Manuale di linguistica ladina 3110519623, 9783110519624

This handbook, the first to focus specifically on the varieties of Ladin spoken in the Brixen-Tyrol area, intends to pro

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Manuale di linguistica ladina
 3110519623, 9783110519624

Table of contents :
Manuali di linguistica romanza
Indice
0. Introduzione al Manuale di linguistica ladina
Il ladino: storia e strutture
1. Il ladino e i ladini: glotto- e etnogenesi
2. Il ladino e le sue caratteristiche
3. Il ladino e la sua storia
4. Il ladino e i suoi Idiomi
5. Il ladino e le altre lingue romanze
Il ladino: uso e norme
6. Coscienza linguistica e identità ladina
7. Primi usi scritti del ladino
8. Panoramica della letteratura ladina
9. Storia della normazione ortografica del ladino
10. Il ladino come Ausbausprache
11. La tutela istituzionale del ladino
12. L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine
13. Il ladino nei mass media, in internet e nei social network
14. Il plurilinguismo dei ladini e le languages in contact nell’area ladina
15. Il plurilinguismo dei ladini: aspetti neurolinguistici
16. Il plurilinguismo dei ladini: aspetti sociolinguistici
Il ladino: strumenti di descrizione e documentazione
17. Lessicografia e grammaticografia
18. Atlanti linguistici, corpora, bibliografie
Indice delle persone citate e menzionate
Indice tematico
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Manuale di linguistica ladina MRL 26

Manuals of Romance Linguistics Manuels de linguistique romane Manuali di linguistica romanza Manuales de lingüística románica

Edited by Günter Holtus and Fernando Sánchez-Miret

Volume 26

Manuale di linguistica ladina

A cura di Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

ISBN 978-3-11-051962-4 e-ISBN (PDF) 978-3-11-052215-0 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-051986-0 Library of Congress Control Number: 2019955082 Bibliographic information published by the Deutsche Nationalbibliothek The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at: http://dnb.dnb.de. © 2020 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Cover image: © Marco2811/fotolia Typesetting: jürgen ullrich typosatz, Nördlingen Printing and binding: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com

A Lois Craffonara per si 80 agn

Manuali di linguistica romanza La nuova collana internazionale dei Manuals of Romance Linguistics (MRL) intende fornire un panorama completo dell’intera linguistica romanza, al contempo sistematico e sintetico, che tenga conto dei più recenti risultati della ricerca. La collana MRL si prefigge di aggiornare e approfondire i contenuti delle due grandi opere finora disponibili, il Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL) (1988– 2005, otto volumi in dodici tomi) e la Romanische Sprachgeschichte (RSG) (2003–2008, tre volumi), con lo scopo di integrare gli ambiti e le prospettive nuove della ricerca, in particolare quei temi finora affrontati solo a latere o in modo non sistematico. Dal momento che non sarebbe fattibile in tempi e spazi ragionevoli una completa revisione del LRL e della RSG, la collana dei MRL si presenta in una struttura modulare e flessibile: essa prevede circa 60 volumi, ciascuno dei quali, con 15–30 contributi per un massimo di 600 pagine, affronta gli aspetti principali di un determinato tema, in modo sintetico e ben strutturato. I volumi sono concepiti in modo da essere consultabili autonomamente l’uno dall’altro, ma tali da fornire nel loro insieme uno sguardo completo ed esauriente della linguistica romanza di oggi. Il fatto che la redazione di ogni volume richieda meno tempo di quello necessario per un’opera enciclopedica della mole del LRL, consente di poter dar conto più agilmente e rapidamente dello status attuale delle ricerche. I volumi sono redatti in diverse lingue – francese, italiano, spagnolo, inglese e, eccezionalmente, portoghese – ma ognuno in una sola lingua, opportunamente scelta in base al tema. L’inglese consente di dare una dimensione internazionale e interdisciplinare a temi di carattere più generale che non attengono strettamente all’ambito degli studi romanzi (per es. il Manual of Language Acquisition o il Manual of Romance Languages in the Media). La collana MRL è divisa in due grandi sezioni tematiche: 1) lingue, 2) ambiti disciplinari. Nella prima sono presentate tutte le lingue romanze (comprese le lingue creole), ciascuna in un volume a sé. La collana accorda particolare attenzione alle linguae minores che non sono state trattate finora sistematicamente in un quadro d’insieme: sono previsti perciò volumi dedicati al friulano, al corso, al gallego, ma anche un Manual of Judaeo-Romance Linguistics and Philology. La seconda sezione comprende la presentazione sistematica di tutte le sotto-discipline, tradizionali e nuove, della linguistica romanza, con un volume a parte riservato a questioni metodologiche. Particolare attenzione viene accordata alle correnti nuove e dinamiche e a settori che rivestono sempre più importanza nella ricerca e nell’insegnamento, ma che non sono stati considerati in modo adeguato nelle precedenti opere d’insieme, come per esempio le Grammatical Interfaces, le ricerche sul linguaggio dei giovani, la sociolinguistica urbana, la linguistica computazionale, la neurolinguistica, il linguaggio dei segni e la linguistica giudiziaria. Ogni volume offre per il proprio ambito un panorama ampio e ben strutturato sulla storia della ricerca e sui suoi attuali sviluppi. https://doi.org/10.1515/9783110522150-202

VIII

Manuali di linguistica romanza

Come direttori della collana siamo lieti di aver potuto affidare l’edizione dei diversi volumi a colleghi di fama internazionale provenienti da tutti i paesi di lingue romanze e non solo. I curatori sono responsabili della concezione e della struttura dei volumi, così come della scelta degli autori dei contributi, e assicurano la presenza, accanto a una presentazione sistematica dello stato attuale delle teorie e conoscenze, anche di molte riflessioni critiche e innovative. I diversi volumi, presi nel loro insieme, costituiscono un panorama generale ampio e aggiornato della nostra disciplina; essi sono destinati tanto a coloro che vogliano informarsi su un tema specifico quanto a coloro che desiderino abbracciare gli studi romanzi attuali nei loro molteplici aspetti. I volumi dei MRL offrono inoltre un approccio nuovo e innovativo alla linguistica romanza, seguendone adeguatamente e in modo rappresentativo gli ultimi sviluppi. Günter Holtus (Lohra/Göttingen) Fernando Sánchez-Miret (Salamanca) settembre 2019

Indice Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio 0 Introduzione al Manuale di linguistica ladina

1

Il ladino: storia e strutture Hans Goebl 1 Il ladino e i ladini: glotto- e etnogenesi Giampaolo Salvi 2 Il ladino e le sue caratteristiche Giorgio Cadorini 3 Il ladino e la sua storia

109

Jan Casalicchio 4 Il ladino e i suoi idiomi

144

35

67

Hans Goebl 5 Il ladino e le altre lingue romanze

202

Il ladino: uso e norme Luciana Palla 6 Coscienza linguistica e identità ladina Paul Videsott 7 Primi usi scritti del ladino

243

273

Rut Bernardi 8 Panoramica della letteratura ladina

292

Sabrina Rasom 9 Storia della normazione ortografica del ladino Gabriele Iannàccaro e Vittorio Dell’Aquila 10 Il ladino come Ausbausprache 349

318

X

Indice

Gabriele Iannàccaro, Vittorio Dell’Aquila e Nadia Chiocchetti 11 La tutela istituzionale del ladino 378 Roland Verra 12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine Ruth Videsott 13 Il ladino nei mass media, in internet e nei social network

424

Ilaria Fiorentini 14 Il plurilinguismo dei ladini e le languages in contact nell’area ladina Gerda Videsott 15 Il plurilinguismo dei ladini: aspetti neurolinguistici

470

Ilaria Fiorentini 16 Il plurilinguismo dei ladini: aspetti sociolinguistici

480

394

452

Il ladino: strumenti di descrizione e documentazione Ruth Videsott 17 Lessicografia e grammaticografia

505

Hans Goebl e Paul Videsott 18 Atlanti linguistici, corpora, bibliografie

Indice delle persone citate e menzionate Indice tematico

539

575

582

Appendice: Carta 1: Ristampa della carta linguistica in appendice a: Graziadio Isaia Ascoli, Saggi ladini, Torino, Loescher, 1873 (= Archivio glottologico italiano 1, 1873, 1–556). Carta 2: Ristampa della carta linguistica pubblicata in appendice a: Theodor Gartner, Viaggi ladini, fatti e narrati dal dr. Teodoro Gartner, con un saggio statistico ed una carta geografica, Linz, Wimmer, 1882. Carta 3: Riproduzione policroma della sezione centrale della carta 2.

Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

0 Introduzione al Manuale di linguistica ladina Abstract: Il capitolo presenta le finalità e la struttura del presente Manuale di linguistica ladina. In particolare, si discutono le principali questioni definitorie riguardo al glottonimo ed etnonimo ladino, si giustifica la delimitazione del ladino brissinotirolese, oggetto del Manuale, mediante una combinazione di criteri sia di linguistica interna che esterna, che vengono illustrati singolarmente, e infine si prospettano alcuni desiderata nell’ambito della ricerca scientifica sul ladino.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, Manuals of Romance Linguistics (MRL), Manuale di linguistica ladina, desiderata  

1 Premessa Da un secolo e mezzo esatto il ladino è oggetto di studi propriamente scientifici (cf. Decurtins 1964 e Goebl 1987). Schneller (1870, 9) delinea per primo «einen eigenen friaulisch-ladinisch-churwälschen Kreis als selbständiges, wenn auch nie zu einer eigenen Schriftsprache gelangtes, ja nicht einmal vom Bewußtsein eines inneren Zusammenhanges charakterisiertes Hauptgebiet der romanischen Sprachen» [una circoscrizione friulano-ladinogrigionese autonoma, un’area principale delle lingue romanze sebbene mai giunta ad una lingua scritta propria, anzi, caratterizzata persino dalla mancanza di consapevolezza dell’esistenza di rapporti interni]; viene affiancato nello stesso anno da Rausch (1870, 27) che nella sua «Tabelle der gegenwärtigen rhäto=romanischen Mundarten» sotto l’iperonimo «Neu=Rhätisch» raggruppa il «Romonsch», il «Ladinisch» (ripartito in «West=Ladinisch» [engadinese] e «Ost=Ladinisch» [ladino dolomitico, denominazione che si riflette ancora in Alton 1880]) nonché il «Furlano». Nel 1873 Ascoli pubblica i suoi magistrali Saggi ladini; in essi, sulla base del metodo della «particolar combinazione», individua e descrive le relazioni interne di «quella serie d’idiomi romanzi [che lui chiama «favella ladina, o dialetti ladini», PV], stretti fra di loro per vincoli di affinità peculiare, la quale, seguendo la curva delle Alpi, va dalle sorgenti del Reno anteriore in sino al mare Adriatico» (Ascoli 1873, 1). Per Ascoli (1873, 537) si tratta di «una delle grandi unità del mondo romano». Alla stessa conclusione, sebbe 

Nota: La presente introduzione è il risultato di una riflessione comune dei tre autori. Tuttavia, come richiesto dalla prassi accademica italiana, specifichiamo che la responsabilità per i paragrafi 1 e 2.1 va attribuita a Paul Videsott, per il paragrafo 2.2 a Jan Casalicchio e per i paragrafi 2.3 e 3 a Ruth Videsott. https://doi.org/10.1515/9783110522150-001

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

ne con fonti e un approccio diversi, giunge Gartner 1883 (↗5 Il ladino e le altre lingue romanze). Alton (1879) contiene il primo dizionario etimologico dei nostri idiomi, e Gartner (1879) non è soltanto la prima analisi scientifica di un singolo idioma ladino, il gardenese, ma di una varietà romanza non letteraria in assoluto. Finora però questi studi non sono mai stati condensati in un «Manuale di linguistica ladina» vero e proprio. Il presente Manual of Romance Linguistics, dedicato appunto al ladino, non si affianca perciò soltanto ai volumi paralleli previsti in questa stessa collana per gli altri due tronconi retoromanzi – volume già disponibile per il friulano (Heinemann/Melchior 2015) e in preparazione per il romancio grigionese – ma costituisce un vero e proprio desideratum che colma una lacuna avvertita da tempo. Il presente volume è perciò concepito con una duplice finalità: da una parte, come gli altri manuali della serie MRL dedicati a singole lingue romanze, vuole fornire un quadro d’insieme attualizzato riguardo ai vari aspetti «tradizionali» della ricerca sul ladino (come documentati per es. dagli articoli specifici dedicati al ladino dal LRL III 1989 e II, 2 1995, nonché dalla RSG I-II-III 2003–2008). Dall’altra parte vuole anche dare conto di ricerche e ambiti di ricerca nuovi nella ladinistica, come per es. la linguistica dei corpora, la neurolinguistica oppure la didattica del ladino in un contesto plurilingue. L’inclusione in un unico volume sia di tematiche «tradizionali», sia di tematiche più recenti si impone anche perché, come ricordato in apertura, per il ladino dolomitico (qui di seguito chiamato ladino «brissino-tirolese», cf. infra) manca ancora una pubblicazione che tratti tutti gli aspetti menzionati in un’ottica «panladina», rivolta cioè all’intero territorio linguistico, e non soltanto ad un singolo idioma. Il volume è articolato in tre blocchi tematici. Il primo di essi (Il ladino: storia e strutture) è dedicato al ladino in quanto diasistema, nella storia e in sincronia. Il secondo (Il ladino: uso e norme) è focalizzato sul ladino in quanto mezzo di comunicazione e simbolo identitario della etnia che lo parla, i ladini. Questa particolare identità è caratterizzata almeno dalla Seconda Guerra mondiale in poi anche da un plurilinguismo molto elevato, che verrà descritto nei suoi vari aspetti. Il terzo blocco (Il ladino: strumenti di descrizione e documentazione) è dedicato al ladino in quanto oggetto di studi linguisti. Il volume si conclude con due indici, delle persone citate e menzionate e dei concetti trattati, utili a rendere le informazioni contenute ancora più fruibili.

2 Ambito del presente manuale 2.1 Il termine «ladino» Contrariamente ad altri glottonimi di area retoromanza (per es. romancio grigionese, friulano) oppure di area romanza in senso generale (per es. italiano, francese, spagnolo ecc.), la cui semantica è definita in modo univoco, il campo di applicazione del

Introduzione

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termine ladino è tuttora sfocato e oggetto di visioni talvolta contrastanti (cf. Kattenbusch 1988). Con «ladino» (lad. ladin, ted. Ladinisch) nel presente contesto – a prescindere dunque dagli altri usi di «ladino» documentati nella Romània (cf. Müller 1963; 1996; Kramer 1998a; 2017) – si designa un tipo di varietà romanze parlate nelle Alpi occidentali, e più esattamente nelle Dolomiti. Mancando però storicamente una varietà standard che faccia da punto di raccolta e di riferimento per il territorio linguistico, l’estensione del glottonimo ladino può variare notevolmente a seconda che si usi per indicare varietà che presentano (o anche: presentavano) anche soltanto alcuni dei tratti considerati costitutivi per questo tipo linguistico («particolare combinazione»); oppure se oltre a richiedere una presenza cospicua di tali tratti si faccia riferimento anche alla presenza di una coscienza linguistica ed identitaria distinta e ben sviluppata delle popolazioni che parlano queste varietà. Nel primo caso, con il glottonimo ladino si includono, oltre alle tradizionali varietà della Ladinia brissino-tirolese, anche le varietà del Cadore (prima su tutte: del Comelico) e dell’Agordino, nonché delle valli di Non e di Sole (la sezione «centrale» del ladino secondo la terminologia di Ascoli 1873). Nel secondo caso, le varietà riconosciute come ladine si limitano a quelle parlate e scritte nelle cinque vallate di Badia (Val Badia/Gadertal), Gardena (Gherdëina/Gröden), Fassa (Fascia/†Evas), Livinallongo (Fodom/Buchenstein) e Ampezzo (Anpezo/†Hayden), appartenute fino al 1918 alla Contea principesca del Tirolo e alla monarchia asburgica. Queste due entità politiche sono eredi e catalizzatori di un’appartenenza amministrativa/istituzionale ben più profonda, e cioè dell’appartenenza ininterrotta (con eccezione dell’intermezzo veneziano di Ampezzo tra il 1420 e il 1511) delle vallate ladine al Sacro Romano Impero della Nazione Germanica dalla sua istituzione nel 962 alla sua dissoluzione nel 1806. Questa secolare comune appartenenza all’«Impero» ha livellato e sfumato le differenze causate dall’appartenenza delle valli in questione a sovrani immediati diversi: il principato vescovile di Bressanone per parte della Val Badia, Fassa (eccetto Moena) e Livinallongo; il convento benedettino di Castel Badia per l’altra parte della Val Badia; la contea del Tirolo per la Val Gardena con Colfosco e per Ampezzo; il principato vescovile di Trento per Moena (tutte queste entità sfoceranno, come risaputo, prima de facto e poi anche de iure nella contea principesca del Tirolo). L’orientamento politico della Ladinia verso nord ha un parallelo nella sua sostanziale appartenenza ecclesiastica alla diocesi di Sabiona-Bressanone, inserita dal 798 al 1920 nella provincia metropolitana bavarese di Salisburgo. Questo secolare orientamento sia civile/politico che religioso/ecclesiastico verso nord ha avuto delle profonde ripercussioni sulla lingua e identità dei ladini, plasmandole al punto da giustificare la denominazione di «Ladinia brissino-tirolese» (denominazione coniata da Goebl 1999a e 1999b; cf. in dettaglio ↗1 Il ladino e i ladini: glotto- e etnogenesi; sulla presenza della frontiera imperiale nell’immaginario collettivo dei ladini cf. anche Infelise/Chiocchetti 1986). Anticipiamo fin d’ora (cf. infra, capp. 2.2 e 2.3) che i criteri per isolare il ladino brissino-tirolese, oggetto di questo manuale, sono una combinazione di tratti di linguistica interna e esterna.

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

Il termine «ladin» è notoriamente una continuazione locale del glottonimo LATINU . Esso viene impiegato con accezioni popolari e scientifiche che è utile tenere ben

distinte: a) accezioni popolari a1) Parlata del territorio dei comuni di San Martino e la Valle in Badia, nella Val Badia centrale («ladin» = ladino in senso stretto); a2) Denominazione comune degli idiomi parlati nelle valli di Badia, Gardena, Fassa, Fodom e Ampezzo («ladin», «ladin dles Dolomites», «ladino brissinotirolese»; cf. anche ALD-I, carta 3: «nome dialettale della parlata»); a3) Denominazione comune degli idiomi parlati in Engadina («ladin»); si tratta sicuramente di una denominazione antica e autoctona, come testimonia tra l’altro l’affermazione «Oengadini suam [linguam] ab olim ladin vocant, appellatione a latina deducta» di Porta (1771, 19), richiamata da Ölberg (1963, 186) (cf. nuovamente l’ALD-I, carta 3: «nome dialettale della parlata»). Con l’avanzare del glottonimo rumantsch e degli iponimi (più precisi) puter e vallader (con la sottodistinzione jauer) ladin è però caduto in disuso, ma è stato rivitalizzato dagli attivisti grigionesi alla fine del XIX/inizio XX secolo. Proprio questa rivitalizzazione ha però destato tra la popolazione l’impressione erronea che si trattasse di una «neuzeitliche, schriftsprachlich-gelehrte Bezeichnung» [una denominazione di epoca moderna, della lingua scritta e dotta, cf. DRG 10, 275]; b) accezioni scientifiche b1) Denominazione comune degli idiomi parlati nelle valli di Badia, Gardena, Fassa e Fodom («ladino atesino», «ladino sellano»); b2) Denominazione per varietà romanze al di fuori della Ladinia brissino-tirolese, che presentano (ancora) delle caratteristiche costitutive per queste varietà (per es. «ladino agordino», «ladino cadorino», «ladino bellunese», «ladino noneso» ecc.) – queste varietà sono anche definite «neo-ladine» (cf. per es. Goebl 1997; Rührlinger 2005) con riferimento al fatto che qui un sentimento di identità linguistica «ladina» si è sviluppato, semmai, solo negli ultimi decenni e per vie differenti da quelle percorse dalle varietà ladine brissinotirolesi; b3) Denominazione di un geotipo nelle Alpi orientali i cui rappresentanti principali sono il romancio grigionese, il ladino dolomitico e il friulano («ladino ascoliano»); c) accezione estinta c1) Autodenominazione delle varietà romanze formatesi tra Pianura Padana e Danubio, testimoniata per es. dal famoso lain nella parafrasi anonima del trattato Quod nemo laeditur nisi a se ipso di Giovanni Crisostomo (cf. Belardi 1991, 15–21) e più in generale dal persistere fino al giorno d’oggi dell’aggettivo la(d)in nel significato traslato ‘agile, facile, veloce’ e sim. (cf. Liver 1974, 37s.; DRG 10, 271; ALD-II, carte 197, 199, 400, 975).

Introduzione

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Non sono invece connessi con LATINU alcuni toponimi quasi omografi annoverati a volte in questo contesto, come per es. – i nomi che cominciano con Ladin- in Carinzia (da collegare invece a slov. dial. ladina ‘maggese’, cf. Pohl 2012, 308 vs. Pohl 1988, 43s.), – i due toponimi Ladins nel Tirolo settentrionale austriaco e il Ladins ‘nome di un maso documentato nel 1400 nei pressi di Castelrotto’ (cf. Ölberg 1963, 186), – i due micro-toponimi Ladínas (comune di Andiast) e Ladínes (comune di Valendas) nella Surselva (cf. Ölberg 1963, 186; Schneider/Pfister 2017, 127) e infine – il toponimo Latein nel Salisburghese (questo probabilmente da LUTĪNA ‘terreno melmoso’ < LUTUM , Reiffenstein/Lindner 2015, 72). L’assenza di toponimi in un territorio che è(ra) ladino e che usa(va) ladin come glottonimo non deve stupire: infatti, che valore denominativo avrebbero pututo avere? Toponimi che includono glottonimi nascono soltanto in contesti di confine linguistico e rispecchiano normalmente l’uso del vicino alloglotto. Essendo però «Welsch» (e non «Ladinisch») l’antico glotto- ed etnonimo delle popolazioni tedesche per i vicini romanzi (cf. Ölberg 1963, 185s.), abbiamo – come prevedibile – una serie di toponimi con il primo termine (nell’Alto Adige: Welschellen ‘Rina’, Welschmontal ‘Mantena’, Welschnofen ‘Nova Levante’, ai quali si può aggiungere anche Wolkenstein < *Walchenstein ‘Selva di Val Gardena’, ↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 3), ma nessuno con il secondo. È più che plausibile che gli usi popolari del glottonimo ladin rappresentino una continuazione diretta dell’accezione estinta (è comprovato per i Grigioni, dove ladin doveva essere il glottonimo autoctono durante l’intero periodo medievale, prima della sua retrocessione di fronte all’innovazione ROMANICE > romontsch/rumantsch venuta dalla Francia, cf. Liver 1974, 39), mentre è altrettanto evidente che gli usi scientifici del termine, pur riallacciandosi a degli usi popolari, sono stati coniati (o perlomeno diffusi) in tempi recenti con degli scopi precisi: b1) da Carlo Battisti (per es. Battisti 1962, 12) per tenere distinta la varietà di matrice cadorina di Cortina d’Ampezzo; il «ladino atesino» nella concezione battistiana è dunque quello la cui origine risale ad una colonizzazione tardomedievale partita dalle valli tributarie dell’Adige. Nella sua estensione (non però nella sua intenzione) il termine corrisponde a «ladino sellano», che usa come riferimento geografico il massiccio del Sella, dal quale le quattro vallate di Badia, Gardena, Fassa e Livinallongo si diramano; b2) da Giovan Battista Pellegrini (cf. per es. il titolo programmatico «Il ladino bellunese» di Pellegrini/Sacco 1984) per affievolire l’«esclusività» con la quale i ladini brissino-tirolesi usavano l’etno- e glottonimo nel contesto delle loro rivendicazioni politiche (per es. di riconoscimento come minoranza) e culturali (per es. di diritto all’uso della lingua in contesti formali). I locutori stessi sono ben consci che l’uso di ladin come glottonimo al di fuori della Ladinia brissino-tirolese è di matrice dotta (cf. le numerose testimonianze dirette raccolte ed illustrate da Goebl 1997 e Rührlinger 2005; cf. anche Belardi 1984);

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

b3) da Graziadio Isaia Ascoli (1873) per ovviare alla mancanza di un glottonimo comune che coprisse le aree da lui incluse nel geotipo «favella ladina». Ascoli stesso (1873, 334 n. 1) dichiara di avere coniato il termine sulla base dell’uso che ne veniva fatto in due delle tre aree principali del geotipo che andava delimitando: «in ogni modo, l’aversi popolare e fermo tra i dotti l’appellativo di ladino per qualche parte della sezione centrale, come è per qualche parte dell’occidentale, e l’essersi ormai divulgato da un pezzo, tra gli studiosi, l’appellativo medesimo anche per la sezione friulana, furono gli argomenti decisivi per i quali mi sono rassegnato ad adottarlo per tutta la zona». Rimane invece dibattuto in quale rapporto stiano i tre usi popolari del termine. In sostanza, si oppone una visione che vede in a1) la situazione «storica» e in a2) un’estensione dotta sotto l’influsso di a3) a una spiegazione che vede in a1) il risultato di una progressiva restrizione del significato di a2) come anche a3) è il risultato di una progressiva restrizione del termine ladin a scapito di rumantsch e dei glottonimi più specifici. La prima tesi è sostenuta in numerosi lavori soprattutto da J. Kramer (cf. in particolare Kramer 1998a; 1998b; s.v. ladin in EWD IV [1991], 156–159; 2017); essa risale alle affermazioni di Th. Gartner (1879–1880, 639; 1883, XX) ed è poi stata ripresa soprattutto da C. Battisti (1941, 8). La seconda interpretazione è invece stata avanzata nei suoi elementi essenziali specialmente da L. Craffonara (Craffonara 1977, 73 n. 1; 1994, 142–146; 2007). Per decidere tra le due opzioni, è decisiva la situazione all’inizio del XIX secolo: infatti, nell’argomentazione di Kramer (in EWD IV [1991], 158), sarebbe stato Micurá de Rü/Nikolaus Bacher (1789–1847) a estendere l’uso di ladin dalla sua originale area nella Val Badia centrale all’intera area brissino-tirolese con l’intento di fornire un glottonimo «nobile» alla lingua che si accingeva a dotare di un codice scritto sovralocale. Questa spiegazione è poi stata modificata in Kramer (2017, 231) nel senso che Bacher avrebbe ripreso il termine ladinische Mundarten da Haller 1832. Tale argomento sarebbe però infranto qualora sia possibile dimostrare la presenza del glottonimo ladin nelle altre vallate prima di Micurá de Rü. In effetti, tali attestazioni esistono almeno per la Val Gardena e la Val di Fassa (cf. Craffonara 1977, 73 n. 1, e Craffonara 1994, 148, che seguiamo nell’argomentazione): – l’antico nome romanzo della località Nova Levante sotto il passo Costalunga (fas. mod. Neva) era semplicemente Nova (1142 Nove, 1341 Mulgrei in Nove, cf. Kühebacher 1991, 534). La necessità di distinguerla dalla vicina Nova Ponente (1145 Noue, 1176 Nova, Kühebacher 1991, 79) fa aggiungere ad entrambe le località il glottonimo, nella lingua cancelleresca 1295ss. Nofalatina, 1279ss. Nova Teotonica, in ted. Welschnofen, Deutschnofen. Già l’impiego cancelleresco di latinus (e non per es. di romanus) è un indizio indiretto per la presenza di ladin. Quando la differenza tra le due località non è evidente – entrambe le Nove sono al di fuori della Val di Fassa – oppure è rilevante, si usa la forma Nova Ladina (cf. Ghetta 1974, 304: «I documenti di Fassa fino alla fine del secolo XVIII hanno sempre Nova Ladina»).

Introduzione









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Si tratta dunque di uno dei rari casi dove anche l’endonimo fa ricorso all’aggettivo etnico, cosa che invece non avviene per le copie toponomastiche sui due lati del confine linguistico in Val Badia, dove per i locutori è sempre rimasto trasparente di che località si trattasse: Rina = Welschellen vs. †Rina Teutonica/Rina Todëscia = Ellen; Tintal = ted.dial. Wellisch-Weitental vs. Weitental (presso Vandoies di sotto); Mantena = Welschmontal vs. Montal = Mantëna Todëscia, San Martin (de Tor) = St. Martin in Thurn vs. San Martin Todësch = St. Martin (presso San Lorenzo di Sebato); nel Bellunese il Passo di Costalunga era chiamato ancora all’inizio del XVII sec. Passo di Ladinia (Ghetta 1974, 304; Craffonara 1977, 73 n. 1). Tale denominazione è ripresa ancora nel 1823 in forma di Monte Ladina (Corniani 1823, 13) ed è evidentemente connessa al nome della località Nova Ladina, il cui uso anche popolare è quindi accertato; Josef David Insam (1744–1826) intitola la sua grammatica gardenese del 1806 circa «Versuch zu einer Grammatik der Grödner Mundart / Per na Gramatica döl Lading de Gerdöna» (Videsott 2013); nel testo stesso si riferisce al gardenese con il semplice ladin, per es. a p. 23 del manoscritto, quando discute l’uso dei participi: «Ob? und wie? aber, diese Mittelwörter in der Grödner Mund Art, per lading, anwendbar, muß der Sprachgebrauch und die Wortfügung entscheiden» [Se, e come, questi participi – si parla del participio presente – possano essere impiegati nella parlata gardenese, per ladin, deve decidere l’uso linguistico e la combinazione delle parole]; oppure a p. 59, dove analizza l’origine dell’idioma gardenese: «Im Kurzen: die Grödner sind lombardischer Abkunft. Ihre Sprache lombardisch gemischet: latina rustica, Lading» [In breve: i gardenesi sono di derivazione lombarda. La loro lingua è un lombardo mescolato: latina rustica, Lading – sottolineatura nell’originale]; nella petizione dei giudici distrettuali competenti per la Val Gardena del 1810 a favore del mantenimento della valle nel Regno di Baviera e contro la sua prospettata attribuzione al Regno d’Italia, essi chiamano la lingua locale ladina: «und obschon in dem Thale Gröden und in dem Gerichte Wolkenstein eine sowohl von der deutschen als italienischen ganz abweichende (nämlich die ladinische) Sprache gesprochen wird, so werden doch daselbst alle Gerichtsgeschäfte in deutscher Sprache verhandelt […]» [e sebbene nella Val Gardena e nella giurisdizione di Selva si parli una lingua completamente diversa sia dalla tedesca che dall’italiana (cioè la ladina), tutte le transazioni giudiziarie si svolgono in tedesco] (cit. da Craffonara 1994, 142 n. 26; per ulteriori dettagli cf. Stolz 1938); sempre a proposito del gardenese, J. Th. Haller (1831, 2) sottolinea che sia gli abitanti della Val Badia che della Val Gardena chiamano la loro lingua «Ladin (nicht Latin)»; inoltre (Haller 1831, 4): «Es muss ferner auffallen, daß der Engadiner, wie der Enneberger und Grödner seine Sprache Ladina, nicht Romana nennet» [deve inoltre dare all’occhio, che sia gli engadinesi, sia gli abitanti della Val Badia e i gardenesi chiamano la propria lingua ladina, non romana]; e sebbene

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

nella seguente nota chiami il fassano e il fodom – a differenza del gaderano e gardenese – «italienische Dialekte» (Haller 1831, 5 n. 9), nel corso del testo successivo include anche i livinallesi tra gli abitanti di lingua ladina («Einwohner ladinischer Sprache aus den Gerichten Buchenstein, Thurn und Enneberg», Haller 1831, 54). Per il fassano invece, Sulzer (1855, 25 – ripreso da Ascoli 1873, 334 n. 1) indica espressamente che anche qui è in uso il glottonimo ladin: «Per intanto non abbiamo che a ribattere sul punto di sopra un’obiezione sola, della quale certuni fanno gran caso; ed è, che que’ di Gardena, di Badìa, di Fassa, ed una porzione di que’ de’ Grigioni chiamano il loro linguaggio un parlar ladin [corsivo nell’originale]»; per Fodom e Ampezzo, invece, non abbiamo finora trovato alcuna attestazione di un glottonimo qualunque anteriore a Micurá de Rü.

Riassumendo, la situazione storica nella Ladinia riguardo al glottonimo ladin ci sembra abbastanza speculare a quella riscontrabile in Engadina. Doveva essere in uso sia come glottonimo che raggruppava le singole varietà (iperonimo, in opposizione a italiano e tedesco), sia per le singole varietà stesse (iponimo). Dei due usi, il secondo era in chiaro recesso a favore di denominazioni più specifiche (cf. anche Kattenbusch 1988, 6; Craffonara 1994, 144 n. 33). Con Craffonara (1994, 144) ci sembra evidente che Micurá de Rü (1833) usi ladin come iperonimo: «Die ladinische Sprache hat mehrere Dialekte. Die Hauptdialekte aber sind der Enneberger, der Abteÿer und der Grödner und der ultramontane Dialekt. Dieser letzte ist herrschend mit sehr geringer Abweichung in der Gegend von Fassa, Buchenstein und Ampezzo.» [La lingua ladina ha più dialetti. I dialetti principali sono il marebbano, il badiotto, il gardenese e l’ultramontano. Quest’ultimo prevale con poche differenze nelle contrade di Fassa, Fodom e Ampezzo] (Bacher 1995[1833], 29). In questo senso va interpretato già il titolo della sua grammatica, Versuch einer Deütsch-Ladinischen Sprachlehre, che non è una grammatica del suo idioma nativo (che sarebbe stato il badiotto), ma il tentativo di creare una lingua scritta comune per tutte le varietà ladine: «Zudem glaubt der Verfasser, gerade jene Lese- und Schreibart festgesetzt zu haben, die am geeingnetsten ist, die in diesen Gegenden herrschenden verschiedenen Dialekte zu berühren.» (Bacher 1995[1833], 227–229) [Inoltre, l’autore ritiene di aver stabilito proprio quel tipo di lettura e scrittura che è il più appropriato per rappresentare – letteralmente: toccare – i vari dialetti prevalenti in queste aree.] Come iperonimo – opposto a deutsch ‘tedesco’ – ladin è usato anche in una poesia di fine scuola dell’anno 1819, scritta dal curato di La Valle in Badia, il livinallese Jan Francësch Pezzei (cf. Bernardi/Videsott 2010, 198–199); essa contiene anche un’attestazione di ladin come etnonimo (sottolineature nostre):

Introduzione

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Per Maria Hitthaler (Moidl)

Per Maria Hitthaler (Moidl)

Mia bona Moidl Hitthal! Na tara sciöche tö gibt es net boll. An pó reden deutsch – ladin; a te él döt ein Ding:

Mia cara Moidl Hitthaler! Una come te non la si trova facilmente. Con te si può parlare tedesco – ladino Per te è tutto una «cosa».

Cun te bin i dër contënt, obschon du hast n rie talënt. So bist du doch erst eminënta Porcí tö ês recht diligënta.

Con te sono molto contento Anche se hai un talento difficile. Ciononostante sei eminente Perché sei stata abbastanza diligente.

Mo wenn der Tot ne foss gewesen Apëna kennst du lesen. Mo insciö aste en chësc ann Gelernet a lí talian.

Ma se non ci fosse stato il tuo padrino Sapresti appena leggere. Ma così durante questo anno Hai imparato a leggere l’italiano.

Dí dilan a chël to H. Töite, Und bitt, ch’ al te lasces gní dlaite Por imparé bel frësch Inciamó le todësch.

Ringrazia il tuo signor padrino, e pregalo che ti lasci venire dentro [in Val Badia] per imparare di buona voglia anche il tedesco.

Mo acioch’ al te lasces dessigü innerkemm Le mësseste cun chëst bewegen in die Klemm, Dass du bist na mesa ladina, Por chëst musst du nou aufsogn la dotrina.

Ma perché ti lasci venire di sicuro Lo devi mettere alle strette, dicendo che sei una mezza ladina, e perciò devi ancora recitare la dottrina.

Gli esempi fassani menzionati supra (ossia gli usi Nova Ladina) sono a cavallo tra iper- e iponimo, mentre quelli vertenti sul gardenese sono da situare a livello di denominazione della singola varietà. Essi fanno intravedere come i due usi si siano gradualmente differenziati in seguito al crescente fabbisogno di denominare in maniera univoca anche le singole varietà: ladin (generico) > ladin de Gherdëina > (generico con specificazione) > gherdëina (denominazione specifica). Questa specificazione a livello di varietà concreta è avvenuta ovunque dove era a disposizione un termine geografico di supporto (cf. Craffonara 1977, 75 n. 1):

Termine geografico

Denominazione dell’idioma

Prime attestazioni

Mareo/ Marebbe

mareo/ marebbano

1807: Ennebergische Sprache ‘lingua marebbana’ (Steiner 1807, 38) 1831: Ennebergisch ‘marebbano’ (Haller 1831, 57) 1879: Chësc liber é por düc i ladins, cuindi oressi tigní poscibilmënter la mesaria, tra la pronunzia en Badia y Mareo; gauja, ch’al tomará fora, no dër mareo, no blot badiot ‘Questo libro è per tutti i ladini [della Val Badia], quindi vorrei tenere possibilmente una via di mezzo tra la pronuncia in Badia e in Marebbe, causa che

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

Termine geografico

Denominazione dell’idioma

Prime attestazioni risulterà non propriamente marebbano, né del tutto badiotto’ (VLL s. v. Mareo)

Badia

badiot/ badiotto

1763: Quod ad Abbatienses attinet […] eorum dialectus […] ‘per quanto riguarda i badiotti … il loro dialetto …’ (Kramer 1976, 67) 1771: Gredner-Badioten-Romaunzen- […] Sprachen ‘lingue dei gardenesi-badiotti-romanci’ (Craffonara 1994, 146s.) 1807: Badiotische Sprache ‘lingua badiotta’ (Steiner 1807, 38) 1832: Badiotisch ‘badiotto’ (Haller 1831, 57) 1855: Dialetto di Badia (Badiot) (Sulzer 1855, 243) Ante 1856: paroles badiottes e fodommes ‘parole badiotte e livinallesi’ (Craffonara 1994, 189) 1879: Chësc liber é por düc i ladins, cuindi oressi tigní poscibilmënter la mesaria, tra la pronunzia en Badia y Mareo; gauja, ch’al tomará fora, no dër mareo, no blot badiot (VLL s.v. badiot)

Gherdëina/ Gardena

gherdëina/ gardenese

1771: Gredner-Badioten-Romaunzen- […] Sprachen (Craffonara 1994, 146s.) 1805: Grednerische Mundart ‘parlata gardenese’ (Craffonara 1994, 147) 1806: Grödner Mundart (Insam), cf. Videsott (2013) 1807: Grödnerisch ‘gardenese’ (Steiner 1807, 49) 1813: Parlè de Gördeina (VLL s.v. Gherdëina) 1855: Dialetto di Gardena (Gardenèr) (Sulzer 1855, 244)

Fodom/ Livinallongo

fodom/ livinnalese

1832: Volksdialekte im Tale Buchenstein ‘dialetto popolare nella valle di Livinallongo’ (Haller 1832, 134) Ante 1856: paroles badiottes e fodommes (Craffonara 1994, 189)

Anpezo/ Ampezzo

ampezan/ ampezzano

1832: Volksdialekte in Ampezzo ‘dialetto popolare in Ampezzo (Haller 1832, 135) 1844: Na canzon voi bete śo / propio inz’ el dialeto nosc, che ra intende ci che vó, / tanto ’l furbo come ’l gros. ‘Una canzone voglio scrivere / proprio nel nostro dialetto che la intenda chi vuole / tanto il furbo che il grossolano.’ (VLL s.v. dialet) 1852: Sci, par Crista! che deboto, / Co se trata del pioan, Ben, o mal, na fre de moto / Fejo anch’ió par anpezan ‘Sì, perdiana, che presto / visto che si tratta del pievano bene o male, un piccolo segno / lo faccio anche io in ampezzano.’ (VLL s.v. ampezan)

Fascia/ Fassa

Fascian/ fassano

1812: Fassaner Sprache ‘lingua fassana’ (Ghetta/Chiocchetti 2014, 52) 1832: Volksdialekte im Thale Fassa ‘dialetti popolari nella valle di Fassa’ (Haller 1832, 134) 1855: Dialetto di Fassa (Fassan) (Sulzer 1855, 243) 1856: En calonia de Moena a desch / Se rejonaa ora per talian

Introduzione

Termine geografico

Denominazione dell’idioma

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Prime attestazioni Ora valch per todesch / E ora ence per fascian ‘Nella canonica di Moena a tavolo / si parlava ora in italiano ora qualcosa in tedesco / e ora anche per fassano’ (VLL s.v. fascian)

Moena

moenat

Dove invece mancava un nome specifico per l’area geografica, il glottonimo ladin non è stato ulteriormente specificato e si è mantenuto sia come ipero- che iponimo. Il caso più evidente è proprio quello della Val Badia centrale, ma sicuramente non è un caso che neanche gli idiomi, peraltro ben distini, di Rina, Colfosco o Colle Santa Lucia non abbiano un nome particolare, e ci si riferisca a loro come ladin (da Rina), (ladin) da Calfosch e (ladin) da Col. In questo senso si spiegano anche i famosi passaggi di Th. Gartner richiamati supra, secondo i quali ladin sarebbe stato in uso soltanto nella Val Badia centrale: «Das Nomen ladíŋ wird nicht überall von den Ungelehrten verstanden: so nicht in Abtei, nicht in der Pfarre, nicht in Welschällen, auch nicht in Kolfusck; hingegen nannte ein Hirtenknabe in Wengen sein Idiom ladíŋ, badiǫt sprächen die in badía (Abtei), und ebenso unterschied ein erst neunjähriges Kind in St. Martin zwischen ladíŋ und badiǫt” (Gartner 1879–1880, 639) [Il sostantivo ladíŋ non viene compreso dappertutto dai non istruiti: così non a Badia, non a Pieve di Marebbe, non a Rina, neanche a Colfosco; invece un pastorello di La Valle chiamò il suo idioma ladíŋ, il badiǫt sarebbe quello parlato da quelli di badía, ed ugualmente un bambino di appena nove anni di San Martino differenziava tra ladíŋ e badiǫt»; in termini simili anche Gartner 1883, XX). Gartner infatti chiedeva ai suoi interlocutori di indicare l’ipoglottonimo, e su quel livello, il ladin della Val Badia centrale si trovava già in opposizione al mareo di Marebbe e al badiot dell’alta valle.

2.2 La Ladinia «linguistica» La prima definizione scientifica della Ladinia «linguistica» risale notoriamente ad Ascoli (1873, 337), che nel contesto del suo metodo geo-classificatorio della «particolar combinazione» individuò i seguenti tratti costitutivi («il complesso specifico dei caratteri fondamentali del sistema fonetico ladino nel ripartimento orientale della sezione di mezzo»): a) «passare in palatina la gutturale delle formole C + A e G + A [per es. moe. ćan < CANEM (ALD-I 108) e caz. ǵat < *CATTUM ‘ gatto’ (ALD-I 336)]; b) conservarsi il L delle formole PL CL ecc. [per es. abad. plöi < PLOVIT ‘piove’ (ALD-I ‘ (ALD-I 149)]; 607) e liv. kle < CLAVE ( M ) ‘chiave’

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c) d) e) f) g)

h)

i) j) k)

l) m)

n)

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conservarsi il S di antica uscita [per es. amp. femenes < FEMINAS (ALD-I 247) e mar. dò:rmes < DORMIS (ALD-II 722)]; rompersi in dittongo l’É di posizione [per es. moe. sie < SEX ‘sei’ (ALD-I 719), liv. jèrba < HERBA ( M ) ‘erba’]; rompersi in dittongo l’Ó di posizione [liv. vwóf < OVU ( M ) ‘uovo’ (ALD-I 835)]; determinarsi in ue (onde üe ö) la forma del dittongo che proviene dall’Ó breve e dall’O di posizione [OLEU ( M ) ‘olio’ > grd. ùəle > bbad. örə (ALD-I 531)]; rompersi in dittongo l’É lunga e l’I breve, dittongo la cui schietta forma è naturalmente ei [bra. nèjf < NIVE ( M ) ‘neve’ (ALD-I 505) e grd. mëisa < MENSA ( M ) ‘tavola’ (ALD-I 794)]; propendere l’Á , entro determinati confini, a volgere in e, massime se preceduto da suono palatile o palatino [grd. cëza, caz. liv. cèza, col. céza < CASA ( M ) ‘casa’ (ALD-I 126)]; svilupparsi un u dinanzi al L , nelle formole ALT ecc., che si risolvono in aut ecc. ‘ (ALD-I 92)]; [grd. fas. col. fod. ćawt, amp. ćówdo < CAL ( I ) DU ( M ) ‘caldo’ ‘ (ALD-I 491)]; continuarsi l’Ú lungo per ü [gad. mü:r < MURU ( M ) ‘muro’ tendere a suono gutturale il N che viene all’uscita, e più limitatamente pur quello che precede ad altra consonante [grd. ćaŋ < CANE ( M ) ‘cane’ (ALD-I 108), amp. aŋke ‘anche’ (ALD-I 28)]; ‘ (ALD-I 43), grd. ž da ǵ e źj di fase anteriore [liv. aržént < ARGENTU ( M ) ‘argento’ ‘ (ALD-I 655)]; rəžóŋ < RATIONE ( M ) ‘ragione’ ǵ nella continuazione delle formole GE e GI [criterio rilevante per l’engadinese e il friulano, cf. per es. eng. gender, fr. giner ‘genero’, ALD-I, 339, ma non per il ladino e il soprasilvano, dove lo sviluppo è quello del precedente criterio l);; ć nella continuazione delle formole CE e CI [ fas. ćènt < CENTU ( M ) ‘cento’ (ALD-I 137) e mar. ćiŋk < QUINQUE ‘cinque’ (ALD-I 161)].»

Aggiunge poi in nota (Ascoli 1873, 337 n. 2): «Potremmo ancora avere: a) š da ć e çj di fase anteriore, parallelo a z, com’è ne’ Grigioni; ma nella regione tridentina ci confondiamo collo š (o ṣ) da ç (s-) di fase anteriore [col. fòrfeš < FORFICE ( M ) ‘forbice’ (ALD-I 307), gad. kru:š < CRUCE ( M ) ‘croce’ (ALD-I 204)]. A volere finalmente estendere il nostro elenco per guisa che in sé comprenda pur tutti i caratteri fondamentali della sezione de’Grigioni, converrá aggiungere: b) il turbarsi dell’á davanti a nasale scempia o complicata [fas. éñ < ANNI (ALD-I 36), fas. bjénća < aat. blank ‘bianco’ (ALD-I 70)]; e c) jt da CT .» [quest’ultimo tratto però si riscontra soltanto nel romancio grigionese, in quanto la Ladinia fa parte, con il Friuli, dell’area CT > *tt > t]. In seguito, Gartner (1883, XXIII) allargò la gamma dei criteri a qualche tratto morfologico e lessicale, oltre ad aggiungere alcuni ulteriori tratti fonologici (per una descrizione dettagliata limitata al ladino, cf. i capp. ↗2 Il ladino e le sue caratteristiche; ↗4 Il ladino e i suoi idiomi):

Introduzione

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A livello lessicale, Gartner (1883, 3) riporta alcune basi latine che non compaiono come tali nelle confinanti parlate lombarde e venete. Tra queste vi sono le basi CAPUT (anziché TESTA ), per es. in caz. céf (ALD-II 167); FILIUS (anziché FILIOLUS ) > lad. fi (tranne ampezzano e moenese, ALD-I 295); la base nominativa FRATER (anziché l’accusativo FRATREM ), cf. grd. fra (ALD-I 316) e infine il neologismo *SOLICULUS > bbad. grd. surëdl, liv. sorogle, amp. soroio (ALD-II 672). Inoltre, Gartner elenca alcuni antichi prestiti germanici che sarebbero condivisi solo dalle varietà retoromanze (1883, 16s.), come il gotico *skaithō > grd. sciadon (con il significato ‘cucchiaio’, all’interno della Ladinia è limitato al gardenese, ALD-I 208, ma cf. Pizzinini 1967, 21: sciadùn: teren a forma de cazü ‘terreno a forma di cucchiaio’). A livello morfologico, invece, Gartner (1883, 90) indica innanzitutto il mantenimento della forma nominativa dei pronomi personali di prima e seconda persona EGO e TU : per es. mar. ju, tö, grd. iə, tu, amp. jó, tu, caz. ǵé, tu (si veda per es. la carta ALD-I 378). Inoltre, le forme del verbo avere al presente deriverebbero dalla forma latina HABEO (corrispondente a quella del latino classico), e non da *HABO , come nel resto dell’Italia settentrionale. Infine, a livello morfosintattico, Gartner (1883, 107s.) nota che è comune a tutta l’area la mancanza del condizionale, a cui si supplisce con il congiuntivo imperfetto (per es. nelle apodosi delle frasi condizionali): (1) Se l no fossa ngamberlé nte chël tapeto, l no fossa tomé ju (Arabba, ALD-II, 101– 103) ‘Se non fosse inciampato in quel tappeto, non sarebbe [lett. ‘fosse’] caduto.’ Durante il XX secolo, altri autori (per es. Kuen 1968) hanno ampliato ulteriormente la lista dei criteri «ladini». In particolare, Kuen (1968) ha aggiunto varie basi lessicali, come IN ISTA NOCTE ‘stanotte’ > lvb. insnöt, *ORAS (anziché FORAS ) ‘fuori’ > grd. ora, DIU ‘lungamente, a lungo’ > lvb. dî, * TROPPU ( M ) ‘molto’ > fas. trop, ALIQUID ‘qualcosa’ > fas. velch (cf. anche Kuen 1982). Sembrano invece mancare criteri sintattici che possano essere ritenuti costitutivi del geotipo ladino (cf. in questo senso già il verdetto categorico di Gartner 1883, VIII: «Einer eigenen Syntax und einer eigenen Wortbildungslehre bedarf es bei unserem Sprachgebiet nicht» [Per la nostra area non è necessaria un’analisi a parte della sintassi e della formazione delle parole]). In relazione ad alcuni fenomeni macroscopici, l’area brissino-tirolese risulta spesso bipartita in dialetti settentrionali (che a volte condividono il tratto con il romancio grigionese) e dialetti meridionali (soventemente in sintonia con il friulano). La sintassi resta però, anche al giorno d’oggi, l’ambito linguistico meno analizzato del ladino, specie in ottica comparativa; studi in merito sarebbero perciò auspicabili (cf. infra, cap. 3). Anche alla distanza di quasi un secolo e mezzo, il metodo geotipologico di Ascoli risulta pienamente valido. Infatti, non è rimasto limitato al ladino (e al francoprovenzale, Ascoli 1878), ma si può applicare per la delimitazione di qualsivoglia tipo dialettale (cf. Goebl 1999b), e soprattutto nell’ambito del ladino produce aree piena-

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mente coerenti, come dimostrano le due carte realizzate da Hans Goebl e pubblicate in calce al cap. ↗5 Il ladino e le altre lingue romanze (carte 1 e 2). Esse sono basate rispettivamente sui dati dell’AIS e dell’ALD: l’intero territorio è suddiviso in poligoni, i cui confini sono equidistanti dai due punti d’inchiesta più vicini. Nella Carta 2 il territorio è ricoperto da una maglia di poligoni più fitta rispetto alla Carta 1, perché i punti dell’ALD sono più numerosi che nell’AIS (Carta 1). Indipendentemente da questo fatto, il principio di rappresentazione che sottosta alle due carte è il medesimo: Hans Goebl, l’autore di entrambe le carte, ha stabilito una lista di tratti indicati come peculiari dell’area retoromanza nella letteratura precedente (in particolare in Ascoli 1873; Gartner 1883; Kuen 1968; 1982). Il risultato delle due carte è quasi identico: nella Carta 1, si vede che i punti con il numero maggiore di tratti retoromanzi (riempiti dai colori rosso o arancione) sono tutta l’area romancia, l’area ladina con l’esclusione di Cortina e l’area del friulano, con l’eccezione di Claut (PN) e Gorizia. Questi tre punti sono segnati in giallo, colore che indica le aree intermedie con un’occorrenza più bassa di tratti ladini. Il colore giallo caratterizza anche le cosiddette anfizone: Poschiavo e la Val Bregaglia nel Cantone dei Grigioni, la Val di Non e Rabbi (ma non Pejo), la Val di Fiemme e il Cadore. Le aree riempite da colori freddi (verde, azzurro e blu) presentano invece un numero basso di tratti retoromanzi (non più di 14 su un totale di 80 possibili occorrenze). Come osservato supra, la Carta 2 è costruita sullo stesso principio: cambiano solo la maglia dei poligoni (più fitta) e la lista dei tratti retoromanzi, che è leggermente modificata rispetto a quella della Carta 1 a causa dell’uso di due fonti (l’AIS e l’ALD) diverse. Inoltre, l’area d’indagine dell’ALD è più ristretta, perché comprende solo l’area centro-orientale dell’Italia del nord. Per questo motivo, rimangono escluse varietà come il sursilvano e il friulano centrale, mentre sono in parte rappresentate l’Engadina e il friulano occidentale. Dall’altro lato, la Carta 2 ci permette di osservare quasi al microscopio le differenze tra le varietà ladine e quelle confinanti. Il risultato è anche qui molto chiaro, e rispecchia in gran misura quello della Carta 1: le aree con la quantità più alta di tokens (ossia dati che contengono uno dei fenomeni costitutivi del geotipo ladino) sono l’Engadina (rappresentata solo in parte nella carta), gran parte della Ladinia e Forni Avoltri in Friuli, di colore rosso. Diversamente dalla Carta 1, il colore arancione qui è del tutto assente in Engadina e raro nella Ladinia, poiché compare solo a Moena e a Cortina. Dall’altro lato, gran parte dell’area friulana indagata appare in questo colore (eccezion fatta per le aree della provincia di Pordenone in cui si parla un dialetto veneto), il che corrisponde al dato della Carta 1. L’area gialla, delle cosiddette anfizone, comprende di nuovo la Val di Non con Rabbi, il Cadore e l’area di Claut, ma anche l’alta Valtellina e Colle Santa Lucia, che linguisticamente è più vicina al Cadore che al Livinallongo. Hanno un numero di tokens più basso invece l’alta val di Fiemme e Poschiavo (qui in verde). La considerazione delle due carte è utile per contrapporre una visione che possiamo chiamare «quantitativa» a una «esclusiva». La prima, oggi maggioritaria, si rifà alle osservazioni di Ascoli, secondo cui i tratti caratteristici da lui identificati (cf.

Introduzione

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supra) non devono coprirsi completamente con l’area retoromanza, ma semplicemente prevalere in quest’area. Questo non esclude che vi siano elementi che ricorrono solo in aree più ristrette (si veda l’esempio di *skaithō ‘cucchiaio’ menzionato supra) ed altri che comprendono un’area più ampia del territorio retoromanzo. È il caso della palatalizzazione di C / G + A , presente anche in noneso. Riassumendo, possiamo notare che l’interpretazione del metodo (e dei risultati) di Ascoli è stata spesso oggetto di due tipi di malintesi (cf. in dettaglio ↗5 Il ladino e le altre lingue romanze): a) l’espressione «unità ladina» fu interpretata come «blocco linguistico uniforme», mentre invece era pensata come un’unità classificatoria (malinteso generato anche dalla polisemia stessa della parola «unità», cf. Goebl 1995); b) l’idea che i criteri utilizzati dall’Ascoli (e dai retoromanisti che lo seguirono) fossero da intendersi come «esclusivi» anziché «costitutivi» per l’area ladina; per giunta, che tali criteri dovessero avere tutti esattamente la stessa estensione dell’area che contribuivano a definire. Il metodo di Ascoli, come chiarito da lui stesso (Ascoli 1876), è invece tipicamente quantitativo ed è sensibile alla diversa intensità dei tratti: alcuni tratti possono apparire solo in alcune parlate ladine, mentre altri possono essere presenti anche in territori esterni alla Ladinia (è il caso per es., come appena ricordato, della palatalizzazione di C + A , i cui risultati si trovano tra l’altro anche in noneso). Bisogna notare che il metodo di Ascoli era pionieristico per la sua epoca; questo spiega almeno parzialmente perché una parte del mondo scientifico dell’epoca ne fraintese lo scopo; infatti, l’ostilità alle proposte classificatorie dell’Ascoli non riguardò solo il ladino, ma anche il francoprovenzale: la pubblicazione degli Schizzi francoprovenzali (Ascoli 1878) causò una reazione inizialmente ben più virulenta di quella subita dai Saggi ladini (Goebl 1990). I malintesi relativi al metodo ascoliano sono stati ampiamente discussi da Hans Goebl in numerosi lavori (1990; 1992; 1995; 2010), ai quali rimandiamo, come anche al suo contributo nel presente Manuale (↗5 Il ladino e le altre lingue romanze). La conclusione che si può trarre da queste osservazioni è che in sincronia la Ladinia brissino-tirolese è legata linguisticamente al romancio e al friulano, un collegamento che è andato sviluppandosi nel tempo, per distanziamento dall’italoromanzo settentrionale. Per quanto riguarda i confini che delimitano la Ladinia, le Carte 1 e 2 confermano l’appartenenza del moenese a pieno titolo al ladino. Sul versante bellunese, invece, l’ampezzano, che è di base cadorina, mostra comunque una certa affinità con le altre aree ladine (Carta 2); il collese, invece, da un punto di vista puramente linguistico appare più distante. L’esistenza di anfizone, in particolare in Val di Non e nel Bellunese, non è un ostacolo insormontabile alla delimitazione del ladino, posto che la presenza di un numero limitato di tratti ladini non contraddice il metodo ascoliano.

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

2.3 La Ladinia «etnica» In genere, i glottonimi contribuiscono, tra le altre cose, a designare (e delimitare) la popolazione che si identifica in una determinata lingua. Nel caso del ladino, la situazione è storicamente univoca: tutti gli etnonimi riferibili a popolazioni che usano il ladino, cioè il locale ladins, il tedesco tirolese Krautwalsche, e successivamente Ladiner, ed infine il bellunese todesc (!) (cf. Valentini 1977, 10; Craffonara 1995, 294s.), si sono riferiti sempre ed esclusivamente agli abitanti delle cinque vallate ex asburgiche. Ciò è dovuto al fatto che soltanto in quest’area si è sviluppato un sentimento di identità linguistica ed etnica ben individuato, come conseguenza di una combinazione di circostanze storiche particolari (↗6 Coscienza linguistica e identità ladina), già evidenziate da Craffonara (1995, 289s.) e riassunte di seguito. In prima istanza, bisogna considerare l’appartenenza plurisecolare delle cinque vallate alla diocesi di Sabiona-Bressanone e al Tirolo storico. La durata concreta di questa appartenenza varia da vallata a vallata (Ampezzo per es. viene aggregata alla diocesi di Bressanone appena nel 1789, mentre Moena – se mai ne ha fatto parte – almeno dal XII secolo è sempre appartenuta alla diocesi di Trento). Anche la forma giuridica di appartenenza alle due entità è stata abbastanza diversa da vallata a vallata: semplificando molto, si può differenziare un’appartenenza diretta al Tirolo della Val Gardena e di Ampezzo da un’appartenenza indiretta – mediata da quella diretta al principato vescovile di Bressanone, secolarizzato nel 1803 – della Val di Fassa, Fodom e di una parte della Val Badia e un’appartenenza sempre indiretta al Tirolo – mediata in questo caso da quella diretta al convento benedettino di Castel Badia, secolarizzato nel 1785 – della restante parte della Val Badia. Quello che però accomuna tutti questi assetti amministrativi è il loro orientamento verso nord, verso l’Impero, fattore che ha profondamente influenzato l’etnogenesi dei ladini, separandoli dai vicini meridionali che gravitavano (almeno dal 1420 in poi) su Venezia. A parte questi macroscopici fattori storici, è stata fondamentale anche la sostanziale stabilità economica, giuridica ed ecclesiastica interna e onnicomprensiva che unificava le cinque vallate. Inoltre, gli abitanti di queste valli si sono uniti nel fronteggiare i diversi pericoli che hanno minacciato il loro territorio, dalla comune difesa contro le invasioni degli agordini nel XIV secolo e dei veneziani nel XV, a quelle napoleoniche del 1809 e quelle italiane durante la Prima Guerra mondiale. Questi fattori interni ed esterni hanno contribuito a formare tra i ladini un senso di appartenenza a una comunità culturale e linguistica specifica, nonché un senso di alterità verso le comunità limitrofe meridionali, che a partire dagli inizi del Novecento si manifesterà in maniera sempre più concreta (↗6 Coscienza linguistica e identità ladina). Ma si possono rintracciare delle testimonianze in questo senso già molto prima: infatti, come ci informa Wolfsgruber (1965, 393), Rupert Dietrich, un «chirurgo» tedesco trasferitosi in Val Gardena, in una lettera del 1771 scrive che gli abitanti della Val Gardena non si considerano né ladini né tedeschi, ma gardenesi. Inoltre, ci

Introduzione

17

sono altre testimonianze simili risalenti al periodo ottocentesco, come quella di Gustav Laube, che riferisce dell’orgoglio di essere ladini (cf. Craffonara 1995, 296s.). Furono le vicende successive alla Prima Guerra mondiale ad avere ripercussioni negative su quella che era l’unità culturale ladina. L’assegnazione delle valli di Fassa, Fodom e Ampezzo a province di lingua italiana ha provocato una rottura della precedente unidirezionalità culturale e linguistica delle valli ladine ex-tirolesi, in quanto le tre valli meridionali sono state orientate verso altri poli culturali (Valentini 1977, 10). Il fascismo contribuì a indebolire ancora di più l’unità ladina, considerando la cultura ladina «una macchia grigia che deve essere grattata via» [E. Tolomei] (Craffonara 1995, 295). Il periodo delle Opzioni, infine, ha rischiato di soffocare quasi definitivamente il senso dell’identità ladina. Paradossalmente, infatti, i ladini, nonostante il regime fascista li ritenesse senz’altro «italiani», furono costretti (ad esclusione dei fassani) come tutti i sudtirolesi di lingua tedesca a decidere se rimanere nelle loro valli o se richiedere («optare») la cittadinanza tedesca. Le conseguenze di questa costrizione furono tragiche, non solo per le singole famiglie, all’interno delle quali ci furono quelli che decisero di restare in Italia (i cosiddetti Dableiber) e coloro che optarono per il Reich, ma soprattutto per tutto il gruppo etnico e culturale ladino, perché provocò un disorientamento sociale e culturale all’interno della popolazione che si trovò a dover scegliere tra due modelli nazionali entrambi estranei alla propria natura (cf. Palla/Demetz 1989; Palla 1986; Palla 2000; De Grandi 2005, 22). È stato affermato, in maniera condivisibile (cf. per es. Valentini 1977; Craffonara 1995) che, nonostante gli eventi drammatici della prima metà del ’900, la forte aspirazione all’unitarietà dei ladini ha resistito alle forze centrifughe che hanno in tutti i modi provato a indebolirla. Possiamo quindi sostenere che il territorio ladino, che Goebl (2000–2001), sulla base dei fattori supra menzionanti ha definito in maniera molto felice con l’espressione «Ladinia brissino-tirolese», sia tuttora un territorio unito da un punto di vista etnologico, etnografico ed economico-culturale. Uno degli esempi più importanti in merito è sicuramente la presenza di varie unioni culturali e associazioni politiche sviluppatesi già alla fine del XIX secolo e fondate da intellettuali ladini al di fuori dei confini ladini. Le due guerre non hanno impedito ai ladini di continuare su questa scia e così, subito dopo la Seconda Guerra mondiale, riallacciandosi agli obiettivi politici e etnici delle prime associazioni ladine, a partire dal 1946, nacque la Union Generela di Ladins dla Dolomites (UGLD), un’unione intraladina con lo scopo di salvaguardare il patrimonio linguistico e culturale ladino e di creare una nazione ladina a tutti gli effetti (cf. De Grandi 2005). Meno presenti sono tuttavia attualmente iniziative o manifestazioni con lo scopo di sostenere pubblicamente la riunificazione delle valli ladine. L’ultimo episodio di grande rilevanza in merito è stato il referendum dell’ottobre del 2007 delle valli ladine bellunesi, per chiedere il passaggio di Ampezzo, Livinallongo e Colle Santa Lucia all’Alto Adige, referendum che ha registrato più dell’80 % di consensi favorevoli. Benché il referendum non abbia avuto conseguenze politiche e amministrative, ha dimostrato che l’aspirazione all’unificazione ladina rimane molto forte.

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

La storia comune si riflette tuttora in aspirazioni condivise con conseguenze dirette sulla lingua stessa (↗6 Coscienza linguistica e identità ladina; ↗8 Panoramica della letteratura ladina; ↗9 Storia della normazione ortografica del ladino; ↗13 Il ladino nei mass media, in internet e nei social network). La volontà di mantenere almeno un’unità culturale, di fronte a ormai un secolo di divisione amministrativa, si rispecchia nei vari tentativi di unificazione a livello linguistico, come per es. le varie riforme ortografiche delle varietà ladine locali a partire dagli anni 1980 (↗9 Storia della normazione ortografica del ladino), oppure nel progetto di elaborare una lingua standard comune, denominata ladin dolomitan, affidato nel 1988 dagli istituti culturali ladini «Majon di Fascegn» e «Micurà de Rü» a Heinrich Schmid. Sulla base dei criteri elaborati e pubblicati da Schmid, nel 1994 venne istituito lo SPELL (Servisc per la Planificazion y la Elaborazion dl Lingaz Ladin), un’istituzione per la pianificazione e l’elaborazione della lingua ladina, le cui attività sfoceranno nella pubblicazione della grammatica (GLS 2001) e del dizionario del ladino standard (DLS 2002). L’accettazione del ladin dolomitan da parte della popolazione ladina è però fallita in primis per il mancato sostegno politico da parte dell’Alto Adige, giustificato a livello argomentativo con la preoccupazione che tale lingua standard si potesse sostituire alle varietà locali. Se quindi l’introduzione ufficiale del ladin dolomitan è al momento sospesa, ciò non toglie che a livello di corpus planning il lavoro degli ultimi venticinque anni nell’elaborazione di tale lingua abbia portato a dei risultati innovativi e promettenti. Meno efficace si è dimostrato il processo di status planning, che vige tuttora. Nonostante ciò, il ladin dolomitan continua ad essere utilizzato in alcuni contesti – anche se limitati – e ciò conferma che l’obiettivo di un’introduzione concreta di tale standard non è ancora venuto meno (cf. Videsott 2015). Dai processi e sviluppi appena descritti, il territorio cadorino e agordino è sempre rimasto escluso. Si impone perciò una differenza terminologica tra la Ladinia «dolomitica» (termine reclamato nel frattempo anche dal movimento «neoladino») e la Ladinia «brissino-tirolese». Quest’ultima è composta dai comuni di: Marebbe, San Martino, La Valle, Badia e Corvara in Val Badia; Ortisei, Santa Cristina, Selva di Val Gardena e le frazioni del comune di Castelrotto Bulla, Roncadizza e Oltretorrente in Val Gardena; Moena, Soraga, San Giovanni di Fassa (comune nato dalla recente fusione dei due comuni di Vigo di Fassa e Pozza), Campitello, Mazzin e Canazei in Val di Fassa; Livinallongo e Colle Santa Lucia nell’alta valle del Cordevole; e infine Cortina d’Ampezzo nell’alta valle del Boite.

Introduzione

Ill. 1: Il territorio della Ladinia brissino-tirolese (© Istitut Pedagogich Ladin)  

19

20

Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

Nome italiano

Nome ladino

Nome tedesco

Marebbe

Mareo

Enneberg

Val Badia

Val Badia

Gadertal

Rina (frazione di Marebbe)

Rina

Welschellen

San Martino

San Martin de Tor

Sankt Martin in Thurn

La Valle

La Val

Wengen

Badia

Badia

Abtei

Corvara

Corvara

Corvara (†Kurfar)

Colfosco (fraz. di Corvara)

Calfosch

Kolfuschg

Val Gardena

Gherdëina

Grödental

Ortisei

Urtijëi

Sankt Ulrich

Santa Cristina

Santa Cristina

Sankt Christina

Selva di Val Gardena

Sëlva

Wolkenstein

Bulla (fraz. di Castelrotto)

Bula

Pufels

Roncadizza (fraz. di Castelrotto)

Runcadic

Runggaditsch

Oltretorrente (fraz. di Castelrotto)

Sureghes

Überwasser

Val di Fassa

Fascia

Fassatal/†Efas

Moena

Moena

†Mojena

Soraga

Soraga

Soraga

San Giovanni di Fassa

Sèn Jan

Vigo di Fassa (fraz. di San Giovanni)

Vich

†Wig

Pozza di Fassa (fraz. di San Giovanni)

Poza

Pozza

Campitello

Ciampedel

†Kampedell

Mazzin

Mazin

Mazzin

Canazei

Cianacei

†Tschanatschei

Livinallongo

Fodom

Buchenstein

Colle Santa Lucia

Col

†Versail

Alta valle del Cordevole

Ampezzo Cortina d’Ampezzo

Anpezo Cortina

Ampezzo †Hayden

Introduzione

21

3 Desiderata Gli inizi dell’interesse scientifico per il ladino brissino-tirolese si possono datare alla seconda metà del XIX secolo e da questo periodo ad oggi la produzione scientifica è stata imponente, come informano le bibliografie dedicate (↗18 Atlanti linguistici, corpora, bibliografie, cap. 3). Tuttavia, sono ancora molti gli argomenti che non sono finora stati oggetto di studio per il ladino. Mentre gli ambiti fonologico e lessicale sono stati studiati in maniera abbastanza approfondita ed esauriente, la ricerca in ambito morfo-sintattico presenta – come del resto anche in altre lingue minori, sprovviste di lunga tradizione scritta – delle lacune più vistose. Negli ultimi anni, tuttavia, si sono moltiplicati i lavori in questo settore, soprattutto per quanto riguarda l’inversione soggetto-verbo, l’interrogazione, la negazione, la posizione del soggetto, dei clitici, dei determinanti e i diversi sintagmi nominali. Mancano però tuttora studi complessivi che includano tutte le varietà e che riguardino per es. le funzioni informative dell’ordine tema-rema, le strategie di focalizzazione e le caratteristiche funzionali e pragmatiche della frase secondaria, anche se, per quanto riguarda questo ultimo punto, è appena stato pubblicato un volume in merito, che opera il confronto con il tedesco e l’italiano, ma solamente per le due varietà ladine altoatesine (cf. Gallmann/Siller-Runggaldier/Sitta 2018). Un ulteriore argomento poco studiato è il processo di acquisizione del ladino come L1. In effetti, a parte uno studio sulla varietà gardenese (cf. Egger/Lardschneider-McLean 2001), non esistono dati sull’acquisizione del ladino, una lacuna che andrebbe colmata al più presto, soprattutto perché fa parte del pacchetto informativo che va fornito ai futuri insegnanti delle scuole ladine. È legato a questo aspetto anche tutto l’ambito del ladino come lingua seconda e lingua straniera, che necessiterebbe di approfondimenti scientifici non solo per studiare il processo di acquisizione, ma per capirne soprattutto il suo inserimento nei livelli del QCER (quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue) e per poterne descrivere le caratteristiche per i bisogni didattici. Partendo da queste considerazioni è inevitabile abbordare anche tematiche di linguistica di migrazione, argomento che in futuro, vista l’aumentata presenza di persone con sfondo migratorio nelle valli ladine, sarà sicuramente di interesse socio-linguistico. A livello di corpora, il ladino è ben documentato per quanto riguarda la sua presenza scritta. Il CGL (Corpus general dl ladin) e il CLL (Corpus dl ladin leterar) (↗18 Atlanti linguistici, corpora, bibliografie, cap. 2), infatti, sono dei corpora che contengono testi scritti; un materiale molto importante per la consultazione, in quanto offrono lo stesso documento sia nell’ortografia originale, sia in quella moderna. Per allargare l’uso di tale corpora ad analisi linguistiche più approfondite, sarebbe utile elaborare un metodo di ricerca incentrato sulla descrizione grammaticale e che riesca quindi ad individuare varie categorie o vari sintagmi grammaticali. Per completare i corpora ladini sarebbe auspicabile un corpus dedicato al ladino

22

Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

parlato in vari contesti di domini sociali e per le varie età. Tale corpus andrebbe anche a integrare la ricerca sull’acquisizione del ladino L1 e L2. Infine, l’interesse scientifico si dovrà orientare sempre di più, come per le altre grandi lingue, verso l’uso del ladino in rete, un aspetto che la comunità scientifica dovrà affrontare, vista anche la vitalità linguistica e socio-linguistica che il ladino dimostra in questo contesto.

4 Tabella sui sistemi di trascrizione usati nei singoli capitoli La seguente tabella riassume i due tipi di trascrizione usati nei capitoli. Il primo è basato sul sistema Ascoli-Böhmer, di cui costituisce una versione adattata, con una riduzione dei segni diacritici, usata nella rivista Ladinia. Il secondo sistema invece è l'alfabeto fonetico internazionale (IPA). Nella colonna successiva è indicata l’ortografia scolastica attuale, e infine vengono dati esempi di trascrizione nei diversi sistemi. Quando non indicato diversamente, gli esempi sono dati in ladino gardenese. In tutti i capitoli si usa l’ortografia scolastica e, nelle citazioni, il sistema ortografico utilizzato nel testo citato; inoltre, i capitoli che trattano aspetti fonetici o fonologici utilizzano i seguenti sistemi: – Trascrizione Ascoli-Böhmer adattata (Ladinia): introduzione (cap. 0), capp. 4 e 9 – Trascrizione IPA: capp. 2, 3, 7 e 10 Trascrizione Ascoli-Böhmer adattata (usata dalla rivista Ladinia) (‘ABA’)

Trascrizione IPA

Ortografia scolastica attuale

Esempi per le diverse trascrizioni

/i/

/i/

‹i›, ‹ì›, ‹í›

/ži/ (ABA) /ʒi/ (IPA) jì (grd.), jí (bad.) ‘andare’

/é/

/e/

‹e›, ‹é›

/tlé/ (ABA) /tle/ (IPA) tle ‘chiave’

/è/

/ε/

‹e›, ‹è›

/mèrdi/ (ABA) /'mεʁdi/ (IPA) merdi ‘martedì’

/ë/

/æ/ (grd.), /ɐ/ (bad.)

‹ë›

/sëk/ (ABA) /sæk/ (grd.), /sɐk/ (bad.) (IPA) sëch ‘secco’

/ə/

/ǝ/

‹e›

/gərdëjna/ (ABA) /gəʁ'dæjna/ (IPA) Gherdëina (grd.) ‘Val Gardena’

Introduzione

23

Trascrizione Ascoli-Böhmer adattata (usata dalla rivista Ladinia) (‘ABA’)

Trascrizione IPA

Ortografia scolastica attuale

Esempi per le diverse trascrizioni

/a/

/a/

‹a›, ‹à›, ‹á›

/sak/ (ABA) /sak/ (IPA) sach ‘sacco’

/ă/

/ɑ/

‹ë›, ‹â›

liv. /săk/ (ABA) /sɑk/ (IPA) sëch ‘secco (liv.)’

/å/

/ɒ/

‹a›

bra. /lùnå/ (ABA) /'lunɒ/ (IPA) luna ‘luna (bra.)’

/ò/

/ɔ/

‹o›, ‹ò›

/ròda/ (ABA) /'ʁɔda/ (IPA) roda ‘ruota’

/ó/

/o/

‹o›, ‹ó›

/móša/ (ABA) /'moʃa/ (IPA) moscia ‘mosca’

/u/

/u/

‹u›, ‹ù›, ‹ú›

/mut/ (ABA) /mut/ (IPA) mut ‘bambino’

/ü/

/y/

‹ü›

bad. /müs/ (ABA) /mys/ (IPA) müs ‘viso (bad.)’

/ö/

/ø/

‹ö›

bad. /löna/ (ABA) /'løna/ (IPA) löna ‘luna (bad.)’

/V:/ (vocale lunga)

/V:/

non segnato

bad. /mi:l/ (ABA) /mi:l/ (IPA) mil ‘miele (bad.)’

/w/

/w/

‹u›

/awt/ (ABA) /awt/ (IPA) aut ‘alto’

/j/

/j/

‹i›

/nëjf/ (ABA) /næjf/ (IPA) nëif ‘neve’

Semivocali

24

Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

Trascrizione Ascoli-Böhmer adattata (usata dalla rivista Ladinia)

Trascrizione IPA

Ortografia scolastica attuale

Esempi per le diverse trascrizioni

/p/

/p/

‹p›

/pëš/ (ABA) /pæʃ/ (IPA) pësc ‘pesce’

/t/

/t/

‹t›

/tëma/ (ABA) /'tæma/ (IPA) tëma ‘paura’

/k/

/k/

‹c›+‹a›/‹u›/‹o›/ /kaŋ/ (ABA) cons. /kaŋ/ (IPA) can ‘quando’ ‹ch›+‹i›/‹e›/‹ë› /ki/ (ABA) /ki/ (IPA) chi ‘chi’ ‹-ch›, ‹-gh› /sëk/ (ABA) /sæk/ (IPA) sëch ‘secco’

/kw/

/kw/

‹cu›

/kwart/ (ABA) /kwaʁt/ (IPA) cuart ‘quarto’

/b/

/b/

‹b›

/burt/ (ABA) /buʁt/ (IPA) burt ‘brutto’

/d/

/d/

‹d›

/dut/ (ABA) /dut/ (IPA) dut ‘tutto’

/g/

/g/

‹g›+‹a›/‹u›/‹o›/ /gra/ (ABA) cons. /gʁa/ (IPA) gra ‘grazie’ ‹gh›+‹i›/‹e›/‹ë› /giré/ (ABA) /gi'ʁe/ (IPA) ghiré ‘desiderare’

/f/

/f/

‹f›

/fat/ (ABA) /fat/ (IPA) fat ‘fatto’

/s/

/s/

‹s-›

/surëdl/ (ABA) /su'ʁædl/ (IPA) surëdl ‘sole’ /màsa/ (ABA) /'masa/ (IPA) massa ‘troppo’

‹-ss-›

Introduzione

Trascrizione Ascoli-Böhmer adattata (usata dalla rivista Ladinia)

Trascrizione IPA

Ortografia scolastica attuale

Esempi per le diverse trascrizioni

‹-s› (‹-ss› in fas.) /dìžǝs/ (ABA) /'diʒǝs/ (IPA) tu dijes ‘dici’ /š/

/ʃ/

‹sci›

/h/

/x/, /ç/

‹h›

/rèhl/ (ABA) /ʁεxl/ (IPA) rehl ‘capriolo’

/v/

/v/

‹v›

/vëŋ/ /væŋ/ vën ‘viene’

/z/

/z/

‹ś-›

/zaré/ (ABA) /za'ʁe/ (IPA) śaré ‘chiudere’ /méza/ (ABA) /'meza/ (IPA) mesa ‘mezza’

/šadóŋ/ (ABA) /ʃa'doŋ/ (IPA) sciadon ‘cucchiaio’ ‹sc›+‹e›/‹ë›/‹i› /ši/ (ABA) /ʃi/ (IPA) sci ‘sì’ ‹-sc› /buš/ (ABA) /buʃ/ (IPA) busc ‘buco’ ‹s›+cons. sorda /špità/ (ABA) /ʃpi'ta/ (IPA) spità ‘aspettato’

‹-s-›

/ž/

/ʒ/

‹j›

/m/

/m/

‹m›

/mut/ (ABA) /mut/ (IPA) mut ‘bambino’

/n/

/n/

‹n›

/nuǝf/ (ABA) /nuǝf/ (IPA) nuef ‘nuovo’ bad. /món/ (ABA) /mon/ (IPA) monn ‘mondo (bad.)’

/žapé/ (ABA) /ʒa'pe/ (IPA) japé ‘in fondo’ ‹s›+cons. sono- /žbalé/ (ABA) ra /ʒba'le/ (IPA) sbalé ‘neve’

‹-nn›

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

Trascrizione Ascoli-Böhmer adattata (usata dalla rivista Ladinia)

Trascrizione IPA

Ortografia scolastica attuale

Esempi per le diverse trascrizioni

/ñ/

/ɲ/

‹gn›

fas. /bóñ/ (ABA) /boɲ/ (IPA) bogn ‘buoni (fas.)’

/ŋ/

/ŋ/

‹-n›

/tšaŋ/ (ABA) /tʃaŋ/ (IPA) cian ‘cane’

/l/

/l/

‹l›

/liǝt/ (ABA) /liǝt/ (IPA) liet ‘letto’

/r/

/r/, /ʁ/

‹r›

/ruf/ (ABA) /ʁuf/ (IPA) ruf ‘torrente’

/ts/

/ts/

‹z›

/tsakàŋ/ (ABA) /tsa'kaŋ/ (IPA) zacan ‘in passato’

/tš/

/tʃ/

‹ci›

/tšatšé/ (ABA) /tʃa'tʃe/ (IPA) ciacé ‘cacciare’ /tšëza/ (ABA) /tʃæza/ (IPA) cësa ‘casa’ /awnìtš/ (ABA) /aw'nitʃ/ (IPA) aunic ‘ontano’

‹c›+‹e›/‹ë›

‹-c›

/ć/

/c/

‹ći›

‹ć›+‹e›/‹ë›

‹-ć›

bad. /ćafé/ (ABA) /ca'fe/ (IPA) ciafé ‘trovare (bad.)’ bad. /ćé/ (ABA) /ce/ (IPA) ce ‘capo, testa (bad.)’ bad. /léć/ (ABA) /lec/ (IPA) lec ‘letti (sost.) (bad.)’

