale, riducendola «in uno stato di minorità culturale» e ponendo «le premesse del suo declino o di un nuovo adattamento ad una norma superiore». Segnali incoraggianti tuttavia provengono da località come Pieris, Begliano, Fogliano, in cui la parlata pare si preservi tenacemente. Negli ultimi decenni a causa degli imponenti processi di industrializzazione e dei consistenti flussi migratori, che hanno coinvolto in particolare Monfalcone, da sempre considerato il centro economicamente più importante (ma troppo debole linguisticamente per fungere da punto attrattivo), il bisiac(c)o si sta sempre più delineando come una variante locale nell’orbita di quella koinè veneto-giuliana che, al di là dell’Isonzo, affianca il friulano come lingua d’uso a Gradisca, Cormons, Cervignano, Palmanova, Gorizia e altri centri minori dell’isontino. Doria (1998b, 481) sentenzia infatti che a Monfalcone «si usa una sorta di triestino o un bisiacco talmente imbastardito di elementi triestini che non si può più definire tale».

4 Veneto di contatto o di confine Il veneto di contatto o di confine è la varietà che interessa la complessa fascia di transizione friulano-veneta (nella definizione di Francescato 1966), il cui centro principale è Sacile: insomma, come spiega Frau (1984a, 188), si tratta di «una stretta fascia, che dalle sorgenti del Livenza va lungo il corso del fiume fino al confine meridionale con l’attigua Regione non friulana». Quest’area è contraddistinta dalla presenza di tipi dialettali nei quali, pur ribadendo, in talune zone, che il sistema dialettale sottostante è di matrice friulano, convivono tratti linguistici friulani e veneti ora con prevalenza degli uni, ora con prevalenza degli altri. Ci troviamo quindi di fronte a un territorio che mostra un’articolata gamma di realtà linguistiche riconducibili a dinamiche storico-linguistiche di volta in volta diverse: si va da comunità di parlata nettamente veneta prive di tracce di un precedente strato friulano a comunità venete che un tempo erano friulanofone o friulaneggianti nelle quali la friulanità ha via via ceduto il passo al veneto – in passato ritenuto più prestigioso e importante del friulano (grazie all’influsso culturale esercitato da centri come Venezia e Treviso con i quali il Friuli è sempre stato in contatto) – con qualche reliquia più o meno chiara della pregressa situazione, fino a comprendere comunità la cui parlata è ascrivibile al friulano ma con pronunziate intrusioni del veneto dell’«amfizona» veneto-friulana. Alla luce di tale peculiare caratterizzazione linguistica è quindi possibile altresì affermare che il veneto in questo territorio è in parte di fondo storico, originario e in parte di penetrazione recente, ovvero prima si è affiancato e poi si è sovrapposto al friulano, grazie soprattutto alla contiguità geografica delle due parlate. Il veneto di quest’area rientra nel gruppo trevigiano-feltrino-bellunese (in specie nella parte più settentrionale) e conserva altresì tratti del trevigiano rustico. Tuttavia è il caso di precisare che nel territorio a ridosso del confine, oramai del tutto

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venetizzato, si parla in generale una varietà di trevigiano rustico di tipo orientale, sul quale, a partire dall’area di influenza di Oderzo, si accostano anche tratti di tipo veneziano, dando forma a quel tipo idiomatico definito «liventino» (Zamboni 1974; a proposito si legga la descrizione di Marcato 1990, 71, sulla situazione dell’area di Brugnera in cui «si parla un veneto di tipo trevigiano, in particolare della varietà ʻliventinaʼ. Ma nella frazione di Tamai, quella più orientale, si ricorda ancora che fino a qualche tempo fa si sentivano gli ultimi echi di certi tratti linguistici friulaneggianti» e poco più in là aggiunge che il territorio doveva comprendere due subaree, «l’una venetofona (Brugnera), l’altra con elementi friulaneggianti (Tamai) e propriamente zona di interferenza veneto-friulana, in cui solo di recente si è realizzato il processo di venetizzazione con la perdita degli elementi friulani»). La linea di demarcazione linguistica si sposta quindi più a oriente rispetto a quella amministrativa, con al suo interno una eccezione documentata nell’area meridionale, in cui il friulano oltrepassa il diaframma, espandendosi in territorio veneto. Facciamo riferimento ai paesi friulanofoni collocati nell’area del mandamento di Portogruaro che in prospettiva storica apparteneva al Friuli, da cui si è staccata nel 1815 per saldarsi a Venezia (Rizzolatti 1989b, 309, spiega infatti che «le varietà friulane parlate in provincia di Venezia (a Gruaro, S. Michele, Fossalta di Portogruaro, ecc.) e già da oltre un secolo staccate dal corpo del Friuli si presentano assai più conservative delle parlate occidentali presenti sul confine col trevigiano. Mancano ad esempio i segnali più clamorosi dati dalla coincidenza delle terze persone singolari e plurali, si mantengono i plurali sigmatici, risultano del tutto assenti i suoni interdentali»). A tal proposito Frau (1984b, 35s.; si vedano anche gli altri contributi contenuti in Sandron 1984) puntualizza che: «le varietà qui parlate rientrano nel più ampio contesto del friulano occidentale, col quale condividono alcuni tratti caratterizzanti. Tuttavia esse oggi appaiono, nonostante la omogeneità fondamentale, divise in due sezioni: senz’altro più ‹friulane› risultano quelle rivolte verso la riva del Tagliamento, mentre quelle che guardano alla sponda della Livenza mostrano vistosi cedimenti ad isofone veneto-italiane»,

a sottolineare come il dialetto veneto (detto anche meneghèl, cioè il veneto di tipo liventino parlato nelle Basse e nel portogruarese) si sia comunque proposto nei secoli come varietà di maggior prestigio (rinviamo a Marcato 1985b per un puntuale profilo della parlata di San Michele al Tagliamento, località nella provincia di Venezia, collocata però a ridosso del confine veneto-friulano, che di certo ha saputo mantenere le caratteristiche friulane, nonostante la presenza di tratti ascrivibili all’influsso veneto, quali, ad esempio, l’uscita in -u, anziché in -o di lessemi quali corágiu, fúrbu, véciu). La forza del processo di venetizzazione, correlata alla percezione più che positiva da parte delle comunità interessate, non si è però esaurita nella sua intensa capacità di penetrazione nel repertorio linguistico di questa area del Friuli. Ciò che infatti va segnalato è che anche nei punti in cui il friulano non è stato rimpiazzato dalla

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concorrenza del veneto, quest’ultimo ha esercitato la sua forza di attrazione anche in un altro modo, ovvero attraverso l’attivazione di processi di interferenza sul friulano talmente marcato da dar origine a varietà che dobbiamo tipologizzare oramai come varietà miste friulano-venete. Si tratta di un insieme di dialetti parlati in un territorio posto a nord e a cavallo della direttrice Sacile-Pordenone (in cui si distribuiscono e si incrociano le isoglosse esaminate dal Lüdtke per le quali rinviamo a Frau 1983), per l’appunto una «amfizona», in cui la struttura fonologica del friulano non è del tutto riconoscibile, sebbene tratti della friulanità siano ancora individuabili nel consonantismo, in alcuni aspetti della morfologia e in parte del lessico: Francescato (1966, 92s.) precisa che «le caratteristiche geolinguistiche della zona si spiegano facilmente tenendo presente l’andamento delle vie di comunicazione, che divergono da Sacile (veneto) verso Aviano e verso Pordenone (ormai da tempo venetizzato), e il gravitare di tutte le località indicate dall’amfizona verso l’uno o l’altro dei centri urbani maggiori, ambedue veneti».

In questa area di friulanità discontinua si innestano pertanto elementi linguistici da ascrivere al veneto. Il più noto di tali tratti è la presenza delle fricative interdentali, tipicamente veneto-rustiche, di cui il friulano è privo; è poi di matrice veneta la ricorrenza della vocale di appoggio -e (rispetto alla -i del friulano). Anche nella morfologia alcuni aspetti sono ormai comuni al veneto: si osservi in specie la congruenza con il plurale dei nomi femminili con singolare in -a, che è determinato dall’alternanza vocalica in -e, e non, come in friulano, da un plurale sigmatico. Da rilevare però, che se il singolare termina in consonante, il plurale è invece sigmatico, alla friulana (ad esempio mans ʻmaniʼ). È pure di ascendenza veneta la forma del clitico soggetto di terza persona femminile singolare la (rispetto al friulano a o e; nel caso di Azzano Decimo, ad esempio, si rileva una decisa interferenza del veneto sulla struttura morfologica e meno su quella fonetica; se per la fisionomia della morfologia verbale abbiamo a che fare con un influsso di vecchia data, per l’ambito della formazione del plurale, non sigmatico ma vocalico, il veneto è palesemente più presente, come del resto anche nel sistema pronominale dove prevalgono mi ʻioʼ invece del friulano iò, lòri e lòre ʻessi, esseʼ, invece del friulano indifferenziato lôr, cf. Rizzolatti 1986 che comunque ne dichiara la friulanità). Veniamo ora a qualche considerazione sociolinguistica. È chiaro che in tutta l’area il repertorio delle comunità si presenta plurilingue, tuttavia le varietà presenti sono distinte in base alle funzioni assolte nelle comunità, correlate a momenti, attività e situazioni diversi, tanto che i parlanti sono impegnati in una estesa gamma di ruoli linguistici socialmente differenziati (rammentiamo, ad esempio, le variazioni di tipo sociolinguistico documentate nell’area di Caneva, che si situa al margine orientale della zona di interferenza trevigiano-bellunese, in cui i parlanti si esprimono negativamente nei confronti dei loro concittadini della frazione di Sarone, accusati di parlare in modo «rozzo e sguaiato» oppure reagiscono contro la sostituzione dei suoni interdentali con le corrispondenti fricative, propria delle generazioni più giova-

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ni e più sensibili agli influssi delle città contermini, cf. Marcato 1997). Tuttavia vanno ben analizzati da un lato il peso specifico del veneto nelle diverse strutture sociali, che si pone a metà strada tra italiano e friulano, pur riscuotendo (almeno storicamente) un maggior consenso rispetto al friulano, e dall’altro le ricadute interlinguistiche determinate dal contatto tra le varietà in questione. In tale fascia di confine e nel contempo di contiguità territoriale, il veneto è stato via via accolto come un dialetto, una parlata popolare, che storicamente ha goduto di un maggior prestigio rispetto alla varietà autoctona; tuttavia tale duplice status non ha posto le condizioni per permettere al veneto di mettersi in concorrenza con l’italiano (codice privilegiato e veicolo di promozione sociale), ma semmai con il friulano con cui per l’appunto condivide lo spazio funzionale medio-basso del repertorio (non mancano però aree e località in cui il dialetto friulano appare ben lontano dal soccombere, avendo sviluppato una forte reazione nei confronti del veneto: si leggano le considerazioni di Rizzolatti 1986, circa la parlata di Aviano, le cui caratteristiche più significative, quali la presenza dei dittonghi ei, ou, il mantenimento dei nessi di occlusiva + L, nonché la conservazione del plurale sigmatico per taluni nomi, sono tradizionalmente invocate per contrapporre il friulano al veneto). In tal modo si illumina la notevole capacità di penetrazione del veneto nel territorio friulano e l’interferenza esercitatasi tra i due idiomi a contatto, fino a dare vita in alcuni punti a varietà miste friulano-venete (Vanelli 2000). Ciò che pertanto crediamo valga la pena di segnalare è che quando osserviamo le complesse dinamiche linguistiche di quest’area ci troviamo di fronte a parlate in cui l’interferenza di tratti veneti, pur non pregiudicando la loro sostanziale friulanità, ne delinea una fisionomia peculiare in cui convivono in maniera originale (talora fino a fondersi) elementi ascrivibili a tipi linguisticamente differenziati (Vanelli 2005c). Resta ancora qualche perplessità sul potere predittivo di certe sentenze che segnavano in negativo il destino del friulano in queste zone, ovvero che sarebbe stato abbandonato per l’appunto in favore del veneto. Fare previsioni sul futuro è sempre un azzardo, tuttavia è ben nota a tutti la forza della friulanità che, rincalzata dagli stimoli derivanti dall’applicazione della legge 482/99 e dalle spinte politico-culturali di tipo autonomistico, come sostiene Rizzolatti (1996, 29s.), «sembra aver raggiunto anche i lembi più esterni del Friuli occidentale, dove sono ormai frequenti le iniziative (pubblicazioni, corsi di educazione permanente, conferenze, ecc.) volte al recupero dell’identità culturale originaria, di quelle radici che, se non sono schiettamente friulane, non sono neppure nettamente venete».

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Giorgio Cadorini

6.4 Friulano, veneto e toscano nella storia del Friuli Abstract: Il friulano è in contatto con il veneto fin dalle sue prime fasi: entrambi continuano la latinità aquileiese. Le varietà venete che entrano in relazione diretta con il Friuli fino al XVI secolo sono: il veneto lagunare (già dalle origini contrasta con il friulano per l’aspetto morfologico), il veneto settentrionale (in un primo periodo molto simile al friulano, ma oggi prossimo al veneziano), il veneziano (dalla conquista veneziana del Friuli del 1420 è parlato nei centri urbani costituendo un esempio di paracadutismo linguistico), il veneziano coloniale adriatico orientale (ha soppiantato le parlate friulane dell’Istria settentrionale, è in espansione oggi nel Goriziano) ed infine il bisiacco. Nelle città i mercanti veneziani e la loro lingua concorrevano con i Fiorentini, ma solo nell’espressione orale. Negli scritti amministrativi, invece, il volgare nettamente prevalente è il tosco-veneto, che applica la morfologia fiorentina a un lessico misto di elementi toscani e veneziani. Keywords: contatto linguistico, veneto, toscano, sociolinguistica diacronica, storia del Friuli

1 Il friulano nel contesto adriatico Chi conosce le lingue dell’area adriatica settentrionale e orientale odierna difficilmente si immagina che la loro distribuzione territoriale sia radicalmente diversa rispetto al Medioevo. Non si tratta solo di mutamenti territoriali: le lingue neolatine dell’area hanno pure seguito un percorso di graduale convergenza. L’idioma protagonista dei cambiamenti fu ed è tuttora il veneziano, che si espanse in un primo tempo come lingua franca del commercio e dell’amministrazione. Il veneziano nel XIII –XIV secolo si era trasformato, diventando una varietà meno caratterizzata localmente e percettibile fuori da Venezia come elegante e allo stesso tempo neutrale dal punto di vista delle rivalità con le città-stato confinanti (cf. Folena 1990, 296). La trasformazione del veneziano avviò l’unificazione del veneto attuale attraverso l’assimilazione progressiva degli idiomi originari dell’entroterra. Analizzeremo nelle pagine seguenti come le singole varietà venete interagirono con il Friuli dalle origini al XV –XVI secolo.

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1.1 Tarda Antichità e primo Medioevo L’area dell’Alto Adriatico conobbe con il passaggio dall’Antichità al Medioevo una radicale riorganizzazione politica. Mentre in epoca romana c’era un centro urbano di prestigio indiscusso che fungeva da modello irradiatore della civiltà romana – la colonia di Aquileia (nella pianura del Friuli sudorientale) –, la sua distruzione nel corso del V secolo e la crisi generale della città antica come forma di organizzazione sociale ed economica corrisposero a un vuoto secolare di supremazia, che fu concluso alla fine del VI secolo dall’occupazione longobarda. I Longobardi entrarono in Italia proprio dalle Alpi orientali e da subito riorganizzarono le terre occupate, scegliendo Forum Iulii, l’odierna Cividale del Friuli (sul bordo orientale della pianura friulana), come capoluogo del territorio acquisito dopo la prima fase di conquista. Essi, però, non conquistarono mai tutta l’area altoadriatica, cosicché ampie fasce costiere inclusa l’Istria restarono romane. Anche i territori romani si riorganizzarono con un lungo processo che portò alla nascita e all’affermazione di Venezia. Alla fine del VI secolo ci troviamo, dunque, davanti a due blocchi territoriali: quello longobardo e quello romano. La frammentazione linguistica che rileveremo con l’apparizione dei primi testi scritti in volgare conservatisi sarà però maggiore. Per il XIII secolo i linguisti concordano nel riconoscere, da Ovest a Est, otto idiomi: il padano veronese, il ladino centrale, il veneto mediano (da Padova verso Nord-Est), il veneziano, il veneto del medio e basso Piave, il veneto lagunare, il friulano e l’istrioto (cf. Zamboni 1979, 9–14; Marcato 1987, 47–50). Già per l’epoca longobarda presupponiamo la presenza di due varietà linguistiche distinte sul suolo dell’ex-colonia di Aquileia. Quello che era il centro della città fa parte del territorio dove si forma il friulano, mentre a 10 chilometri di distanza il porto marittimo di Grado partecipa alla formazione del veneto lagunare, che si parlava allora in tutti i centri urbani della costa friulana; oggi è parlato a Grado e Marano, mentre Caorle ha adottato il veneziano. Zamboni (1987, 91) ha cercato di spiegare la dicotomia degli idiomi epigoni del latino aquileiese ipotizzando che il friulano aquileiese non sia indigeno, bensì che sia sintomo di una migrazione da altre zone del Friuli. La difficoltà principale di questa ipotesi sta nel fatto che non abbiamo nessun documento storico di una migrazione da altre terre friulanofone verso Aquileia, sulla cui storia siamo dettagliatamente informati. Non si trovano le tracce di una migrazione nemmeno esaminando il dialetto friulano aquileiese odierno, che invece si inserisce armonicamente nel continuum dialettale e non ha rapporti particolarmente stretti con zone del Friuli non finitime. D’altra parte, oltre a Zamboni, anche altri studiosi, che invece ritengono il friulano l’idioma indigeno di Aquileia, hanno notato che il confine tra friulano e veneto lagunare ricalca quello tra territorio longobardo e territorio romano, perciò è naturale ipotizzare che l’unità linguistica dell’Antichità si sia spezzata proprio in epoca longobarda (cf. Francescato/Salimbeni 21977, 90s.; Marcato 1987, 56).

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Se guardiamo i contrasti più evidenti nella fonologia dei due idiomi, vediamo che il veneto lagunare scelse le alternative più diffuse nell’Italia peninsulare (dove prevaleva il dominio dell’Impero Romano), mentre il friulano concordava piuttosto con l’area francese ed iberica (dove si erano costituiti gli altri stati romanogermanici). Accertato che il territorio aquileiese già in una fase precoce assiste alla scissione dello stesso dialetto latino originario in due distinte varietà neolatine, è necessario cercarne le cause. La nascita di un confine politico di per sé non porta automaticamente alla scissione linguistica; perché ciò avvenga occorre che si creino due nuove comunità che manifestano la propria identità pure sul piano linguistico. La prima comunità che prendiamo in esame si comincia a formare sulla costa e nelle lagune, in seguito alla riforma dell’esercito romano applicata in Italia a partire dalla fine del VI secolo proprio per contrastare l’avanzata dei Longobardi. Il carattere principale della riforma fu quello di legare stabilmente le unità militari ai territori da difendere (cf. Bavant 1979, 49s.). Ciò fu ottenuto applicando ai territori italiani lo schieramento elaborato a partire dal IV secolo per il vecchio limes imperiale, da cui la denominazione di milites limitanei (ma anche ripenses o castriciani) con cui si indicano questi soldati. Si trattava di soldati-contadini cui venivano assegnati degli appezzamenti lungo il confine da difendere, nei quali essi si insediavano con le proprie famiglie. Questo cambiamento di strategia difensiva comportò l’insediamento di un gran numero di limitanei lungo la costa altoadriatica, che alla fine del VI secolo divenne la nuova linea di frizione con lo stato longobardo che si era formato nell’entroterra. Dorigo ha ricostruito il funzionamento della società lagunare tra tarda Antichità ed alto Medioevo (cf. Dorigo 1994, 79–117). In particolare ha messo in rilievo come progressivamente i comandanti militari avessero concentrato nelle proprie mani i poteri militari e civili (cf. Diehl 1888, 162) e pure la proprietà terriera, riducendo i soldati in una condizione di dipendenza anche economica. A questo scopo i comandanti si avvalsero della collaborazione della gerarchia cattolica, alla quale imposero le proprie decisioni. La collaborazione consistette, da una parte, nella spartizione tra alti ufficiali ed enti ecclesiastici delle terre fino allora possesso del fisco imperiale, dall’altra, nell’imposizione della fede della Chiesa romana come religione «nazionale» dei Romani «di confine» (cf. Dorigo 1994, 83, 91). Infatti l’insediamento dei Longobardi in Italia era coinciso cronologicamente con l’apertura dello Scisma dei Tre Capitoli (553–700). Ai Tre Capitoli erano fedeli i vescovi dell’Italia settentrionale legati alla metropoli di Aquileia, ormai patriarcato autocefalo. Le autorità imperiali, invece, imposero al clero della costa l’obbedienza al papa. Cessato lo scisma, un’altra contesa religiosa – il rifiuto dell’iconoclastia bizantina – portò al culmine del processo di ridefinizione identitaria della comunità della costa, rappresentata da quello che le fonti chiamano Venetiarum exercitus, che nell’VIII secolo si elesse un proprio dux e prese le armi contro i Bizantini (cf. Dorigo 1994, 81, 117). In conclusione, la militarizzazione, la resistenza al nemico esterno quasi in una situazione di assedio e l’identità religiosa cementarono la comunità delle lagune e ne

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rafforzarono i legami con l’Italia peninsulare. In questo contesto ebbe origine il veneto lagunare. Parallelamente si formava l’altra comunità che prendiamo in esame. In breve anche i Longobardi avevano compreso il vantaggio che portava loro la competizione tra papato e patriarcato aquileiese. Si assunsero allora la tutela delle diocesi dell’entroterra, che appunto facevano riferimento al patriarcato, per contrapporre alla Chiesa «nazionale» dei Romani «di confine» una Chiesa «nazionale» degli ex-Romani residenti nel regno longobardo (cf. Gasparri 1991, 10). La strategia longobarda ebbe successo. Decaduta Aquileia, la popolazione indigena iniziò a identificarsi con il ducato longobardo sottoposto al nuovo capoluogo Forum Iulii; anzi, in breve il territorio assumerà il nome del capoluogo, da cui deriva la forma friulana odierna: Friûl. Gli ex-Romani che lo abitavano assunsero quindi l’etnonimo di Furlans < * FƱRƱIULIANOS . Già altri linguisti e storici hanno formulato l’ipotesi che lo scisma dei Tre Capitoli abbia contribuito alla dissociazione della popolazione romana del regno longobardo dall’amministrazione dell’Impero Romano (tra gli altri cf. Francescato/Salimbeni 21977, 78; Marcato 1987; Gasparri 1991; Delogu 2006), ma questo non è l’unico elemento a sostegno dell’ipotesi di un’adesione della popolazione indigena al regime longobardo. Le necropoli friulane di epoca longobarda custodiscono i resti di individui appartenenti a entrambi i popoli, in certi casi addirittura in continuazione con necropoli di epoca romana (cf. Brozzi 1989, 12; Buora 1995, 137), a differenza di quanto risulta per le sepolture della precedente epoca gotica (cf. Stasolla 2002). Ciò depone a favore di una maggiore integrazione fra i due popoli rispetto a quanto constatato per le immigrazioni precedenti. L’adesione al nuovo stato poteva avere pure una motivazione economica: le imposte dello stato longobardo erano molto più leggere di quelle dell’Impero Romano. Il forte decentramento dell’amministrazione longobarda, poi, consentiva una maggiore corrispondenza delle pretese dell’amministrazione alle possibilità reali dei proprietari terrieri. Prova ne è la corrente migratoria di cittadini romani che si rifugiarono per motivi fiscali in territorio longobardo (cf. Delogu 2006, 116). Va sottolineato qui che a ridosso del confine friulano una parte rilevante della popolazione romana della costa, i soldati-contadini, si trovava in una condizione di semischiavitù. Come già scritto sopra, i tribuni militari avevano il comando sui soldati, erano i proprietari delle terre che i soldati lavoravano da contadini, inoltre erano stati investiti del potere giudiziario nel quadro della militarizzazione avvenuta nel VI secolo (cf. Dorigo 1994, 83). Invece proprio il Friuli continentale, in quanto prima conquista, godette verosimilmente di un livello di vita superiore alla media dei domini longobardi (cf. Delogu 2006, 120). In conclusione, anche se i neolatini friulani non integrarono i Longobardi finché ne durò il regno, costituirono una comunità che si riconosceva nella difesa della propria Chiesa minacciata dal cesaropapismo bizantino, nonché nel legame con la propria terra, in cui il ceto agrario e la gerarchia ecclesiastica godevano

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di una notevole autonomia nei confronti del debole potere politico centrale, che comunque riusciva a garantire i loro interessi. In questo contesto ebbe origine il friulano.

1.2 Il friulano e il veneto a Ovest Nelle pagine precedenti è stata descritta la combinazione della nascita del confine politico meridionale del Friuli con l’origine degli idiomi friulano e veneto lagunare, restati da allora sempre in contatto. Se spostiamo la nostra attenzione al confine linguistico occidentale, oggi troviamo che il passaggio tra il friulano e il veneto settentrionale sia nella zona collinare che nella pianura (il confine alpino unisce il friulano al ladino centrale, la costa parla veneziano) non è netto, ma comporta una fascia di territorio bilingue. Il fiume Livenza ne segna il limite occidentale e verso Est raggiunge una profondità che oscilla tra i 10 e i 20 chilometri di distanza dal Livenza, arrivando a Sud-Est quasi fino al fiume Tagliamento (cf. Francescato 1966, 92s.). Le città venetofone di Pordenone e Portogruaro sono monolingui, sebbene in passato vi si parlasse anche il friulano. Del resto, le parlate friulane della fascia bilingue costituiscono delle varietà di transizione. In esse il sistema friulano non è coerente, mentre trapela l’influsso del veneto, anch’esso in maniera asistematica. Alcuni linguisti parlano in proposito della fascia di transizione friulano-veneta, altri usano il termine «anfizona», sebbene non nell’accezione di Ascoli (che infatti non utilizzò il termine per questa zona), ma piuttosto secondo la concezione moderna di Giovan Battista Pellegrini (cf. Zamboni 2007, 30, 33s.). Il quadro linguistico ora esposto è in costante mutamento. Il veneto è in espansione da secoli e tuttora avanza; la varietà più diffusa è il veneto settentrionale, ma al Sud progredisce il veneziano, a scapito non solo del friulano, ma pure del veneto lagunare. L’altro processo espansivo è quello del toscano (italiano standard), che è sentito qui come ancora più prestigioso del veneto. Sappiamo, dunque, che il quadro linguistico in passato era diverso, però delle caratteristiche delle lingue parlate nel Veneto settentrionale durante l’alto Medioevo non sappiamo molto. Per studiare il contatto linguistico nel passato, perciò, dobbiamo innanzitutto chiarire come parlassero i vicini occidentali del Friuli. Già nell’alto Medioevo fu rilevante il ruolo della cultura francese. Nel campo politico, alla fine dell’VIII secolo, ai Longobardi subentrarono i Franchi. La letteratura in langue d’oc e d’oïl sarà presente in Veneto fino almeno al XIV secolo. Anzi, proprio Treviso fu l’ultimo grande centro della letteratura d’oc dopo la caduta delle corti del Sud della Francia.

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1.2.1 Il friulano e l’idioma della Marca Trevigiana La città di Treviso è il centro di cultura della pianura veneta settentrionale che ci offre il maggior numero di dati, essendo diventata dal basso Medioevo il capoluogo politico e culturale dell’area. Diversi linguisti concordano sul fatto che l’attuale veneto trevisano abbia coperto a partire dal XIV secolo una precedente varietà «friulaneggiante» (cf. Lomazzi 1972, 86), ma non siamo in grado di dire quali fossero più esattamente le caratteristiche di tale idioma. Infatti, i documenti medievali trevisani non ci testimoniano un volgare indigeno scritto in maniera coerente in più documenti. Si sono conservati però tre testi letterari trevisani che hanno delle caratteristiche distanti dal modello toscano e, in parte, dagli altri modelli veneti. Se dunque non seguivano dei modelli esterni, dobbiamo concludere che le loro peculiarità provengono dalla lingua parlata allora a Treviso o almeno in una parte del suo territorio. Il carattere letterario limita il valore della loro testimonianza linguistica; inoltre la loro composizione viene posta appena nel Duecento, mentre più interessante per noi sarebbe indagare l’area linguistica nel periodo altomedievale, quando gli influssi linguistici esterni non erano ancora forti. Il testo più lungo fa parte del complesso del Roman de Renart e viene designato con il titolo convenzionale di Rainaldo e Lesengrino. Lomazzi (1972) ci ha dato una fondamentale edizione parallela dei due manoscritti della seconda metà del XIV secolo che lo conservano. Un manoscritto si trova a Oxford e se ne ipotizza la stesura a Padova, l’altro manoscritto si trova a Udine (manoscritto U) e se ne ipotizza la stesura a Treviso. L’attribuzione geografica dell’origine dei manoscritti è basata su elementi esclusivamente linguistici. Il testo fu mistilingue già alla composizione, che collochiamo allo scadere del Duecento (cf. Benedetti 2005, 9), ma gli scrivani, nelle versioni arrivateci, ne modificarono ulteriormente la forma linguistica. Il carattere fondamentale del testo viene definito «veneto di terraferma», ma il manoscritto U viene attribuito a Treviso proprio per dei tratti designati «friulaneggianti». Vediamo dunque i tratti linguistici di U pertinenti al tema dell’attribuzione geografica; il nostro schema si discosta in alcuni punti dall’interpretazione della Lomazzi (1972, 80–82, 117). Tratti genericamente veneti: forma unica per la terza persona sia singolare che plurale del verbo, la presenza di xé/sé per la terza persona singolare di ‘essere’, rari lessemi. Tratti in comune tra gli scritti medievali tanto friulani quanto veneti di terraferma: scempiamento delle geminate, lenizione delle sorde intervocaliche (anche fino al dileguo), apocopi vocaliche, assibilazione di lat. /k/, /g/ davanti /ɪ/, /e/, /ɛ/, conservazione dei nessi /kl/, /gl/, /pl, /bl/ inversione interrogativa del pronome soggetto. Tratti tipici dell’area friulana: apocopi vocaliche molto frequenti, /-v/ neolatino > /-f/, pronomi personali soggetto etimologicamente corrispondenti al nominativo latino, la presenza di è per la terza nonché di ses per la seconda persona singolare di ‘essere’, desinenze verbali di seconda singolare in -s/-es, germanico W - > v-, palatalizzazione di /ka/ e /ga/ neolatini in tutte le posizioni.

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Tratto trevisano (comune ad altri manoscritti coevi di Treviso): /ei/ < /ɪ/, /e/ ed /ɛ/ toniche latine. Non inserisco questo tratto tra le corrispondenze con il friulano, perché nel testo si trova prevalentemente davanti a nasale (bein, teines), cioè in una posizione che in friulano ostacola i processi di dittongazione (difatti friul. ben, tens). Interessante che l’esito del nostro testo è tipico della parlata moderna di una località ladina isolata all’estremo margine occidentale del Friuli, Erto, il cui idioma viene considerato da alcuni linguisti friulano (cf. Francescato 21970; Frau 21984, 16) e da altri ladino centrale (Ascoli 1873, 390; Gartner 1892; Tagliavini 1926, 28; Battisti 1946–1947, 40ss.). Nell’ertano troviamo anche il passaggio di lat. A tonico > [ɛ], e numerosi casi di e al posto di a tonico troviamo in U. Una conferma indiretta che il nesso ein sia trevisano viene anche dal fatto che lo stesso manoscritto U contiene un altro poemetto di cui abbiamo altrove (a Venezia) una versione più veneta (veronese). Sebbene nella versione di U di questo poemetto già Biadene (1885, 220) abbia riconosciuto un prevalente influsso friulano, essa non presenta traccia del nesso ein, pur condividendo con il Rainaldo e Lesengrino altri tratti non veneti. La grande quantità di corrispondenze tra il manoscritto U e la lingua friulana induce anche a pensare a una stesura friulana dello scritto. Infatti vi fu apposta nell’Ottocento una nota che ipotizza come luogo d’origine il monastero di Moggio Udinese, nel Friuli nordorientale. In ogni caso abbiamo trovato nel Rainaldo e Lesengrino almeno un tratto che definiamo esclusivamente trevisano. Inoltre, Dante ci testimonia la presenza nella Treviso del Trecento di un altro tratto di quelli rilevati: egli nel De vulgari eloquentia (I, XIV, 5) attesta con le parole «nof pro novem, vif pro vivo» il passaggio /-v/ neolatino > /-f/. Oltre a questa testimonianza, notiamo ancora che i fenomeni che corrispondono al friulano sono contenuti pure negli altri due testi trevisani cui ci siamo riferiti sopra. Si tratta della canzone mistilingue En rima greuf a far, a dir e stravolger, composta da un Auliver, e di una tenzone trilingue tra un Veneziano, un Padovano e un Trevisano (cf. Lippi 1991, 462–465, 471–474). Entrambi i documenti che ci tramandano le composizioni sono dell’inizio del Trecento. Il friulano non godeva a Treviso nel basso Medioevo di un prestigio tale da indurre i poeti locali a imitarlo. Ne concludiamo che i tratti non riconducibili agli altri idiomi del Veneto vanno considerati come presenti nella parlata trevisana dell’epoca. Del resto le concordanze con il friulano sono naturali, se prendiamo in considerazione che Treviso fu anch’essa sede di uno dei primi ducati longobardi e di una delle diocesi fedeli ai Tre Capitoli. Il contesto storico in cui si è formata la parlata trevisana altomedievale corrisponde a quello delle origini del friulano. L’analisi condotta finora mostra che il confine occidentale del friulano nel Trecento era molto sfumato e che nel Trevisano era ancora parlata una varietà linguistica più vicina al friulano che al veneto lagunare. In altre parole, il trevisano originario presentava una combinazione di attributi rilevanti per il geotipo ladino ascoliano,

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così come le aree contermini del Friuli a Est e del Cadore a Nord. Nel veneto lagunare, invece, prevalgono da sempre i tratti del geotipo italiano. È utile ripetere qui che in ogni caso i nostri primi dati sulla situazione linguistica oltre il confine occidentale friulano nel Medioevo sono documenti scritti nel Trecento. Oltre ai filtri della formazione colta che dobbiamo presupporre per gli estensori, dobbiamo tener presente anche la sfasatura cronologica tra la lingua del testo e le varietà sociolinguistiche realmente parlate. La compresenza di diverse varietà può spiegare perché i testi «friulaneggianti» di Treviso arrivatici siano così scarsi, prevalendo negli archivi altre lingue della cultura scritta: latino, occitano, francese e toscano. Un’altra fondamentale distinzione è quella tra la società urbana e quella rurale. Questo fenomeno è particolarmente rilevante a partire dal momento dell’espansione del modello linguistico veneziano alla fine del XIV secolo. Le città recepirono molto più celermente le innovazioni; anche se si orientarono velocemente verso Venezia e quindi verso la Toscana, la campagna si adeguò più lentamente, come testimonia il pavano di Ruzante (Folena 1990).

1.3 Dagli Ottoni alla supremazia veneziana 1.3.1 Compare il toscano Nelle pagine precedenti ci siamo concentrati sulle corrispondenze linguistiche tra Friuli e Veneto settentrionale, ma in realtà tra l’XI e il XIV secolo il panorama della cultura dominante mostra tra Treviso e il Friuli uno iato. La spiegazione consolidata di questo iato constata che il Friuli, al momento della scissione dell’impero carolingio tra la Francia e le terre controllate dagli Ottoni, partecipa, a differenza delle terre venete, alla costituzione del nuovo stato plurietnico ottoniano. L’investitura a conte del patriarca di Aquileia nel 1077 è considerata il momento decisivo dell’affermazione dei legami politici tra il Friuli e le regioni transalpine. Lo iato culturale corrisponde a una diversa evoluzione della società che si ripercosse anche sul comportamento linguistico della popolazione friulana. In Friuli continuò il suo sviluppo la società feudale, mentre ad occidente si diffondeva la civiltà comunale che dava grande spazio ai ceti medi urbani (cf. Francescato/Salimbeni 21977, 100). Furono proprio quei ceti medi urbani a optare nell’Italia settentrionale per lo stile di vita e la lingua toscani. L’affermazione del toscano a Nord degli Appennini fu un processo graduale che, sebbene si manifesti pienamente appena dopo la metà del XV secolo (Videsott 2009, 283), incluse una lunga fase preparatoria. Proprio nei secoli all’inizio di questa fase il Friuli non presenta uno sviluppo dei ceti medi urbani corrispondente e perciò non sarà in grado di aderire pienamente al modello toscano nemmeno quando, dalla fine del XIII secolo, se ne formeranno le condizioni politiche e sociali. La scripta di Udine, per esempio, si dimostrerà fino al XVI secolo, insieme a quella di Belluno, la scripta

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italiana settentrionale meno aperta alla «toscanizzazione» (Videsott 2009, 420; per questo concetto di scripta cf. Videsott 2009, 9). La ricca collezione di documenti custoditi dagli archivi friulani ci permette di ricavare molti dati sui cambiamenti del comportamento linguistico degli abitanti del Friuli. In particolare è interessante confrontare diverse fasi storiche; anche se la scrittura è una parte minima dell’uso linguistico, i cambiamenti che osserviamo negli scritti sono comunque il sintomo di qualcosa che era successo nella società. Il panorama della scrittura nel Friuli medievale e rinascimentale è descritto negli studi di Cesare Scalon (1982; 1987; 1995). Innanzitutto i documenti a disposizione confermano l’XI secolo come un momento di cesura, perché gli scritti del periodo antecedente non ci arrivano nemmeno sotto forma di frammenti di manoscritti riciclati nelle legature di testi successivi. Una quantità di frammenti riciclati rilevante si trova a partire dal XII secolo. Per l’80% sono frammenti di testi liturgici, il che ci conferma che a quell’epoca in Friuli la scrittura è ancora monopolio della Chiesa. Anche le scuole hanno fini esclusivamente legati alla vita ecclesiastica. Il rapporto stretto con l’Europa Centrale è testimoniato dal fatto che dal punto di vista grafico è difficile distinguere i codici scritti allora in Friuli da quelli scritti in Baviera o nell’Austria meridionale. Spostando la nostra attenzione al XIII e XIV secolo, troviamo solo un 20% di frammenti riciclati provenienti da testi liturgici. Nel XIII secolo i testi universitari forniscono la metà dei reperti; si tratta prevalentemente di testi giuridici legati alle università di Bologna e Padova, cioè due tra i primissimi nuclei che irradiarono il toscano come lingua di cultura nell’Italia settentrionale (cf. Folena 1990, 353). Forte è, comunque, anche l’influsso parigino: quattro frammenti filosofici su un totale di cinque sono di origine francese. Da altre fonti Scalon ricava che nella seconda metà del XIII secolo cresce l’alfabetizzazione. Le biografie dei maestri delle nuove scuole comunali attestano l’avvenuto inserimento della cultura friulana nell’area padana ed anche contatti con l’Italia centrale e meridionale. Il pubblico delle scuole si estende alla piccola borghesia urbana: sarti, spadai, ciabattini, bottegai. Nel Duecento (non solo in Friuli) l’inizio dell’espansione della lingua toscana non coincide ancora con la diffusione della letteratura scritta in quell’idioma. Ritornando all’analisi dei frammenti riciclati per le legature, per il XIII e il XIV secolo c’è un solo frammento di un libro in toscano, mentre ben cinque frammenti trasmettono testi in francese. In francese è arrivato anche il toscano Brunetto Latini. Per il XIV –XV secolo riusciamo a distinguere, sulla base di atti notarili, tre tipologie di biblioteche laiche a seconda del ceto sociale: le biblioteche dei nobili, quelle dei notai, dei maestri e dell’alta borghesia, quelle degli artigiani e della piccola borghesia. Dal punto di vista delle lingue, i nobili danno più spazio degli altri ceti ai testi in francese e in tedesco, i borghesi colti si concentrano sulla letteratura umanistica in latino, mentre sono gli artigiani che, nel XV secolo, tra i pochi libri posseduti privilegiano nettamente i testi religiosi in volgare.

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Dante e Petrarca in volgare compaiono nel corso del XIV secolo, ma non saranno mai particolarmente diffusi. Popolare diventa invece Boccaccio prosatore volgare, comune soprattutto presso i nobili. Accomuna tutti i ceti il plurilinguismo: nelle biblioteche di tutte e tre le categorie troviamo scritti in latino e nei tre volgari francese, toscano e tedesco. A questo proposito è interessante analizzare la richiesta di pagamento di un orefice di poco successiva al 1394 (Joppi 1878, 196s.). §1 A chi soth son scriti lis aresons e la domanda che Bartholomio domandá per lo Patriarcha Zuan, che fo imprima: §2 Fata rason cum Ser Francesch lo Vuraisinger d-unis chopis e d-uns chiandilirs et de unis impolis et de chialis et de una spada, restami a dar ducati XV. §3 Item per chonziduris di dos chopis di arunt [sic; l. ariint] et per arunt duc. ij, lis quals chopis dei a Ser Blascho. §4 Item per chonziduris di ij bazins et de una stagnada et d-un naph resta d-aver duc. vj. §5 Item per onzis dos de arrint et per faturis et furimielg de la spada del soradet Signor Patriarche Zuan computada l-onza soldi C, la onza monta marche de soldi j et soldi XL. §6 A chestis chiosis dey a Chamicho magistro di la Chamira e al so chompagno, lu qual Chamicho per pegno del pajament delis chiosis sora scritis mi dié la stagnada et la schudella et lo naffo in salvo. §7 Item Ser Zuantoni per uns furimegl d-una cintura del soradet Patriarcha Zuan duc. miez. Salvo a che che ió debeva aver de la famegla. L’istanza è scritta in friulano, ma si nota che chi scrive non è abituato a scriverlo; in cambio è influenzato dalle altre lingue usate per la scrittura alla fine del XIV secolo. Al §6 troviamo il latinismo «magistro». Lo è forse anche «Patriarcha» al §7, senza la palatalizzazione di /-ka/ (ma a quell’epoca non era sistematicamente segnata), che alterna con «Patriarche» al §5, dove vediamo l’incertezza nel rendere la desinenza -a/-e/-o. Il toscano è presente dovunque si tratti di soldi: §2 «ducati»; §5 «soldi», «marche»; §6 «pegno»; §§6, 7 «salvo». Al §5 c’è un’espressione tosco-veneta («marche de soldi»), dove l’elemento veneto è la preposizione «de», prevalente in tutto il documento (ma il friulano «di» è attestato ai §§3, 4, 6). Il prestito francese «furimegl» ‘fermaglio’ si trova ai §§5, 7. Il tedesco interviene a due livelli. C’è un aggettivo al §2 che è preceduto dall’articolo e perciò sembra usato nel suo significato e non come cognome: «Vuraisinger», cioè Wreisinger ‘di Freising’. L’altro livello è quello grafico. Abbiamo appena visto la ; al §3 c’è «Blascho» con il grafema sch da pronunciare come [ʒ]. Mancando in latino un grafema per le sibilanti palatali, viene adattato il trigramma che in tedesco nota la sibilante palatale sorda per rendere la corrispondente sonora.

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1.3.2 I Fiorentini Abbiamo visto che il volgare toscano è testimoniato più tardi in Friuli che nel confinante Veneto, per l’esattezza dopo la metà del XIII secolo, con l’instaurazione della quasi signoria dei Torriani. Così Scalon (1982, 58, 61) sintetizza il momento storico: «Il passaggio di poteri che avviene verso la metà del secolo XIII […] prima che cambiamento politico è da considerare come conseguenza di una lenta ed inarrestabile trasformazione economica, che emargina progressivamente anche in Friuli la classe sociale che fondava in maniera esclusiva ricchezza e potere sul possesso della terra». «In questa mutata situazione […] è del tutto comprensibile che la classe politica al potere cerchi nuove alleanze: non più con la vecchia nobiltà locale, ma con i banchieri veneziani o fiorentini che sono ora i detentori del potere economico e finanziario».

Se per i Veneziani il Friuli è vicino, la distanza che separa Udine da Firenze è di quasi 400 km; l’accenno ai banchieri fiorentini si riferisce, quindi, a persone emigrate in Friuli. Indipendentemente dalla provenienza degli operatori economici, comunque ormai la lingua legata alla nuova economia era il toscano, soprattutto a causa della posizione di assoluto predominio dei Fiorentini nella gestione dei capitali. Anche gli storici confermano che i Fiorentini nel Friuli erano, a partire dalla fine del XIII secolo, alquanto numerosi; anzi, che la loro presenza era ancora maggiore che nel resto dell’Italia centrale e settentrionale (cf. Davidsohn 1977, 870); nella cittadina di Gemona del Friuli è accertata la presenza di almeno 76 famiglie tra la fine del XIII e il XV secolo (cf. Davide 2009, 47). L’importanza del ruolo dei banchieri fiorentini è di nuovo ben colta da Scalon (1982, 58): «Il periodo che va dalla metà del Duecento, anziché periodo dei patriarchi guelfi, molto più opportunamente potrebbe essere denominato il periodo o l’epoca dei banchieri». Interessante è l’episodio di una controversia economica tra due Fiorentini conclusa sì da una sentenza del vicario patriarcale (Udine, 7 maggio 1332), ma in sostanza con l’adozione di un arbitrato scritto («scripturam in modum consilii») in toscano («vulgariter scripta in lingua Tuscorum») da quattro arbitri, tutti toscani, che entra in vigore dopo essere stato letto ad alta voce (cf. Tilatti 2006, 352–354). Dall’episodio ricaviamo che quattro notabili toscani concordano insieme un testo e lo scrivono non in latino, ma nel loro volgare (la data è del giorno precedente la sentenza). È la lettura pubblica in toscano del testo alla fine del giudizio che ha valore legale: deve perciò essere comprensibile ai presenti (forse il latino non lo sarebbe stato per tutti). Effettivamente sono quasi tutti toscani, ma il vicario e il notaio (che ricopia il testo nel regesto della sentenza) sono lombardi (non è specificata l’origine degli altri due personaggi citati). Un altro dato linguistico offre la constatazione che i Toscani sembrano preferire alcuni notai (cf. Tilatti 2010, 13). Certo la scelta del notaio dipendeva anche dalle

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referenze dei compaesani, ma probabilmente pure la lingua giocava la sua parte. Gli atti erano stesi in latino, ma il testo era la traduzione di quanto discusso prima. Perciò la pratica nel tradurre dal toscano al latino poteva essere uno dei fattori decisivi per la scelta del notaio. Del resto non doveva essere difficile trovare un notaio che conoscesse il toscano: molti di loro studiavano altrove in Italia settentrionale, spesso a Bologna o a Padova (cf. Scalon 1987, 22), che sappiamo essere centri orientati fortemente verso il toscano. Sopra abbiamo visto che i primi scritti letterari in toscano appaiono in Friuli appena nel corso del XIV secolo e che non rappresentano una quantità significante. Ciò non toglie che i Fiorentini emigrati, come in altre città italiane, potessero coltivare interessi letterari. Per esempio a Udine troviamo i Soldanieri/Soldonieri, famiglia fiorentina alla quale appartenne il popolare rimatore Niccolò. Un altro Niccolò Soldonieri suo contemporaneo risiedeva a Udine e venne inviato dal comune di Udine come ambasciatore al papa e a Venezia. Le missioni gli furono affidate per le sue doti di oratore (cf. Liruti 1830, 2s.; DBI, s.v. Monticoli, Andrea), ma non fu l’unico Fiorentino utilizzato come ambasciatore dai Friulani. Probabilmente la conoscenza del toscano era preferenziale nelle trattative diplomatiche fuori dal Friuli. In effetti anche le generazioni dei Fiorentini nati in Friuli dopo l’emigrazione conservavano la lingua. Gli emigranti costituivano delle comunità organizzate anche formalmente (cf. Davide 2009, 49) e alcune famiglie abitavano vicine, per esempio in Borgo Gemona a Udine (cf. Tilatti 2010, 13s.); una contrada dei Toscani è attestata per Gemona (cf. Davide 2009, 49s.). Il mantenimento della lingua era facilitato anche dalla politica matrimoniale. Sebbene i matrimoni fossero spesso utilizzati dai Fiorentini come strumento di integrazione nelle città di emigrazione, a differenza dei Lombardi che tendevano a non mescolarsi con la popolazione friulana (cf. Davide 2009, 50s.), non sono rari nemmeno i matrimoni tra giovani toscani. La sposa può essere fatta venire espressamente dalla Toscana oppure appartenere a un’altra famiglia emigrata, magari in un’altra città. Le famiglie fiorentine, infatti, si ramificavano strategicamente, costituendo una rete in grado di raccogliere informazioni e occasioni di affari su tutto il territorio (cf. Tilatti 2010). Grazie alla rete capillare degli insediamenti toscani, il loro idioma era presente in quasi tutti i centri urbani della regione. Nel XIV secolo la trasformazione dell’economia regionale era ancora recente. Davidsohn (1977, 870, 876) vede nell’inesperienza dei Friulani la spiegazione dell’alto numero di Fiorentini nella regione, che «a Firenze era considerata il paradiso degli affaristi». I rapporti tra gli emigranti e gli indigeni non erano basati sulla reciproca stima, al contrario i Fiorentini partivano da una posizione di maggiore esperienza e prestigio e molti se ne approfittavano. Approfittavano pure del fatto che i Friulani non capivano bene e non parlavano il toscano. Questo è uno dei temi della novella XCII del Trecentonovelle di Franco Sacchetti. Quest’opera – fonte ricchissima di informazioni sulla vita quotidiana di Firenze – testimonia che il Friuli era familiare per l’ambiente fiorentino.

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La novella XCII si svolge a Spilimbergo, ai piedi delle Prealpi sulla riva destra del Tagliamento, dove un Friulano chiamato «Soccebonel» (nome inventato) vuole imbrogliare un Fiorentino, ma alla fine risulta imbrogliato lui. Già all’inizio del racconto, quando Soccebonel vuol far credere di intendersi di tessuti, il Fiorentino inventa un nome immaginifico per il colore del panno che vuole vendergli e Soccebonel ci casca. Alla fine, poi, un altro Fiorentino, solidale con il primo pur senza ricavarne un guadagno economico, convince definitivamente Soccebonel che non è colpa del collega se il panno è troppo corto e non si lascia sfuggire l’occasione di farsi beffe del modo di parlare del Friulano, interpretando la parola «cest» ‘ciò’ come ‘ceste’. Non si tratta dell’unica parola «friulana» della novella: Soccebonel con il panno vuole farsi una «ciappa da barons» ‘cappa da uomo importante’. Altre parole «friulane» contiene la massima che conclude la novella CXXXVII: «signò» ‘signore’, «dunna» ‘donna’ e l’oscura frase «tirli in birli». Le parole sono definite friulane tra virgolette, perché non sono e non vanno intese come fedeli documenti del friulano dell’epoca: non si tratta di un’inchiesta dialettologica, ma di un’opera letteraria. La funzione del friulano è quella di aggiungere colore. Eppure, in quelle poche parole ci sono i tratti morfologici e fonetici più tipici per il friulano: la palatalizzazione di /ka-/, il plurale sigmatico, l’apocope delle vocali. È rilevato anche un tratto che conosciamo dai testi cividalesi del XIV secolo, la caduta di -r finale neolatina. Abbiamo trovato informazioni sull’emigrazione fiorentina verso il Friuli esaminando esclusivamente le fonti scritte. Il tipo di fonte privilegia automaticamente l’ambiente urbano e i ceti medi e alti della società. Tuttavia è naturale pensare che il contatto diretto con l’idioma toscano sia avvenuto solo in quegli ambienti, mentre difficilmente coinvolse le campagne (a parte i nobili), cioè la grande maggioranza dei Friulani di allora.

1.3.3 La supremazia veneziana L’influsso toscano giunse in Friuli non solo per via diretta, ma fu anche rafforzato dal contatto con Venezia. Essa non fu una delle prime città italiane ad accogliere l’idioma toscano come norma, ma, quando lo ebbe accolto, ne divenne uno dei principali centri di diffusione (cf. Videsott 2009, 420). Venezia nel corso del XIV secolo comincia l’espansione territoriale nella terraferma e nel 1420 ingloba anche gran parte delle terre friulanofone; ne restano esclusi il Friuli orientale con Gorizia come capoluogo e la città di Trieste. Ciononostante il tosco-veneto, la lingua scritta dell’amministrazione veneziana, si afferma dappertutto. Da una parte essa costituisce in tutto l’Alto Adriatico la lingua degli atti relativi al commercio all’ingrosso, dall’altra anche i funzionari e i notai delle località non veneziane si formano nelle scuole del Veneto o a Bologna o in altre località padane.

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In realtà, il processo di unificazione dello scritto cominciò già prima dell’espansione politica veneziana. Dapprima la norma toscana venne accolta in misura rilevante nelle scritture a Mantova e Verona, in breve imitate dall’amministrazione padovana (cf. Folena 1990, 354; Ineichen 1957). Il toscano, però, non sostituì del tutto la tradizione scrittoria precedente e ne mantenne alcuni elementi. Incoerenze e semplificazioni emersero soprattutto nella ricostruzione delle vocali finali, che nelle parlate locali avevano subito l’apocope. Successivamente si diffuse un modello veneziano, che comportò una maggiore coerenza nella ricostruzione delle vocali finali e l’impiego della morfologia toscana nella sua interezza. Gli influssi locali si limitarono al lessico e ad alcuni riflessi della pronuncia (incertezza nella grafia delle geminate, lenizione veneta delle consonanti intervocaliche). La compresenza di elementi veneti e toscani ha portato i filologi odierni a coniare per questo idioma scritto il nome di «tosco-veneto». Il processo di progressiva costituzione del tosco-veneto ha lasciato traccia anche negli archivi friulani. Nei primi testi scritti in friulano incontriamo qualche elemento lessicale e a volte morfologico veneto o toscano. Un testo scritto in buon friulano (cf. Vicario 2002, 310, anche nota 7) nella seconda metà del XIV secolo è un eserciziario di latino: «Gli dinas, uadagnaç di te a tuart ed a roson, ti [super]bisin contra glli toy visini, gli quagl tu es [s]tat … timut infin a chi. / Denarijs, quos tu lucratus fuisti per fas et nefas, tu superb[is] adversus tuos vicinos, a quibus te timeri fuit actenus» (Benincà/Vanelli 1998, 28, nº 25).

In questo brano troviamo una parola latina («contra»), un termine plurale veneto sicuro («visini», cf. «visins» all’esercizio immediatamente precedente, nº 24) e uno probabile («toy»). «La carne del çogulo, molt pluy tenero de lis altris, si vent comunomentri la livro sedis vornes, no uadagnaç del pover omo cença fadio. / Carnium edinarum tenerimaram (sic!) aliarum venditur libra comuniter sedicim parvulis, quos pauper homo non lucratus fuit absque labore» (Benincà/ Vanelli 1998, 42, nº 74).

Questo brano presenta molte parole terminanti in -o. In genere si tratta della realizzazione del morfema marcato femminile singolare -a/-e/-o. Per «omo», invece, si può trattare tanto di un toscanismo che di un venetismo, così come nel caso di «carne». Nel caso di «çogulo», la radice è friulana (zocul ‘capretto’), ma la desinenza è toscana (il veneto dopo -l- presenta apocope vocalica). Già negli scritti dei primi anni dopo la conquista veneziana troviamo il toscoveneto, ma alcuni testi mostrano tratti morfologici più legati alle scritture dell’area veneta occidentale. «Item juntura ja de sarza rossa cun el cavezo de perle / para ij de lenzoli grandi / sadoni d-arizent 4 / pironi d-arizent 4 / rasadori cun li cavezi lavoradi ij / fazaleti 8 / camisa j / ll. x de fillo sutil» (Vicario 2002, 317).

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In questo testo in tosco-veneto del 1450 c’è un solo friulanismo (sadon ‘cucchiaio’), comunque con il morfema plurale tosco-veneto -i. Il morfema colpisce perché, a differenza del toscano, in questo testo funziona tanto per il maschile che per il femminile («li cavezi lavoradi» ‘le estremità lavorate’). Il fenomeno si trova nel XIII e XIV secolo nella zona del Veneto occidentale e a Bologna (cf. Zvonareva 2012, 83); la convergenza del morfema per il plurale maschile e femminile si rileva anche a Padova (cf. Ineichen 1957, 104). Anche l’apocope vocalica di «arizent» ‘argento’ (la parola friulana è invece arint) richiama le scritture del Veneto occidentale (cf. Zvonareva 2012, 57; l’epentesi di i è un influsso romagnolo?), ma l’abbiamo vista anche nella sezione su Treviso. Questi tratti testimoniano la fase di convergenza iniziata nell’entroterra Veneto. Del resto non sarebbe sorprendente se l’estensore del nostro documento avesse studiato a Padova o a Bologna. Successivamente i tratti veneto-occidentali in Friuli scompaiono e prevale su tutto il territorio un tosco-veneto di provenienza piuttosto veneziana, nel quale l’influsso toscano è più manifesto. Ecco un esempio di testo scritto alla fine del XVII secolo da un mugnaio molto istruito di Montereale Valcellina (a Nord di Pordenone): «Et io Menego Scandela dove io andarò io pregarò tuti li fideli cristiani a voler oservar tuto quelo che li comanda la nostra Santa Madre Gesia Catolicha Romana et li soi supiriori, ziové li inquisitori, vescovi et vicarii et piovani et capelani et curati de le sue diozie, et che lori tolia la mia esperienzia» (Ginzburg 1976, 126).

Nel testo le incertezze sulle geminate sono risolte con la loro totale abolizione. Il carattere generale del testo è toscano, ma il veneto trapela nei futuri in -arò («andarò», «pregarò») e nell’estensione della III persona singolare al plurale («tolia»). Elementi lessicali veneti sono l’antroponimo «Menego» (per il friulano Meni ‘Domenico’), i sostantivi «gesia» ‘chiesa’, «piovani» ‘parroci’, la preposizione «de» e il verbo «tolia» ‘prendano’. Molto interessanti sono le scelte linguistiche del sacerdote pordenonese Pietro Edo (1427–1504). In quanto umanista, scrisse la maggior parte delle sue opere in latino (cf. De Nicola 1977, 10). Eppure, quando gli capitò di fornire il testo per il primo libro uscito a stampa nella storia del Friuli (1484, Udine), non scelse né il toscano né il tosco-veneto di base veneziana, bensì quella che egli chiama «lengua Triuisana» (trevisana). La sua scelta contrasta con il prestigioso contenuto del libro: è la traduzione dal latino in volgare della costituzione del Friuli. Ecco la spiegazione data dal traduttore stesso: «[…] sono varie anchora le lingue. pero volendo ne io elezer vna che fosse condec(en)te et conforme. non tanto a la materia del volume: quanto a le persone a chi per alguna casone tal constitutioni ponno esser necessarie. Et non me parendo conueniente la elegantia de la toschana l(en)gua: per esser troppo oscura a li populi furlani. ne (an)chora la furlana: tra perche n(on) e vniuersale in tutto il friule: e tra perche mal se puo scriuere: e pezo lez(en)do pronunciare. et specialmente da chi non e praticho ne li vocabuli et accenti furlani: Imaginai in tal translation

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douermi acostar piu tosto a la lengua Triuisana che ad altra. per esser assai expedita e chiara et intelligibile da tutti. come quilla: che segondo il mio giudicio participa in molti vocabuli con tutte lingue italiane» (trascritto dal facsimile in Venuti/Ziraldo 2007, 250).

La lingua della traduzione è dunque sempre un tosco-veneto, ma in questo caso basato sul veneto dell’entroterra. Lo confermano alcune scelte morfologiche che richiamano scritture dell’entroterra veneto nel XIV secolo, come la II persona plurale in -di al posto del toscano -te («hauedi», «dubitadi») e i participi passati passivi con la lenizione («pregado», «considerado»). La scelta linguistica dell’Edo non sembra avere trovato continuatori. Lui stesso abbandonò la «lengua Triuisana» e due anni dopo preparò per la stampa l’Officio de Nostra Donna (Edo 1977) in versi toscani (con qualche influsso veneto, ma non rilevante), pur essendo anch’esso destinato a un pubblico di persone prevalentemente poco istruite. Le scelte dell’Edo attestano una situazione di plurilinguismo in cui i ruoli sociali delle singole lingue stavano mutando e non si erano ancora del tutto assestati. Ci attesta anche il ruolo della stampa, che allargava la diffusione geografica delle opere e nella produzione dei libri coinvolgeva persone di provenienza diversa. Il tipografo di entrambe le opere ediane citate, per esempio, era fiammingo. Una lingua compresa in un territorio ristretto non permetteva di sfruttare a pieno la nuova tecnologia. Si tratta di fattori che sostennero ulteriormente l’affermazione del toscano come lingua della cultura in Friuli. Sempre a Pordenone, mezzo secolo dopo l’Edo, nacquero pure Giovanni Francesco Fortunio, autore della prima grammatica a stampa del volgare toscano, e Niccolò Liburnio, autore di diverse opere grammaticali sul volgare (cf. De Nicola 1977, 22s.). Entrambi, che non vissero tutta la vita in Friuli, figurano tra coloro che parteciparono al dibattito sulla codificazione del toscano come lingua della cultura italiana sostenendo delle posizioni pragmatiche, basate sull’uso effettivo degli intellettuali dell’epoca, non aderendo completamente all’intransigente trecentismo del loro contemporaneo Pietro Bembo. Il loro pragmatismo, come le scelte dell’Edo, testimoniano che l’inserimento del Friuli nel nuovo contesto linguistico faceva sentire particolarmente viva (ancor più al confine occidentale) la necessità di acquisire velocemente nuovi strumenti linguistici, anche a discapito della loro eleganza. Un po’ più giovane dei due grammatici fu un altro pordenonese, Girolamo Rorario, il quale invece definì il volgare toscano una lingua «tenebricosam, immundam, olentem» (Morgana 1992, 293s.). Suo coetaneo è l’udinese Romolo Amaseo, il più famoso difensore del latino come lingua di cultura dell’Italia invece del volgare. Quando parliamo di toscano e tosco-veneto nel Friuli anteriore al XX secolo, si tratta sempre dell’ambito scritto. Fondamentale è il loro ruolo di prestigio proprio perché il canale scritto è nella cultura europea quello socialmente privilegiato. Nell’uso orale quotidiano, però, il toscano non poteva funzionare, perché troppo innatu-

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rale e impegnativo anche per i ceti alti. Per i friulanofoni monolingui, poi, il toscano è incomprensibile. Diverse, invece, erano le potenzialità del veneto. La comune origine dal latino aquileiese e i rapporti continui con tutta l’area altoadriatica garantiscono una larga condivisione delle radici lessicali venete e friulane. I due idiomi si sono distanziati prevalentemente nella morfologia e nella fonologia. Quindi, se un parlante di uno dei due idiomi viene esposto con una certa frequenza all’altro, proprio perché il nucleo semantico della comunicazione viene intuito grazie all’elemento lessicale, facilmente viene acquisita in breve tempo una buona competenza passiva dell’altro idioma. Se non ci sono ostacoli psicologici o sociali. Abbiamo visto che i mercanti e i banchieri veneziani frequentavano in numero rilevante il Friuli già almeno dal XIV secolo, costituendo la principale concorrenza dei Fiorentini. Fin dall’inizio, come i Fiorentini, si trovarono in una posizione sociale privilegiata. L’arrivo dell’amministrazione veneziana nel XV secolo significò l’affermazione definitiva della superiorità sociale dei Veneziani in Friuli. Il modello di lingua parlata trasmesso dai nuovi amministratori, in Friuli come nell’entroterra veneto, era un veneziano che aveva eliminato gli originari tratti municipali e che si avvicinava progressivamente al toscano. Nel Friuli però, a differenza degli altri domini dell’entroterra, il veneziano non si fuse con la parlata locale in modo da formare un nuovo dialetto veneto locale con carattere identitario per la comunità dominata. Il veneziano importato nei centri urbani del Friuli è restato sempre la lingua utilizzata solo dai ceti medi senza diventare la lingua di tutta la comunità e mantiene sempre il nome di «veneziano» o «veneto». Mentre Sacile, Pordenone e Portogruaro aderiscono al modello linguistico presente immediatamente oltre il confine occidentale, il riferimento della borghesia di Udine, Cividale del Friuli, Tolmezzo, Spilimbergo, Palmanova è la parlata della città di Venezia; ci troviamo, quindi, di fronte a un fenomeno di paracadutismo linguistico (↗5.3 Lingue urbane). Dal XV secolo, dunque, il veneziano entrò progressivamente nell’uso orale dei ceti medi dei centri urbani, presso i quali mantenne sempre il ruolo di socioletto. A partire dal XX secolo in Friuli si affermò il toscano come lingua parlata nella sua varietà di italiano standard e sostituì il veneziano nel ruolo di lingua di prestigio. Questo fatto ha determinato la quasi totale scomparsa dalle città friulane del veneziano «paracadutato», perché l’identità locale resta comunque legata al friulano. Alcuni linguisti utilizzano anche per il Friuli l’espressione «veneziano coloniale». In ogni caso si tratta di una varietà nettamente distinta dal veneziano coloniale dell’Adriatico orientale, che viene trattato nelle pagine seguenti.

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1.4 Il friulano e il veneto ad Est Spostiamo adesso la nostra attenzione alla zona orientale dell’area friulanofona. Come abbiamo visto sopra, nel 1420 il Friuli fu diviso e il Friuli orientale con Gorizia entrarono definitivamente nel sistema degli stati dominati dagli Asburgo, di cui faceva già parte Trieste. Anche Muggia, come la maggior parte del Friuli, in quel periodo venne inglobata da Venezia, mentre le altre città dell’Istria settentrionale ne erano dominate già dalla fine del XIII secolo. Nell’Istria il veneziano comparve molto presto e la sua affermazione coincise con la regressione del friulano. Mentre la friulanità linguistica di Gorizia e della pianura sulla riva destra dell’Isonzo è tuttora un dato di fatto, per il resto del territorio non c’è ancora un numero sufficiente di studi completamente obiettivi. In particolare per l’Istria settentrionale non c’è stata finora la volontà di condurre uno studio sistematico e approfondito. Crevatin ritiene che il friulano arrivava in origine fino alla riva destra del fiume Quieto. La presenza del friulano in questa regione fu dovuta alla situazione creatasi in epoca longobarda; alla medesima epoca risale l’insediamento degli Slavi nell’interno della penisola, che proprio sulla riva opposta del Quieto creano un cuneo che separerà friulano a Nord e istrioto a Sud (cf. Crevatin 1989b, 550s.). L’opinione di Crevatin è che i dialetti dell’Istria settentrionale non fossero propriamente friulani, ma che rappresentassero una graduale transizione tra il friulano di Trieste e Muggia da una parte e l’istrioto dall’altra (cf. Crevatin 1989a, 558s.). Mentre per il resto della costa adriatica nordorientale non abbiamo dati definitivi, per Trieste e Muggia sappiamo che anche al culmine dell’espansione veneziana nel XV secolo il friulano vi era ancora parlato (↗5.4 Tergestino/Muglisano). Ne testimonia la vitalità e il prestigio, per esempio, il nome friulano della moglie triestina di Fortunio: Pasuta (diminutivo di Pâs, cioè Pace). Nelle città dell’Istria e a Trieste, come in Dalmazia, nel frattempo si formava il veneziano coloniale dell’Adriatico orientale, detto anche de là da mar. Anche in questo caso ci troviamo davanti a un fenomeno di paracadutismo linguistico; il modello di riferimento è la parlata cittadina di Venezia. Il suo influsso durò molti secoli, almeno dal XIII al XIX , perciò i primi contatti con le «teste di ponte» rappresentate dai principali porti in diverse località ebbero il tempo di sfociare nella formazione di nuove varietà urbane locali, che finirono per subentrare del tutto alle lingue neolatine indigene, dapprima nelle città costiere e successivamente nel loro entroterra, ad esempio nel Capodistriano. Nel XX secolo il triestino sostituì il veneziano come modello per il veneziano coloniale orientale. Mentre in Friuli il veneziano non è mai diventato la lingua di identificazione di tutta la comunità locale, il triestino è diventato la lingua comune dei Triestini; nemmeno i Triestini sloveni attribuiscono una connotazione negativa al suo utilizzo. Si tratta in ogni caso di una varietà caratterizzata, rispetto alla parlata di Venezia, sua rivale plurisecolare, da alcuni arcaismi veneziani, da alcuni fossili lessicali

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friulani e dall’influsso dello sloveno sulla pronuncia e sulla sintassi. Anche in questo differisce dal veneziano «paracadutato» delle città friulane, che mostra sì alcuni arcaismi, ma non ebbe mai la tendenza a differenziarsi radicalmente dal modello veneziano. Il triestino è in una fase di forte espansione; in Friuli ormai predomina nella città di Gorizia e si espande anche nella pianura meridionale arrivando a occidente fino alla cittadina di Cervignano, dove comunque la posizione del friulano è ancora forte (↗5.3 Lingue urbane). In Istria ha quasi completamente sostituito l’istrioto. Il triestino si espande anche ai danni degli altri due veneti (non coloniali) tipici del Friuli meridionale: il gradese e il bisiacco, cioè l’idioma che si parla nel porto di Monfalcone, presso la foce dell’Isonzo, e nel suo immediato entroterra (↗5.2 Ertano e cassano; bisiaco; fascia di transizione veneto-friulana). Studi recenti hanno fatto chiarezza sull’origine del bisiacco. Puntin (2003) ha dimostrato che non ci sono tracce di una popolazione stabile venetofona prima della metà del XVI secolo. Nei secoli immediatamente precedenti, la maggioranza della popolazione era slovena, ma era presente anche un certo numero di parlanti friulano. Il friulano è parlato ancora oggi nel borgo di Sdraussina. La spiegazione più logica di questa situazione è che il latino locale si sia evoluto in friulano, ma che successivamente nell’area ci sia stata una cospicua immigrazione slovena (↗6.3 Veneto). Successivamente l’area conobbe due crisi demografiche causate da guerre, una all’inizio del XVI  secolo, l’altra un secolo più tardi. L’amministrazione veneziana organizzò l’immigrazione di contadini dell’entroterra veneto per ripopolarla, causandone la venetizzazione linguistica (cf. Puntin 2003). Le caratteristiche del bisiacco, pertanto, riflettono la stratificazione di questa serie di contatti linguistici. Il bisiacco appare come un veneto rustico conservativo, proprio per l’epoca in cui si svolse l’emigrazione dalle campagne venete: i contadini emigrati erano contemporanei di Ruzante, il cui pavano ha già suscitato un grande interesse da parte dei filologi. Dopo l’emigrazione, però, il contatto diretto con le campagne venete fu interrotto e il loro idioma evolse nella maniera normale per le isole linguistiche, cioè con fenomeni di conservazione e con alcune innovazioni dovute al contatto. Gli idiomi in contatto erano innanzitutto lo sloveno e il friulano, non solo come astrato, ma anche come sostrato, perché gran parte della popolazione indigena fu assimilata: il bisiacco si espanse progressivamente, raggiungendo il culmine nella prima metà del XVIII secolo (cf. Puntin 2003). Il contatto con il substrato (come già intuì Pellis, cf. Frau 2009–2010, 207) e con l’astrato spiega i numerosi friulanismi. Non solo, il friulano ha contribuito al mantenimento di alcuni elementi in comune tra veneto dell’entroterra e friulano, innanzitutto l’apocope vocalica. L’influsso dello sloveno aspetta ancora uno studio approfondito. Per esempio: spiega la pronuncia semivocalica della /-v/ etimologica rimasta scoperta in fine di parola (maschile nou, femminile nova ‘nuovo/a’, lou ‘lupo’), fenomeno tipico dello

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sloveno, che nonostante la pronuncia ugualmente scrive -v: maschile nov, femminile nova ‘nuovo/a’, lev ‘leone’.

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Maria Iliescu e Luca Melchior

7 Friulano nel mondo Abstract: Il fenomeno dell’emigrazione segna, con caratteristiche diverse lungo il corso dei secoli, la storia delle genti friulane. Complessa si rivela dunque la situazione del friulano (o meglio: delle singole varietà friulane) parlato nel mondo. Nel presente articolo, dopo una breve introduzione, si presenterà una concisa storia della migrazione friulana, rivolgendo l’attenzione anche all’associazionismo e ai suoi possibili risvolti sui comportamenti e le scelte linguistici. Si illustreranno poi in maniera più diffusa due case studies – di diverso stampo e concezione – sui Friulani in Romania e in Baviera. Nelle conclusioni, oltre a riassumere i temi principali dell’articolo, si metterà in evidenza quali siano i desiderata della ricerca su cui si dovrebbe a nostro parere concentrare l’attenzione degli studiosi. Keywords: migrazione, contatto linguistico, lealtà linguistica, extraterritorialità

1 Introduzione Sebbene l’idea di un «naturale habitus migrandi» dei Friulani vada recisamente rifiutata (cf. Burelli 2005a, 312), l’emigrazione rappresenta una costante nella storia delle popolazioni friulane, assumendo nei secoli modalità e presentando mete e condizioni di partenza e arrivo assai diverse, che si riflettono anche sugli e negli usi linguistici dei migranti. Ne consegue un quadro complesso e diversificato, per molti aspetti non sufficientemente indagato, che nel presente articolo verrà brevemente tratteggiato, per passare poi all’illustrazione più approfondita di due casi di studio specifici, quello dei Friulani in Romania e in Baviera e alle conclusioni, in cui si tracceranno alcune linee di possibile sviluppo della ricerca.

2 L’emigrazione friulana 2.1 Emigrazione e lingua La situazione del friulano (e dei friulani) nel mondo è eterogenea e difficilmente generalizzabile. Diverse sono infatti le condizioni di partenza, dal punto di vista economico, sociale e linguistico (conoscenze del friulano – e della sua norma – e/o dell’italiano, status sociolinguistico del friulano, sua codificazione etc.). Altrettanto variegate sono le condizioni di arrivo, tra le cui principali si citino: 1. generazione migratoria; 2. durata dell’esperienza di migrazione; 3. grado di integrazione sociale (legata anche dalle politiche dei Paesi d’accoglienza) e linguistica (competenze linguistiche acquisite prima o durante la migrazione, nella/e lingua/e territoriale/i e/o

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locale/i più o meno ampie; portata comunicativa delle lingue alloglotte degli emigranti nei Paesi d’arrivo); 4. consapevolezza della propria condizione di migrante, spesso negata dai «cervelli» migrati, talora mitizzata sia in migrazione sia in Friuli (cf. la rassegna di «illustri migranti friulani» in Burelli 2005b, ultima di una lunga tradizione apologetica), non di rado percepita come temporanea; 5. frequentazione di corregionali e/o connazionali (con eventuale accomodazione, livellamento dialettale o coineizzazione); 6. legami più o meno intensi e frequenti con il Friuli – con differenze tra emigrazione intra- ed extraeuropea; 7. fruizione (e talora produzione) di testi (scritti e/ o orali) in friulano in situazione di migrazione (p. es. con media tradizionali e di nuova generazione, ↗17. Friulano nei mass media). A fronte di un fenomeno che, come si vedrà nelle pagine seguenti, si presenta complesso e assai diversificato, il numero di studi di stampo linguistico al riguardo è piuttosto esiguo, nonostante l’appello di Francescato (1974–1975) per una ricerca sociolinguistica sul friulano all’estero e quello di Vicario (1992) per nuovi studi sui Friulani di Romania. Mancano ricerche dedicate agli usi linguistici dei migranti delle fasi più antiche, se si escludono i brevi cenni in Perusini/Pellegrini (1974) e Pellegrini (1980; 1997a). Lo studio dei documenti di «cramârs» e fornaciai potrebbe consentire una più precisa conoscenza dei loro usi linguistici, per lo meno scritturali (l’analisi di un epistolario più tardo è in Pellegrini 1997b). Anche la situazione degli studi sincronici non è però rosea. Dopo il lavoro pionieristico di Iliescu 1972 (cui si aggiungono diversi altri lavori dell’autrice, tra cui siano qui nominati, per i diversi aspetti ivi trattati Iliescu 1963; 1964a; 1965; 1968; 1969; 1970a; 1970b, e alcune altre ricerche, come p. es. Avram 1978 e Vrabie 1970) sui Friulani di Romania, la seconda monografia dedicata agli usi linguistici di migranti friulani, nella fattispecie in Baviera, segue infatti ben oltre quarant’anni dopo (Melchior 2009b). A questi due lavori si aggiunge una serie di studi minori e/o non pubblicati, in particolare tesi di laurea. Una panoramica si trova in Melchior (2011), cui si rimanda per informazioni più approfondite, non essendo possibile in questa sede una presentazione esaustiva dello status quo della ricerca.

2.2 Alcuni accenni di storia della migrazione La letteratura sulla migrazione friulana è vasta; in questa sede si riporteranno solamente i titoli cui si fa esplicitamente riferimento; una prima bibliografia è in Cecotti (2011). Materiali informativi e testimoniali sono disponibili, oltre che sui siti delle associazioni dei migranti, anche sul sito dell’Archivio multimediale della memoria dell’emigrazione regionale (AMMER) della Regione Friuli Venezia Giulia [http://www. ammer-fvg.org/, 31.05.2013]. L’emigrazione friulana (e carnica) può essere suddivisa in fasi successive, che presentano caratteristiche diverse sia riguardo i soggetti (e le regioni) coinvolti sia per le modalità migratorie e le mete.

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La prima fase, di cui si hanno testimonianze concrete dal XVI secolo, ma il cui inizio è indicato da alcuni autori nel XIV secolo (cf. Burelli 2005a, 311), e che si protrasse fino alla fine del XVIII secolo, coinvolse le regioni settentrionali del Friuli, in particolare le montagne della Carnia. Si tratta della migrazione stagionale invernale, quasi esclusivamente maschile, dei cosiddetti «cramârs» o «cramars» (cf. Valussi 1974, 855–858; Bianco/Molfetta 1992; Ferigo/Fornasin 1997), conosciuti anche come «karnische Materialisten», venditori ambulanti di spezie, droghe e tessuti, che si recavano, oltre che nell’odierna Italia, nei territori dell’Europa del nord e dell’est (fino in Russia, Grecia e Turchia), dove talora si insediarono, aprendo attività commerciali dalle alterne fortune, assurgendo a volte a una certa importanza (si pensi p. es. ai Radina, Pustet e Zenetti in Baviera e Franconia). Il secondo periodo migratorio, che coinvolse sempre i territori della Carnia durante la cosiddetta «fase austriaca» del Friuli (1797–1866) nella prima metà del XIX secolo, portò sulle strade dell’Europa centro-orientale manodopera specializzata nel settore dell’edilizia – scalpellini, muratori, carpentieri etc., ma anche boscaioli – impegnati nella costruzione di importanti edifici e talora di intere città. Queste due prime fasi migratorie riguardarono (quasi) esclusivamente il territorio alpino e prealpino del Friuli, presentando caratteristiche assai precipue e contribuendo all’evoluzione economica, sociale e culturale dei paesi di partenza (p. es. con la fondazione di scuole, talora aperte anche alle ragazze). Diverso fu invece il fenomeno migratorio che si ebbe dopo l’unificazione di gran parte dei territori del Friuli al Regno d’Italia (1866), e in particolare dal 1881 fino alla Prima Guerra Mondiale (la cosiddetta «grande emigrazione»). In questo periodo le condizioni finanziarie di ampie fasce della popolazione si aggravarono a tal punto da indurle a scegliere la via della migrazione. L’annessione alla compagine statale italiana aprì ai migranti la via verso altre regioni del Paese, ma condizionò anche un orientamento più spiccato verso l’Europa occidentale. Nel contempo, il boom edilizio a Nord delle Alpi, in Austria e Germania (lis Gjermaniis), «dove si dirige all’inizio del Novecento almeno il 90% degli immigrati» (Bertuzzi 2010, 19), ma anche in Ungheria e Romania, fece sì che in questi Paesi crescesse il bisogno di fornaciai per la produzione di laterizi. Dalle pianure, dalle colline e dalla pedemontana friulane prese il via un’ondata migratoria a catena e di massa (favorita anche dallo sviluppo del sistema dei trasporti), estiva (con impoverimento dei Paesi d’origine, privati di manodopera nei mesi utili ai lavori agricoli) che coinvolse anche donne e, in misura assai ampia, bambini. I fornaciai vivevano in condizioni igienico-sanitarie precarie, sottostavano a orari e turni di lavoro massacranti ed erano spesso invisi alle popolazioni locali, perché tacciati di crumiraggio. Rari furono gli insediamenti duraturi nei Paesi di arrivo; essi coinvolsero soprattutto i «Polier», capomastri impegnati nel reclutamento dei fornaciai, o i (pochi) fortunati divenuti proprietari di fornaci, che, data la scarsa presenza alloctona, si integrarono presto nella società d’accoglienza. Altri migranti si spinsero fino in Russia o nell’Africa settentrionale, ma anche le mete transoceaniche furono battute. Dal Friuli occidentale, dal 1880 (cf. Valussi 1974, 867) i migranti si volsero al Nordamerica e in particolare agli Stati Uniti, dove erano

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occupati come terrazzieri e mosaicisti. Ma anche dal resto della regione, tra 1878 e 1880, oltre seimila Friulani (cf. Ellero 1997, 878) si diressero verso Argentina, Brasile e USA. Quest’emigrazione ebbe «un andamento piuttosto difforme rispetto a quella per i Paesi europei e mediterranei» (Valussi 1974, 873) e presentò giocoforza, viste le distanze, un carattere maggiormente permanente (cf. Bertuzzi 2010, 21), anche se non rari furono i rientri. I Friulani furono coinvolti nella colonizzazione e fondazione di nuove città, come Resistencia, Colonia Caroya e Ausonia in Argentina (cf. Ellero 1997, 878), dove la presenza friulana è tuttora elevata. Non a caso, le prime associazioni di migranti nacquero in America (cf. infra). La Prima Guerra Mondiale costituì una cesura rispetto al passato, condizionando una grande ondata di rientri, anche se l’emigrazione stagionale non cessò del tutto. Il periodo tra le due guerre, assai meno studiato, vide movimenti migratori interni all’Italia (in particolare dal 1925), verso le paludi da bonificare del Lazio, o verso le sue colonie nordafricane, come la Libia, ma anche verso Francia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, oltre che Sudamerica, Stati Uniti e Canada (cf. Valussi 1974, 878; Bertuzzi 2010, 27). Tra il 1938 e il 1943 si assistette, in seguito ad accordi tra l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, alla cosiddetta emigrazione dei Fremdarbeiter verso quest’ultima (tra i pochi studi dedicativi cf. Ermacora 2002). Nel periodo post-bellico il movimento migratorio dal Friuli riprese, coinvolgendo in numero notevole anche le donne e mantenendo caratteristiche di una certa temporaneità, con continui rientri (in seguito a pensionamento) e nuove partenze di forza lavoro giovane. Saraceno (1981) suddivide questa fase migratoria in tre sottofasi (1945–1958, 1959–1968, 1969–1979), basate sullo sviluppo economico regionale, caratterizzato da una crescente industrializzazione a partire dalla seconda. Nella prima sottofase furono notevoli i flussi migratori, anche illegali, verso l’Europa centrale, ma anche Belgio, Francia, Svizzera e Lussemburgo, Olanda, oltre che Brasile, Argentina, Venezuela, Uruguay, Canada e Australia (cf. Bettoni/Rubino 2000, 132s.). In alcuni casi, la vicinanza culturale con la popolazione dei Paesi d’accoglienza portò a una rapida assimilazione, come nel caso di Friulani (e Veneti) nella Francia sudoccidentale (cf. Corrà/Ursini 1998, 564). Dagli anni ’50 anche la Germania Occidentale tornò meta dei migranti friulani, in base a precisi accordi internazionali che regolavano i flussi dei cosiddetti Gastarbeiter. Dopo un calo agli inizi degli anni ’60, verso la metà dello stesso decennio il fenomeno migratorio ricominciò a crescere, ma con mete spesso interne (che costituirono nel decennio 1962–1971 quasi il 94% del totale; cf. Valussi 1974, 910), coinvolgendo forza lavoro altamente qualificata, che non trovava in Friuli opportunità lavorative adeguate. Tra 1959 e 1968 «si afferma la prevalenza dell’emigrazione temporanea su quella definitiva» (Saraceno 1981, 57), con fenomeni di catena migratoria e notevole ricambio generazionale. Nella terza sottofase i rientri divennero numericamente preponderanti sulle partenze. Dalla fine degli anni ’70 l’emigrazione, pur senza interrompersi mai completamente, ha assunto nuove caratteristiche. La presenza di imprese friulane e/o italiane all’estero, che necessitano di manodopera specializzata, l’alta mobilità e l’internazionalità tipiche del mercato del lavoro europeo

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e mondiale nell’ultimo scorcio del XX e agli inizi del XXI secolo fanno sì che i nuovi migranti siano altamente istruiti e qualificati, spesso operanti in ditte, imprese, istituti o enti dal carattere sovra- o multinazionale, come università, enti di ricerca, istituzioni europee etc. La nuova migrazione si distingue per il carattere considerato di frequente «non definitivo» del trasferimento all’estero, spesso con tappe in diversi Paesi e/o periodi più o meno lunghi di rimpatrio, ma anche per l’ambiente internazionale in cui i singoli si trovano ad agire, caratterizzato da una parte da multilinguismo, dall’altra, talora, dalla predominanza dell’inglese quale lingua di comunicazione e, non di rado, dei rapporti sociali e interpersonali anche in Paesi non anglofoni, a discapito delle lingue territoriali. Sebbene negli anni ’90 del XX secolo si sia assistito, in seguito alla crisi economica che coinvolse l’Argentina, a una breve fase di rientro di discendenti di Friulani, il numero di persone di origine friulana all’estero è tuttora notevole: «[l]’ultima rilevazione (febbraio 2008) dà 134.074 iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) originari del Friuli Venezia Giulia, presenti in 170 Paesi del mondo: circa 74.600 nei Paesi europei, 11.000 in Nord America, 37.500 in America Centrale e del Sud, 6.000 tra Australia e Nuova Zelanda, poco meno di 3.600 in Africa e di 1.300 in Asia» (Bertuzzi 2010, 46).

In alcune regioni interessate a più riprese dei fenomeni migratori, come p. es. la Germania, vi è una certa sovrapposizione di migranti delle diverse fasi (cf. Melchior 2009b). Questa circostanza può talora portare, da parte dei discendenti di migranti di data più antica, a una «ripresa di coscienza» delle proprie origini, anche linguistiche (talora astoricamente indicate come «italiane» tout court).

2.3 Fameis furlanis e Fogolârs furlans: l’associazionismo friulano Come accennato, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, l’emigrazione assunse dimensioni di massa, cominciando a dirigersi anche verso Paesi extraeuropei, in particolare le Americhe, dove i Friulani diedero vita a comunità più o meno linguisticamente coese. Ben presto si assistette a un associazionismo spontaneo, espressosi dapprima nelle cosiddette Fameis furlanis (‘famiglie friulane’), costituite a partire dal 1928 (anno di fondazione del sodalizio di Buenos Aires, cf. [s. a.] 1928, 24, seguito nel 1929 da quello di New York, cf. Petris 2009, 98), spesso ancora attive. Tali associazioni divennero in molti casi soci della Società Filologica Friulana (SFF) (cf. [s. a.] 1930, 4 per il sodalizio newyorkese) e produssero talora anche pubblicazioni in friulano o nelle quali il friulano ebbe (seppur sporadica) presenza; interessante p. es. l’uso nella pubblicità di attività artigianali e commerciali gestite nei Paesi d’emigrazione, in diversi opuscoli della Famee furlane di New York, almeno fino agli anni ’50 del XX  secolo. In figura 1 la riproduzione del testo di una pubblicità dal numero del 1939, in cui spiccano diversi italianismi e un evidente anglicismo («manifatturat»).  



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Figura 1: Pubblicità da Famee furlane, New York, 1939 (dettaglio)

Anche in seguito il legame tra mondo dell’emigrazione e associazioni che si occupano in primis di lingua friulana fu profondo. Durante il congresso della SFF del 1951, infatti, i Fogolârs furlans, associazioni di migranti sorte in tutto il mondo (Italia compresa), proposero la fondazione di un’organizzazione-tetto, il futuro Ente Friuli nel Mondo, avvenuta poi nel 1953; la SFF fu promotrice e punto di riferimento primario del nuovo sodalizio (cf. De Cillia 1992, 9–13). Negli anni a seguire, a Fogolârs e Fameis furlanis si aggiunsero associazioni legate ad altre organizzazioni di tutela dei migranti friulani. Al giorno d’oggi i migranti contano su «[o]ltre 400 […] sedi nel mondo delle associazioni cui essi fanno riferimento come luogo di aggregazione e socializzazione» (Bertuzzi 2010, 46). Tali associazioni hanno in diversi casi attuato iniziative per il riavvicinamento delle seconde, terze e quarte generazioni al friulano, quali partner di riferimento per gli enti friulani operanti in tale settore (come i corsi di friulano dell’Ente Friuli nel Mondo), e favorendo iniziative come trasmissioni radiofoniche friulo-argentine o la diffusione in streaming di programmi di emittenti friulane secondo il fuso orario di alcuni Paesi extraeuropei meta di flussi migratori (↗17 Friulano nei mass media). In altri casi ancora, il friulano è utilizzato nel mezzo radiofonico per l’informazione dei migranti di ritorno. Non va poi dimenticato il contributo all’elaborazione estensiva del friulano venuto dagli emigrati: basti pensare alla rivista (La) Patrie dal Friûl, uscita in Svizzera tra 1973 e 1976 (cf. Bonazza 2005–2006, 19, 85– 114). Tuttavia in diversi centri dell’emigrazione friulana le nuove generazioni (ma non solo) hanno perso il contatto con la marilenghe, tanto che al giorno d’oggi i bollettini dei singoli sodalizi sono redatti e le iniziative culturali tenute in genere nella lingua del Paese di accoglienza, talora con brevi inserti in italiano o, più raramente e quasi solo in forma di costrutti fissi, in friulano. Emblematico in tal senso il caso del Fogolâr Furlan della Baviera, attivo tra fine degli anni ’80 e metà dei ’90 del secolo scorso, dove il friulano svolse un ruolo marginale nella comunicazione tra i soci (spesso coniugi degli emigrati, di madrelingua tedesca), e fu escluso dai documenti ufficiali a favore di italiano e tedesco (cf. Melchior 2009b, 97–103).

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3 Friulani nel mondo – due casi di studio 3.1 Il friulano parlato in Romania 3.1.1 Premesse Scopo di questo sottocapitolo è presentare una sintesi delle ricerche svolte negli anni sessanta del secolo scorso sul friulano parlato in Romania. In quel periodo, presso l’Istituto di Linguistica dell’Accademia Romena della Scienza, la sezione di linguistica romanza, diretta dal prof. Iorgu Iordan, stava compilando una crestomazia romanza (Iordan et al. 1962–1974), comprendente tutte le lingue romanze e numerosi loro dialetti, partendo dai testi antichi fino alle lingue contemporanee e prendendo in considerazione anche i diversi registri. In tale opera il friulano è ben rappresentato. Poiché però la metalingua è il romeno e la diffusione dell’opera lascia a desiderare, essa è purtroppo poco conosciuta negli ambienti romanistici. Il mio compito era di elaborare la parte relativa ai tre gruppi di dialetti conosciuti anche sotto il nome di «retoromanzo». Per il friulano (cf. Iliescu in Iordan et al. 1962, vol. 1, 393–423; 1965, vol. 2, 373–398; 1968, vol. 3, t.1, 967–1041) la situazione bibliografica era pessima: non avevo a disposizione che la prima edizione del Nuovo Pirona (1935), contenente indicazioni sulla grafia e la pronuncia di tale lingua, che non avevo mai sentito parlare: a quell’epoca non avevo infatti alcuna possibilità di recarmi in Friuli. Per tale ragione fui molto lieta quando il professor Ștefan Cuciureanu dell’università di Iaşi, durante una visita a Bucarest, mi raccontò che aveva scoperto degli Italiani che invece di dire testa dicevano cjâf. Ne ho dedotto che dovevano essere dei Friulani; ho chiesto dunque il permesso di recarmi a Iaşi per convincermi che la mia speranza fosse giustificata. È così che ho fatto la conoscenza del fabbro Pieri Forgiarini, giunto a Iaşi con la sua famiglia nel 1921. Da lui ho appreso che in Romania c’erano diverse colonie di Friulani, stabilitisi in differenti regioni del Paese, principalmente in gruppi costituiti in base ai mestieri esercitati: scalpellini, agricoltori e boscaioli.

3.1.2 Cenni storici Durante i seguenti anni di ricerca (1963–1970) sono riuscita a ricostituire almeno parzialmente la storia di queste migrazioni, che avevano interessato soprattutto le regioni Friuli e Veneto: si trattava di Friulani e Bellunesi, indicati dai romeni con il termine generico di «Italiani» (cf. sopra, paragrafo 2.2). Il periodo di immigrazione deve essere collocato largo sensu tra la metà del XIX  secolo e la prima guerra mondiale.

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3.1.2.1 Gli agricoltori Nei principati romeni, la liberazione nel 1856, ad opera di Cuza, degli schiavi zingari, che fino ad allora avevano lavorato nelle grandi proprietà terriere a sud di Craiova, e, dopo la pace di Adrianopoli (1829), la possibilità di esportare cereali in occidente in cambio di considerevoli somme di denaro, posero i latifondisti di fronte alla necessità di avere agricoltori stranieri che lavorassero nelle loro terre. Essi fecero così arrivare attraverso l’Austria, probabilmente negli anni sessanta del XVIII secolo (dunque della fine della cosiddetta «fase austriaca del Friuli» (1797–1866), cf. sopra 2.2), lavoratori dalla pianura sudorientale del Friuli (dai dintorni di Udine, Cividale, Gorizia e Cormons) e dalla provincia di Belluno. Fin dall’inizio i Friulani, stabilitisi a Işalnița e a Breasta (presso Craiova) si separarono dai Bellunesi, stabilitisi a Talieni (< Italieni), presso un comune più importante, Sǎrbǎtoarea. Col passare del tempo, i figli dei primi venuti si trasferirono in città maggiori, soprattutto a Craiova, ma anche a Bucarest. A Craiova, dove ho effettuato diverse inchieste, c’era un gruppo di quattro o cinque case friulane l’una vicina all’altra, in un quartiere conosciuto con il nome di Lunca-Mofleni (oggi trasformato in parco pubblico) dove il friulano era ben conservato. Vi erano anche altre famiglie, la maggior parte delle quali abitava nella via Calea Brestei, che univa Craiova con il comune di Breasta.

3.1.2.2 Gli scalpellini Intorno al 1880 furono chiamati dalla provincia di Belluno e dalla parte occidentale della provincia di Udine (ora provincia di Pordenone) degli scalpellini affinché estraessero dalle cave di Teșila e di Comarnic (distretto di Prahova) le lastre necessarie per la pavimentazione di Bucarest. Terminato questo lavoro, questi «Italiani» si stabilirono in Dobrugia, nella località di Greci, presso Iacobdeal, dove un imprenditore belga aveva aperto una grande cava di pietra. Alcuni compatrioti, già stabilitisi in Dobrugia (1890) avevano fatto loro sapere che c’era bisogno di lavoratori. Sembra che prima della seconda guerra mondiale ci fossero a Greci 80 famiglie originarie di diverse parti d’Italia (le date mi sono state indicate dallo scalpellino Giovanni Spadon, nato a Iacobdeal nel 1903; per informazioni generali si veda il capitolo La Dobrugia e i friulani in Luca 2006, 75–82). Tra di loro, gli abitanti di Greci provenienti da diverse regioni d’Italia parlavano una koinè che chiamavano la bilumata (‘il bellunese’). Secondo le indicazioni di Forgiarini, alcuni scalpellini si erano stabiliti anche a Albești (dipartimento Vâlcea, presso la città di Râmnicul Vâlcea). Quando mi recai sul luogo, alcuni mesi più tardi, vi erano solo alcuni scalpellini romeni, che mi informarono «che gli ‹Italiani› sono partiti da molto tempo, poiché abbiamo ‹rubato› loro il mestiere».

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3.1.2.3 I boscaioli e gli zatterieri Da molti informanti dei primi due gruppi venni a conoscenza dell’esistenza di un gruppo formato da boscaioli e zatterieri. Sempre verso la fine del XIX secolo alcuni imprenditori avevano fatto venire boscaioli e zatterieri dal Friuli del Nord e dalla zona settentrionale della provincia di Belluno (è tuttavia possibile che questo gruppo sia venuto prima, alla fine del periodo austriaco). A questo gruppo si devono le prime seghe meccaniche in Romania. L’orologiaio Ugo Mecchia nato a Brezoi (distretto di Vâlcea) nel 1896 ci raccontò che i suoi genitori erano venuti da Ovaro nel 1880 per la costruzione di seghe meccaniche. È risaputo che a Pesariis, non lontano da Ovaro, l’orologeria era mestiere molto praticato. In questo gruppo vi erano anche persone provenienti dalle Alpi dolomitiche, che lavoravano come guardiani delle capanne-rifugi in montagna (ho scovato un discendente di questi immigrati nelle montagne del Retezat, che chiamavano «barba Gianni»). Si erano stabiliti in diverse vallate dei Carpazi orientali e meridionali. Sembra che un tale Pecol, imprenditore incaricato dal conte ungherese Kendöfi abbia indotto gran parte di questo gruppo di immigrati ad abbandonare i Carpazi meridionali per stabilirsi nelle vallate dei fiumi Lotru, Sebeș e Râul Mare (nei distretti di Vâlcea e di Hunedoara, nella «Ţara Hațegului»). Secondo le informazioni ottenute da persone di altri gruppi, terminato il contratto, gran parte di tali lavoratori rimpatriarono. Nel volume di Luca (2006, 45–69) vengono poi indicate altre immigrazioni di Friulani, dal carattere più o meno individuale, che ebbero luogo pressappoco nello stesso periodo.

3.1.3 I dialetti friulani rappresentati dai parlanti in Romania A. Dialetto occidentale (a ovest del fiume Tagliamento, con le varietà di Maniago, Frisanco, Poffabro e di Barcis) (= dialetto d secondo Francescato 1956), rappresentato dai soggetti intervistati a Greci (= GR); B. dialetto carnico (con le varietà di Prato Carnico, Pontebba, Ovaro) (= dialetto e secondo Francescato), rappresentato dai soggetti intervistati nelle montagne delle località del dipartimento di Hunedoara e di Vâlcea (Brezoi, Râu de Mori, Sântămăria-Orlea) (= H); C. dialetto centro-orientale (con le varietà di Gorizia, Cormons, Gradisca) (= dialetto b secondo Francescato), rappresentato dai soggetti intervistati a Craiova e a Breasta (= CR; per la classificazione cf. Francescato 1956; Frau 1984; Heinemann 2007, 20–28). Le inchieste si svolsero tra il 1963 e il 1970. Le registrazioni furono effettuate con l’aiuto di un registratore a nastro. Intervistai più di venti persone di sette località, in gran parte rurali, di cui undici secondo il questionario AIS. Sfortunatamente le cassette

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registrate dal compianto collega Constant Maneca, deceduto in giovane età negli anni ’80, che mi accompagnava alle ricerche dialettali e che si occupava delle parlate dei Bellunesi, mentre io mi occupavo dei Friulani, non sono state mai ritrovate. A causa della situazione politico-sociale della Romania negli anni ’70, senza di lui le mie inchieste non avrebbero potuto aver luogo.

3.1.4 Osservazioni linguistiche 3.1.4.1 Considerazioni generali La maggior parte dei soggetti ha utilizzato la propria parlata e ha risposto correttamente alle domande da me poste, lasciando in sospeso le stesse domande per le quali anche i raccoglitori dell’AIS non avevano ottenuto risposta. Si tratta di nozioni riguardanti animali e piante sconosciuti in queste regioni o dettagli di mestieri non praticati. La seconda generazione aveva un lessico friulano più ridotto, ma parlava perfettamente il romeno, appreso a scuola. In ottobre 2013 ho avuto l’occasione di informarmi riguardo il destino dei Friulani di Breasta e di Craiova e di parlare con alcuni discendenti delle famiglie friulane. Tutti parlano friulano quando sono «in società friulana», id est con fratelli, figli o conoscenti friulani e hanno potuto tradurre senza alcuna difficoltà un testo friulano che ho letto loro.

3.1.4.2 Osservazioni generali e particolari A causa del limitato spazio a disposizione, nelle righe seguenti presenterò solo alcuni aspetti dei risultati delle inchieste, che mi paiono maggiormente importanti. Fonetica In friulano le occlusive prepalatali derivanti dal latino CA -/ GA - (CANE > cjan / GATTU > gjat), le affricate palatali derivanti dal latino CE -/ CI - e GE -/ GI - (CAELU > cîl / CINQUE > ͡ e le fricative derivanti dal latino S (SITE > sêt) fanno parte o cinc; GENER > zinar [ˈdʒinar]) ͡ [z]), caratteristico dei dialetti del di un sistema trifonematico ([c], [ tʃ͡ ], [s] e [ɟ], [dʒ], Friuli occidentale e settentrionale, o di un sistema bifonematico, caratteristico dei dialetti del Friuli sud-orientale (si fa qui parzialmente uso della terminologia tradizionale, cf. Francescato 1966; per una moderna descrizione del sistema fonetico del friulano cf. Miotti 2002). Il sistema bifonematico deriva dal passaggio delle prepalatali a affricate e delle affricate originarie a fricative: [c] > [ tʃ͡ ] e [ tʃ͡ ] > [s] ([caŋ] > [ tʃ͡ aŋ], [ tʃ͡ iŋk] > [siŋk], cf. Heinemann 2007, 57–66; Iliescu 1972, 53–55). Tra i parlanti di Romania, il tipo trifonematico è rappresentato dalle colonie della Dobrugia (GR) e delle montagne (H), mentre il sistema bifonemantico si trova presso i parlanti di Craiova e dintorni (CR).  