/dz/

/dz/

‹z-›

/dzaré/ (ABA) /dza'ʁe/ (IPA) zaré 'strappare' (in precedenza: źaré)

/ǵ/

/dʒ/

‹gi›

/ǵat/ (ABA) /dʒat/ (IPA) giat ‘gatto’

Introduzione

Trascrizione Ascoli-Böhmer adattata (usata dalla rivista Ladinia)

Trascrizione IPA

27

Ortografia scolastica attuale

Esempi per le diverse trascrizioni

‹g›+‹e›/‹ë›/‹ë›

/ǵëŋ/ (ABA) /dʒæŋ/ (IPA) gën ‘volentieri’

5 Abbreviazioni (valevoli per l’intero volume) aat. = antico alto tedesco abad. = alto badiotto amp. = ampezzano bad. = badiotto (comprendente alto badiotto e basso badiotto) bav. = bavarese bbad. = basso badiotto bra. = brach caz. = cazét col. = collese colf. = badiotto di Colfosco fas. = fassano fod. = fodom/livinallese fr. = friulano gad. = gaderano (ossia l’insieme delle varietà parlate in Val Badia e Marebbe) gr. = greco grd. = gardenese in. = inglese it. = italiano lad. = ladino lat. = latino lett. = letterario lvb = ladino scritto della Val Badia (varietà standard della valle) mar. = marebbano mat. = medio alto tedesco MdR = koinè scritta proposta nel 1833 da Micurá de Rü/Nikolaus Bacher mod. = moderno moe. = moenese protolad. = protoladino prz. = protoromanzo ro. = romancio grigionese rom. = romeno srm. = surmirano srs. = sursilvano sts. = sottosilvano ted. = tedesco trent. = trentino ttir. = tedesco tirolese

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

ven. = veneto venez. = veneziano

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Paul Videsott, Ruth Videsott e Jan Casalicchio

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Il ladino: storia e strutture

Hans Goebl

1 Il ladino e i ladini: glotto- e etnogenesi Abstract: Il territorio della Ladinia brissino-tirolese è caratterizzato non solo da una comunanza linguistica, ma anche da un percorso storico comune. Infatti, tutte le valli ladine fecero parte, almeno per un periodo della loro storia, della diocesi di Bressanone e della contea del Tirolo. Di conseguenza, gli abitanti di queste valli hanno sviluppato un senso di identità, non solo linguistica ma anche etnica, comune, come dimostrano le testimonianze precoci degli usi scritti del ladino e le riflessioni linguistiche sulla posizione particolare di questa lingua. I ladini (e il ladino) sono infatti a cavallo tra il mondo tedescofono e quello italiano, come dimostrano le influenze linguistiche e culturali provenienti da nord e da sud. Il presente capitolo ripercorre le tappe fondamentali di questo sviluppo, e illustra le tracce che le influenze tirolesi/tedesche e italiane hanno lasciato in diversi ambiti e che caratterizzano l’identità ladina odierna.  

Keywords: storia delle valli ladine, sviluppo dell’identità ladina, coscienza etnica, tutela del ladino, usi del ladino  

1 Premessa Il trattamento isolato della genesi del ladino (inteso come glossa) e dei ladini (intesi come ethnos) senza una presa in considerazione parallela degli sviluppi analoghi nei Grigioni e nel Friuli risulta alquanto problematico. Rimando in merito ai miei contributi precedenti sul tema (Goebl 2000–2001; 2003) dove si possono trovare presentazioni complessive di queste tre aree. Sussidi bibliografici: dal 2011 la bibliografia ladina (Rätoromanische Bibliographie/Bibliografia retoromanza 1729–2010) di Videsott (2011b) sostituisce utilmente tutte le bibliografie anteriori, redatte da Iliescu/Siller-Runggaldier (1985) nonché da Holtus/Kramer (1986–1997), elencate nella bibliografia sottostante.

2 Geografia, demografia, situazione glottopolitica attuale Sussidi bibliografici: Belardi (1994; 1996), Craffonara (1981; 1997), Fontana (1981), Hilpold/Perathoner (2005), Kattenbusch (1996), Richebuono (1982; 1992).

https://doi.org/10.1515/9783110522150-002

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Hans Goebl

Con Kattenbusch (1988) s’intende per ladino dolomitico l’idioma che la popolazione autoctona parla generalmente quale L1 in alcune vallate delle province italiane di Bolzano (BZ), Trento (TN) e Belluno (BL): Tabella 1: Le cinque vallate ladino-dolomitiche (o brissino-tirolesi)  

Nome ladino

Nome italiano

Nome tedesco (attuale)

Provincia

Regione

Val Badia

Val Badia

Gadertal

Bolzano (BZ)

Trentino-Alto Adige

Gherdëina

Val Gardena

Gröden

Bolzano (BZ)

Trentino-Alto Adige

Fascia

Fassa, Val di Fassa Fassa, Fassatal

Trento (TN)

Trentino-Alto Adige

Fodom

Livinallongo

Belluno (BL)

Veneto

Anpezo

Cortina d’Ampezzo Cortina d’Ampezzo Belluno (BL)

Veneto

Buchenstein

Le cinque vallate menzionate supra costituiscono la «Ladinia dolomitica». Da un paio di anni la stessa zona è anche definita – visto la sua lunghissima apparteneza alla diocesi di Bressanone e alla Contea principesca del Tirolo – «Ladinia brissino-tirolese», un coronimo dotto. Viene valorizzato in questa maniera l’elemento storico comune delle cinque vallate e la coscienza che ne hanno i loro abitanti. Si ribadisce però anche il fatto che la definizione della stessa compagine territoriale solo con mezzi intra-linguistici (o dialettali) risulta altamente problematica. Per questo motivo rimangono escluse dalla nostra trattazione alcune zone limitrofe della Ladinia brissino-tirolese le cui parlate, pur esibendo una certa similarità intralinguistica con i dialetti ladini, si staccano da essi dal punto di vista meta- e sociolinguistico; si tratta delle vallate seguenti: in provincia di Belluno il Cadore (con il Comèlico) e l’Agordino (con Zoldo); in provincia di Trento la Val di Non (ted. Nonsberg) e la Val di Sole (ted. Sulzberg). Per volontà di alcuni protagonisti culturali locali nell’ultimo quarto del Novecento sono nati, dapprima nel Cadorino e quindi anche nelle due valli trentine di Non e di Sole, movimenti «neo-ladini» che diffondono l’idea, storicamente non comprovata, che anche i dialetti locali sono «ladini» e meritano quindi questo nome («ladino/ ladin») nonché un riconoscimento ufficiale (Goebl 1997; Rührlinger 2005). All’origine del movimento neo-ladino nel Cadore (Comèlico) stanno, dal 1977, i tentativi del professor Giovan Battista Pellegrini, spalleggiato da alcuni attivisti locali, di estendere l’area del glottonimo ladino anche al sud del vecchio confine tra i possedimenti degli Asburgo e della Serenissima (↗0 Introduzione, cap. 2.1). La somma complessiva dei Ladini brissino-tirolesi, cioè degli abitanti ladinofoni nelle cinque vallate della Ladinia brissino-tirolese, si aggira intorno alle 32.500 persone (Pan/Pfeil/Videsott 22016, 120). Un rilievo demografico preciso esiste solo nelle province di Bolzano e Trento, dove l’ultimo censimento (del 2011) ha fornito, per

Il ladino e i ladini: glotto‑ e etnogenesi

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le valli di Gardena, Badia e Fassa, la somma complessiva di 28.640 ladini, identificati tramite il criterio dell’auto-dichiarazione dell’«appartenenza e aggregazione al gruppo linguistico ladino». L’inizio della protezione giuridica ufficiale dei ladini come «gruppo linguistico» (e non come minoranza etnica) risale in provincia di Bolzano al Primo Statuto di Autonomia per la Regione Trentino-Alto Adige, emanato nel 1948. Successivamente, le misure legislative per la protezione dei ladini vennero allargate, di modo che oggigiorno lo stato di tutela attuale viene percepito, dalla maggioranza dei gardenesi, badiotti ed anche fassani, come soddisfacente. Dal 1948 il ladino rappresenta una delle tre lingue (tedesco, italiano, ladino) ufficialmente riconosciute in Alto Adige/ Sudtirolo. Nel 1948 è stato istituito, nelle valli di Gardena e di Badia, un sistema scolastico particolare («scuola paritetica ladina») che prevede l’insegnamento e l’uso paritetico dell’italiano e del tedesco per tutte le materie scolastiche, mentre il ladino viene insegnato come materia curricolare e serve in classe da lingua strumentale e veicolare, ossia per la comunicazione supplementare (↗12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine, cap. 2.1). Nel frattempo, il quadro giuridico dell’Alto Adige/Sudtirolo ha permesso di aumentare la presenza del ladino nelle scuole di ogni ordine e grado a due ore settimanali, anche se questa possibilità inizialmente non era gradita a tutti i genitori, più interessati all’estensione dell’apprendimento delle «grandi» lingue (tedesco, italiano, inglese) da parte dei loro figli. Benchè anche la Val di Fassa dovesse godere, in teoria, dei vantaggi dello Statuto di Autonomia del 1948, la protezione giuridica del ladino fassano – a causa di un clima poco favorevole ai ladini immediatamente dopo il 1945 e fino agli anni 1970 – era meno progredita che in provincia di Bolzano; gradualmente però le differenze di tutela più eclatanti sono state eliminate e anzi, la Val di Fassa ha ottenuto qualche diritto non previsto per i ladini dell’Alto Adige/Sudtirolo (per es. l’uso del ladino come lingua di insegnamento di altre materie scolastiche). Le tappe più importanti per la tutela ufficiale della varietà fassana sono state la creazione del «Comprensorio ladino» (con inclusione di Moena) nel 1976, sostituito, nel 2006, dal «Comun general de Fascia», l’ammissione ufficiale del ladino nei programmi di studio delle scuole elementari nel 1993, seguita progressivamente da una serie di misure organizzative e didattiche a favore del ladino nelle scuole elementari e secondarie (↗12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine, cap. 2.2). Malgrado reiterate rivendicazioni portate avanti (dal 1946) con insistenza dalla popolazione locale (cf. Richebuono 1982; Videsott 2007), lo status giuridico dei ladini di Livinallongo, Colle S. Lucia e Cortina d’Ampezzo – tutti appartenenti alla Regione del Veneto – è tuttora abbastanza precario. La loro protezione giuridica ufficiale si limita in pratica ai termini della legge 482 del 1999. Cionondimeno la Regione Veneto ha iniziato, nel 1983, una politica più tollerante rispetto alle popolazioni non-italofone del suo territorio di cui fanno parte, oltre ai ladini, anche i germanofoni dei VII e XIII comuni (comunità però pressoché estinte) e di Sappada (ted. Pladen; questo comune nel 2017 è passato dalla Regione del Veneto a quella del Friuli-Venezia Giulia). Uno

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dei risultati principali della legge 482 è stata la creazione di alcuni Istituti culturali, che svolgono un’attività linguistica e culturale molto utile e proficua – anche se quello operante per i ladini a Col/Colle S. Lucia (Istitut cultural ladin «Cesa de Jan») è stato creato nel 2004 senza richiamarsi alla legislazione provinciale in merito (che aveva scelto l’istituto di Borca di Cadore come «istituto ladino della Provincia»), ma come associazione di tipo privatistico tra i tre comuni di Cortina d’Ampezzo, Colle S. Lucia e Livinallongo del Col di Lana nonché delle rispettive tre «Unions di Ladins». Abbiamo già menzionato supra la genesi, avvenuta negli anni ’70 del Novecento, di movimenti «neo-ladini» nelle zone settentrionali delle province di Belluno e di Trento che esaltano le parlate autoctone come prettamente «ladine» e richiedono un’analoga promozione legislativa e finanziaria da parte delle autorità politiche. Il loro riconoscimento ufficiale non è però ancora avvenuto ovunque (Goebl 1997; Rührlinger 2005). L’inserzione dei ladini delle cinque vallate brissino-tirolesi nel contesto politico italiano ha destato, dopo le due Guerre mondiali, un certo numero di attriti e difficoltà (↗6 Coscienza linguistica e identità ladina, capp. 7–9) provocando anche aspri commenti e polemiche da parte di alcuni scienziati italo-patriotici (Goebl 1990). Spiccano tra di loro le figure dei professori Carlo Battisti (1882–1977; per es. Battisti 1962) e Giovan Battista Pellegrini (1921–2007; per es. Pellegrini 1972). Ambedue hanno preso di mira alcune iniziative ladine – soprattutto da parte dei livinnalesi ed ampezzani – per la loro riunificazione politico-amministrativa con la provincia di Bolzano, criticando da una parte (C. Battisti) lo spirito troppo «austriacante» e «passeista» dei ladini, e esaltando dall’altra (G. B. Pellegrini) gli stretti legami linguistici del fodom con i dialetti veneti antistanti. Ambedue i linguisti rifiutavano inoltre categoricamente di prendere in considerazione i sentimenti metalinguistici dei ladini. Tramite una svolta argomentativa curiosa, G. B. Pellegrini è diventato, da critico dei ladini brissino-tirolesi e dei loro sentimenti identitari tirolesi, il promotore della ladinità neo-ladina (del Cadore, del Comèlico e della parte settentrionale della provincia di Belluno) sottolineando le similarità intra-linguistiche tra gli idiomi della Ladinia brissino-tirolese e del Veneto settentrionale antistante ed esortando le popolazioni di questa zona ad approfittare di questo fatto «scientifico» comprovato per fregiare la loro propria lingua e cultura del predicato «ladino». In effetti, le sue iniziative sono state accolte da alcuni rappresentanti della vita politica e religiosa della provincia di Belluno. Sono emblematici in merito due volumi miscellanei pubblicati con la partecipazione e sotto l’impulso di G. B. Pellegrini nel 1984 (Pellegrini/Sacco 1984) e nel 1992 (Cesco Frare/Pellegrini 1992).

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3 Storia Sussidi bibliografici: Belardi (1994), Craffonara (1981; 1997; 1998a; 1998b); Degen (1987), Dopsch (1988), Fontana (1981), Ghetta (1974), Goebl (1988; 2000–2001; 2003), Hageneder (1985), Kattenbusch (1996), Palla (1986), Pohl/Hartl/Haubrichs (2017), Richebuono (1980; 1982; 1993), Wolfram (1995). La romanizzazione delle Alpi centrali ed orientali inizia nel 15 a. C. con l’invasione militare voluta dall’Imperatore romano Augusto (30 a. Cr.–14 d. Cr.) ed eseguita dai suoi figliastri Druso e Tiberio. Dopo essere state inglobate nell’amministrazione imperiale, le cinque vallate ladine appartenevano, con ogni probabilità (cf. Craffonara 1998b, passim), a tre entità amministrative romane diverse: la Val Badia occidentale (con Rina, Marebbe, La Valle e Badia) al Noricum Mediterraneum, la Val Gardena nonché il centro della Val Badia (S. Martino, Antermoia e Longiarù), la parte superiore della Val di Fassa e di Livinallongo alla Raetia Secunda, mentre la parte inferiore della Val di Fassa, di Livinallongo (tranne Arabba ed Ornella, ambedue appartenti al Noricum Mediterraneum, e la porzione «retica») e Cortina erano parte dell’Italia (Regio X Venetia et Histria): si veda la carta 1. La mancata unità politica della Ladinia sembra quindi essere di vecchia data. È ancora sub lite la questione se ai tempi dell’Impero romano la Ladinia disponesse già di una copertura demografica stabile, o se questa si sia stabilita solo in epoche posteriori (↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.2). I linguisti italiani C. Battisti e G. B. Pellegrini postulavano che le cinque vallate fossero abitate dapprima solo in maniera intermittente da pastori ecc., e che il popolamento stabile risalga solo alla fine del primo millennio come conseguenza dei tentativi, messi in atto da parte dei vescovi di Sabiona-Bressanone e di Trento, di bonificare e coltivare le loro terre. Ricerche archeologiche e storiche di data più recente dimostrano però che il popolamento stabile, anche ad altitudini piuttosto elevate, è di gran lunga anteriore alla data postulata da C. Battisti e G. B. Pellegrini, e che risale con certezza almeno al periodo romano, con dei singoli stanziamenti ancora più antichi che risalgono al periodo preromano, come testimoniano i toponimi prelatini (Richebuono 1992; Lunz 1979; Tecchiati 1994; Craffonara 1998b, passim). Ne risulta che dopo la romanizzazione e l’avvento del cristianesimo (dal VI secolo in poi) le valli ladine disponevano di un incolato umano stabile.

Carta 1: Suddivisioni amministrative romane sotto l’imperatore Diocleziano (284–305). In blu: le zone di diffusione attuali del romancio grigionese, del ladino brissino-tirolese e del friulano nonché le frontiere statali e regionali moderne. Fonti: Müller-Wolfer (1981, I); Putzger/Lendl/Wagner (511977, 35).

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Fino al crollo dell’Impero d’Occidente (476) la zona della Ladinia fu in generale risparmiata dalle migrazioni barbariche e dai rispettivi sconvolgimenti politici e culturali. Assunse però una grande importanza politica e civile il cristianesimo e l’organizzazione territoriale e culturale ad esso collegata (Hageneder 1985; Wolfram 1995). I primi albori del cristianesimo locale risalgono al V secolo per il territorio della diocesi di Trento, ed al VI secolo per quello della diocesi di Sabiona-Bressanone. Ambedue appartenevano sin dal quarto secolo alla metropoli di Aquileia che fungeva da centro d’irradiazione per il culto e la pratica della nuova religione. Dopo il 476, la nostra zona passò dapprima nelle mani di Odoacre (422–493), re degli Eruli, e dopo la sua morte in quelle degli Ostrogoti sotto il loro re Teodorico il Grande (454–526). Con l’intrusione politica dei Franchi nella nostra regione (536/537) si manifestò per la prima volta l’antagonismo geopolitico tra correnti politiche e culturali provenienti da nord (Franchi) e da sud (Ostrogoti, Bizantini e Longobardi). Questa situazione bicefala è diventata un fattore molto importante per lo sviluppo ulteriore della latinità locale e regionale (Stefenelli 1996). Dopo la sconfitta del regno italico degli Ostrogoti (553) da parte dei Bizantini, questi ultimi divennero i signori politici della nostra regione fino all’invasione dei Longobardi (568) che crearono, a Trento, uno dei loro ducati regionali. È di somma importanza per lo sviluppo ulteriore della situazione politica, religiosa e culturale della nostra regione l’apparizione, nell’ombra (geo)politica di Franchi, Bizantini e Longobardi, di una nuova tribù germanica, cioè dei Bavari, chiamati, nelle fonti latine e greche dell’epoca, anche Baibari, Baiuvari o Baiovarii. I dettagli della loro genesi sono tuttora sub lite (Dopsch 1988; Pohl/Hartl/Haubrichs 2017). Sta di fatto però che la genesi dei Bavari è esente da fenomeni migratori di qualsiasi genere. Sembra inoltre che la struttura giuridica e civile della nuova gens sia stata contrassegnata dall’integrazione pacifica di popolazioni di origine linguistica diversa. Gli scavi fatti da V. Bierbrauer sulla collina di Sabiona dimostrano, tramite la sistemazione comunitaria delle tombe e il corredo funerario poco differenziato, che tale era la situazione già verso il 600 (Bierbrauer/Notdurfter/Bratož 2015, passim). Sotto la tutela dei Franchi, nel VI secolo i Bavari crearono un ducato, presto provvisto di un assetto giuridico particolare (Lex Baiuvariorum). Il primo duca bavaro, oriundo dalla stirpe franca degli Agilolfingi, s’insedia a Bolzano verso il 680. Sembra che la chiesa cattolica, nella persona del vescovo di Sabiona, si sia servita già dalle prime fasi della protezione dei nuovi duchi (Gsell 1990). Per il vescovado di Sabiona, la documentazione storica inizia con il vescovo Ingenuino (†605), diventato successivamente il santo patrono della diocesi. Nei secoli VII e VIII sfortunatamente la nostra regione sparisce dalle fonti storiche. Alla sua riapparizione la diocesi di Sabiona è già pienamente integrata nel dominio ducale dei Bavari e dispone di stretti contatti con la diocesi di Salisburgo. Dopo l’annessione (forzata) del ducato di Baviera al regno dei Franchi (788), la diocesi di Salisburgo è promossa, per volontà di Carlomagno (768– 814), al rango di metropoli ecclesiastica (cis- e transalpina) e di principato arcivescovile (798).

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Da allora l’arcidiocesi metropolita comprese le seguenti diocesi: oltre a Salisburgo (ted. Salzburg) stessa, Sabiona (Säben), Ratisbona (Regensburg), Frisinga (Freising) e Passavia (Passau); dal punto di vista politico la metropoli di Salisburgo era incaricata soprattutto della cristianizzazione delle popolazioni slave dello spazio norico-pannonico, ancora pagane. Il riorientamento (geo)politico, religioso e culturale della diocesi di Sabiona da sud (Aquileia) verso nord (Salisburgo) ebbe conseguenze importanti: «Die Ausrichtung Säbens nach dem Norden kann in ihrer Tragweite kaum überschätzt werden. Die wichtigste kirchliche Institution im Gebiet des späteren Tirol, deren Wirksamkeit sich keineswegs auf geistliche Belange beschränkte, öffnete sich damit dem Einfluß aus dem Norden» (Riedmann 1988, 31) (‘L’orientamento di Sabiona verso nord, con tutto ciò che comportò, può essere difficilmente sopravvalutato. L’istituzione ecclesiastica più importante nel territorio del futuro Tirolo, la cui area di influenza non era assolutamente limitata a questioni spirituali, si apriva così agli influssi provenienti da nord’). Si veda la carta 2. Nei secoli successivi il potere dei vescovi locali crebbe continuamente. Nel 1004 l’Imperatore tedesco Enrico II (1002–1024) investì il vescovo di Trento anche del potere secolare; lo stesso privilegio fu accordato, da parte dell’Imperatore Corrado II (1024–1039), anche al vescovo di Sabiona, trasferitosi già nel 960 dalla collina di Sabiona alla conca di Bressanone: egli ebbe i diritti comitali sulle valli dell’Inn e dell’Isarco. Nel 1091 i diritti comitali del vescovo brissinese furono estesi anche alla Val Pusteria per volontà dell’Imperatore Enrico IV (1056–1106). Queste misure amministrative costituiscono la base dell’ulteriore sviluppo territoriale del Tirolo, contrassegnato dalla cooperazione, non sempre pacifica, tra i principi vescovi di Trento e Bressanone e i loro balivi (ted. Vögte), da un lato, e i conti del Tirolo dall’altro. In ultima analisi questo sistema concorrenziale, politicamente e culturalmente molto efficace, venne abrogato solo nel 1803 nel quadro del famoso «Reichsdeputationshauptschluß» (‘Relazione conclusiva della Deputazione imperiale’). Dal IX secolo ad oggi la maggioranza dei vescovi brissinesi è stata linguisticamente di origine tedesca: la stessa cosa vale per i vescovi di Trento, però limitatamente al periodo dall’XI al XVI secolo. Prima e dopo i vescovi trentini erano di lingua e origine romanze. Il potenziamento del loro potere politico indusse i vescovi a intensificare la bonifica dei loro territori tramite l’insediamento di nuovi coloni – spesso germanofoni – in zone economicamente sotto-sviluppate. Ne risultarono la germanizzazione progressiva di zone originariamente ladine, situate al margine della Ladinia odierna, e parallelamente il lento ritiro del ladino verso i suoi focolai attuali (Finsterwalder 1965). La vecchia concezione, difesa soprattutto da C. Battisti e G. B. Pellegrini, della genesi altomedievale dell’incolato stabile delle cinque vallate ladine è stata contraddetta definitivamente dalle ricerche puntuali di Lois Craffonara (1998a; 1998b).  





Carta 2: Ducati, province ecclesiastiche e diocesi (vescovadi) nell’Alto Medioevo. In blu: le zone di diffusione attuali del romancio grigionese, del ladino brissino-tirolese e del friulano nonché le frontiere statali e regionali moderne. In rosso: confini delle province ecclesiastiche di Magonza, Salisburgo, Milano ed Aquileia. Con punteggi: territori di diocesi. Fonti: Corbanese (1983); Engel (21979, 66); Müller-Wolfer (1981, I–IV); Putzger/Lendl/Wagner (511977, 59); Stier et al. (1956).

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Di somma importanza per la creazione delle identità locali fu, a partire dal XIII secolo, l’istituzione dei giudizi (ted. Gerichte), che divennero centri importanti della vita civile ed economica (Richebuono 1981, passim; 1992, 34s.). Si veda la carta 3. Quattro delle cinque vallate ladine costituiscono i nuclei più antichi della Ladinia brissino-tirolese, mentre quella di Cortina d’Ampezzo fu aggregata al Tirolo solo nel 1511 dall’Imperatore Massimiliano I (1493–1519) alla fine di una delle numerose guerre condotte dagli Asburgo contro la Repubblica di Venezia (Richebuono 1993). Tre furono quindi i fattori decisivi per la formazione dell’«ethnos» ladino, inteso come identità (ed anche: alterità) etnica: a) il dominio spirituale e culturale della diocesi di Sabiona-Bressanone, b) il potere secolare di tale diocesi, così come quello politico dei Conti del Tirolo, c) azione capillare dei Giudizi (ted. Land-Gerichte). Mentre l’individuazione etnolinguistica dei ladini verso le popolazioni germanofone del nord si fece senza difficoltà, quella verso le popolazioni romanofone del sud fu molto più complessa. Disponiamo, quanto alla posizione etnolinguistica particolare dei ladini, di tre gruppi di fonti: a) Relazioni di stampo storico e geografico («landeskundlich»), spesso in lingua tedesca e quindi «da fuori», nelle quali si alludeva all’esistenza locale di un idioma romanzo (Grobwalsch) molto diverso dall’italiano (Klugwalsch) (Schatz 1955, 355). b) Relazioni di stampo prettamente linguistico, redatte prevalentemente nel Sette- e Ottocento, nelle quali si trovano osservazioni comparative tra gli idiomi dei Grigioni, della Ladinia e del Friuli. Esse constituiscono i prodromi della nota dottrina di G. I. Ascoli della convergenza tipologica delle tre favelle suddette (↗5 Il ladino e le altre lingue romanze, cap. 2). c) Osservazioni e commenti da parte dei ladini stessi: la loro tradizione inizia nei primi decenni dell’Ottocento (Nikolaus Bacher/Micurá de Rü 1833) e si infittisce progressivamente nella seconda metà dell’Ottocento.

Carta 3: Poteri ecclesiastici e secolari verso 1400. In blu: le zone di diffusione attuali del romancio grigionese, del ladino brissino-tirolese e del friulano nonché le frontiere statali e regionali moderne. Con tratteggi e punteggi: territori ecclesiastici e secolari. Fonti: Corbanese (1983); Engel (21979, 72); Müller-Wolfer (1981, III); Putzger/Lendl/Wagner (511977, 56–57); Stier et al. (1956, 80).

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Ad a): Una delle relazioni più antiche di tipo storico-geografico («landeskundlich») è quella del nobile tirolese Marx Sittich von Wolkenstein (1563–1620). Nella sua descrizione del Tirolo meridionale (Landesbeschreibung von Südtirol), redatta verso 1600, il Nostro menziona, per la Val Gardena ed i dintorni di Nova Levante (Welschnofen), l’esistenza di una «grobwelsch Sprach» (‘lingua rozza velscica’) e di un «grobwelsch Volkh» (‘popolo rozzo velscico’) (Stolz 1934, 267–268; Stolz 1938, 64; Richebuono 1980, 231). Ad b): Nel rapporto di una visitazione, fatta dai Gesuiti nel 1717, il ladino locale viene caratterizzato come «rauhes verdorbenes Gemisch aus deutschen, französischen, italienischen und spanischen Bruchstücken» (miscela corrotta di frammenti tedeschi, francesi, italiani e spagnoli). Nel 1771 il «chirurgo» di Selva di Val Gardena lamenta che i gardenesi rappresentino una razza né romanza né germanica («weder Welsch- noch Teutschgeborene»), sottolineando come il gardenese sia una lingua difficilmente classificabile dal punto di vista linguistico («eine unter keine Nation der Welt passierende Sprache», Richebuono 1982, 96). Ad c): Il comparativismo linguistico stricto sensu, basato cioè sull’analisi (parascientifica) di singole parole e della loro struttura fonetica, inizia nella nostra area solo nel 1760 con l’avvocato perginese Simone Pietro Bartolomei (1709–1763) ed il suo vocabolario tirolese-trentino pentaglotta intitolato Catalogus multorum verborum quinque dialectuum, quibus Montani Perginenses [1], Roncegnenses [2], Lavaronenses [3], Septem Pagenses [4] et Abbatienses [5] utuntur (↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 6) nel quale vengono sottolineate, da una parte, la dissimilarità dei vocaboli badiotti [5] elencati rispetto all’italiano e, dall’altra, la similarità di alcuni di questi con certe parole del romancio grigionese (Stolz 1938, 64; Wright 1981, passim). Nel 1800, il lessicografo spagnolo Lorenzo Hervás y Panduro (1735–1809) menziona, nel suo Catálogo de las lenguas de las naciones conocidas y enumeración, división y clases de estas según la diversidad de sus idiomas y dialectos, anche una lingua romanza chiamata tirolés che con ogni probabilità corrisponde al ladino (cf. Kuen 1980). Nel 1805, il frate benedettino svizzero di origine sursilvana Placi a Spescha (1752– 1833) ribadisce, dopo aver visitato la Val Gardena da esule politico svizzero domiciliato a Innsbruck, da una parte la grande similarità del gardenese con il sursilvano e, dall’altra, il fatto che dialogando in sursilvano con alcune gardenesi sia riuscito a farsi capire da loro alla perfezione. Nei loro commenti comparativi tanto Bartolomei come Spescha alludono ad un’eventuale origine etrusca del ladino ed anche del romancio grigionese. Nel 1806 il barone austriaco Joseph von Hormayr (1781–1848) riprende, nella sua storia della Contea principesca del Tirolo (Geschichte der gefürsteten Graffschaft Tirol), le affermazioni comparatistiche dello Spescha. A partire dal 1808 la notizia della parentela intra-alpina del ladino con il romancio (verso ovest) ed il friulano (verso est) si diffonde ampiamente (Goebl 1987,133–141). Al 1809 risale la prima notificazione ufficiale dell’esistenza dei ladini e del territorio da loro abitato: si tratta di una carta etnolinguistica disegnata, per i propositi  



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dell’amministrazione francese («napoleonica») del Tirolo negli anni 1809–1810, dal noto «statista» francese Charles Étienne Coquebert de Montbret (cf. Ködel 2010). L’esistenza di questa carta è di somma importanza perché smentisce tutte le dicerie polemiche della presunta «montatura» dell’etnos dei ladini da parte degli Asburgo (cf. Pellegrini 1972 [1963], 93). Nel 1833, il sacerdote badiotto Micurá de Rü (ted. Nikolaus Bacher, 1789–1847; cf. Craffonara 1994, passim) redige la sua grammatica tedesco-ladina (Deütsch-ladinische Sprachlehre), nella quale lancia l’idea di una lingua scritta comune per tutti i ladini, prendendo come punto di partenza l’insieme delle cinque parlate vallive raffigurate con precisione, 24 anni prima, sulla carta di Coquebert de Montbret (Ködel 2010). Questa grammatica, messa in circolazione dapprima in forma manoscritta, è stata pubblicata solo nel 1995 a cura di L. Craffonara (Bacher [sive De Rü] 1995[1833]). Un altro strumento tramite il quale la conoscenza del ladino e dei ladini si diffonde tra il pubblico dotto dell’Ottocento è la cartografia etnolinguistica di stampo accademico, sviluppatasi a partire degli anni ’40 dell’Ottocento soprattutto nei paesi germanofoni. Spiccano in questa sede gli atlanti (e le rispettive carte etnolinguistiche) pubblicati dai geografi nonché cartografi tedeschi Heinrich Berghaus (1797–1884) e Heinrich Kiepert (1818–1899), nonché le carte etnolinguistiche dei cartografi austriaci Joseph Vincenz Häufler (1810–1852) e Carl von Czoernig (1804–1889) (Goebl 1987, passim). Le loro opere costituiscono i prodromi diretti del trattamento prettamente linguistico del ladino da parte dei filologi austriaci Christian Schneller (1831–1908: Schneller 1870), Graziadio Isaia Ascoli (1829–1907: Ascoli 1873) e Theodor Gartner (1843–1925: Gartner 1882; 1883; 1910). Al periodo dell’effimera annessione – prima completa [1805–1810] e poi in parte [1810–1813], del Tirolo alla Baviera – meglio: al momento della spartizione, avvenuta nel 1810, del territorio del Tirolo tra la Baviera ed il neonato Regno d’Italia napoleonico – risale un documento etnopolitico molto interessante, rivolto al Governo bavarese di Monaco dai rappresentanti dei comuni ladini delle valli di Gardena e di Badia (Stolz 1934, 255–256). Di fronte all’eventualità dell’annessione della parte meridionale del Tirolo al Regno d’Italia questi ultimi chiesero al Governo bavarese di poter rimanere nel quadro politico del Tirolo, invocando da una parte ragioni storiche e sottolineando dall’altra l’alterità della loro lingua e della loro nazionalità rispetto all’italiano ed alle popolazioni italofone del Tirolo meridionale. In effetti, la nuova frontiera bavaroitalica, in vigore dal 1810 al 1813, provocò la prima profonda scissione politica della Ladinia, lasciando le valli settentrionali di Gardena e Badia alla Baviera ed aggregando le valli meridionali di Fassa, Livinallongo ed Ampezzo al Regno Italico (cf. Goebl 1999, 55). Purtroppo, dopo il ripristino delle vecchie frontiere politiche al Congresso di Vienna (1815), l’unità amministrativa della Ladinia fu di nuovo spezzata, tanto sul fronte ecclesiastico (con il passaggio delle valli di Gardena e di Fassa alla diocesi di Trento) quanto su quello amministrativo (con l’aggregazione amministrativa della Val di Fassa al distretto di Trento).

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Nonostante il passaggio delle valli di Gardena e Fassa dalla diocesi di Bressanone a quella di Trento, le valli di Livinallongo ed Ampezzo rimasero parte della diocesi di Bressanone. Al momento della loro aggregazione alla diocesi di Belluno, decretata nel 1964 a seguito della nuova politica di adeguare le strutture ecclesiatische a quelle dello Stato, la delusione dei fedeli coinvolti fu grande. Per l’evoluzione dell’appartenenza ecclesiastica delle cinque valli ladine si veda la tabella seguente ed anche la copertina interiore della rivista Ladinia dove figura, a partire del numero XXVIII (2004), un’apposita rappresentazione cartografica. Tabella 2: Appartenenza ecclesiastica delle cinque valli ladine brissino-tirolesi (cf. Goebl 1999, 46–47 con carte geografiche)  

811–1788

1789–1809

1810–1813

1814–1817

1818–1963

1964–oggi

Badia

Bressanone Bressanone Bressanone Bressanone Bressanone Bressanone

Gardena

Bressanone Bressanone Bressanone Bressanone Trento

Bressanone

Fassa

Bressanone Bressanone Trento

Bressanone Trento

Trento

Livinallongo

Bressanone Bressanone Belluno

Bressanone Bressanone Belluno

Cortina d’Ampezzo

Aquileia

Bressanone Bressanone Belluno

Bressanone Udine

Come tirolesi e sudditi leali degli Asburgo i ladini parteciparono a tutti gli eventi politici maggiori dell’Ottocento e dei primi del Novecento: alle guerre napoleoniche (soprattutto a quella del 1809), alle guerre rivoluzionarie contro l’Italia risorgimentale (1848, 1859 e 1866), nonché alla Prima Guerra mondiale, durante la quale soprattutto la zona di Livinallongo, teatro di asprissimi combattimenti, subì distruzioni enormi. La lacerazione politica del Tirolo storico lungo lo spartiacque alpino, promessa all’Italia dagli Alleati già nel 1915 e decretata definitivamente alla conferenza di pace di Parigi nel 1919, destò anche proteste da parte ladina (cf. Fontana 1981, 152–153; Richebuono 1982; 1992; Videsott 2007). Il patto concluso tra Hitler e Mussolini nel 1939 per la «pulizia etnica» dell’Alto Adige/Sudtirolo (ted. Option, ital. Opzioni) coinvolse anche la maggioranza dei ladini. L’occupazione tedesca delle zone dell’Alto Adige/Sudtirolo, del Trentino e della provincia di Belluno (ted. «Operationszone Alpenvorland», it. «Zona d’operazioni delle Prealpi»), instaurata dal 1943 al 1945, causò alle popolazioni ladine nuove difficoltà, soprattutto nella sua fase finale. Anche nel 1945 ci furono manifestazioni politiche da parte dei ladini, dapprima per la riannessione dell’Alto Adige/Sudtirolo all’Austria e poi per l’integrazione di tutte le vallate ladine nella provincia di Bolzano. Durante le trattive politiche tra Italia e Austria conclusesi nel 1946 con il Trattato di Parigi, i ladini non furono menzionati come componente etnolinguistica autonoma a causa di un accanito rifiuto da parte di Alcide De Gasperi, allora capo del Governo italiano, di considerare i ladini come

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diversi dalla popolazione italiana generale (Videsott 2007, 40 – questo rifiuto sembra esser stato suggerito da Ettore Tolomei [1865–1952], con cui Alcide De Gasperi [1881– 1954] era in relazioni epistolari, cf. Videsott 2007, 40. Tale complicità – a scapito di una piccola etnia autoctona – tra un irredentista nazional-liberale ed un cattolico ultra-conservatore, d’altronde dal 1993 in procinto di beatificazione, è perlomeno curiosa). Solo dopo il Primo Statuto di Autonomia, decretato nel 1948 per la regione Trentino-Alto Adige, la posizione giuridica dei ladini migliorò considerevolmente (Fontana 1981; Richebuono 1992). È fuori dubbio che le vicende politiche avvenute dopo il 1918 abbiano contribuito, malgrado tutte le loro difficoltà e le conseguenze spesso abbastanze negative per i ladini, alla formazione ed allo sviluppo continuo di una loro maggiore «consapevolezza nazionale». In questo processo anche gli apporti della scienza – soprattutto della linguistica e della storia – ebbero la loro parte. I paragrafi tematici seguenti (4–7) forniscono solo un profilo sommario: per la trattazione specialistica degli argomenti affrontati rimando ai capitoli rispettivi di questo manuale.

4 Situazione sociolinguistica, copertura linguistica, problemi scolastici e mediatici Sussidi bibliografici: Belardi (1994; 1996), Born (1992), Comitȇ y Sorvisc Provinzial (2009; 2010), Craffonara (1981; 1997), Dell’Aquila/Iannàccaro (2006), Großrubatscher (1992), Dell’Aquila/Iannàccaro (2008), Kattenbusch (1996), Müller (1996), Perathoner (2005), Videsott (2018). Per tradizione, la copertura linguistica (nel senso di Heinz Kloss: ted. Überdachung) amministrativa della Ladinia era doppia: dopo l’emancipazione scrittologica generale dal latino medievale il tedesco dominava nelle valli settentrionali (Gardena, Badia), l’italiano nelle valli meridionali (Fassa, Livinallongo, Ampezzo). In sede di religione la lingua preferita ovunque, tanto dal clero quanto dai fedeli, fino all’inizio del Novecento era invece l’italiano, con una cospicua presenza del ladino soprattutto in Badia e Gardena. Prima del 1918 l’insegnamento nelle scuole elementari nelle valli settentrionali era in genere bilingue (tedesco e italiano), quello nelle valli meridionali monolingue (italiano). Il posto del ladino nell’insegnamento elementare è ufficialmente garantito solo a partire di 1948. Veniva però utilizzato come lingua veicolare già nelle scuole elementari asburgiche. Durante il fascismo (1922– 1943) la scuola ladina era rigidamente monolingue (italiana): cf. Videsott (2018, passim). Per l’apprendimento pratico del tedesco da parte dei giovani ladini, esisteva, prima del 1914, l’uso di mandare i bambini per un certo periodo nel Tirolo tedesco. Oggigiorno la maggioranza dei gardenesi e badiotti vive in un contesto sociale e

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comunicativo trilingue (ladino, tedesco, italiano), dove anche i dialetti tirolesi svolgono una certa funzione. Nelle popolazioni delle valli meridionali, pure bilingui (ladino, italiano), la conoscenza del tedesco e dei dialetti tirolesi è poco diffusa, invece quella dei dialetti romanzi limitrofi del Trentino o del Bellunese è molto buona. In Val di Fassa l’insegnamento del tedesco nelle scuole elementari, pur essendo oggigiorno previsto per legge, raramente supera un livello piuttosto elementare. Nei mass media (radio, TV) diffusi in Alto Adige/Sudtirolo il ladino ha raggiunto una posizione stabile; ci sono emissioni quotidiane in gardenese, badiotto e fassano. Inoltre, i servizi provinciali della RAS gestiscono trasmettitori speciali per la diffusione anche delle emissioni romance della radio e televisione svizzera. Dal punto di vista tecnico la ricezione di queste emissioni e di quelle della RAI di Bolzano è possibile anche nel area trentina confinante e nel Veneto settentrionale. La presenza del ladino nella stampa rimane invece limitata. Spicca in questa sede il periodico settimanale La Usc di Ladins (‘La voce dei ladini’), che nel 1972 ha sostituito il suo predecessore Nos Ladins (fondato nel 1949) e che è redatto interamente nelle «scriptae» (i. e. norme ortografiche) di tutte le valli ladine (con inclusione del ladino standard, ossia il ladin dolomitan). La Usc, pubblicata dall’associazione panladina Union Generela di Ladins dla Dolomites (fondata nel 1951), svolge una funzione molto importante per la coesione linguistica e culturale dei ladini (cf. Bernardi/ Videsott 2013, 124). Inoltre alcuni dei grandi periodici regionali contenevano nel passato (Alto Adige) o contengono tuttora (Dolomiten) pagine particolari redatte interamente o parzialmente in ladino. Sono di notevole importanza anche una ricca gamma di riviste culturali con varia periodicità e l’azione scientifica e culturale delle riviste scientifiche Mondo ladino e Ladinia che vengono pubblicate dal 1977, rispettivamente dagli Istituti di cultura delle province di Trento (Istitut cultural ladin «Majon di Fascegn», a Vich/Vigo di Fassa, fondato nel 1975) e di Bolzano (Istitut ladin «Micurà de Rü», a San Martin de Tor/San Martino in Badia, fondato nel 1976) (cf. Bernardi/Videsott 2013, 104–127). La macro-toponomastica nelle valli ladine dell’Alto Adige/Sudtirolo è trilingue (ladino, tedesco, italiano), quella nel Trentino bilingue (ladino, italiano). Questo vale anche per alcune zone limitrofe della provincia di Belluno dove i cartelli bilingui (ladino, italiano) sono ammessi da alcuni anni anche ufficialmente. In genere, la lealtà linguista dei ladini era ed è tuttora molto alta, soprattutto in Val Badia. È da constatare però un forte influsso da parte del tedesco in Val Gardena, e un fenomeno analogo, da parte italiana, nelle valli meridionali. I risultati dei censimenti periodici in Alto Adige/Sudtirolo, basati sull’auto-dichiarazione dell’appartenenza linguistica dei cittadini, dimostrano ovunque, per gli ultimi decenni (fino al 2011), l’aumento continuo della lealtà linguistica. In questa sede le valli ladine della provincia di Bolzano fungono da «promotori». La ricerca sociolinguistica era abbastanza circoscritta fino alla pubblicazione dell’imponente Survey Ladins di Vittorio Dell’Aquila e Gabriele Iannàccaro nel 2006 e

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l’instaurazione di analisi sociolinguistiche regolari da parte dell’amministrazione scolastica ladina; si vedano in merito Comitê y Sorvisc Provinzial (2009; 2010) ed anche Iannàccaro/Dell’Aquila (2008). Alcune analisi sociolinguistiche italiane più datate non sono prive di una certa parzialità ladino-foba (cf. Goebl 1990).

5 Contatti linguistici: sostrati, adstrati, superstrati Sussidi bibliografici: Craffonara (1979; 1997), Decurtins (1981), Gsell (1982), Hull (22017 [1982]), Heilmann/Plangg (1989), Hubschmid (1951), Kuen (1978; 1995), Mair (1984; 1989), Simon (1985). Alla pari degli idiomi romanci dei Grigioni e di quelli del Friuli, i dialetti ladini dimostrano le tracce di molti contatti linguistici, tanto di vecchia data quanto di origine moderna. Per il passato spiccano, tra i sostrati pre-romani (di origine incerta), quello celtico nonché gli strati più antichi del bavarese (per la Ladinia) e dell’alemannico (per i Grigioni), a cominciare dal periodo dell’antico alto tedesco. Di non minore importanza sono gli strati romanzi del veneto e del trentino (per la Ladinia) nonché del lombardo (per i Grigioni). Prendendo l’avvio dalle radici più antiche, nei dialetti ladini sopravvivono, molti relitti lessicali prelatini – spesso anche di origine pre- o non-indoeuropea – che si riferiscono a cose e fenomeni tipici della regione (Heilmann/Plangg 1989, 732–733) (in notazione etimologica): *KREPP ‘roccia’, * BOVA ‘frana’, * TROGIU ‘sentiero’, * GLASINA ‘mirtillo nero’, * TSIRM ‘pino cembro’, *BARANCA ‘mugo’, *DASIA ‘rami morti’, *CAMORK - ‘camoscio’ ecc. Anche la toponomastica locale abbonda di tracce prelatine: si vedano i seguenti toponimi ladini che risalgono tutti a radici prelatine: Mantëna (con suffisso prelatino -ÉNA ), Mareo (< *MARRA ‘mucchio di pietre’), Crosta (< *KROBUSTA ), Rina (< *ELINA ), Sotgherdëina (< lat. SUBTU + prelat. *GRET + - ÉNA ), Bürz/Börz (ted. Würzjoch) ecc. (cf. Craffonara 1979, passim). Anche nei dintorini della Ladinia propriamente detta non mancano relitti celtici: *ENOS ‘acqua’ > Inn, *TRAGISA ‘acque che corrono velocemente’ > Trisanna, AMBE ‘torrente’ > Ampaß, *VINDOLAIO ‘campo bianco’ > Vandoies etc. (Heilmann/Plangg 1989, 732–733; Anreiter 1997). I contatti linguistici romano-germanici, cominciati coll’insediamento dei Bavari/Baiuvari (verso il 600) nelle zone ladine, abbracciano quindi, alla pari di quanto è accaduto nei Grigioni, un periodo di oltre mille anni (Kuen 1978; 1995). Tra gli innumerevoli prestiti lessicali sono di particolar interesse i calchi, che dimostrano una consapevolezza linguistica abbastanza sviluppata da parte dei locutori del tempo. Per la designazione di questo fenomeno il linguista austro-italiano G. I. Ascoli ha coniato la formula «materia romanza con ispirito tedesco» (Ascoli 1873, 2). Si veda in merito l’imperativo badiotto astílete sciöch’al alda! ‘Comportati bene, come si deve! / Benimm dich, wie es sich gehört!’, dove nella forma verbale ladina alda (< lat. AUDIT ) riecheggia la bisemia del verbo tedesco (ge-)hören: a) ‘sentire,  



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percepire acusticamente’ b) ‘confarsi, convenire’ (Craffonara 1997, 1391). Come nel romancio grigionese (Decurtins 1981), nel friulano ed anche in molti dialetti dell’Italia settentrionale la frequenza dei «verbi analitici» (cf. Vicario 1997) – di uso corrente in tutte le varietà del tedesco – è molto alta: si vedano in merito i seguenti esempi badiotti: se dè jö cun [< SE DARE IUSU CUM ] ‘sich ab-geben mit’ [‘occuparsi di’], dè sö [< DARE SUSU ] ‘auf-geben (eine Hausaufgabe)’ [‘dare un compito’] o purvé fora [< PROBARE FORIS ] ‘aus-probieren’ [‘sperimentare’] (Gsell 1982, 72). Ovviamente l’importanza numerica delle trasferenze linguistiche meridionali – cioè provenienti sia dai dialetti trentini, veneti ecc. sia dall’italiano standard – decresce da sud (Val di Fassa) verso nord (Val Badia). Vista l’identità genetica tra questi due poli, quello italoromanzo e quello ladino, l’identificazione delle trasferenze non è facile. Nella parte settentrionale della Val di Fassa l’equivalente tradizionale in cazet per l’imperativo italiano ‘Va a comprarle’ dovrebbe suonare va a les comprer! [ted. Geh sie kaufen!], cioè col pronome personale posto davanti all’infinito. Oggigiorno prevale però la forma va a comprerle!, coniata sul modello italiano (Craffonara 1997, 1394). Esaminando le trasferenze linguistiche settentrionali attraverso la rispettiva documentazione negli atlanti linguistici ed anche nei dizionari dialettali si può constatare che la frequenza di cotali interferenze verificatesi tra le varietà tedesche a quelle romanze decresce continuamente dalla frontiera linguistica germano-romanza nel nord fino all’Appennino nel sud (Gsell 1982, 81 [con una carta geografica]; Mair 1984). Per una spiegazione (storica e sistematica) di questo fatto si deve però prendere ín considerazione non solo l’influsso diretto da parte del tedesco, ma anche l’intensificazione, geograficamente variabile, di certe tendenze grammaticali inerenti ai sistemi grammaticali ereditari del romanzo.

6 Testi più antichi, creazione letteraria, codificazione, standardizzazione Sussidi bibliografici: Belardi (1985; 1994; 1996;) Bernardi (2013), Bernardi/Videsott (2013) [BV 2013], Heilmann/Plangg (1989), Kattenbusch (1989; 1994), Mair (1989), Schmid (1998; 2000). Osservazione preliminare: l’uso scritto di un qualsiasi idioma costituisce sempre un atto identitario di particolar rilievo, soprattutto quando si fa in aggiunta o a scapito di un idioma di maggior prestigio, anzianità o diffusione. È quindi ovvio che le manifestazioni scritte della lingua minore «ladino» sono di data più recente di quelle delle lingue maggiori limitrofe (tedesco, italiano). Ciononostante anche la totalità della produzione scritta ladina, che sia di stampo letterario o semplicemente «utilitario» merita la designazione generica di letteratura. Rinvio in merito ai lavori pionieri-

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stici di Walter Belardi (1923–2008) ed alla grande bibliografia (BV 2013) di Paul Videsott e Rut Bernardi. Ribadendo di nuovo il carattere introduttivo del paragrafo seguente rinvio agli articoli specialistici di questo volume (↗7 Primi usi scritti del ladino; ↗8 Panoramica della letteratura ladina; ↗9 Storia della normazione ortografica del ladino). Rispetto al romancio grigionese e al friulano la genesi della creazione letteraria ladina – intesa in un senso molto ampio – è tardiva. Essa dimostra però la stessa tipologia scrittologica: grafie instabili e cangianti, imitazione di modelli grafici anteriori (come il latino) o ritenuti superiori (come l’italiano). Nelle valli di Livinallongo (BV 2013, 422s.) e di Badia (BV 2013, 231s.) i testi più antichi (con tratti grafici geograficamente ben localizzabili) risalgono rispettivamente al Seicento (1631, 1632) e al Settecento (1704–1740), mentre la produzione letteraria nelle valli di Fassa (BV 2013, 345s.), di Gardena (BV 2013, 133s.) ed Ampezzo (BV 2013, 461s.) inizia solo nella prima metà dell’Ottocento (1812, 1803 e 1832). Si veda in merito l’esauriente Geschichte der ladinischen Literatur (‘Storia della letteratura ladina’), pubblicata nel 2013 da R. Bernardi e P. Videsott, che dal punto di vista documentario e critico sostituisce tutte le presentazioni anteriori. I primi testi ladini sono prevalentemente di stampo amministrativo, ecclesiastico e poetico. Una proliferazione considerevole della produzione letteraria ladina è da notarsi poco prima della Prima Guerra mondiale nonché a partire dagli anni ’50 del Novecento. Soprattutto l’aumento della qualità e della massa della produzione letteraria all’inizio della seconda metà del Novecento ha indotto il glottologo W. Belardi (1985; 1994; 1996) a postulare esplicitamente l’esistenza di una vera e propria letteratura ladina. La storia della letteratura ladina di Bernardi/Videsott (2013) fornisce, per tutti i protagonisti, dettagliati profili bio- e bibliografici. La stragrande maggioranza dei testi ladini esistenti non smentisce, dai punti di vista ortografico, morfosintattico e lessicale, la sua origine locale. La formazione di una koiné scritturaria «sopra-valliva» venne sempre impedita da attitudini metalinguistiche molto «rigide», cioè di stampo campanilistico ed ubbidienti ingenuamente al verdetto popolare che bisogna sempre scrivere (il più precisamente) come si parla (Müller 1990; Videsott 2011a, 18-19). Erano, in questo impiccio, di poca utilità anche le scuole ladine, visto il rango inferiore attribuito al ladino nell’insegnamento ivi impartito. In seguito però alla fondazione dei due Istituti di cultura a Vich/Vigo di Fassa (1975: Istitut cultural ladin «Majon di Fascegn») e S. Martin de Tor/S. Martino di Badia (1976: Istitut ladin «Micurà de Rü»), e come conseguenza di alcune misure di politica linguistica da parte dei Governi delle province di Bolzano e Trento, l’idea dell’utilità e dei vantaggi di una convergenza degli usi scritturari ladini ha iniziato a farsi largo. Negli anni 1984–1987 una commissione pan-ladina ha elaborato un codice ortografico comune per le ortografie storiche dei cinque idiomi vallivi. Nel 1988, tramite un’iniziativa comune dei due Istituti di cultura, il romanista zurighese Heinrich Schmid (1921– 1999) venne incaricato dell’elaborazione dei principi di una lingua scritta unificata

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pan-ladina (Schmid 1998; 2000), sulla scia della creazione della lingua unificata grigionese rumantsch grischun (Schmid 1982). L’accettazione di questa nuova lingua scritta comune (battezzata «ladin dolomitan» o «ladin standard») ha dovuto scontrarsi con varie resistenze, come nei Grigioni (cf. Belardi 1993; Goebl 2005; Oleinek 1995; Videsott 2011a). In genere, il ladin dolomitan è stato salutato con simpatia nelle valli di Badia e di Fassa, però con chiara antipatia in Gardena. Dopo un breve interstizio di accettazione ufficiale da parte della Provincia di Bolzano (1988–1991) il ladin dolomitan è stato relegato al livello culturale ed accademico (per es per la stesura delle introduzioni dell’ALD-I, 1998, nonché dell’ALD-II, 2012). Di per sé, la nuova lingua scritta unificata era stata elaborata – dal 1994 al 1999 – in maniera del tutto rispettabile nell’ambito del progetto di ricerca pan-ladino SPELL (Servisc de Planificazion y de Elaborazion dl Lingaz Ladin), finanziato soprattutto dall’organismo pan-ladino Union Generela di Ladins dla Dolomites (Kattenbusch 1989; 1994; Videsott 1996; 1997). Due sono i prodotti più importanti dello SPELL, usciti tra il 2001 e 2002: una Gramatica dl Ladin Standard (SPELL 2001) ed un Dizionar dl Ladin Standard (DLS 2002). Malgrado le non poche (ed aspre) critiche e polemiche svolte attorno al ladin dolomitan, quest’ultimo ha assunto un’innegabile importanza per la sostanza culturale ed anche identitaria della Ladinia brissino-tirolese (cf. Videsott 1998; 2010; 2011a; 2015, passim).

7 Grammaticografia, lessicografia, copertura geolinguistica Sussidi bibliografici: Kramer (1989); ↗17 Lessicografia e grammaticografia. La tradizione grammaticografica ladina inizia con i contributi di quattro autori autoctoni: nel 1806 circa vide la luce il Versuch zu einer Grammatik der Grödner Mundart/Per na Gramatica döl Lading de Gerdöna di Josef David Insam (cf. Videsott 2013), nel 1833 la splendida Versuch einer deütsch-ladinischen Sprachlehre di Nikolaus Bacher/Micurá de Rü (1789–1847) (cf. Craffonara 1994; Bacher 1995[1833]), nel 1864 Gröden, der Grödner und seine Sprache di Ujep Antone Vian (1804–1880) e nel 1879 l’analisi linguistica di tutti gli idiomi storici della Ladinia di Jan Batista/Johann Baptist/Giovan Battista Alton, professore di liceo a Praga, Vienna e Rovereto (cf. Videsott 2008). La trattatistica accademica propriamente detta inizia con i lavori di Chr. Schneller (1870), G. I. Ascoli (1873) e Th. Gartner (1883), mentre la tradizione delle grammatiche scolastiche stricto sensu prende forma solo dopo il 1948, anno dell’instaurazione della scuola ladina trilingue nella provincia di Bolzano. Anche la lessicografia ladina comincia con opere redatte da autoctoni; citiamo, a mo’ di esempio, i dizionari (ladino-tedesco) di Archangelus Lardschneider-Ciampac (1933; nuova edizione: 1992) per la Val Gardena, quello di Hugo de Rossi (ms. del 1914,

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pubblicazione: 1999) per il dialetto della Val di Fassa inferiore (brach), oppure – in quanto ultimo degli dizionari «tradizionali» – quello di Paul Videsott e Guntram A. Plangg (1998) per il marebbano. Nel decennio dal 1988 al 1998 escono gli otto volumi del dizionario etimologico del ladino dolomitico (Etymologisches Wörterbuch des Dolomitenladinsichen, EWD) di J. Kramer per la cui valutazione intera si raccomanda però la lettura delle recensioni puntuali e dei contributi etimologici supplementari (Beiträge und Materialien zur Etymologie des Dolomitenladinischen) di O. Gsell, pubblicati a puntate nei volumi XIII (1989) – XXIII (1999) della rivista scientifica Ladinia. Sotto l’egida dei tre Istituti di cultura la dizionaristica ladina conobbe uno slancio enorme: – Val Badia: Mischì (2000: Deutsch-Gadertalisch, todësch-ladin (Val Badia)) e Moling et al. (2016: italiano-ladino della Val Badia, ladin dla Val Badia-talian); – Val Gardena: Forni (2002: Deutsch-Grödnerisch, tudësch – ladin de Gherdëina); Forni (2013: ladin de Gherdëina-talian, italiano-ladino gardenese); – Fassa: DILF (1999: italiano-ladino fassano, con indice ladino-italiano; nuove edizioni 2001 e 2013); – Livinallongo: Masarei (2005: fodom-italiano-todësch; con due indici alfabetici: italiano-fodom; todësch-fodom). Per i dizionari badiotti, gardenesi e fassani sopra elencati esistono anche strutture informatiche online, elaborate nell’ambito e con la partecipazione delle province di Bolzano e di Trento: – per i dizionari di G. Mischì e M. Forni: https://www.micura.it/la/dizionars; – per il ladino fassano (progetto TALL): http://corpuslad.ladintal.it/applications/ textanalysis/sitecorpuslad/storia.jsp. In questo contesto occupa un posto di spicco il Vocabolar dl Ladin Leterar (VLL), concepito e promosso da Paul Videsott (e collaboratori) dell’Università di BolzanoBressanone (cf. Videsott 2017). Il corpus di base del VLL è la totalità dei testi della letteratura ladina, raccolti soprattutto da Paul Videsott e Rut Bernardi nel corso dei loro lavori bibliografici (Videsott 2011b; Videsott/Bernardi/Marcocci 2014) nonché storico-letterari (Bernardi 2013; Bernardi/Videsott 2013) e digitalizzati di seguito appositamente. Si tratta di un’impresa lessicografica di grandissima portata per la quale non esiste nessuna controparte per qualunque altra lingua minore. Anche per il profilo e l’identità culturale della Ladinia intera l’importanza di questa impresa erculea non può essere sopravvalutata. – Il link per il VLL: http://vll.smallcodes.com/. Dal punto di vista geolinguistico propriamente detto, le cinque valli della Ladinia dolomitica sono state esaminate tre volte nel corso delle seguenti imprese atlantistiche:

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Atlante italo-svizzero (AIS – recte: Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz) di K. Jaberg e J. Jud (con 6 punti d’inchiesta nella Ladinia; rilevamenti nel 1921); Atlante Linguistico Italiano (ALI) (con 8 punti d’inchiesta; rilevamenti dal 1927 al 1938) nonché l’ Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limitrofi (ALD-I e ALD-II) (con 21 punti d’inchiesta, rilevamenti: 1985 e 2001–2006).

Per le inchieste «pre-atlantistiche» svolte da Th. Gartner (1882), C. Battisti (1906–1907) e J. Michael (1912), ↗18 Atlanti linguistici, corpora, bibliografie. Abbiamo già menzionato l’esistenza di due riviste scientifiche ladine (Mondo ladino: 1, 1977s. [direttore: Fabio Chiocchetti, Istitut cultural ladin «Majon di Fascegn»] e Ladinia: 1, 1977s. [direttori: Lois Craffonara (1977–1992), Leander Moroder (1993s.), Istitut ladin «Micurà de Rü»]) che sono diventate molto velocemente non solo delle piattaforme irrinunciabili per la discussione accademica di tutti i problemi linguistici, storici, geografici, etnologici, etnografici, antropologici, archeologici ed artistici attinenti alla Ladinia dolomitica propriamente detta, ma hanno assunto anche il ruolo di portavoci della ladinistica internazionale tout court. La creazione del terzo Istituto culturale ladino – l’Istitut cultural ladin «Cesa de Jan» a Col/Colle S. Lucia (BL) – risale al 2004: esso si occupa prevalentemente di temi ed argomenti relativi a Livinallongo ed a Cortina d’Ampezzo tramite la pubblicazione di opere, prevalentemente monografiche, di natura linguistica, storica ed etnografica.

8 Conclusione Alla fine di questa presentazione di stampo prevalentemente linguistico (glossa) giova aggiungere ancora alcune osservazioni relative all’«etnos» dei ladini. Indubbiamente una caratterizzazione dei ladini tramite il concetto ufficiale (e «political correct» in Italia) come «gruppo linguistico» non è soddisfacente anzi riduttore (cf. Pan/Pfeil/Videsott 22016, XXXVIII). Nell’ottica di molti dei suoi attivisti, tanto di ieri quanto di oggi, la collettività dei ladini rappresenta non solo un gruppo linguistico a sé stante, ma anche una «Volksgruppe» (‘gruppo etnico’) ovvero una piccola nazione. Si sa che ai tempi della Monarchia asburgica i tentativi di alcuni tirolesi di issare i ladini al rango di una delle «nazionalità» (ted. Nationalitäten) dell’Impero fallirono, soprattutto per il timore del Ministero dell’Interno di Vienna di destare, con questa promozione ufficiale, le ire dei nazionalisti austro-italiani (del Trentino e del Litorale) che consideravano – come lo fecero non solo E. Tolomei ma anche il capo del Governo A. De Gasperi ancora nel 1945/1946 – i ladini come italiani a tutti gli effetti, linguisticamente ed etnicamente (cf. Brix 1985, 68–69).

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Nell’ottica dell’etnistica moderna (cf. per es. Hroch 1996; 2005) la storia dei ladini offre molti appigli tipici per la genesi di gruppi etnici, che siano grandi o piccoli: a) manifestazioni autoctone esaltando la propria identità – spesso tramite l’uso di un etno- o glottonimo particolare – ed anche alterità rispetto ai vicini circostanti, b) costatazioni, da parte delle popolazioni limitrofe, dell’alterità e particolarità dei ladini, c) tentativi di descrivere e codificare la propria lingua, d) organizzazione dell’insegnamento scolastico della propria lingua, e) organizzazione della coesistenza «ecolinguistica» della propria lingua con quelle dei vicini, f) esercizio delle proprie facoltà politiche, g) elaborazione sistematica della propria lingua, dentro e fuori il sistema scolastico, h) studio accademico della storia della propria lingua e letteratura, ecc. Ad a): Tali manifestazioni esistono sin dall’inizio dell’Ottocento: ↗0 Introduzione. Ad b): Costatazioni del genere sono già documentate nel Settecento: ↗5 Il ladino e le altre lingue romanze. Ad c): Rinvio in merito alla prima grammatica gardenese del 1806 (Videsott 2013) ed il noto lavoro di Micurá de Rü/Nikolaus Bacher del 1833 (Craffonara 1994). Ad d): Cf. gli sforzi del fascismo italiano per vietare l’uso scolastico del ladino e l’insistenza dei ladini, dopo il 1945, per instaurare una «scuola ladina» nella provincia di Bolzano (Videsott 2018). Ad f): Rimando alle manifestazioni dei ladini sul Passo Gardena nel 1920 e sul Passo del Sella nel 1946 per la loro aggregazione comune alla provincia di Bolzano nonché alla formazione, dopo la Seconda Guerra mondiale, di diversi aggruppamenti politici ladini, accanto ai – e spesso a scapito dei – grandi partiti politici locali. Ad g) Rinvio alla genesi di una ricca letteratura e manualistica scolastica dopo il 1945 e la nascita di una non meno ricca lessicografia, grammaticografia e dizionaristica accademica, anche tramite mezzi informatici moderni. Ad h) Cf. per es. i lavori di Jan Batista Alton alla fine dell’Ottocento oppure, attualmente, quelli pubblicati nell’ambito della cattedra di filologia romanza/ladinistica della Libera Università di Bolzano (titolare Paul Videsott). Vista l’esiguità demografica dei ladini molti dei criteri elencati da Hroch, per es. quelli relativi alla progressiva differenziazione sociale interna, non reggono. Ovviamente non regge neanche il motivo della tentazione, onnipresente nelle grandi nazioni dell’Otto- e Novecento, dell’espansione irredentista del proprio territorio. Di grande importanza era però per i ladini – e lo è tuttora – l’attaccamento alle realtà (umane e politiche) ed al prestigio della compagine territoriale del Tirolo storico e la loro plurisecolare vicinanza mentale ai tirolesi di lingua tedesca. Non si devono infine dimenticare alcuni atti di attenzione particolare prestati ai ladini dall’esterno: rimando in merito da una parte alla carta etnolinguistica del

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territorio delle «cinque vallate» del 1809, stesa su ordine esplicito dell’Imperatore Napoleone (Ködel 2010), e dall’altra all’estensione, in ultima analisi abusiva, del glottonimo ladino al sud del vecchio confine tirolese (provincia di Belluno settentrionale) con la partecipazione di agitatori tanto dotti quanto profani. In effetti, il movimento neo-ladino, che si fregia di molte particolarità «positive» dell’universo linguistico e culturale dei ladini brissino-tirolesi, rappresenta, tramite il suo estro imitativo, un’autentica riverenza ai ladini ed una conferma vistosa non solo della loro esistenza bensì anche del carattere esemplare della loro lingua e identità collettiva. Visto che solo un mezzo secolo prima della comparsa del neo-ladinismo (1976ss.) E. Tolomei si proponeva di «grattare via», dalla carta etnolinguistica dell’Italia settentrionale, «la macchia grigia» dei ladini, il neo-ladinismo moderno rappresenta un dietro-front rimarchevole. Dal punto di vista politico ed anche culturale rimane però una ferita aperta: quella della divisione politico-amministrativa che non solo ostacola la messa in opera di processi di convergenza ma rischia anche di approfondire certe differenze intervallive. Sembra però che le non poche crisi politiche scaglionate lungo il Novecento non abbiano indebolito fondamentalmente l’affermazione identitaria dei ladini come glossa e etnos.

9 Riferimenti bibliografici AIS = Jaberg, Karl/Jud, Jakob (1928–1940), Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, 8 vol.; Zürich, Ringier (ristampa: Nendeln, Krauss, 1971). ALD-I = Goebl, Hans/Bauer, Roland/Haimerl, Edgar (1998), Atlant linguistich dl ladin dolomitich y di dialec vejins, 1a pert / Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limifrofi, 1a parte / Sprachatlas des Dolomitenladinischen und angrenzender Dialekte, 1. Teil, 7 vol.; Wiesbaden, Reichert. ALD-II = Goebl, Hans (2012), Atlant linguistich dl ladin dolomitich y di dialec vejins, 2a pert / Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limitrofi, 2a parte / Sprachatlas des Dolomitenladinischen und angrenzender Dialekte, 2. Teil, 7 vol.; Strasbourg, Éditions de Linguistique et de Philologie. ALI = Pellis, Ugo, et al. (edd.) (1995–), Atlante linguistico italiano, Roma, Istituto Poligrafico & Zecca dello Stato [2019: 951 carte in nove volumi]. Alton, Johann B. (1879), Die ladinischen Idiome in Ladinien, Gröden, Fassa, Buchenstein, Ampezzo, Innsbruck, Wagner (ristampa: Bologna, Forni, 1990). Anreiter, Peter (1997), Breonen, Genaunen und Fokunaten. Vorrömisches Namengut in den Tiroler Alpen, Innsbruck, Institut für Sprachwissenschaft. Ascoli, Graziadio Isaia (1873), Saggi ladini, Archivio Glottologico Italiano 1, 1–556. Bacher, Nikolaus (1995[1833]), Versuch einer Deütsch-Ladinischen Sprachlehre, herausgegeben und mit Anmerkungen versehen von Lois Craffonara, Ladinia 19, 3–304. Battisti, Carlo (1906–1907), La vocale «a» tonica nel ladino centrale, Archivio per l’Alto Adige 1, 160–194; 2, 18–69. Battisti, Carlo (ed.) (1962), Le valli ladine dell’Alto Adige e il pensiero dei linguisti italiani sull’unità dei dialetti ladini, Firenze, Le Monnier.

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Hans Goebl

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Giampaolo Salvi

2 Il ladino e le sue caratteristiche Abstract: Il capitolo descrive le caratteristiche linguistiche del ladino, illustrandone l’evoluzione diacronica dal latino alle varietà ladine attuali. Dopo un’introduzione generale sull’estensione e suddivisione interna dell’area ladina, si discutono nel dettaglio le proprietà fonologiche, morfologiche, sintattiche e lessicali. Per ogni fenomeno si elencano le varianti locali.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, evoluzione diacronica, fonologia, morfologia, sintassi, lessico  

0 Introduzione La comunità ladina brissino-tirolese è in primo luogo una formazione di carattere storico-culturale che si identifica con le popolazioni di lingua romanza dei territori che dipendevano, in maniera più o meno diretta, dal dominio del principe-vescovo di Bressanone (per le valli che si diramano dal Massiccio del Sella, salvo la Val Gardena) o direttamente dai conti del Tirolo (per la Val Gardena e Cortina d’Ampezzo). Dal punto di vista linguistico queste varietà ladine appartengono a due gruppi dialettali distinti: le varietà parlate intorno al Massiccio del Sella appartengono al ladino atesino, mentre quella di Cortina appartiene al ladino cadorino. Il territorio ladino brissino-tirolese ritaglia quindi una sezione propria all’interno di due domini dialettali indipendenti che si estendono anche fuori da questo territorio. Le varietà atesine del ladino brissino-tirolese sono: a) il gaderano, con le due varietà del marebbano (marèo) e del badiotto, a sua volta diviso nelle varietà della bassa valle (ladin) e dell’alta valle (badiòt) (se non indicato diversamente, esemplificheremo con le varietà di San Vigilio per il marebbano e di Badia per l’alto badiotto); b) il gardenese (gherdëina), parlato in Val Gardena, linguisticamente omogenea; una parte degli esempi utilizzati provengono dalla racolta ottocentesca di Gartner (1879), ma non differiscono dall’uso attuale; c) il fassano (fascian), diviso nelle due varietà dell’alta valle (cazét) e della bassa valle (brach), a cui va aggiunta la varietà di Moena (moenat) (esemplificheremo con la varietà cazét di Canazei); d) il livinallese (fodóm) e il collese; esemplificheremo il livinallese con il dialetto di Arabba.

https://doi.org/10.1515/9783110522150-003

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Giampaolo Salvi

Queste varietà rappresentano quanto resta della latinità della Valle Isarco (con le sue valli laterali, in particolare quelle del versante sinistro) e della Val Pusteria, germanizzate in varie fasi tra l’Alto Medioevo e gli inizi del XVII secolo. La varietà cadorina del ladino brissino-tirolese è l’ampezzano, che ha avuto una storia comune con il resto dei dialetti cadorini fino al 1511, data in cui il territorio passò sotto il dominio dei conti del Tirolo. Il dominio dei dialetti atesini non rientra tutto nel territorio brissinese, e del resto i confini politico-amministrativi non sono sempre stati gli stessi: in particolare Moena, pur essendo linguisticamente fassana, ha fatto parte a partire dal XII secolo della diocesi di Trento e all’inizio del XIV secolo è entrata nella Magnifica Comunità di Fiemme – faceva quindi parte del principato vescovile di Trento, e il suo ricongiungimento amministrativo con la comunità fassana è recente (ma ha partecipato fin dagli inizi al movimento ladino fassano). Nell’alta Valle del Cordevole il versante sinistro della Val Pettorina, che faceva parte del principato vescovile di Bressanone, se ne è staccato nel XIV secolo, ma conserva un dialetto fondamentalmente atesino. Bisogna inoltre tener conto del fatto che, dove le varietà atesine confinano con altre varietà romanze, a causa degli influssi reciproci si sono formate zone di transizione in cui le caratteristiche linguistiche tipiche degli idiomi ladini si manifestano in maniera più attenuata. Così il tipo fassano confina a Moena direttamente con il dialetto trentino della Val di Fiemme e, attraverso il Passo di San Pellegrino e il Passo Rolle, è in contatto con le varietà alto-venete dell’Agordino e del Primiero; la bassa Val di Fassa e in particolare Moena sono quindi state raggiunte da innovazioni linguistiche provenienti da sud in maniera più intensa delle zone più interne, con un certo conguaglio nelle caratteristiche dialettali e un confine linguistico meno netto (cf. la carta delle isoglosse in Heilmann 1955, ripubblicata qui nel cap. 3). La situazione è ancora più complessa nell’alta valle del Cordevole, dove tra il livinallese e i dialetti alto-agordini troviamo una vasta fascia di transizione a cui partecipano i dialetti del versante sinistro della Val Pettorina (Rocca Pietore e Laste), quelli della Val Fiorentina (con il collese e il dialetto di Selva di Cadore) e, alla confluenza delle due valli, quelli di Caprile e di Alleghe. Nel conguaglio dialettale, favorito probabilmente da condizioni di partenza piuttosto simili, dialetti in origine diversi (atesini, agordini e cadorini) si sono avvicinati tra di loro, indipendentemente dal confine politico tra Tirolo e Repubblica di Venezia: in particolare il dialetto di Colle, più esposto, si è allontanato maggiormente dal tipo livinallese che non le varietà più isolate della Val Pettorina, ed è oggi piuttosto simile a quello della vicina Selva, stanziamento di origine cadorina (cf. le carte con le isoglosse in Pellegrini 1954/1955). Come abbiamo visto, l’ampezzano rappresenta solo una sezione marginale dei dialetti del Cadore, con caratteristiche in parte proprie a causa del suo isolamento dal resto della comunità cadorina a partire dal XVI secolo, ma sostanzialmente non molto diverso dagli altri dialetti parlati nella Valle del Boite. Le varietà ladine brissino-tirolesi presentano quindi una grande differenziazione interna: non solo la differenza tra tipo atesino e tipo cadorino, ma all’interno del tipo

Il ladino e le sue caratteristiche

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atesino una forte differenziazione favorita anche dal fatto che le quattro varietà principali sono parlate in quattro vallate geograficamente divergenti al cui sbocco si trovano a contatto con parlate diverse: i contatti con queste parlate sono sempre stati intensi per cui le singole varietà ladine hanno accolto e accolgono innovazioni di tipo diverso. Oltre ai casi appena discussi del fassano e delle varietà dell’alto Cordevole, anche gardenese e gaderano, a contatto diretto con le varietà tedesche, hanno accolto e accolgono innovazioni, provenienti questa volta dai dialetti tirolesi isarchesi e pusteri o dal tedesco letterario. L’appartenenza alla stessa comunità politico-amministrativa ha certo rafforzato la coesione culturale, ma solo marginalmente quella linguistica, soprattutto perché la lingua del centro politico e religioso di questa comunità era il tedesco e non ha potuto quindi offrirsi come modello per le varietà romanze locali – l’effetto linguistico principale è stato quello di favorire un relativo intercorso tra le singole varietà e di creare un certo isolamento delle varietà ladine rispetto alle varietà romanze vicine. Il processo di differenziazione è stato in seguito favorito dalla nuova suddivisione amministrativa conseguente alla soppressione del principato vescovile di Bressanone (1803) e poi alla Grande Guerra: le parlate ladine si sono trovate inserite in tre province separate che, a causa anche delle loro situazioni sociolinguistiche molto diverse, hanno seguito politiche linguistiche differenti. Gli idiomi delle diverse vallate hanno quindi elaborato varianti scritte separate. In particolare, essendo idiomi insegnati nella scuola e usati nell’amministrazione pubblica, le varietà ladine del Trentino-Alto Adige hanno una grafia (quasi) standardizzata, anche se nelle valli con grande differenziazione linguistica (Badia e Fassa) sono normalmente ammesse più norme. È difficile fare previsioni sui possibili effetti che avrà la varietà scritta comune, il ladin standard (o dolomitan), recentemente elaborata sul modello del rumantsch grischun (Schmid 1998). A causa di questa situazione frammentata è difficile descrivere le caratteristiche del ladino nel suo complesso. Come è lecito aspettarsi (↗5 Il ladino e le altre lingue romanze), le caratteristiche comuni a tutto il territorio brissino-tirolese sono quasi sempre comuni a un territorio più vasto che di volta in volta può limitarsi ai territori confinanti o estendersi all’arco delle Alpi orientali o a territori più o meno ampi dell’Italia settentrionale. Quelle caratteristiche, poi, che si presentano come «marche» tipiche del ladino in opposizione alle varietà vicine, spesso non coprono tutto il territorio. In quanto segue ci basiamo, oltre che su alcune recenti presentazioni generali come Plangg (1989), Pellegrini (1989), Haiman/Benincà (1992), Gsell (2008), Salvi (2016), sui materiali offerti da opere di riferimento come Kramer (1978; 21981; EWD 1988–1998), ALD-I e ALD-II, e da descrizioni dettegliate di singole varietà o del loro lessico, in particolare Gartner (1879), Apollonio (1930), Lardschneider-Ciampac (1933), Tagliavini (1934), Elwert (1943), Videsott/Plangg (1998), Gallmann/Siller-Runggaldier/ Sitta (2007; 2010; 2013; 2018), oltre a Kuen (1970; 1991).1

1 Ringrazio inoltre per il loro prezioso aiuto Jan Casalicchio, Martina Irsara, Carla Marcato, Alessandro Parenti, Heidi Siller-Runggaldier, Laura Vanelli, Paul Videsott e Maria Teresa Vigolo.

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Giampaolo Salvi

1 Fonetica e fonologia 1.1 Vocalismo Il vocalismo tonico (↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 2.1.1) presenta sistemi piuttosto differenziati (Zamboni 1984, 2.2): mentre il fassano, il collese e l’ampezzano hanno un sistema a sette vocali, come l’italiano, il sistema del gardenese e quello del livinallese ne presentano otto, con una vocale bassa in più; ne ha otto anche il dialetto di Moena, per la presenza di una vocale palatale arrotondata medio-alta; nel marebbano e nell’alto badiotto le vocali salgono a 18: alle sette vocali si aggiungono due palatali arrotondate e l’opposizione di lunghezza, assente dalle altre varietà; nel basso badiotto, infine, le vocali sono 19, con l’aggiunta di una vocale centrale bassa (che non partecipa all’opposizione di lunghezza). Tabella 1: Diversi sistemi del vocalismo tonico  

fassano (senza Moena), collese, ampezzano

ieɛaɔou

gardenese livinallese

ieɛæaɔou ieɛaɑɔou

moenat

ieøɛaɔou

marebbano, alto badiotto

iyeøɛaɔou iː yː eː øː ɛː aː ɔː oː uː

basso badiotto

iyeøɛɐaɔou iː yː eː øː ɛː aː ɔː oː uː

Questi sistemi sono arricchiti da dittonghi che normalmente sono ascendenti nel caso delle vocali originariamente aperte e discendenti nel caso delle vocali chiuse: liv. [ˈmjel] ‘miele’/[ˈkwor] ‘cuore’ vs. [ˈnej] ‘neve’/[ˈʒow] ‘giogo’; ma nel gardenese (e perlopiù in gaderano) i dittonghi sono tutti discendenti, nell’ampezzano tutti ascendenti: grd. [ˈmiəl]/[ˈkuər]/[ˈnæjf]/[ˈʒæwf], amp. [ˈmjel]/[ˈkwore]/[ˈnjee] (> [ˈɲee])/[ˈzwogo]. Questi risultati divergenti hanno origine in un sistema antico, comune alla gran parte dell’Italia settentrionale (Loporcaro 2015), caratterizzato da una differenza nella lunghezza vocalica determinata dalla struttura sillabica ed eventualmente da un’evoluzione distinta in quei contesti in cui si aveva una vocale lunga (per es. quando in latino si aveva una sillaba aperta in un parossitono divenuto poi ossitono in ladino) rispetto a quelli in cui questo non si verificava (per es. in sillaba chiusa latina; cf. Craffonara 1977; Zamboni 1984, 2.3). Evoluzioni tipiche in contesto di allungamento e di non-allungamento sono date nelle tabelle 2–3:

Il ladino e le sue caratteristiche

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Tabella 2: Evoluzione del vocalismo tonico in contesto di allungamento  

BADIOTTO

GARDENESE

FASSANO

LIVINALLESE

AMPEZZANO

a : NĀSU ‘naso’

ˈnɛːs

ˈnes

ˈnɛs

ˈnɛs

(ˈnas)

ɛ : *MELE ‘miele’

ˈmiːl

ˈmiəl

ˈmjel

ˈmjel

ˈmjel

ɔ : NOVEM ‘nove’

ˈny

ˈnuəf

ˈnef

ˈnwof

ˈnoe

e : NIVE ‘neve’

ˈnaj

ˈnæjf

ˈnɛjf

ˈnej

[ˈnjee] (> [ˈɲee])

o : JUGU ‘giogo’

ˈʒu

ˈʒæwf

ˈʒɔwf

ˈʒow

ˈzwogo

Tabella 3: Evoluzione del vocalismo tonico in contesto di non-allungamento  

BADIOTTO

GARDENESE

FASSANO

LIVINALLESE

AMPEZZANO

a : SACCU ‘sacco’

ˈsaːk

ˈsak

ˈsak

ˈsak

(ˈsako)

ɛ : SEPTEM ‘sette’

ˈset

ˈset

ˈset

ˈset

ˈsɛte

ɔ : COLLU ‘collo’

ˈkɔːl

ˈkɔl

ˈkɔl

ˈkɔl

ˈkɔl

e : SICCU ‘secco’

ˈsak

ˈsæk

ˈsek

ˈsɑk

ˈseko

ˈmoʃa

ˈmoʃa

ˈmoʃa

ˈmoʃa

o : MUSCA ‘mosca’ ˈmoʃa

L’originaria opposizione tra vocali lunghe e vocali brevi si è conservata solo in gaderano. Neanche qui esiste però una corrispondenza precisa fra i contesti originari di allungamento o non-allungamento vocalico e le lunghe e le brevi del sistema attuale, dato che le condizioni primitive sono state modificate da varie evoluzioni condizionate (Videsott 2001b): le lunghe si sono abbreviate in posizione finale assoluta (cf. mar. [ˈmi] vs. bad. [ˈmiːl] ‘miele’), nuove lunghe sono sorte dalla fusione di due vocali uguali (bad. [fuˈraː] ‘forava’ < -aa), ecc. Coppie (quasi) minime per il marebbano sono: /ˈara/ ‘ala’ ~ /ˈaːra/ ‘aia’, /ˈpɛr/ ‘pera’ ~ /ˈpɛːr/ ‘paio’, /ˈpiʃ/ ‘piscia’ ~ /ˈpiːʃ/ ‘piedi’, /ˈbɔʃk/ ‘bosco’ ~ /aˈrɔːʃk/ ‘rana’, /o/ ‘o’ ~ /ˈoː/ ‘vuole’, /ˈtut/ ‘preso’ ~ /ˈduːtʃ/ ‘dolce’, /ˈdøt/ ‘tutto’ ~ /ˈøːt/ ‘vuoto’, /ˈmyʃ/ ‘asino’ ~ /ˈmyːʃ/ ‘visi’ (cf. anche /ˈleɲa/ ‘legna’ rispetto a /ˈeːga/ ‘acqua’). Inoltre i contesti di allungamento non sono gli stessi in tutte le varietà: quei casi in cui in latino si aveva una sillaba aperta in un proparossitono oppure in un parossitono rimasto tale in ladino, sono diventati contesti di allungamento in gardenese e in fassano, ma non in gaderano, livinallese e ampezzano, come mostrano gli esiti di a, e e o: lat. PĀLA > grd. [ˈpela], fas. [ˈpɛla] (come NĀSU ) vs. bad. [ˈpaːra], liv. [ˈpala] (come SACCU ); lat. SĒDECIM ‘sedici’ > grd. [ˈsæjdəʃ], fas. [ˈsɛjdeʃ] (come NIVE ) vs. bad. [ˈsadəʃ], liv. [ˈsɑdeʃ], amp. [ˈsedeʃ] (come SICCU ); lat. GULŌSA ‘golosa’ > grd. [guˈlæwza], fas. [goˈlɔwza] (come JUGU ) vs. bad. [guˈloza], liv. [goˈloza], GULA > amp. [ˈgora] (come MUSCA ). Per quanto riguarda le vocali medio-basse ɛ e ɔ, dove la

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Giampaolo Salvi

dittongazione avviene anche in contesto palatale (indipendentemente dalla struttura della sillaba), i dati sono difficilmente interpretabili, soprattutto per ɛ, ma una parte dei dati sembra mostrare, almeno per ɔ, che, al momento della dittongazione, questo contesto non presentava allungamento in nessuna delle varietà: lat. ROTA > bad. [ˈrɔːda], grd., fas., liv., amp. [ˈrɔda] (come COLLU ). Come si può vedere, l’ampezzano (con gli altri dialetti cadorini) ha lo stesso sistema delle varietà atesine, anche se questo non è sempre evidente per le medio-alte a causa della frequente riduzione dei dittonghi (presente del resto anche nelle altre varietà). Inoltre la restituzione delle vocali finali (cf. infra) ha oscurato la distinzione tra ossitoni e (pro)parossitoni – tuttavia, opposizioni come [ˈkwore] ‘cuore’ ~ [ˈmɔra] ‘mola’ o [ˈnjee] (> [ˈɲee]) ‘neve’ ~ [ˈsedeʃ] ‘sedici’ mostrano che la distinzione tra vocali lunghe e brevi esisteva anche in ampezzano e che quindi [ˈkwore] e [ˈnjee] (> [ˈɲee]) dovevano essere in origine monosillabici (e quindi ossitoni) e che la vocale finale che compare oggi in queste forme deve essere frutto di una restituzione posteriore. In gaderano u è passata a y (in marebbano in alcuni contesti ø): lat. CRŪDU ‘crudo’ > gad. [ˈkry], lat. CŪNA > mar. [ˈkøna], abad. [ˈkyna]; lat. FRŪCTU ‘frutto’ > gad. [ˈfryt]. L’origine e la datazione del fenomeno sono dibattute (Kramer 21981, 87–88 vs. Craffonara in Bacher 1995[1833], 6). Anche il dittongo proveniente da ɔ è passato a una vocale palatale arrotondata, che in origine doveva essere ø, ma a seconda dei dialetti in alcuni contesti è oggi y (in marebbano anche ɛ/e): *CORE ‘cuore’ > gad. [ˈkøːr], NOVEM ‘nove’ > mar. [ˈnø], bad. [ˈny], FOCU ‘fuoco’ > mar. [ˈfy], bad. [ˈfyːk], NOCTE ‘notte’ > bad. [ˈnøt], mar. [ˈnɛt], OC ( U ) LU ‘occhio’ > bad. [ˈødl], mar. [ˈedl]. Anche il dialetto di Moena ha ø per ɔ in posizione di dittongamento: [ˈføk], mentre il resto del fassano ha e: [ˈfek], probabilmente frutto della delabializzazione di una ø originaria (la presenza di ø nel moenat sarà da collegare alla situazione parallela dei dialetti fiammazzi vicini). In gaderano, gardenese e livinallese la e non-allungata si è centralizzata e abbassata con vari esiti: bbad. [ˈsɐk] ‘secco’, grd. [ˈsæk], liv. [ˈsɑk]; in alcune varietà si è fusa con un altro fonema: mar. [ˈsɛk], abad. [ˈsak] (in alto badiotto questo ha provocato per reazione l’allungamento di quasi tutte le a brevi originarie: [ˈsaːk] ‘sacco’). La caratteristica evoluzione a > ɛ/e in posizione di allungamento (cf. tabella 2) riguarda solo una parte del territorio ladino (non avviene, oltre che in ampezzano, nel brach e nel moenat, mentre nel collese avviene solo dopo palatale: [ˈtʃɛr] ‘caro’ vs. [ˈpal] ‘palo’). La dittongazione delle medio-basse avrà dato dappertutto i dittonghi ascendenti jɛ e wɔ. In gardenese si è poi avuta una ritrazione dell’accento (cf. ess. supra), ma non per es. se si erano formati dei trittonghi: [ˈbjej] ‘belli’ (la pronuncia dei dittonghi discendenti è del resto oscillante perché l’elemento debole, essendo più aperto, tende ad attirare l’accento). La ritrazione è avvenuta anche in gaderano, dove prelude alla monottongazione in i nel caso della palatale: jɛ > iɛ̯ > i(ː) (cf. tabella 2); ma si conserva anche il dittongo, sia nella sua fase ascendente sia in quella discendente: mar. [ˈpjetʃ]

Il ladino e le sue caratteristiche

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‘peggio’, [ˈdiɛ̯ ʃ] ‘dieci’ (diversa la spiegazione di Craffonara 1977, che per le varietà atesine parte da dittonghi inizialmente discendenti). La dittongazione delle medio-alte in posizione di allungamento ha dato dappertutto dittonghi discendenti (in gaderano ow è poi stato monottongato in u(ː) – cf. tabella 2). L’ampezzano, come gli altri dialetti cadorini, ha in seguito trasformato i suoi dittonghi discendenti in ascendenti per reazione ipercorretta al tipo veneziano, che ha solo dittonghi ascendenti (cf. ess. supra). Come nei dialetti circostanti, nelle varietà atesine le vocali finali diverse da -a cadono (cf. gli ess. nelle tabelle 2–3). Anche nell’ampezzano e negli altri dialetti cadorini le vocali finali diverse da -a erano cadute (come dimostra il diverso trattamento delle vocali toniche – cf. supra), ma sono state ripristinate per influsso del veneziano dopo il passaggio del Cadore alla Repubblica di Venezia nel 1420. La restituzione riguarda solo -e e -o (non -i) e non riguarda le forme terminanti in -l, -n/ɲ/ ŋ e normalmente neanche quelle in -r, -s, -ʃ o quelle che avevano già perso la consonante finale prima del ripristino della vocale: [ˈzwogo]/[ˈzwoge] ‘giogo/gioghi’, [ˈsjede] ‘sete’ vs. [ˈros]/[ˈroʃ] ‘rosso/-i’. Per [ˈɲee] ‘neve’ dobbiamo presupporre che la -v- sia caduta solo dopo la restituzione della vocale, mentre in [paˈru] ‘palude’ la -ddoveva essere caduta prima; ess. come [ˈlwo]/[ˈlwoge] ‘luogo/luoghi’ mostrano come la -i del plurale sia stata conservata più a lungo delle altre vocali finali. Nelle varietà atesine, nelle parole terminanti in occlusiva + r, abbiamo una vocale d’appoggio e tra l’occlusiva e la r: lat. MĀCRU ‘magro’ > mar. [ˈmeːger], bad. [ˈmɛːgər], grd. [ˈmegər], fas., liv. [ˈmɛger]; in caso di caduta dell’occlusiva, la vocale di appoggio si mantiene e si realizza dopo la r: lat. PATRE ‘padre’ > mar. [ˈpeːre], bad. [ˈpɛːrə], grd. [ˈpɛrə], fas., liv. [ˈpɛre] (anche amp. [ˈpare]). Fassano e livinallese presentano la stessa vocale d’appoggio anche dopo i gruppi di occlusiva + l, vocale conservata anche dopo la sparizione, in fassano, delle condizioni originarie: lat. DUPLU ‘doppio’ > liv. [ˈdople], fas. [ˈdopje], lat. * VECLU ‘vecchio’ > liv. [ˈvegle], fas. [ˈvɛje]; gaderano e gardenese, invece, in questi casi non presentano vocale d’appoggio: gad., grd. [ˈdopl], [ˈvedl]. In atonia, in badiotto e gardenese si ha una riduzione nel timbro di e a ə e di o a u (cf. supra gli ess. per SĒDECIM , GULŌSA , MĀCRU e PATRE ).

1.2 Consonantismo Come le altre varietà romanze dell’Italia settentrionale, il ladino non presenta consonanti geminate (cf. supra gli ess. per SACCU , SEPTEM , COLLU , SICCU , FRŪCTU , DUPLU ), ha subito la lenizione delle ostruenti intervocaliche (con sonorizzazione ed in alcuni casi dileguo; cf. supra gli ess. per GULŌSA , MĀCRU , PATRE , * VECLU ) e desonorizza le ostruenti sonore in fine di parola (cf. supra gli ess. per NĀSU : -s- > -z- > -s, NOVEM : -w- > -v- > -f, FOCU : -k- > -g- > -k). Il ladino presenta inoltre alcuni tratti in comune con il friulano e il romancio grigionese (↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 2.2.1); su questi tratti si è principalmente

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basata l’individuazione di un gruppo linguistico indipendente formato da questi tre gruppi dialettali. La ricerca ha tuttavia chiarito che questa comunanza di tratti rappresenta in realtà la conservazione indipendente di fenomeni un tempo diffusi su un’area più vasta dell’Italia settentrionale (e conservati ancora oggi in varie altre zone marginali dello stesso territorio; cf. Pellegrini 1991; Videsott 2001a; Vanelli 2005). I tratti in questione sono: a) la palatalizzazione di k e g davanti ad a; b) la conservazione dei nessi di consonante + l; e c) la conservazione di -s finale. Nel ladino la palatalizzazione di k davanti ad a ha dato c/tʃ (in posizione intervocalica j o dileguo), quella di g ha dato ɟ / (d)ʒ / j (in posizione intervocalica j o dileguo). Ess.: lat. CANE > gad. [ˈcaŋ], grd., fas., liv., amp. [ˈtʃaŋ]; lat. BRĀCA > abad. [ˈbraːja], grd. [ˈbrea], fas. [ˈbraa], liv. [ˈbraja], lat. URTĪCA ‘ortica’ > bad., grd. [urˈtia], fas., liv., amp. [orˈtia]; lat. GALLU ‘gallo’ > mar. [ˈjal], abad. [ˈɟaːl], grd., fas., liv. [ˈdʒal], amp. [ˈʒal]; lat. PLĀGA ‘piaga’ > abad. [ˈplaːja], grd. [ˈplea], fas. [ˈpjaa], liv. [ˈplaja], lat. LIGĀRE ‘legare’ > gad., liv. [liˈe], grd. [liˈæ], fas. [leˈɛr], amp. [leˈa]. Nelle varietà (recessive) che hanno ancora c, questo è in opposizione con tʃ, derivato dalla palatalizzazione romanza di k latino (o di altra origine; c può anche essere realizzato come un’affricata, ma più arretrata rispetto a tʃ): mar. [ˈcɛːr] ‘caro’ < CARU vs. [ˈtʃɛːr] ‘certo’ < CERTU (Craffonara 1979). I gruppi con l sono conservati in gaderano, gardenese e livinallese (in gaderano e gardenese kl e gl sono passati, rispettivamente, a tl e dl): lat. FLOCCU ‘fiocco’ > abad. [ˈflɔːk], grd., liv. [ˈflɔk]; lat. CLĀVE ‘chiave’ > gad., grd. [ˈtle], liv. [ˈkle]; lat. *GLACIA / U ‘ghiaccio’ > abad. [ˈdlaːtʃa], grd. [ˈdlatʃa], liv. [ˈglatʃ]. In questi contesti in fassano l è passato a j nel XIX secolo, ma gli esiti kj < kl, j < gl (e kl in posizione intervocalica) restano distinti dagli esiti tʃ/dʒ tipici dei dialetti italiani settentrionali: [ˈfjɔk], [ˈkjef], [ˈjatʃa] (accanto a [ˈdʒatʃa]), [ˈɛje] ‘occhio’ (< lat. OC ( U ) LU ). Nel collese (come in tutti i dialetti di transizione con l’alto agordino) e nell’ampezzano (come in tutti i dialetti cadorini) abbiamo l’esito italiano settentrionale: col. [ˈfjɔk], [ˈtʃef], [ˈdʒas], amp. [ˈfjɔko], [ˈtʃae], [ˈʒatsa]. La -s finale è conservata con valore morfologico come desinenza nominale del plurale (cf. ess. in 2.1) e come desinenza verbale della 2SG e, parzialmente, nella 2PL (ma non nella 1PL – cf. ess. in 2.2). Dove non ha valore morfologico, non si conserva: lat. PLŪS ‘più’ > bad. [ˈplø], grd., liv. [ˈplu], fas. [ˈpju], amp. [ˈpi]. Come in altre varietà marginali dell’Italia settentrionale, gli esiti della palatalizzazione romanza conservano ancora lo stadio postalveolare (tʃ, ʃ, ʒ, a seconda dell’origine e del contesto); fanno in parte eccezione il collese e l’ampezzano, nei quali, come in molte varietà italiane settentrionali, si è passati all’alveolare: lat. *CINQUE > gad., grd., fas., liv. [ˈtʃiŋk] vs. col. [ˈsiŋk], amp. [ˈtsiŋke]; lat. GENTE > bad. [ˈʒant], grd. [ˈʒænt], fas. [ˈʒɛnt], liv. [ˈʒent] vs. col. [ˈzent], amp. [ˈzɛnte]; lat. IUGU ‘giogo’ > gad. [ˈʒu], grd. [ˈʒæwf], fas. [ˈʒɔwf], liv. [ˈʒow] vs. col. [ˈzof], amp. [ˈzwogo]; lat. LEGERE ‘leggere’ > grd. [ˈliəʒər], fas. [ˈleʒer], liv. [ˈljeʒe] vs. col., amp. [ˈljeze]; lat. RATIŌNE ‘ragione’ > abad. [rəˈʒuŋ], grd. [rəˈʒoŋ], fas. [reˈʒɔŋ], liv. [reˈʒoŋ] vs. col., amp. [reˈzoŋ]; lat. PICEU ‘abete rosso’ > abad. [ˈpatʃ], grd. [ˈpætʃ], fas. [ˈpetʃ], liv. [ˈpɑtʃ] vs. col. [ˈpes];

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lat. BRŪSIĀRE ‘bruciare’ > gad. [burˈʒe], grd., liv. [bruˈʒe], fas. [bruˈʒɛr], amp. [bruˈʒa] vs. col. [bruˈze] (nota anche la palatalizzazione di s davanti a i: lat. SĪBILAT ‘fischia’ > gad. [ˈʃyːra], grd. [ˈʃibla], fas. [ˈʃigola], liv. [ˈʃjola]). Altre evoluzioni tipiche sono la caduta di v davanti a vocale velare, specialmente in gaderano e gardenese: lat. VŌCE > gad. [ˈuːʃ], grd. [ˈuʃ], fas. [ˈɔwʃ], liv. [ˈowʃ], amp. [ˈoʃ], lat. *VOCITU ‘vuoto’ > gad. [ˈøːt], grd. [ˈuət] vs. fas. [ˈvet], liv. [ˈvwot], amp. [ˈvojto]; la semplificazione del nesso nd in posizione postonica (eccetto in gardenese e collese): lat. QUINDECIM ‘quindici’ > bad. [ˈkinəʃ], fas., amp. [ˈkineʃ] vs. grd. [ˈkindəʃ], col. [ˈkindes]; la semplificazione del nesso mb (eccetto in collese e in ampezzano): lat. CAMBA ‘gamba’ > abad. [ˈdʒaːma], grd., liv. [ˈdʒama], fas. [ˈjama] vs. col. [ˈdʒamba], amp. [ˈʒamba]; il passaggio di l a w davanti a t/d: lat. DULCE ‘dolce’ > gad. [ˈduːtʃ], grd. [ˈdæwtʃ], fas. [ˈdɔwtʃ], liv. [ˈdowtʃ]; lat. ALTU ‘alto’ > grd., fas., liv. [ˈawt], amp. [ˈɔwto] (ma in gaderano, se precede a, è stata ripristinata la l: [ˈaːlt], come mostrano anche casi ipercorretti del tipo [ˈaːlca] ‘oca’ < * AUCA ); in gaderano e in ampezzano il passaggio di l intervocalico (< - L - ) a r e la sua caduta se in posizione finale romanza (ma in badiotto e in ampezzano non dopo il dittongo da ĕ): lat. CANDĒLA > mar. [can ˈdɛra], abad. [canˈdara], amp. [tʃanˈdera]; lat. * SALE > mar. [ˈse], bad. [ˈsɛ], amp. [ˈsa]; CAELU ‘cielo’ > mar. [ˈci] vs. bad. [ˈciːl], amp. [ˈtsjel]. Gaderano e gardenese hanno incorporato nel loro sistema fonologico, attraverso i molti prestiti tedeschi, il fonema /h/ (realizzato come una fricativa velare): gad. [ˈrɛːxl] ‘capriolo’, grd. [xekəlˈne] ‘lavorare all’uncinetto’. Per influsso dei dialetti tirolesi in gardenese si è diffusa la pronuncia fricativa uvulare di r. Da attribuire a influsso tedesco sarà anche la risoluzione gardenese di ɲ in nj e, in posizione finale, -ni: [ˈlænja] ‘legna’, [aˈrani] ‘ragno’.

2 Morfologia 2.1 Sistema nominale Nomi e aggettivi. Uno dei tratti più caratteristici delle varietà ladine rispetto alle altre varietà italiane settentrionali è la formazione del plurale nominale in -s. Questa non è tuttavia l’unica maniera in cui si forma il plurale; inoltre il collese oggi non presenta più questo tipo di plurale, il basso fassano (con Moena) e il livinallese non lo presentano più al femminile, e il livinallese lo ha ridotto a pochi casi anche al maschile (Marcato 1987). Nomi e aggettivi femminili terminanti in -a fanno il plurale in -es, eccetto nelle varietà appena citate, dove il plurale, per la caduta della -s finale, è in -e: bad. [ˈtʃoːla]/ [ˈtʃoːləs] ‘cipolla/-e’, grd. [ˈtʃola]/[ˈtʃoləs], fas. (cazét) [tsiˈgola]/[tsiˈgoles], amp. [ˈtseola]/[ˈtseoles] vs. fas. (brach) [tsiˈgola]/[tsiˈgole], liv. [ˈtʃeola]/[ˈtʃeole], col. [ˈsɛola]/[ˈsɛole]. Gli altri femminili hanno il plurale in -(e)s, mentre nella bassa Val di Fassa e nell’alta Valle del Cordevole il plurale è uguale al singolare: gad. [ˈpɛːrt]/[ˈpɛːrt(ə)s]

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‘parte/-i’, grd. [ˈpɛrt]/[ˈpɛrtəs], fas. (cazét) [ˈpɛrt]/[ˈpɛrts], amp. [ˈparte]/[ˈpartes] (e [ˈval]/[ˈvales] ‘valle/-i’) vs. fas. (brach), col. [ˈpart], liv. [ˈpɛrt] (SG / PL ). Nel maschile il plurale può essere in -(e)s o in -i; la distribuzione attuale delle due desinenze è in gran parte determinata dalla terminazione della radice, anche se con un alto grado di irregolarità e di variazione tra i diversi dialetti; il plurale in -i, inoltre, viene realizzato in maniere differenti a seconda della terminazione della radice: la desinenza -i può 1) essere conservata, oppure 2) cadere – in quest’ultimo caso il plurale può essere uguale al singolare, ma, se la desinenza ha causato la palatalizzazione della consonante o della vocale precedente, il plurale è segnalato in sincronia dalla palatalizzazione della consonante o vocale finale della parola. Da questo quadro si stacca in parte l’ampezzano (Vanelli 2008), dove, a causa della restituzione delle vocali finali, molti maschili non terminano più in consonante, per cui molti dei casi trattati qui di seguito non sono rilevanti; in ampezzano i maschili terminanti in -o hanno il plurale in -e (< -i) e quelli terminanti in -e hanno il plurale in -s: [ˈʒato]/[ˈʒate] ‘gatto/‑i’, [ˈdɛnte]/[ˈdɛntes] ‘dente/-i’. A grandi linee possiamo dire che abbiamo normalmente il plurale in -i, in tutte le varietà, con i maschili che terminano in -t, -s/-ts e -l; in questi casi il plurale si realizza come palatalizzazione della consonante (eccetto che per i nomi e aggettivi in -s in collese, in cui SG = PL ): bad. [ˈlet]/[ˈlec] ‘letto/-i’, grd. [ˈliət]/[ˈliətʃ], fas., liv., col. [ˈlet]/ [ˈletʃ]; bad. [ˈbaːs]/[ˈbaːʃ] ‘basso/‑i’, grd., fas., liv., amp. [ˈbas]/[ˈbaʃ] vs. col. [ˈbas] (SG / PL ); bad. [caˈvaːl]/[caˈvaːj] ‘cavallo/-i’, grd. [tʃaˈval]/[tʃaˈvej], fas., liv., col. [tʃaˈval]/[tʃa ˈvaj], amp. [kaˈal]/[kaˈaj]; ma nelle forme terminanti in consonante + l, con o senza vocale d’appoggio, il plurale si realizza come -i: gad., grd. [ˈvedl]/[ˈvedli] ‘vecchio/-i’, liv. [ˈvegle]/[ˈvegli]. Abbiamo invece generalmente il plurale in -(e)s con i maschili in -r e in -m, eccetto nel livinallese (con il collese), in cui il plurale è uguale al singolare; con -r l’ampezzano ha anche ‑i (> -e) (possibilità presente anche in alcuni casi nelle altre varietà, ma non in fassano): bad. [ˈcaːr]/[ˈcaːrts] ‘carro/-i’, grd. [ˈtʃar]/[ˈtʃarəs], fas. [ˈtʃɛr]/[ˈtʃɛres] vs. liv., col. [ˈtʃar] (SG / PL ) vs. amp. [ˈtʃar]/[ˈtʃares] e [muˈrɛr]/[muˈrɛre] ‘muratore/-i’; mar. [ˈram]/[ˈrams] ‘ramo/-i’, grd. [ˈram]/[ˈraməs], fas. [ˈram]/[ˈrames] vs. liv. [ˈram] (SG / PL ). Con le forme in -k(/-g-) il plurale è in -i (palatalizzazione) in gaderano e livinallese: bad. [ˈpiŋk]/[ˈpiŋc] ‘pino/-i’, liv. [ˈpiŋk]/[ˈpiŋtʃ] (in collese è normalmente uguale al singolare: [ˈpiŋk] SG / PL ); in gardenese e fassano, invece, può essere in -i o in -es: grd. [ˈpuək]/[ˈpuətʃ] ‘poco/pochi’, [ˈfuək]/[ˈfuəʃ] ‘fuoco/fuochi’ vs. [ˈpiŋk]/[ˈpiŋks]; fas. [ˈpek]/[ˈpetʃ] vs. [ˈfek]/[ˈfeges]. Anche in vari altri casi il fassano e, in parte, il gardenese hanno generalizzato il plurale in -(e)s, mentre le altre varietà hanno il tipo in -i (Chiocchetti 2001) o una forma uguale a quella del singolare, per es. con i nomi terminanti in -p e -v/f: gad. [ˈcamp] ‘campo/-i’, liv. [ˈtʃamp], col. [ˈtʃemp] (SG / PL ) vs. grd. [ˈtʃamp]/[ˈtʃampəs], fas. [ˈtʃamp]/[ˈtʃampes]; gad. [ˈkɔːrf] ‘corvo/-i’, liv. [ˈkɔrf] (SG / PL ) vs. grd. [ˈkɔrf]/[ˈkɔrvəs], fas. [ˈkɔrf]/[ˈkɔrves]. I maschili terminanti in -n/ŋ possono formare il plurale sia in -s sia con la palatalizzazione in tutte le varietà atesine eccetto il collese e il moenat, che hanno

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generalizzato la palatalizzazione; la distribuzione dei due tipi di plurale non coincide sempre (il brach ha spesso la palatalizzazione in casi in cui le altre varietà hanno -s), inoltre l’alto fassano ha anche casi in cui il plurale è uguale al singolare (si ricordi che in gardenese -ɲ è passato a -ni – cf. 1.2): bad. [ˈaːn]/[ˈaːɲ] ‘anno/-i’, grd. [ˈan]/[ˈani], fas. [ˈan]/[ˈɛɲ], liv., col. [ˈan]/[ˈaɲ]; gad. [ˈcaŋ]/[ˈcaŋs] ‘cane/-i’, grd., liv. [ˈtʃaŋ]/[ˈtʃaŋs], fas. [ˈtʃan]/[ˈtʃans] vs. moenat [ˈtʃan]/[ˈtʃɛɲ], col. [ˈtʃen]/[ˈtʃeɲ]; cazét [ˈpetin] (SG / PL ) ‘pettine/-i’ vs. brach [ˈpeten]/[ˈpeteɲ]. In ampezzano i maschili in -n/ŋ possono formare il plurale in cinque modi diversi: 1) con l’aggiunta di -es: [ˈaŋ]/[ˈanes], 2) con l’aggiunta di -s e la cancellazione della nasale: [moˈriŋ]/[moˈris] ‘mulino/‑i’, 3) con l’aggiunta di -e (< -i): [ˈdaŋ]/[ˈdane] ‘danno/-i’, 4) con la palatalizzazione (che, con la perdita del carattere nasale, dà -j): [teˈmoŋ]/[teˈmoj] ‘timone/-i’, 5) con il plurale uguale al singolare: [ˈpɛtin] (SG / PL ). Abbiamo anche l’accumulo di due segni di plurale: palatalizzazione + s o, più frequentemente, s + palatalizzazione: bad. [ˈdaːn]/[ˈdaːɲs] ‘danno/-i’, bad. [ˈpɛːrə]/ [ˈpɛːrəʃ] ‘padre/-i’, grd. [ˈpɛrə]/[ˈpɛrəʃ], fas., liv. [ˈpɛre]/[ˈpɛreʃ]. In fassano la -i può anche causare la palatalizzazione di a tonica, sia in aggiunta alla palatalizzazione della consonante finale, sia come unico segno del plurale: fas. [ˈan]/[ˈɛɲ] ‘anno/-i’, [ˈpra]/[ˈpre] ‘prato/-i’ (in badiotto abbiamo invece [ˈprɛ]/[ˈpra]: al singolare abbiamo la normale evoluzione della vocale tonica in contesto di allungamento, mentre al plurale la -i, poi caduta, ha mantenuto la parola nella classe dei parossitoni, impedendo così l’allungamento e quindi il passaggio a > ɛ; cf. 1.1). Con alcuni nomi indicanti persona, in gaderano e gardenese il plurale si forma col suffisso ‑ŌNES (m.)/-ĀNES (f.): abad. [ˈmyt]/[miˈtuŋs] ‘bambino/-i’, grd. [ˈmut]/[mu ˈtoŋs]; bad. [ˈmyta]/[miˈtaŋs] ‘bambina/-e’, grd. [ˈmuta]/[muˈtaŋs] (↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 3.2; ↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.3). Nelle varietà atesine gli aggettivi appartengono tutti alla classe variabile che forma il femminile con -a, anche quelli che in latino non differenziavano il femminile dal maschile: per es. grd. [ˈʒæwn]/[ˈʒæwna] ‘giovane (M / F )’ (cf. lat. IUVENIS , M / F ), anche se in fassano e in livinallese aggettivi invariabili per genere sono stati reintrodotti attraverso neologismi presi dall’italiano; l’ampezzano conserva invece questa classe di aggettivi: [vaˈrɛnte] ‘bravo/-a’. Come conseguenza dei cambiamenti fonetici, si sono create numerose alternanze nella forma del lessema tra maschile e femminile: gad. [ˈblaŋk]/[ˈblaːnca] ‘bianco/-a’, [ˈfoʃk]/[ˈfoʃa] ‘nero/-a’, grd. [ˈplæŋ]/[ˈplæjna] ‘pieno/-a’, fas. [ˈtebek]/[ˈtebja] ‘tiepido/-a’, liv. [ˈsowrt]/[ˈsowrda] ‘sordo/-a’, amp. [ˈkru]/[ˈkruða] ‘crudo/-a’. Pronomi soggetto. Nei pronomi personali, diversamente dalla maggior parte dei dialetti italiani settentrionali moderni, le forme dei pronomi soggetto liberi di 1SG e 2SG derivano dalle forme del nominativo e non da quelle dell’obliquo (eccetto che in livinallese e collese): lat. EGO ‘io’ > bad. [ˈjø], grd. [ˈiə], fas. [ˈdʒe], amp. [ˈjo] vs. liv., col. [ˈmi] < MIHI ; lat. TŪ > gad. [ˈtø], grd., fas., amp. [ˈtu] vs. liv., col. [ˈti] < TIBI . Le forme di 3SG / PL , che valgono anche per l’obliquo, sono: lat. ILLU / ILLA / ILLĪ / ILLĀS ‘egli/essa/ essi/esse’ > abad. [ˈal]/[ˈala]/[ˈaj]/[ˈaləs], grd. [ˈæl]/[ˈæjla]/[ˈæj]/[ˈæjləs], fas. [ˈel]/[ˈɛla]/

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[ˈitʃ]/[ˈɛles], liv. [ˈdɑl]/[ˈdɑla]/[ˈdɑj]/[ˈdɑle] (la d delle forme livinallesi deriverà dalla concrezione della -d finale della preposizione a(d) ‘a’ in costruzioni del tipo [ad ˈɑl] > [a ˈdɑl]); l’ampezzano ha le stesse forme, eccetto per il pl. masch., dove compare un derivato di ILLŌRUM con desinenza di plurale analogica, preso dai dialetti veneti: [ˈel]/[ˈera]/[ˈlore]/[ˈeres] ([ˈlori] è anche la forma ormai corrente nel livinallese e nel collese). Tutte le varietà posseggono anche forme clitiche del pronome soggetto, anche se non con le stesse proprietà sintattiche (cf. 3.3). Come mostra la tabella 4, in posizione preverbale, gardenese, fassano, livinallese, collese e ampezzano, come molti dialetti italiani settentrionali, hanno solo tre forme: 2SG , 3SG e 3PL ; l’alto badiotto ha anche la 1SG , mentre il basso badiotto e il marebbano hanno la serie completa (ma le forme di 1SG , 1PL e 2PL , come in molti dialetti italiani settentrionali, sono uguali). In posizione enclitica, cioè in caso di inversione (cf. 3.3), gaderano, livinallese, collese e ampezzano hanno la serie completa (e nel XIX secolo l’aveva completa, con l’eccezione della 2 SG , anche il gardenese: cf. Gartner 1879, 76, 87; la mancanza della forma enclitica di 2 SG sarà dovuta a un influsso dei dialetti tirolesi); questa asimmetria tra serie proclitica ed enclitica è tipica anche di molti dialetti italiani settentrionali (Renzi/ Vanelli 1983). Tabella 4: Pronomi soggetto clitici (proclitici/enclitici)  

MAREBBANO

BADIOTTO

GARDENESE

FASSANO

LIVINALLESE

AMPEZZANO

1SG

i/i

i/i

-/i

- / (-e)

- / jo

-/e

2SG

te / te

tə / (tə)

tə / -

te / te

te / to

te / to

3SG . M

al / (e)l

al / (ə)l

l / (ə)l

el / (e)l

l / (e)lo

el / (e)lo

3SG . F

ara / (e)ra

ala / (ə)la

la / (ə)la

la / (e)la

la / (e)la

ra / (e)ra

1PL

i / ze

(i) / z(e)

-/s

- / -e

- / zo

-/e

2PL

i/e

(i) / (e)

-/-

-/-

-/o

-/o

3PL . M

aj / i

aj / i

i/i

i/i

i / (e)li

i/i

3PL . F

ares / (e)res

aləs / (ə)ləs

ləs / (ə)ləs

les / (e)les

le / (e)le

es / (e)res

Gaderano e gardenese possiedono anche una forma di pronome soggetto impersonale generico: bad. [aŋ]/[-(ə/u)ŋ], grd. [ŋ]/[-(ə)ŋ] (mentre le altre varietà usano in questi casi la coniugazione pronominale; cf. infra ess. 34); questo soggetto è PL , come mostra l’accordo del participio (1b) (il verbo finito non distingue 3SG e 3PL ; cf. 2.2), mentre il genere dipende dal riferimento:

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a. (grd.) ʃə n ˈa ˈsuən, ˈva-ŋ a durˈmi (se an hanno sonno, vanno-an a dormire) ‘se si ha sonno, si va a dormire’ b. (bad.) aŋ ˈe ʒyːs (an sono andati) / aŋ ˈe ˈɲydəs saluˈdadəs (an sono venute salutate) ‘si è andati / si è state salutate’

Pronomi obliqui. Nella serie dei pronomi obliqui liberi, si distinguono, alla 1SG e alla 2SG , due forme: gad. [ˈmɛ]/[ˈtɛ] vs. [ˈme]/[ˈte], grd., fas., liv., amp. [ˈme]/[ˈte] vs. [ˈmi]/ [ˈti]. Il primo tipo (< accusativo MĒ / TĒ ) è usato con funzione di oggetto diretto e dopo preposizione, mentre il secondo tipo (< dativo MIHI / TIBI ) è usato con funzione di oggetto indiretto, sempre accompagnato dalla preposizione a (ma livinallese e collese hanno ormai neutralizzato l’opposizione a favore di mi/ti): (2)

a. (grd.) pra ˈte ‘presso (di) te’ b. ˈkæʃ ˈgwant tə ˈfeʒ-i a ˈti (questo vestito ti faccio-io a te) ‘questo vestito, lo faccio per te’

Il sistema dei pronomi obliqui clitici è analogo a quello della gran parte dei dialetti italiani settentrionali, ma non presenta una forma per il locativo; così frasi esistenziali del tipo ‘c’è…’ vengono rese con ‘esso è…’ (cf. anche infra ess. 12b e 46a): (3) (fas.)

ˈla ˈite l ˈera una ˈfemena (là dentro esso era una donna) ‘là dentro c’era una donna’

In gaderano e gardenese, il clitico dativo di 3SG / PL , accanto alla forma i (< ILLĪ ), può avere anche la forma ti, ma solo in posizione proclitica: (4) a. (bad.) l ˈfrɛ i/ti ˈda ˈvaːlk (il fratello gli dà qualcosa) ‘il fratello gli(sg./pl.)/le dà qualcosa’ b. ˈde-i ˈvaːlk (date-gli qualcosa) ‘dategli(sg./pl.)/le qualcosa’ Come mostra il fatto che compare solo davanti al verbo, la forma ti, oggi prevalente, dovrà la sua origine alla agglutinazione di (parte di) un elemento precedente: forse la parte finale del dimostrativo di tipo chest ‘questo’ (oggi senza t: abad. [ˈkaʃ], grd. [ˈkæʃ]; cf. Gsell 1987). Come in molti dialetti italiani settentrionali, il clitico riflessivo di 3 persona se è stato esteso anche alla 1PL ; in gardenese se ha però solo valore riflessivo, mentre per il reciproco si usa il clitico non-riflessivo. Abbiamo così:

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(5) a. (grd.) i muˈtoŋs nəz ˈa manˈda dʒawˈloni ‘i bambini ci hanno mandato (delle) caramelle’ b. ˈnæws sə ˈoŋ kumˈpra dʒawˈloni (noi se abbiamo comprato caramelle) ‘noi ci siamo comprati delle caramelle (per noi stessi)’ b. ˈnæws nəz ˈoŋ manˈda dʒawˈloni (noi ci abbiamo mandato caramelle) ‘noi ci siamo mandati delle caramelle (l’un l’altro)’ In gaderano se si è generalizzato per tutti gli usi di 1PL e 2PL : (6) a. (abad.) arˈʒiɲe-s la maˈrana ! (prepara-se il pranzo) ‘preparaci il pranzo!’ b. s uˈduŋ manˈdʒaŋ (se vediamo mangiando) ‘vi vediamo mangiare (mentre mangiate)’ Possessivi. I possessivi presentano in genere quattro forme distinte per genere e numero: per es. mar. [ˈtɔ/ˈtøa/ˈty/ˈtøes] ‘tuo/tua/tuoi/tue’; ma come determinante il gardenese e l’ampezzano usano una forma unica nelle persone diverse dalla 1PL e 2PL : grd. [ˈti ˈtʃaŋ] ‘il tuo cane’/[ˈti ˈtʃaŋs] ‘i tuoi cani’/[ˈti tʃaˈmæjʒa] ‘la tua camicia’/[ˈti tʃaˈmæjʒəs] ‘le tue camicie’. Non si hanno forme distinte per la 3SG e la 3PL : per es. fas. [ˈsɔ] ‘suo/loro’.

2.2 Verbo Desinenze personali. Nelle varietà atesine la 1SG ha la desinenza -e (mar. e bbad. -i) nel presente e imperfetto di indicativo e congiuntivo di tutte le coniugazioni (in marebbano solo al presente, in badiotto solo al presente indicativo; in alto badiotto la -e può cadere): per es. fas. [ˈtʃante]/[ˈtʃante]/[tʃanˈtɛe]/[tʃanˈtase] ‘(io) canto/canti/cantavo/ cantassi’. Abbiamo qui la restaurazione di una desinenza personale anetimologica dopo la caduta della - Ō nel presente indicativo, restaurazione comune a molte varietà romanze (francese, catalano, occitanico, dialetti italiani settentrionali), con eventuale estensione ad altri tempi e modi (Benincà/Vanelli 2005, 243–56). L’ampezzano al presente indicativo ha invece restituito -o, di influsso veneziano. La 2SG ha la desinenza -es (< - ĀS ; nella bassa Val di Fassa, nel livinallese e nel collese -e, per la caduta di -s finale) in tutti i tempi e modi di tutte le coniugazioni (eccetto, in marebbano, il congiuntivo presente; cf. infra): per es. fas. [ˈtʃantes]/ [ˈtʃantes]/[tʃanˈtɛes]/[tʃanˈtases] ‘(tu) canti/canti (cong.)/cantavi/cantassi’. Alla 1PL , il presente indicativo ha la desinenza gad. -uŋ / grd., fas., liv., col., amp. -oŋ (‑juŋ/‑joŋ nella IV coniugazione, eccetto che in ampezzano) < - UMUS , come nei dialetti veneti settentrionali: per es. fas. [tʃanˈtoŋ]/[baˈtoŋ]/[dorˈmjoŋ] ‘cantiamo/battiamo/dormiamo’. Per gli altri tempi e modi, cf. infra. La desinenza della 2PL dell’indicativo presente è -Vjs (mar., bbad., grd.)/-V:s (abad.)/-Vj (liv.)/‑Vde (fas.)/-V (col., amp.), dove V è la vocale tematica della coniuga-

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zione: per es. mar. [canˈtejs]/[baˈtejs]/[dorˈmiːs] ‘cantate/battete/dormite’, abad. [can ˈteːs]/[baˈteːs]/[durˈmiːs], liv. [tʃanˈtej]/[baˈtej]/[dorˈmjej], fas. [tʃanˈtɛde]/[baˈtede]/[dor ˈmide], amp. [tʃanˈta]/[baˈte]/[dorˈmi] (con la stessa vocale tematica per la I e la II/III coniugazione in tutte le varietà eccetto il fassano e l’ampezzano). La desinenza -de (presente anche nella varietà cadorina del Comelico) è di difficile spiegazione, mentre le desinenze delle altre varietà continuano direttamente - TIS (ma nell’ampezzano si potrebbe presupporre un -de poi caduto); il collese ha le stesse forme (-é/-é/-ì) dei dialetti agordini. Per gli altri tempi e modi, cf. infra. La 3PL è sempre uguale alla 3SG , anche nei verbi irregolari, come nei dialetti veneti e in molti altri dialetti italiani settentrionali: per es. mar. [ˈɛ] ‘è / sono’, bad., fas., liv., col., amp. [ˈe], grd. [ˈiə]. Allomorfia. A causa della diversa evoluzione del vocalismo in posizione tonica e atona, sono frequenti le alternanze del lessema tra forme rizotoniche e rizoatone (Mair 1973, 5.6), come mostrano le seguenti forme di 1SG e 1PL : grd. [ˈkontə]/[kunˈtoŋ] ‘raccontare’, [ˈselə]/[saˈloŋ] ‘salare’, [ˈmæwʒə]/[muˈʒoŋ] ‘mungere’. L’alternanza può riguardare anche la struttura sillabica: grd. [ˈprɔvə]/[purˈvoŋ] ‘provare’, [ˈkræjə]/[kər ˈdoŋ] ‘credere’. Al presente di indicativo, congiuntivo e imperativo, la I e la IV coniugazione comprendono un’ampia sottoclasse di verbi che presentano, rispettivamente, l’ampliamento - IDI - ed - ĒSC - (in ampezzano - ĪSC - ), eccetto che alla 1PL e alla 2PL : abad. [viʒiˈtajəs]/[fluˈraʃəs] ‘(tu) visiti/fiorisci’, grd. [viʒiˈtejəs]/[fluˈræʃəs], fas. [viʒiˈtees]/[fjo ˈreʃes], liv. [viʒiˈteje]/[floˈrɑʃe], amp. [ʃtarnuˈdea]/[feˈniʃe] ‘starnuta/finisce’; cf. i paradigmi completi in fassano: [viʒiˈtee], [viʒiˈtees], [viʒiˈtea], [viʒiˈtoŋ], [viʒiˈtɛde], [viʒi ˈtea]; [fjoˈreʃe], [fjoˈreʃes], [fjoˈreʃ], [fjoˈrjoŋ], [fjoˈride], [fjoˈreʃ]. Tempi e modi. Nel congiuntivo presente il gaderano presenta una desinenza unica per le tre persone del singolare (e la 3PL ) di tutte le coniugazioni, con allineamento della 2 SG alle altre due in marebbano: [ˈcanti] ‘(io/tu/egli/essi) canti(no)’, e, per contro, l’eccezionale estensione della forma della 2 SG in badiotto: [ˈcantəs]. Queste forme, per la caduta della -s della 2 SG , sono uguali anche in basso fassano, livinallese e collese: liv. [ˈtʃɑnte]. Anche gardenese, alto fassano e ampezzano hanno le stesse desinenze in tutte le coniugazioni, ma tengono distinta la 2 SG : ‑e/‑es/-e: fas. [ˈtʃante]/ [ˈtʃantes]/[ˈtʃante]. Per la 1PL e la 2PL , eccetto che in fassano, le forme sono uguali a quelle dell’indicativo con l’aggiunta di un suffisso: in gaderano e gardenese, come in vari dialetti veneti settentrionali, il suffisso è -(z)e: per es. mar. [canˈtuŋze]/[canˈtejze] ‘cantiamo/cantiate’ – questo suffisso è una morfologizzazione delle forme del pronome soggetto enclitico (cf. tabella 4; alla 2PL il suffisso è -e, con sonorizzazione della -s finale della desinenza personale, ora in posizione intervocalica; alla 1PL , invece, la -zche compare dopo la desinenza personale sarà più probabilmente analogica su quella della 2PL che non una conservazione della - S della desinenza latina - MUS ) ; in alcune varietà questo suffisso compare anche nelle forme dell’imperfetto indicativo e congiuntivo; in alto badiotto e in gardenese la -e può cadere: per es. abad. [canˈtuŋs]/[can ˈteːs], per cui la 2PL non si distingue dalla forma parallela dell’indicativo. In ampezza-

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no il suffisso è -e alla 1 PL e -de alla 2 PL : [pjaˈʒone]/[pjaˈʒede] ‘piacciamo/piacciate’. In livinallese il suffisso è -be: [tʃanˈtombe]/[tʃanˈtejbe], in analogia col congiuntivo di ‘avere’, dove il -be di [ˈɛbe] ‘(io) abbia’ è stato reinterpretato come un suffisso aggiunto alla forma dell’indicativo [ˈɛ] ‘ho’ e tutto il paradigma è stato ristrutturato in questo senso: [ˈɛbe], [ˈa(s)be], [ˈabe], [ˈombe], [ˈejbe], [ˈabe]. In fassano si usano le forme del congiuntivo imperfetto (cf. infra), ma nella parte superiore della valle per la 1PL si ha una desinenza specifica -ane/jane (anche questa con il suffisso -e), mentre la 2 PL è uguale all’indicativo: [tʃanˈtane]/[tʃanˈtɛde]. Il moenat ha sostituito in parte il congiuntivo presente con il congiuntivo imperfetto, come nei vicini dialetti fiammazzi. Il collese usa un sistema misto, con il suffisso -e alla 1 PL e la forma del congiuntivo imperfetto alla 2 PL . Come in genere in Italia settentrionale, in tutte le varietà si è perso il perfetto semplice, sostituito da quello composto. Nell’imperfetto indicativo, mentre gaderano, fassano, collese e ampezzano distinguono tre tipi di suffissi temporali, gardenese e livinallese hanno esteso il suffisso della II/III coniugazione alla I (al singolare, e alla 3 PL , la -v- del suffisso temporale cade in gaderano, fassano – ma non a Moena – e ampezzano; alla 1 PL e 2 PL cade dappertutto eccetto che in collese): bad. [canˈtaː]/[baˈtɔː]/[durˈmiː] ‘cantavo/battevo/ dormivo’, fas. [tʃanˈtɛe]/[baˈtee]/[dorˈmie], amp. [tʃanˈtae]/[baˈtee]/[dorˈmie] vs. grd. [tʃanˈtɔvə]/[baˈtɔvə]/[durˈmivə], liv. [tʃanˈtɑve]/[baˈtɑve]/[dorˈmive] (si noti che in badiotto la vocale della desinenza personale viene assorbita dalla vocale tonica del suffisso temporale). Per quanto riguarda la 1PL e la 2PL , il gaderano presenta ritrazione dell’accento sul suffisso temporale (anche qui con assorbimento della vocale atona della desinenza personale): bad. [durˈmiːŋ]/[durˈmiːs] ‘dormivamo/dormivate’; in gardenese, fassano, collese e ampezzano, invece, l’accento è sulla desinenza personale: grd. [durˈmjaŋ]/[durˈmjajs], fas. [dorˈmjane]/[dorˈmjɛde], amp. [dorˈmjoŋ]/[dorˈmja]. Nel livinallese, invece, queste forme si costituiscono aggiungendo il suffisso -ve alle forme del presente: [tʃanˈtoŋve]/[tʃanˈtejve] ‘cantavamo/cantavate’ (con una estensione analogica sulla base della forma di 1SG e 2SG [tʃanˈtɑve] ‘cantavo/cantavi’). Nell’imperfetto congiuntivo marebbano, basso badiotto, fassano, collese e ampezzano distinguono tre tipi di suffissi modo-temporali, mentre alto badiotto, gardenese e livinallese hanno esteso il suffisso della II/III coniugazione alla I: mar. [canˈtas]/[ba ˈtɛs]/[dorˈmis] ‘(io) cantassi/battessi/dormissi’, fas., amp. [tʃanˈtase]/[baˈtese]/[dorˈmise] vs. (alto) bad. [canˈtes]/[baˈtes]/[durˈmis], grd. [tʃanˈtæsə]/[baˈtæsə]/[durˈmisə], liv. [tʃanˈtɑse]/[baˈtɑse]/[dorˈmise]. In gardenese, alto fassano e livinallese la 3SG / PL ha la desinenza analogica -a, a Moena e Soraga e in collese e ampezzano -e (il resto del basso fassano, ma anche una parte dell’alto fassano, oscilla): grd. [durˈmisa] ‘dormisse’, fass, liv. [dorˈmisa], moenat [dorˈmise] (vs. mar. [dorˈmis], bad. [durˈmis]). Il marebbano ha generalizzato un’unica forma per le tre persone del singolare (e la 3PL ): [canˈtas] ‘(io/tu) cantassi/cantasse/cantassero’; queste forme, per la caduta della -s della 2 SG , sono uguali anche a Moena e Soraga e nel collese: basso fas. [tʃanˈtase]. Per quanto riguarda la 1PL e la 2PL , come nell’imperfetto indicativo, il gaderano ha

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l’accento sul suffisso modo-temporale, mentre gardenese, fassano, collese e ampezzano hanno l’accento sulla desinenza personale: bad. [durˈmisuŋ]/[durˈmises] ‘dormissimo/dormiste’ vs. grd. [durmiˈsaŋ]/[durmiˈsajs], fas. [dormiˈsane]/[dormiˈsɛde], amp. [dormiˈsoŋ]/[dormiˈsa]. Nel livinallese, invece, queste forme si costituiscono aggiungendo il suffisso -se alle forme del presente: [tʃanˈtoŋse]/[tʃanˈtejse] ‘cantassimo/ cantaste’ (con estensione analogica sulla base della forma di 1SG e 2SG [tʃanˈtɑse] ‘(io/ tu) cantassi’). Nell’imperativo la 2PL è sempre distinta dalla corrispondente forma dell’indicativo (eccetto in collese e ampezzano): bad., grd. [durˈmidə] ‘dormite!’, fas., liv. [dorˈmi]. Dove abbiamo la desinenza -de, questa non compare in presenza di un riflessivo enclitico: bad. [senˈte-s] (sedete-se) ‘sedetevi!’, mentre con i clitici non-riflessivi la situazione è variabile: bad. [dajˈde-la] / mar. [dajˈdede-la] ‘aiutatela!’.. Nel proibitivo, alla 2 SG nelle varietà atesine si usa, come in italiano, l’infinito (cf. ess. 29 e 30c, infra), mentre in ampezzano il proibitivo si forma con la perifrasi (molto diffusa in Italia settentrionale) ‘non stare/state a + infinito’, costruzione corrente anche in livinallese e collese e presente in tutte le varietà. Oltre ai normali tempi composti sono in uso anche i rispettivi supercomposti per indicare la compiutezza dell’azione con i verbi transitivi: (7) (grd.)

ˈbelə iˈniər ˈɔva ˈpawl aˈbu fiˈna ˈsi ˈlæwr (già ieri aveva P. avuto finito suo lavoro) ‘già ieri Paolo aveva finito il suo lavoro’

In tutte le varietà è presente il futuro. Nelle varietà atesine non si hanno invece forme di condizionale, al posto del quale si usa normalmente il congiunivo imperfetto (cf. infra, cap. 3.2); nel collese e nell’ampezzano compare un paradigma misto, simile a quello dei dialetti alto-agordini e cadorini: le forme del SG e della 3 PL derivano dalla perifrasi ‘infinito + *HABĪ ’ (per HABUĪ ), comune nei dialetti veneti settentrionali, mentre per la 1 PL e 2 PL si usano le forme del congiuntivo imperfetto: amp. [dormi ˈrae]/[dormiˈsoŋ] ‘dormirei/dormiremmo’. Participio. In gardenese e fassano in un piccolo gruppo di verbi si è diffusa la desinenza analogica -ét (< - ECTU ): grd. [ˈplwæt] ‘piovuto’, fas. [pjoˈvet], mentre in livinallese, in collese e (meno) in ampezzano è penetrata la desinenza veneta -ésto: liv. [ploˈvɑst], col. [pjoˈvest], amp. [pjoˈeʃ].

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3 Sintassi 3.1 Sintagma nominale Accordo. In gardenese, nei sintagmi nominali (SN) femminili tutto quanto precede la testa nominale non viene accordato al plurale, mentre vengono accordati gli aggettivi che seguono la testa (8c) (Belardi 1984): (8) a. la ˈpitla ˈmuta (la piccola bambina) la ˈpitla muˈtaŋs (la piccola bambine) ‘le piccole bambine’ b. ˈduta ˈkæla piˈtura (tutta quella pittura) ˈduta ˈkæla piˈturəs (tutta quella pitture) ‘tutto quel dipinto/tutti quei dipinti’ c. la ˈmuta kuˈrjæwza (la bambina curiosa) la muˈtaŋs kuˈrjæwzəs (la bambine curiose) ‘le bambine curiose’ Storicamente abbiamo qui a che fare con la caduta di -s finale in posizione preconsonantica: l’allomorfo la della forma originaria las (sviluppatasi più tardi in les) è stato interpretato come una forma di singolare ed esteso a tutti i contesti (anche davanti a vocale: [l ˈawtʃa]/[l(a) ˈawtʃəs] ‘l’oca/le oche’ — inizialmente al plurale, davanti a vocale, doveva essere normale la forma non-elisa, oggi non obbligatoria). Questo è mostrato anche dal fatto che i SN maschili (dove la desinenza è prevalentemente -i) hanno un plurale regolare (9a); anche al maschile, però, esiste un buon numero di elementi che non prendono (o possono non prendere) il morfema del plurale se precedono la testa, e questo indipendentemente dal loro tipo di plurale, in -s (9b), o in -i (9c): (9) a. l ˈbel ˈtʃɔf (il bel fiore) / i ˈbjej ˈtʃɔfəs (i bei fiori) b. i ˈprim ˈtʃɔfəs (i primo fiori) ‘i primi fiori’ cf. ˈprim/ˈprims ‘primo/-i’ c. i ˈʃtlet ˈrevəs (i cattivo rape.M ) ‘le cattive rape’ cf. ˈʃtlet/ˈʃtletʃ ‘cattivo/-i’ Lo stesso fenomeno si ha nell’alta Val di Fassa, dove però ha preso vie parzialmente diverse e riguarda solo i SN femminili (Chiocchetti 2002–2003; Rasom 2006). Come in gardenese, tutto quello che precede il nome non prende il morfema del plurale (10); l’articolo può stare al plurale soltanto quando sia seguito solo da una forma che non presenti il morfema del plurale: cf. (11a) vs. (11b):

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(10) a. la ˈbɛla ˈfemena (la bella donna) la ˈbɛla ˈfemenes (la bella donne) ‘le belle donne’ b. ˈduta ˈsia ˈrɔbes (tutta sua cose) ‘tutte le sue cose’ (11) a. les ˈtʃiŋk (le cinque) b. la ˈdoes (la due.PL ) ‘le due’ Ma se il nome è seguito da un aggettivo, il morfema del plurale può comparire solo sull’aggettivo postnominale (12a), oppure sia sul nome che sull’aggettivo (12b). Nonostante i fatti non siano chiarissimi, le due soluzioni sono tendenzialmente legate a due diverse interpretazioni della relazione tra aggettivo e nome: in (12a) l’aggettivo ha valore restrittivo (le nuvole bianche sono individuate in opposizione a nuvole di altro colore), mentre in (12b) l’aggettivo ha valore descrittivo (c’erano delle nuvole, che tra l’altro avevano la proprietà di essere nere): (12) a. la ˈnigola ˈbjɛntʃes no ˈpɔrta ˈpjevja (la nuvola bianche non portano pioggia) ‘le nuvole bianche non portano pioggia’ b. l ˈera ˈɛntʃe ˈtseke ˈnigoles ˈnɛjgres (esso era anche qualche nuvole nere) ‘c’erano anche delle nuvole nere’ I SN maschili hanno invece il plurale regolare e anche gli aggettivi che hanno il plurale in -s si accordano in posizione prenominale: (13)

l ˈawter ˈmɛjs (l’altro mese) / i ˈetres ˈmɛjʃ (gli altri mesi)

Il fenomeno si ha anche in ampezzano (e nel resto della Valle del Boite), dove le regole sono simili a quelle del fassano: nei SN femminili, tutto quello che precede il nome non prende il morfema del plurale (14a) (se il nome comincia per vocale, l’articolo ha normalmente la forma non-accordata r’ o ra, ma con alcune parole anche quella accordata res, es. 14b); se il nome è seguito da un aggettivo, il morfema del plurale può comparire solo sull’aggettivo postnominale (15a), oppure sia sul nome che sull’aggettivo (15b): (14) a. ra ˈbɛla ˈtozes (la bella ragazze) ‘le belle ragazze’ b. r(a) arˈmentes (la vacche) ‘le vacche’ / ra ˈonʒes (la unghie) ‘le unghie’ / rez ˈanimes (le anime)

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(15) a. ˈkera ˈvɛtʃa ˈʃtrakes (quella vecchia stanche) ‘quelle vecchie stanche’ b. ˈdoa tʃaˈmezes ˈbɔna ˈfɔrtes (due.SG camicie buona forti) ‘due camicie belle forti’ In (15b) l’aggettivo bòna, usato come modificatore di fòrtes, non è accordato al plurale (e anche il numerale dóa ha una forma “singolarizzata”, parallela a quella dell’articolo, invece dell’atteso dóes): si deve probabilmente pensare che il sintagma aggettivale bòna fòrtes costituisce un sintagma relativamente indipendente rispetto al SN dóa ciaméṣes (una specie di relativa ridotta: ‘due camicie, che sono belle forti’), e che all’interno dei due sintagmi la regola della pluralizzazione si applica indipendentemente, mettendo al plurale solo l’ultimo elemento (al maschile, dove si accordano tutti gli elementi, anche l’aggettivo usato come modificatore avverbiale si accorda: biéi òute ‘belli alti’). Uso dell’articolo. Diversamente dai dialetti italiani settentrionali, nelle varietà ladine atesine non si usa l’articolo definito davanti al possessivo usato come determinante: bad. [ˈtya ˈcoːra] ‘la tua capra’, grd. [ˈti ˈtʃæwra], fas. [ˈtia ˈtʃawra]; ma l’uso dell’articolo, per influsso dei dialetti trentini e veneti vicini, si sta imponendo in basso fassano, livinallese e collese. L’articolo è di regola in ampezzano. In gaderano e gardenese il riferimento generico di un SN plurale si può esprimere con l’articolo definito, come in genere nelle altre lingue romanze, ma anche senza articolo, come nelle lingue germaniche: (16)

(bad.) (i) ˈcaŋs ˈe də ˈboɲ kumˈpaːɲs d la pərˈsona (i cani sono di buoni amici di la persona) ‘i cani sono buoni amici dell’uomo’

Il ladino non ha sviluppato un articolo partitivo, ma nelle varietà atesine si usa de ‘di’ in SN indeterminati in cui un aggettivo preceda il nome (17) (cf. anche supra es. 16), e davanti ad alcuni semi-determinanti (quantificatori, deittici e anaforici) (18); questo de può anche essere preceduto da preposizione (17b)/(18b): (17) a. (fas.) aˈoŋ veˈdu de ˈbie ˈfjores (abbiamo visto di bei fiori) ‘abbiamo visto dei bei fiori’ b. (grd.) tə də ˈpitla ˈgrupəs (in di piccola gruppi.F ) ‘in piccoli gruppi’ (18) a. (abad.) ˈsilvia nəz ˈa ˈʃkrit də ˈplø ˈlatrəs (S. ci ha scritto di più lettere) ‘Silvia ci ha scritto più lettere’ b. l patiˈmant də d ˈaːtri (la sofferenza di di altri) ‘la sofferenza di altri’

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In gaderano e gardenese il nome preceduto dal numerale ‘uno’ è accompagnato dall’articolo indefinito: (19) (abad.) ˈyna na ˈkoːsa mə ˈpaza (una.NUM una.ART cosa mi pesa) ‘una (sola) cosa mi pesa’

3.2 Sintagma verbale Perifrasi perfettive. Per la scelta dell’ausiliare nei tempi composti valgono le stesse generalizzazioni che in italiano e francese, eccetto nel caso dei verbi accompagnati da un clitico riflessivo. In questi casi l’ausiliare è generalmente ‘avere’ (20)–(21), ma, in alcune varietà, con alcuni verbi (per es. con quelli di movimento) si ha ‘essere’ (22): (20) a. (grd.) l s ˈa məˈtu pər ˈʃtreda (egli si ha messo per strada) ‘si è messo in cammino’ b. l s ˈa ʒnuˈdla ˈʒu (egli si ha inginocchiato giù) ‘si è inginocchiato’ c. l s ˈa dəʃˈfat ˈdut (egli si ha disfatto tutto) ‘ha scialacquato tutto’ (21) a. (fas.) la s ˈa ferˈma (essa si ha fermato) ‘si è fermata’ b. les se ˈa piˈsa ˈfɔra (esse si hanno pensato fuori) ‘hanno progettato’ c. la se ˈa ˈfat konˈtɛr (essa si ha fatto raccontare) ‘si è fatta raccontare’ (22) (grd.) sə n ˈiə ˈʒit (se ne è andato) L’accordo del participio perfetto con l’oggetto diretto si ha solo con i clitici di 3a persona (Loporcaro 1998, 91–93, 147–149), ma in gaderano si fa generalmente solo al F . SG (23a), e non al PL (23b): (23) a. (bad.) i t l ˈa ˈdada (io te la ho data) ‘te l’ho data’ b. al m i ˈa ˈvny (egli me li ha venduto) ‘me li ha venduti’ Negazione. Mentre in fassano, livinallese, collese e ampezzano nella negazione (non enfatica) abbiamo una particella preverbale (24), in gaderano e gardenese moderni abbiamo normalmente due elementi, uno che precede e l’altro che segue il verbo flesso (25), anche se in alcuni contesti (come quando la negazione è espletiva) è

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possibile usare la sola particella preverbale (26) (Siller-Runggaldier 1985; Gsell 2002– 2003; per le varietà italiane settentrionali cf. Zanuttini 1997): (24) a. (fas.) ˈana no ˈvɛŋ (A. non viene) b. (liv.) la ˈana la no ˈveŋ (la A. essa non viene) c. (amp.) ˈana ra no ˈvjeŋ (A. essa non viene) ‘Anna non viene’ (25) a. (abad.) ˈana nə ˈvaɲ ˈnia b. (grd.) ˈana nə ˈvæŋ ˈnia (A. non viene nulla) ‘Anna non viene’ (26) (grd.) ˈrita ˈlæwra dəˈplu də ˈkæl kə la nə məˈsæsa (R. lavora di-più di quello che essa non dovesse) ‘Rita lavora più di quanto (non) dovrebbe’ Con i quantificatori negativi in posizione preverbale, l’uso della particella negativa varia a seconda dei dialetti, indipendentemente dal tipo di negazione normalmente usato (semplice, ess. 27, o doppia, ess. 28; cf. anche infra es. 70b): neˈʃuɲ ˈa ˈvoa de… (nessuno.PL hanno voglia di) deˈguɲ i non ˈa ˈvoja de… (nessuno.PL essi non hanno voglia di) ‘nessuno ha voglia di…’ (28) a. (abad.) dəˈgyɲ ˈa ˈvøja də… (nessuno.PL hanno voglia di) b. (mar.) deˈgyɲ nen ˈa ˈveja de… (nessuno.PL non hanno voglia di) ‘nessuno ha voglia di…’ (27) a. (fas.) b. (liv.)

Come frutto di un’evoluzione recente, in gardenese e alto badiotto, la particella preverbale può essere omessa nel parlato spontaneo: grd. [l ˈvæŋ nia] (egli viene nulla) ‘non viene’. All’imperativo, anche in gaderano e gardenese si può avere negazione solo preverbale (oltre a quella con due elementi), ma con una particella diversa (no invece di ne): (29) (grd.) no i tuˈkɛ (non li toccare) Per altri usi delle forme no e nia, cf. Gallmann/Siller-Runggaldier/Sitta (2013, 149– 171). Uso dei clitici non-soggetto. I clitici non-soggetto sono sempre preverbali, eccetto che all’imperativo affermativo; abbiamo così, per es. in fassano, proclisi con un verbo finito (30a), con l’infinito (30b) e con l’imperativo negativo (30c) (cf. anche es. 29), enclisi con l’imperativo affermativo (31) (ma oggi in fassano, per influsso trentino, l’enclisi si sta diffondendo anche con l’infinito):

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(30) a. el m ˈa pitsoˈka (egli mi ha pizzicato) b. ˈjɛj a me ˈtoner la ˈfɛjdes (vieni a mi tosare la pecore) ‘vieni a tosarmi le pecore!’ c. no te ˈmever (non ti muovere) (31) ˈʒvete-me la ˈkandola (vuota-mi il secchio) Con i semi-ausiliari, la salita dei clitici, una volta generale, non è più possibile in livinallese (32a), mentre lo è ancora in fassano e in ampezzano (32b); in gaderano e gardenese la salita sembra oggi marginale (Casalicchio/Padovan 2019): (32) a. (liv.) uˈla podaˈrɛ jo l tʃaˈpe ? (dove potrò io lo trovare) b. (fas.) oˈla ke l poˈdese troˈɛr ? (dove che lo potessi trovare) ‘dove potrò/potrei trovarlo?’ Nei gruppi di clitici l’ordine è clitico dativo + clitico accusativo/partitivo (33); nelle varietà in cui esiste (fassano, livinallese, collese, ampezzano), il clitico se della costruzione impersonale precede, come nei dialetti veneti, il clitico accusativo di 3. pers. (34a) e in genere anche quelli di 1. e 2. (34b), ma con qualche oscillazione: (33) a. (fas.) te l ˈdage (te lo do) b. ˈda-me-ne (dàmmene) (34) a. la ˈfawtʃ, se la ˈgutsa con la ˈpera (la falce si la affila con la cote) ‘la falce, la si affila con la cote’ b. se ve ˈvɛjt (si vi vede) ‘vi si vede’ Come in genere nei dialetti italiani settentrionali, l’oggetto indiretto è sempre reduplicato da un clitico dativo: (35) (grd.)

ˈana ti ˈʃiŋka n ˈlibər a ˈsi kumˈpanja (A. le regala un libro a sua amica) ‘Anna regala un libro alla sua amica’

In ampezzano il clitico partitivo, come in genere nei dialetti veneti, compare sempre in combinazione con un altro clitico: in mancanza di questo, si usa il clitico dativo di 3. pers. i (come nei dialetti veneti il clitico locativo-dativo ghe): (36)

i n ˈej beˈu ŋ ˈgɔto ˈsolo («gli» ne ho bevuto un bicchiere solo) ‘ne ho bevuto solo un bicchiere’

Uso di tempi e modi. Nelle varietà atesine, le funzioni modali del condizionale sono svolte dall’imperfetto congiuntivo:

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(fas.) ˈnos luraˈsane de ˈpju se foˈsane paˈe ˈmjetʃ (noi lavorassimo di più se fossimo pagati meglio) ‘noi lavoreremmo di più, se fossimo pagati meglio’

Per l’espressione del futuro nel passato si usa l’imperfetto (38a), ma in gaderano, gardenese e fassano si può usare anche il congiuntivo piucchepperfetto (38b); con i verbi che reggono il congiuntivo questo tempo può così indicare sia l’anteriorità, sia la posteriorità (39): (38) a. (grd.) ˈana ˈa ˈdit kə ˈklawdia aŋkunˈtɔva ˈmarko da la ˈtʃiŋk a bulˈsaŋ (A. ha detto che C. incontrava M. da la cinque a B.) ‘Anna ha detto che Claudia avrebbe incontrato Marco alle cinque a Bolzano’ b. …ˈæsa aŋkunˈta… (avesse incontrato) ‘…avrebbe incontrato…’ (39) ˈiə raˈtɔvə kə ˈklawdia ˈæsa ˈʃkrit la ˈlætra (io credevo che C. avesse scritto la lettera) ‘io credevo che Claudia avesse scritto/avrebbe scritto la lettera’ Costruzioni verbo+locativo. Caratteristico di gaderano e gardenese è anche un uso molto produttivo della struttura verbo + avverbio, molto diffusa in Italia settentrionale (Cordin 2011), ma ulteriormente sviluppata qui sul modello dei verbi tedeschi con particella avverbiale, di cui le formazioni ladine rappresentano spesso dei calchi (Hack 2011): grd. tò su (prendere su) ‘raccogliere, assumere’ (ted. auf-nehmen), pensé do (pensare dietro) ‘riflettere’ (ted. nach-denken), dì ora (dire fuori) ‘dire fino in fondo, spiattellare’ (ted. aus-sagen), mëter pro (mettere presso) ‘aggiungere’ (ted. zu-setzen); bad. odëi ite (vedere dentro) ‘comprendere’ (ted. ein-sehen), se slarié fora (allargarsi fuori) ‘espandersi’ (ted. sich aus-breiten), tó sö (prendere-su) ‘raccogliere, accogliere, registrare (su nastro, ecc.)’ (ted. auf-nehmen) (queste formazioni non sono estranee neanche alle altre varietà, anche se sono molto meno diffuse; ↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 3.5; ↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.3).

3.3 Struttura della frase Ordine delle parole. Per quanto riguarda la struttura della frase, il ladino si divide in due gruppi nettamente distinti: da una parte abbiamo il fassano, il livinallese, il collese e l’ampezzano, che presentano la stessa struttura dei dialetti italiani settentrionali (ordine SVO con uso limitato dell’inversione verbo-soggetto), dall’altra il gaderano e il gardenese, che invece presentano una struttura di frase con verbo in seconda posizione simile a quella dei dialetti romanci grigionesi. Così nelle varietà come il fassano l’ordine fondamentale dei costituenti è SVX e l’anteposizione di un qualsiasi costituente avviene in una posizione periferica che

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precede la posizione del soggetto (cd. dislocazione a sinistra) e non provoca l’inversione dell’ordine soggetto-verbo (40); inoltre, se a essere anteposto è l’oggetto diretto, è obbligatorio un clitico di ripresa (40b): (40) a. (fas.) iɱ ˈvea de ˈpɛʃka toˈfɛɲa el paˈtroŋ de ˈtʃɛza ˈva ˈduta la maˈʒoŋ (= XSV…) (in vigilia di Epifania il padrone di casa va tutta la casa) ‘la vigilia dell’Epifania, il padrone di casa percorre tutta la casa’ b. ˈkɛla vaˈlɛnta, ˈsia ˈmɛre no la la poˈdea veˈder (= OSV…) (quella buona sua madre non essa la poteva vedere) ‘quella buona, sua madre non la poteva vedere’ Abbiamo inversione solo nelle interrogative e solo con le forme clitiche dei pronomi soggetto (41) (Siller-Runggaldier 1993); in fassano l’inversione è facoltativamente accompagnata dalla particella interrogativa pa, ma nelle interrogative parziali la costruzione con inversione (42a) alterna oggi con una costruzione introdotta da che, senza inversione e senza pa (42b), che corrisponde alla struttura delle interrogative subordinate (cf. es. 61a e Chiocchetti 1992; Hack 2012; per le varietà italiane settentrionali Poletto/Vanelli 1995): ˈveʃ-te ˈʒir ˈsu ? (= VScl…) (vuoi-tu.CL andare su) ‘vuoi salire?’ (42) a. ˈtant de ˈlat ˈɛ-la pa ? (tanto di latte ha-essa.CL Q ) b. ˈtant de ˈlat ke la ˈfɛʃ ? (tanto di latte che essa.CL fa) ‘quanto latte dà?’ (41)

Gaderano e gardenese, per contro, possono essere descritti come lingue con verbo in seconda posizione, caratterizzate da una (parziale) asimmetria tra l’ordine delle parole nella principale e quello nelle subordinate: mentre infatti nelle frasi subordinate l’ordine delle parole è normalmente SVX, nelle principali è possibile anteporre un qualsiasi costituente in posizione immediatamente preverbale; questa anteposizione provoca l’inversione verbo finito-soggetto, sia con i soggetti pronominali (43) che con i soggetti lessicali (44) (ma con limitazioni in alcuni dialetti; cf. Valentin 1998/1999; Casalicchio/Cognola 2018); in particolare, se l’elemento anteposto è l’oggetto diretto (con funzione di topic), diversamente che in fassano e livinallese (cf. es. 40b, supra), non compare clitico di ripresa (43b) (ma cf. anche infra): (43) a. (grd.) iˈlo ˈa-l ʃkumənˈtʃa a məˈne na ˈʃtleta ˈvita (= XAuxSVP T C P …) (lì ha-egli.CL cominciato a condurre una cattiva vita) b. ˈkæla ˈe-i puˈdu mə kumˈpre dan ˈtræj ˈani (= OAuxSVP T C P …) (quella ho-io.CL potuto mi comprare davanti tre anni) ‘quella, ho potuto comprarmela tre anni fa’

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(44)

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ˈkæʃt ˈan ˈiə naˈdel də ˈʒuəbja (= XVS.… quest’anno è Natale di giovedì) ‘quest’anno Natale è di giovedì’

Il sistema a verbo secondo è tipico delle frasi principali, ma si può usare anche in alcuni tipi di subordinate, come in (66c), infra (ma non nelle relative e nelle interrogative indirette). In mancanza di documentazione è difficile decidere se il sistema a verbo secondo di queste varietà sia dovuto a un influsso delle varietà germaniche (tedesco e dialetti tirolesi) a contatto, come si è ritenuto tradizionalmente, o sia una conservazione del sistema a verbo secondo delle lingue romanze antiche, eventualmente favorita dal contatto linguistico (Benincà 1994, cap. 4). Il sistema a verbo secondo del ladino è in ogni caso differente sia da quello tedesco (che nelle subordinate ha il verbo in posizione finale), sia da quello romanzo antico, rispetto al quale è più rigido, non permettendo i vari tipi di dislocazione a sinistra che quello permetteva (Benincà 2006). Analogie più marcate sono riscontrabili con il sistema a verbo secondo del romancio grigionese, anche se sarebbero necessari studi comparativi approfonditi (↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.3). Il verbo può occupare anche la prima posizione nell’ordine lineare: questo accade regolarmente nelle domande totali (45a) e tutte le volte che il soggetto preverbale rimane non espresso (45b): infatti, l’espressione del soggetto preverbale non è obbligatoria in quei casi in cui non esista un clitico soggetto (cf. tabella 4 e infra): (45) a. (grd.) ˈʃkriʃ pa maˈria na ˈlætra ? (= VQ S…) (scrive Q M. una lettera) ‘Maria scrive una lettera?’ b. ˈe ˈpja ŋ paˈvæl (= V…) (ho preso una farfalla) Come abbiamo visto, nei casi in cui le altre lingue romanze (e le varietà ladine come il fassano) usano, per topicalizzare un costituente, la dislocazione a sinistra, con eventuale ripresa clitica (cf. supra es. 40b), gaderano e gardenese usano la posizione immediatamente preverbale, sempre senza ripresa clitica (cf. supra es. 43b). Questo vale anche nel caso in cui la topicalizzazione riguardi solo una parte di un costituente, come mostra il fatto che, negli ess. seguenti, abbiamo inversione: (46) a. (grd.) lawˈrantʃ nən ˈiə-l ˈʃtat ˈtruəps kə lawˈrɔva tə ˈkæʃta ˈfrabika (operai ne è-esso.CL stato molti che lavoravano in questa fabbrica) ‘di operai, ce ne sono stati molti che lavoravano in questa fabbrica’ b. ˈlibri nən ˈa-l ˈliət ˈpuətʃ (libri ne ha-egli.CL letto pochi) ‘libri, ne ha letti pochi’

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Si noti che, quando abbiamo quantificazione partitiva, come in (46), l’anteposizione del nome è sempre accompagnata, come in italiano e in francese, dalla presenza del clitico partitivo (n(en)). La dislocazione a sinistra con clitico è tuttavia possibile in alcuni casi limitati, per es. nelle interrogative (Casalicchio/Cognola 2018): (47) (bad.) l ˈlibər, ˈke l ˈtɔl pa ? (il libro chi lo prende Q ) ‘il libro, chi lo prende?’ Espressione del soggetto. Gaderano e gardenese si differenziano dalle varietà come il fassano anche per quanto riguarda l’espressione pronominale del soggetto. Nelle varietà come il fassano, come in genere nei dialetti italiani settentrionali (Poletto 1993), i pronomi soggetto clitici si comportano tendenzialmente come marche di accordo e possono quindi ricorrere in molti contesti assieme a soggetti lessicali o pronominali tonici; in gaderano e gardenese, invece, perlomeno in posizione preverbale, i clitici soggetto sono normalmente veri e propri soggetti sintattici, ed escludono quindi la presenza di altri soggetti (Salvi 2003). Nelle varietà come il fassano (Rasom 2003), l’espressione del soggetto non è obbligatoria per quelle persone che non dispongono di un clitico soggetto, cioè 1SG / PL e 2PL (48); lo è invece per quelle persone per le quali questo clitico esiste (2SG , 3SG / PL ); ma, mentre alla 2SG il clitico soggetto è sempre espresso (eccetto all’imperativo), anche quando è espresso il soggetto libero (49), alla 3SG / PL il clitico soggetto è obbligatorio solo in assenza di un altro soggetto preverbale (50a); con un soggetto nominale, il clitico è facoltativo, ma con tendenza a diventare obbligatorio (50b): (48) (fas.) Ø ˈvage ˈbɛŋ ˈɛntʃe ˈsu per ˈkɛla ˈburta (vado ben anche su per quella brutta) ‘salgo ben anche per quella brutta (di scala)’ (49) ˈtu te ˈpawses (tu tu.CL riposi) ‘tu riposi’ (50) a. la fiˈlɛa (essa.CL filava) b. ˈʃta ˈpitʃola (l) ˈa ʃkomenˈtsa a preˈɛr (questa piccina essa.CL ha cominciato a supplicare) Anche in gaderano e gardenese l’espressione del soggetto preverbale è obbligatoria se esiste un clitico soggetto (51a); il clitico soggetto non è però mai espresso se il verbo è preceduto da un qualsiasi altro soggetto (51b); in alto badiotto, tuttavia, il pronome soggetto libero di 2SG è accompagnato dal rispettivo clitico (51c):

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(51) a. (grd.) l ˈa aˈbu ˈsi arpəˈʒoŋ (egli.CL ha avuto sua eredità) ‘ha avuto la sua eredità’ b. l ˈplu ˈʒæwn (**l) ˈva ŋ ˈdi da ˈsi ˈpɛrə (il più giovane egli.CL va un giorno da suo padre) c. (bad.) ˈtø t ˈcantes (tu tu.CL canti) ‘tu canti’ Nel caso di un soggetto postverbale, la sua espressione in gaderano e gardenese è obbligatoria se esiste una forma enclitica (52a), non obbligatoria se questa forma non esiste (52b) (in badiotto il pronome soggetto enclitico è facoltativo alla 2SG ); inoltre, diversamente che in posizione preverbale, un soggetto pieno postverbale può essere accompagnato da un pronome soggetto enclitico (Valentin 1998/1999): in gardenese questo avviene solo con i soggetti pronominali (53a), mentre con i soggetti nominali il clitico non c’è (53b), in badiotto, invece, la reduplicazione è possibile anche con i soggetti nominali (53c): (52) a. (grd.) ˈkæʃt kərˈdɔv-i pərˈdu (questo credevo-io.CL perso) ‘questo (figlio), lo credevo perso’ b. ˈzæŋ faˈʒæjs-Ø na ˈtel ˈfeʃta (ora fate una tale festa) (53) a. duˈmaŋ ˈva-l ˈæl da l duˈtor da i ˈdænts (domani va-egli.CL lui da il dottore da i denti) ‘domani lui va dal dentista’ b. ˈdlondʒa ˈruf ˈmæt(**-ələs) la muˈtaŋs ˈdoj ˈbantʃ (vicino ruscello mettono esse.CL la bambine due banchi) ‘vicino al ruscello le bambine mettono due banchi’ c. (bad.) iˈniːr ti ˈa-i damaˈnɛ ˈsy kumˈpaːɲs ʃ al ˈes ˈvøja da ˈʒi imˈpara a l ˈmɛːr (ieri gli hanno-essi.CL domandato suoi compagni se egli.CL avesse voglia di andare insieme a il mare) ‘ieri i suoi compagni gli hanno chiesto se avesse voglia di andare con loro al mare’ Come in molti dialetti italiani settentrionali, nelle varietà come il fassano con un soggetto relativizzato il clitico non si usa nelle frasi relative restrittive (54a), ma appare in quelle appositive (54b) (cf. anche infra il caso parallelo dell’oggetto diretto in 70); in gaderano e gardenese non c’è mai clitico (cf. infra ess. 72a e 73a): (54) a. (liv.) b.

le ˈɑle ke ˈnɑta le ˈʃale, le se n ˈe ˈʒude (le donne che puliscono le scale esse.CL se ne sono andate) maˈria, ke la ˈmandʒa ˈpwok, l ˈe ˈgrasa liʃˈteʃo (Maria che essa.CL mangia poco essa.CL è grassa lo stesso)

In caso di due o più verbi congiunti, nelle varietà come il fassano il clitico soggetto deve essere ripetuto con ogni verbo (55), ma non in gaderano e gardenese (56):

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(fas.) la s ˈa ferˈma e la ˈe ˈʒita ˈite (essa.CL si ha fermato e essa.CL è andata dentro) ‘si è fermata ed è entrata’ (56) a. (grd.) l ˈplu ˈʒæwn ˈva ŋ ˈdi da ˈsi ˈpɛrə i Ø ˈdiʃ (il più giovane va un giorno da suo padre e dice) b. finalˈmæntər ˈiə-l ˈʒit da uŋ ˈpawr i Ø l ˈa pəˈtla (infine è-egli.CL andato da un contadino e l’ ha supplicato)

(55)

Con un soggetto dislocato a destra (57a) o focalizzato in posizione postverbale (57b), nelle varietà come il fassano abbiamo un clitico soggetto preverbale accordato con il soggetto lessicale: (57) a. (fas.) la ˈdiʃ, ˈkeʃta ˈpitʃola (essa.CL dice questa piccina) b. la ˈe ˈʒita ˈɛntʃe ˈɛla (essa.CL è andata anche lei) Nelle stesse varietà, nelle strutture presentative non abbiamo clitico soggetto (58a); ma un clitico soggetto espletivo (formalmente maschile singolare) appare se abbiamo un ausiliare con iniziale vocalica (58b) e non c’è nessun altro clitico preverbale (cf. es. 58c), e sempre quando c’è inversione (58d); in questa costruzione il verbo è accordato al M . SG (cf. es. 58b, e infra 61b): (58) a. (fas.) ˈrua la ˈmama (arriva la mamma) b. l ˈe ruˈa la ˈmama (esso.CL è arrivato la mamma) ‘è arrivata la mamma’ c. i ˈe ʃamˈpa el ˈfus (le è sfuggito il fuso) d. ˈrue-l la ˈmama ? (arriva-esso.CL la mamma) In gaderano e gardenese, invece, in queste costruzioni compare sempre un soggetto espletivo clitico, in posizione preverbale (59a) o, nei casi che richiedono inversione, in posizione postverbale (59b) (cf. anche supra es. 46a e Siller-Runggaldier 2012): (59) a. (grd.) l ˈa kərˈda ˈsu ˈduta la muˈtaŋs (esso.CL ha chiamato su tutta la ragazze) ‘hanno telefonato tutte le ragazze’ b. ˈŋkwæj ˈa-l kərˈda ˈsu ˈduta la muˈtaŋs (oggi ha-esso.CL chiamato su tutta la ragazze) ‘oggi hanno telefonato tutte le ragazze’ Come nei dialetti italiani settentrionali vicini, nelle varietà come il fassano il clitico soggetto di 2 SG segue sempre la particella negativa (60). Il clitico di 3SG / PL in alcune varietà alto-fassane e nel livinallese (ma non nel collese) può stare anche prima della negazione (61a) (e supra es. 27b), ma non se si tratta dell’espletivo (61b); in ampezzano precede invece sempre la negazione (62):

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se no te ˈfoses veˈɲu da ˈme … (se non tu.CL fossi venuto da me) no l / l no ˈa ˈdit oˈla ke l ˈva (non egli.CL / egli.CL non ha detto dove che egli.CL va) ‘non ha detto dove va’ b. no l ˈe ˈʃtat konˈtʃa i tʃuˈtse (non esso.CL è stato aggiustato le scarpe) ‘non sono state aggiustate le scarpe’ (62) (amp.) i no ˈval ˈnuja (essi.CL non valgono niente)

(60) (fas.) (61) a.