  







  



  





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Dalle risposte alle inchieste si è potuto dedurre che l’evoluzione delle prepalata͡ e soprattutto l’evoluzione delle affricate li [c] et [ɟ] verso le affricate [ tʃ͡ ] e [dʒ] ͡ alle fricative [s] et [z] erano già compiute nel sistema fonologico originali [ tʃ͡ ] et [dʒ] del Friuli sud-orientale prima e non dopo il 1890 (cf. Iliescu 1964b), come supponevano i ricercatori che avevano come punto di riferimento unicamente i dati forniti da Ascoli (1873). Questa opinione era stata espressa, tra gli altri, da Francescato (1958– 1959). La -A finale latina atona è rappresentata da -a nel Friuli occidentale e (in parte) settentrionale e da -e nei parlanti dei dialetti friulani meridionali e (in parte) settentrionali. Tuttavia, la -e è stata molto spesso pronunciata dalle persone provenienti da Gorizia come un suono intermedio tra [a] ed [e], molto simile a un [ə] () romeno. Questa somiglianza era stata osservata già da Ascoli, egli stesso originario di Gorizia, in un’opera giovanile del 1846. Da rimarcare anche le varianti di l seguito da una i secondaria. Qui p. es. i risultati della mia inchiesta su LEPORE ‘ lepre’ : [ˈjɛwr], [ˈɲɛwr], [ˈljɛwr], [ˈɟɛvri]. Marchetti (31977, 76) segnala solamente [ɲ] e [j]. La variante palatalizzata non appare nemmeno ne Il Nuovo Pirona, s.v. jeur, né nell’ASLEF.  



  

  

Morfologia A Greci, alcune persone i cui genitori o nonni erano originari di Maniago (Friuli occidentale) impiegavano ancora l’articolo maschile plurale ju, al giorno d’oggi pressoché ovunque sostituito da i (cf. Heinemann 2007, 96–98). Un esempio da un racconto di un soggetto di Greci: Alora à çatât ju bêçs ‘allora ha trovato i soldi’. L’articolo maschile il è stato spesso sostituito da el. Un soggetto ha utilizzato coerentemente il clitico ali invece di al. Il pronome soggetto clitico femminile di 3. pers. sg. è stato talora realizzato come la: la me femina la si [ʃi] vuarda intal specjo [ˈʃpɛco] ‘mia moglie [lei] si guarda nello specchio’ ([ˈʃpɛco] è italianismo al posto di [ˈspjɛli]). I clitici di 3. pers. sg. masc. formano un’unità col verbo seguente non solo all’orale, ma anche allo scritto: lui l’era piçul ‘lui era piccolo’. Per problemi di fonetica e morfologia evidenziati dai risultati delle inchieste, cf. anche la tabella in Iliescu (22007 [1964b], 421). Diversi dei fenomeni qui analizzati emergono anche nei testi illustrativi presentati infra (cf. 3.1.7).

3.1.4.3 L’influenza del romeno Si tratta soprattutto dell’influenza sulle prime due generazioni di immigrati, che non hanno appreso il romeno a scuola. Particolarmente evidente è l’uso generalizzato di preposizioni, congiunzioni e più raramente di avverbi romeni, ess.: lui a deis din nouf che roba (CR) ‘Ha detto di nuovo quella [stessa] cosa’, russiti [ˈruʃiti] dacă ti manza [ˈmanʤa] (CR) ‘grattati se ti prude’, ͡ lui nol mai sçampa [ˈʃtʃampa] (GR) ‘non scappa più’.

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Presso diversi soggetti intervistati si sono palesati tratti morfologici romeni. Alcuni parlanti di Greci (provenienti dunque dal Friuli occidentale) hanno utilizzato un plurale asigmatico in -e o in -i per sostantivi col singolare in -a (li fedi sono moarte ducj ‘le pecore sono morte tutte’). La desinenza asigmatica -e del plurale femminile è a prima vista dovuta a una doppia influenza italiana e romena, ma si veda Heinemann (2007, 25), che nota che vi è una tendenza «a indebolimento di [s] finale nell’estremo occidente, v. anche in sintagmi tendenza a marcare il plurale nel solo elemento finale». Ho peraltro registrato anche parole romene con desinenza plurale friulana: trandafirs invece di trandafiri ‘rose’, genis invece di gene ‘ciglia’. La formazione del futuro è spesso avvenuta con l’ausiliare volê ‘volere’ seguito dall’infinito del verbo da coniugare: jo i voi vê bêçs (GR) ‘avrò dei soldi’ (rom. eu voi avea bani). L’influenza romena più forte si esercita sul lessico, soprattutto nel caso di nozioni che non esistevano al tempo dell’emigrazione dal Friuli o con grande frequenza nella vita socio-economica, amministrativa e politica romena degli anni ’60 del secolo scorso. Le parole romene sono spesso state adattate al sistema fonetico e alle regole grammaticali del friulano: [ə] > [e] ([ˈmeduva] invece di [ˈməduva] ‘midollo’), [ɨ] > [a], [e] o [i] ([smanˈtana] invece di [smɨnˈtɨnə] ‘panna’), etc. Il suffisso -ons serve a friulanizzare le parole romene: frimidons invece di firimituri ‘briciole’. Parole romene sostituiscono parole friulane simili come forma e significato: ariç invece di riç sotto l’influenza del rom. arici ‘riccio’, muc invece di mucul, sotto l’influenza del rom. muc ‘moccolo di una candela’. Per l’influenza di una parola romena simile come forma, ma di significato diverso, la parola friulana arricchisce la propria sfera semantica: parint s’arricchisce del significato di ‘genitori’ secondo il rom. părinți con lo stesso significato; il verbo mangjâ assume a sua volta il secondo significato del verbo romeno a mânca ‘mangiare’ e alla forma flessa ‘prudere’: russiti dacă ti manza (CR) ‘grattati se ti prude’, cf. sopra. Una serie di sintagmi ed espressioni è calcata dal romeno: faça [ˈfatʃ͡ a] di cusin [kuˈʒin] da față de pernă ‘federa di cuscino’, assai di pulît sul modello di destul de bine ‘abbastanza bene’, çapà un telefon sul modello di a căpăta un telefon ‘ricevere una telefonata’.

3.1.5 Osservazioni sociolinguistiche Una delle rare osservazioni a valenza generale è che la lingua/il dialetto materna/o si mantengono meglio se i parlanti vivono in gruppo. L’isolamento invece ne comporta una perdita più rapida. Ciò vale anche per i Friulani di Romania. Come ovunque vi sono però anche situazioni speciali. Se p. es. un membro della famiglia dotato di autorità intende a ogni costo continuare a parlare la lingua della

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vecchia patria e la utilizza in tutte le conversazioni familiari, a prescindere dalle lingue parlate dagli altri, può avere successo. A Greci ho conosciuto una famiglia (Roman Vals) dove un’anziana, ma energica madre aveva proibito al figlio di sposarsi con una romena se questa non avesse appreso il friulano. La romena l’ha realmente appreso per poter parlare con la suocera! Attualmente un cugino più giovane di Guerino Vals è sindaco del comune di Greci. Conformemente ai risultati delle ricerche sociolinguistiche effettuate dopo la seconda guerra mondiale, la durata dell’assimilazione linguistica delle diverse colonie di immigrati alla lingua del Paese ospite è in generale di tre generazioni e dipende dalle condizioni pragmatiche individuali, sociali e spesso anche politiche. Gli immigrati si trovano generalmente in una situazione «schizofrenica», sono cioè soggetti a tendenze contraddittorie: da una parte, per integrarsi nella nuova vita, nella nuova società, si sforzano per apprenderne il più rapidamente possibile la lingua, dall’altra desiderano mantenere la loro lingua materna, di cui necessitano in famiglia e per restare in contatto con i connazionali. A giudicare dalle famiglie con membri di terza generazione, nella maggior parte dei casi i nipoti degli immigrati non parlano più la lingua dei loro antenati, ma la capiscono e così possono comunicare con i propri nonni, che non hanno bene appreso la lingua della nuova patria. I giovani invece conoscono bene la lingua del Paese d’arrivo, grazie alla scuola, agli amici, alla vita quotidiana, e perché nella maggior parte dei casi non vogliono essere considerati degli stranieri. La seconda generazione generalmente padroneggia entrambe le lingue. Non mi soffermo in dettaglio sulla situazione dei dialetti, che in friulano sono assai differenziati, ma la cui comprensione reciproca è garantita. Durante le mie inchieste ho incontrato più d’una volta dei coniugi che parlavano tra di loro dialetti diversi, appresi dai genitori, ma che non avevano difficoltà a comprendersi. In tali casi, le risposte ai questionari erano spesso del tipo «io dico …, ma mio marito dice …». È difficile trarre conclusioni generali, poiché, come detto, le condizioni differiscono di famiglia in famiglia. Differenze si notano in base al sesso, ma anche qui le condizioni pragmatiche hanno un ruolo primario. Mentre la maggior parte delle madri e nonne d’un tempo non lavorava che in casa, ora esse hanno spesso un lavoro e sono integrate nella società come gli uomini. Col passar del tempo non vi è dunque più bisogno che i giovani imparino la lingua della vecchia patria per parlare con i propri nonni! Tra gli emigrati dal Friuli vi era poi differenza tra gli uomini che avevano svolto il servizio militare in Italia e quelli che non lo avevano fatto. I primi avevano appreso l’italiano o ne avevano perfezionata la conoscenza, per cui, a prescindere dalle interferenze dal romeno, anche quelle tra italiano e friulano aumentavano. Ritengo si possa affermare che l’immigrazione dei Friulani in Romania debba essere valutata come un successo per tutte e due le parti.

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3.1.5.1 Le fasi del bilinguismo dei Friulani di Romania (fino al 1970) Prima fase, caratteristica dei primi anni di immigrazione: i membri della comunità linguistica A (friulano nelle sue diverse forme dialettali) cominciano ad apprendere la seconda lingua B (lingua obiettivo, romeno). L’utilizzo di B è maggiore e più frequente, ma si limita ai casi di necessità di contatto fuori dalla famiglia (lavoro, acquisti etc.). Seconda fase (quella degli anni delle mie inchieste (1964–1970), che rappresenta la situazione successiva, in media, 80–100 anni dopo l’immigrazione): tutti i membri della comunità di lingua A parlano la lingua B. L’utilizzo di B è dominante. I parlanti della seconda e terza generazione parlano la lingua B anche tra di loro. L’uso della lingua A è limitato spesso alle conversazioni con la prima o seconda generazione venute dal Friuli. Terza fase (che da mia previsione degli anni ’70 si sarebbe manifestata nel giro di una decina d’anni, cf. Iliescu 1972, 231): «La troisième phase… consiste dans l’échange du rôle entre la langue primaire et celle secondaire». La seconda lingua (il friulano) è parlata da un numero sempre più ridotto di soggetti. Il suo uso è raro, volontario e limitato agli ambiti fondamentali.

3.1.6 Osservazioni sociologiche La storia delle due colonie friulane di Breasta e Işalnița, e italiana (bellunese) di Talieni ci permette di fare alcune osservazioni. La colonia di Talieni si è dissolta assai rapidamente. Al momento delle mie inchieste a Talieni vi era un solo nucleo familiare, una vecchia famiglia bellunese (tutta la comunità si era trasferita a Sǎrbǎtoarea, comune vicino, a causa della penuria d’acqua seguita alla cattiva distribuzione da parte di un’organizzazione agricola socialista). Mi sono intrattenuta a lungo con gli anziani e ho appreso che la maggior parte dei discendenti degli «Italiani» giunti nella seconda metà del XIX secolo si era trasferita a Craiova e Bucarest. Buona parte aveva cambiato mestiere: molti giovani erano divenuti muratori e alcuni loro figli avevano frequentato l’università, diventando architetti. Questo spiega i molti nomi italiani su grandi palazzi ed edifici di Craiova e Bucarest. A differenza della colonia di Talieni, quella friulana di Breasta è restata più conservatrice ed è sussistita più a lungo. Gran parte delle persone si è trasferita a Craiova. Generalmente il friulano si è conservato molto meglio del bellunese. I matrimoni tra Friulani e Bellunesi erano estremamente rari. Ci si sposava soprattutto tra Friulani, o tra Friulani e Romeni. I Friulani consideravano gli «Italiani» come «poco seri» e spendaccioni, i Bellunesi a loro volta consideravano i Friulani avari e «testardi».

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3.1.6.1 Giudizi sul friulano dei soggetti intervistati Numerosi soggetti erano dell’opinione che la lingua da loro parlata non fosse altro che «un dialetto ‹sbagliato› della grammatica [= l’italiano]». Ciò ha creato notevoli problemi durante le mie inchieste, poiché diversi intervistati cercavano di rispondermi in italiano per fornirmi una risposta «corretta». Secondo il parere dei Friulani con i quali ho avuto l’opportunità di parlare in ottobre 2013, la perdita del friulano si spiega anche per il fatto che nelle famiglie miste (friulano-romene) il marito romeno non voleva che la moglie friulana parlasse friulano con i figli, una lingua che lui non capiva.

3.1.7 Testi illustrativi A: Dialetto occidentale [al ˈɛra una ˈvɔlta una faˈmɛi ̯a | sta faˈmɛi ̯a aˈvɛva doi ̯ ˈfjoi ̯ | di sti doi ̯ ˈfjoi ̯ | uno al a ˈdet | jo i ˈpart | al ˈdiːʃ | jo i voi ̯ ˈʒiː | al ˈdiːʃ | pal ˈmont | ˈda mi la me ˈpart d erediˈtaːt ka mi ˈkoˈvɛnta | a ˈdiːʃ | ka jo ˈvai ̯ pal mont | aˈlɔra sju ˈpari a i l a ˈdata | e i a ˈdat un ˈgrum di ˈbeːs | e ˈkwant al e parˈtiːt | lui ̯ al a ʃkomeŋˈtʃ͡ aːt a manˈɟ͡ʝaː e ˈbɛvi e faː leˈgria ku ʃjo ͡ neˈsu͂ŋ solt | e ˈnuːt e kruːt | e ˈʃɛntsa ͡ manˈɟ͡ʝaː || al komˈpaɲs | e na ˈdi | al e resˈtaːt ˈʃɛntsa e ˈʒuːt da u͂ ŋ paˈrɔ͂ŋ || no ai ̯ biˈʒuɲa di ˈte | al ˈdiːʃ | ma ti ˈmeterai ̯ | al ˈdiːʃ | a ˈfaː ˈgwardja ai ̯ purtʃ͡ ɛi ̯ | aˈlɔra lui ̯ il e ˈʒuːt a faː ˈguardja ai ̯ purˈtʃ͡ ɛi ̯ … e no i ˈdava a manˈdʝaː ͡ | ˈkɛstu paˈrɔ͂ŋ | al ˈdiːʃ | tʃ͡ e ˈstai ̯ jo uˈki | al ˈdiːʃ | a manˈɟ͡ʝaː la ˈglant kui ̯ | abaʃˈtantsa purˈtʃ͡ ɛi ̯ | al ˈdiːʃ | e n ˈc͡çaza de ɲo ˈpari | al ˈdiːʃ … duc͡ç ˈsɛrvus| a ˈmanɟ͡ʝ iŋ il ˈpa͂ŋ | e jo ˈki ˈstai ̯ a manˈɟ͡ʝaː la glant|| e il a c͡çaˈpaːt | il e parˈtiːt | ˈʒuːt da nou̯ f da ʃju ˈpari | ʃju ˈpari ͡ al ˈkwant ku l a viˈduːt eŋ kwal ˈstatu ka l ˈɛra | ˈdut rot | ˈdut malaˈmɛntri | ˈdiʃkɔlts| ͡ ˈdiːʃ || tʃ iˈmut | al ˈdiːʃ | tu ɲo ˈfi ki | al ˈɛra mwart | aˈdɛs al e riturˈnaːt a resusiˈtaː || lui ̯ al e miˈtut in ʒenoˈglɔ͂ŋ di sju ˈpari | al ˈdiːʃ]  













B: Dialetto carnico ͡ [una ˈvɔlta al si c͡çaˈtava intal boʃk una ˈc͡çara || aˈvɛva trei ̯ ˈdʒɔkai ̯ || e loːr … la loːr ˈmari ͡ i ur a ˈdɛt ai ̯ ˈpitʃ͡ ui ̯ ke nɔ a ˈsta[i ̯n] a ˈvjɛrdʒi la ˈpwarta di niˈsu͂ŋ | ke jɛ ˈva a prokuˈraː di manˈɟ͡ʝaː || e ˈlada | e kest timp ke e ˈlada jɛ | al e viˈɲuːt il loːf | al a baˈtuːt la ˈpwarta | ke ͡ ͡ i ˈvjɛrʤ̑ iŋ || i ˈdʒɔkui ̯… la dɛt ke jɛ loːr ˈmari || i ˈdʒɔkai ̯ i a͂ŋ ˈdɛt kuˈsi | ke no ˈɛra loːr ˈmari e ke la loːr ˈmari a las ˈtalpas ˈblaŋc͡ças || e aˈlɔra il loːf al e laːt dal muˈliŋ e si a fat las ˈɟ͡ʝambas ˈblaŋc͡ças ku͂ŋ la faˈrina || l e torˈnaːt | e ˈdɔpo | ˈkwaŋka l e torˈnaːt | i a det ͡ ka ˈvjɛrdʒiŋ | ke l e lui ̯ la loːr ˈmari… ŋ ka ˈvɔlta i a det || no no ti vjertʃ͡ ke no tu seːs la ˈnɛstra ˈmari | ke tu aːs la voːs ˈmasa ˈgrɔsa || e aˈlɔra il loːf al e laːt dal muˈliŋ e ʃi a ͡ la ˈpwarta… la guˈtʃ͡ aːt i diŋc͡ç e l e torˈnaːt indaˈvɔu̯r || e i ur a det ke ˈtorniŋ a ˈvjɛrdʒi voːʃ plui ̯ suˈtila || i fruts͡ a͂ŋ vjert la ˈpwarta e ˈdɔpo ke a͂ŋ ˈvjert | il loːf al e enˈtraːt ˈdɛnti e din kei ̯ ˈtrei ̯ | ˈdoi ̯ ju a maŋˈɟ͡ʝaːt]  





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C: Dialetto centro-orientale ͡ || no stei ̯t ˈvjɛrdʒi ͡ la ˈpwarte fiŋk e no [e a ˈdɛti… ˈstɛt kuˈli ke jo voi ̯ a ˈtʃ͡ oli di maŋˈdʒa veɲ jo || e l e viˈɲuːt el loːf | e a baˈtuːt a ˈpwarte | e a ˈditi | kui ̯ e viˈɲuːt || soi ̯ to ˈmari || ɲo ˈmari || parˈsɛ tu aːs le ma͂ŋs ˈnɛriʃ | la ˈmame l a le ma͂ŋʃ ˈbjɛliʃ || aˈlɔre el loːf tʃ͡ e l ˈa fat || el e torˈnaːt indaˈur | e laːt dal muˈliŋ… le ma͂ŋs ta faˈrine || el e torˈnaːt indaˈur su la ˈpwarte || kui ̯ e viˈɲuːt || la to ˈmame je || no | ke tu aːʃ la ˈvoːʃ ˈmase ˈgrɔse || lui ̯ | tʃ͡ e di faː || ˈtorna indaˈur | k i asˈkutiŋ la voːʃ | i diŋtʃ͡ || e ˈdɔpo al el torˈnaːt indaˈur || e loːr a͂ŋ ͡ u͂ ŋ ˈdɔpo kel ˈatri || e uŋ l e ˈvjɛrti la ˈpwarte | ˈpuars || e lui ̯ el va ˈvie | ˈtʃ͡ ape e maŋˈdʒa plaˈtaːt | kel pisiˈniŋ || el e plaˈtaːt ʃot di une poʃˈtade | no ˈsai ̯ duˈla || ˈdɔpo so ˈmari e ͡ viˈɲude a ˈtʃ͡ aze e a tʃ͡ aˈtaːt dutʃ͡ maŋˈdʒiaːs e l pisiˈniŋ ˈaŋtʃ͡ e ˈɛri la || tʃ͡ e di ˈfaː || e ˈlade la dal venaˈtɔr || e a meˈnaːt el venaˈtɔr || a taˈjadi fur i ˈjɛzi da ˈpaŋse || l a buˈtaːt int une fonˈtane || e la l e reʃˈtaːt lui ̯ || no i puˈtuːt salˈtaː fur plui ̯ | ke l ˈera paˈʃuːt]

3.2 Friulani in Baviera 3.2.1 Metodologia, finalità e campione della ricerca La ricerca, svolta tra 2004 e 2007, si basa su trenta questionari autovalutativi, di stampo sociolinguistico, volti a indagare competenze, usi linguistici, atteggiamenti e giudizi sulle lingue (friulano, italiano, tedesco e varietà autoctone locali) di emigrati friulani in Baviera. Tali dati sono integrati, oltre che da materiali spontanei raccolti durante la somministrazione dei questionari, dai risultati di interviste qualitative a dieci informanti, miranti a ricostruirne biografie linguistiche e spazi comunicativi (cf. Krefeld 2004), e da altrettanti test di grammaticalità volti a indagare la sensibilità verso fenomeni di interferenza (friulano/italiano, friulano/tedesco) e la language awareness dei probandi. Dei trenta informanti (21 uomini e nove donne), ventisei sono emigrati nel secondo dopoguerra (con fenomeni di rientro e nuova emigrazione, oltre che in alcuni casi di emigrazione attraverso diverse tappe), due sono cresciuti tra Friuli e Baviera e due, di seconda generazione, sono nati e cresciuti nel Land tedesco. Gli informanti provengono pressoché esclusivamente dalla Carnia, dal Friuli centrale e da quello occidentale (le odierne provincie di Udine e Pordenone); un unico informante è di origine triestina, seppur con genitore friulano. Il grado di istruzione è piuttosto alto: un terzo di essi è laureato (o ha dottorato di ricerca), nove sono diplomati, cinque hanno licenza media e altrettanti hanno svolto l’avviamento professionale; una sola informante ha licenza elementare. Tranne che nell’unico caso di informante giunta in Baviera attraverso l’ufficio di collocamento tedesco allora operante a Verona, «catapultata» in un ambiente caratterizzato dalla forte presenza di altri emigrati, in particolare dall’Italia meridionale, l’emigrazione è avvenuta per scelte individuali (seppur talora con l’appoggio di familiari e/o compaesani già emigrati), come tipico per la migrazione friulana verso la Germania nella seconda metà del XX secolo. Ne conseguono una dispersione territoriale e sociale dei migranti, la loro rapida integrazione

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(anche linguistica) nella società locale e un certo disinteresse (e mancata frequentazione) per la restante comunità migrante, «riscoperta», in alcuni casi, solo in seguito alla fondazione del locale Fogolâr furlan a metà degli anni ’80; la sua frequentazione si è però in diversi casi esaurita con la fine del sodalizio. Differenziati e difficilmente riassumibili sono i profili professionali degli informanti; qui sia solo citato che rari sono i casi di ethnic business, mentre la non rara integrazione dei migranti in un tessuto lavorativo e sociale internazionale ha notevoli riflessi sulle loro routine comunicative (alcuni casi esemplari in Melchior 2008).

3.2.2 Alcuni risultati «quantitativi» I dati ricavati dai questionari (per una sinossi cf. Melchior 2010) mostrano come sia avvenuta un’evidente ristrutturazione degli usi linguistici e degli spazi comunicativi degli informanti. Mentre prima della migrazione il friulano assumeva un ruolo predominante nella comunicazione familiare (23 informanti lo utilizzavano con la madre, 25 con il padre, 24 con i fratelli, talora insieme ad altre lingue) e, seppur parzialmente, nella comunicazione sociale, esso ha, in migrazione, una portata comunicativa limitata se non nulla, svolgendo al massimo un ruolo marginale nella quotidianità. Sebbene infatti la maggior parte degli informanti valuti come buone le proprie competenze passive (27/30) e attive (24/30) di friulano, essi hanno raramente occasione di interagire con corregionali nel contesto migrazionale. Nei rapporti con il partner il friulano è assente nella quasi totalità dei casi (un solo informante ha partner friulano e utilizza con questo esclusivamente il friulano), a fronte di una discreta presenza dell’italiano (11/30, in quattro casi quale unica lingua), di tedesco (21/30, in 15 casi quale unica lingua) e talora di bavarese. Dei diciotto informanti con figli, solo tre utilizzano il friulano con questi, due in cooccorrenza con l’italiano. Anche nel solo caso in cui il friulano è unica lingua della comunicazione genitore/figli, esso è affiancato dal tedesco nei rapporti tra i figli stessi (cf. Melchior 2008, 100). Come lingua sociale il friulano è marginale, presente solo occasionalmente (in nove casi) nella comunicazione con amici, dove invece dominano il tedesco e l’italiano (rispettivamente per 28 e 23 informanti), ma sono presenti anche varietà locali (bavarese per quattro informanti) e sporadicamente lingue alloctone (francese, inglese). Un unico informante frequenta uffici gestiti da Friulani, mentre dieci si recano occasionalmente in bar o ristoranti friulani. Tuttavia, se il friulano viene utilizzato, esso lo è in genere (sei casi) in cooccorrenza con l’italiano e/o il tedesco. Anche nella vita professionale il ruolo svolto dal friulano è limitato (sei informanti affermano di parlarlo talora con i colleghi), mentre vi sono diverse situazioni di comunicazione plurilingue, con la presenza, in due casi, dell’inglese e in un caso anche dello spagnolo, oltre che del tedesco, dell’italiano (in 18 casi) e, in un caso, del bavarese.

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Il friulano mantiene una certa funzione comunicativa solamente nei contatti con la famiglia d’origine e/o gli amici restati in patria. Ma non solo gli usi orali di tale lingua sono assai limitati: la lettura (anche attraverso i nuovi media) e la scrittura in friulano paiono infatti irrilevanti, se non a livello di usi personali, come la lista della spesa, piccoli appunti, brevi componimenti di stampo poetico, con soluzioni (anche grafiche) non controllate e non necessariamente coerenti; un solo informante partecipa attivamente alla scritturalità friulana, con articoli scientifico-divulgativi, mentre per gli altri tale dimensione è completamente assente. Come prevedibile, la maggior parte degli informanti dichiara di avere buone o ottime competenze (attive e passive) in italiano e la maggior parte anche in tedesco. Una sola informante ammette apertamente di parlare «Ausländerdeutsch», mentre un secondo informante è consapevole delle proprie difficoltà in tedesco, lingua che pratica raramente, dal momento che lavora in un centro di ricerca internazionale, dove può parlare italiano, inglese e spagnolo e all’interno del quale ha formato anche le sue reti sociali. Le autovalutazioni delle proprie competenze linguistiche paiono però a volte contrastare con la realtà dei fatti: in alcuni casi, durante gli incontri con gli informanti, avvenuti talora in locali pubblici, si sono palesate notevoli difficoltà di questi a interagire con madrelingua tedeschi. Ben 25 informanti dichiarano di comprendere bene o a sufficienza il bavarese (o la varietà locale parlata nel territorio di residenza), 16 anche di parlarlo bene o discretamente. Seppur sia indubbio che alcuni informanti comprendano e utilizzino la varietà locale con familiari, amici e/o conoscenti, emerge però la difficoltà nel distinguere chiaramente tra varietà dialettali locali e una certa «coloritura» meridionale nel tedesco parlato in Baviera, come si manifesta in maniera evidente negli esempi da essi portati per dimostrare la dialettalità della regione. La portata comunicativa dell’italiano è sorprendentemente alta, segno di una diffusa conoscenza, almeno rudimentale, di tale lingua presso la popolazione autoctona, e di un discreto utilizzo nella quotidianità sociale e negli ambiti di distanza comunicativa. A contraltare di un uso assolutamente trascurabile del friulano, gli informanti affermano una forte «lealtà linguistica ideale», manifestantesi nei giudizi di valore sul friulano, considerato a gran maggioranza una lingua (20 informanti si dichiarano completamente e quattro piuttosto discordi con l’affermazione che il friulano sia un dialetto, un’informante si dichiara piuttosto e cinque completamente d’accordo; l’opinione è talora suffragata, a commento del questionario, con affermazioni del tipo «si pues scrivi», seppure venga apertamente dichiarata la propria incompetenza scritturale), non inferiore all’italiano e nella forte identificazione in una «peculiarità friulana» (quale discrimine nei confronti della società d’accoglienza e degli altri migranti italiani), fondata soprattutto sulla particolarità linguistica (cf. Melchior 2007). L’atteggiamento positivo nei confronti del friulano è confermato dall’affermazione di 21 informanti di essere sempre stati orgogliosi di parlare tale lingua, mentre sette ritengono di esserlo divenuti ancor più in seguito all’emigrazione. Purtuttavia, la

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visione del friulano è nella maggior parte dei casi prettamente relazionale – e quindi dialettale –, come mostrano l’attenzione alle particolarità delle singole varietà, la rinuncia alla trasmissione alla seconda generazione a causa della scarsa «spendibilità sul mercato», il riconoscimento di una funzione (e una dignità) a tale idioma solo in ambiti e domini tradizionali, accompagnata da una certa diffidenza verso le innovazioni terminologiche e i tentativi di elaborazione estensiva. La dimensione di «lingua» del friulano (da contrapporre ai «dialetti» d’Italia), che si esprimerebbe in una scritturalità materiale e concezionale normata e codificata, emerge, nelle interviste, spesso in forma di una affermata difficoltà degli intervistati nel leggere e scrivere friulano (ricondotta alla mancanza di materiali per l’apprendimento). È dunque presente l’imago di uno standard di riferimento – in particolare scritto – che tuttavia pare ostico e difficilmente raggiungibile (al riguardo, cf. Melchior 2009a; 2012). La mancata coesione sociale tra i Friulani in Baviera, la mancante integrazione nella comunità italiana e la rara occupazione nel settore dell’ethnic business cui si è già accennato fanno sì che non vi siano casi di accomodazione tra parlanti varietà di friulano diverse o che, tranne che in un caso, si assista al formarsi di una varietà italiana di migrazione. Non di rado gli informanti che hanno contatto con corregionali in Baviera hanno al contrario affermato di utilizzare ognuno la propria varietà, rimarcando talora in maniera ironica alcune percepite particolarità delle varietà altrui, in generale di tipo lessicale o fonetico. Anche durante i colloqui con gli informanti, che, tranne in due casi di uso dell’italiano, si sono svolti in friulano (seppure talora con iniziali difficoltà di «riattivazione» dello stesso da parte degli informanti), vi è stato un solo caso evidente di iniziale accomodazione verso la mia varietà. Più spesso si è verificata la situazione opposta, in cui vi è stata la necessità da parte mia di adattare la varietà friulana usata – lessicalmente, foneticamente e morfologicamente – a quella degli informanti per essere da questi meglio compreso. In un caso – un parlante roveredano, varietà dall’informante considerata «marginale» – vi è stato un frequente code-switching, con ampio ricorso all’italiano. Frequenti sono state, comunque, le interferenze – lessicali e sintattiche – con il tedesco (cf. infra) e, in parte, con l’italiano.

3.2.3 L’analisi qualitativa Con dieci informanti, che in base alle loro risposte al questionario parevano risultare particolarmente rappresentativi del quadro generale emerso o che da esso si discostavano in maniera evidente, sono state svolte interviste qualitative, finalizzate alla raccolta di materiale che permettesse di ricostruire più nel dettaglio alcuni casi specifici e di delineare i – talora assai divergenti – spazi e biografie comunicativi. Non essendo in questa sede possibile riferire in maniera dettagliata i risultati dell’analisi, per cui si rimanda alle pubblicazioni già citate, si cercherà di offrire alcune considerazioni che possano avere portata più generale.

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Gli spazi comunicativi che emergono dalle interviste ai dieci probandi sono testimonianza di un diverso grado di integrazione – linguistica e sociale – nella comunità tedesca locale: questi vanno da un uso pressoché esclusivo del tedesco nella propria quotidianità comunicativa a un elevato grado di dissociazione, dove la dominanza di lingue e varietà alloctone (l’italiano e in parte il friulano in primis nella quotidianità familiare, altre lingue come lo spagnolo o l’inglese nell’ambito lavorativo e sociale), relegano il tedesco a un ruolo marginale, rendendone anche più lenta e difficoltosa – perché pragmaticamente non necessaria – l’acquisizione. Fondamentali per la configurazione delle scelte e di conseguenza delle routine comunicative dei migranti sono diversi fattori, tra i quali, al di là di quelli più evidenti come modalità e tempi dell’apprendimento linguistico (strutturato, spontaneo, precoce etc.), spiccano soprattutto alcuni momenti che, con De Bot (2007, 57), possono essere definiti «language-related major life events». Tra questi, oltre ovviamente alla scelta migratoria stessa e alle vicende a essa correlate, si possono citare p. es.: 1. l’inizio o la fine di relazioni sentimentali, come nel caso di L.G. (♀, all’epoca della rilevazione dei dati 51enne e da 25 anni residente a Monaco, di Udine), che, dopo alcuni anni caratterizzati dalla quasi esclusiva presenza del tedesco, dopo il divorzio dal marito, attraverso la frequentazione della comunità italiana, passa a una decisa predominanza dell’italiano, relegando il tedesco ai rapporti amministrativi e burocratici; 2. la nascita di figli, che può comportare una riorganizzazione del proprio «ménage» linguistico, come nel caso di O.S. (♀, 63/35, Spilimbergo/Ismaning), che riattiva il proprio italiano (ma non il friulano!) per insegnarlo alle figlie. Analogo, ma diametralmente opposto, il caso di N.P. (♂, 39/6, Artegna/Garching), unico informante con coniuge friulana, che vede entrare il tedesco – di cui ha competenze estremamente limitate – nella sua quotidianità comunicativa in seguito alla scolarizzazione delle figlie; 3. il pensionamento, che pare costituire uno dei momenti cardine per la gestione del proprio repertorio linguistico: così per E.R. (♀, 59/37, Campone/Gräfelfing) che, priva di veri legami sul territorio e con competenze di tedesco limitate a quello che lei stessa definisce «Ausländerdeutsch», dopo il collocamento a riposo vede restringersi le proprie reti sociali e comunicative al solo partner – pugliese –, perdendo il contatto con i colleghi di lavoro, con i quali era solita praticare una varietà italiana di migrazione; 4. episodi più generalmente legati alla migrazione, come p. es. nel caso di B.M. (♂, 56/35, Terenzano/Monaco): questi considerava inizialmente l’emigrazione in Germania come una tappa provvisoria nel cammino verso l’Inghilterra e, integrato nella comunità di migranti italiani del Baden-Württemberg, non aveva appreso che pochi rudimenti di tedesco. Visti sfumare i propri progetti a causa dell’inganno subito da parte di un connazionale, decise di restare in Germania, apprendendo il tedesco ed evitando anche negli anni successivi qualunque contatto – privato e professionale – con Italiani e Friulani. Da un primo periodo di forte

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dissociazione comunicativa è passato dunque a una completa integrazione linguistica, dove il tedesco costituisce pressoché l’unica lingua utilizzata; vicende esterne, come la fondazione del Fogolâr furlan della Baviera (cf. sopra), che in alcuni casi porta a una riattivazione del friulano: è il caso di L.D. (♂, 60/40, Morsano al Tagliamento/Vaterstetten). Dopo anni di migrazione caratterizzati dall’utilizzo pressoché esclusivo di varietà tedesco meridionali e del bavarese, grazie all’esperienza del sodalizio egli strinse amicizia con alcuni corregionali, che da allora frequenta regolarmente, così che il friulano ha riassunto una funzione importante nella sua quotidianità comunicativa.

Come si può evincere da questi pochi esempi, momenti ed eventi biografici condizionano in maniera decisiva la formazione di reti sociali e dunque gli usi linguistici e le routine comunicative dei migranti. Anche l’integrazione o l’isolamento sociali e linguistici sono (o possono essere) conseguenza di coscienti decisioni individuali, le cui ragioni sono ricostruibili tramite l’analisi e la rappresentazione delle biografie, linguistiche e migratorie, dei soggetti. Gli spazi comunicativi dei parlanti, pur in parte determinati da convenzioni e pressioni sociali, si formano, fissano o modificano in seguito a decisioni ed eventi biografici assolutamente individuali e personali. Una ricerca che tenga conto di questi fattori permette di analizzare (e comprendere) in maniera più approfondita le complesse e diversificate situazioni linguistico-comunicative che caratterizzano i migranti e le loro esperienze di e con la lingua/le lingue (cf. Fix 2010; Krumm 2013; Stevenson 2013).

3.2.4 Il test di grammaticalità Il quadro manifestatosi in base all’analisi dei questionari faceva presupporre come improbabile l’emergere di varietà friulane coineizzanti o di accomodamento, dato lo scarso o nullo contatto degli informanti tra loro. Al contempo, si delineavano ben chiare la funzione e l’importanza assunte, nella quotidianità comunicativa, da tedesco e italiano. È parso dunque interessante indagare la language awareness degli informanti, la loro capacità di discernere interferenze – in particolare lessicali, morfologiche e sintattiche – dall’italiano e dal tedesco sul friulano. Da un punto di vista teorico più generale, si è cercato di comprendere in quale ambito della lingua sia più facile per i parlanti individuare eventuali interferenze. È stato dunque effettuato un test di grammaticalità, che constava di 48 frasi, di cui 14 corrette, 23 con interferenze dal tedesco, dieci con interferenze dall’italiano e una con un’interferenza attribuibile sia all’italiano sia al tedesco, che presentano in questo caso strutture analoghe. Gli esempi utilizzati sono semi-autentici, costruiti cioè sulla base dei materiali precedentemente ottenuti durante le interviste e i colloqui con gli informanti. Il test è stato sottoposto agli informanti in forma scritta. Data la scarsa abitudine alla lettura in friulano, alcuni di essi, tuttavia, hanno pregato che fosse loro letto ad

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alta voce. Nessun informante ha riconosciuto tutte e 34 le strutture interferite: tre informanti hanno individuato oltre il 70% delle strutture, sette almeno il 50%. 16 strutture sono state individuate da meno di cinque informanti, mentre solo due (Al è cuatri ore e Michêl al à volût nuie) sono state riconosciute da tutti; in entrambi i casi, le strutture corrette sono identiche in friulano e italiano. Gli esempi con interferenze dal tedesco, come quelli appena citati, sono identificati più facilmente, come testimonia il fatto che le 15 frasi meglio riconosciute sono tutte di questo tipo. La frase con struttura comune a tedesco e italiano (Reste dulà tu sês, priva di complementatore universale che) è stata riconosciuta da sette informanti. Solo due frasi che presentano strutture interferite con l’italiano sono state riconosciute da più di cinque informanti. Sebbene i risultati dell’analisi siano piuttosto differenziati, gli informanti paiono in generale riconoscere più facilmente interferenze sintattiche e morfosintattiche (a parziale esclusione della reggenza di aggettivi e verbi, come in O vuei telefonâ cun mê sûr, Simon nol è content cul so lavôr, Al è dificil di fâ chest lavôr), mentre più difficile pare l’individuazione di interferenze lessicali (prestiti morfofonologicamente adattati e calchi semantici, come trop per masse ‘troppo’, abastance per avonde ‘abbastanza’) di fraseologismi e espressioni idiomatiche (Domenie Toni al à il complean per Domenie Toni al finis i agns). Fenomeni come la sostituzione della costruzione durativa friulana (jessi daûr a + infinito) con un calco dall’italiano (stâ + gerundio) sono riconosciuti assai raramente (un solo informante). Non pare vi sia una correlazione diretta tra riflessione (meta)linguistica e usi attivi della lingua. La language awareness non è in diretta relazione infatti con usi linguistici e spazi comunicativi dei migranti: costellazioni simili possono portare a risultati assai diversi nel test di grammaticalità. Da segnalare, infine, che diversi probandi hanno prestato maggiore attenzione alle discrepanze tra la varietà friulana utilizzata nel test, vicina alla koinè, e la propria, ignorando invece gli scopi del test. Questo e il fatto che alcuni di essi abbiano affermato (o perlomeno non negato) la possibile grammaticalità di determinate frasi – specialmente se interferite con il tedesco – in varietà friulane diverse dalla propria, paiono confermare, indirettamente, la loro concezione prettamente dialettale del friulano.

4 Conclusioni Come si evince da quanto esposto nelle pagine precedenti, il fenomeno del friulano e dei friulani all’estero è assai complesso. Limitata, per contro, è la ricerca su tale argomento. Diversi sono i temi ancora da indagare, sia dal punto di vista strutturale sia sociolinguistico. Nel primo ambito, si citi qui la descrizione sistemica dei friulani parlati all’estero; l’analisi della loro conservatività o forza innovativa e della permeabilità all’influsso della lingua o delle lingue autoctone dei territori d’arrivo; lo studio di eventuali varietà coineizzanti di migrazione. Temi prettamente sociolingui-

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stici sono l’analisi degli usi (pluri)linguistici dei migranti; la fedeltà linguistica; la funzione svolta dalla lingua/dalle lingue nella definizione di una propria identità personale e/o di gruppo; la trasmissione del friulano alle seconde e terze generazioni o l’eventuale sua riscoperta; il ruolo svolto dai (nuovi) media nel mantenimento (o nella riscoperta) del friulano. Altri spunti per la ricerca sono la percezione da parte dei migranti degli sviluppi politico- e sociolinguistici in Friuli e della «linguicizzazione» (↗12 La situazione sociolinguistica) del friulano; l’eventuale partecipazione e il ruolo svolto dai migranti nel processo di elaborazione della lingua; gli spazi comunicativi dei rappresentanti della «migrazione dei cervelli» o più genericamente dei «migranti d’élite». Mancano sistematiche ricerche sugli emigrati rientrati in Friuli (quali uniche eccezioni si citino i lavori di laurea o da essi scaturiti di Cieol 2001–2002 su emigranti di ritorno dal Canada, di Moretti 1999–2000; s.d. su migranti dello Spilimberghese rientrati dalla Francia e di Trangoni 1998–1999; 2002 su emigranti rientrati dall’Argentina), la loro lingua (o le loro lingue), i loro usi linguistici, la percezione della situazione (socio)linguistica del Friuli e così via. È auspicabile dunque che l’interesse si concentri in futuro su questi temi per poter colmare in maniera adeguata tali lacune.

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Il friulano come sistema linguistico

Renzo Miotti

8 Fonetica e fonologia Abstract: La descrizione contenuta in questo capitolo si basa, principalmente, sulle varietà centrali del friulano (cui si riferiscono gli esempi dati in trascrizione, salvo diversa indicazione), ma presenta dati anche relativamente a realtà «marginali» (centrorientali, carniche e occidentali) di particolare interesse. I riferimenti a varietà diverse da quelle centrali mirano a metter in evidenza le differenze a livello d’inventario fonologico, nonché fonetiche, tra le principali varietà presenti nell’area friulanofona. Nonostante il capitolo privilegi la prospettiva sincronica, viene concessa attenzione a fattori diacronici qualora si rendano necessari per meglio spiegare e comprendere alcuni aspetti della sincronia, nonché le relazioni genealogiche tra i vari sistemi, a partire da condizioni protoromanze comuni. Per il sistema di trascrizione fonetica, le tassonomie e le terminologie adottate, si rinvia a Canepari (2007). Keywords: fonetica, fonologia, prosodia, varietà

1 Il vocalismo Il friulano centrale, così come la maggior parte delle varietà centrorientali (con alcune eccezioni; cf. infra), presenta un vocalismo a quattro gradi d’apertura, che oppone, in sede accentata, due serie di sette fonemi vocalici, brevi e lunghi: alti, /i, u/ ~ /iː, uː/, medio-alti, /e, o/ ~ /eː, oː/, semi-bassi, /ɛ, ɔ/ ~ /ɛː, ɔː/, bassi, /a/ ~ /aː/. In posizione non-accentata, l’inventario si riduce a cinque elementi (brevi): /i, e, a, o, u/. Oltre al sistema di tipo centrale, possiamo individuare un vocalismo a soli sette elementi brevi, proprio del friulano occidentale comune (da cui restano escluse le varietà più conservative del Meduna e quella di Andreis, nell’alta Valcellina) e della maggior parte del goriziano (tranne le varietà più esterne), nonché della varietà prealpina orientale di Nimis, e un vocalismo a sette vocali brevi e tre lunghe (/iː, aː, uː/), che caratterizza il carnico comune (del tipo più conservativo, poiché le varietà più innovative tendono a convergere col friulano centrale) e le varietà occidentali di tipo conservativo (fascia nordoccidentale del basso Tagliamento, asìno, tramontino e varietà del Meduna, in seno al friulano occidentale comune). Se si eccettuano il goriziano e il nimense, che presuppongono, come fase logica e storica precedente, il sistema tuttora vigente nel friulano centrale, che riducono a una sola serie di vocali brevi semplicemente neutralizzando l’opposizione quantitativa – riorganizzando però in modo diverso il sistema risultante: nel primo, /eː, oː/ passano a /ɛ, ɔ/; nel secondo, invece, alte e medio-alte tendono a convergere in realizzazioni comuni (ma si tratta d’un processo variabile; cf. Vicario 1992) –, tutte le varietà appena menzionate presentano, inoltre, dei dittonghi caratteristici (/ei ~ ɛi, ou ~ ɔu/, /ia ~ ie ~ io, ua ~ ue ~ uo/ etc.; cf. Francescato 1966, 26–32; Rizzolatti 1979; Frau 1984; Benincà 1989, 565s.), che si sviluppano da protorom.

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/e, o/ e (oppure) da /ɛ, ɔ/ a partire dalle stesse condizioni che portano alla fonologizzazione della quantità vocalica e che compaiono, pertanto, nelle stesse posizioni di /Vː/ (la cosiddetta «posizione forte», secondo la terminologia di Francescato) – e cioè, in sintesi, in sillaba finale caudata (con restrizioni sulla coda; cf. infra), dove /Vː/, da [Vː] etimologica in sillaba originariamente non-caudata, entra in opposizione con /V/, da [V] etimologica in sillaba caudata, una volta uguagliatisi i contesti, in virtù del compimento di tutta una serie di processi (lenizione delle ostruenti non-sonore intervocaliche, degeminazione, dileguo delle vocali d’uscita etimologiche diverse da /a/ e desonorizzazione delle ostruenti sonore rimaste scoperte in posizione finale), come esemplificato qui di seguito: *ALLATU > /ˈlad-/ [ˈlaːd-] > /ˈlaːt/ ‘andato’ ~ LACTE > /ˈlatt-/ > /ˈlat-/ [ˈlat-] > /ˈlat/ ‘latte’. Di fatto, alcune vocali lunghe presuppongono proprio una fase dittongata precedente, come nel caso di friul. centr. /eː, oː/, da /ei, ou/ (in alcune voci, tuttavia, il dittongo proviene dalla base latina: cf. p. es. POPULU > /ˈpoul/ > /ˈpoːl/ ‘pioppo’). Sul piano sincronico, i dittonghi, che possono comparire anche in posizione interna e finale non-caudata (cf. p. es. Francescato 1966, 23s., 399–411 e infra), vanno convenientemente analizzati come sequenze di /V/ + /V/. Decisamente sporadiche, in friulano, sono le lunghe semi-basse, /ɛː, ɔː/, limitate a un esiguo numero d’esempi (la maggior parte dei quali limitati a varietà conservative marginali): /ˈfɛːr, ˈmɛːs, ˈbɛːs ~ ˈfɔːr, ˈdɔːs, ˈrɔːs/ ‘fermo, mie, soldi, forno, due (femm.), rosso’, etc. (per /ɛː, ɔː/ in sillaba finale non-caudata e in posizione interna, cf. infra). Gli esempi con /r/ finale hanno /ɛː, ɔː/ per effetto dell’allungamento vocalico davanti a vibrante, che corrisponde a un’innovazione diffusa in gran parte del friulano centrorientale (cf. Francescato 1966, 25), laddove le varietà più conservative, in linea di massima, mantengono la vocale breve davanti a un nesso consonantico etimologico formato da vibrante + consonante (successivamente eliminata: /ˈfɛr, ˈfɔr/ < /ˈferm-, ˈforn-/). Alle forme citate possiamo aggiungere casi quali /ˈvjɛːr, inˈfjɛːr/ ‘verme, inferno’ – limitati a parte dell’area collinare e del medio Tagliamento e alla pianura centroccidentale (con l’esclusione di punti marginali particolarmente conservativi) – nei quali /jɛː/ rappresenta la continuazione di protorom. /ɛ/ davanti a /r/ originariamente seguita da consonante (< /ˈvɛrm-, inˈfɛrn-/), con successivo allungamento dell’elemento vocalico (di contro, le varietà più conservative mantengono /ɛ/ breve: /ˈvjɛr, inˈfjɛr/, mentre quelle più innovative hanno promosso l’abbassamento a /ja(ː)/: /ˈvja(ː)r, inˈfja(ː)r/; cf. Francescato 1966, 34s.). Le opposizioni /ɛː, ɔː/ ~ /eː, oː/ hanno, evidentemente, uno scarso rendimento funzionale (cf. /ˈmɛːs/ ~ /ˈmeːs/ ‘mese’, /ˈdɔːs/ ~ /ˈdoːs/ ‘doge’, e anche /aˈtɔːr/ ‘intorno’ ~ /aˈtoːr/ ‘attore’), che risulta seriamente compromesso in molte varietà centrali, dove le semi-basse tendono a confluire in /eː, oː/ – in particolare, davanti a /s/ (tranne in /ˈrɔːs/, variante del più diffuso /ˈrɔs/, che è anzi forma esclusivamente centrale, anche se circoscritta a un’area ben determinata), mentre si mantengono davanti a /r/. In alcune varietà centrali e carniche, particolarmente conservative, /ɛː/ compare al posto di /aː/, in virtù d’un processo d’anteriorizzazione e innalzamento di /a/ etimologica (p. es. ad Artegna: /ˈsɛːl, ˈmɛːri, qanˈtɛː/ ‘sale, madre, cantare’; altrove: /ˈsaːl, ˈma(ː)ri, qanˈta(ː)/). Il fenomeno, oggi in regresso, è

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documentato nel nord del Friuli centrale (oltre che ad Artegna, a Magnano in Riviera e a Racchiuso) e in diversi punti della Carnia (p. es. Lovea, Sezza, Imponzo, Vinaio). La posizione di massimo rendimento funzionale, per la quantità vocalica distintiva, è dunque, in friulano, la sillaba finale caudata, con coda diversa da nasale, occlusiva palatale e, salvo casi particolari (cf. infra), occlu-costrittiva postalveo-palatale. Si considerino le seguenti coppie minime (alcune delle quali rilevabili solo in varietà periferiche): /ˈlaːt/ ‘andato’ ~ /ˈlat/ ‘latte’, /ˈpeːs/ ‘peso’ ~ /ˈpes/ (variante di /ˈpɛs/; cf. infra) ‘pesce’, /ˈmɛːs/ ‘mie’ ~ /ˈmɛs/ ‘missione’, /ˈmiːl/ ‘miele’ ~ /ˈmil/ ‘mille’, /ˈtɔːs/ ‘tue’ ~ /ˈtɔs/ ‘tosse’, /ˈmuːt/ ‘modo’ ~ /ˈmut/ ‘muto’, etc. In varietà centrorientali, le vocali lunghe possono comparire anche davanti a /ʧ/, nelle forme verbali di 1a e 3a pers. sg. del presente indicativo dei verbi in /ˈVʤi/ (di solito, prestiti dall’italiano), nonostante, diacronicamente, davanti a consonante occlu-costrittiva non si siano verificate le condizioni per /Vː/ (cf. /ˈbraʧ, ˈpɔʧ/ ‘braccio, pozzo’): /diˈriːʧ/ ‘dirigo/ dirige’, /koˈrɛːʧ ~ -ˈreːʧ/ ‘correggo/corregge’ (si noti qui /ɛː/; cf. supra), etc. In esempi come questi, la comparsa di /Vː/ si deve alla presenza di condizioni strutturali adeguate in sincronia, che consentono l’applicazione, limitatamente alla flessione verbale, della stessa regola che in diacronia ha prodotto /Vː/ da /V/, dove /V/, nel caso sotto osservazione, è la vocale radicale dell’infinito. Da notare che la coda della sillaba finale, di solito costituita da una sola consonante, può risultar biconsonantica dall’aggiunta del morfema del plurale /s/ (o /ʃ/, in varietà conservative, dopo determinate consonanti; cf. § 2.4): /ˈlaːks/ ‘laghi’, /ˈveːrs/ ‘veri’, /voˈkaːls/ ‘vocali’. È invece diatopicamente marcata la vocale lunga in sillaba finale caudata con coda biconsonantica etimologica, che non sia cioè prodotto d’un processo morfologico come quello appena visto. È il caso, p. es., delle varietà parlate nell’area di Dignano, dove troviamo /Vː/ davanti a /ʃC/: /ˈfreːʃk, aˈvɔːʃt/ ‘fresco, agosto’. Invece, in vari punti a nord di Udine, /V/ può confluire in /Vː/ in sillaba finale davanti a /s/, risultando così di fatto neutralizzata l’opposizione /ˈpaːs/ ‘pace’ ~ /ˈpas/ ‘passo’ (entrambi [ˈpaˑah]). L’allungamento della vocale breve in ‘rosso’ (/ˈrɔːs/, per /ˈrɔs/; cf. supra) è solo in parte da collegare al fenomeno appena descritto; esso appare infatti geograficamente molto più esteso. Si può avere /Vː/ anche in sillaba finale non-caudata, in alcuni monosillabi: /ˈtreː/ ‘tre’, /ˈmeː ~ ˈmɛː/ ‘mia’, /ˈkeː ~ ˈkɛː/ ‘quella’, /ˈ(v)weː/ ‘oggi’, /ˈjeː/ ‘lei’, /ˈnoː/ ‘noi’, /ˈtoː ~ ˈtɔː/ ‘tua’, etc. e negli infiniti di prima, seconda e quarta coniugazione: /canˈtaː, saˈveː, parˈtiː/ ‘cantare, sapere, partire’, dove la vocale lunga è originata da un allungamento di compenso provocato dal dileguo di /r/ finale (in diversi esempi, /Vː/ si sviluppa da un dittongo: /ˈtrei, ˈ(v)wei/ etc.). La vocale lunga, in casi come questi, si conserva solo nelle aree più conservative del Friuli settentrionale (cf. Francescato 1966, 21–23), laddove il resto del friulano – comprese alcune varietà centrali collinari e prealpine orientali collocate a nord dell’isofona tracciata da Francescato, ma oggi particolarmente orientate verso il modello pianigiano – abbrevia, equiparando, di fatto, /Vː/ a /V/ (di conseguenza, risultano neutralizzate opposizioni quali /ˈdiː/ ‘dire’ ~ /ˈdi/, etc.).

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Davanti a vocale, come primo elemento d’un dittongo, /Vː/ ricorre nei plurali di nomi e aggettivi maschili che al singolare terminano in /Vːl(i)/, che diventa /Vːi/: /ˈmaːi/ ‘mali’ (sg. /ˈmaːl/), /ˈvoːi/ ‘occhi’ (sg. /ˈvoːli/) ~ /ˈmai/ ‘mai/maggio’, /ˈvoi/ ‘vado’. Anche in questo caso, tuttavia, v’è una chiara tendenza, nelle varietà meno conservative, a far confluire /Vː/ in /V/ (cf. infra per dettagli fonetici). Per meccanismi storicamente diversi da quelli che sono alla base della fonologizzazione delle vocali lunghe «canoniche» (cf. supra), anche in posizione interna di parola si sono verificate, in molte varietà di friulano, le condizioni per /Vː/ (cf. infra), anche se con un rendimento funzionale decisamente minore rispetto a quello che si ha in posizione finale. Va detto che non solo la distribuzione lessicale, ma anche quella areale delle lunghe non-finali è, in Friuli, molto più ristretta di quella delle lunghe in sillaba finale caudata. L’opposizione quantitativa appare particolarmente stabile nelle varietà più marginali: carniche, del medio Tagliamento, occidentali settentrionali (asìno, tramontino, varietà conservative della Pedemontana), diverse varietà della Bassa friulana. Le lunghe in posizione non finale si devono, fondamentalmente, a due processi: l’allungamento per compenso (cf. Heinemann 2007, 67–73) e la coalescenza. Alcuni esempi di quello che viene generalmente interpretato come un allungamento dovuto a un meccanismo compensatorio sono i seguenti: /ˈpaːri/ ‘padre’ < /ˈpatr-/, /ˈneːri ~ ˈnɛː-/ ‘nero’ < /ˈneɡr-/, /ˈseːle ~ ˈsɛː-/ ‘secchio’ < /ˈsekla/, /soˈreːli ~ -ˈrɛː-/ ‘sole’ < /soˈrekl-/, /paˈnoːle ~ -ˈnɔː-/ ‘pannocchia’ < /paˈnokla/, /ʤeˈnoːli ~ -ˈnɔː-/ ‘ginocchio’ < /ʤeˈnokl-/, /ˈsoːre ~ ˈsɔː-/ ‘sopra’ < /ˈsopra/ (per ulteriori esempi, cf. infra); si considerino le seguenti coppie (sub)minime per /Vː/ ~ /V/ (rilevabili in diverse varietà): /ˈ(p)aːris/ ‘padri’ ~ /ˈ(q)aris/ ‘care’, /ˈvɛːris/ ‘vetri’ ~ /ˈvɛris/ ‘vere’, /ˈ(p)jɛːre/ ‘pietra’ ~ /ˈ(t)jɛre/ ‘terra’, /ˈ(n)ɔːle/ ‘nocciola’ ~ /ˈ(k)ɔle/ ‘cade’, e così via – qui, così come negli esempi che seguiranno, diamo con /i/ e con /e/ le forme rispettivamente maschili e femminili, avvertendo però che per la vocale finale d’appoggio (/i/) si può trovare /e/ in varietà occidentali e che per /a/ finale etimologica possono comparire soluzioni diverse da /e/ (cf. infra); inoltre, per /q, Q/ e /ʧ, ʤ/ si possono avere, a seconda delle varietà, /ʧ, ʤ/ e /ʦ, ʣ ~ s, z/, rispettivamente (cf. infra e §§ 2.3–2.4). In esempi come quelli citati, l’allungamento è stato innescato dal dileguo d’un segmento consonantico, inizialmente parte d’un nesso, primario o secondario (tardo-latino o protoromanzo), generalmente formato da occlusiva + liquida (muta cum liquida), in posizione postaccentuale e posvocalica, ma è interessante rilevare, a questo proposito, l’ampia diffusione di cui gode l’allungamento persino davanti a nessi consonantici non risolti: /ˈmaːɡri, ˈfjeːvra/ ‘magro, febbre’ (il secondo esempio è proprio di varietà occidentali; cf. infra per altri esiti) e pure /ˈliːtro, ˈmeːtro/ (~ /-i/) ‘litro, metro’, etc. Per quanto riguarda l’aspetto timbrico, non poche sono le varietà che hanno promosso e reso categorico l’abbassamento (/ɛː, ɔː/) di /e, o/ protoromanze (cf. gli esempi dati sopra); più rare, di contro, quelle che hanno esteso /eː, oː/ a tutti i contesti. In diverse varietà, l’abbassamento è stato impedito nei nomi e negli aggettivi maschili, plausibilmente per effetto del condizionamento di /i/ finale, vocale d’appoggio non etimologica (ma protorom.

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/ˈvetr-/ ‘vetro’ può costituire un’eccezione: /ˈvɛːri/ vs. /ˈneːri/); non è infrequente che tale condizionamento operi in modo asimmetrico, interessando ora la serie anteriore ora quella posteriore, a seconda delle varietà. Per protorom. /ɛ/ si può avere categoricamente /jeː/ (anche se /e/ > /ɛː/) oppure coesistenza di /jeː/ e /jɛː/, secondo la distribuzione vista: /ˈpjɛːre/ ‘pietra’ < /ˈpɛtra/ vs. /ˈpjeːri/ ‘Pietro’ < /ˈpɛtr-/ – e, nella maggior parte delle varietà, anche /ˈfjeːre/ ‘febbre’ < /ˈfɛbra/ < /ˈfɛbr-/ (pù di rado con /jɛː/). Per /ɔ/, si considerino i casi di /ˈɔkl-/ ‘occhio’ e /ˈɔpra/ ‘lavoro’, con protorom. /ɔ/ > /wo/ e successivamente /voː/ (eventualmente via /vou/ per ‘occhio’; per il rinforzo di /w/ in /v/, cf. Francescato 1966, 36–38): /ˈvoːli, ˈvoːre/ (ma in alcuni punti si ha /uː/). Un caso particolare d’allungamento per compenso è anche la forma /ˈaːt(r)i/ ‘altro’, diffusa in varie zone del Friuli; qui, /aː/ si deve, evidentemente, al dileguo di /l/ (cf. /ˈaltri/). Per quanto riguarda il secondo processo menzionato, esempi tipici d’allungamento per coalescenza, attestati anch’essi in varietà conservative (ma con distribuzione geografica non necessariamente coincidente con quella delle lunghe davanti a un nesso risolto di muta cum liquida), sono rappresentati dagli esiti delle basi (tardo-) latine CUCUTIA ‘zucca’, *PAVURA ‘paura’ e AUCA (< *AUICA ) ‘oca’, PAUCA ‘poca’ e RAUBA ‘cosa, roba’. Nei primi due casi, il dileguo della consonante intervocalica ha messo in contatto i nuclei delle due sillabe contigue, dando luogo a un’unica sillaba dotata d’un nucleo con vocale lunga: /ˈkoːʧe ~ ˈkɔː-/, soluzione che interessa, in particolare, diverse varietà d’ambito centrorientale (specie marginali), e /ˈpoːre/, esito proprio di diverse varietà carniche, centrorientali (soprattutto marginali) e occidentali settentrionali, dove /aˈu/ > /oː/ per ritrazione dell’accento e assimilazione regressiva (attraverso /ou/, ancora vitale) – interessante è anche lo sviluppo che ha interessato diverse varietà, nelle quali si mantiene l’iato originario, ma con allungamento di /u/ (/aˈuː/). Il trattamento che ha interessato *PAVURA si può riscontrare anche nelle tre rimanenti basi, in cui /au/ (stavolta primario) > /ou/ (ancora attestato) > /oː/. La vocale lunga, qui, si mantiene, coerentemente in tutte e tre le forme, solo in varietà settentrionali (p. es. a Gemona: /ˈoːqe, ˈpoːqe, ˈroːbe/; l’ultimo con /ɔː/ in varianti occidentali); nel Friuli centrorientale, in genere, la vocale lunga resiste solo, e limitatamente a punti conservativi, nei derivati di AUCA e PAUCA (con distribuzione non sempre coincidente). In genere, nelle varietà che hanno vocali lunghe motivate da processi compensatori, esse compaiono anche in dipendenza da fattori secondari, p. es., davanti a /z/ (e /ʒ/) – più o meno sistematicamente; tra le eccezioni più ricorrenti: /ˈqaze/ ‘casa’ (varietà settentrionali), /ˈfazi, ˈdizi/ (/-ʒ-/) ‘che faccia, che dica’, etc. Le cause che sono all’origine dell’allungamento vocalico non sono però sempre d’ovvia interpretazione: cf. esempi come /ˈpreːdi ~ ˈprɛː-, buˈteːɡe, ˈaːɡe, ˈplɛːre ~ ˈpleː-, ˈnɔːne ~ ˈnoː-/ ‘prete, bottega, acqua, imbuto, nonna’, etc. (con distribuzione geografica non necessariamente coincidente) e, in aree settentrionali, /ˈvɔːlte ~ ˈvoː-, ˈmɔːlʤi ~ ˈmoː-, ˈpɔːls ~ ˈpoːls/ ‘volta, mungere, polso’, etc. (la sistematicità con cui le lunghe compaiono davanti a /l/ + coronali può variare da varietà a varietà), e così via. Interessante, nell’ambito della morfologia verbale, la /Vː/ che caratterizza la 1a pers. sg. del pres.

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indicativo e la 1a e la 3a del congiuntivo (uniformate alla 1a dell’indicativo) dei verbi della prima coniugazione, in molte varietà settentrionali: /ˈjuːdi, ˈqaːti, ˈlaːvi/ ‘aiuto/ che aiuti, trovo/che trovi, lavo/che lavi’, etc. È ipotizzabile che qui la vocale lunga, che in sincronia ricorre solo in sillaba non-caudata, si sviluppi a partire dalle condizioni proprie della «posizione forte» (cf. supra), anteriormente all’aggiunta della vocale d’appoggio /i/ (per cui cf. Benincà 1989, 574, 577), per poi esser estesa, per analogia, anche alle forme che non presentavano condizioni adeguate per /Vː/. Notevoli, nella flessione del congiuntivo, sono anche forme quali /ˈsɛːti, ˈdɛːti/ (~ /eː/) ‘che sia, che dia’, etc. e /ˈveːbi, ˈseːpi/ ‘che abbia, che sappia’; qui, la lunga, che appare peraltro estesa all’intera flessione (con possibili varianti desinenziali), avrà motivazioni diverse da quelle sopra esposte (nella seconda serie, p. es., può esser plausibilmente dovuta al monottongamento del più conservativo dittongo /ei/). Sul piano fonetico, le vocali lunghe si manifestano, tipicamente, come dittonghi ristretti, monotimbrici o ditimbrici, col primo elemento semi-lungo ([VˑV]) e con una più o meno marcata tendenza, a seconda dei parlanti, all’innalzamento – o, più spesso, all’abbassamento, nel caso di /aː/ – del secondo elemento (Figura 1a): /ˈmaːr/ [ˈmaˑar] ‘mare’, /ˈmɛːs/ [ˈmɛˑᴇh] ‘mie’, /ˈseːt/ [ˈhᴇˑet] ‘sete’, /ˈsiːs/ [ˈhiˑih] ‘sei (num.)’, /ˈtɔːs/ [ˈtɔˑσh] ‘tue’, /ˈloːf/ [ˈlσˑof] ‘lupo’, /ˈuːf/ [ˈuˑuf] ‘uovo’; inoltre: [ˈnᴇˑeri ~ ˈnɛˑᴇ-, ʤeˈnσˑoli ~ -ˈnɔˑσ-] etc. Le vocali lunghe sono realizzate come [VˑV] solo in posizione di tonia, cioè prima d’una pausa, reale o virtuale; in protonia, esse sono sottoposte a processi anche drastici di riduzione, fino a [V]: [aˌlaploˈvut parˈmᴇˑeh] ‘ha piovuto per mesi’ (ma [aˌlaploˈvuˑut]). In sillaba finale non-caudata si ha normalmente [VˑV] nelle varietà conservative del Friuli settentrionale: /ˈlaː/ [ˈlaˑa] ‘andare’, ma riduzione a /V/ ([V ~ Vˑ]) in quelle più innovative: [ˈla ~ ˈlaˑ] (come /ˈla/ ‘là’). Anche per /Vːi/, come s’è visto, la tendenza, nelle varietà meno conservative, è a neutralizzare a favore della breve (/Vi/): /ˈmaːi, ˈvoːi/ ‘mali, occhi’ – realizzati come [ˈmaːi, ˈvσːi] in pronunce particolarmente conservative – diventano perciò [ˈmaˑi, ˈvσˑi], esattamente come /ˈmai, ˈvoi/. Presentano, tipicamente, realizzazioni sdoppiate ([VV]) anche le /V/ accentate, specie nelle parole ultimali, in sillaba caudata con coda sia mono- che biconsonantica, e nelle penultimali, davanti a consonante sonora (sia in sillaba non-caudata che caudata). Realizzazioni propriamente brevi ([V]) ricorrono, invece, nelle ultimali, in sillaba non-caudata, e, nelle penultimali, davanti a consonante non-sonora – dove non sono tuttavia infrequenti gli sdoppiamenti – e, tendenzialmente, nei dittonghi; [V] compare con una certa frequenza anche in sillaba finale caudata, con coda nonsonora, specie monoconsonantica. Si ha normalmente semi-allungamento ([Vˑ]) nei dittonghi in posizione finale; inoltre, [Vˑ] può comparire in sillaba finale non-caudata, in alternativa a [V], e, sempre in sillaba non-caudata, nelle penultimali, specie davanti a consonante sonora, in alternativa a [VV]. Le terzultimali sembrano preferire [V] in sillaba caudata e in sillaba non-caudata seguita da consonante non-sonora (dove si può avere, meno sistematicamente, anche [Vˑ]), mentre in sillaba non-caudata seguita da consonante sonora si nota una certa oscillazione tra rese semi-lunghe e

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brevi ([Vˑ ~ V]); in tutti i contesti menzionati, seppur meno frequenti, sono possibili anche realizzazioni sdoppiate. In posizione non-accentata, le vocali sono sempre brevi. I seguenti esempi illustrano (per /a/) la casistica esposta: [ˈbaal] ‘ballo’, [ˈlaark] ‘largo’, [ˈfa(a)t] ‘fatto’, [ˈbaale ~ ˈbaˑ-] ‘palla’, [ˈʧaampe] ‘sinistra’, [ˈba(a)he] ‘bassa’, [ˈpa(a)hte] ‘pasta’, [ˈbaite] ‘baita’, [kuˈla(ˑ)] ‘là’, [ˈmaˑe] ‘maglia’, [ˈla(a)hile ~ ˈlaˑ-] ‘lasciala!’, [ˈha(a)ntule] ‘madrina’, [ˈklaˑmilu ~ ˈkla(a)-] ‘chiamalo!’. Va detto che il fenomeno dello sdoppiamento (così come del semi-allungamento) si manifesta pienamente in posizione di tonia; in protonia, /V/ tende invece a ridursi a [V]. Un dato di cui tener conto è la variazione areale per quanto riguarda la distribuzione delle vocali medio-alte (/e, o/) e semi-basse (/ɛ, ɔ/) brevi. A questo proposito, particolarmente rivelativa, per valutar il grado di conservatività d’una varietà, è la tendenza al mantenimento vs. all’abbassamento (che può manifestarsi con maggior o minor frequenza secondo le varietà) delle medio-alte protoromanze (in cui talvolta confluiscono pure /ɛ, ɔ/ di varia origine) in sillaba finale caudata, specie se la coda è costituita da consonanti ostruenti (sulle cause del processo, cf. Rizzolatti 1979, 59). Si contrastino /ˈnet, ˈpes ~ ˈpeʃ, imˈprest ~ -ʃt; ˈrot, ˈɲot ~ ˈnot/ ‘pulito, pesce, attrezzo, rotto, notte’, etc., soluzioni tipicamente conservative – cf., qui, alternanze morfofonologiche come /ˈnet/ vs. /ˈnɛte ~ -a ~ -o/ ‘pulita’ (alcune varietà, tuttavia, presentano le medio-alte pure nei femminili) – con /ˈnɛt, ˈpɛs, imˈprɛst; ˈrɔt, ˈɲɔt ~ ˈnɔt/, soluzioni proprie delle varietà più innovative, in cui rientra non solo il friulano parlato nella parte più interna del Friuli centrale e in quella settentrionale dell’area goriziana (laddove nella parte più occidentale e in quella meridionale predominano /e, o/), ma anche le varietà occidentali più innovative del Cellina (si noti, in queste, l’alternanza /ˈnɛt/ vs. /ˈneta/, ma /ˈnɛtis/). In realtà, sembra esserci una certa asimmetria tra la serie posteriore e quella anteriore, se è vero che /o/, in genere, è piuttosto rara, nei contesti indicati; d’altra parte, nelle varietà conservative, /e/ non appare mai categorica, pur rimanendo sostanzialmente predominante (a questo proposito, è possibile osservare parziali divergenze a livello diatopico nella distribuzione di /e, o/ e /ɛ, ɔ/). Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo, /e, o/ accentate hanno normalmente rese medio-basse, [ᴇ, σ], anche se piuttosto sollevate (cf. Figura 1a), mentre /ɛ, ɔ/ sono [ɛ, ɔ], ma, nel caso di realizzazioni dittongate, si ha generalmente un innalzamento nella parte finale della produzione della vocale ([ᴇe, σo; ɛᴇ, ɔσ]).

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Figure 1a/b: La Figura 1a mostra le realizzazioni vocaliche del friulano centrale. I segnali neri rappresentano le realizzazioni (con gli eventuali movimenti dittongali) in posizione accentata, quelli bianchi, in posizione non-accentata. Le realizzazioni in sillaba non-accentata sono indicate con [˚], quelle deaccentate con [˳]. La Figura 1b mostra le aree corrispondenti alle realizzazioni abbassate/ centralizzanti di /i, u/ in parte del Friuli centrale e lo spazio in cui ricadono le varianti di tipo nonperiferico, esito di /a/ finale etimologica.

In sillaba caudata, davanti a /n/ – più frequentemente in posizione finale – lo sdoppiamento fonetico può dar luogo, almeno per le vocali anteriori e posteriori, a un movimento dittongale centrifugo, da antero-/postero-centrale a periferico. Se per le vocali alte (come in /ˈvin, ˈun/ ‘vino, uno’), si può avere senz’altro [ᴉi, μu] (con nasalizzazione facoltativa del secondo elemento del dittongo), più complesso si presenta il quadro per /ɛ, e/ (/ˈplɛn ~ ˈplen/ ‘pieno’) e /ɔ, o/ (/paˈrɔn ~ -ˈron/ ‘padrone’). Degno di nota, qui, è l’innalzamento, anche considerevole, che può interessare la fase finale dell’emissione della vocale; d’altra parte, il primo elemento del dittongo è caratterizzato, a sua volta, da una notevole oscillazione timbrica, che contribuisce a render ancor più variabili gli esiti (anche per quanto riguarda l’ampiezza dei movimenti dittongali). Nello specifico, il primo elemento del dittongo può esser mediobasso o medio-alto (periferico o antero-/postero-centrale), per /e, o/, e semi-basso o medio-basso (propriamente [ᴇ, σ], o [ , ], mentre, nel caso di /e, o/, è alquanto sollevato, come s’è visto), per /ɛ, ɔ/; il secondo elemento, da parte sua, può subire un innalzamento anche di tre gradi (e presentarsi, eventualmente, nasalizzato). Notevole, a questo proposito, l’innalzamento morfologicamente condizionato – d’almeno un grado – cui sono sottoposte /ɛ, ɔ/ nei plurali di nomi e aggettivi uscenti in /n/, laddove, nel singolare, i timbri si mantengono semi-bassi o medio-bassi (almeno nella prima parte del dittongo; cf. supra): [ˈplᴇɪBh ~ ˈpleɪBh ~ ˈpleiBh] ‘pieni’ (pl. di /ˈplɛn/, se realizzato col primo elemento semi-basso), [paˈroʊBh ~ -ˈrouBh] ‘padroni’ (pl. di /paˈrɔn/, se realizzato col primo elemento medio-basso). Il processo d’innalzamento non trova applicazione in tutte le varietà che presentano /ɛ, ɔ/, ma appare circoscritto σ ᴇ

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a quelle centrali – parlate in un’area grosso modo coincidente con quella di /ɛ, ɔ/ davanti a ostruenti finali (cf. supra) – e di tipo goriziano più contigue, mentre invece non ne sono interessate le semi-basse delle varietà più periferiche, di tipo settentrionale, goriziano e occidentale. Deaccentate, nella frase o nei composti, /e, o/ e /ɛ, ɔ/ hanno realizzazioni più alte (e brevi) che in sillaba accentata, rispettivamente [e, o] (anziché medio-basse sollevate) e [ᴇ, σ] (cf. Figura 1a): [ˌhjᴇtkoˈlσˑorh ~ ˌhje-] ‘sette colori’ (/ˈsjɛt ~ ˈsjet/), [hσtˈvσːoh] ‘sottovoce’ (/ˈsɔt/). Tipico d’una vasta area, che s’estende dalle Prealpi orientali fino a circondare Udine, includendo parte dell’area collinare e un’ampia zona pianeggiante a est della città (l’area è grosso modo quella descritta in Francescato 1966, 44), è il pronunciato abbassamento cui possono esser soggette le vocali alte (/i, u/), sia accentate che non-accentate. La varietà dei trattamenti è multiforme, e comprende, oltre alle normali rese [i, u], realizzazioni periferiche con grado d’apertura semi-alto, medioalto – e, in posizione accentata, anche medio-basso – e articolazioni centralizzanti (antero- e postero-centrali: alte, semi-alte e medio-alte; per la collocazione dei simboli fonetici nel vocogramma, cf. Figura 1b). L’abbassamento di /i/ finale fino a [e] caratterizza, in modo particolare, l’area a nord-est di Udine. Il fenomeno s’esplica, come si vede, attraverso un elevato grado d’instabilità timbrica, sia inter- che intra-individuale, con realizzazioni fluttuanti e movimenti dittongali anche ampi, sia centrifughi che centripeti (particolarmente evidenti nel caso di /i/, davanti a consonante nasale), entro vaste aree di dispersione. Nelle pronunce più marcate, abbassamenti consistenti possono compromettere la stabilità dei contrasti fonologici tra le alte e le medio-alte (p. es. /ˈundis/ ‘undici’ = /ˈondis/ ‘onde’, variante di /ˈɔndis/), a causa della sovrapposizione tra le rispettive aree vocaliche (favorita dal fatto che le seconde, a loro volta, possono aver realizzazioni anche più alte del consueto; cf. anche Vicario 1992). Notevole, nelle zone interessate dall’abbassamento delle alte, il processo opposto dell’innalzamento, morfologicamente condizionato, cui sono sottoposte non solo /ɛ, ɔ/, nei plurali di nomi e aggettivi uscenti in /n/ (cf. supra), ma pure le stesse vocali alte (almeno /i/), che presentano le tipiche realizzazioni abbassate, o centralizzanti, nei singolari, ma rese alte e periferiche nei plurali: [ˈviiBh] ‘vini’ (sg. /ˈvin/, con molteplici rese per /i/: [ɪi ~ ᴉᴉ ~ ɩi ~ ɘɪ ~ ɘi ~ eɘ ~ eɪ ~ ei ~ ᴇɪ ~ ᴇi] etc.). Come già detto, l’inventario delle vocali non-accentate si riduce a un sistema a soli cinque elementi. In posizione preaccentuale, se la vocale accentata è /ˈɛ, ˈɔ/, /e, o/ possono abbassarsi, per assimilazione regressiva a distanza, fino a [ᴇ, σ] (il processo armonico, tuttavia, appare meno regolare di quello che interessa /e, o/ finali; cf. infra): [ˌkσvᴇrˈtɔσrjᴇ] ‘coperchio’. Le vocali d’uscita più frequenti, nel friulano centrale, sono /e/ (da lat./protorom. /a/, per cui cf. infra) e /i/, che compare, di solito, come secondo elemento di dittonghi (di varia origine): /ˈsai/ ‘so’, oppure come elemento non etimologico con funzione d’appoggio: /ˈfradi, ˈqanti/ ‘fratello, canto/che canti’. Le vocali posteriori sono invece

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più rare: /o/ compare in pochissimi esempi, perlopiù d’origine veneta e italiana: /ˈvɛqo, ˈbulo, ˈzɛro, ˈnɔno, ˈkoɡo/ ‘vecchio, spavaldo, zero, nonno, cuoco’, mentre /u/ è decisamente sporadico (compare come secondo elemento di dittonghi e in forme pronominali): /paˈdrɛu, ˈsintilu/ ‘patrigno, sentilo!’. In varietà occidentali a ridosso dell’area venetofona si ha /e/ al posto di /i/, probabilmente per l’azione esercitata dal veneto. Il friulano occidentale (eccetto la zona menzionata) ha inoltre /u/ per /o/, che si ritrova anche, con oscillazioni, in varietà della fascia sudorientale del basso Tagliamento. In corrispondenza di /a/ finale etimologica, in area friulana troviamo altri due esiti fondamentali, oltre a /e/: /a/ e /o/. Il primo è proprio del friulano occidentale – tranne Clauzetto, che ha /e/ ([ᴇ ~ ], con una lieve tendenza all’innalzamento dopo /ˈe, ˈo/) –, di diverse varietà carniche – in molte località della Carnia centrorientali (nonché nel bacino del Fella) s’è ormai infiltrata l’innovazione /e/, di provenienza pianigiana, in genere con realizzazioni simili a quelle centrali (di tipo innovativo: medio-basse e medio-alte, secondo il contesto; cf. infra), tranne in punti periferici (p. es. Forni di Sotto), con solo rese medio-basse (forse dovute a sviluppi autoctoni) – e di diverse aree centrorientali periferiche – goriziano (ma Cormons e Mariano hanno /e/), cividalese (e aree d’influenza, con l’inclusione di Premariacco e Orsaria, nonché di Moimacco), alcune zone poste in prossimità del Tagliamento (Osoppo, dov’è però in regresso, e la maggior parte delle località del bacino del lago di Cavazzo, Dignano e località latisanesi a ridosso del fiume) e, più isolate, Beano e Pantianicco. Sotto l’aspetto fonetico, /a/ è generalmente realizzata come [a], ma in diverse varietà è evidente una tendenza (più o meno sistematica) all’innalzamento, anche fino a [ɜ3] (p. es. in varietà carniche), eventualmente accompagnato da una più o meno contenuta anteriorizzazione (p. es. in località centrorientali quali Moimacco, Dignano o Cavazzo Carnico, nonché in vari punti della Carnia; in alcune di queste varietà, anche fino a [ 0]), oppure da posteriorizzazione (generalmente, non oltre [I9]; tipica della zona di Montereale Valcellina, nel Friuli occidentale, è una realizzazione centrale semi-bassa piuttosto arretrata, [ɐ6]). In alcune varietà (p. es. di tipo gortano), /a/ subisce un innalzamento davanti a /s/: [ˈtaulɐs] ‘tavole’ (sg. [ˈtaula]). Tipico d’aree oggi isolate, tutte relegate al Friuli settentrionale, è invece l’esito /o/ ([σ] dopo /ˈi, ˈu/ e /ˈɛ, ˈɔ/, [o] dopo /ˈe, ˈo/ e /ˈa/), che ritroviamo in varie località dell’area di Rigolato e Forni Avoltri (alto Canale di Gorto). Come si vede, il friulano carnico, in particolare, esibisce un ventaglio notevolmente ampio di varianti in corrispondenza di /a/ finale etimologica. Oltre alle articolazioni viste, si trovano pure varianti più particolari, di tipo centrale medio, come si ha tipicamente a Paularo, con [ɜ] (a volte, lievemente arretrata, verso [I]), mentre altre varietà mostrano già una tendenza all’anteriorizzazione (p. es. a Lauco, verso [ ]). Come detto, in friulano centrale (e in genere centrorientale, se s’eccettuano le zone con /a/; cf. supra), l’esito è /e/, realizzata, nella maggior parte delle varietà, come medio-bassa, [ᴇ], dopo /ˈɛ, ˈɔ/ e /ˈi, ˈu/, e come medio-alta, [e], dopo /ˈe, ˈo/ (cf. Figura 1a). La variante medio-bassa può presentare realizzazioni più arretrate (anteᴇ





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ro-centrali), in vario grado a seconda delle varietà (generalmente, [ ]; più prossime a [ɜ] nelle varietà di transizione della fascia del Tagliamento) – in protonia, [ᴇ] tende ad arretrare ulteriormente, oltre che a innalzarsi anche sensibilmente, fino a confluire, con [e], in realizzazioni propriamente centrali, specie nel parlato ipoarticolato. Avremo, perciò (normalizzando e semplificando le trascrizioni): [ˈnɛtᴇ, ˈrɔtᴇ] ‘pulita, rotta’, con /ˈɛ, ˈɔ/, e anche [ˈfritᴇ, ˈhutᴇ] ‘fritta, asciutta’, con /ˈi, ˈu/, ma [ˈplᴇere, ˈjσibe] ‘imbuto, giovedì’, con /ˈe, ˈo/. La coerenza dello schema è messa in crisi dal comportamento di /e/ dopo /ˈa/, contesto in cui s’evidenzia una notevole instabilità timbrica tra i due poli estremi medio-basso (anche se con realizzazioni leggermente più sollevate rispetto agli altri contesti) e medio-alto, in un quadro di notevole variabilità, sia inter- che intra-individuale, in cui, tuttavia, è possibile rilevare una chiara tendenza all’innalzamento ([e]). Una chiave per la comprensione del fenomeno ce la fornisce la comparazione del quadro appena descritto con quello fornito da varietà centrali che ipotizziamo più conservative, che preserverebbero condizioni che dovettero esser proprie anche del friulano centrale più innovativo, in fasi precedenti. Si tratta di varietà periferiche – diffuse nell’area collinare a nord di Udine e nella pianura a nord-est, sud-est e sud della città, specie in zone appartate (nonostante il modello innovativo si sia infiltrato un po’ dovunque) – che presentano realizzazioni di /e/ oscillanti tra medio-basse e semi-basse e in varia misura centralizzanti, le quali ricorrono in modo categorico, qualunque sia il timbro della vocale in sillaba accentata. Il friulano di pianura rappresenterebbe un’ulteriore fase, innovativa, caratterizzata da un progressivo cedimento dello schema appena descritto, che vede in atto una tendenza all’innalzamento e alla periferizzazione di /e/ finale – estrema conseguenza, peraltro, d’un processo latente fin dalla fase medievale della storia evolutiva del friulano centrale, quando affiorano i primi indizi documentari di cedimento di /a/ finale (a tutt’oggi osservabile in alcune varietà; cf. supra). Ma se detto processo appare completo solo dopo /ˈe, ˈo/, per effetto d’un meccanismo assimilativo a distanza (armonia vocalica), innescato dalle medio-alte – contesto che possiamo ipotizzare scatenante –, dopo /ˈa/ permane un comportamento incerto e oscillante. D’altra parte, la maggior stabilità di [ᴇ] negli altri contesti potrebbe esser attribuita all’azione di contrasto esercitata da /ˈɛ, ˈɔ/ e da /ˈi, ˈu/, che metterebbero in campo due forze di segno opposto: una assimilativa, indotta questa volta da /ˈɛ, ˈɔ/, che bloccherebbero l’innalzamento al grado d’apertura medio-alto, e una dissimilativa, innescata dalle vocali alte. Un comportamento analogo a quello di /e/ è manifestato anche da /o/ (cf. supra), con realizzazioni specularmente simili, nei medesimi contesti armonici ([σ] vs. [o]): [ˈbuulσ, ˈHɛᴇrσ, ˈnɔσnσ, ˈkσoɡo].

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2 Il consonantismo 2.1 Fonemi nasali Il friulano possiede tre fonemi nasali: bilabiale /m/, alveolare /n/ e palatale /ɲ/: /ˈlame/ ‘lama’ ~ /ˈlane/ ‘lana’ ~ /ˈlaɲe/ ‘(si) lagna’. In posizione preconsonantica interna di parola (per il trattamento in confine di parola e morfema, cf. infra) si ha neutralizzazione, con realizzazioni omorganiche al ¸ ʧe punto d’articolazione della consonante seguente: [ˈtiimp, iɱˈviˑit, ˈtaant, maɲˈqaan ~ -ɲˈ>aa- ~ -Bˈkjaa-, ˈluuBk] ‘tempo, invito, tanto, mancanza, lungo’ (per semplicità, non utilizziamo simboli specifici per mostrare differenze coarticolatorie minime, peraltro automatiche; si ricorre, pertanto, a [m] per il punto bilabiale, a [ɱ] per quello labiodentale, a [n] per i punti dentale, alveolare e dentalveolare, a [¸n] per quello postalveo-palatale, a [ɲ] per i punti palatale e pospalatale e a [B] per quelli prevelare e velare). Davanti a /s/, l’articolazione è tipicamente alveo-velare, [ᵰ], ma si può avere anche una resa di tipo provelare semi-nasale (cioè senza contatto completo tra il dorso della lingua e la parte iniziale del velo), che, ai fini della trascrizione, non distingueremo da [B]: [piᵰˈhiˑir, piB-] ‘pensiero’. In /nq#/, dopo vocale non anteriore – in esempi come /ˈtanq, ˈɡranq/ ‘tanti, grandi’, ma anche /ˈranq/ ‘ragno’ (dove /q/ è consonante epitetica; cf. infra) – [ɲ] tende a sviluppare, più tipicamente in area centrorientale, un segmento vocalico omorganico ([iɲ]). In confine di parola, /m/ ha un’articolazione labiodentale davanti a /f, v/, per normale assimilazione: [ˈfluɱ fra¸nˈʧᴇˑeh] ‘fiume francese’ (/ˈflum/), ma tende a mantenersi come [m] davanti alle altre consonanti, il che garantisce la stabilità del contrasto /m/ ~ /n/ (con neutralizzazione solo davanti a /p, b/). La nasale alveolare può ricevere, in posizione finale (/ˈman/ ‘mano’), un’articolazione velare o provelare (semi-nasale): [ˈmaaB]. La realizzazione provelare si può mantenere anche in confine di parola, sia davanti a vocale, dov’è però possibile anche la risillabificazione (con resa alveolare di /n/): [ˌuBaˈmi ~ ˌunaˈmi] ‘un amico’, sia davanti a consonante, purché diversa da occlusiva e occlu-costrittiva, posizioni in cui si hanno, invece, articolazioni omorganiche: [ˌuBmoˈmɛᴇnt, kuBˈhaˑal, uBˈraˑi, uBˈ(v)waarp, umˈpaˑal, unˈtaˑi, u¸nˈʤiˑir] ‘un momento, con sale, un raggio, un cieco, un palo, un taglio, un giro’ – si tenga presente, però, che tale situazione non trova riscontro in tutto il friulano: in varietà più conservative, come quelle carniche, l’omorganicità è predominante (davanti a tutte o alla maggior parte delle consonanti). Davanti a /j/ è ammessa una certa flessibilità: la soluzione più frequente è provelare (semi-nasale), ma è possibile anche la risillabificazione, con realizzazione alveolare di /n/: [uBˈjɛˑur ~ uˈnjɛˑur] ‘una lepre’. Si hanno articolazioni posteriori (di tipo provelare) anche in confine di morfema: [ˈmaaBh] ‘mani’ (con /s/ morf. di pl.), [ˌiBneˈaˑat, ˌiBriˈtaˑat] ‘annegato, irritato’, etc. (formate col prefisso /in/). La nasale palatale finale di parola (/ˈraɲ/ ‘ragno’) è raramente realizzata come [ɲ] in friulano centrale (e centrorientale in genere), più spesso si scinde in [iB] (in cui il primo seg-

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mento è portatore della palatalità e il secondo, velare o provelare, della nasalità): [ˈraˑiB]. Piuttosto diffusa, nelle varietà centrali, e ancor di più in quelle carniche (decisamente meno in quelle occidentali), è l’epitesi consonantica posnasale, ossia la tendenza a rinforzare l’articolazione nasale mediante una consonante occlusiva omorganica (cf. Francescato 1966, 65; Heinemann 2007, 73–75). Pur non trattandosi d’un fenomeno regolare, l’epitesi appare, nel friulano centrale, decisamente più sviluppata dopo /m/ che dopo altri punti d’articolazione e è verosimile che soggiacia al processo la necessità di salvaguardare la distinzione tra i vari punti d’articolazione, evitando la confluenza in realizzazioni indebolite di tipo velare: /ˈflum ~ ˈflump, sˈtran ~ sˈtrank, ˈraɲ ~ ˈranq/ ‘fiume, paglia, ragno’, etc.; in alcuni casi, l’epitesi è stata lessicalizzata: /ˈplank/ ‘adagio’. Limitata quasi esclusivamente alle aree montane è l’epitesi dopo /n/, mediante /t/: /ˈant, ˈudint/ ‘anno, Udine’ (friul. centr. /ˈan, ˈudin/); esclusivamente circoscritta a varietà alpine, l’epitesi /ʧ/ dopo /ɲ/ (o anche dopo /n/ derivata da nasale palatale etimologica, ma non solo): /ˈjunʧ, ˈlɛnʧ, veˈlɛnʧ/ ‘giugno, legno, veleno’, corrispondenti a friul. centr. /ˈjuɲ, ˈlɛn ~ ˈlen, veˈlɛn ~ -ˈlen/ (si noti che, in alcune varietà settentrionali, le ultime due forme, senz’epitesi, possono presentare proprio /ɲ/).

2.2 Fonemi occlusivi Il friulano ha quattro coppie difoniche di consonanti occlusive: bilabiali /p, b/ (/ˈpas/ ‘passo’ ~ /ˈbas/ ‘basso’), dentali /t, d/ (/ˈtant/ ‘tanto’ ~ /ˈdant/ ‘dando’), palatali /q, Q/ (/ˈqate/ ‘trova’ ~ /ˈQate/ ‘gatta’) – assenti però nelle varietà di tipo più innovativo (cf. § 2.3) – e velari /k, ɡ/ (/ˈkɔle/ ‘cade’ ~ /ˈɡɔle/ ‘desiderio’). In diverse varietà, anche centrali, nelle occlusive palatali confluiscono gli esiti della fusione delle sequenze /tj, dj/ (cf. Francescato 1966, 57): /marˈqɛl ~ -ˈqel, paˈQɛle ~ -ˈQe-/ ‘martello, padella’ (per /marˈtjɛl ~ -ˈtjel, paˈdjɛle ~ -ˈdje-/). Sul piano fonetico, /d/ è propriamente realizzata come dentalveolare, [d-], ma, specie in Carnia – e anche, con maggior o minor sistematicità, in vari punti della parte più settentrionale del Friuli centrale (p. es. Cavazzo Carnico, Venzone, Montenars, Nimis, Racchiuso, Savogna), nonché in area asìna (Clauzetto) e pure a Erto – è diffusa una realizzazione più arretrata, postalveolare, [ɖ], che ricorre davanti a vocale; in alcune varietà si ha coesistenza tra la variante dentalveolare e quella postalveolare, con una netta preferenza per la seconda a contatto con vocale posteriore (tendenza che può diventare schema regolare, con le due varianti distribuite in modo complementare). Le occlusive palatali possono avere molteplici rese: occlusive o, spesso, occlucostrittive (con la seconda fase caratterizzata da un grado variabile di costrizione e, a volte, da semi-sulcalizzazione), normalmente pospalatali ([q, Q] e [>, ih ~ -qih ~ -bih ~ -ʧih; ˈQ(j)aambe ~ ˈ ~ -q ~ -b ~ -n ¸ ʧ] ‘venti (num.)’. Precedute da vocale (non anteriore, come in /ˈduq/ ‘tutti’), le varianti palatali di /q/ possono sviluppare, prima dell’articolazione consonantica, un elemento vocalico omorganico (anteriore alto: [iq, ib]). Le occlusive non-sonore possono influire sulla fonazione della vocale accentata immediatamente precedente, che viene realizzata con voce lievemente cricchiata (o laringalizzata) specie nell’ultima fase della sua produzione (l’occlusiva, da parte sua, può subire una contenuta geminazione, [CC]); in realizzazioni più marcate, la componente laringale della vocale può svilupparsi in un segmento occlusivo laringale autonomo (più frequentemente breve): [ˈlɛʔtarᴇ] ‘lettera’. Una contenuta geminazione delle occlusive non-sonore è fenomeno non infrequente in attacco di sillaba accentata ([butˈtaˑat] ‘buttato’); per le bilabiali in genere (/p, b/, cui va aggiunta /m/), anche all’inizio di parola dopo vocale, indipendentemente dall’accento, e, per /b, m/, pure nella parola, dopo vocale accentata. In confine di parola, sequenze complesse, risultanti dall’incontro tra una coda bio triconsonantica finale, con secondo elemento occlusivo (non-sonoro), e la consonante iniziale (o le consonanti iniziali) della parola seguente, possono esser sottoposte a un processo di semplificazione, mediante cancellazione dell’occlusiva. Il processo sembra favorito dall’omorganicità, o dalla vicinanza articolatoria, delle consonanti che costituiscono la coda, oltre che da fattori di carattere prosodico, se è vero che la riduzione interessa, più spesso (ma non esclusivamente), forme che normalmente si presentano deaccentate nella frase, p. es. vari tipi di determinanti, come si vede nella maggior parte degli esempi che seguono: [tamˈpᴇˑeh] ‘tanto peso’ (/ˈtant/), [ˌviBmoˈraˑarh] ‘venti gelsi’ (/ˈvinq/), [ˈtim nuˈlaˑat] ‘tempo nuvoloso’ (/ˈtimp/), [aun ¸ ˌʧ(j)ᴇrmoˈmɛᴇnt ~ -ᴇent] ‘a un certo punto’ (/ˈʧ(j)ɛrt/), [kᴇhˈkaˑah ~ ke- ~ ki-] ‘questo caso’ (/ˈkɛst ~ ˈkest ~ ˈkist/).    

   

2.3 Fonemi occlu-costrittivi Il friulano possiede due coppie difoniche di consonanti occlu-costrittive: dentali, /ʦ, ʣ/ (/ˈʦin(gar)/ ‘zingaro’ ~ /ˈʣin(k)/ ‘zinco’), e postalveo-palatali, /ʧ, ʤ/ (/ˈʧiːr/ ‘cerco/cerca’ ~ /ˈʤiːr/ ‘giro (sost.)’).

Fonetica e fonologia

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Le dentali hanno, in realtà, una bassa frequenza e un basso rendimento funzionale in friulano (cf. Frau 1984, 47), se non fosse per l’importante funzione morfologica di /ʦ/, che compare come prodotto del processo morfofonologico consistente nell’aggiunta del morfema /s/ del plurale alla maggior parte dei nomi e degli aggettivi terminanti in /t/ e a quelli terminanti in /ʧ/ (nel caso di /ʧ/, attraverso assimilazione e semplificazione: /ʧs/ > /ʦs/ > /ʦ/): /ˈfaʦ, ˈbraʦ/ ‘fatti, braccia’ (sg. /ˈfat, ˈbraʧ/; si noti l’opposizione /t/ ~ /ʧ/ ~ /ʦ/). Se si prescinde dalla funzione morfologica di /ʦ/, le occlu-costrittive dentali sono in friulano fonemi indotti, integratisi nel sistema della lingua attraverso un certo numero di prestiti dall’italiano, dal veneziano, dal tedesco e dallo sloveno: oltre ai due esempi dati sopra, cf. /ʦiruˈka(ː), ˈʦukar, ˈviʦi; ˈʣaɡo, orɡaniˈʣa(ː)/ ‘arretrare, zucchero, vizio, chierichetto, organizzare’, etc. (cf. Finco 2007a, 65). Di fatto, le varietà friulane più innovative (tranne quelle che hanno /ʦ, ʣ/ da /ʧ, ʤ/; cf. infra), così come la maggior parte di quelle centrali (cf. Tabella 2), hanno fatto confluire /ʦ, ʣ/ in /s, z/, ma esse possono riemergere, nella pronuncia di molti parlanti, nei prestiti italiani più recenti. In alcune zone marginali (cf. Tabelle 2e–f), in /ʦ, ʣ/ (/tt, dd/ a Forni di Sotto) sono

confluite, per effetto d’un processo d’anteriorizzazione (per le cui tappe cf. infra), le occlu-costrittive postalveo-palatali (/ˈbraʧ, ˈʤɔvin/ ‘braccio, giovane’ > /ˈbraʦ, ˈʣɔvin/, /ˈbratt, ˈddɔvint/), come stadio intermedio d’un mutamento – reso possibile dall’assenza dell’opposizione /s/ ~ /ʃ/, che esclude, a sua volta, quella tra /ʦ/ e /ʧ/ (cf. Benincà 1989, 569) – che ha come esito estremo la completa deocclusione (/s, z/ e /θ, ð/; cf. § 2.4), geograficamente ben più estesa. In alcune varietà (p. es. in punti della Bassa o della periferia dell’area cividalese), lo spostamento da /ʧ, ʤ/ a /ʦ, ʣ/ è un processo incompiuto, che s’arresta alle fasi intermedie del mutamento: frequentemente, al punto d’articolazione dentalveolare, [ts,̷ dƶ] (o [ts,̷ dƶ]; cf. infra) – che possiamo già considerare, fonologicamente, come manifestazioni di /ʦ, ʣ/ –, eventualmente attraverso una fase prepalatale, [ʦ̧ , ʣ̧ ], con oscillazioni anche individuali (in cui possono comparire, residualmente, anche le normali realizzazioni postalveo-palatali). In alcune località della Bassa friulana sembra esserci un mutamento in atto, ancora osservabile nel decorso generazionale, i cui promotori sono i parlanti delle generazioni più giovani, i quali presentano ormai categoricamente rese dentali (ultimo stadio del processo). In alcune zone (p. es. nelle Prealpi orientali), il quadro appena descritto appare oggi sostanzialmente regredito, rispetto al passato (così come fotografato da Francescato 1966), ma occasionali indizi di cedimento verso articolazioni anteriori sono rilevabili (specie nello stile informale) in vari punti del Friuli. In alcuni punti dell’alto Friuli (p. es. Tricesimo, Tarcento, alcune località del bacino del lago di Cavazzo) v’è la tendenza opposta a far confluire /ʦ, ʣ/ primarie in /ʧ, ʤ/, in cui è talora coinvolta pure la desinenza /ʦ/ dei plurali (cf. infra) – sebbene Tricesimo e Tarcento, per quest’ultimo aspetto, si siano recentemente conformate, in toto o quasi, ai modelli pianigiani (con /s/) –, con comportamenti connotati, però, da una certa variabilità, sia lessicale che inter-individuale, in cui /ʧ, ʤ/ coesistono con /ʦ, ʣ/ ed eventualmente con /s, z/ (nelle pronunce più innovative).