In gaderano e gardenese, invece, i clitici soggetto precedono sempre la negazione: (63) (grd.) tə nə ˈfɔvəs nia iˈlo (tu.CL non eri nulla là) ‘non eri là’ Costruzione passiva. In tutte le varietà l’ausiliare del passivo è ‘venire’ (64a) (ma in ampezzano si usa anche ‘essere’). Nei tempi composti in fassano, livinallese, collese e ampezzano, come in italiano, si usa ‘essere’ (64b) (si noti in questo es. la possibile mancanza di accordo nel participio dell’ausiliare); in gaderano e gardenese, invece, si usa sempre ‘venire’ (64c) (↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.3): (64) a. (fas.) i veˈɲia ˈketʃ te l ˈɛga (essi venivano cotti in l’acqua) ‘venivano cotti nell’acqua’ b. ˈnoʃa veˈʒina ˈe ˈʃtat(a) morˈduda (nostra vicina è stato/a morsa) ‘la nostra vicina è stata morsa’ c. (grd.) la ˈbeʃ ˈiə uˈnida laˈveda (la biancheria è venuta lavata) ‘si è fatto il bucato’ Gaderano e gardenese ammettono la costruzione passiva anche con i verbi intransitivi, con valore impersonale (costruzione possibile in maniera più ridotta anche in fassano): (65)

(grd.) l ˈiə uˈni baˈla ˈduta ˈnuət (esso è venuto ballato tutta notte) ‘si è ballato tutta la notte’

Particelle. Sempre in gaderano e gardenese si usano ampiamente particelle modalizzanti. Oltre a pa, che è obbligatorio nelle interrogative parziali (mentre in fassano è facoltativo), abbiamo in badiotto anche ma, mo e pö, che, come anche pa, possono tutte comparire per es. nelle frasi iussive, con diversi valori (Poletto/Zanuttini 2003): ma segnala il punto di vista dell’ascoltatore (66a), mo il punto di vista del parlante (66b), pö un contrasto rispetto a un’aspettativa (66c), pa la focalizzazione dell’ordine (66d); possono anche ricorrere più particelle insieme (66e) (↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.3):

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(66) a. (bad.) ˈtɛ-tə ma n ˈde də vaˈkantsa ! (prendi-ti ma un giorno di vacanza) b. putsˈnajə-mə mo ˈinc i calˈtsa ! (pulisci-mi mo anche le scarpe) c. ˈmandʒə-l pø kə ʃə ˈnɔ ˈvaɲ-əl ˈfrajt ! (mangia-lo pö che se no viene-egli freddo) ‘mangialo che se no diventa freddo!’ d. faˈʒe-l pa dəsiˈgy ! (fate-lo pa sicuramente) ‘fatelo senz’altro!’ e. (non stare alzata ad aspettare che lui venga a casa) ˈvaː-tə-ŋ pa pø a durˈmi ! (va-tte-ne pa pö a dormire) ‘va pure a dormire!’

3.4 Subordinazione Costruzioni percettive e fattitive. Gaderano e gardenese si distinguono dalle altre varietà ladine (e da quelle italiane settentrionali) per l’uso del gerundio (67), invece che dell’infinito (68a) o di a + infinito (68b), nella costruzione con i verbi percettivi (Casalicchio 2011): ˈntaŋ i ˈprims ˈani də ˈvita ˈɔva ˈdʒina ˈdoŋka ˈme awˈdi rujəˈnaŋ tuˈdæʃk (durante i primi anni di vita aveva G. dunque solo sentito parlando tedesco) ‘durante i primi anni di vita Gina aveva dunque solo sentito parlare tedesco’ b. ŋ ˈdi ˈa-l awˈdi la ˈuʃ də ˈdio ti diˈʒaŋ … (un giorno ha-egli udito la voce di dio gli dicendo) ‘un giorno udì la voce di Dio dirgli…’ (68) a. (basso fas.) l ˈa veˈdu veˈɲir el ˈmago (egli ha visto venire il mago) b. (liv.) l senˈtiva a soˈne le tʃamˈpane (egli sentiva a suonare le campane) ‘sentiva suonare le campane’

(67) a. (grd.)

La costruzione fattitiva è nelle grandi linee simile a quella di italiano e francese (per es. nel fatto che il soggetto lessicale di un infinito transitivo si può esprimere sia con l’oggetto indiretto, come in 69b, sia con il complemento d’agente, come in 69c), ma gaderano e gardenese si distinguono dal tipo generale romanzo perché la fattitività si può esprimere anche, come in tedesco, con ‘lasciare’: mentre con ‘fare’ si esprime il conseguimento di un risultato (69b), con ‘lasciare’ si esprime piuttosto la motivazione ad agire ottenuta in genere con un atto linguistico, oltre che, come nelle altre lingue romanze, il permesso (69a,c) (Iliescu 1997):

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(69) a. (grd.) la maˈeʃtra ˈa laˈʃa pawˈse i muˈtoŋs (la maestra ha lasciato riposare i bambini) ‘la maestra ha fatto/lasciato riposare i bambini (= ha detto ai bambini che dovevano/potevano riposare)’ b. la maˈeʃtra ti ˈa ˈfat ˈʃkri na ˈlætra a i muˈtoŋs (la maestra gli ha fatto scrivere una lettera a i bambini) ‘la maestra ha fatto scrivere una lettera ai bambini (= ha ottenuto che i bambini scrivessero una lettera)’ c. la maˈeʃtra ˈlaʃa ˈljæʒər la ˈʃtɔrja da ŋ ʃkuˈle (la maestra lascia leggere la storia da uno scolaro) ‘la maestra fa/lascia leggere la storia da uno scolaro (= dice a uno scolaro che deve/può leggere la storia)’ Frasi relative. In fassano, livinallese, collese e ampezzano le frasi relative sono costruite come in genere nei dialetti italiani settentrionali: sono tutte introdotte dal complementatore ‘che’, e la funzione dell’elemento relativizzato può essere espressa o meno da un clitico, se questo clitico esiste, come nel caso della relativizzazione del soggetto, vista in (54), supra, o in quella dell’oggetto diretto (70), con differenziazione tra relative restrittive (70a) e appositive (70b); se non esiste un clitico corrispondente, l’elemento relativizzato rimane inespresso (71): (70) a. (fas.) ˈkel ke l eʃpoziˈtsjon vel moˈʃɛr (quello che l’esposizione vuole mostrare) b. un foreʃˈtjer ke neˈʃuɲ no l koɲoˈʃea (un forestiero che nessuno non lo conosceva) ‘un forestiero che nessuno conosceva’ (71) (amp.) ˈkeʃto l ˈe ŋ katsaˈiðes ke se ˈfɛʃ ˈtante laˈore (questo egli è un cacciavite che si fa tanti lavori) ‘questo è un cacciavite con cui si fanno molti lavori’ In badiotto e gardenese le relative su soggetto (72a) e oggetto diretto (72b) sono introdotte da che, sempre senza clitici, mentre in marebbano abbiamo due introduttori diversi: co (forse da CUĪ ) per le relative sul soggetto (73a) e che per quelle sull’oggetto diretto (73b): (72) a. (grd.) daˈʒæ-mə la ˈpɛrt kə mə ˈtoka ! (date-mi la parte che mi spetta) b. ˈdut ˈkæl kə m ˈæjs kumanˈda (tutto quello che mi avete comandato) (73) a. (mar.) ˈkɛl ˈɛl ko ne salyˈdaː ˈɲaŋka (quell’uomo che non salutava nemmeno) b. ˈkɛl ke i ˈaː koɲeˈʃy (quello che io avevo conosciuto) Nel caso di un costituente introdotto da preposizione, in queste varietà si usa il dimostrativo di distanza ‘quello’ seguito da che, con probabile calco di strutture

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tedesche dialettali in cui il pronome relativo, formalmente uguale al dimostrativo, è seguito da un elemento invariabile del tipo wo o was (Gallmann/Siller-Runggaldier/ Sitta 2010, § 196): (74) a. (bad.) ˈdɔː la məˈzyra kuŋ ˈkala kə ˈos məzuˈreːs e parˈtiːs ˈfɔːra, sə ɲaˈraː-l parˈti ˈfɔːra a ˈos (dietro la misura con quella che voi misurate e dividete fuori vi verrà-esso diviso fuori a voi) ‘secondo la misura con cui voi misurate e spartite, si distribuirà a voi’ b. (grd.) la ˈpluəja ˈkontra ˈkæla k ˈe brunˈtla, m ˈa salˈva ˈrɔba i ˈvita (la pioggia contro quella che ho brontolato mi ha salvato roba e vita) ‘la pioggia, contro cui ho brontolato, mi ha salvato i beni e la vita’ Le relative senza antecedente hanno la stessa struttura delle interrogative subordinate (cf. supra es. 61a) e sono introdotte da un pronome interrogativo seguito da che: (75) a. (abad.) ˈke kə ˈa uˈradləs da alˈdi, ˈaːldes ! (chi che ha orecchie da udire oda) ‘chi ha orecchie per intendere, intenda!’ b. (fas.) paˈa-me ˈke ke me reʃˈtɛde ! (pagate-mi che.WH che mi dovete) ‘pagatemi quanto mi dovete!’

4 Lessico Come lingue parlate da comunità fino a tempi recenti essenzialmente rurali, le varietà ladine presentano un lessico relativamente poco “elaborato” (↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 4): in genere le famiglie di parole non si costruiscono intorno a una base con complessi processi di derivazione e composizione, ma utilizzano spesso lessemi alternativi, prestiti o formazioni analitiche. Se per es. prendiamo la famiglia italiana di utile, per le forme (in)utile, utilità, (in)utilizzabile, utilizzare, (in)utilizzato, utilizzatore, utilizzatrice, utilizzazione, (in)utilmente, il dizionario ladino gardenese (Forni 2013) offre le seguenti corrispondenze (con molte semplificazioni): utl ‘utilità’ de utl ‘utile’ / de degun utl/per nia/per debant ‘inutile’ adurvé/nuzé ‘utilizzare’ / adurvà/nuzà ‘utilizzato’ / nia adurvà/nuzà ‘inutilizzato’ da adurvé/nuzé ‘utilizzabile’ / nia da adurvé/nuzé ‘inutilizzabile’ adurvadëur(a) ‘utilizzatore/-trice’ adurvanza/droa/nuzeda/utilisazion ‘utilizzazione’ cun prufit ‘utilmente’ / per nia/per debant ‘inutilmente’

Oltre alla presenza di più basi lessicali, naturalmente attesa in un confronto tra due lingue (in particolare adurvé ‘adoperare’, nuzé, derivato da noz ‘resa di un campo’, a

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sua volta dal mat. NU ( T ) Z , e utl, dall’it. utile), si noterà, rispetto all’italiano, una minore presenza di derivati: da adurvé abbiamo regolarmente adurvanza e adurvadëur(a) (oltre a droa, derivazione regressiva non del tutto regolare) e da nuzé abbiamo nuzeda, mentre utilisazion, anche se collegabile a utl, è evidentemente un adattamento dell’it. utilizzazione; particolarmente interessante è la mancanza, in questo campione, di aggettivi, suppliti con formazioni analitiche: de utl, da adurvé/nuzé o con l’uso di espressioni avverbiali: per nia/per debant, e la mancanza di avverbi: cun prufit; anche al posto della prefissazione troviamo formazioni analitiche: de degun utl, nia da adurvé/nuzé, nia adurvà/nuzà (invece, che per ‘inutile/inutilmente’ compaiano espressioni non collegate a ‘utile/utilmente’, si spiega con la semantica piuttosto divergente della forma prefissata, che significa piuttosto ‘inefficace’: per nia ‘per niente’, per debant ‘invano; gratuitamente’). Questo non vuol dire che la formazione delle parole non costituisca un elemento importante nelle varietà ladine, soprattutto nella neologia (cf. Siller-Runggaldier 1989 e, sulle questioni metodologiche, 1992) – cf. serie regolari come sparani ‘risparmio’/sparanië ‘risparmiare’/sparaniadëur ‘risparmiatore’ o lëur ‘lavoro’/lauré ‘lavorare’/laurant(a) ‘lavoratore/-trice’/laurazion ‘lavorazione’/lauramënt ‘lavorio’. Ma il ruolo delle alternanze lessicali e delle formazioni analitiche è senz’altro maggiore che nelle lingue romanze di antica tradizione scritta per cui il latino e i suoi modelli derivativi hanno rappresentato una fonte continua di arricchimento lessicale. Gli elementi costitutivi del lessico ladino comprendono innanzitutto la base latina (con i suoi sviluppi specificamente ladini) e gli elementi assimilati dal sostrato. A questi si aggiunge un costante apporto da parte dei dialetti italiani settentrionali (trentini e alto-veneti, ma anche veneziano), più intenso nelle varietà di confine, ma che interessa spesso tutto il territorio ladino – questo apporto, più si va indietro nel tempo, più difficilmente è distinguibile dal fondo autoctono. Abbiamo poi l’apporto germanico: oltre alle parole germaniche già penetrate nel latino tardo e a quelle trasmesse dalle varietà italiane settentrionali, si tratta dell’influsso costante esercitato dalle popolazioni baiuvare-tirolesi a partire dalla loro apparizione nel bacino dell’Adige (fine del VI secolo) e poi della Rienza, influsso che, oltre che in prestiti, si manifesta anche in calchi lessicali e semantici. A queste componenti si aggiunge più tardi l’apporto del tedesco, lingua dell’amministrazione e della cultura in Tirolo, e dell’italiano, prima soprattutto come lingua della Chiesa, poi come lingua ufficiale dello stato italiano. Per quanto riguarda il fondo latino, Battisti (1931, 100–102) aveva indicato l’assenza di alcuni termini latini classici dalla latinità atesina come prova di una romanizzazione tarda del territorio rispetto ai territori più meridionali (ma cf. le osservazioni in Pellegrini 1989): a favore di questa tesi parlerebbe per es. l’assenza nella toponomastica di BASILICA (vs. ECCLĒSIA ) ‘chiesa’ o di VADU ‘guado’. Per quanto riguarda i rapporti con il lessico della latinità nordalpina, il giudizio è reso difficile dalla limitatezza dei tipi lessicali sopravvissuti nella toponomastica (Haubrichs 2003).

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Più caratterizzante rispetto a questa evidenza negativa è l’abbondante presenza di termini arcaici rispetto a quelli usati nei dialetti della Pianura Padana (Pellegrini/ Barbierato 1999). Come nel caso dei fenomeni trattati in 1.2, si tratta di lessemi un tempo diffusi in ampie zone dell’Italia Settentrionale, ma poi sostituiti da innovazioni irradiate dalle città della pianura: queste innovazioni non hanno raggiunto le aree più marginali, dove si è mantenuta la forma precedente. Il tipo lessicale del ladino in questi casi coincide, di volta in volta, con quello dei dialetti friulani, alto-veneti, trentini, lombardi alpini o delle varietà romance grigionesi. Appartengono a questa categoria tipi come ALIQUID (vs. ˹qualcosa˺), FRĀTER (vs. * FRĀTELLU ), SOROR (vs. SORELLA ), AVU / AVA (vs. NONNU / NONNA ), SECTŌRE (vs. SECĀTŌRE ) ‘falciatore’, SCAPULA (vs. SPATULA ) ‘spalla’, ŪBERE (vs. PECTUS ) ‘mammella degli animali’, MĒNSA (vs. TABULA ) ‘tavolo’, PALEA ‘pula’, CALCE (vs. CALCĪNA ), FŪLĪGINE (vs. CĀLĪGINE ), COCCINU (vs. RUSSU ) ‘rosso’, ĪRE (vs. AMBULĀRE ) ‘andare’, AUDĪRE (vs. SENTĪRE ), QUAERERE (vs. CIRCĀRE / CAPTĀRE ) ‘cercare’, TERGERE (vs. ˹nettare˺) ‘pulire’, VOLVERE /* VOLGERE (vs. * VOLTĀRE ), IUNGERE (vs. ˹taccare˺) ‘aggiogare’, * TONDERE (vs. * TŌNSĀRE ) ‘tosare’, DĒ POST (vs. DĒ RETRŌ ) ‘dietro’, DIŪ ‘a lungo’, CINERE e PULVERE di genere maschile, e anche antiche innovazioni come BESTIA e FĒTA (vs. PECORA ), CELLĀRIU ‘(dispensa >) cantina’, SATIŌNE (vs. STATIŌNE ) ‘stagione’, *( DE ) EXTŪTĀRE (vs. * EXMORTIĀRE ) ‘spegnere’. In alcuni casi la forma della stessa area marginale appare piuttosto come un’innovazione rispetto alla forma della pianura: * CUMBITŌNE (vs. CU ( M ) BITU ) ‘gomito’, STRĀMEN (vs. PALEA ) ‘paglia’. L’innovazione * SŌLICULU / SŌLUCULU (vs. SŌLE ) è oggi limitata al ladino (atesino e varietà marginali del cadorino), al friulano e al romancio grigionese, ma poteva essere più diffusa, come forse mostra l’attuale discontinuità geografica del tipo secondario in - UCULU (livinallese e cadorino). Tra le innovazioni diffuse nella zona dolomitica (e dintorni) possiamo ricordare * GRĀNĬTTA ‘mirtillo rosso’, * PORCĪN ( I ) A ‘cotenna’, * CŌRTĪNA ‘cimitero’, PASTŌRICIU ‘gregge, mandria’, EXCUSSŌRIU ‘acciarino’, CANTICA (F . SG ) ‘canzone’, MESSĀLE ‘luglio’, * SE EXPERDERE ‘spaventarsi’, e innovazioni semantiche come NONNU / NONNA ‘padrino/madrina di battesimo’, TABULA ‘neve ghiacciata’, CANĀLE ‘mangiatoia’, CLĀTRA (F . SG ) ‘(inferriata >) fibbia’, SELLA ‘sella > sgabello > gabinetto’, * CUBA ‘(tana >) nido’, FUSCU ‘(scuro >) nero’, VIGILĀRE ‘governare il bestiame’, * FLŌRĪRE ‘tramontare’, * AD - ŪNU / ŪNA ‘insieme’. Comuni con il cadorino e il friulano sono per es. * EXIŪTA ‘primavera’, MĀCERIA (- ĒTU ) ‘mucchio di sassi’; con il romancio grigionese e (generalmente) il lombardo alpino * ŪNU - NŌN - SAPIT - QUID ‘qualcosa’, FUNDU ( S ) ‘pavimento’, VASCELLU ‘bara; arnia’, QUADRĪGA ‘(tiro a quattro > lad.) aratro’, * EXPAVENTĀCULU ‘spaventapasseri’. Esistono poi differenze tra il lessico atesino e quello cadorino: per es. mat. LËFS vs. * LABRELLU ‘labbro’, * VARIŪSCULU vs. cuairó (< ?) ‘morbillo’, ˹latte verde˺ vs. * JŪSSA ‘colostro delle mucche’, * CŌRTĪNA vs. * PORTICĀLE ‘cimitero’. Esclusivi dell’ampezzano sono termini legati a tipiche istituzioni cadorine come regola ‘consorzio pastorizio’ e marigo ‘presidente di una regola’ (Vigolo/Barbierato 2012).

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Il lessico di origine prelatina, in genere diffuso su un’area alpina più vasta, contiene termini relativi specialmente alla conformazione del terreno, alla flora, all’allevamento. Se prescindiamo dai termini di ambito geografico più ampio, tra quelli di origine preindoeuropea è limitata al territorio dolomitico (in senso lato) * BRAMA ‘panna’; altre parole si estendono fino al romancio grigionese e al lombardo alpino: * SABA ‘grosso palo di steccato’, * CASPA ‘racchetta da neve’; o attraverso il cadorino fino al friulano: * ROV ( E ) A ‘terreno franoso’, * BARRANCULU ‘pino mugo’; altre infine occupano tutto l’arco alpino orientale: * BOVA ‘terreno franoso’, * KÍRAMO ‘pino cembro’. Tra i termini di origine indoeuropea, in alcuni casi si è pensato a un’origine illirica e, per il cadorino, venetica, ma il contingente maggiore e più sicuro è costituito dalle parole di origine gallica. Oltre ai termini che erano già penetrati in latino prima della sua diffusione nella zona alpina (come BRĀCA o CARRU ), anche per la maggior parte degli altri termini di origine gallica si tratta normalmente di parole diffuse su un territorio molto più ampio: per es. BĒNNA ‘cesta’, * DRAGIU ‘setaccio’, * TAMISIU ‘setaccio’, ATTEGIA ‘capanna’, tutte diffuse su tutto l’arco alpino orientale. I termini provenienti dalle varietà italiane settentrionali (trentino, alto-veneto o veneto di matrice veneziana – Battisti 1941) sono in genere individuabili in base al loro aspetto fonetico o in base a considerazioni di distribuzione geografica (anche se non sempre è possibile una decisione sicura). Per es. per ‘macellaio’ abbiamo gad. bocà, grd., fas. beché, liv. bechè, col. becar, amp. bechèr, in cui la mancanza della palatalizzazione fa riconoscere il prestito: i dialetti trentini e alto-veneti confinanti hanno tutti becar/bechèr; solo il basso fassano mostra qui condizioni ladine: becé, ma il fatto che tutti i dialetti circostanti abbiano la forma non palatalizzata rende probabile che si tratti di un prestito adattato foneticamente (cf. anche alto fas. calighé, che concorda con il resto del ladino vs. basso fas. cialié ‘calzolaio’). Così possiamo pensare che fas., liv. mortèl ‘mortaio’ (vs. gad., grd. PĪLA ) sia un prestito perché occupa territori confinanti con la zona di trent., ven. mortar/mortèr. Come si vede, i prestiti possono interessare tutto il territorio ladino, o soltanto le zone più esterne, direttamente confinanti con i dialetti trentini e alto-veneti, e sono diffusi in tutti gli ambiti del vocabolario, dai mestieri e la vita domestica alla fauna e alla flora, dall’agricoltura e pastorizia alla medicina popolare e alla vita religiosa. Ampiamente diffusi sono i tipi ˹carega˺ ‘sedia’ e ˹scagn˺ ‘sedia, sgabello’, ˹fodra˺ ‘fodera’, ˹fulminante˺ ‘fiammifero’ e ˹chichera˺ ‘tazzina’, il trentinismo ˹spina˺ ‘rubinetto’, ˹musc/musciat˺ ‘asino’ (le forme suffissate sono caratteristiche del ladino) e ˹talpina˺ ‘talpa’, ˹capuc˺ ‘cavolo’ e ˹faghèr˺ ‘faggio’, ˹capión˺ ‘Mercoledì delle Ceneri’, ˹ciapar˺ ‘ricevere’; limitati alle valli più esposte ˹piat˺ ‘piatto’ (vs. ˹tagliere˺), ˹conicio/ conèl˺ ‘coniglio’ (vs. LEPORE ), ˹formai˺ ‘formaggio’ (vs. CASEOLU ), ˹poina˺ e ˹scota˺ ‘ricotta’ (vs. ttir. tschott(ɛ)), ˹vis˺ ‘fronte’ (vs. FRONTE ), ˹schena˺ (vs. SPĪNĀLE ), ˹òrbo˺ ‘cieco’ (vs. ˹guercio˺), ˹setemana˺ (vs. HEBDOMAS ). In alcuni casi il prestito si è affiancato alla forma locale creando così coppie di allotropi come gad. ciaussa ‘bestiame’ e cossa ‘cosa’, da CAUSA .

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Per quanto riguarda l’elemento germanico, termini di origine gotica e longobarda (e poi francone) devono essere arrivati solo indirettamente nel ladino atesino, il cui territorio si trovava fuori da quello occupato da queste popolazioni; nel ladino cadorino non si possono invece escludere prestiti diretti almeno dalla lingua dei Longobardi, di cui sono attestati stanziamenti nel Cadore. Assieme alle parole già penetrate nel latino tardo, si tratta quindi in genere di parole di diffusione più ampia (e non sempre di sicura attribuzione all’una o all’altra lingua germanica), come ˹blava˺ ‘granaglie’, ˹blot˺ ‘schietto’, ˹brega˺ ‘asse’, ˹brovare˺ ‘fermentare’, ˹paissa˺ ‘esca’. Si attribuisce al gotico anche * SKAITHŌ ‘cucchiaio’, oggi limitato al ladino, al friulano e al romancio grigionese (e ad alcuni dialetti limitrofi), ma l’area della parola dovrà essere stata ben più ampia (come dimostrano i continuatori centro-meridionali con il significato di ‘mestolo, scodella’). La fonte maggiore di germanismi sono state (e per gaderano e gardenese continuano a essere) le varietà tedesche: dall’antico bavarese, continuato nei dialetti tirolesi, al tedesco letterario, in particolare nella sua variante austriaco-tirolese, queste hanno fornito, prima a tutte le varietà atesine, poi anche all’ampezzano, e nell’ultimo secolo limitatamente a gaderano e gardenese, una quantità notevole di termini distribuiti in tutti gli ambiti del vocabolario, e sono inoltre alla base, specialmente nelle varietà più esposte, anche di calchi morfologici e semantici. Tra i termini penetrati anticamente in tutte le varietà atesine citeremo: LËFS ‘labbro’ (vs. amp. * LABRELLU ), SMALZ ‘burro’ (vs. amp. UNCTU , ma smòuzo ‘burro cotto’), aat. PHANNA ‘padella’ (vs. amp. FRĪXŌRIA ), aat. GIWANT ‘vestito’ (vs. amp. VESTĪTU ), MADER ‘martora’ (l’ampezzano ha il tipo veneto martorèl), TRUTE ‘incubo’, MÜEƷEN ‘dovere’ (manca al fassano, che come l’ampezzano ha CONVENĪRE ), SPIZ ‘appuntito’; limitati a gaderano e gardenese: SEIFE ‘sapone’, MEINEN ‘credere’, ant. bav. ERPEN ‘ereditare’, STARK ‘forte’. Termini di origine antica nel ladino atesino (come ttir. zîgɛr ‘specie di ricotta’) possono essere stati accolti più tardi nell’ampezzano o dalle varietà atesine o direttamente dai dialetti tirolesi. Tra i numerosi termini penetrati in epoca più moderna (Craffonara 1995), comuni anche all’ampezzano sono per es. Kutscher ‘vetturino’, ttir. griɛss ‘semolino’, ttir. spą̂ rheart ‘cucina economica’, ttir. schînɛ ‘rotaia’, ttir. kêfɛr ‘scarafaggio’. Termini di origine tedesca sono particolarmente frequenti nel vocabolario dell’economia domestica e in quello delle arti e mestieri: cf. per es. i nomi gardenesi di artigiani: moler ‘imbianchino’, pech ‘panettiere’, pinter ‘bottaio’, slaifer ‘arrotino’, slosser ‘fabbro’, śotler ‘sellaio’, spangler ‘lattoniere’, tisler ‘falegname’. Tra i germanismi di gaderano e gardenese sono particolarmente numerosi anche verbi, aggettivi e avverbi (si riportano anche prestiti recenti non adattati; alcuni dei termini sono diffusi anche nelle altre varietà): gad. apraté ‘arrostire’ (mat. PRÂTEN ), druché ‘premere’ (ttir. drukkn), puzené ‘pulire’ (ttir. putzn), sbimé ‘nuotare’ (schwimmen), smaiché/smaihelné ‘lusingare’ (ttir. schmaichlɛn – accanto al più antico smilé < mat. SMIELEN ‘sorridere’), streflé ‘camminare strascicando i piedi’ (ttir. strâfl), strité ‘litigare’ (mat. STRÎTEN ); blös ‘calvo’ (mat. BLÔƷ ), flaissich ‘diligente’ (ttir. flaissig), freh ‘sfacciato’

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(frech), sciaisser ‘vigliacco’ (Scheißer); snel ‘subito’ (schnell), zruch ‘indietro’ (ttir. zrugg). All’influsso tedesco si devono anche numerosi calchi (Kramer 1987). Oltre alla costruzione ‘verbo+avverbio’ trattata in 3.2, abbiamo traduzioni di parole composte come il tipo atesino ˹anno nuovo˺ per ‘capodanno’ (Neujahr), gad. dotur dai dënz ‘dentista’ (Zahnarzt), fertrat ‘filo di ferro’ (ttir. zûgaisn; in fas. filtrat, per contaminazione con fil), morin dal café ‘macinino del caffè’ (Kaffeemühle), ora da sorëdl ‘meridiana’ (Sonnenuhr), romun dala plöia ‘lombrico’ (Regenwurm); generale è ˹pera (della luce)˺ per ‘lampadina’ ((Glüh)birne), accanto all’accatto diretto pirn. All’influsso tirolese sono state attribuite (Gsell 2008) anche le formazioni gaderane e gardenesi con coppie di avverbi, che rifletterebbero strutture tedesche con her, hin, aus, ecc.: gad. dancá ‘davanti’ (vorne her), dofora ‘dietro’ (hinten aus), sura via ‘sopra’ (oben hin), sotite ‘sotto’ (unten drin), a cui corrispondono analoghe strutture con ‘SP+avverbio’: sot mësa ite ‘sotto il tavolo’ (bav. untern Tisch eini) – ma potrebbe trattarsi di sviluppi autonomi (Prandi 2011). Con la struttura romanza ‘là+avverbio’ (it. lassù) viene poi reso il tedesco ‘dar+preposizione’: gad. laprò ‘inoltre’ (dazu), grd. lessù ‘in cambio’ (darauf). Frequenti anche i calchi semantici: in tutte le varietà atesine ora (grd. ëura) significa sia ‘ora’ sia ‘orologio, come il ted. Uhr; roda significa sia ‘ruota’ sia ‘bicicletta’, come il ted. Rad; il corrispondente di cuocere (anche in ampezzano) ha anche il significato di ‘bollire’, come il ted. kochen; gad. adoré, grd. adurvé e fass durèr significano sia ‘adoperare’ sia ‘aver bisogno’, come il ted. brauchen; gad. aldí, oltre a ‘udire’ (hören), significa anche ‘appartenere’ (gehören) ed ‘essere conveniente, adeguato’ (sich gehören). Nel caso di doman (grd. duman) il parallelismo con il ted. morgen/Morgen avrà contribuito a mantenere una dualità di significato (‘domani’/ ‘mattina’) che deve essere antica, come mostrano i significati dell’it. sett. ant. doman. L’influsso dell’italiano, che nei secoli precedenti era stato normalmente filtrato attraverso le varietà italiane settentrionali, nell’ultimo secolo è diventato diretto, soprattutto nella lingua dell’amministrazione e nei concetti legati alla vita moderna. Così grd., fas. cajo (e gad. caje) saranno l’italiano caso, ma passato per bocca trentina o alto-veneta, la cui pronuncia arretrata di /z/, [z̠ ], è stata interpretata come realizzazione di /ʒ/; analogamente per gad. poscibl, grd. puscibl ‘possibile’. I prestiti recenti sono in genere adattati: votaziun/-on, junta/jonta, pro-/pruvinzia, deputat, giudesc/ giudize, ambasciadú/-ëur/-or, ma nella lingua colloquiale spesso non lo sono: così accanto a carabiniér abbiamo in gaderano normalmente carabiniére; quaderno è corrente in fassano, livinallese-collese e alto badiotto, in quest’ultima varietà accanto alla forma diffusa dalla scuola sföi e al germanismo heft. Spesso infatti a un italianismo di fassano, livinallese e ampezzano corrisponde un tedeschismo in gaderano e gardenese: così a fas. machina corrisponde gad., grd. mascin (ttir. maschîn), a fas., liv., amp. lavagna corrisponde gad., grd. tofla (ttir. tâfl; ̢ ma in fassano c’è anche il trentinismo tabela), a fas. capriol corrisponde gad., grd. rehl (ttir. reachl).

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3 Il ladino e la sua storia Abstract: La formazione del ladino comincia con la latinizzazione di una regione ben più vasta del territorio dove oggi il ladino è parlato. Questo gruppo di varietà può essere inserito tra i discendenti del latino protoromanzo della Romània continentale centrale sulla base degli sviluppi dei pronomi personali. In seguito, con l’insediamento dei Bavari nelle Alpi meridionali e con la diversificazione dei centri politici e culturali, il ladino si separa dal resto del gruppo retoromanzo. In epoca medievale, tuttavia, condivide una declinazione a due casi, sostanzialmente omogenea, con le lingue medievali della Francia. Nei secoli successivi si suddivide il ladino stesso: Badia e Gardena restano integrate nell’ambito culturale e sociale del Tirolo dove prevale linguisticamente il tedesco, le altre valli sentono maggiormente l’influsso veneziano. Nel XIX secolo comincia la presa di coscienza dei ladini di costituire un’etnia.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, periodizzazione, retoromanzo, etimologia, fonologia diacronica, declinazione bicasuale  

1 Il contesto extralinguistico Per il ladino, una descrizione della storia interna della lingua sistematica e dettagliata ancora non esiste, sebbene il ladino sia studiato approfonditamente fin dal XIX secolo. Si possono individuare diverse cause di questa situazione. Una causa oggettiva è la frammentazione in varianti locali della lingua, che rende la ricostruzione storica particolarmente complessa. La grande variazione deriva dalla caratteristica della cultura ladina di non avere un centro unico di maggiore prestigio e di non sentire la necessità di un processo di unificazione. Un altro fattore oggettivo è la scarsità di documenti che attestino la lingua anteriori al XVIII secolo. Proprio nel lungo periodo antecedente, superiore a dieci secoli, si sono svolte le innovazioni che accomunano tutta l’area ladinofona e pure quelle che hanno progressivamente distinto una variante locale dall’altra. La loro comparazione permette di elaborare delle ipotesi sulla cronologia relativa dei cambiamenti, ma senza documenti storici di qualità e quantità sufficienti le ipotesi restano delle congetture. Un altro aspetto rilevante è che pochi studiosi del ladino furono o sono ladini; nel caso della maggioranza dei linguisti ci troviamo di fronte a persone di origine non ladina. Di conseguenza i ladini stessi non hanno prodotto una loro sintesi approfondita sulla storia della propria lingua, perciò manca anche una visione complessiva da un punto d’osservazione interno. https://doi.org/10.1515/9783110522150-004

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Inoltre, diversi studiosi non ladini condussero e (ormai pochi) conducono le ricerche a partire da pregiudizi nazionalistici e statalistici, dei quali spesso non sono nemmeno loro pienamente consci. La differenza dei punti di vista, non dipendendo dall’oggetto dello studio ma da fattori politici esterni, non ha permesso la formazione di un consenso generale sull’interpretazione dei dati. Pur non esistendo ancora una descrizione sistematica e dettagliata della storia del ladino, sono disponibili alcune sintesi. I capitoli che seguono partiranno dalla sintesi più recente, quella pubblicata da Gsell (2009), ma va segnalata anche quella di Plangg (1989). Le due sintesi danno spazio al confronto con una delle lingue sorelle del ladino, il romancio; nelle pagine seguenti si terrà conto dell’altra lingua sorella, il friulano. La scarsità di attestazioni scritte anteriori al XVIII secolo rende la comparazione con le lingue parenti una fonte di informazioni fondamentale per ricostruire la storia della lingua.

1.1 Periodizzazione La storia linguistica dei ladini può essere distribuita in sei periodi: P0 = Epoca preromana P1 = Epoca romana, secoli I–V, P2 = Alto medioevo, secoli VI–X, P3 = Basso medioevo, secoli XI–XVI, P4 = Età moderna, secoli XVII–XX, P5 = Epoca contemporanea, dal 1950 in poi. Questa periodizzazione sottolinea il rapporto tra la storia extralinguistica, la sociolinguistica e l’evoluzione interna della lingua. Una periodizzazione più coerente con la cronologia dei fenomeni strettamente linguistici è stata proposta da Videsott (2005, 11–12).

1.2 L’epoca preromana I diversi aspetti della storia linguistica esterna sono trattati diffusamente altrove in questo volume (↗1 Il ladino e i ladini: glotto- e etnogenesi) qua sarà tuttavia utile richiamare il tema dell’area geografica storica della regione ladinofona. In primo luogo va ricordato che, essendo il ladino una lingua del gruppo retoromanzo, l’area da tener presente come territorio di formazione è molto vasta, corrispondendo sostanzialmente alle Alpi Orientali e ai territori pianeggianti contermini, cioè le terre racchiuse tra il Danubio superiore e l’Adriatico. Considerando questi aspetti geografici, è legittimo includere nel sostrato tanto i popoli alpini e subalpini preindoeuropei, principalmente i Reti, quanto i popoli indoeuropei della regione: Celti e Veneti. Il sostrato di quest’epoca ha senza dubbio

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lasciato tracce nel lessico e nella toponomastica (Craffonara 1998); gli etimi che troviamo continuati nel ladino, indicati nella letteratura come preindoeuropei alpini e celtici, lasciano tracce in genere anche in altre lingue romanze parlate tra il Po e il Danubio (per gli idiomi preindoeuropei: Pellegrini 1989, 676) e, in qualche caso, anche negli idiomi germanici e in sloveno (Pohl 2006 passim). Riguardo ai criteri per definire l’area geografica pertinente per stabilire i sostrati del ladino, mettiamo in guardia contro due pregiudizi molto diffusi: quello che i crinali dei monti siano sede naturale di confini tra culture umane e quello che le comunità di montagna siano tendenzialmente chiuse in sé stesse. A proposito del primo, facciamo notare che i confini tra le diverse civiltà e tradizioni, con i loro rispettivi idiomi, di solito non si trovano sulle cime delle montagne, Alpi incluse, bensì al passaggio tra i diversi ambienti naturali; si tratta in particolare del passaggio tra la zona propriamente alpina e quella subalpina. La posizione dei confini etnografici (strettamente connessi con quelli linguistici) è la logica conseguenza del fatto che le civiltà si adattano alle condizioni naturali, e perciò l’ambiente montano ha una funzione unificante per la cultura delle comunità umane che ci vivono. Per quel che riguarda il secondo pregiudizio, ricordiamo che la comunicazione tra zone vicine e lo scambio culturale sono una costante anche in montagna. Determinati caratteri si trovano diffusi da una parte e dall’altra dei confini etnici, linguistici e culturali. Le discipline che studiano le diverse comunità umane e i rapporti tra di esse (geografia, etnografia, dialettologia, sociologia, ecc.), a seconda dello studio che conduciamo, considerano con maggiore attenzione determinati caratteri rispetto ad altri. Per un confronto ordinato basato su dati oggettivi è valido il metodo geotipologico del geografo Carl Ritter (1779–1859), adottato in linguistica da Graziadio Isaia Ascoli (cf. Goebl 2010). Il metodo prescrive di definire un fascio di caratteri pertinenti alla ricerca in corso di svolgimento e, quindi, di individuare delle aree sulla base della quantità e combinazione dei caratteri prescelti rilevate nelle singole comunità studiate. L’applicazione del metodo geotipologico portò Ascoli (1873) a definire il «gruppo linguistico ladino» (in questo contributo preferiamo tuttavia impiegare il termine «retoromanzo»; per i problemi di polisemia della parola «ladino» ↗0 Introduzione) sulla base dei caratteri dell’evoluzione diacronica condivisi dai tre idiomi che ne fanno parte: il romancio, il ladino e il friulano. Certi caratteri evolutivi sono presenti pure in altri idiomi romanzi parlati tra il Po e le Alpi, a volte solo in forma di tracce o in scarsa misura oppure isolati, cioè non in combinazione con gli altri caratteri retoromanzi. In alcuni casi i caratteri condivisi funzionano come singoli fili della trama del continuum romanzo, in altri casi costituiscono i resti di un passato in cui l’area retoromanza era molto più vasta (per es. Ascoli 1873, 249–251). Riassumendo: quei popoli, le cui lingue possono aver influenzato la presenza di certi caratteri nel ladino, vissero in un’area molto più vasta della Ladinia odierna

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(nell’estensione definita al ↗0 Introduzione). Lo si deduce dal fatto che il ladino condivide un fascio di caratteri con gli altri idiomi retoromanzi e perciò condivide anche i sostrati di quel contesto più ampio.

1.3 L’epoca romana (secoli I–V) Il latino è la lingua da cui il ladino discende; anzi, il termine stesso con il quale l’etnia latina designò se stessa è conservato per via ereditaria in una parte del territorio ladinofono fino a oggi, proprio per indicare il popolo e la lingua locali odierni (Craffonara 1977, 73–74 nota 1): lat.prz. */LAT -' IN - U / > lad. ladin (> it. ladino, prestito del XIX secolo). Sebbene per il territorio delle Alpi Centro-orientali e le Dolomiti l’inclusione politica nello stato romano sia avvenuta appena nel 15 a.C., il contatto della regione con il latino è certamente precedente. Piuttosto che alle attività diplomatiche e militari di Roma, evidenti almeno dalle guerre cimbriche alla fine del II secolo a.C., si pensi al commercio. Infatti, essendo la regione attraversata da alcune delle principali vie commerciali transalpine, è ipotizzabile che vi fosse utilizzato già in epoca precedente un pidgin di base latina (sul pidgin latino nell’antichità cf. Cadorini 2009). Anche per i cinque secoli durante i quali durò l’amministrazione romana, va tenuto presente che una delle merci (sic!) più diffuse nell’antichità erano gli schiavi e che gli schiavi ebbero un ruolo importante nel passaggio da pidgin a creolo. Il creolo è un pidgin che è diventato lingua madre, il che è naturale, pensando ai figli delle schiave nati in comunità numerose, composte da schiavi di etnie disparate, e tolti precocemente alle madri (forse a tre anni di età, cioè appena svezzati, se non venivano già prima affidati a balie). Se aderiamo alla teoria secondo la quale le lingue romanze derivano dalla varietà del latino che chiamiamo protoromanza, che Robert de Dardel definì ripetutamente un semicreolo di base latina (per es. Dardel 2005), il riferimento al transito alpino del commercio degli schiavi assume un rilievo particolare. Per il periodo successivo alla conquista romana, la presenza di schiavi e liberti non è una semplice congettura, perché ce la documentano le epigrafi CIL V 1, 5079– 5081, 5085, 5090, trascritte, commentate e tradotte da Migliario (2004). Interessante il fatto che riguardino tutte personale delle dogane, cioè legato alle relazioni commerciali, e che le prime tre di esse siano state trovate all’imbocco della Val Gardena. Naturalmente si trattava di schiavi privilegiati, con una condizione sociale non comparabile a quella della massa di lavoratori impiegati nell’agricoltura, nella pastorizia e nella forestazione. Questi ultimi vivevano in un’azienda chiamata nel latino letterario villa, non formavano nuclei parentali ufficialmente riconosciuti, bensì costituivano tutti insieme la comunità degli schiavi dell’azienda, denominata familia. Non potevano possedere nulla, nemmeno un edificio stabile; al massimo si potevano costruire un riparo di fortuna, cioè una casa.

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Le parole citate sono state ereditate da quasi tutte le lingue romanze, dove hanno subito gli stessi spostamenti semantici, per cui possiamo ricostruire i seguenti significati comuni protoromanzi: */'' βILL - A / ‘villaggio’, */FA ' M -ɪ L - I - A / ‘famiglia costituita da consanguinei’ (ma ‘servitù’ si conserva in Marebbe, EWD, 202) e */'' KAS - A / ‘casa’ (in lat.lett. pagus, gens, domus). Gli spostamenti semantici si trovano anche nel ladino (EWD), che conserva inoltre lat.prz. */FA ' M -ɪ L - I - U / ‘schiavo’ > liv. (EWD), fas. famei ‘servo agricolo’ e lvb. famëi ‘pastore’ (cf. lat.lett. famulus); dal fem. */FA ' M -ɪ L - I - A / ‘schiava’ > rom. femeie ‘donna’. In un’altra lingua retoromanza, il friulano, troviamo anche frut ‘bambino’, da lat. prz. */'FRUK - T - U / (lat.lett. fructus) ‘prodotto’ nel senso di ‘piccolo di animale di allevamento; figlio di schiava’. Un sinonimo ne era lat.prz. */'FET - U / (cf. lat.lett. fetus), dalla cui forma femminile deriva rom. fată ‘ragazza, bambina’. Il latino protoromanzo, pur presentando una notevole compattezza, si manifestava in diverse varianti sociali e geografiche (Buchi/Schweickard 2013). Comparando le lingue utilizzate oggi, si ricostruisce una variante geografica condivisa dalle Alpi e dalla Gallia Cisalpina, nella quale il sostrato più influente fu quello celtico (Gsell 2009, § 1.2.). Se estendiamo la condivisione alla Gallia Transalpina (Hull 2017, vol. 1, 11), nella tarda età romana è verosimile collocare l’origine della declinazione bicasuale che si avvalse degli stessi paradigmi dall’Adriatico all’Atlantico e al Mare d’Irlanda (cf. infra, cap. 3.1; Dardel/Wüest 1993, 53–54; Cadorini 1996a). Il centro urbano principale dell’area cisalpina fu Milano. L’altra grande città che interpretò e diffuse la civiltà romana nell’area fu Aquileia, sia come centro della Venezia sia come punto di partenza per l’espansione nell’area danubiana, nel Norico in particolare. Dal punto di vista amministrativo, sappiamo che in epoca augustea tanto la Ladinia quanto la zona retoromanza in generale furono ripartite fra Rezia, Norico e Regio X.

1.4 L’alto medioevo (secoli VI–X) Più che l’assetto amministrativo romano, per la differenziazione delle lingue retoromanze dal resto del gruppo romanzo è determinante la riorganizzazione territoriale all’inizio del medioevo, in particolare in seguito alla guerra gotica (metà del VI secolo), che aveva prostrato l’Italia. Formalmente vinta dai Bizantini, in realtà ne aveva esaurito le forze e perciò essi non riuscirono a riassumere il controllo effettivo di tutto il territorio italiano. Uno degli aspetti della nuova situazione è il ruolo che aveva assunto a livello locale la Chiesa in seguito alla crisi tardoantica dell’amministrazione statale. Ai due potenti centri missionari di Milano e Aquileia si erano affiancate già in epoca romana le più giovani sedi suffraganee alpine, rispettivamente Coira e Sabiona. Alla fine della guerra scoppia lo scisma dei Tre Capitoli e a guidarlo sono proprio Aquileia e Milano, che non riconoscono più l’autorità del papa romano, sostenuto dall’imperatore.

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In questa fase si insediano in gran parte dell’Italia del Nord i Longobardi, che impediscono all’imperatore di imporre l’obbedienza verso il papa alla popolazione scismatica. La frattura tra zone tricapitoline longobarde e zone papali bizantine dovette essere molto profonda e la divisione tra le due comunità sembra essersi riflessa anche in una separazione linguistica. In particolare fu in questo periodo che si fonologizzò nell’area longobarda il tratto della durata per il sistema delle vocali toniche (Hull 2017, vol. 1, 98–102 e ss. e carta fig. 5): lat.prz. */'milːe/ ‘mille’> */'mil/ vs. */'fiːl/ < lat.prz. */'fil-u/ ‘filo’ (i vs. iː). Infatti è un tratto che non ricostruiamo per la Romagna, la laguna veneta, e l’Istria, governate allora dai Bizantini. Un altro fenomeno che possiamo riferire a quest’epoca è il completamento dell’apocope delle vocali diverse da -a in area longobarda, mentre le vocali finali restano nella laguna veneta e sulla costa ligure bizantine. In ambito politico, questo è il periodo in cui si insediano nell’arco alpino popoli che parlano due nuove lingue. Numericamente e geograficamente preponderanti sono i parlanti dell’antico alto tedesco, che già vediamo suddiviso nelle due varianti alemanna e bavarese, ma anche gli Slavi si spingono a Ovest sulle Alpi dei Tauri fino alla Val Pusteria. Il bavarese era nell’Alto medioevo l’idioma sia dei Bavari che dei Longobardi (Geuenich 2000, 1145; Hutterer 1975, 341), nonostante molti linguisti parlino di due lingue separate. I nuovi arrivati contribuiscono alla suddivisione del retoromanzo alpino in due maniere. In primo luogo, in molte zone limitano il collegamento territoriale tra i Protoromanci e i Protoladini tra di loro e con il resto della Romània. In secondo luogo, costituiscono nuove entità statali i cui centri politici e culturali si trovano presso l’orlo settentrionale delle Alpi. L’orientamento verso Nord verrà consacrato a cavallo tra l’VIII secolo e il IX dal distacco da Aquileia della diocesi di Sabiona, che divenne suffraganea di Salisburgo, e dal distacco da Milano della diocesi di Coira, che divenne suffraganea di Magonza. Nel quadro plurilingue si affermò rapidamente come lingua primaria tra il Danubio e l’Adige il bavarese, anche se non dobbiamo immaginarci un’ondata immigratoria concentrata in breve tempo e di carattere tale da provocare un’immediata sostituzione linguistica. Non ci fu nemmeno una fuga generalizzata della popolazione romanizzata verso zone meno accessibili. Dagli antroponimi e dalla toponomastica si deduce per tutta l’area oggi tirolese che ci fu sempre una comunità bilingue (in una prima fase si tratta di trilinguismo, ma lo slavo alpino scomparirà abbastanza velocemente). Il bavarese si insediò dapprima nelle valli più larghe e nei fondivalle, salendo progressivamente verso le quote più alte. Allargando il contesto geografico, sarà utile ricordare che nell’Alto medioevo il trilinguismo è diffuso anche in ampie zone del Ducato di Baviera. Il retoromanzo arrivava a pelle di leopardo fino al Danubio, dove troviamo pure gli Slavi. Il contatto linguistico tra le due comunità linguistiche in area danubiana, di cui si è occupato anche Otto Kronsteiner (1982 e 1983), è testimoniato anche dagli sporadici antichi prestiti retoromanzi preservati nel ceco: varhany ‘organo, strumento musicale’
*/'WARGIN - A / > frl. vuarzine ‘aratro’. Il confronto con il friulano evidenzia che l’idioma di provenienza del termine ceco presentava la stessa dittongazione in sillaba chiusa. Il fatto è ancora più evidente se si tiene presente che in latino ricostruiamo un plurale tantum neutro, che nelle lingue romanze diventa facilmente un plurale tantum femminile (così la forma ceca), che può evolvere ulteriormente in un femminile singolare (come nella forma friulana – Cadorini 1996b, 43–44; breve sintesi in Cadorini 1998, 78). A quest’epoca si può cominciare a parlare di «protoladino». In questo contributo il termine indica la fase unitaria, non attestata, di tutte le varietà ladine, che si ricostruisce attraverso la comparazione delle varietà. La fase unitaria proseguirà anche nell’epoca successiva, comprendendo tutto il medioevo.

1.5 Il basso medioevo (secoli XI–XVI) A partire dall’XI secolo assistiamo a un grande sviluppo nel territorio della Ladinia. Da una parte si consolidano gli assetti istituzionali. Il vescovo di Sabiona, che è un santuario isolato sulla cima di un colle scosceso in una stretta della Val Isarco, trasferisce la sede nel fondovalle a Bressanone, dove assume il titolo di principe, diventando l’amministratore della regione. Cominciamo ad avere una documentazione rilevante, scritta in latino e in tedesco, che assumerà carattere continuativo a partire dal XIII secolo. Nelle Dolomiti si assiste alla nascita di nuovi abitati che si installano a quota più alta di quelli precedenti e alla colonizzazione del Livinallongo. Per il poligono delimitato da Isarco, Rienza, alto Boite, alto Cordevole e Avisio, è interessante notare che i nuovi insediamenti parlano ladino, incluse alcune valli minori che successivamente passeranno al bavarese. Il fenomeno testimonia che la popolazione romanza autoctona in quei secoli assistette a un’importante crescita demografica (Craffonara 1998). D’altra parte, al di fuori del poligono indicato sopra viene completato il processo di germanizzazione e il ladino si estingue. Se, da una parte, ormai la Ladinia aveva ridotto i contatti con l’Italia, per cui non partecipava più regolarmente a tutte le innovazioni transpadane come aveva fatto ancora nell’Alto medioevo, dall’altra parte si mostra compatta al suo interno. I nuovi processi innovativi sono comuni e si diffondono su quasi tutto il territorio. Tuttavia ci sono i primi segnali di una suddivisione tra un geotipo orientale (Gardena, Fassa) e occidentale (Badia e Livinallongo). A parte resta, poi, la Valle d’Ampezzo, amministrata da un altro vescovo, quello di Frisinga. Come il resto del Cadore, sarà raggiunta dall’espansione del modello linguistico veneziano. Alla fine del medioevo, quando entrerà a far parte del Tirolo raggiungendo i sudditi del vescovo di Bressanone, la distanza tra i due gruppi sarà ormai troppo grande per un riavvicinamento spontaneo.

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1.6 Età moderna (secoli XVII–XX) L’Età moderna assiste a due processi di primaria importanza. Il primo, linguistico, è un’ulteriore differenziazione dialettale interna al ladino, l’altro, antropologico, riguarda l’avvio della presa di coscienza della propria individualità linguistica e etnica da parte dei ladini (↗6 Coscienza linguistica e identità ladina). A quell’epoca il ladino è ormai scomparso dai centri urbani e dalle grandi vie di comunicazione. Le valli della Ladinia comunicano tra di esse solo attraverso malagevoli passi di alta quota e i contatti sono limitati anche per il carattere stesso dell’economia basata sull’agricoltura di sussistenza. La ricerca di altre fonti di guadagno provoca un’emigrazione stagionale, che si dirige però verso le valli germanofone. Il principato vescovile di Bressanone perde peso politico a vantaggio della più vasta contea asburgica del Tirolo. Come lingua amministrativa si afferma il tedesco, ma la Chiesa cattolica con la Controriforma privilegia per la Ladinia l’uso dell’italiano, ostacolando la diffusione del protestantesimo che aveva nel tedesco un formidabile strumento di proselitismo. In Fassa, in un secondo momento, l’italiano diventerà anche la lingua dell’amministrazione. L’Età moderna è caratterizzata nelle Alpi Orientali da una progressiva crescita del livello di istruzione della popolazione. Il tenore di vita più alto, la crisi religiosa, l’invenzione della stampa espandono l’uso della scrittura e l’alfabetismo in generale. Negli scritti amministrativi compaiono nuove lingue e pure in Ladinia a partire dal XVII secolo troviamo dei testi ladini (↗7 Primi usi scritti del ladino). L’assolutismo illuminista aumenterà l’attenzione verso le condizioni di vita reale di tutti i sudditi, sia promuovendo la raccolta dettagliata di dati, sia estendendo a tutta la popolazione servizi in origine limitati a ceti privilegiati. Del lavoro di documentazione fa parte il catasto teresiano, i cui materiali toponomastici danno molte informazioni sulla lingua ladina del XVIII secolo. Tra i servizi estesi a tutta la popolazione ci fu l’istituzione dell’obbligo scolastico nel 1774, durante il regno di Maria Teresa. Nel XIX secolo il tedesco era insegnato in gran parte della Ladinia, ma diventò la lingua prevalente dell’insegnamento solo in Val Badia e in Gardena, mentre in Fassa e nel Livinallongo la lingua d’insegnamento era l’italiano. In questo periodo si completa la suddivisione dialettale che constatiamo ancora oggi (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche; ↗4 Il ladino e i suoi idiomi). A partire dall’Età moderna tutta Fassa e tutto il Livinallongo sono esposti in maniera crescente al contatto con i dialetti veneti. Nei due centri più in contatto con i vicini dialetti veneti si formano persino dei dialetti specifici con caratteri di transizione: Moena in Fassa e Colle Santa Lucia in Livinallongo. In Fassa assistiamo a due tendenze contrastanti: da una parte si accettano alcune innovazioni venetizzanti, dall’altra vengono rafforzati e coerentemente sviluppati una serie di tratti fonetici e morfologici che sono percepiti come tipicamente ladini (cf. il fenomeno della Überentäußerung presso Gartner 1883,

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33–34 e Elwert 1943). Gardena e Badia sono invece maggiormente in contatto con il bavarese. I due diversi orientamenti in quei secoli ridisegnano la principale suddivisione geotipologica della Ladinia. Se nel medioevo si oppone un geotipo orientale (Gardena e Fassa) a uno occidentale (Val Badia e Livinallongo), alla fine dell’Età moderna ha più senso individuare un geotipo settentrionale (valli di Badia e Gardena) e un geotipo meridionale (Val di Fassa e Livinallongo) (↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.1). L’incremento della scolarizzazione (anche se nell’Austria rurale non si può parlare subito di una vera scuola di massa), lo sviluppo dell’amministrazione pubblica (esercito incluso), l’intensificazione delle comunicazioni portano a prime forme di presa di coscienza di un’identità specifica e condivisa con le altre valli ladinofone, la cui espressione maggiore fu la proposta di una norma scritta unitaria da parte del cappellano militare Micurá de Rü/Nikolaus Bacher (1789–1847), contenuta in un manoscritto del 1833, anno in cui insegnava in un collegio militare della Milano allora austriaca (Bacher 1995[1833]). È un fatto notevole che nella stessa epoca un altro membro dell’esercito austriaco decida di pubblicare in friulano un compendio di norme di comportamento per i soldati, appellandosi alla comune patria friulana (Brumatti 1843). Tuttavia né da Micurá de Rü né da altri autori abbiamo indizi espliciti di una conoscenza del friulano. Troviamo invece che i ladini già nella prima metà del XVIII secolo ritenessero il romancio sorprendentemente simile alla loro lingua, al punto da permettere un notevole grado di mutua intelligibilità (Craffonara 1994, 146–149). Nel frattempo la coscienza dell’individualità etnica dei ladini diventa patrimonio della cultura ufficiale. Nel 1846 Joseph Vincenz Häufler (1810–1852) tratta insieme i ladini e i friulani, separati dalle altre popolazioni romanze contemporanee, nella carta linguistica della monarchia austriaca (Häufler 1846; Goebl 1987, 114–119). Häufler fece carriera nell’amministrazione pubblica fino a diventare funzionario del ministero del commercio, presso il quale fu sottoposto di Carl von Czoernig (1804–1889), autore dell’Ethnographie der Oesterreichischen Monarchie e della relativa carta etnografica (Czoernig 1855–1857), dove tratta i ladini e i friulani come etnie autonome, sottolineando comunque nella grafica la somiglianza tra le due lingue (Goebl 1987, 125–133; ↗6 Coscienza linguistica e identità ladina, cap. 5). La linguistica comparata nel XIX secolo cresce metodologicamente fino a costruire un robusto paradigma scientifico. Sarà Graziadio Isaia Ascoli (1829–1907) a svilupparlo ulteriormente applicandolo allo studio delle lingue romanze delle Alpi. Tra le sue opere, ci interessano in primo luogo i Saggi ladini (Ascoli 1873), in cui espone con l’analisi dettagliata di una mole impressionante di dati l’idea che vanno studiati come un solo gruppo linguistico il romancio, il ladino e il friulano. Ascoli godeva di una grande fama e la sua idea venne rapidamente accolta a livello internazionale. Essendo Ascoli il fondatore della ricerca linguistica nelle università italiane ed essendo egli influente ben oltre il mero ambiente scientifico, la sua  

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idea viene accettata anche dalla cultura italiana, pur risultando scomoda politicamente, e per decenni prevarrà. In questo clima i ladini prendono maggiore coscienza della loro identità e la sviluppano ulteriormente. Jan Batista/Giovanni Battista Alton (1845–1900) in alcune raccolte pubblica esempi di letteratura popolare. All’inizio del XIX secolo compaiono le prime poesie d’autore, che sono conservate manoscritte, e qualche testo teatrale (Bernardi/Videsott 2010; Chiocchetti 2015). Con Angelo Trebo (1862–1888) comincia la lirica moderna in lingua ladina; oltre alle poesie scrisse anche 3 pezzi teatrali (cf. Bernardi/Videsott 2013, 279–289; ↗8 Panoramica della letteratura ladina, cap. 3.1). Il prestigio sociale e la vita culturale dei ladini continuarono a crescere fino alla Prima Guerra mondiale. Con essa comincia un periodo di scontri nazionalistici estremamente violenti tra italiani e tedeschi che finiscono per coinvolgere anche i ladini e la cui parte più drammatica termina nel maggio del 1945, con gli ultimi strascichi della Seconda Guerra mondiale.

1.7 L’epoca contemporanea (dal 1950 in poi) I ladini sono inclusi nello stato italiano dalla fine della Prima Guerra mondiale (con una pausa de facto di quasi due anni tra il 1943 e il 1945, dovuta alla loro integrazione nella Zona di Operazioni Prealpi). L’economia delle valli ha perso il carattere agricolo ed ora prevalgono il settore dei servizi, turismo in primo luogo, e l’artigianato. A seconda della vallata, sono in vigore maggiori o minori misure di tutela, tra cui la presenza della lingua nella scuola e nei mezzi di comunicazione di massa. La divisione amministrativa della Ladinia non permette di coordinare la politica linguistica e culturale (↗10 Il ladino come Ausbausprache; ↗11 La tutela istituzionale del ladino). Tuttavia si assiste a un progressivo avvicinamento delle diverse comunità. Si è formata un’organizzazione tetto comune, che dal 1957 porta il nome di Union Generela di Ladins dla Dolomites (UGLD) e dal 1972 pubblica il settimanale La Usc di Ladins (↗13 Il ladino nei mass media, in internet e nei social network, cap. 2.1). Al decennio 1989–1999 risale la definizione del ladin dolomitan, la lingua comune sopradialettale, compiuta da Heinrich Schmid in collaborazione con il Servisc de Planificazion y Eleborazion dl Lingaz Ladin (SPELL) dell’UGLD. Nel 2001 è uscita la Gramatica dl Ladin Standard (GLS). Nei capitoli seguenti non saranno trattate le forme di questa varietà, perché è troppo nuova per aver sviluppato rilevanti tendenze evolutive spontanee; quindi la sua descrizione esaustiva si trova nella Gramatica e nelle altre pubblicazioni del Servisc.

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2 Fonologia Le forme della Val Badia, del gardenese e del fassano sono citate in questo contributo secondo i rispettivi dizionari su internet (Moling 2016; Forni 2013; DILF). Le forme del livinallese provengono dall’ALD-I. Le forme del romancio sono tratte dal portale Pledari grond (Dazzi et al. 1980–2018) e dai siti cui rimanda; quindi, per il sursilvano, dalla versione digitale del dizionario di Decurtins (2001). Le forme friulane seguono la norma ufficiale, provengono dalla mia competenza di parlante e sono verificate sui Dizionaris furlans (DF) e sull’ALD-I. Per le forme che provengono da altre fonti o che documentano altre varietà ladine, le fonti vengono citate volta per volta.

2.1 Vocalismo 2.1.1 Vocali toniche Per quel che riguarda il vocalismo tonico, il ladino rimanda al sistema di sette elementi di gran lunga prevalente nella tarda antichità latina: */i, ɛ, e, a, ɔ, o, u/. L’ulteriore evoluzione delle vocali toniche è unitaria con quella del friulano fino al Basso medioevo, come illustrato da Craffonara (1977). Un tratto che condividono le due lingue in questa fase è anche la pertinenza della durata vocalica, che oggi nel ladino è scomparsa con l’eccezione della Val Badia. Pur non intaccando essa il diasistema unitario del ladino e del friulano di questa fase, una differenza va segnalata per la pronuncia, in quanto il protoladino in periodo altomedioevale palatalizzò, come tutta la Romània con un importante sostrato celtico, il lat.prz. */'u/ > lad. ['y]. Il fonema è ancora presente in Badia, ma è ritornato a ['u] (evoluto raramente in ['i]) nel resto della Ladinia. La dittongazione di */'ɛ/ ed */'ɔ/ è avvenuta nell’Alto medioevo. La ricostruzione richiede di ipotizzare in molti casi una successiva chiusura dei dittonghi. Per lo più lat.prz. */'ɛ/ > protolad. */'ie/ > lad. e, i. La dittongazione di lat.prz. */'ɔ/ non è sempre coerente. Ne deriva un dittongo /'ue/ oppure /'uo/, che in Badia e in Fassa si richiude: lat.prz. */'' NƆKT - E / > grd. nuet, lvb. nöt, fas. net. Dove avviene la chiusura protolad. */'ie/ > lad. e, i essa va connessa con lo spostamento (lat.prz. */'e/ >) protolad. */'e/ > lad. [ɐ, ʌ]. A Fassa e in alcune località in Badia seguirà nell’Età moderna un ulteriore spostamento che dà gli esiti [e, ɛ, a] (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 2.1). In posizione tonica è prevalente la conservazione del dittongo */'au/, che anzi si confonde con il nesso */'al/ in chiusura di sillaba, fenomeno frequente nell’area francoromanza e nell’Italia del Nord, ma che Ascoli ugualmente definisce «insigne carattere ladino» (intendendo ‘retoromanzo’; Ascoli 1873, 472): lat.prz. */'FALK - E / > grd., fas. fauc, lvb. falc; lat.prz. */'AUK - A / > grd., fas. aucia, lvb. alcia ‘oca’. Le consonanti nasali, come in gran parte dell’area francoromanza e nel retoromanzo, condizionano l’evoluzione delle vocali toniche, che durante il periodo medio-

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evale nel protoladino diventano vocali nasali. Tuttavia ancora in epoca medioevale esse si denasalizzeranno, in contemporanea con lo sviluppo dell’opposizione tra consonanti nasali dentali e velari (Videsott 2018b). Il vocalismo tonico è la sezione del sistema linguistico che nella Ladinia vede la maggiore frammentazione dialettale, presentando esso almeno dall’Età moderna esiti diversi anche all’interno dei singoli dialetti.

2.1.2 Vocali atone Per quanto riguarda il vocalismo atono, come nell’area francoromanza e nel romancio, le vocali pretoniche sono deboli: possono cadere o mutare di timbro. Di maggiore rilevanza è l’apocope che elimina tutte le atone in fine di parola, tranne lat.prz. */‑a/, fenomeno che comporta notevoli cambiamenti a livello morfologico (cf. infra, cap. 3.3.3; ↗2 Il ladino e le sue caratteristiche). Limitandoci alla morfologia nominale, si noti che le desinenze vocaliche distinguevano nel latino protoromanzo diverse classi di declinazione dei sostantivi e degli aggettivi. In una grande area romanza che va dalla Catalogna e l’Aquitania fino al Mare d’Irlanda e, a Est, fino in fondo alla penisola Balcanica (ma non a sud degli Appennini) si compie una riduzione e riorganizzazione delle declinazioni. Gli aggettivi tendono a convergere in una sola classe, caratterizzata da una base morfologicamente non-marcata che utilizza una desinenza zero e una forma femminile marcata, espressa da un suono vocalico. Questa opposizione binaria tra non-vocalico e vocalico fa sì che il timbro della vocale della desinenza perda di importanza. Sebbene sia verisimile che il morfema di partenza fosse il lat.prz. */‑a/, proveniente a sua volta dalla declinazione tematica in -a- del latino, la continuazione nelle varie lingue è varia. La larga diffusione di un timbro centrale [ɐ, ə] in aree anche distanti tra di esse (diverse aree di Catalogna, Francia, Grigioni, Ladinia, Friuli e Romania) fa pensare che tale pronuncia fosse generale in tutta l’area. Un’ulteriore appoggio di questa ricostruzione è il fatto che all’interno dello stesso idioma ci siano timbri differenti, tanto anteriori quanto posteriori, a seconda del singolo dialetto, il che si spiega come rivocalizzazione piena svoltasi in una fase successiva. Tale pluralità di esiti si trova, per esempio, nell’occitano, nel friulano e proprio nel ladino. In ladino le possibilità sono la conservazione di [ɐ] ed [ə], la velarizzazione in [ʌ] o l’apertura in [a]. Sebbene il plurale per sostantivi e aggettivi sia prevalentemente sigmatico, il ladino condivide con le altre lingue retoromanze e con l’occitano medioevale la presenza di plurali maschili marcati attraverso la palatalizzazione. Ciò testimonia una presenza protratta della */-i/ atona, la cui scomparsa forse avvenne appena nell’Alto medioevo.

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2.2 Consonantismo 2.2.1 Consonanti, fenomeni conservativi Tra i caratteri che contraddistinguono il ladino e le altre lingue retoromanze ci sono anche dei fenomeni di conservazione di elementi del latino protoromanzo (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 2.2). Presente in tutta la Romània occidentale è la conservazione della -s in fine di parola, il che ha importanti conseguenze per l’evoluzione della morfologia (cf. infra, cap. 3.3). La conservazione della l preceduta da consonante accomuna le lingue retoromanze all’area galloromanza: lat.prz. */'PLƱI - A /> lvb. plöia, grd. plueia, liv. plọ́ i ̯a, lat.prz. */BLASTE ' M - A - RE / > lvb. blastemé, grd. blestemé, */'FLAMM - A / > lvb., grd. flama, liv. fláma, */'KLAV - E / > lvb., grd. tle, liv. klẹ, */'GLAKI - A / > lvb., grd. dlacia, */'GLAKI - U / > liv. glać. Non sono riportati esempi di Fassa, perché vi si trova a partire dall’Età moderna una palatalizzazione di tipo veneziano. Ascoli nel XIX secolo aveva ancora sentito pronunciare [kl] e [gl] non solo per Fassa, ma pure in Gardena (1873, 334 nota 2, 350–351 e 374).

2.2.2 Consonanti, fenomeni innovativi Come in quasi tutte le lingue che discendono dal latino, nemmeno nel ladino la durata consonantica ha valore fonologico. La perdita di questo tratto distintivo non comportò un incremento rilevante di casi di omonimia, perché contemporaneamente si svolgevano numerosi mutamenti fonetici che diversificavano già le parole interessate. Tenendo presente che la durata consonantica latina era limitata alla posizione intervocalica, contribuì notevolmente a mantenere distinte le parole il fenomeno della lenizione intervocalica delle consonanti brevi, comune a tutta la Romània occidentale. La lenizione nel ladino spesso non si limita alla sonorizzazione, ma può comportare anche la spirantizzazione e la caduta della consonante: – -β-, -p- > -v- (> Ø): lat.prz. */KA ' P -ɪ L ː- U / > lvb. ciavëi, grd. ciavël, fas. ciavel; – -d- > Ø (-i̯-, -d-): lat.prz. */'KRED - E - RE / > lvb. crëie, grd. crëier, fas. creer; – -t- > -d-: lat.prz. */RƆT - A / > lvb., grd., fas. roda; – -k- > -g-: lat.prz. */SE -' KUR - U / > lvb. sigü, grd., fas. segur; – -g- > -g-, -v-: lat.prz. */'REG - UL - A / > lvb. regola, grd. regula, fas. régola, */'SPAG U / > lvb., grd., fas. spech, cf. Poschiavo spak, Livigno ṣpak, fr. Forni di Sopra ṣpāk (tutti e tre ALD-I, carta 756), */'JƱG - U / > grd. jëuf, fas. jouf, cf. srs. giuv, fr. jôf (lvb. ju, con apocope secondaria della consonante finale); – -s- > -z-: lat.prz. */'KAS - A / > lvb. ciasa, grd. cësa, fas. cèsa; – -dr-, -tr- > -r-: lat.prz. */'KWADR - ANTA / > lvb., grd., fas. caranta, lat.prz. */'PATR E / > lvb., grd. pere, fas. père;

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-βr-, -pr- > -wr-: lat.prz. */'FA βR - U / > lvb. feur, grd. fever, fas. faure, lat.prz. */'KAPR - A / > lvb. cioura, grd. cëura, fas. ciaura.

Sono presenti pure casi di lenizione in inizio di parola, come altrove nell’area retoromanza: lat.prz. */TƆTT - U / > lvb. döt, grd., fas. dut, cf. fr. dut, lat.prz. */'KRƱST - A / > grd., fas. grosta. In Badia e nel Livinallongo questo termine è senza lenizione, che invece ritroviamo in più punti dell’Engadina e della Val Monastero e nelle anfizone delle Alpi e Prealpi (ALD-I, carta 205). La lenizione intervocalica contribuì a stabilizzare nel sistema fonologico i due nuovi fonemi /v/ e /z/, ma molti di più ne produssero le palatalizzazioni. In quasi tutta la Romània troviamo la palatalizzazione di */k/ e */g/ davanti a */i, ɪ, e, ɛ/. Per il ladino l’evoluzione è diversa tra la consonante breve in posizione intervocalica e il resto dei contesti. In posizione intervocalica abbiamo -k- > -ʒ- e -g- > -j-: lat.prz. */A ' KETU / > lvb., grd. ajëi, fas. ajei, lat.prz. */'MAGIS / > lvb., fas. mai, grd. mei. Negli altri contesti abbiamo k > ʧ e g > ʒ: lat.prz. */'KƐNTU / > lvb., grd. cënt, lvb. cënt, lat. prz. */G ɪ N ' GIΒ - A / > lvb. jonjia, grd. junjiva, fas. jenjìa. Gli stessi nonché altri nuovi fonemi nascono con la palatalizzazione dei nessi di consonante + */j/, che si evolvono in maniera sostanzialmente analoga in tutta la zona centrale della Romània. Il nesso */lj/ in un primo momento dà origine al fonema */ʎ/, il quale è oggi scomparso lasciando un esito j oppure zero: lat.prz. */MƐ ' L - JOR - E / > lvb. miú, grd. miëur, fas. mior, lat.prz. */'TAL - J - A - RE / > lvb. taié, grd. taië, fas. taèr. Le bilabiali hanno poche attestazioni, tutte intervocaliche. Nel caso di */βj/, le varietà ladine ci danno un’occlusiva sonora: lat.prz. */'JƆ β-- J - A / ‘giovedì’ > lvb. jöbia, grd. juebia, fas. jebia, cf. fr. joibe, lat.prz. */'A β-- J - AT / ‘abbia’ > grd. ebe, fas. abie, cf. fr. vebi (ma lvb. ais). Qui è presentata un’occorrenza del nesso */pj/ che ha esiti diversi nelle singole varietà: lat.prz. */'SAP - J - AT / > grd. sebe, fas. sapie, cf. srs. sappi (Vieli/ Decurtins 1962, XXXVI) e fr. sepi (ma lvb. sais). Questi due processi di palatalizzazione e la lenizione intervocalica si svolsero nell’epoca romana e nell’Alto medioevo, un terzo processo di palatalizzazione culminò in epoca medioevale (Videsott 2001b, soprattutto pp. 38–39 e 40 nota 38) e riguardò i nessi latini protoromanzi */ka/ e */ga/. Anche in questo caso troviamo esiti diversi tra la posizione intervocalica e gli altri contesti. ka- > ca- > tʃa-: lat.prz. */'KAS - A / > lvb. ciasa, grd. cësa, fas. cèsa, cf. sts. tgea, srm. tgesa, fr. cjase; ga- > ɟa- > dʒa- (> lvb. ja-): lat.prz. */'GAMB - A / > lvb. iama, grd., fas. giama, cf. sts. tgoma, fr. gjambe; -kːa- > -ca- > -tʃa-: lat.prz. */'βAK ː- A / ‘vacca’> lvb., grd., fas. vacia, cf. sts. vatga, fr. vacje; -ka-, -ga- > - ja- (> fas. -a-): lat.prz. */PAK - A -' MƐN - T - U / > lvb., grd. paiamënt, fas. paament, cf. sts. pajamaint, fr. paiament; lat.prz. */PLAG - A / > lvb. plaia, grd. plea, fas. piaa, cf. sts. plaja, fr. plaie.