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Sul piano fonetico, sia /ʦ, ʣ/ che /tt, dd/ possono esser realizzate come vere e proprie occlu-costrittive o come sequenze, con possibilità d’oscillazione anche individuale (come sequenza è perlopiù resa /ʦ/ desinenziale; cf. supra). Sia per le solcate che per le non-solcate, inoltre, si possono avere, almeno in certi contesti, realizzazioni con predominio della fase costrittiva. In varietà di tipo innovativo (cf. Tabelle 2f–h; Francescato 1966, 46–49), si hanno /ʧ, ʤ/ da /q, Q/ (/ˈʧan, ˈʤat/ ‘cane, gatto’ < /ˈqan, ˈQat/), esito d’un mutamento imputabile a un avanzamento del punto d’articolazione; in tali varietà, il processo è stato innescato dal più precoce spostamento di /ʧ, ʤ/ primarie (di diretta provenienza latina/protoromanza) verso /ʦ, ʣ/ (cf. supra e Figura 2e) o a /s, z/ (cf. § 2.4). Sul piano fonetico, le postalveo-palatali sono tipicamente realizzate come semilabiate o, meno frequentemente, come propriamente labiate (ma, per semplicità, non distinguiamo le due varianti, per le quali utilizziamo i medesimi simboli, [ʧ, ʤ]); meno diffuse sono invece le rese non-labiate, [tʆ, dʓ]. Più particolari le varianti a punta alta (cf. anche § 2.2), sia non-labiate, diffuse, in special modo, in una zona che comprende le Prealpi orientali, lambisce l’area collinare (p. es. Tricesimo) e s’estende a parte della pianura a nord-est di Udine, sia (semi‑)labiate, rilevabili p. es. in alcuni punti del medio Tagliamento e del bacino del Fella. Davanti a /s/, /ʧ/ tende ad anteriorizzarsi, anche fino al punto dentale (così come, eventualmente, /s/, per assimilazione progressiva): [paˈlaʦ sjeˈraˑat] ‘palazzo chiuso’ (/paˈlaʧ/). Le occlu-costrittive non-sonore possono esser interessate dagli stessi fenomeni descritti per le occlusive (non-sonore), nelle medesime condizioni (parziale laringalizzazione della vocale accentata precedente, [ˈVʔC], [VCˈCV]; cf. § 2.2).

2.4 Fonemi costrittivi Il friulano conosce tre coppie difoniche di consonanti costrittive: /f, v/ (/ˈfin/ ‘fino’ ~ /ˈvin/ ‘vino’), labiodentali, /s, z/ (/kuˈsin/ ‘cuscino’ ~ /kuˈzin/ ‘cugino’), con realizzazioni diatopicamente diversificate (cf. infra), e /ʃ, ʒ/ (/kuˈʃin/ ~ /kuˈʒin/), postalveopalatali, proprie delle varietà più conservative (cf. infra). Nelle varietà meno conservative, in /s, z/ confluiscono, come già detto, /ʦ, ʣ/ di varia provenienza. Nelle varietà più innovative, /s, z/ (cf. Tabelle 2g–h), oltre che nei contesti etimologici, si trovano anche in corrispondenza di /ʧ, ʤ/ primarie (/ˈbras, ˈzɔvin/ < /ˈbraʧ, ˈʤɔvin/), per effetto dei mutamenti descritti al § 2.3 (avanzamento articolatorio e deocclusione). Va evidenziata la maggior vulnerabilità e propensione delle sonore ai mutamenti, testimoniata dalla maggior estensione di /z/ < /ʤ/ rispetto a /s/ < /ʧ/ (cf. Francescato 1966, 48) – anche se, nella maggior parte dei casi, si tratta di semplici indizi di cedimento, più che di mutamenti regolari (si consideri anche, in alcune varietà, /ʒ/ < /ʤ/ di fronte al mantenimento di /ʧ/; cf. infra). In varietà dell’estremo occidente friulano (cf. Tabella 2h), per influsso dei vicini dialetti veneti, l’esito del mutamento è rappresentato dalle non-solcate /θ, ð/, attraverso /tt, dd/, an-

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cora conservate nella Carnia sudoccidentale (cf. § 2.3); per /ð/ si può trovare anche /d/, risultato d’uno sviluppo successivo (ma alcune varietà presentano oscillazione /ð ~ d/, almeno in certi contesti o per certe forme): /ˈbraθ; ˈðovin ~ ˈd-/ (varietà di Polcenigo, nella fascia di transizione friulano-veneta). All’interno di parola, davanti a consonante sonora, si ha sempre /z/: /mizˈdi/ ‘mezzogiorno’. In confine di parola, la sonorizzazione di /s/ non si produce in modo regolare, ma variabile, in dipendenza da fattori diversi (cf. Finco 2007b): individuali, contestuali, prosodici, sintattici, oltre che diatopici; sembra comunque che le maggiori probabilità di sonorizzazione si abbiano per /s/ finale nei determinanti e nei pronomi clitici in posizione proclitica (come in /lisˈmans, nusˈvjoːt/ ‘le mani, ci vede’). Anche la sonorizzazione davanti a vocale (/liˈsultimis/ ‘le ultime’) è fenomeno altamente variabile, ma le probabilità con cui si verifica sono minori rispetto alla posizione preconsonantica e, in molte pronunce, addirittura nulle (ciò non esclude che esistano varietà che sonorizzano sistematicamente /s/ sia davanti a consonante che a vocale). In generale, la sonorizzazione sembra favorita se /s/ compare in sillaba nonaccentata (/ˈqazis ˈɡrandis/ ‘case grandi’), ma soprattutto se costituisce la coda d’una sillaba accentata il cui nucleo vocalico è /Vː/ o un dittongo (/ˈnaːs ˈlunk, ˈmais ˈnɛtis/ ‘naso lungo, maglie pulite’). Il punto d’articolazione di /s, z/ è arealmente differenziato: le realizzazioni prevalenti, nella maggior parte del Friuli, sono di tipo alveolare, [h, H], ma, in area carnica, si hanno, più tipicamente, varianti dentali, [s, z], o anche dentalveolari, [s,̷ ƶ] (tranne nel fornese, dove predominano quelle alveolari); articolazioni dentali, generalmente semi-solcate, si hanno anche in tramontino (dove restano ben differenziate da quelle alveolari, che realizzano /ʃ, ʒ/; cf. infra). A contatto con /ʃ, ʒ/ (nelle varietà che le presentano nel proprio inventario; cf. infra), /s, z/, per assimilazione, diventano generalmente postalveo-palatali (con vari gradi di riduzione della geminata risultante): [tuˌaʃʃiviˈlaˑat] ‘hai fischiato’ (/s/ + /ʃ/), [ˌalparˈtiʃ ʃiˈɡuˑur] ‘parte sicuro’ (/ʃ/ + /s/); sempre per assimilazione (progressiva), esse possono invece avere rese dentali dopo /t/, nelle varietà in cui sono normalmente realizzate come alveolari: [hσtˈsɔσrᴇ, fanˈtat simˈpatik] ‘sottosopra, ragazzo simpatico’. Non è infrequente una contenuta geminazione di /s/, specie quando immediatamente preceduta da vocale accentata e in attacco di sillaba accentata, dopo vocale, ma anche in posizione preaccentuale: [ˈnahhi, pahˈhuˑut, ˌmahheˈlaˑar] ‘nascere, sazio, dente molare’. Le costrittive postalveo-palatali non compaiono nei sistemi di tutte le varietà. A tale proposito, si possono distinguere due grandi zone: una innovativa, che ha fatto confluire /ʃ, ʒ/ in /s, z/ sul modello udinese e, a oriente e a occidente, per la spinta del veneto, e una conservativa, in cui la vitalità di /ʃ, ʒ/ è invece fuor di discussione (cf. Tabelle 2a–b). Le postalveo-palatali, oltre che a condizioni etimologiche (cf. Francescato 1966, 50), possono rispondere anche a sviluppi secondari. Le varietà di Erto e Cimolais (cf. Tabella 2h), p. es., pur non dispondendo di /ʃ, ʒ/ primarie, hanno /ʃ/ da /ʧ/ (secondaria: /ˈʃan/ ‘cane’ < /ˈʧan/; cf. § 2.3) – al fine d’evitare la collisione con /ʧ/, che compare in corrispondenza del nesso /kl-/ etimologico, come in veneto: /ʧaˈmɛ/

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‘chiamare’ < CLAMARE (cf. Frau 1984, 171s.). Notevole anche l’evoluzione asimmetrica cui è stata sottoposta /ʤ/ primaria in alcune località occidentali (cf. Tabella 2a) – meno sistematicamente in altre aree –, nelle quali passa a /ʒ/ per deocclusione (/ˈʒɔvin/ ‘giovane’ < /ˈʤɔvin/), confluendo così in /ʒ/ primaria, mentre /ʧ/ si mantiene intatta. Di particolare interesse è la funzione di marca di plurale che assume /ʃ/, la cui distribuzione (complementare a quella di /s/) è regolata da specifiche restrizioni, diatopicamente variabili (cf. p. es. Roseano 2013, per il friulano del basso Canale di Gorto). A rinforzare la rilevanza fonologica dell’opposizione /s/ ~ /ʃ/ è la funzione morfologica che essa assume nelle distinzioni di numero (nei nomi e negli aggettivi) e di persona (in alcuni verbi, in diverse varietà di tipo conservativo), per quanto riguarda le forme in sibilante. Il paradigma regolare prevede che i nomi e gli aggettivi in /s/ siano pluralizzati mediante /ʃ/, esito della palatalizzazione di /s/ provocata da un originario morfema maschile /i/ (riservato a nomi e aggettivi maschili uscenti in consonante coronale): /paˈiːʃ/ ‘paesi’ (sg. /paˈiːs/); viceversa, che il plurale di quelli in /ʃ/ sia contrassegnato mediante /s/, con cancellazione della postalveo-palatale conseguente all’aggiunta del morfema: /ˈluːs/ ‘luci’ (sg. /ˈluːʃ/) – cf. anche /ˈtaːs/ ‘taci’ ~ /ˈtaːʃ/ ‘taccio/tace’ (il procedimento può ammettere, tuttavia, eccezioni lessicali; alcune varietà, d’altra parte, tendono tout court a generalizzare ora /ʃ/ ora /s/ per l’espressione del plurale). Nelle varietà conservative, sia /ʃ/ che /ʒ/ ricorrono anche davanti a consonante eterosillabica, rispettivamente non-sonora e sonora: /ʃcamˈpa(ː), ʒˈbati/ ‘scappare, sbattere’, spesso con precise restrizioni contestuali o lessicali, a beneficio di /s, z/. Per /ʃ/ finale seguita da consonante sonora valgono le stesse considerazioni fatte per /s/ (cf. supra). Sul piano fonetico, /ʃ, ʒ/ sono tipicamente realizzate come semi-labiate, meno frequentemente come vere labiate (analogamente a /ʧ, ʤ/). In tramontino, a /ʃ, ʒ/ corrispondono, sul piano fonetico, articolazioni di tipo alveolare, [h, H], che s’oppongono chiaramente, come s’è visto (cf. supra), a quelle dentali (semi-solcate), proprie di /s, z/. Per quanto riguarda le condizioni che favoriscono una contenuta geminazione di /ʃ/, si veda quanto detto per /s/.

385

Fonetica e fonologia

Nasali

m

Occlusive

p

Occlu-costr. f

v

t

d

ʦ

ʣ

Q

c s

z

velo-labiate

velari

palatali ɲ

n

b

Costrittive

postalveopalatali

alveolari

dentali

bilabiali

labiodentali

Tabella 1: Sistema consonantico del friulano. Le aree evidenziate sono soggette a variazione diatopica (cf. Tabella 2).

ʧ

ʤ

ʃ

ʒ

Appross.

ɡ

k

j

Vibranti

r

Laterali

l

w

Tabella 2: Principali scenari relativi al sottosistema consonantico sensibile a variazione diatopica (si prescinde dall’occasionale comparsa di /ʦ, ʣ/ in prestiti italiani recenti; l’elenco delle località indicate tra parentesi non deve intendersi necessariamente esaustivo ma esemplificativo). 2a. carnico comune/varietà centrorientali (Cavazzo Carnico, Magnano in Riviera, Sant’Odorico, Mortegliano, Flumignano)/varietà occidentali settentrionali (asìno, tramontino, Frisanco, Andreis); 2b. varietà carniche (Ampezzo, Raveo, Rigolato)/varietà centrorientali (Venzone, Montenars, estremo occidentale dell’area collinare, salvo centri come San Daniele, pianura centroccidentale, tranne l’hinterland udinese e punti innovativi in prossimità della Strada Statale 13 «Pontebbana»)/varietà occidentali settentrionali (Navarons, Travesio, Castelnovo); 2c. varietà centrali settentrionali (Trasaghis, Nimis, Lusevera); 2d. friulano centrale comune/varietà occidentali centrosettentrionali (del Meduna, varietà conservative della fascia di transizione del Tagliamento); 2e. varietà della Bassa (Rivignano, Pocenia, Muzzana, Porpetto, Gonars)/varietà centrali orientali (Togliano, Corno di Rosazzo, San Giovanni al Natisone)/Tolmezzo; 2f. Forni di Sotto/varietà della Bassa (San Giorgio di Nogaro, Carlino)/varietà centrali orientali (Dolegna)/varietà goriziane orientali (San Lorenzo, Capriva, Moraro, Mossa, Farra, Lucinico); 2g. Forni di Sopra/varietà centrali (udinese urbano e periferico, cividalese, varietà centromeridionali)/varietà goriziane occidentali/varietà occidentali centromeridionali (del Cellina, varietà innovative della fascia di transizione del Tagliamento); 2h. fascia di transizione friulano-veneta/alta Valcellina (Barcis, Claut, Cimolais)/ertano. 2a

2b c

ʦ

ʣ

ʧ

ʤ*

s

z

ʃ

ʒ

Q

c s

* /ʤ/ > /ʒ/ in alcune varietà (Clauzetto, Andreis, Castelnovo, Travesio)

z

ʧ

ʤ*

ʃ

ʒ

Q

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Renzo Miotti

2c

2d c

ʦ

ʣ

s

z

ʧ

Q

c ʧ

ʤ s

Q

ʤ

z

2e

2f c

Q

ʦ

ʣ

ʦ

ʣ*

s

z

s

z

ʧ

ʤ

* Forni di Sotto ha /tθ, dð/

2g ʧ s

2h ʤ

z

ʧ s

z

θ

ð*

ʤ

ʃ*

* /ʃ/ è presente solo a Cimolais e a Erto; /ð/ confluisce in /d/ in alcune varietà

2.5 Fonemi approssimanti Il friulano possiede due fonemi approssimanti, palatale, /j/, e velo-labiato, /w/ (/sjeˈla(ː)/ ‘sellare’ ~ /sweˈla(ː)/ ‘suolare’), entrambi sonori. L’approssimante velo-labiata, in posizione iniziale di sillaba, appare, in molte varietà (cf. Francescato 1966, 60), rinforzata da un elemento costrittivo labiodentale sonoro (/v/), all’inizio di parola o preceduta da vocale o da /z/: /ˈ(v)warp, z(v)warˈba(ː), aˈ(v)waːl/ ‘cieco, accecare, uguale’. La differenza tra /j, w/ e /i, u/, almeno in certe circostanze, non è sempre così salda. Specie in tonia, p. es., /j, w/, in posizione accentata e pure postaccentuale (finale), dopo consonante tautosillabica (come in /ˈfjeste, ˈrwede, doˈmɛnje, ˈvɛdwe/ ‘festa, ruota, domenica, vedova’, etc.), possono esser senz’altro realizzate come [i, u] (un comportamento analogo hanno anche le sequenze [Cj] che realizzano /q, Q/: /ˈqaze/ [ˈkjaaHe ~ kiˈaa-, ˈqjaa- ~ qiˈaa-] ‘casa’; cf. § 2.2). Le probabilità che /j, w/ diventino [i, u] aumentano nel parlato lento, o in presenza d’enfasi; viceversa, nel parlato veloce, specie in protonia, forme che normalmente presentano /i(ˈ)V, u(ˈ)V/ (/ʧiuˈla(ː), qaliˈaːr, ɡuˈa(ː)/ ‘strillare, calzolaio, aguzzare’, etc.) passano facilmente a [(ˈ)jV, (ˈ)wV].

Fonetica e fonologia

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2.6 Fonemi vibranti Il friulano presenta una sola consonante vibrante, /r/, alveolare, tipicamente [r] in qualunque posizione, e frequentemente velarizzata, [ᵲ]. Varianti vibrate, [ɾ, ᵳ], possono ricorrere, in alternanza con quelle vibranti, soprattutto in posizione iniziale di sillaba, dopo vocale, e in pronuncia non lenta. Tipici della zona di Paularo (alta Carnia) sono vari tipi di realizzazioni uvulari di /r/: [ʀ, ʁ, ʁ] (rispettivamente vibrante, costrittiva e approssimante).

2.7 Fonemi laterali L’unico fonema laterale del friulano (alveolare, /l/) può esser realizzato come propriamente laterale, [l], o unilaterale, [λ]; meno frequenti le realizzazioni velarizzate, [ł, ƛ] (semi- e pre-, rispettivamente): [ˈbaale ~ -λe ~ -łe ~ -ƛe] ‘palla’. Davanti a consonanti linguali, si hanno articolazioni (uni)laterali omorganiche (come per i nasali, non utilizziamo simboli specifici per differenze coarticolatorie minime): [ˈaalt ~ ˈaaλt, ˈpuul¸ʧ ~ -λ ¸ ʧ, iʎˈɲɔ ~ iλ¸ˈɲɔ] ‘alto, pulce, il mio’, etc.; l’assimilazione è però parziale, e opzionale, davanti a consonanti velari, dove possono ricorrere sia varianti alveolari, con gradi variabili di velarizzazione, sia realizzazioni non assimilate (alveolari): [ˈaalk ~ -λk ~ -łk ~ -ƛk] ‘qualcosa’. L’assimilazione è opzionale anche davanti a /j/, in confine di parola, dove si possono avere diversi gradi di palatalizzazione – varianti prepalatali o vere e proprie rese omorganiche, palatali – oppure realizzazioni non assimilate, alveolari, eventualmente risillabificate: [al¸ˈjɛᴇvᴇ ~ -λ ¸ ˈj- ~ -ʎˈj- ~ -λ¸ˈj- ~ -lˈj- ~ -ˈlj- ~ -λˈj- ~ -ˈλj-] ‘(egli) si alza’.

3 Prosodia 3.1 Accento L’accento, in friulano, può trovarsi sull’ultima, sulla penultima o sulla terzultima sillaba: /doˈman, neˈvoːt/ ‘domani, nipote’, /ˈqaze, ˈʤɔvin/ ‘casa, giovane’, /ˈkɔtule, ˈpwartile/ ‘gonna, portala!’; sulla quartultima, solo nei gruppi clitici: /ˈpwartinusal/ ‘portacelo!’. Lo schema statisticamente prevalente è quello ultimale, seguito da quello penultimale (cf. Finco 2007a, 73). La sede dell’accento è fonologicamente rilevante: /ˈqantin/ ‘cantano’ ~ /qanˈtin/ ‘cantiamo’, /ˈkurtis/ ‘corte (agg.)’ ~ /kurˈtis/ ‘coltello’, /ˈqakare/ ‘chiacchiera (sost.)’ ~ /qaˈkare/ ‘chiacchiera (verbo)’. Le forme verbali rizotoniche di tre o più sillabe sono di regola penultimali (ma molte varietà carniche presentano eccezioni): /peˈtɛne, seˈmɛne/ ‘pettina, semina’ (oltre a /qaˈkare/); tale restrizione non è però rispettata nelle forme verbali di recente importazione: /ˈpratike, teˈlɛfone/ ‘pratica, telefona’. Si considerino anche forme

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Renzo Miotti

come /stuˈdie, qaˈrie/ ‘studia, carica’, che sono però ultimali (giacché /ie/ è dittongo).

3.2 Intonazione Le tre tonie marcate, conclusiva, sospensiva e interrogativa – corrispondenti alle tre funzioni comunicative fondamentali – sono definite dall’andamento melodico delle ultime sillabe dell’enunciato, in particolare, quella accentata («tonica»), quella nonaccentata che la precede immediatamente («pretonica») e quelle, non-accentate, che la seguono («postoniche»). Il resto dell’enunciato costituisce la «protonia». In questa sezione illustriamo i profili intonativi relativi alle principali varietà di friulano: centrale propriamente detto, carnico «comune» e occidentale «comune» (secondo le definizioni di Frau 1984, 14–16), a loro volta rappresentative dei tre blocchi dialettali fondamentali. La tonia conclusiva, /./, usata nelle affermazioni, ha un andamento discendente in tutte le varietà considerate. La tonia interrogativa, /?/, usata per le domande totali, è tipicamente ascendente-discendente in friulano centrale; nelle altre varietà si ha, invece, un andamento ascendente. Infine, la tonia sospensiva, /;/, la cui funzione è di richiamar l’attenzione su ciò che si sta per dire, è discendente-ascendente in tutte le varietà considerate. Le differenze nella realizzazione tonetica delle sillabe, anche tra varietà accomunate che condividono lo stesso andamento melodico globale per la stessa tonia, sono spesso notevoli, come si può notare dall’attento confronto tra i tonogrammi della Figura 2.

Figura 2: Profili intonativi relativi alla protonia non-marcata (normale in semplici enunciati denotativi) e alle tre tonie marcate, per le varietà prese in esame.

Fonetica e fonologia

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4 Bibliografia Benincà, Paola (1989), Friaulisch: Interne Sprachgeschichte I. Grammatik, in: Günter Holtus/Michael Metzeltin/Christian Schmitt (edd.), Lexikon der Romanistischen Linguistik, vol. 3: Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete von der Renaissance bis zur Gegenwart. Rumänisch, Dalmatisch/Istroromanisch, Friaulisch, Ladinisch, Bündnerromanisch, Tübingen, Niemeyer, 563–585. Canepari, Luciano (2007), Natural Phonetics & Tonetics. Articulatory, auditory, and functional, München, Lincom Europa. Finco, Franco (2007a), Fonetiche e fonologjie, in: Franc Fari [= Franco Fabbro] (ed.), Manuâl di lenghistiche furlane, Udine, Forum, 47–82. Finco, Franco (2007b), La sonorizzazione della sibilante finale nelle varietà friulane: risultati di un’indagine, Ce fastu? 83, 7–17. Francescato, Giuseppe (1966), Dialettologia friulana, Udine, Società Filologica Friulana. Frau, Giovanni (1984), I dialetti del Friuli, Udine, Società Filologica Friulana. Heinemann, Sabine (2007), Studi di linguistica friulana, Udine, Società Filologica Friulana. Rizzolatti, Piera (1979), Nuove ipotesi sulla dittongazione friulana, Ce fastu? 55, 56–65. Roseano, Paolo (2013), I plurali in sibilante postalveolare nel friulano del Canale di Gorto, Analele Universităţii din Craiova. Seria ştiinţe filologice. Lingvistică 35, 136–143. Vicario, Federico (1992), Osservazioni sul vocalismo del dialetto di Nimis, Ce fastu? 68, 11–17.

Paola Benincà e Laura Vanelli

9 Morfologia e sintassi Abstract: Vengono qui illustrati i fenomeni più rilevanti della morfologia e della sintassi del friulano. L’analisi è stata condotta essenzialmente dal punto di vista sincronico, corredata quando necessario da riferimenti alla diacronia. La varietà di riferimento è quella centro-orientale, e in particolare la sottovarietà centrale, corrispondente al friulano parlato nell’area pianeggiante intorno al capoluogo Udine, ma non mancano riferimenti comparativi alle altre varietà (↗5.1 Suddivisione dialettale del friulano). Il § 1 è dedicato alla descrizione delle principali strutture morfologiche, con particolare riferimento ai nomi (con i modificatori, aggettivi e determinanti), ai pronomi personali e ai verbi. Il § 2 è dedicato all’illustrazione delle principali caratteristiche sintattiche del friulano, in particolare i pronomi clitici soggetto, la frase interrogativa, la frase relativa, la selezione dell’ausiliare e i fenomeni di accordo del participio passato, la struttura del sintagma nominale. Keywords: morfologia nominale, morfologia verbale, sintassi, struttura della frase, pronomi clitici soggetto

1 Morfologia La descrizione morfologica riguarderà in particolare la morfologia flessiva (per la morfologia derivazionale, e in particolare per i processi di formazione delle parole, ↗10 Stratificazione lessicale e formazione delle parole): il § 1.1 è dedicato alla morfologia nominale, che riguarda nomi e aggettivi (trattati insieme), determinanti (modificatori prenominali quali articoli, dimostrativi, possessivi), e pronomi personali, caratterizzati dalle categorie grammaticali del genere e del numero (per i pronomi personali, anche del caso). Il § 1.2 è dedicato alla morfologia verbale, caratterizzata dalle categorie grammaticali di tempo, modo e persona (per una descrizione complessiva della morfologia friulana, cf. Benincà 2005 [1989], 47–74; Heinemann 2007, cap. 4; Vanelli 2007a).

1.1 Morfologia nominale I nomi e gli aggettivi friulani sono flessi per il genere (maschile e femminile) e il numero (singolare e plurale). Al singolare, il maschile nella maggior parte dei casi è caratterizzato dall’assenza di suffisso, per cui la parola coincide con il morfema lessicale. La grande maggioranza dei nomi e aggettivi maschili terminano in consonante: ess. [ˈcaŋ] ʻcaneʼ, [ˈfrut] ʻbambinoʼ, [arˈmaːr] ʻarmadioʼ, [ˈuːf] ʻuovoʼ, [ˈbjel] ʻbelloʼ, [ˈkwarp] ʻcorpoʼ, [ˈfwart] ʻforteʼ, etc.

Morfologia e sintassi

391

Il femminile si forma normalmente aggiungendo -e al morfema lessicale: ess. [ˈcaze] ʻcasaʼ, [ˈfrute] ʻbambinaʼ, [ˈbjele] ʻbellaʼ, etc. Nelle varietà friulane occidentali, orientali, in parte del friulano carnico e in alcuni punti della zona meridionale il morfema del femminile è invece -a; in alcuni punti isolati della regione carnica e dell’area occidentale si trova -o (cf. Francescato 1966, 41–43; ↗5.1 Suddivisione dialettale del friulano; ↗8 Fonetica e fonologia). Esistono però anche nomi femminili terminanti in consonante (derivanti dalla III declinazione latina): in questi casi il genere si manifesta attraverso fenomeni di accordo al femminile. Ess.: [ˈvoːs] ʻvoceʼ, [ˈpjel] ʻpelleʼ, [ˈsuːr] ʻsorellaʼ, [ˈɲot] ʻnotteʼ, [bonˈtaːt] ʻbontàʼ, [ˈklaːf] ʻchiaveʼ, etc. Sono rare le parole maschili terminanti in vocale, in particolare: a) -ì: ess. [aˈmi] ʻamicoʼ, [ˈfi] ʻfiglioʼ (femm. [aˈmie], [ˈfie]); b1) -i: ess. [salˈvadi] ʻselvaticoʼ, [ˈlami] ʻinsipidoʼ (femm. [salˈvadje], [ˈlamje]); b2) -i: ess. [ˈmestri] ʻmaestroʼ, [ˈneri] ʻneroʼ, [ˈvjeli] ʻvecchioʼ (femm. [ˈmestre], [ˈnere], [ˈvjele]); c) -e: ess. [poˈεte] ʻpoetaʼ, [ˈbarbe] ʻzioʼ. La differenza tra b1) e b2) (riflessa nella differente modalità di formazione del femminile) sta nella diversa origine della -i finale del maschile: nelle parole di b1) è etimologica (ad es. [salˈvadi] < SILVATĬCU ( M )), mentre nelle parole di b2) è epitetica: in queste parole infatti la caduta della vocale atona finale del latino ( [da la/lis]. Con su ʻsuʼ e cun ʻconʼ non si formano preposizioni articolate con l’articolo femminile, ma in cun cade la -n ([su la/ lis], [ku la/lis]). Nella forma articolata con la preposizione di luogo in, tra in e l’articolo si ha l’epentesi di una -t-: [intal], [inte], [intaj], etc. In queste forme in diventa facoltativo; le forme [tal], [taj], [te], [tes], [ta la], [ta lis] subiscono allora una rianalisi: sulla base delle preposizioni articolate con a (al, ai, e, es, a la, a lis), [ta] viene rianalizzato come una preposizione semplice (di luogo) e usato con il significato di in, anche quando si trova senza l’articolo, ma solo se il sintagma nominale è definito, ad es. con il dimostrativo: [ta kel ˈbosk] ʻin quel boscoʼ, [ta ke ˈcaze] ʻin quella casaʼ (cf. Vicario 1994; 1995). Con l’articolo indefinito non si hanno invece preposizioni articolate, né modificazioni fonologiche delle preposizioni: va però notato che anche con l’articolo indefinito si verificano processi di epentesi consonantica, che riguardano non solo in: [in t ˈun(e)], ma anche cun: [kun t ˈun(e)], e su in cui si ha l’epentesi di nt (per analogia con in e cun): [su nt ˈun(e)].

1.1.2.2 I dimostrativi I dimostrativi friulani sono elementi deittici che costituiscono un sistema binario: sg. masc. [ˈkest], femm. [ˈkeste], pl. masc. [ˈkesc], femm. [ˈkestis] indicano un referente posto nella sfera di pertinenza del parlante (dal punto di vista delle sue coordinate spazio-temporali); sg. masc. [ˈkel], femm. [ˈke], pl. masc. [ˈkej], femm. [ˈkeːs] indicano un referente fuori dalla sfera di pertinenza del parlante (dal punto di vista spaziale o temporale; cf. Vanelli/Renzi 22001). Si usano spesso accompagnati dagli avverbi deittici [ˈka] (o [ˈki]) ʻqua/quiʼ, [ˈla] (o [ˈli]) ʻlà/lìʼ, che seguono il nome cui si riferiscono: ad es. [kest ˈlibri ˈka e ke ˈpεne ˈla] ʻquesto libro e quella pennaʼ. La presenza degli avverbi deittici è obbligatoria quando i dimostrativi sono usati come pronomi: [miˈ plaːsˈ dome kest ˈka e ˈno kel ˈla] ʻMi piace solo questo e non quelloʼ. Se sono presenti gli avverbi deittici si usa però più frequentemente la sola forma [ˈkel], etc.: in questo caso il valore deittico di [ˈkel] è neutralizzato, ed è assunto dall’avverbio [ˈka] o [ˈla]: [ˈkel (ˈfrut) ˈka] vs. [ˈkel (ˈfrut) ˈla] ʻquesto (bambino)ʼ vs. ʻquel(lo) (bambino)ʼ (cf. Iliescu 1980; Vicario 1994; Irsara 2009).

1.1.2.3 I possessivi Le forme dei possessivi sono le seguenti: 1. pers. sg.: [mjo] ʻmioʼ/[me] ʻmiaʼ, [mej] ʻmieiʼ/[meːs] ʻmieʼ; 2. pers. sg.: [to] ʻtuo/-aʼ, [toj] ʻtuoiʼ/[toːs] ʻtueʼ, 3. pers. sg.: [so]

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Paola Benincà e Laura Vanelli

ʻsuo/-aʼ, [soj] ʻsuoiʼ/[soːs] ʻsueʼ; 1. pers. pl.: [ˈnestri/-e] ʻnostro/-aʼ, [ˈnestris] ʻnostri/-eʼ; 2. pers. pl. [ˈvwestri/-e] ʻvostro/-aʼ, [ˈvwestris] ʻvostri/-eʼ; 3. pers. pl. [loːr] ʻloroʼ. Alcune varietà, invece di [mjo], hanno [ɲo] con palatalizzazione della nasale; in area occidentale per la 2. pers. si ha [co] (< [tjo]) con palatalizzazione della -t. In alcune varietà occidentali e nell’area sudorientale (compreso il capoluogo Udine), la distinzione tra il possessivo maschile e femminile di 1. pers. sg. si neutralizza al singolare e si usa la sola forma me per entrambi i generi (cf. Francescato 1966, 78–80). Il possessivo di 3. pl. [loːr] è sostituito nella lingua informale dal possessivo di 3. pers. sg. [so, soj, soːs]: ad es. [il so ˈcaŋ] ʻil suo cane/il loro caneʼ.

1.1.3 I pronomi personali Il friulano possiede due serie di pronomi personali: una serie di pronomi liberi (che sono anche tonici, in quanto hanno un accento proprio), e una serie di pronomi clitici (che sono anche atoni, cioè non hanno un accento proprio e devono appoggiarsi fonologicamente ad un’altra parola tonica). Le due serie sono caratterizzate dal fatto di avere una distribuzione sintattica diversa (cf. avanti § 2.1).

1.1.3.1 I pronomi liberi Contrariamente alla maggior parte dei dialetti settentrionali, che presentano in generale per ciascuna persona un’unica forma di pronome libero, che viene usata per tutte le funzioni grammaticali, o all’italiano che distingue alla 1. e alla 2. pers. sg. tra il nominativo io e tu e l’obliquo me e te, il friulano presenta per la 1. e la 2. pers. sg. tre forme diverse per il caso: nominativo [ˈjo] e [ˈtu] (= soggetto), dativo [ˈmi] e [ˈti] (= oggetto indiretto retto dalla preposizione a: ad es. mi daran alc a mi ʻDaranno qualcosa a meʼ), accusativo [ˈme] e [ˈte] (= oggetto diretto e complemento retto da preposizione diversa da a dativale: ad es. al a saludât dome me/te ʻHa salutato solo me/teʼ, al a fat dut par me/te ʻHa fatto tutto per me/teʼ). Le altre persone non hanno variazione di caso: 3. sg. masc. [luj]/femm. [je], 1. pl. [no], 2. pl. [ˈvwaltris] (più comune)/[vo] (usata come forma allocutiva), 3. pl. [loːr]. Ai pronomi liberi finora illustrati vanno aggiunti anche i pronomi riflessivi, che sono caratterizzati dal fatto di essere coreferenziali con il soggetto della frase in cui si trovano: in friulano solo la 3. sg. ha una forma specifica, [se] (senza distinzione di genere), ad es. al voleve tirâju dongje di se ʻvoleva tirarli vicino a séʼ (ma si può usare anche il pronome non riflessivo [luj]: al voleve tirâju dongje di lui). Nelle altre persone i riflessivi coincidono con i non riflessivi: tu volevis tirâju dongje di te ʻvolevi tirarli vicino a teʼ.

Morfologia e sintassi

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1.1.3.2 I pronomi clitici Nell’ambito dei pronomi clitici, il friulano si allinea con gli altri dialetti settentrionali nel possedere, oltre a pronomi clitici accusativi e dativi, anche una serie di clitici nominativi, usati con funzione di soggetto (cf. Vanelli 1984; Benincà/Vanelli 1984b e il § 2.1). Per la storia dei pronomi personali soggetto in friulano e negli altri dialetti settentrionali, cf. Vanelli (1987). A questi vanno anche aggiunti i clitici riflessivi, usati con funzione di oggetto diretto o indiretto, il clitico impersonale, che si usa quando il soggetto ha un’interpretazione generica o indeterminata, o con valore passivo (cf. Yamamoto 1994) e il clitico partitivo. È invece assente nel friulano centrale un clitico locativo-esistenziale (corrispondente all’it. ci/vi): ad es. [al ˈe ˈpoːk ˈlat] ʻlett. cl. sogg. è poco latte = c’è poco latteʼ). Le forme sono le seguenti: singolare

plurale

1.

2.

3.

1.

2.

3.

NOM

o

tu

al (masc.)/ e (femm.)

o

o

a

ACC AC C

mi

ti

lu (masc.)/ la (femm.)

nus

us

ju (masc.)/ lis (femm.)

DA T

mi

ti

i

nus

us

ur (i)

RIFL

mi

ti

si

si

si

si

IMPERS PA RTT PAR

si (a)nd

Le forme presenti nella tabella si riferiscono ai clitici che si trovano davanti al verbo (proclitici); in posizione postverbale (enclitici) alcuni clitici hanno una forma diversa: in particolare, l’enclitico accusativo di 3. sg. femm. è [le] (ad es. [laˈpwuarti ˈjo] ʻla porto ioʼ, ma [ˈpwartile ˈtu] ʻportala tuʼ). L’enclitico nominativo di 3. pl. è [o] (ad es. [aˈcantiŋ] ʻcantanoʼ, ma [ˈcantin o] ʻcantano?ʼ) (cf. § 2.2). Al dativo, nella lingua informale, la forma [ur] del pl. viene talvolta sostituita dal sg. [i] ([i aj ˈdaːt un ˈlibri] ʻgli ho dato un libro/ho dato loro un libroʼ). I clitici di 1. e 2. sg. presentano una distinzione casuale tra due sole forme, una per il nominativo e l’altra per tutte le altre funzioni. La 1. e 2. pl. presentano tre forme diverse, in quanto hanno una forma specifica per il riflessivo, diversa da quella dell’accusativo e dativo. La 3. sg. e pl. presentano la maggior differenziazione, con forme diverse per nominativo, accusativo, dativo e riflessivo; inoltre, solo alla 3. persona si ha una distinzione anche di genere: alla 3. sg. nel nominativo e nell’accusativo, alla 3. pl. solo nell’accusativo.

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I clitici riflessivi nella 1. e 2. sg. sono uguali ai non riflessivi ([mi] e [ti]), nelle altre persone sono invece diversi, ma senza distinzione di persona: c’è un’unica forma, [si], usata anche per l’impersonale. I clitici presentano delle varianti formali nelle diverse varietà friulane. La variazione è ricca specialmente nella serie dei clitici nominativi: la 1. sg., la 1. e 2. pl. sono sempre formalmente identiche, ma in certe varietà, specie occidentali, hanno la forma [i] (in qualche varietà anche [a]), il clitico di 2. sg. è [ti] nell’area occidentale; la 3. sg. femm. si può presentare anche come [a], mentre alla 3. pl. si trova anche [e]. In alcune varietà esiste anche un clitico non referenziale [a] usato con i verbi meteorologici e impersonali (nel friulano centrale in questi casi si usa normalmente il clitico maschile: cf. § 2.1). Il clitico accusativo sg. femm. [la] è sostituito da le (non solo come enclitico, ma anche come proclitico) in quelle varietà che ugualmente sostituiscono l’articolo definito femm. sg. [la] con [le]. Infine, alla 3. sg. (e pl.) del dativo in alcune varietà centrali la forma [i] alterna con [ɟi]/[ʤi]. Quando un clitico dativo e uno accusativo formano un «nesso» di clitici, si applicano dei processi fonologici che modificano i clitici di partenza: ad es. [mi lu] > [mal], [mi la] > [me], [mi ju] > [maj], [mi lis] > [mes], etc. Ma i due clitici possono anche restare separati, specie se proclitici: ad es. [tal ˈpwarti] o [ti lu ˈpwarti] ʻte lo portoʼ. Quando il clitico partitivo [and] (in alcune varietà [ind]) è preceduto da un clitico nominativo vocalico o dalla negazione no, si ha l’aferesi della vocale iniziale, ad es. [no nd ˈai] ʻnon ne hoʼ, [tu nd ˈas aˈvonde] ʻne hai abbastanzaʼ, ma [and ˈε aˈvonde] ʻce n’è abbastanzaʼ. In alcune varietà centrali il partitivo ha oggi un uso limitato: si trova normalmente solo davanti alle forme inizianti per vocale dei verbi essere e avere: ad es. [o nd ˈai ˈdɔme ˈuŋ], [and ˈε ˈdɔme ˈuŋ] ʻne ho solo unoʼ, ʻ(ce) n’è solo unoʼ, ma [o ˈvεvi ˈdɔme ˈuŋ] ʻ(ne) avevo solo unoʼ e [a saˈraŋ ˈdoːs] ʻ(ce ne) saranno dueʼ.

1.2 Morfologia verbale I verbi friulani si suddividono in tre classi flessive o coniugazioni segnalate dalla vocale tematica a (= I coniug.), e (= II coniug.) e i (= III coniug.). Prendiamo come verbi di riferimento: I coniug. [klaˈma] ʻchiamareʼ, II coniug. [taˈze] ʻtacereʼ e [ˈbati] ʻbattereʼ, III coniug. [sinˈti] ʻsentireʼ. La vocale tematica si manifesta solo in alcune forme del paradigma, e cioè: a) nella 2. pers. pl. del presente indicativo e congiuntivo e dell’imperativo: [klaˈmajs], [taˈzejs]/[taˈzeːs], [baˈtejs]/[baˈteːs], [sinˈtiːs] (ind. e cong.); [klaˈmajt], [taˈzejt]/[taˈzeːt], [baˈtejt]/[baˈteːt], [sinˈtiːt] (imper.); b) nell’imperfetto indicativo e congiuntivo: 1. pers. sg. [klaˈmavi], [klaˈmas]; [taˈzevi], [taˈzes]; [baˈtevi], [baˈtes]; [sinˈtivi], [sinˈtis]; c) nell’infinito: [klaˈma], [taˈze], [sinˈti]. I verbi della II coniugazione possono avere l’infinito rizoatono (come [taˈze]) o rizotonico: in questo caso la vocale finale atona si presenta come -i: [ˈbati] ʻbattereʼ, [ˈscrivi] ʻscrivereʼ, etc. Il paradigma flessivo dei due tipi è lo stesso: solo in alcuni

Morfologia e sintassi

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punti isolati dell’area friulana che rappresentano varietà conservative la 2. pers. pl. del presente indicativo della classe di verbi con infinito rizotonico si presenta ugualmente rizotonica e con terminazione -is (ad es. [ˈkrodis] ʻcredeteʼ [ˈpjerdis] ʻperdeteʼ, [ˈcolis] ʻprendeteʼ (inf. [ˈkrodi], [ˈpjerdi], [ˈcoli]), rispetto a [taˈzeːs]/[taˈzejs] ʻtaceteʼ (inf. [taˈze]). Questa distinzione, ora sporadicamente conservata, era invece comune nel friulano fino al Settecento (cf. Benincà/Vanelli 2005 [1975], 238; Maschi 2000). In un’ampia sottoclasse dei verbi di III coniugazione le persone singolari e la 3. pl. del presente (ind. e cong.) e la 2. sg. dell’imperativo inseriscono tra la radice verbale e la terminazione un affisso -[is]- (corrispondente all’it. -[isk]-): ad es. 1. e 3. pers. sg. di [fiˈni] ʻfinireʼ e [parˈti] ʻpartireʼ: [fiˈnis], [parˈtis], 3. pl.: [fiˈnisiŋ], [parˈtisiŋ] (rispetto a [ˈsint], [ˈsintiŋ] da [sinˈti]). Accanto alla flessione regolare, in cui tutte le forme del paradigma si costruiscono a partire da un unico tema (che coincide con la radice lessicale del presente), esistono anche verbi in cui le forme del paradigma si costruiscono a partire da più basi tematiche: si ha in questo caso allomorfia tematica. In generale, l’allomorfia è connessa alla natura rizotonica o rizoatona della forma verbale: ad es. il verbo [durˈmi] ʻdormireʼ alterna una base tematica rizoatona [durm]-, e una base tematica rizotonica con un dittongo al posto di -u-: [ˈdwarm]- (con regolare caduta della consonante nasale davanti a una terminazione ø, per cui [ˈdwaːr] ʻdormo/dormeʼ). Tutte le radici verbali, in quanto unità lessicali, condividono in friulano una caratteristica particolare legata alla posizione dell’accento, il quale, nelle forme rizotoniche, può trovarsi solo nell’ultima sillaba della radice: si veda ad es. [peˈtεne] ʻ(lui) pettinaʼ, [preˈdice] ʻ(lui) predicaʼ, [seˈmεne] ʻ(lui) seminaʼ, [reˈgɔle] ʻ(lui) regolaʼ, rispetto ai rispettivi nomi collegati lessicalmente, che hanno invece l’accento sulla sillaba precedente [ˈpjεtiŋ] ʻpettineʼ, [ˈprεdice] ʻpredicaʼ, [ˈsεmine] ʻseminaʼ, [ˈrεgule] ʻregolaʼ. Questa restrizione non si applica ai prestiti entrati recentemente nel friulano: ad es. [teˈlεfone] ʻ(lui) telefonaʼ e non *[teleˈfone], [ˈvizite] ʻ(lui) visitaʼ e non *[viˈzite], etc.

1.2.1 Tempi e modi I tempi semplici della flessione verbale friulana sono il presente, l’imperfetto e il futuro semplice. Il perfetto semplice è conservato solo in qualche sporadica varietà molto conservativa in area carnica (cf. Benincà 2005 [1989], 58s.). Come nel resto dell’Italia settentrionale, il suo uso è stato sostituito dal perfetto composto, che è formato, come il piuccheperfetto e il futuro anteriore, da perifrasi verbali costituite dall’ausiliare vê ʻavereʼ o jessi ʻessereʼ + il participio perfetto. In friulano esistono anche dei tempi cosiddetti bicomposti (presenti in numerose varietà romanze (e non solo; cf. Ammann 2007) costituiti da una forma composta dell’ausiliare vê (che viene flesso) + il participio perfetto del verbo lessicale (più raramente l’ausiliare flesso può essere jessi): ad es. o ai vût clamât, o ves vût clamât ʻlett. ho avuto chiamato, avessi

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avuto chiamatoʼ, etc. Quanto al valore di questi tempi, è raro il loro utilizzo anaforico con funzione di anteriorità a un momento di riferimento reperibile nel discorso (cf. Poletto 2009; Marcato 1986; Benincà 2005 [1989]), mentre i contesti più tipici in cui compaiono tali forme – e in particolare il passato bicomposto – sono di tipo esperienziale. Si tratta di forme che servono cioè a sottolineare che una tipologia situazionale ha già avuto luogo e non a indicare una concreta occorrenza della stessa (cf. Melchior 2012, ma l’intuizione è già di Marchetti 21967, 151), come ad es in [o ˈvin ˈʤa ˈvuːt ˈstaːt in aˈmεrike]. A seguito di processi metonimici e di rianalisi del loro valore, le forme bicomposte possono trasmettere anche un’accezione di eccezionalità e/o casualità (cf. Marcato 1986; Melchior 2013). In alcune varietà della Carnia, queste forme coesistono col perfetto semplice; è quindi infondata l’ipotesi che si tratti di forme che sostituiscono il perfetto semplice, mentre è registrabile un’evoluzione verso valori di past remoteness. I modi della flessione friulana sono l’indicativo, l’imperativo, il congiuntivo e il condizionale (modi finiti, con terminazioni personali), l’infinito, il gerundio e il participio (modi non finiti, senza terminazioni personali). Nella flessione «regolare», dal tema del presente si costruiscono gli altri tempi e modi finiti, segnalati da particolari affissi: imperf. ind. [ˈav], [ˈev], [ˈiv] ([klaˈmav]-, [taˈzev]-, [sinˈtiv]-); imperf. cong. [ˈas] , [ˈes], [ˈis] ([klaˈmas]-, [taˈzes]-, [sinˈtis]-); futuro [ar] ([klamar]-, [tazar]-, [sintar]-, ma alcuni verbi di III coniug. hanno [ir]: ad es. [finir]-, [partir]-, [murir]-, etc., e non *[finar]-, *[partar]-, *[murar]-). Da notare in particolare la forma dell’affisso del condizionale [aˈres] ([klamaˈres], [tazaˈres], [sintaˈres], dall’infinito + lat. HABUISSE ( M ) , cf. Iliescu 1995; gli stessi verbi che al futuro hanno [ir], hanno [iˈres] al posto di [aˈres]). Per i modi non finiti, va notato che nelle varietà collinari del friulano centrale (e nel friulano carnico) la vocale tonica finale dell’infinito è lunga: [klaˈmaː], [taˈzeː], [sinˈtiː]. Il gerundio (e il participio presente, molto poco usato) presentano due tipi di affissi: [ˈant] per la I coniug. e [ˈint] per la II e la III: [klaˈmant], [taˈzint], [sinˈtint]. Quanto al participio perfetto, oltre a quello regolare, chiamato anche «debole» (I coniug. sg. masc. in -[ˈaːt]/ femm. -[ˈade]/pl. masc. -[ˈaːʦ]/femm. -[ˈadis]; II coniug. -[ˈuːt], etc., III coniug. in -[ˈiːt], etc. (ma anche -[ˈuːt], ad es. [fiˈnuːt] ʻfinitoʼ)), alcuni verbi presentano un’altra forma di participio perfetto, chiamato «forte», caratterizzato dal fatto di essere rizotonico: si tratta in genere di verbi della II coniug. con infinito rizotonico, oltre al verbo di III coniug. [muˈri] ʻmorireʼ e a qualche altro verbo «irregolare», come [ˈfa] ʻfareʼ e [ˈdi] ʻdireʼ. Tutti i participi forti terminano in t (preceduta da vocale breve (più raramente da C sonorante), femm. -[te], pl. masc. -[ʦ], femm. -[tis]): ess. [ˈrot] ([ˈrompi] ʻrompereʼ), [ˈlet] ([ˈlej] ʻleggereʼ), [ˈscrit] ([ˈscrivi] ʻscrivereʼ), [ˈfat] ʻfattoʼ, [ˈdit] ʻdettoʼ, [ˈmwart] ʻmortoʼ.

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1.2.2 Le terminazioni Le terminazioni (o desinenze personali) della flessione verbale friulana presentano le seguenti caratteristiche generali (cf. Benincà/Vanelli 2005 [1975]; Iliescu 1970; 1983; 1984; Iliescu/Mourin 1991): A) La 1. pers. sg. si esprime attraverso due terminazioni: -i oppure ø: -i si trova nell’imperfetto indicativo e nel presente congiuntivo di tutte le coniug. ([klaˈmavi], [taˈzevi], etc.; [ˈklami], [ˈsinti], etc.); oltre che nel futuro (dove è preceduta da -a: [klamaˈraj], [sintaˈraj], etc.), ø si trova nell’imperfetto congiuntivo e nel condizionale di tutte le coniugazioni ([klaˈmas], [taˈzes], etc., [klamaˈres], [sintaˈres], etc.). Il presente indicativo ha entrambe le terminazioni, distribuite secondo le diverse coniugazioni: nella I coniugazione -i ([ˈklami]), nelle altre ø ([ˈtaːs], [ˈbat], [ˈsint], alcune varietà friulane, specialmente nell’area orientale, estendono la terminazione -i anche alle altre coniugazioni. Nella fascia occidentale a contatto con il veneto la terminazione è -e per tutte le coniugazioni). Mentre la terminazione ø è «etimologica», dal momento che la desinenza latina di 1. sg. -O è regolarmente caduta come tutte le vocali atone finali diverse da -A , la terminazione -i è un’innovazione introdotta in friulano nel XVI  secolo (cf. Maschi 1996–1997; 2000, 205; ↗4.3 Storia linguistica interna). Una terminazione vocalica è stata introdotta con modalità simili anche nella maggior parte delle varietà galloromanze, per cui cf. Benincà/Vanelli 1975. La -i è stata aggiunta prima al presente indicativo, da dove si è estesa per analogia al presente congiuntivo (dove alla 1. sg. alternavano ø per la I coniug. < E ( M ), e -a/e/o (a seconda delle varietà) < A ( M ) per le altre coniug.) e all’imperfetto indicativo (dove sostituisce -a/e/o < A ( M ) per es. di CLAMABA ( M )) . L’inserzione della -i limitata al presente della I coniugazione induce a ipotizzare che l’innovazione sia dovuta a un processo volto a ripristinare il parallelismo della struttura prosodica delle tre persone singolari, parallelismo venuto meno per la caduta della -O alla 1. pers. rispetto alla conservazione della -A nella 2. e 3.: viene così inserita una -i (che, come abbiamo visto al § 1.1, è la vocale epitetica tipica del friulano), che permette di parificare le tre persone della flessione singolare per quanto riguarda la scansione sillabica (cf. Benincà/Vanelli 1975). B) Anche nella 3. pers. sg. alternano più terminazioni: come nella 1. sg. c’è un’alternanza tra -i (limitata però al solo pres. cong.) e ø (pres. ind. delle coniug. ≠ I, imperf. cong. e condiz.). Ne deriva che in questi tempi 1. e 3. sg. hanno la stessa forma: pres. cong. [ˈklami], [ˈbati], [ˈsinti], pres. ind. [ˈtaːs], [ˈbat], [ˈsint], imperf. cong. e cond. [klaˈmas], [taˈzes], etc.; [klamaˈres], [tazaˈres], etc. Ma nel pres. indic. della I coniug. e nell’imperf. ind. si trova un’altra terminazione vocalica, in -e (< A ( T ): ad es. CLAMAT , CLAMABAT ): in questi tempi 1. ≠ 3.: [ˈklami] ⁓ [ˈklame], [batˈevi] ⁓ [baˈteve], etc. A queste terminazioni va aggiunta quella del futuro, che è l’unica accentata in -à ([klamaˈra], [tazaˈra], etc.). C) La 2. pers., sia sg. che pl., è caratterizzata da una terminazione sigmatica che si trova in tutti i tempi e modi tranne nell’imperativo. La terminazione ha la forma

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-is per entrambe le persone se l’accento non cade sulla terminazione. Si hanno due casi: a) nel presente indicativo e congiuntivo le forme del sg. e del pl. sono diverse in quanto: nella 2. pers. sg. [-is] viene aggiunta alla base tematica rizotonica con vocale tematica (VT) cancellata: ad es. [ˈklamis], [ˈtazis], [ˈbatis], [ˈsintis]; nella 2. pers. pl. dove l’accento si trova sulla VT, che perciò non viene cancellata, la terminazione -[is] si aggiunge alla VT nella I coniug. [klaˈmajs]; nella II coniug. alternano -[ejs] e -[eːs] a seconda delle varietà: Udine e altre varietà parlate in punti situati lungo direttrici che si diramano a ovest del capoluogo hanno [taˈzejs], [baˈtejs], che dunque seguono lo stesso schema della I coniugazione (VT + is); nelle altre varietà centrali la terminazione è [-eːs] ([taˈzeːs], [baˈteːs]), che va analizzato come suffisso unico, non segmentabile in VT + terminazione; nella III coniugazione la terminazione è -[iːs] ([sinˈtiːs]), in cui la [iː] si può interpretare o come il risultato di una coalescenza di i (VT) + i (di -is), oppure come un unico suffisso non segmentabile (cf. Vanelli 2007b); b) nell’imperfetto indicativo e congiuntivo, e nel condizionale le forme della 2. pers. sg. e pl. vengono a coincidere: imperf. ind. [klaˈmavis], [baˈtevis], [sintiˈvis], imperf. cong. [klaˈmasis], [baˈtesis], [sintiˈsis]; condiz. [klamaˈresis], [bataˈresis], [sintaˈresis]. Se la terminazione è invece tonica, come nel futuro, la 2. pers. sg. è -[aːs] ([klamaˈraːs], [bataˈraːs], etc.), la 2. pl. è – [eːs] ([klamaˈreːs], [bataˈreːs], etc.). Nell’imperativo la 2. sg. ha la stessa terminazione della 3. sg. del pres. ind.: I coniug. -[e] ([ˈklame]), altre coniug. ø ([ˈtaːs], [ˈbat], [ˈsint]); la 2. pl. presenta invece I coniug. -[ajt], II -[ejt]/[eːt], III -[iːt]: le terminazioni sono parallele a quelle del presente indicativo per quanto riguarda la parte vocalica, ma al posto di -s si trova -t. Il sistema delle terminazioni di 2. pers. sg. e pl. è il risultato di una serie di cambiamenti diacronici, per lo più motivati da processi analogici, che hanno prodotto un riassetto del sistema stesso (cf. Benincà/Vanelli 2005 [1975], 259–263; Maschi 1996–1997; 2000; Vanelli 2007b). Condizioni più simili a quelle originarie, presenti nel friulano antico (con terminazioni che derivano direttamente dalle corrispondenti desinenze del latino) si trovano in altre varietà friulane più conservative (soprattutto, ma non solo, nell’area carnica), dove ad es. la terminazione della 2. pers. sg. si presenta differenziata: nel pres. ind. della I coniug. e nell’imperf. ind. è -is (< AS ), mentre nel pres. ind. della II e III coniug., nell’imperf. cong. e nel condiz. è -s (< -ES , - IS ) ([ˈklamis], ma [ˈbaʦ], [ˈsinʦ], [ˈdwaːrs], etc.; [klaˈmavis], ma [klaˈmas], [klamaˈres] (dove la [s] desinenziale si assimila con la [s] del tema, per cui [s] + [s] = [s])). Per quanto riguarda la 2. pers. pl. del pres. ind. e dell’imperativo, a partire dalle desinenze latine -ĀTIS , -ĒTIS , -ĪTIS e -ĀTE , -ĒTE , -ĪTE , ci aspetteremmo le terminazioni -[aːs], -[eːs], -[iːs] e -[aːt], -[eːt], -[iːt]. Queste erano in effetti le terminazioni del friulano antico: l’inserzione di -j- ha origine a partire dal verbo fare dove [ˈfajs]/[ˈfajt] sono l’esito regolare < FACĬTIS /FACĬTE ( come FRACĬDU ( M ) > [ ˈfrajt] ʻmarcioʼ); -j- si estende per

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analogia prima al gruppo di verbi costituito da da ʻdareʼ, sta ʻstareʼ, la ʻandareʼ, che condividono con fa il tema «esile» e sono spesso oggetto di processi analogici incrociati (sec. XIV ); l’innovazione viene poi estesa a tutti i verbi della I (e parzialmente della II) coniugazione nella maggior parte delle varietà friulane. Ma esistono tuttora varietà che presentano gli esiti regolari: in alcuni punti isolati della Carnia infatti si ha ancora ad es. [klaˈmaːs] e [klaˈmaːt]. D) La 1. pl. è la terminazione più stabile: ha un’unica forma -in, tonica nel presente ind. e cong. e nel futuro, atona negli altri tempi derivati: ad es. pres. [klaˈmiŋ], [taˈziŋ]; fut. [klamaˈriŋ], [bataˈriŋ]; imperf. ind. [klaˈmaviŋ], [baˈteviŋ], imperf. cong. [klaˈmasiŋ], [sinˈtisiŋ], condiz. [klamaˈresiŋ], [tazaˈresiŋ]. In alcune varietà conservative dell’area occidentale e carnica, la 1. pl. del pres. ind. è differenziata a seconda delle coniugazioni, e mantiene le rispettive VT: I -àn ([klaˈmaŋ], II -én ([taˈzeŋ], [baˈteŋ]), III -ìn ([sinˈtiŋ]) (questo era anche il sistema del friulano antico). L’unificazione delle terminazioni del presente in -ìn nella maggior parte delle varietà friulane è il risultato di un processo di livellamento analogico sulla terminazione della III coniugazione (-ìn < -ĪMUS ( S ); cf. Benincà/Vanelli 2005 [1975], 256–258). E) La terminazione della 3. pl. è -in sempre atona: ad es. presente [ˈklamiŋ], [ˈtaziŋ], [ˈsintiŋ]. Solo nel futuro è diversa: -àn ([klamaˈraŋ], [bataˈraŋ], etc.). Negli altri tempi derivati la 1. e la 3. pl. sono dunque omofone (imperf. ind. [klaˈmaviŋ], imperf. cong. [sinˈtisiŋ], condiz. [tazaˈresiŋ], etc.). Nelle varietà friulane occidentali e in alcune varietà carniche la 3. pl. e la 3. sg. sono indifferenziate, secondo il modello veneto (tranne con i verbi con il tema «esile», che mantengono la distinzione). L’unica terminazione è quella della 3. sg.

2 Sintassi Nelle varietà della regione, i fenomeni morfologici e fonologici compaiono in forme che rappresentano i diversi stadi attraversati dalle varietà romanze, in particolare quelle della Romania continua. In molti casi il friulano offre la spiegazione di situazioni che nel resto di quest’area romanza sono meno chiare, a causa dei forti influssi reciproci fra i diversi sistemi. Per la sintassi la situazione è in un certo senso complementare: il friulano, in questa parte della grammatica, ha portato molto avanti i processi evolutivi, generalizzando caratteristiche dei fenomeni e proprietà degli elementi funzionali che in altre aree della Romania continua si sono arrestate a stadi diversi di sviluppo. I fenomeni sintattici del friulano sono del tutto coerenti con quelli del resto del Nord Italia e della Francia; essi si collocano però al livello dei sistemi più evoluti, che hanno livellato analogicamente il comportamento di pronomi clitici e altri elementi funzionali, oscurando alcuni aspetti di variazione che quindi in friulano diventano meno chiari.

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In tutte le varietà dell’Italia settentrionale un verbo flesso deve avere il soggetto espresso, almeno con un pronome clitico, almeno per alcune persone del verbo. I contesti sintattici in cui può o deve essere inserito un pronome soggetto clitico variano in modo non casuale, dato che si possono osservare interessanti scale di implicazione (cf. Renzi/Vanelli 1983). Ad esempio, un dialetto può avere un clitico soggetto per un verbo meteorologico, ma non per un verbo impersonale, ma non si trova mai la situazione opposta: il verbo impersonale si situa al livello più basso di questa scala di implicazione. Il friulano arriva al livello più comprensivo, e ha clitici soggetto per qualsiasi categoria di verbi, e per tutte le persone del verbo. Nella descrizione che segue, metteremo sempre in evidenza i fenomeni sintattici che sono peculiari del friulano, o non molto diffusi in ambito romanzo. In questa sezione del lavoro adotteremo una grafia basata sulla grafia ufficiale, con piccole modifiche, come i trattini di separazione che mostrano la struttura morfosintattica, o gli accenti, che dovrebbero render leggibili le forme per chi non conosce attivamente il friulano.

2.1 I clitici soggetto nella frase semplice La varietà di friulano su cui si basa la descrizione oggi ha i pronomi clitici obbligatori con tutte le persone del verbo, indipendentemente dal fatto che il verbo abbia o meno un soggetto espresso (pronome tonico, nome, etc.): (1)

a (tu) no tu vegnis/*tu no vegnis b il fantàt al ven/*il fantàt ven c lis fantatis a vegnin/*lis fantatis vegnin

Come mostra la frase (1a) il clitico soggetto compare dopo la negazione, ed è obbligatorio, mentre il pronome che si trova alla sinistra della negazione è tonico, ed è facoltativo. L’accordo completo di verbo e clitico è obbligatorio anche se il soggetto è posposto: (2)

a al ven il fantàt b a vegnin lis fantatis

Il clitico è obbligatorio anche con i verbi meteorologici e impersonali: (3)

a al/a plûf/*plûf b al/a pâr che…/*pâr che…

Escluso il clitico di 2. sg., e, in alcune varietà anche quello di 3. sg. masc., i rimanenti clitici soggetto possono o debbono essere eliminati se il verbo è accompagnato da un altro clitico, compresa la negazione: o vin cjantât ʻclit.-abbiamo cantatoʼ rispetto a lu vin cjantât ʻlo abbiamo cantatoʼ, senza clitico soggetto. Questa possibilità è piuttosto

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rara nelle varietà romanze con clitici soggetto (cf., per un caso simile nel francoprovenzale, Roberts 1993); sembra che il clitico soggetto abbia in questi casi una funzione di occupante di una posizione sintattica più che di vero e proprio elemento morfologico che completa l’accordo verbale. In questa direzione porta anche l’esame di alcune varietà friulane meridionali della destra del Tagliamento (una delle quali è rappresentata negli scritti in friulano di Pier Paolo Pasolini): qui si è sviluppata una serie di clitici della 1. posizione, che possono comparire assieme (anteposti) ai clitici soggetto (cf. Benincà/Vanelli 1984a; Benincà 1986, 468–470; Poletto 2000, cap. 3): a per le 3. sg. e pl., i per tutte le altre persone. Questi paradigmi, molto diffusi in diverse varietà dell’Italia settentrionale, sembrano marcare le persone deittiche (quelle che coinvolgono il «parlante» o l’«ascoltatore») rispetto alle 3. persone, non coinvolte direttamente nell’atto linguistico. L’obbligatorietà assoluta del clitico soggetto di 3. non si riscontra nei testi anteriori alla fine dell’800, dove troviamo il verbo senza clitici soggetto se c’è un soggetto nominale o pronominale, sia che esso preceda o segua il verbo (cf. Benincà 1986, 467; ↗4.3 Storia linguistica interna).

2.1.1 Il clitico si impersonale e passivante Ha proprietà simili ai soggetti il clitico si, che, aggiunto al verbo, gli attribuisce valore impersonale, o passivante se il verbo è transitivo; il clitico è formalmente identico al riflessivo di 3. persona. Nella varietà udinese si non tollera un altro clitico preverbale, soggetto o oggetto. Si noti che il verbo si accorda in numero con l’oggetto semantico (col transitivo il si è dunque passivante): (4) a b c d

si viôt il soreli, la lune ‘si vede il sole, la luna’ si viodin lis stelis ‘si vedono le stelle’ *si viôt lis stelis ‘*si vede le stelle’ si cjamine ‘si cammina’

Il clitico soggetto ricompare però enclitico nell’interrogativa (cf. § 2.2): (5)

a si viodi-al (il soreli/il fantàt)? b si viodi-e (la lune/la fantate)? c si viodin-o?

In alcune varietà viene premesso a si anche il clitico non argomentale (masc. sg., o neutro); alcune varietà in presenza di si ammettono la presenza di un clitico oggetto, che viene posto però in posizione enclitica al verbo: (6) cuant che si viodi-lu, si è contents ʻquando che si vede-lo, si è contentiʼ

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Le varietà che ammettono il clitico oggetto in posizione proclitica, lo pongono obbligatoriamente dopo si: (7)

si lu viôt ʻsi lo vedeʼ

Come nel veneto e nei dialetti settentrionali, il si ha in friulano la posizione di un clitico soggetto (dopo la negazione, prima degli altri clitici), mentre in italiano sta piuttosto con i clitici complemento (lo si vede).

2.2 Frase interrogativa La frase interrogativa diretta, sia quella del tipo «polare» (che attende risposta sì/no), sia quella con parola interrogativa (chi…?, che cosa…? etc.) ha il verbo nella cosiddetta «forma interrogativa», cioè con l’enclisi di un clitico soggetto al verbo flesso. Il pronome interrogativo appare in posizione iniziale, con la preposizione se è un sintagma preposizionale: (8) a. b c d

vês-o fevelât? cui âs-tu viodût? a cui âs-tu fevelât? di ce fevelàis-o?

ʻavete-clit. parlato?ʼ ʻchi hai-clit. visto?ʼ ʻa chi hai-clit. parlato?ʼ ʻdi che parlate-clit.?ʼ

Un pronome soggetto enclitico compare anche quando il pronome interrogativo è il soggetto: cui vegn-ial? ʻchi viene-clit.?ʼ. Benché, nella domanda che verte sul soggetto, il soggetto stesso sia espresso dal pronome interrogativo, deve obbligatoriamente comparire anche il clitico, come nella frase assertiva. Allo stesso modo, un interrogativo dativo deve essere doppiato dal clitico, in particolare se è argomento del verbo: a cui i dâs-tu il libri? ʻa chi gli dai il libro?ʼ. L’interrogativa diretta con pronome interrogativo utilizza in molte varietà anche una struttura con l’inserzione del complementatore «che» (che in singole varietà prende la forma cu, co). In questo caso, il verbo appare nella forma assertiva (cioè, con il clitico soggetto prima del verbo): cui che tu âs viodût? ʻlett. chi che tu hai visto?ʼ ce che tu âs dit? ʻlett. che cosa che tu hai detto?ʼ Chiaramente si tratta dell’estensione della struttura delle interrogative indirette. Solo in questa struttura si può osservare in alcune varietà l’omissione del clitico soggetto nelle domande sul soggetto; ad es. a Clauzetto (area conservativa nord-occidentale; cf. Brovedani 1980–1981): cui co ven? ʻlett. chi che viene?ʼ, ʻchi viene?ʼ (cf. anche § 2.3). Per l’interrogativo di luogo (in)dulà ʻdoveʼ, alcune varietà occidentali hanno una variante debole do, con caratteristiche sintattiche proprie (cf. Benincà 1986). Accanto a /kwant/ ʻquandoʼ, esiste la forma con, probabilmente da lat. CUM ʻquandoʼ, solo nella funzione di pronome relativo temporale, e mai propriamente interrogativo (esattamente come il veneto co).

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2.2.1 Altre strutture con enclisi del clitico soggetto Come nel veneto (e analogamente all’italiano, dove la fenomenologia è meno evidente), la frase ottativa ha il clitico soggetto posposto al verbo, il quale può essere al congiuntivo imperfetto, piucchepperfetto, o bicomposto; l’eventuale soggetto nominale è dislocato a sinistra: (to fradi), sunassi-al il viulin! ʻse tuo fratello suonasse il violino!ʼ (ʻsuonasse-egli…ʼ), vess-io vût fevelât! ʻse avessi avuto l’occasione di parlare!ʼ (passato bicomposto, vedi sopra § 1.2.1). Per avere l’inversione è necessario che manchi la congiunzione se; le frasi sopra hanno una variante con se e l’ordine clitico-verbo: (to fradi), se al sunas il viulin!, etc. Lo stesso tipo di inversione si ha nella protasi del periodo ipotetico, con gli stessi tempi del congiuntivo: vigniss-ial to pari, o podaressin lâ ʻse venisse (venisse-egli) tuo padre, noi potremmo andareʼ; anche in questo caso, l’inversione si ottiene solo se manca la congiunzione se. È peculiare del friulano l’inversione del clitico soggetto con il congiuntivo presente, con funzione esortativa o augurativa, in particolare col verbo jessi ʻessereʼ: sês-tu benedet ʻche tu sia benedettoʼ, seis-o maladets ʻche voi siate maledettiʼ. L’inversione con il congiuntivo presente si può osservare, non solo col verbo jessi, nella congiunzione di proposizioni alternative del tipo di rivi-al prest o rivi-al tart, al è istes ʻche arrivi presto o che arrivi tardi, è la stessa cosa’ (se si introduce il complementatore non si ha l’inversione: che al rivi prest o che al rivi tart, …, etc.). Su queste strutture a inversione (in friulano, veneto, francese), si veda lo studio dettagliato di Munaro (2010), che identifica precise localizzazioni del verbo nella struttura, a seconda dell’interpretazione.

2.3 Frase relativa Fra le strutture relative si distinguono, dal punto di vista sintattico e semantico, le relative restrittive dalle appositive; la relativa restrittiva identifica, specificandolo, il nome a cui è riferita, mentre la appositiva aggiunge un’informazione accessoria al nome a cui è riferita, che è già identificato. I dialetti veneti regolano la presenza del clitico nella frase relativa a seconda se questa è restrittiva (senza clitico) o appositiva (col clitico); i dialetti friulani distinguono invece le relative sul soggetto, che hanno sempre un clitico soggetto, dalle relative sull’oggetto diretto, che non hanno mai un clitico oggetto (cf. Benincà/Vanelli 1984a, 45–47). Questo è, in sincronia, un tratto alquanto caratterizzante dell’insieme dei dialetti friulani; ecco, per esempio, due relative sul soggetto, la prima restrittiva, la seconda appositiva: ambedue hanno il clitico soggetto che riprende il nome relativizzato: (9) il fantàt che al è rivât vuê … (10) Pieri, che al è un bon frut, …

ʻil ragazzo che è arrivato oggi …ʼ ʻPiero, che è un buon bambino, …ʼ.

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Nelle seguenti relative sull’oggetto, la prima restrittiva, la seconda appositiva, invece non compare mai un clitico che riprende l’oggetto: (11) a il fantàt che tu âs viodût vuê … b Pieri, che tu cognossis ben, …

ʻil ragazzo che hai visto oggi …ʼ ʻPiero, che tu conosci bene, …ʼ

Le relative indefinite (o «senza testa») utilizzano invece il pronome interrogativo + complementatore che (in alcune varietà cu/co); similmente alle interrogative con questa struttura, se nella frase relativa è relativizzato un soggetto, il clitico soggetto può mancare nelle varietà che usano il complementatore cu/co, in particolare se l’interpretazione è indefinita generica: cui co vignirà, (al viodarà) ʻchi verrà, (vedrà)ʼ. Le frasi relative in cui è relativizzato un complemento retto da una preposizione non possono utilizzare un paradigma di pronomi relativi, ma introducono la relativa con un complementatore del tipo «che» ed esplicitano con un clitico (ma non sempre) il tipo di complemento nella frase stessa; una frase come ʻIl ragazzo a cui/al quale tu hai detto che…ʼ diventa Il fantàt che tu i âs dit che… ʻlett. ... che gli hai detto che...ʼ Complementi diversi possono non venir esplicitati, e vengono recuperati dal contenuto semantico del verbo che li regge: ʻIl treno con cui sei arrivato…ʼ diventa Il treno che tu sês rivât, cioè ʻlett. Il treno che sei arrivato…ʼ, etc. Si tratta di fenomeni ampiamente attestati nei dialetti e nelle varietà colloquiali delle lingue romanze.

2.4 Selezione sintattica dell’ausiliare e accordo del participio perfetto La regola generale per l’accordo del participio col soggetto vede il participio obbligatoriamente accordato col soggetto quando l’ausiliare è jessi (strutture inaccusative, cf. Burzio 1986), mai accordato col soggetto quando l’ausiliare è vê. I verbi transitivi (ausiliare vê) nei tempi composti hanno in friulano, non obbligatoriamente ma molto naturalmente, l’accordo del participio con l’oggetto diretto: o ai viodût/viodudis lis stelis. L’accordo con l’oggetto diretto è obbligatorio se viene utilizzata una costruzione peculiare del friulano, con l’oggetto posto subito dopo l’ausiliare: o ai lis stelis viodudis ʻlett. ho le stelle veduteʼ, ʻho visto le stelleʼ. L’accordo con l’oggetto è inoltre obbligatorio se l’oggetto è un pronome clitico di 3. sg. e pl.: lis ai viodudis/*viodût. Coi pronomi clitici di 1. e 2. sg. e pl. l’accordo (come in italiano, veneto, etc.) è facoltativo. È invece agrammaticale l’accordo con l’oggetto clitico riflessivo, qualora venga usato l’ausiliare vê: Marie si à petenât/si è petenàde/*si à petenade. I verbi transitivi attivi hanno obbligatoriamente l’ausiliare vê; i transitivi passivi hanno obbligatoriamente l’ausiliare jessi.

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Una sorta di passivizzazione si osserva nei cosiddetti verbi «ergativi» (cf. Burzio 1986), in cui lo stesso argomento semantico del verbo può comparire come soggetto o come oggetto sintattico, a seconda dell’ausiliare: (12) a b c d

I buteghirs a àn cressût/cressûts i presits. I presits a àn cressût/a son cressûts. La vite e à cambiât i oms. I oms a àn cambiât/a son cambiâts.

La scelta dell’ausiliare ha effetto sull’accordo del participio con il soggetto. Anche i riflessivi propri e inerenti, che in italiano moderno devono avere l’ausiliare essere, in friulano (come in altri dialetti settentrionali) possono avere ambedue gli ausiliari, e il participio si accorda secondo la regola: Lis fantatis si son petenadis/si àn petenât; La puarte si è viarzúde/si à viarzût. In friulano è peculiare la possibilità di omettere il pronome riflessivo nelle forme composte, se si usa l’ausiliare jessi. Abbiamo quindi tre modi per dire ʻci siamo alzateʼ: si sin jevadis/si vin jevât/o sin jevàdis. Il si impersonale, a differenza che nell’italiano, non comporta cambiamento dell’ausiliare, che rimane jessi o vê a seconda della classe a cui appartiene il verbo: si à viodût dut ʻsi è visto tuttoʼ; si è rivâts tart ʻsi è arrivati tardiʼ, etc. (come al à viodût, al è rivât). Cf. per una descrizione più dettagliata Benincà (1985). Tolti questi casi, i verbi transitivi e intransitivi con ausiliare vê hanno il participio passato alla forma non accordata, che corrisponde al maschile singolare.

2.5 Fenomeni caratteristici del sintagma nominale Un fenomeno peculiare per quanto riguarda la sintassi del sintagma nominale friulano è una sorta di accordo debole che si osserva nei femminili plurali, limitatamente all’area occidentale. In un sintagma nominale femminile plurale, solo l’ultimo elemento a destra riceve la marca completa di femm. pl. -is, gli altri elementi ricevono una desinenza ridotta -i, che non è ovviamente la desinenza del singolare, ma appunto un plurale incompleto. Il fenomeno avviene solo in aree in cui il femminile plurale di nome e aggettivo è -is. Si tratta di un fenomeno certamente molto peculiare, che ha un parallelo nel ladino centrale, in particolare nella Val di Fassa (Elwert 1943, 112–114; Haiman/Benincà 1992, 220–222): ma il parallelo non è perfetto, perché qui l’accordo completo va su un solo elemento, grosso modo quello a destra, ma gli altri elementi restano al singolare: la bela fèminis, la spala lèrgjes; il friulano avrebbe invece li bieli fèminis, li spali largjis (uno studio sintattico del fenomeno in fassano e in friulano è Rasom 2008). Diversamente dalla generalità dei dialetti settentrionali, incluse le varietà ladine, il friulano non distingue nel possessivo una forma debole per l’aggettivo prenominale

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dalla forma forte, postnominale o isolata. I possessivi possono occorrere con l’articolo, definito o indefinito, tranne che con i nomi di parentela. In qualche varietà, in particolare della Carnia (Collina), si trovano ancor oggi tracce di un antico genitivo senza preposizione, per esempio con nomi retti da sorto ʻsorte, tipoʼ, come sorto fonc ʻtipo di fungoʼ, etc.

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10 Stratificazione lessicale e formazione delle parole Abstract: Il contributo delinea la composizione del lessico friulano in una prospettiva storica a partire dalla situazione prelatina, considerando poi la fase latina, quindi quella postlatina con elementi derivati dal superstrato germanico, riflessi del contatto con altre lingue e varietà italoromanze e con l’italiano. In particolare si segnalano friulanismi tipici spesso dovuti a particolari significati assunti da basi continuate anche in altre varietà romanze. Si delineano quindi processi di formazione delle parole, con esemplificazioni e con i riferimenti bibliografici più significativi. Keywords: storia del lessico, formazione delle parole

1 Stratificazione lessicale 1.1 Premessa Il lessico friulano dispone di importanti strumenti lessicografici tra i quali l’ottimo dizionario Nuovo Pirona (= NP) e un’opera geolinguistica di ampio respiro come l’ASLEF incentrata proprio sulla variazione lessicale, oltre a riferimenti di recente approntati, tra i quali il GDBtf, che vanno nella direzione del rinnovamento e della standardizzazione del vocabolario per consentire al friulano una situazione paritaria rispetto all’italiano. Alla conoscenza del lessico anche sotto il profilo storico contribuiscono alcuni riferimenti bibliografici come Piccini (2006) affiancati dal recente avvio del Dizionario storico friulano, banca dati in fase di realizzazione che trova la premessa nell’edizione di carte usuali compilate tra XIV e XV secolo (Vicario 2010). Manca, invece, al lessico friulano un completo ed esauriente vocabolario etimologico, giacché il DESF è rimasto opera incompiuta alla lettera e. Tuttavia su tale lessico sono stati condotti vari studi di interesse storico-etimologico, in buona parte collegati all’analisi di carte geolinguistiche dell’ASLEF, come la fondamentale ricerca nel settore della flora di Pellegrini/Zamboni (1982), e lo studio della terminologia agricola di Pellegrini/Marcato (1988–1992). Ne deriva la possibilità di delineare un profilo della stratificazione lessicale, mettendo in luce le peculiarità lessicali del friulano. Quanto alle vicende storiche del Friuli, che è decisivo tenere presente in questo contesto, di particolare utilità risulta il volume di Francescato/Salimbeni (1976). Considerazioni generali sulla stratificazione del lessico friulano si trovano in specie in Frau (1989, 593–595) e anche in Marcato (2013), ma un quadro d’insieme si trova già delineato da Marchetti (41985, 41–63); riguardano alcuni filoni specifici del

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lessico interventi come Frau (1999) e Heinemann (2007) sui germanismi e tedeschismi e Pellegrini (1992, 225–257) sugli elementi di origine slava. Benché talune considerazioni siano ormai superate e dei riferimenti etimologici siano stati corretti da ricerche successive, Marchetti (41985, 41–63) individua una stratificazione che considera il «latino aquileiese», «voci greche», «residui celtici», «voci germaniche», «voci slave» e «apporto italo-veneto». In buona parte il lessico friulano deriva dal latino, ma si individuano, appunto, diverse altre componenti, che mostrano la complessa storia anche linguistica del territorio.

1.2 Lo strato prelatino Nella fase che precede la latinizzazione rientrano diversi strati linguistici, preindeuropeo generico, gallico, venetico etc., con significativi riscontri toponomastici, per quanto non sempre siano precisamente individuabili e distinguibili (sul Friuli preromano cf. Pellegrini 1972, 269–307). Com’è noto, la situazione del Friuli, nel periodo in cui si avvia il processo di romanizzazione, vede tribù di Galli Carni nel nord e nell’area centrale del territorio, insediamenti venetici a sud e in aree marginali. Spettano al filone preromano, di cui sono riflessi parole che spesso riguardano la morfologia del terreno, la botanica, l’agricoltura, voci friulane come muiart ‘detto di fieno dell’ultimo taglio’ da un *MUJO - ARDU , derivato da una base preromana *MUGIO - ‘giovenco’ (con ampi riscontri in area romanza), la quale può aver anche avuto il senso di ‘non maturato’ (Pellegrini/Marcato 1988–1992, 231), dasse che designa il ramo frondoso delle conifere, che è ricondotto a una base *DASIA o *DAGISJA che ha ampi riflessi alpini, dal Friuli alla Svizzera francese, e meles ‘sorbo degli uccellatori’ considerato verosimile continuatore di una base *MAL /*MEL con continuatori anche in altre aree come quella altoveneta (cf. Pellegrini/Zamboni 1982, 11, 156). Una certa rilevanza ha il filone celtico, rappresentato da voci come glasine ‘mirtillo’ da *GLASINA , draç ‘setaccio’ da DRAGIUM , tamês ‘vaglio’ da TAMISIUM , basi peraltro note anche altrove in area CAR PENTUM da cui cisalpina; particolare sviluppo di significato in friulano conosce CARPENTUM cjarpint ‘asse delle ruote del carro’.

1.3 Il bagaglio latino Con l’avvio della conquista della regione da parte dei Romani, la fondazione nel 181 a.C. della colonia di Aquileia (toponimo recentemente assegnato al filone venetico) e di altri importanti centri come Forum Iulii (l’odierna Cividale), Iulium Carnicum (oggi Zuglio) e Concordia, il sostrato prelatino comincia a cedere al latino che diventerà col tempo l’unica lingua del territorio. Due aspetti importanti del lessico friulano, dipendenti dalla latinizzazione, consistono in un gruppo di elementi lessicali che si configurano come specifici già del latino della X Regio rispetto all’Italia settentrionale,

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e in un gruppo di elementi che riguardano differenze areali tra il municipium di Aquileia e altri municipia dell’area corrispondente all’odierno Friuli. Quest’ultimo aspetto sostanzialmente si traduce in un friulano centro-orientale e in parte carnico, o «aquileiese» (con allusione al municipio, poi diocesi, di Aquileia), e in un friulano occidentale o «concordiese» (municipio, in seguito diocesi, di Concordia). Quanto al primo caso, certe peculiarità lessicali del latino della X Regio contribuiscono a determinare la fisionomia del vocabolario friulano. In parte ciò è dovuto alla particolare posizione di Aquileia che costituisce un punto d’incontro con altre civiltà, in specie quella germanica e quella greca, come si desume dalla presenza, ancor oggi, di parole friulane di tale origine, come brût ‘nuora’ da BRUTIS , antico prestito germanico già attestato nel III secolo nel latino epigrafico aquileiese (altri riflessi del prestito sono presenti in engadinese e in francese), ancone ‘edicola sacra’ dal greco EIKONA , criure ‘freddo acutissimo’ dal greco KRYOS (attraverso una forma *KRYURA ). Anche la voce clât ‘ramo sfrondato d’abete’ è stata considerata un grecismo e accostata a clasi del bisiacco, un termine dei cestai che si riferisce a ‘venchi sistemati a raggiera per fare il fondo della cesta’, derivandoli da greco-latino CLADUS , dal greco KLÁDOS ‘ramo’, ‘ramoscello’, quindi il pezzo di vimine reciso e il ramoscello sfrondato, non integro, rispondono sostanzialmente all’idea del ‘rampollo divelto, reciso’ che è della voce greca (cf. Pellegrini 1992, 24s.). Un altro elemento significativo della latinità aquileiese pare essere una romanizzazione di provenienza mediana (area sannitico-sabellica). A ciò viene attribuita la presenza del latino FULGUR ‘folgore’ continuato nella forma del nominativo-accusativo dal friulano folc (cf. Pellegrini, 1992, 435–448); FULGUR è un tipo lessicale raro nell’Italia settentrionale, ma in area friulana è ampiamente attestato. Il caso di FULGUR è utile anche per illustrare la distinzione tra friulano «aquileiese» e friulano «concordiese»: al primo appartiene folc, il secondo è interessato dal tipo lessicale saeta (dal latino SAGITTA ). La caratterizzazione concordiese o aquileiese del friulano è esemplificata anche da altri termini. Ad esempio, nel friulano concordiese il concetto ‘andare’ è espresso con zi (dal latino IRE ) rispetto a lâ (dal latino *ALLARE ), per ‘aratro’ versôr (dal latino VERSORIUM ) dell’area concordiese esterna (il tipo lessicale è poi anche veneto) di contro a vuarzine ‘aratro’ (dal latino ORGANUM , attraverso *ORGINA per ORGANA ). Nel lessico friulano derivato dal latino vi sono elementi che si configurano come «arcaismi lessicali», termini assenti o assai rari nelle lingue romanze, come adin del friulano carnico dal latino HAEDINUM , stradalbe ‘via lattea’ che mantiene un continuatore del latino ALBUM ‘bianco’, agâr ‘solco’ caratteristico friulanismo dal latino AQUARIUM che si ritrova nel sardo abbargiu, bime ‘agnella che ha passato l’anno e non ha figliato’ continua il latino BIMUS ‘di due anni’ con riflessi in area alpina (dal piemontese al ladino centrale e alto veneto) oltre che in sardo e in corso. Gli arcaismi lessicali sono frequenti specialmente nella toponomastica, p. es. il latino FORMIDUM ‘caldo’ si TEGUR IUM per ritrova nel nome di luogo Campoformido (in friulano Cjampfuarmit), TEGURIUM

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‘capanna’, ‘tugurio’ è all’origine del nome Teor, AGELLUM diminutivo di AGER ‘campo’ è continuato da Aiello (friulano Daèl), FORUM è continuato da FORUM IULII da cui Friuli (sul tema cf. specialmente Pellegrini 1992, 277–289). Di particolare interesse sono anche parole che mostrano un cambiamento di significato rispetto al latino. Una di queste è frut ‘bambino’, dal latino FRUCTUS ampiamente rappresentato anche dall’italiano frutto, ma con un’accezione che è tipica del friulano, sviluppata attraverso quella di prodotto agricolo e dell’allevamento del bestiame, piccolo di animale (come dimostrato da Doria 1998). Altre voci mostrano sviluppi di significato propri, ad esempio muini ‘sacrista’ dal latino MONACHUS , vedran ‘uomo che abbia oltrepassato l’età consueta del matrimonio senza sposarsi’, al femminile vedrane ‘zitella’, usato specialmente in tono spregiativo, un derivato dal latino VETERANUS ‘vecchio’. Un’altra delle parole tipiche del lessico friulano è mandi ‘addio, saluto di congedo’, riduzione della formula che corrisponde a ‘mi raccomando’, e ciò è confermato dalla variante marcomandi che lo stesso NP registra come locuzione di saluto. Ma le peculiarità nel vocabolario sono anche molte altre, in taluni casi si tratta di voci derivate dal latino in altre di prestiti da altre lingue che in vari modi e momenti hanno influenzato il friulano. Presenti anche alcuni latinismi derivati dalla lingua della chiesa, con svisamenti formali e modificazioni di significato, tra i quali verbuncaro ‘ammonimento, rimprovero’ anche nel modo di dire molâ il verbuncaro ‘fare una lavata di capo’, bisodie ‘discorso lungo, senza interesse, di poca importanza’ e ‘vecchia allampanata e decrepita’, ‘donna incoerente, priva di criterio’ ripreso dal ODIE del «Pater noster». frammento ( DA NO ) BIS HHODIE TUGURIUM

1.4 Germanismi e tedeschismi Gli strati linguistici postlatini comprendono i prestiti germanici più antichi, da elementi entrati ancora nel latino parlato, come il già citato BRUTIS , a gotismi e longobardismi (una distinzione tra uno strato e l’altro non è sempre agevole) e prestiti più recenti, o tedeschismi (sul tema si rinvia specialmente a Pellegrini 1972, 335–359 e alle sintesi di Frau 1999; ↗6.2 Tedesco). L’influsso del tedesco sul friulano si traduce nell’ingresso di numerosi prestiti lessicali ma secondo alcuni anche qualche tratto sintattico potrebbe aver risentito di tale contatto linguistico, in particolare la presenza di verbi analitici (verbo + avverbio, per es. tirâ jù ‘disegnare, copiare’, con riflessi anche nell’italiano regionale; la questione è riassunta in Heinemann 2007, 140; su tali formazioni cf. Vicario 1997). Taluni prestiti attestati nei documenti medievali hanno perso vitalità e sono scomparsi dall’uso, come clenodis ‘gioielli’ documentato nel 1385 da confrontare con il tedesco Kleinod, mume/mumo ‘zia’ attestato nel 1355, dal medio alto tedesco MUOME e altri (cf. Heinemann 2007, 136s.) ma diversi sono i prestiti entrati anticamente e rimasti sino ad oggi.

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Ai gotismi vengono assegnate voci friulane come glove ‘biforcazione dellʼalbero’ (da GLOBA ), o sedon ‘cucchiaio’ (da SKAIDO ), che interessa il friulano, il ladino centrale (sciadón) e svizzero (sdon e varianti) ed è considerata una parola-chiave nell’ambito della discussione relativa alla «unità ladina» (ma la diffusione di questo germanismo è più ampia come mostra Zamboni 1984). Rilevante l’apporto dei longobardismi, con numerosi riflessi anche in antroponimia e toponomastica, che si collega alla presenza dei Longobardi in Friuli dal 568 d.C. e che annovera parole di uso corrente come braide ‘poderetto chiuso’, da BRAIDA ‘campo pianeggiante’. Un termine indice dell’insediamento longobardo nel territorio è fara ‘spedizione militare’, poi ‘insediamento con scopi militari di Longobardi’ e infine ‘piccolo nucleo demografico e fondiario’, che risulta solo a Barcis col significato di ‘famiglia immigrata; podere, villaggio’ (NP) mentre nel resto del Friuli (oltre che in varie regioni italiane) è ben rappresentato nella toponomastica (Farra d’Isonzo etc.); la voce di Barcis si considera un’eccezionale conservazione dell’originale valore di appellativo della parola longobarda. Un altro prestito che appartiene ai longobardismi e che è parola ancor oggi di uso quotidiano e tipica del friulano è bearç ‘terreno erboso e chiuso attiguo alla casa’ (da un *BIGARDIU , base che potrebbe essere assegnata anche al gotico). In disuso è il termine bleon ‘lenzuolo’ (da una base *BLAHJÔ che sopravvive nell’Italia settentrionale solo in Friuli), mentre sono ormai desueti termini come uadiâ ‘sposare’ e uadie ‘anello, fede matrimoniale, ed altri doni o simboli di conclusi sponsali’ (NP), da una WADIA ADIA , W WADIUM ADIUM ‘promessa di matrimonio’. Di origine longobarda si ritengono voce W anche altri termini friulani tra i quali farc ‘talpa’ (da una base *FAR ( A ) H ‘porco’), cjast ‘granaio, locale della casa a uso di riporvi il grano e altri prodotti campestri; ed è per lo più il piano superiore del tetto’ (NP) da una etimo confrontabile con l’antico alto tedesco KASTEN ‘soffitta, granaio’. I tedeschismi entrano fin dall’epoca medievale, durante la quale il tedesco è presente in Friuli come lingua delle classi alte e del clero in specie nella prima fase del Patriarcato di Aquileia istituito nel 1077. Varie forme di contatto con il mondo germanofono consentono l’ingresso in periodi successivi di tedeschismi, fino ai tempi più recenti in cui si intensifica l’emigrazione stagionale di friulani. Com’è noto, in friulano parole come gjermaniot e gjermaniûl derivate da Gjermanie ‘Germania’, designano proprio un ‘operaio o manovale friulano, di quelli che ad ogni aprirsi di stagione si recavano a lavorare all’estero, e specialmente in Germania, in Austria, in Ungheria, per rientrare prima dell’inverno: Une compagnie di germanioz’ (NP). Tra i tedeschismi medievali si annoverano cramar o cramâr (con attrazione della serie lessicale in -âr suffisso di nomina agentis) ‘merciaio ambulante’ da collegare al medio alto tedesco KRÂMAERE ‘merciaiolo’; il prestito è attestato in friulano dal 1307 (Benvenutus Cramarius, in forma di personale). Antichi tedeschismi sono anche voci come crot ‘rana’ e crote ‘rospo’ da confrontare con il tedesco Kröte e probabilmente riconducibile al medio alto tedesco KROT . Significativa parola delle tradizioni popolari friulane è licôf ‘merenda o festa che si fa a conclusione di lavori importanti e che è

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offerta dal proprietario’, già documentata in friulano nel 1332, è ricondotta al medio alto tedesco LITKOUF ‘bevuta per festeggiare la conclusione d’un affare’. Assai diffuso in friulano anche cjalzumit, cjalçumit ‘norcino, castraporci’, per estensione ‘girovago, di quei vagabondi, pezzenti e pittoreschi, che, con la loro cassetta di strumenti a tracolla, camminano da un paese all’altro a riparare ombrelle vecchie, a legar pentole, a castrar porci e ad esercitare vari mestieri’ in senso dispregiativo ‘chirurgo inetto’ (NP); il termine è un antico prestito dal tedesco Kaltschmied ‘conciabrocche’. Per alcuni sicuri tedeschismi mancano dati documentari o linguistici che possano orientare nella cronologia del prestito. È il caso di vignarûl ‘ditale’ che rinvia a una voce tedesca dialettale da confrontare con il tedesco Fingerhut con lo stesso significato, prestito poi adattato al friulano supponendo che la parte del composto -hut sia stata interpretata come un suffisso e sostituita con il suffisso friulano -ûl. Qualche tedeschismo può essere entrato in friulano attraverso lo sloveno; tale mediazione può essere esemplificata da una voce come pec ‘fornaio’ dallo sloveno pek a sua volta dal tedesco Bäcker, o da chibla (dell’area goriziana) ‘secchio’ da kîbla a sua volta dal tedesco Kübel. Incerto il tramite per il friulano comat ‘collare del cavallo’ di cui si hanno attestazioni già antiche (cf. Piccini 2006) e per il quale si può risalire al medio alto tedesco KOMAT (a sua volta prestito dallo slavo del XII secolo) o anche allo sloveno komát; invece la presenza della stessa voce anche nei dialetti veneti settentrionali (comàcio, con sostituzione di suffisso) e ladino-centrali si riconduce al tedesco (cf. DESF). Un gruppo di prestiti tedeschi si deve ai contatti con il mondo germanofono avvenuti nel corso dell’emigrazione solitamente stagionale. Gli emigranti friulani svolgevano varie attività tra le quali il lavoro nelle ferrovie, di qui l’ingresso di parole come asimpon (tedesco Eisenbahn, Eisenbahner, attraverso una pronuncia tirolese) che in friulano assume anche l’accezione di ‘uomo inselvatichito’ oltre a quella di ‘emigrante (periodico)’ attestato in varietà venete, sine ‘rotaia’ (dal tedesco Schiene). Significativa parola è bintar che in friulano vale ‘vagabondo, scioperato’; si tratta di un’evoluzione di significato dal tedesco Winter(arbeiter) ‘(operaio) invernale’, attraverso la designazione dell’emigrante stagionale il quale, avendo sperperato il guadagno del lavoro estivo, non ha soldi per rientrare ed è costretto a passare l’inverno all’estero. Tedeschismi entrati più di recente sono parole come befel ‘ordine’ (tedesco Befehl), russac ‘zaino da montagna’ (tedesco Rucksack), alustic o lustic ‘allegro’ (tedesco lustig), spolert ‘cucina economica’ (tedesco Sparherd). Alcune voci si configurano come «tedeschismi asburgici», vale a dire prestiti giunti attraverso la dominazione austriaca nel territorio, e sono più frequenti in area goriziana (e isontina o sonziaca in genere) per ragioni storiche: il territorio goriziano, infatti, è appartenuto a lungo alla Casa d’Austria (dal 1500 al 1918). Si tratta di parole del tipo placat ‘manifesto, epigrafe’, rons ‘zaino, sacchetto per portare il cibo’ (da Ronzen forma dialettale per il tedesco Ranzen ‘zaino’), chifel ‘pane a forma di mezzaluna’ (tedesco Kipfel ‘cornetto’, ‘specie di dolce’) ed altri, caratteristici dialettalismi isontini.

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1.5 Slavismi Un altro importante filone di prestiti in friulano è dato da slavismi entrati con gli insediamenti di genti slave (contadini sloveni) per lo più intorno al X –XI sec. nella pianura friulana chiamate dai Patriarchi di Aquileia per coltivare le terre. Tali insediamenti (poco numerosi e sparsi nel territorio) sono stati rapidamente assorbiti dalle comunità neolatine, ma le tracce restano soprattutto nella toponomastica. Tuttavia infiltrazioni slave nel territorio friulano sono datate ben prima del X sec. (cf. Francescato/Salimbeni 1976, 337) ed è verosimile supporre anche qualche episodio di un’immigrazione più tarda. Un’altra rilevante modalità di ingresso di slovenismi in friulano è dovuta ai rapporti tra friulano e realtà slovenofone che sono varietà in contatto lungo la fascia orientale del Friuli (↗6.1 Sloveno). Gli slavismi del friulano in parte saranno «Reliktwörter» da collegare agli insediamenti di coloni, in parte prestiti entrati per altre circostanze; sono voci relative a settori quali la geonomastica, la fitonimia, l’agricoltura, nomi di strumenti, di cibi tradizionali (cf. Pellegrini 1992). Fra questi sono ampiamente diffusi in friulano (come risulta anche dai dati dell’ASLEF) pustot e pustote ‘terreno non coltivato, abbandonato’ dallo sloveno pustota, con l’aggettivo pust ‘deserto, incolto’, prestito che si rintraccia anche nel Veneto e che in Friuli è ben rappresentato anche nei nomi di luogo (specie microtoponimi). Anche il tipo lessicale jeche o jecle ‘aiuola, piccolo spazio di terreno spianato e coltivato ad orti’, dallo sloveno leha, è piuttosto diffuso nelle diverse varietà del friulano, anche in quella occidentale. Altre voci di origine slovena ben note in friulano sono cespe, sespe ‘susina’, cernicule ‘mirtillo’, triscule ‘fragola’, cos ‘paniere, cesta’, britule ‘coltello a serramanico’ (anche questa è parola che si trova nel veneto) etc. Altre voci sono entrate successivamente attraverso contatti slavo-friulani, ma in genere sono di diffusione ristretta ad aree limitrofe, in particolare Gorizia e vicinanze, caratterizzate dal bilinguismo sloveno-friulano. Tra gli slavismi che interessano l’area goriziana vi sono, ad esempio, clanz ‘viottolo di campagna’ (sloveno klanec ‘salita, valico’), sliva ‘(sorta di) susina’ (da sliva), clabuc ‘cappello’ (da klobuk).

1.6 L’influsso del veneto e dell’italiano Nel lessico friulano sono presenti venetismi di vario tipo che possono essere giustificati dal contatto geografico col veneto e che si infittiscono specie nel friulano occidentale; un’altra modalità di penetrazione di venetismi è dovuta al prestigio – durato diversi secoli – del veneto, e del veneziano in modo particolare, manifestatosi anche attraverso la presenza del veneto coloniale, nei centri urbani friulani a seguito della conquista del Friuli da parte di Venezia (1420, ↗6.3 Veneto). L’influsso esercitato dal veneto non riguarda solo il lessico, ma anche elementi diversi come la perdita dell’opposizione quantitativa delle vocali in area occidentale e goriziana ed ha concorso perciò alla maggiore differenziazione di aree dialettali nel territorio friulano (cf. Francescato 1966).