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Questo terzo fenomeno di palatalizzazione avvenne in un’area vastissima della Romània: dal Mare del Nord all’Istria, praticamente ovunque ci fosse un importante sostrato celtico. Per almeno mezzo secolo i romanisti discussero animatamente se si fosse trattato di un unico fenomeno unitario oppure di una pluralità di sviluppi analoghi ma locali e indipendenti, finché un approfondito studio di Videsott (2001b) ha definitivamente dimostrato che si trattò di un processo di evoluzione unitario (eppure Tomasin 2015). Data la vastità dell’area interessata e la cronologia relativa dei diversi mutamenti fonologici dal latino protoromanzo alle lingue romanze, bisogna postulare che le premesse del fenomeno risalgano all’epoca romana, per la quale ipotizziamo nell’area una pronuncia palatale allofonica, solo successivamente fonologizzata. Per la Ladinia la fonologizzazione deve essere avvenuta all’inizio del II millennio (a cavallo tra Alto e Basso medioevo; Videsott 2001b, 42 e 50). Il mantenimento di questa palatalizzazione è uno dei tratti che definiscono il gruppo retoromanzo, mentre gli idiomi italiani dell’Italia settentrionale, sotto l’influenza del toscano, hanno ricostruito le occlusive velari (diverse tracce attestano la fase palatale precedente). Il passaggio dal latino al ladino comportò anche diverse semplificazioni di nessi consonantici. Notevole è la semplificazione delle coppie di nasale + occlusiva, che ha per conseguenza la caduta dell’occlusiva. Il fenomeno avviene in tutta la Ladinia e nel romancio per il gruppo mb: lat.prz. */'GAMB - A / > lvb. iama, grd., fas. giama, sts. tgoma. Per il gruppo nd, invece, il fenomeno avviene solo in Ladinia e nemmeno lì dappertutto, il che fa pensare a due fenomeni cronologicamente separati. Come esempio portiamo il femminile singolare dell’aggettivo latino protoromanzo ricostruito da Hegner (2011–2015 in DÉRom s.v. */re'tʊnd‑u/) */TO ˈ RƱND ‑ A / ‘rotonda’ > lvb. torona, fas. torona, liv. torọ́ na, ma grd. turonda come fr. taronde. La lenizione intervocalica e le prime due palatalizzazioni dovettero precedere l’apocope vocalica (cf. infra, cap. 3.2.1.2), perché le consonanti che restano scoperte in fine assoluta di parola ne presentano gli effetti. Esse inoltre subiscono un assordimento: lat.prz. */'LUP - U / > */'LUV - U / > grd. lëuf, fas. louf, liv. lọu̯f, cf. srs. luf, srm. louf, fr. lôf; invece lvb. lu, con apocope secondaria della consonante finale.

2.2.3 Consonanti, varianti dialettali L’esempio appena presentato evidenzia uno dei caratteri tipici della Val Badia rispetto agli altri dialetti, cioè la più frequente caduta delle consonanti che si ritrovano in fine di parola in seguito all’apocope delle vocali atone: lat.prz. */D ɪ S -' NUD - U / > lvb. desnü, grd. desnut, fas. nut (< lat.prz. */'NUD - U /), lat.prz. */'FIL - U / > lvb. fi, grd., fas., liv. fil, lat.prz. */SE -' CUR - U / > lvb. sigü, grd., fas. segur. La /-r/ cade per tutti gli infiniti verbali dei verbi regolari in Val Badia e nel Livinallongo, in Gardena e a Marebbe resta solo nella desinenza atona della classe che continua lat.prz. */-e-re/, mentre in Fassa non cade mai.

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In effetti, l’apocope consonantica è presente in tutta la Ladinia con una maggiore frequenza in Val Badia, le consonanti resistono bene in Fassa, mentre una posizione intermedia è quella di Livinallongo e Gardena. Eppure ci sono indizi che nel passato l’apocope fosse molto più diffusa, ma che ci sia stata una recessione del fenomeno con una ricostruzione delle consonanti. Ecco un esempio di falsa ricostruzione che mostra che l’apocope ci fu in precedenza anche in Gardena e Fassa: lat.prz. */'KRUD - U / > lvb. crü, liv. kru, grd., fas. cruf, cf. srs. criu vs. srm. criev (una falsa ricostruzione di consonante in fine di parola è in friulano lât ‘lago’ < lat.prz. */'LAK - U /). Un altro carattere tipico della Badia, presente con meno regolarità anche a Cortina, è il rotacismo di -l- intervocalica: lat.prz. */FI ' L - A - RE / > lvb. firé, amp. firá (ALD-I, carta 296), lat.prz. */'STELL - A / > lvb. stëra. Il fenomeno è documentato a partire dal XIV secolo (Videsott 2018b). Un tratto specifico del gardenese è la pronuncia del fonema /r/ realizzato in posizione uvulare come vibrante [ʀ] o fricativa [ʁ] (tra gli studiosi manca ancora una classificazione fonetica univoca). La vibrante è pronunciata uvulare in Carnia nel friulano del Canale di Incaroio (Roseano 2015, 164) e in parte del territorio romancio. Viene spontaneo attribuire la pronuncia all’influenza dell’astrato-superstrato tedesco e presupporre che nelle singole aree retoromanze si sia trattato di processi locali. Un dubbio su un eventuale ruolo del sostrato è stimolato dalla considerazione che nell’antichità latina c’era incertezza nello scrivere il nome del popolo dei Reti e del fiume Reno con la semplice r o con il digramma rh, come se il suono iniziale non corrispondesse esattamente alla /r/ alveolare latina. Gsell (2009, 2776) colloca l’innovazione gardenese nell’Età moderna, ma non spiega su quale base.

3 Morfologia 3.1 La declinazione nel latino protoromanzo La proposta più completa di ricostruzione della morfologia nominale e pronominale per il latino protoromanzo si deve a Robert de Dardel e Jakob Wüest. I due linguisti svizzeri riconoscono almeno tre fasi diverse (1993, sintesi alle pp. 49–51). Al momento dell’espansione marittima dello stato romano nel III secolo a.C., nacque nel Mediterraneo occidentale un pidgin di base latina. Il pidgin, diventando lingua madre di parte della popolazione delle prime provincie, divenne un creolo: il latino protoromanzo della prima fase. Il pidgin e il creolo non avevano una flessione casuale, perché i primi contatti linguistici non avevano consentito ai non Latini di imparare la ricca declinazione latina e avevano portato alla drastica eliminazione di tutte le desinenze casuali. Questa ipotesi dà una spiegazione al fatto che le lingue romanze della Penisola Iberica e della Sardegna non conservano nessuna traccia di declinazione. Indichiamo

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questo processo con l’espressione «I semplificazione casuale»; questa tappa in cui non c’è declinazione è chiamata «latino protoromanzo della I fase». L’espansione romana proseguì con le conquiste nell’Europa continentale. Il creolo, essendo uno strumento già disponibile per la latinizzazione delle popolazioni conquistate, nella nuova situazione si affermò, ma allo stesso tempo aumentarono i contatti con i parlanti nativi del latino parlato a Roma e nell’Italia appenninica, e l’aumento dei contatti provocò un riavvicinamento del creolo alla sua lingua base. Ne fu conseguenza la formazione di un semicreolo che presentava una declinazione a tre casi: nominativo, accusativo e genitivo-dativo. Questa ipotesi tiene conto del fatto che la comparazione tra le lingue romanze sviluppatesi documenta per la maggior parte della Romània la presenza di tre casi flessivi in un’epoca antica. La morfologia verbale indica, rispetto al latino come ci viene attestato nella sua forma letteraria, una radicale ristrutturazione realizzata con la riutilizzazione di morfemi preesistenti in funzioni innovative e dallo sviluppo di tempi composti con diversi verbi ausiliari. I tempi composti non sono le uniche strutture analitiche della morfologia che corrispondono ad elementi flessionali del latino letterario. Rilevante è anche la presenza di elementi con funzione pronominale che in origine erano avverbi: lat.lett. INDE , UNDE , HIC . Le congiunzioni subordinanti sono differenti da quelle del latino letterario. Si sviluppa l’articolo determinativo a partire da pronomi. Tutti questi sono fenomeni frequenti nelle lingue creole e nel caso del latino protoromanzo sono combinati. Questa tappa che presenta una declinazione a tre casi è chiamata «latino protoromanzo della II fase». In un periodo successivo alla separazione del Danubio inferiore dal resto dell’Europa latinizzata, si ebbe una riduzione della declinazione, che divenne bicasuale. Si svolsero, però, due processi diversi: uno nel territorio tra la Pannonia e i Monti Balcani, dove avvenne il sincretismo tra nominativo e accusativo, e l’altro nel resto dell’area di diffusione del semicreolo, dove il sincretismo fuse l’accusativo con il genitivo-dativo. Indichiamo questo processo di riduzione da tre a due casi con l’espressione «II semplificazione casuale». A II semplificazione casuale compiuta, troviamo la Romània suddivisa in quattro aree: a) l’Italia appenninica latina e latinizzata; b) il Mediterraneo occidentale e la Penisola Iberica, dove prevale il latino protoromanzo della I fase; c) le terre dai Pirenei al Mare d’Irlanda e all’Istria, dove prevale il latino protoromanzo della II fase che ha subito il sincretismo di accusativo e genitivo-dativo; d) i territori pannonico-balcanici, dove prevale il latino protoromanzo della II fase che ha subito il sincretismo di accusativo e nominativo. De Dardel/Wüest (1993, 47–48) attribuiscono il romancio e il ladino all’area del latino protoromanzo della II fase, sebbene con qualche riserva. I due linguisti svizzeri avevano osservato che in diverse lingue romanze la declinazione a tre casi è soprav-

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vissuta presso il pronome personale di terza persona; non essendo questo il caso del ladino e del romancio, non era possibile utilizzare lo stesso procedimento per attestare la declinazione a tre casi del periodo prototomanzo nei due territori. Come si vedrà più sotto (cf. infra, cap. 3.3.4), tuttavia, ci sono i pronomi di prima e seconda persona singolare tonici nel retoromanzo, come nel romeno, che conservano la tricasualità, fornendo la prova ricercata per attribuire l’area al latino protoromanzo della II fase.

3.2 La declinazione dei sostantivi nel protoladino Comparando le lingue romanze parlate oggi nella vasta area del sincretismo di accusativo e genitivo-dativo, colpisce la loro uniformità morfologica, tale da permettere la ricostruzione di una morfologia nominale sostanzialmente unitaria per tutte le lingue del gruppo. La ricostruzione è possibile sebbene oggi nessuna delle lingue del gruppo conservi la declinazione nominale, fatta eccezione per gli aggettivi nel romancio. Nei testi dei primi secoli della langue d’oïl e della langue d’oc, cioè le due lingue letterarie che abbiamo riccamente attestate per prime a partire dal medioevo, troviamo la declinazione bicasuale ancora funzionante, secondo paradigmi nominali corrispondenti tra le due lingue, per non dire uguali. Di essi, per il protoladino e il romancio ne possiamo ricostruire 9, di cui 7 condivisi con il friulano, che ne condivide ancora un altro con l’antico francese; arriviamo così a ipotizzare che l’area globalmente condividesse almeno 10 paradigmi nominali. Ora passiamo in rassegna i paradigmi protoladini assieme ai corrispondenti paradigmi delle lingue medioevali francesi, del romancio sursilvano (cioè il limite occidentale del retoromanzo) e del friulano. Lo schema di base della comparazione che seguiremo è lo stesso del contributo citato (Cadorini 1996a), dove lo schema viene spiegato più estesamente. Una ricostruzione dei paradigmi analoga, che invece qui non presentiamo, fu elaborata negli anni ’80 del secolo scorso da Geoffrey Hull, la cui ultima versione è quella del 2017 (vol. 2, 13–49). Hull prende in considerazione tutte le varietà italiane e retoromanze dell’Italia del Nord, ma non conduce una comparazione sistematica con le lingue della Francia. Principalmente dalla differente estensione dell’area studiata derivano le diversità tra le due ricostruzioni. Negli schemi seguenti, per la langue d’oïl e la langue d’oc i riferimenti sono Moignet (1976), Körting (1898) e Anglade (1921). Le forme ladine, romance e friulane provengono dalle fonti citate all’inizio del capitolo sulla fonologia (cf. supra, cap. 2) Le forme plurali del sursilvano non contenute nel dizionario di Decurtins (2001) mi sono state fornite da Florin Lutz. Per il ladino del Livinallongo mi sono basato sull’ALD-I, trascrivendo le forme secondo l’uso grafico della rubrica contrassegnata Fodom che pubblica la rivista di attualità Usc di Ladins. Nello schema non è specificata per le singole forme ladine la varietà diatopica di

Il ladino e la sua storia

127

appartenenza, perché lo scopo della comparazione è la ricostruzione delle forme comuni protoladine e, in questo caso, non è importante quale varietà abbia conservato un elemento, bensì che in una o più varietà del ladino sia ancora conservato. Alcune forme friulane e sursilvane sono precedute da una piccola † in esponente: si tratta di forme attestate nei documenti antichi ed oggi uscite dall’uso. Sulla loro attestazione vedere Cadorini (1996a) e il dizionario di Decurtins (2001). Negli schemi seguenti le forme della langue d’oïl e della langue d’oc sono distinte in base al caso che rappresentano. Le altre lingue oggi non presentano declinazione, ma le loro forme sono collocate in corrispondenza del rispettivo caso etimologico. Paradigma 1: femminili in -a es. ‘rosa’ oïl

oc

srs.

*protolad.

ladino

friulano

Sg. caso retto

rose

rosa

rosa

/'roz-ə/

rösa, resa, ruosa

Sg. obliquo

rose

rosa

rosa, -e,‑o

Pl. caso retto

roses

rosas

Pl. obliquo

roses

rosas

/'roz-ə/ rosas

/'roz-ə-s/ /'roz-ə-s/

röse, rese(s), ruose rosi(s),‑e(s), ‑as,‑os

Il paradigma 1 presenta corrispondenze evidenti tra le lingue dello schema, ancora di più se ci spostiamo dalla grafia al livello fonetico: per tutti gli idiomi vale che i grafemi a ed e possono rendere sempre, almeno in alcune varietà diatopiche, una pronuncia [ɐ] ed [ə]. Paradigma 2: maschili in -s es. ‘muro’ oïl

oc

Sg. caso retto

murs

murs

Sg. obliquo

mur

mur

Pl. caso retto

mur

mur

Pl. obliquo

murs

murs

srs.

*protoladino

ladino

friulano

mür, mur

mûr

mürs, mur(es)

mûrs

/'myr-s/ mir

/'myr/ /'myr/

mirs

/'myr-s/

Anche per il paradigma 2 le corrispondenze tra le varietà romanze sono evidenti. Tutte, nel momento dell’abolizione della declinazione nominale, optano per la simmetria tra contenuto e resa fonologica dei morfemi, cioè creano un’opposizione parallela non-marcato vs. marcato. Sul piano del contenuto il singolare è l’elemento non-marcato in contrapposizione al plurale che è marcato. In corrispondenza, sul piano fonologico abbiamo un fonema zero per il singolare cui si oppone un fonema non-zero, cioè -s, per esprimere il plurale (Benincà/Vanelli 1978, 282–283). In diverse località ladine l’originaria desinenza plurale consonantica è diventata sillabica: [-es] oppure [-əs]. Dunque si è fusa con la desinenza dei sostantivi in -a/-es

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Giorgio Cadorini

evolutisi dal paradigma 1. Tenendo presente che questi due gruppi contengono la maggioranza dei sostantivi ladini, possiamo ritenere che abbia agito una forza tendente a unificare i morfemi plurali. La diffusione di una desinenza plurale sillabica può essere spiegata anche con la tendenza a evitare i possibili nuovi nessi consonantici nati all’incontro tra la consonante finale della radice con la -s, che opacizzano il confine tra radice e desinenza. Proprio nel caso di mur troviamo anche dialetti che non adottano la desinenza sillabica e inseriscono tra r ed s una t epentetica: ['müːrts] (ALD-I). Sottotipo 2a: maschili in -s con plurale palatalizzato es. ‘cavallo’ oc

*protoladino

ladino

friulano

Sg. caso retto

cavals

/ca'val-s/

Sg. obliquo

caval

/ca'val/

ciaval

cjaval

Pl. caso retto

caval(h)

/ca'vaʎ /

ciavai, ciavei

†cavagl

Pl. obliquo

cavals

/ca'val-s/

Questo sottotipo nasce pure esso dall’incontro della radice con un morfema plurale. In questo caso si tratta di lat.prz. */-i/ del nominativo, che provoca la palatalizzazione di tutte le consonanti alveolari. Sebbene nessuna delle lingue dello schema conservi la -i, la si ricostruisce a partire dalla palatalizzazione della consonante finale della radice. La palatalizzazione si trova ancora oggi nel nominativo plurale romeno, dove interessa tutte le consonanti. La -i conservata, ma non accompagnata dalla palatalizzazione, è tipica del toscano e dell’italiano mediano. Lat.prz. */-i/ corrispondeva alla desinenza del nominativo plurale della II declinazione del latino letterario, ma il latino protoromanzo l’applicava anche a sostantivi che nella tradizione letteraria appartenevano alla III declinazione. A questo proposito troviamo a Moena sg. ćan, pl. ćęñ e a Cortina sg. ćaŋ(n), pl. ćẹi ̯ (ALD-I), corrispondenti al lat.lett. canis (dunque III declinazione con nominativo e accusativo plurale canes), e pure al nominativo rom. sg. câine, pl. câini ['kɨi̯nj] e all’it. cane, cani. Mentre nei paradigmi precedenti la forma plurale continuata nella lingua attuale è il caso obliquo, le forme palatalizzate del paradigma 2a continuano il caso retto. Ciò si può spiegare con il fatto che la desinenza -s si trovava in entrambi i numeri, seppure per casi diversi, mentre la forma a desinenza zero del singolare e la forma palatalizzata del plurale si contrapponevano nettamente.

Il ladino e la sua storia

129

Paradigma 3: maschili flessi in -s o senza es. ‘padre’ oïl

oc

Sg. caso retto

pere(s)

Sg. obliquo

srs.

*protolad.

ladino

friulano

paire(s) frar

/'per-e/

pere, père

pari

pere

paire

/'per-e/

Pl. caso retto

pere

paire

/'per-e/

Pl. obliquo

peres

paires

pères, peresc

paris

frars

/'per-e-s/

Il gruppo dei sostantivi che seguivano questo paradigma è stato sempre poco numeroso. Nel sursilvano il lat.prz. */'PATR - E / non è continuato, perciò nello schema il paradigma è rappresentato dal continuatore di */'FRATR - E /. Nel retoromanzo non si trova traccia di un caso retto in -s, che nelle lingue di Francia pare un’innovazione analogica sulla base del paradigma 2. In tutte le lingue comparate le forme attuali confermano una confluenza di questi sostantivi verso i continuatori del paradigma 2, eppure ci sono varietà ladine che presentano al plurale -ʃ invece che -s. A Marebbe e in bassa Badia, poi, troviamo un plurale vocalico peri. Paradigma 4: maschili e femminili invariabili es. ‘fondo, pavimento’

Sg. caso retto

oïl

oc

srs.

*protoladino

ladino

friulano

fonz

fonz

funs

/'fonts/

funz, fonz, fon

fonts

Sg. obliquo Pl. caso retto

func, fonc, fons

Pl. obliquo

In epoca medioevale vediamo che i sostantivi la cui radice terminava in -s erano indeclinabili, cioè la radice si fondeva con la desinenza casuale -s. Nel retoromanzo la regola è che, nel passaggio alle lingue attuali, il singolare perde la -s, che invece resta al plurale, assumendo il nuovo ruolo di desinenza del numero. Quindi i sostantivi confluiscono con i continuatori del paradigma 2 e 3. In tutte le lingue considerate la radice resta integra proprio per i successori di lat. prz. */'FƱNDUS / (declinato con alternanza radicale */'FƱNDER -/, a differenza di lat. lett. fundus, fundi), probabilmente per la potenziale omonimia con i continuatori di */'FƆNT - E /, che alla fine verrà sostituito dai continuatori di */FON ' T - AN - A / (Gross 2015 in DÉRom s.v. */ɸonˈt‑an‑a/). Proprio il ladino, però, ha differenziato dappertutto nelle varietà attuali il singolare dal plurale o ricorrendo alla palatalizzazione oppure eliminando la -ts del singolare, facendo rientrare anche questo sostantivo nel gruppo dei continuatori del paradigma 2a oppure del paradigma 2.

130

Giorgio Cadorini

Tra i sostantivi che hanno perso la -s potrebbe stare anche lat.prz. */'SƐNSUS / > lvb., grd. sënn ‘ira’, fas. sen ‘senno’, srs. senn ‘organo del senso; senno; sensazione’, fr. sen ‘sensazione di bisogno; opinione’, probabilmente incrociato con la radice germanica */SĬNNŌ -/ (cf. FEW, vol. 17, 73). Paradigma 5: maschili con alternanza radicale in -'on es. ‘ladro’ oïl

oc

srs.

*protolad.

ladino

friulano

Sg. caso retto

lerre

laire

lader

/'ler-e/

lere, lère

lari

Sg. obliquo

larron

lairon

ladrun

/la'dr-on/

ladron, -un

ladron

Pl. caso retto

larron(s) lairon

Pl. obliquo

larrons

ladrons, -uns

ladrons

lairons

/la'dr-on/ ladruns

/la'dr-on-s/

Questo paradigma continua la declinazione del latino protoromanzo corrispondente a lat.lett. -o, -onis. Con la perdita della declinazione bicasuale, non c’è stata un’evoluzione uniforme, ma per ogni sostantivo per ogni varietà ci sono state varie soluzioni. In alcuni casi si è scelta la coppia delle forme al caso obliquo, come fu per il paradigma 2: lvb. dragun, draguns, grd. dragon, dragons. In altri casi sono proseguite tutte le forme, creando una doppia forma per il singolare: fas. lère, ladron, ladrons. In altri casi ancora, il caso retto singolare ha generato una forma plurale analogica, facendo nascere una coppia di sinonimi, uno che prosegue il caso retto singolare, l’altro che corrisponde alle forme del caso obliquo: mar. e bbad. lere, leri e ladrun, ladruns, grd. lere, leresc e ladron, ladrons, fas. drach, draghes e dragon, dragons (se drach non è un prestito). In questo gruppo si trova anche il termine ladino per ‘ragazzino; figlio’: lvb. möt, mituns, grd. mut, mutons, che ha mantenuto il caso retto singolare e il caso obliquo plurale. Nel gardenese è stato attratto anche fi, fions ‘figlio’, originariamente paradigma 2 (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 3.1; ↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.3). Paradigma 6: alternanza radicale in -'an es. ‘bambina’ oïl

srs.

*protoladino

ladino

friulano

Sg. caso retto

none

matta

/'mut-a/

möta, muta

†dumnlo

Sg. obliquo

nonain

/mu't-an/

Pl. caso retto

nonains mattauns

/mu't-an-s/

Pl. obliquo

nonains

/mu't-an-s/

†domblan

mitans, mutans

†domlans

L’avere trovato il suffisso -'an nel friulano antico mostra superato uno degli spunti di Carlo Battisti contro l’esistenza di una comunanza rilevante di tratti linguistici tra le

Il ladino e la sua storia

131

lingue retoromanze: «il grigione ed il ladino centrale, ma non il friulano[,] conoscono la declinazione dei nomi personali del tipo muta-mutàns “ragazza -e”» (Battisti 1937, 42). Non solo: riconoscere al suffisso il valore di antico morfema flessivo, presente anche nella langue d’oïl, documenta ulteriormente che nella fase antica il retoromanzo era strettamente legato alla Francia. Il paradigma 6 sembra raccogliere designazioni di donne sulla base della loro posizione sociale dovuta all’età o ad altre condizioni. Oïl none significa ‘monaca’, fr. dumnlo < *'DOMLA < lat.prz. */'DƆMN - A / corrisponde nelle poesie medioevali al coevo it. donna. Il srs. matta, il lvb. möta e il grd. muta significano ‘ragazzina; figlia’ e corrispondono ai maschili lvb. möt e grd. mut trattati sotto il paradigma precedente, il che fa pensare che nel ladino il paradigma 6 sia stato sentito come il corrispettivo femminile del paradigma 5. A Pieve di Marebbe resta il caso obliquo mọñáŋ ‘monaca’ (ALD-I). Nel gardenese il gruppo ha attratto altri sostantivi: fia, fians ‘figlia’ originariamente paradigma 1 (cf. sopra fi, fions) e sor, surans ‘sorella’, paradigma 8. Un esempio analogo costituisce nel srs. dunna, dunnauns, etimologicamente corrispondente all’esempio fr. dumnlo, domlans. Paradigma 7: maschili con alternanza radicale in -'tor es. ‘pastore’ oïl

oc

srs.

*protolad.

ladino

Sg. caso retto

pastre

pastre

paster

/'pas-tr/

paster, pèster

Sg. obliquo

pastor

pastor

pastur

/pa's-tor/

pastor (?)

pastôr

Pl. caso retto

pastor(s) pastor

Pl. obliquo

pastors

pastores (?)

pastôrs

pastors

friulano

/pa's-tor/ pasturs

/'pa's-tor-s/

Le forme della langue d’oc sono attinte da Raynouard (1836–1844). A parte la Val Badia, che non ha conservato la parola, in tutta la Ladinia prosegue al singolare il caso retto, che ha generato un plurale analogico. Le forme del ladino derivate dall’obliquo sono accompagnate da un punto interrogativo, perché probabilmente si tratta di un prestito. Il termine è attestato solo a Moena (ALD-I, trascrizione semplificata), che è una località sotto forte influsso dei dialetti veneti circostanti. A questo paradigma si può ascrivere anche la parola per ‘tessitore’, che in tutta la Ladinia deriva dal caso retto singolare: lvb. tescere, grd. tiscere, fas. tescèr.

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Giorgio Cadorini

Paradigma 8: femminili imparisillabi con spostamento dell’accento es. ‘sorella’ oïl

oc

srs.

*protolad.

ladino

friulano

Sg. caso retto suer

sor

sora

/'sor/

so, sor

†mog, †mol'

Sg. obliquo

seror

seror

Pl. caso retto serors

serors

Pl. obliquo

serors

serors

†muglir

/so'r-ur/ †sorurs

/so'r-urs/

sorus /so'rus/

†muglirs

(DSF)

/so'r-urs/

Anche in questo caso nel ladino troviamo solo questo esempio; anzi, solo la Badia mantiene il plurale originario, mentre le altre varietà hanno generato un plurale analogico a partire dal caso retto, come troviamo anche nel friulano sûr, sûrs. Per il friulano nello schema si trova *mogl, muglir, perché per esso sono attestate anche le forme bisillabiche e non solo il caso retto singolare. Paradigma 9: maschili imparisillabi con accento fisso es. ‘uomo’ oïl

oc

srs.

*protolad.

ladino

friulano

Sg. caso retto

huem, hom

hom

um

/'om/

uem, om

om

Sg. obliquo

homme

home

/'omen/

Pl. caso retto

homme(s)

home

/'omeɲ/

omegn, omi

umign

Pl. obliquo

hommes

homes

/'omen-s/

uemes (?)

umins

umens

Anche l’ultimo paradigma che si può ricostruire mostra una grande omogeneità tra le lingue nello schema. Il lvb. omi non è una nuova formazione a partire dal singolare om, a Paul Videsott (2018a) ne devo l’etimologia: lat.prz. */'ƆMIN - I > ' OMIN > ' OMĨ > ' OMIN / > gad. omi. Sempre a Paul Videsott devo la segnalazione di grd. pl. uemes, che tuttavia potrebbe essere anche una formazione analogica. Non si può provare l’esistenza di un paradigma femminile con caso retto singolare in -s come quello presente nelle lingue di Francia. Tuttavia c’è un’interessante tendenza a passare al genere femminile i sostantivi astratti latini protoromanzi con suffisso -'or, il che è la regola in Francia e nel sursilvano; in Fassa, però, resta saldo il maschile, così come in Friuli. Nelle lingue francesi medioevali questi femminili si declinano secondo il paradigma in -s. Per es.: lat.prz. */SA ' P - OR - E / > lvb. sf. saú, grd. sf. sëur, fas. sm. saor, lat.prz. */ON '- OR - E / > gad. sf. onú, grd. sm. onëur, fas. sm. onor.

3.3 Ancora morfologia nominale A proposito del genere dei sostantivi, il lessico ladino contribuisce a documentare l’incertezza nell’attribuzione del genere che ci fu nel latino protoromanzo anche per

Il ladino e la sua storia

133

altri gruppi di sostantivi. Si nota che per lo più la scelta del ladino concorda con quella del friulano, a volte anche del romancio: lat.prz. */'MƐL - E / ‘miele’ > lvb., grd., fas., liv., Val Monastero (ALD-I), fr. = sf., lat.prz. */'P ɪ R - U / ‘pera’ > lad., rmc., fr. = sm., lat.prz. */'DI - E / ‘giorno’ > lad. (EWD, s.v. dé) e fr. = sm. e sf., lat.prz. */ˈMƆNT ‑ E / > lvb., grd., Ornella (ALD-I), fr. = sf. Per l’ultimo caso, per il quale nella Romània il femminile non si trova altrove, la causa è da cercare nello sviluppo fonetico, che ha creato una concorrenza con le forme continuatrici di lat.prz. */'MƱND - U /; gli idiomi romanzi con uno sviluppo fonetico simile a quello ladino hanno in genere risolto il conflitto privilegiando i continuatori di lat.prz. */MON ' T ‑ ANI ‑ A /. Nel ladino di oggi la morfologia flessionale presenta due generi, maschile e femminile, e due numeri, singolare e plurale. Al momento della scomparsa della declinazione, ci fu nella Romània continentale centrale la tendenza a creare un sistema in cui il maschile singolare a desinenza zero sarebbe stato l’elemento nonmarcato, opposto al femminile singolare -ə e al plurale -s (cf. supra, cap. 3.2.1.2 e il commento al paradigma 1 supra, cap. 3.3.2). La somma dei due elementi marcati dava il femminile plurale -əs. Questa tendenza fu molto forte, e nel romancio e nel friulano prevalse, ma in tutto il retoromanzo fu ostacolata dalla palatalizzazione provocata dalla -i del nominativo plurale maschile. Il romancio e, maggiormente, il friulano hanno ormai solo tracce della -i, mentre nel ladino è largamente diffusa. Effettivamente il ladino ha rilanciato l’uso della -i come marca del maschile plurale in diversi contesti fonologici, in cui si è affermata anche indipendentemente dall’originaria distribuzione etimologica. Il risultato è che il plurale maschile oggi è prevedibile solo parzialmente sulla base della fonologia della forma singolare. Un effetto importante della palatalizzazione avviata dalla -i del nominativo plurale maschile fu quello di stabilizzare il fonema */c/ nato dal nesso lat.prz. */ka/ che, finché era stato confinato al contesto fonologico originario, costituiva un allofono. Con lo stesso esito, invece, si identificò il componente consonantico del nuovo nesso */ci/ < lat.prz. */ti/. L’occlusiva palatale è conservata nel friulano, mentre nel ladino si è ulteriormente evoluta in affricata: lat.prz. */TƆTT - I / > lvb. düc, grd., fas. duc, fr. ducj (cf. EWD s.v. düt), lat.prz. */JUS - T - I / > lvb. iüsć, grd. iusć, fas. giusć, fr. juscj. Dal punto di vista dell’espressione del numero, gli aggettivi presentano gli stessi fenomeni visti per i sostantivi, mentre più importante è nel paradigma aggettivale l’espressione del genere, dove di regola il femminile ha una forma diversa dal maschile. La seconda classe latina (cf. lat.lett. fortis, forte), come dappertutto nella Romània continentale centrale, è confluita nella prima (cf. lat.lett. longus, longa, longum) in seguito alla tendenza a generalizzare l’opposizione tra maschile a desinenza zero e femminile in -ə. Questo fenomeno ha conseguenze rilevanti, perché perciò il paradigma presenta forme con un numero di sillabe diverso e la struttura dell’ultima sillaba radicale

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Giorgio Cadorini

differisce a seconda che le consonanti finali restino scoperte o formino sillaba con la vocale delle desinenze femminili: lvb. dür, döra ‘duro, dura’. L’applicazione delle varie desinenze provoca diverse alternanze nel consonantismo. Il morfema zero del maschile comporta l’assordimento delle consonanti scoperte: grd., fas. ciaut, ciauda ‘caldo, calda’. Al plurale possiamo trovare consonanti epentetiche in seguito all’applicazione del morfema -s: /dürts/ (ALD-I nella maggior parte delle località in Badia e a Colfosco). Per parecchi aggettivi il plurale maschile è espresso dalla palatalizzazione delle consonanti finali: grd., fas. ciauc ‘caldi’. Poiché le alternanze offuscano i rapporti paradigmatici tra le diverse forme, diverse località hanno ripristinato un morfema sillabico anche per il plurale maschile: o hanno esteso la forma femminile anche al maschile plurale (fas. nef ‘nuovo’, neves ‘nuovi, nuove’) o hanno introdotto il morfema -i (lvb., grd. pëigri ‘pigri’).

3.4 Morfologia pronominale Il ladino presenta un sistema di dimostrativi a due gradi: lvb., grd. chësc, fas. chest vs. lvb., grd. chël, fas. chel. Al femminile le forme del pronome e quelle dell’aggettivo sono diverse. Nel plurale maschile lad. chisc ‘questi’ si rileva l’apofonia causata dalla -i etimologica. Un relitto di lat.prz. */'ɪ 'ɪ ST - E / si trova fossilizzato anche nell’espressione avverbiale lat.prz. *// IN 'ɪɪ ST ‑ A ' NƆKT ‑ E / > grd. nsnuet, lvb. insnöt, cf. fr. usgnot. Nel retoromanzo è continuato il lat.prz. */'ALI - KU / (cf. lat.lett. aliquid): lvb. valch, grd. velch, fas. vèlch, fr. alc, srs. agl. Da lat.prz. */IN AL ɪ-' KU - BI / ‘da qualche parte’ > lvb. invalgò, grd. nvalgon, cf. fr. inalgò. Lo stesso concetto è espresso da fas. zaonder, cf. srs. zanunder, dove troviamo lat. prz. */'Ʊ - NDE /, ma anche i due morfemi retoromanzi -r e (en)za- < */NON ' SA /. Alcune altre occorrenze del prefisso in ladino: lvb., grd. zacò ‘in qualche modo’, grd., fas. zachèi ‘qualcuno’. Il ladino (cf. EWD, s.v. un), come il sursilvano e il friulano nonché l’italiano, ha sviluppato a partire da lat.prz. */UN - U / un pronome impersonale. In Badia e Gardena esiste anche un pronome impersonale atono plurale lvb. an, grd. n. La maggior parte delle varietà ladine ha sviluppato una serie di pronomi soggetto atona, che negli ultimi secoli sono diventati di uso obbligatorio nei tempi finiti del verbo. Tranne alcune eccezioni, tanto i pronomi soggetto atoni che quelli tonici derivano dalla forma del nominativo del latino protoromanzo. Per il dativo del pronome tonico di I e II persona si usa una forma distinta dall’accusativo, come nel sursilvano e nel friulano: gad. /a mé/, grd., fas., srs., fr. a mi, a ti = lat.prz. */'MI , 'TI /, cf. lat.lett. mihi, tibi. Un fatto curioso è che la forma atona ti, inoltre, si usa in diverse località come dativo della III persona maschile e femminile. I pronomi e gli aggettivi possessivi usano le stesse forme per la terza persona singolare e plurale: ai ó tres dí la süa ‘vogliono sempre dire la loro’. In questo il ladino

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concorda con il latino letterario e con la maggior parte della Romània. Anche le altre varietà retoromanze geograficamente più vicine, quelle del Friuli occidentale e della Val Monastero (ALD-II), si comportano ugualmente.

3.5 Morfologia verbale Come i possessivi, nemmeno le desinenze verbali distinguono la terza persona singolare da quella plurale. A differenza del francese, è l’unico caso in cui la persona è espressa dal pronome soggetto atono. Come nel friulano, invece, le altre persone verbali hanno ognuna la propria desinenza, mentre sono proprio i pronomi soggetto atoni che possono essere omonimi. Per esempio, lvb. i corrisponde a entrambe le prime persone e pure alla seconda plurale, esattamente come accade nel friulano. Il pronome soggetto atono è strettamente legato al verbo anche sul piano formale, perché si trova frequentemente posposto al verbo. L’inversione nella Romània medioevale era un fenomeno diffuso (Vanelli/Renzi/Benincà 1985–1986; Benincà 1994). Nel ladino l’antichità del fenomeno è provata dal fatto che le forme posposte sono diverse da quelle anteposte, sebbene provenienti dallo stesso etimo, cioè si sono fossilizzate. La diversità è dovuta al diverso contesto fonetico in cui le due forme si sono evolute. In alcuni casi muta anche la forma verbale: lvb. 3PL femm. ares cianta vs. cianteres ‘cantano’. Nell’esempio precedente la modifica riguarda il pronome e la desinenza verbale, ma nei verbi irregolari può cambiare anche la radice: per es. in grd. 3PL masc. i ie vs. iesi ‘sono’, la forma inversa conserva la s della radice latina /'ɛs-/. Il ladino mantiene la suddivisione dei verbi nelle quattro classi del latino. Essa è evidente per l’infinito e, con delle convergenze tra le classi, negli altri modi indefiniti. Nei modi finiti c’è una forte tendenza all’analogia e all’unificazione che ha prodotto paradossalmente una nuova suddivisione. Da una parte abbiamo il consolidamento di due suffissi formatisi nel latino (Meul 2009) e applicati dal ladino al presente dei modi finiti, dall’altra parte le originarie coniugazioni senza suffisso convergono. Poiché i suffissi si applicano solo ai tempi presenti, nel resto dei tempi dei modi finiti la convergenza è generale. I due suffissi vengono inseriti tra la radice e la vocale tematica a un numero rilevante di verbi della classe in -a- e della classe in -i-. Si tratta di lat.prz. */-'ɪɪ DZ - A -/, cf. 3SG =PL pres. ind. lvb. dubitëia, grd., fas. dubitea, e di lat.prz. */-'ISC - I -/, cf. 3SG =PL pres. ind. lvb., grd., fas. capësc. È importante notare che i suffissi si inseriscono solo al presente dei modi finiti, cf. inf. pres. lvb. dubité, capí, grd. dubité, capì, fas. dubitèr, capir. Il suffisso */-'ISC - I -/ si trova in tutta la Romània, mentre */-'ɪɪ DZ - A -/, seppure anch’esso molto diffuso, si trova solamente in una lingua di stato: nel romeno. Nel retoromanzo il suffisso è attestato pure nei dialetti del Friuli occidentale e in quelli oggi estinti dell’Istria settentrionale (Fontanot 2010, 32). Nei paradigmi dei verbi senza

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suffisso si avvicendano forme rizotoniche e non, il che ha per conseguenza numerosi fenomeni di alternanza vocalica. I due suffissi funzionano anche per integrare prestiti. Mentre in Badia e in Gardena il suffisso è ancora produttivo, in Fassa e Livinallongo i giovani tendono a non usarlo per i prestiti dall’italiano (Meul 2009, 331). Il ladino non ha conservato il perfetto; tranne l’imperfetto, i tempi passati sono composti con il participio passato. La scomparsa del tema del perfetto e l’azione dell’analogia sui participi hanno ulteriormente unificato i paradigmi verbali, dove ha prevalso il tema del presente. È stata unificata anche la desinenza della I persona plurale, che per tutte le classi continua lat.prz. */-'ƱMUS / > lvb. -un, grd., fas. -on. La desinenza è diffusa in un’ampia fascia a partire dal francese fino ad arrivare ai dialetti estremi del friulano occidentali (Polcenigo, Budoia) e orientali (quelli estinti di Trieste e Muggia). Oggi il ladino usa un futuro sintetico che costituisce un prestito dall’italiano, ma nel passato prevaleva la perifrasi che continuava il lat.prz. */βE ' N - I - RE / + */ AD / + infinito (Bacher 1995[1833], 96 nota 207). Nella fase unitaria, il retoromanzo non aveva formato il condizionale, ma al suo posto impiegava il congiuntivo imperfetto. Oggi lo troviamo solo nel sottosilvano, nel friulano e a Cortina. Il sottosilvano ha creato un nuovo tempo per il congiuntivo a partire dall’imperfetto indicativo, perciò le forme originarie si utilizzano come condizionale. Il friulano, invece, ha creato il nuovo modo sommando il morfema dell’infinito e quelli del congiuntivo imperfetto (Perini 1992). A Cortina pare un prestito di stampo veneziano. Il resto del ladino continua ad usare l’imperfetto congiuntivo. Il passivo si forma con il continuatore di lat.prz. */βE ' N - I - RE /. Nei tempi composti si selezionano gli ausiliari in maniera analoga all’italiano, ma i verbi che nei composti utilizzano come ausiliare il continuatore di lat.prz. *// A 'β-E - RE / lo mantengono anche nelle forme riflessive. Nel ladino, come in tutto il retoromanzo, sono frequenti i verbi con particella o verbi analitici (secondo la denominazione di Vicario 1997). Prevalgono le combinazioni con avverbio (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 4.2; ↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.3), per es. lvb. fá sö, grd. fé su, fas. fèr su, srs. far si, fr. fâ sù ‘costruire; avvolgere (un gomitolo)’, ma possono includere altri elementi, come il sostantivo che significa ‘pegno’: lvb. mëte pënch, grd. mëter pën, fas. meter pegn, srs. metter pag, fr. meti pen ‘scommettere’. Il significato ‘costruire’ è attestato per srs. far si nei testi pubblicati da Tarcisi Hendry (Protocols 1900), il sostantivo pag significa ‘scommessa’.

4 Provenienza del lessico Nel lessico troviamo oggi le maggiori differenze tra i singoli idiomi ladini (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 5; ↗4 Il ladino e i suoi idiomi). Ciò è dovuto da una parte

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alla mancanza di un centro di prestigio riconosciuto da tutte le comunità in seguito alla deladinizzazione di Bressanone nel Basso medioevo, dall’altra all’appartenenza delle singole valli a diverse entità politiche e, quindi, ai loro diversi contatti linguistici. In particolare, Badia e Gardena sono storicamente più legate alla comunità tedescofona del Tirolo, Cortina e il Livinallongo sono più strettamente a contatto con il territorio sotto il predominio linguistico della (distante) Venezia. Fassa si è trovata in una posizione intermedia, con un occhio verso Bressanone e l’altro verso Trento, anch’essa sotto influsso veneziano. Dal punto di vista dell’origine, la maggior parte dei lessemi ladini proviene dal latino. Secondo le stime illustrate da Hans Goebl nelle carte riportate da Videsott (2001a, 157 e 158), i prestiti dal tedesco del Tirolo raggiungono il valore più alto in Gardena e cioè il 13 % (Kuen 1978, 39). Molto più alta è la percentuale dei prestiti attribuibili all’italiano, che va dal 31 % di Gardena al 45 % di Fassa (Videsott 2006, 1745). Le parole di etimo latino, appunto, come in tutte le lingue romanze, non sono tutte parte del patrimonio ereditario. Ci sono i cultismi, arrivati direttamente dal latino dei letterati dall’Alto medioevo in poi. Ci sono poi i prestiti dai dialetti romanzi confinanti, che trasmettono anche innovazioni provenienti dalle pianure dell’Italia del Nord. Pure i prestiti dall’italiano letterario arrivano dapprima come cultismi. Nel XX secolo, dall’italiano letterario si sono formati l’italiano popolare e l’italiano standard, il cui influsso si è fatto particolarmente forte. Il cambiamento della struttura economica della Ladinia e il progresso tecnologico delle comunicazioni hanno determinato dopo la Seconda Guerra mondiale l’affermazione di una nuova civiltà che ha bisogno di una grande quantità di neologismi per denominare le nuove realtà e le nuove attività. Il processo di innovazione si svolge in gran parte attraverso il prestito linguistico dall’italiano standard. In Badia e in Gardena molte innovazioni arrivano dal tedesco standard, non necessariamente come prestiti completi, ma anche come calchi semantici. Tanto l’italiano quanto il tedesco, dal XVIII al XX secolo, veicolarono termini francesi legati alla scienza e all’arte, così come ora veicolano gli anglismi; in alcuni casi il prestito è dovuto al loro influsso parallelo. L’espansione dell’inglese come lingua di lavoro, delle comunicazioni digitali e delle attività del tempo libero è la premessa oggi di prestiti diretti. Mancando la documentazione storica, non è sempre possibile determinare quale percorso abbia fatto un elemento latino per arrivare al ladino contemporaneo. A complicare il quadro ci sono inoltre i cavalli di ritorno romanzi: parole romanze entrate nel tedesco, scomparse nel ladino e riprese come prestiti tempo dopo. Documentati sono, invece, i neologismi preparati dai lessicografi contemporanei nei programmi di rafforzamento della lingua, in particolare di quelli impegnati nello sviluppo del ladin dolomitan.

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4.1 Il patrimonio ereditario latino Nel latino protoromanzo della zona di formazione del ladino erano presenti parole provenienti dal sostrato e alcune sono sopravvissute fino a oggi. Si tratta soprattutto di termini legati alla natura locale e alle attività economiche più antiche della regione. Una manciata di termini prelatini è ristretta alla Ladinia, per es.: grd. maruc, fas. maraut ‘mucchio’, lvb., grd. nida ‘latticello’. Un’altra manciata è comune all’area che arriva fino al friulano, in particolare alle varietà alpine: lvb., grd., fas. croda, fr. crode, ‘guglia dolomitica’, lvb. sala, grd. salea (Videsott 2018b), fas. salaa, fr. /śála, salára/ (ASLEF, n. 4088) ‘doccia, grondaia’, lvb., grd., barantl, fas. baranchie, fr. barancli, ‘pino mugo’, lvb. dlasena, fr. glasine ‘mirtillo’, lvb., grd., fas. brama, fr. brame (Pirona/Carletti/Corgnali 1935, 1342) ‘panna’. Un importante astrato del latino protoromanzo aquileiese era quello greco: lvb., grd. tof, fr. tuf ‘odore’, fas. tof ‘afa’ cf. greco τῦφος ‘fumo, vapore, odore’ (EWD). Più numerosi sono i prestiti prelatini conservati nel ladino che, considerando l’area attuale di diffusione dei succedanei romanzi, furono correnti nel latino protoromanzo di tutta l’Italia settentrionale e spesso anche della Gallia transalpina. Qualche esempio: lvb., grd., brënta, fas. brenta ‘abbeveratoio; bigoncia’, lvb. dra, grd. drac, fas. dré ‘setaccio’, lvb., grd. tamëisc, fas. tamëis ‘setaccio’, lvb., fas. (EWD) grava, grd. grèva, ‘superficie ghiaiosa’, lvb., grd. puina, fas. poìna ‘ricotta; pecorino’, lvb., liösa, grd. luesa, fas. lesa ‘slitta’, fas. tieja ‘baita’, lvb. tru, grd., fas. troi ‘sentiero’. Vista l’area di diffusione attuale, sono in genere ritenuti prestiti celtici; in parecchi casi è stata effettivamente ricostruita una radice attestata nelle lingue celtiche. Uno studio approfondito sui celtismi si deve a Grzega (2001), Gsell (1997) ha descritto la tipologia del lessico condiviso tra Francia e Italia del Nord. A differenza dei termini citati prima, tipici delle Alpi Orientali, non è necessario pensare che il prestito sia avvenuto localmente: il prestito può essere avvenuto altrove ed essersi diffuso all’interno della comunità linguistica latina. Esaminando il lessico proveniente direttamente da etimi attestati anche nel latino letterario oppure da essi derivato nell’ambito del latino protoromanzo, troviamo che anche in questo caso il ladino concorda con parte dell’Italia settentrionale e spesso KU̯ - AN - A / > lvb., grd. gana, con la Gallia transalpina. Ecco alcuni esempi: lat.prz. */A ' KU fas. vivèna (essere mitologico), lat.prz. */'' KANT -ɪ K - A / > lvb., grd., fas. ciantia ‘canzone’, lat.prz. */'' DALMAT - A / > lvb. dermena, fas. dèrmena ‘zoccolo’, lat.prz. */S ɪ' K -ɪ L A / > lvb. sojora, grd. sëijela, fas. sesla ‘falcetto’, lat.prz. */S ɪ L ' β-- AN - U / > lvb., grd., fas. salvan (essere mitologico), lat.prz. */SO ' L -ɪ K - UL - U / > lvb. sorëdl, grd. surëdl, fas. soreie ‘sole’, lat.prz. */'' TƆLL - E - RE / ‘sollevare’ > lad. ‘prendere’, lat.prz. */TƱM ' β-- A RE / > lvb. tomé, grd. tumé ‘cadere’. Interessante l’evoluzione di due avverbi che hanno prodotto in tutto il retoromanzo due particelle impiegate in frasi interrogative, esclamative e dichiarative: lat.prz.

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*/'PƆS / (cf. lat.lett. post) > po, pu, pa, lat.prz. */'MƆDO / > mo. Un contributo recente sui continuatori del primo etimo è stato scritto da Dohi (2017). Con l’inizio della toscanizzazione della pianura a Nord del Po nel Basso medioevo, che si manifesta soprattutto nella fonologia e nella morfologia, ha senso parlare di una separazione tra il lessico ladino e quello dei vicini meridionali. Da allora riconosciamo i fenomeni di prestito sulla base dell’aspetto fonetico; negli esempi seguenti si vede la mancata palatalizzazione di lat.prz. */ka/ > lad. cia: lvb., grd., fas., fr. bacan ‘contadino ricco’, lvb., grd., fas. calonia ‘canonica’.

4.2 Gli elementi germanici Pur tenendo presente che già il latino protoromanzo utilizzava alcune parole di origine germanica, dall’Alto medioevo parliamo di una convivenza del retoromanzo con l’alto tedesco. Anche per i prestiti germanici, comunque, spesso non è facile ricostruire con precisione il percorso che fecero per integrarsi nel ladino. Per esempio grd., fr. crot ‘rana’ può venire tanto da aat. krot, come dal bavarese contemporaneo Krott (ma in quel caso si tratterebbe di due prestiti paralleli, successivi alla frammentazione del retoromanzo). Già nel latino protoromanzo potevano essere entrati: lvb. bla, grd. blava, fas. bièva ‘cereale’ (da */'BLADA / senza la II rotazione consonantica), lvb. bröm, grd. brum, fas. brun ‘blu’, lvb., grd., fas. bosch ‘bosco’, lvb. sciadá, fas. sciadas ‘matterello’, grd. sciadon ‘cucchiaio’, lvb. tröp, grd. truep, fas. trop ‘molto’. Un certo numero di germanismi attribuiti all’Alto medioevo sono tipici dell’Italia del Nord: lvb., grd. berba, fas. bèrba ‘zio’, lvb., grd. brëia, grd., fas. brea ‘asse di legno’, lvb., grd., fas. paissa ‘esca’. Altri sono esclusivi della Ladinia, non ci sono nemmeno nel romancio né nel friulano, perciò è probabile che si tratti di prestiti locali: lvb. lëde, grd. liede, fas. ledech ‘libero’, lvb., grd. messëi ‘dovere’ (verbo), lvb., grd., miné ‘ritenere’, grd., fas. rocia ‘gonna’, lvb., grd. sterch ‘forte’. Ecco alcuni esempi attribuibili al pieno medioevo e all’Età moderna: lvb., fas. ombolt, grd. ambolt ‘sindaco’, grd. becher, fas. beicher ‘sveglia’, lvb. chefer, grd. chëifer, fas. cheifer ‘coleottero’. Tra di essi anche cavalli di ritorno romanzi: lvb. moaster, grd. moster ‘mastro’ (ma fas. maester), lvb., grd. tofla ‘lavagna’ (ma fas. tabela). Alcuni prestiti paralleli in romancio e friulano: lvb., grd., fas., fr. paur, srs. pur ‘contadino’, lvb., grd., fas. pech, fr. pec ‘fornaio’, lvb., grd. rucsoch, fas. russoch, fr. russac ‘zaino’ (dal servizio militare?).

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4 Il ladino e i suoi idiomi Abstract: In questo capitolo si illustrano le suddivisioni interne al gruppo ladino. Dopo aver sottolineato la posizione particolare dell’ampezzano (appartenente linguisticamente al gruppo cadorino), si mostra che le restanti varietà sono separate da tre diverse linee di demarcazione che si sovrappongono: una linea di origine altomedievale che corre da nord a sud, dividendo Fassa e Gardena da Badia e Fodom; una da ovest a est, più recente, che isola il ladino settentrionale (valli di Gardena e Badia) dal ladino meridionale; e infine una linea circolare che separa le varietà centrali da quelle periferiche. Nella seconda parte del capitolo sono discusse le differenze fonologiche, morfologiche, sintattiche e lessicali che caratterizzano ogni varietà di valle e anche le parlate locali (di singoli paesi o sezioni vallive), quando queste si distinguono dalle varietà circostanti. Il capitolo si chiude con un riferimento all’applicazione del metodo dialettometrico alla classificazione interna del ladino.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, classificazione dialettale, isoglosse, linguistica interna, dialettometria  

1 Introduzione Il ladino brissino-tirolese è parlato in cinque vallate dolomitiche attorno al massiccio del Sella. Ognuna di esse ha sviluppato una sua propria parlata, che può essere considerata come un dialetto del ladino, perché è caratterizzata da peculiarità fonologiche, morfologiche, sintattiche e lessicali. In Val Badia e in Val di Fassa si parlano diverse sottovarietà di ladino, mentre il gardenese, l’ampezzano e il livinallese sono ampiamente omogenei al loro interno. Questo capitolo è dedicato alla descrizione della suddivisione interna del ladino, e comprenderà sia le caratteristiche delle bipartizioni interne (ladinità atesina vs. cadorina; ladinità isarchese vs. pusterese; ladinità settentrionale vs. meridionale), sia quelle delle singole varietà. Inoltre, nel caso del gaderano e del fassano saranno discussi anche i tratti distintivi delle singole sottovarietà.

https://doi.org/10.1515/9783110522150-005

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2 Breve rassegna degli studi su singole varietà dialettali Le varietà ladine sono documentate in numerosi lavori, da cui sono tratti i dati citati in questo capitolo. Per motivi di spazio, in questa sezione si elencano solo gli studi descrittivi o di analisi (non normativi o con scopo didattico) dedicati principalmente a una singola varietà (o sottovarietà). Non sono invece citati gli studi che considerano determinati fenomeni in ottica comparativa, o che trattano del ladino in generale. Per la copertura con atlanti linguistici e banche dati elettroniche ↗18 Atlanti linguistici, corpora, bibliografie. Per quanto riguarda studi e monografie su singole varietà, il gardenese è la parlata che è stata descritta per prima: la più antica grammatica di una varietà ladina, scritta da Josef David Insam agli inizi dell’800 (inedita; cf. P. Videsott 2013), è dedicata al gardenese, così come quella di Vian (1864). Anche nel periodo successivo all’introduzione della metodologia scientifica nella linguistica il gardenese è stato studiato per primo: la monografia sul gardenese di Gartner (1879) è la prima analisi scientifica di una singola varietà romanza non letteraria. In seguito, il gardenese è stato descritto in Bammesberger (1974). Per il lessico sono fondamentali le opere di LardschneiderCiampac (1933) e Forni (2013, anche in rete), per la morfologia Siller-Runggaldier (1989) sulla formazione delle parole e i vari articoli di Belardi su singoli punti di fonologia e morfologia. Infine, il gardenese è stato anche la prima varietà a essere descritta sintatticamente: la tesi inedita di Lardschneider (1909), sotto la direzione di W. Meyer-Lübke a Vienna, è dedicata interamente alla sintassi del gardenese. Una seconda tesi sulla sintassi del gardenese è Perathoner (1969/1970), discussa a Padova sotto la direzione di C. Tagliavini, mentre i lavori di Siller-Runggaldier (1985; 1993; 2012) e di Casalicchio (2011; 2015; 2016b; 2017) discutono ognuno un singolo fenomeno sintattico. Infine, Bauer (2014) è uno studio dialettometrico della posizione linguistica del gardenese nel contesto italiano settentrionale e in quello ladino. Il gaderano è alla base della grammatica prescientifica di Micurá de Rü/Nikolaus Bacher (la più antica grammatica che sia stata anche pubblicata, Bacher 1995[1833]), che però propone una varietà di koinè, in cui confluiscono, oltre al badiotto e al marebbano, anche forme provenienti dalle altre valli ladine. In seguito, Kuen (1935) ha gettato le basi per lo studio della suddivisione interna al gaderano. La fonologia (vocalismo) è poi trattata in Craffonara (1977), uno studio che prende in considerazione tutte le varietà ladine ma è centrato principalmente sulle varietà gaderane. Il lessico del badiotto è trattato in Pizzinini/Plangg (1966), quello del marebbano in Videsott/Plangg (1998), quello della variante standard in Mischì (2000) e Moling et al. (2016, anche in rete). Alcuni fenomeni sintattici sono trattati nelle tesi padovane di Rigo (1958/1959), Valentin (1998/1999) e Irsara (2001), e nello studio di R. Videsott (2013). Thiele (2001; 2001–2002) e Casalicchio/Cognola (2018; in stampa) considerano invece sia il gaderano, sia il gardenese, tenendoli però distinti. Infine, esistono alcuni

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studi specifici sul marebbano: Mair (1973) sulla morfologia, Kuen (1980–1981) sul lessico e il citato Videsott/Plangg (1998), che nell’introduzione descrive le differenze principali tra marebbano e varietà della Val Badia. Il fassano è descritto nelle fondamentali monografie di Elwert (1943), basata su fonologia, morfologia e lessico del cazét ma che considera anche le varianti brach, e Heilmann (1955), che tratta la fonologia del moenese. Specifici fenomeni morfologici e sintattici del fassano sono descritti in Chiocchetti (1992; 2001; 2002–2003), Rasom (2003; 2006; 2008), Hack (2012) e Dohi (2017; 2019). Il lessico è raccolto nei vocabolari di De Rossi (1999[1914]) per il brach, Mazzel (1976) per il cazét, Dell’Antonio (1973) per il moenese. Il dizionario più recente è il DILF (anche in rete), che è la base lessicale per il fassano standard (basato sul cazét) ed è giunto alla terza edizione nel 2013. Infine, si segnalano i lavori di Ghetta (1987) e Chiocchetti (2007) per lo studio della storia del popolamento del fassano (fondamentali per capire i rapporti diacronici tra le diverse varietà fassane e anche tra queste e le altre varietà ladine). La varietà fodoma (o livinallese) è stata descritta nella grammatica di Pellegrini (1974) e, per il lessico, da Tagliavini (1934), Pallabazzer (1980) e dai dizionari di Pellegrini (1973) e Masarei (2005), mentre la fonologia è stata oggetto degli studi di Toth (1988; 1993). Marcato (1987) è invece un’analisi della formazione del plurale. Pur non essendo incentrata esclusivamente sul fodom, si segnala anche la monografia di Pellegrini (1954/1955) sulla fonologia delle varietà dell’Agordino, in cui sono trattati anche il livinallese e il collese. Una breve descrizione del collese è anche presentata in Bernardi/Videsott (2011), che riportano alcuni tra i testi più antichi di Colle Santa Lucia. Alla sintassi, poco o nulla studiata, è dedicata solo l’analisi dei costrutti percettivi (Casalicchio 2013; 2016b, in cui si considerano i costrutti percettivi di gardenese e fodom). L’ampezzano, infine, è stato trattato nelle grammatiche di Apollonio (1930) e del Comitato grammatica Regole d’Ampezzo (Cancider et al. 2003) e in uno studio di Vanelli (2008) sulla morfologia del plurale. Si segnala inoltre il contributo di Zamboni (1984) che pur essendo dedicato ai dialetti cadorini in generale tratta anche dell’ampezzano. Il lessico ampezzano è invece stato studiato da Majoni (1929), e il dizionario dell’ampezzano è stato pubblicato, con varie edizioni, dal Comitato del vocabolario delle Regole d’Ampezzo (1997). I dati citati in questo articolo sono stati in genere ricontrollati sull’ALD-I (fonologia e morfologia) e ALD-II (morfologia e sintassi), per verificare la possibilità di innovazioni recenti. Il lessico è stato ricontrollato, oltre che sui dizionari in rete delle diverse varietà, anche nella banca dati BLAD. I dati delle parti fonologiche sono stati resi omogenei utilizzando il sistema di trascrizione usato correntemente nella rivista Ladinia (↗0 Introduzione). Per la parte morfologica, sintattica e lessicale mi sono basato sulle regole ortografiche delle singole varietà.

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3 L’area ladina e le sue suddivisioni interne 3.1 I confini dell’area ladina L’area ladina è chiaramente delimitata a nord e nordovest dal confine linguistico con le varietà tedesche (tirolesi) parlate nelle zone attigue: in Val Badia i primi due paesi all’imbocco della valle, Onies e Mantana, sono tedescofoni, mentre il successivo comune di Marebbe è ladino. Anche in Val Gardena la parte bassa della valle, con il paese di San Pietro in valle (comune di Laion), è tedescofona; l’area ladinofona comincia nella parte centrale, che coincide con l’area più aperta dell’intera valle. A sud il confine tra ladino e varietà italoromanze è più sfumato, vista la comune appartenenza alla famiglia romanza e gli influssi da sud a cui sono maggiormente sottoposte le varietà ladine meridionali. In area fassana, Heilmann (1955) ha mostrato come il confine tra ladino fassano e trentino (fiemmese) corra tra il paese di Moena (ladino) e la sua frazione di Forno, in cui si parla già un dialetto fiemmese. In Veneto la delimitazione è più complessa, perché ai criteri puramente linguistici (di linguistica interna) si sovrappongono criteri sociolinguistici (linguistica esterna), che tengono conto della storia e della cultura dell’area. Dal punto di vista della descrizione linguistica, la varietà di Fodom/Livinallongo è ladina, mentre le parlate della Val Pettorina (Laste e Rocca Pietore) e il collese (parlato a Colle Santa Lucia) rappresentano dei dialetti di transizione tra il gruppo ladino e quello agordino (Pellegrini 1954/ 1955; 1979). Questa varietà, così come quella di Cortina, è però considerata ladina a causa dei legami secolari che i due paesi hanno avuto con il principato vescovile di Bressanone e con la contea del Tirolo (↗0 Introduzione). Nel periodo di dominazione asburgica i due paesi hanno sviluppato strette relazioni economiche e culturali con le altre valli ladine. La Val Pettorina, invece, che fino al XIV secolo apparteneva al principe vescovo di Bressanone insieme a Fodom, fu poi aggregata politicamente all’Agordino, e quindi rafforzò i suoi orientamenti culturali ed economici verso sud. Al suo interno, la divisione principale dell’area ladina consiste nella separazione tra la ladinità atesina e quella cadorina, che separa l’ampezzano e in parte il collese (cadorino) dalle altre varietà (per l’elenco delle differenze tra i due gruppi cf. infra, cap. 4.5 dedicato all’ampezzano). Il restante territorio ladino (appartenente alla ladinità atesina) è percorso da due linee di separazione che si intersecano perpendicolarmente: la prima, più antica, corre da nord a sud e rispecchia l’antico confine tra i comitati di Norital e di Pustrissa (cf. infra, cap. 3.2). La seconda, più recente, corre da est a ovest e separa le varietà in cui prevale il contatto con le varietà tedesche da quelle in cui prevale il contatto con le varietà italoromanze (cf. infra, cap. 3.3). Infine, si può contrapporre un’area centrale, più innovatrice e al contempo meno influenzata dagli influssi provenienti dalle varietà non ladine, a un’area marginale, più esposta agli influssi delle varietà vicine (cf. infra, cap. 3.4).

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3.2 La suddivisione interna est-ovest La bipartizione interna più antica è legata alle dinamiche che hanno portato al popolamento delle valli ladine in epoca storica. Infatti, a partire dagli studi di Battisti e dei suoi allievi (si vedano tra gli altri Battisti 1931; 1938; 1941; Gerola 1938; 1939) si suppone che la colonizzazione interna dell’area dolomitica sia avvenuta lungo due direttrici: la prima proveniente dalla Val d’Isarco (dalle aree di Luson, Laion, Albes, Castelrotto e Siusi), che percorse la Val Gardena e superò in vari punti anche lo spartiacque. Gli insediamenti isarchesi raggiunsero infatti Colfosco, in Val Badia, l’intera Val di Fassa (attraverso il passo di Costalunga), e da lì anche l’area occidentale di Fodom. Inoltre, anche il territorio di San Martino in Badia (di antico popolamento, Craffonara 1998a) faceva parte dell’area isarchese, nonostante sia separato da essa dal passo delle Erbe. La seconda direttrice di colonizzazione sarebbe invece partita dalla Pusteria, attraverso la valle di Marebbe e la media Val Badia, risalendo l’intera valle (tranne Colfosco), e scendendo poi in Fodom attraverso i passi di Incisa e Campolongo. La conca ampezzana, infine, fu colonizzata dal Cadore. La linea di demarcazione tra i tre movimenti colonizzatori è probabilmente collegata ai confini medievali tra la contea del Nurital, incentrata sulla Val d’Isarco, e quella di Pusteria (Pustrissa), il cui nucleo era la Val Pusteria centro-orientale. Il confine è documentato per la prima volta in un documento del 1002 o 1004 (Craffonara 1998b), ma è probabilmente più antico e potrebbe addirittura risalire, almeno in parte, al confine imperiale tra Rezia e Norico. La datazione della colonizzazione interna è stata a lungo discussa dagli studiosi di diversi orientamenti. La proposta di Battisti, portata avanti anche dalla sua scuola, fa riferimento al periodo bassomedievale (con l’esclusione di alcune aree, come Marebbe, per cui si ammette la possibilità che i primi stanziamenti stabili siano databili all’VIII secolo, Battisti 1938, 188s.). I principali argomenti citati da Battisti e dai suoi allievi a favore di quest’ipotesi erano tre: la mancanza di ritrovamenti archeologici che dimostrino inconfutabilmente una continuità di insediamento; la mancanza di toponimi preromani nell’area; e la mancanza di documentazione scritta che testimoni la presenza di insediamenti in epoca romana e altomedievale. Le ricerche successive hanno però portato alla luce numerose testimonianze archeologiche e la presenza di diversi toponimi di origine preromana, che hanno portato a rivedere la datazione proposta da Battisti. Dall’altra parte, non si può nemmeno presumere una continuità di insediamento, dall’epoca preromana ad oggi, per tutte le località ladine. Ghetta (1987) e Craffonara (1998a) apportano varie prove a favore di una colonizzazione in due fasi: la prima risalirebbe perlomeno all’età tardoantica e avrebbe coinvolto solo le aree più favorevoli – per condizioni climatiche e configurazione del territorio – al popolamento. Si tratta soprattutto della valle di Marebbe e della bassa Val Badia (anche in virtù della vicinanza con il centro romano di Sebato), dell’area attorno a Vigo di Fassa e forse dell’area di San Giacomo, in Val Gardena. A favore di questa ipotesi si citano, tra gli

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altri, la presenza documentata di numerosi vici nel marebbano, in bassa Val Badia e in Val di Fassa (Vich/Vigo di Fassa), le tracce dell’attività di agrimensura romana testimoniate dalle viles in Val Badia e dal toponimo Gaidra/Gader/Gheder (< lat. QUADRA , attraverso *kái ̯dra > *ká:dra > *kè:dra, Craffonara 1998a, 75) e la presenza di chiese consacrate a santi che rimandano al periodo tardoantico (come san Giacomo Maggiore, san Valentino di Rezia o San Leonardo, Craffonara 1998a, 103). Specificamente per la Val di Fassa, inoltre, Ghetta (1987) osserva che la data della festa di «santa Giuliana vecchia» fa riferimento al martirologio geronimiano. Questo indica che vi era in valle una comunità cristiana organizzata prima che la diocesi di Sabiona fosse trasferita dal Patriarcato di Aquileia all’arcidiocesi di Salisburgo (798 d.C.), dove vigeva il martirologio romano. La seconda fase colonizzatrice, invece, sarebbe avvenuta dopo l’anno 1000 e avrebbe coinvolto le aree restanti, che sono più impervie o di altitudine elevata. Va sottolineata una differenza importante tra la colonizzazione avvenuta nelle aree isarchesi e quella nelle aree pusteresi: le aree dolomitiche appartenenti al Nurital erano unite non solo politicamente, ma anche linguisticamente, al restante versante sinistro della Val d’Isarco: la Val d’Ega, l’Altopiano di Siusi con Castelrotto, Laion, Funes, Gudon, Albes, Eores e Luson a quell’epoca erano ancora a grande maggioranza di lingua romanza. In particolare, in questi secoli la Val Gardena appare strettamente legata prima ad Albes e poi a Laion, dalle cui parrocchie dipenderà fin verso la fine del medioevo. Le aree di Gardena, Fassa, Colfosco e San Martino facevano quindi parte di un’unità più grande, in cui si parlavano delle varietà romanze affini. Dall’altro lato, la Val Pusteria era probabilmente già stata germanizzata, salvo poche isole residue in cui sopravvivevano le varietà romanze, per cui l’area dolomitica della contea pusterese si sviluppò autonomamente, da un punto di vista linguistico. Nell’XI secolo sia il Nurital, sia Pustrissa, diventarono feudi del principe vescovo di Bressanone. Quest’unificazione portò a un graduale adattamento dei confini amministrativi con quelli geografici, e di conseguenza anche a un conguaglio tra le diverse varietà delle singole valli. In particolare, in Val Badia le parlate di San Martino e di Colfosco nel corso dei secoli si sono orientate chiaramente verso le altre varietà gaderane. Oggi nelle loro parlate permangono alcuni sparuti elementi che potrebbero risalire all’antica divisione tra l’area del Nurital e quella di Pustrissa, in particolare a Colfosco, che dipese amministrativamente dalla Val Gardena fino al 1828. La sua parlata era fortemente impregnata di elementi gardenesi, oggi andati persi quasi completamente (cf. infra, cap. 4.1.2.4). Tuttavia, è difficile trovare dei riflessi di questo antico confine, perché la mancanza di documenti di una certa lunghezza prima del 1800 rende spesso incerta la datazione di un determinato fenomeno. Ad ogni modo, anche se risalgono a un’epoca in cui l’antico confine tra l’area occidentale e quella orientale non era più in vigore, la presenza di fenomeni comuni a una sola di queste due parti testimonia comunque il perdurare di relazioni più strette tra le varietà che furono colonizzate dalla stessa

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area. In letteratura, si trovano quindi citati i seguenti fenomeni che sono forse ricollegabili all’antica divisione: – l’allungamento delle vocali in sillaba aperta nei parossitoni ladini (sviluppatisi da parossitoni mantenutisi tali e da proparossitoni con caduta della vocale finale), che ha causato l’innalzamento di a > è (in gardenese poi passata a é, cf. infra, cap. 4.2) e il dittongamento delle vocali medie. Quest’esito accomuna gardenese e fassano (Kuen 1923; Battisti 1926): PALA > grd. péla fas. pèla vs. bad. pà:ra liv. pàla; SEDECIM > grd. sëjdəš e caz. bra. sèjdeš vs. mar. sèdeš, bbad. sëdəš, abad. sadəš, moe. amp. sédeš, liv. sădeš, col. ṣédeṣ (‘sedici’). Questo allungamento secondario è avvenuto tra la fine del ’500 e il ’600, quindi in un’epoca posteriore alla confinazione medievale. È interessante però notare che la palatalizzazione di a avvenne nello stesso periodo in gardenese e fassano, ma più tardi che per es. in gaderano (Kuen 1923; Battisti 1926). Ciò potrebbe indicare che Fassa e Gardena a quell’epoca mantenevano ancora dei rapporti privilegiati, in seno al gruppo ladino; – secondo Craffonara (1998a) potrebbero essere collegate all’antico confine le differenze nell’esito di lat. RADĪCEM : nelle varietà orientali, il termine ha mantenuto la posizione originaria dell’accento sulla -i-, mentre l’accento è risalito sulla prima sillaba nelle varietà occidentali. Abbiamo infatti mar. raì:š (attraverso la trafila RADĪCE ( M ) > *raδì:š > *raβì:š > raì:š), presente in questa forma anche a La Valle e in alta Badia, così come collese raìś, amp. e cador. radìś, comel. radrìś. Nel basso badiotto e nelle altre varietà ladine è avvenuto invece la fusione in un dittongo delle due vocali adiacenti, con arretramento dell’accento: a Rina rèiš, a San Martino rëiš, fas. rèiš, livinall. réiš (Craffonara 1998a, 146). Significativamente, l’ALD-I dimostra che l’arretramento dell’accento si osserva anche a Colfosco (ràiš), che apparteneva all’area del Nurital, nonostante il gardenese ricorra a una forma diversa (ravìsa); – la preponderanza del plurale -es nei maschili che terminano in -m, -č, -š, -f, -p, e -r in gardenese e fassano, rispetto a -s, -i o invariato del badiotto, marebbano e fodom: fas. vérm - vérmes grd. ierm, iermes vs. liv. vierm, vierm ‘verme/i’; fas. pec, péces, grd. pëc, pëces vs. bbad. liv. pëc, pëc ‘abete/i rosso/i’; fas. e grd. busc, bujes vs. bad. büsc, büsc, liv. busc, busc ‘buco/chi’; fas. chér, chéres, grd. cuer, cueres vs. bad. l cö:r, i cö:rts, liv. l cuòr, i cuòr ‘cuore/i’. Anche in questo caso si tratta di una differenza più recente (Chiocchetti 2001); – il plurale sigmatico del lat. -ATUS accomuna il marebbano al comelicano, friulano e in parte anche al cadorino, separandolo dal resto del ladino brissino-tirolese (dove il plurale è in -i). Il plurale di PRATUS è quindi mar. pré:s, comel. pràs, ma bad. prà, grd. préi, fas. pré, liv. prèi (derivati da una forma più antica *pra(d)i); il plurale di PORTATUS mar. porté:s, comel. purtàs vs. bad. portà, grd. purtéi, fas. porté, livinall. portèi (Craffonara 1998a, 145). Si noti però che in questo caso l’alto badiotto e le varietà ladine della provincia di Belluno si comportano come le varietà occidentali, e quindi è difficile stabilire se questa divisione sia riconducibile al confine tra Nurital e Pustrissa.

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3.3 La distinzione nord-sud All’antica distinzione est-ovest, risalente all’epoca della colonizzazione, si sovrappone una distinzione più recente tra varietà settentrionali e meridionali. Diversamente da quella, che è rintracciabile soprattutto nella fonologia e morfologia flessiva, quest’ultima è più marcata a livello morfosintattico e lessicale. Uno dei fattori principali per la demarcazione tra varietà settentrionali e meridionali è il ruolo del contatto con le varietà tedesche: le valli settentrionali (Gardena e Badia) sboccano in territori tedescofoni, e quindi hanno subito un forte influsso dei dialetti tirolesi. Nelle valli meridionali (Fassa, Fodom e Ampezzo), invece, l’influsso tedesco, pur essendo presente fino al 1918, è stato meno pervasivo. Viceversa, le valli meridionali risentono più fortemente dell’influsso delle vicine varietà italoromanze, mentre nelle valli del nord è più limitato (ma comunque presente); anche in questo caso il lessico e la morfosintassi appaiono particolarmente colpite. In ambito lessicale, si hanno i casi in cui i due gruppi di varietà usano due basi diverse, entrambe provenienti direttamente dal latino; in altri casi le varietà del nord usano un germanismo, o quelle del sud un prestito dalle varietà italoromanze. Il diverso orientamento è soprattutto evidente nei neologismi, dove le varietà del nord e del sud presentano rispettivamente un germanismo e un italianismo (cf. Goebl 1999; Videsott 2001; Videsott 2006). I diversi casi si possono esemplificare nel seguente modo (↗14 Il plurilinguismo dei ladini e le languages in contact nell’area ladina, cap. 3): – l’alternanza tra due etimi ereditari riguarda per es. i termini per ‘rosso’, ‘nero’, ‘udire’ e ‘albero’: per il primo si usa la base COCCINUM (< greco κόκκινος, ‘color scarlatto’) a nord (per es. bad. cöce), RUSSUM a sud (lad. ros). Il termine ros esiste anche in gardenese e gaderano, ma ha preso il significato di ‘marrone’. Dall’altro lato, COCCINUM si trova nella toponomastica delle valli meridionali, il che dimostra che questo termine un tempo era diffuso in tutta la Ladinia. Per il colore nero le due basi alternative sono FUSCUM (grd. e gad. fósch) e NIGRUM (fas. nèigher, liv. néigher, amp. négro). Il primo termine sopravvive in fassano e livinallese con il significato ‘scuro’, mentre NIGRUM si trova nella toponomastica della Val Badia (per i termini dei colori in ladino si veda Kuen 1978b). Le basi per ‘udire’ sono AUDIRE (grd. audì, gad. aldì) vs. SENTIRE (liv. e amp. sentì, fas. sentir). Audì è in uso in Fodom come sostantivo (‘la diceria, il sentito dire’), mentre grd. sentì e gad. sintì sono usati esclusivamente per ‘sentire con il tatto’. Sul mantenimento della differenza potrebbe aver influito il tedesco, dove si hanno due termini diversi per ‘sentire con il tatto’ e ‘sentire con l’udito’. Infine, la base ARBOREM per ‘albero’ è scomparsa dalle varietà settentrionali, dove LIGNUM ha esteso la sua accezione: caz. e liv. èlber, bra. e moe. alber si contrappongono a grd. lën, bad. lëgn. Tutte le varietà usano LIGNUM per ‘legno’ e ‘legna’; – il diverso peso dei germanismi è rispecchiato sia dalla loro percentuale sul lessico totale, sia dalla loro diversa età media. Secondo le cifre fornite da Kuen (1978a),  

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nel vocabolario gardenese di Lardschneider-Ciampac si troverebbero 845 germanismi (il 13 % del totale). In badiotto i germanismi sarebbero 677, in livinallese 270 (Kuen non indica la percentuale sul totale). Per quanto riguarda l’età dei prestiti, Kuen indica che il gardenese possiede 90 germanismi «antichi» (ossia il 10 % sul totale dei germanismi), il badiotto 80 (il 12 %), il livinallese 50 (il 18 %), il fassano 40 (non è possibile calcolare la percentuale perché mancano informazioni sul numero complessivo di germanismi in fassano), cf. Kuen (1978a, 39–40). Gli esempi di germanismi presenti solo nelle varietà settentrionali sono numerosi. Si tratta di sostantivi, come grd. rèhl, gad. rè:hl (< ted. Reh, ‘cerbiatto’), grd. stuep, bad. stöp (< abav. stoup, ‘polvere’); verbi, come grd. bad. miné (< abav. meinon ‘essere dell’opinione’), grd. ulghé, bad. olghè (< abav. volgen, ‘ubbidire’), aggettivi, come grd. ghiel (dal ttir. isarchese gèal), bad. ghè:l e mar. ghé:l (dal ttir. pusterese gèlə), ‘giallo’. Sono inoltre calchi dal tedesco molti costrutti formati da un verbo e un elemento locativo (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 4.2; ↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 3.5). Il costrutto in sé è presente in tutto il nord Italia, e più limitatamente anche in italiano (espressioni come andar via, portar fuori, dare indietro, cf. Cordin 2011). La sua esistenza in ladino non è dunque ascrivibile all’influsso tedesco (cf. Bidese/Casalicchio/Cordin 2016), ma la maggiore frequenza con cui si ritrovano espressioni di questo tipo in ladino è sicuramente dovuta al contatto con il tedesco. Alcuni esempi, formati con il verbo dé (‘dare’) e calcati sul tedesco, sono grd. gad. dé pro ‘ammettere (un errore)’ (< ted. zugeben); grd. dé su gad. dé sö ‘rinunciare’ (< ted. aufgeben); grd. gad. dé tres ‘trasmettere (per es. attraverso la radio)’ (< ted. durchgeben). I calchi dal tedesco sono presenti, ma in misura decisamente minore, anche nelle varietà meridionali (e talvolta anche nei dialetti trentini), come il ted. aussehen (lett. ‘guardare fuori’ per ‘avere un certo aspetto’), realizzato come grd. cialé ora, gad. ciaré fora, liv. cialé fòra, fas. vardèr fòra, amp. vardà fòra (ma anche trentino vardàr fòra, cf. Bidese/Casalicchio/Cordin 2016); viceversa, i prestiti dalle varietà italoromanze sono più numerosi nelle parlate meridionali. Sulla base dei dati dell’ALD-I, Videsott (2006) mostra che in livinallese il 41 % del lessico è composto da prestiti da altre varietà romanze, in badiotto il 36 % e in gardenese il 31 %. Per il fassano, per cui non esiste un dizionario etimologico dedicato, Videsott stima la percentuale di prestiti romanzi in 45 % circa. Tra il fassano e il gardenese, quindi, ci sarebbe uno scarto del 15 % circa. Alcuni prestiti dalle varietà italoromanze che si trovano esclusivamente al sud sono fas. liv. col. scartòz amp. scartòzo (‘sacchetto di carta, cartoccio’, dal veneto o trentino); fas. liv. col. piat, amp. piato vs. grd. taier, gad. taì (corrispondente all’italiano tagliere) per ‘piatto’; fas. liv. e amp. ghiro vs. grd. durmiëdl, bad. dormiadl (< durmì ‘dormire’), fas. liv. col. amp. masćio (con l’esito settentrionale tš da -CL - in MASCULUM ), vs. grd. gad. mandl (< ttir. mandl) per ‘maschio’; un ambito in cui il diverso influsso di italiano e tedesco è particolarmente evidente riguarda i neologismi. Accanto alle formazioni interne del ladino (piutto-

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sto rare ma esistenti; si pensi a fonin ‘telefono cellulare’ e grd. gad. joler fas. jolier ‘elicottero’, dal grd. julé, bad. joré ‘volare’ – il fassano ha invece sgolèr), molti neologismi vengono presi in prestito dal tedesco in gardenese e (in misura minore) badiotto, dall’italiano nelle varietà meridionali. Tra i numerosi esempi si possono citare grd. fliegher bad. fligher (< ttir. Fliəger, ted. Flieger) vs. fas. liv. aereo, grd. e bad. patrì (< ttir. patrì:, cf. ted. Batterie), mentre l’italianismo bateria/bataria si trova in tutte le varietà, anche se è meno frequente nelle varietà settentrionali. A livello fonologico, le varietà settentrionali si caratterizzano per: – il passaggio cl > tl, gl > dl, che non avviene invece in livinallese (in fassano e ampezzano il nesso è stato risolto in altro modo, cf. infra): CLAVEM > grd. bad. tlé vs. liv. clé ‘chiave’, VETULUM > *veclu > *veglu dà grd. bad. védl vs. liv. végle ‘vecchio’; – il trattamento della v- iniziale, che cade davanti a vocali velari: *VOLERE > grd. ulëi, bbad. urëi, abad. urài, mar. orèi vs. fas. volér, liv. voléi, col. volè e amp. voré. In altri casi, come VOCEM , la v- cade in tutte le varietà (gard uš, gad. u:š, fas. òwš, liv. ówš, col. òs, amp. òš). Nei casi di grd. e bad. u, mar. o < ve-- (per es. VIDERE > grd. bbad. udëi, abad. odài, mar. odèi vs. fas. vedér, liv. vedéi, col. véde, amp. véde), si può ipotizzare che la e atona sia prima arretrata a o, con conseguente caduta della v come nel caso di ‘volere’; – la riduzione del timbro in atonia (e > ə e o > u), tranne in marebbano (si osservi la pronuncia di Gherdëina ‘Gardena’ come gəR dëina). Si ha così lat. volg. * POTERE con innalzamento della o pretonica: grd. e bbad. pudëi, abad. pudài (ma mar. podéi) fas. podér, liv. podéi, col. podè, amp. podé. Un esempio di riduzione di e atona è FEMINA > grd. fëna (< *fëm(e)na), bad. fómna, vs. mar. fómena, fas. col. e amp. fémena, liv. fëmena; – le fricative x e h hanno statuto fonematico per influsso del tedesco; si trovano esclusivamente in prestiti come grd. gad. tròxtər (< ted. Trichter), grd. e gad. hèndy (pseudoanglismo dal ted. Handy). Si tratta di un’innovazione degli ultimi secoli, perché nei prestiti più antichi questi due fonemi subivano degli adattamenti, come accade regolarmente nelle varietà meridionali: x ha dato k oppure š, h è caduta: ted. schachern > grd. bad. e fas. šakaré, liv. šakeré (‘mercanteggiare’), ated. pijhten > grd. pišté (‘confessare’); ated. huttja > grd. fas. liv. ùtia, bad. ütia, mar. ücia (‘baita, capanna’); – il mancato sviluppo della vocale d’appoggio (e) quando i nessi di ‘consonante + L’ sono in fine di parola, diversamente dal ladino meridionale: lat. EXEMPLUM > fas. šémpie, liv. šémple vs. grd. bad. scëmpl. Questo tratto sarà dovuto all’influsso dei dialetti tedeschi confinanti, in cui i nessi di ‘consonante + l’ sono relativamente frequenti per via del diminutivo -l (per es. Sepl, diminutivo di Josef, Biabl, diminutivo di Bua ‘bambino’).

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In morfologia, le peculiarità distintive delle varietà settentrionali rispetto a quelle meridionali sono: – nella morfologia verbale, la desinenza -(s)e del congiuntivo presente di 1. e 2. persona plurale si trova esclusivamente nelle varietà settentrionali (grd. plajonse, plajëise, bad. plajunse, plajëise, ‘che noi piacciamo, che voi piacciate’), mentre le varietà meridionali ricorrono ognuna a suffissi diversi (cf. infra per maggiori dettagli). Nota che la desinenza -e si trova anche nella prima persona plurale nelle varietà cadorine (cf. amp. col. mañòne); – nella morfologia nominale, il gardenese e il badiotto hanno una forma di plurale in ‑ONES , ‑ ANES con una classe chiusa di parole riferite ad esseri umani: grd. mut – mutons e bad. müt – mituns (‘bambino – bambini’), grd. muta – mutans e bad. müta – mitans (‘bambina – bambine’), grd. oma – umans (ma nell’ALD-I la forma è loma-lomans, bad. uma – umes, ‘madre – madri’), (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 3.1; ↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 2); – a livello pronominale, gardenese e badiotto hanno sviluppato un clitico dativale di terza persona ti (usato solo in proclisi), che si affianca a i, che costituisce lo sviluppo regolare presente in tutte le varietà: grd. ti/i dije ‘gli dico’. Secondo Gsell (1987) questo clitico sarebbe nato dalla rianalisi di una -t di una parola che precedeva frequentemente il clitico i, forse il dimostrativo ‘questo’; – gardenese e gaderano hanno un pronome soggetto clitico impersonale n/an (da HOMO o da UNUM ): grd. n dij, ilò dije-n (‘si dice, lì si dice’). Le varietà meridionali fanno uso invece del si impersonale, come in italoromanzo: fas. se disc, se fesc (‘si dice, si fa’); – infine, le varietà settentrionali hanno dei morfemi derivazionali provenienti dal tedesco/tirolese. Tra questi, -er per formare nomi di professione come musicònter (‘musicista’ < ttir. Musikont + er), isolato da prestiti dal tedesco, come grd. gad. tis(t)ler ‘falegname’, pinter ‘bottaio’. Insieme al lessico, la sintassi è il livello di descrizione in cui le varietà settentrionali e meridionali divergono maggiormente. Anche in questo caso, ciò è riconducibile almeno in parte alla loro posizione geografica: le varietà ladine settentrionali sono geograficamente più isolate rispetto al resto dell’area italoromanza, mentre le varietà meridionali sono state raggiunte più facilmente dalle innovazioni provenienti da sud. Dall’altro lato, il tedesco/tirolese ha avuto un influsso importante sulla sintassi di gardenese e gaderano, in particolare rafforzando alcune tendenze conservative. In letteratura non c’è accordo, invece, se il tedesco abbia anche fornito veri e propri «prestiti» sintattici. Le caratteristiche distintive delle varietà settentrionali (gardenese e gaderano) sono: – l’obbligo di avere il verbo in seconda posizione nelle frasi interrogative parziali, nelle frasi dichiarative principali, e in un gruppo di dichiarative secondarie. Le varietà meridionali mantengono invece questa regola solo nelle interrogative parziali (tranne nelle interrogative formate con il complementatore che in fassa-

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no). Tradizionalmente si faceva risalire questa proprietà a un «prestito» dal tedesco, ma il Verbo secondo del ladino si caratterizza per alcune differenze rispetto al tedesco: a) in ladino l’ordine di base è SVO (da cui il verbo deve muovere in seconda posizione), in tedesco è SOV (Benincà 1985/1986); b) in ladino il verbo secondo è «rilassato», perché in alcuni casi specifici il verbo può trovarsi in prima, terza o addirittura quarta posizione (1)–(2), mentre in tedesco la seconda posizione del verbo è rigida (Poletto 2002; Casalicchio/ Cognola 2018; in stampa): (1) Vede a cësa. (grd.) Vado a casa (2) Le pan, olà l’ as(te) cumprè? (bad.; Casalicchio/Cognola in stampa) Il pane, dove lo hai(tu.CL ) comprato c)

quando il soggetto non è in prima posizione, in tedesco dev’essere posto immediatamente dopo il verbo flesso (cosiddetta «inversione soggetto-verbo flesso»), tranne in alcuni casi ristretti (per es. in frasi presentative o con soggetti quantificati). In ladino la sua posizione è più libera, e dipende dal contesto e da fattori pragmatici:

(3) Can àl pa lit le liber Mario? quando ha-lui.CL PART letto il libro Mario (bad.; Casalicchio/Cognola in stampa) ‘Mario quando ha letto il libro?’ d) in ladino la regola del verbo secondo si applica anche ad alcuni tipi di frase secondaria, in tedesco mai (cf. gli esempi ladini in (4a) e (5a) con i corrispondenti tedeschi in (4b e 5b)): (4) a.

Al m a dit c magari mang-el a ciasa. mangia-lui.CL a casa lui.CL mi ha detto che forse (bad.; Poletto 2000, 99) b. Er hat mir gesagt, dass (*vielleicht) er (vielleicht) daheim lui ha a.me detto, che (forse) lui (forse) a.casa isst. (ted.) mangia ‘Mi ha detto che forse mangia a casa.’

(5) a.

L assessëur [...] à dit che cun i leures scumenceràn bele l’assessore […] ha detto che con i lavori comincerà-CL .IMPERS già

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tl nel

1999. 1999

(grd.; Streda da Pruca, tratto dal CGL) b. Der Landesrat hat gesagt, dass (*schon 1999) man (schon 1999) mit den l‘assessore ha detto, che (già 1999) si (già 1999) con i Arbeiten beginnen wird. FUT lavori iniziare ‘L’assessore ha detto che si comincerà con i lavori già nel 1999.’ Queste differenze hanno portato vari studiosi, per prima Benincà (1985/1986), a postulare un’origine romanza, e non tedesca, del verbo secondo ladino: secondo Benincà tutte le varietà romanze avrebbero avuto una regola del verbo secondo «rilassata» nel medioevo. In seguito, le altre varietà superarono questa condizione e oggi hanno una posizione del verbo più libera (ma permangono verbi secondi «residuali» nel ladino meridionale e in numerose varietà del Nord Italia). Il Verbo secondo di gardenese e gaderano andrebbe dunque visto come un relitto, che forse è sopravvissuto proprio per influsso del tedesco, ma che non è stato originato da questa lingua (anche ↗2 Il ladino e le sue caratteristiche); – la sintassi conservativa dei pronomi clitici soggetto: il gardenese, in particolare, presenta una situazione molto simile a quella dei dialetti italiani del nord nel periodo rinascimentale, come descritti da Vanelli (1987) (cf. Casalicchio 2017). I clitici soggetto delle varietà meridionali hanno invece una sintassi molto simile a quella dei dialetti trentini e veneti. In particolare, in queste varietà il clitico può opzionalmente reduplicare un soggetto lessicale (6) e dev’essere ripetuto in coordinazione (7), in gardenese e gaderano no (Rasom 2003): (6) a. L Piere (l) liec n liber b. Pire (*l) lì n liber il Pietro lui.CL legge un libro ‘Piero legge un libro.’ (7) a. L cianta y l bal duta la seres. b. L cianta y (*l) bala duta la sëires lui.CL canta e lui.CL balla tutta la sere ‘Canta e balla tutte le sere.’ –

(liv.; Rasom 2003, 57) (bad.)

(caz., ASIt 2.80) (grd., ibid.)

l’uso obbligatorio dell’articolo indefinito con il numerale un/una:

(8) a.

I n à mâ io.CL ne ho solo (Rina; ALD-II, 524 ss.)

boü un bevuto uno

n un

gòte bicchiere

e e

nia non

dui. due

Il ladino e i suoi idiomi

b. N ài biù domà en got e ne ho bevuto solo un bicchiere e (Colle Santa Lucia; ibid.) ‘Ne ho bevuto solo un bicchiere e non due.’ –

no non

157

doi. due

la negazione non marcata formata da due elementi (tranne con le forme non finite del verbo), il clitico negativo preverbale ne e un elemento postverbale nia < *NULLIA . Le varietà meridionali invece hanno solo la negazione preverbale no (Siller-Runggaldier 1985; Gsell 2002–2003):

(9) a.

Chilò ne gnè:l nia qui non.CL veniva=CL . ESPL . NEG (Corvara, ALD-II, 240–1) b. Chiò l todesch no vegnìa qui il tedesco non veniva ‘Qui il tedesco non veniva parlato.’

rajunè tudasch. parlato tedesco parlà. parlato

(Monzon, ibid.)

È importante notare che in questo caso le varietà settentrionali sono innovative e non conservatrici, perché la doppia negazione si è sviluppata solo tra la seconda metà dell’800 e gli inizi del ’900. Tuttavia, Gsell (2002–2003) mostra che il quadro attuale della negazione in ladino settentrionale è molto composito, perché ancora oggi si possono trovare anche esempi di sola negazione preverbale (come nello stadio più antico), o di sola negazione postverbale; – l’uso dell’ausiliare venire per il passivo al presente e al perfetto (in quest’ultimo caso in alternanza con essere). Nelle varietà meridionali l’uso di venire è limitato al presente (↗2 Il ladino e le sue caratteristische, cap. 4.3): (10)



(11)

a.

Trami du:i i lè:ri é gnüs pià. entrambi i ladri sono venuti presi b. Dut e doi i ladre i é stade tutti e due i ladri loro.CL sono stati (Cortina d’Ampezzo; ibid.) ‘Entrambi i ladri sono stati presi.’

(Corvara; ALD-II 633–634) ciapade. presi

l’uso del gerundio con i verbi di percezione. Nelle varietà settentrionali, il gerundio ha preso il posto dell’infinito, che invece si può usare solo nelle varietà meridionali (cf. Casalicchio 2011; 2013; 2015): a.

L vëije ciacian / *ciacé dal iagher. (grd., adattato da Casalicchio 2011, 331)

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b. L veide *ciacian / ciacèr dal lo vedo *cacciando / cacciare dal ‘Lo vedo cacciare dal cacciatore.’ –

(12)



(13)



(14)



giagher. (fas.) cacciatore

la possibilità di usare la costruzione passiva di verbi intransitivi, con significato generico: Tlo vëniel balà uni ena. qui viene-ESPL . ballato ogni settimana ‘Qui si balla ogni settimana.’

(grd.)

nelle varietà settentrionali si fa un uso diffuso di particelle modali: mentre la particella interrogativa pa è usata in tutte le varietà, in gardenese e gaderano si usano anche altre particelle, come po, pu e ma (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 4.3): Ch’ al vagnes ma ince os vostro che ESPL . venga pure anche (San Leonardo; Poletto 2002, 227) ‘Che venga pure anche il vostro amico.’

cumpagn. amico

la formazione di frasi relative preposizionali con l’inserimento di un pronome dimostrativo tra la preposizione e il complementatore che; nelle varietà meridionali questa possibilità è generalmente accettata solo nelle relative appositive sul soggetto (ma nella generazione giovane fassana la costruzione sembra espandersi), mentre negli altri casi si usa il che con un clitico all’interno della relativa per segnalare il caso: a. La ëila a chëla che ti é dat l liber la signora a quella che le.CL ho dato il libro b. La fémena, a chel che g’é dat el liber, la signora, a quel che gli ho dato il libro, (bra.; accettata solo dai giovani) c. La ëla, che i é dé l liber, l’é la signora che le.CL ho dato il libro, lei.CL è ‘La signora a cui ho dato un libro è di Trento.’

ie da è di la lei.CL

Trënt. (grd.) Trento é da Trent è da Trento

da Trënt. da Trento

(liv.)

le costruzioni causative possono essere formate con lasciare anziché con fare anche quando non si indica un permesso, ma una vera e propria costrizione. Si noti che in tedesco le causative vengono formate esclusivamente con lassen (‘lasciare’):

Il ladino e i suoi idiomi

(15)

a.

I s lasci menè te io.CL vi lascio portare in b. Ve farè / *lasciarè porté vi faro / *lascerò portare ‘La farò portare in albergo.’

159

ustarìa. (La Valle; ALD-II 1041–2) albergo n albergo. (liv.; basato su ALD-II 1041–2) in albergo

3.4 L’opposizione tra area centrale e periferia Un’ulteriore opposizione, più sfumata e meno regolare, si può osservare tra un blocco centrale e le aree più periferiche, che sono più esposte al contatto con le varietà italoromanze o tedesche. Le varietà che formano la base del blocco centrale sono l’alto badiotto, il gardenese e il fassano cazét, a cui possono aggiungersi, di volta in volta, altre varietà vicine. Le varietà più centrifughe sono invece il moenese, il brach e il collese. Tra i fenomeni presenti nel blocco centrale si osservano casi di conservazione, che si oppongono alle innovazioni provenienti da sistemi esterni al ladino, e casi di innovazione comune. – a livello fonologico, si può segnalare la palatalizzazione di à tonica lunga, che è passata a è in gaderano, gardenese, cazét e livinallese (e successivamente a é in marebbano, alto badiotto e gardenese, cf. Craffonara 1977), ma non in brach, moenese, collese e ampezzano: l’esito di lat. SALEM è mar. sé, bad. sè, grd. sél, caz. e liv. sèl, vs. brach, moe. e coll, sàl, amp. sà. È importante sottolineare che la lunghezza delle vocali non corrisponde a quella del latino, ma è dovuta alla posizione della vocale tonica all’interno della parola (cosiddetta legge di BattistiEttmayer; cf. Ettmayer 1902; Battisti 1906–1907; Craffonara 1977; Pellegrini 1982); per maggiori dettagli ↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 1); – a livello morfologico, le varietà gaderane, gardenesi, cazét e anche ampezzane mantengono la ‑s finale con le 2. persone del verbo e nei plurali dei femminili in -a; il brach, moenese, livinallese e collese invece non la conservano: dal lat. VENIES si ha mar. végnes, bbad. vëgnes, abad. vagnes, grd. vënies, caz. vègnes e amp. viénes vs. brach, liv. e col. végne, moe. vègne. Il plurale di talpina/tampina (‘talpa’) è mar. bbad. abad. grd. caz. e amp. talpìnes vs. brach e moe. tampine, liv. e col. talpine; – un fenomeno meno omogeneo riguarda invece il plurale sigmatico dei maschili terminanti in -p e -v/f. In questo caso il cazét ha esteso pressoché a tutti i casi il plurale in -s, seguito dal gardenese (Elwert 1943). Questo tipo di plurale è invece più raro in gaderano, ampezzano, brach e moenese, mentre è assente in livinallese e collese. Gli esiti di CAMPOS (‘campi’) sono infatti grd. ciamps (variante presente anche a San Martino, ALD-I), fas. ciampes vs. gad. ćamp, liv. ciamp, col. cemp, amp. ciampe (si noti che in gaderano, fassano e livinallese la realizzazione della consonante iniziale può variare tra ć e tš, cf. ALD-I e Vivaldi). Le varietà orientali avevano il plurale in -i, poi caduto. In alcuni casi il gaderano e l’ampez-

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(16)

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zano hanno aggiunto la -s in seguito, per es. in VULPES ( ‘volpi’) > gad. olps, grd. bolps, caz. bolpes, amp. ólpes, vs. brach e col. bolp, moe. e liv. volp; il pronome clitico soggetto precede la negazione in gaderano, gardenese, cazét, livinallese e ampezzano, ma la segue nella parte bassa della Val di Fassa e a Colle Santa Lucia: a.

b.

c.

Ai ne ve nia, mo non valgono niente, ma loro.CL (San Cassiano; ALD-II 616–7) I no vèl nia, ma non valgono niente, ma loro.CL (Arabba, ibid.) No i val nia, ma valgono niente, ma non loro.CL (Monzon, ibid.) ‘Non valgono niente, ma costano molto.’

costa costano

dar tröp. davvero molto

i loro.CL

costa trop. costano molto

i loro.CL

costa tant. costano molto

In questo caso il cazét si trova in una posizione intermedia, perché l’ordine tra questi due elementi alterna liberamente (cf. Elwert 1943). Tuttavia, l’ALD-II testimonia che attualmente i parlanti mostrano una forte tendenza a preferire l’ordine «negazione – clitico soggetto», seguendo così il modello del basso fassano e delle varietà trentine.

3.5 La Romània «submersa» La ricostruzione dei confini dell’area dolomitica in età protoromanza e dei flussi di colonizzazione interna che si ebbero nel basso medioevo, ci permette di rievocare il contesto linguistico più ampio in cui si collocavano le odierne varietà ladine. Ci riferiamo qui alla cosiddetta «Romània submersa», soprattutto per quanto riguarda le varietà geograficamente più vicine all’area dolomitica: Baviera meridionale, Austria occidentale e Alto Adige. Prima della definitiva germanizzazione, in quest’area si parlavano delle varietà romanze che avevano certe affinità con l’attuale ladino. Va notato che non tutti gli studiosi sono d’accordo nel definire queste varietà come «ladine», in particolare se teniamo conto dello specifico contesto culturale che ha fatto nascere la definizione di Ladinia brissino-tirolese (sulla problematicità della definizione di «ladino» per le varietà romanze parlate in aree oggi tedescofone cf. anche Goebl 2000–2001, 219). La comparazione tra le varietà ladine odierne e le aree «sommerse» è basata su una documentazione limitata, tratta quasi esclusivamente dall’onomastica (in particolare toponomastica), da cui è comunque possibile ricavare qualche indizio sul grado di affinità tra queste varietà e le varietà ladine. A occidente, la romanità del tipo ladino dolomitico (più precisamente: isarchese) arrivava fino alla bassa Val Venosta,

Il ladino e i suoi idiomi

161

dove confinava con la romanità grigionese. Di tipo isarchese erano anche le aree di Bolzano e ovviamente le località del bacino dell’Isarco: come abbiamo visto supra, queste ultime hanno anche contribuito alla colonizzazione delle aree ladine occidentali, in particolare la Val Gardena e la Val di Fassa. Alla romanità pusterese appartengono invece le varietà che si parlavano in Val Pusteria, in particolare quelle che sopravvissero più a lungo (fino all’anno 1000 circa) in alcune valli laterali (Braies, Casies, Sesto, cf. Stolz 1934; Finsterwalder 1965; Battisti 1931; Richebuono 1992). Un caso esemplare di isola linguistica romanza sopravvissuta più a lungo è la valle del Kals, nel Tirolo orientale. In quest’area convissero per secoli popolazioni di lingua romanza, tedesca e slava, finché verso la fine del medioevo sopravvisse solo la varietà tedesca locale. Nella toponomastica sono sopravvissuti però diversi termini romanzi, che, come mostrato da H.D. Pohl in vari lavori (per es. Pohl 2012), permettono di ricostruire almeno parzialmente la fonologia della varietà romanza locale. Le caratteristiche principali di questa varietà sono il mantenimento dei nessi di ‘consonante + L ’ (Gliber < CLIVUM ), la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (Pradèll < PRATELLUM , Figer < Zefig < (SUB / SUMMUM ) VICUM ) e la palatalizzazione di C / G davanti a A in alcuni toponimi (Tschamp < CAMPUM , Tschadìn < CATINUM ), cf. Odwarka/Pohl 1999. Sulla base dei dati forniti da Odwarka/ Pohl osserviamo anche il dittongamento é: > èj, visibile in Lareseitwald (< LARICETUM + ted. –wald) e Zalesöd (pronunciato tsalǝsèit < SALICETUM ), che non può essere ricondotto alla dittongazione tedesca/tirolese (Alber 2018).

4 Caratteristiche delle singole varietà 4.1 Le valli di Badia e Marebbe La Val Badia è la valle linguisticamente meno omogenea della Ladinia dolomitica. Questa frammentazione è dovuta alla sua conformazione geografica e alle diverse direttrici di colonizzazione e popolamento che hanno raggiunto la Val Badia, come dimostra il tracciamento del confine del 1002/1004 che separava l’area di San Martino e Colfosco dal resto della valle (cf. sezione 3.2). In particolare, Colfosco rimase amministrativamente gardenese fino al 1828 (cf. infra), e quindi ha sviluppato una parlata eccentrica. In Val Badia si possono quindi individuare vari nuclei dialettali e suddivisioni interne (cf. carta 1). La linea di demarcazione principale separa il marebbano (marèo), parlato nella valle laterale di Marebbe, dal badiotto tout court. Quest’ultimo è suddiviso nel basso badiotto, parlato nella parte bassa della valle, e nel badiot in senso stretto (alto badiotto), parlato nell’Alta Badia. Questi tre gruppi sono ulteriormente suddivisi in complessivamente sette varietà: – il marebbano comprende il marebbano propriamente detto e la varietà parlata nella frazione di Rina. Questa è considerata come parte del marebbano da Kuen

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– –

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(1935), mentre Videsott/Plangg (1998) la escludono dal loro vocabolario marebbano, considerandola parte del basso badiotto. Le analisi dialettometriche mostrano che la parlata di Rina è più vicina al marebbano che al ladino di San Martino (cf. infra); il basso badiotto comprende le varietà di San Martino e di La Valle (quest’ultima è una varietà di transizione verso l’alto badiotto); l’alto badiotto è formato dal badiotto in senso stretto, parlato nel comune di Badia (con le frazioni di San Leonardo, La Villa e San Cassiano), dalla varietà di Corvara e dalla varietà di Colfosco (oggi frazione di Corvara). La parlata di Corvara è considerata come distinta dal badiot parlato nel comune di Badia da Kuen (1935), ma non da Videsott/Plangg (1998).

La varietà standard della Val Badia è basata principalmente sul ladino di San Martino, ma con alcune aperture anche alle altre varietà. Nel censimento del 2011, quasi 10.000 persone della Val Badia hanno dichiarato di appartenere al gruppo linguistico ladino (circa il 94 % della popolazione). Sulla base dei dati raccolti nel corso dell’inchiesta Survey Ladins, il 91,9 % ha dichiarato di avere il ladino come lingua madre, il 98,5 % di avere una competenza attiva e il 99,5 % di avere una competenza passiva (Dell’Aquila/Iannàccaro 2006). Nel complesso, non esistono grosse differenze tra i vari comuni, anche se la percentuale di chi si è dichiarato ladino è leggermente più bassa a Corvara (89,7 %) rispetto agli altri comuni. A livello impressionistico, però, negli ultimi tempi è stato osservato un cedimento dell’uso dell’alto badiotto, principalmente a favore dell’italiano.

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Carta 1: Aree dialettali in Val Badia – i toponimi sono indicati in marebbano e tedesco (carta tratta da Videsott/Plangg 1998, 16)  

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4.1.1 Peculiarità delle varietà gaderane Il gaderano si distingue dalle altre varietà ladine per una serie di tratti. In fonologia si osserva che: –













in tutte le varietà gaderane la lunghezza vocalica mantiene lo statuto fonologico, anche se i contesti di allungamento sono cambiati nel tempo da zona a zona (Craffonara 1977). In passato l’allungamento era presente anche nelle altre varietà, come dimostrano gli esiti diversi delle vocali brevi e lunghe in gardenese, fassano, livinallese e ampezzano. Di conseguenza, in gaderano si trovano coppie minime come mar. vàl (‘valle’) vs. và:l (‘qualcosa’), abad. sak (‘secco’) vs. sa:k (‘sacco’); un’altra caratteristica del vocalismo gaderano è il mantenimento della vocale arrotondata anteriore ü (tranne a Colfosco, cf. infra), da cui si è sviluppato in determinati contesti ö: mar. löna, abad. lüna, ma grd. liv. amp. e moe. lùna, caz. e brach lùnå. Secondo Craffonara (1976; 1977), anche le altre varietà ladine avrebbero avuto in passato la vocale ü, che si sarebbe mantenuta solo in gaderano per distinguerla dal fonema u derivato dalla monottongazione del dittongo ów; il gaderano ha fuso tutti i dittonghi tranne quello proveniente da ëj. Da jé si è passati a i: (attraverso lo stadio ìe: MIELEM > mar. mi con abbreviamento secondario, bad. mi:l, vs. liv. mjél, grd. mìǝl); da wó (attraverso lo stadio wé) a bad. ü oppure ö e a mar. ü, ö oppure è (in colf. u̇ , cf. infra, cap. 4.1.2.4): NOVUM > mar. nö, bad. nü (a Colfosco nu̇ ), vs. grd. nùǝf, liv. nwóf; OVUM > gad. ü vs. grd. ùəf, liv. vwóf; OLEUM > mar. ère, bbad. örǝ, abad. öl(ǝ) vs. grd. ùəle. Il dittongo ów, infine, ha dato come esito u: JUGUM > gad. žù vs. grd. žëuf, liv. žów, fas. žówf (‘giogo’); nel consonantismo, il gaderano ha mantenuto la distinzione tra gli esiti di C + A e di C + E / I del latino. Abbiamo così mar. ćàza ‘casa’ vs. tšònt ‘cento’. Si tratta di un tratto arcaico, che è in via di scomparsa anche in gaderano, ma che sopravvive anche in alcuni parlanti del livinallese e del fassano, come dimostrano i dati dell’ALD (si veda per es. la carta ‘una casa/le case’, ALD-I, 126); come nelle altre varietà ladine, anche in gaderano i nessi latini aw e al seguiti da consonante convergono. Il gaderano ha però generalizzato al a entrambi, mentre nelle altre varietà l’esito è aw. Abbiamo così alt e ća:lt (vs. liv. awt, ćawt) da ALTUM e CALIDUM , laldè e àlća (vs. grd. lawdé e àutša) da LAUDARE e AUCAM ; il gaderano è anche caratterizzato dal rotacismo, che si è irradiato a partire da Marebbe e ha coinvolto, in misura minore, l’intera Val Badia, ma anche l’ampezzano. Di conseguenza, la l intervocalica passa a r: *VOLERE > mar. oréj, bbad. orëj, abad. uràj (e amp. voré), vs. grd. ulëj, liv. voléj, fas. volér; infine, in gaderano le consonanti finali che non siano sibilanti (e talvolta nasali) tendono a cadere: gad. ü vs. grd. uǝf ‘uovo’, mar. sogü, bad. sigü vs. fas. liv. col. segùr, grd. sǝgùr ‘sicuro’, e anche il toponimo mar., bbad. Porsenù abad. Persenù vs. grd. fas., liv. Persenon (‘Bressanone’).

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A livello morfosintattico, le peculiarità del gaderano sono: – nel sistema pronominale, il gaderano è l’unico ad avere un pronome clitico soggetto per la prima persona singolare (i): mar. bbad. i ô, abad. e La Valle i o (‘voglio’). Inoltre, come pronome clitico obliquo di prima e seconda persona plurale si usa il pronome riflessivo s(e): bbad. i s udun (‘vi vediamo’), i s udëis (‘ci vedete’); – nella morfologia verbale, la 1. e 2. persona plurale dell’imperfetto indicativo e congiuntivo ha l’accento sulla vocale tematica (esito regolare per il congiuntivo, ma innovazione del gaderano nell’indicativo). Per Corvara le forme sono mangiâven e mangiâves all’imperfetto indicativo (‘mangiavamo, mangiavate’), mangéssen e mangésses all’imperfetto congiuntivo (‘mangiassimo, mangiaste’), per San Martino (dove la v della desinenza dell’imperfetto è caduta, come in tutto il gaderano tranne Corvara e Colfosco) mangiân e mangiâs. Nelle altre varietà ladine, invece, l’accento cade sulla desinenza, si veda come esempio il fas. caz. magnaàne e magnaède all’indicativo, magnassàne e magnassède al congiuntivo.

4.1.2 La suddivisione interna del gaderano All’interno del gruppo gaderano, vi sono due principali poli irradiatori: il marebbano e l’alto badiotto. Le varietà del basso badiotto di regola si accordano con uno o l’altro di questi due poli, mentre sono pochi i loro tratti esclusivi. Infine, la varietà di Colfosco riveste una posizione eccentrica, pur facendo parte dell’alto badiotto: presenta infatti alcuni tratti di conguaglio che solitamente non coincidono nemmeno con gli esiti del gardenese. Sulla base di queste considerazioni, nelle prossime sezioni tratteremo rispettivamente il marebbano (cf. infra, cap. 4.1.2.1), il basso badiotto (4.1.2.2), l’alto badiotto (4.1.2.3) e la parlata di Colfosco (4.1.2.4).

4.1.2.1 Caratteristiche del marebbano a. Caratteristiche condivise con il basso badiotto – a livello fonologico, si ha il passaggio ü > ö (dal 1700): a lüna (‘luna’) dell’alto badiotto (tranne Colfosco) e di La Valle corrisponde löna del marebbano, Rina e San Martino; – nel nesso GA del latino l’occlusiva passa a j anche a inizio di parola, mentre da La Valle in su dà ǵ: mar. jàt vs. abad. ǵàt (‘gatto’); – il rotacismo di l intervocalica è completo in marebbano e basso badiotto, mentre è presente solo in alcuni contesti nell’alto badiotto: OLEUM > mar. ère, bbad. öre vs. abad. ölǝ (Corvara) per ‘olio’; – il marebbano (e anche la varietà di Colfosco) mantiene la o atona, che passa a u in alto badiotto (come in gardenese); il bbad. va a volte con il marebbano, a volte con l’alto badiotto: mar. novèmber, bbad. novëmbr vs. abad. nuvámb(ǝ)r ‘novembre’;

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– –

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a livello morfologico, il marebbano e basso badiotto formano il congiuntivo imperfetto con ‑ass‑, l’alto badiotto con -ess-: mar., bbad. i mangiàss vs. abad. i mangéss (‘che io mangiassi’); a livello lessicale, marebbano e basso badiotto (senza La Valle) condividono il termine per ‘esca’, che è polzura a Marebbe, pronzura a Rina e plonzura a San Martino. Da La Valle in su si hanno invece derivati da ESCA con agglutinazione dell’articolo: La Valle lësca, abad. lasca. per ‘formica’, si usa il termine cargara in tutta la bassa valle. L’alto badiotto ha téciura, Corvara e Colfosco furmìa/formìa (come nelle altre varietà ladine); altri termini condivisi dal marebbano e dal basso badiotto (a volte solo fino a San Martino) sono grêda (‘pulpito’ < mat. grede ‘scalino’), dé(de)dôlönesc (lett. «giorno dopo lunedì», ossia ‘martedì’), dédemezalèdema («giorno di metà settimana», ossia ‘mercoledì’; questa formazione è presente anche in romancio).

b. Caratteristiche condivise con Rina – in fonologia, la vocale tonica ë, un tempo presente in tutta la Ladinia, è passata a é o è, mentre si è conservata in basso badiotto: lat. *SOLICULUM > mar. sorédl, bbad. surëdl, abad. suradl (‘sole’); quand’è seguita dal nesso nC, invece, passa a ò: lat. CENTUM dà mar. tšònt, ma bbad. tšënt; – il marebbano ha mantenuto la lunghezza vocalica originaria del ladino arcaico; secondo Craffonara (1977), ciò sarebbe stato possibile grazie all’eliminazione del fonema ë, che era un elemento di instabilità nel sistema perché non aveva una controparte lunga. La lunghezza vocalica è cambiata solo negli abbreviamenti secondari delle vocali lunghe in fine di parola. In alto badiotto, invece, le vocali basse sono state soggette ad allungamenti secondari generalizzati, tranne in alcuni contesti. Il basso badiotto invece ha una situazione di transizione tra i due poli. Abbiamo così mar. ćaza vs. bad. ća:za (‘casa’), mar. e bbad. fàt vs. abad. fa:t (‘fatto’); – la A tonica latina passa a é in marebbano, a è in badiotto: lat. PRATUM ‘prato’ > mar. pré vs. bad. prè; – il marebbano mantiene la e atona, che passa a ǝ o cade in badiotto, particolarmente nell’alto badiotto: mar. emprešté, bbad. imprǝštè, abad. imp(ǝ)rštè (‘prestare’); anche nel pronome soggetto enclitico di seconda persona singolare il marebbano mantiene la forma ‑te, mentre in alto badiotto la -e tende a cadere: mar. oste vs. abad. os-t (‘vuoi-tu.CL ’ ), R. Videsott (2013); – in marebbano la i atona si abbassa a e se la vocale seguente è una i tonica: il plurale di vidèl (‘vitello’) è vedì, mentre in bad. è vidì; – il nesso tj palatalizza e diventa ć: dal tedesco Hütte si ha mar. üća, ma bad. ütja; – in marebbano le vocali anteriori arrotondate compaiono anche in posizione atona, in badiotto no: al stranüdéja, ma bbad. al strinidlëja (‘starnutisce’), mar. fömé ma bad. fumé;

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il nesso štl si semplifica a šl: per ‘fucile’ si ha mar. šlòp vs. bbad. štlòp (< lat. STLOPPUS ). A Rina, la generazione giovane segue l’innovazione marebbana, mentre la generazione anziana mantiene questo nesso come nel resto delle parlate badiotte; in marebbano si osserva la tendenza al passaggio di im- e in- pretoniche a em-, eno a am-, an-: mar. eŋkunté vs. bad. iŋkuntè (‘incontrare’), mar. antšòŋš vs. bad. intšëŋš (‘incenso’); infine, a livello lessicale si segnala tra l’altro il termine rencéi per ‘calcagno’, che si distingue dalla base CALCANEUM utilizzata nel resto della Val Badia, in gardenese e in fassano; e spisé (< abav. spîsen, ‘dare la comunione’), assente altrove.

c. Caratteristiche proprie del marebbano – in fonologia, il marebbano ha generalizzato il passaggio da ö a è (in alcuni contesti é), che si riflette a volte anche a Rina e nel resto della bassa valle: così per ‘olio’ abbiamo ère rispetto al bbad. öre, che a sua volta deriva dal dittongo wò/wè (grd. ùǝlǝ). Per ‘foglia’ abbiamo mar. féja, a Rina fèja, a San Martino fëja, mentre da La Valle in su gli esiti sono föja (tranne a Colfosco); – a livello morfologico, l’articolo maschile singolare è le in marebbano, l nel resto della Ladinia (tranne in ampezzano, collese e cazét dove si ha el); – il plurale dei sostantivi e participi ossitoni in -è/-é (da -ATUM ) è -é:s in Marebbe, -a altrove: mar. pré:s, bad. prà (< *pràj , cf. liv. prèj, col. pràj, che a sua volta deriva da un più antico *pradi, cf. Craffonara 1998a, 145); per il participio latino PORTATI / PORTATOS si ha mar. porté:s vs. bad. portá, da < *-aj (< *-adi). Si delinea qui una frattura netta tra le varietà che hanno il plurale in -s con i maschili in -ATUM (Marebbe, Comelico, Cadore, Friuli) e quelle che hanno il plurale in -i (tutto il resto della Ladinia, così come i dialetti trentini e veneti), cf. supra; – a livello sintattico, il marebbano è l’unica varietà in cui è ancora obbligatorio utilizzare il pronome proclitico soggetto i con la prima e seconda persona plurale: stando ai dati dell’ALD-II, il pronome è usato opzionalmente nel basso badiotto, mentre non è mai stato usato nelle risposte date dagli informatori dell’alto badiotto o di Rina, che sotto questo aspetto si distingue nettamente dal marebbano e anche dal basso badiotto; – a livello lessicale, il marebbano è caratterizzato da una serie di arcaismi o termini divergenti dal resto del badiotto e ladino. Tra gli arcaismi si possono citare orì (< lat. ORIRI ), che all’interno dell’intero dominio romanzo si è mantenuto solo in marebbano (ma è in via di scomparsa); un altro arcaismo unico del marebbano è ortü (< lat. VIRTUS ), che a differenza delle altre lingue romanze ha mantenuto anche il senso di ‘coraggio, potenza fisica’; il resto del badiotto ha solo l’italianismo virtù con lo stesso significato dell’italiano (‘virtù morale’ o ‘dote particolare nel fare qualcosa’). Altri termini unici del marebbano sono endespré (‘svegliare’; modifica del lat. DE - EXPERIRI , mentre il bad. descedè proviene probabilmente da DE - EXCITARE , Salvi 2018), anterbanch (‘arcobaleno’, secondo Kuen 1980 modifica

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paretimologica di una forma derivata da ARCUM BIBENDO , su cui sono basati i lessemi delle restanti varietà ladine, cf. abad. ergobando, liv. arcoboan).

4.1.2.2 Caratteristiche del basso badiotto Il basso badiotto, parlato nei comuni di San Martino e di La Valle, presenta pochi tratti che lo isolino contemporaneamente dal marebbano e dall’alto badiotto. Piuttosto, si tratta di un gruppo di varietà che può essere caratterizzato in negativo, per l’assenza di caratteristiche indipendenti. Ai confini di questo gruppo, le parlate di Rina e di La Valle costituiscono due varietà di transizione: il dialetto di Rina è marebbano, ma con alcuni tratti del basso badiotto, mentre quello di La Valle presenta varie affinità con l’alto badiotto. Il tratto caratteristico del basso badiotto riguarda il mantenimento della vocale breve centrale ë, che è diventata è in marebbano (e anche a Rina) e a in alto badiotto: così ‘secco’ ha come esito sèk a Marebbe e Rina, sëk a San Martino e a La Valle e sak in Alta Badia. Per le altre peculiarità del basso badiotto rimandiamo ai paragrafi sul marebbano e sull’alto badiotto che citano questa varietà.

4.1.2.3 Caratteristiche dell’alto badiotto L’alto badiotto si caratterizza come un gruppo di varietà relativamente compatto (con l’eccezione di Colfosco) e portatore di varie innovazioni, che spesso irradia verso nord, nel basso badiotto. Di seguito si elencano le principali caratteristiche citate in letteratura (che comprendono anche la parlata di Colfosco, se non indicato altrimenti): – in fonologia l’alto badiotto mantiene il fonema ü da u latina (fino a La Valle): LUNA > abad. lüna vs. mar. e San Martino löna (a Colfosco si ha u, cf. sez. 4.1.2.4); – il fonema ë, che un tempo era diffuso in tutta la Val Badia, passa a a: suràdl (vs. bbad. surëdl, ‘sole’), tat (vs. bbad. tët, ‘tetto’); – conservazione del fonema ö (< wò/wè) in tutta la Val Badia (con qualche eccezione a Rina e San Martino), ma non a Marebbe né a Colfosco: abad. ölǝ e bbad. örǝ vs. mar. εre; – resistenza al rotacismo della liquida laterale l, che passa a r solo in alcuni casi: ILLA > abad. àla vs. bbad. ëra, mar. èra (‘lei’), ma STELLA > stàra, come nel bbad. stëra e nel mar. stèra; – mantenimento del nesso ǵ davanti a a a inizio parola: CATTUM > abad. ǵà:t (fino a La Valle) vs. mar. jàt (‘gatto’); – lat. a diventa è in contesto di allungamento (in tutto il badiotto), mentre in marebbano si ha é: PRATUM > bad. prè vs. mar. e Rina pré (‘prato’);

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– – –



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in morfologia, si segnala l’uso dell’articolo maschile singolare l anziché le (limitato a Marebbe); il plurale degli elementi nominali in -ATUM è -a anziché mar. -é:s bad. prà vs. mar. pré:s ‘prati’ (cf. supra); la desinenza della prima persona singolare del presente è -e (che può essere ridotto a -ǝ o cadere), mentre in basso badiotto e marebbano è -i: i mang(e) vs. bbad. e mar. i mangi (‘mangio’); a livello sintattico, sono stati osservati in letteratura soprattutto degli usi differenti dei pronomi clitici soggetto (R. Videsott 2013). Innanzitutto, il proclitico di seconda persona può cooccorrere con il pronome tonico, un tratto già presente in Micurá de Rü (Bacher 1995[1833]) che oggi si osserva in particolare in alto badiotto: Tö t’as de bi bei tu tu.CL hai di ‘Tu hai dei begli occhi.’

edli. occhi

(alto badiotto; R. Videsott 2013, 154)

In questo caso si potrebbe trattare di un’innovazione indipendente, che ricalca il passaggio dei clitici soggetto del nord Italia da pronomi deboli a pronomi clitici (cf. Vanelli 1987), oppure potrebbe essere un’innovazione penetrata da sud, dato che nelle varietà ladine meridionali il raddoppiamento del pronome tonico di seconda persona è obbligatorio (Rasom 2003); –

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quando c’è la cosiddetta «inversione soggetto – verbo flesso» l’alto badiotto permette la cooccorrenza del pronome soggetto in enclisi quando il soggetto è un sostantivo (o nome proprio), mentre ciò è fortemente marginale o agrammaticale in basso badiotto e marebbano (e anche in gardenese): a. b.



Can à(l) pa Mario (San Leonardo) Can à(*l) pa Mario quando ha(lui.CL ) PART . Mario (San Martino) ‘Mario quando ha letto il libro?’

lit

l

liber?

lit letto

l il

liber? libro

in tutto il badiotto si osserva la tendenza a non realizzare o a ridurre i pronomi soggetto enclitici di seconda persona singolare e di prima e seconda persona plurale. Il fenomeno è più marcato in Alta Badia, da dove ha probabilmente origine. Si confrontino gli esempi (a), tratti da R. Videsott (2013, 151ss.), con le forme attese secondo le regole del badiotto standard, in (b):

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a. b.

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a. b.

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a. b.



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Os(t) ch’i Oste ch’i che noi.CL Vuoi-tu.CL Spo messun Spo messunse Allora dobbiamo(-noi.CL ) Orëis ch’i Orëise ch’i Volete(-voi.CL ) che noi.CL

va a spazier? (alto badiotto) vais a spazier? (badiotto standard) andiamo a passeggio? la sarè la strada (alto badiotto) saré la strada (bad. standard) la chiudere la strada va a spazier? (alto badiotto) vais a spazier? (badiotto standard) andiamo a passeggio

Secondo quanto riferito da Videsott, in una prima fase sarebbe caduta in tutti i casi la vocale finale -e, in accordo con la tendenza generale dell’alto badiotto a elidere le e atone. In seguito, nella seconda persona singolare e prima plurale sarebbe caduto anche l’elemento consonantico, con la conseguente assenza fonologica del clitico soggetto. Nella seconda persona plurale, invece, la -s si mantiene perché è parte della desinenza verbale; la mancata realizzazione fonologica del clitico soggetto potrebbe essere collegata anche con un’altra caratteristica recente dell’alto badiotto, osservabile nei dati discussi da Poletto (2002) e da Casalicchio/Cognola (2018): con i soggetti lessicali, molti informatori tendono a non fare la cosiddetta «inversione verbo-soggetto», ma a creare delle frasi con il verbo in terza posizione: Sbaign che al bair tröpa bira, Andrè é manco gras che tö. sebbene che lui.CL beva molta birra, Andrea è meno grasso che te (Corvara; ALD-II 511–513) ‘Sebbene beva molta birra, Andrea è meno grasso di te.’ (Cos’ha comprato Maria ieri?) Inier Maria à cumprè i soni. (Colfosco; Casalicchio/Cognola 2018) Ieri Maria ha comprato le patate ‘Ieri Maria ha comprato le patate.’ Casalicchio/Cognola (2018) notano che i contesti di non-inversione sono particolarmente frequenti in Alta Badia, ma si possono osservare anche nelle altre varietà gaderane e in gardenese; potrebbe essere correlata alla perdita dell’inversione anche la rianalisi del pronome enclitico -t(e) come morfema di seconda persona singolare, un processo avvenuto in precedenza in molte varietà lombarde documentate nell’ALD-II: Tö t’ast tu tu.CL hai-tu.CL ‘Hai dei begli occhi.’

de di

bi edli. (alto badiotto; R. Videsott 2013, 155) begli occhi

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In questo caso la triplice presenza dei pronomi di seconda persona sembra indicare che la forma ast sia sentita come la forma flessa del verbo avëi, senza che la -t sia vista come un morfema pronominale legato ai contesti d’inversione; a livello lessicale, si possono segnalare termini come lasca (anche a La Valle dove ha la forma lësca) per ‘esca’, trognura per ‘cespuglio’ (anche a Marebbe), che convive con brüscia, che è usato soprattutto in basso badiotto, e infine téciura per ‘formica’, un termine in uso solo nel comune di Badia, mentre a Corvara e Colfosco si usa furmía e nel basso badiotto e a Marebbe cargâra.

4.1.2.4 Caratteristiche della parlata di Colfosco Come abbiamo visto, la varietà di Colfosco occupa una posizione eccentrica rispetto alle altre varietà badiotte, dovuta alla sua appartenenza storica alla Val Gardena. Oggigiorno la varietà parlata in questa frazione appartiene chiaramente all’alto badiotto, ma con alcune peculiarità, principalmente a livello fonologico, che la distinguono dalle altre parlate dell’alto badiotto: – la caratteristica principale è l’assenza delle vocali arrotondate ü e ö: la prima è realizzata come u̇ (una vocale alta, ma leggermente più bassa e più avanzata rispetto alla u), la seconda può essere realizzata come u̇ , o oppure e. All’abad. lüna corrisponde quindi colf. lu̇ na (‘luna’), al gad. kö:r il colf. ku̇ :r (‘cuore’), all’abad. föja il colf. foja (‘foglia’) e all’abad. öl (a Corvara ölǝ) il colf. élǝ (‘olio’). Si noti che l’esito u̇ per abad. ü si avvicina al gardenese, che conserva la u latina (luna), mentre per l’abad. ö il gardenese ha il dittono ùə (kùər, fwéja e ùələ); – altre caratteristiche fonologiche sono il mantenimento della vocale medioalta tonica nei nessi ‑onC (come in gardenese): colf. mónt vs. gad. mùnt (‘monte’), colf. lóŋk vs. gad. lùŋk (‘lungo’). Quando il nesso -on è in fine di parola (< lat. ŌNE ( M )), l’esito è spesso -óŋ (come in gardenese), vs. -ùŋ (come nelle altre varietà gaderane): colf. ržóŋ vs. gad. ražùŋ/ržùŋ (‘ragione’), colf. tomóŋ vs. abad. tumúŋ (‘timone’); anche nella desinenza del plurale dal lat. ‑ŌNES : colf. mitóŋs vs. gad. mitùŋs (‘bambini’). Di contro, si hanno termini come colf. kumǝnjùŋ (‘comunione’) che corrisponde all’esito -ùŋ del gaderano. La varietà di Colfosco rispecchia le restanti varietà gaderane anche nell’esito -ùŋ della desinenza della prima persona plurale, derivata dal lat. *-UMUS (vs. -óŋ delle altre varietà ladine): gad. savùŋ (‘sappiamo’), plažùŋ (‘piacciamo’) si ritrova con la stessa vocale tonica anche a Colfosco (vs. grd. savóŋ, plažóŋ); – infine, a Colfosco si tendono a mantenere inalterate le o atone, diversamente da quanto accade sia in alto badiotto, sia in gardenese (dove passano a u). Quest’esito si avvicina invece al marebbano e al ladino meridionale, che mantengono generalmente la o: così per ‘dormiva’ si ha colf. al dormì:, come mar. al dormìa, caz. el dormìa, liv. el dormìva, amp. el dromìa, vs. bad. al durmì:, grd. l durmì(v)a;

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a livello morfologico, a Colfosco si mantiene l’uso della doppia preposizione sa (< su + a), come in gardenese, fassano e fodom: sa Palùa (‘su a Palùa’). Questa forma è documentata anche per il resto del badiotto in età medievale, ma oggi non è più in uso (cf. Craffonara 1998a, 72).

4.2 Il gardenese Il gardenese è parlato nei comuni di Ortisei, Santa Cristina e Selva, e nelle frazioni Bulla, Oltretorrente e Roncadizza appartenenti al comune di Castelrotto, il cui restante territorio (compreso il paese capoluogo) è oggi tedescofono. La conformazione geografica, priva di ostacoli fisici significativi, la rende un’area linguisticamente compatta, in cui la variazione è molto limitata. Questa compattezza è ancor più notevole se si tiene conto che la Val Gardena è stata per molti secoli divisa amministrativamente in tre giurisdizioni: la giurisdizione di Gudon in Val d’Isarco, che comprendeva gli odierni comuni di Ortisei e Santa Cristina, la giurisdizione dei signori di Wolkenstein, che comprendeva il comune di Selva e Colfosco in Val Badia, e la giurisdizione di Castelrotto, che comprendeva Bulla, Roncadizza e Oltretorrente. Sulla compattezza linguistica dell’area potrebbe avere influito il ruolo accentratore di Ortisei, che è sempre stato sia il centro di riferimento della valle (ma non a livello politico né religioso), per la sua posizione e per il numero di abitanti, che supera notevolmente quello degli altri abitati: per tutto il ’900, il nucleo di Ortisei ospitava da solo la metà degli abitanti di tutta la Val Gardena. Se si aggiungono gli abitanti delle frazioni di Roncadizza e Oltretorrente, che de facto formano un insediamento unico con Ortisei, il ruolo accentratore del capoluogo gardenese risalta ancora di più. Nel censimento del 2011, in tutta la Val Gardena si sono dichiarate appartenenti al gruppo linguistico ladino poco più di 9.000 persone; nei tre comuni a maggioranza ladina essi raggiungono complessivamente l’87 % circa del totale. Nel corso dell’inchiesta Survey Ladins, 6.039 persone hanno dichiarato di avere il ladino come lingua madre (il 67,8 % del totale); il 93,4 % dichiara di avere una competenza attiva, il 97,6 % una competenza passiva. A livello sociolinguistico, vi è un forte divario tra Ortisei, in cui solo il 58,5 % dichiara di avere il ladino come lingua madre, e gli altri due comuni, in cui questa percentuale è del 77,8 % a Santa Cristina e del 79,6 % a Selva (dati elaborati sulla base di Dell’Aquila/Iannàccaro 2006).

4.2.1 Caratteristiche del ladino gardenese A livello fonologico, il gardenese si caratterizza per: – nel vocalismo, il gardenese mantiene la vocale ë (realizzata all’incirca a metà strada tra una a e una è, trascrivibile nell’IPA con /æ/), che si trova con valori

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simili in basso badiotto e livinallese (dove però è più arretrata), mentre è stata modificata in vari modi nelle altre parlate; i dittonghi originati dall’allungamento delle vocali medie hanno subito delle ulteriori evoluzioni: nella serie velare, ò: > wò > ùǝ (con passaggio da dittongo ascendente a discendente), e viceversa ó: > ów > ëw: lat. OVUM ‘ uovo’ > grd. ùǝf vs. liv. vwòf, e CRUCEM ‘ croce’ > grd. krëwš vs. liv. kròwš. Nella serie palatale, è: > jè > jé è passato in alcuni casi a ìǝ (la realizzazione cambia a seconda delle parole e dei parlanti: nell’ALD-I si hanno sìǝf ‘siepe’ ma jé ‘io’/‘è’); é: > éj > ëj si è invece mantenuto, mentre le altre varietà hanno modificato il dittongo in seguito alla perdita del fonema ë (tranne il basso badiotto): lat. SAEPEM , ‘siepe’ > grd. sìǝf vs. ‘ > grd. nëjf vs. liv. e moe. néj e caz. nèj; liv. sjé fas. sjéf, e lat. NIVEM , ‘neve’ un’altra caratteristica delle vocali toniche è il passaggio ad è ad é (tranne davanti a r). Si tratta di un fenomeno avvenuto nell’ultimo secolo, perché Gartner (1879) indica è come possibile esito di a e di è del latino volgare, ma mai é. Nell’ALD-I abbiamo così lat. SALEM ‘sale’ > sél (in Gartner sèl) vs. caz. liv. sèl, bad. sè (mentre anche il marebbano ha é), lat. FRATRES ‘fratelli’ > frédeš (in Gartner frèdeš) vs. abad. frèdeš caz. frèdes, lat. FACERE > fé vs. liv. fè (così anche in Gartner 1879). Davanti a r, invece, si mantiene la mediobassa è: père (< PATREM ‘padre’), lère (< LATRO ‘ladro’), rèr (< RARUM ‘raro’); nel vocalismo atono si può segnalare la tendenza ad innalzare o a u: dumënja < domënja ‘domenica’); anche il nesso ve- passa a u- a inizio parola: lat. VIDERE > udëj, ital. Venezia > unjéža, lat. VENIRE > unì. Il fenomeno è presente anche in gaderano, dove dà u oppure o, ma meno coerentemente che in gardenese: udëj/ odëj, aunéžia, ma viñì. Anche la e atona subisce un indebolimento e passa a ə o cade, in particolare nel parlato veloce in presenza di una liquida, che va così a fungere da nucleo sillabico: si vedano per es. le varianti dei toponimi gR dëjna ‘Val Gardena’ o sànta kR štìna (basato su kR əštìna anziché su kR ištìna), e forme come tótl (da tirolese T(r)otl ‘imbecille’). Questo fenomeno si trova in maniera simile anche nei dialetti tirolesi limitrofi, dove si hanno forme come dR nó:x, ted. danach (‘dopo’), o fR štìən, ted. verstehen, (‘capire’); nel consonantismo si segnalano lo scioglimento di ñ a ni (aràni < aràñ ‘ragno’, anjél < añél) ‘agnello’), la pronuncia uvulare della laterale r (non segnalata nelle trascrizioni di questo contributo, ma presente in tutti i contesti), il mantenimento del nesso nd, che altrove perde l’elemento occlusivo (tranne nel collese, cf. infra): lat. QUINDECIM > grd. kìndəš vs. gad. fas. kìnèš, lat. ROTUNDUM / ROTUNDA (con metatesi) > grd. turónt/turónda vs. gad. liv. fas. torón/toróna, lat. VENDERE > grd. vëndər vs. fas. véner, liv. văne, mar. vène, bbad. vëne, abad. vàne.

I tratti più importanti della morfosintassi gardenese sono: – il gardenese è l’unica varietà ladina a non possedere più un pronome soggetto enclitico di seconda persona singolare: la realizzazione del -te è oscillante già nei testi di Matie Ploner (inizi dell’800), dove la sua assenza è favorita dalla realizza-

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zione della particella interrogativa, cf. (25) e (26); il pronome non è mai realizzato in Vian (1864), posteriore di mezzo secolo circa: (25)

(26)

(27) (28)





(29)

Sce ne ti dès böl prëst la brèies, | Audirèste tòst de se non le dai ben presto i pantaloni, sentirai-tu.CL presto di biei svèies. bei urli (Ploner, L vedl mut, 5,5, tratto dal CGL) ‘Se non cederai ben presto i pantaloni a tua moglie, sentirai delle belle urla.’ Co t’espa poedù inamurè t’una tel persona? come ti hai-PART potuto innamorare in una tale persona (Ploner, Kleine Erzählung 4, tratto dal CGL) ‘Come ti sei potuta innamorare di una tale persona?’ Audes? (Vian 1864, 175) ‘Senti?’ Ies’a jit a Maran inier? (grd. odierno) sei PART andato a Merano ieri ‘Sei andato a Merano ieri?’ gli esempi (27–28) testimoniano un’altra peculiarità recente del gardenese: nell’800 la particella interrogativa pa (ridotta a ’a dopo sibilante) era opzionale e veicolava un senso modale (come accade ancora oggi nelle altre varietà ladine). Oggi invece è obbligatoria sia nelle interrogative polari, sia in quelle parziali (Dohi 2017; 2019); un’altra caratteristica del gardenese riguarda il pronome possessivo in posizione prenominale: il possessivo è usato come un determinante (ossia non può essere preceduto da un articolo), come in gaderano, collese, brach, cazét e opzionalmente in fodom, ma diversamente da queste varietà il possessivo del gardenese non è mai accordato né per genere né per numero. In ampezzano e moenese, invece, il possessivo è sempre preceduto dall’articolo: a. b.

(30)

a. b.



(*la) ti breies de la POSS . brache di *ties breies de tue brache di töes braies de tue brache di ra tò mudandes la tuo mutande ‘le tue mutande’

sot sotto sot sotto sot sotto

(grd.)

(mar.; dati ALD-II) (amp.; ibid.)

un ultimo tratto caratteristico del gardenese riguarda l’accordo parziale del plurale (il cosiddetto lazy plural, cf. Belardi 1984; Rasom 2008): in gardenese

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questo fenomeno riguarda sia i maschili che i femminili, mentre in cazét e ampezzano riguarda solo i femminili (cf. infra). Nel caso dei femminili, la marca di plurale si ha sul sostantivo e sugli elementi che lo seguono, mentre quelli che lo precedono, compresi gli articoli e altri determinanti, sono al singolare: (31)

a.

b.

La pitla mutans la piccola bambine «Le piccole bambine» La mutans talianes la bambine italiane «Le bambine italiane»

In cazét e ampezzano, invece, quando c’è un aggettivo postnominale il sostantivo può stare anche al singolare, una possibilità agrammaticale in gardenese. Nel maschile, invece, l’accordo può mancare su alcuni tipi di aggettivi prenominali (in particolare di qualità, quantità e indefinitezza), mentre i determinanti sono sempre accordati: (32)

a.

b.



(33) (34)

ti prim nei primo ‘nei primi giorni’ i gran i grande ‘i grandi danni’

dis giorni danns danni

(Belardi 1984, 103)

altre peculiarità prettamente sintattiche del gardenese sono legate all’uso dei pronomi soggetto clitici: come il gaderano, il gardenese non ammette mai il raddoppiamento del soggetto preverbale per mezzo di un clitico soggetto. Quando il soggetto è postverbale, può essere raddoppiato dal clitico solo se è un pronome tonico. In gaderano, invece, anche i sostantivi e nomi propri possono essere raddoppiati (cf. supra, cap. 4.1.1): *Inier àla Maria rujenà Maria parlato Ieri ha-lei.CL Inier àla ëila rujenà lei parlato Ieri ha-lei.CL ‘Ieri lei ha parlato con Pietro.’

cun con cun con

Piere. Pietro Piere. Pietro

Infine, a livello lessicale, il gardenese si distingue in particolare per avere un numero più elevato di germanismi, provenienti da tutte le epoche (cf. sezione 3.3). Tra i prestiti più antichi esclusivi del gardenese si possono segnalare scipa (< abav. schipa, ‘vetro’), tupa (= abav., ‘colomba’), entrambi entrati in gardenese prima dell’XI secolo, perché

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in quel secolo l’occlusiva intervocalica sorda del tedesco si è sonorizzata; véla (< abav. wala, ‘votazione’), stèrch (< abav. starch, ‘forte’), presi in prestito prima del XIII secolo (prima che in bavarese la a arretrasse a å). Altri vocaboli sono (m)bincé (< ttir. βinschn, ‘augurare, desiderare’), foter (< ttir. ‘padre’, in gardenese ha preso il significato di ‘suocero’), zimra (< ttir./ted. Zimmer ‘camera’). Tra i neologismi, si possono citare lèctrisc (‘elettricità’; dall’agg. ttir./ted. elektrisch), handy, pseudoanglismo con lo stesso significato del tedesco Handy. È entrato tramite il tedesco anche l’anglismo trainer (‘allenatore’, presente anche in badiotto), che in gardenese è stato anche adattato tramite il suffisso -ëur: trainadëur/trainadëura ‘allenatore/allenatrice’. Infine, in gardenese si osserva la tendenza ad usare esonimi tedeschi per riferirsi a paesi e località straniere: Iapan, Mèxico, Deutschland (o Daitschlond, come in tirolese), Paris, London, Moscau.

4.3 Il fassano All’ultimo censimento, in Val di Fassa si sono dichiarate ladine 8.092 persone (imprecisabile il numero di parlanti fassani residenti nel resto della provincia di Trento), il che corrisponde all’81,5 % della popolazione fassana (dati tratti dal censimento del 2011). All’interno della valle, le persone che si sono dichiarate ladine sono percentualmente più numerose nella bassa valle (dove arrivano all’87,7 % a Vigo di Fassa), e meno numerose nell’alta valle (con la percentuale più bassa di tutta la valle a Mazzin, con il 77,3 %) e a Moena (78,8 %). Stando ai dati di Survey Ladins, invece, il 40,5 % della popolazione fassana dichiara di avere il ladino come lingua madre e il 58,8 % di averlo come prima lingua. Anche in questo caso si osserva un divario notevole (fino al 25 % di differenza) tra la bassa valle da una parte, Moena e l’alta valle dall’altra: a Mazzin il 74,5 % della popolazione ha il ladino come prima lingua (percentuali simili si osservano a Pozza e Campitello), a Canazei solo il 52,8 % e a Moena addirittura meno della metà (49,3 %). La percentuale è più alta se si considera la competenza attiva e passiva: l’82,3 % dei fassani dichiara di avere competenze attive (con gli estremi del 76,2 % a Moena e del 90,1 % a Campitello), e il 97,4 % di avere competenze passive, una percentuale omogenea in tutta la valle. A livello linguistico interno, il fassano si divide in tre gruppi di varietà: il cazét, parlato nell’alta valle (comuni di Canazei, Campitello e Mazzin), il brach, parlato nella bassa valle (comuni di San Giovanni di Fassa e Soraga) e il moenat, parlato nel comune di Moena (con l’eccezione della frazione di Forno, in cui si parla una varietà trentina fiemmese). Il cazét forma la base per il fassano standard perché è la varietà più vicina alle altre varietà ladine, sebbene sia la varietà con il minor numero di parlanti.

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4.3.1 Caratteristiche del fassano Il fassano si distingue nel suo complesso dalle altre varietà ladine per una serie di caratteristiche. In fonologia, queste sono: – la monottongazione del dittongo wó (da ò:: ) in é (attraverso gli stadi intermedi wé > ö): lat. CŎRDE ( M ) ‘cuore’ > fas. kér, vs. gad. kö:r, grd. kùǝr, liv. e col. kwór e amp. kwóre, lat. PAUCU ( M ) ‘poco’ (> lat. tardo *PŎCU ( M )) > fas. pék vs. gad. pük, grd. pùǝk, liv. e col. pwók, amp. póko; – la vocale centrale abbassata ë del protoladino è passata a é o è: lat. PISCEM ‘pesce’ > fas. péš, vs. grd. bbad. pëš, liv. păš, lat. SICCUM ‘secco’ > fas. sék vs. grd. bbad. sëk, liv. săk; lat. CENTUM > fas. tšènt, vs. grd. e bbad. tšënt, liv. tšănt, e lat. NITIDUM > nét (fino a Monzone compreso) o nèt (a Vigo e Moena), vs. grd. bbad. nët, liv. năt. Quest’esito si ritrova anche a Colle Santa Lucia e in ampezzano, dove però la e è sempre chiusa, e in marebbano, dove la e è aperta tranne davanti a palatale (fén, ‘fieno’); – la -i del plurale può causare la palatalizzazione della a tonica: il plurale di fas. àn (‘anno’) è caz. e moe. èñ, brach éñ, mentre nelle altre varietà si ha mar., liv. e coll. àñ, bad. àñ e grd. àni (l’ampezzano invece ha un plurale in -s); il plurale di bàŋk ‘banco’ è caz. bèntš e brach béntš, vs. gad. bà:ntš/bà:nć, grd. bàntš, liv. băntš (collese, ampezzano e moenat non hanno il plurale in -i in questo caso); – il dittongo latino AU si chiude a o o u quando è atono: lat. LAUDARE ‘ lodare’ dà caz. lodèr e bra. lodàr, vs. mar. laldé, bad. laldè, grd. liv. lawdé, liv. lawδé, col. lawδà e amp. lowdà; dal lat. AUTUMNUS ‘autunno’ si ha fas. utón vs. gad. altón, grd., liv. e col. awtón e amp. owtón. Anche il dittongo secondario aw < al subisce la stessa sorte: lat. volg. *ALTIARE > fas. utsèr vs. grd. awtsé. Quando è tonico, invece, il dittongo àw si mantiene sia quand’è primario che secondario: fas. pàwsså (come in gardenese e fodom) da lat. PAUSA , fas. àwt (come in gardenese, livinallese e collese) dal lat. ALTUM ‘ alto’; – la a atona finale viene arretrata a å, tranne in moenese, e in alcune varietà (specialmente in brach) innalzata a ò: lat. VESPA > caz. e bra. béšpå, lat. ROSA > caz. e bra. rézå, lat. SANCTA > fas. sèntå (dati dell’ALD-I). Nei dati dell’ALD non traspare un trattamento diverso della a atona latina in brach e cazét, che viene trascritta ovunque come å. Elwert invece sottolineava la differenza, dicendo che a Canazei aveva sentito generalmente ạ, ma le persone molto anziane avevano ǫ, come a Vigo di Fassa e Pozza (Elwert 1943, 53; manteniamo la trascrizione originale). Nel progetto VIVALDI, l’informatrice di Alba di Canazei ha a, mentre l’informatore di Vigo ha o; – nel consonantismo, una caratteristica precipua del fassano è la risoluzione dei nessi di ‘consonante + L ’: fl, pl, bl, kl passano rispettivamente a fj, pj, bj, kj, mentre gl può dare ǵ oppure j a inizio di parola; in posizione interna sia gl che kl (> gl) danno j. Si hanno quindi fjòk da lat. FLOCCUM ‘ fiocco’ (vs. grd. liv. col. bbad. e mar. flòk, abad. flò:k), pjàtå da ted. Blatt (‘pagina, piastra’), vs. grd. bad. e liv.

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plàta; fas. bjàŋk da lat. tardo *BLANCUM (< germ. blank), vs. gad. grd. liv. blàŋk; fas. el kjàmå (< CLAMAT ‘ chiama’) vs. liv. el klàma; fas. ǵàtšå, djàtšå o jàtšå (< lat. GLACEA ) vs. liv. glàtš. A livello morfologico, si registrano: – la desinenza della seconda persona plurale in -de, in tutti i tempi e modi (tranne all’imperativo). All’indicativo si ha così il presente ciantade, l’imperfetto ciantaède, il futuro ciantaréde, al congiuntivo il presente ciantède e l’imperfetto ciantassède; – il mantenimento della -r dell’infinito, che altrove cade (in gardenese si mantiene solo nella terza declinazione, ossia quella rizotonica con infinito in -er, come mëter, ‘mettere’). Si hanno così: ciantèr (‘cantare’), cognér (‘dovere’ < CONVENIRE ), bater (‘battere’) e dormir (‘dormire’). In sintassi, si segnalano: – oltre all’interrogativa con inversione, è possibile formare le frasi interrogative parziali con il complementatore che (e di conseguenza senza inversione):

(35)

a. b.

(36)

a. b.



(37)

Olà che t’ès metù la tascia? dove che tu.CL hai messo la borsa Olà aste metù la tascia? borsa dove hai-tu.CL messo la ‘Dove hai messo la borsa?’ Chi che vèn? chi che viene Chi végnel? chi viene-lui.CL ‘Chi viene?’

(ALD-II, 1027s.)

(ALD-II, 1011)

con i verbi di percezione, il fassano ammette l’uso di costruzioni infinitivali, ma non gerundive (diversamente da gardenese e gaderano). Diversamente da fodom, collese e ampezzano, invece, in fassano sono esclusi anche i complementi con un infinito preposizionale (cf. infra): a. b. c.

Luca sent ciantèr na cianzon. Luca sente cantare una canzone *Luca sent ciantan na cianzon. Luca sente cantando una canzone *Luca sent a ciantèr na cianzon. Luca sente a cantare una canzone (possibile in liv., col. e amp.) ‘Luca sente cantare una canzone.’

(fas.) (possibile in grd. e gad.)

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Infine, il fassano è caratterizzato anche da basi lessicali in parte diverse da quelle delle altre varietà, come mostrato da Elwert (1943). Le basi caratteristiche del fassano possono essere divise nei seguenti gruppi: – basi lessicali esclusive del fassano, come bregostena e vivèna (entrambi con il significato di ‘strega’) e fórfola (‘segatura’ < FURFURE ). Il fassano ha mantenuto anche alcuni lessemi un tempo più diffusi: mancogna (‘lutto’), nell’espressione portèr mancogna e dèsch/désch (‘tavola’). Il termine dësch/desco si è mantenuto anche in livinallese e ampezzano, ma con un significato più ristretto. Per indicare la tavola in generale, tutte le altre varietà ladine usano i continuatori di MENSA ; – il fassano ha mantenuto anche alcuni lessemi che si ritrovano solo in alcune varietà non dolomitiche, come dombrèr (‘contare’ < NUMERARE , con dissimilazione) che si trova anche in engadinese (il ladino settentrionale ha cumpedé, Fodom e Ampezzo conté); moscèr (‘mostrare’) presente anche a Fiemme, Canal San Bovo e in romancio (vs. mustré/mostré delle altre varietà ladine); pàvol/pàbol (‘mangime’), anche a Fiemme e nel romancio (vs. grd. vejeladura); e vaèr (‘piangere’), condiviso con il friulano – le altre varietà ladine hanno il tipo liv. braglé, tranne l’ampezzano che ha pianse; – nel settore dei neologismi si possono individuare formazioni uniche del fassano, formate con materiale interno, come se spieièr (‘specchiarsi’), vs. il tipo se cialé del resto della Ladinia; ge vel (‘bisogna’, lett. ‘ci vuole’), vs. messëi (i dialetti trentini hanno cogner – anche presente in fassano – , gaver da o dover, cf. Casalicchio/Cordin in stampa); e béz, béza (‘bambino’, ‘bambina’), la cui origine non è chiara (forse riconducibile al veneto bezzo ‘moneta di rame’, come suggerito da Elwert 1943, 229); – infine, in fassano si ritrovano una serie di prestiti dalle varietà italoromanze, dove le altre varietà ladine hanno mantenuto la forma ereditaria. Alcuni esempi sono ègher (‘acido’ vs. eje delle altre varietà), mistièr (‘mestiere’, vs. ert < ARTEM ), fior (‘fiore’ vs. ciof – nelle altre varietà i continuatori di FLOREM hanno il significato specifico di ‘fiore dell’albero’), gocia (‘goccia’, vs. gota), scuier (‘cucchiaio’, vs. sciadon), snasèr (‘annusare’, vs. tufé), òrc (‘orzo’, vs. òrde), bolintiera (‘volentieri’, vs. gën) e setemèna (‘settimana’, vs. edema/ena).

4.3.2 Differenza tra il fassano brach e cazét In questa sezione tratteremo le caratteristiche distintive di brach e cazét in ottica contrastiva. La sezione successiva sarà invece dedicata alle peculiarità del moenese. In fonologia, le due varietà si distinguono per: – il trattamento di a tonica, che viene palatalizzata nei contesti di allungamento solo in cazét, mentre si mantiene in brach (e anche in moenese). Si hanno quindi caz. mère vs. bra. màre (< MATREM , ‘madre’), caz. lék vs. bra. làk (< LACUM , ‘lago’), caz. sènå vs. bra. sànå (< SANA ), caz. èlber vs. bra. àlber (< ARBOREM , ‘albero’). Le

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varietà di Campestrin e di Mazzin formano un’area di transizione, perché mantengono la a quando è seguita da r: lèva (‘lava’), ma lašar (‘lasciare’) (Elwert 1943, 34); in cazét la è: protoladina non dittonga in una serie di contesti, in particolare in sillaba chiusa (Elwert 1943, 39 s. parla invece di retroformazione), e quindi appare come é. Il brach (e il moenese) in quest’ultimo caso presentano solitamente l’ulteriore evoluzione a è, che secondo Elwert è dovuta all’influsso dei dialetti trentini. Si tratterebbe di un’innovazione che risale la valle, e che in effetti spesso coinvolge anche Campitello, ma non Canazei (come testimoniato dall’ALD-I). Si hanno quindi caz. méts vs. bra. mèts e moe. mès ‘mezzo’, caz. vérm e bra. vèrm ‘verme’; esempi di risalita della è fino a Campitello sono; bél (‘bello’) a Canazei vs. bèl nel resto della valle, e il termine per ‘pelle’, che a Canazei è pél mentre nel resto della valle è pèl.

A livello morfologico, i tratti caratteristici del cazét, che lo distinguono dal brach, sono collegati al mantenimento della -s finale con valore morfologico, che invece cade in molti contesti in brach (e anche in moenese): – nella coniugazione verbale, il cazét forma la seconda persona singolare con il suffisso -s per tutti i tempi, all’indicativo e congiuntivo. Le seconde persone sono quindi in cazét ciantes, ciantèes, ciantarès, ciantes e ciantasses (‘canti, cantavi, canterai, [che tu] canti, cantassi’), in brach ciante, ciantàe, ciantaràs, ciante, ciantasse. Si noti che nel futuro la -s si mantiene anche in brach, parallelamente al verbo avere alla seconda persona (caz. ès, bra. as ‘hai’). Elwert (1943, 152–153) indica la forma in -s anche per il congiuntivo (presente e imperfetto) in brach. Tuttavia, nei dati dell’ALD-II, queste forme appaiono sempre asigmatiche; – il cazét mantiene la -s anche nei plurali femminili, mentre il brach utilizza il morfema di plurale ‑e se il singolare termina in -a, il plurale invariato se il singolare termina in consonante. Esempi del primo tipo sono caz. fiama - fiames (‘fiamma/e’), ortìa - ortìes (‘ortica/che’), vs. bra. fiame e ortìe. Per i femminili in consonante si vedano rèisc - rèijes (‘radice/i’) e chiéf – chiéves (‘chiave/i’), vs. bra. rèisc, chiaf (sia singolare che plurale). Nel maschile, invece, il plurale sigmatico alterna con quello in -i in entrambe le varietà, anche se è leggermente più diffuso in cazét. In particolare, quest’ultimo tende a usare maggiormente il plurale sigmatico nei maschili che terminano in -n o -nt, mentre il brach in questi contesti tende a usare il plurale in -i. Esempi sono caz. torons vs. bra. torogn (‘rotondi’), caz. comedons vs. bra. comedogn (‘gomiti’) e caz. pents vs. bra. ponc (‘ponti’); – nella morfologia pronominale, il cazét ha gé per ‘io’ (bra. gio/iò), nos per ‘noi’ (bra. noi), vó per ‘voi’ (bra. voi) e te come pronome clitico soggetto (bra. tu). Cazét e brach si distinguono anche per alcuni fenomeni sintattici: – la prima differenza riguarda l’accordo nei sintagmi nominali al femminile plurale. Come in gardenese (cf. supra), in cazét i determinanti e aggettivi prenominali

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appaiono al singolare, gli aggettivi postnominali al plurale. Diversamente dal gardenese, però, se c’è un aggettivo postnominale, il sostantivo può essere anch’esso al singolare: (38)



(39)

(40)

a. la pìcola cèses la piccola case

b. la cèses pìcoles la case piccole

c. la cèsa pìcoles (Rasom 2008, 5) la casa piccole

Rasom (2008) propone che la differenza tra (38b) e (38c) sia collegata a due diverse letture dell’aggettivo, una connotativa ((38b), che caratterizza anche l’aggettivo prenominale in (38a)) e l’altra denotativa (38c); una seconda caratteristica che distingue parzialmente brach e cazét riguarda l’ordine tra i clitici soggetto e la negazione. In brach, l’ordine è obbligatoriamente ‘negazione – clitico soggetto’; in cazét, invece, entrambi gli ordini sono possibili quando il clitico soggetto è di terza persona, anche se sembra esserci una tendenza ad adottare lo stesso ordine del brach (come si evince dai dati dell’ALD-II): dijeme voetres se la no sona proprio bel la noscia bela ditemi voi se lei.CL non suona proprio bene la nostra bella ciampèna de Sènt Antone Abate ta Dèlba. campana di Sant Antonio Abate ad Alba (CGL: Rola Zot, La grana de Dèlba) ‘Ditemi voi se non suona proprio bene la nostra bella campana di Sant’Antonio Abate ad Alba di Canazei.’ De mé, el no pief mai assé. Di maggio, CL . ESPL . non piove mai abbastanza (CGL: Simone Soraperra, Festes e segres) ‘Di maggio non piove mai abbastanza.’

Infine, a livello lessicale: – il brach appare generalmente più influenzato del cazét dalle vicine varietà italoromanze. Alcuni esempi sono caz. agùt vs. bra. ciòdo (‘chiodo’), caz. tésech vs. bra. velén (‘veleno’), caz. pésca de mé vs. bra. pentecòste, caz. insnet vs. bra. stasera, caz. pom (de tera) vs. bra. patat; – in alcuni casi è il brach a mantenere il termine più antico: bra. torchèis (anche a Campitello) vs. sorech ‘granoturco’ a Canazei (come nel fodom, dal ven. sorgo); – formazioni indipendenti una dall’altra sono i termini per ‘bruco’, che è ciutsèna (< CALCEANA ) in cazét e schiussana in brach (forse da schiufa, ‘guscio’, Elwert 1943), e per ‘quale’ (caz. chelun/colun vs. bra. cal). Infine, ad alcuni germanismi del cazét corrisponde un italianismo/trentinismo in brach: caz. sgnech (< ted. Schnecke) vs. bra. boagnél (presente anche a Fiemme e in Val Rendena) per ‘lumaca’ e caz. zogher (< ttir. Zoager) vs. bra. fritsa (< trent. friza, ‘freccia’) per ‘lancetta’.

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4.3.3 Caratteristiche del moenese Il paese di Moena confina con la Val di Fiemme, e per questo motivo la sua parlata risente particolarmente degli influssi provenienti dal fiemmese e dai dialetti trentini più in generale. Ha quindi un carattere di transizione, anche se è indubitabilmente di base fassana (e quindi ladina). Il confine tra il moenese e il brach non è sempre netto, perché alcune isoglosse del moenese raggiungono anche Soraga. Heilmann (1955) elenca una serie di isoglosse che posizionano il moenese all’interno del contesto più ampio del fiemmese e fassano (cf. carta 2). Alcune delle isoglosse indicano caratteristiche che sono uniche al moenese (isoglosse 1–6 nella carta 2). Si tratta di caratteristiche che come dimostra l’ALD oggi sono andate perse quasi sempre, perché in tutti questi casi il moenese tende a seguire il modello delle altre varietà fassane. Si tratta di (nell’elenco si danno prima le forme di Heilmann 1955, e poi si descrivono i dati dell’ALD): – la semivocale j passa a z in posizione iniziale o postvocalica, a ž in brach e cazét: IOCARE > moe. zìr vs. bra. žjàr ‘giocare’, *JOVIA > moe. zöbja vs. bra. žébjå ‘giovedì’, IUNIPERUM > moe. zenéwre vs. bra. ženéjver ‘ginepro’, LEGERE > moe. ǵézer vs. bra. léžer ‘leggere’ (Heilmann 1955, 97). Nei dati dell’ALD, però, il moenese ha quasi sempre ž, come le altre varietà fassane. Si osserva quindi un avvicinamento al fassano (che per alcuni termini, per es. ‘giocare’ coinvolge anche Predazzo); – il nesso sj passa a z in posizione postvocalica interna, a s in posizione finale: CAMISIA > moe. tšamìza, FASEOLUM > moe. fazöl, GRISEUM > moe. grìs ‘grigio’. Anche in questo caso però i dati dell’ALD testimoniano che il moenese ha seguito il modello fassano e ha ora l’esito ž (š in fine di parola): tšamìža, fažöl, grìš; – il nesso dj intervocalico o preceduto da consonante passa a dz (ts in fine di parola): MEDIA > mèdza ‘mezza’, *HAEDIOLA > udzòla ‘capretta’, MEDIUM > mèts ‘mezzo’. Nell’ALD il moenese mostra come esito z (in fine di parola s): mezanòt ‘mezzanotte’, mès ‘mezzo’. Anche il fassano ha z, tranne in fine di parola dove ha mantenuto ts (diversamente dal moenese): bra. meẓånòt ma mèts; – la sibilante s passa a ts (dz se intervocalica), ma si mantiene in brach e cazét: SANCTUM > moe. tsènt, SICCUM > moe. tsék, CASAM > moe. tšàdza, PENSARE > moe. pedzàr, FLORES > moe. fjórets. Anche in questo caso l’ALD mostra che il moenese si è ormai adeguato alle varietà fassane, e ha ristabilito la s (z se intervocalica), per es. sènt, sék, tšàza; – il nesso si: in fine di parola dà s: FUSI > moe. fùs, NASI > moe. nàs, *MENSI > moe. més. Oggi il moenese ha seguito il modello delle restanti varietà fassane e ha forme come nàš e méš; – i nessi CE e CI danno z (s in posizione finale): ACETUM > moe. azé, TACERE > moe. tàzer, DECEM > djès, VOCEM > moe. òs. Oggi il moenese ha generalmente ž (š in fine di parola): tàžer, djèš, òš (ma la z si mantiene in azé).