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La penetrazione lessicale a partire dal veneziano – facilmente individuabile in vari casi per ragioni linguistiche, culturali o storiche – ma talvolta meno facilmente dimostrabile, spesso investe non solo il friulano, ma buona parte dell’Italia settentrionale; può esserne un esempio il termine missete ‘sensale’ ma specialmente ‘paraninfo’, missete di matrimonis, che deriva dal greco mesetes ‘intermediario, mediatore, sensale’, voce che è giunta a Venezia e poi si è diffusa nel veneto e varietà limitrofe. I venetismi lessicali si infittiscono a partire dal XV sec. e si tratta non solo di neologismi (come gazete ‘moneta’ e ‘giornale’), ma anche di parole che si affiancano o sostituiscono voci preesistenti come vecjo ‘vecchio’ come termine generico che si aggiunge alle voci friulane vieli ‘vecchio’ (dal latino VETULUS ) detto di persone, vieri (dal latino VETERE ) detto di cose (interessante notare che in qualche dialetto il vieli è il ‘suocero’, la viele è la ‘suocera’). Anche nei testi friulani antichi si possono rilevare queste presenze: nel quaderno del notaio cividalese Odorlico (sec. XIV , cf. Vicario 1998) figura luyo (in testi coevi si trova anche luglo, lugl) per ‘luglio’ che mantiene la -o finale di contro alla forma moderna lui; questa parola soppianta col tempo il friulano seseladôr (dal latino *SICILATORIUM , da SICILIS ‘falce messoria’) letteralmente ‘(il) mietitore’ ben attestato nei documenti antichi (a. 1380: in seselador) e non continuato nella lingua moderna. Il veneto (propriamente si tratta del veneto coloniale di base veneziana) è anche tramite per l’ingresso di altri forestierismi in friulano. È il caso dei francesismi, che raramente sono prestiti diretti in friulano ed hanno una accertata o presunta mediazione veneziana, tra questi bisù ‘alcunchè di grazioso, riferito specialmente ai bambini: al è come un bisù’ (dal francese bijoux ‘gioiello’), burò ‘cassettone colla parte superiore a stipo’, buinegrazie ‘palchetto sopra le finestre o le porte, da cui pendono i tendaggi’ (dal francese bonne grâce ‘tenda stretta che cade lungo le colonnine del baldacchino’). In alcuni casi italianismi meno recenti entrati in friulano possono essere invece venetismi, ad esempio ripôs per polse, ocjade per voglade, autun che sostituisce siarade (propriamente ‘serrata’, con allusione alla chiusura della stagione) o sorunviâr, o il più raro e popolare atom (dal latino ATTUMNUS , variante di AUTUMNUS ) che per lo più veniva usato per designare il mese di ‘ottobre’, anche questa voce ormai sostituita da otubar, anche otobre, otobri, forme colte che costituiscono adattamenti di ottobre. Può essere interessante richiamare, a proposito di storia del lessico friulano, il fatto che dal latino OCTOBER , attraverso octobre > *oto(v)ri, derivano invece le voci friulane antiche e disusate otor, otò ‘ottobre’, un’attestazione di Cividale del 1480 menziona «Adi 26 d’otor» (NP). Altre parole risultano ormai sostituite nel parlato da venetismi e/o italianismi, come gramatiche ‘grammatica’, un cultismo che ha sostituito una forma popolare gramadia attestata già nel friulano trecentesco di Cividale (cf. Benincà/Vanelli 1998); talvolta rimangono come parole dello scritto, prevalentemente di uso letterario, dove c’è una ricerca più o meno consapevole della parola ricercata, rara, arcaica etc. Si può menzionare, ad esempio, il caso del termine primevere rispetto all’arcaico e letterario viarte.

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In genere i prestiti (dal veneto, dall’italiano) mostrano tratti – specie fonetici – che depongono a favore di un’acquisizione del termine. Ad esempio nella designazione del concetto ‘nebbia’ è utilizzato caligo nel friulano occidentale, rispetto a fumate (da *FUMATTA da FUMUS ) prevalente nel friulano centro-orientale e carnico, dal latino CALIGO senza l’attesa palatalizzazione friulana e dunque considerato un venetismo, è interessante rilevare la presenza del prestito anche in taluni luoghi dove ‘nebbia’ si dice fumate, ma con il significato di ‘intensa afa estiva’. Talune voci mostrano un’oscillazione nell’adattamento al friulano come gambâl ‘gambale’ con la variante adattata gjambâl, garbin ‘garbino, vento rigido, asciutto, tagliente’ anche gjarbin, caserme, cjaserme ‘caserma’, camisole ‘giacca, corpetto’ rispetto a cjamese ‘camicia’, caregon rispetto a cjadreon ‘seggiolone, a braccioli’, coresime ‘quaresima’ rispetto a cuaresime, che mostra l’evoluzione popolare di QUA -. In altri casi il prestito convive come cultismo accanto alla forma popolare, per esempio musiche ‘musica’ rispetto a sunade. All’influsso del veneto si è affiancato e sostituito progressivamente l’italiano. Per il sempre maggiore contatto friulano-italiano, per la diffusione dell’italofonia nel territorio, aumentano gli italianismi in friulano e la loro acquisizione diretta e non mediata dal veneto; l’italiano è anche tramite di vari forestierismi (tra cui anglicismi e angloamericanismi) che entrano in friulano. Un aspetto rilevante del rapporto italiano-friulano è la necessità di dotare quest’ultimo di uno standard lessicale che sia in grado di rapportarsi alla lingua nazionale in ogni situazione comunicativa. Scorrendo il dizionario bilingue italiano-friulano (GDBtf), da poco pubblicato (2011), si possono rilevare forestierismi dell’italiano che entrano in friulano, per quanto non manchi il tentativo di rendere diversamente il termine, p. es. mountain bike è tradotto con bici di mont (anche Nazzi 22005 aveva proposto bicidimont con grafia univerbata), ma si accetta anche mountain bike, per mouse oltre al prestito si suggerisce la traduzione con surîs, leader è tradotto con cjâf o resta leader; il termine gastronomico mousse rimane tale. Un atteggiamento da rilevare è il tentativo di normalizzare anche voci che ormai sono in uso da tempo nella forma del prestito non adattato dall’italiano, è il caso di mutuo e treno che sono le forme usate nel parlato, normalizzati con mutui e tren, per ‘mutuo’ si trova pure imprestance, ‘aereo’ è reso con avion di contro a aparechio dell’uso comune, e per computer si propone computêr (non la dizione corrente [komˈpjuter]) o ordenadôr (cf. Nazzi 22005; GDBtf).

2 Formazione delle parole 2.1 Premessa La formazione delle parole in friulano è oggetto di un capitolo della grammatica di Marchetti basata sulla koinè (cf. Marchetti 41985, 133–170); contributi di riferimento sono Benincà (1989, 578–580) e Vanelli (2007, 106–112). Come osserva Benincà (1989, 563), la morfologia derivazionale in friulano

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«non presenta particolari problemi o specificità salienti in quanto, per quello che riguarda la formazione delle parole, tranne alcuni relitti, essa si allinea con la generalità delle lingue romanze; si hanno invece alcune tipiche scelte lessicali di formativi caratteristici».

2.2 La suffissazione La suffissazione descritta da Marchetti (41985, 133–149), è studiata da De Leidi (1984; pubblicazione postuma della tesi di laurea del 1956) che muove da un’interpretazione etimologica e offre indicazioni relative alla produttività dei suffissi esaminati, con una suddivisione in suffissi nominali, verbali e avverbiali, considerando anche varianti dotte o forme mutuate dall’italiano e/o dal veneto. Parole formate con suffissi solitamente appartengono a una categoria lessicale diversa rispetto a quella della base o parola semplice, ma si possono formare anche parole che abbiano la stessa categoria. I suffissi alterativi non modificano la categoria grammaticale delle basi che possono essere nomi, aggettivi, avverbi (tranne quelli formati con -mentri) e verbi. L’aggiunta del suffisso può richiedere degli aggiustamenti di tipo fonologico, p. es. da pedoli ‘pidocchio’ si ha l’aggettivo pedoglôs ‘pidocchioso’; in altri casi vi possono essere differenze fonetiche tra maschile e femminile, ad esempio dal latino -ELLU , -ELLA , il derivato al maschile ha -e- tonica chiusa, il femminile aperta, ucél < *AVICELLU , gusièle < *ACUCELLA , ma «quando si tratta di prestiti italiani o veneti seriori» anche nei maschili è aperta: ventisèl ‘venticello’ (Marchetti 41985, 145). Il friulano ha molti suffissi e seguendo lo schema proposto da Vanelli (2007) si possono individuare i suffissi che formano: a) aggettivi da basi nominali, come -ôs: cragnôs ‘sporco’ da cragne ‘sporcizia’; b) suffissi che formano nomi da aggettivi, come -etât: bravetât ‘bravura’ da brâf ‘bravo’; c) suffissi che formano avverbi da aggettivi, come -amentri: veramentri da vêr ‘vero’; d) suffissi che formano nomi da verbi (in genere dalla radice o tema verbale), come -dôr: lavoradôr da lavorâ; e) suffissi che formano nomi da altri nomi, come -âr: cjadreâr ‘seggiolaio’ da cjadree ‘sedia’. Uno stesso suffisso può essere aggiunto a basi diverse, p. es. -um può formare un nome da un verbo come in messedum da messedâ, un nome da un aggettivo come negrum da neri. Anche il friulano è interessato dal cumulo di suffissi, come in lengonate detto di ‘donna cattiva e linguacciuta’, casselin ‘cassettino’, matussel ‘pazzerello’, stradonat ‘strada in cattivo stato’ etc. e dalla presenza di interfissi (o antisuffissi): verdulin, plovisine, bueresine etc. Per quanto riguarda i diversi suffissi in friulano si rinvia a Marchetti (41985) e specialmente a De Leidi (1984), qui di seguito ci si sofferma su qualche caso particolare. Si segnala come tipico l’uso di suffissi «per modificare l’Aktionsart della radice verbale» (Benincà 1989, 579), che sottolineano un’azione ripetuta ma in modo più debole o attenuato o non svolta correttamente, in particolare si tratta dei suffissi -inâ: murusinâ ‘amoreggiare’, ma specialmente ‘amoreggiare facilmente con l’uno o con

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l’altro’ (NP) da morosâ ‘amoreggiare’; -ignâ: gutignâ che allude a un gocciolare debolmente da gotâ ‘gocciolare’; -içâ: durmiçâ ‘dormicchiare’ da durmî ‘dormire’; -uçâ: vivuçâ ‘vivacchiare’ da vivi ‘vivere’: -ulâ: vivulâ da vivi. Tra i suffissi più frequenti vi è -on che, come accrescitivo, si aggiunge a nomi come in omenon, ad aggettivi grandon etc., ed anche avverbi benon (avverbio) e verbi a cui assegna un carattere intensivo, iterativo, come in fevelonâ ‘parlare molto o con enfasi’ da fevelâ, in espressioni quali mi plasone ‘mi piace assai’, si à ridonât ‘s’è molto riso’, al vajonave ‘piangeva forte’ etc. (cf. Marchetti 41985, 150). Da notare la formazione del superlativo assoluto: grandon ‘molto grande’, sioron ‘ricchissimo’, anche con reduplicazione del suffisso che ne intensifica il valore: grandonon, bielonone. Anche in friulano gli alterati con questo suffisso possono mostrare un cambio di genere: strade – stradon, puarte – puarton. Si ritrova poi nella formazione di denominali o deverbali per indicare caratteristiche peculiari come in cjavon ‘testone’ da cjâf, bevon ‘beone’ da bevi. In alcuni casi ‑on si trova unito a nomi e può dare origine «ad avverbi che si riferiscono a posizioni o atteggiamenti del corpo» come in zenoglon, -ons ‘ginocchioni’ (da zenoli ‘ginocchio’), come osserva Benincà (1989, 579) richiamando per l’uscita -ons un possibile plurale come nell’italiano toscano -oni, osservando, però, che talune formazioni, come la locuzione avverbiale a fons ‘a fondo’, non paiono plurali per cui si può supporre che -s sia stato usato per un certo tempo come morfema avverbiale; il friulano a fons si confronta, ad esempio, con il veneziano antico a fondi ‘a fondo’ (per la questione circa l’origine di tali forme si veda ora Formentin 2004). Il suffisso -on si riconosce anche in deverbali «per indicare l’azione nominalizzata» (Benincà 1989, 579; cf. anche Heinemann 2002) come in sburton ‘spintone’ da sburtâ ‘spingere’, con il deverbale sburt ‘spinta’, che non ha sempre un senso accrescitivo, non si riferisce alla spinta in sé ma all’atto di spingere, al pari della derivazione con il suffisso -ade in sburtade, nonché sburtart del friulano antico, come precisa NP. In quest’ultima parola si riconosce un altro interessante suffisso che deriva dal germanico -HART e che in friulano assume un valore assente nelle lingue romanze nelle quali è entrato, come osserva Benincà, e se la sua funzione è ovunque quella di sottolineare una qualità particolarmente evidente o intensa (si aggiunge, infatti, normalmente ad aggettivi, raramente a sostantivi con valore peggiorativo), «in friulano si aggiunge a temi verbali per formare nominalizzazioni» come in cjalart ‘guardata’ da cjalâ ‘guardare’, sclipart ‘spruzzata’ da sclipâ etc.; tale suffisso in questa sua funzione, la cui origine è stata variamente interpretata, si deve confrontare col suffisso -on «che ha avuto un identico passaggio, dall’evidenziazione di una qualità (mangione ‘che mangia molto’, nasone ‘che ha un grande naso’ ecc.) alla formazione di nominalizzazioni deverbali (urtone < urtare, scivolone < scivolare, ecc.)» (Benincà 1989, 579),

procedimento che in friulano ha visto assai produttivo -art, in concorrenza col suffisso -ade (sburtade etc.). Dei diversi suffissi con valore diminutivo, il più caratteristico in friulano è -ut; assai frequente e vitale, si aggiunge a nomi, claput ‘sassolino’, omenut ‘ometto’,

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aggettivi, cliput ‘tiepidino’, con i quali «determina spesso il valore di comparativo assoluto»: lameut ‘alquanto sciapo’, cjarute ‘piuttosto alta di prezzo’ etc., avverbi a plancut ‘adagino’, e in qualche voce verbale «cui dà un senso iterativo»: al sbisiutave da sbisiâ ‘frugare’ (Marchetti 41985, 143s.). Ha valore diminutivo il suffisso -us non più vitale ma ampiamente attestato nel friulano antico in particolar modo nell’antroponimia (e di conseguenza ben presente negli attuali cognomi friulani Vidussi, Andreussi, Colussi etc.), con il femminile -us o -usse, p. es. Anus o Anusse da Anna (cf. Corgnali 1934). In genere è considerato variante di -uç, -uz (latino -UCEUS ), ma solo in parte sarebbe tale e dunque da affiancare all’ipotesi di un suffisso antico -USIUS con originario valore di patronimico parallelo ad -ASIUS di provenienza celto-latina attestato per gentilizi nel Veneto e attraverso -AISUM > -esso rappresentato da cognomi veneti (per es. Carlesso, cf. Pellegrini 1981, 7). La discussione intorno all’origine di -us va collegata alla presenza e all’origine di -as, suffisso tipico in friulano nella formazione di aggettivi etnici come venzonas, glemonas e altri (cf. Marcato/Puntin 2008), ritenuto esito del latino -ACEUS e quindi variante di -aç, -az (italiano -accio, -azzo), ma verosimilmente da accostare al citato -ASIUS . Da rilevare la presenza, per quanto limitata a pochi casi, del suffisso latino -ICOSUS come in AMARICOSUS da cui il friulano mareôs ‘amaro’ che concorda con il sardo maricosu ‘amaro’ e anche ‘rancido’ e l’istrioto (Rovigno) zmaragoso; in friulano il suffiso si ritrova in voci come dulinziôs ‘intollerante d’ogni lieve dolore’, dolzeôs ‘dolce’. Tra i suffissi che si devono a un contatto con altre varietà, è da menzionare il caso di -eo di cui s’è occupato Francescato (1991, 229–239; il suffisso non è considerato da De Leidi 1984) che compare in alcune parole come in ranganèo ‘il grugnire continuato dei maiali’; tale suffisso è entrato in friulano sul modello dell’italiano -eo variante di -io (in parole come piagnisteo, mormorio) che danno un valore di intensificazione o insistenza.

2.3 La prefissazione In friulano le parole formate mediante prefissazione interessano più di frequente i verbi, con vari casi di parasintetici, formazioni da aggettivi e nomi prefissati che diventano verbi (cf. Marchetti 41985, 137–142; Vanelli 2007, 109s.). La formazione più ricorrente e più vitale è quella con il prefisso dis- «nel senso che, perdurando chiaro nella coscienza popolare il suo significato di mancanza o cessazione, è sempre possibile formare con esso nuovi composti» osserva Marchetti (41985, 141) elencando vari esempi e notando che dis- tende a ridursi a s- (specie nel friulano centrale), p. es. da frêt ‘freddo’ > disfredâsi e sfredâsi. Frequente è anche ricon valore iterativo: ribati, rimontâ etc., per quanto si rilevi la sua sostituzione con tornâ a, p. es. tornâ a viodi ‘rivedere’, tornâ a passâ ‘ripassare’ etc. Ricorrente è anche il prefisso in-, p. es. incolorî ‘colorire’, imprestâ ‘dare a prestito’ etc., anche in luogo di

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altri prefissi, come in inviâsi ‘avviarsi’; talvolta a in- con valore privativo il friulano preferisce il prefisso avverbiale mal-: malmadûr ‘immaturo’, malpajât ‘inappagato, mortificato’ etc., o dis-: disutil ‘inutile’, discomodâsi ‘incomodarsi’ etc. Il prefisso incon valore positivo si oppone a dis- con valore contrario in varie coppie di verbi: invuluçâ ‘avvolgere’ e disvuluçâ ‘svolgere, aprire svolgendo’.

2.4 La composizione La composizione in friulano, descritta da Marchetti (41985, 133–137) e documentata in una tesi di laurea di Munari (1955–1956), è oggetto di una classificazione dei diversi tipi in un contributo di Marcato (1986); trattano della composizione anche Benincà (1989, 579s.) e Vanelli (2007, 110–112). Sostanzialmente la tipologia non si discosta da quella romanza e italoromanza, con la presenza di unità polirematiche e di un certo numero di antiche parole composte, alcune già del latino, che sono cristallizzate e che il parlante non riconosce come tali, talvolta forme desuete come prindi ‘lunedì’, in origine prindì cioè ‘primo dì’, con ritrazione dell’accento (cf. Vanelli 1995), o anche pan-prendi ‘refezione, pranzo’ (in Marchetti 41985, 136 da PANEM PREHENDERE ) che Benincà (1989, 579) interpreta come un composto nome + nome, con prendi che pare un infinito sostantivato col significato di ‘mangiare, pasto’. Secondo Marchetti «il friulano è piuttosto scarso di voci composte e ben raramente ne compone di nuove» (41985, 133) e ne sottolinea la frequenza nel lessico botanico e zoologico. Tuttavia, in parte come calco sull’italiano, varie forme composte si configurano come neologismi introdotti di recente nello standard friulano, del tipo segnefiere ‘termometro’ (Nazzi 22005; GDBtf), frucelate ‘apriscatole’ (Nazzi 22005); il composto con verbo transitivo e nome (complemento oggetto) è il più produttivo, con il verbo a forma ridotta, non distinguibile dall’imperativo: ucefuarpis ‘arrotino’ (‘aguzza forbici’), sglonfebò ‘colchico autunnale’ (‘gonfia il bue’), svuarbecjavai ‘libellula’ (‘acceca cavalli’), spadepurcitis ‘norcino’ (‘castra scrofe’) etc. La formazione di parole per composizione rapporta diversamente gli elementi lessicali (nomi, aggettivi, verbi, avverbi) tra loro, p. es. marilenghe si interpreta ‘lingua che fa da madre’, con una relazione appositiva-predicativa, marimadone vale ‘una madre che è madone’ (friulano madone ‘suocera’) con l’elemento predicativo al secondo posto. Le formazioni nominali da composizioni nome + nome non sono molto frequenti e seguono l’ordine testa – modificatore, con funzione di attributo, ue-ribis ‘uva spina’ (‘uva ribes’), o complemento, jerbe-strie ‘latte di gallina’ (‘erba (della) strega’); dell’ordine a sinistra (modificatore – testa) vi sono pochi esempi per lo più letterari o relitti, come teremot ‘terremoto’. I composti più produttivi sono quelli per giustapposizione, «nei quali non si può propriamente individuare un modificatore e un modificato in una struttura gerarchica: il secondo elemento precisa il significato del primo ma designano ambedue il referente» (Benincà 1989, 580) come jarbe-pive ‘panicastrella, erba-piva’ etc.

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Frequenti in friulano anche i composti con sintagma preposizionale, del tipo rose di madrac ‘primula’ (letteralmente ‘fiore di serpente’), arc di san marc ‘arcobaleno’ (‘arco di san Marco’), cîl de bocie ‘palato’ (‘cielo della bocca’), fildifier ‘filo metallico’, montafin ‘finimondo’ (‘mondo a(lla) fine’), disdevore ‘giorno di lavoro’, bondinuie ‘buono a nulla’, cjadaldiaul ‘baccano, trambusto’ (‘casa del diavolo’) anche nella locuzione a cjadaldiaul ‘lontano’ etc. Quanto alla formazione del plurale, nei composti endocentrici in genere è la testa a dare l’indicazione di plurale, marilenghe/marilenghis, aghe di vite ‘acquavite’/aghis di vite, e se la testa è modificata da un aggettivo, questo è solitamente concordato al plurale, buineman/buinismans; in quelli esocentrici si possono avere due comportamenti: a) non sono flessi al plurale, ciò accade sempre se il secondo elemento è già plurale, gjavestropui ‘cavaturaccioli’, o è femminile e il composto è maschile, clameploe ‘occhione (Oedicnemus crepitans Tem.)’ letteralmente ‘chiama pioggia’, b) si flette al plurale il secondo elemento del composto, sotgole/sotgolis, pareman/paremans, forepiere/forepieris (cf. Vanelli 2007, 112).

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11 Toponomastica e antroponimia Abstract: Nel sistema onomastico friulano, sia quello antroponimico sia quello toponomastico, bisogna distinguere in generale fra il sistema ufficiale in lingua italiana e quello popolare in lingua friulana. La forma ufficiale italiana di nomi, cognomi e toponimi è sorta in un ambiente linguistico friulano, trascrivendo e spesso italianizzando – in tutto o in parte – la forma orale friulana, cioè adeguandola al sistema ortografico e fono-morfologico della lingua italiana. Nell’uso orale, invece, si mantengono più spesso le forme friulane della tradizione locale: es. Cividale del Friuli/Cividât, Luigi Rossi/Vigji dai Ros. Frequenti sia nella toponomastica sia nell’antroponimia friulana sono gli elementi di origine germanica e slava, dovuti alle vicende storiche e ai secolari contatti con queste lingue. Keywords: onomastica, antroponimia, toponomastica

1 Generalità 1.1 Studi toponomastici in Friuli Il Friuli può vantare una precoce e fertilissima tradizione di raccolte e di studi toponomastici: il glossario del conte Antonino di Prampero (1882), le inchieste degli anni Venti e Trenta del ’900 promosse dalla Società Filologica Friulana (svolte soprattutto da Lodovico Quarina), lo schedario toponimico e i contributi di Giovan Battista Corgnali, gli studi di Angelico Prati, Giovan Battista Pellegrini, Giovanni Frau, Cornelio Cesare Desinan, etc. Negli ultimi decenni l’interesse si è ulteriormente incrementato, coinvolgendo un numero sempre maggiore di ricercatori, associazioni culturali e amministrazioni locali, con la proliferazione di raccolte, articoli, saggi e di iniziative di salvaguardia e valorizzazione. In questo ambito di ricerca la nostra regione si colloca senz’altro ai primi posti in Italia per numero di pubblicazioni, di conseguenza la bibliografia toponomastica friulana ha assunto ormai dimensioni enormi e decine di nuovi titoli vi si vengono ad aggiungere ogni anno. Si veda a proposito il Compendio di bibliografia per la toponomastica friulana di Ermanno Dentesano, aggiornato al 2006. Un repertorio della toponomastica friulana è costituito da Finco (22005). È attualmente in fase di studio un progetto di raccolta generale e schedatura di tutto il patrimonio toponimico orale della regione da parte della Società Filologica Friulana e dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, denominato Atlante toponomastico del Friuli Venezia Giulia (ATFVG).

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1.2 La ricerca toponomastica in Friuli L’interpretazione etimologica dei nomi di luogo e lo studio della loro diffusione e trasformazione contribuiscono a far conoscere le vicende linguistiche, storiche, sociopolitiche, economiche e religiose di un territorio, ma altresì consentono di ricostruire il paesaggio locale nelle epoche passate, la sua trasformazione e il suo diverso sfruttamento. Si pensi ad esempio a nomi come Orsària/Orsarie e Lovària/Lovarie, che documentano l’antica presenza di orsi e lupi nella pianura friulana. Gli abitati di Selva di Giais, Selvis, Selvùzzis/Selvucis, Silvella/Sunvièle, Sottoselva/Sosselve con i loro nomi ricordano l’esistenza in passato di selve e boschi, laddove oggi troviamo caseggiati, campagne coltivate o capannoni industriali. Così anche i vari centri abitati chiamati Roveredo/Lavorêt o Lavoréit, Colloredo/Colorêt e Nogaredo/Nearêt o Narêt traggono il loro nome dalla fitta presenza – in passato – di roveri, noccioli e noci, rispettivamente dal lat. ROBORĒTUM , CORYLĒTUM , *NUCARĒTUM (dal tardo lat. NUCĀRĬUS ). Nomi come quelli di Cordenòns (897 Naones corte regia, 1029 Cortis Naonis) e Cordovado/Cordovât (1226 cort de Vat) risalgono alla corte alto-medievale (lat. mediev. curtis), cioè il complesso di beni fondiari del signore con le case, le fattorie e la residenza dominicale o il castello. Nel primo caso la corte era ubicata sul fiume Naone (oggi Noncello/Nunsièl), nel secondo era sita presso un guado (lat. VADUM ). L’analisi toponimica fornisce quindi preziose informazioni non solo per la storia linguistica, ma anche per altri àmbiti di ricerca: geografia fisica, antropica, regionale e urbana, botanica, zoologia, storia generale, sociologia, diritto, storia religiosa, antropologia culturale, etnologia, etc.

1.3 Stratificazione toponimica 1.3.1 Toponimi prelatini La toponomastica del Friuli è ricca di stratificazioni linguistiche: ogni popolazione che nel corso dei secoli si è insediata nella nostra regione ha lasciato delle tracce – più o meno numerose – nei nomi di luogo. In particolare i nomi dei fiumi conservano le denominazioni più antiche, molto spesso prelatine. Prima della colonizzazione romana il territorio dell’attuale Friuli era popolato da stirpi celtiche (galliche) e venetiche. Al nome della tribù dei Galli Carni (dal celt. CARN - ‘mucchio di pietre’ o ‘corno’) risale il nome della Carnia (friul. Cjargne), ma anche quello della Carniola slovena (slov. Kranjsko, ted. Krain, friul. Cragn). Allo strato linguistico celtico risalgono diversi toponimi della nostra regione: Vendoglio (friul. Vendoi) deriva da *VINDÓIALOS ‘campagna bianca’ oppure ‘campagna di Vindo’ (cf. i vari Vendeuil e Vandeuil in Francia), Nimis (Nemas in Paolo Diacono) probabilmente dal nome del dio Nemausos o del santuario a lui dedicato (cf. Nîmes in Francia, ant. Nemausus), Canal di Gorto (friul. Guart) dal celt. GORTOS ‘luogo chiuso’ e ‘canale’, il fiume Còlvera da *COMBORO COMBOR O - ‘confluenza’ (formato

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appunto dalla confluenza della Còlvera di Raut e della Còlvera di Jouf, cf. Combres in Francia), molti nomi di fiumi terminanti in ‑ò/‑òn(e) derivano dal celt. ONNO ‘fiume, corso d’acqua’, ad es. il Grivò (1336 citra Gravonem … in aquam Gravonis) composto con celt. *GRAVA ‘ghiaia, sabbia’, oppure il Glagnò dal celt. *GLAN ‑ ‘puro, limpido, chiaro’, etc. Nella località la Beligna a sud di Aquileia (friul. la Bilìgna; 1157 de Belenia) probabilmente sorgeva il santuario del dio gallico Belenos (dalla radice *BEL ‑ ‘splendente, luminoso’), dove fu poi eretta una basilica paleocristiana e più tardi il monastero benedettino di San Martino alla Beligna. I toponimi celtici si addensano maggiormente nell’alto Friuli e in Carnia, ma non mancano le occorrenze anche nella bassa pianura.

1.3.2 Toponimi romani I Romani oltre ad Aquileia, colonia dedotta nel 181 a.C. e il cui nome è prelatino, fondarono anche altri centri (I sec. a.C.), spesso in località già abitate precedentemente: Forum Iulii, l’odierna Cividale (friul. Cividât), Iulium Carnicum cioè Zuglio (friul. Zui) e Iulia Concordia ovvero Concordia Sagittària (friul. Cuncuàrdia). Si noti l’insistenza del nome della gens Iulia, che troviamo anche nell’oronimo Iuliae Alpes, Alpi Giulie, dovuta agli interessi di questa famiglia nella nostra regione, in particolare di Cesare e Augusto. Alla colonizzazione romana risalgono i numerosi toponimi prediali, vale a dire quei nomi di luogo derivanti dal nome del podere, del fondo agricolo (lat. PRAEDIUM ), a sua volta tratto da quello della famiglia proprietaria: essi sono derivati dal )/‑‑ ĀNA . Ad esemgentilizio latino (nomen gentilicium) con il suffisso aggettivale ‑ĀNU ( M )/ pio i Marii possedevano il praedium Mariānum, dove oggi sorge l’abitato di Mariano del Friuli (friul. Marian), così anche i Terentii erano proprietari del praedium Terentiānum, dove oggi sorge Terenzano (friul. Terençan). Tali toponimi prediali terminano in ‑àn(o) o ‑àna e in Friuli ne troviamo in gran numero: Aviano/Davian, Azzano/Daçan, Magnano/Magnan, Manzano/Manzan, Morsano/Morsan, Mortegliano/Mortean, Pinzano/Pinçan, Ligugnana/Ligugnane, Muzzana/Muçane, etc. Un gruppo altrettanto numeroso di toponimi termina però in ‑àc(c)o, ‑ìc(c)o (nel Friuli occidentale ‑àgo, ‑ìgo): si tratta di prediali formati con i suffissi di origine celtica (ma presenti anche nel paleoveneto) ‑ĀCU ( M )/ A e ‑ĪCU ( M )/ A (talvolta in forma locativa ‑ĪCĪ sg. o ablativa ‑ĪCĪS pl.), entrati nella morfologia derivativa del latino rustico parlato in loco, producendo soprattutto denominazioni poderali. In questo caso i Martinii erano proprietari del praedium Martiniācum, da cui l’odierno Martignacco (friul. Martignà), mentre i Caballii possedevano il praedium Caballīcum, da cui Cavalicco (friul. Cjavalì). Troviamo poi anche Premariacco/Premariâs, Remanzacco/Remanzâs, Pagnacco/Pagnà, Maniago/Manià, Bicinicco/Bicinins, Ciconicco/Cicunins, etc. I toponimi prediali con questo suffisso si concentrano soprattutto nella pianura medio-alta e nella zona collinare del Friuli. Il grande sistema viario costruito dai Romani ha lasciato chiare tracce nella toponomastica friulana. Tricèsimo (friul. Tresésin) è documentato nell’Itinerarium Antonini (III sec. d.C.) come Ad Tricensimum, un nome latino trasparente perché

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( LAPĬDEM ) significa ‘alla trentesima pietra miliaria’, denominazione della località posta a trenta miglia da Aquileia sulla strada verso il Noricum (parte dell’odierna Austria). Troviamo poi Ad Sextum Sesto al Règhena (friul. Siest; 762 in loco qui vocatur Sexto), Ad Tertium Terzo d’Aquileia (friul. Tiars; 1062 de Tertio) e Terzo di Tolmezzo (friul. Tierç; 1338 de Tercio) quest’ultimo situato a tre miglia da Iulium Carnicum (Zuglio). Altri toponimi risalenti al sistema viario sono Codroipo/Codròip da QUADRŬVĬUM ‘quadrivio, incrocio stradale’ (1247 Quadrubium, 1291 plebanus Quadrobii) e i vari Treppo/Trep da TRIVĬUM ‘trivio’ (Treppo Grande/Trep Grant, Treppo Piccolo/ Trepìçul, Treppo Carnico/Trep di Cjargne, Via Treppo/Borc di Trep a Udine, etc.). I toponimi conservano anche arcaismi latini, scomparsi o sostituiti da altri termini, come ad esempio lat. AGELLUS ‘campicello, poderetto’ in Aiello/Daèl (1202 in Agello), CUSTŌD ĬA ‘posto di guardia’ in Castoia/Castoia o Chestoia di Socchieve (1346 de lat. CUSTŌDĬA Castoia) e Sottocostoia/Sacastòe di Buja (1274 de Subcostoia), l’aggettivo ALBUS ‘bianĪVUS ALBUS co’ in Rivalpo/Ruàlp (Arta Terme) e nel monte Peralba (rispettivamente da RRĪVUS e PETRA ALBA ), etc. AD TRICĒ ( N ) SĬMUM

1.3.3 Toponimi germanici Le diverse stirpi germaniche che s’insediarono in Friuli dopo la caduta dell’impero romano non hanno mancato di dare il loro apporto alla toponomastica locale. Alla dominazione ostrogota (489–555) risalgono toponimi come Gòdia/Godie, frazione di Udine (1170 de Godig, 1171 de Godia) e Godo/Gôt di Gemona (1248 de Got, 1265 de Godo), rispettivamente da (VILLA ) GOTHICA e GOTHUS (cf. Gòdega S. Urbano (TV), Gòdeghe (VI), Gòdo (RA)). Molto produttivo nella toponomastica friulana è il termine beàrç o baiàrç ‘podere attiguo alla casa, terreno cinto da siepe o da muro coltivato come un orto’, che risale al gotico *BI ‑ GARDS ‘luogo recintato’ (bigardium, bagarcium nel latino medievale). Altri insediamenti germanici furono quelli dei Baiuvari o Bavari, alleati dei Longobardi, che diedero il nome a Beivârs (1268 in Bayvars) frazione di Udine, Cuel Baivar a Moruzzo (1400), Bavareschia/Bavarèscje a Fagagna (1395 Bavaresca) (cf. Bavèr, fraz. di Godega S. Urbano (TV)). Più numerosi furono gli apporti dovuti ai Longobardi, che in Friuli costituirono un importante ducato (568–774) situato in una posizione chiave per la difesa dell’Italia nord-orientale. La FĀRA era l’unità fondamentale dell’organizzazione sociale e militare dei Longobardi, essa era costituita da un gruppo compatto di famiglie (legate allo stesso clan gentilizio) ed era in grado di organizzarsi in contingente con funzioni militari di esplorazione, attacco e occupazione di territori durante le grandi migrazioni. Questo termine ha dato origine ai toponimi di Farra d’Isonzo/Fara, Ca’ Farra/Cja FARŬLA ŬLA ) e Fare di Ragogna e – in forma diminutiva – a Farla/Farle di Majano (da FAR Farella/Farela di Aquileia. Il termine braida indicava una ‘campagna larga, vasta’ ed è termine imparentato col tedesco breit e l’inglese broad ‘largo’; oggi il friulano bràide significa ‘campagna o poderetto presso casa’, ma in passato indicava il campo aperto

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dove si esercitava una coltivazione estensiva e ha prodotto moltissimi microtoponimi in tutta la regione. Anche il longobardo *GAHAGI ‘bosco recintato, terreno riservato, bandita’ (gahagium nell’Editto di Rotari, termine imparentato col ted. Gehege ‘riserva di caccia, recinto’) compare in molti nomi di luogo friulani: Gaio/Gjai di Spilimbergo (1174 de Gayo, 1182 Gaium), Giais/Gjais di Aviano (1187 de Gallis), Giai/Gjai di Annone e di Gruaro, etc.; ad essi corrispondono i tipi Gazzo, Gaggio, Cafaggio in altre regioni italiane. Alcuni toponimi risalgono ad antroponimi longobardi, come Richinvelda (1350 prope Arichivelt, de Richinveldo) cioè la campagna (*felða) di Arichis, oppure Chiòpris/Cjopris (1230 Teupris, 1338 Tieupris … Tyopris, 1466 de Chiopris) da *THEUD ( O ) FRITH S . FRITHS In epoca longobarda Forum Iulii (Cividale) diventò il capoluogo del ducato e il suo nome si estese all’intero territorio regionale (ducatus Forijulii) che dunque fu chiamato Friuli/Friûl, mentre la città venne denominata Civitas Austriae ovvero la ‘città dell’est’ (Austria è la forma latinizzata dell’espressione germanica che indicava l’est, la parte orientale del regno longobardo). Dal lat. CIVITĀTE ( M ) proviene direttamente il friul. Cividât, ma il nome italiano Cividale risale alla variante veneta Cividàl.

1.3.4 Toponimi slavi All’incirca tra IX e XI secolo alcune zone della pianura friulana furono ripopolate e rimesse a coltura da coloni slavi (gli sclavones dei documenti medievali), provenienti dalle vicine Carantania e Carniola, regioni oggi corrispondenti alla Slovenia occidentale e alla Carinzia. Tale immigrazione è testimoniata dall’etnonimo conservato nei nomi di Sclavons di Cordenons (1480 Sclavonsii) e di Schiavói di Sacile (loc. Sčavói; 1341 in Sclavoy), e come attributo nelle attestazioni medievali di altri villaggi: S. Maria la Longa (1031 villa Sclavorum que similiter dicitur Meleretum), Medea (1294 Midea sclabonicha, 1310 Midea sclabonica), Versa (1275 in Versia Sclavica, 1276 villa Versia Schlauonica), San Vito al Torre (1311 Sanctus Vitus de Sclabonibus prope Agellum), Basiliano (1288 Paseano Sclauonesco, 1301 Pasillano Sclavanech, 1337 Paselyan Sclabonich), etc. Oltre a Gorizia/Gurìza (1001 medietatem unius ville que sclavorum lingua vocatur Goriza, da gorica ‘monticello’), posta sul confine linguistico slavo-romanzo, troviamo un gran numero di toponimi di origine slovena nella pianura friulana fino ai confini col Veneto: Goricizza/Gurissìs (1311 de Goriçiça, 1320 Guriziza) risale a goričica ‘montagnola’ (da GORA ‘monte’ con doppio suffisso diminutivo); Belgrado/Be(l)grât ĚL Ъ ‘bianco’ e GRAD GRADЪ Ъ ‘castello’ (1139 in loco qui dicitur Velgradu, 1150 Belgradum) da BBĚLЪ (anticamente ‘luogo recintato’); i vari Gradisca/Gar-Grediscje e Gradiscutta/GardGrediscjute (Gradisca d’Isonzo: 1160–82 in loco qui dicitur Gradisca, 1176 Gradisca; Gradisca di Spilimbergo: 1190 in Gradisca, 1204 in villa Gradisca) provengono da GRAD Ъ ); Ialmicco/Jalmic (1120 ca. in villa gradišče ‘villaggio fortificato, castelliere’ (da GRADЪ de Jamnich) da jamnik (derivato da JAMA ‘fossa, cavità’); Sammardénchia/Samardéncje SM Ь RDĘT ’ A ‘maleodoran(1174 villam Samardengham) del participio presente arcaico *SMЬ

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te’ riferito ad acqua; Lonca/Lonche (1311 de Loncha) da LǪKA ‘prato acquitrinoso’; PR ĚXOD Ъ ‘passaggio, guado’ sul fiume Torre, etc. Percoto/Percût (1184 de Percoto) da PRĚXODЪ

1.3.5 L’espansione medievale La messa a coltura, tramite dissodamenti e bonifiche, di zone sempre più vaste della regione riprese nel IX – X secolo, proseguendo poi nel basso medioevo. Il disboscamento e la messa a coltura del territorio sono testimoniati da toponimi come Ronchi, Ronchis/Roncjis, Ronchiettis/Roncjètis, Roncs, Roncada/Roncjade, etc. (derivati dal lat. RUNC ĀRE ‘sarchiare’) o dai vari Fratta/Frate e Frattis/Fratis (dal lat. [SILVA ] FRĀCTA RUNCĀRE ‘selva abbattuta’). Con la progressiva estensione dei coltivi, lo sfruttamento di aree sempre più vaste (prati, boschi etc.) e la crescita demografica, sorsero nuovi centri abitati, per iniziativa signorile o per gemmazione spontanea da un villaggio vicino. In molti casi questi nuovi borghi assunsero il nome di villa nova, cioè ‘villaggio nuovo’, da cui le tante Villanova/Vilegnove del Friuli: Villanova dello Iudrio, Villanova delle Grotte, Villanova di Chiusaforte, di Farra, di Fossalta, di Lusevera, di Pordenone, di S. Daniele, di S. Giorgio di Nogaro, etc. Anche molti altri paesi con nome composto da villa sono sorti in questo periodo: Villalta, Villafranca, Villafredda, Villotta, Villutta etc. Il friul. vile/vila ‘villaggio, gruppo di case con chiesa, di carattere rurale’ risale al lat. VĪLLA ‘azienda agricola, fattoria, podere, fondo, tenuta’, infatti le grandi villae rusticae romane hanno spesso dato origine a centri abitati, che in molti casi sono perdurati fino ad oggi.

1.3.6 Toponimi tedeschi I feudatari medievali del Friuli, giunti al seguito dei patriarchi ghibellini (fino alla metà del XIII sec.), erano in buona parte di origine e lingua tedesca, non stupisce perciò il fatto che i nomi dei loro castelli molte volte risalgano al medio alto tedesco. Tali toponimi sono composti per lo più con bërc ‘monte’ (usato anche come variante di burc ‘castello’) o con stein ‘pietra, roccia’: Pràmpero/Pràmpar di Magnano in Riviera (1130 Prantperch) da brant ‘dissodamento tramite fuoco’, Soffumbergo/Sufumbèrc di Faedis (1184 Sorfenber, 1247 Sorphenberch) da scharpf ‘acuto’, Solimbergo/Solombèrc di Sequals (1149 Soneberch) da schœne/schône ‘bello, lucente’, Spilimbergo/Spilimberc (1174 Spengenberge) da spengel ‘falcone’, Partistagno/Partistàin di Attimis (1170 Pertesteijne) da bërht ‘brillante’, infine il nome del castello di Strassoldo/Strassòlt (1184 Straso, 1207 Strassouve) è composto da strâße ‘strada’ e da ouwe ‘isola fluviale’ (ted. mod. Au). Molti altri centri friulani, piccoli o grandi, comparivano con un nome tedesco nei documenti delle cancellerie, a volte adattando il nome friulano (es. Adegliacco Edlach, Cormòns Kremaun, Gemona Klemaun, Pordenone Partenau, Precenicco Brixenei, Udine Weiden), altre volte con una forma indipendente (es. Venzone

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Peitscheldorf ‘villaggio delle fruste’, Tolmezzo Schönfeld ‘bel campo’, Nogaredo al Torre Haseldorf ‘villaggio dei nocciòli’).

1.4 Agiotoponimi Un gran numero di toponimi friulani proviene dal nome di un santo, si tratta dei cosiddetti agiotoponimi. Sono nomi che riflettono la titolazione di un luogo di culto e anch’essi costituiscono un sussidio importante all’analisi storica socio-politica e religiosa della nostra regione. Un esempio ce lo forniscono nomi come San Michele/ San Michêl o San Giorgio/San Zorç che possono suffragare – se coerenti con altri dati (documentari, archeologici, etc.) – l’ipotesi storica riguardo un’origine o una presenza longobarda in loco, in quanto si tratta di due santi guerrieri particolarmente venerati da questo popolo germanico. Martino di Tours fu invece un santo la cui dedicazione veniva scelta simbolicamente – quale strenuo difensore della Chiesa romana e nemico dell’eresia – a rimarcare l’appartenenza alla cristianità ortodossa in contrapposizione all’arianesimo professato dai Longobardi. In vari luoghi troviamo perciò un toponimo San Martino a poca distanza da un agiotoponimo «longobardo»: ad es. San Giorgio della Richinvelda e San Martino al Tagliamento, il Monte San Michele e San Martino del Carso. Ciò non significa che tutti i casi vadano necessariamente ricondotti a epoca longobarda o carolingia: le dedicazioni a S. Giorgio e S. Michele possono infatti risalire a epoca bizantina o essere successive, e il culto per S. Martino è rimasto ben vivo per secoli. Un esempio di produttività toponimica del nome di un santo attraverso i secoli è la titolazione a San Pietro, attribuita in varie epoche e che in alcuni casi può risalire al periodo paleocristiano dei secoli IV – VI : prelongobardi sono S. Pietro di Carnia (Zuglio) e S. Pietro di Ragogna (friul. Borc); d’epoca longobarda o carolingia sarà S. Pietro al Natisone (1192 Ecclesia Sancti Petri de Algida); altri risaliranno a poco dopo il Mille, qualcuno è più recente, come S. Pietro di Codroipo (1440 in villa S.ti Petri penes Belgradum); il borgo di S. Pietro a Gemona trae il nome dalla chiesa eretta nel 1835 su testamento di Pietro Jacotti.

1.5 Aree alloglotte e plurilingui Un aspetto di particolare interesse è costituito dalla toponomastica delle zone plurilingui e delle isole alloglotte della nostra regione. Nella Val Canale da secoli convivono le tre grandi componenti etno-linguistiche europee: quella romanza (friulana e poi anche veneta e italiana), germanica (tedesca) e slava (slovena). Per questa ragione i toponimi locali si presentano spesso in più vesti linguistiche: ad es. Camporosso (Tarvisio), friul. Cjamparòs, ted. Seifnitz, slov. Žabnice; San Leopoldo (Pontebba), friul. La Glesie, ted. Leopoldskirchen, slov. Dipalja vas; Valbruna (Malborghetto), friul. Valbrune o Cjalavai,

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ted. Wolfsbach, slov. Ovčja vas; il monte friul. Jôf di Miezegnot, ted. Mittagskofel, slov. Poldanovec, etc. Le isole tedescofone di Sauris, Timau e Sappada (BL) e le zone slavofone delle valli di Resia, del Torre e del Natisone – stante la loro origine medievale – presentano da un lato caratteristiche di arcaicità e dall’altro forti influenze friulane nei rispettivi dialetti e toponimi. Anche qui troviamo fenomeni di polimorfia toponimica: ad es. La Maina (Sauris), friul. la Maine, ted. Ame Lataise; Timau (Paluzza), friul. Tamau, ted. Tischelwang (loc. Tischlbong); Monteaperta (Taipana), friul. Montavierte, slov. Viškorša; friul. ital. Cesàriis (Lusevera), slov. Podbardo; Ponte San Quirino (S. Pietro al Natisone), friul. Puint di San Quarin, slov. Most (loc. Muost), etc.

1.6 Da Venezia all’Italia Con la conquista e la lunga amministrazione veneziana del Friuli (1420–1797) nella forma scritta di molti toponimi friulani si posò una patina linguistica veneta, spesso trasmessa poi all’italiano (su tutta la questione cf. Finco 2007, 164–174). Oltre al caso già citato di Cividale si può menzionare anche Gemona, il cui nome italiano ufficiale non riprende quello friulano Glemone (con gl- velare conservata, cf. Glemona in Paolo Diacono), bensì quello veneto G(i)emona (col nesso gl‑ palatalizzato in [ʤ], secondo la fonetica veneta). Anche il borgo gemonese di Piòvega ha ufficializzato la forma venetizzante invece della forma popolare friulana Plóvie (1276 iuxta Ploviam, 1311 in aqua quae dicitur Plovia), dal lat. tardo *PLUBĬCA , per PUBLĬCA . Vigonovo per il friul. Vinòuf (1000 ca. Vicus Novus, 1186 plebem de Viconovo), dal lat. VĪCUS ‘villaggio, aggregato di case e terreni’. Vari toponimi derivati dal suffisso collettivo latino ‑ĒTUM sono stati adattati all’esito veneto ‑edo (al posto del friul. ‑êt, ‑éit): Nespoledo per il friul. Gnespolêt, Colloredo per Colorêt, Nogaredo per Nearêt/Narêt, Ovoledo per Davoléit (Zoppola), etc. Alcuni toponimi prediali, soprattutto nel Friuli occidentale, ufficializzarono la forma veneta in ‑àgo e ‑ìgo: Giussago (friul. Jussà, Ussà), Istrago (friul. Distrà), Maniago (friul. Manià), Usago (friul. Dusà), Orcenìgo (friul. Dursinìns), Polcenìgo (friul. al Borc). Con l’affermazione dell’italiano come lingua dell’amministrazione, si verificarono casi di raddoppiamento di consonante non giustificato dall’etimologia del nome, ma da una malintesa attività correttrice per adeguare i toponimi alla fonologia dell’italiano, da parte di scriventi dialettofoni (preoccupati di «non sbagliare le doppie»), ciò soprattutto nel Friuli centrale. Così i toponimi prediali Bicinico, Cassaco, Martignaco, Pantianico, Remanzaco, Tavagnaco etc. si videro raddoppiare ingiustificatamente la c: Bicinicco, Brazzacco, Cassacco, Martignacco, Pantianicco, Remanzacco, Tavagnacco. Stessa cosa accade a molti toponimi derivati dal suffisso collettivo latino ‑ĒTUM , con il raddoppiamento di t, conguagliato al suffisso diminutivo ital. ‑etto: Porpetto e Povoletto (friul. Porpêt e Paulêt) dal lat. PŌPULĒTUM ‘pioppeto’, Frassenetto da FRĀXINĒTUM ‘frassineto’, Muscletto da MŪSC (U )LĒTUM ‘luogo pieno di muschio’, etc. Allo stesso modo anche Osoppo (friul. Osôf) si vide raddoppiare la p (Osōpe in Venanzio Fortunato). Questi toponimi ipercorretti si fissano definitivamente nella seconda metà del ’700.

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Un intervento di iperitalianizzazione si verificò durante la dominazione napoleonica, in particolare sui toponimi uscenti in s ai quali fu spesso aggiunta una vocale finale: Allegnidiso, Aunediso, Castionso, Cormonso, Dilignidiso, Gonarso, Manazzonso, Maseriso, Nimiso, Oleiso, Pozzaliso, Quiniso, Ribiso, Romanso, Susano, Talmassonso, Trasaghiso, Viduliso, Zampiso, etc. (Decreto di Napoleone del 22 dicembre 1807). Queste forme non ebbero continuazione, salvo poche eccezioni (es. Qualso). La fissazione dei nomi dei centri abitati (comuni e frazioni) in forme ufficiali avvenne solamente nel XIX secolo, in particolare dopo l’unità d’Italia, quando si sentì maggiormente l’esigenza di utilizzare grafie costanti e univoche che evitassero omonimie e fraintendimenti. In precedenza la forma scritta dei toponimi era piuttosto oscillante: più stabile quella dei centri abitati maggiori, più incerta quella dei borghi minori. A volte essa aderiva maggiormente alla pronuncia orale (friulana o veneta), a volte era influenzata dalla tradizione cancelleresca latineggiante, oppure veniva a subire accostamenti etimologizzanti. Ad esempio Redipuglia non ha nulla a che vedere con un qualche mitico ‘re della Puglia’, dal momento che si tratta di un nome di origine slovena (RODO POLJE ‘campo arido, improduttivo’; 1295 in Radopolia, 1399 Rodopoglum), ma la somiglianza formale ha fatto scattare l’accostamento paretimologico. Dopo il 1866 vi fu anche la necessità di distinguere la denominazione ufficiale di molti comuni friulani che risultavano omonimi di altri comuni dell’Italia unita. In generale ai toponimi furono aggiunte specificazioni corografiche (Friuli, Carnia, Còllio, Carso) o che si richiamavano al paesaggio, particolarmente ai fiumi (al Tagliamento, al Torre, al Natisone, al Reghena, etc.). Molti comuni friulani assunsero la denominazione attuale con regio decreto (in particolare con il n. 3893 del 18 agosto 1867): ad esempio Magnano, per evitare di essere confuso con gli altri comuni omonimi italiani (almeno altri cinque), aggiunse la specificazione in Riviera (dal friul. riviere ‘tratto di colli allineati, che si affacciano alla pianura’); Pozzuolo, Castelnovo e San Daniele aggiunsero del Friuli; Cavazzo e Prato assunsero l’attributo Carnico (Treppo lo assunse due anni dopo); Muzzana associò al suo nome quello del fiume Turgnano e il vicino Palazzolo quello del fiume Stella. Nel 1882 Morsano aggiunse la specificazione al Tagliamento, precedentemente era invece chiamato Morsano di Prata, in quanto appartenente al feudo di Prata, oppure Morsano di là (del fiume Tagliamento), per distinguerlo da Morsano di Strada, ma popolarmente è chiamato Morsan des Ocjis ‘Morsano delle Oche’. Dopo la prima Guerra Mondiale anche i comuni da poco annessi all’Italia furono interessati da questo fenomeno: nel 1923 Farra, Savogna e San Canzian aggiunsero la specificazione d’Isonzo, San Floriano e Dolegna aggiunsero del Collio, Cervignano e Mariano aggiunsero del Friuli, etc. In alcuni casi l’aggiunta di uno specificativo risulta superflua in quanto non esistono comuni omonimi in altre regioni d’Italia: ad es. Gemona del Friuli (fino al 1935 Gemona), Forgaria nel Friuli (fino al 1937 Forgaria). Molte specificazioni ufficiali furono riprese dall’uso tradizionale o cancelleresco, come Colloredo di Monte Albano e Colloredo di Prato, Santa Maria la Longa, Castions di Strada (cioè la Stradalta che collega Codroipo a Palmanova, detta anche Napoleonica), etc. In alcuni casi la nomenclatura ufficiale ha sostituito lo specificativo tradizio-

Toponomastica e antroponimia

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nale o popolare, come nel caso di San Giorgio che nel 1867 aggiunse della Richinvelda, ma che anticamente era conosciuto come S. Georgius de Cosa (dal nome del torrente Cosa) e popolarmente come San Zorç di Spilimberc in quanto era posto sotto la giurisdizione del vicino castello di Spilimbergo. Alcuni di questi specificativi tradizionali riprendevano il nome di un paese vicino, come ad esempio San Giorgio di Nogaro, San Vito di Fagagna, Terzo d’Aquileia, Pasiano di Pordenone, etc. Nel corso del XX secolo molti di questi vennero mutati per motivi campanilistici: nel 1928 San Giovanni di Manzano cambiò la specificazione con al Natisone, anche se nel resto del Friuli si continua a chiamarlo San Zuan di Manzan; nel 1949 Camino di Codroipo diventò Camino al Tagliamento; nel 1968 San Lorenzo di Mossa diventò San Lorenzo Isontino, etc. Ragioni di ordine ideologico sono alla base di altri cambiamenti. Cessata la «schiavitù» asburgica con l’unione all’Italia, San Pietro degli Schiavi diventò nel 1869 San Pietro al Natisone, ma qui il nome si riferiva agli Slavi che abitano in quella valle (friul. San Pieri dai Sclâs o dai Sclavons, slov. Špietar; 1296 Sanctus Petrus Sclavorum). Motivazioni nazionalistiche nel 1923 hanno spinto gli amministratori di Pasian Schiavonesco a far cambiare il nome del comune in Basiliano, reintroducendo la forma medievale del nome (1072 Basilianum, 1172 Basaglianum). Dopo la prima guerra mondiale vi fu un intenso processo di italianizzazione dei toponimi sloveni nei territori annessi all’Italia, stabilito in particolare dal regio decreto n. 800 del 29 marzo 1923, emanato a pochi mesi dalla salita al potere del fascismo. In quell’anno Podgora frazione di Gorizia (da slov. pod ‘sotto’ e gora ‘monte’) divenne Piedimonte del Calvario, Podposnig di Cosbana (slov. Podpoznik) divenne Poggio Pòsino, Sdràussina (slov. Zdravščina) frazione di Sagrado divenne Poggio Terzarmata, etc.

1.7 Città di fondazione Un caso particolare sono le città di fondazione, cioè i centri abitati nati sulla base di una precisa volontà politica e di un progetto urbanistico, il cui nome è frutto della creazione e imposizione di uno o più autori. Come la città-fortezza di Palmanova (friul. Palme) fondata nel 1593 e battezzata Palma dal primo provveditore generale Marc’Antonio Barbaro, un nome suggerito dalla vicinanza del villaggio di Palmada, ma interpretato come simbolo di vittoria e preferito alla precedente proposta di Nova Aquileia; il 4 novembre 1593 la proposta fu sanzionata dal Senato veneziano. Oltre due secoli dopo vi fu il caso di Alvisòpoli (friul. Visòpuli), in comune di Fossalta di Portogruaro, che fu concepita e realizzata dal conte Alvise Mocenigo (a partire dal 1800) come una città ideale autosufficiente con attività agricole innovative e produzione industriale, soprattutto tessile. Il Mocenigo volle legare il proprio nome alla nuova fondazione ribattezzandola Alvisòpoli, al posto del precedente Mulinàt (1624 Molinat). Torviscosa fu denominazione adottata nel 1940 con la Legge n. 1621 che istituì il nuovo comune e sostituì quella originaria, Torre di Zuino/friul. il Tôr o Tôr di Zuìn (1278

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Çugins, 1279 de Zugino, 1313 de Zuyns, 1413 turrim Zoinus appellatam), fino ad allora frazione di San Giorgio di Nogaro. Il nome fu creato dal poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti che, visitando la nuova città in costruzione e lo stabilimento industriale, ne ricavò Il Poema di Torre Viscosa (Milano 1938) che, celebrando il trionfo della tecnologia e dell’uomo sulla natura, chiamò la nuova città Torre Viscosa (poi unito in Torviscosa), nome composto con una parte del vecchio toponimo e una parte del nome del gruppo industriale SNIA Viscosa (ragione sociale assunta nel 1922) che aveva realizzato gli impianti e il nuovo insediamento urbano.

1.8 Età contemporanea L’espansione urbana avvenuta dagli anni ’50 in poi ha creato nuovi quartieri o nuove frazioni. In qualche caso essi hanno mantenuto le vecchie denominazioni, ad es. il Partidôr di Udine che trae il nome dalla presenza in passato di un partidôr o spartidôr cioè un manufatto di briglie e paratoie per la divisione delle acque di una roggia o canale (lat. mediev. partitorium). In alcuni casi le denominazioni sono tecniche o burocratiche, come il quartiere P.E.E.P. Est di Udine (sigla di «Piano di edilizia economica e popolare»). In altri casi, soprattutto in quartieri e frazioni nati da lottizzazioni promosse da imprese private, sono stati adottati nomi suggestivi, evocanti l’amenità del luogo. Ad esempio il Villaggio del Sole di Udine, inaugurato nel 1960, veniva all’epoca pubblicizzato come «il quartiere in cui non tramonta mai il sole». Altri casi sono le frazioni Villaverde di Fagagna, nata da una lottizzazione degli anni ’70, e Villa Primavera di Campoformido. Anche le zone industriali e artigianali hanno spesso denominazioni generiche o sigle, ad es. ZIU (Zona Industriale Udinese) e ZAU (Zona Artigianale Udinese). Talvolta esse mantengono i vecchi nomi delle aree su cui sorgono, come ad es. la Z.I. Ponte Rosso di S. Vito al Tagliamento (vecchio toponimo dovuto alla presenza in passato di un ponte in mattoni) o la zona artigianale Cjalcine di Sedegliano (toponimo che rifletteva la presenza in loco di una fornace di calce). Ma in quest’ultimo comune troviamo anche la località Pannèllia (già Prati di Loreto/Prâts di Lorêt), il cui nome moderno è dovuto alla presenza delle fabbriche di pannelli in legno.

2 Antroponimia 2.1 Il sistema antroponimico friulano Nel sistema antroponimico friulano bisogna distinguere, almeno in generale, fra il sistema ufficiale in lingua italiana e quello popolare in lingua friulana, poiché fra l’uno e l’altro vi sono differenze non limitate alla pura forma (Frau 2011, 241). La forma ufficiale italiana dei nomi e dei cognomi è sorta in un ambiente linguistico friulano,

Toponomastica e antroponimia

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trascrivendo e spesso italianizzando – in tutto o in parte – la forma orale friulana, cioè adeguandola al sistema ortografico e fono-morfologico della lingua italiana. Nell’uso orale, invece, si mantengono più spesso le forme friulane della tradizione locale: es. Luigi Rossi/Vigji dai Ros, Giuseppe De Biasio/Bepi Di Blâs, Valentino Pecorari/Tin Piorâr, Amelia Copetti/Mèlie Copete. Il sistema antroponimico friulano, quale si è venuto a formare nei secoli, non si discosta, se non per pochi tratti, dal più generale sistema antroponimico italiano, con il quale condivide gli aspetti più salienti della formazione fin dalle fasi più antiche della sua storia. Esso è rappresentato dal nome personale o prenome (nella tradizione cristiana detto anche nome di battesimo), che ha la funzione di identificare il singolo individuo all’interno della collettività, e dal cognome (o nome di famiglia), che ha la duplice funzione di individuare un gruppo familiare nell’àmbito della comunità e anche di specificare l’appartenenza familiare di un singolo individuo. Non di rado è presente anche uno o più soprannomi che, pur usati anch’essi per identificare singoli individui (soprannomi personali) o gruppi familiari (soprannomi di casato, in friulano stracognons), non hanno ufficialità e hanno diffusione e validità in un ambiente sociale e geografico ristretto. L’anagrafe nazionale italiana, che come in altri Paesi d’Europa cominciò a fissarsi in epoca napoleonica, prescrive che ogni cittadino fin dalla nascita venga registrato con l’indicazione di un nome e di un cognome, i quali possono entrambi essere rappresentati anche da due o più forme. Il sistema nominale a due elementi era comunque già in uso da secoli in Italia, sostituendosi al solo nome individuale (nomen unicum) d’epoca tardo antica e alto-medievale. In Friuli ciò avvenne più tardi che altrove, in quanto territorio relativamente isolato nei secoli centrali del Medioevo dalle vicende del resto della Penisola e oltretutto privo di centri urbani con forte concentrazione demografica.

2.2 Studi antroponimici in Friuli Rispetto agli studi toponomastici, quelli sull’antroponimia friulana hanno accusato un certo ritardo. Soltanto negli ultimi anni i ricercatori le hanno dedicato maggior attenzione, sia col censimento di nuove fonti, sia con la produzione di studi specifici, in particolare sui cognomi: da segnalare i repertori di De Stefani (2003) e di Costantini/Fantini (2011). Una panoramica generale sull’antroponimia friulana è offerta da Marcato (2010), sebbene più concentrata sull’epoca medievale. Parallelamente all’interesse degli studiosi, si è diffusa una sensibilità nei confronti di questa materia anche fra un più vasto pubblico e fra gli amministratori locali, così che sempre più frequenti risultano le raccolte antroponimiche nei comuni interessati. Giovan Battista Corgnali (1887–1956) ha il grande merito di aver lasciato agli studiosi un imponente Schedario onomastico, custodito presso la Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine, nel quale sono conservate circa 160.000 schede comprendenti dati su nomi e cognomi friulani,

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provenienti in prevalenza dagli spogli di testi antichi in preparazione di un’opera di sintesi, che lo studioso non riuscì a portare a termine. È in corso d’opera la digitalizzazione dello schedario, di cui una parte è già disponibile in rete (http://pprg.infoteca. it/easyne2/SZN.aspx?ID=19&CODE=CRGN).

2.3 Prenomi Il processo di formazione del sistema nominale friulano andò di pari passo con quello di altre lingue e parlate romanze. Dal sistema latino basato su tre nomi (praenomen, nomen, cognomen, es. Marcus Tullius Cicero) si passò negli ultimi due secoli dell’impero a una fase binomia e poi al nomen unicum. Tra i nomi di battesimo friulani alcuni sono di origine latina come Antoni, Martin, Valantin, altri sono di origine biblica come Jàcum (it. Giacomo), Pieri (it. Pietro), Zuan (it. Giovanni), Marie, Ane, Madalene, molti sono i nomi cristiani di origine latina e greca (alcuni augurali, di ringraziamento o dedica, altri di santi) Nicolau o Nicolò, Cristòful (it. Cristoforo), Zorç (it. Giorgio), Stiefin (it. Stefano), Jeroni (it. Gerolamo), etc. Dei nomi individuali vi è abbondante documentazione medievale nei testi pratici e registri redatti in latino. Ad esempio il Necrologium Aquileiense della Chiesa di S. Maria di Aquileia, conservato in due edizioni a partire dall’inizio e dalla fine del XIV  sec., ma con parti più antiche come i Nomina Defunctorum della seconda metà del XII sec. (Scalon 1982, 395–402). L’elenco dei nomi – che copre quattro secoli – comprende patriarchi, conti, nobili e soldati, canonici e notai, banchieri e maestri di scuola, piccoli proprietari, massari, contadini e servi. Il nome maschile più ricorrente è Iohannes; tra i più frequenti: Andreas, Antonius, Bartolomeus, Conradus, Dominicus, Federicus, Franciscus, Henricus, Iacobus, Leonardus, Marcus, Marinus, Martinus, Matheus, Mathias, Michael, Nicolaus, Paulus, Pelegrinus, Petrus, Philippus, Simon, Stephanus, Thomas, Wolricus. Tra i femminili: Adaleyta, Agata, Agnes, Catherina, Dominica, Gisla, Margareta, Maria, Palma. Scalon (2008, vol. I, 103–108) elenca i nomi più frequenti registrati nei Libri degli Anniversari di Cividale del Friuli, confrontando la graduatoria del XIII secolo con quella che si riferisce all’intero indice dei nomi (XIII – XVI secc.). Riportiamo qui sotto la tabella. Nomi maschili sec. XIII

secc. XIII –XXVI VI

1. Enrico (29)

1. Giovanni (366)

2. Giovanni (22)

2. Nicolò (348)

3. Corrado (15)

3. Giacomo (207)

4. Ulrico (14)

4. Francesco (151)

5. Giacomo (12)

5. Pietro (117)

Toponomastica e antroponimia

sec. XIII

secc. XIII –XXVI VI

6. Martino (8)

6. Enrico (103)

7. Ermanno, Leonardo (7)

7. Leonardo (94)

8. Andrea, Federico, Pietro (6)

8. Antonio (92)

9. Bernardo, Nicolò (5)

9. Domenico (84)

10. Adalberto, Bertoldo, Filippo, Guarnerio, Guglielmo, Leopoldo, Mainardo, Pellegrino (4)

10. Ulrico (76)

11. Ludovico, Marquardo, Mattia, Teodorico, Tommaso, Valtgero (3)

11. Corrado (67)

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Nomi femminili sec. XIII

secc. XIII –XVI

1. Maria (12)

1. Caterina (192)

2. Adelaide (11)

2. Elisabetta (153)

3. Margherita (8)

3. Margherita (151)

4. Elisabetta (7)

4. Giovanna (87)

5. Ermengarda (6)

5. Giacomina (80)

6. Cristina, Sofia (5)

6. Domenica (72)

7. Gisella, Surut (4)

7. Nicolussa (69)

8. Adalmut, Agnese, Belenda, Bertolotta, Bianca, Eilica, Matilde, Palma, Petris (2)

8. Agnese (68) 9. Francesca, Maria (66) 10. Adelaide, Maddalena, Orsola (46)

La maggior presenza di alcuni nomi rispetto ad altri, testimonia la diffusione del culto di determinati santi, mettendo in luce affinità e rapporti culturali tra aree geografiche diverse. Per il periodo più antico (prima metà del XIII sec.) l’ambito di riferimento è quello del Sacro Romano Impero e delle crociate, con modelli di santità rappresentati da re e regine, vescovi e abati tedeschi di àmbito ottoniano: l’imperatore Enrico II di Sassonia, canonizzato nel 1146, che fece ricche donazioni e concesse privilegi alla Chiesa aquileiese; San Corrado vescovo di Costanza; Ulrico vescovo di Augusta, il cui culto in area aquileiese sarà probabilmente dovuto ai patriarchi omonimi Ulrico di Eppenstein e Ulrico II di Treffen; per Ermanno vi è il dubbio se sia riferito a Ermanno margravio di Baden o a Ermanno di Kappelberg. Il culto per San Leonardo abate, protettore dei prigionieri, ebbe ampia diffusione soprattutto all’epoca delle crociate. I nomi femminili fanno riferimento, oltre a Maria madre di Gesù, ad Adelaide moglie di Ottone I (canonizzata nel 1097), alla beata Ermengarda di Bretagna (vedova di un crociato e pellegrina in Terrasanta), Gisella figlia di Enrico II di Baviera e nipote dell’imperatore Enrico II, moglie del re Stefano I d’Ungheria al quale diede sostegno nell’opera di conversione degli ungheresi.

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Dal raffronto delle due tabelle si notano i riflessi sull’antroponimia dovuti al cambiamento nella pietà popolare e di orizzonti culturali che avvenne dalla seconda metà del XIII secolo. La predicazione degli ordini mendicanti insediati sul territorio ebbe un peso rilevante nel proporre nuovi modelli devozionali e, di conseguenza, altri nomi di battesimo: Nicolò, Francesco, Antonio, Domenico. La devozione a santa Caterina d’Alessandria, assente per buona parte del XIII sec. e in testa alla nuova graduatoria, fu diffusa dagli ordini mendicanti, cui si deve anche la fortuna dei nomi Domenica, Francesca, Nicoletta e Nicolussa. I dati cividalesi possono essere confrontati con quelli tratti dal registro battesimale di Gemona del Friuli, pubblicato da Flavia De Vitt (2000, 57s.), che abbraccia un quarto di secolo (1379–1404). I nomi più frequenti dei battezzati sono: nomi maschili

nomi femminili

1. Nicolò (118)

1. Caterina (120)

2. Antonio (90)

2. Elena (102)

3. Giacomo (77)

3. Margherita (57)

4. Giovanni (74)

4. Francesca (50)

5. Leonardo (56)

5. Maddalena (49)

6. Francesco (45)

6. Lucia (46)

7. Daniele (43)

7. Domenica (33)

8. Pietro (20)

8. Elisabetta, Nicoletta (30)

9. Domenico (19)

9. Giuliana (26)

10. Bartolomeo, Biagio (18)

10. Agnese (25)

11. Cristoforo (16)

11. Giacoma (22)

12. Odorico (14)

12. Antonia (19)

13. Tommaso (13)

13. Giovannina (18)

14. Giorgio (12)

14. Benvenuta (15)

15. Matteo/Mattia (11)

15. Dorotea (14)

L’incrocio fra il registro e altri documenti notarili permette d’individuare la frequente corrispondenza fra il nome del bambino e quello del nonno paterno, meno frequente quello del nonno materno (De Vitt 2000, 66). Significativa è la presenza di nomi di tradizione germanica, penetrati a più riprese: agli elementi gotici si sono affiancati o sovrapposti quelli longobardi, poi H ARDU ‑ franchi e infine tedeschi. Tra questi Artuico o Artico (da Hartwig, composto da *HARDU ‘forte’ e *WIGA ‘battaglia’) oggi cognome, Adalberto e Adalpretto (da *ATHALA ‑ ‘nobile’ BERH T ‑ ‘chiaro, illustre’), Folcherio (da *FULKA ‑ ‘popolo in armi’ e *HARJA ‘esercito’), e *BERHT Odorico (da *AUDA ‑ ‘possesso’ e *RIKA ‑ ‘potente’), etc. Tra i femminili, Adelaide (da *ATHALA ‑ e il suffisso astratto *HAIDU ‑, dunque ‘nobiltà’), Ermengarda o Irmingarda (da *ERMINA ‑ ‘potente’ e *GARDJO ‑ ‘protezione’), Gisella o Gisla (da *GEISILA ‘asta di freccia’ o ‘virgulto’).

Toponomastica e antroponimia

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Da segnalare anche la presenza di antroponimi slavi, portati in parte da discendenti di coloni sloveni trapiantati nella pianura friulana per ripopolarla e in parte originari della Slavia friulana, Carniola o Carantania. Ad esempio nel Necrologium (Scalon 1982): Stoyan (Stojanъ, da STOJATI ‘rimanere’ o ‘stare ritto, in piedi’), Semigost (da SĚM Ь ‘persona, famiglia’ e GOSTЬ GOST Ь ‘ospite’), Vrasclau e Brasclau (Vratislavъ, da VRATI ( TI ) ‘girare’ e SLAVЪ SLAV Ъ formante nominale da SLAVA , v. successivo), il femminile Sclava e Sclawa (da SLAVA ‘fama, onore’), etc. Compaiono poi anche nomi di matrice letteraria cavalleresca come Lancellottus o Ancelotus de Cuchanea e Ancelottus, re Artù in Artusius (3 occorrenze), la regina Ginevra in Zeneura de Aquilegia e Zenevura, etc. (Scalon 1982). I nomi che non riprendono un agionimo sono soprattutto quelli femminili: Allegranza (3), Benlevenga, Dolceamore, Mellimbussia (‘mielinbocca’), Riccagioia, Soladamore etc., si tratta di nomi augurali e affettivi (De Vitt 2000, 69). Benché queste fonti riportino i nomi in forma latina o latinizzata, non mancano occorrenze in volgare, soprattutto per i femminili (esempi tratti dal Necrologium): Zili (2 volte) per Egidius, Domenia (3 occorrenze) per Dominica, Vondancia per Abundantia, Zuana (3 occorrenze) per Iohanna, etc. Un tratto tipico del friulano emerge anche dalla presenza dei suffissi diminutivi popolari, resi però con morfologia latina, ‑ùs (es. Catharussa, Margarussa, Michilusius, Mathiussius, Nicolussius, Philippussius), ‑ùt (es. Gisluta, Gnisutta da Agnes, Blasutus, Francischutus, Michiluttus) e il meno frequente ‑ìt (es. Fuschittus, Rusittus). Frequente, a partire dal basso Medioevo, è l’uso di ipocoristici, cioè di forme nominali abbreviate o alterate (vezzeggiativi, accrescitivi, etc.): Culau da Nicolau, Toni da Antoni, Nardùs da Lenart, Cumin da Jàcum, Minòt da Domeni, etc. Interessante anche la presenza di elementi aggiunti uscenti col suffisso -àn (utilizzato anche per la formazione di etnici) derivati da altri nomi e che esprimono relazione, usati quindi come patronimici o matronimici: es. (1a metà XV sec.) Culus Laçeran da Lazer ‘Lazzaro’, Lenart Pascholan da Pascul, Martin Chatarinan da Caterina, Denel Çuanan da Zuan ‘Giovanni’ (Marcato 2010, 20–22). Negli ultimi 15 anni sono stati pubblicati molti testi medievali in volgare (XVI –XV secc.), soprattutto quelli redatti in friulano, ma anche venezianeggianti o toscaneggianti. In particolare le carte di uso pratico, oltre all’interesse per la storia linguistica, contribuiscono all’interpretazione di nomi e soprannomi, alla modalità della loro formazione e diffusione e agli usi nell’identificazione degli individui. Nel Quaderno dell’Ospedale di Santa Maria Maddalena di Udine (1382–1385) i nomi più frequenti risultano essere: Giovanni con le sue forme locali Çuan, femm. Çuana e Çuane, i derivati Çuanut e Çanel; Nicolau e Nicolò con molte varianti (compresa Miculao con m‑ iniziale) e ipocoristici (Chulà, Cole); Giacomo nelle forme Jachum, Com e varianti, femm. diminutivo Chumine; Domenico Domeni, Meni, Menis, femm. Domenie, Menia; Michele Michel, Michilut; Tommaso Tomat, Masut; Francesco Francesch; Caterina nel diminutivo Chatarusa; Agnese Gnese, etc. Nomi di origine germanica come Suat ‘Osvaldo’, Lenart ‘Leonardo’, Durlì ‘Odorlico’, Fidrì ‘Federico’ (Marcato 2010, 36–38).

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Alcuni nomi sono benauguranti (Benvignût e Benvignude ‘Benvenuto/‑a’, da cui Vignût, Vignude) o attribuiti a trovatelli (Diolaiût ‘Diolaiuti’). La documentazione si infittisce dal XVI secolo per diventare progressivamente di tipo anagrafico. Mancano, tuttavia, studi sistematici sull’onomastica d’età moderna. Se confrontiamo le tabelle precedenti con i nomi più frequenti del registro battesimale della parrocchia di Malisana degli anni 1638–1662 (Rustico 2006), pur nella limitatezza di un tale raffronto, si possono notare la perdurante prevalenza del femminile Caterina; la tenuta di Antonia, Domenica, Giacoma e Lucia; la ripresa di Maria e Giovanna; l’emergere di Anzola, Joseffa, Pasqua e Sabata/Sabida (legato alla persistenza di culti locali); l’assenza di Agnese, Benvenuta, Elisabetta, Nicoletta e Nicolussa. Tra i maschili Giovanni è superato dal composto Gio(vanni) Batt(ist)a; tengono Francesco, Giacomo, Leonardo; crescono Domenico e Pietro (patrono della chiesa locale); emergono Joseffo (Giuseppe), Bastian (Sebastiano) e Valentino; è in calo Antonio; sono pressoché assenti Enrico e Nicolò. nomi maschili

nomi femminili

Gio:Batta, Batta

19

Cattarina, Catherina

22

Giovanni, Zuan

17

Gioanna, Zuana

13 11

Domenico, Domenego

14

Maria

Francesco

12

Pasqua, Pascha

8

Giacomo, Jacomo

11

Domenica, Menega

6

Pietro, Piero

11

Lucia

5

Joseffo

6

Antonia

4

Leonardo, Lonardo

6

Elena

4

Bastian

4

Joseffa

4

Valentino

4

Sabata, Sabbida

4

Antonio

3

Anzola

3

Gio:Francesco

3

Giacoma

3

Andrea

2

Ursola

3

Bortollo, Bortholomio

2

Anna

2

Gio:Maria

2

Pirina

2

Simon

2

Valentina

2

Ogni epoca ha avuto comunque le sue «mode onomastiche», come quella del recupero di forme classiche nel Rinascimento; nel XIX e XX secolo si affermano i nomi di personaggi letterari e del mondo dello spettacolo (spesso di origine straniera), oppure i nomi «ideologici» legati a imprese, fatti militari, movimenti politici etc. (Marcato 2010, 49). Dai dati ISTAT dei nati nel 2004 in Friuli Venezia Giulia risultano più frequenti i seguenti nomi: Matteo (180), Alessandro (177), Francesco (157), Davide (148), Luca (143), Lorenzo (138), Andrea (137), Simone (126), Marco (122), Mattia (114), Riccardo

Toponomastica e antroponimia

445

(111), Gabriele (104), Tommaso (104), Filippo (103), Federico (103). Femminili: Giulia (234), Sofia (154), Martina (141), Sara (141), Elisa (140), Alice (133), Chiara (115), Anna (106), Alessia (101), Francesca (96), Giorgia (88), Gaia (81), Aurora (79), Emma (76), Giada (76). Molto più diffusi in Friuli rispetto ad altre regioni sono i nomi Lara, Lisa, Linda, Emma, Asia, Margherita, e particolarmente frequenti le forme straniere Alex, Denis, Erik, Kevin, Nicholas, Samuel, Thomas, Nicole, Denise e Jessica (Caffarelli/Sestito 2009, 693s., 721).

2.4 Cognomi Dopo il lungo periodo in cui fu impiegato il nomen unicum, a partire dal XIII secolo, insorse l’uso di accompagnare il nome con un secondo elemento (soprannome, patronimico, mestiere, provenienza, etc.). In Friuli la formazione dei cognomi avvenne lentamente, attraverso la fissazione e l’ereditarietà di questo secondo elemento, permettendo così di identificare la famiglia di appartenenza. La presenza di alcuni nomi aggiunti è riscontrabile fin dai documenti del Duecento, e aumenta nei secoli successivi: non si tratta ancora di un vero e proprio cognome, quale oggi l’intendiamo, ma in quei tempi svolgeva comunque una funzione distintiva ed è all’origine della configurazione del sistema cognominale posteriore. Questo è, comunque, il risultato di un lungo processo avviatosi nel medioevo e protrattosi per buona parte dell’età moderna, nel corso del quale furono soprattutto le istanze disciplinatrici delle istituzioni ad imprimere una fissità burocratica all’uso delle designazioni familiari. Nel XIV e XV secolo compaiono testimonianze di forme nominali che la successiva registrazione anagrafica porterà a una definitiva cognomizzazione, questo soprattutto dopo che il Concilio di Trento (1563) impose ai parroci l’annotazione del cognome nei registri per evitare matrimoni tra consanguinei. Il cognome si affermò nell’uso con la crescita demografica (soprattutto nei centri urbani) e quando si fece più vivace la vita socio-economica, amministrativa e politica delle comunità tardo medievali e moderne. Le attività economiche (compravendite, testamenti, contratti vari) e il maggior dinamismo sociale esigevano una più certa identificazione di ogni individuo della comunità e del gruppo familiare di appartenenza. La documentazione, che si infittisce dal XVI secolo per diventare di tipo anagrafico, mostra una sistematica designazione dell’individuo col nome personale seguito dall’elemento aggiunto, usato sempre più in funzione cognominale. Si vedano per il cognome Rìuli di Pradamano le attestazioni tra XVI e XIX secolo: 1548 Blasius q. B(er)trandi del Riu, 1579 Antonio olim Joannis del Riu, 1580 Bidinus q. Blasij Riu de Predemano, 1596 Filippo da Riu, Bidino da Riu, 1617 Blasio Riu, 1660 Tomaso Riu, 1680 Bastian Riu degano, 1712 Carlo Riu, 1735 Gio. Batta Riu, 1794 Riu Giacomo, 1812 Riu Antonio q.m Giuseppe, 1848 Riul Gio:Batta di Mattia, 1849 Riul Gio:Batta di Carl’Ant(oni)o, 1884 Riuli Gio:Batta di Antonio (Finco 2003, 185s.). L’aggiunta si riferiva a persona o famiglia che abitava presso il ruscello (friul. riu, riul), l’attuale Riuç (Rio

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nelle carte ottocentesche), che fin da epoca antica si staccava dalla Roggia di Pradamano attraversando la parte orientale del paese. I cognomi possono essere formati da nomi propri o da appellativi. Alcuni risalgono a un nome personale, che in origine era il nome della persona – solitamente il capostipite – dalla quale si iniziò a denominare la famiglia e la discendenza (patronimici e matronimici): il cognome Martin(i) indicava originariamente ‘la famiglia di Martino’ (chei di Martin), e così anche Michelut(ti), Zanuttin(i), Gregorat(ti), Mattion(i), Catarinus(si), etc. Il cognome può essere formato da un toponimo (o un etnico) e indicare provenienza: Bean(o), Tavagna(cco), Buiat(ti) da Buia, Forgiarini da Forgària, Verzegnas(si) da Verzègnis. Vi sono poi cognomi risalenti a un soprannome che poteva indicare caratteristiche fisiche, morali e caratteriali, condizione sociale, etc.: Ros(si), (Del) Moro, Zamparo (friul. çampâr ‘mancino’), Del Zotto (friul. çuet, çot ‘zoppo’), Galante, Baròn, Scarsini (friul. scjars ‘scarso, misero, povero’). Altri cognomi risalgono a nomi di mestiere o di condizione sociale: Degan(o) e Degani (friul. deàn ‘capo del comune rustico’), Fari e (Del) Fabbro (friul. fari ‘fabbro’), Zearo (zeâr ‘cestaio’), Rodaro (‘fabbricante di ruote’), Molinari, Sartori, etc. I cognomi friulani oggi si presentano per lo più in forma italianizzata, aderendo alla fonetica e morfologia italiana (Cargnelli e Cargnello per Cjargnel, Del Bianco per Dal Blanc, Pecorari e Pecoraro per Piorâr), spesso con l’aggiunta di -i finale (Cecòt > Cecotti, Fantìn > Fantini, Tirèl > Tirelli), ma tale fenomeno è meno frequente nel Friuli orientale, rimasto sotto il dominio asburgico fino al 1918. A volte i cognomi presentano una forma latinizzata (De Dominicis, De Michielis, Gottardis), ciò per l’opera normatrice di parroci e notai che nei secoli hanno adattato la forma orale friulana dapprima alla lingua latina, poi alla lingua italiana. Rispetto all’invariabilità del cognome ufficiale italiano, le forme cognominali friulane (così come i soprannomi di casato) mantengono spesso la flessione in base al genere e al numero. Ad esempio, rispetto alla forma ufficiale Modotti, nell’uso orale troviamo: Modot il capofamiglia, la Modote (o Marie Modote) la moglie, i Modòs il gruppo famigliare, lis Modotis le femmine di questa famiglia. Si vedano altri esempi raccolti anch’essi nel comune di Pradamano: it. Bolzicco, friul. Bulgìc [‑k] masc., la Bulgìche femm., i Bulgìcs pl. masc., lis Bulgìchis pl. femm.; it. Flumino, friul. Flumin masc., la Flumine femm., i Flumins pl. masc., lis Fluminis pl. femm.; it. Moreàle, friul. Moreâl masc., la Moreale femm., i Moreài pl. masc., lis Morealis pl. femm. (Finco 2003). Si confrontino anche i dati storici dei comuni di Basiliano (Vicario 2003) e Fagagna (Zucchiatti 2008). Il sistema cognominale friulano mostra alcune peculiarità (Frau 1988, 599), come la presenza del suffisso diminutivo tipicamente friulano ‑ùt, italianizzato in ‑utti e ‑utto (Michelùt, Antonutti, Bonutto, Barazzutti, Cescutti), che in origine poteva essere usato per identificare un discendente: es. 1366 Iohanne Baiarzutto quondam Zanini Bayarzii de Aquilegia (Scalon 1982, 429). Caratteristici, benché non esclusivi, sono anche i suffissi ‑às (Baldàs e Baldassi, Godeàs e Godeassi ‘abitante di Godia’), ‑ès (Bonès, Contès e Contessi, Pinès), ‑ìs (Brunìs e Brunisso da Bruno, Munisso da Simone),

Toponomastica e antroponimia

447

‑òt (frequente nei cognomi etnici Bearzot e Bearzotti ‘abitante del Bearz’, Spessot e Spessotto ‘abitante di Spessa’), ‑ùs (Colùs e Colussi, Matiùs e Mattiussi, Zanùs e Zanussi), ‑àt e ‑ìt (Buiat e Buiatti ‘abitante di Buia’, Foramit e Foramitti ‘abitante di Forame’). Un’altra differenza tra il sistema cognominale friulano e quello italiano è la forte presenza di cognomi di origine germanica e slava. Tra i primi quelli che risalgono a nomi di mestiere o affini (es. Màiero dal ted. Maier ‘fattore’, Snàidero e Snìdero da Schneider ‘sarto’), da etnici (es. Pàiero da Bayer ‘bavarese’, Sbàizero da Schweizer ‘svizzero’) o da personali (es. Bulfòn(e) e Buffòn adattamento di Wolfgang). A questi si aggiungano i cognomi provenienti dalle aree tedescofone della regione, come ad esempio Pùicher ‘abitante della località di Puiche’ in comune di Sappada, che nel dialetto locale significa ‘faggio’, Plòzzer di Sauris da Plotze ‘spiazzo, piazza’ e nome locale della frazione di Sauris di Sopra, etc. I cognomi di matrice slava, sorti nelle aree slovenofone, sono oggi diffusi anche nel resto della regione, molti di essi sono caratterizzati dal suffisso patronimico ‑ič (dial. ‑ić) trascritto ‑igh, ‑ig, ‑ic o ‑ich (a volte italianizzato in ‑icchio) oppure dal formante ‑goi (‑goj dal verbo gojiti ‘curare, avere cura’): Coceancigh e Coceancig (Kocjančič dalla forma slovena di Canziano), Marussigh, Marussich e Marussig (Marušič dall’ipocoristico Maruša ‘Mariuccia’), Coloricchio (Kolarič da kolar ‘fabbricante di ruote’), Cernigòi (Črnigoj da črn ‘nero’), Missigòi (Mišigoj dalla base antroponimica Myš‑) etc. Durante il regime fascista vi fu la forzata italianizzazione dei cognomi slavi nelle zone annesse all’Italia dopo il 1918. I quindici cognomi più frequenti in Friuli nel 2000 sono i seguenti (Caffarelli 2005): 1. Rossi (dal colore dei capelli, è anche il cognome più diffuso in Italia), 2. Furlàn (etnico), 3. Moro (dalla carnagione o dal colore dei capelli), 4. Fabbro, 5. Visintin (‘vicentino’), 6. Trevisan (‘trevisano’), 7. Mauro (dal personale omonimo), 8. Fabris (variante latineggiante del tipo Fabbro), 9. Zuliani (dal personale Giuliano), 10. Basso (caratteristica fisica), 11. Beltrame (dal personale Beltràm ‘Bertrando’, di origine germanica ma introdotto dalla Francia e diffuso in regione soprattutto per la fama e il culto del beato Bertrando di San Genesio, patriarca di Aquileia, †1350), 12. Santarossa (forse da Santa Rosa), 13. Degano (da decano, friul. deàn ‘capo del comune rustico’), 14. Venier (dal personale Veniero), 15. Bressan (etnico da Brescia o da Bressa frazione di Campoformido).

2.5 Soprannomi I soprannomi (friul. sorenòns) sono usati per individuare singoli individui (soprannomi personali) o gruppi familiari (soprannomi di casato), ma la loro funzione identificatrice è limitata a un ambiente sociale e geografico ristretto, non hanno ufficialità e la loro durata può essere effimera, a fronte della stabilità e obbligatorietà di prenome e cognome. I soprannomi sono storicamente importanti perché hanno dato origine a forme cognominali. Ad esempio a Pradamano il soprannome Toso (friul. ant. tos, dal

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lat. TŌNSUS ‘tosato’, spesso riferito a giovinetti che anticamente portavano i capelli rasati) si cognomizza in Del Toso, tuttora presente in loco: 1552 Franc(esc)o dicto lo toso, 1586 Valentinus dictus Tonsus, 1632 Francesco del Toso, 1634 Valentin del Toso, 1680 Martino del Toso (Finco 2003, 149). Le carte friulane dei secoli XIV – XV riportano vari soprannomi che si riferiscono a) a caratteristiche fisiche: Domeni det Penç ‘robusto, grasso, denso’, Pieri Pesant, Romanut Piçul ‘piccolo’, Lenart Sclapafer ‘spaccaferro’; b) al carattere o comportamento: Çuan det Chatabriga ‘attaccabriga’, Çuan Vaglot ‘piagnucoloso’, Tomat chaliar det Marturel ‘martora, faina’; c) a mestiere o attività: Cristoful Pividor ‘suonatore di piva’, Çuan Mulinar ‘mugnaio’, etc. Molto spesso nelle comunità friulane accanto al cognome ufficiale compare il soprannome di casato (friul. stracognon o stranon), talvolta anche più di uno, che permette di individuare un determinato gruppo familiare tra quelli aventi lo stesso cognome. Le modalità con cui sorgono questi stracognons sono in sostanza le stesse dei cognomi, ma naturalmente si tratta di formazioni più recenti. Ad esempio a Pradamano ci sono vari gruppi familiari col cognome Deganutti: Copèt, chei di Copèt (femm. Copète, pl. i Copès; da Jacòp ‘Giacobbe’); Pupîl, chei di Pupîl (dal friul. pupil ‘pupillo, minore sottoposto a tutela’); Nadâr, chei di Nadâr (femm. Nadàrie, pl. i Nadârs), soprannome documentato fin dal 1800 (Nicolò Deganutto d(ett)o Nodaro) che proviene dal friul. nodâr ‘notaio’, probabilmente risalente al notaio Gio Domenico q. Valentino Deganutto, rogante a Pradamano negli anni 1742–1769. I Bravo di Pradamano sono conosciuti come chei di Pirinelo (femm. Pirinele), soprannome che deriva dal doppio nome Pieri Nelo ‘Pietro (Anto)nello’ del capostipite (Finco 2003, 137, 146s.). La dimensione prettamente orale, i rapidi mutamenti sociali e la maggior mobilità fanno sì che questi soprannomi familiari oggi vadano scomparendo, poiché nelle mutevoli comunità moderne perdono sempre più la loro funzione identificativa.

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Franco Finco

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Il friulano lingua minoritaria – politica linguistica

Gabriele Iannàccaro e Vittorio Dell’Aquila

12 La situazione sociolinguistica Abstract: Il contributo traccia una panoramica della situazione sociolinguistica del friulano, allargando la visione alle condizioni di tutta la Regione Friuli Venezia Giulia e concentrandosi sulle dinamiche, effettive e percepite, del contatto e della coesistenza fra i codici sul territorio. Dopo indicazioni di carattere generale si passa a una disamina degli studi esistenti, tramite i quali si traccia una prima descrizione degli usi linguistici nella regione; seguono un’attenta descrizione dei repertori delle diverse comunità che costituiscono lo spazio friulano e la trattazione di due casi studio di approfondimento e conferma, sulla posizione dei codici nella zona del pordenonese e sulle condizioni e esigenze della scuola friulana. Keywords: sociolinguistica, repertorio, linguistica percettiva, scuola

0 Introduzione Scopo di questo capitolo è fornire un’introduzione critica alla sociolinguistica del friulano, presentandone i caratteri fondamentali sia da un punto di vista esterno, ossia riferito allo sguardo del linguista sul territorio e sulla società che considera, sia interno, che cioè dia conto di come i componenti delle comunità considerate percepiscono le regole sociali e identitarie di alternanza e compresenza dei codici che impiegano. A tal fine ci baseremo sulla letteratura esistente – e in questo senso lo studioso è facilitato dalla presenza dell’ottimo e recente repertorio di Heinemann/Melchior (2011), che ci dispensa dal dare molti riscontri nella bibliografia finale – ma anche su inchieste di prima mano da noi condotte nella regione. E benché il focus principale del capitolo sia la disamina della situazione del friulano, non sarà possibile né auspicabile tralasciare completamente altre realtà linguisticamente diverse e sociolinguisticamente interessanti presenti sul territorio della Regione Friuli Venezia Giulia, che sono state e sono tuttora a strettissimo contatto con l’area centrale e le cui lingue influenzano i comportamenti linguistici dei friulanofoni nonché la loro percezione del territorio proprio e circostante. La trattazione seguente sarà di necessità centrata sul friulano del Friuli e territori immediatamente circostanti; potremo qui dare solo qualche cenno della presenza comunque relativamente rilevante di friulanofoni nel mondo, dal momento che le condizioni sociolinguistiche sono molto diverse e cambiano caso per caso (cf. Iliescu 1972; Francescato 1974–1975; Melchior 2009; un’utile bibliografia in Melchior 2011); su questo argomento, indagato soprattutto da tesi di laurea, mancano poi al momento trattazioni organiche, se si prescinde dall’approfondito Melchior (2009), che tratta del caso particolare dell’immigrazione in Baviera.

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Gabriele Iannàccaro e Vittorio Dell’Aquila

È poi necessaria qualche specificazione preliminare: ai fini di questa presentazione parleremo di «lingua friulana» (o «friulano» tout court) intendendo l’insieme di tutte le varietà parlate e scritte che in questo insieme si riconoscono, sul territorio e in contesti di emigrazione, prescindendo da qualunque discussione sulla natura di lingua o dialetto di tali varietà, e di contro riserveremo la dizione «dialetti friulani» alle singole varietà interne e territoriali dell’insieme linguistico; l’espressione assoluta «dialetto» sarà altresì impiegata principalmente per indicare lo status talora percepito delle varietà friulane da parte di alcuni dei loro parlanti. Così come daremo per scontata la conoscenza dei concetti fondamentali riguardanti la collocazione dei codici nel territorio: in particolare parleremo senz’altro di varietà alte (o polo alto o H), di varietà basse (L) e di mesoletto (M). Inoltre con il termine «diglossia» sarà intesa quella situazione in cui i codici compresenti sul territorio non mostrano, sostanzialmente, aree di sovrapposizione funzionale, riservando il termine «dilalia» a quelle realtà in cui la posizione L può essere compartita da più codici comunitari (cf. Berruto 1995; Dell’Aquila/Iannàccaro 2004; Iannàccaro/Dell’Aquila 2006a). Resta inteso che dovremo qui limitarci a una sociolinguistica per così dire «macro», ossia alla distribuzione delle lingue e dei loro ambiti d’uso, oltre che al loro prestigio, mentre non potremo dar conto dei fenomeni di microsociolinguistica, pure assai interessanti, che coinvolgono l’alternanza e la mescolanza dei codici nell’uso effettivo reale (ma cf. almeno Fusco/Benacchio 2010 e la tabella 1 qui sotto).

1 Caratteri generali della situazione friulana È fondamentale, per poter trattare della situazione sociolinguistica del friulano, tenere conto della sua posizione di lingua minoritaria all’interno della Repubblica Italiana. Da questa condizione derivano in effetti molte delle caratteristiche proprie degli usi e della percezione delle lingue all’interno dell’area che i suoi abitanti definiscono come friulana. Secondo la classificazione tradizionale italiana, il friulano rientra tra le cosiddette «minoranze linguistiche» e non già tra le «minoranze nazionali» (cf. Iannàccaro/Dell’Aquila 2011a); ciò significa che i parlanti delle varietà friulane sono considerati dalla legge come portatori di cultura e identità italiana che incidentalmente tuttavia fanno uso di varietà linguistiche particolari – di contro le «minoranze nazionali» sarebbero popolazioni di base allotrie che tuttavia incidentalmente risiedono sul territorio italiano. Chiaramente una tale distinzione orienta non solo le eventuali attività di tutela delle lingue (per cui ↗13 Il quadro giuridico) ma anche e soprattutto la pervasività della lingua nazionale sul territorio e l’autopercezione dei membri delle diverse comunità. Sembra allora utile richiamare alcuni parametri di tipo sociolinguistico che individuano il friulano come varietà di minoranza nel contesto dell’Italia nordorientale. Una prima caratteristica interessante isola quelle varietà di minoranza italiane che non hanno una Dachsprache ufficiale di riferimento al di fuori del territorio nazionale – e

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ciò riprende in parte, anche se a posteriori, la distinzione legislativa fra minoranze «forti», con tetto esterno, e «deboli», ossia prive di tetto linguistico. Benché questo parametro abbia conseguenze più sulle eventuali attività di rivitalizzazione delle lingue che su quelle di descrizione sociolinguistica dei rapporti tra le varietà, è evidente che la mancanza di una lingua scritta standard di uso internazionale (come potrebbe essere il tedesco, il francese o lo sloveno) da cui trarre eventualmente norme o terminologia, ma anche che possa essere presente fisicamente sul territorio tramite libri, giornali, etichettatura di prodotti o mass media, influisce in modo assai profondo sulla collocazione sociolinguistica delle varietà territoriali. Ora, tale è la condizione del friulano, che è condivisa in particolare dal ladino dolomitico e dal sardo; ogni iniziativa per collocare la lingua locale al polo H deve venire dunque dall’interno ed è necessariamente il risultato di un’attività esplicita e consapevole di élites intellettuali o di amministrazioni locali, senza che neppure si possa contare su eventuali raccordi con comunità territorialmente contigue che ne condividano la lingua. Le varietà friulane insistono poi su un territorio piuttosto compatto al suo interno, delimitato da confini abbastanza netti e privo di rilevanti fratture o isole alloglotte; e, cosa ancora più importante, sono dialettalmente differenziate al loro interno, ricreando in piccolo una situazione simile a quella di molte altre realtà linguistiche nazionali europee. Ciò dà origine a una condizione in cui il paesaggio linguistico di coloro che abitano al centro del dominio può essere piuttosto uniforme: vi si parla una varietà friulana, circondata da altre varietà friulane. In questo senso il confronto con l’italiano (standard), a livello alto o scritto, è immediato, dal momento che non compaiono di norma codici intermedi, nell’uso o nella percezione del parlante. Non sono cioè presenti su tutto il territorio varietà dialettali tradizionalmente apparentate al sistema dell’italiano, a fianco di altre considerate friulane, e dunque a esso estranee: a differenza di altre situazioni della Penisola, infatti, in cui le varietà alloglotte sono strettamente interconnesse con le varietà italoromanze presenti sul territorio, nella società friulana i livelli linguistici, rozzamente intesi, possono ridursi sostanzialmente a due, il friulano locale (L) e l’italiano standard (H). La comunità friulana non vede, in sostanza, una presenza importante di dialetti italoromanzi al suo interno: anche se come vedremo, un ruolo importante è giocato dal veneto/veneziano coloniale, questo tuttavia tende ad attestarsi in aree ben delimitate, generalmente ai confini del dominio; diversa è in parte la situazione delle città, Udine e Gorizia soprattutto, che vedono effettivamente la coesistenza di friulano e veneto (Gorizia anche di sloveno). Curiosamente quindi la situazione generale – con una vasta casistica di casi particolari – è assai simile, nei livelli di analisi sociolinguistici, a quella «normale» dell’Italia rurale e dei centri medio-piccoli, con la presenza dell’italiano e di un «dialetto», ossia di una varietà territoriale di romanzo che appartiene sì linguisticamente al sistema del friulano, ma che sociolinguisticamente non si distingue, poniamo, dal comasco o dal beneventano. E tuttavia diversità ci sono: i parlanti sono ormai convinti che le loro varietà spontanee siano parte di una realtà linguistica più ampia cui danno il nome di «friula-

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no», che ha sviluppato nei secoli una lingua scritta di riferimento frapposta tra le varietà locali e l’italiano, per accadimenti spontanei o intenzionalmente pianificati. Inoltre non va trascurata la presenza pervasiva, ancorché limitata alle aree periferiche del dominio, del veneto coloniale, una sorta di koinè parlata spesso affiancata alle varietà friulane, che in taluni casi ha addirittura sostituito da secoli. La koinè veneta tuttavia, non essendo varietà locale tipica di alcuna singola località, gioca un ruolo particolare: la sua eventuale accettazione non rappresenta una «resa» alla lingua del vicino, bensì l’adozione di moduli comunicativi di più vasto e profondo radicamento. In sostanza, parlare veneto è (stato) un modo di conservare una situazione di diglossia – utile per l’autoidentificazione con l’in group, come si vedrà in seguito nel caso del pordenonese – senza parlare «dialetto» (ossia friulano), e non solo la necessità di adottare un codice di più ampia diffusione a livello di mesoletto per i rapporti con i vicini.