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Carta 2: Principali isoglosse nelle valli di Fassa e di Fiemme (da Heilmann 1955, carta allegata in fondo al volume)  

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Dall’altra parte, vi sono due caratteristiche che Heilmann (1955) attribuisce all’area che comprende il brach, il moenese e la parlata di Predazzo, ma che oggi sono limitate al moenese, come testimoniato dall’ALD (isoglosse 7 e 8 nella carta 2): – il passaggio di olC > ojC, attestato da Heilmann (1955) per il brach, il moenese e l’area di Predazzo, oggi appare esclusivo del moenese. Abbiamo quindi AUSCULTARE > moe. škojtàr, bra. škutàr, a Predazzo ṣkoltàr ‘ascoltare’, VOLTAM > moe. ójta vs. bra. útå, a Predazzo óta ‘volta’, DULCEM > moe. dójtš, vs. bra. dòwtš ‘dolce’; – in tutto il fassano i nessi cl e gl in posizione interna hanno subito l’evoluzione in glj > lj. Da lì, il moenese e il resto del fassano hanno preso strade diverse: in fassano si è avuta l’ulteriore evoluzione lj > λj > j (che in determinati contesti può dare dž), mentre in moenese (e a Soraga) lj è passato a ldž, Elwert (1943, 85): moe. öldžes e Soraga élǵes vs. caz. èjes e bra. éjes (< lat. OCULOS ‘occhi’), moe. mùldže vs. caz. e bra. mùje (*MUCLUM < *MUCULUM , ‘mucchio, molto’). Vi sono poi delle caratteristiche che il moenese condivide con il fiemmese e che lo distinguono dal resto delle varietà fassane (isoglosse 12–16 nella carta 2). Si tratta di: – la riduzione del dittongo éj (< lat. e:) a e (in molti casi anche a Soraga): TELAM > moe. téla vs. bra. téjlå (‘tela’), SEDECIM > moe. sédeš vs. bra. sèjdeš (‘sedici’), STELLAM > moe. ṣ̌ téla vs. bra. ṣ̌ tèjlå; – la ò: del latino volgare ha subito i passaggi wò > wó> wé > ö nelle valli di Fassa e Fiemme. In seguito in brach e cazét la ö ha perso il tratto arrotondato ed è passata a é, mentre in moenese quest’ultimo passaggio non è avvenuto. Si hanno così moe. kör vs. caz. e bra. kér ‘cuore’ (< lat. CORDEM ), moe. fök vs. caz. e bra. fék ‘fuoco’ (< lat. FOCUM ), moe. völ vs. caz. e bra. vél ‘vuole’ (< lat. * VOLIT ); – anche il dittongo ów, mantenuto in fassano, in moenese subisce la retroformazione a ó: moe. króš vs. caz. e bra. krówš ‘croce’ (< lat. CRUCEM ), moe. sóla vs. caz. e bra. sówlå (< SOLA ); – la a atona finale rimane inalterata, mentre arretra in brach e in cazét: moe. pjövja vs. caz. e bra. pjévjå (< lat. PLUVIA , ‘pioggia’), moe. ròda vs. caz. e bra. ròdå (< lat. ROTAM , ‘ruota’), moe. bjèntša vs. caz. bjèntšå e bra. bjéntšå (< lat. volg. BLANCAM , ‘bianca’); – il nesso mb si mantiene nel moenese, ma passa a m nelle altre varietà fassane: CAMBAM > moe. àmba vs. caz. džàmå, bra. àmå ‘gamba’. Il nesso nd invece si mantiene solo in confine di morfema: QUINDECIM > moe. kìndeš vs. caz. e bra. kìneš ‘quindici’. Mentre non sono state registrate in letteratura differenze di rilievo a livello sintattico e morfologico rispetto al brach (si noti però la forma per ‘io’, che è giö in moenese, gió in brach e gé in cazét), nel lessico moenese vi sono una serie di lessemi penetrati dal fiemmese. Come esempi si possono citare: tosàt per ‘bambino’ (anziché béz), sól per ‘soltanto’ (anziché demò), da nöf per ‘di nuovo’ (anziché indò), sól per ‘sole’ (anziché soreie) e laures per ‘labbra’ (anziché slèves).

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4.4 Il livinallese e il collese Nell’attuale provincia di Belluno appartengono linguisticamente al ladino le varietà parlate nei comuni di Livinallongo del Col di Lana (Fodom), Rocca Piétore, Laste (amministrativamente comune di Rocca) e Colle Santa Lucia. La posizione linguistica di quest’ultima varietà è dibattuta: Pellegrini (1954/1955) la considera come parte del gruppo agordino, e più precisamente del gruppo formato dalle parlate di Alleghe, Selva di Cadore e Caprile, sulla base di due criteri principali: i) l’assenza della palatalizzazione di a nei contesti di allungamento e ii) il trattamento di è e ò in sillaba chiusa, che diverge notevolmente da quello di Fodom e Laste (Pellegrini 1954/1955, 284). Per le ragioni esposte al par. 3.1, in questo capitolo ci concentreremo sulle varietà di Fodom e Colle, rimandando a Pellegrini (1954/1955; 1979) e Pellegrini/Sacco (1984) per un trattamento delle altre varietà dell’alto bellunese. Il censimento generale della popolazione non offre dati sul numero dei ladinofoni in provincia di Belluno. Sulla base dei dati raccolti da Dell’Aquila/Iannàccaro (2006), invece, si può calcolare che circa 600 persone hanno dichiarato di avere il livinallese come lingua madre (ma il numero effettivo potrebbe essere più alto) e 200 il collese (esclusi i parlanti emigrati). Ciò corrisponde rispettivamente al 41,9 % e al 46,4 % della popolazione. Il ladino è indicato però come prima lingua da quasi 1.200 persone in Fodom (82,7 %) e da quasi 300 a Colle (68,3 %). I residenti con competenza attiva sono rispettivamente circa 1350 (95,9 %) e 400 (92,1 %); hanno una competenza almeno passiva il 99,3 % dei livinallesi e il 97,3 % dei collesi. Come si può vedere dai numeri, si tratta delle varietà con il numero più basso di parlanti, il che è dovuto non solo al numero elevato di persone che non hanno il ladino come prima lingua, ma anche allo scarso popolamento di queste aree, che hanno avuto uno sviluppo turistico meno marcato e sono lontane dai principali centri urbani.

4.4.1 Peculiarità del livinallese e collese In questa sezione si trattano le caratteristiche comuni di livinallese e collese, che le distinguono dalle altre varietà ladine. Sono elencate anche le caratteristiche del livinallese che non comprendono il collese. I tratti fonologici di queste varietà sono: – il livinallese (ma non il collese) mantiene la vocale mediobassa ë tipica del ladino; in fodom, però, la vocale è arretrata e corrisponde grosso modo a una ă (rappresentabile con il segno /ɐ/ in IPA; cf. Kramer 1976; Craffonara 1977; Toth 1993): lat. TRICHEA > liv. trătša vs. grd. trëtša e bbad. trëća, mentre col. dèrṣa (‘treccia’); lat. PISCEM > liv. păš, vs. grd. e bbad. pëš (col. péṣe) ‘pesce’; aat. frisk > liv. frăšk, vs. grd. e bbad. frëšk (col. frèṣk) ‘fresco’; – conservazione di uno stadio più arcaico del dittongo originato da ò: del latino volgare in contesti di allungamento. In livinallese e collese si mantiene l’esito wó,

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mentre le altre varietà ladine hanno il passaggio a wé, e da lì a ùǝ in gardenese, ü in gaderano, ö in marebbano ed é in fassano. L’ampezzano ha ridotto il dittongamento, sul modello del veneziano (cf. sez. 4.5): lat. NOVUM > liv. e col. nwóf, vs. grd. nùǝf, bad. nü e fas. néf; amp. nóo ‘nuovo’; lat. PAUCUM > liv. e col. pwók ‘poco’, lat. CORDEM > liv. e col. kwór ‘cuore’; l’esito della é: latina in contesto di allungamento è liv. éj come in marebbano (ma col. e), vs. grd. bbad. ëj, abad. aj, fas. èj e amp. jé. Lat. NIVEM dà liv. néj e col. néf ‘neve’, lat. *VOLERE dà liv. voléj e col. volè; conservazione dei nessi latini cl e gl (ma non a Colle, cf. infra), che passa a tl e dl in gardenese e gaderano, a kj e j o dj in fassano: lat. CLAVEM > liv. clé ‘chiave’, lat. GLACEA > liv. glàtš ‘ghiaccio’, ECCLESIAM > liv. gljéžja ‘chiesa’, lat. VETULUS > *veclus > liv. végle ‘vecchio’; la r tende a cadere quando è in fine di parola e deriva dai suffissi latini -orju, -orja, -ore, ma si mantiene a Colle: lat. MURATOREM > liv. muraδów e col. muràr (‘muratore’), lat. SAPŌREM > liv. sów e col. saór (‘sapore’), lat. MOLINARIUM > liv. mulinè e col. mulinàr (‘mugnaio’).

Le caratteristiche morfologiche di livinallese e collese sono: – il livinallese e il collese non mantengono la -s come desinenza della seconda persona del verbo (nel proclama in livinallese del 1632 la -s era ancora usata, ↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 5.3): liv. te mange, mangéi, col. te magne, magné (‘mangi, mangiate’), liv. e col. te dorme ‘dormi’, liv. dormiéi, col. dormì ‘dormite’. La -s si mantiene però nella seconda persona singolare di ‘essere’ e ‘avere’: es (‘sei’), as (‘hai’), e di conseguenza anche nel futuro: te podaràs ‘potrai’. In fodom, ma non in collese, la -s compare anche alla seconda persona plurale, ma soltanto nei casi di inversione: porteiso? (‘portate?’), Bernardi/Videsott (2011); – il livinallese e il collese sono le uniche varietà ladine ad avere i pronomi personali di prima e secondo persona singolare derivati non dal nominativo latino EGO e TU , ma dall’obliquo: liv. e col. mi, ti, vs. fas. gé/gió/ió e tu, amp. ió e tu (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 3.1); – mentre le altre varietà ladine hanno mantenuto tre forme dei pronomi personali forti (nominativo, oggetto diretto e oggetto indiretto, cf. caz. gé, mé, a mi), il livinallese e il collese hanno un’unica forma per tutti e tre i casi: mi, a mi e ti, a ti; – un’altra caratteristica del livinallese (ma non del collese) è l’agglutinazione della d- al pronome di terza persona *ël: dël e dëla ‘lui’ e ‘lei’ (al plurale si usa la forma lori/e). Si tratta di una rianalisi della preposizione de + ël, o più probabilmente della d eufonica che si trova in gardenese e gaderano quando una preposizione terminante in vocale precede la forma di terza persona (anche quando non è etimologica, cf. grd. a d’ël, ‘a lui’, na joca da d’ël ‘una giacca da uomo’); – nella morfologia nominale, il livinallese e il collese non hanno mantenuto il plurale in -s dei sostantivi femminili (la -s è stata eliminata tra la seconda metà del ’600 e gli inizi dell’800, Bernardi/Videsott 2011), che quindi terminano gene-

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ralmente in -e: liv. e col. bócia – bóce (‘bocca/che’), liv. e col. spìa – spìe (‘spiga/ ghe’), liv. e col. bóna – bóne (‘buona/e’). Al maschile invece il livinallese ha mantenuto alcuni plurali sigmatici (solo con certi lessemi terminanti in -n, -m, -l, -f, -e atona, -ì, -ù, -éi, -óu, per es. cian – cians, ‘can/i’; ciampanil – ciampanis, ‘campanile/i’; prum – prums, ‘primo/i’; muradóu – muradóus ‘muratore/i’; cf. Marcato 1987), il collese no (cf. infra); nella morfologia verbale, i tratti più caratteristici del livinallese sono la formazione dell’imperfetto tramite la suffissione con -ve/-va delle forme del presente. Ciò accade con tutte le forme del verbo essere: liv. sonva, eve, eva, sonva/sonve, seivio/seive/seiva, eva e col. somve, eve, eva, sievàne, sievà, eva. Inoltre, in livinallese questo procedimento si applica anche a tutti i verbi nella prima e seconda persona plurale: mangiónve, mangéive (‘mangiavamo, mangiavate’), cf. con il presente mangión, mangéi; un processo parallelo si osserva nella coniugazione del congiuntivo presente del fodom, dove la desinenza -be, derivante dal congiuntivo regolare di ‘avere’ al singolare (mi ebe, ti t ebe ‘io abbia, tu abbia’), è stata estesa a tutte le forme di ‘essere’ e ‘avere’, e alla prima e seconda persona plurale di tutti i verbi: le forme del congiuntivo presente di ‘essere’ sono quindi liv. sombe, siébe, siébe, sombe, séibe, siébe, e le forme al plurale per avere sono liv. ómbe, éibe, àbe. Con i verbi regolari, il congiuntivo presente della prima persona plurale è liv. mangiómbe e quella della seconda plurale mangéibe. Colle ha invece magnóne e magnesà.

In sintassi, il livinallese e il collese si caratterizzano per: – sia nel livinallese che nel collese il possessivo può essere preceduto dall’articolo, come dimostrano i dati dell’ALD-II: (la) mìa britola (‘il mio temperino’), (le) tue mudande (‘le tue mutande’), (la) sua cichera (‘la sua tazza’); – in entrambe le varietà, i verbi di percezione possono prendere come complemento un infinito preceduto dalla preposizione a (una eventualità che si trova anche in friulano, romancio, galloitalico e portoghese, ma che è assente dalle altre varietà ladine tranne l’ampezzano). Una particolarità del ladino, assente in quasi tutte le altre varietà che permettono l’uso dell’infinito preposizionale, è che l’infinito non necessita un soggetto realizzato fonologicamente (41b): (41)

a. Veighe i tosac a soghé. (liv.; Casalicchio 2013, 284) Vedo i bambini a giocare ‘Vedo i bambini che giocano.’ b. L Luca l sent a craié nte ourt. (ibid., 289) Il Luca lui.CL sente a gridare nell’orto ‘Luca sente gridare nell’orto.’ c. El sentìva a sonà le ciampane. (col.; ALD-II 354) lui.CL sentiva a suonare le campane ‘Sentiva suonare le campane.’

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Questa caratteristica è paragonabile a quella dei gerundi percettivi del gardenese e badiotto, che hanno le stesse proprietà (cf. supra; Casalicchio 2016a; 2016b).

4.4.2 Peculiarità del collese rispetto al livinallese Le principali caratteristiche del collese, che lo distinguono dal fodom, sono: – in fonologia, la a tonica allungata del collese palatalizza solo dopo palatale: lat. CASAM > col. tšéza e liv. tšèza, lat. MERCATUM > col. e liv. martšé. Negli altri casi la a si mantiene: lat. PARTEM > col. pàrt vs. liv. pèrt, lat. PATREM > col. pàre vs. liv. père, lat. STAT > col. ṣtà vs. liv. šté; – i nessi di ‘consonante + l’ del latino non si conservano e mostrano gli stessi esiti dei dialetti veneti (come in ampezzano): lat. CLAVEM > col. tšéf vs. liv. clé, lat. FLAMMAM > col. fjàma vs. liv. flàma, lat. PLANTA > col. pjànta vs. liv. plănta, lat.volg. BLANCUM > col. bjénk vs. liv. blănk; – il sistema delle affricate e delle sibilanti del collese è stato ristrutturato secondo il modello dell’agordino. Al liv. tš corrisponde il col. ŝ (col. ŝént vs. liv. tšănt ‘cento’), ai fonemi liv. ž e z il col. ẓ (col. tšéẓa vs. liv. ćèza ‘casa’; col. ẓanóǵe vs. liv. ženógle ‘ginocchio’), e a liv. s e š il col. ṣ (col. ṣéf vs. liv. séj ‘sete’; col. péṣe vs. liv. păš ‘pesce’), Bernardi/Videsott (2011); – i nessi nd e mb si mantengono in collese in tutti i contesti: per nd si considerino col. grànt (‘grande’), torónt/torónδa (‘rotondo’), vénδe (‘vendere’), vs. liv. gràn, torón/toróna, văne. In livinallese nd si conserva solo se precede la vocale tonica, tranne quando si tratta di una forma verbale: col. tšanδéla e liv. tšandăla. Un esempio della conservazione di mb è col. džàmba vs. liv. džàma (‘gamba’); – i nessi tš e dž si semplificano a ṣ e ẓ: lat. CENTUM > col. ŝént vs. liv. tšănt, lat. CINQUEM > col. ṣìnk vs. liv. tšìnk, lat. GENTEM > col. ẓént vs. liv. žént, lat. IUVENEM > col. ẓóven vs. liv. žóven; – a livello morfologico, il collese ha eliminato completamente dal proprio sistema il plurale sigmatico, mentre il livinallese lo mantiene con alcune classi di sostantivi maschili. L’eliminazione della -s ha come conseguenza un plurale invariato (anche in fodom, nei casi in cui la -s è caduta). Abbiamo così liv. e col. pom - pom (‘mela/e’), col. stomek - stomek (vs. liv. stome - stomesc, ‘stomaco/ chi’), col. prim - prim (vs. liv. prum - prums, ‘primo/i’); – nella morfologia verbale, oltre alle differenze notate sopra nell’estensione di -ve/va all’indicativo imperfetto e di -be al congiuntivo presente, il collese si segnala per condividere con l’ampezzano e con i vicini dialetti bellunesi una forma di condizionale «misto», esistente per le persone del singolare e per la terza persona plurale. Si hanno così forme come col. volarave (*VOLERE + * HABĪ ), ‘vorrei’, ẓirave (IRE + *HABĪ ), ‘andrebbe’. Le forme sono assenti dal livinallese;

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il collese, così come l’ampezzano, non distingue tra le forme per la 2. persona plurale del presente indicativo e dell’imperativo: col. magné vs. liv. mangéi (ind.) – mangé (imp.); infine, a livello sintattico, il collese prevede solo l’ordine ‘negazione – pronome clitico soggetto’, mentre in fodom, così come in cazét, si può trovare opzionalmente anche l’ordine ‘clitico soggetto – negazione’: a. b.

No l sa non lui.CL sa L no sa sa lui.CL non ‘Non sa di niente.’

da nia. da niente da nia. da niente

(Collese, ALD-II, 477) (fodom, ibid.)

4.5 L’ampezzano Come più volte menzionato (↗0 Introduzione; ↗2 Il ladino e le sue caratteristiche), da un punto di vista di linguistica interna l’ampezzano fa parte non del ladino sellano, ma del ladino cadorino, che riunisce le varietà della parte più settentrionale della provincia di Belluno, compreso il Comèlico. Tuttavia, l’ampezzano è tradizionalmente considerato come membro del ladino brissino-tirolese sulla base della sua storia, delle sue tradizioni e dei suoi legami culturali ed economici con le altre valli dolomitiche. Poiché questo capitolo tratta soprattutto di linguistica interna, i tratti distintivi da citare sono molteplici, e abbiamo scelto di limitarci a quelli più significativi. L’ampezzano è parlato in un unico comune, Cortina d’Ampezzo. Dai dati di Survey Ladins si evince che solo il 5,5 % degli abitanti indica l’ampezzano come madrelingua (il che corrisponde a 365 persone). La percentuale sale a 33 % se si guarda al numero di abitanti di Cortina che considerano l’ampezzano come prima lingua (circa 2.200 persone). Inoltre, dichiarano di avere una conoscenza attiva il 74,4 % (quasi 5.000 persone) e passiva l’89,9 % (quasi 6.000 persone). I dati sono elaborati sulla base di Dell’Aquila/Iannàccaro (2006). Generalmente non si distinguono sottovarietà dell’ampezzano, che come il gardenese e il livinallese è considerato come una varietà relativamente omogenea.

4.5.1 Peculiarità dell’ampezzano Le principali caratteristiche fonologiche dell’ampezzano sono: – mancata palatalizzazione di a nei contesti di allungamento: CARUM > amp. tšàro vs. caz. tšér, SALEM > amp. sa vs. bad. sé; – l’esito delle vocali allungate: solo le vocali anteriori è: ed é: presentano oggi un dittongo, che è lo stesso per entrambi gli esiti (jé). Le altre varietà ladine manten-

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gono due esiti distinti: è > jé e é > éj o èj (con delle variazioni interdialettali). In ampezzano non c’è dunque distinzione della vocale tonica in parole come lat. *MĔLE (‘miele’) e DĔCEM (‘dieci’) da una parte, SITEM (‘sete’) e FRIGIDUM (‘freddo’) dall’altra: amp. mjél, djéš, sjéde e fjédo, da confrontare con il liv. mjél e δjéš vs. séj e fréjt. Le vocali posteriori ó e ò invece hanno dato l’unico esito wó, che però in molti casi è stato ridotto a ó: esempi di dittonghi mantenuti sono rispettivamente LOCUM > amp. lwó (‘luogo) e IUGUM > amp. zwógo (‘giogo’), da confrontare con il liv. lwók e žów. Esemplificano invece la riduzione del dittongo rispettivamente CROCEM > króš (vs. liv. krówš), OVUM > vóo (probabilmente attraverso gli stadi *vóf > *vóvo con caduta della v intervocalica, ↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 2.1); cf. liv. vwóf; in ampezzano le vocali finali diverse da a, un tempo cadute, sono state restituite, con varie eccezioni (per es. nelle forme che terminano in liquida o nasale, cf. ↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 2.1): SURDUM > amp. sórdo vs. liv. sórt ‘sordo’, NOCTEM > amp. nóte vs. liv. nót; i nessi ‘consonante + L ’ mostrano lo stesso esito dei dialetti veneti (e del collese): FLAMMA > amp. fjàma vs. liv. flàma ‘fiamma’, PLENUM > amp. pjén vs. liv. pléŋ ‘pieno’, CLAVEM > amp. tšae vs. liv. klé ‘chiave’; il nesso mb si mantiene in ampezzano: *CAMBA > amp. žàmba vs. bad. džà:ma, grd. liv. džàma; in posizione intervocalica, l rotacizza come in gaderano: MOLA > amp. mar. mòra, bad. mò:ra vs. grd. fas. liv. mòla. In ampezzano il rotacismo coinvolge anche l’articolo femminile, che è ra al singolare e res al plurale.

A livello morfologico, l’ampezzano si caratterizza per: – la conservazione della -s finale, sia come marca di seconda persona singolare, sia di plurale. Come esempi di desinenza verbale abbiamo magnes, magnàes, magnaràs e magnàsses (‘mangi’ – presente indicativo e congiuntivo, ‘mangiavi’, ‘mangerai’, ‘mangiassi’). Esempi di plurale femminile sono sciara – sciares (‘scala/e’), fiama – fiames (‘fiamma/e’). Esempi di maschile plurale: ciar – ciares (‘carro/i’), còl - còles (‘collo/i’); – l’aggettivo possessivo prenominale ha un’unica forma che non accorda in numero e genere con il sostantivo, come in gardenese. Diversamente da questa varietà, in ampezzano l’accordo è espresso dall’articolo che obbligatoriamente precede il possessivo: ra sò cichera (‘la sua tazza’), ra tò mudandes (‘le tue mutande’), i mè ciapòte (‘le mie pantofole’); – la desinenza della seconda persona plurale dell’indicativo presente è vocalica e ossitona: magnà (‘mangiate’), stasé (‘state’); – come il collese, l’ampezzano possiede una forma di condizionale per il singolare e per la terza persona plurale: voraràe (‘vorrei’), faràe (‘farebbe, farebbero’), che plausibilmente avrà accolto dai dialetti alto-veneti.

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Le caratteristiche sintattiche dell’ampezzano sono: – all’interno dei sintagmi nominali femminili l’accordo di plurale segue le stesse regole del cazét: la marca di plurale è obbligatoria sull’ultimo elemento, sia esso il nome o un aggettivo. In quest’ultimo caso, il nome può essere marcato al plurale anch’esso oppure no. Il contrasto tra le due possibilità sembra corrispondere a una differenza tra lettura connotativa e denotativa, come in cazét (Rasom 2008): (43)



(44)



(45)

a. doa bela dèrces lònges due.SING bella trecce lunghe ‘Due belle trecce lunghe’ b. chera vècia straches quella vecchia stanche ‘Quelle vecchie stanche’

(ALD-II 60)

(↗2, cap. 4.1)

come in gran parte delle altre varietà ladine, il pronome clitico soggetto precede la negazione (ma con eccezioni, cf. (44)a e b): a. Bèpe el no sa ancora Giuseppe lui.CL non sa ancora b. Bèpe no l è ancora ancora Giuseppe non lui.CL è ‘Giuseppe non sa ancora nuotare.’

nodar. nuotare bon de nodar. (ALD-II, 285s.) capace di nuotare

infine, come in livinallese e collese, anche in ampezzano i verbi di percezione possono prendere come complemento un infinito preceduto dalla preposizione a: El sentìa a sonà ra ciampanes. lui.CL sentiva a suonare la campane ‘Sentiva suonare le campane.’

(ALD-II, 354)

Il lessico dell’ampezzano diverge da quello delle altre varietà ladine in primo luogo per la minore presenza di germanismi rispetto alle altre varietà ladine: essi risalgono generalmente a un’epoca posteriore all’annessione da parte degli Asburgo (inizi del XVI secolo) e sono tutti presenti anche in altre varietà ladine (ossia non esistono germanismi esclusivi dell’ampezzano), oppure sono termini longobardi diffusi anche nel bellunese (che quindi in ampezzano sono verosimilmente dei germanismi remoti adottati dalle varietà italoromanze di pianura e non direttamente dai Longobardi). Le altre caratteristiche principali del lessico ampezzano sono (Majoni 1929): – l’ampezzano ha mantenuto alcuni termini arcaici che non sono presenti oggi nelle altre varietà ladine (ma che spesso si trovano in altre aree). Tra questi, fopa ‘fossa’ (< FOVEAM ), un termine presente solo nella toponomastica delle altre varietà

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ladine (ma si è mantenuto nell’area lombarda, grigionese e friulana), giou ‘alveo di torrente’ (< prelat. gav-), mède ‘mietere’ (< METERE ), anziché il tipo * SICILARE (?) delle altre valli ladine (Salvi 2018), e albina ‘alveare’ (< *ALBINA < ALBEUS ); altri termini mantenuti dall’ampezzano provengono dalla pianura veneta, ma in quest’ultima sono stati poi sostituiti da termini più recenti, e conservati solo in ampezzano. E’ il caso di viza ‘bosco demaniale o comunale’ (< long. o bav. wîzan ‘punire’, nel senso di ‘terra bandita’); infine, l’ampezzano presenta una serie di venetismi assenti nelle altre varietà. Alcuni esempi sono i tipi VERSORIUM (amp. arsuói ‘aratro’), FRATELLUM e SORELLAM , anziché rispettivamente QUADRIGA , FRATER e SOROR ( ↗14 Il plurilinguismo dei ladini e le languages in contact nell’area ladina, cap. 3.2)..

5 La suddivisione dialettale dell’area ladina analizzata nell’ottica della dialettometria La sezione 4 si basa su differenze qualitative tra i diversi dialetti, ossia sull’individuazione dei tratti più caratteristici per ogni varietà e sottovarietà. Dall’avvento della dialettometria, e specialmente a partire dai lavori di Goebl (1982; 1984), è possibile studiare il grado di affinità o di lontananza delle varietà parlate in una determinata area anche attraverso un’analisi quantitativa che tenga conto contemporaneamente di tutte le caratteristiche linguistiche. I lavori che studiano la distanza tra le aree ladine e le altre aree dell’Italia del nord sono numerosi, e mettono tutti in luce la compattezza dell’area ladina rispetto alle vicine varietà venete e trentine (↗5 Il ladino e le altre lingue romanze). Ma la dialettometria permette anche di studiare la suddivisione interna dell’area ladina, anche se questo argomento è stato trattato più raramente, e limitatamente all’ALD-I, quindi a fonologia e (in misura minore) morfologia e lessico (Bauer 2009; 2012; 2014; Bauer/Casalicchio 2017). Le osservazioni presentate in questa sezione sono il frutto della valutazione delle carte pubblicate in Bauer (2009; 2012; 2014) e della consultazione autonoma, da parte di chi scrive, delle carte generabili sul sito dedicato alla dialettometria salisburghese (www.dialectometry. com). Le carte contenute in Bauer (2009) confermano la netta divisione interna tra varietà di valli diverse, mentre si conferma il ruolo del moenese come varietà di transizione tra il ladino e il fiemmese, così come la caratteristica di Stufenlandschaft della parte settentrionale della provincia di Belluno, nei rapporti tra le varietà ladine, quelle cadorine e quelle agordine. Le carte qui riprodotte, tratte da Bauer (2012), indicano invece i rapporti interni alle varietà della Ladinia dolomitica. La carta 3 è una carta che rappresenta la distanza linguistica tra i singoli dialetti: più il colore del confine è freddo (e spesso), maggiore è la distanza linguistica tra le varietà. La carta 4, invece, rappresenta la vicinanza tra due varietà, espressa dalle

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linee che collegano due punti: più la linea è spessa, e dal colore caldo, più le due varietà sono affini. In entrambe le carte si osserva che lo stacco più netto riguarda il confine tra il gruppo ladino atesino e il gruppo cadorino, in particolare tra badiotto e ampezzano. Spicca anche il ruolo del fodom, che pur appartenendo al ladino atesino costituisce una varietà di transizione con la varietà ladino-agordina di Colle Santa Lucia. I confini tra le vallate sono in genere netti (colore azzurro in carta 3), ma quello tra Selva e Colfosco è meno marcato, a testimonianza del ruolo particolare svolto da Colfosco. Se osserviamo le varietà di valle al loro interno, vediamo che le varietà del gardenese e del livinallese si confermano compatte. Il quadro offerto dalla dialettometria è particolarmente interessante per le varietà che sono più articolate al loro interno: nell’area gaderana, risulta particolarmente forte la solidarietà tra le varietà alto-badiotte di San Leonardo, Corvara e San Cassiano. La varietà di Colfosco, pur avendo la parlata di Corvara come varietà più vicina, ha un profilo leggermente più distante, oltre a presentare qualche affinità con Selva. Nella parte settentrionale della Val Badia, invece, la varietà di Rina si rivela più affine al marebbano che al basso badiotto (carta 4); le varietà di San Martino e La Valle non formano un’area completamente omogenea, ma nella consultazione delle mappe generate sul sito della dialettometria (cf. supra) si osserva che sono comunque le varietà più affini l’una all’altra (cf. anche Bauer 2012). La consultazione esaustiva delle carte dimostra che San Martino ha un profilo di media o alta affinità anche con le altre varietà confinanti (Marebbe, Rina e San Leonardo), il che gli affida un ruolo di varietà intermedia che giustifica il suo ruolo come varietà di base per il badiotto standard. In Val di Fassa, infine, è confermata la tripartizione tra cazét, brach e moenese: le tre varietà appaiono più o meno equidistanti, ma il brach è leggermente più affine al moenese che al cazét. Infine, per quanto riguarda le affinità generali tra le varietà di valli diverse, la consultazione in rete delle carte dialettometriche dell’ALD conferma su basi statistiche l’esistenza di un nucleo centrale, che comprende la Val Gardena, l’alta Badia, Rina, San Martino, Fodom e Penia in Val di Fassa, mentre le varietà più isolate sono il moenese, il brach, il collese e l’ampezzano. La Valle, Marebbe e Campitello si pongono a metà strada tra le varietà isolate e il gruppo centrale.

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Carta 3: Carta a interpunti con funzione discriminatoria, basata sul corpus totale (carta tratta da Bauer 2012, 327)  

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Carta 4: Carta a interpunti con funzione di indicare la similarità tra due punti, basata sul corpus totale (carta tratta da Bauer 2012, 327)  

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Hans Goebl

5 Il ladino e le altre lingue romanze Abstract: Il presente contributo rappresenta una sintesi critica delle discussioni svolte dalla fine del Settecento ad oggi sulla classificazione del ladino brissino-tirolese rispetto alle altre lingue romanze in generale, e rispetto ai dialetti limitrofi dell’Italia settentrionale in particolare. Gli inizi di questi dibattiti – definiti come «Questione ladina» (QL) nel 1937 da Carlo Battisti – risalgono alla fine del Settecento ed entrano nella fase «calda» nei primi anni del Novecento, quando Battisti manifestò – non senza mire politiche – la sua opposizione alla teoria geo-tipologica dell’«unità ladina», formulata da Graziadio Isaia Ascoli nel 1873 e confermata a distanza di dieci anni (1883) da Theodor Gartner. Il bilancio delle discussioni, spesso abbastanza accese, è ambiguo: esse risentivano di alcuni equivoci e incomprensioni che perdurarono per oltre un secolo, tra i quali spiccano due errori: a) la cattiva comprensione del concetto-chiave unità, al quale l’Ascoli aveva conferito il significato di «classe, gruppo», mentre sia Carlo Battisti, sia la maggioranza dei disputanti tanto italiani quanto transalpini lo interpretarono erroneamente come «unitarietà, coerenza»; b) la scarsa conoscenza delle strutture interne delle fonti geolinguistiche utilizzate (come, per es., dell’atlante linguistico AIS), che diede origine all’aspettativa fallace della «coincidenza precisa» delle isoglosse come prerequisito di una classificazione linguistica (o dialettale). Solo negli ultimi trent’anni si è manifestato un lento districamento dei rispettivi dibattiti, dovuto soprattutto ad una miglior comprensione delle fonti (Ascoli e Gartner, AIS) ed all’avvento di metodi quantitativi in sede di classificazione dialettale («dialettometria»).  

Keywords: ladino brissino-tirolese, questione ladina, classificazione, particolar combinazione, intreccio particolare, geotipo, dialettometria, isoglosse, Battistiani, Ascoliani  

1 Premessa A causa delle vicende storiche legate alle ricerche sul ladino questo contributo deve vertere su un gran numero di equivoci e ambiguità relativi a metodi, concetti e termini linguistici di varia estrazione tra i quali figura anche il significato del glottonimo ladino: nel titolo di questo contributo il termine si riferisce in primo luogo alle cinque varietà dialettali della Ladinia brissino-tirolese, mentre all’interno del testo il più delle volte serve – sulle orme dell’Ascoli (1873) – a designare l’insieme delle varietà romanze parlate tra i Grigioni ed il Friuli. Con questo significato corrisponde perfettamente al glottonimo tedesco Rätoromanisch, utilizzato da Theodor Gartner nella sua «Raetoromanische Grammatik» del 1883. https://doi.org/10.1515/9783110522150-006

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L’instradamento delle discussioni scientifiche sui tre ceppi del ladino (ossia Rätoromanisch) fu un processo lento e tortuoso,1 soprattutto a causa della scarsa accessibilità dei rispettivi dati linguistici per gli autori dell’epoca, tutti abituati all’analisi di «grandi» lingue di cultura e delle loro produzioni letterarie, e molto meno a quella di lingue minori. Si tratta quindi della classica opposizione tra centro (→ «grandi» lingue) e periferia (→ «piccole» lingue), dove le discussioni sono spesso contrassegnate non solo da giudizi titubanti ma anche da una scarsa disponibilità di dati appropriati. Non deve quindi stupire che non pochi dei testi specialistici del tempo pecchino semplicemente di una crassa ignoranza dei fatti stessi. Per designare le discussioni scientifiche svolte sulla posizione geotipologica del ladino Carlo Battisti ha coniato, nel 1937, il termine «questione ladina» (QL). In realtà, la QL inizia già prima della Prima Guerra mondiale, con due scritti dello stesso Battisti (1906/1907 e 1910), nei quali viene messo in dubbio l’approccio geotipologico dell’Ascoli (1873) e del Gartner (1883), soprattutto a causa di un tremendo fraintendimento – commesso dapprima dal Battisti stesso e in seguito anche da tanti altri autori al di qua e al di là delle Alpi – della bisemia intrinseca della parola unità che rappresenta il concetto-chiave della teoria geotipologica dell’Ascoli. In effetti, la parola italiana unità può designare – alla pari di tutte le lingue europee tranne l’inglese2 – tanto una qualità (per es.: Il papa difende l’unità della Chiesa cattolica.) quanto una cosa (gruppo, classe, raggruppamento ecc.) (per es.: La Regione X dispone di cinque unità sanitarie.). Nei Saggi ladini il termine unità occorre solo due volte3 evocando, in ambedue i casi, inequivocabilmente l’idea di un raggruppamento di una classe di idiomi romanzi («romani»), rispettivamente quelli minori e quelli maggiori. Sin dall’inizio delle sue polemiche contro la teoria ascoliana, Battisti – come molti altri ricercatori italo- e germanofoni dopo di lui – non si è accorto né della bisemia insita della parola unità

1 La messe bibliografica relativa alla questione ladina (QL) è ricca: rimando in merito alla bibliografia di Iliescu/Siller-Runggaldier (1985), alle numerose relazioni di ricerca («Forschungsberichte») di Holtus/Kramer (1986–1997) nonché al recente repertorio bibliografico retoromanzo di Videsott (2011), dove i rinvii bibliografici alla QL occupano 17 pagine (329–345). 2 L’inglese distingue tra unit (cosa) e unity (qualità: unitarietà, coerenza, assenza di variazione interna) mentre le altre lingue europee, a cominciare dal latino, dispongono di un solo vocabolo (unitas, Einheit, unité, unità ecc.) con due accezioni logicamente contrastanti. 3 Eccone le rispettive citazioni: – Ascoli 1873, 2: «La unità romana si infrange in mirabile guisa anche per entro a un singolo dialetto ladino; e le divergenze tra le singole varietà ladine non sono di poco momento pur nelle fasi più genuine che a noi sia dato esaminarne.» – Ascoli 1873, 537: «Quanto all’intento e al metodo generale di questi Saggi, e in ispecie della parte ora compita, l’assunto non era solo di studiare o comparare, in modo sicuro e perspicuo, singoli idiomi o singole fasi di favelle più o meno prominenti e disformi, ma era principalmente di ricomporre, nello spazio e nel tempo, una delle grandi unità del mondo romano, accennando insieme come questa si contessa con altre grandi unità romane che le sono attigue».

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né del fatto che l’accezione originale attribuitale dall’Ascoli si riferiva esclusivamente ad una cosa (→ gruppo dialettale), ed in nessun modo all’unitarietà caratterologica interna di tale gruppo. Siccome queste due accezioni si collocano a livelli abbastanza diversi dai punti di vista logico ed ontologico, la loro cattiva comprensione doveva – e lo deve tuttora – provocare automaticamente gravissimi errori e confusioni. In una prospettiva più vasta, la storia delle discussioni geotipologiche relative al ladino (in senso ampio) potrebbe essere suddivisa nelle tappe seguenti: a) periodo preascoliano (fine Settecento–1873), b) periodo pre-battistiniano (1873–1910), c) periodo della QL propriamente detta (a partire da Battisti 1906/1907 e 1910), d) periodo della decantazione concettuale e metodica (a partire da Goebl 1986). Per meglio capire le tante perplessità scaturite sotto il segno della QL, bisogna aggiungere un altro fattore: il trattamento scientifico sereno di un problema di stampo geotipologico presuppone l’esistenza (o la disponibilità generale) di due requisiti: – una buona e ricca documentazione empirica relativa alla zona esaminata, articolata – a mo’ dei futuri atlanti linguistici – in forma bidimensionale (x punti d’inchiesta per y attributi linguistici [commensurabili]) e – una gamma concettuale e metodica abbastanza fornita per trattare e risolvere problemi situati all’incrocio – logico e ontologico – tra il particolare (con riguardo ad una pluralità di singoli caratteri linguistici studiati e discussi isolatamente) ed il generale (con riguardo alla creazione e classificazione di entità superiori come gruppi dialettali, domini linguistici o «lingue» mediante la sinossi di una pluralità di caratteri). Ad «documentazione empirica»: essa praticamente non esisteva prima dell’avvento degli atlanti linguistici («AL») propriamente detti. Per il dominio italo- e retoromanzo il primo AL utilizzabile in merito è l’AIS (1928–1940). Chiunque volesse quindi studiare – durante l’intero Ottocento – l’area di diffusione di un qualsiasi carattere (attributo, tratto) linguistico, doveva crearsi, con molta fatica, una rispettiva sinossi «personale» spogliando un numero il più alto possibile di dizionari e monografie dialettali, ossia svolgere, non meno faticosamente, inchieste dialettali sul terreno, utilizzando un questionario appositamente compilato ed adeguandosi a tutte le sfide, situative e personali, di interviste standardizzate. La prima via fu percorsa da Ascoli, la seconda da Gartner che, così facendo, diventò uno dei pionieri della geografia linguistica romanza. In ambedue i casi sarebbe stata necessaria, per trarre il massimo profitto di questa procedura in’ultima analisi geolinguistica, la confezione di apposite cartografazioni, tanto sul tavolino privato quanto nelle pubblicazioni «esterne». Purtroppo, l’uso di apposite carte linguistiche soprattutto nelle rispettive pubblicazioni rimase molto limitato, stranamente anche dopo la piena disponibilità degli atlanti linguistici (come l’AIS).

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Ad «gamma concettuale e metodica abbastanza fornita»: ovviamente anche in questa sede ci troviamo di fronte ad un processo di lenta maturazione, soprattutto sul piano dello spoglio «organico» di dati di massa che, come oggigiorno è risaputo, richiede sempre una considerazione «bi-angolare»: analitica (in riferimento a singoli dati isolati) e sintetica (in riferimento alla sintesi dei dati esaminati). All’interno della linguistica romanza, la consapevolezza metodologica era molto scarsa, mentre al di fuori di essa modelli appropriati da imitare non mancavano. Rinvio in primo luogo alla geografia (soprattutto a quella praticata a Berlino da luminari scientifici come Alexander von Humboldt [1769–1859] e Carl Ritter [1779– 1859]), poi alla filosofia sistematica tedesca ed a diverse scienze empiriche (sociologia, psicologia, ecc.), tutte impegnate con dati empirici complessi. Purtroppo la lungimiranza interdisciplinare di molti protagonisti della QL non era tale da poter approfittare di queste possibilità. Considerando gli sviluppi della QL spicca ancora un’altra particolarità: la lista dei dubbi presentati dal Battisti sin dai suoi primi scritti anti-ascoliani nonché le sue critiche del pensiero del maestro goriziano non hanno praticamente niente a che fare con la sostanza di quest’ultimo. In effetti, il Battisti ha creato, in questo modo, una specie di «chimera argomentativa» che stranamente è stata assunta da ambedue le parti delle Alpi alimentando le discussioni internazionali per oltre un secolo.4 Tutto sommato lo svolgimento della QL propriamente detta (tappa 3) non rappresenta in nessun modo un capitolo brillante della linguistica, né di quella romanza, né di quella generale.

2 Idee e concetti geo-classificatori nel periodo preascoliano Alla genesi dell’idea che gli idiomi parlati nei Grigioni, nel Tirolo e nel Friuli appartengano, in varia misura, ad un gruppo linguistico a sé stante, contribuivano, a partire dalla seconda metà del Settecento, un certo numero di correnti discorsive: – dal lato para- e prescientifico (cioè «da fuori»): il nascente comparatismo linguistico internazionale, sempre in cerca di idiomi poco noti, isolati o in procinto di sparizione (cf. in merito Droixhe 2000 nonché Haarmann 1976 e 2000); la «statistica» sette- e ottocentesca, molto impegnata nella stesura di monografie (o «descrizioni») di province e regioni storiche, di cui le famose «inchieste dipartimentali» di tipo francese, svolte durante (1806–1812) e dopo la reggenza di Napoleone (cf. Ködel 2010, passim), costituivano una diramazione particolare;

4 La natura molto farraginosa ed anche ambigua di tutti i contributi del Battisti giustifica pienamente l’uso del qualificativo di «garbuglio» nel paragrafo 5.

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dal lato «patrio» (cioè da «dentro»): gli scritti – spesso di stampo grammaticale e/ o lessicale – che alcuni intellettuali autoctoni dedicavano in misura crescente ai loro idiomi natii.

La tabella seguente sintetizza i nomi di una buona trentina di autori – prevalentemente di lingua tedesca e italiana – che si sono distinti, negli anni 1760–1870, in questo senso (per ulteriori informazioni cf. i contributi storici di Decurtins 1965 e Goebl 1987a). Siccome la maggioranza degli autori citati di seguito non utilizzava ancora procedure tipologiche vere e proprie – che richiederebbero il trattamento specifico di una pluralità di caratteri di base – definisco quanto da loro prodotto «idee e concetti geo-classificatori» evitando in questo contesto il termine di geo-tipologico. Tab. 1: Elenco diacronico di opinioni geoclassificatorie sette- e ottocentesche relative al romancio (Ro), ladino (Ld) ed al friulano (Fr)  

nr anno

autore

Ro

Ld

1

1760

Simone Pietro B ARTOLOMEI

men (Rhaei occidenttales, Fassanenses)

2

1771

Rupert D IETRICH

3

1776

Joseph P LANTA

4

1787

Lorenzo H ERVÁS Y P ANDURO

5

1805

Plazi [Placidus] S PESCHA

6

1806

Josef S TEINER

7

1806

Joseph VON H ORMAYR

8

1808

Carl Ludwig F ERNOW LRC

9

1809

Charles-Étienne C OQUEBERT DE M ONTBRET

men (gardenese) men (Ro) LRC

Fr

Fonte bibliografica Kramer 1978

Wolfsgruber/Richebuono 1986, 42 Planta 1776

Kuen 1980, 104

intercomprensione

Spescha 1805

Decurtins 1964, 279 men (Ro)

men (Ld)

Hormayr 1806

men (Fr) Fernow 1808 carta etnolinguistica

Ködel 2010

10 1809

Johann Severin V ATER / Johann Christoph A DELUNG

11 1816

François R AYNOUARD LRC

12 1818

August Wilhelm S CHLEGEL

LRC

Schlegel 1818

13 1826

Adrien B ALBI

LRC

Balbi 1826

men (Ro) LRC

Vater 1809

Raynouard 1816

Il ladino e le altre lingue romanze

Ld

nr anno

autore

Ro

14 1831

Lorenz D IEFENBACH

men (Rhätoromanisch) LRC(?)

15 1832

Friedrich Ludwig W ALTER

Walter 1832

16 1832

Joseph Theodor H ALLER

Haller 1832

17 1833

Micurá DE R Ü / Nikolaus B ACHER

18 1836

August L EWALD

19 1836

Friedrich D IEZ

20 1839

Johann Jacob S TAFFLER

21 1841

Bernardino B IONDELLI

22 1843

Ludwig S TEUB

23 1846

Joseph Vincenz H ÄUFLER

LRC

24 1848

Heinrich K IEPERT

men (Raetoromanisch, Raetoromanen) LRC

Kiepert 1848; Goebl 1987a, 119–125

25 1849

August F UCHS

men (Ro)

Fuchs 1849

26 1855

Giuseppe Giorgio S ULZER

27 1856

Carl VON C ZOERNIG

28 1856

Johannes Chrysostomos M ITTERRUTZNER

Mitterrutzner 1856

29 1864

Josef Anton V IAN

Vian 1864

30 1868

Edmund S TENGEL

Stengel 1868

31 1870

Friedlieb R AUSCH

32 1870

Christian S CHNELLER

intercomprensione

Fr

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Fonte bibliografica Diefenbach 1831

Craffonara 1994 Śliziński 1979

men (Ro)

Diez 1836 Staffler 1839

men (Ro)

Biondelli 1841

Steub 1843 men (Rhäter, Val di Non, Häufler 1846; Goebl Val di Sole) 1987a, 114–119

Sulzer 1855

men (Fr)

LRC

Czoernig 1856; Goebl 1987a, 125–133

Rausch 1870 Schneller 1870

Abbreviazioni: – men (x) – menzione particolare dell’idioma (x); – collegamento variabile delle rubriche Ro-Ld-Fr: → rinvio a presunte relazioni tipologiche reciproche; – LRC – supposizione dell’esistenza generale di una «langue romane commune» ovvero «lingua romana rustica».

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Hans Goebl

All’inizio del suddetto lasso di tempo prevaleva la tendenza ad individuare, al margine settentrionale dello spazio linguistico italiano, alcuni idiomi ritenuti come molto particolari o arcaici; solo in un secondo tempo si manifestò la volontà di raggrupparli in modo specifico. Il primo tentativo di raggruppamento riguardò il grigionese ed il ladino tirolese (a partire da Bartolomei 1760 e Lorenzo Hervás 1787) mentre l’aggiunta classificatoria del friulano è posteriore (Balbi 1826 e Czoernig 1856; per i lavori «statistici» di Carl von Czoernig cf. Medeot/Faggin 1978 e Francescato 1977). Ovviamente l’argomentazione della maggioranza degli autori non reca ancora l’impronta della scienza propriamente detta: il più delle volte la pretesa vicinanza tipologica di due idiomi veniva espressa tramite giudizi impressionistici e solo molto raramente attraverso la discussione di appropriati tratti linguistici. Non si deve inoltre dimenticare l’influsso – ancora abbastanza forte nei paesi romanzi nella prima metà dell’Ottocento – della teoria della «langue romane commune» (o della «lingua romana rustica») [LRC] – rimando in merito ai contributi di H. Haarmann, W. Rettig e H. Thun, tutti pubblicati nel 1976 in un volume miscellaneo dedicato alla memoria di Friedrich Diez, fondatore della filologia romanza, nonché a Francescato 1978 – secondo la quale in tutta la Romània regnava, in continuazione con una presunta unitarietà linguistica dell’Impero romano, una grande uniformità linguistica fino al periodo di Carlomagno (768–814); e la genesi delle grandi lingue romanze odierne, realizzatasi per via di una frantumazione tipologica successiva, si fece solo a partire dal IX secolo. Rientra però anche nel quadro di questa teoria che alcuni idiomi romanzi minori – soprattutto quelli con glottonimi derivati dalle radici «classiche» ROMAN(IC)U e LATINU (cf. Müller 1996) – non parteciparono a questa frantumazione «innovatrice», conservando da una parte il loro carattere arcaico, e dall’altra una certa convergenza tipologica reciproca. È nato così un curioso «ponte» tipologico tra l’occitanico (chiamato romanz nel Medioevo) e le varietà grigionesi rumantsch e ladin. Questa teoria, aspramente difesa dal medievista francese François Raynouard (1816), fu sfatata definitivamente dal linguista tedesco August Wilhelm Schlegel già nel 1818. Cionondimeno rimase in auge, soprattutto nella cerchia di geografi e cartografi (Balbi 1826; Häufler 1846; Kiepert 1848), durante tutta la prima metà dell’Ottocento. Sta di fatto che l’idea di un gruppo linguistico romanzo «autonomo», denominato tramite glottonimi provvisti della radice storicizzante r(h)äto-, venne difesa, già nel 1870, da almeno due autori: dal tedesco Friedlieb Rausch e dall’austriaco Christian Schneller. Lo stesso glottonimo «Rätoromanisch» per designare, in sede scientifica, gli idiomi parlati tra le fonti del Reno ed il golfo di Trieste era abbastanza diffuso già prima di Gartner (1883): lo utilizzavano, tra l’altro, H. Schuchardt e E. Böhmer già negli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento. Dalla tabella 1 precedente risulta inoltre che il programma geotipologico di G. I. Ascoli poggia, in ultima analisi, su un sostrato storico abbastanza fornito. È d’altronde non meno vero che l’Ascoli ne era pienamente cosciente citando, nel suo famoso libro del 1873, la maggioranza degli autori qui sopra elencati.

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3 La concezione geotipologica di G. I. Ascoli Negli anni 1873 e 1874 Ascoli pubblicò, sull’Archivio Glottologico Italiano da lui fondato e redatto, due scritti diventati in seguito il punto di partenza di acerbi dibattiti, dapprima in Francia e solo più tardi in Italia, e cioè i Saggi ladini (1873) e gli Schizzi franco-provenzali (1874). Ambedue erano imperniati, dal punto di vista metodico, su un programma tipologico ben preciso ma sfortunatamente formulato dal Nostro in modo molto succinto (si vedano in merito anche i miei contributi precedenti del 1990, 1995, 2000b, 2003b, 2010). I due rispettivi brani «fondatori» sono collocati direttamente in apertura dei due testi: – Definizione (geo)tipologica del ladino (vista la sua impostazione geografica, il metodo tipologico dell’Ascoli viene definito, in questa sede come altrove – cf. Goebl 1995 – come geo-tipologico): «Comprendo sotto la denominazione generica di favella ladina, o dialetti ladini, quella serie d’idiomi romanzi, stretti fra di loro per vincoli di affinità peculiare, la quale, seguendo la curva delle Alpi, va dalle sorgenti del Reno-anteriore in sino al mare Adriatico; e chiamo zona ladina il territorio da questi idiomi occupato.» (Ascoli 1873, 1).



Definizione (geo)tipologica del franco-provenzale: «Chiamo franco-provenzale un tipo idiomatico, il quale insieme riunisce, con alcuni suoi caratteri specifici, più altri caratteri che parte son comuni al francese, parte lo sono al provenzale, e non proviene già da una tarda confluenza di elementi diversi, ma bensì attesta la sua propria indipendenza storica, non guari dissimile da quella per cui fra di loro si distinguono gli altri principali tipi neo-latini.» (Ascoli 1874, 61).

Mentre ai lettori dell’epoca i Saggi ladini offrivano una bella carta illustrativa della «zona ladina – i cui legami con il testo argomentativo erano però molto deboli –, tale non fu il caso con gli Schizzi franco-provenzali, esenti da una qualsiasi cartografazione. Il metodo tipologico dell’Ascoli, che coltivava interessi interdisciplinari abbastanza estesi, prende le mosse da due discipline di spicco a cavallo tra Sette- e Ottocento: dalla biologia e dalla geografia. Citiamo per la prima i nomi dei naturalisti Carlo Linneo (1707–1778) e Georges Louis Leclerc de Buffon (1707–1788) e per la seconda quelli di geografi come Alexander von Humboldt e Carl Ritter. Quest’ultimo, cattedratico di geografia alla neonata Università di Berlino, svolse un’intensa attività tanto come docente di fama internazionale quanto come autore di manuali specialistici di ampia diffusione. È più che probabile che Ascoli sia stato pienamente al corrente delle ricerche di Ritter, grazie alla mediazione diretta del geografo (ed etnografo) trentino Bartolomeo Malfatti (1828–1892), che, prima di diventare suo collega all’Ateneo di Milano dal 1870 al 1874, avevo studiato con Ritter a Berlino (cf. in merito Puccini 1981, Varanini 1996 e Maroni 2004, tutti passim).

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Hans Goebl

Il metodo geotipologico che Ascoli utilizzò nei Saggi ladini e negli Schizzi francoprovenzali è basato sull’idea della «particolar combinazione» (PC) di un certo numero di attributi linguistici appositamente selezionati (ed empiricamente accertati). La PC corrisponde perfettamente al metodo geotipologico di Ritter, da lui definito synchorische Vereinigung («aggregazione sincorica») di alcuni attributi geografici presi in considerazione (per una descrizione precisa del metodo ritteriano cf. Hözel 1896). Lo sviluppo di questo metodo risale alla necessità, imperante nella geografia dell’epoca, di definire (o costruire) «oggettivamente», cioè tramite una pluralità di caratteri ben rilevabili, aggregati spaziali (ted. Landschaften, «paesaggi») di grande estensione geografica i quali di solito venivano cartografati appositamente. In ultima analisi, quella di Ritter è una classificazione politetica di stampo quantitativo e induttivo che – partendo dal livello (ontologico) del particolare per giungere a quello del generale – prende sempre in considerazione una pluralità di attributi rilevati empiricamente, addensandoli mentalmente sotto la forma di un tipo. Tre sono i concetti di base di questa tipologia politetica: – gli oggetti (o elementi) la cui natura può essere concreta o astratta; – gli attributi (tratti o caratteri) la cui natura può essere tanto qualitativa quanto quantitativa; – le relazioni che esistono (o possono stabilirsi) tra i singoli oggetti da una parte e tra gli attributi dall’altra. In questa terna di concetti, quello della relazione era il più innovativo ed anche arduo, soprattutto per linguisti poco abituati a servirsi di cotali operazioni mentali. Sia detto tra parentesi, la messa a punto definitiva dei tre concetti tipologici menzionati fu opera soprattutto di alcuni filosofi e logici tedeschi; cito in merito i nomi seguenti: Friedrich Adolf Trendelenburg (1802–1872), Moritz Wilhelm Drobisch (1802–1896), Rudolf Hermann Lotze (1817–1881), Friedrich Ludwig Gottlob Frege (1848–1925) e Wilhelm Wundt (1832–1920). Tutti eccellevano per una sensibilità molto acuta per la definizione e l’uso di concetti prevalentemente quantitativi. Tornando ai due brani definitori dell’Ascoli, possiamo individuarci con molta chiarezza i concetti di elemento, attributo, relazione e tipo: – ad elemento (ossia oggetto): idiomi romanzi, questi idiomi, francese, provenzale; – ad carattere (ossia attributo): caratteri specifici, altri caratteri; – ad relazione: vincoli di affinità particolare, confluenza; – ad tipo: favella ladina, dialetti ladini, zona ladina, franco-provenzale, tipo idiomatico, altri principali tipi neo-latini. Nel pensiero dell’Ascoli il costrutto induttivo del tipo era sempre di stampo quantitativo e disponeva di una struttura finemente graduata. L’espressione visiva di questa geotipologia quantitativa è la carta policroma annessa ai Saggi ladini, mentre il termine di anfizona, ampiamente utilizzato nel suo libro per designare i passaggi

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dialettali più o meno graduati dentro e fuori della zona ladina, ne rappresenta l’equivalente concettuale. Mentre il messaggio geotipologico dei Saggi ladini fu accolto dagli studiosi, prevalentemente italiani e tedeschi, senza provocare dibattiti o dissensi, quello degli Schizzi franco-provenzali destò in Francia un’opposizione energica e costante sotto la guida di due dei più illustri filologi dell’epoca, Gaston Paris (1839–1903) e Paul Meyer (1840–1917). È utile ricordare che G. Paris fu professore al Collège de France, mentre P. Meyer fu cattedratico all’École des Chartes. Ambedue rappresentavano, in quell’epoca, il culmine dell’intellettualità filologico-letteraria francese ed erano anche insigni rappresentanti del pattriotismo francese repubblicano. Nacque così l’opposizione tra due filoni di ricerca: quello dell’Ascoli: tipofilo, e quello dei suoi oppositori: tipofobo (cf. il titolo del mio contributo del 1986). Le polemiche iniziarono con un’aspra recensione degli Schizzi franco-provenzali da parte di Meyer nel 1875 al quale Ascoli rispose laconicamente sull’AGI del 1876 (per una presentazione complessiva di questi dibattiti cf. Goebl 2004). I rimproveri di Meyer vertevano su due punti, logicamente ed ontologicamente abbastanza distanti: a) la «non-esistenza» dei dialetti tout court e quindi anche del costrutto del francoprovenzale, b) la mai raggiunta coincidenza precisa delle aree dei caratteri utilizzati dall’Ascoli per la definizione del nuovo geotipo. Ambedue i quesiti erano, nella Francia di allora, abbastanza scottanti (esistono due resoconti contemporanei delle discussioni svoltesi all’epoca, stesi dal romanista tedesco Adolf Horning 1893 e dal suo collega svizzero Louis Gauchat 1903). Mentre l’avvento della tripartizione geotipologica della Francia (Oïl – Oc – Franco-Provenzale) in sostituzione del vecchio contrasto bipolare tra i domini d’Oïl et d’Oc risultò poco gradito dal punto di vista franco-repubblicano,5 la spontaneità, anzi imprevedibilità areale delle isoglosse non solo contrastò certe idee scientifiche dell’epoca, ma contribuì anche a creare continuamente nuove perplessità.

5 In questa sede è emblematico l’appello di G. Paris, fatto nel 1888 all’occasione di un raduno generale di tutte le «Sociétés savantes» della Francia a Parigi: «Et comment, je le demande, s’expliquerait cette étrange frontière qui de l’ouest à l’est couperait la France en deux en passant par des points absolument fortuits? Cette muraille imaginaire, la science, aujourd’hui mieux armée, la renverse, et nous apprend qu’il n’y a pas deux Frances, qu’aucune limite réelle ne sépare les Français du nord de ceux du midi, et que d’un bout à l’autre du sol national nos parlers populaires étendent une vaste tapisserie, dont les couleurs variées se fondent sur tous les points en nuances insensiblement dégradées.» (Paris 1888, 435s.) [trad.: Mi chiedo come si spiega questa strana frontiera che dall’Occidente all’Oriente taglia in due la Francia, passando per punti assolutamente fortuiti. Oggigiorno, questa muraglia immaginaria viene rovesciata tramite i progressi della scienza che inoltre ci insegna che non ci sono due France, e che nessuna frontiera reale separa i Francesi del Settentrione da quelli del Meridione, e che i nostri parlari popolari costituiscono, sulla totalità del territorio nazionale, una vasta tessitura i cui colori si fondono tra di loro in maniera infinitamente sfumata.].

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L’Ascoli si pronunziò in tutta questa vicenda una sola volta, rispondendo, nel secondo volume dell’AGI, brevemente ma chiaramente agli attacchi di Meyer. Il brano centrale della sua risposta suona così: «Un tipo qualunque, – e sia il tipo di un dialetto, di una lingua, di un complesso di dialetti o di lingue, di piante, di animali, e via dicendo, – un tipo qualunque si ottiene mercè un determinato complesso di caratteri, che viene a distinguerlo dagli altri tipi [per la definizione combinatoria del tipo linguistico del ladino centrale Ascoli (1873, 337) fornisce un elenco di 14 caratteri: cf. ↗0 Introduzione, cap. 2.2]. Fra i caratteri può darsene uno o più d’uno che gli sia esclusivamente proprio; ma questo non è punto una condizione necessaria, e manca moltissime volte. I singoli caratteri di un dato tipo si ritrovano naturalmente, o tutti o per la maggior parte, ripartiti in varia misura fra i tipi congeneri; ma il distintivo necessario del determinato tipo sta appunto nella simultanea presenza o nella particolar combinazione di quei caratteri.» (Ascoli 1876 1876, 387). In questa replica spiccano due argomenti principali: a) La precisazione del concetto di relazione che esiste tra un certo numero di caratteri: determinato complesso, simultanea presenza, particolar combinazione di quei caratteri. b) Lo smantellamento della credenza del singolo carattere ritenuto come distintivo o esclusivo di un determinato tipo. L’ideologia del carattere unico e distintivo risale peraltro alla definizione monotetica di impronta aristotelica che veniva già messa in forse dai naturalisti e geografi della seconda metà del Settecento.6 Stupisce quindi molto che alcuni linguisti aderiscano ancora nel XXI secolo a questa visione superata. In Francia, i rispettivi dibattiti opposero da un lato Paris e Meyer nonché i fautori tipofobi della non-esistenza dei dialetti e, dall’altro, alcuni dialettologi occitanici tra i quali eccelse soprattutto Joseph-Pierre Durand (de Gros) (1889) che nella sua risposta tipofila fece prova di una perfetta cultura filosofica, mentre la rispettiva qualità metodica delle diverse battute tipofobe rimase su un livello abbastanza modesto (cf. Goebl 2004, passim). È pero curioso vedere che tramite la proibizione di discussioni relative all’esistenza di «dialetti» l’energia scientifica dei dialettologi francesi dell’epoca fu incanalata, in maniera molto proficua, verso lo studio empirico di un numero il più grande possibili di tratti linguistici e delle loro aree di diffusione. Ne sorsero, in fin dei conti, le ricerche di Jules Gilliéron (1854–1926, professore di dialettologia gallo-romanza all’École Pratique des Hautes Etudes di Parigi) ed il suo famoso Atlas linguistique de la

6 Il brano seguente dimostra che la credenza dell’esistenza di singoli caratteri «specifici» per un qualsiasi tipo linguistico è ancora viva nel XXI secolo: «In questa sede non prenderò ulteriormente in esame questi caratteri per discuterne la validità: a una disamina più scrupolosa e più aggiornata si potrebbe mostrare che alcuni di questi tratti non sono distintivi di tutto il gruppo (penso in particolare agli ultimi due [Á > e, Ú lungo > ü], che sono in generale assenti nel friulano) […]» (Vanelli 2006, 21).

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France (ALF) che, tramite la sua classica struttura bidimensionale (638 punti d’inchiesta per 1421 carte linguistiche) e la perfetta commensurabilità dei dati raccolti sul terreno, costituì, dal punto di vista empirico, il compimento perfetto dei desideri del comparatismo dialettologico dell’Ottocento (cf. Goebl 2017, passim). I dati discussi dall’Ascoli nei Saggi ladini non provengono ancora, salvo una piccola inchiesta dialettale personale effettuata nel liceo cantonale di Coira (cf. Ascoli 1873, 242–249) da ricerche empiriche propriamente dette; si tratta invece di spogli estesi di molti dizionari e monografie dialettali. Spicca però la struttura molto ordinata di questa base empirica, tanto dal lato geografico (settorializzazione della «zona ladina», cf. la carta annessa ai Saggi ladini e la numerazione ivi reperibile; quest’ultima affiora anche sul sommario e sostiene la struttura del libro intero) quanto dal lato dei caratteri trattati. In effetti l’Ascoli ha definito un elenco di 238 «caratteri» (meglio: di nessi etimologici, trattati una prima volta tra le pagine 9 e 113 dei «Saggi») che reggono le dimostrazioni dei Saggi ladini. Queste dimostrazioni, pur essendo continuamente pervase da riflessioni e osservazioni etimologiche, storiche e comparatistiche in maniera alquanto eteroclita, rimangono sempre sul livello sincronico e non contengono mire diacroniche coerenti. Solo per inciso Ascoli menziona le realtà sociolinguistiche vigenti nei Grigioni, nel Tirolo e nel Friuli. In nessun posto del suo libro innalza il concetto geotipologico dell’«unità ladina» al rango di una «lingua ladina» a sé stante, provvista di una storia (intra- e sociolinguistica) comparabile a quella dell’italiano o del francese. È però vero che Ascoli si chiede spesso quale abbia potuto essere l’estensione geografica anteriore degli oltre 200 caratteri linguistici da lui esaminati. Dal punto di vista metodico, l’approccio dei Saggi ladini è dunque tutt’altro che diacronico o sociolinguistico.

4 La concezione geotipologica di Th. Gartner (Raetoromanische Grammatik, 1883 e Handbuch der rätoromanischen Sprache und Literatur, 1910) Dal lato geografico e geotipologico Gartner rimane nelle orme dell’Ascoli; tale non è il caso per il lato empirico: in effetti, Gartner è uno dei primi linguisti a effettuare ricerche sistematiche sul terreno, tramite inchieste personali in forma standardizzata (utilizzando due questionari di varia lunghezza) sulle quali ha pubblicato un’interessantissima relazione di lavoro (Gartner 1882), corredata di una dettagliata cartina in bianco-nero («Guida topografica») con sigle geografiche precise che Gartner utilizzerà tanto nella sua grammatica del 1883 quanto nel suo manuale del 1910. La sua rete di ricerca abbraccia, dai Grigioni fino al golfo di Trieste, 67 località [nella prefazione della sua grammatica, Gartner 1883, VII menziona esplicitamente il numero di 67 località da lui visitate, mentre la tabella [bidimensionale] dell’«Anhang» consta di 69 località e 131 attributi linguistici]; il questionario normale conteneva oltre 350 questio-

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ni, mentre nel questionario esteso, applicato solo in 12 delle 67 località, figuravano ca. 1400 items. Nel 1880 il questionario esteso è stato utilizzato da Gartner anche in Istria, fin dove ha spinto i suoi «viaggi ladini» per studiare le parlate di alcune località istrorumene (cf. Miklosich 1882, 53–84) Grazie ai risultati delle sue ricerche sul terreno Gartner era pienamente consapevole della natura intrinseca dei dati da lui raccolti: onnipresenza dell’«intreccio particolare» (IP)7 dei caratteri esaminati con la conseguenza della non-coincidenza precisa delle isoglosse. Dal punto di vista geotipologico Gartner condivideva pienamente la rispettiva concezione dell’Ascoli (la polemica aperta dall’Ascoli contro il Gartner nel 7o volume dell’Archivio Glottologico Italiano [Ascoli 1883, 564] non ha nessun fondamento scientifico serio, cf. Gartner/Böhmer 1885 [replica] e soprattutto Gazdaru 1962), ampliandola però con una marcata componente quantitativa. Così facendo, Gartner utilizza, per caratterizzare il grado variabile della «tipicità» dei dialetti ladini («raetisch») da lui esaminati, varie sfumature del termine tedesco di «Raetizität» (cf. Gartner 1883, XXIX, XXXII, XXXVII). Così ad una più grande «reticità» di uno o parecchi punti d’inchiesta corrisponde una più grande quantità di tratti linguistici co-presenti nella rispettiva zona. Sia detto per inciso che utilizzando i dati da lui raccolti a Erto (Friuli settentrionale) e quelli di alcune grammatiche rutene (ucraine), Gartner ha gettato le basi per una definizione quantitativa della posizione occupata da una determinata varietà all’interno di un diasistema superiore (cf. Gartner 1892 e Goebl 1987b, passim). Gartner offre inoltre ai suoi lettori la possibilità di verificare le sue asserzioni geotipologiche attraverso una documentazione molto preziosa, presentata in appendice (Anhang, 166–197) alla sua Raetoromanische Grammatik: si tratta di una tabella relativa a 69 punti d’inchiesta e (solo) 131 attributi linguistici di cui i dati sono presentati nella notazione fonetica che il Nostro aveva mutuato dal suo mentore scientifico Eduard Böhmer (1827–1906). Sfortunatamente, Gartner non si è mai servito né di una carta muta dei suoi dati, né di un’apposita cartografazione degli attributi linguistici ivi contenuti. Questa lacuna è stata colmata solo nel 1988 da chi scrive, tramite la confezione di un’apposita carta muta per i dati dell’Anhang ed il loro uso per la confezione di una carta geotipologica di stampo quantitativo (Goebl 1989, 755). Nella stesura della grammatica (1883) e del manuale (1910) il Nostro ha arricchito i suoi dati dialettali (comprendenti anche alcuni testi paralleli) con materiali filologici

7 Con questo termine tecnico viene denominata una proprietà naturale a tutte le collezioni atlantistiche: le aree di diffusione dei singoli attributi – anche quelle di tratti linguisticamente correlati tra di loro – non combaciano quasi mai con precisione. Scaturisce in questo modo l’impressione di una stratificazione “incrociata” – e quindi «irregolare» – di una pluralità di areali geolinguistici. Sin dall’inizio della geografia linguistica l’incomprensione, magari anche la non-accettazione di questo fatto empirico da parte di molti ricercatori ha enormemente turbato le discussioni specialistiche.

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di varia estrazione diacronica (1883, Mundartliche Litteraturen: XXXVIII–XLV, e Bibliographie, XLV–XLVIII). In linea di massima l’orientamento metodico generale della Raetoromanische Grammatik corrisponde a quello dei Saggi ladini: si tratta di un lavoro di stampo prevalentemente sincronico. Anche nell’opera di Gartner non si trova nessun tentativo di retroproiezione del geotipo da lui esaminato nel passato o di postulare, per il Medioevo, l’esistenza di una raetoromanische Sprache coerente che abbracciasse tutta la periferia settentrionale della Padania. Ciò non toglie che Gartner ammetta, alla pari dell’Ascoli, la variabilità, nel tempo e nello spazio, delle aree dei singoli tratti linguistici.

5 Il garbuglio battistiano Il primo a criticare apertamente la tesi ladina dell’Ascoli fu Carlo Battisti (1882–1977). Questo avvenne al più tardi nel 1910, cioè tre anni dopo la morte di Ascoli, ma già nella sua tesi di laurea, pubblicata nel 1906/1907, C. Battisti espresse certi dubbi sulle tesi dell’Ascoli. Una delle particolarità contingenti dei numerosi attacchi di Battisti contro Ascoli (ed anche contro Gartner) era che nessuno dei criticati ebbe modo di difendersi, il primo per la sua morte prematura (†1907) ed il secondo per motivi biografici: infatti, Gartner si ritirò dalla sua cattedra di Innsbruck nel 1911; il suo successore, fino al 1915, fu Karl von Ettmayer. Un’altra particolarità risiede nel fatto che Battisti concepì una visione abbastanza travisata delle tesi ladine dell’Ascoli, basata sul un’accezione erronea del concetto ascoliano dell’unità. Il Battisti, a cui sfuggirono tanto la bisemia intrinseca della parola unità quanto la grande differenza logica che corre tra le due accezioni (unità «gruppo» [= cosa] vs. unità «unitarietà» [= attributo]), credeva che l’Ascoli avesse postulato, tramite il concetto dell’«unità ladina», l’esistenza di una lingua romanza storica, profondamente unitaria – cioè esente da variazioni interne – sotto tutti gli aspetti immaginabili: a cominciare da un’estensione geografica coerente prima della separazione in tre tronconi diversi, con sostrati prelatini identici ed una romanizzazione unitaria – per giungere ad una storia successiva prevalentemente convergente. In una lunga serie di scritti, spesso testualmente identici tra di loro, Battsisti cercò di sfatare le idee dell’Ascoli e di imporre le sue. Queste possono riassumersi nella maniera seguente: a) Esistono delle grandi differenze linguistiche, storiche e sociolinguistiche tra i tre ceppi ladini, che sono di gran lunga superiori alle rispettive similarità. Già questo fatto contraddice l’idea di un’unità (intesa come «unitarietà», cioè in senso nonascoliano, cf. in merito Goebl 2000–2001 e 2003a). b) È quindi impossibile accomunare i tre ceppi in un raggruppamento comune. c) I legami linguistici con i domini dialettali «italiani» attigui del lombardo, del trentino e del veneto superano ampiamente quelli che esistono tra i tre ceppi

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ladini in questione. Questo fatto risulta da differenze profonde tra le rispettive basi sostratistiche nonché tra i processi di romanizzazione. Essendo i tre domini linguistici alto-italiani parte integrante della «lingua italiana», tale appartenenza deve quindi valere anche per il romancio, il ladino nonché il friulano. Questa è tra l’altro la ragione per l’inclusione di alcuni testi romanci nella sua antologia di testi dialettali italiani (Battisti 1914) ed anche della sua polemica (Battisti 1961) contro la struttura interna dell’indice dell’AIS (Jaberg/Jud 1960), il quale contiene una parte italo-romanza generale ed una parte riservata ai dati provenienti dai 19 punti romanci della rete dell’AIS. Molte zone soprattutto del ladino centrale erano completamente spopolate fino all’undicesimo secolo. L’arrivo di gente ladinofona è quindi assai tardivo. Ne risulta che la continuità locale e/o regionale delle rispettive parlate non corrisponde a quella delle parlate confinanti della Lombardia, del Trentino e del Veneto. Per l’assenza di un centro urbano (romanzo) propulsore comune nei Grigioni e nel Tirolo manca una tradizione scritta unitaria. Non si può quindi usare il termine italiano di lingua per designare né tutti né i singoli tre ceppi in questione (emblematica è la sua polemica contro il referendum elvetico sulla «quarta lingua svizzera», effettuato il 20 febbraio 1938: Battisti 1937b). Il contatto linguistico con il tedesco era ed è tuttora molto nocivo per gli idiomi dei Grigioni e del Tirolo. Visto la sua persistenza ininterrotta è quindi imminente la morte linguistica delle rispettive parlate romanze. Solo tramite l’assunzione dell’italiano come lingua guida (nella scuola e nell’amministrazione) è possibile la salvaguardia delle parlate dei Grigioni e del Tirolo. Su questo punto, Battisti 1937a, 78, si esprime in maniera categorica: «I Retoromanci [dei Grigioni] debbono usare come lingua di cultura l’italiano!». È possibile ed anche auspicabile che la «nuova Bolzano» – politicamente divenuta italiana nel 1919 – funga da centro propulsore linguistico almeno per il ladino tirolese. La classificazione dei dialetti d’Italia non può sottrarsi a certi aspetti politici: «Chi si occupa di dialetti sa che si tratta di contingenze culturali che non possono nè essere evitate, nè ritardate, ma devono essere accompagnate da un generoso riconoscimento della necessità di sentirsi cittadini d’una patria comune che vuole essere unitaria nella sua cultura e nella sua espressione.» (Battisti 1969, 35).

L’argomentazione del Battisti, pur essendo retta in genere da una grande erudizione filologica e storica, è pervasa da molte contraddizioni interne. Stupisce in particolare l’inconsistenza semantica ubiquitaria dell’uso della parola unità: succede spesso che il Battisti utilizzi questa parola, anche a distanza di poche righe, in due accezioni contrastanti («qualità» vs. «cosa»).

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5.1 Contributi provenienti dal sud delle Alpi Alle critiche precoci del Battisti si è associato, in piena Guerra mondiale, il linguista ticinese Carlo Salvioni (1859–1920) che, nel suo discorso Ladinia e Italia, presentato e pubblicato a Milano nel 1917, ha amalgamato argomenti linguistici, implicazioni personali e postulati politici in maniera molto ambigua (cf. Loporcaro 2011, passim). La sua posizione è subito stata criticata e categoricamente respinta da parte svizzera (cf. Jud 1917; Planta 1917). Di seguito si è rapidamente costituita una fitta falange di seguaci italiani delle posizioni battistiane (come Matteo Bartoli, Ernesto Parodi, Carlo Tagliavini [per es. 41964, 319–328] ecc.; cf. in merito il florilegio di testi specialistici curato da C. Battisti nel 1962), i cui membri, nel periodo fascista (1922–1943), non erano sempre estranei alle mire snazionalizzatrici del regime (per es. in Alto Adige). Non mancavano però le voci italiane critiche verso la posizione battistiana: citiamo in merito i contributi ponderati e scettici di Clemente Merlo (1924/1925), Nunzio Maccarone (1929) e Giulio Bertoni (1937). Dopo la Seconda Guerra mondiale Battisti non ha mitigato, anzi inasprito le sue posizioni prebelliche, soprattutto verso i tedeschi e ladini dell’Alto Adige, spalleggiato ben presto dal romanista patavino Giovan Battista Pellegrini (1921–2007) e da alcuni dei suoi allievi (cf. Benincà/Vanelli 2005). L’opera e l’indole scientifica del Pellegrini si contraddistinguono per un tradizionalismo metodico ed una resilienza argomentativa davvero viscerale: si vedano a questo proposito le recensioni mie e di O. Gsell dedicate a due libri molto farraginosi del Nostro (1991: Goebl 1992b, Gsell 1992; 1999: Goebl 1999 e 2000a). Dal punto di vista etno-politico stupisce il fatto che il Pellegrini sia diventato, da duro critico dei ladini ancora negli anni 1960 (cf. Pellegrini 1972), uno dei promotori del movimento neo-ladino bellunese alla fine degli anni 1970 (cf. Goebl 1997; Rührlinger 2005). Tra i critici italiani dei postulati battistiani e pellegriniani spiccano Oronzo Parlangèli (1969), Vittore Pisani (1969) e Giuseppe Francescato (1973), tutti propensi a riesaminare la posizione originale di G. I. Ascoli ed a spingersi serenamente ad fontes, scostandosi al massimo dalla cortina di fumo «unitarista» e tipofoba diffusa da Battisti e Pellegrini. È da citare in questa sezione anche la voce del romanista tedesco Johannes Kramer (1971; 1981), che dal 1971 condivide e difende, in chiave anti-ascoliana, tutte le posizioni di Battisti e Pellegrini, con inclusione anche di quelle sociolinguistiche (Kramer 1984). Si vedano perciò le dure critiche di G. Francescato (1972) a proposito di Kramer (1971), nonché le mie (Goebl 1982b) a proposito di Kramer (1981).