2 Panorama sociolinguistico e studi sulla situazione sociolinguistica del Friuli 2.1 Il panorama sociolinguistico Il friulano è parlato nella regione storica del Friuli, una parte della Regione Friuli Venezia Giulia, e comprende anche una piccola appendice nell’attuale provincia di Venezia; i pochi comuni friulani della provincia di Gorizia hanno una posizione storicamente peculiare, perché, pur facendo parte a tutti gli effetti del Friuli storico, sono stati uniti amministrativamente al territorio friulano solo dopo la Prima guerra mondiale. Il totale dei parlanti può raggiungere le 500.000 unità (per questo dato e per il concetto di parlante friulano si veda il paragrafo seguente). Questo per la sede storica; va comunque tenuto sempre presente che i friulanofoni in contesti di emigrazione contano, tutti insieme, un numero di parlanti superiore a quelli residenti sul territorio italiano. Gli emigranti possono poi essere distinti in due tipologie, di cui una è rappresentata da coloro che sono ben integrati linguisticamente nel paese di arrivo: questo è tipicamente il caso di emigrazione verso altre Regioni d’Italia, dove spesso il friulano è mantenuto a livello familiare, o verso la Francia o il Belgio vallone; in questi casi alla competenza nativa di francese si affianca spesso una buona resistenza familiare del friulano; per la Baviera cf. Melchior (2009). Diverso è il caso dei «coloni» in territorio alloglotto, stanziati in villaggi quasi esclusivamente friulanofoni, almeno storicamente, circondati però da lingue diverse, come accade per esempio nel Sud del Brasile o in Argentina (cf. Melchior 2011). In aree determinate del Friuli storico si parlano tuttavia anche altre varietà; innanzitutto, come varietà bassa, il veneto, che ha in alcuni casi già soppiantato le varietà autoctone nel corso dell’età moderna: ci riferiamo in particolare alle città di Udine (dove il friulano è in parziale ripresa nelle classi colte), Pordenone e Palmano-

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va, alle quali si aggiunge il territorio di pianura a ovest di Pordenone e la zona intorno alla città di Monfalcone, il cui dialetto, veneto, è detto «bisiacco». Abbiamo poi isole linguistiche alloglotte: i villaggi di Sauris e Timau in cui si parlano dialetti bavaresi e ai quali va aggiunto il comune di Sappada ora in Veneto (in queste realtà il friulano è comunque usato come mesoletto) e la cosiddetta «Slavia veneta», costituita dalle valli di Resia (cf. Steenwijk 2003), del Torre e del Natisone, in cui il friulano è in contatto con varietà slovene autoctone. Tutt’attorno, nella Regione Friuli Venezia Giulia, troviamo due tipi di realtà diverse: particolarmente multilingue è il territorio della Val Canale, a nordest della Regione, che vede la coabitazione di varietà germaniche, slave e romanze, tra cui il friulano come codice non autoctono; a est si estende poi il dominio dello sloveno nelle province di Trieste e Gorizia, mentre nelle città di Trieste e Muggia sono in uso varietà locali di veneziano coloniale.

Carta 1: Lingue del Friuli secondo i dati di Alpina 1975, rielaborati

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2.2 Lavori precedenti sulla sociolinguistica del friulano I lavori specifici sulla sociolinguistica del friulano cominciano dagli anni ’70 del secolo scorso con i saggi pionieristici di Francescato (1974; 1976; 1979; 1989; cf. anche Francescato/Salimbeni 22004); ora, al di là di studi su singole località, pur non molto numerosi, e di sintesi individuali, talora di ottima qualità (Strassoldo 1988; 1996 e i saggi raccolti in Picco 2013a fra gli altri), pare qui interessante soffermarsi sulla panoramica che dell’area mostrano inchieste di ampio respiro, condotte sull’intero territorio della Regione Friuli Venezia Giulia o su parti rilevanti di essa. Le inchieste che citeremo qui sono condotte con metodi quantitativi, tramite l’ausilio di un questionario stampato; o per corrispondenza (Alpina 1975), o con interviste strutturate facciaa-faccia (Picco 2001) e talora (Susič/Janežič/Medeot 2010) per telefono: tutte comunque prevedono autovalutazioni dei parlanti basate su risposte chiuse e predeterminate; sui vantaggi e i limiti di questo tipo di rilevazioni, spesso le uniche praticabili su vasti territori, cf., per aree linguistiche comparabili, Iannàccaro/Dell’Aquila (2006a), Iannàccaro (2010) e le discussioni ivi contenute. I primi dati organici a nostra disposizione – se si astrae dal Censimento del Regno d’Italia del 1921, riguardante per il friulano l’allora provincia di Gorizia – provengono da un’inchiesta condotta dal «Gruppo di studio Alpina» di Bellinzona, pubblicati in un fascicoletto di assai scarsa circolazione (Alpina 1975). Lo studio si è basato su inchieste per corrispondenza, in cui fu chiesto ai sindaci di tutti i comuni della Regione – non dunque solo della parte friulanofona, ma comprendendo anche le aree di minoranze alloglotte – di rispondere a qualche domanda sulla condizione e sull’uso delle diverse lingue presenti nel loro comune. Ne emerge una situazione in cui il friulano è parlato da poco più di mezzo milione di persone, che corrispondono al 45% della popolazione totale della Regione, comprese dunque le aree dove il friulano non è storicamente presente; la percentuale sale al 70% se ci si limita alle aree friulanofone. L’aspetto più interessante della ricerca è l’accuratezza geografica delle rilevazioni, che non si ritroverà, in questa misura, negli studi successivi: sull’inchiesta di Alpina, e nonostante la sua antichità e i suoi limiti metodologici e statistici, abbiamo a suo tempo costruito la carta 1, che già circola in alcune pubblicazioni scientifiche. Alla fine degli anni ’70 e agli anni ’80 risalgono poi studi sociolinguistici, anch’essi di circolazione non molto ampia, commissionati dalla Regione o da enti regionali, incentrati sull’area friulanofona (De Marchi 1980; 1982; ISIG 1985), e risale alla metà degli anni ’90 l’inchiesta di Glyn Williams (coadiuvato sul territorio da Silvana Schiavi Facchin) per Euromosaic. Inchieste quantitative sono anche quelle condotte dall’ISTAT nel 1988 (ISTAT 1989) e nel 1997 (ISTAT 1997) su tutto il territorio nazionale italiano, con un campione totale di 1.000 intervistati; per la parte del Friuli Venezia Giulia è interessante comparare le dichiarazioni dei residenti rispetto alla propria lingua, così come emergono dalle due rilevazioni. Alla fine degli anni ’80, alla domanda riguardante la lingua o il dialetto parlati in famiglia, le risposte si distribuivano nel seguente modo: «solo o prevalentemente italiano» 25,8%, «italiano o dialet-

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to» 18%, «solo o prevalentemente dialetto» 55,4%, «altra lingua» 0,4% (questi ultimi corrispondenti a circa 5.000 persone nell’universo). Già nel 1995, pochi anni dopo, le percentuali risultavano però così ripartite: «solo o prevalentemente italiano» 35,3%, «italiano o dialetto» 13,6%, «solo o prevalentemente dialetto» 22,7% (dunque con un calo del 32,7%), «altra lingua» 21,9% (corrispondenti a circa 250.000 persone e con una differenza di +21,5%). È evidente che, nonostante quello che pare un evidente calo della dialettofonia, in parallelo con le altre regioni italiane, non è presumibile che una persona su cinque fra quelle abitanti nella regione abbia cambiato così radicalmente le proprie abitudini linguistiche in un così breve periodo; a questo si aggiunge la perplessità su quale sia questa nuova lingua apparsa così prepotentemente alla fine del secolo XX . Si tratta allora chiaramente di un riorientamento della popolazione rispetto alla percezione linguistica, che evidenzia il movimento di risistematizzazione sociolinguistica che sta portando le varietà friulane dallo status di «dialetti dell’italiano» a quello di «(dialetti del) friulano». Presumibilmente il friulanofono che ha risposto a questa domanda continua a basare la sua identificazione linguistica sulla varietà territoriale della propria microcomunità (comune, frazione, villaggio); ma mentre nel 1988 immaginava per queste un riferimento nell’italiano, ecco che nel 1995 è possibile per lui l’identificazione con un generico «friulano»‚ che viene ora percepito come lingua a sé. Ma l’indagine più recente e completa, fra quelle dedicate all’area friulanofona, è quella di Strassoldo e Picco (Picco 2001): si tratta di una tipica inchiesta sociolinguistica quantitativa, con scelta del campione ponderata, che ha raggiunto 463 intervistati fra i 18 e i 65 anni, accorpati per caratteristiche demografiche e socioeconomiche e sottoposti a intervista strutturata da 15 ricercatori selezionati. I comuni con popolazione friulanofona sono stati classificati secondo parametri di numerosità di popolazione, collocazione geografica e ruralità; ne sono poi stati scelti 32, considerati rappresentativi, e in ciascuno di essi sono state raggiunte 12 persone (31 a Gorizia e 72 a Udine). Il campione non è vastissimo ma è ben ponderato e l’inchiesta restituisce una buona idea generale dell’area friulanofona, pur non consentendo approfondimenti geosociolinguistici; esclude le aree non tradizionalmente friulanofone e i paesi germanofoni di Timau e Sauris, ma include la plurilingue Val Canale. Ne vediamo cursoriamente qualche dato. Secondo questa inchiesta il friulano è piuttosto presente negli usi linguistici della popolazione: dichiara di capirlo e parlarlo regolarmente il 57% degli intervistati (dati arrotondati all’unità), mentre di usarlo solo occasionalmente il 20%; un altro 20% dichiara di capirlo ma di non parlarlo: in totale dunque la quasi totalità della popolazione dell’area ha comunque a che fare con il friulano, e ne ha una competenza almeno passiva. Venendo alle differenze nelle classi d’età, è notevole (ma in linea comunque con le tendenze generali almeno dell’alta Italia) il fatto che la classe con la minore competenza del friulano è quella di mezzo, dai 34 ai 49 anni; il 29% dei giovani dichiara di capirlo ma di non parlarlo. Il friulano sembra caratterizzarsi come lingua familiare: il 50% degli intervistati dichiara di parlare solo friulano con i

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genitori (il 30% solo italiano, comunque); usi misti sembrano essere poco diffusi (il 4% circa dichiara «entrambe le lingue»), mentre è piuttosto alta, al 12%, la percentuale di chi dichiara di usare «altro» (ed è verosimilmente il dialetto veneto). La comunicazione in senso inverso è più orientata verso l’italiano; per i genitori emerge una tendenza a parlare piuttosto italiano che solo friulano, ma il friulano sembra essere presente nella comunicazione con almeno metà dei figli (che tuttavia possono anche essere adulti), a volte mescolato con l’italiano. Allo stesso modo il friulano pare prevalere negli usi con fratelli e sorelle (48% friulano, 28% italiano, 4% entrambe le lingue) e con i compagni di gioco (49% friulano, 33% italiano, 8% entrambe). Al crescere del livello di istruzione corrisponde un decremento nella competenza attiva del friulano: il 74% di coloro che posseggono un diploma di scuola dell’obbligo afferma di capire e parlare regolarmente il friulano, percentuale che si riduce al 46% per i possessori di diploma di scuola superiore e scende al 39% per il laureati (in verità la maggior parte di loro afferma sì di capire il friulano ma di non parlarlo; solo il 9% afferma di non capire nulla). Ora, questo è un pattern che è stato molto diffuso fra le lingue minori d’Italia, e che adesso sembra in regressione; l’impressione in effetti è che misuri non tanto gli atteggiamenti nei confronti della lingua meno diffusa, nel nostro caso il friulano, a seconda del grado di istruzione dell’informante, ma gli usi e gli atteggiamenti della generazione precedente alla sua. I laureati, è noto, sono in alta percentuale figli di laureati: già per questo, in una temperie sociale come poteva essere quella dell’Italia contadina e del Friuli contadinissimo, poco «dialettofoni»; e i diplomati provengono in prevalenza da famiglie che fino a tempi molto recenti tendevano a marcare la distanza rispetto al mondo agricolo e pastorale. Le risposte a queste domande ci forniscono così un’utile base per verificare la differenza di atteggiamento linguistico nei confronti del friulano attraverso gli ultimi decenni. Il friulano è poi lingua «parlata abitualmente in paese» (60%, contro un 33% di italiano e, significativamente, 3% «goriziano» e 3% «veneto» – si ricordi che l’inchiesta è condotta solo nelle aree esplicitamente friulanofone). Gli ambiti d’uso ritenuti più tipici, come risposta alla domanda, fortemente ideologica, «nelle seguenti situazioni come dovrebbero parlare prevalentemente i friulani fra di loro?», sono l’osteria (93% [!]), al lavoro con colleghi o con compagni di scuola (64%), nei negozi (62%), al lavoro con superiori, o verso gli insegnanti (43%), nelle pubbliche riunioni (43%), in chiesa per le funzioni (35%). Altri ambiti d’uso non sono stati proposti nell’inchiesta. Le risposte sono ampiamente stereotipe, in particolare quella sull’osteria, ma dipingono una lingua piuttosto radicata sul territorio, ancorché percepita al polo più basso della diglossia. Alta sembra poi essere la percezione dell’utilità del friulano a scuola: l’85% degli intervistati è favorevole a far seguire agli studenti «alcune ore settimanali dedicate al friulano» nella scuola dell’obbligo; l’insegnamento del friulano (si noti, non già in friulano; per questo cf. Iannàccaro 2010) dovrebbe però essere facoltativo (43% degli intervistati) o al limite obbligatorio ma con possibilità di esenzione (ancora 43%); pochi (9%) ritengono utile un insegnamento obbligatorio per tutti e meno ancora

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(4%) vorrebbero una scuola senza friulano (per cui cf. sotto, e ↗18 Friulano nella scuola (e nell’università)). Di diversa impostazione ma parimenti interessante è poi uno studio pubblicato nel 2010 (Susič/Janežič/Medeot 2010): si tratta di un’ampia ricerca condotta su tutta la Regione (3.000 intervistati, di cui 2.150 per l’«area friulanofona», 750 per le comunità slovene e 100 per quelle germanofone), incentrata su questioni di politica linguistica e sulla percepita delimitazione dei gruppi linguistici sul territorio. L’indagine è stata condotta per telefono, con possibilità di interazione quadrilingue con l’operatore, e trova il suo focus sulle attività degli enti di pianificazione linguistica. Il piano di campionamento, accurato, ha diviso la Regione per area linguistica (friulanofona, germanofona, slovenofona), escludendo dunque la popolazione italofona e venetofona. Le indagini, apparentemente parallele, di Strassoldo e Picco, e Susič/Janežič/ Medeot sono in verità difficilmente comparabili, per la diversa estensione delle aree considerate e per il differente scopo della raccolta; un confronto indiretto è possibile solo per poche domande. Ci limiteremo a osservare, e solo per l’area friulanofona, la domanda «quale è la lingua che ha appreso e parlato per prima?», che restituisce una buona presenza del friulano: il 40% delle risposte, cui si aggiungono l’11% di «friulano e italiano contemporaneamente» e una parte almeno delle risposte «altro», che possono comprendere anche il friulano in combinazioni varie con altri codici; di contro «solo italiano» è stato scelto dal 34% dei rispondenti. Tuttavia l’italiano sembra essere, ancorché di poco, la lingua preferita in famiglia, scelta dal 34% degli intervistati; il friulano arriva al 33% e gli usi misti si attestano sul 18%. È poi interessante, per questioni di percezione e ideologia linguistica, la risposta alla domanda «a quale (o quali) comunità linguistica(-che) si sente di appartenere?»: la maggioranza relativa ha optato per un’appartenenza mista (40% friulana e italiana), mentre le dichiarazioni di appartenenza esclusiva si fermano al 26% per il friulano e al 28% per l’italiano. A questo proposito può essere molto utile il raffronto comparativo con la situazione della comunità slovena, sempre dai dati di Susič/ Janežič/Medeot; la dichiarazione di appartenenza mista (italiano/sloveno) è qui limitata al 10% dei rispondenti (verosimilmente dell’area che sotto sarà definita «Slavia udinese», più integrata nella compagine italiana), contro il 24% di appartenenza alla comunità slovena, il 44% all’italiana e il 20% di «altra» (comunità linguistiche con un nome locale radicato, o tedesca, friulana o combinazioni di queste con italiana e slovena). Dunque l’area friulanofona, se si tengono presenti questi dati comparativi, sembra non essere un territorio dalle forti contrapposizioni comunitarie («noi italiani/voi friulani»), ma piuttosto di una sovrapposizione e coesistenza di identità diverse nella stessa famiglia o nella stessa persona. Essere friulano, in sostanza, non esclude, per la maggioranza della popolazione, l’essere anche italiano: nell’area slovenofona, di contro, e in particolare a Trieste e Gorizia, le due entità etnico-linguistiche italiana e slovena – ma ciò è evidente anche da una serie di altre caratteristiche sociodemografi-

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che – sembrano affiancate se non in contrapposizione. Una tale diversa situazione parrebbe essere tipica della differenza, già accennata, fra «minoranza nazionale» (in questo caso quella slovenofona) e «minoranza linguistica», i friulani, che accettano identità miste e non necessariamente dicotomiche – l’assenza di uno stato nazionale cui rifarsi è probabilmente dirimente, in questi casi, così come la sedimentazione di diverse esperienze storiche. Vale poi la pena di considerare infine il lavoro di Picco (2013b, ma i dati sono della metà degli anni 2000) dedicato alla lingua dei giovani fra i 15 e i 18 anni di età, rappresentati da un campione di 388 ragazzi residenti in una rete di località simile a quella di Picco 2001. Ne emerge, in un quadro in cui il friulano è tuttora piuttosto usato (capisce e parla regolarmente il 29% del campione, occasionalmente il 33% e capisce ma non parla il 33%), «una mancata ‹idealizzazione› riguardo a certi temi: non ci sono passioni forti […], soltanto l’accettazione […] di situazioni di fatto: […] si riconosce generalmente la libertà del singolo di esprimersi come meglio crede, senza polemiche o prese di posizione. […] I dati raccolti ci mostrano una generazione che riconosce alla lingua una mera funzione comunicativa […] alla quale si riconoscono funzioni […] strumentali e nei cui confronti non esiste un rapporto di ‹vicinanza affettiva›» (Picco 2013b, 157).

Se veramente le cose stanno così, a fronte anche di un’inchiesta qualitativa condotta nel pordenonese di cui si dirà più avanti, la situazione sembrerebbe essere quella definita altrove di «schizoglossia» (cf. Goebl 1979; Iannàccaro/Dell’Aquila 2006b), ossia di mancata attribuzione di funzione simbolica ad almeno una delle lingue utilizzate sul territorio: questo potrebbe comportare una certa debolezza del sistema sociolinguistico, pronto ad accogliere sia ri-simbolizzazioni consapevoli di uno dei codici esistenti, sia l’ingresso di un nuovo codice che, pur sociolinguisticamente minoritario e eventualmente in posizione bassa, possa assumere le funzioni di lingua simbolica. Nel pordenonese, lo vedremo, questo sembra essere in parte il caso del veneto.

3 Repertori delle comunità 3.1 Metodologia È interessante ora vedere la composizione del repertorio delle comunità; non solo rispetto a coloro che parlano esplicitamente friulano, di cui ci interessa qui in prevalenza, ma allargando il nostro sguardo all’intera Regione e alle comunità friulane adiacenti. Lo faremo mediante una tabella, composta tramite le indicazioni di Dal Negro/Iannàccaro (2004) e Iannàccaro/Dell’Aquila (2011b). Si tratta di un approccio alla complessità linguistica che ha come focus esplicito la comunità parlante, di cui vanno considerati tutti i codici compresenti e le relazioni fra questi.

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Nel nostro caso abbiamo individuato, per il Friuli, i codici e le aree seguenti: Codici: FUR: friulano; ITA: italiano; SLN: sloveno; DEU: tedesco; VEN: dialetti di tipo veneto e veneziano; RES: resiano, varietà slava della valle di Resia, considerata dai parlanti stessi lingua a sé e non varietà dello sloveno; BAY: dialetti bavaresi di Sauris, di Timau e della Val Canale. Aree: Il territorio della Regione è stato originariamente diviso in 20 zone omogenee, accorpate poi in 12 aree, seguendo due parametri, uno geografico e demografico e l’altro più propriamente linguistico, anche se questi tendono a determinarsi a vicenda, pur senza coincidere completamente. Abbiamo così: 1a. Carnia: regione storica dell’alta valle del Tagliamento, caratterizzata dal forte senso di compattezza della comunità; 1b. Canal del Ferro e Monti orientali: valli del Fella, paesi friulanofoni della valle del Torre e affluenti; 2. Slavia Udinese: le comunità tradizionalmente di lingua slovena delle Valli del Natisone e i paesi slovenofoni della valle del Torre; 3. Resia: la Valle di Resia; 4. Val Canale: la parte alta del bacino del Fella e le sorgenti della Drava, territorio entrato a far parte dell’Italia nel 1919 e tradizionalmente plurilingue; 5. Sauris e Timau, isole di lingua germanica; 6. Prealpi pordenonesi: le montagne a ovest del Tagliamento, piuttosto isolate, tradizionalmente friulanofone; 7. Collina udinese: territorio est del Tagliamento – comprende centri, come San Daniele, in genere considerati «culla del friulano»; 8a. Pianura udinese e goriziana; 8b. Pianura pordenonese di lingua friulana; 8c. Costa: litorale di lingua friulana; 9. Pianura pordenonese venetofona; 10. Veneto friulano: area tradizionalmente friulanofona della provincia di Venezia; 11. Bisiacaria: territorio venetofono della provincia di Gorizia; 12. Slavia della Venezia Giulia (TS/GO): comuni slovenofoni delle provincie di Trieste e Gorizia. A parte sono state tenute le città di Trieste, Udine, Pordenone, Gorizia e Palmanova. Alcune di queste aree si caratterizzano solo per la loro specificità linguistica, come Sauris, Timau o la Slavia udinese; altre sono state individuate per ragioni storiche.

Vediamo ora molto rapidamente le caratteristiche dei parametri linguistici proposti nella tabella, rilevando sin d’ora che, con l’eccezione della prima, che prevede una mera enumerazione dei codici in uso nella comunità, nelle altre caselle i codici sono presentati gerarchicamente, e ove possibile per scala d’implicazione (ossia, per le indicazioni della casella 3 a Resia, nei domini bassi, si parla in genere resiano, ma è anche un’opzione possibile quella di impiegare il friulano). I parametri 4, 5, 6, 12 e C, scritti in corsivo, sono esplicitamente emici, ossia rispecchiano la (ritenuta) posizione o visione della comunità riguardo alle variabili proposte. Così i codici che si trovano nelle caselle 2 e 3 (codici in H e in L) sono da interpretare come indicazione del ricercatore – che gli deriva da conoscenza del territorio o dalla letteratura presente. A questi rispondono i parametri emici 5 e 6, «lingue» e «dialetti», che indicano la categorizzazione ad opera dei parlanti del proprio repertorio; anche qui le stesse varietà possono comparire in entrambe le

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caselle, per una questione di statuto non chiaro nel repertorio della varietà in questione, o perché l’ambiguità fra «lingua» e «dialetto» si riferisce a una lingua di koinè e una variante locale che hanno lo stesso nome. Questa è la ragione per cui nella tabella i nomi delle lingue sono talora accompagnati da un asterisco, che segna la variante locale effettivamente parlata, e sentita come almeno in parte differente da una forma o standard o ideale di riferimento. In sostanza, FUR* significa «il mio dialetto (friulano)», visto come parte di un insieme linguistico dotato di una sua autonomia, e riconosciuto come tale anche se non percepito come coincidente con la varietà illustre (ideale, standard) della lingua. Di contro, ITA* indica il particolare italiano locale (non già il dialetto), caratterizzato principalmente per tratti prosodici, fonetici e lessicali, eventualmente contrapposto a un italiano standard sentito come esterno. Il parametro 4, «codici ideologici» indica l’eventuale presenza di varietà che non sono effettivamente parte del repertorio in quanto parlate o utilizzate correntemente dalla comunità (anche se possono essere state usate in passato), ma che costituiscono apparentamenti ideali o varietà verso cui in qualche modo la comunità tende, per motivi economici, culturali o sociali. I parametri 7, 8, 9, se considerati congiuntamente, danno utili indicazioni dinamiche sulle evoluzioni possibili dei rapporti fra i codici nella comunità e dunque sulla situazione sociolinguistica: è infatti interessante, riteniamo, oltre che notare i codici che sono esplicitamente in ascesa, distinguere se l’eventuale declino è dovuto al calo di parlanti (nelle condizioni di morte della lingua) o alla perdita di status, al limite mantenendo invariato il numero dei parlanti (che dunque, pur parlando la varietà, la sanzionano). Con il simbolo VEN° segniamo nella tabella un doppio movimento: il passaggio dal veneto all’italiano come lingua L da parte di alcuni parlanti della comunità, e parallelamente il passaggio dal friulano al veneto di altri. Conoscenze specifiche e di maglia piuttosto fine sono necessarie per valutare correttamente il parametro 10 «codici non autonomi nella conversazione»: molto minacciate, infatti, sono quelle varietà che possono comparire soltanto o quasi soltanto, nel parlato spontaneo, in contesti di code-switching; in Friuli si può anche avere, nelle aree particolarmente venetofone, una condizione in cui nel parlato è piuttosto difficile che l’italiano stesso non venga in qualche modo mescolato con il dialetto. Pure rilevante è notare l’eventuale presenza di attenzioni istituzionali su un particolare codice fra quelli utilizzati dalla comunità; fra parentesi abbiamo indicato le situazioni in cui il friulano, oggetto di attenzione in quanto lingua tutelata dalla Regione nel suo complesso, non è però lingua tradizionale di quell’area (normalmente invece le parentesi indicano una varietà scarsamente presente in quell’ambito del repertorio, ma non del tutto da trascurare). «Codici endocomunitari» dice della considerazione in group di alcuni codici e non altri da parte della comunità: il punto di maggior interesse di questa categoria, a nostro parere, è la differenza rispetto alla visione classica, che vede codici in group parificati col polo L, e codici out group visti come H: nel nostro modello, conformemente a quanto riteniamo essere la percezione

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e il comportamento linguistico effettivo dei parlanti, l’essere endo- o esocomunitario, per un codice, è indipendente dalla sua posizione H o L. I parametri indicati con lettere derivano dalla revisione della tabella in chiave di ricerca sulla vitalità linguistica operata in Iannàccaro/Dell’Aquila (2011b): riteniamo che siano interessanti qui, perché danno indicazioni sugli usi reali delle diverse varietà. Il primo parametro, «(il codice) non (è) marcato nell’uso attivo orale», è concepito per essere una misura della normalità d’uso. In sostanza ci si è chiesti quale (quali) varietà possa(no) essere considerate «piana», «impercepita» dal parlante: la varietà con la quale si apostroferebbe un gruppo di bambini ad una festa in casa, per esempio, o che costituisce la base conversazionale fra commessi e clienti abituali di un negozio, pur non escludendo sporadici casi di code-switching. Due parametri sono poi dedicati all’eventuale uso scritto: «presenza di un’ortografia standard» e «(il codice) non si scrive». Presi nel loro insieme, isolano le condizioni estreme, che sono poi quelle a nostro avviso più rilevanti per la valutazione degli usi linguistici effettivi. È ovviamente importante considerare se una lingua è dotata di ortografia standard; quanto a «non si scrive» certamente il parametro non indaga l’impossibilità fisica di trascrizioni (o di un’ortografia), ma indica che la comunità non si aspetta, nei casi normali, che il codice target venga scritto in modo estensivo. Può sembrare insufficiente un solo parametro (che è «(il codice è) veicolare a scuola») per inquadrare il dominio «scuola»: di fatto però a fini sociolinguistici non è così rilevante sapere se una varietà è insegnata o no come materia di studio, perché lingue chiaramente morte nell’uso sono insegnate nelle scuole di molte tradizioni culturali diverse. Da ultimo, la presenza nei mezzi di comunicazione: anche qui il tentativo è quello di isolare i due estremi, ossia la possibilità fisica di ricevere input comunicativi nella lingua target, e di considerarli normali.

Tabella 1: Repertori delle comunità del Friuli Venezia Giulia

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3.2 Il repertorio delle comunità I dati della tabella vengono da un’attenta sintesi della bibliografia specialistica, sia generale sia riferita alle singole località (per cui cf. Heinemann/Melchior 2011) e dalle nostre inchieste e frequentazioni del territorio; la sua attenta considerazione restituisce di per sé, riteniamo, una buona approssimazione sulle condizioni (macro)sociolinguistiche del Friuli; appunteremo qui solo alcuni aspetti della situazione specifica del friulano. Nelle aree friulanofone, il friulano è certamente (ancora) molto presente, sebbene con ampie differenze di uso e collocazione: di uso residuale (o al contrario, di nuova acquisizione, presso classi più colte e ideologicamente controllate) nella città di Udine, le varietà friulane sono principalmente adoperate, nell’uso effettivo, nella fascia montana e collinare, in particolare a est e a nord del Tagliamento. In queste aree si determinano spesso condizioni di diglossia effettiva, se non talora di diacrolettia (per cui Dell’Aquila/Iannàccaro 2004, 171): l’uso del friulano è generale, affiancato dall’italiano per le funzioni più alte e – in modo quasi esclusivo – nello scritto, coperto solo sporadicamente, e solo per usi amministrativi o (iper)letterari dal friulano. La fascia collinare a ovest di Udine, le cui varietà, per motivi storici e tradizionali, godono di prestigio indiscusso, presenta già qualche intacco dilalico; completamente dilaliche sono invece le zone di pianura, dove è considerato normale, per un nativo, condurre o assistere ad interazioni spontanee anche in italiano, o talora in veneto. Il friulano è poi mesoletto nelle aree tradizionalmente slavofone della provincia di Udine o germanofone: la sua «forza linguistica», un tempo molto pervasiva, parrebbe qui essersi affievolita in favore dell’italiano, ma senza che ciò abbia determinato la scomparsa del codice. Spia della buona tenuta del friulano è anche la sua generale collocazione fra le «lingue», e il fatto che sembra normale per il parlante riconoscere sue varietà interne. Sul piano del discorso, il parametro 10 (codice non autonomo), individua una certa solidità strutturale delle varietà: in Carnia e nelle zone montuose in generale è ampiamente possibile condurre una vita di relazione anche complessa (beninteso, astraendo dagli usi scritti) completamente in friulano, senza dover far ricorso a mescolanze linguistiche che non siano code-switching situazionali (per esempio all’arrivo di un – peraltro raro fra gli appartenenti alla comunità – interlocutore non friulanofono, o in contesti citazionali). È poi notevole che, a causa della fortissima emigrazione in Francia fino agli anni ’70 circa, non è infrequente ascoltare, presso anziani ritornati o presso villeggianti estivi di origine locale, battute di dialogo talora triplicemente contaminate, in cui, entro una lingua matrice solidamente friulana, compaiano, come embedded languages, francese e un po’ di italiano. Di contro, nella Bassa friulana, dove la funzione di lingua L è condivisa fra veneto e friulano, le due varianti sono spesso alternate o mescolate negli usi linguistici reali: sarà piuttosto il veneto, oltre all’italiano, a essere varietà indipendente, mentre il friulano compare, nei casi estremi, come lingua solo accessoria.

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4 Due casi studio: il pordenonese e la scuola 4.1 Percezione e valori delle lingue nel pordenonese A conferma e approfondimento di quanto visto sopra varrà la pena di fare cenno a due inchieste di tipo puramente qualitativo condotte in Friuli dal Centre d’Études Linguistiques pour l’Europe (rimandiamo per la metodologia e i presupposti teorici e di analisi a Dell’Aquila/Iannàccaro/Negrotti 2002; Iannàccaro 2002; Dell’Aquila/Iannàccaro 2004; Iannàccaro 2010). Si tratta di inchieste che si sono basate sulla metodologia del cosiddetto focus group creativo e che dunque si avvalgono di interviste – condotte da psicologi e linguisti insieme – su piccoli gruppi omogenei di informatori, che vengono sollecitati in modo molto indiretto sulle proprie convinzioni e pulsioni profonde relative alla percezione e all’uso delle lingue sul territorio. La prima inchiesta, incentrata sulla situazione linguistica, particolarmente interessante e variegata, della Provincia di Pordenone, ha visto la partecipazione di cinque gruppi di informatori, dei quali quattro distinti secondo il paramento principale Friulanofono/Non friulanofono e per età, con un quinto gruppo costituito da Giovanissime, ragazzine dai 14 ai 17 anni (ossia i soggetti che la letteratura sociolinguistica indica a priori come i meno sensibili alle varietà non-standard e di prestigio coperto). Ci limiteremo qui ad accennare ad alcune categorie di analisi di livello piuttosto alto che servono appunto, come si ricordava, a confermare il quadro sociolinguistico sopra accennato. Si possono dunque individuare nel friulano, nell’italiano e nel veneto le lingue che si contendono lo scenario in questa provincia, ognuna caratterizzata da tratti diversi che si differenziano in base all’età e alle tipologie dei repertori linguistici. L’italiano appare come lingua istituzionale, artistica, colta, letteraria; rappresenta tipicamente il polo alto delle relazioni di diglossia o di dilalia presenti sul territorio. È il codice più adatto a ricoprire la funzione comunicativa del linguaggio, percepito come comune a tutti e adeguato alla maggioranza delle situazioni linguistiche. Tuttavia, pur possedendo tratti di identificazione simbolica in quanto lingua nazionale della Repubblica Italiana, nonché lingua proposta dell’alta cultura e delle attività economiche e sociali superiori, l’italiano rimane sostanzialmente una lingua cui è difficile agganciare valori più profondi, quali quello della delimitazione dell’in group e della conversazione intima familiare. Per le fasce di età più alte è rilevante la distinzione fra Friulanofoni o Non friulanofoni. Per i primi l’italiano ricopre in maniera indiscussa le funzioni alte, letterarie, formali, burocratiche; è una lingua indispensabile, che entra a buon diritto nel repertorio della comunità. Di contro, la percezione dei Non friulanofoni riguardo all’italiano si può accostare piuttosto strettamente, riteniamo, a quella delle Giovanissime, con l’importante differenza rappresentata dal fatto che dagli adulti il veneto è conosciuto e usato stabilmente come polo basso della relazione diglottico/dilalica; e tuttavia, soprattutto in città e negli immediati dintorni è perfettamente ammissibile

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l’uso dell’italiano come lingua di conversazione informale. Ma mentre in altre zone sta avvenendo un’esplicita e consapevole rivalutazione ideologica del dialetto, questa non sembra ancora avere toccato le aree venetofone del pordenonese, dove, si accennava, è lingua usata ma non esplicitamente considerata tale; e questo è probabilmente sintomo della presenza almeno potenziale del friulano, sentito come la varietà miticamente tipica del territorio. Per quanto riguarda i Friulanofoni, la loro negazione consapevole del veneto è accompagnata a livello più profondo da sentimenti prevalentemente di paura e di inadeguatezza: data la sua penetrazione a livello basso, lo vivono come un intruso, portatore dell’immagine di una lingua giovane, rampante, capace di portare via spazi al più tradizionale friulano nei suoi ambiti d’uso più forti. Più semplice si presenta la situazione del friulano, che possiede una sua anima riconosciuta da tutto il campione come portatrice di valori tradizionali positivi, morali ed etici, ma indubbiamente rivolti al passato; è, per chi la parla, il codice più adeguato a esprimere l’affettività e la sensazione dell’essere gruppo, in quanto lingua calda e familiare, un codice che si connota di forti valori simbolici. Di fatto poi la percezione del friulano presso i Friulanofoni della provincia risulta complicata dalla loro generale tendenza (che è peraltro tipica di tutti i parlanti non linguisti) a distinguere in modo netto il concetto di «lingua» da quello di «dialetto»; abbiamo così spesso la percezione che il friulano sia la lingua alta, elevata, di antica tradizione storica e letteraria, mentre il loro friulano non sarebbe, sociolinguisticamente, che un dialetto. I tre codici fondamentali della provincia si distribuiscono così attraverso i gruppi in due scale di relazioni diglottiche: da un lato italiano (H) – friulano (L), dall’altro italiano (H) – veneto (L), con un’area di transizione a tre codici. In tutti i casi abbiamo ovviamente l’italiano nelle funzioni di lingua alta; ciò che varia è il peso relativo e per così dire la forza dei due codici in posizione L. La diglossia/dilalia italiano/friulano dovrebbe essere nominalmente più forte, per ragioni storiche e linguistiche, e soprattutto per la ricordata volontà esplicita dei Friulanofoni di costituire un gruppo in quanto tale, di quella che vede il veneto come opposto all’italiano. Tuttavia, nell’area del pordenonese almeno, il friulano è un codice socialmente ed economicamente meno prestigioso rispetto al veneto; in quanto varietà di montagna e di periferia è parlato prevalentemente dalle classi meno favorite sul piano economico, laddove il veneto è la varietà L cittadina e del mondo dell’industria. Gioca a sfavore del friulano anche il fatto di essere percepito come lingua diversa e strutturalmente difficile: di conseguenza il suo potere di assimilazione nei confronti di immigrati e di coloro che non lo parlano è più limitato rispetto a quello del veneto, sentito invece come facile, spontaneo e vicino all’italiano. Nella percezione dei suoi parlanti il continuum diglottico dei rapporti fra italiano e friulano si estende dunque da un irrealizzabile monolinguismo friulano a un bilinguismo teorico italiano – friulano a un rafforzamento o al limite a un mantenimento della diglossia, immediato scopo attuale; e in effetti una situazione di dilalia non sarebbe accettabile per i Friulanofoni. Vediamo ora come questo si declina nel mondo della scuola.

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4.2 La scuola friulana e la sociolinguistica Ci rifacciamo qui ai risultati di un’approfondita inchiesta, commissionata dal Ministero della Pubblica Istruzione italiano, sulla situazione dell’insegnamento delle lingue di minoranza nelle scuole italiane a dieci anni dall’entrata in vigore della legge 482/99 «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche» (Iannàccaro 2010); i dati sono soprattutto tratti dalla parte terza della ricerca, costituita da una serie di inchieste qualitative che hanno compreso la realizzazione di 35 focus group creativi presso scuole delle diverse minoranze territoriali. Vorremmo qui dare solo qualche cenno sulla funzione della scuola in quanto luogo di trasmissione del friulano e sul suo ruolo per la conservazione o eventuale alterazione degli equilibri sociolinguistici delle lingue compresenti nell’area; e ciò mostrando che cosa insegnanti e famiglie delle diverse comunità sul territorio della Regione si aspettano rispetto all’impegno della scuola nell’evoluzione dei rapporti dei codici. Per il Friuli le inchieste sono state condotte in quattro istituti scolastici localizzati in aree linguisticamente differenti (con gruppi di studenti – di IV elementare e II media – insegnanti e genitori): 1. a Paluzza, in Carnia, in territorio molto friulanofono; 2. a Pagnacco, comune nella fascia immediatamente alle spalle di Udine che ha conosciuto una recente immigrazione di fascia sociale alta proveniente dal capoluogo, in cui il friulano ha al momento una presenza che si avvia a diventare residuale; 3. nel Friuli slovenofono, a S. Pietro al Natisone, presso due istituti, uno di lingua italiana con un po’ di sloveno, e l’altro effettivamente bilingue italiano/sloveno. Il fine è quello di mettere in relazione la complessità del repertorio – reale e percepito dagli attori in campo – delle diverse comunità con il ruolo, desiderato o temuto, che l’insegnamento scolastico delle lingue di minoranza gioca per il mantenimento o l’alterazione dei rapporti fra i codici nel repertorio, indicando i punti sensibili rispetto alle aspettative che gli informatori si fanno riguardo alla situazione sociolinguistica del territorio. In altre parole saranno presentate, in forma di schema, la situazione che i parlanti ci indicano come quella attuale e proiezioni sul futuro desiderato che evidenziano la funzione che la scuola (indicata col simbolo ⌂) dovrebbe avere per la sua realizzazione. I codici usati per le lingue sono quelli usati per la tabella 1; l’aggiunta di «+» dopo il nome dice della particolare forza del codice, mentre ê indica una lingua identitaria, anche se non diffusa sul territorio come lingua parlata (è il «codice ideologico» della tabella 1). Paluzza – repertorio attuale percepito: ITA (H)/FUR+ (L) La situazione è descritta come una diglossia molto classica, con il friulano in funzione di basiletto e in posizione di particolare forza. – repertorio desiderato [⌂ITA (FUR)] (H)/⌂FUR+ (L) Gli informatori nel loro complesso desiderano una diglossia con il friulano ancora più forte (la scuola ne dovrebbe ampliare i domini d’uso), tanto da assumere

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talora la funzione di lingua alta, ancorché passiva (da usare per esempio nelle scritte, nei cartelli e in qualche altra occasione simbolica). La scuola deve comunque concentrarsi sull’insegnamento formale dell’italiano. Pagnacco – repertorio attuale percepito: ITA (H)/[ITA FUR] (L) Il repertorio è visto come una dilalia fra italiano (H) e friulano (L), residuale per i ragazzi, che partecipano quasi di un monolinguismo italiano; ci sono però ricordi di diglossia italiano (H) e friulano (L) fino a tempi molto recenti. – repertorio desiderato: [ITA (⌂FUR)] (H)/[ITA FUR+] (L) Si vorrebbe anche solo una dilalia un po’ più forte, con la menzione in ambito scolastico degli usi letterari del friulano letterario. San Pietro 1 (non bilingue) – repertorio attuale percepito: ITA (H)/[ITA (FUR) (SLN*)] (L) La visione attuale indica una dilalia residuale tra italiano come H e dialetti sloveni del Natisone come L, con presenza crescente, sempre in L, del friulano; il friulano è in ascesa in particolare nell’uso e nella percezione degli studenti. – repertorio desiderato: ITA (H)/[(ITA*) NAT] (L) Si vorrebbe una diglossia fra italiano H e dialetti sloveni L, ma anche solo una dilalia forte, secondo i giovani. In particolare le generazioni più anziane non vorrebbero la – pur percepita come esistente e forte – presenza del friulano nel repertorio in posizione L, mentre i giovani la danno come acquisita. Non è chiaro invece quale dovrebbe essere il ruolo della scuola, che pare in particolare demandata a conservare la cultura slovena più che la lingua. San Pietro 2 (bilingue) – repertorio attuale percepito: [ITA SLNê] (H)/[ITA SLN* (residuale) FUR (da espungere)] (L) Il repertorio percepito vede presente una dilalia con diacrolettia che ha come cardine l’italiano, affiancato come acroletto da uno sloveno standard prevalentemente identitario (non normalmente usato), e come basiletto da una serie di dialetti sloveni del Natisone residuali, con presenza, sgradita, del friulano. – desiderato ideologico: [ITA ⌂SLN] (H)/[NAT (SLN)] (L) Va distinta qui una situazione desiderata, dichiarata in senso ideologico, da una che si vedrebbe come non sfavorevole di fatto; la prima prevede una diacrolettia imperniata sullo sloveno, presente in H e L; eventualmente in L potrebbero trovar posto i dialetti territoriali della valle del Natisone, ma si è disposti a rinunciare alle lingue locali in favore di uno sloveno standard parlato che dovrebbe discendere dal suo ampio uso scritto; nessuna presenza è prevista per il friulano. La scuola oltre a rafforzare lo sloveno troverebbe il compito proprio nell’allontanare il friulano dal repertorio.

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desiderato di fatto: [ITA ⌂SLN] (H)/[ITA (NAT)] (L) Di fatto ci si accontenterebbe anche di una diacrolettia con l’italiano ai due poli (H e L) e lo sloveno come acroletto che lo affianca, in eventuale dilalia con i dialetti slavi del territorio. Anche in questo caso però la scuola, oltre a rafforzare lo sloveno, ha il compito di allontanare il friulano dal repertorio.

Chiaramente questi ultimi dati sono rappresentativi, a rigore, solo delle località nelle quali sono state condotte le inchieste; tuttavia rilevano, fra le altre considerazioni che si potrebbero fare, una tendenza che pare essere comune a tutto il Friuli, la crescente tendenza alla «linguicizzazione» del friulano e il suo parallelo tentativo di renderlo una varietà ideologizzata il cui continuum sociolinguistico è il più possibile indipendente da quello dell’italiano. Tale tentativo, a quanto pare, ha più probabilità di far presa proprio nei territori in cui il friulano è di fatto meno utilizzato come lingua di comunicazione normale (è indicativa in questo senso la situazione della città di Udine), mentre vaste aree montane e collinari, proprio per la normalità nell’uso quotidiano del friulano e la stabilità del suo rapporto con l’italiano, paiono meno interessate a operazioni di tipo ideologico.

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William Cisilino

13 Il quadro giuridico Abstract: Il riconoscimento ufficiale della minoranza linguistica friulana si basa su tre leggi: la legge regionale n. 15 del 1996 (L.R. 15/1996), la legge statale n. 482 del 1999 (L. 482/1999) e la legge regionale n. 29 del 2007 (L.R. 29/2007). La L.R. 15/1996 è stata il primo provvedimento legislativo a riconoscere ufficialmente il friulano come lingua e a stabilire esplicitamente la possibilità per gli enti locali di prevederne l’uso pubblico. La legge regionale ha anche individuato un apposito organismo di politica linguistica e delineato i primi interventi nei settori dell’istruzione pubblica e del sistema radiotelevisivo. La L. 482/1999 ha permesso di completare ed ampliare gli ambiti di tutela già definiti dalla normativa regionale. La legge statale, infatti, contiene una disciplina più specifica sull’insegnamento delle lingue minoritarie a scuola e prevede un diritto generalizzato di usare tali lingue in tutte le amministrazioni pubbliche. Nel 2007 la Regione ha approvato una nuova legge regionale di tutela: la L.R. 29/2007 (Norme per la tutela e la valorizzazione e promozione della lingua friulana), annullata in alcuni punti dalla Corte Costituzionale (Sentenza 159/2009). Keywords: tutela giuridica, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Repubblica italiana, usi pubblici, insegnamento

1 Norme internazionali ed europee sulla tutela delle minoranze linguistiche Nonostante nell’Unione europea vi siano oltre 50 milioni di persone che usano quotidianamente una lingua diversa da quella della maggioranza della popolazione statale, le forme di tutela delle lingue e delle culture minoritarie del Vecchio continente risultano tutt’altro che omogenee sotto il profilo normativo. Se da una parte vi sono minoranze linguistiche che, grazie a decisioni politiche e a forti pressioni popolari, hanno raggiunto alti livelli di tutela, dall’altra esistono minoranze che ad oggi non trovano alcun riconoscimento ufficiale (cf. Palici di Suni Prat 1999; Piergigli 2001; Palermo/Woelk 2008; Cisilino 2009). Riguardo ai trattati internazionali che disciplinano il tema della tutela della minoranze linguistiche, assume rilievo anzitutto la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici adottata dall’ONU il 16 dicembre 1966 ed entrata in vigore il 23 marzo del 1976 (ratificata dall’Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881), la quale contiene un esplicito riferimento ai diritti dei soggetti appartenenti ad una minoranza: si tratta dell’articolo 27 che, fra l’altro, costituisce la principale disposizione di carattere vincolante esistente in materia di minoranze nel sistema normativo che si ricollega alle Nazioni Unite. Secondo tale norma:

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«Negli Stati in cui esistono minoranze etniche, religiose o linguistiche, alle persone appartenenti a tali minoranze non sarà negato il diritto, in comunione con gli altri membri del loro gruppo, di godere della loro cultura, di professare e praticare la loro religione, o di utilizzare la loro lingua».

Dal tenore letterale della disposizione, sembrerebbe che gli Stati siano obbligati esclusivamente a mantenere un comportamento omissivo, cioè «a non negare» ai singoli individui (eventualmente in comunione con gli altri membri della minoranza) il diritto di usare la propria lingua, compresa – nel caso di specie – la cartellonistica di carattere «privato» (esercizi commerciali, abitazioni, sedi di associazioni, scuole private, etc.…). Tuttavia, il Comitato per i diritti dell’uomo ha sottolineato che: «Sebbene i diritti garantiti dall’articolo 27 [della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, W.C.] siano diritti individuali, detti diritti dipendono a loro volta dalla capacità del gruppo minoritario di conservare la propria cultura, la propria lingua o la propria religione. In conseguenza di ciò, può essere altresì necessario che gli Stati adottino misure positive per proteggere l’identità di una minoranza e i diritti dei suoi membri».

Operano, inoltre – in seno al Consiglio d’Europa –, la Convenzione europea sui diritti dell’uomo del 1950 (che prevede un divieto generalizzato di discriminazione per motivi linguistici) e due trattati specifici, i quali disciplinano rispettivamente il tema delle minoranze nazionali e delle lingue minoritarie. La Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa nel 1992, sancisce il diritto imprescindibile di utilizzare queste lingue nella vita privata e pubblica. Il trattato, che prevede la protezione delle lingue storiche regionali e delle minoranze attraverso la promozione e l’incoraggiamento del loro uso scritto e orale, indica una serie di misure adottabili in ambiti sociali ed economici. Tali misure coprono vari campi: l’insegnamento, la giustizia, le autorità amministrative, i servizi pubblici, i mass media, le attività culturali, la vita economica e sociale e gli scambi transfrontalieri. La Carta è aperta alla ratifica di tutti i Paesi europei: gli Stati possono scegliere le lingue da riconoscere e aggiungerne di nuove (anche dopo la ratifica) in conformità alle regole stabilite e a fronte dell’impegno di mettere in atto almeno 35 tra le azioni elencate in essa. La Carta è entrata in vigore il 1° marzo 1998 (l’Italia l’ha firmata nel 2000, ma non ha ancora provveduto a ratificarla). Altrettanto importante è la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, adottata a Strasburgo il 1° febbraio 1995 ed entrata in vigore il 1° febbraio 1998 (ratificata dall’Italia con legge 28 agosto 1997, n. 302). Essa contiene numerose indicazioni per un’effettiva promozione e protezione dei diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali. Questi obiettivi sono raggruppabili in cinque aree principali: diritti di base legati alla non-discriminazione e alla protezione dell’identità culturale, linguistica e religiosa delle persone; diritti linguistici; diritti collegati alla sfera educativa; diritti legati all’effettiva partecipazione nella sfera decisionale; questioni legate alla cooperazione transfrontaliera. In particolare il diritto all’educazione

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viene considerato una precondizione e un mezzo per assicurare il pieno godimento di altri diritti come la libertà di riunione pacifica, di associazione, di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione, di accesso ai mass media, etc. I limiti di questa Convenzione sono essenzialmente identificabili in due aspetti. Il primo riguarda la mancanza di una definizione precisa di «minoranza nazionale» che ha lasciato agli Stati aderenti ampia libertà di interpretazione circa il significato di tale concetto. Tale lacuna ha quindi generato una grave incertezza sia tra gli Stati che non hanno ancora ratificato il trattato (che potrebbero perfino negare l’esistenza di tali minoranze), sia tra i Paesi aderenti che si trovano in difficoltà nel delimitare il campo d’applicazione e nel definire le modalità di attuazione della Convenzione stessa. Questo limite, che ha permesso di formulare dichiarazioni unilaterali distinte da Paese a Paese, ha concorso ad affievolire notevolmente la portata delle disposizioni convenzionali. Il secondo limite è legato al fatto che le garanzie concesse alle minoranze risultano alquanto teoriche: la Convenzione contiene infatti soltanto principi e disposizioni di natura programmatica non direttamente applicabili. Questo significa che gli Stati hanno un significativo margine di discrezionalità nello sviluppo degli obiettivi indicati e quindi l’efficacia della Convenzione dipende in gran parte da un meccanismo di monitoraggio adeguatamente funzionante. Nel contesto dell’Unione europea, va infine sottolineata l’istituzione di un apposito commissario europeo sul multilinguismo. Il commissario europeo per il multilinguismo è un membro della Commissione europea ed è il responsabile del mantenimento e dello sviluppo di tutte le lingue dell’Unione (comprese quelle minoritarie). Istituito per volontà del presidente José Manuel Barroso, che ha sempre riconosciuto l’importanza di una politica linguistica di tipo pluralista, è attivo dal 1° gennaio 2007, da quando cioè il «Multilinguismo» è divenuto portafoglio autonomo affidato al commissario Leonard Orban. Lo scopo di questa strategia, presentata per la prima volta nel novembre 2005 nella comunicazione della Commissione Un nuovo quadro strategico per il multilinguismo, è di promuovere in modo permanente iniziative volte a dare impulso al multilinguismo nell’Unione europea. In seguito alla rinnovata composizione dell’esecutivo dell’Unione, il multilinguismo costituisce un portafoglio accorpato al Commissario per l’Istruzione, la Cultura e la Gioventù e lo Sport ed affidato, dal 2014, al commissario ungherese Tibor Navracsics. L’impegno assunto dalla nuova commissaria è stato fin da subito quello di dare priorità alle azioni concrete, per portare benefici tangibili ai cittadini, sostenendo sia le lingue ufficiali che le numerose lingue regionali o minoritarie presenti nel territorio dell’Unione europea.

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2 La legislazione sulla tutela della lingua friulana 2.1 Friuli Venezia Giulia: una regione multilingue In un’Europa che sta facendo della diversità linguistica e del multilinguismo uno dei suoi obiettivi strategici la regione Friuli Venezia Giulia può giocare un ruolo fondamentale grazie ad una situazione linguistica unica in Europa. Solo il Friuli, infatti, può vantare una plurisecolare convivenza sul medesimo territorio, tuttora viva, dei tre ceppi linguistici del Vecchio Continente: latino (friulano e italiano), germanico (tedesco e dialetti germanici locali) e slavo (sloveno e dialetti sloveni locali). Il fenomeno lambisce parzialmente anche la Venezia Giulia in cui da molti secoli convivono comunità autoctone di ceppo latino e slavo, ma fortemente influenzate per ragioni storiche dalla cultura tedesca (cf. Antonini 1996; Colautti 1994; Cisilino 2004b; Cisilino 2006b). Negli ultimi anni si sono succeduti numerosi interventi, legislativi ed amministrativi, volti a tutelare un patrimonio linguistico e culturale particolarmente complesso e diversificato per storia, numero di parlanti e esigenze di tutela. La comunità più consistente è quella friulana, presente ufficialmente in 176 comuni nelle province di Udine, Gorizia e Pordenone, di cui si tratterà in modo approfondito nei capitoli successivi. Sulla fascia di confine tra Friuli Venezia Giulia e Slovenia, insistono i 32 comuni di lingua slovena. Tale minoranza nazionale (tutelata già dal Memorandum di Londra del 1954) ha raggiunto alte forme di riconoscimento giuridico da parte delle istituzioni regionali e statali, compresa la legge 482/1999. Di lì a poco è stata approvata anche una legge specifica per la minoranza slovena (L.R. 38/2001), che contiene provvedimenti «globali» ad essa puntualmente rivolti. In particolare, la legge garantisce il diritto al nome o al suo ripristino in lingua slovena, sviluppa il diritto all’uso della lingua nei rapporti con l’amministrazione, nella toponomastica e nella scuola, istituisce un Comitato istituzionale paritetico per i problemi della minoranza slovena e promuove la collaborazione tra le popolazioni di confine e la minoranza e le sue istituzioni culturali, in un clima di mutuo confronto, per promuovere ed implementare politiche unitarie sui territori contigui. Più recentemente, la L.R. 26/2007 ha integrato la normativa statale, definendo le linee fondamentali delle politiche d’intervento della Regione a favore della minoranza. Infine, le comunità tedesche del Friuli Venezia Giulia sono presenti in cinque comuni della provincia di Udine: Sauris, Paluzza, Pontebba, Malborghetto-Valbruna e Tarvisio. La Regione Friuli Venezia Giulia ha promosso con la L.R. 4/1999 azioni specifiche di tutela e valorizzazione per le comunità germaniche, prevedendo finanziamenti per le attività culturali, ma soprattutto linguistiche, sia di circoli e associazioni culturali che dei cinque Comuni in cui sono presenti cittadini di lingua tedesca. Il percorso di riconoscimento delle comunità germaniche autoctone presenti sul territorio regionale si è completato nel 2009, con l’approvazione del primo testo

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legislativo organico di tutela: la L.R. 20/2009 recante il titolo Norme di tutela e promozione delle minoranze di lingua tedesca del Friuli Venezia Giulia.

2.2 Breve quadro storico-giuridico Il riconoscimento ufficiale della minoranza linguistica friulana è molto recente e si basa su tre leggi: la legge regionale n. 15 del 1996, la legge statale n. 482 del 1999 e la recente legge regionale n. 29 del 2007. In precedenza, gli unici riferimenti alla lingua friulana che si potevano trovare nei testi normativi, sia statali, sia regionali, avevano un carattere meramente incidentale, oppure inserivano la tutela della lingua in un più ampio disegno di promozione culturale (in tale alveo va inserita la pur avanzata, per l’epoca, legge regionale n. 68 del 1981, la quale prevedeva un apposito paragrafo dedicato alla promozione delle attività culturali in lingua friulana). Si trattava, pertanto, di disposizioni che sviluppavano più l’articolo 9 della Costituzione italiana (tutela del patrimonio culturale), che non lo specifico principio di tutela delle minoranze, stabilito dall’articolo 6, secondo cui «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche» (cf. Buttiglione 1991; Pizzorusso 1984). Con il nome di Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del Servizio per le lingue regionali e minoritarie, il Consiglio della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, il 27 febbraio 1996, ha approvato la prima legge organica di tutela della lingua friulana: la L.R. 15/1996. Ispirata dai principi affermati nella Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, che considera queste lingue una ricchezza culturale per ogni Paese, la L.R. 15/1996 è stata il primo provvedimento legislativo a riconoscere ufficialmente il friulano come «lingua» e a disciplinare tutta una serie di attività di politica linguistica (cf. Cisilino 2001; Cisilino 2004b). Un primo elemento da sottolineare è il valore che viene dato al friulano nel contesto regionale: l’articolo 2 considera «la tutela della lingua e cultura friulane una questione centrale per lo sviluppo dell’autonomia speciale». Nello stesso articolo il friulano riceve per la prima volta un vero e proprio riconoscimento ufficiale, essendo definito come «una delle lingue della comunità regionale». Altrettanto centrale è l’articolo 1 che, impegnando la Regione ad «esercitare una politica attiva di conservazione e sviluppo della lingua friulana», legittima le istituzioni regionali ad intervenire anche con provvedimenti di affirmative action, vale a dire con misure volte a favorire realmente la lingua friulana soprattutto nei contesti pubblici. L’articolo 5 stabilisce le modalità di delimitazione del territorio dove avrà piena operatività la legge. In applicazione di tale norma due distinti Decreti del Presidente della Giunta Regionale (il D.P.G.R. 0412/1996 e il D.P.G.R. 0160/1999) hanno individuato i comuni friulanofoni (in tutto sono oltre l’80% dei comuni della regione). Tale

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delimitazione è stata recepita anche dal Regolamento attuativo della legge 482/1999 (D.P.R. 345/2001) e della successiva LR 29/2007. Le norme più importanti della L.R. 15/1996 sono contenute negli articoli 11 e 11-bis, i quali introducono dei precisi diritti linguistici a favore dei cittadini che parlano il friulano. L’articolo 11 stabilisce una generica potestà della Regione e degli altri enti locali di usare il friulano nelle proprie attività. Molto più incisivo è l’articolo 11-bis, che sancisce la possibilità per gli enti locali dotati di autonomia statutaria di prevedere: a) l’uso scritto e orale del friulano nei rispettivi Consigli; b) l’uso della toponomastica in friulano; c) l’uso del friulano in altre situazioni, come nei rapporti con i cittadini. In realtà queste attività potevano già essere previste dagli statuti degli enti locali sulla base della legge 142/1990 (sull’ordinamento delle autonomie locali), ma l’inserimento di una norma esplicita in materia ha messo fine ad ogni dubbio di legittimità, favorendo nel contempo una certa uniformità normativa. Gli articoli 27 e 29 stabiliscono forme di promozione della lingua friulana, rispettivamente, nelle istituzioni scolastiche e nel settore radio-televisivo, ma non trattandosi (nel 1996) di materie di sua competenza, la Regione ha potuto prevedere solo forme di sostegno esterno. Fortemente innovativa, rispetto alle precedenti iniziative legislative, è stata l’individuazione di un unico organismo di politica linguistica – l’Osservatorio della lingua e della cultura friulane (OLF) – avente il compito di «programmare e coordinare tutte le iniziative di competenza regionale per la tutela della lingua friulana». L’OLF, strutturato come una commissione consultiva, ma di fatto più simile ad un ente strumentale della Regione, dopo alterne vicende (legate in parte anche a questa sua ambiguità strutturale) è stato sostituito nel 2005 dall’Agjenzie regjonâl pe lenghe furlane (ARLeF), un vero e proprio organismo autonomo di diritto pubblico. La L.R. 15/1996 segna anche la tappa conclusiva dell’annoso problema della grafia ufficiale della lingua friulana. Gli inizi di questo percorso possono farsi risalire agli inizi del 1985 quando la Provincia di Udine decise di costituire una Commissione ad hoc con il compito di formulare proposte le più unitarie possibili sulla grafia friulana. La Commissione era composta da Adriano Ceschia, Silvana Fachin Schiavi, Giovanni Frau, Amedeo Giacomini, Aldo Moretti, Gianni Nazzi, Etelredo Pascolo, Nereo Perini, Giancarlo Ricci, Piera Rizzolatti, Eraldo Sgubin. La scelta definitiva, tuttavia, fu affidata dalla stessa Commissione ad un arbitro esterno, il prof. Lamuela, catalano, professore di filologia romanza presso l’Università Autonoma di Barcellona, ed esperto di lingua friulana. La proposta di Lamuela si basò sul contributo primario della Commissione e sui contributi delle associazioni e degli scrittori friulani, con delle soluzioni originali del prof. Lamuela stesso. La proposta di Lamuela («La grafie furlane normalizade») fu approvata dal Consiglio della Provincia di Udine con Delibera n. 226 del 15 luglio 1986. Con Decreto del Presidente della Giunta Regionale (n. 392, del 25 ottobre 1996), emanato sulla base dell’articolo 13 della L.R. 15/1996, il sistema grafico di Lamuela

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fu adottato anche dalla Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia quale «grafia ufficiale della lingua friulana». La L.R. 13/1998 infine, apportò alcune lievi modifiche al sistema grafico (secondo quanto pattuito fra l’Osservatorio della Lingua Friulana e la Società Filologica Friulana), dando ad esso maggior forza mediante il suo inserimento in uno specifico articolo della L.R. 15/1996 di tutela della lingua friulana. La legge statale – nota come L. 482/1999 – è stata promulgata il 15 dicembre 1999 (e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 297 del 20 dicembre 1999) con la finalità di attuare il principio fondamentale di tutela delle minoranze linguistiche previsto dall’articolo 6 della Costituzione, che da oltre cinquanta anni era restato lettera morta (cf. Ministero dell’Interno 1996; Bartole 1999; Carrozza 1996; Cisilino 2004b; 2004c; 2006a; Palici di Suni Prat 1999; Piergigli 2001). Come è stato notato in uno dei primi studi sulla legge 482/1999 (cf. Palici di Suni Prat 2000), tale provvedimento presenta molte analogie con le disposizioni che si trovano in documenti internazionali ed europei intervenute negli ultimi anni su questa materia. A conferma di ciò, il Governo italiano ha provveduto, subito dopo la sua approvazione, a firmare la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Le norme più importanti di questa legge sono quelle che riguardano l’introduzione del friulano nel sistema scolastico e nei programmi radiotelevisivi pubblici (vale a dire le due materie che la L.R. 15/1996 non poteva disciplinare direttamente). Altrettanto importanti sono le norme che prevedono l’uso del friulano nella Pubblica Amministrazione. Il legislatore ha deciso di strutturare l’inserimento del friulano nelle scuole su due livelli. Il primo livello, contenuto nel primo comma dell’articolo 4, riguarda l’uso del friulano come lingua veicolare e prescrive che nelle scuole materne, elementari e medie inferiori si usi «anche la lingua della minoranza come strumento di insegnamento». L’altro piano, stabilito dal secondo comma dell’articolo 4, riguarda l’insegnamento del friulano come materia curricolare: in questo caso la norma prescrive che le singole scuole, nell’esercizio della propria autonomia organizzativa, debbano stabilire i modi, i tempi, i criteri di valutazione, le forme di impiego degli insegnanti e i metodi per garantire l’insegnamento della lingua minoritaria, anche tenendo conto delle domande che i genitori fanno al momento della preiscrizione. Riguardo a tale norma – non sempre interpretata correttamente – vanno stabiliti i seguenti punti fermi. Anzitutto va notato che le disposizioni citate non prevedono, in capo alle scuole, delle mere «facoltà» di inserire attività a favore delle lingue di minoranza, ma dei veri e propri obblighi. Il legislatore, infatti, usa sempre il tempo presente, con una chiara accezione precettiva: «è previsto l’uso della lingua di minoranza» (c. 1); «le scuole […], al fine di assicurare l’apprendimento della lingua di minoranza, deliberano […] le modalità di svolgimento dell’attività di insegnamento della lingua […]» (c. 2). Pertanto tutte le scuole site in ambito friulanofono devono attivarsi per «assicurare l’apprendimento della lingua friulana».

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In secondo luogo, le richieste presentate dai genitori al momento della preiscrizione non hanno carattere vincolante: la norma, infatti, prescrive che le scuole deliberino «anche sulla base delle richieste». Le richieste dei genitori, pertanto, non potranno far venir meno l’obbligo per le singole scuole di garantire l’apprendimento del friulano, ma serviranno ad esse esclusivamente per orientarsi nella definizione delle modalità di svolgimento di tale insegnamento. Detto in altre parole, le richieste dei genitori non potranno mai influire sul «se» dell’insegnamento del friulano, ma solamente sul «come», fermo restando che le scuole sono le uniche responsabili delle modalità didattiche da adottarsi. A conferma di ciò va aggiunto che, per l’uso del friulano come lingua veicolare (modalità di insegnamento di gran lunga più incisiva), non è prevista alcuna richiesta da parte dei genitori. Tanto importante quanto disattesa è la norma che riguarda l’introduzione delle lingue minoritarie nei mezzi radiotelevisivi pubblici (art. 12). Utilizzando anche qui una formulazione che esprime carattere vincolante («sono assicurate condizioni per la tutela […]»), la legge stabilisce che nel contratto di servizio tra il Ministero delle comunicazioni e la società concessionaria della televisione pubblica (vale a dire la RAI) si debbano prevedere impegni specifici per la tutela delle minoranze. Il Regolamento attuativo della legge (D.P.R. 345/2001, art. 11, c. 2) specifica altresì che il contratto di servizio debba indicare direttamente sia le sedi Rai chiamate a svolgere i programmi in lingua minoritaria, sia il contenuto minimo di tale programmazione, secondo una delle misure previste dall’articolo 11, c. 2, lettera a) della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Alquanto incisivo, per quanto riguarda gli usi pubblici del friulano, è l’articolo 9 della legge 482/1999, il quale prevede un diritto generalizzato all’uso scritto e orale del friulano in tutti gli uffici pubblici siti in territorio friulanofono. La stessa norma specifica che tali amministrazioni sono tenute a garantire «la presenza di personale che sia in grado di rispondere alle domande del pubblico usando la lingua ammessa a tutela». In base alla legge 482/1999, pertanto, esiste in capo ai cittadini friulani un vero e proprio diritto a usare la lingua friulana con la Pubblica amministrazione, sia in senso attivo (diritto di rivolgersi oralmente e per scritto), sia in senso passivo (diritto di ricevere risposte orali e scritte). La delimitazione dell’ambito territoriale di tutela avviene, secondo la L. 482/1999, ad opera del consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi (o di un terzo dei consiglieri comunali) oppure in seguito ad apposita consultazione promossa dai soggetti aventi titolo.

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2.3 Le ragioni di una nuova legge regionale di tutela A undici anni dall’approvazione della L.R. 15/1996 e ad otto dall’approvazione di quella statale, la Regione ha sentito l’esigenza di «mettere mano» alla legislazione linguistica sul friulano. Tale scelta è stata dettata soprattutto dalla necessità di superare alcuni evidenti limiti della citata normativa, anche sulla base delle nuove competenze assunte dalla Regione in conseguenza della riforma del Titolo V della Costituzione (2001), nonché dell’approvazione del Decreto Legislativo (D. Lgs.) 223/ 2002 (uno specifico decreto attuativo dello Statuto di autonomia in tema di minoranze). Nel dicembre del 2007, quindi, la Regione ha promulgato la nuova legge regionale di tutela, la L.R. 29/2007, denominata Norme per la tutela e la valorizzazione e promozione della lingua friulana, prendendo spunto da quattro diverse proposte di legge presentate nel corso della IX Legislatura regionale, fra cui il disegno di legge n. 257 proposto dalla Giunta regionale il 18 giugno 2007 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana) che ha costituito il testo-base adottato in sede di Commissione consiliare (cf. Cisilino 2008; 2009). Secondo il disegno di legge della Giunta regionale la nuova normativa doveva fondarsi su cinque «princìpi»: 1) il rispetto delle autonomie (si prevede l’obbligo per gli enti locali e per altri enti pubblici di adottare un piano di politica linguistica, ma le scelte da inserire nel piano rientrano nella potestà dell’ente stesso); 2) il rispetto delle libere scelte dei cittadini (gli enti pubblici garantiranno i servizi in lingua friulana, ma per i cittadini rappresenteranno sempre soltanto un’opportunità, mai un obbligo); 3) l’individuazione dell’Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane quale ente responsabile dell’attività di indirizzo, programmazione e coordinamento dell’applicazione della legge; 4) la flessibilità degli interventi (la legge è completa dal punto di vista organico e strutturale, ma non ne fissa rigidamente i parametri); 5) le verifiche (sono previsti non solo controlli amministrativi e contabili, ma anche valutazioni sull’efficacia delle azioni svolte). Il testo uscito dall’Aula consiliare ha sostanzialmente rispettato i cinque princìpi sopra esposti, sebbene in alcuni casi si sia discostato dalla proposta giuntale, a volte per limitarne la portata, altre per estenderla, altre ancora per introdurre istituti giuridici completamente nuovi. Nei prossimi paragrafi ne approfondiremo il contenuto, rimandando al capitolo 3 la trattazione della dichiarazione di illegittimità costituzionale di alcune parti del testo in esame.

2.4 Disposizioni generali e delimitazione territoriale La legge, suddivisa in 8 capi, consta di 34 articoli. Il Capo I (articoli 1–5) è dedicato alle disposizioni generali. L’articolo 1 definisce le finalità che la legge persegue e cioè, in primis, la tutela, la valorizzazione e la promozione della lingua friulana, nelle sue

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diverse espressioni; oltre a ciò, la Regione si impegna a svolgere una politica attiva di conservazione e sviluppo della cultura e delle tradizioni della comunità friulana. Per la prima volta in un atto legislativo il friulano viene definito «lingua propria» del Friuli. L’articolo 2 richiama i riferimenti giuridici fondamentali (internazionali, statali, regionali) del provvedimento: a livello internazionale, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e Libertà fondamentali, lo Strumento dell’Iniziativa Centroeuropea per la protezione delle minoranze nazionali, i documenti dell’OSCE, sottoscritti dall’Italia, la Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie, il trattato costituzionale dell’Unione Europea; a livello statale, la legge 482/1999; a livello regionale, la legge 22 marzo 1996, n. 15. Stranamente non è richiamata la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa, sebbene ratificata dallo Stato italiano. L’articolo 3 definisce l’ambito territoriale in cui si applica la legge, e cioè quello delimitato ai sensi della L.R. 15/1996 (l’eventuale modifica della delimitazione territoriale è disciplinata nelle «Norme finali» dall’articolo 32 secondo cui, entro 2 anni dall’entrata in vigore della legge, con Decreto del Presidente della Regione, sulla base di conformi e motivate deliberazioni dei singoli Consigli comunali, è possibile operare la modifica). Sempre l’articolo 3 prevede iniziative per la conoscenza della lingua anche in comuni non ricompresi nell’ambito di tutela, nonché interventi per i friulani emigrati e, attraverso convenzioni, per i friulanofoni presenti nella Regione Veneto. Con riferimento a questi ultimi, nonostante il Consiglio Provinciale di Venezia abbia preso atto che nel territorio provinciale esista una minoranza friulana, stimata dalla Regione Veneto nella misura del 27% degli abitanti dell’intero comprensorio riferibile al Mandamento di Portogruaro, solo tre dei sette comuni considerati friulanofoni hanno richiesto il riconoscimento ufficiale del friulano come lingua minoritaria e storica ai sensi della L. 482/1999: San Michele al Tagliamento (Del. Cons. Prov. di Venezia 20.04.2006 n. 32), Teglio Veneto (Del. Cons. Prov. di Venezia 21.12.2006 n. 120) e Cinto Caomaggiore (Del. Cons. Prov. di Venezia 21.12.2006 n. 121). Restano quindi esclusi i Comuni di Concordia Sagittaria, Fossalta di Portogruaro, Gruaro e Portogruaro. L’articolo 4 contempla la possibilità di collaborare con le istituzioni delle diverse comunità di lingua ladina del Veneto, del Trentino-Alto Adige/Südtirol e del Cantone dei Grigioni, nonché tra le minoranze linguistiche interne (slovena, friulana e germanofona). L’articolo 5 conferma la grafia ufficiale della lingua friulana (art. 13 L.R. 15/1996), prevedendo che possa essere modificata con Decreto del Presidente della Regione, su proposta dell’ARLeF e d’intesa con le Università di Udine e Trieste. Gli atti e documenti in lingua friulana della Regione, degli enti locali e loro enti strumentali e concessionari di pubblici servizi sono redatti nella grafia ufficiale.

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2.5 Gli usi pubblici e la toponomastica Il Capo II (articoli 6–11) riguarda gli usi pubblici della lingua friulana. L’articolo 6 disciplina gli usi pubblici della lingua friulana sistematizzando quanto già previsto dalla legge 482/1999 e dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale ed estendendone la tutela. Le norme si applicano a tutti gli enti locali, agli uffici ed enti dell’Amministrazione regionale, nonché ai concessionari di servizi pubblici operanti nei comuni delimitati. La portata della norma è stata ridotta, però, dall’ultimo comma (introdotto all’ultimo momento in Aula per ragioni meramente politiche) secondo cui «gli enti interessati provvedono all’applicazione progressiva delle disposizioni secondo i progetti obiettivo annuali, nell’ambito dei piani di politica linguistica». L’articolo 7 prevede che la conoscenza della lingua friulana sia attestata da una «certificazione linguistica». Tale azione si rende necessaria sia al fine di stabilire una modalità unica e in linea con le direttive europee per valutare la conoscenza del friulano, sia per permettere l’applicazione di alcune norme già in vigore. L’articolo 8 prescrive che gli atti comunicati alla generalità dei cittadini, nonché altre informazioni di carattere generale (come la comunicazione istituzionale e la pubblicità) siano redatti anche in lingua friulana. Anche qui però è stata prevista un’applicazione progressiva, come per l’articolo 6. L’articolo 9, riprendendo quanto già previsto dall’articolo 7 della legge 482/1999, ribadisce il diritto di usare la lingua friulana nei Consigli comunali e negli altri organi collegiali dei Comuni che rientrano nella delimitazione territoriale, demandando all’autonomia dei singoli enti la disciplina delle modalità per garantire un’adeguata traduzione in italiano a coloro che non comprendono la lingua friulana. L’articolo 10 introduce, limitatamente al territorio delimitato, l’uso visivo della lingua friulana, accanto a quella italiana, nella cartellonistica stradale e, in genere, in ogni altra indicazione esposta al pubblico (sempre con l’incognita della «applicazione progressiva»). Il Capo si chiude con una norma specifica (articolo 11) dedicata alla toponomastica in lingua friulana. Per garantire omogeneità nell’utilizzo di toponimi – e ciò soprattutto nella cartellonistica stradale, molto diffusa su larga parte del territorio – la loro denominazione ufficiale in lingua friulana è demandata all’ARLeF, d’intesa con i Comuni interessati. In ogni caso, sulla base di quanto previsto dal D. Lgs. 267/2000, gli enti locali possono stabilire di rendere ufficiale l’uso dei toponimi bilingui.

2.6 Il sistema di insegnamento e l’elenco dei docenti con competenze riconosciute per l’insegnamento della lingua friulana Il Capo III (articoli 12–18) definisce gli interventi nel settore dell’istruzione. L’articolo 12 inserisce l’apprendimento e l’insegnamento della lingua friulana all’interno di

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un processo educativo plurilingue nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole primarie e secondarie di I grado situate nei Comuni delimitati. La norma prevedeva anche, in fase di preiscrizione, il «dissenso informato» dei genitori, secondo cui «fatta salva l’autonomia degli istituti scolastici», i genitori, previa adeguata informazione e richiesta scritta della scuola, comunicano alla stessa la propria volontà di non avvalersi dell’insegnamento della lingua friulana. In tal modo era stato introdotto un favor – sebbene di lieve entità – rispetto al sistema dell’opzione linguistica applicato sinora, per il quale doveva essere il genitore ad attivarsi per chiedere l’insegnamento del friulano; favor, come si vedrà, vanificato dalla pronuncia della Consulta. L’articolo 13 definisce il quadro dei rapporti di collaborazione fra Regione, Ufficio Scolastico Regionale, autorità scolastiche in genere ai fini dell’attuazione delle disposizioni contenute nella legge, mentre i successivi articoli 14 e 15 delineano l’alveo applicativo e finanziario entro il quale la Regione dovrà costruire (con apposito regolamento) il sistema di insegnamento regionale della lingua friulana. In sintesi, la Regione, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, è chiamata a definire un sistema strutturale di attuazione della legge, superando la logica frammentaria dell’assegnazione dei fondi a progetto e adottando un «Piano applicativo di sistema» che progressivamente implementi la presenza del friulano nelle scuole. La legge prevede, altresì, il sostegno della Regione alla produzione di materiale didattico (art. 16). In tale processo riveste un ruolo fondamentale, sebbene vanificato nella pratica, la Commissione permanente per l’insegnamento della lingua friulana, organismo tecnico-scientifico che ha il compito di supportare la competente Direzione regionale nelle attività di sostegno alle istituzioni scolastiche e di definizione di un quadro di criteri relativi all’accertamento delle competenze dei docenti. L’articolo 17 affronta il problema di come assicurare il fabbisogno di personale docente con competenze nella lingua friulana; a tale scopo, oltre a prevedere percorsi formativi adeguati, viene prevista l’istituzione di un «Elenco degli insegnanti con competenze riconosciute per l’insegnamento della lingua friulana». Con l’articolo 18 la Regione si impegna ad attivare iniziative di formazione ed informazione rivolte alle famiglie per far conoscere il piano di introduzione della lingua friulana nel sistema scolastico; la Regione inoltre sostiene e promuove iniziative di insegnamento della lingua friulana rivolte agli adulti, agli immigrati ed alle istituzioni scolastiche presenti nei territori non delimitati. Il Capo si chiude (articolo 19) con l’attività di «volontariato per la lingua», sulla falsariga del programma promosso dalla Generalitat de Catalunya «Voluntaris per la llengua». Con Decreto del Presidente della Regione (D.P.Reg.) 23 agosto 2011, n. 0204/Pres., la Regione ha adottato il regolamento previsto dagli articoli 14, comma 2, 17, comma 5 e 18, comma 6 della legge. Esso reca le disposizioni per l’attuazione di quanto previsto dal Capo III della legge, e in particolare dagli articoli 12, 14, commi 1 e 4, 15, 17, commi da 1 a 4 e 18, commi da 1 a 4 in materia di Piano applicativo di sistema per l’insegnamento della lingua friulana, in materia di accesso all’Elenco regionale degli

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insegnanti ed utilizzo degli stessi per l’insegnamento della lingua friulana e in materia di interventi di promozione dell’utilizzo della lingua friulana nel territorio regionale (↗18 Friulano nella scuola (e nell’università)).

2.7 Media, associazionismo e pianificazione linguistica Il Capo IV (articoli 20–23) si occupa degli interventi nel settore dei mezzi di comunicazione, senza introdurre novità sostanziali, salvo la previsione di uno specifico regolamento per la disciplina delle attività contributive. Lo stesso dicasi per il Capo V (articolo 24) sulle attività delle associazioni culturali. Molto importante ed innovativo, invece, è il Capo VI (articoli 25–27) che si occupa di programmazione. L’articolo 25 prevede che l’ARLeF, ogni cinque anni, proponga un Piano Generale di Politica Linguistica (PGPL) approvato con Decreto del Presidente della Regione, sentita la competente Commissione consiliare. Sulla base del PGPL e tenendo conto delle disponibilità di bilancio, la Giunta regionale, su proposta dell’ARLeF, adotta annualmente il Piano delle priorità di intervento (articolo 26), in cui vengono fissati gli obiettivi da raggiungere nell’anno. L’articolo 27 prevede che ogni cinque anni gli enti locali ed i concessionari di pubblici servizi approvino un Piano Speciale di Politica Linguistica (PSPL) al fine di stabilire i progetti obiettivo da raggiungere annualmente nell’ambito di ogni area di intervento. L’approvazione e la conforme applicazione dei Piani Speciali di Politica Linguistica costituiscono per gli enti locali e per i concessionari di pubblici servizi condizioni per l’ottenimento dei finanziamenti previsti dalla legge (↗17 Friulano nei mass media). Il Capo VII (articoli 28–30) riguarda l’attuazione e la verifica. L’articolo 28 definisce il ruolo dell’ARLeF e ne fissa i compiti. L’articolo 29 introduce una clausola valutativa, assegnando alla Giunta regionale l’onere di presentare annualmente al Consiglio una relazione sullo stato di attuazione della legge. Inoltre ogni cinque anni, prima della presentazione del PGPL per il quinquennio successivo, la Giunta dovrà presentare al Consiglio un rapporto sui risultati ottenuti in termini di ampliamento dell’uso della lingua friulana. L’articolo 30 assegna al Presidente del Consiglio regionale il compito di convocare, una volta ogni cinque anni, una Conferenza di verifica e proposta per esaminare lo stato di attuazione della legge. La legge si chiude con il Capo VIII dedicato alle norme transitorie e finali.

3 La sentenza della Corte Costituzionale n. 159/2009 3.1 L’impugnativa del Governo Com’è noto, il Governo italiano ha deciso, con il ricorso n. 16 del 18 febbraio 2008, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 2 aprile 2008, di impugnare la legge regionale

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in parola contestandone sette punti (articoli: 6, comma 2; 8, commi 1 e 3; 9, comma 3; 11, comma 5; 12, comma 3; 14, commi 2, ultimo periodo, e 3; 18, comma 4). Anzitutto, secondo il Governo l’obbligo generale per gli uffici dell’intera regione, operanti anche nelle aree escluse dal territorio di insediamento del gruppo linguistico friulano, di rispondere in friulano e di redigere anche in friulano gli atti comunicati alla generalità dei cittadini, nonché di effettuare in tale lingua la comunicazione istituzionale e la pubblicità, contrasterebbe con la legge 482/1999 che circoscrive l’uso della lingua minoritaria nei soli comuni di insediamento del relativo gruppo linguistico. La legge regionale, inoltre, stabilendo che «per garantire la traduzione a coloro che non comprendono la lingua friulana può essere prevista la ripetizione degli interventi in lingua italiana ovvero il deposito contestuale dei testi tradotti in forma scritta», non garantisce una sufficiente tutela ai non friulanofoni. In tale punto la legge regionale contrasterebbe anche con «il valore esclusivo degli atti nel testo redatto in lingua italiana» previsto dalla legge 482/1999. Ulteriore ragione di contrasto costituisce l’articolo che prevede l’uso di toponimi anche «nella sola lingua friulana», contrastante, a dire del Governo, con la legge 482/1999 e addirittura con il principio costituzionale di eguaglianza dei cittadini. L’articolo 12, sull’apprendimento scolastico della lingua minoritaria, prevedendo il cosiddetto «dissenso informato» comporta sostanzialmente – secondo il Governo – un’imposizione alle istituzioni scolastiche di impartire tale insegnamento, contrastando in tal modo con i principi dell’autonomia delle istituzioni stesse e, anche qui, con il principio costituzionale di eguaglianza. Violerebbe lo stesso principio, nonché l’articolo 117 sul riparto di competenze fra Stato e Regione, anche l’articolo 14, stabilendo che l’insegnamento della lingua friulana è garantito per almeno un’ora alla settimana. Infine il previsto sostegno del friulano anche nelle scuole regionali site in area non friulana secondo il ricorso del Governo – cito testualmente – «può determinare pesanti rischi di discriminazione a carico dei docenti e degli studenti della scuola pubblica, nonché analoghi rischi per i cittadini nel loro rapporto con le pubbliche amministrazioni locali, e conseguentemente e inevitabilmente anche per i dipendenti delle stesse amministrazioni».

3.2 La dichiarazione di illegittimità costituzionale Con la Sentenza n. 159/2009, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 27 maggio 2009, la Corte costituzionale, non senza forti divergenze di opinione al proprio interno, ha dato sostanzialmente ragione al Governo dichiarando l’illegittimità costituzionale di tutti gli articoli impugnati, salvo l’articolo 18. Una simile débâcle della Regione è dovuta al fatto che la Corte ha considerato come parametro unico di costituzionalità della normativa regionale la legge 482/1999, quasi come fosse una legge costituzionale o comunque con una forza superiore alla legge regionale, quando invece la legge 482/1999 stessa lascia esplicitamente campo

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libero alle disposizioni più favorevoli approvate dalle Regioni. Di più: la legge 482/1999 prevede la prevalenza delle leggi approvate dalle Regioni a Statuto speciale nell’ambito delle proprie competenze, tant’è che le norme della 482/1999 si applicano solo se non è prevista una normativa da parte della Regione (vedasi l’art. 18 della legge 482/1999). In precedenza, invece, la Corte Costituzionale aveva più volte ribadito (dal 1983) che la tutela delle minoranze linguistiche non costituisce una materia in sé, bensì un principio che tutti i soggetti pubblici devono rispettare nell’esercizio delle proprie competenze. Da ciò dovrebbe discendere che la legge 482/1999 costituisce sì norma di principio per la legislazione concorrente, ma non può prevedere alcun vincolo per le materie di esclusiva competenza regionale (come ad esempio l’ordinamento degli enti locali e della Regione). Più complesso, come si vedrà nel prossimo paragrafo, è il discorso riguardante le attività di insegnamento. Sbaglieremmo, tuttavia, a concentrarci sui soli elementi negativi della sentenza. Ve ne sono molti anche di positivi, sia di carattere generale, che specifico. Prima di tutto la Consulta ha ribadito che il friulano è a pieno diritto una lingua e, di conseguenza, che i friulani sono una «minoranza linguistica riconosciuta». Per la prima volta, inoltre, si afferma chiaramente che l’articolo 3 dello Statuto di autonomia – il quale, genericamente prevede che «[n]ella Regione è riconosciuta parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali» – fa riferimento anche al friulano. Infine, la Corte, come si vedrà, ha indicato chiaramente nel dispositivo le modalità con cui il legislatore può giungere ai medesimi risultati perseguiti attraverso le norme censurate.

3.3 Riflessi della sentenza sul settore dell’istruzione La Consulta, come si è detto, ha annullato i passaggi della legge che fissavano il tempo orario per l’insegnamento della marilenghe in un’ora alla settimana (per i soli richiedenti) e il sistema del cosiddetto «dissenso informato» per la raccolta delle opzioni linguistiche espresse dai genitori. Secondo la Corte tali norme avrebbero compresso oltremodo il principio di autonomia scolastica fissato dalla Costituzione. Senza entrare, ora, nel merito della sentenza – già oggetto di opinioni alquanto critiche da parte di alcuni costituzionalisti – diventa difficile comprendere in cosa possa consistere la «quota regionale del curricolo», derivante dalla Riforma del Titolo V della Costituzione, se una Regione (cui peraltro è affidato il «coordinamento» delle istituzioni scolastiche in zona di minoranza, ai sensi del citato D. Lgs. 223/2002) non può nemmeno prevedere un’ora alla settimana di insegnamento di una disciplina di valenza regionale e per i soli richiedenti. Va rimarcato, tuttavia, che la sentenza ha fatto salvi tutti i principi previsti dalla L.R. 29/2007 riguardo al diritto all’insegnamento nella scuola. Ciò che la Corte ha

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censurato sono le modalità di attuazione di questi princìpi. Essa, infatti, nel dispositivo, si spinge sino a descrivere il percorso normativo che la Regione e lo Stato devono compiere per adottare, legittimamente, le stesse identiche norme, vale a dire attraverso i decreti attuativi dello Statuto di autonomia. In conclusione: de iure condito, risulta necessario dare piena attuazione alle norme della L.R. 29/2007 che disciplinano l’insegnamento curricolare della lingua friulana, la formazione dei docenti e l’istituzione dell’elenco degli insegnanti in e di marilenghe (percorso già intrapreso dalla Regione attraverso il Regolamento di cui al D.P.Reg. 23 agosto 2011, n. 0204/Pres.); de iure condendo, va portato a buon fine il processo di adozione – già avviato in sede di Commissione paritetica Stato-Regione in seguito ad un’azione positiva e propositiva del Comitato per l’autonomia e il rilancio del Friuli condiviso da larga parte delle forze politiche di maggioranza ed opposizione – di apposite norme di attuazione dello Statuto speciale tese a riformare i contenuti del D. Lgs. 223/2002 secondo i suggerimenti forniti dalla Consulta. Solo così sarà possibile per la Regione superare le inevitabili difficoltà di intervento in un settore che la Costituzione inserisce fra le competenze concorrenti, ma che, di fatto, resta ancora esclusivo appannaggio dello Stato centrale.

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14 Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie Abstract: In questo capitolo la situazione del friulano viene messa a confronto con quella di altre lingue minoritarie e regionali europee. I parametri utilizzati per questo confronto sono la vitalità linguistica, gli usi e gli atteggiamenti linguistici dei parlanti, la pianificazione linguistica e il paesaggio linguistico. Per quel che riguarda la vitalità linguistica vengono utilizzate le scale EGIDS e UNESCO, confrontando il friulano con tre varietà presenti in Spagna (galiziano, asturiano e aranese) e due varietà presenti in Italia (cimbro e lombardo occidentale). Per gli usi e atteggiamenti linguistici vengono qui utilizzati i dati forniti dall’inchiesta Euromosaic che mette direttamente a confronto il friulano e il galiziano. Della pianificazione linguistica viene qui presa in esame la fase conosciuta come normalizzazione linguistica, facendo un confronto in prima analisi con il galiziano, ma anche con le altre lingue previamente analizzate. Prima delle conclusioni, chiude il capitolo un confronto tra la presenza del friulano nel paesaggio linguistico di Udine, quella del lombardo occidentale a Milano, il basco a San Sebastián (Spagna) e il frisone a Leeuwarden (Paesi Bassi). Keywords: EGIDS, friulano, galiziano, scala UNESCO, vitalità linguistica

1 Introduzione Com’è ben noto, c’è una grossa disparità tra le varie lingue minoritarie e regionali che si parlano nel mondo, disparità che può andare dal grado di vitalità al livello di tutela e promozione di cui godono. Da una parte ci sono i cosiddetti dialetti, dall’altra ci sono lingue oramai ufficiali, o meglio co-ufficiali, come il catalano e il gallese. Alcune di queste lingue sono minoritarie in alcuni paesi, ma maggioritarie in paesi limitrofi, dove sono ufficiali e usate da un grosso numero di persone, come il tedesco in Sudtirolo o lo sloveno in Friuli (le cosiddette «penisole linguistiche»), altre sono parlate in piccole comunità oramai solo da pochi anziani e perciò prossime alla scomparsa definitiva. John Edwards in un articolo apparso nel 1992 classificava le lingue minoritarie utilizzando le categorie di «minoranze uniche», «minoranze non uniche» e «minoranze solo locali». Il primo termine si riferisce a quelle minoranze etnolinguistiche che si trovano in un solo Paese come il friulano; il termine «non uniche» per quelle parlanti una lingua che si trova in stati differenti dove però è minoritaria, come ad esempio il francoprovenzale, che oltre ad essere parlato in Val d’Aosta è pure presente in Svizzera e in Francia, anche se qui parlato oramai da un esiguo numero di parlanti; infine il termine «minoranze solo locali» si riferisce a quelle minoranze parlanti una lingua di minoranza che è lingua di

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maggioranza in un altro stato, come ad esempio il francese in Val d’Aosta (parlato però come prima lingua da pochissime persone). Queste ultime due categorie poi erano state a loro volta suddivise in due sottocategorie, vale a dire di lingue «contigue», come il basco che si parla in zone confinanti sia in Spagna sia in Francia, e «non contigue», come ad esempio l’albanese nel Mezzogiorno. Un’ulteriore classificazione proposta da Edwards è quella tra lingue «coese», in cui esiste una forte concentrazione di parlanti, come il friulano, e «non coese», ovvero lingue i cui parlanti sono sparsi nel territorio, come il romanì (Edwards 1992, 39s.). È evidente che situazioni così diverse implichino livelli differenti di vitalità e di effettiva riproduzione intergenerazionale. Come appare chiaro, queste situazioni così differenti tra loro non hanno nulla a che vedere con le lingue in se stesse, ma con la coscienza dei parlanti (basata anche sull’Abstand, o distanza linguistica) e con fattori sociali, storici e soprattutto politici. Già dalla maniera in cui viene definita una varietà linguistica si può capire la considerazione che di essa hanno la società e lo Stato e lo status di cui essa gode. Utilizzerò in questo capitolo il termine «varietà» come termine neutro per riferirmi a «any kind of language – a dialect, accent, sociolect, style or register – that a linguist happens to want to discuss as a separate entity for some particular purpose» (Trudgill 2003, 139s.). Anche se il termine «dialetto» dovrebbe in realtà venire usato per riferirsi a «subdivisions of a particular language» (Chambers/Trudgill 21998, 3) o ad «un sistema de signos desgajado de una lengua común, viva o desaparecida; normalmente con una concreta limitación geográfica, pero sin una fuerte diferenciación frente a otros de origen común» (Alvar 1996, 13), il termine è stato ed è ancora spesso usato per definire varietà linguistiche distinte ma non riconosciute come tali e di basso prestigio, come è il caso dei dialetti italiani (secondo Coseriu «dialetti primari», cf. Coseriu 1981). Come è stato affermato: «[u]na lingua è un dialetto con esercito e marina», o, per utilizzare le parole di Sergio Salvi (1996, 83), «le lingue ufficiali sono […] all’origine soltanto dialetti che hanno avuto successo». Lo stesso friulano veniva (e ancora adesso da molti italiani viene) definito un dialetto italiano. Forse sarebbe meglio evitare l’uso di un termine così carico di sfumature peggiorative e ricorrere all’uso di un termine più politicamente neutro come «lingua regionale» per quelle varietà linguistiche i cui parlanti non possiedono una forte coscienza di appartenere ad un gruppo etnico e/o culturale distinto, come è il caso dei cosiddetti dialetti italiani. Secondo Wicherkiewicz (2001, 3; trad. di P.C.; cf. anche Coluzzi 2007, 24s.) le lingue regionali si distinguerebbero da quelle minoritarie per possedere le seguenti caratteristiche: – stretta relazione genetica con la corrispondente lingua maggioritaria dello stato; spesso le lingue regionali vengono considerate «semplicemente» dei dialetti di una lingua maggioritaria/dello stato; – una storia relativamente lunga di sviluppo comune, particolarmente dal punto di vista sociopolitico, della lingua regionale e della lingua maggioritaria corrispondente;

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mancanza completa o parziale di sentimenti di distinzione nazionale all’interno della comunità di parlanti; in ogni caso è presente un forte senso di identità regionale e/o etnica, con la lingua che costituisce la componente principale di questa identità/etnicità regionale; alta differenziazione dialettale all’interno delle lingue regionali, le quali per questa ragione si possono spesso considerare comunità di dialetti; mancanza di uno standard letterario uniforme, o lo standard è ancora in formazione; una ricca tradizione, spesso molto antica, di letteratura dialettale/regionale; prestigio sociale relativamente basso di una lingua regionale, spesso più basso che in passato; strategie di pianificazione linguistica poco sviluppate; a volte distinzione confessionale dei parlanti della lingua regionale; all’interno del gruppo opposizione ad essere considerati e trattati ufficialmente come minoranza nazionale, spesso addirittura una paradossale resistenza ad essere considerati del tutto una minoranza; «potenziale» identità nazionale/ linguistica.

2 Vitalità linguistica La vitalità di una determinata lingua dipende da tutta una serie di fattori di diverso tipo ma sempre di carattere extralinguistico, ed è questa vitalità che determina situazioni di lingue minoritarie «forti», ovvero di lingue utilizzate da una grossa percentuale di parlanti nella maggior parte dei domini linguistici, come il tedesco in Sudtirolo o il catalano in Spagna, o situazioni di lingue minoritarie e regionali «deboli» come ad esempio il cimbro, varietà bavarese parlata nelle province di Trento, Verona e Vicenza oramai solo da meno di 300 persone (Coluzzi 2005; 2007), o il milanese (Coluzzi 2007) che sta perdendo tra un terzo e un quarto di parlanti ad ogni successiva generazione (Coluzzi 2009b). Il friulano pare porsi da qualche parte tra questi due estremi, anche se è difficile affermare esattamente dove e in che modo, essendo molte le variabili da considerare, oltre al fatto che una lingua può essere più usata in una parte del suo territorio storico che in un’altra. Nonostante queste oggettive difficoltà, molti linguisti hanno tentato di proporre parametri di vitalità etnolinguistica, ovvero delle vere e proprie «scale» che possano aiutare a dare un’idea del grado di pericolo o di sicurezza in cui si trovi una determinata lingua. Tra questi potremmo citare Giles/Bourhis/Taylor 1977; Kinkade 1991; Dixon 1991; Fishman 1991; Crystal 2000; Krauss 2007; Wurm 2007; Lewis 2008. Forse la più nota e citata tra queste «scale» è la GIDS (Graded Intergenerational Disruption Scale) formulata dal linguista americano Joshua Fishman (1991). Questa scala è divisa in otto «gradi» che a un estremo descrivono situazioni di stabilità e forte vitalità (livello 1: la lingua viene usata nel sistema educativo, nel mondo del lavoro, nei mass media, nel governo a livello

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nazionale) mentre dall’altro descrivono una situazione di «agonia» linguistica prima della morte definitiva (livello 8: gli ultimi parlanti rimasti appartengono alla generazione dei nonni). Cruciale secondo Fishman è la trasmissione intergenerazionale della lingua, ovvero il passaggio tra livello 6 e 7: nel primo la lingua è ancora appresa dai bambini come lingua materna, nel secondo i genitori che usano ancora la lingua con la generazione precedente hanno smesso di parlarla ai propri figli. Da molti, tuttavia, questa scala viene ritenuta troppo generale e incompleta, e altre proposte più articolate sono state formulate. Tra queste ce ne sono due che sembrano aver riscontrato maggior successo e che un crescente numero di ricercatori e attivisti ha applicato alle lingue minoritarie oggetto dei loro studi e/o sforzi di rivitalizzazione. Mi riferisco alla EGIDS (Extended Graded Intergenerational Disruption Scale), formulata da Lewis e Simons nel 2010, e alla scala dell’UNESCO per le lingue in pericolo (UNESCO’s Major Evaluative Factors of Language Vitality), stabilita nel 2003 da un pannello di esperti. La prima è una rielaborazione ed espansione del GIDS di Fishman che ha portato a un aumento dei gradi da otto a tredici, ovvero da 0 a 10, con due sottolivelli «a» e «b» per i gradi 6 e 8. Come nel GIDS (e al contrario della scala UNESCO) ai gradi più bassi corrisponde una vitalità linguistica maggiore. La seconda invece è una scala articolata su nove fattori, ognuno dei quali (meno il fattore 2) possiede sei livelli che vanno dal più alto (grado 5), in cui la lingua è stabile e sicura, al più basso (grado 0), in cui la lingua è oramai estinta. Qui di seguito ho cercato di applicare sulla base dei dati a mia disposizione queste due scale al friulano e, per un confronto, ad altre cinque lingue minoritarie e regionali europee che sono state oggetto della mia ricerca: il galiziano, l’asturiano, l’aranese, il cimbro e il lombardo occidentale (milanese). Le prime tre varietà si parlano in Spagna, rispettivamente nella regione autonoma della Galizia, dove il galiziano è lingua co-ufficiale assieme allo spagnolo, nella regione delle Asturie, e nella Valle d’Aran nel Pireneo orientale (nella regione autonoma della Catalogna), dove l’aranese è co-ufficiale con lo spagnolo e il catalano. Il cimbro, invece, come già accennato, è la lingua storica di una piccola minoranza tedesca che viene ancora parlata in un pugno di comuni montani tra Veneto e Trentino ed è tutelata dalla legge 482 del 1999, mentre il lombardo occidentale è una lingua regionale non riconosciuta che si parla appunto in alcune zone della Lombardia occidentale, in provincia di Novara e nel Canton Ticino in Svizzera (la mia valutazione si riferisce però alla sola provincia di Milano, per cui nel resto del capitolo adotterò il termine più specifico di «milanese» al posto di «lombardo occidentale»).

2.1 L’EGIDS La tavola 1 riporta la descrizione dell’EGIDS. Nonostante sia chiaramente più articolata del GIDS, in confronto alla scala UNESCO, l’EGIDS appare per forza meno precisa e più generale (ad esempio non prende in considerazione il numero dei parlanti, gli atteggiamenti linguistici, le politiche linguistiche in atto e la documentazione esisten-

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te, cf. Dwyer 2009, 11). La sua sinteticità tuttavia ha il grosso vantaggio di fornire un solo punteggio, cosa che aiuta a dare a prima vista un’idea generale del grado di vitalità e che rende il confronto con altre lingue più agevole. Inoltre il fatto che l’EGIDS venga determinata attraverso una serie fissa di domande («five key questions regarding identity function, vehicularity, state of intergenerational language transmission, literacy acquisition status, and a societal profile of generational language use», Lewis/Simons 2010, 21s.) con riposte da scegliere la rende più oggettiva rispetto alla scala UNESCO. A mio avviso le due scale dovrebbero essere sempre applicate assieme, in modo da dare per ogni lingua un’idea generale del livello di vitalità (EGIDS) e un’analisi più dettagliata fattore per fattore (UNESCO). Tavola 1: L’EGIDS di Lewis/Simons (2010; trad. di P.C.) Livello EGIDS

Designazione EGIDS

Descrizione EGIDS

0

Internazionale

La lingua viene usata a livello internazionale per una vasta gamma di funzioni.

1

Nazionale

La lingua viene usata nella scuola, sul lavoro, nei mass media, nel governo a livello nazionale.

2

Regionale

La lingua viene usata nei mass media locali e regionali e per i servizi di governo.

3

Commercio

La lingua viene usata sul lavoro a livello locale e regionale sia dai membri della comunità che da chi viene da fuori.

4

Istruzione

Viene insegnato a leggere e a scrivere la lingua attraverso un sistema di educazione pubblica.

5

Scritta

La lingua viene usata a livello orale da tutte le generazioni e viene usata con efficacia in forma scritta da una parte della comunità.

6a

Vigorosa

La lingua viene usata a livello orale da tutte le generazioni e viene appresa dai bambini come prima lingua.

6b

Minacciata

La lingua viene usata a livello orale da tutte le generazioni, ma solo una parte della generazione che ha bambini piccoli gliela sta trasmettendo.

7

Instabile

La generazione che ha bambini piccoli conosce la lingua sufficientemente bene da usarla con i coetanei, ma nessuno la sta trasmettendo ai propri figli.

8a

Moribonda

Gli unici parlanti attivi della lingua rimasti appartengono alla generazione dei nonni.

8b

Quasi estinta

Gli unici parlanti attivi della lingua rimasti appartengono alla generazione dei nonni o bisnonni che hanno poche opportunità di usare la lingua.

9

Inattiva

La lingua serve a ricordare l’identità culturale di una comunità etnica. Nessuno ha più di una competenza di tipo simbolico.

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Livello EGIDS

Designazione EGIDS

Descrizione EGIDS

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Estinta

Nessuno più mantiene il senso di identità etnica associata alla lingua, neanche per scopi puramente simbolici.

Secondo questa scala per il momento il friulano non andrebbe oltre il livello 6b, il che significa che la lingua è minacciata (Lewis/Simons 2010, 16–20). L’asturiano verrebbe probabilmente assegnato allo stesso livello, mentre al galiziano e all’aranese verrebbe invece assegnato il livello 2 (regionale). Il cimbro in Trentino (Luserna) arriverebbe a 6a (vigoroso), forse anche a 5 (scritto), mentre a quello in Veneto verrebbe assegnato un 8a (moribondo) al confine con 8b (quasi estinto). Appena meglio per una lingua regionale come il milanese: con essa non si arriverebbe a meno di 7 (instabile), più probabilmente a 8a (moribonda). Secondo l’EGIDS, quindi, il friulano è in bilico tra la parte «negativa» e quella «positiva» della scala, e deve ancora percorrere una lunga strada per arrivare al livello 2 che le darebbe un certo grado di sicurezza. Per capire meglio in quali campi concentrare gli sforzi di rivitalizzazione, tuttavia, la scala UNESCO può risultare più pratica. Tavola 2: Livello EGIDS per sei lingue minoritarie/regionali europee (dalla più vitale alla più debole)

Livello EGIDS

Galiziano Aranese

Friulano

Asturiano

Cimbro (Trentino)

Milanese

Cimbro (Veneto)

2

6b

6b

5/6a

7/8a

8a/8b

2

2.2 Principali fattori valutativi di vitalità linguistica dell’UNESCO Nelle tavole dalla 3 alla 10 appare la scala UNESCO divisa fattore per fattore, e sotto ogni fattore il grado corrispondente alle sei varietà selezionate per il confronto. Le varietà presenti in Italia si trovano nella colonna di sinistra sotto a ogni tavola, mentre quelle spagnole si trovano a destra, le varietà sociolinguisticamente simili sulla stessa riga per facilitare la comparazione. Il galiziano è lingua riconosciuta con un alto numero di parlanti, ma la comunità che lo parla possiede un passato di povertà ed emigrazione come la comunità friulana; l’aranese, varietà occitana di tipo guascone, è parlato in una zona ristretta da una minoranza «non unica», per usare la terminologia di Edwards (si parla anche in Francia), e condivide lo spazio linguistico con altre due varietà linguistiche, proprio come il cimbro (spagnolo e catalano in Val d’Aran e veneto/trentino e italiano nella zona cimbra); infine l’asturiano è lingua non riconosciuta a livello nazionale come il lombardo occidentale/milanese.

498

Paolo Coluzzi

2.2.1 Scala dell’UNESCO (2003; trad. di P. Coluzzi) Tavola 3: Fattore 1: Trasmissione intergenerazionale della lingua Livello di pericolo

Grado

Popolazione dei parlanti

sicura

5

La lingua viene usata da persone di tutte le età, dai bambini in sù.

a rischio

4

La lingua viene usata da alcuni bambini in tutti i domini, mentre viene usata da tutti i bambini in domini limitati.

in pericolo

3

La lingua viene usata principalmente dalla generazione dei genitori in sù.

gravemente in pericolo

2

La lingua viene usata principalmente dalla generazione dei nonni in sù.

vicino all’estinzione

1

La lingua viene usata principalmente da pochissime persone appartenenti alla generazione dei bisnonni.

estinta

0

Non esistono parlanti.

Friulano: 3 Cimbro: tra 1 (in Veneto) e 4 (in Trentino) Milanese: 2

Galiziano: 5 Aranese: tra 4 e 5 Asturiano: tra 2 e 3

Fattore 2: Numero assoluto di parlanti Gli esperti dell’UNESCO avevano deciso di non porre dei livelli di pericolo specifici, ma è chiaro che in generale più è piccola la comunità linguistica e più è alto il livello di pericolo. Secondo questo principio, la lingua maggiormente in pericolo è il cimbro con meno di 300 parlanti mentre quella più forte è il galiziano con approssimativamente 2.100.000 parlanti, ovvero l’85% circa della popolazione. Il friulano, con circa mezzo milione di parlanti, si potrebbe collocare tra questi due estremi. Tavola 4: Fattore 3: Proporzione dei parlanti nel totale della popolazione Livello di pericolo

Grado

Proporzione dei parlanti nel totale della popolazione di referenza

sicura

5

Tutti parlano la lingua.

a rischio

4

Quasi tutti parlano la lingua.

in pericolo

3

La maggioranza parla la lingua.

gravemente in pericolo

2

Una minoranza parla la lingua.

vicina all’estinzione

1

Pochissimi parlano la lingua.

estinta

0

Nessuno parla più la lingua.

Friulano: 3 Cimbro: tra 1 (in Veneto) e 4 (in Trentino) Milanese: 2

Galiziano: 4 Aranese: tra 3 e 4 Asturiano: 2

Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie

499

Tavola 5: Fattore 4: Tendenze nei domini linguistici esistenti Livello di pericolo

Grado

uso generalizzato

5

Domini e funzioni La lingua viene usata in tutti i domini e per qualsiasi funzione.

parità multilingue

4

È possibile che due o più lingue vengano usate nella maggior parte dei domini di tipo sociale e per la maggior parte delle funzioni.

domini in diminuzione

3

La lingua viene usata nei domini domestici e per molte funzioni, ma la lingua dominante comincia a penetrare persino in questi domini.

domini limitati o formali

2

La lingua viene usata in domini di tipo sociale limitati e per varie funzioni.

domini estremamente limitati

1

La lingua viene usata solo in domini molto limitati e per pochissime funzioni.

estinta

0

La lingua non è più usata in nessun dominio e per nessuna funzione.

Friulano: 4 Cimbro: tra 1 (in Veneto) e 4 (in Trentino) Milanese: tra 1 e 2

Galiziano: tra 4 e 5 Aranese: tra 4 e 5 Asturiano: tra 3 e 4

Tavola 6: Fattore 5: Risposta ai nuovi domini e media Livello di pericolo

Grado

Nuovi domini e media utilizzati dalla lingua in pericolo

dinamica

5

La lingua viene usata in tutti i nuovi domini.

vigorosa/attiva

4

La lingua viene usata nella maggior parte dei nuovi domini.

ricettiva

3

La lingua viene usata in molti nuovi domini.

resiste

2

La lingua viene usata in alcuni nuovi domini.

minima

1

La lingua viene usata solamente in pochi nuovi domini.

inattiva

0

La lingua non viene usata in nessun nuovo dominio.

Friulano: 4 Cimbro: 4 Milanese: 3

Galiziano: 5 Aranese: 5 Asturiano: 4

500

Paolo Coluzzi

Tavola 7: Fattore 6: Materiali per l’insegnamento della lingua Grado

Accessibilità al materiale scritto

5

Esiste un’ortografia stabilita, una tradizione letteraria con grammatiche, dizionari, testi, letteratura e media quotidiani. La lingua scritta viene usata nell’amministrazione.

4

Esiste materiale scritto e i bambini a scuola imparano a leggere e a scrivere nella lingua. La lingua scritta non viene usata in ambito amministrativo.

3

Esiste materiale scritto ed è possibile che i bambini a scuola siano esposti alla lingua scritta. La lettura e la scrittura non vengono promosse attraverso la carta stampata.

2

Esiste materiale scritto, ma potrebbe essere utile solo ad una parte dei membri della comunità, mentre per un’altra parte potrebbe avere solo un valore simbolico. Imparare a leggere e a scrivere la lingua non fa parte del curricolo scolastico.

1

La comunità conosce un’ortografia di uso pratico e del materiale scritto viene prodotto.

0

La comunità non dispone di un’ortografia.

Friulano: 5 Cimbro: tra 2 (in Veneto) e 4 (in Trentino) Milanese: tra 1 e 2

Galiziano: 5 Aranese: tra 4 e 5 Asturiano: 4

Tavola 8: Fattore 7: Politica e atteggiamenti linguistici a livello governativo e istituzionale, compresi status e uso ufficiali Livello di sostegno

Grado

Atteggiamenti ufficiali verso la lingua

sostegno equo

5

Tutte le lingue sono protette.

sostegno differenziato

4

Le lingue minoritarie/regionali sono tutelate principalmente come lingue della sfera privata. L’uso della lingua è prestigioso.

assimilazione passiva

3

Non esistono politiche esplicite per le lingue minoritarie/ regionali; la lingua dominante prevale nella sfera pubblica.

assimilazione attiva

2

Il governo incoraggia l’assimilazione verso la lingua dominante. Non esistono forme di tutela per le lingue minoritarie/regionali.

assimilazione forzata

1

La lingua dominante è l’unica lingua ufficiale, mentre le lingue non dominanti non sono riconosciute nè tutelate.

proibizione

0

Le lingue minoritarie/regionali sono proibite.

Friulano: tra 4 e 5 Cimbro: tra 4 e 5 Milanese: tra 1 e 2

Galiziano: 5 Aranese: 5 Asturiano: tra 4 e 5

Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie

501

Tavola 9: Fattore 8: Atteggiamento dei membri della comunità nei confronti della propria lingua Grado

Atteggiamento dei membri della comunità nei confronti della lingua

5

Tutti i membri considerano la propria lingua importante e sono a favore della sua promozione.

4

La maggior parte dei membri sono a favore del mantenimento della lingua.

3

Una buona parte dei membri sono a favore del mantenimento della lingua, mentre un’altra parte è indifferente o addirittura a favore della perdita della lingua.

2

Alcuni membri sono a favore del mantenimento della lingua, mentre altri sono indifferenti o addirittura a favore della perdita della lingua.

1

Solo pochi membri sono a favore del mantenimento della lingua, mentre gli altri sono indifferenti o addirittura a favore della perdita della lingua.

0

A nessuno importa che la lingua si perda; tutti preferiscono usare una/la lingua dominante.

Friulano: tra 2 e 3 Cimbro: tra 2 (in Veneto) e 5 (in Trentino) Milanese: tra 3 e 4

Galiziano: 5 Aranese: 5 Asturiano: tra 3 e 4

Tavola 10: Fattore 9: Ammontare e qualità della documentazione disponibile Natura della documentazione

Grado

Documentazione della lingua

superlativa

5

Ci sono grammatiche e dizionari completi e testi di una certa lunghezza; c’è un flusso costante di materiale linguistico. Esistono anche registrazioni audio e video commentate di alta qualità.

buona

4

C’è una buona grammatica e un certo numero di grammatiche adeguate, dizionari, testi, letteratura e media quotidiani che ogni tanto vengono aggiornati; registrazioni adeguate audio e video commentate di alta qualità.

discreta

3

Potrebbe esserci una grammatica adeguata od un numero sufficiente di grammatiche, dizionari e testi, ma non media quotidiani; potrebbero esserci registrazioni audio e video di differenti livelli di qualità o di annotazioni.

frammentaria

2

Ci sono alcune note grammaticali, liste di parole e testi utili per una limitata ricerca linguistica ma con copertura inadeguata. Potrebbero esserci registrazioni audio e video di differenti livelli di qualità con o senza annotazioni.

inadeguata

1

Solo alcune note grammaticali, brevi liste di parole e testi frammentari. Non esistono registrazioni audio e video, sono di qualità non utilizzabile o mancano completamente di note.

non documentata

0

Non esiste materiale.

Friulano: tra 4 e 5 Cimbro: tra 2 (in Veneto) e 3 (in Trentino) Milanese: tra 3 e 4

Galiziano: 5 Aranese: tra 3 e 4 Asturiano: tra 3 e 4

502

Paolo Coluzzi

Come si può chiaramente osservare, la colonna di destra, quella delle varietà iberoromanze, mostra nella grande maggioranza dei casi dei punteggi più alti rispetto a quella di sinistra. Tra le varietà presenti in Italia, il friulano è la lingua che mostra maggiore vitalità per quasi tutti i fattori, anche se mai quanto il galiziano (ad eccezione del fattore 6). Nel complesso comunque la scala UNESCO considera il friulano lingua in pericolo. Più precisamente sarebbe da considerare: in pericolo secondo il Fattore 1 (Trasmissione intergenerazionale della lingua) e 3 (Proporzione dei parlanti nel totale della popolazione); che gode di parità multilingue secondo il Fattore 4 (Tendenze nei domini linguistici esistenti); vigorosa/attiva secondo il Fattore 5 (Risposta ai nuovi domini e media); che gode di un sostegno tra l’equo e il differenziato secondo il Fattore 7 (Politica e atteggiamenti linguistici a livello governativo e istituzionale, compresi status e uso ufficiali); e che possiede una documentazione tra buona e superlativa secondo il Fattore 9 (Ammontare e qualità della documentazione disponibile). Ciò che la scala UNESCO ci suggerisce è che più sforzi dovrebbero venire compiuti per: 1) usare di più il friulano parlando coi propri figli (fattore 1); 2) aumentare il numero di domini e funzioni in cui si usa il friulano (fattori 4 e 5); 3) utilizzare strategie di normalizzazione linguistica che contribuiscano ad aumentare il prestigio e l’utilità del friulano (fattore 8). È chiaro che tutti questi fattori sono ecologicamente interconnessi, e migliorare il punteggio su un fattore automaticamente contribuisce ad aumentare i punteggi sugli altri; ad esempio agire sui punti 2 e 3 qui sopra stimolerebbe il punto 1, aumentando le probabilità che molti genitori decidano di usare più friulano coi propri figli. Prima di passare alla discussione sulle politiche linguistiche messe in atto in Friuli, un confronto tra i dati sociolinguistici offerti dall’inchiesta Euromosaic per il friulano e il galiziano possono aiutare a dare un contorno più preciso ai risultati ottenuti con le scale EGIDS e UNESCO.

3 Inchiesta sociolinguistica Euromosaic Varie indagini sociolinguistiche sono state svolte finora sia in Friuli che in Galizia (↗12 La situazione sociolinguistica), ma solo una, quella eseguita a metà degli anni Novanta per il rapporto Euromosaic sulle minoranze linguistiche europee a cura dell’Istituto di Sociolinguistica Catalana tra otto minoranze linguistiche europee, ha utilizzato le stesse domande sia per il Friuli che per la Galizia. Per questa indagine 306 persone sono state intervistate nel 1994 in Galizia e 336 persone tre anni dopo in Friuli. Anche se l’inchiesta è oramai per alcuni versi datata, anche perché anteriore alle leggi di tutela in Italia, è l’unica disponibile che permetta un confronto diretto tra le due

Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie

503

lingue. La tavola 11 riassume alcuni dei risultati delle due inchieste (Coluzzi 2007, 182s.): Tavola 11: Percentuali delle risposte dell’indagine Euromosaic per il friulano e il galiziano (trad. di P.C.) Friuliano

Galiziano

1) La lingua usata con frequenza oggi Per strada

66%

81%

Nei negozi

58%

72%

In chiesa

35%

26%

In club e associazioni

36%

54%

Per strada

88%

76%

Nei negozi

84%

53%

In chiesa

47%

8%

In club e associazioni

57%

50%

2) La lingua usata con frequenza da bambini

3) La lingua dell’amministrazione nelle imprese locali Entrambe in proporzione uguale Principalmente la lingua maggioritaria Principalmente la lingua minoritaria

0,3%

15%

41%

40%

0%

43%

4) La lingua locale nell’amministrazione locale (d’accordo)

17,4% (totalmente) 6,9% (parzialmente)

38% (totalmente) 20% (parzialmente)

5) Il Friuli/la Galizia perderebbero la propria identità senza la loro lingua (d’accordo)

80,5% (totalmente) 6,3 (parzialmente)

70% (totalmente) 15% (parzialmente)

6) Parlare la lingua locale significa essere di classe inferiore (in disaccordo)

86,4% (totalmente) 3,6% (parzialmente)

64% (totalmente) 16% (parzialmente)

7) La lingua locale non ha posto nel mondo moderno (in disaccordo)

73,5% (totalmente) 5,4% (parzialmente)

53% (totalmente) 23% (parzialmente)

8) La lingua locale non è adatta per il mondo degli affari o le scienze (in disaccordo)

31,6% (totalmente) 10,1% (parzialmente)

58% (totalmente) 19% (parzialmente)

504

Paolo Coluzzi

Friuliano

Galiziano

9) Leggono libri nella lingua locale

0% (frequentemente) 6% (a volte)

6% (costantemente) 13% (ogni tanto)

10) Leggono giornali nella lingua locale

1% (frequentemente) 6% (a volte)

7% (costantemente) 6% (ogni tanto)

11) Ascoltano la radio nella lingua locale

21%

53%

12) Guardano la televisione nella lingua locale

15%

78%

Anche secondo questa inchiesta il galiziano risultava negli anni ’90 più utilizzato in diversi domini del friulano (a parte la chiesa). È interessante però notare che gli intervistati galiziani dichiaravano un uso minore della lingua locale quando erano piccoli, mentre gli intervistati friulani ne dichiaravano un uso maggiore. Il che indica che l’uso (e quindi il prestigio) del galiziano è aumentato notevolmente dai tempi in cui non era tutelato, mentre il friulano ha perso terreno. Da notare poi l’uso amministrativo della lingua locale che è di gran lunga superiore in Galizia che in Friuli, soprattutto grazie alle leggi di tutela in Galizia che risalgono agli inizi degli anni ’80. Quanto agli atteggiamenti linguistici, curiosamente i friulani sembrano in generale considerare meglio la propria lingua dei galiziani. A livello più pratico però, ad esempio rispetto all’uso della lingua locale nell’amministrazione locale, i galiziani sembrano essere più favorevoli all’uso della propria lingua rispetto ai friulani. Quanto infine alla fruizione dei media nella lingua locale, i galiziani dichiarano di leggere e ascoltare la propria lingua più dei friulani, ma ciò sorprende di meno vista la presenza maggiore di media in galiziano nella regione spagnola. Comparando i risultati delle due scale e tenendo anche in conto sia i risultati dell’inchiesta Euromosaic che quelli dell’inchiesta realizzata da Picco pubblicata nel 2001 e di quella più recente della Direzione centrale istruzione, formazione e cultura (Servizio identità linguistiche, culturali e corregionali all’estero) della regione Friuli Venezia Giulia (Susič/Janežič/Medeot 2010), si può affermare che il friulano rimane una lingua in pericolo che richiederebbe strategie di rivitalizzazione molto più vigorose di quelle che sono state messe in atto finora. Un’analisi comparativa delle strategie di pianificazione linguistica messe in atto in Friuli con quelle invece in vigore in Galizia dovrebbe eliminare ogni dubbio in questo senso.

Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie

505

4 Normalizzazione linguistica La normalizzazione linguistica (status planning in inglese) è quella fase della pianificazione linguistica il cui obiettivo è di dare status e prestigio a una lingua estendendo le funzioni per le quali può essere usata (Cooper 1989; cf. Coluzzi 2007, 133–137). Per ottenere ciò si fa normalmente ricorso a tutta una serie di strategie che vanno da una legislazione specifica (ad esempio quali lingue devono essere utilizzate negli uffici pubblici, nelle sedute consigliari, per i toponimi, etc.), requisiti linguistici per posti pubblici, pubblicità (campagne promozionali), aiuti economici per singoli, istituzioni, case editrici, etc. che si occupano della lingua locale, a concorsi letterari e musicali, CD con canzoni nella lingua da promuovere, programmi radiotelevisivi, film, giornali, riviste e opere di carattere letterario, tecnico o scientifico, traduzioni da altre lingue prestigiose, mini-corsi su periodici popolari, insegne e cartelli, etc. Anche se di solito l’insegnamento della lingua viene considerato una strategia di «acquisizione della lingua» (acquisition planning), in questo capitolo ne parleremo assieme alle strategie di normalizzazione sopra elencate (↗16 Pianificazione linguistica ed elaborazione). Nonostante in Friuli si sia fatto parecchio in molti di questi campi, il confronto con altre lingue minoritarie «forti», e nel caso specifico col galiziano, mostra le potenzialità mancate e che gli sforzi compiuti finora avrebbero potuto essere maggiori. Potremmo cominciare con gli stanziamenti pubblici effettuati per salvaguardare queste due lingue, fattore fondamentale dato che la grande maggioranza delle strategie di normalizzazione richiedono sforzi economici notevoli. Nel 2013 sarebbero stati stanziati in totale per la normalizzazione del friulano 1.660.000 euro (Monestier 2013), mentre in Galizia i soldi stanziati per la promozione del galiziano arriverebbero a 7.500.000 euro (Lombao 2012), quindi quasi cinque volte tanto per una popolazione che è meno di tre volte più grande di quella del Friuli. Anche se le cifre sono più basse che in passato (cf. Coluzzi 2007, 181), particolarmente in Spagna, la differenza e quindi le potenzialità di promozione sono evidenti. Quanto alle singole strategie di normalizzazione, citeremo qui solo alcuni esempi che ci sembrano particolarmente significativi. Cominciando con i media (↗17. Friulano nei mass media) notiamo subito una grossa differenza tra ciò che si è fatto in Galizia e quello che si sta facendo in Friuli. Anche se è da relativamente poco che è stato relegato su internet (usciva in forma stampata fino a giugno 2011), in Galizia, a differenza del Friuli, c’è un quotidiano «Galicia Hoxe» (ʻGalizia Oggiʼ) completamente in galiziano (http://www.galiciahoxe.com/). Nonostante in Friuli si pubblichino varie testate in friulano, la testata che si avvicina di più al concetto di giornale quotidiano è «Il Diari» (http://nuke.ildiari.eu/), quindicinale realizzato grazie al contributo dell’ARLeF (Agjenzie Regjionâl pe Lenghe Furlane). A livello di editoria in generale, le pubblicazioni in galiziano superano notevolmente le pur non scarse pubblicazioni in friulano. Dal 1945 al 1997, ad esempio, sono stati pubblicati in friulano 1.460 titoli, comprese 123 traduzioni (CIRF 1998, 12s.), mentre quasi lo stesso numero di titoli (1.333) sono stati pubblicati in un solo anno (1999) in Galizia (nello stesso anno sono

506

Paolo Coluzzi

stati pubblicati ben 6.941 libri in catalano – più 543 in valenziano, che è una variante del catalano – e 1.250 in basco) (AFA 2001 e 2002). Di fatto dal 1991 al 2001 il numero di libri pubblicati in galiziano è stato di ben 12.062 titoli (AFA 2002). Passando ai media via etere, la differenza tra Galizia e Friuli si fa ancora più evidente. Mentre in Friuli esiste solo una stazione radio che trasmette la maggioranza dei suoi programmi in friulano (Radio Onde Furlane) e i programmi trasmessi su varie reti televisive si possono contare sulla punta delle dita, in Galizia ci sono varie stazioni radio pubbliche e private che trasmettono in galiziano ed esiste addirittura un canale televisivo che trasmette interamente in galiziano: Televisión de Galicia (RTVG), che ha uno share del 15,9% (novembre 2008, Wikipedia spagnola, http://es. wikipedia.org/wiki/Televisi%C3%B3n_de_Galicia, 15.04.2013). Per quel che riguarda la presenza di queste due lingue nella scuola (↗18 Friulano nella scuola (e nell’università)), ancora una volta la Galizia mostra quanto più avanzata e coraggiosa sia la sua politica linguistica: secondo le leggi vigenti (Lei de Normalización Lingüística, 1983; Decreto 247/1995; Decreto 79/2010) in tutte le scuole dell’obbligo il galiziano non è solo materia di studio, ma lingua veicolare per l’insegnamento di circa metà delle materie curricolari. Quindi il galiziano viene insegnato con un modello di immersione bilingue (two-way/dual language o bilingual immersion in inglese; Coluzzi 2007, 161), un modello «forte» di educazione multilingue. In Friuli è solo dall’anno scolastico 2012–2013 che il friulano è entrato di diritto nelle scuole della regione come materia inserita nell’orario curricolare, tredici anni dopo l’entrata in vigore della legge 482/1999 e non senza polemiche e opposizioni. Fino all’anno scolastico precedente, il friulano aveva fatto parte di vari progetti di ampliamento dell’offerta formativa, ma sempre al di fuori del programma scolastico. Sull’uso del friulano come lingua veicolare previsto dalla legge 482 c’è invece ancora una lunga strada da percorrere. In ogni caso è altamente improbabile che si possa raggiungere un alto livello di conoscenza di una lingua se questa viene solo insegnata per una o due ore alla settimana. Nella tavola 12 oltre a riassumere ciò che è stato descritto in questa sezione con riferimento al friulano e al galiziano, ho anche aggiunto come termine di confronto una breve descrizione delle principali strategie di normalizzazione linguistica realizzate per le lingue minoritarie e regionali utilizzate per le scale EGIDS e dell’UNESCO.

Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie

507

Tavola 12: Confronto fra alcune strategie di normalizzazione messe in atto per sei lingue minoritarie/ regionali europee Quotidiano

Editoria

Radio

Televisione

Scuola

Friulano

___

Attiva

Radio Onde Furlane

Alcuni programmi Una-due ore alla (ad es. su Rai 3 e settimana Telefriuli) (facoltativo)

Galiziano

Galicia Hoxe (online)

Attiva

RTVG

RTVG

Milanese

___

Poco attiva

Alcuni programmi ___ (ad es. su Radio Meneghina)

Asturiano

___

Attiva

Radio Sele

Cimbro

___

Poco attiva

Alcuni programmi Alcuni programmi Alcune ore alla (Zimbar Earde su settimana TCA Trentino TV)

Aranese

___

Poco attiva

Alcuni programmi Alcuni programmi Circa un terzo delle (ad es. su (ad es. su TV 3) materie Catalunya Radio) (obbligatorio)

Circa metà delle materie (obbligatorio) ___

Alcuni programmi Due-tre ore alla settimana (facoltativo)

Non si è detto niente in questa sezione sull’altra fase della pianificazione linguistica, quella conosciuta come «normativizzazione» (corpus planning); accenneremo qui solo al fatto che la differenza tra Galizia e Friuli non è grande: entrambe possiedono uno standard e una grafia ufficiale (dal 1983 in Galizia e dal 1998 in Friuli), anche se in entrambe le regioni esiste una grafia «alternativa» più differenziata rispetto a quella utilizzata per la lingua nazionale che continua ad avere un certo numero di sostenitori (il sistema Faggin in Friuli, dall’aspetto più slavo, e la grafia «reintegracionista» in Galizia, più simile a quella usata per il portoghese) (cf. Coluzzi 2007).

5 Il paesaggio linguistico Fondamentale sia per avere un’idea del prestigio di cui gode una lingua che delle politiche linguistiche in atto in un(a) Paese/regione è il paesaggio linguistico, ovvero: «The language of public road signs, advertising billboards, street names, place names, commercial shop signs, and public signs on government buildings [that] combine to form the linguistic landscape of a given territory, region, or urban agglomeration» (Landry/Bourhis 1997, 25).

Non possedendo dati sul paesaggio linguistico in Galizia, le lingue minoritarie che utilizzerò in questa sezione per un confronto con il friulano saranno il milanese, il basco e il frisone, basandomi su una mia ricerca precedente (Coluzzi 2009a) e la ricerca

508

Paolo Coluzzi

svolta da Cenoz/Gorter (2006). Avendo per la mia ricerca utilizzato la stessa metodologia di questi ultimi due ricercatori, il confronto risulta in questo modo più affidabile. Come Cenoz e Gorter, anch’io ho analizzato le scritte presenti in una strada del centro di Milano e Udine contando non le singole scritte ma le unità di analisi, ovvero l’insieme delle scritte contenute in ogni singolo locale/negozio/palazzo, etc. visibile dalla strada. Solo nel caso di scritte isolate queste sono state considerate unità di analisi a sé stanti. Il risultato finale è che la presenza del friulano nel paesaggio linguistico è quasi trascurabile, più simile alla situazione di una lingua regionale come il milanese che non a quella di lingue minoritarie riconosciute come il frisone e soprattutto il basco. Infatti in Via Aquileia a Udine (scelta per essere centrale ma fuori dalla zona più storico-turistica) ho trovato solo quattro unità d’analisi che contenessero una qualche scritta in friulano, e più precisamente un esempio per ogni unità di analisi (un negozio, un ristorante, un cartello turistico e il nome originale della strada), quindi considerando le 200 unità presenti parliamo del 2% del totale. In Corso S. Gottardo a Milano ho trovato un solo adesivo in milanese in un negozio (su 188 unità d’analisi), ovvero 0,5% del totale. A Ljouwert/Leeuwarden, capoluogo della Frisia olandese, invece, il frisone era presente in 4,8% delle unità d’analisi, mentre a Donostia/San Sebastián si arrivava niente meno che al 44,2% di unità d’analisi in cui è presente il basco. La differenza con il friulano si fa ancora più evidente se consideriamo che nei Paesi Baschi non più di un terzo della popolazione totale sa parlare il basco, a differenza del Friuli dove più della metà degli abitanti sa parlare la lingua locale. Tavola 13: Presenza in percentuale della lingua minoritaria/regionale locale nel paesaggio linguistico di Udine, Milano, Ljouwert/Leeuwarden e Donostia/San Sebastián Udine (friulano)

Milano (milanese)

Leeuwarden (frisone)

San Sebastián (basco)

2%

0,5%

4,8%

44,2%

6 Conclusioni Il friulano ha decisamente fatto molta strada negli ultimi venti anni e le iniziative per la sua promozione sono in costante aumento. Tuttavia, come risulta chiaro dal confronto effettuato in questo capitolo con altre realtà di minoranza europee, e particolarmente in Italia e in Spagna, il friulano è lingua in pericolo con una visibilità molto bassa. Un forestiero può passare per il Friuli senza neanche rendersi conto dell’esistenza di una lingua locale diversa dall’italiano. Per le strade, in libreria, nelle biblioteche, nelle edicole, alla radio, alla televisione o nelle scuole domina l’italiano, seguito a lunga distanza dall’inglese. Come abbiamo visto la presenza del friulano è minima. Nel paesaggio linguistico di Udine la grandissima maggioranza delle scritte sono in italiano (l’86% delle unità d’analisi in Via Aquileia sono interamente in italiano), e tra quelle non esclusivamente in italiano ci sono molte più scritte in

Il friulano: confronto con altre lingue minoritarie

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inglese che in friulano (in Via Aquileia l’11% delle unità d’analisi contenevano scritte in inglese). Naturalmente non è questione di togliere spazi all’italiano o all’inglese (o ad altre lingue), ma piuttosto di aggiungerne per il friulano in tutti questi domini linguistici. Solo allora la deriva linguistica del friulano potrà essere arrestata e la marilenghe potrà veramente crescere e diventare di fatto e non solo di nome la lingua del Friuli accanto all’italiano (e all’inglese come lingua per le comunicazioni a livello internazionale).

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15 Normalizzazione: grafia, grammaticografia e lessicografia Abstract: La genesi della grafia ufficiale della lingua friulana è stata molto lunga e controversa. Fino all’ufficializzazione della grafia avvenuta per legge nel 1996 esistevano diversi sistemi grafici in concorrenza tra loro. Come spesso accade, i motivi sottostanti alla diatriba erano non solo di natura pratica, ma anche ideologica. Il risultato è un compromesso in parte problematico tra scelte che nel complesso non vogliono rompere con la tradizione di scrittura. Contemporaneamente alla standardizzazione grafica, è stata in parte codificata anche la morfologia, mentre il lessico è stato fissato in un recente grande dizionario dall’intento normativo. In questi tre campi gli esiti sono stati talvolta contraddittori. La lingua standard attuale presenta diverse incoerenze e oscillazioni tra scelte accusate di eccessivo purismo e decisioni a cui si imputa un’italianizzazione del friulano. Keywords: standardizzazione grafica, standardizzazione grammaticale, standardizzazione lessicale

1 Premessa In questo contributo il termine normalizzazione è da considerarsi sinonimo di standardizzazione, il che rientra nella più vasta attività di pianificazione linguistica. Tradizionalmente quest’ultima distingue tra la pianificazione del corpus e quella dello status di una lingua (cf. Haugen 1983). In questo contributo si prenderà in esame il primo ambito, in quanto verranno trattati gli interventi avvenuti negli ultimi decenni per standardizzare forma e struttura della lingua friulana: in particolare la riforma della grafia, la fissazione (parziale) di una grammatica e le operazioni di lessicologia/ lessicografia.

2 La standardizzazione della grafia 2.1 Le grafie fino al 1870 L’analisi della grafia del friulano dei primi secoli non è l’obiettivo di questo lavoro. Si rimanda quindi a Faggin (1980) e soprattutto a Moretti (1985). Si noti qui solo che certe convenzioni grafiche sono rimaste frequenti per secoli e per queste si batterà a lungo la Società Filologica Friulana. Esse si possono riassumere nella definizione «della ‹z› polivalente». In particolare la grafia per /ʧ/ e /ʤ/ e quella per rendere i

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suoni /c/ e /ɟ/ (non presenti in italiano) hanno costituito per secoli un problema. Soprattutto sul rapporto suono/grafia in questi casi, e sulla grafia delle consonanti etimologicamente sonore a fine di parola (che in friulano diventano sorde, ma che possono alternare con le corrispondenti sonore se seguite da vocale), si concentra la seguente discussione.

2.2 Alcune caratteristiche della grafia del Vocabolario friulano di J. Pirona Questo vocabolario, di oltre 700 pagine, appare nel 1871. Nell’introduzione si ricorda che «…[il] nostro dialetto […] dee vestirsi della scrittura italiana» e «[t]uttavia dove la insufficienza assoluta dell’alfabeto non lasci modo di esprimere colle combinazioni esistenti un suono essenziale […] solo allora dovremo recisamente allontanarci dalle norme di quella ortografia» (Pirona 1871, XXV).

Per /ʧ/ Jacopo Pirona reintroduce il segno con la cediglia, usato nei secoli precedenti. «Perciò adottiamo per questo suono il ç colla cedilla, secondo l’antico uso del Friuli (v. l’iscrizione di Reclus) e di altre nazioni dell’Europa romana. Così diremo çomp çavàte, dove male si leggerebbe ciomp, ciavàte e male pure zomp, zavàte» (Pirona 1871, XXVII).

Questo soprattutto per evitare il pericolo che venga pronunciata una i puramente grafica. J. Pirona scrive dunque davanti a, o, u ma davanti e, i, come in acident, macell, facil. Solo a fine di parola -zz: brazz, vantazz, viazz (J. Pirona non è però molto costante e spesso elenca parole con /ʧ/ come primo suono anche sotto la lettera z). Il suono /ʤ/ viene reso sempre con in ogni contesto: arzile, corezi, zovin, zirâ. Suono /c/: Questa «articolazione», secondo Pirona, «[n]oi dobbiamo conservarla per non perdere una notabile caratteristica della nostra favella». A questo scopo propone il grafema . Esempi: çhavre (ʻcapraʼ), çhav (ʻtestaʼ), veçho (ʻvecchioʼ), bançhe (ʻbancaʼ). Le combinazioni di suoni /ki/, /ke/ vengono sempre scritte come in italiano , ovvero , per /gi/, /ge/. Il suono /ɟ/ viene sempre scritto davanti a, o, u, e davanti i, e: giambe (ʻgambaʼ), giatt (ʻgattoʼ), gioldi (ʻgodereʼ), stange (ʻstangaʼ). Le consonanti etimologicamente sonore sono rese come tali anche se sono pronunciate come sorde: colomb /koˈlɔmp/, clav /klaːf/ (ʻchiaveʼ), fûg /fuːk/ (ʻfuocoʼ), amàd /aˈmaːt/. Nel 1898 vengono pubblicate in questa grafia le opere di P. Zorutti, il che senz’altro contribuisce alla sua diffusione. Essa viene adottata dalla rivista Pagine friulane (pubblicata dal 1888 al 1906) e dalla maggior parte degli scrittori. Nonostante ciò i calendari e diversi poeti popolareschi rimangono fedeli alla grafia originale di Zorutti (cf. Moretti 1985, 84–86).

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2.3 Proposte e innovazioni dei primi 40 anni del ’900 Dopo una trentina d’anni nasce intorno alla grafia un dibattito considerevole. Nel 1919 viene fondata a Gorizia la Società Filologica Friulana (SFF) che condizionerà la vita della lingua friulana fino ai giorni nostri. Una delle prime preoccupazioni è quella di arrivare alla «determinazione della grafia friulana». L’incaricato allo studio preliminare, il linguista Ugo Pellis, propone l’uso della Teuthonista (grafia fonetica non IPA), ma la commissione della SFF la respinge; Pellis si adegua, e redige nel 1921 le Norme per la grafia friulana che si aprono con l’invito a: «scrivere il friulano da italiani, con semplicità e buon senso, senza pedanteschi rigorismi e ingombranti minuziosità. Le sfumature non sono rappresentate da nessuna grafia letteraria; è ridicolo quindi incaponirsi a volerle rappresentare in un dialetto» (Pellis 1921, 1).

Da una scrittura fonetica passa quindi a una scrittura fonematica. Pellis afferma anche che non è importante che il suono /c/ abbia un segno speciale: secondo lui si potrebbe scrivere anche cian per /can/: «la caratteristica, cioè la palatalizzazione di c (k) davanti ad a è espressa! E questo è l’importante, perché nella palatalizzazione sta l’essenziale non nelle sfumature dell’articolazione palatale» (Pellis 1921, 2).

Graficamente, quindi, non c’è più distinzione tra i due suoni: cîl (ʻcieloʼ), cirî (ʻcercareʼ) (con il suono /ʧ/), ma anche cialt (ʻcaldoʼ), ciar (ʻcaroʼ), (con il suono /c/). Lo stesso vale anche per i suoni sonori /ɟ/ e /ʤ/: giat /ɟ/ (ʻgattoʼ), genoli /ʤ/ (ʻginocchioʼ). Queste decisioni derivano soprattutto dal desiderio di evitare segni e combinazioni di segni estranei all’italiano. Pellis inoltre invita tutti a scrivere nella variante del proprio paese. Dopo che anche Blanch nel 1928 propone nel suo libretto una nuova grafia con un largo uso di c con cediglia, esce nel 1935 il vocabolario Il Nuovo Pirona, una completa (e molto ampliata) rielaborazione del vocabolario del 1871. Quest’opera adotta i principi esposti da Pellis nel 1921, in particolare la resa grafica delle occlusive palatalizzate. La lettera amplia il suo campo d’applicazione. La confusione tra /ʦ/ fruz (pl. di frut, ʻbambinoʼ), lezion, grazie, /dz/ ’zero, marturizâ, /ʧ/ zondar (ʻcavernaʼ), zuite (ʻcivettaʼ) e /ʤ/ viazâ‚’zenoli raggiunge il massimo grado. Questi quattro suoni sono rappresentati tutti con la lettera (tranne che ad inizio di parola, dove esiste un diacritico distintivo per /ʤ/). La cediglia viene eliminata.

2.4 Il dopoguerra: la riforma di G. Marchetti Nel dopoguerra si impongono alcune innovazioni create da Marchetti. Nella sua grammatica del 1952 introduce i digrammi per il suono /c/ e per /ɟ/. Essi vengono accettati da molti scrittori e sono tuttora presenti nella grafia ufficiale. Per rendere in modo ottimale i suoni del friulano non presenti in italiano, e i suoni scritti

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nel passato in maniera non uniforme, secondo Marchetti la soluzione migliore sarebbe l’introduzione di lettere speciali: «[l]a [soluzione] più semplice, che consisterebbe nell’adozione di alcuni segni alfabetici o diacritici estranei all’alfabeto italiano (č, ć, š, ž, k), non sembra per il momento accettabile per le ragioni sopra accennate» (Marchetti 1952, 27).

I motivi sarebbero le «difficoltà nella lettura per chi ha familiarità col solo alfabeto italiano» (Marchetti 1952, 26) e le «ancor più gravi difficoltà pratiche per la stampa» (Marchetti 1952, 26) a causa della mancanza dei caratteri nelle tipografie. Per questo egli si limita a ritoccare la grafia della Società Filologica Friulana (cioè la soluzione Pellis/Nuovo Pirona). Per /ʧ/ avanza le seguenti proposte: davanti e e i come in italiano: cirî, francês davanti a, o, u a inizio parola: zuc (ʻalturaʼ), zate (ʻzampaʼ) in corpo di parola dopo consonante: vinzût tra vocali: spizzot (ʻappuntitoʼ), gnozzade (ʻfesta nuzialeʼ) a fine di parola: palàz, pastìz, capùz Per /ʤ/: davanti e e i in ogni posizione: gingìe (ʻgengivaʼ), ingessât, argile davanti a, o, u a inizio di parola: ’zovâ (ʻgiovareʼ), ’zuc (ʻgiocoʼ), ’zonte (ʻaggiuntaʼ) davanti a, o, u in corpo di parola: rezût (ʻrettoʼ), sparnizâ (ʻsparpagliareʼ), marzòc (ʻstupidoʼ) È interessante notare che Marchetti in parte si contraddice. Per quanto riguarda il primo caso di /ʤ/ a pagina 102 della sua grammatica si possono leggere le seguenti parole: ’zimul (ʻgemelloʼ), ’zenôli, ’zinar (ʻgeneroʼ), ’zinzìe. Nella maggioranza dei casi Marchetti scrive proprio così, e più tardi anche in altri saggi. Allo stesso modo scrivono anche gli scrittori del gruppo Risultive, spesso tralasciando l’apostrofo in posizione iniziale. Di conseguenza si rimane alla scrittura tradizionale di per /ʤ/. Infine, per le consonanti a fine di parola, Marchetti segue il Nuovo Pirona: «In fine di parola le consonanti sonore (b, d, g, v) non sono pronunciabili in friulano: si sostituiscono nella grafia come nella pronuncia, con le corrispondenti sorde (p, t, z, f): plomp (it. piombo), grant (it. grande)» (Marchetti 1952, 29).

Nel complesso la grafia di Marchetti non si distanzia dalle convenzioni dell’italiano più di quanto facessero altre grafie precedenti, al contrario di quanto si era proposto. Quando nel 1957 un articolo della redazione della rivista Sot la Nape della Società Filologica Friulana riassume e ribadisce le regole appena illustrate, questa grafia diventa di fatto quella ufficiale della SFF.

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2.5 Le grafie principali dagli anni ’50 agli anni ’80 2.5.1 La grafia delle «pipe» Agli inizi degli anni ’50 viene fondata la Scuele libare furlane, con lo scopo di insegnare il friulano (parlato e scritto) ai bambini. Nel 1957 questo gruppo, seguendo l’originaria proposta di Marchetti, propone l’uso di lettere con háček o «pipa» tipiche delle lingue slave: per /ʧ/ davanti a, o, u e a fine di parola (altrimenti ), per /ʤ/ davanti a, o, u (altrimenti ), per /ʃ/; e rimangono. Nel 1959 compare come prima opera importante in questa grafia il romanzo La crete che no vai di D. Zannier. Questa grafia viene adottata da diverse piccole associazioni e riviste, oltre che per tradurre l’intera Bibbia uscita tra il 1984 e il 1993 in otto volumi. Riguardo alla sua diffusione Moretti annota (1985, 118): «[s]ta però il fatto che le pipe sono state ormai largamente introdotte negli scritti friulani, anche se con non poche divergenze». Per la Clape Culturâl Acuilee (strenua avversaria della grafia tradizionale, dell’attuale grafia ufficiale e della SFF più in generale): «la ‹pipa› […] divenuta ormai il segno caratteristico e distintivo della lingua, il segno che compare nella stragrande maggioranza degli scritti in friulano degli ultimi trent’anni» (Clape Culturâl Acuilee 1997, 55).

Eppure la SFF non accetta queste innovazioni, né negli anni ’50, né nei 40 anni successivi, quando questa grafia si diffonde largamente. La motivazione ufficiale del rifiuto è la difficoltà tecnica nella resa di questi segni, eppure la verrà accettata nel 1996 pur essendo anch’essa assente dalle tastiere italiane.

2.5.2 La grafia di Faggin Dopo che la proposta di Francescato (1967) per una grafia precisa, logica e simmetrica, dove i segni diacritici sono ridotti al minimo e senza l’introduzione di nuovi grafemi (tutt’al più nuove combinazioni) viene ignorata, con il Vocabolario della lingua friulana di Giorgio Faggin (1985) in due volumi (solo friulano-italiano) la grafia del friulano viene di nuovo modificata. Essa appare come segue: /c/ e /ɟ/ vengono scritti in tutte le posizioni e : čhase (ʻcasaʼ), mosčhe (ʻmoscaʼ), dučh (ʻtuttiʼ), ğhambe (ʻgambaʼ), ğholdi (ʻgodereʼ). /ʧ/ e /ʤ/ vengono scritti e davanti a, o, u e a fine di parola, altrimenti , , come in italiano: čate (ʻzampaʼ), čore (ʻcornacchiaʼ), plačute (ʻpiazzettaʼ), poč (ʻpozzoʼ), ğovin (ʻgiovaneʼ), viağâ, al strenğ – [ʧ] (ʻstringeʼ), cent, cirî, genoli, girâ. /ʦ/ e /dz/ vengono resi come in italiano, entrambi con : organizazion /organiʣaˈʦjɔn/. /ʃ/ viene reso con : šivîl (ʻfischioʼ), bušâ (ʻbaciareʼ), mešedâ (ʻmescolareʼ).

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Le consonanti etimologicamente sonore vengono rese a fine di parola con i segni dei suoni sonori anche se perdono la sonorità: plomb, grand, larg. Nel complesso questa grafia si distanzia dalla tradizione ancor più della «grafia delle pipe». La maggior parte degli scrittori e delle istituzioni rifiuta queste innovazioni, esse vengono accolte con entusiasmo solo dalla piccola Clape Culturâl Acuilee, che oggigiorno, nonostante l’ufficializzazione per legge della grafia (avvenuta nel 1996, con lievi modifiche successive), continua a usare senza modifiche la grafia del vocabolario Faggin.

2.6 La nascita della grafia ufficiale Agli inizi degli anni ’80, come detto, sembra imminente una legge per la protezione delle minoranze. Per dare più forza a questa richiesta appare ancora più necessaria la fissazione di una grafia standard. Dal momento che un accordo tra i sostenitori delle varie posizioni appare impossibile, la provincia di Udine (in quel periodo relativamente interessata alla lingua friulana) decide di risolvere il problema dando quindi ai risultati una valenza ufficiale. A questo scopo viene costituita una commissione di 11 membri: cinque professori o docenti dell’università di Udine, rappresentanti della SFF, del partito Movimento Friuli, giornalisti, operatori culturali e attivisti in generale riguardo alle questioni culturali e sociali del Friuli (spesso una singola persona rientra in più categorie). Per evitare discussioni infinite si decide che le varie proposte siano, nel giro di alcuni mesi, giudicate ed elevate a norma da parte di un arbitro: il professor Xavier Lamuela di Barcellona, esperto dei problemi di standardizzazione di lingue neolatine minori. I criteri della commissione sono che la lingua comune deve 1. avere caratteristiche diasistematiche, cioè tener conto anche delle varietà; 2. essere semplice per permettere la riproduzione meccanica dei testi («funzionalità»); 3. rispettare la tradizione di scrittura; 4. evitare contraddizioni con le abitudini grafiche dell’italiano; 5. avere la più alta corrispondenza possibile tra segni e suoni («coerenza») (Lamuela 1987, 11). Si nota subito che il terzo e quarto criterio sono tra loro almeno in parte incompatibili. Per i suoni che hanno sempre rappresentato i problemi più controversi, la maggior parte delle grafie tradizionali ha usato convenzioni grafiche devianti rispetto all’italiano. Inoltre ci si chiede che senso abbia voler rispettare la tradizione di scrittura se questa è sconosciuta: un’indagine all’inizio degli anni ’90 ha rivelato che «il 73,4% non legge praticamente mai niente in lingua friulana» (Strassoldo 1993, 5). Secondo Lamuela la commissione voleva in origine distinguere tra i quattro suoni /ʧ/, /ʤ/, /ʦ/, /dz/. Per i primi due suoni vengono rifiutati i segni e con la giustificazione che la riproduzione con macchina da scrivere e computer sarebbe troppo complicata. Per /ʧ/ Lamuela propone . Per /dz/ viene mantenuta la per rendere internazionalismi di origine greca che presentano la lettera ζ, come zone, zoologjie, amazone. /ʦ/ dovrà esser reso con per due motivi: questo digramma è univoco ed è utilizzabile anche per il plurale delle parole in -t come frut, fruts. Sul

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modello di e (che devono rimanere per /c/ e /ɟ/) Lamuela propone per /ʤ/ il digramma . In commissione si dibatte anche la questione se sia opportuno mantenere inalterata la radice delle parole nella flessione grand /grant/, grande invece di grant, grande. Alla fine si decide per la seconda soluzione: grafia che ignora l’etimologia e la costanza grafica di lessemi e morfemi, ma rispetta il criterio della corrispondenza grafemi/ fonemi. Nel fascicolo La grafie furlane normalizade Lamuela (1987, 13) illustra un altro criterio della sua grafia che poi darà luogo a lunghe polemiche tuttora in corso: «Ma no crodìn che la grafie e vebi di rifleti lis variatsions inte pronuntsie di une peraule daûr dal contest fonetic; cussì, o racomandìn di scrivi simpri cuant e no mo cuant mo cuan – o cuan’ – e, in mût pareli, cjalantlu, Sant Pieri, no’nt vin… Il fonetisim ecessîf al diminuìs l’autonomie de lenghe scrite tant che imprest culturâl; la grafie di une lenghe di culture no po jessi il riflès stret de oralitât». [Ma non crediamo che la grafia debba riflettere le variazioni nella pronuncia di una parola a seconda del contesto fonetico; così, raccomandiamo di scrivere sempre cuant e non una volta cuant e una volta cuan – o cuan’ – e, allo stesso modo, cjalantlu, Sant Pieri, no’nt vin… Il fonetismo eccessivo diminuisce l’autonomia della lingua scritta come strumento culturale; la grafia di una lingua di cultura non può essere il riflesso stretto dell’oralità].

Nelle poche righe successive Lamuela stabilisce anche, per seguire il criterio della funzionalità e per facilitare l’apprendimento della grafia, di eliminare più accenti e apostrofi possibile. Nonostante l’impegno di adeguarsi alle decisioni di Lamuela, le diversità di vedute riguardo a tre punti (l’uso di ç e i due problemi secondari menzionati qui sotto) sono tali (Cortelazzo 1996, 175) da impedire un accordo. Questo viene raggiunto nel 1998 con due lievi modifiche che vengono integrate nel testo della legge 15/1996: si tratta dell’uso di e di quando la vocale /i/ è presente nella pronuncia (la SFF avrebbe voluto continuare a scrivere p. es. tu mangjs) e della rinuncia a a favore di (tranne che a fine di parola). L’uso di viene accettato.

2.7 Alcuni punti problematici della grafia ufficiale 2.7.1 La grafia di /ʤ/, /ʦ/, /dz/ /ʤ/ viene scritto sempre : Zenâr (ʻgennaioʼ), sielzi (ʻscegliereʼ), zovin (ʻgiovaneʼ), zûc (ʻgiocoʼ). Problematico è il fatto che z viene usato anche per rendere i suoni /ʦ/ e /dz/. Tutto ciò viola sia il principio, voluto dalla commissione per la grafia standard, della coerenza, sia quello del rispetto delle abitudini grafiche dell’italiano. È quindi una scelta particolarmente infelice dovuta alla lunga tradizione di «zeta» per /ʤ/. Due soluzioni sarebbero state più coerenti: l’uso delle «pipe» (rifiutato per la difficoltà pratica di rappresentazione e per essere poco «romanzo») e una soluzione all’italiana

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come proposto da Francescato (1967), da Cortelazzo (1996) e da alcuni altri professori universitari nella commissione della Provincia. Nonostante ciò il conservatorismo della SFF finisce con il prevalere. Riguardo a per /ʤ/ si deve constatare che questa convenzione induce sempre più a leggere /dz/ dove si dovrebbe pronunciare /ʤ/, il che si riscontra abbastanza spesso in trasmissioni radio o televisive dove i giornalisti si basano su un testo scritto. L’esperienza del passato, quando anche /ʧ/ veniva reso con , non sembra quindi aver insegnato alcunché: eppure diversi antroponimi e toponimi vengono ormai irrimediabilmente pronunciati in modo distorto. Il monte Zoncolan, famoso per lo sci e il ciclismo, che non ha una forma italianizzata, viene costantemente pronunciato /dzonkoˈlan/ mentre la pronuncia originaria sarebbe /ʧonkoˈlan/, scritta quindi Çoncolan. C’è da temere che anche per /ʤ/ porti a risultati simili di pronuncia modificata.

2.7.2 Le consonanti in fine di parola Nella grafia ufficiale le consonanti sorde vengono scritte con la grafia normale delle consonanti sorde anche se questo può portare ad un’alternanza nella grafia: grant (masc. sg.) – grande (femm. sg.), lunc (ʻlungoʼ) – lungje. Se il lessema è presente anche in italiano, come spesso accade, si presume che anche un non-madrelingua che veda scritto per es. grant sia automaticamente in grado di desumere le forme femminili grande e grandis basandosi sugli equivalenti italiani. Un problema può sorgere se la parola esiste solo in friulano: per es. penç /pɛnʧ/ (ʻdensoʼ). Il femminile è pence /pɛnʧe/ o penze /pɛnʤe/? La forma corretta è la seconda, il che non è però deducibile dalla forma maschile singolare. Una parola come dolç, con la stessa struttura, si comporta in modo diverso: dolç – dolce. Altri esempi senza equivalente italiano: garp – garbe (ʻacerboʼ) ma sterp – sterpe (ʻsterileʼ). Lamuela avrebbe preferito una grafia «morfologica» (cf. lettera di Lamuela a Ceschia del 05.11.1985) ma la commissione era contraria. La proposta di Lamuela avrebbe senz’altro avuto dei vantaggi e sarebbe stata in armonia con quanto fanno diverse lingue europee.

2.7.3 L’uso degli accenti «Daûr dal criteri di funtsionalitât, al coventave fâ un ûs economic dai acents, dai apostofs e des liniutis. O vin gjavâts putrops acents distintifs, che […] a complichin une vore l’imparament de ortografie» (Lamuela 1987, 13). [Seguendo il criterio di funzionalità, era necessario fare un uso economico degli accenti, degli apostrofi e delle lineette. Abbiamo tolto diversi accenti distintivi, che […] complicano molto l’apprendimento della grafia].

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Che troppi accenti siano inutili e difficili da imparare può essere eventualmente vero se si presuppone che chi poi legge il testo conosca bene la lingua e possa interpretare la scrittura automaticamente nel modo corretto. Dal momento che però la maggioranza degli scolari ha tutt’al più conoscenze di friulano rudimentali, l’eliminazione di quasi tutti gli accenti è problematica. Ciò è evidente soprattutto nel caso di coppie di parole italiane e friulane, facilmente riconoscibili come imparentate e in qualche modo simili, ma con accentazione differente. Es. it. palpebra, friul. palpiere; it. canapa, friul. cjanaipe in italiano proparossitone, in friulano parossitone. Oppure, al contrario it. gemella, friul. zimule. Una tale scrittura può condurre a una pronuncia sbagliata. Essendo segnate con accento solo le vocali di parole ossitone in posizione finale (oltre che quando seguite da -s: catùs ʻassioloʼ, scartòs ʻcartoccioʼ, etc.) si possono avere coppie di parole scritte in modo identico ma con pronuncia (e ovviamente significato) differente. Ess.: massarie /maˈsarje/ (ʻservaʼ) e massarie /masarˈie/ (ʻstoviglieʼ); music /ˈmuzik/ (ʻmusicoʼ) e music /muˈzik/ (ʻmusoʼ) etc. Un altro caso in cui la mancanza di accenti può portare a un’accentazione di tipo italiano riguarda i verbi con radice polisillabica: questi hanno l’accento sulla penultima sillaba mentre in italiano, di solito, la sillaba accentata è la precedente: it. lui /ˈsɛmina/ ma friul. lui al /seˈmɛne/; it. lui /ˈpɛttina/ ma friul. lui al /peˈtɛne/ etc. Molti sono i verbi che si comportano in questo modo e una grafia come semene, petene, calcole, studie, etc. può indurre ad accentare queste forme verbali come le corrispondenti italiane. Fino qui si è parlato del cosiddetto «accento breve», rappresentato da un accento grave. La grafia ufficiale prevede anche un «accento lungo o doppio», rappresentato dall’accento circonflesso, usato (con eccezioni) quando la vocale è lunga.

2.7.4 Gli apostrofi e la costanza lessicale e morfologica A parte nel caso dell’articolo determinativo maschile davanti a vocale: l’arbul (ʻl’alberoʼ), l’uf (ʻl’uovoʼ) e per le forme ridotte di indi (ʻneʼ), tutte le forme elise, costanti nella lingua parlata e nella lingua scritta precedente la standardizzazione di Lamuela, sono bandite. Una frase come S’o ai capît ben ce ch’al à dit, e je ore ch’e ledi. (ʻSe ho capito bene quello che lui ha detto, è ora che lei vada.ʼ) deve ora essere scritta Se o ai capît ben ce che al à dit, e je ore che e ledi. Oppure Cuant? Cuan’ ch’o ai timp. (ʻQuando? Quando ho tempo.ʼ), ora Cuant? Cuant che o ai timp. Se in quest’ultimo caso può essere sensato evitare l’alternanza cuant/cuan’, l’eliminazione delle contrazioni è una violazione della tradizione scritta che ha dato adito a lunghe ed accese polemiche. Il principio della costanza morfologica determina anche grafie come saludantlu (ʻsalutandoloʼ), lavaitsi (ʻlavateviʼ) mentre la grafia tradizionale e la pronuncia comune semplificano in saludanlu e lavaisi. Anche questi casi sono stati aspramente criticati, e lo stesso vale per il divieto dell’elisione dell’articolo determinativo femminile davanti a vocale: il risultato è la grafia la acuile, la Italie.

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Un altro esempio, giunto a conoscenza anche di un pubblico più largo, è quello degli agiotoponimi. Nella pronuncia corrente e in tutti i testi degli ultimi secoli fino al 2002 la grafia e la pronuncia sono state simili all’italiano: San Denêl, San Zuan, San Michêl, etc. L’obbligo di usare una grafia etimologizzante e di costanza morfologica/ lessicale costringe invece a scrivere Sant Denêl, Sant Zuan, Sant Michêl. Questo ha provocato molte proteste anche sulla stampa locale, soprattutto da parte degli abitanti dei paesi che si sono visti apporre cartelli stradali con la nuova grafia che induce a una pronuncia inconsueta e innaturale.

3 La standardizzazione morfologica e grammaticale Al giorno d’oggi esistono tre varietà (o modelli) principali di lingua friulana. 1) Il friulano parlato nella zona attorno a Udine; 2) La cosiddetta koinè letteraria così come si è formata negli ultimi due secoli; 3) La lingua comune o standard, così come è stata creata nel 1985 dalla commissione incaricata di stabilire la grafia ufficiale. La prima varietà è piuttosto omogenea e presenta oscillazioni solo in pochi punti. La seconda è anch’essa abbastanza uniforme, pur con limitate divergenze tra uno scrittore e l’altro. La terza è per definizione stabile e univoca, solo in pochissimi casi offre una doppia soluzione. Uno dei problemi è che la lingua è stata standardizzata solo parzialmente, tralasciando alcuni aspetti che o sono ancora in attesa di una soluzione oppure sono stati tacitamente codificati dalle grammatiche, dai corsi di lingua e dai vocabolari usciti dopo il 1985. Un quarto modello, piuttosto diffuso ma risultato perdente al momento dell’ufficializzazione dei risultati della commissione apposita, è quello (già descritto per quanto riguarda la grafia; cf. sopra) Faggin/ Nazzi che, per quanto riguarda la morfologia, presenta alcune differenze con la lingua standard. È opinione diffusa che la Commissione per la normalizzazione e standardizzazione della grafia della lingua friulana, istituita ufficialmente dalla Provincia di Udine nel 1985, si sia occupata solo della rappresentazione grafica dei suoni del friulano. In realtà, per arrivare a questo risultato, i membri della commissione: «decisero di stendere un piano per giungere ad una normalizzazione ufficiale della grafia della lingua friulana, sulla base di un modello normalizzato e standardizzato di lingua» (Lamuela 1987, 6; neretto di D.T.).

Dal momento che quest’ultimo non esisteva, fu creato, ma non come prodotto collaterale conseguente alla fissazione della grafia ufficiale, bensì seguendo un programma prestabilito. Nella seduta del 22 agosto 1985 la Commissione fissa gli obiettivi da raggiungere e stabilisce che «La grafie e à di sei funcional a une lenghe furlane scrite standard».

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Poco oltre: «La comission e nomene un arbitri […] El arbitri al decid in vie definitive 1. el model di lenghe standard dulà che in te Comission no jè stade unitat, 2. el sisteme dai segns grafics» (verbale manoscritto reperibile sotto: http://www.archivi.movimentofriuli.it/azion-politiche/). [La commissione nomina un arbitro […] L’arbitro decide in via definitiva 1. il modello di lingua standard nei casi in cui nella Commissione non c’è stata unità, 2. il sistema dei segni grafici].

Questa è la posizione che poi si imporrà e che verrà adottata anche da Xavier Lamuela che la commissione sceglie come arbitro il 17 settembre 1985. Si tenga presente che questo modo d’agire non godeva dell’appoggio unanime della Commissione. Esisteva infatti anche «[l]a posizione di chi diceva che bisognava normalizzare solo la grafia, e fissare un rapporto fra suoni e segni, senza normalizzare il modello di lingua. Così ogni friulano avrebbe scritto in maniera differente usando gli stessi segni» (Lamuela 1987, 8).

Così nel fascicolo (Lamuela 1987) che presenta i risultati dei lavori, il rapporto suoni/ segni è spiegato brevemente mentre si hanno 26 pagine di «Sielte des formis gramaticâls». Inoltre, diversi aspetti di tipo fono-morfologico, derivanti dalla selezione di uno tra i vari possibili allomorfi, vengono illustrati nella sezione sulla grafia, che nel fascicolo in questione va sotto il titolo di «Regulis di leture e di scriture de coinè». Per la scelta delle forme grammaticali Lamuela spiega il suo criterio: «O vin cjapât come guide la gramatiche di Nazzi e o vin fat zontis, sopressions o modifichis daûr dai nestris criteris, cul jutori de gramatiche di Marchet, dai doi ditsionaris Pirona e dal ditsionari Faggin» (Lamuela 1987, 29). [Abbiamo preso come guida la grammatica di Nazzi e abbiamo fatto aggiunte, soppressioni o modifiche secondo i nostri criteri, con l’aiuto della grammatica di Marchetti, dei due dizionari Pirona e del dizionario Faggin].

Dal momento che negli anni successivi non è apparsa alcuna grammatica normativa che, restando sulla linea di Lamuela, trattasse tutti gli aspetti del friulano, e neanche un’opera che mettesse in questione le scelte di Lamuela (a parte Faggin/Nazzi che semplicemente le ignorano, cf. Faggin 1997), queste ultime sono state implicitamente accettate da tutti coloro che vogliono scrivere nel rispetto della norma. Mentre la legge regionale 15/1996 stabilisce, tralasciando gli altri aspetti della lingua, che la grafia ufficiale è quella contenuta in Lamuela (1987), la legge regionale 29/2007 prescrive che «gli atti e documenti [ufficiali] sono redatti in lingua friulana comune». In assenza di una codificazione della «lingua friulana comune» è chiaro che si può fare riferimento solo a Lamuela (1987) e alle poche modifiche e aggiunte che compaiono (senza venire esplicitate) nelle opere successive che si propongono di seguire la norma (che, come detto, presenta ancora problemi aperti).

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3.1 Alcuni esempi di discrepanza tra le tre varietà in seguito alla standardizzazione di morfemi lessicali e grammaticali 3.1.1 Parole in cui una /j/ intervocalica è caduta Si tratta di parole come paie /pae/ (ʻpagliaʼ), paie (ʻpagaʼ), maie (ʻmagliaʼ), ploie (ʻpioggiaʼ), fertaie (ʻfrittataʼ). Queste parole nel friulano centrale (se lo si restringe alla zona attorno Udine) vengono pronunciate senza la /j/ ma nella grafia ufficiale devono essere scritte come indicato. A questo proposito Lamuela scrive: «Fra a tonic e a, e o o atons e fra o tonic e e aton, si scrîf l’i che al comparìs te pronuntsie di qualchi varietât ma che al è mut te coinè: fertaie [áe], fevelaraio [áo], fevelaraial [áa], ploie [óe]» (Lamuela 1987, 22). [Fra a tonica e a, e o o atone e fra o tonica e e atona, si scrive la i che compare nella pronuncia di qualche varietà ma che è muta nella koinè].

Nel ʼ600 il poeta Ermes di Colloredo scriveva (e quindi probabilmente pronunciava) regolarmente la j intervocalica. Due secoli più tardi, J. Pirona (1871) fa presente al lettore che «Il j quando è seguito da vocale viene nella pronuncia eliso e quindi si ode batàe [ʻbattagliaʼ], boscàe [ʻboscagliaʼ], dòe [ʻdogliaʼ], màe [ʻmagliaʼ], vòe [ʻvogliaʼ], ecc.». Gli autori di grammatiche e vocabolari dopo di lui, e anche la grande maggioranza degli scrittori, scrivono senza la j intervocalica: questo fino alla fissazione della grafia ufficiale che la reintroduce. Il motivo è da ricercare nel desiderio di avere una grafia diasistematica, che cioè tenga conto anche delle varietà che hanno /VjV/. Così facendo, però, si è andati contro il principio della tradizione di scrittura e si è fatta una concessione a varietà molto periferiche e numericamente molto scarse, costringendo la grande maggioranza dei parlanti ad adeguarsi a una minoranza. Pur non essendo stato esplicitato, è evidente che il principio di maggioranza è sempre stato presente durante le operazioni di standardizzazione: il non averlo seguito ha causato in questo caso molte polemiche contro la grafia ufficiale che si sono manifestate, tra l’altro, in frequenti lettere ai quotidiani locali.

3.1.2 Gli avverbi in -mentri Un caso curioso è quello degli avverbi che ricalcano il modello italiano in -mente. Come è evidente a chi abbia conoscenze di friulano anche superficiali, negli ultimi decenni (in realtà secoli) l’unica forma parlata e scritta per gli avverbi derivanti da aggettivi che al femminile hanno la desinenza -e termina in -amentri (o -amenti). Così it. pubblico – pubblicamente, friul. public – publicamentri. Se, come nota Finco (2009, 70), nel ’300 era ancora sentita la composizione con un aggettivo femminile, questo

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fenomeno scompare presto da tutti i testi scritti pervenutici. Anche nella lingua parlata odierna si sente solo la forma -amentri. Eppure, nel 1985 Faggin propone nel suo vocabolario solo forme in -ementri: es.: publichementri, seguito in quest’uso dai dizionari di Nazzi. Nel fascicolo sulla normalizzazione (Lamuela 1987), il linguista catalano usa sempre la forma -amentri, adottata da tutte le pubblicazioni dell’Osservatorio per la lingua friulana (OLF). Solo dal 2003 la riedizione di La grafie uficiâl de lenghe furlane consiglia storichementri (invece di storicamentri) e limitadementri (invece di limitatamentri), dal momento che la seconda forma sarebbe un «condizionamento» da parte dell’italiano. Per Finco questa codificazione è un errore da riparare perché essa segue una regola non più produttiva da oltre cinque secoli, è sconosciuta alla koinè letteraria e va contro i principi di Lamuela («funzionalità»). Anche il GDBtf adotta questa innovazione. In realtà anche il linguista catalano deve essere stato tentato da questa soluzione: nel suo fascicolo del 1991 usa costantemente le forme in -ementri come in oviementri, tecnichementri, completementri etc.

4 La lessicografia 4.1 Vocabolari generali e settoriali precedenti il GDBtf Limitandosi alle opere più recenti e importanti si possono fare le seguenti osservazioni (per un esame completo di tutti i lavori di lessicografia, anche più antichi e minori, cf. Cescutti 2008 e 2010; Frau 2010): per decenni (e in parte ancora oggi) il vocabolario più usato e diffuso è stato quello friulano-italiano Il Nuovo Pirona, uscito nel 1935, amplissimo thesaurus della lingua parlata, che tiene conto (anche se in maniera non uniforme) di molti dialetti presentando anche molte citazioni da opere letterarie (anche antiche) e da villotte, canti popolari etc. Da notare che la Società Filologica Friulana poi continua a ristamparlo (con varie Aggiunte di termini da zone marginali) nonostante quest’opera abbia una grafia (come già visto) che già negli anni ’50 era caduta in disuso. Inoltre il Nuovo Pirona ha la tendenza a essere onnicomprensivo e a registrare tutte le varianti esistenti, non solo diatopiche. Per questo motivo, per la grafia usata, per le incoerenze presenti e per la veste tipografica risulta tutt’altro che user-friendly (forse quando Marchetti parlava delle varietà locali come «sterpaglia inestricabile» (Marchetti 1952, 9) aveva anche il Nuovo Pirona in mente). È chiaro che questo vocabolario non aveva alcun intento standardizzatore. Nel 1985 appare il Vocabolario della lingua friulana friulano-italiano di G. Faggin. L’autore lo presenta così: «vuol essere insomma un vocabolario della buona lingua. Il nostro scopo non è stato quello di documentare la sterminata ricchezza dei dialetti friulani parlati dalle Alpi al mare… […] I testi di cui abbiamo fatto lo spoglio sistematico hanno inizio con Pietro Zorutti, cioè con gli anni ’20 del

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secolo scorso. È allora che nasce il friulano moderno, cioè la lingua che il nostro Vocabolario intende in primo luogo registrare» (Faggin 1985, IX).

Non sorprende, quindi, la scarsezza di termini del mondo contadino che a questo vocabolario è stata rimproverata, nonostante la presenza di 54.000 citazioni letterarie. Un lavoro straordinario, quindi, che però, soprattutto a causa della grafia, incontra non solo scarso favore, ma addirittura lo scherno della SFF (cf. Nazzi 1997, 16). Tra le caratteristiche principali c’è il sistematico adeguamento fonetico di italianismi e venetismi al friulano, e la proposta come forme comuni di parole rare e desuete, ma che Faggin trova negli scritti che esamina. È evidente la tendenza purista e il desiderio di distanziarsi dall’italiano. Solo la Clape Culturâl Acuilee di Nazzi lo assume in toto per le sue opere di traduzione e lessicografia. I primi (e di dimensioni limitate) vocabolari italiano-friulano appaiono nel 1978 (Nazzi) e nel 1980 (Tore Barbina). Gli stessi autori, nel 1991 (Tore Barbina) e nel 1993 (Nazzi), ripresentano le loro opere in edizione molto ampliata. Il vocabolario di Nazzi esce pubblicato a dispense dal quotidiano di Udine (Messaggero Veneto) e quindi gode di una diffusione considerevole. Nel 2003 Nazzi pubblica il primo grande dizionario con entrambe le sezioni: friulano-italiano/italiano-friulano, ampliato nel 2005 e poi con la terza edizione del 2010: oltre 1.900 pagine in un carattere relativamente piccolo. Di fronte a queste cifre l’affermazione di Ceschia nell’introduzione al GDBtf: «Al è pôc plui di un dizionari ortografic [ʻÈ poco più di un dizionario ortograficoʼ]» (Ceschia 2011, LII) è ingiusta. Un difetto è invece quello di utilizzare come esempi frasi dal contenuto antiquato, spesso religioso o moraleggiante, pur essendo illustrative. Che il lessico stesso sia talvolta un po’ raro, letterario o arcaico non sorprende, dal momento che Nazzi segue fedelmente Faggin. Nazzi stesso pubblica o coordina, a partire dal 1995, vocabolari in cui il friulano fornisce e riceve la traduzione dei lemmi in alcune lingue europee (cf. Frau 2010). A partire dagli anni ’90 vengono prodotti anche piccoli repertori di lessico settoriale relativi a discipline scientifiche, sport, cinema, animali, medicina, etc. In collaborazione con l’università di Udine sono stati prodotti (dal 2004) repertori di lessico relativo all’edilizia, economia, informatica, viabilità, ambiente e diritto. Tutto ciò nella speranza di un’estensione dell’uso del friulano ad altri campi. Tra queste l’opera più interessante è Leam (Lessic Aministratîf Manuâl; Cisilino 2004) che offre una grande varietà di modelli di formulari e moduli in italiano e friulano, e un glossario di circa 1.000 termini del lessico amministrativo e burocratico in entrambe le lingue. Tullio De Mauro presenta l’opera così: «Scavando nel vivo lessico friulano, esso ci offre spesso non solo l’equivalente friulano di una parola italiana, ma felicemente si allontana, tutte le volte che è possibile, dall’italoburocratese. Gli esempi sono innumerevoli. Così addetto diventa assegnât, affine diventa parint par leç, allegato, allegare diventano zontât, zontâ, apporre è meti, avocare è clamâ a se» (De Mauro 2004, 12).

Negli equivalenti friulani lodati da De Mauro si potrebbe riscontrare però un uso metaforico del termine friulano (clamâ a se per ʻavocareʼ), non corrispondente stilisti-

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camente al cosiddetto «italoburocratese». Questo contraddice il principio enunciato da Ceschia nel 1999 di giungere alla completezza stilistica del friulano ricalcando, se necessario, l’italiano. Ovviamente qui ci si trova davanti a un dilemma: usare termini della vita di tutti i giorni in senso traslato (lâ daûr ʻandare dietroʼ per ʻottemperareʼ) rischiando un registro inopportuno e ciò che Ceschia (1999, 4) chiama «il savoriç dal lengaç popolaresc» (ʻil sapore del linguaggio popolarescoʼ)? Oppure restare più vicini al modello italiano ricevendo le accuse di lingua troppo italianizzata? Il Leam, opportunamente, cerca spesso una mediazione tra i due poli o propone una doppia soluzione: un termine più comune (ma più vicino all’italiano) e un termine più raro (ma autonomo rispetto all’italiano). Vedi l’esempio avvocato: avocat, plededôr.

4.2 Il Grant Dizionari Bilengâl talian-furlan 4.2.1 Il «problema» dell’italianizzazione Prima di esaminare ancora qualche punto controverso e alcune opere di lessicografia, è opportuno chiedersi quale sia l’origine di alcuni fenomeni di italianizzazione del friulano che sono stati criticati negli ultimi anni, in particolare da quando, alla fine del 2011, è apparso il Grant Dizionari Bilengâl talian-furlan (GDBtf). Se alcune critiche possono anche apparire fondate, è da sottolineare che, pur con qualche oscillazione ed incoerenza, la base per la standardizzazione ora codificata dal GDBtf era stata posta già prima del 1991. Lamuela (1991) stabilisce che i criteri per quest’operazione sono: 1. funzionalità, ovvero adeguamento all’uso vivo; 2. coerenza, cioè rispetto delle caratteristiche della lingua; 3. autonomia, ovvero uso delle risorse di innovazione proprie della lingua, «[m]a il principi nol è chel di cirî la distintsion rispiet dal talian ma chel di cirî la propie coerence a dispiet dal talian». Questi principi vengono ribaditi e precisati nel 1999 al convegno Cuale lenghe furlane? Adriano Ceschia scrive: «O vin denant il risi di une espression condizionade de lenghe italiane, par vie che e nas sot de pression dal lessic de lenghe italiane. Ma no podìn sghindâ il confront» (Ceschia 1999, 2). [Abbiamo davanti il rischio di un’espressione condizionata dalla lingua italiana, dal momento che nasce sotto la pressione del lessico della lingua italiana. Ma non possiamo schivare il confronto].

In particolare propone di: «Cjapâ a riferiment in primis ce che e proferìs la lenghe italiane in fat di lessic, completâlu cun ce che a proferissin altris lenghis neolatinis in secundis» (Ceschia 1999, 2).

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[Prendere a riferimento in primis quello che offre la lingua italiana in materia di lessico, completarlo con quello che offrono altre lingue neolatine in secundis].

Infine: «Il completament dal lessic furlan al passe in pratiche traviers un sfuarç di traduzion. […] Si propon di aplicâ il principi dal completament cul lessic internazionalizât» (Ceschia 1999, 3). [Il completamento del lessico friulano passa in pratica attraverso uno sforzo di traduzione. […] Si propone di applicare il principio del completamento con il lessico internazionalizzato].

Sorprende quindi l’indignazione di chi ora parla di un’italianizzazione della lingua compiuta dal GDBtf quando questa era voluta fin dall’inizio (eppure Ceschia 1999, 3, parlava anche di applicare il principio del «primetât [ʻprimatoʼ] dal lessic specific tradizionâl furlan», principio che non pare essere stato considerato il più importante). Questa è dovuta al fatto che la gran massa di termini specialistici e di neologismi si basa su latinismi o grecismi la cui forma in friulano è quasi sempre identica a quella dell’italiano. Tutti questi vocaboli vengono quindi considerati inutili (per es. da Strassoldo 2012) perché ricavabili da chiunque con un paio di semplici «regolette»: ma questo vale, per gli internazionalismi, per ogni vocabolario che tratti una coppia di lingue neolatine.

4.2.2 Caratteristiche del GDBtf e critiche Quest’opera è apparsa nell’ottobre 2011 in versione cartacea ma era già presente in internet (http://www.claap.org/) e su CD-ROM da qualche anno. È stata decisa dall’allora organo regionale di politica e pianificazione linguistica del friulano (OLF) nel 1998 secondo le linee stabilite da Adriano Ceschia (e in parte già illustrate) il quale ha preso a modello il Grande dizionario italiano dell’uso (1999) di Tullio De Mauro, opera di gran mole, puntando ad avere nel giro di pochi anni un vocabolario di oltre 100.000 lemmi. La compilazione di esso è stata affidata al Consorzi Friûl Lenghe 2000, costituito per questo scopo e composto dall’Università di Udine, dalla SFF e da altre associazioni private. Una trentina di collaboratori si sono occupati della lemmatizzazione e per loro sono stati tenuti nella fase iniziale dei corsi di formazione specifica. Il GDBtf contiene oltre 46.500 lemmi e 15.500 locuzioni e consiste di sei volumi di 7.000 pagine complessive. La base iniziale di dati è stata fornita dalla schedatura informatica dei vocabolari di Pirona e Faggin (trasposti prima nella grafia ufficiale e poi anche nella forma standard) e da un corpus di testi moderni giornalistici: il tutto integrato dalle conoscenze dei lemmatizzatori. Importanti sono le applicazioni informatiche che permettono ricerche comode e rapide in base a molti criteri modificabili. Caratterizza il GDBtf soprattutto l’adozione delle marche d’uso di De Mauro, cioè l’indicazione della frequenza: da «fondamentale» fino a «fuori d’uso» e «tecnicospecialistico». Queste

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marche si riferiscono al lemma italiano mentre gli equivalenti friulani ne sono privi (anche perché, come ammettono gli autori, studi riguardo alla frequenza di parole friulane non ci sono). Es: amicizia ha la marca «fondamentale» e fornisce gli equivalenti amicizie, amistât, dove il primo è senz’altro molto frequente e quindi «fondamentale» mentre il secondo è molto raro. Eppure appaiono come equivalenti e non si indica neanche se la loro sequenza di presentazione possa essere orientativa al riguardo. Si veda anche il caso di cattivo, reso con cjatîf, necuiôs, trist dove il termine più in uso è senz’altro il terzo. Le marche d’uso non sembrano quindi molto utili. In questo caso bisogna concordare con Strassoldo (2012): «Si vuole attribuire a tutte le parole del Ceschia [con ciò è inteso il GDBtf] uno stesso status di esistenza, e quindi di legittimità, valore, autorevolezza, prestigio» (Strassoldo 2012, 15). Notevole è inoltre il fatto che la spiegazione delle singole accezioni è fornita in lingua friulana, mentre nei vocabolari bilingui più diffusi avviene il contrario. Questo non è di alcun aiuto a chi abbia scarse o nulle conoscenze di friulano. Anche le frasi esemplificative (traduzioni dall’italiano e non citazioni da un corpus friulano) non sono sempre molto felici. Si concorda con Strassoldo che «di solito non aggiungono nulla alla comprensione del lemma» (Strassoldo 2012, 13). Inoltre, anche le liste di sinonimi e contrari sono esagerate: fino a diverse decine per lemma, senza alcuna indicazione: questo crea più confusione che aiuto. Un’altra accusa (ancora di Strassoldo 2012 ma anche di altri) è quella dell’assenza di varianti diatopiche: ma anche in questo caso era chiaro fin dagli anni ’90 l’intento di standardizzare e di «stabilizzare» la lingua standard evitando le varianti. D’altra parte l’OLF già nel 2001 proponeva di redigere anche vocabolari con le varianti non diatopiche dello stesso lessema, tutte le varianti lessicali diatopiche, le varianti di scrittura testimoniate ma scartate in sede di standardizzazione e gli italianismi. Quest’intento c’è ancora: si vorrebbe (dopo il completamento del GDBtf) raccogliere in un corpus tutta la letteratura esistente e poi approntare un grande dizionario monolingue con tutte le varianti: opera immensa per cui al momento mancano le risorse finanziarie (per il GDBtf sarebbero già stati spesi due milioni di euro, cf. Strassoldo 2012, 1) e la volontà politica. Che alcuni ampliamenti siano già previsti dal GDBtf attuale, lo dimostra la versione digitale, dove ci sono già le caselle (vuote) per trascrizione fonetica, etimologia e varianti. Già ora, però, con un semplice clic, si possono avere i verbi in tutte le possibili forme del paradigma. Alcuni punti critici derivano forse anche dall’aver preso come base per questo vocabolario bilingue un vocabolario monolingue (il GRADIT di De Mauro). Se proprio si voleva un modello monolingue la scelta sarebbe potuta cadere su vocabolari monolingui creati per non madrelingua, quelli che vanno sotto il nome, per es., di learner’s dictionary. Ce ne sono alcuni per le lingue più diffuse. Quello della Oxford University Press amplia spesso le 3.000 parole più frequenti con schede come Which word? (per es. as/like) Synonyms (per es. naked/bare), Grammar point, Vocabulary building (con spiegazione dettagliata di famiglie lessicali e dei sinonimi e quasi-sinonimi) etc. Con un’impostazione di questo tipo (e non così rigida come l’attuale) si sarebbe potuto

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attirare l’attenzione anche a falsi amici (triste/trist (ʻcattivoʼ)), differenze di genere (il miele/la mîl), asimmetrie nella copertura di campi semantici (cjapâ e cjoli presentati – pur non essendolo – come interscambiabili per tradurre prendere; o coventâ e servî il cui uso complementare nel senso di servire non è ben specificato), differenze nell’uso delle preposizioni, etc. Come si è già visto, così com’è, il GDBtf dà un’idea di appiattimento sul modello italiano. Infine, essendo chiaro il rifiuto del principio differenzialista (cioè di scegliere sempre la soluzione più lontana dall’italiano), adattamenti considerati di uso popolare come il famoso lenghistic invece di linguistic non sono accettati. Questo seguendo il ragionamento che tutte le altre lingue neolatine hanno il cultismo con lincome prima sillaba. L’attaccamento al termine lenghistic da parte di scriventi e parlanti sembra però tenace e non si capisce che danno potrebbe fare alla lingua la sua accettazione come standard (cf. al riguardo Carrozzo 2008a). Altre opere lessicografiche più recenti, in qualche modo collegate al GDBtf (per il fatto di essere state prodotte dalle stesse persone impegnate nel GDBtf e per essere state anche funzionali all’opera principale) sono il Dizionari ortografic talian/furlan – furlan/talian (Carrozzo 2008b) con oltre 38.000 lemmi per sezione, il programma informatico di ortografia Coretôr ortografic furlan (www.claap.org/ sotto Altris Imprescj) e il programma di traduzione automatica Jude (http://www.serling.org/w/ traduzion-automatiche/). Da ultimo, lavoro indipendente dagli strumenti appena ricordati, il Vocabolari furlan (Vicario 2009, con 7.500 lemmi), il primo vocabolario monolingue di friulano. Esso ha la caratteristica di indicare spesso varianti di parole (escluse dal GDBtf), di avere sempre una frase esemplificatoria del lemma e, ovviamente, la spiegazione (per quanto limitata) del termine in friulano.

4.3 Priorità per il futuro Anche qui ci sono opinioni diverse: chi vorrebbe cominciare con un grande vocabolario monolingue, chi completare il vocabolario etimologico, chi digitalizzare gli atlanti linguistici. Urgente sembrerebbe piuttosto un vocabolario friulano-italiano in grafia ufficiale che dovrebbe mettere bene in chiaro quali sono le corrispondenze tra le varie grafie o includere anche lemmi scritti in grafie non ufficiali in modo che questi siano reperibili: i testi in grafia standard sono probabilmente ancora una minoranza.

5 Alcuni esempi di rispetto dello standard nella pratica Lo standard viene in genere rispettato dal piccolo mensile Patrie dal Friûl, dal piccolo quindicinale Il Diari, e nei pochi lavori di tipo scientifico in friulano dell’Università di

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Udine e della SFF. Negli altri scritti non ufficiali il rispetto della norma è ancora scarso. Un paio di esempi banali: Il giorno 25.04.2013 appare una necrologia in italiano sul quotidiano di Udine Messaggero Veneto. Il defunto ha anche un soprannome, scritto così: «Giovanin dal Piciul» (grafia ufficiale Zovanin dal Piçul) con le convenzioni grafiche italiane. 18.04.2013: muore un giovane motociclista. Il giornale di Udine titola: «L’abbraccio al ‹piciul› della sorella e di Jelena». 24.01.2012: necrologia interamente in friulano con morfologia non-standard (dialettale) ma soprattutto: «Il funerâl al sarà úe [sic!] 24 genâr» invece di Zenâr. 22.05.2013: solita battuta di spirito sulla prima pagina del quotidiano di Udine (altrimenti interamente in italiano, a parte due pagine mensili fornite dalla SFF): «Cucât l’omp ch’al robave in glesie par giujâ al bingo. La sô declarazion: ‹O sai di vê falât, ma cun la vìncite mi sarês fat scancelâ ducj i pecjâts pajânt lis indulgences›». [Catturato l’uomo che rubava in chiesa per giocare al bingo. La sua dichiarazione ‹So di aver sbagliato, ma con la vincita mi sarei fatto cancellare tutti i peccati pagando le indulgenze›].

L’autore scrive come qualsiasi friulano della zona centrale che pronuncerebbe: omp invece di om, ch’al invece di che al; ancora una volta la per /ʤ/: giujâ al posto di zuiâ; come al solito, circonflessi messi a caso dove dovrebbero mancare: sarês, pajânt. Inoltre si noti vìncite con accento superfluo e una desinenza incongruente invece di indulgencis: in due righe un campionario di «errori» estremamente frequenti e tipici. Soprattutto le soluzioni per /ʧ/ e per /ʤ/ hanno ancora, dopo quasi 20 anni di ufficialità, grandi problemi a venire accettate o adeguatamente divulgate. Talvolta addirittura compaiono ancora le lettere , , a testimonianza della loro diffusione nei decenni passati e del favore che ancora incontrano oggi, forse grazie al loro aspetto esotico. Vedi la necrologia (che pare essere l’unico «genere letterario» in cui l’uso del friulano è in espansione) del 04.06.2013: «duč … parinč … tanč … foresč etc.» ma anche «ecologjsc», «ancia» dove la grafia standard è «ducj, ecologjiscj, ancja». Per quanto riguarda la standardizzazione nella pratica, si scoprono nei testi ancora diverse incoerenze nella grafia e nella morfologia. Per diffondere la lingua (in teoria) uniformata e «stabilizzata», l’Agjenzie regjonâl pe lenghe furlane in collaborazione con la Società Filologica Friulana ha intrapreso qualche anno fa l’operazione di ristampa in grafia ufficiale dei romanzi più significativi in lingua friulana degli ultimi decenni (si tenga presente che questo significa in realtà anche l’adattamento della morfologia e la codificazione di un unico lessema tra i vari allotropi possibili). Prendendo ad esempio il breve romanzo Cjase di Dalban di Maria Forte, si scopre una situazione preoccupante: almeno una trentina di parole non sono presenti nell’unico glossario friulano-italiano in grafia ufficiale (il Dizionari Ortografic talian/furlan_ furlan/talian, DOF) perché scritti in forma diversa o perché del tutto assenti come lessema, e in almeno in una ventina di casi le parole sono usate in accezioni non rintracciabili nel DOF (che, essendo solo un dizionario ortografico, ne tiene conto

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ovviamente in misura limitata). Una parte di questa cinquantina di espressioni «difficili» rimane probabilmente misteriosa alla stragrande maggioranza dei friulanofoni. In alcuni casi la normalizzazione del testo ha portato a fraintendimenti come per vadì, parola che nel testo originale compare spesso ed ha il tradizionale significato di ʻforseʼ, regolarmente trasformato nella nuova versione in vâl a dî (ʻvale a direʼ, ʻcioèʼ). Tutto ciò porta alla frustrazione del lettore alle prime armi ed è quindi controproducente. Un altro esempio è il romanzo di Franco Marchetta Achì no ai viodût une pavee, vincitore di un premio letterario e pubblicato dalla casa editrice dell’Università di Udine (Forum) con il finanziamento dell’ARLeF. Presenta frequenti allotropi nonstandard, termini assenti da tutti i vocabolari, uso frequente di contrazioni con apostrofo, deviazioni dalla grafia standard, uso non-standard dei pronomi, semplici refusi etc. Applicando rigorosamente la legge, un testo del genere avrebbe dovuto essere escluso da ogni finanziamento. Sorprende l’annotazione che per la sua revisione sarebbe stato usato il Dizionari ortografic talian/furlan_furlan/talian. In generale si commette l’errore di pensare che il lettore medio friulano possa leggere tutto senza difficoltà, riconoscendo possibili varianti, non facendosi confondere da incoerenze grafiche o morfologiche e non facendosi scoraggiare da termini desueti o letterari. Questa è un’illusione. La media dei friulanofoni (e qui si concorda con la congettura – dati certi mancano – di Strassoldo (2012, 7) «ormai ben meno della metà della popolazione parla regolarmente il friulano») ha spesso conoscenze molto limitate del lessico patrimoniale e si serve di una lingua fortemente italianizzata. Utilizzando gli strumenti più nuovi un friulano medio è in grado di scrivere un documento ufficiale in stile burocratico, ma non è in grado di leggere con facilità un romanzo. È urgente trovare una soluzione a questo problema. Gli entusiasmi suscitati alla fine degli anni ’90 (e le risorse finanziarie fornite) avevano creato aspettative di una rapida espansione del friulano a nuovi domini. Da qualche anno si assiste invece a un forte regresso. I nuovi strumenti per l’uso standardizzato del friulano rischiano di rimanere inutilizzati e ininfluenti.

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16 Pianificazione linguistica ed elaborazione Abstract: Politica e pianificazione linguistica sono due concetti correlati e di fondamentale importanza per tutelare e promuovere efficacemente le lingue meno diffuse. La pianificazione linguistica è data dall’insieme delle misure (linguistiche, legislative e sociali) attuate per modificare il corpus e lo status di una lingua. La Regione autonoma Friuli Venezia Giulia si è dotata di una serie di strumenti normativi per la tutela delle proprie minoranze. Il riconoscimento ufficiale della minoranza linguistica friulana si basa su tre leggi: la legge regionale (L.R.) 15/96, la L. 482/99 e la L.R. 29/07. Il legislatore ha normato l’uso della lingua friulana nei settori della pubblica amministrazione, della toponomastica, della scuola e dei mass media. Il compito di pianificare le azioni di politica linguistica, definendo gli indirizzi e coordinando le iniziative, è stato affidato all’Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane. Ad oggi, pur riconoscendo i passi avanti fatti, non si può ancora parlare di pianificazione linguistica strutturata. Keywords: pianificazione linguistica, corpus planning, status planning, politica linguistica, linguaggio tecnico-scientifico

1 Introduzione Il concetto di pianificazione linguistica, così come quello di politica linguistica, sono relativamente recenti e indubbiamente legati l’uno all’altro, tuttavia sono due concetti distinti. Prima di entrare nel dettaglio della pianificazione linguistica della lingua friulana, è bene definire il significato generale di entrambi. Quando si parla di politica linguistica si fa riferimento a tutte le iniziative, o all’insieme di misure, attraverso cui le istituzioni esercitano un influsso sugli equilibri linguistici esistenti in un dato territorio. In realtà, tale etichetta sottende molteplici aspetti di un processo che implica diversi gradi di intenzionalità: dall’atteggiamento consapevole a quello non consapevole (cf. Dell’Aquila/Iannàcaro 2004). Analizzate in senso stretto, sono parte integrante della politica linguistica tutte le «azioni dirette o esplicite che servono a influenzare i comportamenti delle persone per quanto riguarda l’acquisizione, la struttura (o corpus) e la ripartizione funzionale (o status) dei loro codici linguistici» (Gazzola 2006, 23). Trattasi, per esempio, delle azioni che portano alla definizione della norma linguistica, vale a dire l’insieme delle regole che riguardano tutti i livelli della lingua (fonologia, morfologia, sintassi, lessico, testualità); il riconoscimento dell’ufficialità di un idioma; la gestione del repertorio linguistico in una comunità plurilingue o la risoluzione di un conflitto linguistico. Come detto ad inizio paragrafo, politica e pianificazione linguistica, per quanto strettamente connessi e dipendenti l’uno dall’altro, sono due concetti distinti. La pianificazione linguistica può essere definita come la programmazione di interventi

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specifici che hanno come oggetto la struttura, la fissazione di una norma, la creazione di un’ortografia, l’arricchimento lessicale capace di far fronte a tutte le esigenze comunicative di una lingua… Pertanto, quando si parla di pianificazione linguistica, ci si riferisce all’insieme delle misure (linguistiche, legislative e sociali) che si adottano per modificare le risorse linguistiche a disposizione di una comunità linguistica o di un parlante. La pianificazione linguistica, inoltre, si occupa dello studio teorico di tali processi, anche al di là della loro applicazione nelle situazioni reali, vale a dire dello studio delle misure che si potrebbero intraprendere per conseguire un determinato risultato. Pur essendo uno strumento essenzialmente neutro, la pianificazione linguistica può comprendere anche azioni linguistiche, politiche o legislative intraprese per incentivare o scoraggiare l’uso pratico di una o più lingue (Dell’Aquila/ Iannàccaro 2004, 11–20). Alla base di una politica linguistica efficace vi è senza dubbio un’azione di pianificazione linguistica ben strutturata. Questo vale sia per le lingue di maggiore diffusione, ma soprattutto per quelle minoritarie: per riuscire ad ottenere risultati apprezzabili nei settori della tutela e della promozione è fondamentale il lavoro di pianificazione. Nell’accezione di strumento per la rivitalizzazione e il rafforzamento delle lingue minorizzate, la pianificazione linguistica è, nella sua applicazione pratica così come nella sua riflessione scientifica, un’operazione avente lo scopo di facilitare parlanti e comunità nell’uso quotidiano e normale della lingua (cf. Dell’Aquila/Iannàccaro 2004). Il fine è quello di adeguare dal punto di vista linguistico le singole varietà oggetto di tutela, affinché possano essere adatte a tutte le situazioni d’uso (formale, amministrativo, settoriale…). Sul piano operativo, è consuetudine suddividere la pianificazione linguistica in corpus planning (pianificazione del corpus) e status planning (pianificazione dello status; cf. Dell’Aquila/Iannàccaro 2004, 21–25; Haugen 1966; 1983; 1987; Cooper 1989). Tale distinzione riflette quella fra lingua come struttura e lingua come uso (cf. Kloss 1952; 1976). Quando si parla di pianificazione del corpus ci si riferisce al lavoro fatto sulla lingua in quanto tale, ossia alla codificazione dell’ortografia, della fonetica, della morfologia, della sintassi e del lessico: passaggi necessari perché una lingua possa acquisire i mezzi per far fronte alle funzioni cui è destinata (o cui si intende destinarla). La pianificazione dello status, invece, comprende l’insieme dell’apparato normativo e legislativo che assicura il supporto alla lingua, ma anche tutte le operazioni di promozione sociale aventi il fine di accrescere o consolidare il prestigio della lingua oggetto di tutela. In questo settore rientra anche l’introduzione del suo insegnamento nelle scuole, e tutte le misure che ne facilitano la penetrazione nella quotidianità, nella società civile, con lo scopo di facilitare l’accettazione del plurilinguismo da parte dell’intera comunità. In un territorio plurilingue esistono sempre rapporti di forza tra le varietà in esso parlate e diffuse, ci si trova dinnanzi alla compresenza di una varietà dominante e altre più o meno diffuse e «apprezzate»: la pianificazione linguistica deve tener conto

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di questi rapporti, andando ad agire sugli stessi per riequilibrarli. In genere le lingue meno diffuse sono minorizzate anche dal punto di vista del prestigio e dello status, c’è pertanto il rischio reale che perdano funzioni d’uso a favore di quelle dominanti, in un processo di «deriva linguistica», come lo definisce Fishman (1991, 10–12). Uno dei principali compiti della pianificazione linguistica è invertire questo processo attraverso una serie di azioni mirate e complesse (non solo normative, ma anche di comunicazione e di coinvolgimento della comunità parlante), che vanno ad agire su diversi settori, quali: – pubblica amministrazione; – scuola; – famiglia e società; – mass media. Solo in questo modo si aumenterà il prestigio della lingua e si potrà auspicare di raggiungere una situazione di bi- o plurilinguismo.

2 La pianificazione linguistica della lingua friulana 2.1 L’inquadramento giuridico Il primo fondamentale riferimento alla tutela delle minoranze linguistiche dello stato italiano, si trova all’interno della Costituzione, agli articoli 3 e 6. Nello specifico l’articolo 6 cita direttamente le minoranze e la loro tutela: «La legge tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Questa è stata la base su cui, già nel dopoguerra, si è fondata la legislazione ordinaria relativa alle minoranze nazionali, quali lo sloveno nelle province di Gorizia e Udine, il tedesco in provincia di Bolzano e il francese in Valle d’Aosta. Per quanto riguarda le minoranze linguistiche storiche, invece, si è dovuto attendere il 1999 prima che lo Stato emanasse una legge specifica in materia, la legge del 15 dicembre 1999 n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche (↗13 Il quadro giuridico). La Regione autonoma Friuli Venezia Giulia ha dato inizio al processo di riconoscimento e tutela della minoranza linguistica friulana ancor prima dello Stato. Già nello Statuto Regionale, approvato con Legge Costituzionale il 31 gennaio 1963, si trova riferimento al plurilinguismo regionale. L’articolo 3, infatti, recita «Nella regione è riconosciuta parità di diritto e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali». Nel 1996 la Regione si è dotata di uno strumento apposito per la tutela della minoranza friulana: il 22 marzo è stata approvata la legge regionale n. 15, Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per

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le lingue regionali e minoritarie. La norma è la prima a riconoscere il friulano come lingua e a stabilire esplicitamente la possibilità per gli enti locali di prevederne l’uso nei rispettivi consigli, nella toponomastica e, in generale, nei rapporti con i cittadini. La legge regionale, inoltre, ha istituito un apposito organismo di politica linguistica, l’Osservatori regjonâl pe lenghe e pe culture furlanis (OLF), e il Servizio per le lingue regionali e minoritarie che si occupa della gestione dei fondi assegnati dallo Stato e dalla Regione per la tutela e la promozione delle minoranze (cfr. L.R. 15/96 (testo storico) Titolo II, Capo I, artt. 15–23). A dieci anni dall’applicazione della L.R. 15/96, però, era necessario attualizzare la normativa regionale con una legge che tenesse conto delle nuove disposizioni statali ed europee in materia di minoranze, come si legge nell’art. 2 che ne elenca i principi: è stata così approvata la legge regionale 29 del 2007, Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana, aggiornamento reso necessario anche in considerazione delle nuove competenze assunte dalla Regione in seguito della riforma del Titolo V della Costituzione (↗13 Il quadro giuridico). La L.R. 29/07 è nata come strumento di raccordo fra legislazione statale e quella regionale in materia di tutela delle minoranze, ed è la prima che tratta in maniera sistematica il tema della pianificazione linguistica pluriennale. A testimonianza di come tali argomenti, seppure di nicchia, siano in grado di stimolare il dibattito dell’opinione pubblica, vale la pena ricordare come l’iter di approvazione e quello di attuazione della legge siano stati assai tortuosi fin dall’inizio. Situazione complicata ulteriormente dall’impugnazione del testo da parte della Corte Costituzionale. Nonostante l’Alta Corte abbia contestato e dichiarato incostituzionali solo determinati punti della legge e non il testo nel suo complesso, ugualmente la Giunta regionale ha preferito aspettare fino alla sentenza prima di dare attuazione a tutto il testo di legge. Considerato che la Sentenza è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio del 2009, è passato più di un anno prima che si cominciasse a lavorare sui regolamenti attuativi, con conseguente ritardo sull’attività di pianificazione linguistica. Ancora oggi la situazione non è ben definita, su molti punti si sta ancora lavorando e la pianificazione linguistica non è ancora entrata a pieno regime.

2.2 Dall’Osservatori regjonâl pe lenghe e culture furlanis alla Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane L’Osservatori regjonâl pe lenghe e culture furlanis (OLF) è il primo strumento datosi dalla Regione per il perseguimento degli obiettivi della L.R. 15/96. L’OLF si è occupato di programmare e coordinare tutte le iniziative di competenza regionale per la tutela della lingua friulana. Grazie a tale legge, quindi, è stato possibile effettuare una prima attività di pianificazione linguistica, soprattutto grazie all’Osservatorio che ha strutturato una serie di interventi nei settori degli studi e delle ricerche, della comunicazione e dell’editoria, della scuola, dello spettacolo e della toponomastica. Per l’elenco comple-

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to delle competenze dell’OLF si leggano gli articoli 16 e 19 del testo storico della L.R. 15/96. L’articolo 18 della legge attribuiva all’Osservatori il compito di redigere un «Piano triennale di intervento» da sottoporre all’approvazione dell’Amministrazione regionale. In tale piano venivano individuate le diverse aree d’intervento delle politiche per il friulano e le relative priorità attraverso progetti-obiettivo. Esso doveva contenere: a) gli indirizzi programmatici generali delle singole aree di intervento e i progettiobiettivo; b) la valutazione dell’impatto delle iniziative previste sul corpus e sullo status della lingua; c) la tipologia, le modalità di attuazione e gli strumenti di verifica dei risultati di ciascun progetto-obiettivo; d) l’entità del finanziamento complessivo e la sua ripartizione per progetti-obiettivo e per anno di finanziamento; e) i criteri e le modalità di coordinamento degli interventi programmati con quelli di altri enti e istituzioni pubbliche e private; f) i criteri di ammissibilità delle spese relative alle attività per le quali si richiede il finanziamento regionale. L’attuazione concreta di tali piani però, si rivelò un insuccesso per molteplici ragioni. Anzitutto i piani non avevano carattere vincolante, ma erano semplicemente proposti alla Direzione regionale Istruzione e cultura, rispetto alla quale l’OLF costituiva una mera commissione consultiva. Inoltre, il loro contenuto, anziché incidere sui vari ambiti sociali d’uso della lingua, restava circoscritto alle questioni strettamente linguistiche o, tutt’al più, alle attività culturali svolte dalle associazioni e dagli enti pubblici. Tali limiti strutturali, aggravati dalla scarsità di fondi a disposizione e dalla scarsa disponibilità degli enti friulani a seguire obiettivi di politica linguistica prefissati, offrirono al legislatore regionale la motivazione per archiviare l’esperienza dei piani triennali e passare ai più blandi «Programmi di intervento» delegati alle Province, su cui l’OLF poteva esprimere solo un generico parere. Con l’approvazione della Legge finanziaria del 2001 (L.R. 4/01 art. 6), è stata istituita l’Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane (ARLeF), che ha sostituito l’Osservatori e a cui è stato dato il compito di definire gli indirizzi di politica linguistica e coordinare le iniziative della Regione e delle altre Amministrazioni pubbliche del Friuli Venezia Giulia in tale ambito. Come si legge nell’articolo 28 della legge, all’ARLeF compete in particolare di: a) proporre il Piano Generale di Politica Linguistica per la lingua friulana; b) proporre annualmente le priorità di intervento, anche tenendo conto delle disponibilità finanziarie; c) fornire consulenza per la predisposizione di bandi per l’assegnazione dei contributi finanziari a istituzioni, enti e associazioni impegnati nell’applicazione della presente legge;

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d) istituire, anche in collaborazione con altri soggetti, un sistema di certificazione per i fini di cui all’articolo 7 secondo le linee indicate dal «Quadro comune europeo di riferimento per le lingue» adottato con risoluzione del Consiglio d’Europa del novembre 2001; e) verificare annualmente l’impatto delle iniziative sostenute sull’uso della lingua friulana. Per un elenco dettagliato delle competenze dell’ARLeF, si legga lo statuto dell’Agjenzie, approvato con Decreto del Presidente della Regione n. 102 del 19 aprile 2005, e successive modifiche. Questi due enti si sono occupati negli anni di programmare e portare avanti le principali attività di pianificazione linguistica della lingua friulana illustrate qui di seguito.

2.3 L’uso pubblico della lingua friulana Il tema dell’uso pubblico della lingua friulana viene affrontato in maniera sistematica dal capo 2 della L.R. 29/07. Sinteticamente, tolti i punti impugnati dalla Corte Costituzionale, la legge garantisce la possibilità: – di usare la lingua friulana, all’interno del territorio di insediamento del gruppo linguistico friulano delimitato ai sensi dell’articolo 5 della L.R. 15/96, nei rapporti con gli uffici della amministrazione pubblica sia in forma orale che scritta; – di effettuare la comunicazione istituzionale e la pubblicità degli atti ufficiali anche in lingua friulana; – di usare la lingua friulana nelle riunioni degli organi elettivi e nei consigli, a patto che sia garantita la traduzione immediata in lingua italiana; – di tradurre in friulano la segnaletica istituzionale, direzionale e i toponimi. Inoltre, punto fondamentale del capo 2, la legge prevede l’istituzione di un sistema di certificazione linguistica, ovvero di un sistema che permetta di definire e certificare le competenze linguistiche di ciascuno, sulla base dei criteri fissati a livello europeo per la conoscenza delle lingue (art. 7). La certificazione è l’elemento centrale per poter inserire in maniera organica la lingua in un contesto lavorativo, in questo caso la pubblica amministrazione. Le modalità, i criteri e i requisiti per poter ottenere la certificazione linguistica, così come la lista degli enti abilitati a rilasciarla, sono ancora in via di definizione. Analizzando questi punti è possibile fare alcune considerazioni di massima. Fa molto bene la L.R. 29/07 a confermare il diritto dei cittadini di usare la propria lingua con la pubblica amministrazione, diritto garantito anche dalla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie approvata dal Consiglio d’Europa nel 1992, e dalla L. 482/99, che ha portato all’istituzione di molti sportelli linguistici,

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ovvero all’assunzione temporanea di personale con lo scopo di garantire l’uso orale e scritto delle lingue minoritarie nell’ambito dei servizi amministrativi. Sarebbe opportuno però che tale diritto venisse promosso in maniera adeguata. È di fondamentale importanza far sapere ai cittadini che è garantita loro la possibilità di indirizzarsi in friulano, anche per iscritto, all’amministrazione e ottenere una risposta in questa stessa lingua: è difficile far valere un diritto che non si sa di potere esercitare. A oggi non si hanno a disposizione dati ufficiali circa l’uso della lingua friulana nei consigli comunali anche se, soprattutto negli enti di dimensioni più piccole, è (e lo era anche prima della legge) abbastanza normale usare la lingua friulana in queste occasioni. Gli unici dati sugli interventi di traduzione e interpretariato sono quelli legati ai contributi della L. 482/99: in particolare nei primi anni di finanziamento i comuni facevano domanda di contributo per interventi di questo tipo. Oggi la situazione è differente poiché questo tipo di progetto non è più considerato come prioritario e non viene più finanziato. Diverso è il caso del Consiglio Regionale, dove l’interpretariato degli interventi dei consiglieri, nelle tre lingue minorizzate della regione, è garantito con fondi propri dell’ente. In previsione dei tagli ai finanziamenti ex L. 482/99 previsti per gli anni a venire, è indispensabile che la Regione pianifichi in maniera sistematica come intenda garantire la presenza della lingua friulana all’interno della pubblica amministrazione. A dieci anni dall’istituzione dei primi sportelli linguistici è fondamentale un intervento di coordinamento, monitoraggio e controllo diretto dell’ARLeF, che assicuri ai cittadini l’esercizio dei loro diritti.

3 Il Piano Generale di Politica Linguistica e il ruolo dell’Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane Per garantire i diritti linguistici e uniformare la politica linguistica regionale, la L.R. 29/07 (artt. 25–27) prevede l’elaborazione, da parte della Regione, di un Piano Generale di Politica Linguistica (PGPL) della durata di 5 anni (↗13 Il quadro giuridico). Il Piano, diviso per settori e per genere di soggetti, è lo strumento base per poter usare in maniera organica la lingua friulana in tutti i settori della società, anche nella pubblica amministrazione. Si può affermare che esso sia alla base della pianificazione linguistica, poiché prevede il conseguimento dei seguenti obiettivi: a) garantire ai cittadini di lingua friulana l’esercizio dei diritti linguistici; b) promuovere l’uso sociale della lingua friulana e il suo sviluppo come codice linguistico adatto a tutte le situazioni della vita moderna; c) perseguire una politica linguistica unitaria, mediante il coordinamento delle azioni programmate da altri enti e istituzioni pubbliche e private; d) stabilire le priorità degli interventi regionali nel settore dell’istruzione;

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e) fissare criteri e priorità per interventi nel settore dei mezzi di comunicazione e per il sostegno alle realtà associative. Una volta approvato il PGPL, la legge prevede che, sulla base delle disponibilità di bilancio, la Giunta Regionale approvi ogni anno un Piano di Priorità di Intervento in cui si fissano le priorità e le risorse destinate a ogni settore e gruppo di interventi. Questo Piano comprende anche i bandi e le procedure per presentare le domande di finanziamento. Per poter presentare tali domande però gli enti (Regione, enti locali e concessionari di pubblici servizi) devono approvare i Piani Speciali di Politica Linguistica, nei quali si definiscono anno per anno gli obiettivi per ciascuna area di intervento e le scadenze, ma anche il modo in cui l’ente intende organizzarsi per attuare ciò che è previsto dal capo 2 della L.R. 29/07, precedentemente spiegato. Per garantire la reale efficacia dei Piani Speciali di Politica Linguistica, quindi, il legislatore ha previsto che la loro adozione e applicazione costituisca condizione necessaria per l’ottenimento dei finanziamenti negli anni successivi. Si tratta di una misura severa, ma ampiamente giustificata dal fatto che l’effettiva attuazione di tali piani ha ricadute molto importanti per la garanzia di tutta una serie di diritti linguistici dei cittadini. A oggi siamo ancora in fase di elaborazione dei dati, si sta lavorando sul PGPL, pertanto tutto ciò che deve essere fatto sulla base di suddetto Piano è ancora fermo. Questo significa, in concreto, che tutte le attività previste dalla L.R. 29/07 nella pubblica amministrazione sono ancora in attesa di partire e la legge, così come l’attività pratica di pianificazione linguistica, è nella realtà dei fatti, disapplicata.

3.1 La grafia ufficiale della lingua friulana La definizione di uno standard di riferimento scritto è uno dei passi fondamentali per una pianificazione linguistica ufficiale, in grado di ottenere risultati efficaci nella promozione e tutela della lingua minorizzata. Forse è proprio a causa della sua grande importanza, che il processo di standardizzazione della grafia trova così tante difficoltà e resistenze nelle diverse comunità di minoranza. L’iter che ha portato alla definizione della grafia ufficiale è cominciato nel 1986 con l’approvazione del Consiglio della Provincia di Udine, d’intesa con le Province di Gorizia e Pordenone, di una proposta di grafia. Successivamente, la grafia ufficiale è stata recepita dall’articolo 13 della L.R. 15/96, ed è stata poi adottata con il DPGR n. 392 del 25 ottobre 1996 (↗15 Normalizzazione: grafia, grammaticografia e lessicografia). La codifica del sistema grafico adottato, è stata affidata al professor Xavier Lamuela, che ha ricevuto l’incarico dalla Provincia di Udine su indicazione della Commissione per la grafia appositamente istituita. Il professor Lamuela ha scelto un sistema grafico basato su quello usato dalla Societât Filologjiche Furlane, a cui sono state apportate successivamente le seguenti modifiche:

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sostituzione del digramma a inizio e in corpo di parola col segno ; uso del segno grafico nei toponimi o antroponimi storici come Aquilee o Quarin.

Successivamente la proposta è stata approvata dal Consiglio Regionale. In realtà si è poi dibattuto a lungo sulla grafia ufficiale, sulla sua utilità e sul suo rispetto delle diverse varietà proprie della lingua friulana. Probabilmente alla base di ciò vi è la confusione tra il concetto di grafia ufficiale e quello di lingua standard. Come tutte le grafie, anche quella della lingua friulana è una convenzione, un insieme di simboli, il solo che consente la promozione della lingua nel suo complesso e in ogni ambito: da quello istituzionale a quello didattico (cf. De Agostini/Schiavi Fachin 2001). Il dibattito è stato acceso e, solo negli ultimi anni, pare essersi mitigato. Al fine di chiudere definitivamente la discussione inerente la scrittura delle varietà, inoltre, il 7 marzo 2013 sono state approvate con Decreto del Presidente della Giunta Regionale le Norme per la grafia delle varietà della lingua friulana (DPGR 41/2013: Adozione della grafia delle varianti della lingua friulana, L.R. 29/07 Art. 5c. 2 bis).

3.2 L’insegnamento della lingua friulana L’insegnamento delle lingue minoritarie è entrato nell’offerta formativa degli istituti scolastici già da diversi anni. Una buona pianificazione linguistica non può prescindere dal coinvolgimento delle istituzioni scolastiche. La scuola è un attore fondamentale proprio perché si occupa dell’apprendimento e della trasmissione della lingua. Negli ultimi decenni, in seguito ai processi di globalizzazione, standardizzazione e assimilazione, il grado di competenza e di padronanza linguistica all’interno delle famiglie è assai diminuito. È determinante che la lingua venga insegnata a scuola, poiché solo così facendo i bambini e i ragazzi potranno usarla (cf. Schiavi Fachin 2003). L’insegnamento delle e nelle lingue minori nei territori in cui esse sono storicamente parlate, costituisce un fattore necessario, anche se non sufficiente, per la loro sopravvivenza e valorizzazione. L’insegnamento in ambito scolastico garantisce la padronanza dell’uso scritto, determinante per l’apprendimento di ogni lingua, non solo di quelle minoritarie. Inoltre innalza lo status della lingua, il suo prestigio, obiettivo che non verrebbe mai raggiunto con il solo uso orale e familiare. Nessuna lingua minoritaria riuscirebbe oggi a sopravvivere se non venisse valorizzata ed usata nella fase della scolarizzazione, sarebbe inevitabilmente emarginata dalle lingue di ampia diffusione e finirebbe con lo scomparire. L’insegnamento delle lingue minori non costituisce solo un valore in sé, per la loro tutela e valorizzazione, ma è da considerarsi anche in termini di utilità e di vantaggio per l’insegnamento linguistico in generale. Durante il percorso scolastico, i bambini entrano per la prima volta in contatto con la varietà delle lingue e delle culture, acquisendo così le basi dell’apprendimento linguistico. Per questo motivo è

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fondamentale che gli insegnanti possiedano sia una conoscenza adeguata della lingua insegnata, sia le competenze pedagogiche necessarie per il relativo insegnamento (cf. Schiavi Fachin 2003). Formazione e aggiornamento degli insegnanti pertanto, sono di centrale importanza affinché l’apprendimento della lingua sia efficace. La L.R. 15/96 adottò sotto molteplici aspetti una disciplina decisamente avanzata (ad esempio per quanto riguarda gli enti locali e regionali), purtroppo però non fu così per quanto riguarda l’insegnamento della lingua friulana. Va precisato che nel 1996 la Regione non aveva, a differenza di oggi, competenza concorrente riguardo l’istruzione, ma si limitava a competenze integrative. Ciò significa che il friulano non poteva essere introdotto come materia o come lingua veicolare, ci si limitò a ribadire le forme di sostegno finanziario alle attività didattiche svolte dalle scuole dell’infanzia e dalle scuole dell’obbligo (Cisilino 2001, 29–31). La L. 482/99 (artt. 4 e 5) si riferisce esplicitamente alla scuola dell’infanzia e dell’obbligo, mentre nulla viene detto riguardo alla scuola superiore. L’articolo 4 riguarda l’uso delle lingue minoritarie come lingue veicolari e prescrive che esse siano usate anche per lo svolgimento delle attività educative nelle scuole dell’infanzia, e come strumento di insegnamento nelle scuole elementari e medie inferiori. C’è poi uno specifico riferimento all’uso di tali lingue come materia curricolare. L’aver riconosciuto alle lingue minoritarie la possibilità di essere usate come strumento di insegnamento ha rappresentato un’importante novità che ha aperto la strada a interessanti progetti didattici (al riguardo, ↗18 Friulano nella scuola (e nell’università)). Un altro dato determinante sta nell’aver stabilito che tali progetti debbano essere inseriti in modo organico all’interno del piano di studi di ciascuna classe, e non possano invece svolgersi in orario extra-curricolare. Infine, è importante che la legge incentivi per la prima volta le scuole a progettare in forma associata, a creare reti tra istituti, e ad organizzare attività di formazione. Si può affermare che, mentre la L. 482/99 indica l’obiettivo finale da raggiungere, alla Regione spetta il compito di stabilire come arrivarci, e in questa direzione va la L.R. 29/07. Se spetta alle scuole, nella loro autonomia, decidere le modalità ottimali per l’insegnamento del friulano, è di competenza della Regione definire il quadro d’insieme affinché l’insegnamento sia efficace, e porti al raggiungimento degli obiettivi didattico-educativi stabiliti. Con l’approvazione della L.R. 29/07, infatti, la Regione ha strutturato in maniera organica l’insegnamento della lingua friulana nelle scuole dell’obbligo. La legge, oltre ad inserire tale insegnamento in percorso educativo plurilingue, prevede anche un coordinamento inter-istituzionale tra Regione e Ufficio Scolastico Regionale per il Friuli Venezia Giulia, al fine di garantire un armonico inserimento della lingua friulana nel sistema scolastico e di coordinare le iniziative di politica linguistica in ambito educativo (artt. 12–19). Nell’estate del 2012 la Regione ha approvato sia il Regolamento recante disposizioni per l’insegnamento della lingua friulana nel territorio della Regione Friuli Venezia Giulia in attuazione di quanto previsto dal Capo III (Interventi nel settore dell’istruzione)

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della legge regionale 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana), approvato con DPGR 0204/2011, sia il Piano applicativo di sistema per l’insegnamento della lingua friulana, ovvero «lo strumento che consente alla Regione di raccordare in maniera organica le esigenze formative, didattiche e organizzative derivanti dalle opzioni espresse dalle famiglie degli alunni di avvalersi dell’insegnamento della lingua friulana con i Piani dell’offerta formativa delle scuole e con le azioni di verifica e di valutazione delle attività svolte» (come si legge nell’articolo 1 dello stesso). L’approvazione del Piano applicativo di sistema è senza dubbio una delle principali azioni di pianificazione linguistica compiute dalla Regione, poiché con esso si va a regolamentare e disciplinare l’attività didattica precedentemente legata a singoli progetti, privi di continuità, la cui attuazione dipendeva dalla volontà dei singoli docenti e dirigenti scolastici. Tra le positive novità introdotte dal Piano, vale la pena di menzionare il fatto che la scelta di avvalersi dell’insegnamento della lingua friulana non si esprime più anno per anno, ma per l’intero ciclo di studi. Indubbiamente ciò facilita la stessa programmazione didattica. Va evidenziata però la mancanza di coordinamento tra l’Assessorato all’Istruzione regionale e l’ARLeF, lacuna che mina l’efficacia del Piano stesso, proprio a discapito della pianificazione linguistica. Accanto a ciò manca un percorso di accompagnamento rivolto a docenti e direttori didattici. Purtroppo la mancanza o la scarsità di informazioni spesso va a svantaggio delle famiglie e degli alunni, i veri fruitori del servizio. Analogamente ad altri ambiti, anche in quello dell’istruzione la mancanza di una campagna informativa efficace, rivolta alle famiglie e al personale docente e dirigenziale, riduce l’impatto delle iniziative pianificate. Infine, va rilevata una difficoltà nel reperire docenti qualificati e preparati. I criteri per l’iscrizione all’elenco regionale non sono sufficienti a garantire l’accesso al solo personale davvero preparato. Il fatto che non sia stato ancora avviato il sistema per la certificazione linguistica contribuisce a complicare le cose: manca l’unico strumento in grado di attestare le reali competenze linguistiche degli aspiranti docenti. Se si aggiunge a ciò il fatto che i percorsi di aggiornamento professionale organizzati negli scorsi anni dal Consorzio Universitario del Friuli (Corso di 400 ore per l’aggiornamento degli insegnanti) e dall’Università degli Studi di Udine (Master di II livello/Corso di aggiornamento per l’insegnamento della lingua friulana) sono rimaste esperienze isolate e non hanno avuto alcun riconoscimento professionale, risulta evidente quanto lavoro ci sia ancora da fare anche per il corpo insegnanti nel settore della pianificazione dell’insegnamento. L’apprendimento della lingua di minoranza è, senza dubbio, un passaggio fondamentale per la tutela della lingua stessa, per tale motivo ha un ruolo di primaria importanza in politica linguistica (anche in termini finanziari). Grandi passi avanti sono stati fatti nel corso degli ultimi anni, ma molto si deve ancora fare se si vuole raggiungere l’obiettivo di garantire la continuità didattica a un insegnamento curricolare di qualità della lingua friulana.

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3.3 La lingua friulana nei mezzi di comunicazione La L.R. 29/07 (artt. 20–23) pianifica anche la presenza della lingua friulana nel settore dei mezzi di comunicazione, ovvero radio, televisione, stampa e altre produzioni (libri e pubblicazioni, anche in formato informatico, e opere cinematografiche, teatrali e di musica), internet e nuove tecnologie. Rispetto alla normativa precedente, la legge ha introdotto la previsione di un regolamento specifico per disciplinare le attività contributive: regolamento approvato solo verso la fine del 2011 e solo in riferimento a radio e televisioni. Non sono menzionate, infatti, né la carta stampata né internet. Anche in questo settore, pertanto, non si può parlare di pianificazione linguistica organica, come evidenzia la situazione attuale qui di seguito descritta (cf. Adami 2012). La presenza del friulano nei mezzi di comunicazione, pur essendo cresciuta negli anni, non riesce a competere con la produzione in lingua italiana, anche perché questa presenza non è né quotidiana né continuativa (al riguardo, ↗17 Friulano nei mass media). In lingua friulana, cominciando dalla carta stampata, vengono pubblicati e distribuiti il mensile La Patrie dal Friûl; il quindicinale gratuito Il Diari (pubblicazione attualmente sospesa); una pagina e diverse rubriche fisse sul settimanale La Vita Cattolica, che distribuisce anche il supplemento per bambini Alc&Cè; una pagina sui settimanali Il Friuli e, una volta al mese, su Voce isontina, a cura della Societât Filologjiche Furlane, infine, una pagina una volta al mese, sul quotidiano Messaggero Veneto, sempre a cura della Societât Filologjiche Furlane. Esistono poi altri periodici pubblicati, del tutto o in parte, in lingua friulana: riviste letterarie, scientifiche, di approfondimento su temi di attualità, pubblicazioni per cura di associazioni culturali. Guardando alle emittenti radiotelevisive, il friulano viene usato soprattutto in due radio private, Radio Onde Furlane e Radio Spazio 103, che producono e trasmettono ogni giorno notiziari, rubriche e programmi di informazione, approfondimento e intrattenimento in lingua friulana. Programmi in lingua friulana vengono prodotti e trasmessi anche da televisioni private, ma senza continuità, poche ore a settimana se non minuti, e in fasce orarie che spesso non sono di grande ascolto. Diversi programmi radiofonici si possono ascoltare anche in streaming e qualche pubblicazione si può scaricare del web. Su internet esistono e crescono le informazioni di carattere personale che diventano, spesso, trasmettitori di notizie. Ad aprire la strada sono stati i blogger che, in parte, portano avanti un’azione informativa. Con l’arrivo dei social network sono nati gruppi di aggregazione, di amicizia, di condivisione che hanno sempre più utenti che interagiscono in friulano. Parlando di istituzioni, va detto che, già da 5 anni, la Regione Friuli Venezia Giulia, unica amministrazione regionale in Italia, fornisce sul proprio sito web per mezzo dell’agenzia di stampa Agenzia Regione Cronache un servizio di informazione nelle tre lingue minorizzate del territorio sui temi principali che riguardano le comunità di riferimento, consultabile nella pagina delle notizie dalla giunta. Un servizio

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che mette il Friuli Venezia Giulia all’avanguardia nell’attuazione delle norme previste per l’amministrazione pubblica della L. 482/99 e ne accresce la vocazione europeista e internazionale, ma che ha avuto diversi problemi di continuità, a conferma della mancanza di una pianificazione linguistica in questo settore. La gran parte delle pubblicazioni e dei programmi radiotelevisivi menzionati sono realizzati col contributo della Regione, che li finanzia per mezzo del Servizio corregionali all’estero e lingue minoritarie (per quanto riguarda radio e televisioni, grazie alla L.R. 29/07) e dell’ARLeF, che tra i suoi compiti ha anche quello di diffondere l’uso del friulano nei mezzi di comunicazione. Diverso è il caso dei programmi trasmessi dalla RAI. A differenza di quanto stabilito dall’articolo 12 della L. 482/99, non è stato ancora avviato nessun notiziario informativo in lingua friulana, inoltre, molti tra i programmi trasmessi sono stati realizzati da realtà esterne o finanziati dalla Regione per mezzo di convenzioni apposite. Si parla per lo più di programmi settimanali, trasmessi nello spazio riservato alle emittenti regionali la domenica mattina, limitatamente a una parte dell’anno. Nel 2008, è stata avviata una programmazione radiofonica in lingua friulana, grazie a convenzioni tra RAI e Regione Friuli Venezia Giulia: una serie di approfondimenti quotidiani, dal lunedì al venerdì, su temi di attualità, che hanno avuto risultati di ascolto molto buoni. Nell’anno 2012, per la prima volta, il contratto di servizio fra RAI e Ministero per lo sviluppo economico ha messo la lingua friulana accanto a tedesco, francese, sloveno e ladino, affermando all’articolo 17, comma 2, che andava redatta un’apposita convenzione (per i soli programmi radiofonici) anche per il friulano così come per le altre lingue. Ad oggi però nulla è stato ancora fatto. La mancanza di una programmazione pianificata è indubbiamente legata al problema dei fondi: da anni il settore fa i conti con il taglio dei finanziamenti regionali, azzerati nel 2010, per le radio e le televisioni private, e ripristinati nel 2011, con le variazioni di bilancio in seguito ad una forte campagna di protesta, pur sempre ridotti rispetto alle annualità precedenti. Nel 2012, sono stati assegnati per il 75% alle televisioni, il 25% restante alle radio, dimezzandone, quindi, i fondi. È vero che il numero di televisioni che fanno domanda è superiore rispetto a quello delle radio, ma sono le emittenti radiofoniche private quelle più attive a supporto del friulano, in grado di garantire continuità e qualità di azione. Fino ad ora, le radio private hanno svolto un’attività sostitutiva del servizio pubblico (basti pensare ai radiogiornali). Sarebbe necessario premiare la qualità, la quantità, la continuità e la produzione delle attività svolte, e per farlo sarebbe sufficiente metter in campo gli strumenti di controllo già previsti dalla L.R. 29/07. Per il 2013 il bilancio regionale non prevede finanziamenti al settore, si conferma quindi l’assenza di una pianificazione linguistica strutturata anche in un ambito strategico come quello delle comunicazioni.

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3.4 La toponomastica in lingua friulana Gli interventi di toponomastica e segnaletica sono tra quelli più visibili (↗11 Toponomastica e antroponimia). Di solito gli enti che iniziano progetti di questo tipo li portano avanti per più anni, per riuscire a tradurre la totalità delle tabelle presenti sul proprio territorio di competenza. Manca però un piano pluriennale e organico che preveda la traduzione di tutti i toponimi, cosa che garantirebbe un’uniformità sul territorio ad oggi assente. Solo nei primi mesi del 2013, inoltre, è stata approvata la lista dei toponimi ufficiali elaborata dall’ARLeF nel 2009, in attuazione del comma 2 dell’articolo 11 della legge 29/07 (cfr. Delibera n. 579 del 4 aprile 2013: Approvazione delle denominazioni toponimiche in lingua friulana, L.R. 29/07, Art. 11). Per quanto riguarda la delimitazione territoriale, invece, l’articolo 32 della L.R. 29/07 prevedeva la possibilità di apportare variazioni alla delimitazione. Vale a dire che i comuni, sulla base di un’apposita delibera consiliare, potevano chiedere di uscire dal territorio riconosciuto come friulanofono. Ad oggi l’unico comune che ha avanzato tale richiesta è quello di Pordenone: il consiglio comunale, nel mese di luglio del 2008, ha chiesto di essere tolto dalla lista di quelli zonizzati. A seguito della delibera di consiglio però, l’iter non è andato avanti, poiché la documentazione presentata era incompleta. Ormai, essendo passata la scadenza dei due anni fissata dalla legge stessa, la delimitazione non può più essere modificata.

4 Il Grant Dizionari Bilengâl talian-furlan: un caso riuscito di pianificazione linguistica Il Grant Dizionari Bilengâl talian-furlan (GDBtf) è stato indubbiamente il più grande investimento e impegno in termini finanziari e di risorse umane messo in campo dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia nel settore della politica linguistica per la lingua friulana. Pur non essendo il primo dizionario italiano-friulano (Nazzi pubblicò il primo nel 1993), è però il più completo e strutturato e, nella versione informatica, il più versatile. Il percorso che ha portato oggi alla stampa dei sei volumi del GDBtf è cominciato molti anni addietro, con la definizione della proposta progettuale da parte dell’OLF nel 1997. I lavori preliminari iniziarono nel 1999 con una conferenza di studi voluta dall’Osservatori per individuare il modello linguistico di riferimento, e la costituzione di una commissione per fissare i criteri di normalizzazione della lingua friulana. Per realizzare il lavoro, è stato costituito un consorzio, il Centri Friûl Lenghe 2000 (CFL2000), formato da Università degli Studi di Udine, Consorzio Universitario del Friuli, Società Filologica Friulana, Cooperativa di Informazione Friulana, Istitût Ladin Furlan «Pre Checo Placerean», Patrie dal Friûl (uscita dal Consorzio alcuni anni più tardi), Union Scritôrs Furlans e Circolo Culturale «Il Menocchio».

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La prima operazione, cominciata nel 1998, è stata la schedatura informatica, secondo le regole della grafia ufficiale, dei lemmi presenti nei dizionari Il Nuovo Pirona e di Faggin. Quindi è stato individuato il modello di repertorio lessicografico di riferimento: fondamentale per questa operazione è stata la pubblicazione del Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT) di De Mauro, il quale presentava diversi aspetti positivi quali la completezza e modernità, i criteri lessicografici e anche l’edizione in CD-ROM che ha facilitato il primo lavoro di ricerca. Essenziale inoltre è stata la presenza delle marche d’uso per ciascuna voce: ogni lemma, accezione e estensione, sono segnalati da marche che ne segnano la frequenza o l’importanza. Sulla base di ciò sono stati selezionati i primi 6.500 lemmi del vocabolario di base, ovvero quelli fondamentali, ad alto uso e ad alta disponibilità, che costituiscono il 95% dell’uso scritto e parlato della lingua italiana. Nel 2005 è stata resa disponibile la prima versione su supporto informatico del GDBtf, ne sono state stampate 5.000 copie su CD-ROM, distribuite gratuitamente a tutti gli interessati. Dal 2006 inoltre, il dizionario è stato messo online, consultabile gratuitamente, sul sito del CFL2000 (oggi trasferito sul dominio www.claap.org). Nel 2008 sono stati distribuiti altri 3.000 CD-ROM arricchiti con altri 15.000 lemmi di marca comune. Il lavoro di lemmatizzazione e aggiornamento è proseguito negli anni fino ad arrivare alla versione finale, stampata anche su carta. Oggi il GDBtf consta di circa 62.000 lemmi sul versante dell’italiano, di cui circa 46.500 monorematici e circa 15.500 polirematici (ovvero espressioni composte di più parole che costituiscono un insieme non scomponibile, il cui significato complessivo è autonomo rispetto ai singoli termini in essa presenti), cui fanno riferimento 63.500 lemmi friulani, di cui 45.000 monorematici e 18.500 polirematici. Per un congruo completamento del GDBtf, al fine di portarlo ad una completezza che corrisponda a quella del GRADIT, sarebbe necessario lemmatizzare ancora i lemmi di marca tecnico-specialistica delle varie discipline che sono oltre 100.000. Vale la pena anche ricordare che, grazie al formato elettronico, è possibile consultare anche le tabelle di flessione dei sostantivi, aggettivi, verbi e articoli, si possono cercare i sinonimi e i contrari, effettuare ricerche specialistiche e avere tutte le informazioni grammaticali utili a fugare i dubbi di scrittura. La stampa su carta del Dizionario è stata realizzata nel 2011 in 1.900 copie distribuite gratuitamente a scuole e biblioteche friulane, docenti, addetti ai lavori e persone interessate. Il GDBtf continua ad essere consultabile gratuitamente online sia sul sito dell’ARLeF, che sul sito del Centri di Linguistiche Aplicade «Agnul Pitane» (www.claap.org). L’opera è stata finanziata interamente dalla Regione, tramite l’OLF prima e l’ARLeF poi, ed ha assicurato, oltre alla realizzazione di uno strumento fondamentale per la promozione e tutela della lingua friulana, anche la formazione di una serie di professionalità e competenze specifiche, in particolar modo nel settore lessicografico, che prima mancavano e la cui perdita causerebbe un impoverimento culturale e professionale. Non va inoltre dimenticato il grande lavoro informatico che è stato

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fatto, e che ha garantito il successo internazionale dell’opera: a partire dal 2006, infatti, è iniziata una collaborazione dei curatori del GDBtf col dipartimento di italianistica dell’Università di Stoccolma per la preparazione di un dizionario italianosvedese sul modello del Dizionario, utilizzandone il suo programma informatico. Il valore del GDBtf e le sue grandi potenzialità non si limitano alla sola sfera lessicografica, ma sconfinano nella didattica, nella ricerca e nella stabilizzazione di una forma comune della lingua friulana. Il Dizionario è la dimostrazione di come gli interventi di politica linguistica validi, se pianificati e finanziati adeguatamente, possano garantire risultati importanti, a lungo termine e dal grande impatto. Le ricadute non sono solo a livello culturale e linguistico, ma anche occupazionale.

5 I linguaggi settoriali e la terminologia specialistica Quando si parla di linguaggi settoriali si fa riferimento a quell’insieme di elementi lessicali usati nelle discipline specialistiche e in ambiti piuttosto ristretti, estranei alle conversazioni quotidiane. Il vocabolario tecnico scientifico dei diversi settori disciplinari può definirsi rigoroso e codificato in maniera sistematica (Finco 2009, 101–103). Nell’insieme del linguaggio settoriale rientrano poi i linguaggi tecnico-scientifici che, rispetto ai precedenti, sono ancor più specializzati e il loro uso ancor più limitato: seguono regole speciali poiché necessitano di estremo rigore nella codificazione della loro terminologia. Fondamentale, infatti, nella loro definizione è l’univocità semantica di ogni singolo lemma. Anche la lingua friulana, per riuscire a rispondere alle esigenze comunicative della società moderna, deve incrementare il proprio repertorio lessicale, ampliando soprattutto i domini d’uso. La pianificazione linguistica pertanto dovrebbe occuparsi dell’elaborazione sistematica della terminologia tecnico-scientifica, andando ad agire sia sullo status sia sul corpus della lingua. Usare una lingua minorizzata nei settori specialistici, dove in genere sono le lingue alte e diffuse a livello sovranazionale a dominare, ne aumenta sicuramente il prestigio. L’attività di codificazione terminologica deve essere pensata soprattutto per facilitare il lavoro di coloro che si occupano di pubblica amministrazione, didattica, ricerca, industria, editoria, traduzione e interpretariato, e a seguire tutti i settori della vita professionale in cui viene attivamente usata la lingua friulana. Affinché tale attività abbia successo però, è fondamentale che vengano stabiliti principi generali e criteri di elaborazione chiari, che vi sia una collaborazione tra esperti del settore e che si tenga conto degli aspetti sociolinguistici. L’introduzione di neologismi, la loro accettazione e il loro uso sono percorsi lunghi che necessitano di una adeguata condivisione delle scelte fatte. A oggi manca una vera pianificazione linguistica della lingua friulana nel settore della terminologia scientifica, anche se la produzione lessicografica negli anni si è arricchita di una serie di strumenti specialistici che, indubbiamente, hanno rafforzato

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lo status e arricchito il corpus della lingua, oltre ad essere fondamentali strumenti di lavoro per tutti coloro che sono impegnati nel settore. Va detto che molti testi sono antecedenti l’approvazione della L.R. 15/96, pertanto non rispettano le norme della grafia ufficiale della lingua friulana. Purtroppo la mancanza di un coordinamento e di una pianificazione linguistica non ha permesso il confluire dei dizionari settoriali nel GDBtf. La totalità dei dizionari e glossari specialistici sono stati stampati da singoli enti (per esempio dalla Provincia di Udine) o grazie all’impegno diretto di studiosi ed esperti. In realtà nel GDBtf sono stati inseriti in maniera abbastanza sistematica i termini relativi alla pubblica amministrazione e al diritto, poiché il lessico amministrativo era già stato catalogato in formato digitale. Nel 2006, infatti, la Provincia di Udine ha distribuito un cofanetto contenente il glossario del lessico amministrativo e i due CD-ROM prodotti dalla Cooperativa di Informazione Friulana contenenti il Dizionari Ortografic Furlan (DOF) e il Coretôr Ortografic Furlan (COF) la cui base di dati era stata implementata con i lemmi settoriali. L’unico esempio di pianificazione linguistica in questo settore può essere considerato il lavoro fatto dalla Provincia di Udine in collaborazione col Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Cultura e la Lingua del Friuli (CIRF) dell’Università degli Studi di Udine, tra il 2004 e il 2006, quando ha stampato una serie di dizionari specialistici bilingui nei settori del commercio, dell’edilizia, dell’informatica, dei trasporti, dell’ambiente e del diritto (CIRF 2004a-d; Vicario 2006a; 2006b). Con questa operazione si è cercato di rispondere alle esigenze di coloro che, lavorando nel settore della politica linguistica, si trovano ad affrontare le tematiche più diverse e necessitano pertanto di strumenti specialistici. Per la stesura dei dizionari si è partiti da una ricerca terminologica la quale, soprattutto sul modello della lingua catalana, ha preso in considerazione gli aspetti principali delle singole materie, per arrivare poi alla definizione dei singoli lemmi. La ricerca è stata facilitata dalla consultazione dei testi di settore e dalla collaborazione con gli esperti per ciascuna delle materie trattate. Contemporaneamente sono state cercate nei repertori lessicografici a disposizione le parole friulane corrispondenti ai lemmi italiani selezionati e, nel caso in cui non si trovassero corrispondenze, si è optato per l’introduzione di neologismi. Pertanto la collaborazione e il coordinamento con gli esperti di lingua sono stati aspetti fondamentali per la buona riuscita del progetto. I dizionari sono strutturati in forma classica: i lemmi sono disposti in ordine alfabetico, seguiti dalla classificazione grammaticale, dalla parola friulana corrispondente con la sua categoria e, infine, dalla definizione. Non si tratta certamente di repertori lessicografici esaustivi, nonostante ciò la selezione di termini proposti è sufficientemente ampia, la media è di 840 lemmi ciascuno. Un apprezzabile lavoro nel settore della terminologia scientifica, è stato svolto negli ultimi anni dalla Societât Sientifiche e Tecnologjiche Furlane, sia grazie alla pubblicazione del periodico bilingue friulano/inglese Gjornâl furlan des siencis,

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sia grazie al suo annuale convegno di studi (cf. Melchior 2014 per una rassegna critica). Gli esempi su cui ci siamo soffermati mostrano quanto sia necessario un intervento sistematico da parte della Regione e dell’ARLeF in questo settore strategico per la promozione della lingua friulana: la ricerca e la codificazione terminologica non possono considerarsi concluse con la stampa del GDBtf ed è necessario affidare tali attività ad un organismo che se ne occupi stabilmente. Il modello cui ispirarsi potrebbe essere, seppure in forma ridotta, quello catalano del TERMCAT, il centro di terminologia della lingua catalana creato nel 1985 dalla Generalitat de Catalunya e dall’Institut d’Estudis Catalans, con l’obiettivo di garantire lo sviluppo e l’integrazione della terminologia catalana nei settori specializzati e nella società in generale, per mezzo della creazione continua di strumenti di qualità, in un dialogo permanente tra specialisti e parlanti.

6 Conclusioni Analizzando le azioni messe in atto negli ultimi anni nel settore della promozione e tutela della lingua friulana, vanno sottolineati i positivi passi avanti che sono stati compiuti. Si deve riconoscere la volontà del legislatore regionale di dotarsi di un sistema normativo di riferimento che consente la pianificazione linguistica. Con la L.R. 29/07, infatti, si è affrontato il tema in maniera sistematica occupandosi di tutti i settori in cui incentivare l’uso della lingua tutelata: uffici pubblici, scuola, mezzi di comunicazione, realtà associative. Inoltre la Regione ha istituito la creazione di un proprio organo di politica linguistica, l’ARLeF, e le ha affidato una serie di compiti operativi tra i quali quello più importante: la definizione del Piano Generale di Politica Linguistica. Sulla carta quindi, molto è stato fatto, in realtà però, tanto rimane ancora da fare. A oggi possiamo parlare di pianificazione linguistica a intermittenza, legata ai finanziamenti annuali, ostacolata dalla mancanza del PGPL, della certificazione linguistica e di buona parte dei regolamenti attuativi della L.R. 29/07. Compito della Regione e del suo organismo di politica linguistica sarà quello di superare nel tempo più breve possibile tali difficoltà, in modo da garantire una pianificazione globale, costante e sul lungo periodo: le basi e le competenze ci sono, sarà sufficiente investire le risorse adeguate.

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Pianificazione linguistica ed elaborazione

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CIRF (2004c) = Dizionari talian-furlan di informatiche e gnovis tecnologjiis, Udin, Provincie di Udin. CIRF (2004d) = Dizionari talian-furlan di viabilitât e traspuarts, Udin, Provincie di Udin. Cisilino, William (2001), La tutela delle minoranze linguistiche. Analisi della normativa statale e regionale, con particolare riferimento alla lingua friulana, Udine, Consorzio Universitario del Friuli. Comitato 482 (2010), Relazione sulla tutela della lingua friulana nello stato italiano, http://com482. altervista.org/documents/docu10_01_it.pdf (31.05.2013). Cooper, Richard L. (1989), Language planning and social change, New York, Cambridge University Press. Corte Costituzionale (2009), Sentenza n. 159/2009, Roma, Gazzetta Ufficiale n. 121 del 27 maggio 2009. De Agostini, Priscilla/Schiavi Fachin, Silvana (edd.) (2001), Cjalant il Friûl/Sguardi sul Friuli. Pinsîrs e opinions sui lûcs comuns de lenghe furlane/Pensieri e opinioni attorno ai luoghi comuni della lingua friulana, Udin, Forum. Dell’Aquila, Vittorio/Iannàccaro, Gabriele (2004), La pianificazione linguistica. Lingue, società, istituzioni, Roma, Carocci. De Mauro, Tullio (1999), Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, UTET. Faggin, Giorgio (1985), Vocabolario della lingua friulana, Udine, Del Bianco Editore. Finco, Franco (2009), Par une terminologjie in lenghe furlane, Gjornâl Furlan des Siencis 12, 101– 107. Fishman, Joshua A. (1991), Reversing language shift. Theoretical and empirical foundations of assistance to threatened languages, Clevedon, Multilingual Matters. Gazzola, Michele (2006), La gestione del multilinguismo nell’Unione europea, in: Augusto Carli (ed.), Le sfide della politica linguistica di oggi. Fra la valorizzazione del multilinguismo migratorio locale e le istanze del plurilinguismo europeo, Milano, Angeli, 17–117. Haugen, Einar (1966), Language conflict and language planning. The case of Modern Norwegian, Cambridge (Mass.), Harvard University Press. Haugen, Einar (1983), The Implementation of Corpus Planning: Theory and Practice, in: Juan Cobarrubias/Joshua A. Fishman (edd.), Progress in Language Planning: International Perspectives, Berlin, Mouton, 269–289. Haugen, Einar (1987), Blessings of Babel: Bilingualism and Language Planning. Problems and Pleasures, Berlin, Mouton. Kloss, Heinz (1952), Die Entwicklung neuer germanischer Kultursprachen seit 1800, München, Pohl (seconda ed. Düsseldorf, Schwann, 1978). Kloss, Heinz (1976), Abstandsprachen und Ausbausprachen, in: Joachim Göschel/Norbert Nail/ Gaston van der Elst (edd.), Zur Theorie des Dialekts: Aufsätze aus 100 Jahren Forschung, Wiesbaden, Steiner, 301–322. Melchior, Luca (2014), Lo stato dell’elaborazione del friulano: alcuni appunti, in: Paul Danler/Christine Konecny (edd.), Dall’architettura della lingua italiana all’architettura linguistica dell’Italia. Saggi in omaggio a Heidi Siller-Runggaldier, Francoforte sul Meno et al., Lang, 571–588. Nazzi, Gianni (1993), Dizionario pratico italiano-friulano, Udine, Ribis. OLF (2002), La grafie uficiâl de lenghe furlane, Udin, OLF. OLF/Regjon Autonome Friûl-Vignesie Julie (2004), Indicazions pe programazion didatiche curicolâr daûr de Leç 482/99, Udin, OLF. Pirona, Giulio Andrea/Carletti, Ercole/Corgnali, Giovan Battista (1992), Il Nuovo Pirona, seconda ed. con Aggiunte e correzioni riordinate da Giovanni Frau, Udine, Società Filologica Friulana. Regione FVG (1996), Norme per la tutela, la valorizzazione e la promozione della lingua friulana, L.R. 15 del 18 dicembre 2007, Trieste, BUR 27/03/1996, n. 013. Regione FVG (2007), Norme per la tutela, la valorizzazione e la promozione della lingua friulana, L.R. 29 del 18 dicembre 2007, Trieste, BUR 27/12/2007, n. 52.

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17 Friulano nei mass media Abstract: Nel presente articolo si analizzano gli utilizzi del friulano nei mezzi di comunicazione di massa, con particolare riferimento al giornalismo cartaceo, agli usi radiotelevisivi e cinematografici e ai nuovi media, ma con cenni anche al fumetto e alla musica. Oltre a presentare lo status quo dell’elaborazione estensiva del friulano con una carrellata degli usi di tale idioma nei diversi mass media, si illustra il ruolo svolto da questi nel processo di elaborazione intensiva e di normalizzazione della lingua, oltre che della diffusione della koinè in masse più ampie di pubblico. A tal proposito ci si interroga sulla ricezione dell’offerta mediale in friulano e quindi sulla sua funzione di modello linguistico di riferimento. Sulla base di esempi tratti da diversi mass media si illustrano alcuni aspetti precipui della lingua in essi utilizzata, focalizzando l’attenzione soprattutto su calchi e trasposizioni dall’italiano, oltre che di fenomeni di misti- e plurilinguismo. Keywords: mass media, elaborazione intensiva ed estensiva, modello linguistico, ricezione

1 Introduzione: lingue minoritarie e comunicazione di massa Con il termine «comunicazione di massa» intendiamo il tipo di comunicazione rivolta a un pubblico normalmente eterogeneo e anonimo, che si serve di mezzi tecnologici e in cui il flusso comunicativo è per lo più unidirezionale (ma, in tempi di web 2.0, non necessariamente). Con «mezzi di comunicazione di massa» o mass media si indicano dunque i mezzi utilizzati in tale comunicazione. La ricerca sul rapporto tra lingua e mass media può riguardare, come indicato da Lebsanft (cf. 2001, 292) «1. […] il fenomeno del rilevamento linguistico della comunicazione di massa, cioè del suo vocabolario specialistico o settoriale; 2. […] l’uso della lingua nella comunicazione di massa, cioè […] l’utilizzo in sé di mezzi linguistici in condizioni di mezzi di comunicazione di massa; 3. infine […] la lingua della comunicazione di massa in senso stretto, dunque […] testi orali e scritti, come sono stati specificamente prodotti ai fini della comunicazione di massa» (trad. di L.M.).

L’utilizzo di lingue minoritarie nei mezzi di comunicazione di massa fa emergere con un certo ritardo, ma al contempo anche con una maggiore concentrazione e con caratteristiche parzialmente diverse, aspetti simili a quelli che caratterizzano utilizzi analoghi di lingue «maggiori». In particolare, si pensi alla funzione dei mass media nell’elaborazione e diffusione di uno standard o una norma linguistica di riferimento – o della sua imago – e delle conoscenze scritturali di questa presso ampie masse

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della popolazione – aspetto legato strettamente alla ricezione degli stessi mass media, su cui si ritornerà sotto. Nel presente articolo l’attenzione si concentrerà dunque sugli aspetti indicati da Lebsanft nella citazione qui sopra ai punti 2. e 3.; una trattazione del linguaggio specialistico della comunicazione di massa friulana (p. es. i termini cinematografici, cf. Rosso 2000), pur costituendo un desideratum della ricerca, non è in questa sede possibile. In particolare, oltre a indagare il livello di elaborazione estensiva del friulano e quindi gli ambiti mediatici in cui è utilizzato, si presenteranno criticamente, seppure in maniera illustrativa, alcuni esempi di tale utilizzo. L’interesse verterà sui riflessi che il processo di standardizzazione, con la fissazione di una koinè – per ora vincolante solo negli usi materialmente e concettualmente scritti – ha sulla lingua utilizzata nei media e sulla funzione svolta dai mezzi di comunicazione di massa nella diffusione della stessa, con eventuali conseguenze sull’architettura del sistema varietistico del friulano. La ricerca sugli usi mediali del friulano è infatti piuttosto limitata: non si trovano p. es. cenni a tali tematiche nell’LRL (Holtus/Metzeltin/Schmitt 1989), né in altre guide (p. es. Fabbro 2007); alcuni capitoli sono presenti in tre opere collettanee relativamente recenti (Cisilino 2006; Fabbro 2005; Finco/Montico 2010), senza peraltro che in essi vengano approfonditi aspetti prettamente linguistici. In particolare, Casasola (2006) offre una panoramica storica degli usi mediali del friulano, senza interrogarsi però su quale lingua venga utilizzata, mentre Bogaro (2010) presenta considerazioni dal carattere piuttosto generale; alcuni aspetti concernenti l’argomento sono discussi in Heinemann (in stampa). Prime informazioni storiche e sugli sviluppi più recenti sono disponibili nelle apposite sezioni del sito dell’Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane (ARLeF), dove dal 2014 è anche possibile consultare i più recenti articoli in friulano apparsi sulla stampa periodica regionale, e in Angeli in questo volume (↗16 Pianificazione linguistica ed elaborazione).

2 Friulano e media 2.1 Giornalismo e periodici Nella storia degli utilizzi del friulano in mezzi di comunicazione di massa non si può certo dimenticare la funzione svolta dagli almanacchi, il cui capostipite può essere considerato Il Guardafogo di Domenico Murero, uscito dal 1747 e che, pur avendo carattere letterario, offriva una carrellata degli eventi accaduti nell’anno precedente o previsti per l’anno entrante e dunque «si può a ragione considerare […] alla stregua di un giornale d’informazione, che per raggiungere il più ampio numero possibile di lettori utilizzava la lingua conosciuta dai più» (Mauro 2005, 234). Nell’Ottocento il modello degli almanacchi («strolics») ebbe notevole successo (e parzialmente lo ha ancora, si pensi allo Strolic furlan della Società Filologica Friulana, tuttora edito), tanto da portare alla pubblicazione di diversi titoli, di differente durata e diffusione

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(cf. Nazzi 1985). Un ruolo di spicco svolse Il contadinel, dal carattere prettamente didattico-moralistico, che si rivolgeva ai contadini friulani con indicazioni pratiche e consigli morali e che ebbe notevole successo. Redatto in friulano dal 1855 al 1874, scelse nei seguenti vent’anni di pubblicazione l’italiano (cf. Faggin 1988, 116), mentre il friulano ricomparve solo negli ultimi anni (nella grafia di Jacopo Pirona). L’utilizzo del friulano ne Il contadinel rispondeva a intenti didascalici e pratici: in tal modo si poteva raggiungere un pubblico ampio. La scelta dell’italiano, nel 1875, fu giustificata con i miglioramenti nel sistema scolastico e la conseguente diffusione della conoscenza dell’italiano (cf. Pison 1979, 960). Simile la scelta del Florean dal Palazz, primo settimanale in friulano pubblicato a Udine per cura di Guido Antoniali dal 1883. Dal carattere ironico-satirico, uscì per quasi quattro anni, con una «tiratura media di diecimila copie» (Casasola 2006, 318, dato che non pare verosimile) e in esso «[i]l friulano veniva usato come mezzo di espressione» (Mauro 2005, 234). I diversi epigoni sorti dopo la sua chiusura non ebbero notevole successo, mentre lunga vita ebbe il mensile bilingue italiano-friulano Pagine friulane. Nel ventesimo secolo si sviluppa una traduzione giornalistica friulana di più ampio respiro. Nella sua rassegna, Peressi (1997, 114; cf. anche Peressi 1995; 1996) conta che tra 1920 e 1945 nacquero otto periodici dal titolo friulano, tra 1945 e 1975 circa un’ottantina e tra 1976 e 1990 altrettanti, riconoscendo una «incressite di ‹cussience furlane›» (ibid.). In realtà egli prende in considerazione anche pubblicazioni di associazioni locali, parrocchie, bollettini comunali etc., dalla durata in parte assai effimera e di diffusione estremamente limitata, ma che, soprattutto, spesso in friulano non avevano altro che il titolo, essendo gli articoli redatti in italiano. Eccezioni in tale panorama sono La Patrie dal Friûl (uscita tra 1946 e 1965 e nel 1977 col titolo Patrie dal Friûl, con la nuova denominazione dal 1978, cf. Casasola 2006, 321) e Int furlane (tra il 2001 e il 2004 con il titolo Int, dal 2004 al 2010 online sul dominio www.lenghe.net), con le quali ha veramente inizio un giornalismo (in) friulano dal carattere professionistico, impegnato nella diffusione degli usi scritti di tale lingua tra un pubblico più ampio (cf. Bonazza 2005–2006, 71) e dunque alla concretizzazione, nell’immaginario collettivo, del friulano come lingua e non dialetto («si pues scrivi» ʻsi può scrivereʼ), oltre che dall’importante funzione nella sua elaborazione intensiva. Entrambe le riviste si caratterizzavano nei primi anni per un certo bilinguismo, in cui, accanto alla koinè friulana (termine con il quale si indica, in maniera in parte impropria, la lingua della tradizione letteraria), era presente anche l’italiano (se non altro, assieme a diverse varietà friulane, nella posta dei lettori). Mentre Int e in seguito www.lenghe.net mantennero la scelta del bilinguismo, presentandosi in versione speculare friulana e italiana, La Patrie dal Friûl si caratterizza attualmente per l’esclusivo utilizzo del friulano. Dal punto di vista ortografico, le scelte adottate in passato da tali riviste contribuirono, seppur talora con alcune incongruenze (cf. Turello 2007, 82 n. 128; 97), alla diffusione dei diversi e in parte concorrenti sistemi grafici del friulano (adottati poi da altre pubblicazioni a livello locale). Inoltre negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, Int furlane fu più volte scelta da studiosi e codificatori del

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friulano come sede per proporre e discutere soluzioni ortografiche atte alla resa grafica di tale lingua (cf. Turello 2007, 36s., 63–66, 111–113). Dal punto di vista varietistico, come detto, la koinè vi ha giocato sempre un ruolo fondamentale (cf. D’Aronco 1983, 480, che fa risalire la stessa alla lingua utilizzata nei primi anni della Patrie dal Friûl), sebbene almeno fino alla fine del secolo scorso vi fosse spazio anche per altre varietà. Grazie ai finanziamenti erogati in base alle leggi 15/1996 e 482/1999, in anni recenti il numero di testate giornalistiche in lingua friulana è cresciuto, ma il friulano ha fatto ingresso anche in quotidiani e periodici altrimenti redatti in italiano e letti da un pubblico non direttamente interessato a tematiche friulanistiche. In particolare, la presenza del friulano con la pagina («Marilenghe») a cura della Società Filologica Friulana (SFF), che da febbraio 2005 appare il primo e dal 2014 anche il terzo martedì di ogni mese sul Messaggero Veneto, maggiore quotidiano regionale (diffusione media: circa 50.000 copie), permette di raggiungere un pubblico relativamente ampio (anche se non vi è la garanzia che tale pagina venga recepita dai lettori del quotidiano). Analoga funzione svolgono la «Pagjine furlane» del settimanale diocesano udinese La vita cattolica (ventimila copie vendute in edicola o abbonamento, circa mille downloads della versione in .pdf, con accesso riservato agli abbonati, uno dei principali ebdomadari della regione, in cui il friulano era marginalmente presente in rubriche dal carattere letterario fin dalla sua fondazione), la pagina friulana, sempre a cura della SFF, pubblicata mensilmente sul settimanale La voce isontina dell’arcidiocesi goriziana o quelle periodicamente presenti sul settimanale Il Friuli e su Il Quotidiano del Friuli Venezia Giulia, giornale liberamente consultabile online (http://www.ilquotidianofvg.it/). Altre attività editoriali, che si caratterizzano per l’uso della koinè e il rispetto della grafia ufficiale, come il mensile Ladins dal Friûl (fondato nel 1998, dapprima fotocopiato in proprio, poi in edizione online, ora con spedizione gratuita via e-mail in formato .pdf), hanno tiratura decisamente inferiore (circa 300 copie, inviate per lo più a biblioteche e associazioni culturali – anche delle province di Trento, Bolzano e Belluno). Similmente, anche il quindicinale Il Diari (dal 2006 al 2008 mensile) (unica pubblicazione periodica in friulano con una fisionomia realmente giornalistico-generalistica, non legata in maniera esclusiva o preponderante a tematiche friulanistiche), pur essendo in distribuzione gratuita (salvo i costi di spedizione), contava appena 500 abbonati, cui si aggiungevano (e in parte si sovrappongono) circa 400 downloads mensili della versione .pdf, liberamente scaricabile dalla rete. La stessa La Patrie dal Friûl (inizialmente settimanale, ora mensile) ha una diffusione piuttosto limitata: circa 400 abbonati (tra cui alcune istituzioni e biblioteche), cui si aggiungono circa 600–800 accessi mensili ai materiali disponibili online. L’esistenza delle diverse pubblicazioni, dovuta al lavoro non di rado volontaristico dei collaboratori (che talora scrivono per più testate), è dunque, in misura maggiore o minore, dipendente da sovvenzioni pubbliche, non potendo contare su dati di distribuzione sufficienti. In tal senso, il caso de Il Diari pare emblematico: colpito dai tagli ai finanziamenti pubblici avvenuti nel 2014, esso ha dovuto completamente trasfor-

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marsi, rinunciando alla pubblicazione cartacea (e dell’equivalente in .pdf), limitandosi ora a offrire una pagina web dal carattere giornalistico-informativo, la cui visibilità e il cui impatto sono difficili da valutare, ma che paiono tutt’altro che rilevanti. Appena nell’agosto 2013 è stato annunciato quale obiettivo di politica linguistica il progetto di un quotidiano in lingua friulana da attuarsi nel giro di cinque anni. Tuttavia, la funzione svolta dal giornalismo (non solo cartaceo, ma anche radiofonico e online, per i quali si veda anche sotto) nel processo di elaborazione del friulano è innegabile. Le scelte tendenti alla koinè hanno contribuito alla diffusione della stessa; la necessità di una prosa elaborata e tipicamente distanzsprachlich (cf. Koch/Oesterreicher 1985), rivolta a un pubblico anonimo e lontano dal concreto evento comunicativo, ha portato a un’attività di creazione terminologica atta a rinnovare il lessico friulano e all’elaborazione di strutture sintattiche atte all’uopo, in cui non mancano peraltro trasposizioni e calchi dall’italiano (cf. (1)–(3); al riguardo cf. anche Melchior 2014). Ciò peraltro non sorprende, essendo l’alfabetizzazione e l’educazione alla scritturalità dominio pressoché esclusivo dell’italiano, da cui sono tratti i modelli scrittori. (1) «Domenie ai 12 di Avost il Front Furlan al à organizât une manifestazion cuintri des operazions militârs che si dasvuelzin in Cjargne, in particolâr su la mont Bivare, lûc doprât come poligon stagjonâl. E someares une iniziative butade li, ma tabaiant cun Federico Simeoni, puarte vôs dal Front Furlan la impression si sfante di colp, anzit, si cjatin ducj i elements che l’autonomisim al varès di tignî a ments. Un trasferiment di 4000 paracadutiscj americans de Gjermanie ae caserme Dal Molin di Trevîs, al puartarès a fâ deventâ cheste monte un poligon stabil, doprât dut l’an in maniere pesante. Il dut passant sul cjâf de int e ancje dai organisim rapresentatîfs o des comissions che a varessin di operâ» (Della Schiava, Mauro, Poligon su la mon Bivare, bersai: Cjargne, La Patrie dal Friûl 09/2012, 24). (2) «Puartâts a zero i finanziaments pai programs radiotelevisîfs par furlan. Pesants tais ai ents di promozion de marilenghe. Il belanç di prevision de Regjon pal an in cors al cjape decisions che a sacagnin pardabon lis politichis linguistichis pal furlan, in particolâr tal cantin de radiofonie là che a operin dôs tra lis realtâts plui ativis te promozion de nestre lenghe, Radio Onde furlane e Radio Spazio 103» (s.a., La «finanziarie» 2013 e distude lis radios, Il Diari 05.02.2013, 6). (3) «La associazion e je nassude a Turin ai 26 di Fevrâr dal 2003, in gracie de idee di un trop di zovins di origjin furlane e costituide propit par tirâ dongje ducj i furlans dal Piemont, e cumò fâs fieste pal so inovâl. Jenfri i events culturâi in program, une gnove iniziative editoriâl e un blog, screât doi mês za fa, dulà che a saran ancje çumâts e metûts a disposizion in forme digjitâl i documents plui interessants di chest lunc periodi di ativitât» (Puntel, Oscar, Un cjanton di Friûl a Turin, La vita cattolica 28.02.2013, 28).

Accanto alla stampa di carattere giornalistico, relativamente alto è il numero di riviste, bollettini societari e periodici dal carattere culturale e/o letterario, ma anche scientifico, che adottano almeno in parte il friulano. Oltre alle pubblicazioni periodiche della Società Filologica Friulana (Sot la Nape, Ce fastu?) e al recentissimo (2014) Scuele furlane, dedicato al mondo della scuola e disponibile in .pdf e in formato cartaceo) si citino qui – per diffusione e importanza – La Panarie, in cui il friulano è,

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almeno in anni recenti, sempre presente in alcune rubriche e articoli, o le riviste letterarie e culturali (interamente in friulano) gnovis pagjinis furlanis e La Comugne, in cui gli interventi dal carattere non letterario sono (ora) redatti in koinè o in varietà ad essa vicine. Marginale la presenza del friulano in altri periodici, come p. es. la rivista specializzata di agricoltura e cultura del territori Tiere furlane (finanziata dalla regione Friuli Venezia Giulia), che presenta sporadicamente articoli in tale lingua. Tra 2002 e 2010 sono stati pubblicati inoltre 14 numeri del Giornâl furlan des siencis, organo della Societât Sientifiche e Tecnologjiche furlane, rivista scientifica che presenta interventi, articoli e recensioni in friulano, parzialmente corredati da versione inglese. Tale pubblicazione, disponibile, gratuitamente anche online, pur avendo un impatto piuttosto limitato nel mondo scientifico (cf. Melchior in stampa) e presso la comunità friulanofona, svolge un’importante funzione nell’elaborazione linguistica del friulano, in particolare nella creazione di neologismi e di una prosa scientifici. La stessa società pubblica, dal fine 2012, un bollettino trimestrale di aggiornamento sulle attività scientifiche della stessa – distribuito gratuitamente in via cartacea e su .pdf a chi ne fa richiesta – completamente in friulano. Il friulano è (stato) presente anche in alcune riviste edite dalle associazioni di friulani all’estero o a questi dedicate, come i bollettini delle locali Fameis furlanes e Fogolârs furlans. Inoltre, se tra 1973 e 1976 uscirono in Svizzera sette numeri della rivista La Patrie dal Friûl e tre di Patrie dal Friûl, che si ricollegava all’omonimo periodico friulano del decennio precedente (cf. D’Aronco 1983, 497 n. 46; Bonazza 2005–2006, 19, 85–114), in anni più recenti la rivista Friuli nel mondo, ha pubblicato in più puntate un corso di lingua (con video online), mirato a (ri)avvicinare il mondo della migrazione alla marilenghe, ma in particolare alla scritturalità in koinè. Da ultimo sia citata la rivista a fumetti Alc&Cè, pubblicata a partire dal 1999 a cadenza mensile durante l’anno scolastico e allegata al settimanale La vita cattolica. Dedicata al pubblico giovanile e diffusa nelle scuole (primarie) delle provincie di Udine, Pordenone e Gorizia (in circa 7.000 copie) per l’insegnamento del friulano, essa è caratterizzata da un’attenzione al rispetto della norma prescrittiva, ma al contempo da una lingua adatta alle conoscenze linguistiche dei bambini e alle esigenze didattiche degli insegnanti (una trattazione dell’utilizzo del friulano nei fumetti non è in questa sede possibile; una prima, per quanto non più attuale, panoramica in Marcianò 1989).

2.2 Comparto radiotelevisivo Sebbene la legge 482/1999 e i successivi accordi e convenzioni tra i ministeri competenti e la RAI prevedano la diffusione di programmi radiofonici e televisivi in friulano (così come in altre lingue minoritarie riconosciute) sui canali radiotelevisivi pubblici (cf. Stolfo 2008, 11), la collaborazione con l’azienda pubblica appare tuttavia difficile: gli accordi raggiunti sono stati spesso disattesi o solo parzialmente realizzati (cf.

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Heinemann 2014; in stampa; ↗13 Il quadro giuridico, cap. IV, 2), con scarsa o addirittura nulla programmazione in lingua friulana (salvo rare eccezioni, cf. Mariuz 2010, 50), ma con discreti risultati d’ascolto (↗16 Pianificazione linguistica ed elaborazione). Appena nel dicembre 2012 la convenzione tra Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri e la RAI è stato rinnovato, a durata triennale, per 90 ore di programmazione all’anno (!) in friulano (e sloveno). Se e in qual misura tale convenzione sarà attuata non è al momento dato sapere (vi è inoltre la possibilità che per i programmi in friulano si utilizzino frequenze secondarie). Nell’agosto 2013 è inoltre stato fissato il Piano Generale di Politica Linguistica, che prevede, nel giro di pochi anni, un radiogiornale quotidiano in friulano e la sottotitolatura in tale lingua del telegiornale pubblico (in quale forma questa debba avvenire non è peraltro ancora stato chiaramente definito).

2.2.1 Radiofonia La presenza maggiore del friulano in ambito radiofonico è dunque, sia storicamente sia attualmente, nell’emittente privata Radio Onde Furlane (da ora in poi: ROF), attiva come radio comunitaria (cf. Sut 2000, 575), dal 1980 (ma la cui fondazione risale all’anno precedente), che «[s]u 54 radio private locali esistenti in Friuli Venezia Giulia è l’unica che trasmette in prevalenza in friulano» (Sut 2000, 574; cf. anche Sut 2004, 100) e nel cui palinsesto trasmissioni in tale lingua costituiscono circa il 60% (in italiano sono trasmissioni dal carattere musicale condotte da collaboratori esterni; cf. anche Mauro 2003, 36). A tale emittente sono stati dedicati diversi lavori di tesi (inediti), dal carattere generalmente sociologico o economico (cf. Vismara 1987–1988; Sut 1998–1999; Scuor 1999–2000; Beorchia 2000–2001; Ceconi 1999), oltre a una monografia sulla sua storia con ricca bibliografia (Mauro 2003). ROF ha svolto una funzione fondamentale nella diffusione del friulano nei mezzi di comunicazione di massa (oltre al mezzo radiofonico in sé, non va dimenticato il sostegno a produzioni teatrali e musicali in lingua friulana) e al suo interno si sono formati diversi giornalisti poi attivi in altri organi di informazione (radiofonica o cartacea) friulani. A tal proposito, basti ricordare che la «rassegna stampa» è stata fin dall’inizio parte fissa della programmazione (cf. Mauro 2003, 23) e che «[b]ielzà dal 1996 i notiziaris trasmetûts vie pal dì a vegnin metûts inte forme scrite tal sît internet. Par chei che ju scrivin e ju lein si impon un lavôr par inzornâ la lenghe, une ricercje sui tiermins e sui neologjisims» (Mauro 2003, 74). La riflessione sulla lingua ebbe infatti un ruolo centrale fin dagli inizi del giornalismo radiofonico friulano, condizionandone scelte lessicali e sintattiche (cf. al proposito le osservazioni, seppur talora ingenue, di Sut 2000, 577). Quale radio «friulanista», ROF già nel 1982 fu inoltre iniziatrice di una campagna di raccolta firme a tutela delle lingue minoritarie (cf. Mauro 2003, 39) e favorì l’avvio della celebrazione della messa in lingua friulana, a partire dal 1984 (cf. Mauro 2003, 39).

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Oltre che in ROF, trasmissioni in lingua friulana a cadenza quotidiana o settimanale (come la diretta ogni sabato, dal 2001, della messa in friulano) hanno una presenza importante nell’emittente arcivescovile RadioSpazio103 (da ora in poi: RS103). Mentre l’offerta di ROF si caratterizza per un’ampia gamma di programmi, che spaziano dai notiziari quotidiani agli approfondimenti giornalistici, dalle trasmissioni dal carattere musicale a quelle sportive, dagli appuntamenti del giorno all’umorismo, RS103 presenta in via quasi esclusiva trasmissioni di approfondimento giornalistico o di informazione al cittadino (con possibilità di intervento degli ascoltatori). In entrambe le radio alcune delle trasmissioni sono prodotte in collaborazione o per conto di enti locali (comuni, provincie, enti di altro tipo) e costituiscono in tal modo un canale informativo per gli stessi. ROF ha inoltre prodotto alcuni progetti rivolti ai friulani emigrati, in collaborazione con radio locali delle terre di migrazione e da queste parallelamente trasmessi, che permettono un riavvicinamento al friulano dei parlanti extraterritoriali (cf. Mauro 2003, 68s.), e di informazione ai migranti di rientro. Tale emittente diffonde inoltre le proprie trasmissioni via internet tramite streaming adeguato ai fusi orari dei principali paesi dell’emigrazione friulana extraeuropea (Canada, Argentina, Australia).

2.2.1.1 La lingua del parlato radiofonico La lingua utilizzata nelle trasmissioni radiofoniche è alquanto eterogenea: mentre in alcune di esse, come p. es. Gjal e copasse e Cjargne, parte fissa della programmazione di RS103 già dal 1995, si registra un utilizzo spontaneo (e diatopicamente eterogeneo) del friulano, altre, più recenti, sono caratterizzate per una maggiore aderenza a testi primariamente concepiti in forma scritta, con parlato più vicino all’auspicato standard, come sottolineato anche da Fusco/Benacchio (2010, 46): «[s]i ritiene […] che anche il friulano radiofonico, come l’italiano della radio, presenti un riferimento duplice alla norma (scritta) e all’uso (repertorio linguistico orale con le sue varietà)». In trasmissioni caratterizzate da un uso orale più spontaneo (tra cui, p. es., interviste, dibattiti, collegamenti, che presentano un carattere dialogico e cooperativo), il friulano è infatti presente nelle sue più diverse varietà diatopiche (cf. anche Benacchio 2007b, 260) e non sono rari i casi di misti- e plurilinguismo, con fenomeni di code mixing e code switching (tipici anche del parlato spontaneo non mediatico, in cui tali fenomeni, a causa del bilinguismo dei parlanti, sono all’ordine del giorno), così come l’utilizzo di strutture di stampo italianeggiante e di prestiti (più o meno adattati) o calchi dall’italiano, come in (4) («le rivade», «al sarà eseguît»): (4) «Tornìn a noaltris e ai apuntaments di cheste setemane. O disevi che si scomence, par tant ch’al riguarde lis ativitâts di Euritmica doman cul conciert da le Red Devils Band di Claudio Coianiz e si finìs le setemane cheste sabide cu le rivade a Udine di Remo Anzovino cul so ultim album Viaggiatore immobile dulà che al eh… il musicist pordenonês al à dute une schirie di ospits ͡ fra chescj ancje il coro polifonic di Rude dirizût [diridʒuːt] di Fabiana Moro par un toc intitulât 9 ottobre 1963 (Suite for Vajont), un toc une vore potent che al sarà eh.. che al sarà eseguît ancje sul palc dal Palamostre cheste sabide propite cul coro polifonic di Rude» (Ce fâ?, ROF, 21.01.2013).

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Code mixing e code switching sono spesso indotti dall’utilizzo di prestiti (di necessità o non, come discourse marker) che fungono da trigger word (cf. gli esempi in Fusco/ Benacchio 2010, 49, e la relativa analisi), ma possono essere talora anche mezzo stilistico consapevole per un uso creativo della lingua, come in (5), ove la speaker, forse indotta da un fraseologismo italiano (essere alla frutta) da lei prima letto nella rassegna stampa ripropone tale struttura, adattandola parzialmente al friulano, ma viene indotta a continuare la frase con altro fraseologismo italiano (come si suol dire), anch’esso parzialmente adattato: (5) «Cuindi o podaressin disi [ˈdiʒi] che le leghe nord a è propit a le frutta, come che a si suol dî insome [inˈʃome]» (In dì di Vué, ROF, 16.07.2013).

Le interferenze dall’italiano riguardano tutti gli ambiti della lingua, dalla fonetica e fonologia, con l’utilizzo, nei prestiti ma non solo, di fonemi sconosciuti al friulano, alla morfologia (si consideri p. es. l’alta produttività a livello di types, ma anche di tokens, degli avverbi in -mente, talora utilizzati in sostituzione di avverbi o costruzioni avverbiali autoctone: inutilmentri in vece di di bant ʻinutilmenteʼ etc.), alla sintassi e morfosintassi (con costruzioni relative con preposizione del tipo a cui in luogo della costruzione con relativo e ripresa pronominale che i, lett. ʻche gliʼ, omissione del complementatore universale che dopo congiunzione subordinante, perifrasi verbali aspettuali di stampo italiano, come «stâ + gerundio» per esprimere l’aspetto durativo e/o continuativo in vece di «jessi daûr a + verbo finito» o «jessi che + verbo finito», sia lessicale, con prestiti di necessità, ma anche sostituzione del lessico indigeno). In questa sede non è possibile né opportuno offrire un’elencazione esaustiva di tali fenomeni, per cui ci si limita ai pochi esempi apportati. Nel caso di testi più elaborati invece, la cui concezione e redazione è spesso scritta, la varietà utilizzata è vicina alla koinè, con una forte consapevolezza della normatività di questa. Questo risulta evidente soprattutto a livello morfologico (cf. i plurali femminili in (6)), seppur non manchino talora incongruenze fonetiche (come, nell’esempio dato, la realizzazione fricativa [s] del plurale maschile in cjatâʦ, ͡ non sia presente, che fa supporre che nella varietà del giornalista l’affricata [ts] nonostante essa appaia poco dopo nel titolo della trasmissione, chiaro prestito dall’italiano): (6) «Ben cjatadis e ben cjatâts [caˈtaːs] a dutis lis scoltadoris e a ducj i scoltadôrs di Radio Onde ͡ Furlane de bande di Carli Pup par cheste prime pontade di Internazionalitari [internatsjonaliˈtaːri] dal 2013. A screâle e je une gnove che nus rive dal Paîs Basc» (Internazionalitari, ROF, 15.01.2013).

In alcuni casi sembra che il testo sia stato concepito in italiano e poi tradotto in friulano (sull’utilizzo di strumenti di traduzione automatica da parte dei mezzi di comunicazione friulana cf. Carrozzo 2012, 93) o che, perlomeno, nella stesura del testo friulano, il modello sia costituito da strutture tipiche della scritturalità italiana, come in (7), introduzione a due voci a una puntata della trasmissione Instantpic:

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(7) «A: Ance la pontade di vuê e je dedicade al mont da la scuele, par lâ a cognossi un dai istitûts ͡ [istiˈtuːs] rezonâi [redʒoˈnaːj] di formazion fra i plui impuartants [impwarˈtans] dal setôr da l’agricolture, il CEFAP. Il CEFAP al opare pal progres dai setôrs da l’agricolture, dal ambient, da l’alimentazion e pa cualificazion dal teritori rurâl a mieç da la valorizazion da lis personis che za ͡ ͡ ͡ [dʒa] i lavorin. Al vûl jessi la organizazion di riferiment in rezon [reˈdʒon] pai zovins [ˈdʒovins], imprenditôrs, lis personis in dificoltât, i disocupâts [dizokupˈaːs], i disabii, par esempli, pa la lôr cressite professionâl, morâl e civîl, oltri che pa la cressite da la imprese e da lis organizazions di categorie. Mediant la ativitât di formazion di orientament e la realizazion di iniziativis peadis a lis politichis dal lavôr, a la creazion di imprese, al disvilup rurâl, il CEFAP al vûl contribuî a la cressite dal mont rurâl dal Friûl Vignesie Julie valorizant ance chi lis miôr esperiencis disvilupadis in chei altris paîs europeans o fûr di Europe. B: Par puartâ indenant cun coerence chiscju [ˈkiʃkju] obietîfs, il CEFAP al à adotât dute une schirie [ˈʃkirje] di valôrs che a fasin part dal so statût: il disvilup rurâl sostenibil sedi di un pont di viste ambientâl che sociâl, la cualitât pa l’agricolture, parcè che miorâ la cualitât dai prodots [proˈdos] agricui da la impreses agroalimentars [agroalimenˈtaːrʃ] al significhe miorâ la cualitât di vite di ducj, la inovazion da las impreses agroalimentars [agroalimenˈtaːrʃ] par vinci la disfide [diʃˈfide] dal cambiament a nivel internazionâl, la competence, tal sens di professionalitât [profeʃjonaliˈtaːt] e la afidabilitât tal cjamp da la formazion la eficenze e la eficace par ufrî i miôr servizis» (Instantpic, ROF, 30.07.2010).

Si riconoscono bene elementi lessicali e morfosintattici che fanno presumere una base italiana (p. es. «disabii», «cressite professionâl, morâl e civîl», «il disvilup rurâl sostenibil sedi di un pont di viste ambientâl che sociâl»). La realizzazione orale mostra invece tratti caratteristici delle varietà delle due speaker, come la realizzazione deaffricata del plurale maschile in A (p. es. in [impwarˈtans] invece dello stan͡ cui fa da contraltare però la realizzazione dell’affricata in dard [impwarˈtants], ͡ ͡ prestiti poco integrati come [formaˈtsjon] o [alimentaˈtsjon]) o la realizzazione con ͡ l’affricata postalveolare sonora [dʒ] in luogo dell’occlusiva palatale sonora [ɟ] come ͡ in [reˈdʒon] invece dello standard [reˈɟon], mentre per B è caratteristica la palatalizzazione della sibilante nel nesso s + cons. ([ˈkiʃkju] invece di [ˈkiskju]) o in caso di s + semivocale ([profeʃjonaliˈtaːt] invece dello standard [profesjonaliˈtaːt]). L’influenza fonetica dell’italiano si manifesta, come visto, nei prestiti, sovrapponendosi ai sistemi fonologici delle rispettive varietà (nel processo di normalizzazione alla pronuncia dello standard è stata dedicata poca attenzione (cf. Roseano 2010); tuttavia, la correlazione grafia/fonia fa presupporre come standard le pronunce indicate). Una forte incidenza dei modelli italiani si registra nel caso di traduzioni simultanee da tale lingua, come per esempio nelle rubriche di rassegna stampa, in cui i titoli tratti da quotidiani e periodici in italiano (e parzialmente in altre lingue) vengono tradotti ad hoc in friulano. Fenomeni di interferenza sono riscontrabili sia a livello lessicale, ma anche (e forse soprattutto) sul piano sintattico e comportano talora difficoltà di realizzazione non solo per la (non sempre perfettamente data) competenza in koinè (motivo per il quale non rara è la commistione di elementi del parlato spontaneo con altri più controllati), ma anche a causa di alcune costruzioni altrimenti poco usuali o addirittura incongruenti nel sistema friulano:

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«[l]a lingua riprodotta fa filtrare, in alcuni punti, una struttura del discorso concepita in italiano: una testimonianza di questa dipendenza è data dalla elevata capacità traduttiva del giornalista e dal ricorso di talune tournures testuali proprie dell’italiano. Così, mentre la costruzione al è stât trussât attenua l’immagine di un grosso danno subito dal ciclista come se invece fosse stato cjapât sot e il sintagma verbale al à piardût i sintiments è più adeguata rispetto al è svignût, ricorrente nel friulano parlato, la preposizione normalizzata daspò è preferita al più comune e neutro dopo. Pertinente al friulano standard è la costruzione dei due enunciati relativi, in particolare quello con il pronome relativo preposizionale che no son stadis dadis lis gjeneralitâts, nel quale tuttavia fa capolino un riferimento lessicale e semantico di matrice italiana (dare le generalità), così come è facilmente rintracciabile la testualità della lingua italiana nel periodo successivo (è stato portato con urgenza all’Ospedale di Udine, dove si trova ricoverato in condizioni serie)» (Fusco 2011, 409s.; cf. anche Fusco/Benacchio 2010).

2.2.2 Televisione Gli utilizzi del friulano nel mezzo televisivo sono decisamente limitati. Le prime produzioni risalgono alla fine degli anni ’70 (cf. Casasola 2006, 330s.; Mauro 2003, 14, 75) e ai primi anni ’80 del secolo scorso. Mentre per la radiotelevisione pubblica regionale si registra solo il lungometraggio Maria Zef (1981), in cui il friulano, di stampo carnico, è funzionale al realismo della storia, più attiva è l’emittente locale Telefriuli, che a partire dal 1979 (cf. Mariuz 2010, 49) e fino al 1992 produce alcune trasmissioni di varietà, legate peraltro a un’immagine tradizional-folkloristica del Friuli, in cui l’utilizzo del friulano risponde alle caratteristiche locali delle trasmissioni stesse e in cui non vi è quindi un’attenzione particolare alla varietà in esse adoperata. In seguito al riconoscimento legale del friulano e ai conseguenti finanziamenti pubblici, diverse emittenti private, oltre che la RAI, hanno accolto trasmissioni in tale lingua. Il comparto privato ha offerto presto «sebbene in modo irregolare, trasmissioni in marilenghe più innovative, come magazine e notiziari televisivi» (Casasola 2006, 331), peraltro senza continuità e con un volume orario assai modesto, mentre la televisione pubblica si è limitata pressoché unicamente a diffondere alcune puntate della traduzione friulana delle serie a cartoni animati Berto Lôf (Lupo Alberto) e La Pimpa oltre ad alcune altre trasmissioni dal carattere culturale (cf. Casasola 2006, 331; Mariuz 2010, 50). Non è possibile valutare l’impatto (anche) a livello di modello linguistico di tali trasmissioni, mancando tuttora dati attendibili riguardo alla loro ricezione da parte del pubblico; nonostante Casasola (2006, 331s.) affermi che i notiziari in lingua friulana raggiungano «punte di 35.000 telespettatori», questa pare infatti piuttosto limitata. Anche la lingua utilizzata nelle trasmissioni televisive presenta notevoli differenze tra parlato spontaneo e letto, a livello sintattico, lessicale e di realizzazione fonica, come ben rimarcato da Turello (cf. 2007, 78s.): «Il noto moderatore e cantante Dario Zampa dice sempre frus, plas (per plats), mas (mats), quando però legge testi già preparati in precedenza (ovverosia legge ad alta voce), si sente spesso (ma non regolarmente) fruts, plats, mats etc. È interessante che questo fenomeno si registra in D. Zampa e altri parlanti soprattutto nel caso di italianismi o parole rare, per le quali i parlanti spesso sono

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insicuri riguardo la pronuncia. Termini del vocabolario di base non vengono pronunciati p. es. da Zampa mai con il suono /ʦ/ finale, ma sempre solo con /s/» (trad. di L.M.).

Nei programmi che costituiscono traduzioni di originali italiani o stranieri (come p. es. le serie a cartoni animati), la lingua utilizzata è fortemente aderente a prescrizioni normative e rispecchia chiaramente la koinè.

2.3 Cinema e video Se il primo lungometraggio in friulano è senza dubbio il già citato Maria Zef di Vittorio Cottafavi, girato nel 1981 per conto della sede regionale friulana della RAI (e dunque produzione televisiva) e negli anni ’80 si registrano alcune produzioni sia professionali sia amatoriali (cf. Rosso 2006, 289–291), è a partire dal 1988, con l’istituzione della Mostre dal Cine Furlan (cf. Rosso 2006, 298–304; Mariuz 2010, 51), che il loro numero cresce: «di chê volte a son stadis produsudis cuasi 200 oparis par furlan. Si pues dî che dai prins agns Novante incà la produzion in lenghe furlane e à vût pardabon un svilup notevul» (Minigutti 2008, 57); i già citati fondi per la tutela del friulano hanno in anni recenti portato a un aumento di iniziative e produzioni audiovideo, sia a livello fizionale sia documentaristico. Da parte istituzionale, con la traduzione e il doppiaggio in friulano di serie animate (italiane o internazionali) come Lupo Alberto/Berto Lôf o Little People/Omenuts, trasmessi in parte in canali radiotelevisivi pubblici (cf. sopra) e/o distribuiti alle scuole per l’utilizzo in ambito e a fini didattici, si è cercato di avvicinare al friulano, nella sua varietà di koinè, anche fasce giovani di popolazione. Altri interventi spontanei di doppiaggio, spesso coronati da un notevole successo di pubblico, come nel caso di alcune puntate della celeberrima serie fantascientifica televisiva Star Trek, perseguono scopi più ludici e non possono di certo essere annoverati tra le misure pianificate di elaborazione linguistica. La lingua in essi utilizzata, di certo più vicina a un friulano parlato, è diatopicamente variegata e non scevra da italianismi più o meno palesi. In tali produzioni, inoltre, la concezione sociolinguistica del friulano è meramente relazionale e quindi dialettale (come dimostra la scelta di far parlare in triestino i nemici dei protagonisti). Analogamente, alcuni progetti originali, come la pellicola Lidrîs cuadrade di trê (2001), o dal carattere ludico-parodistico, come il falso documentario Buris – Libars di scugnî vignî, dello stesso anno, hanno riscontrato un discreto successo di pubblico e critica; tuttavia, anche in questo caso, «si ha […] la sensazione che l’uso della lingua resti spesso legato a una concezione strumentale, cioè che la lingua venga utilizzata più con la preoccupazione di ‹fedeltà a una realtà particolare› che non come codice di comunicazione, con tutto ciò che tutto questo può comportare» (Rosso 2006, 309). L’audience raggiunta, nonostante il discreto interesse del pubblico per il festival citato, è in ogni caso, troppo ridotta (sebbene Garlatti-Costa 2005, 247, registri buoni successi di pubblico per alcuni film classici) perché queste opere possano fungere da modello linguistico di riferimento per ampie masse di parlanti.

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2.4 Pubblicità La storia degli utilizzi del friulano nella pubblicità è relativamente lunga: già dai primi numeri (e per tutti gli anni ’20 e ’30) dell’almanacco Strolic, edito dalla SFF a partire dal 1920, accanto a pubblicità in italiano, si trovano diversi testi in friulano per reclamizzare prodotti e servizi (locali e non), spesso legati al mondo dell’agricoltura, dell’alimentazione in generale o delle attività artigianali. I due esempi qui riprodotti (figura 1 e 2), sono tratti dallo Strolic furlan par 1925 e redatti nella varietà friulana centrale utilizzata in tale pubblicazione. Tuttora analoghe pubblicità in friulano sono presenti (più o meno sporadicamente) in diverse pubblicazioni a diffusione locale (anche di/per i friulani all’estero).

Figura 1: Pubblicità da Il Strolic furlan pal 1925 (s.p.)

Figura 2: Pubblicità da Il Strolic furlan pal 1925 (s.p.)

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Pubblicità in lingua friulana si trovano con regolarità però quasi esclusivamente in alcuni dei media che utilizzano tale lingua, in particolare ne La Patrie dal Friûl e, fin a quando veniva pubblicato in formato cartaceo, in maniera decisamente maggiore ne Il Diari. Per quanto riguarda il comparto radiotelevisivo, pubblicità in friulano sono presenti pressoché unicamente sull’emittente Radio Onde Furlane. I testi pubblicitari curati dalle rispettive redazioni, utilizzano la koinè (nella seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, tuttavia, il gruppo teatrale di Teatro Incerto produsse per ROF una serie di spot caratterizzati da varietà non necessariamente vicine alla koinè e da un uso creativo della lingua; cf. Mauro 2003, 50s.). Non di rado pare però trattarsi di traduzioni, più o meno adattate, di testi pubblicitari in italiano, le caratteristiche dei quali emergono sia a livello lessicale che sintattico (cf. esempio in figura 3).

Figura 3: Il Diari IV (17), 09.09.2009, 2

Più complesso è il caso di campagne pubblicitarie istituzionali (in koinè) volte alla promozione della lingua friulana (cf. p. es. De Agostini 2007; Pianca 2006), ma anche di interventi pubblicitario-informativi in friulano o plurilingui come quelli attuati dalle tre Aziende per i Servizi Sanitari della provincia di Udine (cf. Melchior in stampa). In tali casi non è infatti sempre chiaro se si tratti di interventi di promozione in o della lingua friulana (cf. Toffoli 2006).

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2.5 Musica Non è possibile, in questa sede, analizzare in maniera adeguata l’utilizzo del friulano in ambito musicale: la vastità dell’argomento meriterebbe studi specificamente dedicati – che tuttora mancano. Né le recenti storie della musica friulana (Calabretto 2005; Cantarutti 2005; Colle/Cantarutti 2006) né altri contributi, come il volume di atti del convegno Cuale lenghe pe moderne musiche furlane (cf. Cargnelutti 2005) hanno infatti alcun interesse linguistico, se si eccettuano le brevi annotazioni sulla grafia dei booklet di alcune opere scelte (Angeli 2005, 63s.) e su fenomeni di misti- e plurilinguismo nelle stesse (ibid., 64–66; cf. anche Angeli 2004). Siano qui tuttavia dati alcuni cenni. Fino agli anni ’90 del secolo scorso il friulano fu utilizzato – al di là della musica tradizionale, di stampo anche colto – pressoché unicamente nell’ambito della musica melodica e in seguito popolaresca (più che popolare), legata a temi tradizionali (come p. es. l’emigrazione), con un linguaggio a questi confacente, al quale negli anni ’70 si aggiunsero il fenomeno del «‹revival› folk» (Colle/Cantarutti 2006, 261) e, linguisticamente più interessante, quello dei cosiddetti «‹canzonieri› politici» (Colle/Cantarutti 2006, 262). Pur mancando precise politiche di sostegno (cf. Cisilino 2005), nell’ultimo decennio del Novecento e nei primi lustri del nuovo secolo, la scena musicale in friulano, grazie anche all’operato di ROF, ha conosciuto un discreto sviluppo, aprendosi a nuovi stili e tendenze, dal punk rock alla canzone d’autore e a sonorità etniche, dall’hip hop all’elettronica e al jazz. Ciò ha comportato anche un uso creativo della lingua, dove non mancano casi di mistilinguismo con l’italiano e altre lingue, come inglese, sloveno e spagnolo (per alcune prime analisi esemplari si vedano Benacchio 2007a; 2007b; 2007c), utilizzo di elementi tipici del linguaggio giovanile e di diverse varietà diatopiche e diafasiche. Come già accennato riguardo ad altri mezzi di comunicazione di massa, anche per il comparto musicale l’impatto di tali produzioni, anche come modello linguistico, pare assai limitato, dal momento che «[s]e [...] osserviamo con attenzione il mercato delle produzioni friulane ci accorgiamo che, salvo per qualche isolato lavoro, le vendite non superano quasi mai le centinaia di copie di un mercato di nicchia» (Colle/Cantarutti 2006, 267; una prima ricerca statistica, su un limitato campione di informanti, riguardo le ragioni per l’ascolto – e la produzione – di musica in friulano in Angeli 2005).

2.6 Friulano e nuovi media I nuovi media, in particolare internet, costituiscono un forte canale per la diffusione e l’utilizzo del friulano (e di altre lingue minoritarie) nei suoi usi scritti e/o orali (p. es. in contributi audio o video) sia ufficiali/istituzionali, sia (con caratteristiche diverse) privati, p. es. nei social media e nei blog. La presenza in internet del friulano è infatti ormai consolidata: basti pensare che ROF si fornì di una presenza online (dapprima www.friul.it, ora www.ondefurlane.eu)

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già negli anni 1995–1996 (cf. Mauro 2003, 67) e che il sito di informazione giornalistica http://www.friul.net/, sorto quale piattaforma web del mensile La Patrie dal Friul, ma dal 2006 indipendente da questo, prese il via già nel 1999. Al giorno d’oggi, diversi enti locali (p. es. provincia di Udine, Regione Friuli Venezia Giulia, diversi comuni e altri enti, si veda quale esempio il sito di informazione in friulano del comune di Udine Udin par furlan raggiungibile all’indirizzo http://www.udinparfurlan.eu) oltre che alcune iniziative private, come associazioni o gruppi culturali e politici legati a tematiche friulane o friulanistiche offrono una versione friulana (di alcuni contenuti) dei loro siti web istituzionali (talora presenti anche in tedesco, sloveno e/o in altre lingue). Decisamente meno diffuso è invece l’uso del friulano in siti dal carattere commerciale, seppur legati al mondo del friulano, come p. es. editoria in friulano (una prima carrellata di siti in friulano, non più attuale, in Borini (2003, 34s.), più aggiornato http://digjitaitfurlan.wordpress.com/la-ret-parfurlan/ (23.04.2013); alcune considerazioni sul tema in Mariuz 2010, 52–54). I nuovi media svolgono in diversi casi una funzione per così dire «riproduttiva» di contenuti disponibili anche su media tradizionali, in particolare con i servizi di streaming radiofonico, di podcast, con le edizioni online di riviste e periodici cartacei e/o con i materiali video e/o cinematografici disponibili su diverse piattaforme tematiche. Si segnalano anche servizi di trasmissione in diretta di eventi culturali (convegni, letture pubbliche etc.) via internet. Grazie alla diffusione sui nuovi media è possibile allargare il bacino di utenza per tali contenuti dove essi non siano disponibili in via tradizionale (p. es. per i friulani all’estero), modificando la forma d’essere degli stessi (p. es. l’asincronia delle trasmissioni radiofoniche originariamente in diretta e aperte alla partecipazione telefonica del pubblico). Oltre a questi usi e in seguito alla «rivoluzione mediatica» del cosiddetto web 2.0, anche la partecipazione alla scritturalità mediatica è incrementata. In particolare sono due gli ambiti in cui la presenza del friulano si è presto manifestata in maniera importante: l’enciclopedia collaborativa Wikipedia e il mondo dei blog (al riguardo cf. anche Segrado 2008; su Wikipedia come potenziale per le lingue minoritarie con riferimenti anche al friulano, cf. Born 2007). Il fenomeno dei blog in friulano – la cui elencazione, data la fluttuazione e la vastità del medium internet sarebbe tanto impossibile quanto effimera; una sinossi relativa all’anno 2008 si trova in Romanini (2008, 16), diversi di questi non paiono più venire aggiornati o sono scomparsi – si è sviluppato soprattutto nella seconda metà del primo decennio del nuovo secolo. L’impatto di tali forme di comunicazione pare limitato a un gruppo piuttosto ristretto (e autoreferenziale) di destinatari comunque interessato al friulano. Dal punto di vista più prettamente linguistico, se agli inizi del fenomeno si registravano l’utilizzo di varietà locali di friulano e/o fenomeni di mistilinguismo, oltre a delle grafie idiosincratiche e non sempre coerenti, come negli esempi (8) (il cui testo risale al settembre 2010) e (9) (risalente al novembre 2009, in cui sono presenti alcuni ipercorrettismi grafici), attualmente pare esservi da parte dei bloggers una tendenza all’utilizzo della koinè con una grande attenzione anche

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all’ortografia. Ciò è anche dovuto al fatto che tale mezzo di comunicazione, dopo la prima espansione, pare aver perso – per lo meno per quanto riguarda l’utenza friulana – il carattere di diario personale telematico, istituzionalizzandosi quale organo di stampa e/o comunicazione ufficiale di movimenti politici, culturali o d’altro genere, di approfondimento per trasmissioni radiotelevisive, o viene utilizzato per attività pubblicistiche o di stampo letterario. Diversi invece sono il comportamento e le scelte linguistiche nei commenti degli utenti ai singoli articoli, come in (10) (datato 16.10.2012), dove si riscontrano l’utilizzo di varietà diverse dalla koinè, evidenti italianismi e scelte grafiche discordanti dalle regole ortografiche ufficiali. (8) «Al jere miercus di matine e o stevi lant a vore. O stevi guidant le machine ma al me cjâf al jere plen di pensîrs. Rivaraio a vore mancul 15 minûts prime? Ustie o ai di visâmi di cjoli al libri pal cors di anatomie, o ai di paiâ le bolete eletriche… e cussì indenant. Tant cal me cjâf al jere daûr a pensà a ce co varês fat e vût di fa vie pal di’ I mei voi e cirivin le corsie plui svelte e al voli al e’ colât su une machine. Le machine e jere scure, e dal barcon daûr si viodeve une bandiere spleade parsore di une bare…» (http://furlans.blogspot.co.at/, 24.10.2012). (9) «L’unic picjul difiet che o ai cjatât al è il fât che se si è usâts a scrivi messaçs come saetis, chest picjul software al à bisugne di une picjule frazion di secont di spiete jentri ogni pression di tast, ma jessint une version di prove o disarês che a promet benon pal avignî!» (http://guardianut. blogspot.co.at/, 24.10.2012). (10) «Usti veh! saveiso che… o lustri vie il ruzin dal velocipede e… ma, siore Amelia, seso la stesse che ha menat a fasi sburtà vie chel Cincent ros flamant, fin lì di chel distributor Agip che dopo chel pompist… ce tants speteguless… sì, o podaress di gnuf montà in selle e là a pit co soi plui sigur di no restà sflatat, juste in cime di chel pass e dopo che la Luisone mi ha fat zoldi un’atre volte come un frut, svolà a bass e piardimi platat tas lis ombrenis di chel foret, che nissun a l’ha capit ce che sta a fa fasinle plan. Mandi Amelia» (http://contecurte.blogspot.co.at/2012/10/faluplanc.html#comment-form, 24.10.2012).

Lo stesso dicasi per commenti p. es. ad articoli sulle pagine web di riviste e quotidiani regionali, come in (11): (11) «Il to discors no’l fila, no’l à sens…prima di fevelà informiti su la situazion da la lenga furlana e su la storia dal Friul…Udin jè simpri stada il cjauluc dal Friul, Pordenon jè deventada una citat cjauluc di provincia nome tal 1968» (http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2012/12/30/ news/fontanini-friulani-dobbiamo-svegliarci-1.6270849, 01.01.2013).

Quanto tali soluzioni idiosincratiche siano dovute a ignoranza della grafia ufficiale o a difficoltà di carattere tecnico (realizzazione degli accenti circonflessi per indicare le ͡ non è peraltro dato sapere. vocali lunghe o di per [tʃ]) Per quanto riguarda l’enciclopedia collaborativa Wikipedia, il friulano si è presto aggiunto (a partire dal 25 gennaio 2005) alle diverse centinaia di lingue in cui tale progetto è redatto. Al 4 luglio 2013 si contavano 3.076 articoli redatti nella koinè friulana (cf. http://fur.wikipedia.org/wiki/Speci%C3%A2l:Statistichis (04.07.2013)). Non pochi contributi sono legati a realtà e interessi meramente locali e hanno una lunghezza

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media piuttosto ridotta: diversi articoli consistono di un’unica frase, così che dal punto di vista sintattico spesso si limitano a strutture molto semplici, come in (12): (12) «Aoste e jè une citât di 34.631 abitants, cjaulûc de regjon Val d’Aoste» (http://fur.wikipedia. org/wiki/Aoste, 21.01.2013, grassetto in originale).

Nel caso di testi più complessi, vi sono costruzioni di un certo grado di elaborazione, spesso con influssi dall’italiano, come nelle strutture infinite e passivanti in (13): (13) «Il spagnûl (español) al è une lenghe romanze ocidentâl. E je la lenghe romanze plui fevelade tal mont, doprade come lenghe ufiziâl in Spagne, in diviersis stâts de Americhe Centrâl e in ducj i paîs de Americhe Meridionâl, infûr dal Brasîl, Guyane e Suriname (par une liste complete dai paîs, cjale la tabele in bande). Al è une des lenghis uficiâls de Union Europeane e des Nazions Unidis. La lenghe e je ancje une vore fevelade, cence jessi ufiziâl, tai Stâts Unîts di Americhe e te zone dal Sahara Ocidentâl» (http://fur.wikipedia.org/wiki/Lenghe_spagnole, 21.01.2013, grassetto e corsivo in originale).

Nell’ambito dei social network il friulano è presente sia a livello istituzionale (per esempio in pagine dedicate esplicitamente alla tutela o all’uso di tale idioma), sia in profili privati, oltre che nei commenti e interventi di singoli utenti in profili altrimenti italofoni. Come per gli altri nuovi mezzi di comunicazione di massa, anche nei social network si possono registrare le stesse caratteristiche, cioè l’utilizzo pressoché esclusivo della koinè e della grafia ufficiale in ambito istituzionale, varietà diatopiche diverse, testi dal carattere mistilingue e soluzioni grafiche personali (talora incoerenti) in ambito privato. Tuttavia la tendenza verso la normalizzazione anche di tali contributi pare consistente.

3 Prospettive future L’utilizzo del friulano nei mass media contribuisce all’elaborazione estensiva (cf. Kloss 21978) dello stesso, implementando gli ambiti di utilizzo di tale lingua. Presupposto (e conseguenza) di tale attività è l’elaborazione intensiva delle strutture linguistiche necessarie a tal fine. Ciò porta, in particolare nella scritturalità, da una parte all’utilizzo di strutture dal carattere emblematico, perché considerate tipiche del friulano e con valore di tratti bandiera; d’altra parte vi è la trasposizione di modelli e strutture da lingue di contatto maggiormente elaborate, in particolare con la lingua territoriale, l’italiano. Si assiste dunque in questo momento a una fase eterocentrica (cf. Maas 2006, 2167) della scritturalità friulana, in cui nell’elaborazione di strutture literate (cf. Maas 2010) dominano modelli altrui. Se e come tale fase sarà superata, con l’eliminazione delle strutture non congruenti con la lingua friulana, non è al momento dato sapere, ma potrà essere oggetto di future indagini a lungo termine (cf. anche Melchior 2014). Indagini a lungo termine potranno anche fornire risposta al quesito se la diffusione di un modello linguistico normativo – anche nelle pratiche orali – condurrà a una

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ristrutturazione dello spazio varietistico del friulano, con conseguente diversa percezione delle varietà da parte della comunità dei parlanti. Tuttavia, data la numericamente assai limitata ricezione dei mass media friulani, tale evoluzione non pare verosimilmente possibile a breve o medio termine (alla «lettura in friulano» non solo di periodici, ma anche di altri prodotti editoriali, è stata finora dedicata solo una ricerca sociologica, interessante, ma purtroppo ormai datata, cf. Strassoldo 1992a; 1992b; 1993). Sarà poi interessante indagare se a una crescente presenza mediale del friulano – e soprattutto alla sua ricezione – si accompagnerà il mantenimento dei fenomeni di mistilinguismo, soprattutto nel parlato spontaneo, che sono tipici anche dell’oralità friulana non mediatica, o se vi sarà la tendenza a un parlato maggiormente controllato e tendenzialmente monolingue. Aperta resta infine la questione se l’utilizzo del friulano nei mass media, in particolare nel comparto radiotelevisivo, ma anche in parte in quello del giornalismo su carta stampata, potrà mantenersi numericamente ai livelli attuali o addirittura crescere. Diverse delle attuali iniziative sono infatti (almeno in parte) finanziate con fondi messi a disposizione in base alle leggi di tutela del friulano e delle minoranze linguistiche storiche, e, se non sovvenzionate, non paiono in grado di potersi sostenere autonomamente, come ben evidente nel citato caso de Il Diari. Una diffusa ricezione di tali iniziative, che al momento non è tuttavia data, può essere la chiave che permetterebbe una sopravvivenza economica anche senza finanziamenti pubblici, che dal 2013 sono stati fortemente ridotti.

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Alessandra Burelli

18 Friulano nella scuola (e nell’università) Abstract: Nelle scuole friulane, in quelle dell’obbligo in particolare, non sono mancati docenti che includessero elementi di cultura e di lingua friulane nel loro insegnamento. Oggi la lingua friulana entra nel curricolo della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado sulla base di norme regionali che specificano e applicano apposite disposizioni normative statali, e si inserisce in un percorso educativo plurilingue accanto alla lingua italiana e alle lingue straniere, come parte integrante della formazione a una cittadinanza europea attiva e di valorizzazione della specificità della Regione. Oltre il 60% degli alunni dell’area friulanofona sceglie questo insegnamento che configura un quadro variegato di esperienze educative, accomunate dall’orientamento all’insegnamento integrato di lingua e contenuto e dall’attenzione al contesto sociale e culturale in cui vive la scuola. Per quanto già affrontata da più soggetti istituzionali, in diversi momenti e forme, resta aperta la questione della qualificazione per insegnare la lingua friulana, alla quale si correla quella della formazione dei docenti. Keywords: aspetti normativi, educazione plurilingue, organizzazione curricolare, modalità didattiche, formazione degli insegnanti

Premessa Nelle scuole del Friuli l’organizzazione e i curricoli scolastici si configurano in base sia a norme emanate a livello centrale dallo Stato, sia a provvedimenti assunti a livello locale dagli Organismi di governo regionale. Lo Stato riserva a se stesso la legislazione esclusiva in materia di norme generali dell’istruzione e detta le norme generali di tutela delle minoranze linguistiche. Alla Regione la materia dell’istruzione è attribuita come legislazione concorrente, esplicabile nel rispetto dell’autonomia delle singole istituzioni scolastiche. Le Regioni a statuto speciale, qual è la Regione Friuli Venezia Giulia, disciplinano con proprie leggi sia la materia dell’autonomia scolastica, sia quella relativa alle lingue e culture minoritarie. In Friuli, dunque, la scuola opera in base sia all’insieme delle leggi statali inerenti alla tutela dei diritti linguistici, alla struttura del sistema di istruzione, alle finalità generali e ai traguardi formativi dei diversi gradi in cui il percorso di istruzione si articola, al reclutamento e alla formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, sia a specifiche norme regionali attinenti alla tutela e alla promozione delle lingue e culture minoritarie presenti nel territorio regionale (↗13 Il quadro giuridico).

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1 Dalla cultura alla lingua Nelle scuole friulane, in quelle dell’obbligo in particolare, non sono mai mancati insegnanti sensibili e preparati che, pur in mancanza di norme chiare e spesso in un clima di ostilità da parte delle autorità scolastiche, hanno proposto ai propri allievi elementi di cultura locale, di letteratura e di lingua friulana. Fin dagli anni Cinquanta i riferimenti dei programmi scolastici all’ambiente naturale e sociale degli allievi quale realtà di cui tener conto e tradurre in occasione d’istruzione, per numerosi docenti sono stati il motivo e lo spazio per sviluppare attività didattiche sulla «cultura e la lingua friulana». Quanti fossero questi docenti risulta difficile da stabilire (Peressi 1994). Generalmente l’impegno nasceva come iniziativa personale e le attività didattiche che ne scaturivano rimanevano circoscritte nell’ambito di singole classi, senza che vi fossero scambi o contatti con altri insegnanti, con altre classi o altre scuole. La coscienza della propria peculiarità culturale, la convinzione del valore della cultura locale nella formazione dell’identità personale, l’esigenza di dare un sostegno alla didattica e la volontà di costruire una serie di punti di riferimento «per chi intendeva operare per una scuola più ‹friulana›» (Peressi 1993, 19) nel 1952 portò un gruppo di questi insegnanti a dar vita alla Scuele Libare Furlane. L’istituzione si sviluppò rapidamente e per quasi un ventennio fu attiva in numerose località delle Province di Gorizia, Pordenone e Udine (Ulliana 1982). La sua attività poggiava essenzialmente sul volontariato degli insegnanti aderenti che svolgevano lezioni di cultura e lingua friulana in aggiunta al normale orario scolastico, e sulla disponibilità dei genitori a inviare i propri figli a scuola oltre l’orario consueto. Le lezioni si svolgevano in ore pomeridiane, sviluppavano aspetti della cultura friulana e introducevano le fondamentali regole della grammatica del friulano attraverso il suo uso orale e scritto. Una più diffusa sensibilità verso la cultura locale e la ricerca di coordinamento nelle singole sedi scolastiche e di collaborazione con il contesto in cui la scuola opera si manifestano negli anni Settanta, quando la legislazione statale introduce la possibilità di ampliare l’orario scolastico con «attività integrative», impegna la scuola a collaborare con i genitori e gli enti locali nella programmazione delle attività educative e permette di organizzare l’insegnamento con modalità più flessibili. Il nuovo contesto normativo introduce la possibilità di potenziare il curricolo scolastico con percorsi educativi che valorizzano maggiormente curiosità, creatività ed espressività e di attuare una didattica che apre le porte delle aule e porta gli allievi a guardare e interrogare la realtà circostante per conoscere la propria storia ed esplorare l’attualità. Diversi insegnanti individuano in queste disposizioni il fondamento normativo per realizzare attività dedicate alla cultura e alla lingua friulana, che generalmente strutturano intorno ad aspetti antropologici e storico-ambientali in cui la parlata locale emerge e viene presentata come dato culturale (Peressi 1992; 1994). Soprattutto la seconda metà degli anni Settanta appare segnata da un significativo incremento di attività scolastiche riguardanti la cultura e la lingua locali. Il tragico

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evento del terremoto del 1976 sembra aprire una fase di acuto risveglio della volontà di difendere il friulano e le altre lingue minoritarie della regione e mettere in moto passioni e iniziative legate al bisogno di ricostruire il proprio mondo anche facendo tesoro del patrimonio sapienziale popolare. Per quanto generalmente riconducibili alle istanze pedagogiche e sociali che nel corso di quegli anni vedono associazioni e gruppi di insegnanti protagonisti del rinnovamento della scuola italiana, le scelte educativo-didattiche che caratterizzano le esperienze scolastiche riguardanti cultura e lingua friulane compongono un quadro variegato. Nella maggioranza delle classi l’attività didattica si realizza con l’introduzione di elementi della storia e delle tradizioni locali. Legati ad argomenti storico-antropologici, vengono proposti o più spesso raccolti con l’aiuto delle persone più anziane elementi della lingua friulana quali termini relativi ad ambiti specifici, modi di dire, filastrocche, e vengono presentate poesie e narrazioni tratte dalla produzione degli autori più conosciuti. Diversamente, in alcune classi l’attività scolastica guarda con attenzione al dibattito aperto in ambito nazionale sull’«educazione linguistica democratica» (GISCEL 1975; Simone 1976; De Mauro 1977; Colombo 1979) e ne condivide i fondamenti teorici linguistici e pedagogici: la natura simbolica e la funzione comunicativa del linguaggio verbale, la sua rilevanza sociale, la pluralità e la complessità delle capacità linguistiche, la necessità di assumere il retroterra linguistico-culturale degli allievi per sollecitare le loro capacità verbali e arricchire il loro repertorio linguistico attraverso aggiunte e ampliamenti. Le esperienze che accolgono queste istanze – che si riverbereranno nei programmi per la scuola secondaria di primo grado e in quelli per la scuola primaria – danno rilevanza alla lingua friulana non tanto come dato culturale, quanto e soprattutto come strumento comunicativo-espressivo e ne valorizzano la capacità di esprimere i vissuti personali, di descrivere le esperienze quotidiane, di interagire con gli altri, di elaborare conoscenza, di creare o mantenere una continuità con la realtà sociale extrascolastica attraverso l’uso orale e scritto nelle attività scolastiche. Ancora tra la fine degli anni Settanta e durante gli anni Ottanta le diverse iniziative educative sono legate alla volontà, alla sensibilità e alla preparazione culturale individuale degli insegnanti; tuttavia nel contesto sociale e culturale regionale si manifesta un più vivo interesse verso la salvaguardia e la valorizzazione delle lingue e delle culture locali e verso il rapporto lingua e cultura friulana/lingua e cultura italiana a scuola. Riprova ne sono una nutrita serie di convegni e corsi di aggiornamento organizzati in diverse località del Friuli da autorità locali, associazioni di docenti, sindacati, ai quali partecipano insegnanti di ogni ordine di scuola; numerosi interventi in merito sulla stampa locale; dibattiti pubblici; mozioni per l’adozione di un’apposita legge regionale; mentre vengono presentati al Parlamento alcuni progetti di legge per la tutela delle lingue e culture delle minoranze (Peressi 1993). Un importante ruolo di stimolo e di diffusione di conoscenze scientifiche sul multilinguismo, l’apprendimento e l’insegnamento delle lingue e l’educazione bi-plurilingue è svolto dai ricercatori dell’Università di Udine che nel 1986, con un progetto di ricerca cofinanziato dalla Commissione Europea, avviano una sperimentazione pluriennale

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(1986–1992) di educazione bilingue friulano-italiano in alcune scuole materne della Provincia di Udine. L’esperienza educativa richiama l’attenzione della comunità friulana per la modalità innovativa con cui la lingua minoritaria è introdotta nell’attività scolastica: il modello di immersione parziale e l’uso del friulano come lingua d’istruzione; allo stesso tempo suscita un significativo interesse tra gli insegnanti per gli obiettivi linguistici ed educativi coordinati allo sviluppo armonico del plurilinguismo nativo e per le opzioni didattiche adottate, centrate sull’uso veicolare della lingua friulana in tutte le attività educative (Schiavi Fachin 1991; 1998; Burelli 1996; 2001). Una fase importante si apre nel 1996 con l’approvazione della Legge Regionale Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per le lingue regionali e minoritarie (L.R. 15/1996; ↗13 Il quadro giuridico). Il provvedimento affronta la questione della valorizzazione dell’originale patrimonio linguistico e culturale friulano in una visione complessiva che ruota attorno allo sviluppo della lingua friulana come codice adatto a tutte le situazioni della vita moderna (Stolfo 2009). Per il settore della scuola e della formazione introduce la possibilità di sostegno finanziario per una vasta gamma di iniziative: corsi di informazione e aggiornamento e premi letterari; studi e ricerche sulla realtà storica, culturale, linguistica e le tradizioni friulane; sussidi didattici; concorsi tra gli alunni e «altre attività parascolastiche indirizzate alla conoscenza della storia, della cultura, della lingua e delle tradizioni friulane»; attivazione di corsi universitari di insegnamento (art. 19) e la possibilità di «adottare iniziative sperimentali nel campo dello studio della lingua friulana e delle relative tradizioni culturali, all’interno della sperimentazione didattica integrativa degli istituti professionali dipendenti o controllati dalla Regione» (art. 12). La L.R. 15/1996 apre dunque la porta delle classi alla lingua friulana, benché essa vi entri solo in forma sperimentale o in attività extracurricolari, date le limitate competenze regionali nel settore dell’istruzione, e si accompagni sempre alla cultura o alle «tradizioni culturali», o alle «tradizioni friulane» per la prospettiva che la legge adotta, che lega costantemente lingua e cultura. Ciò che pare di dover sottolineare è che fin dalla sua impostazione questa legge colloca la questione della lingua e della cultura friulane nell’orizzonte europeo con il richiamo esplicito agli orientamenti espressi dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea, a partire dalla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (Council of Europe 1992). Non di meno essa centra l’attenzione sulla lingua, sulla sua valorizzazione e promozione come elemento di identificazione collettiva e strumento di elaborazione culturale originale. In questa direzione introduce decisive disposizioni in ordine alla normalizzazione linguistica e alla grafia.

2 Lingua friulana nel curricolo L’integrazione della lingua friulana nei curricoli è oggi sancita dalla legge statale Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche (Legge 482/99) e dalla

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legge regionale Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana (L.R. 29/2007). Nel dettare le norme generali di tutela delle minoranze linguistiche la legge statale introduce specifiche disposizioni per l’introduzione delle lingue minoritarie nella scuola materna e nei primi gradi dell’istruzione obbligatoria. Non fa riferimento invece alla scuola secondaria di secondo grado e per quanto riguarda l’Università si limita a stabilire che gli atenei delle Regioni in cui risiedono le minoranze linguistiche, «nell’ambito della loro autonomia e degli ordinari stanziamenti di bilancio» prendono ogni iniziativa, inclusa l’istituzione di corsi della lingua e cultura minoritaria, per promuovere la ricerca e le attività formative finalizzate agli obiettivi della legge. Nel merito delle scuole materne, primarie e secondarie di primo grado la norma prevede che esse organizzino l’insegnamento della lingua locale «anche sulla base delle richieste dei genitori degli alunni», «al fine di assicurare l’apprendimento della lingua della minoranza», «nei limiti dell’orario curricolare complessivo definito a livello nazionale» (Legge 482/99, art. 4). Prevede inoltre che la lingua minoritaria entri nel curricolo come strumento di svolgimento delle attività educative nella scuola materna e sia come veicolo di insegnamento sia come oggetto di apprendimento nella scuola elementare e secondaria di primo grado. Fin da subito, la disponibilità di una normativa di rango statale ha conseguenze importanti per la scuola friulana. Da un lato contribuisce ad accrescere lo status sociale del friulano e a sostenere la scelta dei genitori a favore del suo insegnamento; dall’altro fa emergere e permette di valorizzare la sensibilità e la professionalità degli insegnanti che già hanno cominciato a lavorare con la lingua minoritaria. La loro capacità progettuale si rende manifesta nel numero di progetti, di anno in anno più consistente (Sguerzi 2006), presentati al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) e da esso finanziati nell’ambito del piano di intervento «nel campo dello studio delle lingue e delle tradizioni culturali appartenenti a una minoranza linguistica» (Legge 482/99, art. 5). Per poter organizzare le attività scolastiche previste dalla legge statale l’Ufficio Scolastico Regionale (emanazione locale del MIUR) raccoglie i dati sul numero di allievi interessati all’insegnamento/apprendimento della lingua friulana. Fin dalle prime verifiche emerge che complessivamente nelle Province di Gorizia, Pordenone e Udine oltre la metà degli alunni frequentanti chiede l’insegnamento della lingua friulana (Sguerzi 2006; Perini 2011). Da parte loro gli uffici della Regione sondano la disponibilità dei docenti a impartire l’insegnamento della lingua friulana. Le risposte evidenziano che la maggioranza dei docenti è disponibile a insegnare la lingua friulana, mentre una minoranza insegnerebbe solo la cultura friulana. Ciò nonostante la legge e le successive disposizioni applicative non garantiscono che tutte le scuole dell’area friulanofona attivino l’insegnamento del friulano e privilegino obiettivi di competenza linguistica e comunicativa. Da un lato, giustificati dal fatto che nello stesso provvedimento accanto alle lingue compaiono spesso le «culture» e le «tradizioni culturali», non di rado sull’insegnamento/apprendimento della lingua prevalgono i contenuti «culturali» e «tradizionali», veicolati in italiano. Dall’altro l’autonomia

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garantita dallo Stato alle istituzioni scolastiche e richiamata anche in questo provvedimento è frequentemente intesa come libertà di scegliere se applicare o meno, per intero o solo in parte, le disposizioni che la legge di tutela contiene (Stolfo 2011). A questo si aggiunge la mancanza dei criteri generali per l’attuazione delle misure necessarie all’insegnamento della lingua minoritaria che il Ministero dovrebbe emanare annualmente. Ciò contribuisce a dare all’insegnamento della lingua friulana una veste sperimentale che in molti casi si traduce in un impegno didattico episodico ed estemporaneo. Decisiva per una ben più ampia diffusione dell’insegnamento della lingua friulana è la promulgazione della Legge regionale n. 29/2007 e dei successivi dispositivi applicativi. Da un punto di vista generale la norma regionale rende esplicita una serie di indicazioni introdotte dalla legge statale, lega i percorsi didattici della lingua friulana all’impianto complessivo degli ordinamenti scolastici generali e nello specifico alle disposizioni statali più recenti. Soprattutto, colloca l’insegnamento del friulano all’interno di un percorso educativo plurilingue accanto alla lingua italiana e alle lingue straniere, come parte integrante della formazione a una cittadinanza europea attiva e di valorizzazione della specificità della Regione (L.R. 29/2007, art.12) e iscrive il suo apprendimento e il suo insegnamento nella prospettiva promossa dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa e delineata nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (Council of Europe 2001). In forza di questo provvedimento l’insegnamento della lingua friulana è esteso a nuovi ambiti formativi. Accanto all’integrazione nel curricolo della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado si prevede il suo insegnamento anche nella scuola secondaria di secondo grado, dove si delinea una sua collocazione tra i progetti di arricchimento dell’offerta formativa che le scuole sono chiamate a programmare annualmente. Si prevede inoltre la possibilità di avviare specifiche attività di insegnamento per gli adulti e per gli immigrati nell’ambito delle iniziative formative ad essi dedicate; si affida alla Regione la realizzazione di iniziative di informazione e sensibilizzazione rivolte alle famiglie per far conoscere obiettivi e forme dell’introduzione della lingua friulana nelle classi e si sostiene un’attività di volontariato per l’insegnamento della lingua friulana. Ancora, si prevede la stipula di convenzioni con le Università della Regione per la formazione dei docenti di friulano con l’istituzione permanente di percorsi di aggiornamento e formativi abilitanti. Si entra anche nel merito delle modalità dell’insegnamento linguistico indirizzando verso l’apprendimento veicolare integrato delle lingue e con un esplicito riferimento alla modalità CLIL-Content and Language Integrated Learning (Marsch/Wolff 2007).

3 Tra norma e prassi Le scuole del Friuli sono oggi impegnate a strutturare l’insegnamento/apprendimento della lingua friulana sulla base del Piano applicativo di sistema per l’insegnamento

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della lingua friulana (PAS 2012) che implementa la norma regionale. Il documento individua e detta le linee di indirizzo e i traguardi formativi per i diversi gradi dell’istruzione fino alla scuola secondaria di secondo grado, correlandoli agli obiettivi formativi generali di ciascun segmento scolastico, e fornisce le indicazioni per la programmazione e l’organizzazione dell’attività didattica con la lingua friulana. Le scuole dell’infanzia sono indirizzate a privilegiare esperienze comunicative e relazionali di natura ludica e ad adottare la modalità dell’immersione nella lingua che accompagna l’agire per conoscere. Si richiama la loro attenzione a curare la percezione e la produzione dei tratti prosodici della lingua minoritaria e ad adottare nelle attività didattiche la varietà in uso nella comunità locale. L’uso veicolare del friulano comune anche nella sua forma scritta costituisce il traguardo finale per la scuola primaria, dove si prevede di poter sviluppare la competenza nella lingua locale anche con modalità CLIL, in un processo educativo che supporta la pluralità linguistica. Alla scuola secondaria di primo grado si affida il compito di arricchire la competenza scritta della lingua comune attraverso la produzione di testi di tipo diverso e di promuovere la competenza metalinguistica con la riflessione sulle forme sintattiche, esplorando l’etimologia delle parole e istituendo confronti formali con l’italiano e le altre lingue insegnate/apprese. Nell’ottica del documento, fin dalla scuola dell’infanzia la lingua friulana va a comporsi nel curricolo come componente fondamentale della competenza plurilingue. La sua presenza è intesa a promuovere un percorso educativo che sviluppa competenze linguistiche e comunicative nella lingua locale e competenze interculturali e di cittadinanza attraverso il riconoscimento e la sperimentazione della pluralità linguistica; a potenziare la consapevolezza degli usi funzionali delle lingue e l’integrazione dei codici nella comunicazione; a sostenere lo sviluppo della consapevolezza della propria lingua e l’individuazione delle differenze e delle integrazioni culturali tra la lingua materna e le lingue apprese. In altre parole la prospettiva educativa che si configura «individua nel plurilinguismo la dimensione organizzativa e metodologico-didattica che risponde al riconoscimento della specificità della realtà culturale, sociale e linguistica della comunità territoriale […] contesto privilegiato di ricerca educativa che il sistema scolastico declina mediante l’assunzione del modello pluri/interlinguistico e pluri/interculturale» (DPR n. 204/Pres 2011, art. 6).

Dall’anno scolastico 2012/2013 le disposizioni regionali appena citate sono implementate nel sistema scolastico locale. Per offrire l’insegnamento della lingua friulana, le scuole ricevono dalla Regione un sostegno finanziario che copre la remunerazione dei docenti che svolgono l’attività didattica in ore aggiuntive al loro normale carico di lavoro e degli insegnanti impegnati nell’organizzazione e nel coordinamento dell’attività stessa (referenti d’Istituto). Il finanziamento sostiene inoltre le spese amministrative e di funzionamento e quelle per l’acquisizione di materiali e sussidi didattici necessari all’attività educativa in friulano.

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3.1 Gli apprendenti Le classi o gruppi di allievi della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado dedicano all’apprendimento della lingua friulana non meno di 30 ore annuali, programmate nell’orario curricolare complessivo. Le attività coinvolgono gli allievi che al momento dell’iscrizione in ciascun grado scolastico scelgono questo percorso formativo. Dal 2010 la percentuale degli allievi che partecipano alle attività in lingua friulana è attestata intorno al 60% della popolazione scolastica delle tre Province friulanofone, ma varia nell’ambito delle singole Province ed è diversamente distribuita nei tre segmenti scolastici. I dati relativi all’anno scolastico 2012/2013 mostrano che la percentuale più alta di adesioni all’insegnamento della lingua friulana – 74% – riguarda la Provincia di Udine, seguono la Provincia di Pordenone con il 57% e quella di Gorizia con il 55% (USR 2013). Il numero più elevato di alunni si riscontra nella scuola primaria dove è pari al 52,9%; segue la scuola dell’infanzia con il 27,7% e la secondaria di primo grado con il 19,2%. Il grado di competenza nella lingua friulana di bambini e ragazzi è molto diversificato, variando da quello dei nativi e parlanti abituali la lingua minoritaria a quello di coloro che la lingua minoritaria la incontrano raramente, in contesti extrafamiliari. Altrettanto diversificato è il repertorio linguistico-comunicativo degli allievi. Accanto ad alunni pressoché monolingui italiani sono numerosi gli scolari che nell’ambito familiare usano quotidianamente «lingue di migrazione» (Coste et al. 2010) europee o extraeuropee. Secondo i dati comunicati dalle Autorità scolastiche locali e centrali, oltre il 10% degli alunni delle scuole friulane provengono da famiglie migranti (USR 2011; MIUR 2013). Non vi sono dati aggiornati e specifici che traccino un quadro organico della competenza nella lingua friulana posseduta dagli alunni. L’ampia ricerca condotta all’inizio del Duemila (Schiavi Fachin 2004) metteva in evidenza che per oltre il 65% degli allievi l’italiano era la lingua usata fin dalla nascita nell’interazione con i genitori; per il 16% lo erano l’italiano e il friulano; per meno del 20% il friulano. Dati più recenti rilevati in ricerche e documentazioni inerenti a percorsi didattici in lingua friulana realizzati in diverse scuole (Burelli 2012a; Fusco 2012), attestano che per la maggior parte dei bambini e dei ragazzi il friulano non è la prima lingua ma resta un codice comunicativo ben presente e usato con/tra gli interlocutori e nei contesti sociali più prossimi (famiglia, gruppi amicali, associazioni sportive), sicché la maggior parte degli scolari e studenti ne ha almeno competenza ricettiva.

3.2 Gli insegnanti In tutti i gradi scolastici l’insegnamento della lingua friulana è svolto da docenti iscritti nell’Elenco regionale degli insegnanti con competenze riconosciute per l’insegnamento della lingua friulana. Istituito nel 2011 e aggiornato annualmente, l’Elenco include i nominativi degli insegnanti già in servizio nelle scuole o inseriti nelle

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graduatorie provinciali o d’Istituto, che autocertificano di possedere le competenze nella lingua friulana attestate da almeno uno tra i titoli culturali, professionali e scientifici individuati dall’Ufficio Scolastico Regionale. Tra i primi sono ritenuti probanti corsi post-laurea su lingua e cultura friulane; corsi di laurea (compreso quello che dà l’accesso all’insegnamento) nel cui piano di studi sia compreso almeno un esame di lingua e cultura friulana e specifici percorsi formativi di lingua e cultura friulana organizzati dalle Università o da enti culturali, enti locali, istituzioni scolastiche o agenzie formative del territorio. Come titoli professionali utili all’iscrizione vengono individuate le esperienze in qualità di docente di lingua e cultura friulana nelle scuole della regione, svolte negli ultimi cinque anni; attività di coordinamento di rete di istituti scolastici nell’ambito della lingua e della cultura friulana; esperienze in qualità di formatore di lingua e cultura friulana nell’ambito educativo in corsi attivati da Enti, Agenzie e Istituzioni. Infine, costituiscono titolo scientifico valido pubblicazioni a stampa, ricerche e articoli su riviste specializzate in lingua friulana o relativi alla lingua e alla cultura friulana; tesi di laurea su lingua e cultura friulana; documentazione didattica riguardante le esperienze di lingua e cultura friulana ovvero «materiale grigio» inteso come raccolta di produzioni realizzate nell’ambito dell’attività didattica di insegnamento del friulano (DDC 159/IST/2011, art.3). L’iscrizione all’Elenco è volontaria ed è condizione necessaria per svolgere l’insegnamento della lingua minoritaria nel quadro della normativa regionale; non comporta però l’obbligo di aderire alla richiesta della propria o di altre scuole di impartire l’insegnamento. Suddiviso in settori corrispondenti ai gradi d’istruzione, per l’anno scolastico 2013/2014 l’Elenco assomma 1.350 nominativi di insegnanti e rappresenta una risorsa a disposizione delle scuole che non dispongono di docenti con le competenze richieste, per trovarne di disponibili tra gli iscritti di altre scuole. Ciò che va sottolineato è che, data l’ampia gamma e la significativa diversità dei titoli che danno accesso all’Elenco, i docenti iscritti non possiedono tutti una stessa o specifica qualificazione, ma competenze linguistiche, culturali e glottodidattiche di grado anche sensibilmente diverso.

3.3 La didattica linguistica L’insegnamento della lingua friulana configura un quadro variegato di applicazione delle disposizioni legislative in vigore, in cui accanto a esperienze con caratteristiche di innovatività riconosciute a livello nazionale si collocano percorsi didattici più tradizionali e comuni. Percorrendo le progettazioni delle scuole dell’infanzia e dell’obbligo disponibili in rete e analizzando la documentazione di specifiche esperienze scolastiche appaiono formalmente condivise alcune opzioni educative di fondo: l’affermazione del valore formativo, accanto a quello strumentale, dell’introduzione e dell’uso scolastico della lingua minoritaria; la scelta di percorsi educativi trasversali rispetto alle discipline e la valorizzazione dell’unitarietà della conoscenza; la consa-

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pevolezza del legame inscindibile che vincola le conoscenze linguistiche alla dimensione interculturale; l’orientamento all’insegnamento integrato di lingua italiana, lingua/e minoritaria/e, lingua/e comunitaria/e; la sensibilità per le lingue non curricolari parlate dagli allievi; l’importanza del ruolo e del coinvolgimento del contesto in cui la scuola opera nelle scelte scolastiche a favore del plurilinguismo. Soprattutto in alcune iniziative sperimentali (Rete Sentieri 2010; AghisLab 2011; Burelli 2012a; Fusco 2012) si dà forma a un processo educativo che non settorializza la lingua friulana, ma la integra in modo significativo e coerente con le altre «lingue di scolarizzazione» (Beacco et al. 2010) per promuovere e sviluppare il plurilinguismo nativo e valorizzare la diversità a partire da quella linguistica: un processo che sostiene la costruzione identitaria degli allievi promuovendo la padronanza della lingua principale dell’educazione scolastica e facendo emergere e sviluppando la competenza nella lingua friulana, in un quadro di valorizzazione della pluralità delle lingue e dei discorsi di cui bambini e ragazzi sono portatori. Nelle classi sempre più eterogenee, comuni a tutte le scuole dell’infanzia e primarie, il friulano è usato come lingua veicolare prevalentemente per attività educative content-based (Lyster 2007), strutturate in percorsi tematici disciplinari o interdisciplinari in cui ha spazio l’alternanza linguistica (Dodman 2003) come risorsa didattica per gestire la comunicazione tra allievi e insegnanti. Sul versante delle strategie didattiche ha larga diffusione il lavoro tra pari in gruppi eterogenei. Adottando tale modalità organizzativa gli insegnanti mirano a creare le condizioni per un apprendimento centrato sulla partecipazione e la comunicazione, capace di sostenere lo sviluppo della competenza linguistica e delle capacità cognitive contestualmente alla maturazione della responsabilità individuale rispetto al compito da svolgere e all’assimilazione delle norme che regolano la vita sociale. Con l’obiettivo di favorire lo sviluppo linguistico integrato con la costruzione delle conoscenze, le attività sono spesso associate all’uso delle tecnologie multimediali, per altro ampiamente utilizzate per pubblicare in rete la documentazione dei percorsi didattici e le produzioni – testi narrativi e poetici; giochi; esperimenti scientifici; studi storici, ambientali e sociali – degli allievi. L’attenzione speciale rivolta a individuare strategie didattiche in grado di gestire in modo produttivo i diversi livelli di competenza linguistico-culturale degli allievi si concretizza spesso in esperienze inquadrabili come project work (Richard/Rodgers 2001; Fried-Booth 2002). In questi casi si evidenzia un più forte legame con il contesto sociale e ambientale in cui vivono gli alunni. In esso vengono individuati temi e argomenti che gli allievi trasformano in contenuto di studio e di ricerca e che elaborano creativamente per restituirli alla comunità attraverso un prodotto: una pubblicazione – come già accennato – una manifestazione, un evento. Più spesso il prodotto è rappresentato da cartelloni e tabelloni nati per sostenere il processo educativo, ma che, esposti in luoghi accessibili agli utenti del servizio, permettono di dare informazioni anche al di fuori del gruppo di lavoro e di visualizzare in modo efficace gli argomenti su cui si è lavorato, come ci si è organizzati, le cose fatte e quelle che si

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pensa si potrebbero fare. In molte scuole la scelta di offrire l’insegnamento della lingua friulana attraverso progetti strutturati o semi-strutturati è funzionale alla collocazione del monte ore previsto dalla norma, in un determinato periodo o momento dell’anno scolastico. Dettata da ragioni organizzative diverse, talvolta questa opzione evidenzia ricadute non pienamente positive sull’integrazione curricolare dell’apprendimento della lingua locale. Principalmente dal 2008, quando l’annuale nota ministeriale (MIUR 2008) ha introdotto nella valutazione dei progetti linee di indirizzo, criteri e priorità che sollecitavano e privilegiavano l’adozione di modalità didattiche CLIL nell’insegnamento delle lingue minoritarie, le scuole friulane vanno indirizzando la loro attenzione all’implementazione di questo approccio. L’impegno degli insegnanti ha trovato aiuto nel corso di questi anni in alcuni progetti di ricerca sostenuti dal Ministero (Perini/ Senesi 2012), dall’Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane – ARLeF (Cantarutti 2011; Burelli 2012a; Burelli 2012b) e dall’Amministrazione Regionale (Burelli 2011; Fusco 2012). Questi ultimi, in particolare, nel focalizzare l’attenzione sull’approccio CLIL ne promuovono e valorizzano le potenzialità nella progettazione e nella pratica didattica caratterizzata dalla compresenza di più lingue e dalla loro alternanza nell’attività educativa, e ne pongono in rilievo lo specifico contributo all’educazione plurilingue. Le esperienze in questione, sviluppate con la finalità di sperimentare modelli educativo-didattici trasferibili, si offrono come esempi concreti di insegnamento della lingua friulana appropriati a bisogni linguistici e culturali di diversi contesti scolastici: scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, in una prospettiva longitudinale. Ogni realtà sperimentale declina con originalità il comune assunto che la lingua minoritaria è originale realizzazione della facoltà del linguaggio e una realtà individuale e sociale dinamica e composita alla pari dell’italiano e delle lingue straniere che innervano il curricolo scolastico. Su questa base ogni scuola sperimenta una didattica linguistica integrata in cui friulano, italiano e lingua straniera concorrono a una formazione linguistico-comunicativa intesa come processo unitario e continuo, in cui ogni lingua dialoga con le altre e ne favorisce la conoscenza e in cui tutte contribuiscono a sviluppare la consapevolezza linguistica e la riflessione sul funzionamento delle lingue. In buona parte delle scuole, tuttavia, permane la difficoltà ad assumere effettivamente in un unico quadro d’insieme friulano, italiano e lingua/e straniera/e come «lingue dell’educazione». Prevale piuttosto la preoccupazione del raggiungimento di standard di apprendimento linguistico nella prima lingua di scolarizzazione sulla presa in carico e traduzione in azione didattica della situazione linguistica e culturale contestuale, che il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (Council of Europe 2001) e successivi importanti documenti europei (Beacco 2007; Beacco et al. 2010) pongono alla base dell’educazione plurilingue e interculturale.

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3.4 I materiali didattici È prassi diffusa tra i docenti di lingua friulana elaborare, individualmente o in collaborazione con i colleghi, gran parte dei materiali con cui promuovere e sviluppare le attività linguistiche in classe. Da alcuni insegnanti quest’impegno è considerato essenzialmente una necessità data dalla carenza di materiali strutturati, adeguati a sostenere e a potenziare da un lato l’insegnamento/apprendimento della lingua, dall’altro il suo uso nelle attività di carattere disciplinare. Per la maggior parte dei docenti, invece, si lega soprattutto alla scelta di adeguare l’insegnamento alla conoscenza o percezione dei livelli di competenza e dei bisogni linguistici degli allievi. Molti di questi materiali autoprodotti compaiono nelle documentazioni dell’attività didattica svolta. Risulta quindi possibile osservare che per l’insegnamento/apprendimento del friulano gli insegnanti elaborano una ricca varietà di supporti didattici: schemi originali utili a sviluppare e verificare la comprensione di testi orali e scritti, la competenza lessicale e quelle morfologica, sintattica e ortografica; attività esercitative modellate su proposte formulate per l’insegnamento delle lingue straniere; schemi di ricerca strutturati in analogia con quelli utilizzati in altre attività di studio; testi – prevalentemente informativi e narrativi – di supporto agli argomenti di studio, tradotti e/o adattati dall’italiano; testi originali di diverso tipo, ideati ed elaborati per e con gli alunni. Taluni di questi materiali entrano anche in lavori di sintesi dei percorsi didattici, pubblicati a cura delle scuole o degli enti locali ma di solito la loro diffusione rimane circoscritta all’ambito scolastico – alunni, docenti, genitori, autorità di riferimento – in cui sono nati. La diffusione e la distribuzione dei prodotti editoriali costituiscono, infatti, un problema che riguarda non solo i materiali didattici editi dalle scuole, ma anche l’ampia serie di pubblicazioni che enti e istituzioni hanno promosso e sostenuto nel corso degli ultimi decenni e, nondimeno, le proposte degli editori locali intese a soddisfare esigenze culturali e didattiche di bambini e ragazzi in età scolare (Burelli 1998; 2003). Un’articolata serie di materiali didattici comprendente volumi a stampa accompagnati da supporto sonoro o diapositive, videonarrazioni e una serie di fascicoli operativi, è stata pubblicata fin dalla seconda metà degli anni Ottanta nell’ambito del «Progetto di educazione bilingue friulano-italiano in alcune scuole materne della Provincia di Udine» (Schiavi Fachin 1991; 1998; Burelli 1996; 2001). Si tratta di materiali coordinati con le attività educative curricolari previste nella scuola dell’infanzia, pensati per permettere ai bambini di maturare la competenza nella lingua nativa e sviluppare il proprio repertorio plurilingue. I testi e le attività proposti, mentre promuovono la consapevolezza della lingua friulana, dei suoi usi e della sua diversità interna rappresentati dall’asse dei registri e da quello delle varietà diatopiche, diventano occasione di incontro e confronto con altre lingue dell’esperienza scolastica, sociale e culturale attraverso la traduzione in altre lingue, minoritarie e di ampia diffusione, posta a fronte o collocata in fascicoli allegati. Buona parte dei testi raccolti in questi materiali è originale, ma numerosi sono anche quelli tratti dal

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patrimonio linguistico e culturale friulano, scelti in funzione degli obiettivi linguistico-comunicativi ma anche in quanto capaci di far risaltare la storia, la tradizione, il processo di stratificazione della lingua, le sue potenzialità creative e di invenzione. Ogni materiale contiene puntuali annotazioni glottodidattiche che evidenziano i contenuti linguistico-comunicativi – forme, funzioni, abilità – e suggeriscono possibili integrazioni e sviluppi delle diverse attività in esso contenute. Nell’ambito del citato progetto di ricerca, accanto ai materiali utilizzabili con gli allievi è stato predisposto un repertorio nozionale-funzionale del friulano (Burelli/ Nicoloso 1987), redatto sul modello dei «livelli soglia» promossi dal Consiglio d’Europa (www.coe.int/LANG) e conosciuto come «Nivel soiâr». Elaborato prioritariamente per dotare gli insegnanti sperimentatori di uno strumento descrittivo della comunicazione verbale con cui analizzare il friulano usato nelle attività educative, il repertorio è stato distribuito anche ai docenti che hanno partecipato alle iniziative formative dell’Università friulana, chiedendo loro di verificarne l’adeguatezza attraverso il lavoro svolto nelle classi; è stato quindi rivisto più volte, ma non è ancora stato pubblicato. È stata invece pubblicata una raccolta di pacchetti didattici (Schiavi Fachin/Kersevan 2002) in cui i principi sottesi all’insieme di materiali fin qui ricordati si riflettono nella scelta dell’«unità tematica» quale modalità didattica che tiene presente e fa emergere la connessione profonda tra significato e forme linguistiche e tra valore comunicativo e strutture della lingua. Promossa e sostenuta dal Consorzio Universitario del Friuli, tra il 2003 e il 2008 è stata prodotta e distribuita alle scuole una serie di materiali che sviluppano in lingua friulana argomenti disciplinari compresi nei curricoli dei diversi gradi scolastici (Marangon 2011). Alcune pubblicazioni destinate alla scuola primaria tematizzano il Friuli nello studio di specifici periodi storici e nella conoscenza degli ambienti naturali fisici e antropici, proponendo testi e attività nati dalla collaborazione tra ricercatori dell’ateneo udinese e un gruppo di insegnanti formatisi all’ateneo friulano e in possesso di una significativa esperienza di insegnamento della lingua minoritaria. Ognuna consta di un volume bilingue friulano-italiano in cui sono raccolti i materiali di studio e di un fascicolo operativo solo in friulano, in cui compaiono attività ed esercizi per il consolidamento e la rielaborazione delle conoscenze acquisite. Altri materiali pensati per la scuola primaria propongono giochi ed esperimenti di fisica in friulano, mentre alcune pubblicazioni dedicate ai bambini della scuola dell’infanzia affrontano argomenti di ambito naturalistico e altre destinate alla scuola secondaria di primo grado sviluppano argomenti storici. Nel quadro dell’impegno pluriennale del Consorzio Universitario del Friuli, si colloca anche la traduzione in friulano del Common European Framework of Reference for Languages e la sua pubblicazione nel 2004 (Council of Europe 2004). I docenti di friulano hanno dunque a disposizione l’importante documento europeo nella lingua che insegnano, vale a dire l’opportunità di rilevare la consonanza di principi, obiettivi e metodologie dell’insegnamento della lingua minoritaria con quello delle lingue moderne di più ampia diffusione, nonché dispongono di un essenziale strumento per la concettualizzazione

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della competenza comunicativa plurilingue, la progettazione di curricoli plurilingui e dei sillabi linguistici, l’adozione di metodologie opportunamente situate. Anche questo materiale è stato distribuito a tutte le scuole dell’area friulanofona. Un ragguardevole numero di opere e materiali in lingua friulana per la scuola rientra nell’attività editoriale dalla Società Filologica Friulana. La gamma di queste pubblicazioni va dai tradizionali libri scolastici-sussidio per imparare a leggere e a scrivere a raccolte di fiabe e racconti della tradizione popolare; da narrazioni elaborate da bambini e insegnanti a un annuale diario scolastico; dalla versione in friulano di cartoons prodotti in altre lingue ad antologie di testi della letteratura friulana, a traduzioni di opere della letteratura europea. A essi si aggiungono reference work storici e di più recente pubblicazione: studi di linguistica friulana, volumi di storia locale, compendi di storia della letteratura friulana, grammatiche del friulano, nonché Il Nuovo Pirona (Pirona/Carletti/Corgnali 21992), il vocabolario friulano più noto. Il più recente supporto linguistico di questo genere è invece il dizionario bilingue italiano-friulano (CFL 2000 2011), redatto in grafia ufficiale, pubblicato dall’ARLeF e consultabile anche online nel sito dell’Agjenzie. L’Organismo regionale ha pubblicato inoltre un documento in cui si forniscono precise indicazioni in merito a finalità, obiettivi e modelli organizzativi per l’insegnamento del friulano (OLF 2004) e sostiene, ormai da quindici anni, la pubblicazione del mensile per bambini e ragazzi Alc&Cè (www.lavitacattolica.it), un fascicoletto denso di giochi di tipo enigmistico, testi descrittivi, fumetti e altre proposte testuali e operative, che viene distribuito in allegato ai settimanali delle diocesi del Friuli e spedito a tutte le scuole. Quanto detto fin qui permette di cogliere l’esistenza di una significativa varietà e di una discreta quantità di materiali didattici e di pubblicazioni utilizzabili nelle attività educative, cui si aggiungono alcune produzioni di carattere più prettamente glottodidattico che forniscono esempi prototipici di modalità di lavoro. Ciò che una più puntuale analisi lascia intravedere è tuttavia un sensibile disequilibrio per quanto riguarda i destinatari delle pubblicazioni didattiche, poiché la maggior parte di esse è rivolta ai bambini della scuola primaria e dell’infanzia e solo un esiguo numero guarda ai bisogni scolastici degli adolescenti.

4 La formazione degli insegnanti di lingua friulana Nel determinare la varietà delle esperienze e dei percorsi educativo-didattici in lingua friulana di cui si è detto poco sopra, hanno parte certamente il contesto sociolinguistico e culturale in cui opera ogni scuola e le risorse finanziarie di cui essa può disporre, ma un’importanza fondamentale e un ruolo decisivo li riveste la preparazione culturale e professionale degli insegnanti. Spetta ai docenti il compito ed è loro la responsabilità di progettare le attività di lingua friulana collocandole nel quadro curricolare in termini di obiettivi di apprendimento, intersezioni disciplinari, tempi, risorse e materiali, modalità organizzative, strategie e tecniche didattiche. L’insegna-

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mento strutturato del friulano pone l’insegnante di fronte a un compito nuovo e impegnativo che è quello di doversi confrontare con nuove modalità d’uso e funzioni di una lingua usata prevalentemente in ambito familiare e privato, di rafforzare la propria competenza sulla lingua e sull’uso della grafia (OLF 2003) spesso ancora non consolidate e di ricercare e sperimentare adeguate strategie didattiche e comunicative. Si tratta di un compito e di responsabilità per i quali è necessaria una formazione professionale pluridimensionale e prospettica che le ricerche di settore più recenti collocano in una configurazione più complessa che in passato, che supera una sua concezione come insieme di abilità e di pratiche didattiche e una sua interpretazione come training e si ridefinisce come education. In tal senso la formazione si specifica in strumenti e situazioni con cui l’allievo-insegnante entra in contatto e che elabora attraverso il personale modo di conoscere, le conoscenze, gli atteggiamenti, le credenze e le esperienze che lo contraddistinguono e che dovrebbero permettergli di maturare come attore autonomo e responsabile dell’insegnamento linguistico, in contesti culturali e sociali diversi connotati sempre più come realtà multilingui (Tsui 2011). La normativa statale prevede che a organizzare l’insegnamento della lingua minoritaria/friulana siano «docenti qualificati» (Legge 482/99, art. 4), ma a livello ministeriale non si è ancora provveduto a definire quel «quadro specifico di riferimento» annuale, nell’ambito del quale «le istituzioni universitarie e scolastiche prevedono percorsi formativi specifici per insegnanti, interpreti e traduttori e le istituzioni universitarie attivano corsi universitari di lingua e cultura delle minoranze linguistiche» (DPR 345/01, art. 3). Anche la norma regionale affida a docenti qualificati l’insegnamento della lingua friulana stabilendo come requisito la certificazione della competenza linguistica. Per la loro formazione prevede che la Regione collabori e stipuli convenzioni con le Università del territorio regionale «per l’istituzione permanente di percorsi di aggiornamento e formativi abilitanti, comprensivi di azioni per la formazione iniziale e in servizio, per la scuola di specializzazione, per corsi di master e di dottorato di ricerca, per l’insegnamento o l’uso della lingua friulana» secondo quanto previsto dalla Legge 482/1999. Tra il 1999 e il 2010 l’Università di Udine ha dato risposta ai bisogni di formazione degli insegnanti di friulano con una nutrita serie di attività iscrivibili in due tipologie: da un lato corsi di alfabetizzazione linguistica, indirizzati a rafforzare le competenze della lingua friulana scritta, nodo critico per lo svolgimento di attività didattiche in lingua friulana rilevato da indagini (Petris 2006) e segnalato dagli stessi insegnanti; dall’altro percorsi di formazione e aggiornamento metodologico, linguistico e culturale, configurati, fino al 2004, essenzialmente come laboratori con ampio spazio dedicato alla progettazione di percorsi didattici, alla realizzazione di attività linguistiche in friulano nelle classi e alla preparazione di materiali didattici (De Agostini 2008). Nell’anno accademico 2004/2005, in collaborazione con il Consorzio Universitario del Friuli, la Regione Friuli Venezia Giulia e l’Ufficio Scolastico Regionale, è stato realizzato il «Corso di aggiornamento per insegnanti di lingua minoritaria: friulano, slove-

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no, tedesco» articolato in moduli formativi di 400 ore per ciascuna lingua minoritaria, sviluppato con lezioni frontali, laboratori, tirocini per un totale di 35 crediti formativi universitari (Burelli 2009). Un percorso di formazione più articolato e complesso è stato realizzato nel biennio 2007–2009 con l’attivazione del «Master di II livello/Corso di aggiornamento Insegnare in lingua friulana» disegnato per gli insegnanti delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado. L’attività formativa ha articolato gli strumenti concettuali elaborati dalla ricerca scientifica internazionale sul bi- e plurilinguismo, all’interno di un percorso critico mirato a suggerire riflessioni e correzioni, a prefigurare cambiamenti e trasformazioni, a sviluppare capacità di scelta, lucidità, coerenza e adattamento continuo all’esigenza che la società attuale, locale e globale, impone anche agli insegnanti (Albarea 2004, 20). Si è guardato agli studi che rileggono assunzioni teoriche e pratiche largamente diffuse dell’educazione bi- e plurilingue. Si sono analizzate visioni più complesse del plurilinguismo individuale e sociale, che mettono in discussione l’assunto da García denominato monoglossic belief (García 2009) e studi che gettano nuova luce sul comportamento linguistico di chi usa più di una lingua (Cook 2002; Kramsch 2009). Si sono introdotte conoscenza e opportunità di riflessione anche per rapportarsi criticamente al quadro teorico del bilinguismo additivo e ai modelli di mantenimento e arricchimento linguistico che mirano a sviluppare il bi- e plurilinguismo degli allievi secondo due o più norme, due o più standard monolingui. Il progetto formativo ha coniugato la proposta dello European Profile for Language Teacher Education (Kelly/Grenfell 2004) con i bisogni formativi manifestati dagli insegnanti di lingua friulana nei precedenti percorsi realizzati dall’Università di Udine e rilevati anche in ricerche internazionali sulla formazione degli insegnanti che operano in aree plurilingui con presenza di lingua minoritaria (Rasom/Capriata 2007): l’acquisizione di competenze negli ambiti della lingua e della cultura friulane, della didattica delle lingue, dell’educazione plurilingue, dell’elaborazione di strumenti e materiali didattici anche multimediali, della politica linguistica e della relativa normativa scolastica. Le attività formative sono state strutturate in lezioni e in laboratori inerenti alle tre aree: linguistica, della cultura e metodologico-didattica. In quest’ultima ci si è soffermati in particolare sull’insegnamento del «friulano seconda lingua» e del «friulano lingua delle discipline» nell’approccio CLIL. La proposta complessiva ha configurato un’approfondita analisi della valenza formativa dell’apprendimento di una lingua altra, sia pure una lingua regionale, «che abitua al cambiamento perché la realtà linguistica e culturale a cui ci si accosta è una realtà vivente in continua evoluzione che obbliga a mettere continuamente in dubbio le proprie convinzioni, i propri abiti mentali, i propri saperi» (Calasso 1989, 125). L’approccio adottato in entrambi i percorsi ha promosso nei partecipanti un processo continuo di riflessione (reflective model, Wallace 1991) sulle conoscenze assunte e sull’esperienza professionale acquisita nello svolgimento della pratica. Con questa modalità, opportunamente calibrata su contesti di ricerca-azione, i ricercatori dell’Ateneo friulano interessati all’insegnamento della lingua friulana collaborano

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anche oggi con numerose scuole e lavorano accanto a insegnanti che si rivolgono loro sia per acquisire conoscenze di carattere teorico sui processi di sviluppo della competenza linguistica nei soggetti plurilingui, sia per programmare il percorso didattico da realizzare con gli alunni. La collaborazione assume forma diversa: alcuni incontri in cui i ricercatori aiutano l’insegnante/gli insegnanti a individuare e definire modello organizzativo, contenuti di conoscenza e modalità glottodidattiche con cui avviare l’attività didattica in friulano in una singola scuola o in gruppo di scuole; cicli di seminari su aspetti dell’apprendimento bilingue e sull’insegnamento delle lingue in età precoce, con una discussione dell’esperienza in atto o delle forme organizzative da porre in atto nelle realtà scolastiche interessate; progettazione condivisa delle attività e seminari periodici di programmazione e verifica delle attività avviate; suggerimenti per l’edizione dei materiali didattici e di documentazione del percorso educativo in lingua friulana, realizzato autonomamente dalle scuole. Un «Master di II livello/Corso di aggiornamento» indirizzato a formare gli insegnanti di tutte le lingue minoritarie ammesse a tutela dalla Legge 482/99 era stato programmato dal MIUR nel 2010, ma non è mai stato avviato. L’iniziativa si sarebbe dovuta realizzare con attività online e in presenza, in collaborazione con le Università delle Regioni in cui sono insediate le minoranze linguistiche. Nell’ambito della formazione in servizio degli insegnanti di lingua friulana va ricordata l’attività svolta dalla Società Filologica Friulana «Graziadio Isaia Ascoli», storico ente culturale udinese, fondato nel 1919. A partire dall’anno scolastico 1949– 1950, «la Filologica» organizza annualmente corsi di aggiornamento per i docenti, finalizzati a far conoscere la specifica realtà culturale friulana. L’attività è strutturata in cicli di lezioni con le quali la Società intende «fornire informazioni fondamentali sulle caratteristiche della lingua friulana, della storia delle arti plastiche e figurative in Friuli, sulle espressioni più significative della letteratura e delle vicende storiche friulane, anche attraverso l’ausilio di mezzi audiovisivi; indicare e fornire strumenti per una lettura del territorio (bibliografia, ‹piste› di ricerca); presentare alcune esperienze scolastiche in proposito, attraverso testimonianze scritte o riferite dai conduttori del corso e dai corsisti» (www.filologicafriulana.it).

Nel corso degli anni, numerosissimi insegnanti hanno frequentato questi corsi e da essi hanno tratto spunti e suggerimenti per le attività didattiche di lingua e cultura friulana. Da tale lunga esperienza sono nati anche testi divenuti ormai classici manuali di lingua friulana (Marchetti 1953), di storia del Friuli (Menis 1969), di letteratura friulana (Virgili 1968) e hanno tratto spunto numerose pubblicazioni per la scuola.

5 Lingua friulana, ricerca, alta formazione Delle due Università presenti in Friuli Venezia Giulia, quella di Udine porta iscritto nell’atto istitutivo «l’obiettivo di contribuire al progresso civile, sociale e alla nascita

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economica del Friuli e di divenire organico strumento di sviluppo e di rinnovamento dei filoni originali della cultura, della lingua, delle tradizioni e della storia del Friuli» (Legge 546/1977, art. 26). A questo compito l’Ateneo risponde con l’impegno dei suoi docenti e ricercatori a tradurre in conoscenza la realtà del territorio e della società friulani, a riversare i saperi acquisiti nella vita culturale, sociale ed economica locale e a rendere il Friuli partecipe dello sviluppo della conoscenza scientifica internazionale. Due sue strutture di ricerca in particolare guardano alla realtà plurilingue del Friuli: il Centro internazionale sul plurilinguismo (CIP) e il Centro interdipartimentale di ricerca sulla cultura e la lingua del Friuli (CIRF). Il CIP è una struttura scientifica speciale, attivata nel 1993 con lo scopo di promuovere la ricerca e coordinare la raccolta di dati per favorire lo scambio di informazioni e di esperienze relative al tema del plurilinguismo in ambito internazionale. Il Centro è impegnato in una funzione di stimolo e coordinamento di ricerche sul plurilinguismo riguardanti il Friuli e le aree correlate con la speciale collocazione geopolitica della Regione Friuli Venezia Giulia. L’attività scientifica si avvale della collaborazione di oltre cinquanta studiosi, tra ricercatori e docenti dell’ateneo udinese e di altre istituzioni scientifiche italiane e straniere. Una specifica linea di ricerca focalizza il ruolo del plurilinguismo nella formazione e nell’attività didattica e si propone di individuare e definire le metodologie didattiche che avvicinino il mondo della scuola, gli operatori culturali e in generale l’opinione pubblica alla dimensione plurilingue e pluriculturale del mondo contemporaneo. In questo settore recentemente sono stati realizzati due progetti di ricerca già citati (Fogar 2011; Fusco 2012), che hanno coinvolto diverse scuole della regione con l’obiettivo di promuovere e sperimentare modalità di educazione plurilingue nelle lingue native, seconde e straniere. Il CIRF è stato fondato nel 1995 quale struttura di coordinamento tra docenti e ricercatori dell’Università di Udine interessati a sviluppare ricerche sulla cultura e la lingua del Friuli. Aperto anche a esperti di altre università italiane e straniere e a studiosi non accademici conta oggi più di sessanta collaboratori scientifici. Fin dalla sua istituzione il CIRF promuove e sviluppa ricerche e pubblica lavori su temi linguistici, letterari, storici e sociali, inerenti il Friuli e l’emigrazione friulana in Europa e in contesto extraeuropeo (Rizzolatti 2013). Attualmente ha in corso programmi di studio inerenti il friulano e le sue varietà, l’archiviazione di documenti della tradizione orale e di scrittura popolare del Friuli, il fenomeno storico e sociale dell’emigrazione friulana, l’analisi letteraria di opere di autrici d’oltreoceano di origine friulana, l’insegnamento del friulano con la modalità CLIL nella scuola superiore, indagini sociolinguistiche. Accanto all’impegno scientifico il CIRF realizza un’importante attività di sostegno all’uso della lingua friulana nella comunicazione istituzionale (Finco/Montico 2010). A tale scopo collabora con le strutture interne dell’Ateneo nella formazione linguistica in friulano del personale, organizza corsi di lingua friulana per dipendenti degli enti locali e svolge attività di consulenza per diverse Istituzioni del territorio. Un’ulteriore importante azione realizzata nel decennio scorso è rappresentata da alcune innovative campagne di promozione della lingua friulana all’interno dell’ate-

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neo e nel territorio delle Province di Gorizia, Pordenone e Udine (De Agostini/Picco 2007; Picco 2013). Sul versante della formazione accademica, l’Università di Udine a tutt’oggi garantisce agli studenti la possibilità di acquisire conoscenze sulla lingua e la cultura friulane con una serie di insegnamenti presenti nei corsi di studio di Scienze della formazione primaria, Mediazione culturale e Lingue e letterature straniere. Gli iscritti al Corso di laurea di Scienze della formazione primaria, fino all’anno accademico 2013/2014, hanno potuto scegliere uno specifico «Orientamento» comprensivo di discipline teoriche e teorico-pratiche – Letteratura friulana, Linguistica friulana, Didattica della lingua friulana, Antropologia e storia del Friuli, Laboratorio della lingua friulana, Neurolinguistica del plurilinguismo – che forniva conoscenze culturali e professionali di base per insegnare la lingua friulana nelle scuole dell’infanzia e primarie. Numerosi studenti che hanno frequentato questi corsi hanno scelto poi di svolgere il tirocinio accanto a insegnanti che realizzavano percorsi didattici di/in friulano e hanno elaborato quell’esperienza nella loro tesi di laurea. Dal canto loro, gli studenti di Mediazione culturale e di Lingue e letterature straniere interessati ad acquisire competenze anche di lingua e cultura friulane possono scegliere di frequentare le lezioni di Lingua e letteratura friulana, Lingua e cultura friulana e di Linguistica friulana impartite al Dipartimento di Lingue e letterature straniere. L’inclusione di queste discipline nel curricolo di studi accademici permette a tutti questi studenti, una volta conseguito il titolo di laurea che dà accesso all’insegnamento ed entrati nella scuola, di chiedere l’iscrizione all’Elenco regionale dei docenti di lingua friulana. Proprio l’accesso all’Elenco regionale degli insegnanti di lingua friulana non avallato da alcun titolo certo e uguale per tutti, ma affidato unicamente a generiche «competenze nella lingua friulana acquisite secondo quanto stabilito dall’Ufficio Scolastico Regionale, che individua i titoli necessari» (DPR 204/Pres. 2011) evidenzia l’aspetto oggi più problematico dell’insegnamento scolastico della lingua friulana. L’introduzione generalizzata dell’insegnamento del friulano nelle scuole dell’infanzia e primarie crea grandi aspettative in coloro che da sempre ne sono fautori ed è oggetto di forte attenzione critica da parte di chi non condivide l’impegno della scuola in tal senso. La dimostrazione della validità di questa scelta culturale ed educativa poggia in misura determinante sulla qualità delle attività che le scuole sono in grado di proporre e realizzare, sulla qualità dell’insegnamento. Come già ricordato, studi internazionali e documenti europei (Kelly/Grenfell 2004; Beacco 2007; Diadori 2010) indicano la formazione del docente di lingua nativa/seconda/straniera quale fattore cruciale per realizzare un insegnamento linguistico qualitativamente valido e coerente con i principi dell’educazione plurilingue: formazione che si declina in un’adeguata competenza linguistica, una solida competenza glottodidattica, articolate competenze culturali e specifiche competenze professionali. Ciò non può non valere per l’insegnamento della lingua friulana. Appare dunque di fondamentale importanza dar corso a una formazione che tocchi tutti gli insegnanti di lingua friulana; che li

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prepari a insegnare in un contesto locale sempre più multiculturale e nel quale la lingua friulana rappresenta un valore identitario ampiamente condiviso, da salvaguardare e consegnare alle giovani generazioni; che fornisca strumenti concettuali e pratiche con cui provvedere ai bisogni individuali di alunni plurilingui; che sviluppi le abilità e le conoscenze necessarie per cooperare efficacemente con i vari partecipanti al progetto educativo. Tale formazione richiede di sciogliere il nodo cruciale della certificazione linguistica con cui garantire il possesso di un’adeguata e sicura conoscenza della lingua anche nelle sue varianti territoriali e della grafia ufficiale, e di identificare e verificare le competenze didattiche ritenute qualificanti. Le modalità formative adottate in contesti plurilingui internazionali e nazionali offrono concreti e validi modelli con cui confrontarsi. Non di meno è opportuno attingere all’intensa e originale esperienza formativa espressa negli anni dall’Università del Friuli e ai risultati di ricerca educativa e didattica nel campo dell’educazione plurilingue con le lingue di minoranza qui raggiunti in collaborazione con le scuole, all’interno di progetti locali, nazionali e internazionali. Gli uni e gli altri presentano quadri teorici e pratiche di sicura utilità per strutturare e implementare le azioni di formazione iniziale e continua dei docenti di lingua friulana, indispensabili per promuovere e garantire la qualità del processo educativo nelle scuole del Friuli e per sostenere una politica linguistica intesa come progetto coerente, di alto profilo, capace di raccogliere un comune sentire sociale e di riorientarlo verso obiettivi di sviluppo.

6 Bibliografia AghisLab 2011 = AghisLAB. Progetto sullo studio della lingua e della cultura della minoranza friulana, http://www.aghislab.it/index.php/it/ (19.12.2013). Albarea, Roberto (2004), Dal senso comune alla ricerca di senso: una via per la formazione, in: Roberto Albarea/Pier Giuseppe Rossi (edd.), Percorsi in Formazione, Udine, Forum, 15–21. Beacco, Jean-Claude (ed.) (2007), From Linguistic Diversity to Plurilingual Education. Guide for the Development of Language Education Policies in Europe, Council of Europe, http://www.coe.int/ (17.7.2013). Beacco, Jean-Claude, et al. (2010), Guide for the development and implementation of curricula for plurilingual and intercultural education, Council of Europe, http://www.coe.int/ (17.7.2013). Burelli, Alessandra (1996), Educazione bilingue nelle scuole del Friuli, in: Silvana Schiavi Fachin (ed.), Activity Packs for Language Teachers, Udine, Kappa Vu, 81–100. Burelli, Alessandra (1998), Materiali didattici per l’insegnamento bilingue precoce, in: Joaquim Arnau/Josep Maria Artigal (edd.), Immersion Programmes: a European Perspective, Barcellona, Universitat de Barcelona, 582–593. Burelli, Alessandra (2001), Bilinguismo scolastico in Friuli, in: Maria Giacin Chiades (ed.), Utilizzo di codici materni in comunità multilingui, Dosson de Casier, Canova, 19–30. Burelli, Alessandra (2003), Materiali didattici per l’educazione plurilingue: l’esperienza friulana, in: Silvana Schiavi Fachin (ed.), L’educazione plurilingue, Udine, Forum, 167–177. Burelli, Alessandra (2009), Friulano a scuola. Esperienze didattiche e di formazione degli insegnanti, in: Maria Vittoria Migaleddu/Loredana Rosenkranz/Salvatore Sfoldello (edd.), Limbas e culturas de minoria, Sassari, Editrice Democratica Sarda, 161–179.

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Indice – A finale (cf. anche vocalismo) 33–35, 38, 46, 50, 77, 117–119, 126, 146, 151, 164, 177, 193, 202, 234s., 308, 348, 376s., 401 accomodazione 339, 356 accordo – debole femminile 409 – del participio 129, 408s. acquisizione della lingua (acquisition planning) 505 adattamento (lessicale) 30, 421 affricata postalveolare 173s., 562 affricate – affricate dentali 38, 145s., 151, 238, 380–382, 385 – affricate palatali (anche: postalveo-palatali) 38, 50, 151, 202, 239, 268, 347, 380–382 agiotoponimi 434 Agjenzie regjonâl pe lenghe furlane (ARLeF) 31, 91, 480, 484s., 487, 505, 530, 537–539, 543, 545–547, 550, 554, 585, 588 agricoltori 80, 344s. AIS 5–7, 66, 156–158, 192, 346s. ALD 157s., 189–192 ALF 156 ALI 5–7, 157, 168, 183, 192, 254 «Alpenromanisch» 61s. amfizona/anfizona 1, 58s., 68, 198–200, 309, 311, 320 analogia 122, 204, 235s., 239s., 372, 395, 401, 403 antroponimi – cristiani 440 – germanici 81, 147, 150, 280–282, 285s., 442s., 447 – latini 440 – letterari 443s. – slavi 443, 447 – tedeschi 286 Aquileia 23–25, 27s., 38, 61, 63, 67, 73–76, 80, 82, 84, 116s., 137, 150, 159s., 198, 221, 226–228, 276, 282, 284, 317–319, 323, 414s., 417, 419, 430s., 437, 440, 447, 541 aranese 495, 497–501, 507 Archivio Glottologico Italiano 138 aree (anche: isole) alloglotte 4, 7, 12, 89s., 434s., 455–458 aree (anche: zone) plurilingui 434

Argentina 87, 341s., 360, 456, 560 articolo – definito 119, 129, 394s., 398, 410 – indefinito 119, 394s., 410 Arzino 159, 164, 174 Ascoli, Graziadio Isaia 1s., 5–7, 37, 42, 45, 47, 52, 57–69, 87, 97–101, 115, 117, 138, 155, 188s., 198–200, 222, 229–236, 247, 302, 305s., 320, 322, 348. asìno 168, 367, 370, 385 ASLEF 6–8, 11, 37, 111, 157s., 163s., 168, 179, 183, 192, 254, 348, 413, 419 asturiano 495, 497–501, 507 atlanti linguistici 155–157, 179, 183, 254, 528 «Ausländerdeutsch» 355, 357 Austria 86, 227, 248, 251s., 289, 291, 324, 340, 345, 417, 431s. autovalutazione 355, 458 Avari 27, 79, 279 avverbi 96, 102, 152, 265s., 308, 348, 395, 416, 422–425, 522, 561 Barcis 28, 278, 290, 346, 385, 417 basco 493, 506–508 Battisti, Carlo 2, 58, 62–67, 189, 194, 228, 275 bavarese 62, 64, 248, 284, 287–289, 291, 354s., 358, 447, 457, 463, 494 Baviera 324, 338–340, 343, 353, 355s., 358, 441, 453, 456 Belgio 341, 456 Bellunesi 344s., 347, 351 Belluno 61, 80, 84, 87, 192, 196, 203, 323, 345s., 556 Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine 98, 100, 106s., 138–143, 439 bilinguismo 4, 24, 73, 78, 83, 89, 96, 248, 262, 277, 351, 419, 469, 555, 560, 590 biografia linguistica 353, 358 bisiaco/bisiacco 6, 187, 194–198, 247, 305, 309, 334, 415, 457 boscaioli 87, 290, 340, 344, 346 Brasile 341, 456 Breasta 345–347, 351 Bucarest 344s., 351 caduta vocali finali (cf. anche vocalismo) 33, 117, 119s., 123, 126s., 391, 401

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Indice

calchi 216, 261, 263, 266, 359, 557, 560 cambiamento di specificativo (nei toponimi ufficiali) 436 Canada 87, 341, 360, 560 Carnia 38s., 75, 118–120, 124, 146, 170, 190, 216, 287, 289s., 299, 340, 353, 369, 376, 379, 383, 387, 394, 400, 403, 410, 429s., 434, 436, 463, 467, 470 Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie 476, 479, 481s., 484, 538, 578 cassano 187s., 191–193 Casso 159, 188, 192s. castelli 29, 80, 284s., 433 Cellina 75, 159, 168, 177, 189, 202, 373, 385 certificazione linguistica 485, 538, 543, 550, 589, 594 Cervignano 29, 89, 160, 198, 213s., 216, 221, 285, 309, 334, 436 Ceschia, Adriano 31, 480, 518, 524–527 cimbro 494s., 497–501, 507 Civica Biblioteca Glemonense «V. Baldissera» 144, 147 Cividale del Friuli (cf. anche Forum Iulii/Forum Julii) 22, 25, 74, 77s., 80, 84, 89, 115–119, 128, 136s., 139, 141s., 151, 173, 213, 277, 281s., 284–286, 297, 301, 317, 332, 345, 414, 420, 430, 432, 435, 440 cjargnel 182, 446 Clape Culturâl Acuilee 515s., 524 clitici – soggetto 37s., 46, 51, 131s., 179, 202, 205, 213, 237, 240, 260, 301, 331, 348, 396–398, 403–408 – oggetto 121, 125s., 129, 131, 133, 146, 259, 396, 398, 403–408 Codroipo 27, 30, 82, 142, 213, 285, 431, 434, 436s. cognomen 440 cognomi 29, 81, 117, 121, 124, 280s., 285s., 325, 424, 438s., 442, 445–448 Colonia Caroya 341 colonie di immigranti 87, 344, 350 comparto radiotelevisivo 558, 563, 566, 571 competenze linguistiche 338, 355, 538, 543, 581, 583 composizione (cf. anche formazione delle parole) 425, 522 Concilio di Trento 445

Concordia (cf. anche Iulia Concordia) 25, 38, 74, 159, 200, 414s., 430, 484 congiunzioni 124, 129, 132, 133, 261, 266, 348, 407, 561 consonantismo 34s., 38, 97, 99, 120–124, 190, 193, 196, 234, 239, 311, 378–387 contatto linguistico 4, 12, 22, 32, 75, 78, 198, 220, 256s., 320, 334, 416 Convenzione quadro sulla protezione delle minoranze nazionali 476, 484 Cormons 75, 80, 160, 198, 221, 304, 309, 345s., 376, 433, 436 corpus planning (cf. anche normativizzazione) 507, 534 Costituzione italiana 90, 479, 481, 483, 489s., 535s. Craiova 345–347, 351 cramârs 339s. dativo di vantaggio 151 De vulgari eloquentia 22, 229, 322 declinazione bicasuale 6, 36, 43, 392 Degano 159, 447 denominazione ufficiale 436, 485 desonorizzazione 33, 46, 174, 368 dialettali dialetto/dialetti (anche: varietà, parlate, gruppo) – gallo-italici 41, 43, 65 – ladini 57s., 60s. – settentrionali 46, 49, 396s., 406, 409 – sloveni 7, 252–254, 264, 267, 471, 478 – veneti 5, 166, 179, 196–198, 203, 282, 407, 418 – «sbagliato» 352 – carnico 346, 352 – centro-orientale 5s., 26, 33, 37, 161, 167, 176s., 180, 182, 202, 228, 346, 353, 415, 421 – meridionale 38, 161, 196, 228, 348, 405 – occidentale 5–7, 26, 33, 37s., 60, 77, 86, 120, 124, 150, 158, 161, 166–168, 170, 176s., 180, 182, 189–191, 193, 198s., 201–204, 218, 228, 233, 236–238, 242, 298, 310, 346–349, 352–353, 367, 370s., 373, 375s., 379, 385, 388, 391, 393s., 396, 398, 401, 403, 406, 415, 419, 421 dialettologia 1, 5–7, 13, 105, 158, 182s., 253, 268 dialettometria 68, 158, 183

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dittongazione 5, 50, 60, 120, 146, 149, 151, 190, 193, 201s., 233, 322 dittongo – ascendente 169, 171, 234 – discendente 166–168 dizionari 8–13, 31, 95, 99, 106–111, 140, 143s., 254, 256, 413, 421, 500s., 521, 523–530, 546–550, 588 – Dizionario storico friulano 11, 143s., 413 Dobrugia 87, 345, 347 educazione plurilingue 213, 585, 590, 592–594 Edwards, John 492s., 497 EGIDS 495–497, 502, 506 elaborazione 1, 4s., 11s., 57, 66, 69, 230, 343, 356, 360, 533–550, 553–555, 557s., 564, 570 emigrazione – a catena 343 – definitiva 341s. – dei cervelli 360 – di massa 340, 342 – europea 86, 339–342 – extraeuropea 339–342, 560 – individuale 353, 358 – stagionale 87, 290, 340s., 417s. – temporanea 339, 341 enti locali 480, 483–485, 487, 489, 536, 540, 542, 560, 568, 576, 583, 586, 592 ertano 6, 159, 168–171, 187–193, 198s., 322, 385 Erto 159, 188–193, 233, 322, 379, 383, 386 Euromosaic 458, 502–504 Fameis furlanis 342s., 558 fascia di transizione veneto-friulana (anche: friulano-veneta) 6, 187, 189–191, 198–205, 221, 309, 320, 334, 383, 385 Fella 159, 161, 376, 382, 463 Fishman, Joshua 494s., 535 Fogolârs furlans 342s., 354, 358, 558 fonetica 4s., 7, 12, 38, 62, 75s., 98s., 116, 127, 164, 232–235, 241, 258, 306, 347s., 367–387, 435, 446, 534, 561s. fonologia 4s., 30, 32–36, 101, 115–124, 146, 149, 151, 158, 164–176, 183, 194s., 232–235, 303, 308, 318, 332, 367–388, 435, 533, 561 formazione degli insegnanti 91, 588–591

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formazione – del plurale 2, 6, 36, 43, 47, 99, 176, 193, 204, 242, 311, 392–394 – della lingua 21–32 – delle parole (cf. anche composizione) 5, 11, 237, 304, 390, 421–426 fornaciai 290, 339s. fornese 161, 167, 170, 383 Forum Iulii/Forum Julii (cf. anche Cividale) 22, 25, 74, 77, 79, 159, 277, 317, 319, 414, 416, 430, 432 Franchi 27, 78s., 277, 279s., 320, 442 Francia 45s., 64, 320, 323, 341, 360, 403, 429s., 447, 456, 467, 492s., 497 franconismi 276 frasi interrogative (inversione interrogativa) 37, 51, 133, 179, 194, 205, 236, 240, 301, 304, 321, 405s. frasi (anche: enunciati, proposizioni) relative 129, 131–133, 237, 407s., 561, 563 «Fremdarbeiter» 341 fricative (cf. anche spiranti, consonantismo) 171, 174, 202s., 268, 302, 304, 311, 347, 383, 385 – fricativa dentale 174, 268, 383, 385 Frisanco 346, 385 frisone 507s. friulano antico 36, 115–133, 136–152, 230, 236, 299, 393, 402s., 423s. – carnico 5s., 10, 38, 77, 86, 108, 158, 160s., 164, 166s., 176s., 179s., 182, 288, 339, 346, 352, 367s., 370s., 376, 378s., 383, 385, 387s., 391s., 399s., 402s., 415, 421, 563 – centrale 1, 6, 10, 34, 36, 38, 86, 101, 111, 165, 168, 172, 179, 190s., 212, 221, 242, 367–369, 374–379, 381, 385, 388, 393, 397s., 400, 402, 424, 522, 565 – centrorientale 5s., 26, 33, 37, 161, 167, 176s., 180, 182, 202, 228, 346, 353, 415, 421 – occidentale 5–7, 26, 33, 37s., 60, 77, 86, 120, 124, 150, 158, 161, 166–168, 170, 176s., 180, 182, 189–191, 193, 198s., 201–204, 218, 228, 233, 236–238, 242, 298, 310, 346–349, 352–353, 367, 370s., 373, 375s., 379, 385, 388, 391, 393s., 396, 398, 401, 403, 406, 415, 419, 421 – orientale 101, 158, 393, 401 funzione comunicativa 355, 462, 468, 577

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galiziano 495, 497–507 Galli Carni 23, 414, 429 Gallia Cisalpina 27 galloromanzo 46s., 49s., 51, 59, 125, 388, 451 Gartner, Theodor 1s., 60s., 63, 69, 99, 188, 275 Gemona del Friuli 24, 28, 75, 116, 128, 137, 139, 141s., 147, 150, 277, 281s., 284s., 299, 326s., 371, 431, 433–436, 442 generazione migratoria 338 genere – grammaticale 11, 36, 125, 202, 240, 258, 390s., 396s., 423, 528 – naturale 36 geotipo 63, 67s., 322s. Germania 84, 290, 340–342, 353, 357, 417 germanismi/germanesimi 417, 29s., 60, 77, 256, 274–292, 414, 416–418 GIDS 494s. giornalismo 222, 554s., 557, 559, 571 Gorizia 30, 38, 82–85, 89, 100s., 106, 159s., 179, 194, 198, 210s., 213, 220–223, 239, 245, 283, 298, 300, 304s., 309, 328, 333s., 345s., 348, 419, 432, 437, 455–459, 461, 463, 478, 513, 535, 540, 558, 576, 579, 582, 593 goriziano 2, 5s., 10, 29, 38, 86, 88, 100, 106s., 168, 221, 233, 236, 287–292, 367, 375s., 385 gortano 6, 161, 167s., 198, 376 Gorto 38, 376, 384, 429 Goti 22, 27s., 78s., 277 gotismi 276, 416s. Governo italiano 481, 487 Gradisca 30, 83, 157, 213, 221, 248, 309, 346, 432 grafia – «reintegracionista» 507 – ufficiale 5, 11, 13, 233, 404, 480s., 481, 484, 507, 513, 515, 517–522, 526, 528s., 540s., 547, 549, 556, 569s., 588, 594 grammaticografia Greci 345s., 348–350 gruppo consonantico debole 169s. IARI 157 iato 166–168, 190, 239, 323 Il Diari 505, 528, 544, 556s., 566, 571 influenza romena 349 inglese 107, 354s., 509, 549, 558, 567

innovazione 8, 29, 33–35, 46, 52, 63, 66s., 76, 126s., 209, 216, 220, 228, 238, 256–260, 304, 323, 334, 356, 523, 525 insegnamento – della lingua friulana 460, 475, 481s., 485–487, 489, 534, 541–543, 576–594 insegnanti di lingua friulana 577, 588–594 integrazione linguistica 338, 358 interferenza 199, 216, 221, 223, 253, 257s., 266, 308, 310, 311, 350, 353, 362 – fonologica 257s., 561 – lessicale 299, 356, 358s., 561 – linguistica 253, 267 – morfologica 358s., 561 – morfosintattica 258–260, 561 – sintattica 261, 356, 358s., 561 internet 505, 526, 544, 559s., 567–570 intonazione 388 ipocoristici 147, 443, 447 Ișalnița 345, 351 isoglossa 7, 35, 43, 157, 161, 163–183, 193 isole alloglotte, cf. aree alloglotte Isonzo 24, 28, 30, 75, 85, 101, 157, 159s., 194, 220s., 228, 250, 287, 298, 307, 309, 333s., 436 istriano 197, 220, 228s., 231–233 istroromanzo 41, 44s., 47–53 italianismi 125, 132, 147, 303, 342, 348, 420s., 524, 527, 563s., 569 italianizzazione – di cognomi 447 – di toponimi 437 Iulia Concordia (cf. anche Concordia) 25, 430 Iulium Carnicum/Julium Carnicum (cf. anche Zuglio) 25, 38, 61, 74, 159s., 414, 430s. Lamuela, Xavier 480, 516–523, 525, 540 language awareness 353, 358s. laterale (cf. anche consonantismo) 146, 174, 247, 257, 262, 385, 387, 393 latinità aquileiese 8, 23–27, 61, 76–78, 194, 276s., 317s., 332, 414s. latinizzazione 25, 76, 414 latino – aquileiese cf. latinità aquileiese – volgare 33, 62, 165–169, 228, 233 lealtà linguistica 307, 355 legge Tobler-Mussafia 131, 146

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legge regionale 15/96 13, 479–481, 483s., 517, 521, 536–538, 540, 542, 549, 556, 578 legge regionale 29/2007 480, 483–490, 521, 579s. legge 482/1999 13, 90, 94, 250, 301, 312, 470, 478–482, 484s., 488s., 495, 506, 535, 538s., 542, 545, 556, 558, 578s., 589, 591 lenizione 33, 46, 50, 147, 213, 218, 264, 304, 321, 329, 331, 368 lessicografia 8–11, 90, 93, 97, 103–111, 511, 523–528, 546–550 Lewis, Paul 494–497 lingua/lingue – alloctona 354, 357 – autoctona 194, 228, 308, 312, 353, 359, 456s. – dell’Istria 333 – franca 220, 227, 238, 316 – materna 82, 85, 201, 267, 299, 343, 350, 495, 581 – minoritaria 13, 212, 230, 250, 454, 462, 475–479, 481–484, 488, 492–509, 534, 536, 538s., 541s., 545, 553, 558s., 567s., 575, 577–587, 589–591 – regionali 301, 476–478, 479, 481s., 484, 492–509, 536, 538, 578, 590 – ufficiali 477, 493, 500 liquida (cf. anche consonantismo) 34, 146, 165, 167s., 201, 232, 234, 257, 262, 370s. Longobardi 22s., 27s., 34, 78s., 82, 277–279, 317–320, 417, 431, 434 longobardismi 276–279, 416s. lunghezza vocalica (cf. anche quantità vocalica, vocali brevi, vocali lunghe) 60, 65, 68, 120, 166, 196, 201, 203, 278, 298, 367–374, 419 madrelingua cf. lingua materna Mandamento di Portogruaro (Veneto) 310, 384 Maniago 24, 84, 216, 219, 282, 302, 346, 348, 430, 435 Marchetti, Giuseppe 2, 31, 76, 102s., 139, 211, 275, 348, 400, 413s., 421s., 424s., 513–515, 523 mass media 455, 476s., 494, 496, 535, 544s., 553–571 Meduna 159, 177, 199, 202, 367, 385 migrazione interna 216, 340s. milanese 492–509

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minoranze linguistiche 90, 94, 213, 250, 454, 462, 470, 475–479, 481, 484, 489, 502, 535, 571, 575, 578s., 589, 591 modalità didattiche (anche: formative, glottodidattiche) 576, 578, 580s., 585, 587, 591s., 594 modello di immersione bilingue (two way/dual language o bilingual immersion) 506 modello linguistico 301, 304, 323, 332, 546, 563s., 567, 570 monottongazione 146, 233, 251, 264 morfologia 1s., 4, 6, 38s., 98, 101, 421, 430, 443, 446, 520–523, 529, 533s., 561 – nominale 38s., 124–126, 146, 149, 151, 176s., 190s., 193, 197, 202, 218, 235s., 240, 308, 311, 348, 390–398 – verbale 39, 44s., 126–128, 146, 149, 151, 177s., 190s., 193, 197, 202, 204s., 218, 235–237, 240, 304, 311, 348, 371s., 398–403 morfosintassi 2s., 5, 36s., 164, 237, 308, 561 Muggia 87, 195, 226–232, 234, 239, 242, 297, 302, 303, 333, 457 muggesano (friulano), cf. muglisano muggesano (veneto) 302–305 muglisano 1, 8, 87, 87, 142, 226–237, 241s., 302 muta cum liquida 34, 146, 201, 232, 234, 370s. Necrologium Aquileiense 440, 443 neologismi 4, 10, 31s., 85, 107, 283, 299, 420, 425, 526, 548s., 558 nomen (gentilicium) 430 nomen unicum 439s., 445 Nordamerica 87, 340 norma linguistica 533s., 553, 558, 569 normalizzazione linguistica (cf. anche status planning, corpus planning) 2, 11, 502, 505–507, 511–530, 546, 562, 570, 578 normativizzazione (cf. anche corpus planning) 507 numerali 37, 99, 265 nuovi media 355, 360, 567–570 Nuovo Pirona (cf. anche Pirona) 8–11, 109s., 138, 140, 268, 344, 413, 513s., 523, 547, 588 occlusive (cf. anche consonantismo) 35, 38, 98, 120, 123, 171–174, 202s., 216, 234, 268, 312, 369s., 378–380, 382, 385, 513

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– palatali 38, 171–173, 202, 216, 369 – prepalatali 50, 257, 347 oggetto – diretto 37, 51, 125, 129, 396s., 407s. – indiretto 37, 51, 125, 129, 197, 396s. onomastica 143s., 147, 149s., 281, 428–448 Osservatorio della lingua e della cultura friulane (OLF) 2, 31, 91, 480s., 523, 526s., 536–538, 546s. Ostrogoti 77, 277 paesaggio linguistico 455, 507–509 palatalizzazione 3, 5, 35s., 38, 43, 46–48, 50s., 60s., 65, 68, 75, 105, 117s., 120–125, 193, 195s., 201–204, 229, 232, 234, 236, 284, 321, 325, 328, 384, 387, 392, 396, 421, 513, 562 Paleoveneti (cf. anche Venetici) 23 Palmanova 27, 32, 82, 84, 89, 196, 198, 213s., 221, 297, 301, 309, 332, 436s., 463 paracadutismo linguistico 239, 305, 332s. Patriarcato di Aquileia 23, 27, 63, 80, 82, 84, 137, 192, 220, 227, 280, 282, 318s., 417 periodici 69, 88, 544, 549, 554–558, 562, 568, 571 Pesariis 346 pianificazione linguistica 461, 487, 494, 504, 505, 507, 511, 526, 533–550 Piano – Generale di Politica Linguistica 487, 537, 539s., 550, 559 – Speciale di Politica Linguistica 487, 540 Piave 159, 188s., 192, 317 Pirona (cf. anche Nuovo Pirona) 9s., 98–101, 107, 109s., 116, 131, 512, 522 plurale 2, 6, 35–38, 43, 46–48, 50, 60, 99, 118, 124s., 145s., 168, 174, 176, 191, 193, 197, 202–204, 232, 235, 242, 311s., 330, 349, 369, 381, 384, 390s., 392–394, 409, 423, 426, 516, 561s. – palatale 6, 36, 43, 47s., 50, 118, 204, 235s., 392–394 – sigmatico 6, 35s., 46s., 50, 203s., 232, 235, 311s., 328, 369, 381, 384, 392s., 409, 516, 561s. plurilinguismo – medievale 317–333 – urbano 209–223 polimorfia toponimica 284, 435

Pontebba 248s., 283, 346, 434, 478 Pordenone 38, 84, 89, 159, 200, 210s., 215, 217–219, 23, 297, 299–302, 311, 320, 330–332, 345, 353, 433, 437, 456s., 463, 468, 478, 540, 546, 558, 576, 579, 582, 593 portata comunicativa 339, 354s. praenomen 440 prefissazione 265, 424s. prenomi 439–445, 447 preposizioni 96, 119, 124, 126, 129, 131, 146, 197, 259, 261, 308, 325, 330, 348, 394–396, 406, 408, 410, 528, 561, 563 prestiti linguistici 9, 30s., 48, 76, 79, 81, 83, 85, 88s., 108, 121, 193, 195–197, 202, 216, 241, 254–257, 261–266, 274–292, 298s., 325, 359, 369, 381, 385, 391, 399, 415–422, 560–562 Prima Guerra Mondiale 80, 84, 88s., 100, 110s., 198, 221, 290, 340s., 344, 436s., 456 profilo linguistico 7, 12, 306 programmi radiotelevisivi 481, 505, 544s., 558–560, 563s. pronomi 37–39, 44, 47s., 51, 60s., 96–100, 100, 121s., 125s., 130–133, 146, 149, 151, 179, 190s., 193, 202, 239s., 253, 259s., 304, 321, 348, 383, 390, 395–398, 403s., 406, 408s., 530, 563 – clitici 37–39, 51, 121, 125s., 146, 179, 193, 239s., 253, 259s., 321, 348, 383, 390, 396–398, 403s., 406, 408 – clitici soggetto 37–39, 51, 179, 193, 240, 253, 259s., 321, 348, 390, 396–398, 404, 406 – liberi 37, 47se., 51, 60s., 100, 125s., 190s., 202, 235, 259s., 396, 404 – personali 37–39, 47s., 51, 60s., 97, 99, 100, 130s., 146, 190s., 202, 240, 253, 259s., 321, 396–398, 390, 404, 406, 408 – soggetto 37–39 44, 47, 60s., 125, 130–132, 190s., 193, 202, 240, 253, 259s., 321, 348, 390, 396–398, 404, 406 prosodia (cf. anche intonazione) 387s. purismo 11, 102 quantità vocalica (cf. lunghezza vocalica) questione ladina 1–4, 7, 41, 43, 57–69 quotidianità comunicativa 354s., 357 Radio Onde Furlane 506s., 544, 557, 559–561, 566

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Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Registro battesimale di Gemona 442 relativo – invariabile 149, 151 – variabile 146 repertorio linguistico 32, 209–212, 214s., 219s., 222s., 296s., 301–303, 305, 310–312, 357, 462–464, 467–472, 533, 560, 577, 582, 586 Repubblica di Venezia 73, 80, 83, 137, 214, 276, 282, 286, 296, 298, 300s. Repubblica italiana 90, 94, 454, 468, 481 retoromanzo 1, 44, 49, 60–63, 65, 68, 99, 344 richieste dei genitori 482, 579 Romani (anche: coloni, cittadini romani) 22s., 74s., 318s., 414, 430 romeno 4, 6, 43–45, 47–52, 344, 347–352 rotica (cf. anche consonantismo) 164, 164, 387 Saggi ladini 1, 7, 37, 57, 155, 231s. San Daniele del Friuli 141, 287, 385, 436, 463 scala UNESCO 492, 495–502, 506 scalpellini 340, 344s. scempiamento 33, 35, 321 schedario – onomastico di G.B. Corgnali 439s. – toponomastico di G.B. Corgnali 428 scritturalità 355s., 557s., 561, 568, 570 seconda generazione 347, 350s., 353, 356 Seconda Guerra Mondiale 90, 156, 283, 345, 350 selezione dell’ausiliare 408s. sibilante (cf. anche consonantismo) 50, 50, 172, 174, 202, 204, 235, 258, 262, 268, 325, 383–385, 393, 562 sicament (cf. anche consonantismo) 173 sintassi 1s., 4s., 101, 119, 129–133,146, 149, 179, 183, 194, 213, 218, 240, 260–262, 301, 304, 334, 403–410, 533s., 561 sistema (anche: grafia) Faggin 507, 515s. sistema fonetico (anche: fonetico-fonologico) 44, 347, 349, 393 slavismi 24, 29, 83, 197s., 274, 304, 419 sloveno 7s., 14, 30, 80, 83, 85, 89s., 100, 107, 121, 127, 146s., 157, 194, 197, 220–223, 245–268, 274, 283, 291s., 297, 303, 305, 308, 333–335, 381, 418s., 429, 432, 434, 436s., 443, 447, 455, 457, 461, 463, 470–472, 478, 484, 492, 535, 545, 559, 567s.

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social media 567 Società Filologica Friulana/Societât Filologjiche Furlane 2, 6, 12, 89, 91, 101s., 105, 110, 116, 138s., 141, 143, 158, 296, 342s., 428, 481, 511, 513–518, 523s., 526, 529, 540, 544, 546, 554, 556s., 565, 588, 591 sonorizzazione 33, 35, 174, 193, 383 soprannomi 17, 147, 240, 439, 443, 446–448 – di casato 439, 446–448 – personali 439, 447s. sostrato 3, 24, 33, 48s., 62s., 66, 75, 215, 217, 226, 229, 238–240, 251, 264, 297, 304, 334, 414 specificativi di toponimi 437s. Spilimbergo 28–30, 81, 89, 142, 213, 219, 285, 297, 301s., 328, 332, 357, 432s., 437 spiranti (cf. fricative, consonantismo) standardizzazione 1, 11, 57, 413, 511–529, 540–541, 554 – grafica (anche: della grafia) 511–520, 540–541 – grammaticale (anche: morfologica) 520–523 – lessicale 413, 523–528 Stati Uniti 340s. status planning (cf. anche normalizzazione linguistica) 505, 534 stereometrico 44s. storia – del Friuli 74, 79, 90, 142, 213, 330, 591–593 – del lessico 413–421 – della lingua 4, 73–91, 115–133, 138, 143s., 274 – linguistica – esterna 4, 73–91 – interna 4, 115–133 stracognon 439, 448 struttura della frase 130–133, 404–408 Sudamerica 87, 341 suffissazione 259, 263s., 422–424 suffissi negli antroponimi 442s., 446s. Svizzera 158, 341, 343, 414, 492, 495, 558 Tagliamento 24, 37, 75, 77, 82, 84, 159–161, 167, 171, 182, 200, 202s., 218s., 285, 302, 310, 320, 328, 346, 358, 367s., 370, 376s., 382, 385, 405, 434, 436–438, 463, 467, 484 Talieni 345, 351 tedeschismi 29, 83, 88, 198, 254, 263, 275, 282–292, 304, 414, 416–418

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Televisión de Galicia (RTVG) 506s. tempi bicomposti 128, 399s. tergestino 1, 87, 142, 195, 198, 226–237, 240–242, 247, 297, 302–304 terrazzieri 341 terza generazione 350s. test di grammaticalità 353, 358s. Tolmezzo 139, 142, 159, 161, 172s., 216, 284, 332, 385, 431, 434 toponimi – celtici 24, 75, 429s. – germanici 28, 78s., 277–280, 431s. – latini 430s. – prediali 24, 430, 435 – slavi 27, 30, 83, 419, 432s. – stradali 431s. – tedeschi 80s., 284s., 433s. toponomastica 1, 12s., 23s., 28, 30, 63, 78–83, 91, 143s., 197, 229, 275, 277–280, 284s., 408, 415–417, 419, 428–438, 478, 480, 485, 536, 546 Toscana 29, 110, 323, 327 toscano 14, 34, 51s., 85s., 104, 108, 128, 137, 238, 299, 320s., 323–332, 423 tosco-veneto 84s., 94, 137, 141, 325, 328–331 trasmissione della lingua 356, 360, 470, 495, 498, 502, 541 Treviso 116, 196, 299, 309, 320–323, 330 Tricesimo 139, 141–143, 381s., 430 Trieste 52, 84, 87, 89, 187, 195, 210, 214, 220, 226–232, 234, 237–239, 242, 245, 251, 297, 302–305, 308, 328, 333, 457, 461, 463, 484 triestino 4, 87, 193, 195–198, 214s., 220–223, 226s., 230–232, 236–242, 247, 290s., 297s., 302–305, 307–309, 333s., 353, 564 tutela delle minoranze 94, 470, 475–490, 535s., 575, 578s. Udine 13, 26, 28, 30s., 38, 80, 83s., 86s., 89s., 98, 100, 103–108, 110, 116, 119, 125, 132, 137–143, 159–161, 164, 172s., 175, 187, 196, 198s., 210–219, 221, 223, 238, 245, 247, 250, 277, 281, 287, 297–300, 321, 323, 326s., 330, 332, 345, 353, 357, 369, 375, 377, 379, 382, 393s., 396, 402, 431, 433, 438s., 443, 455s., 459, 463, 467, 470, 472, 478, 480, 484, 508, 516, 520, 522, 524, 526, 529s., 535, 540, 543, 546, 549,

555, 558, 560, 563, 566, 568, 576–579, 582, 586, 589–593 Ufficio scolastico regionale per il Friuli Venezia Giulia 486, 542, 579, 583, 589, 593 Ungari 27, 29s., 79, 83, 279 Ungheria 340, 417, 441 Unione europea 475, 477, 484, 578, 580 usi pubblici 31, 482, 485 Vajont 159, 188s., 191, 560 Vâlcea 345s. Venetia et Histria 22, 25, 226 Venetici 23, 74 venetismi 10, 125, 234, 298s., 329, 419–421, 524 veneto 4–9, 12–14, 27, 30, 41, 46s., 51s., 58, 63–66, 68, 84–89, 94, 97s., 106, 118, 121–123, 125, 137, 141, 159, 166, 168, 179, 187–204, 211, 213–223, 226–232, 234–241, 245, 247s., 253–255, 260, 262, 283, 288–290, 296–312, 316–323, 325, 328– 334, 341, 376, 382s., 385, 401, 403, 406–408, 414s., 418–422, 424, 432, 434–436, 455–457, 460, 462–464, 467–469, 484, 497 – (anche: veneziano) coloniale 84, 187, 195s., 198, 200, 213s., 218, 226–228, 237s., 247, 297–305, 332s., 419s., 455–457 – di contatto 187, 198–205, 297s., 301, 309–312 – lagunare 187, 306, 317–320, 322s. – paracadutato 218, 220, 298, 300 Venezia 9, 28, 73, 80, 83–87, 137, 150, 196, 199, 201, 209, 214, 217, 226s., 238–240, 248, 276, 282, 286, 296–302, 308–310, 316s., 322s., 327s., 332s., 419s., 435, 456, 463, 484 Veneziano (cf. anche veneto) 87, 118, 193s., 196, 198–200, 203, 213, 215, 217–219, 227, 229–231, 233s., 236–240, 242, 296–306, 308, 310, 316s., 320, 323, 329s., 332–334, 381, 419s., 423, 455, 457, 463 – coloniale cf. veneto (anche: veneziano) coloniale – de là da mar 238, 297, 333 – paracadutato 332, 334 Venzone 138s., 141, 143, 284s., 379, 385, 433s. verbo analitico 149, 416 vibrante uvulare (cf. anche consonantismo) 164, 257, 268, 387

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vitalità linguistica 59, 91, 223, 298, 303, 307s., 333, 465, 492–504 vocali – alte 120, 166, 204, 374s., 367, 377 – basse 119s., 165s., 367 – d’appoggio 34, 118, 126, 189, 191, 193, 370, 372, 375 – finali 33, 46, 117–120, 123, 126, 193, 202, 239, 308, 329, 370, 375s., 394, 398, 436 – in posizione debole 55, 171, 190, 202s., 233 – in posizione forte 5, 119s., 127, 165–168, 171, 189s., 202s., 233, 368, 372 – medie 33, 38, 119, 163, 166–169, 196, 202s., 229, 233, 239, 242, 367s., 373–377

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– brevi (cf. anche lunghezza vocalica, quantità vocalica) 32s., 38, 47, 50, 165s., 168, 177, 220, 367–374 – lunghe (cf. anche lunghezza vocalica, quantità vocalica) 32s., 38, 47, 50, 165–168, 177s., 220, 367–374, 569 vocalismo (cf. anche A finale, caduta vocali finali) 5, 32–34, 61, 97, 99, 117–120, 189s., 196, 233–235, 239, 278, 303s., 367–377 zatterieri 346 zicament (cf. anche consonantismo) 173 Zuglio (cf. anche Iulium Carnicum/Julium Carnicum) 25, 38, 61, 74, 77, 414, 430s., 434