5.2 Contributi provenienti dal nord delle Alpi Come già previamente segnalato, anche a nord delle Alpi circolava la falsa credenza che l’Ascoli avesse postulato, mediante l’uso della parola unità nei Saggi ladini, che i

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dialetti dei tre ceppi del ladino/retoromanzo fossero tipologicamente uni-t-ari, cioè legati tra di loro tramite un gran numero di attributi identici. È emblematico in questo rispetto il titolo di un contributo di Heinrich Kuen (1899–1989), noto fautore della posizione ascoliana, del 1968: Einheit und Mannigfaltigkeit des Rätoromanischen dove, senza ombra di dubbio, i due sostantivi contrastanti (Einheit, Mannigfaltigkeit) si riferiscono a due qualità. Si cercava quindi di ridurre l’importanza sincronica e diacronica dei loro legami tipologici con la Padania e di esaltare quella delle affilazioni intraladine/retoromanze. Rimando in merito ai contributi di Walther von Wartburg (1936 [ecc.]), Ernst Gamillscheg (1948) e Friedrich Schürr (1963). Mentre a von Wartburg si deve la coniazione, alquanto sofistica, del concetto dell’«unità negativo-passiva» dei dialetti retoromanzi (cf. Wartburg 1936, 46; 1950, 149; 1967, 132 nonché 1980, 183s.), i due ultimi hanno tentato di disinnescare le critiche italiane espresse da sempre contro la prima parte del termine gartneriano «Rätoromanisch» attraverso la creazione del neologismo (purtroppo geograficamente ambiguo) di «Alpenromanisch». Nei contributi «nordici» si è instaurata, coll’andare del tempo, una rivalutazione sfumata dei rapporti tipologici che corrono, dalla romanizzazione fino ad oggi, tra le due Gallie (trans- e cisalpina) ed i tre tronconi retoromanzi, e dell’importanza di evoluzioni linguistiche particolari svoltesi in maniera «autonoma» nella totalità o all’interno dei tre tronconi. Cito in merito i testi di Heinrich Schmid (1956), Lois Craffonara (1977 e 1979), Max Pfister (1982) e Frank Jodl (2000; 2004). Prescindendo dalla mia ormai vecchia critica delle confusioni secolari relative al termine ascoliano dell’unità, io aderisco, per conto mio, da parecchio alle posizioni espresse da Paul Videsott (2001; 2003; 2005) e Otto Gsell (1997; 2003; 2008) che ammettono, per il periodo situato prima del 1000, una comunanza linguistica generale tra le Gallie situate al di là (G. transalpina) e al di qua (G. cisalpina) delle Alpi. In sostanza, si tratta della maturazione di un’ipotesi con radici relativamente profonde: cf. Hull (1982/82017);8 Haiman/Benincà (1992, 1–27); Tuttle (1989, 737s.); Salvi (2016, 154–156). Questa comunanza è stata seriamente incrinata, all’inizio del secondo millenio, da una vasta gamma di correnti linguistiche innovatrici, tutte provenienti dal sud (Italia mediana in genere), che si sono intensificate col tempo («italianizzazione della Padania»): cf. Videsott (2001; 2003; 2005). In questa prospettiva i dialetti ladini/ retoromanzi, geograficamente distanti dalle porte d’accesso nonché dai centri irradiatori della nuova «italianità», potevano conservare la loro posizione «paleo-galloromanza», adottando così un carattere da una parte conservatore (rispetto alla Padania in procinto di italianizzarsi) e, dall’altra, innovatore (tramite un certo numero di sviluppi autoctoni – sempre di stampo regionale e locale – di data «recente», cioè dopo il 1000).

8 Mi spiace molto che l’eccellente tesi di Geoffrey Stephen Hull, discussa presso l’Università di Sydney già nel 1982, mi sia rimasta ignota fino a data molto recente.

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Siccome alla luce delle ricerche scrittologiche ed onomastiche di P. Videsott si è accertato che le strutture linguistiche di base dell’attuale Padania sono molto più antiche di quanto ammetteva la vulgata tradizionale, le dispute relative ai focolai originali e le vie d’espansione di molti dei tratti linguistici sub lite sembrano smussarsi lentamente.

6 Chiarimenti metodici Molti dei dubbi e perplessità dell’Ottocento si spiegano per l’assenza di apposite documentazioni empiriche (quali l’ALF o l’AIS) e delle rispettive esperienze pratiche. Due erano i punti più deboli dell’epoca: a) la scarsa conoscenza della natura insita nei dati geolinguistici (alludo a dati di tipo atlantistico, cioè provvisti di due dimensioni [x punti d’inchiesta e y attributi commensurabili] e raccolti tramite inchieste svolte sul terreno), contrassegnata dal fenomeno dell’«intreccio particolare» (delle aree degli attributi esaminati),9 e b) la non meno scarsa consapevolezza della differenza che corre, dal punto di vista logico ed ontologico, tra dati isolati (come per es. singole aree linguistiche) e aggregati teorici superiori (come per es. dialetti o lingue ecc.). Questa differenza capitale (vigente d’altronde in tutte le discipline empiriche basate su una grande quantità di dati) è già stata intuita, nel 1870, da Hugo Schuchardt nella sua lezione inaugurale sulla classificazione dei dialetti romanzi: «Demnach besteht der Charakter eines Dialektes [= il geotipo] weniger in der Art seiner Abänderungen [= attributi] als in der Wahl derselben. Nun werden Mundarten, je näher sie sich räumlich stehen, desto mehr Abänderungen gemein haben. Wir können daher nicht sowohl das Gebiet eines einzelnen Dialekts als die Gebiete aller seiner einzelnen Lautbehandelungen beschreiben.» [messa in corsivo da HG] (Schuchardt 1870/1900, 184) [trad.: Quindi il carattere di un dialetto [= il geotipo] consta meno della qualità dei suoi attributi che della loro selezione. Sta di fatto che più i dialetti sono geograficamente vicini, più alto sarà il numero degli attributi comuni.

9 In questo contesto scarseggiano osservazioni limpide come quella di G. Bertoni (1937, 112): «Non esistono limiti netti e definiti fra lingue affini e vicine e fra dialetti contermini. I fenomeni linguistici, presi uno per uno, si intersecano, si avvicendano, si accavallano, si estendono in sensi diversi insieme con le parole, in cui soltanto appaiono nella loro reale concretezza. Le partizioni dialettali sono sistemazioni del nostro intelletto che valgono sopra tutto per la prassi degli studi, costruite sulla compresenza e simultaneità di tratti caratteristici, dei quali ognuno ha una storia e una estensione diversa.» Anche il romanista austriaco Heinrich Kuen (1899–1989) sembra aver intuito il fenomeno dell’IP: si veda il titolo di un suo contributo del 1982: Die Verzahnung [addentellatura] der rätoromanischen Mundarten.

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Non possiamo pertanto descrivere concordemente l’area di un dato dialetto e le aree dei rispettivi attributi linguistici.]. Questa constatazione combacia perfettamente con l’ammonizione rivolta da G. I. Ascoli a P. Meyer nel 1876: «[…] Fra i caratteri può darsene uno o più d’uno che gli sia esclusivamente proprio; ma questo non è punto una condizione necessaria, e manca moltissime volte. I singoli caratteri di un dato tipo si ritrovano naturalmente, o tutti o per la maggior parte, ripartiti in varia misura fra i tipi congeneri; ma il distintivo necessario del determinato tipo sta appunto nella simultanea presenza o nella particolar combinazione di quei caratteri.» (1876, 387). È ovvio che dalle due definizioni risulta l’infondatezza del mito – rivelatosi purtroppo molto tenace – dell’attributo unico e/o esclusivo per la definizione di un determinato dialetto.

6.1 Chiarimenti in chiave ascoliana A questo punto risulta molto utile porsi la domanda seguente: che cosa avrebbe potuto fare l’Ascoli in suo tempore tramite l’applicazione del metodo ritteriano della «combinazione sincorica» ad un’adeguata documentazione geolinguistica articolata – alla stregua dell’ALF o dell’AIS – in maniera bidimensionale (x punti d’inchiesta per y carte linguistiche)? Rinvio in guisa di risposta alle carte 1 e 2, elaborate da una parte sui dati dell’Atlante italo-svizzero (AIS) di Karl Jaberg (1877–1958) e Jakob Jud (1882–1952), e dall’altra su quelli della prima parte dell’ALD. La carta 1 è stata pubblicata, sempre a colori, finora cinque volte (Goebl 1990, 257; 1992a, 196; 1995, 131; 2000b, 155; 2010, 164). Per l’elenco dei rispettivi dati cf. Goebl (1990, 231–234; 1995, 114–118) (una carta sincorica analoga, basata però su un numero meno cospicuo di carte-AIS e realizzata solo in bianco-nero, si trova in Goebl 1989, 754). La carta 2 invece, relativa ai dati dell’ALD-I, è finora stata pubblicata tre volte a colori (Goebl 1999, 163; 2000b, 156; 2010, 165) ed una volta in bianco-nero (Goebl 2000a, 197). I rispettivi dati si trovano in Goebl (1999, 151–153 nonché 2000a, 201–204). In ambedue i casi la cartografazione è stata effettuata mediante l’addizione pura e semplice delle aree di ca. 70–80 attributi esaminati. Ne risultano aggregati spaziali di stampo quantitativo con superfice abbastanza accidentate che rispecchiano la maggiore o minore co-presenza (o densità) sincorica delle aree degli attributi sintetizzati e dove si intravvede con chiarezza un’alternanza ordinata tra cime (alte), falde (intermedie) e valli (profonde). Ovviamente le due carte sono state realizzate con mezzi elettronici. Cionondimeno sarebbe stata possibile, al tempo dell’Ascoli, la loro realizzazione a mano, ricorrendo cioè ad un pezzo di carta bianca, una matita, un penello ed a sei tinte colorate. La visualizzazione delle nostre due carte è stata fatta mediante l’attribuzione di sei colori dello spettro solare coll’aiuto di un semplice algoritmo d’intervallizzazione (MINMW-

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MAX 6-tuplo), mutuato dalla dialettometria. Ricordiamo che l’algoritmo d’intervallizzazione MINMWMAX prevede per i gradini (cromatici) 1–3 (situati sotto la media aritmetica di tutti i valori sintetizzati) da un lato, e per i gradini 4–6 (situati sopra la media aritmetica dei valori esaminati) dall’altro, una larghezza numerica uguale (per ulteriori dettagli cf. Goebl 1984, I, 93ss. nonché 2008, 39ss.). Ne risultano due aggregati spaziali di stampo quantitativo – ambedue qualificabili da unità in senso ascoliano –, i cui centri (in rosso e arancione: intervalli 6 e 5) coprono in maniera disuguale la totalità della «zona ladina» (si veda la carta 1) ossia la sua parte centrale (si veda la carta 2). È ovvio che gli elementi di queste due unità (= gruppi, classi) differiscono tra di loro in maniera variabile e che quindi non regna nessuna unitarietà – né assoluta né relativa – all’interno di esse. Noi (a partire dal 1990) preferiamo adottare in questa sede il termine di geotipo al posto della parola ambigua unità.

6.1.1 Presentazione della carta 1 (AIS) La carta coropletica (ribadisco che la poligonizzazione della rete esaminata costituisce, oggigiorno, una conditio sine qua non in sede di cartografia [tematica]) rappresenta il risultato della «particolar combinazione» di 80 aree corrispondenti ad altrettanti attributi geolinguistici (di natura fonetica, morfologica e lessicale), tutti desunti da altrettante carte dell’AIS. La rispettiva lista è stata stabilita secondo le indicazioni contenute nei Saggi ladini dell’Ascoli stesso e quelle rintracciabili negli scritti di altri autori tipofili, in ispecie del romanista austriaco H. Kuen (1968; 1982). Rinvio ad un’esperienza «sincorica» analoga fatta dal linguista americano James Redfern nel 1971, che fu duramente criticata – benché con argomenti futili – da Paola Benincà (1973), allieva di G. B. Pellegrini. La tecnica di Redfern è invece stata ripresa con successo da Christian Schmitt nel 1993. Si evidenziano molto bene – mediante l’accumulo dei poligoni in arancione (classe/intervallo 5) e rosso (classe/intervallo 6) – le zone centrali del geotipo ladino ricercato dove si trovano i tassi più alti della ladinità (secondo la terminologia dell’Ascoli) o della reticità/Raeticität (secondo la terminologia del Gartner). Si notino inoltre i poligoni gialli (intervallo 4) che contraddistinguono i passaggi smussati tra i Grigioni e la Ladinia dolomitica nonché tra quest’ultima ed il Friuli. Emergono così le ben note anfizone ascoliane. Quanto ai poligoni gialli situati lungo l’arco alpino occidentale è ovvio che costituiscono le falde di un geotipo diverso, cioè galloromanzo, le cui zone centrali si trovano all’interno della Galloromània (transalpina) stessa. È peraltro ovvio che la distribuzione spaziale dei poligoni dipinti con colori «freddi» (blu scuro, blu chiaro e verde) si riferisce a quelli, tra gli 80 attributi analizzati, le cui aree di diffusione si staccano considerevolmente dalle parti centrali del geotipo compilato.

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È non priva di importanza la ripartizione spaziale dei poligoni rimasti in bianco che simboleggiano l’assenza totale degli attributi ritenuti «pertinenti» in merito. Ciò significa, in chiave ascoliana, che le zone bianche – soggette ad altri principi geotipologici – non fanno più parte del geotipo «ladino».

6.1.2 Presentazione della carta 2 (ALD-I) Un’esperienza analoga è stata compiuta con i dati dell’ALD-I. Il risultato della sintesi di 71 aree – corrispondenti ad altrettanti attributi di stampo fonetico, morfologico e lessicale – combacia perfettamente con la carta precedente. Si badi soprattutto all’apparizione di tre anfizone (intervallo 4, giallo) compatte: nella Lombardia settentrionale (Livigno), nel Trentino nord-occidentale (Val di Non e Val di Sole) e nel Veneto settentrionale (Comèlico, Cadore). È ovvio che il metodo della particolar combinazione si presta anche alla costruzione di geotipi consimili per altri domini o «paesaggi» geolinguistici (cf. gli esempi presentati in Goebl 1999, 168s.; 2000a, 198s. nonché 2010, 167s.). In ogni caso si tratta di artefatti euristici di stampo sincronico che si adattano anche a teorizzazioni ed interpretazioni diacroniche. Così facendo bisogna però sempre distinguere tra due livelli logici: quello delle singole aree e la loro variabile estensione nel passato, e quello del geotipo derivato da una sinossi delle aree esaminate. Si tratta in effetti di due configurazioni geografiche logicamente contrastanti che non devono mai confondersi.

6.2 Chiarimenti alla luce della dialettometria La dialettometria (DM) è una disciplina quantitativa di data relativamente recente (cf. Goebl 1984 [tedesco] e 2008 [italiano]) che permette, tramite la sintesi statistica di dati geolinguistici molto ampi, la scoperta di strutture e interdipendenze geolinguistiche «latenti», cioè nascoste nel fondo dei rispettivi dati e quindi non visibili di prim’acchito all’occhio dell’osservatore. Si aprono così nuove prospettive per l’analisi globale dei dati degli atlanti linguistici compilati nel corso del Novecento. In questo modo è possibile gettare nuova luce su alcuni dei capitoli più contestati della QL. Essendo la gamma metodica della DM – soprattutto di quella praticata a Salisburgo – molto ricca, ci limitiamo in questa sede alla presentazione dei risultati di due metodi-DM appositamente selezionati: – la misurazione della similarità inter-dialettale (per visualizzare le tanto discusse relazioni linguistiche dei tre tronconi retoromanzi da una parte tra di loro e, dall’altra, con i domini linguistici attigui); – l’analisi dendrografica (per visualizzare la genesi di raggruppamenti dialettali gerarchizzati, tramite l’applicazione di un paio di algoritmi dendrografici complessi).

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I dati sui quali si basano le carte 3–5 provengono dallo spoglio integrale delle 1.705 carte originali dell’AIS. Ne sono state derivate 3.911 carte di lavoro – le «carte di lavoro» nascono dalla «tassazione» (= tipizzazione secondo determinati criteri linguistici, cf. Goebl 1984 I, 55s. e 2008, 34s.) delle carte originali di un atlante linguistico relative a tutte le categorie linguistiche (dalla fonetica al lessico, pur non escludendo la morfosintassi) e contrassegnate dall’intreccio particolare di 43.564 aree tassatorie (i.e. generate tramite la tassazione dei dati originali) di varia estensione geografica. Per limitare la quantità dei dati mancanti (i.e. caselle vuote nella matrice dei dati), la rete originale dell’AIS è stata assottigliata da 407 a 382 (= N) punti, soprattutto tramite l’eliminazione delle inchieste ridotte fatte da P. Scheuermeier nelle grandi città. L’affidabilità dei dati da noi utilizzati per i calcoli-DM è quindi indiscussa, tanto dal punto di vista statistico quanto da quello linguistico. Ovviamente anche la dialettometrizzazione dei dati delle due parti dell’ALD risulta molto utile (rimando in merito a Roland Bauer 2009 e successivi lavori) fermo restando l’estensione minore della rete dell’ALD rispetto a quella dell’AIS. Uno dei punti forti della DM di Salisburgo è la visualizzazione circostanziata dei valori statistici calcolati. Quest’ultima si serve di appositi algoritmi di intervallizzazione nonché dei colori dello spettro solare. Nella confezione delle carte 3–5 abbiamo utilizzato l’algoritmo di visualizzazione MINMWMAX con otto gradini cromatici. Da questa gamma cromatica risulta una buona messa in rilievo delle relazioni spaziali pertinenti. La metà degli otto intervalli (1–4) si trova sotto la media aritmetica dei 381 (= N-1) valori da visualizzare, mentre l’altra metà (5–8) si trova al di sopra di essa (cf. Goebl 1984 I, 90s.; 2008, 39s.). Le misurazioni della similarità interdialettale sono state realizzate a mezzo dell’indice di similarità standard della DM salisburghese: IRIjk («Indice Relativo di Identità», cf. Goebl 1984, I, 74 s. e 2008, 29).

6.2.1 Presentazione della carta 3 Si tratta di tre profili di similarità che dimostrano il posto linguistico relazionale di 381 punti dell’AIS rispetto al potenziale linguistico di un punto di riferimento (PR) preselezionato. I tre PR si trovano nei centri della Lombardia (Milano), della Toscana (italiano standard – inteso come «punto-AIS artificiale») nonché del Veneto (Venezia). I tre profili coropletici dimostrano bene la posizione diversamente appartata – sempre rispetto al PR preselezionato – non solo dei tre ceppi del ladino/retoromanzo, ma anche di tutta l’Italia meridionale nonché del sardo. Si noti l’onnipresenza di gradazioni fini tra le diverse macro-regioni della rete dell’AIS. Si osservi inoltre che rispetto ai tre PR il romancio grigionese occupa sempre il posto più distante, mentre il friulano detiene quello più vicino.

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6.2.2 Presentazione della carta 4 Questa carta mostra di nuovo tre profili di similarità di cui i PR si trovano all’interno della Ladinia ascoliana: in Val Monastero (Svizzera; P.-AIS 29) [a sinistra], in Val Badia (Ladinia dolomitica: P.-AIS 305) [al centro] ed in Carnia (Friuli settentrionale; P.-AIS 318) [a destra]. I tre profili coropletici mettono in evidenza le relazioni linguistiche di queste zone non solo con la Pianura Padana antistante, ma anche con tutto il resto dello stivale (incluse Sicilia e Sardegna). Tramite l’estensione compatta della zona gialla (intervallo 5) si evidenziano bene i legami geotipologici verticali (cioè in direzione nord-sud) del romancio, del ladino dolomitico e del friulano con la Pianura Padana; è però anche vero che i poligoni in rosso, arancione e ocra (= intervalli 8–6) visualizzano le relazioni orizzontali (cioè in senso est-ovest) tra i tre ceppi in questione. Si badi anche al fatto che il tasso di similarità che esiste tra i tre ceppi ladini/retoromanzi e tutti i dialetti italo-romanzi situati a sud dell’Appennino si aggira sotto la media aritmetica ed è quindi assai basso. Alla luce della DM viene quindi confermata la tesi, oggigiorno diventata generale tra Battistiani ed Ascoliani, della «padanità» storica comune dei tre ceppi ladini/ retoromanzi, ma contraddetta quella della loro «italianità» intrinseca.

6.2.3 Presentazione della carta 5 Questa carta contiene tre analisi dendrografiche di cui ciascuna comporta – in basso – un albero (binario) debitamente colorato e – in alto – la proiezione delle sue ramificazioni (dendremi) nella rete dell’AIS. Gli alberi sono stati construiti con tre algoritmi «ascendenti» diversi (WARD, Complete Linkage e UPGMA) che riecheggiano tre «filosofie raggruppatrici» distinte.10 Questo significa che i raggruppamenti visibili nella struttura gerarchica dell’albero si differenziano sia tra di loro («inter-groupdistance») sia al loro interno («intra-group-distance») in vario modo. La genesi algoritmica degli alberi inizia al livello delle «foglie» (= singoli locoletti) e «ascende», tramite 382 fusioni binarie, progressivamente verso la radice. Più una biforcazione («nodo») dell’albero si trova in alto (= a destra), più la variabilità (numerica) interna della rispettiva classe (gruppo) è grande. Le classi più omogenee si trovano quindi a prossimità delle «foglie».

10 Dal punto di vista statistico i tre algoritmi si differenziano tra di loro per una ponderazione diversa dei due tipi di distanza menzionati qui sopra: distanza «intra-group» e distanza «inter-group». Ne risultano aggruppamenti dendrografici alquanto differenti. Mentre l’agoritmo WARD (proposto nel 1963 dallo statistico americano Joe Ward Jr. ) genera gruppi (i. e. dendremi e quindi anche coremi) molto compatti, gli algoritmi Complete Linkage e UPGMA ribadiscono l’effetto agglomerativo tra i diversi gruppi (dendremi) dell’albero. Da queste divergenze statistiche risulta ovviamente la loro diversa utilità euristica.

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In sede di DM gli algoritmi dendrografici vengono selezionati non secondo criteri statistici, bensì secondo la loro utilità linguistica. Quest’ultima è stata comprovata ripetutamente per i tre algoritmi utilizzati (WARD, Complete Linkage, UPGMA [«Unweighted Pair Group Method using Arithmetic Averages»]). Per un’apposita descrizione dei tre algoritmi dendrografici rimando ai rispettivi brani del manuale tassometrico classico di Peter H. A. Sneath e Robert R. Sokal (1973): WARD: 241; Complete Linkage: 222–228; UPGMA: 230–234. Di solito le strutture interne degli alberi tassometrici vengono interpretate – in chiave linguistica – dalla radice «in su». Alla base di questa scelta sta l’«ipotesi diacronica» (diffusa, benché con varia intensità, in sede di glottocronologia e lessicostatistica) che l’attuale frantumazione linguistica sia il risultato di una lunga serie di scissioni linguistiche (o dialettali) di un dominio linguistico originariamente unitario. Così facendo si ammette che l’età delle biforcazioni decresca dalla radice (a destra) verso i fogli (alla sinistra). In effetti, tutti e tre gli alberi dimostrano, alle prime biforcazioni dopo le loro radici, una chiara bipartizione della rete dell’AIS lungo l’Appennino. Divergono però tra di loro le ulteriori scissioni interne. Per facilitare la comparazione visiva tra le tre classificazioni dendrografiche, abbiamo individuato dieci entità coriche «salienti» contrassegnandole mediante otto colori e la numerazione supplementare dei dendremi (in basso) e coremi (in alto): 1. Romancio grigionese, 2. Ladino dolomitico, 3. Friulano, 4. Occitanico, francoprovenzale alpino e francese standard, 5. Dialetti della Gallia cisalpina (intesa in senso ampio), 6. Dialetti dell’Italia mediana, 7. Dialetti dell’Italia meridionale peninsulare, 8. Salento, Calabria centro-meridionale e Sicilia, 9. Francoprovenzale (Faeto e Celle) ed occitanico (Guardia piemontese) dell’Italia meridionale, 10. Sardo. Quanto ai tre tronconi del ladino/retoromanzo si evidenzia che sempre due di loro vengono raggruppati insieme: la Ladinia dolomitica con il Friuli a sinistra e a destra, la Rumantschia con la Ladinia dolomitica nel centro. Una cosa simile succede con l’occitanico ed il francoprovenzale alpino: raggruppamento comune a sinistra e nel centro, raggruppamento separato a destra. Si noti inoltre la costanza del raggruppamento dell’Italia mediana (dendrema-corema 6) nonché quella del dendrema-corema 8 (Salento, Calabria centro-meridionale e Sicilia). Alla luce dell’«ipotesi diacronica» soprammenzionata si può inferire che lo stacco del grigionese dal tronco padano comune, sia stato in ogni caso anteriore a quello del ladino dolomitico e del friulano, e che due dei tre stacchi «retoromanzi» dal tronco padano comune erano anteriori a quelli delle varietà pedemontane occidentali (francoprovenzale ed occitanico alpino). Aggiungo che tutte le nostre analisi dialettometriche possono essere raffinate ed allargate tramite l’uso di corpora specifici tanto per la categoria linguistica quanto per il numero e la qualità delle carte di lavoro analizzate. Lo stesso vale per l’applicazione di diversi indici di similarità, senza e con ponderazione numerica degli attributi (= aree tassatorie) sintetizzati.

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7 Conclusione Questa non è la prima volta che mi esprimo sulla QL. Nel lontano 1982 (cf. Goebl 1982a, 155), ho introdotto una mia relazione in merito con la constatazione rassegnata di uno storico belga che, disperato dall’andamento catastrofico dei dibattiti scientifici sulla frontiera linguistica germano-romanza in Belgio, ha scritto: «Il y a des polémiques belles et fécondes, où les variations des historiens […] sur un même thème sont la source d’un véritable enrichissement de l’esprit […]. Dans le cas de la frontière linguistique il n’y a rien eu de pareil, ou presque […]. On n’y trouve guère de joie pour l’esprit.» (Stengers 1959, 7). A distanza di 36 anni devo purtroppo rassegnarmi anche io di fronte alla persistenza di molti fraintendimenti, incomprensioni e travisamenti nel quadro dei dibattiti intorno alla QL. I riassunti relativi alla QL non scarseggiano. Rimando, in ordine cronologico, ai contributi di Rohlfs (1975), Zamboni (1977), Oetzel (1994), Liver (1999), Krefeld (2003), Martel (2009) e Heinemann (2015) nonché, da parte italiana, a pubblicazioni di carattere commemorativo (per es. Studi in memoria di Carlo Battisti, 1979) o antologico (per es. Pellegrini 2000). Ovunque si trovano molte allusioni alla conflittualità inerente agli accesi dibattiti «circum-alpini», ma poche proposte per risolverli e ancora meno analisi oculate per capirli. Tra questi contributi, la cui qualità spazia il più delle volte dalla superficialità all’incomprensione, spicca quello del romanista australiano Geoffrey Hull (1982/ 2017), rimasto purtroppo a lungo nel buio, nonché dello storico francese Philippe Martel, professore all’Università di Montpellier (Martel 2009). Se la chiaroveggenza di questi due contributi si fosse manifestata già prima, tanto in Italia quanto nei paesi di lingua tedesca, il beneficio per gli studi ladini/retoromanzi sarebbe stato enorme: avremmo trovato tutti «de joie pour l’esprit».

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Carta 1: Profilo coropletico del geotipo ladino (retoromanzo) a base dei dati dell’AIS Corpus sintetizzato: 80 aree geolinguistiche derivate da altrettante carte dell’AIS Visualizzazione: algoritmo MINMWMAX, 6-tuplo.

Carta 2: Profilo coropletico del geotipo ladino (retoromanzo) a base dei dati dell’ALD-I Corpus sintetizzato: 71 aree geolinguistiche derivate da altrettante carte dell’ALD-I Visualizzazione: algoritmo MINMWMAX, 6-tuplo.

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Indice di similarità: IRIjk Corpus: 3.911 carte di lavoro, derivate dai volumi 1-8 dell’AIS, tutte le categorie linguistiche.

Carta 3: Tre profili dialettometrici di similarità a base dei dati dell’AIS Punti di riferimento: Milano (P. 261, Informatore 1, a sinistra), Italiano standard (P. 999, nel centro), Venezia (P. 376, Informatore 1, a destra). Visualizzazione: algoritmo MINMWMAX, 8-tuplo

Il ladino e le altre lingue romanze

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Indice di similarità: IRIjk Corpus: 3.911 carte di lavoro, derivate dai volumi 1–8 dell’AIS, tutte le categorie linguistiche.

Carta 4: Tre profili dialettometrici di similarità a base dei dati dell’AIS Punti di riferimento: Santa Maria, Val Müstair (P. 29, a sinistra), Al Plan de Mareo/S. Vigilio di Marebbe/Enneberg, Sudtirolo (P. 305, nel centro), Forni Avoltri, Friuli (P. 318, a destra). Visualizzazione: algoritmo MINMWMAX, 8-tuplo

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Indice di similarità: IRIjk Corpus: 3.911 carte di lavoro, derivate dai volumi 1–8 dell’AIS, tutte le categorie linguistiche.

Carta 5: Tre analisi dendrografiche a base dei dati dell’AIS Algoritmi dendrografici utilizzati: metodo di Ward (a sinistra), metodo «Complete Linkage» (nel centro), metodo UPGMA [«Unweighted Pair Group Method using Arithmetic Averages»] (a destra). Numero dei raggruppamenti colorati (nell’albero e nella rispettiva spazializzazione): dieci

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Il ladino: uso e norme

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6 Coscienza linguistica e identità ladina Abstract: Le testimonianze scritte sull’uso del ladino nelle valli dolomitiche risalgono al XV secolo, ma è solo nei secoli XVIII e XIX che prendono forma i primi esperimenti di una letteratura ladina, e comincia ad essere presente la consapevolezza della dignità dell’idioma ladino e della sua idoneità ad essere utilizzato anche in ambiti colti, non solo nella parlata comune. La presa di coscienza politica, con le richieste di riconoscimento linguistico ed etnico ad essa legate, si sviluppa e si amplia sempre più dopo il distacco della Ladinia dalla Monarchia asburgica e l’annessione all’Italia nel 1918, alla fine della Prima Guerra mondiale. L’impatto con lo Stato italiano è percepito come un pericolo per la sopravvivenza della propria specificità ladina soprattutto per la diversità di storia, cultura e tradizioni rispetto alla consuetudine secolare di vita sotto il Tirolo e l’Austria. Ciò fa nascere fra i ladini dolomitici iniziative molto partecipate a difesa della propria identità, movimenti che si sviluppano a fasi alterne, a seconda degli eventi storici, per tutto il Novecento fino ad oggi.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, Ladinia brissino-tirolese, lingua ladina, cultura ladina, coscienza ladina, identità ladina, emancipazione nazionale  

1 Agli albori dell’identità ladina «Identità», «popolo», «origini» e «tradizioni» sono concetti moderni, che trovano ampio sviluppo nell’Ottocento, quando insieme alla cultura romantica si diffuse ovunque in Europa l’idea dello Stato-nazione, i cui confini geografici e politici dovevano coincidere con quelli linguistici e culturali. Sorsero fra le élite le coscienze nazionali, che portarono alla valorizzazione della propria etnia e della propria lingua; sul piano politico i movimenti di indipendenza condussero a poco a poco allo Stato italiano unitario, alla formazione di una forte nazione tedesca e alla crisi della multinazionale Monarchia asburgica. Nacquero a fine Ottocento anche i movimenti nazionalistici, che miravano ad espandere la supremazia del proprio gruppo etnico maggioritario e ad imporre la sua lingua e cultura sui popoli confinanti. Questi due movimenti insieme, nazionali e nazionalistici, furono una causa determinante della Prima Guerra mondiale, che porterà al crollo degli imperi ancora esistenti in Europa ma creerà altre tensioni nei gruppi linguistici minoritari inclusi entro i confini di altri stati. Le valli ladine dolomitiche a cavallo fra Ottocento e Novecento si trovarono schiacciate dalle pressioni dei nazionalismi italiano e tedesco, e anche l’evolversi della loro lingua-cultura-identità fu condizionata, stimolata o repressa a seconda dei https://doi.org/10.1515/9783110522150-007

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momenti e degli eventi storici successivi in cui essi furono coinvolti. Ma andando indietro nel tempo, prima che il concetto di nazione e dei valori identitari ad esso legati si affermasse e condizionasse il sentire dei popoli europei, parlare di una coscienza ladina ante litteram è arduo, anzi: anacronistico. Furono gli eventi storici in cui le popolazioni allora parlanti ladino vennero coinvolte a determinare l’evolversi del loro stato sociolinguistico nel tempo, ben al di sopra della loro volontà o coscienza identitaria. La Controriforma, ad esempio, portò per motivi religiosi alla diffusione della lingua italiana nelle vallate dolomitiche contro quella tedesca, almeno in ambito ecclesiastico e scolastico, indirizzando l’uso linguistico locale con misure imposte dall’alto. D’altra parte fu probabilmente la condivisione del conservatorismo politico-sociale-religioso tirolese che spinse le valli ladine a schierarsi contro il Regno di Baviera e Napoleone, a favore del Tirolo e dell’Austria. Dalla seconda metà dell’Ottocento i ladini avranno molte occasioni per consolidare questa linea politica, infatti essi si considereranno sempre più «tirolesi», con predilezione come lingua ufficiale del tedesco rispetto all’italiano, almeno finché non si giungerà a poco a poco ad apprezzare il trilinguismo (conoscenza attiva di ladino, italiano e tedesco) come scelta culturale. Ma questo ha cominciato a tradursi in atto solo recentemente, ed è oggi la speranza del futuro, perché è ormai convinzione diffusa che la salvaguardia del ladino non si ha nella chiusura, bensì nell’interazione con le realtà linguistiche e culturali circostanti. Qui ci chiediamo, andando a ritroso nei secoli fino al momento in cui abbiamo i primi documenti che ci danno notizia dell’esistenza della parlata ladina: come era considerato l’idioma ladino da parte dei ceti che governavano queste popolazioni? Quale valore gli veniva attribuito dall’esterno? In che modo avveniva la comunicazione all’interno delle singole valli e tra valle e valle? Era consapevole la popolazione di avere un idioma particolare che caratterizzava la sua identità socio-culturale? In caso positivo, che evoluzione ha avuto questa coscienza?

2 Le prime testimonianze sull’uso del ladino Le prime testimonianze dirette sull’uso praticato oralmente del ladino risalgono al XIV–XVI secolo e riguardano l’ambito giudiziario (cf. infra, cap. 3; ↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 2) e della religione: sono le ripetute richieste della popolazione gardenese (1418, 1513, 1538) di ricevere sacerdoti che parlassero o almeno capissero anche il ladino. Così nel 1418 le comunità di Gardena e Colfosco chiedevano al parroco di Laion, da cui dipendevano, di mandare un sacerdote che parlasse deutsch und wälsch, o per lo meno che avesse una conoscenza passiva della parlata della popolazione e potesse ascoltare le sue confessioni nella lingua madre (Bernardi/Videsott 2013b, 62). A quel tempo e in quel contesto la parola wälsch, welsch o walisch è da intendersi come ladino e non come italiano. Si rammenta che anche Oswald von

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Wolkenstein (†1445) usava welsch per indicare il ladino, mentre chiamava l’italiano lampertisch (Kuen 1979, 102; ↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 3). Circa un secolo dopo, nel 1515, i contadini di Colfosco decidevano la fondazione di una messa perpetua e come sacerdote preferito proponevano un ladino, Caspar da Valgiarëi. Allo stesso modo gli abitanti di Bulla, dipendenti dalla parrocchia di Castelrotto, essendo spesso in difficoltà a raggiungere la loro sede di cura d’anime, decidevano di istituire a proprie spese una messa perpetua nella chiesa di San Leonardo del loro paesino: il parroco richiesto avrebbe dovuto essere un «prete onesto, costumato e di buona reputazione e che sappia tedesco e ladino (welsch)» (Belardi 1991, 154). Che le richieste a noi note provenissero soprattutto dalla Val Gardena può essere spiegato con la sua appartenenza alle parrocchie di Laion e Castelrotto, che avevano già perso l’antica parlata ladina in favore della lingua tedesca (Craffonara 1990, 184–185). Questa documentazione ci dà informazioni sulla lingua conosciuta e usata nelle valli ladine a quel tempo: in Val Gardena si praticava quotidianamente il ladino, le conoscenze del tedesco erano sicuramente minime e non sufficienti per poter comunicare in modo agevole e corretto nella confessione e nei contatti individuali con il sacerdote. All’epoca non è certo per affermare idealmente la propria identità che si richiedeva il ladino, ma per praticità, perché era la propria lingua madre, di cui si possedevano tutte le capacità espressive. Dopo il Concilio di Trento (1545–1563) venne ampliamente privilegiata dalla Chiesa in tutte le valli ladine la lingua italiana a scapito di quella tedesca, sia perché il clero era prevalentemente italiano, ma soprattutto perché l’idioma tedesco era associato alla diffusione dei movimenti protestanti e quindi guardato con sospetto. Si radicava così in gran parte delle chiese delle valli del Sella la conoscenza dell’italiano anche dove, come in Val Gardena, sino allora prevaleva ufficialmente la lingua tedesca; nasceva perciò nella popolazione un’abitudine, ma anche un orientamento favorevole all’uso di tale lingua nelle questioni religiose. Nel 1607 fu fondato il seminario di Bressanone, quindi aumentarono i sacerdoti locali che venivano assegnati alle popolazioni ladine, spesso spostati da una valle all’altra: secondo Belardi (1991, 66) questa mobilità di sacerdoti ladini favoriva «la possibilità della mutua comprensione – sempre al livello del parlato – tra le diverse caratteristiche dialettali» della Ladinia, concorrendo in pratica a facilitare l’unità linguistica tra le valli. Un aiuto «all’unità dei ladini» era venuto già nel 1603 con la creazione del decanato Cis et ultra montes: esso poneva sotto un unico decano Marebbe, la Val Badia, Livinallongo e la Val di Fassa (Craffonara 1995, 287–289). I sacerdoti erano per lo più ladini formatisi a Bressanone e il decano era quello considerato il più adatto fra i pievani di questa parte della Ladinia. C’erano quindi scambi e legami religiosi fra queste valli, mentre Ampezzo rimaneva sotto la diocesi di Aquileia, e la Val Gardena nel decanato della Val d’Isarco (Wolfsgruber 1963/1964). Senza dubbio la vita religiosa di fatto migliorò con sacerdoti che parlando la lingua ladina erano molto più vicini

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ai loro parrocchiani, ed anche la comunicazione intervalliva può aver subito delle facilitazioni. Le misure adottate dalla diocesi di Bressanone, in cui le valli erano inserite, non erano comunque dettate dallo scopo di «unire» i ladini, bensì da motivi pratici, ed i ladini avranno senz’altro apprezzato le facilitazioni comunicative introdotte. Ipotizzare che ciò sia il frutto di una prima presa di coscienza ladina, od abbia portato ad una maggior consapevolezza identitaria è probabilmente fuori luogo. Sulla storia futura dei ladini e sull’estensione della loro area linguistica influirono di più – nel bene e nel male – le misure politiche prese dall’alto con determinazione. Pensiamo all’estensione dell’area in cui si parlava ladino prima dell’avanzata delle parlate trentine e venete: nel secolo XV la Val di Non, di Fiemme, del Biois, il Cadore, lo Zoldano e l’Agordino erano linguisticamente più affini di oggi alle aree ladino dolomitiche, e in parte erano ladine San Michele di Castelrotto e Neva Ladina (Nova Levante). Era rimasta ladina anche l’alta Val Venosta, da Nauders e Resia fino a Lasa compresa (Richebuono 1982a, 14). Qui però nella prima metà del XVII secolo le autorità civili e religiose proibirono l’uso del romancio nelle chiese, nelle scuole, in ambito amministrativo, in famiglia, e in pochi decenni l’alta Val Venosta venne sostanzialmente germanizzata, anche se continuarono a esistere ancora famiglie che parlavano la vecchia lingua madre fino a fine Settecento (Kattenbusch 1987). Il motivo della germanizzazione fu soprattutto il timore che con l’uso tradizionale del romancio venisse importata la religione protestante che si era diffusa nei Grigioni confinanti. La lingua non è asettica, ma è portatrice di idee, per questo le scelte linguistiche vengono ripetutamente orientate dall’alto in funzione dello scopo ideologico-politico che si vuole perseguire. Fu vietato qualunque contatto con la vicina valle di Monastero, da cui pare accertato che sino al 1620 il convento di Monte Maria usasse chiamare frati cappuccini affinché i venostani potessero udire la predica nella loro lingua materna (Kattenbusch 1987, 159). C’era quindi la consapevolezza della vicinanza linguistica fra i ladini di qua e di là del confine di Tubre, che prima della Riforma veniva utilizzata per facilitare la comunicazione fra sacerdoti e popolo e per diffondere meglio la parola della Chiesa. Ancora per motivi religiosi, e cioè di difesa del cattolicesimo contro l’eresia, dopo la Riforma si introduce all’improvviso forzatamente la lingua tedesca. La scelta linguistica, per chi governa, è sempre questione di opportunità pratica o politica. La similarità linguistica fra i ladini sellani e la Val Venosta era già riconosciuta nel Quattrocento, in quanto da lì si facevano venire traduttori per processi contro ladini che si tenevano a Bolzano (cf. infra, cap. 3; ↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 2).

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3 La lingua della vita amministrativa nella Ladinia nei secoli XV–XVII Se si escludono Moena e Ampezzo, nella Ladinia sellana il tedesco-tirolese e l’alto tedesco scritto sono stati per secoli le lingue della classe politica dominante, sia del governo sia della giurisdizione (Belardi 1991, 57). Gran parte della popolazione fino all’inizio dell’età moderna parlava però una sola lingua, quella ladina, perciò nella comunicazione verbale era spesso consuetudine che funzionari e giudici, se locali, si rivolgessero alle parti in ladino. Ancora nel XVII secolo la gente dolomitica capiva alquanto l’italiano, ma le era difficile comprendere il tedesco, soprattutto in Val di Fassa e a Livinallongo. Per rendersi quindi comprensibili ai loro sudditi, le ordinanze e i proclami provenienti dal principe-vescovo di Bressanone dovevano essere tradotti in ladino, e proclamati pubblicamente al popolo. Lo documentano fonti risalenti al XVII secolo, ma ancora nel 1811 si ha notizia della necessità di tradurre un’ordinanza del governo bavarese dal tedesco in ladino dolomitico (Bernardi/Videsott 2013a). Il Proclama per la sagra di S. Zuanne d’anno 1631 è il primo testo ladino attualmente conosciuto: è rivolto da parte del vescovo di Bressanone alla popolazione di San Martin in Badia per la sagra e la fiera di San Giovanni Battista, il secondo patrono del paese. Il testo veniva «gridato» per portarlo a conoscenza della gente. Esiste una versione/traduzione in un ladino «sovralocale», cioè di impronta linguistica fodoma con elementi badiotti, e già questo elevarsi sopra l’idioma parlato è importante dal punto di vista sociolinguistico, quasi si fosse già alla ricerca di una lingua scritta comune convenzionale (Belardi 1991, 156; Bernardi/Videsott 2013b, 64–66; ↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 5.2). Altri documenti in ladino sono a noi noti. Nel 1632, il principe-vescovo di Bressanone si rivolge ai sudditi dei distretti di giudizio di Fassa, Livinallongo e Torre del Gader per comunicare l’imposizione una tantum di una tassa in occasione della Guerra dei Trent’anni. La lingua è sempre «sovralocale», ma la base è più chiaramente livinallese. Questo proclama fu tradotto anche in italiano, probabilmente diretto a residenti di confine italofoni, e fu steso – secondo Belardi (1991, 165–166) – dopo quello in ladino. Infatti l’area ladina era considerata italiana dalle autorità di lingua tedesca per l’affinità fra ladino e italiano, per cui sarebbe bastata, se indirizzata alle popolazioni dolomitiche, la versione italiana qualora fosse già esistita. La comunicazione al popolo era fatta in ladino e la traduzione veniva effettuata in loco da uno scrivano ladino trilingue. «C’è da rammaricarsi» – commenta Belardi (1991, 170) – «che questo uso di scrivere in ladino non si sia continuato, rafforzato e diffuso nei secoli successivi, senza interruzioni. Evidentemente, dapprima l’italiano da un lato, poi il tedesco dall’altro devono aver cominciato a sembrare ai ladini più comodi, più pratici, più utili dell’‹incerto› ladino». Il ladino non era ancora riconosciuto né all’esterno, né all’interno delle valli come lingua a sé stante degna di essere praticata per le sue possibilità espressive in ogni

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campo, anche in quello burocratico e giuridico. Quindi, nel momento in cui la sua utilità locale venne meno esso non ebbe più accesso ai documenti scritti e fu relegato al parlato, almeno finché non cominciò ad affermarsi nelle élite, nel corso dell’Ottocento, un senso di appartenenza ladina che per prima cosa cercò la sua conferma in un uso nobile della propria lingua. Sappiamo che nei processi giudiziari, a partire almeno dal secolo XIV, quando i testimoni erano ladini venivano interrogati nel loro idioma, ma negli atti veniva poi registrata solo la traduzione in tedesco. Nel processo contro i signori di Schöneck del 1327 – riferisce Richebuono (1992, 61) – «siccome parecchi testimoni ladini non sapevano il tedesco, fu consentito loro di esprimersi ‹in latino o in italiano›», dove «latino» sta presumibilmente per «ladino» (↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 2). Un processo importante fu quello intentato contro alcuni membri della famiglia dei Colz per l’uccisione di Francesco Guglielmo Brach avvenuta fra Pescosta e Corvara nel 1582. Autori dell’assassinio, vittima e testimoni erano ladini, così come il luogo in cui il fatto avvenne, ma l’incriminazione e il processo si svolsero nel Tirolo di lingua tedesca, e le testimonianze risultano tutte registrate in tedesco, tranne «un paio di frasi e la testimonianza di Jacob Ruaz di Livinallongo che fu resa agli inquirenti in welscher Sprache» (Belardi 1991, 149). Ciò vorrebbe dire che, tranne quest’ultimo, le persone coinvolte in quel processo sapevano farsi capire anche in lingua tedesca. Invece erano raccolte in ladino, e poi tradotte, le testimonianze delle donne fassane accusate di stregoneria nel periodo dell’inquisizione, in quanto soprattutto l’elemento femminile dell’epoca aveva scarse conoscenze del tedesco. Nei processi che si svolsero nella seconda metà del 1500 e nella prima metà del 1600 si dovette ricorrere in continuazione ad intermediari bilingui; gli interrogatori originali in dialetto fassano non sono finora stati ritrovati. Ecco quindi che, anche in campo giudiziario, si ricorreva al ladino quando era necessario, ma non certo come riconoscimento di una autonomia etno-linguistica della popolazione delle valli dolomitiche. Sono queste comunque dimostrazioni del fatto che il ladino era la sola lingua parlata nella vita quotidiana a quei tempi in un territorio molto più vasto dell’attuale. Anche l’osservatore esterno poteva rilevare l’esistenza di una particolarità linguistica rispetto alle zone circostanti italiane e tedesche. Agli inizi del 1600, ad esempio, il tirolese Marx Sittich, signore di Wolkenstein, indicava «nelle terre di Castelrotto e in altre valli (ladine) la presenza di una lingua ‹welscica› rustica, la quale risultava incomprensibile tanto agli italiani quanto ai tedeschi», anche se egli la considerava una forma rozza di italiano (Stolz 1934, 267; Belardi 1994, 153, nota 120).

4 Nella prima metà del XIX secolo Bisognerà aspettare la prima metà dell’Ottocento per veder nascere gli iniziali tentativi di mettere per iscritto brevi testi in ladino in forma letteraria, che daranno alla lingua una funzione amena, oltre allo scopo pratico dei proclami di tipo amministra-

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tivo delle epoche precedenti. Il trentino don Francesco Lunelli, nato a Civezzano nel 1792 e sacerdote dal 1817, ebbe il merito di aver raccolto e messo a confronto, a partire dal 1841, la stesura nelle varietà ladine della parlata di Fassa, Badia, Ampezzo e Livinallongo della parabola del figliol prodigo (↗1 Il ladino e i ladini: glotto- e etnogenesi, cap. 1.2). Questa raccolta, che è stata fatta conoscere attraverso la stampa solo nel 1986 (Ghetta/Chiocchetti 1986; Raffaelli 1986) e che si riallaccia a quella simile di Haller (1832), testimonia lo sforzo a metà Ottocento di singoli studiosi di individuare i legami tra le varie parlate ladine dell’epoca, comprendendone l’importanza. I primi testi a stampa ladina sono invece in gardenese. Sembrano appartenere allo scrivano-insegnante Matteo Ploner (1770–1845) «sei brevissimi raccontini o aneddoti popolari», pubblicati ad Innsbruck nel 1807 da Josef Steiner in un suo articolo Die Grödner, che apparve in Der Sammler für Geschichte und Statistik von Tirol 2, 1–52 (↗8 Panoramica della letteratura ladina, cap. 2.2). Il primo testo ladino ad essere stampato autonomamente sembra sia stato un libretto in gardenese di preghiere, esattamente la traduzione ad opera di Jan Piere Rungaudie (1753–1815) di una italiana Via Crucis, pubblicato a Bolzano nel 1813 (Belardi 1994,156; Bernardi/Videsott 2013b, 150–151). In questa fase iniziale di approccio ad un ladino letterario le traduzioni sono un indicatore importante del grado raggiunto dalla coscienza linguistica ladina. Che proprio nel ladino di Gardena si abbiano le prime manifestazioni «letterarie» lo si può forse ricondurre al fatto che in questa valle tra il 1700 e il 1850 divenne consuetudine dei sacerdoti predicare in gardenese, riducendo gli spazi d’uso dell’italiano nella prassi liturgica. Tale abitudine era così diffusa nella seconda metà del XVIII secolo da suscitare ben due lettere di lamentela dirette alla curia da parte del tedescofono Rupert Dietrich, «chirurgo» a Selva: egli chiedeva di poter sentire almeno una volta al mese una predica in tedesco. Nelle sue lettere c’è un’importante indicazione sulla coscienza identitaria dei gardenesi, che all’epoca – sosteneva Dietrich – non si sentivano né italiani né tedeschi, ma un popolo con una propria lingua che volevano mantenere contro ogni convenienza (Wolfsgruber/Richebuono 1986). Anche in Val Badia era usanza praticare l’insegnamento della religione e del catechismo in ladino e negli archivi di alcune parrocchie della valle sono ancora conservati appunti di prediche in ladino risalenti all’Ottocento (Craffonara 1990, 185– 186; Bernardi/Videsott 22014, 231–234). Per oltre un secolo soprattutto il gardenese godette quindi di questa posizione di rilievo in ambito ecclesiastico locale, e dopo sarà soppiantato, per motivi di opportunità religiosa e politica, prima dall’italiano e poi dal tedesco (cf. infra, cap. 5). C’è rimasto però a ricordo di quel periodo d’oro per la parlata gardenese il Nsegnamënt per la šoventù, uno scritto ladino stampato in versi negli anni sessanta dell’Ottocento, opera del sacerdote Johann Angelus Perathoner (1839–1921), una «predica», o «un’esortazione moraleggiante» che si potrebbe ascrivere ad una letteratura colta di tipo umanistico (Belardi 1994, 159–160; Bernardi/Videsott 2013b, 155–156).

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Prima di inoltrarci però nei progressi che fece la coscienza linguistica ladina nel corso dell’Ottocento, conseguenza del nuovo clima culturale favorevole allo studio e alla coltivazione di usanze e idiomi locali, in quanto era convinzione che la lingua contenesse in sé e rivelasse lo spirito di un popolo, dobbiamo soffermarci su un fattore storico-politico che sarà importante per le scelte identitarie future dei ladini dolomitici: le conseguenze in loco delle guerre napoleoniche. Proprio in questo periodo, a cavallo fra i secoli XVIII e XIX, nella lotta contro i francesi e in seguito contro i bavaresi loro alleati cui i ladini parteciparono attivamente insieme ai tirolesi, ambedue sudditi fedeli del Regno degli Asburgo, sorse il mito di Catarina Lanz, accanto a quello di Andreas Hofer. È nota la storia diventata leggenda della ragazza di Spinga che avrebbe concorso in modo determinante a decidere la battaglia in atto il 2 aprile 1797 proprio in quel paese presso Rio di Pusteria, che volgeva al peggio per i tirolesi (Craffonara/Dorsch 2015). La ragazza era ladina, nata a San Vigilio di Marebbe, e divenne nel tempo il simbolo del legame tra le valli ladine e il Tirolo tedesco, che si consolidò nelle battaglie degli anni successivi al seguito di Andreas Hofer contro il Regno di Baviera, cui il Tirolo era stato ceduto col trattato di Presburgo del 1805. L’anticlericalismo delle nuove autorità, l’introduzione della leva obbligatoria e le riforme dettate dalla costituzione bavarese del 1808, innovative ma imposte dall’alto, scatenarono una sollevazione di massa armata cui i ladini diedero man forte. Più volte ladini e tirolesi combatterono insieme, per gli stessi valori di conservazione (religione, fedeltà all’Austria, mantenimento del vecchio regime), più volte «fodomi, badioti e marebbani accorsero ripetutamente in Ampezzo […] e fassani andarono a Livinallongo» (Richebuono 1992, 136) a guerreggiare contro cadorini e agordini che erano al di là del confine politico, quindi «nemici». Si cementarono alleanze fra ladini e tirolesi tedeschi mentre crebbe il distacco dalle valli alte del Bellunese, anche per le scorrerie che gli ampezzani fecero più volte in Cadore e per le conseguenti azioni di ritorsione. Nel 1810 Napoleone vincitore puniva i ribelli smembrando il Tirolo in tre parti. Il Trentino (Welschtirol) e l’attuale Alto Adige, nome coniato proprio allora, fino a nord di Bolzano passarono al nuovo Regno d’Italia, a cui avrebbero dovuto essere aggregati tutti i ladini, dato che il loro idioma non era il tedesco. Badia e Gardena protestarono chiedendo di essere unite al Regno di Baviera; esse vennero esaudite, non tanto perché affermassero di avere una lingua propria diversa dall’italiano, ma perché si aprivano verso le valli tedesche, quindi per motivi puramente geografici. I capicomune della Val Badia nelle loro petizioni per rimanere uniti alla Baviera esprimevano la chiara consapevolezza della loro specificità linguistica diversa dall’italiano che non volevano venisse loro imposto nella pubblica amministrazione: «Ganz irrig würde man daran seyn, wenn man den Bewohnern des Gerichts Enneberg [Val Badia] die italienische Sprache zumuthen wollte […]; […] die sogenannte BadiottenSprache, eine Sprache, die einzig in ihrer Art ist und die, wie es allgemein bekannt ist, der Italiener ebensowenig versteht, als die Kundigen dieser Sprache den Italiener» [Ci si sbaglierebbe completamente, se si volesse attribuire agli abitanti del giudizio della Val

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Badia la lingua italiana […]; […] la cosiddetta lingua dei badiotti, una lingua che è l’unica di questo tipo e che, come è generalmente risaputo, un italiano capisce così poco come un parlante del badiotto capisce poco un italiano] (Stolz 1934, 255–256). La difficoltà di comprensione fra italiano e ladino è probabilmente esagerata a scopo politico, perché la petizione ottenesse un esito favorevole alla Camera Reale di Baviera. Le identiche richieste che provenivano dalla Val Gardena sottolineavano anch’esse l’ampio uso parlato del ladino, ma si dichiarava anche che tutti gli affari amministrativi del Giudizio venivano trattati in lingua tedesca, perciò l’unione al Regno d’Italia era quanto mai inopportuna: «[…] obschon in dem Thale Gröden und in dem Gerichte Wolkenstein eine sowohl von der deutschen als italienischen ganz abweichende (nämlich die ladinische) Sprache gesprochen wird, so werden doch daselbst alle Gerichtsgeschäfte in deutscher Sprache verhandelt» [benché nella Val Gardena e nel giudizio di Selva si parli una lingua (ossia il ladino) completamente diversa sia dal tedesco che dall’italiano, in questi luoghi tutte le attività giudiziali si svolgono in lingua tedesca] (Stolz 1934, 268). In questa occasione per la prima volta i ladini avevano dichiarato pubblicamente di parlare una lingua diversa dall’italiano, con lo scopo di orientare il proprio destino politico verso il mondo tedesco, e la guerra del 1809 aveva anche contribuito a rinsaldare i legami tra le valli ladine. Accadde all’epoca pure un altro fatto rilevante per il riconoscimento della lingua ladina. Negli anni 1809 e 1810 le autorità francesi avviarono un approfondito studio statistico anche nelle terre del Tirolo da loro occupato, e rilevarono con precisione pure le zone in cui si parlava ladino. Il risultato della ricerca venne riportato su una carta geografica tirolese, in cui si indicavano come parlanti la lingua ladina tutte e cinque le vallate dolomitiche e la Val di Non (Ködel 2010, 39). In queste indagini venivano inoltre messi in relazione gli idiomi parlati nella Ladinia con il romancio dei Grigioni, giungendo al riconoscimento implicito dell’esistenza di un esteso gruppo linguistico ladino. C’era quindi attenzione da parte dei francesi per le questioni linguistiche dei popoli ad essi soggetti, anche se poi, nel caso dei ladini, al momento delle scelte politiche non ne tennero sempre conto. Infatti le proteste di Ampezzo, che chiedeva di rimanere unito alla Pusteria, non vennero accolte (Richebuono 1992, 136): Ampezzo e Livinallongo furono inseriti nel «Dipartimento della Piave» insieme a Cadore e Agordino, e la Val di Fassa venne a far parte del «Dipartimento dell’Alto Adige», nel Regno d’Italia. Per la prima volta in epoca moderna la Ladinia veniva spartita in tre parti; anche se la divisione durò solo quattro anni, questo episodio costituirà un precedente per le scissioni che saranno imposte ai ladini nella storia futura del Novecento. Con la sconfitta di Napoleone e il nuovo assetto politico europeo che usciva dal Congresso di Vienna nel 1815, il Tirolo e le valli ladine dolomitiche tornarono sotto gli Asburgo, però in un regime assolutistico in cui non c’era spazio per aperture verso la valorizzazione di etnie e lingue minoritarie. In prima istanza fu confermata la divisione della Ladinia del periodo napoleonico: Ampezzo veniva considerata parte del Cadore e del Veneto, regione che era stata nel frattempo annessa all’Austria, mentre

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la Val di Fassa fu inserita nel Circolo di Trento, pur avendo fatto parte del principato ecclesiastico di Bressanone dal suo inizio sino al 1803, anno della secolarizzazione. Le proteste dei fassani contro questa decisione arbitraria furono inutili, mentre vennero ascoltate le rimostranze di Ampezzo che fu di nuovo unita al Tirolo, assecondando il sentimento politico della popolazione, in quanto il solco che la divideva dal Cadore si era approfondito in quegli anni, nonostante la vicinanza linguistica. Nell’orientare le scelte delle popolazioni contano talvolta molto di più senso politico e sociale di appartenenza rispetto al mero fattore linguistico. Nel 1848 i ladini furono di nuovo mobilitati nella guerra contro il Regno di Sardegna e di nuovo si dimostrarono sudditi fedeli. Gli ampezzani parteciparono «spontaneamente» alla lotta antirisorgimentale contro i volontari cadorini di Pier Fortunato Calvi, e per questo «il comando austriaco, ammirato per lo zelo degli Schützen, conferì a tutti una medaglia d’argento» (Richebuono 1992, 141). Così, fino alla Prima Guerra mondiale, si consolidava sempre di più il sentimento filotirolese dei ladini. Contemporaneamente però acquistava un po’ alla volta spazio e convinzione nelle classi elitarie (sacerdoti, maestri, pubblici funzionari, eccetera) la coscienza di un’identità ladina che si esprimeva in primo luogo nella valorizzazione linguistica.

5 Nella seconda metà del secolo XIX La Monarchia asburgica con la costituzione liberale del 1867 venne incontro alle aspirazioni nazionali delle sue popolazioni: l’articolo 19 prevedeva precise garanzie di tutela per i gruppi etnici minoritari della Cisleitania (la parte austriaca dell’Impero) e garantiva l’equiparazione di tutte le lingue locali nella scuola e nella pubblica amministrazione. I ladini non poterono approfittare di questa storica occasione, perché la loro lingua non era ufficialmente riconosciuta, né era codificata in forma scritta, ma ciò non sembra provocasse proteste di rilievo all’interno della comunità (Brix 1985, 65). Neppure per il periodo che seguì si può propriamente parlare di cambiamenti politici ed amministrativi richiesti e motivati alle autorità asburgiche da parte ladina, in quanto mancava probabilmente ancora nell’anteguerra in gran parte della popolazione una diffusa e decisa consapevolezza della propria realtà minoritaria e del suo significato politico. Passi importanti verso una coscienza linguistica ladina si fecero invece in loco nell’ambito letterario: «Furono principalmente componenti del clero più illuminato, usciti in genere dal seminario di Bressanone, a costituire questo lievito intellettuale ladino, con traduzioni-adattamenti della Bibbia, con agiografie di santi, raccolte di proverbi e fiabe, e disegni di grammatiche» (Belardi 1994, 166). Ogni valle ebbe i suoi cultori, talvolta con espressioni di alto livello come testimonia la lirica di Angelo Trebo (1862–1888) in Val Badia (↗8 Panoramica della letteratura ladina, cap. 3.1). Gli studi sulla lingua portarono nel 1833 alla grammatica ladina di Nikolaus Bacher (1789–1847), con l’intento di fondare le linee strutturali di una lingua scritta

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che fosse utile per tutte le valli ladine, in ognuna delle quali si parlavano uno o più idiomi: «Die ladinische Sprache hat mehrere Dialekte. Die Hauptdialekte aber sind der Enneberger, der Abteÿer und der Grödner und der ultramontane Dialekt. Dieser letzte ist herrschend mit sehr geringer Abweichung in der Gegend von Fassa, Buchenstein und Ampezzo». [La lingua ladina ha vari dialetti. I dialetti principali però sono: il badiotto, il marebbano, il gardenese e il dialetto ultramontano. Quest’ultimo si parla, con poche differenze, nella zona di Fassa, Livinallongo e Ampezzo] (Bacher 1995 [1833], 29). Nel 1864 fu data alle stampe una grammatica della parlata gardenese, elaborata dal sacerdote fassano Ujepantone Vian (1804–1880), parroco di Ortisei; lo studioso metteva in luce gli elementi di collegamento del gardenese con gli idiomi di Fassa, Badia e Livinallongo, ed anche con il romancio dei Grigioni, andando oltre la realtà linguistica di una vallata in direzione di una visione unitaria, necessario preludio per un progetto «nazionale» ladino (↗17 Lessicografia e grammaticografia, cap. 3.1). In Fassa don Giuseppe Brunel (1826–1892) raccolse e mise per iscritto racconti e leggende al di fuori dell’ambito religioso, relativi a fatti e personaggi della vita locale, dando forma scritta alle rappresentazioni comiche che si tenevano nella valle e che si tramandavano oralmente (cf. Bernardi/Videsott 2013b, 351–369). Il primo libro ladino stampato fu scritto dal decano di Marebbe Janmatî Declara (1815–1884): è la Storia d’S. Genofefa, pubblicato a Bressanone nel 1878 (cf. ib. 270–271). Il volume con la sua prosa vivace e colorita circolò per molti anni come lettura religiosa fra le popolazioni della Val Badia e di Marebbe: la scrittura elaborata dal badiotto Declara voleva essere una via di mezzo fra l’una e l’altra parlata, una forma quindi «sopradialettale» che fosse agevolmente compresa dai lettori delle due valli. Ciò presupponeva uno studio linguistico accurato per poter superare le difficoltà nel rappresentare graficamente più pronunce. Sul versante «più specialistico degli studi della nascente linguistica e lessicologia ladina un’altra dimostrazione di scienza e di appassionata applicazione – pionieristica occorrerebbe dire – fu offerta da Tita Alton (1845–1900), con i suoi importanti lavori storico-etnografici e raccolte di canti e proverbi ladini» (Belardi 1994, 175; cf. Bernardi/Videsott 2013b, 295–305; ↗8 Panoramica della letteratura ladina, cap. 3.2). Fu quindi questo un periodo d’oro durante il quale il ladino scritto cominciò a sviluppare le proprie possibilità espressive per la prima volta; pur rimanendo un fenomeno elitario, con scarso coinvolgimento delle popolazioni, si ponevano le basi fra i ceti intellettuali per una coscienza ladina che di lì a poco avrebbe avuto il pesante compito di contrastare lo sviluppo dei nazionalismi italiano e tedesco che tenderanno ad impossessarsi dell’area dolomitica, non solo geograficamente ed economicamente, ma anche culturalmente. Significativo dei passi avanti verso una concezione unitaria della Ladinia è il fatto che sia Bacher che Alton nei loro studi «considerarono l’ampezzano come parte integrante della comunione linguistica ladina dolomitica, formatasi nelle valli del Sella». Questa – secondo Belardi (1994, 175) – sarebbe una «prova dell’esistenza di

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un orientamento ideologico a favore di una convergenza socio-linguistica sellano ampezzana, di natura politica». Ci stiamo ormai avvicinando al momento storico in cui il destino di una lingua è in primo luogo deciso nell’ambito politico anziché in quello culturale. A partire dal 1870 sempre di più i ladini dolomitici, gente di confine fra mondo germanico e latino, dovranno far fronte alle pressioni che miravano ad orientare il loro sentimento di identità in favore della cultura tedesca o di quella italiana. La lingua diventa ormai un veicolo ideologico, e questa sarà una vera prova di sopravvivenza per la parlata ladina. Contemporaneamente, dall’esterno delle valli, glottologi e linguisti di varie nazionalità studiano gli idiomi dell’area ladino-dolomitica, del Friuli, della Val di Non, del romancio svizzero, e li mettono a confronto; il ladino viene così «scoperto» ed indagato in modo scientifico fra i primi da Christian Schneller, da Graziadio Isaia Ascoli, da Theodor Gartner. La «questione ladina» è ormai aperta in tutta la sua complessità: le valli dolomitiche hanno veramente un potenziale di originalità in fatto di lingua, storia, tradizioni da poter ambire al ruolo di «nazione» a se stante? Ancor prima delle indagini di questi studiosi, però, nell’ambito culturale tedesco c’era già la chiara consapevolezza dell’esistenza di un idioma ladino parlato nelle vallate poste intorno al massiccio del Sella, e del suo collegamento con il romancio dei Grigioni e con il friulano. Ne sono la prova, tra l’altro, tre carte geografiche risalenti a metà Ottocento ed i commenti linguistici ad esse legati, che Goebl (1987) ha provveduto a far conoscere (↗3 Il ladino e la sua storia, cap. 1.6).

6 Sotto la pressione dei nazionalismi Già sotto l’imperatrice Maria Teresa d’Austria nella riforma del 1774 la scuola era stata sottratta al controllo esclusivo della Chiesa. Con la legge statale sull’istruzione del 1869, lo Stato austriaco assumeva su di sé la gestione del sistema scolastico ed educativo, e questo ebbe forti conseguenze nelle valli ladine riguardo alla lingua d’insegnamento. Fino a quel momento in Val Gardena e in Val Badia i bambini imparavano a leggere e a scrivere sia in italiano che in tedesco, e il ladino era utilizzato spesso come lingua veicolare. L’insegnamento della religione era impartito in ladino con l’ausilio di libri in italiano (↗12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine, cap. 2.1). Dagli anni settanta dell’Ottocento si diede il via ad un processo che, imposto dall’alto, voleva escludere pressoché completamente nelle due vallate l’uso a scuola dell’italiano a favore del tedesco. I motivi erano – si diceva – di vantaggio economico per i ladini che uscivano dal loro territorio, in quanto per studio e lavoro si recavano quasi esclusivamente nei paesi di lingua tedesca. La ragione più pressante era però quella politica: proseguire nell’insegnamento dell’italiano sarebbe stato «contrario all’interesse dello Stato» in quanto si temeva che

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avrebbe favorito il proliferare anche nelle valli ladine di sentimenti ideologici favorevoli all’Italia, come accadeva nel Trentino; inoltre – secondo il governo – con l’introduzione di una scuola tedesca la lingua ladina in quanto idioma romanzo sarebbe stata protetta dal pericolo di essere assimilata all’italiano e di sparire. Queste decisioni suscitarono in Val Badia l’unanime opposizione dei sacerdoti, dando luogo al cosiddetto Enneberger Schulstreit, che durò vent’anni e si concluse solo con la soluzione di compromesso adottata nel 1894 su consiglio dell’ispettore scolastico Giuseppe Mischi: in tutti i gradi scolastici si sarebbero avute cinque ore di italiano alla settimana. L’insegnamento della religione sarebbe rimasto in lingua italiana e il ladino avrebbe potuto essere usato come lingua ausiliaria e veicolare (Fontana 2006, 33–37; ↗12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine, cap. 2.1). Le motivazioni del clero contro la germanizzazione della scuola erano anch’esse dettate da preoccupazioni prevalentemente ideologiche che derivavano dall’avversione alle laicizzazioni introdotte dallo Stato liberale austriaco e al protestantesimo diffuso nelle terre tedesche: si temeva che venisse introdotto nelle valli materiale di stampo irreligioso ed anticlericale e che la lingua tedesca si facesse così veicolo di idee pericolose per l’anima dei propri parrocchiani. L’italiano era stata la lingua privilegiata da secoli dopo il Concilio di Trento, né ciò aveva impedito che venissero date alle stampe le prime pubblicazioni in ladino, quindi si era convinti che non costituisse un pericolo per l’affermarsi dell’idioma locale. Comunque sia, non era la preservazione del ladino la prima preoccupazione del clero, ma il benessere morale della popolazione. Prima del 1870 nelle scuole di Badia e Gardena si alternavano momenti di insegnamento in tutte e tre le lingue (italiano, tedesco e ladino; Videsott 2018), ma veniva attribuita ad ognuna di esse un’importanza diversa da valle a valle: in Badia si dava la priorità all’italiano, in Gardena al tedesco, la conoscenza del quale era considerata sempre più necessaria man mano che l’industria del legno si sviluppava. Per questo la riforma non vi suscitò particolari reazioni in quanto confermava una prassi già consolidata: qualche ora di italiano nelle prime due classi e tedesco per il resto, utilizzando il ladino come lingua ausiliaria. La disputa si concentrò più che altro sull’insegnamento della religione, dal quale anche molti gardenesi erano propensi ad escludere del tutto l’italiano. Il Consiglio scolastico distrettuale di Bolzano nel 1905 propose che esso potesse essere impartito in ladino, ma utilizzando Bibbia e catechismi tedeschi. La controversia non trovò una soluzione definitiva, ma pare che nell’insegnamento della religione e nel catechismo negli anni precedenti lo scoppio della Prima Guerra mondiale l’italiano sia stato progressivamente sostituito dal ladino, come testimonia la pubblicazione di una Bibbia istoriata in gardenese (cf. Demetz/Perathoner 1913). Il gardenese assumeva in definitiva una funzione strumentale: promosso dai pangermanisti interni ed esterni alla valle in sostituzione dell’italiano, accettato da una parte del clero locale in opposizione all’introduzione del tedesco nelle cose di religione.

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Non si può certo ancora parlare della presenza diffusa di una coscienza ladina in Badia e Gardena, però alcuni convinti interpreti dell’esigenza di preservare il proprio idioma dal processo di germanizzazione in atto c’erano, e fra questi va ricordato in primis il capocomune di Ortisei, Franz Moroder de Linert, che lanciò vari moniti ai suoi concittadini filotedeschi. Nel 1906 egli diffuse un volantino dal titolo Warnung, in cui tra l’altro si diceva: «Grödner! Seid auf der Hut, lasst Euch nicht betören und bietet nicht die Hand zur Zerstörung eines unersetzlichen Schatzes, eines wahren Reichstums, nämlich Eurer Muttersprache; es wäre dies ein Frevel, der niemals wieder gutgemacht werden könnte» [Gardenesi! State in guardia, non fatevi stordire e non prestatevi voi stessi alla distruzione di un tesoro insostituibile, una vera ricchezza, la vostra madre lingua; sarebbe un sacrilegio al quale non si potrebbe più rimediare]. E nel 1912 in un altro scritto chiedeva che l’insegnamento della religione venisse fatto nella lingua-madre ladina con l’aiuto di un catechismo italiano (Craffonara 1995, 300). Proprio sulla scuola si concentrarono le associazioni nazionalistiche italiane e tedesche – in particolare il Deutscher Schulverein e la Lega Nazionale – per allargare la loro rispettiva zona d’influenza sulle valli dolomitiche, delle quali con il primo sviluppo di alpinismo e turismo erano state scoperte le potenzialità economiche. Essere contesi fra italiani e tedeschi spinse i ladini a riflettere sulla propria particolarità etnica e linguistica, e nacquero le prime associazioni (politico-) culturali ladine a Bressanone e a Innsbruck: fuori dalle valli, in grandi centri dove era presente un consistente ceto intellettuale ladino. Nel 1870 nel seminario di Bressanone studenti di teologia di Badia, Ampezzo e Livinallongo (quelli di Gardena e Fassa sottostavano alla diocesi di Trento) fondarono la Naziun Ladina (Richebuono 1982b, 99), che tra i suoi compiti statutari prevedeva: «Der Hauptzweck des Vereines soll darin bestehen, sich eine möglichst gute theologisch-wissenschaftliche Vorbereitung für die Predigt anzueignen. In zweiter Linie soll der Zweck darin bestehen, sich wo nur immer möglich bezüglich einer Schreibweise der ladinischen Sprache zu einigen». [Lo scopo principale dell’associazione è quello di acquisire la migliore preparazione teologica e scientifica possibile per il sermone. In secondo luogo, lo scopo è quello di accordarsi, laddove possibile, su una maniera di scrittura per la lingua ladina]. Nel 1905 fu fondata ad Innsbruck da studenti ed impiegati lì residenti l’Union ladina/Ladiner Verein. Il proposito iniziale di mantenersi lontani dagli «irredentismi sia tedeschi che italiani», estranei ai nazionalismi imperanti, non riuscì: il Tiroler Volksbund, nato il 7 maggio 1905, pretese di rappresentare anche gli interessi delle genti ladine e inglobò la nascente associazione (Kattenbusch 1992, 91–92). Non tutti gli interessati all’Union ladina erano però d’accordo con questa svolta politica così apertamente filotedesca, così il 6 luglio 1912 la ricostituirono ufficialmente con un programma molto chiaro: vi si affermava sì di essere tirolesi fedeli alla patria, ma in primo luogo di sentirsi ladini, di voler difendere i propri usi e costumi, e soprattutto

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la propria antica e degna lingua, coscienti che con la lingua nasce e muore un popolo. I membri della rifondata Union dei Ladins/Ladinerverein in Innsbruck cercarono anche contatti con l’Union dels Grischs in Engadina, consapevoli del sostrato comune fra ladino dolomitico e romancio (Kattenbusch 1992, 96). Frutto di questi fermenti dal 1905 al 1914 all’interno di un’élite culturale che trovava la sua base a Innsbruck è la comparsa dei primi periodici ladini che, pur se di breve durata, resero pubblica la crescita dell’autocoscienza ladina. L’amik di Ladins/Der Dolomitenfreund (1905) uscì con tre numeri, Der Ladiner (1908) con due; entrambi furono editi dal gardenese Wilhelm Moroder-Lusenberg (1877–1915). Ne1 1911 e nel 1912 venne pubblicato il Kalënder de Gherdëina, che nel 1913 divenne Kalënder ladin, poi lo scoppio della Prima Guerra mondiale comportò l’interruzione di questa iniziativa. Oltre a riportare testi in ladino di vario genere contenevano anche indicazioni e proposte sul mantenimento e sviluppo di lingua e cultura ladina che saranno ripresi nel primo – ed anche nel secondo – dopoguerra (↗13 Il ladino nei mass media, in internet e nei social network, cap. 2.1). Il processo di emancipazione politica ladina fu più lento di quello culturale che agli inizi del Novecento aveva già solide basi, come si vede da queste attività associazionistiche ed editoriali. Le cause della tardiva presa di coscienza politica, che si svilupperà in modo diffuso solo dopo la Prima Guerra mondiale, erano: il limitato numero della popolazione (circa 23.000 ladini dolomitici), l’isolamento geografico, la predominanza nelle valli di un ceto rurale conservatore poco incline ai cambiamenti in campo politico. Un punto di debolezza stava anche nel fatto che mancava ai ladini il riconoscimento ufficiale di minoranza all’interno dell’Impero asburgico, nelle cui istituzioni essi normalmente non avevano deputati propri, ma erano rappresentati rispettivamente da trentini e tirolesi (Perathoner 1998). Le cifre sulla consistenza del gruppo linguistico ladino non mostravano alcuna unità, perché si basavano su stime che variavano a seconda dell’autore e del momento, non esistendo ancora un rilevamento statistico ufficiale dei ladini. A partire dal 1880 nella parte austriaca della Monarchia asburgica ebbe luogo ogni 10 anni un censimento delle nazionalità, in quanto veniva rilevata anche la lingua parlata dai vari popoli in essa presenti. La minoranza ladina venne però conteggiata insieme al gruppo italiano; solo nel censimento del 1910 fu prevista esplicitamente la dichiarazione linguistica ladina, ma unita ancora a quella italiana sotto la dicitura comune italienisch-ladinisch (Brix 1985, 68). Il motivo di questa difficoltà da parte della commissione centrale di Statistica di Vienna a riconoscere l’autonoma esistenza di una popolazione di lingua ladina è in parte dovuta al fatto che i ladini non avevano avanzato nessuna richiesta di essere riconosciuti ufficialmente come minoranza a sé stante. Le cause vere però erano politiche: venne scelta nel 1910, dopo lunghe discussioni, da parte di Vienna questa soluzione di compromesso (italiano-ladino) per non creare un ulteriore occasione di conflitto con gli italiani, per un motivo quindi di diplomazia. Ad insistere per una

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dichiarazione linguistica ladina autonoma nel censimento del 1910 fu soprattutto il Tiroler Volksbund, interessato ad ampliare la sua influenza politica nelle valli dolomitiche (Brix 1985, 75). Fu soprattutto la Val di Fassa a divenire terreno di scontro politico fra i circoli pangermanisti e italiani: gli uni si prodigavano con ogni mezzo per riportare la valle nell’ambito del Tirolo tedesco sul piano culturale e amministrativo, gli altri per acquisirla definitivamente al Trentino, considerandola di lingua italiana. La popolazione fassana nella sua maggioranza era incline a far proprie le iniziative portate avanti dalle sezioni locali del Tiroler Volksbund e del Deutscher Schulverein: era ben accetta la proposta dei circoli filotirolesi di introdurre nella scuola italiana della valle alcune ore obbligatorie di tedesco, data la sua utilità in un paese di emigranti e nel quale si stava sviluppando il turismo. Forte fu invece l’opposizione del clero, timoroso, come in Val Badia e in Val Gardena, che con la lingua tedesca venissero diffusi in valle influssi protestanti, e per questo simpatizzava per la Lega Nazionale (Palla 2005, 55–60). Nonostante l’affermarsi di lingua e cultura ladina avesse fatto tanti progressi in direzione di uno sviluppo autonomo, la gente ladina non era ancora preparata a pensare ad un progetto politico indipendente, che salvaguardasse la sua identità contro ogni ingerenza, italiana o tedesca che fosse: la pressione dei nazionalismi era troppo forte perché ci fosse spazio per iniziative ladine indipendenti. Lo scoppio della Prima Guerra mondiale rinforzò l’alleanza politica ladino-tirolese e il legame con l’Austria. In seguito alle voci giunte su una possibile cessione da parte della Monarchia asburgica di parti del Tirolo all’Italia per evitare la sua entrata in guerra a fianco dell’Intesa, nell’aprile 1915 tutte le valli ladine, esclusa Fassa della quale al momento non si trova cenno, rivolsero al Ministero degli esteri petizioni in cui ribadivano il loro patriottismo e la loro ferma volontà di rimanere austriache. Così riferiva il luogotenente di Innsbruck nella sua lettera accompagnatoria delle suppliche ladine dirette a Vienna: «Ieri è apparsa presso di me una delegazione del comune di Ortisei e di tutti i comuni della Val Gardena, mandata da un’assemblea popolare dei ladini di Gardena per protestare contro ogni separazione dal paese d’origine e per ribadire pienamente i sinceri sentimenti patriottici e le motivazioni nazionali, che in quella valle in modo del tutto particolare fanno temere una cessione allo stato confinante [l’Italia]. […] Una simile manifestazione di protesta in cui, con parole particolarmente infiammate, viene messo in evidenza il legame inscindibile che lega la Ladinia con il Tirolo, mi fu consegnata dai comuni del distretto giudiziario della Val Badia» (Palla 22015, 50–51). Un motto in ladino chiudeva quest’ultima supplica: «Sun͂ Ladin͂ s, nò Talian’; N’orun͂ nia ni Lombèrtg [Walsche, L.P.]» (Möcker 1985, 90). Petizioni del tutto simili giunsero contemporaneamente da Livinallongo e da Ampezzo, dal cui Comune si scriveva: «Dall’epoca che Ampezzo fu aggregato al Tirolo, i suoi figli combatterono sempre sotto le vittoriose bandiere degli Asburgo da fedeli e patriottici, per difendere la comune patria. […] Ampezzo è pronto a sostenere

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tutti i sacrifici che richiede l’attuale guerra, solo non potrebbe sopportare il distaccamento da quelle valli che per esso hanno un’importanza vitale» (Möcker 1985, 96–97). Di lì ad un mese, a fine maggio 1915 sarebbe cominciata l’occupazione della conca ampezzana da parte dell’esercito italiano.

7 Primo dopoguerra e fascismo La Prima Guerra mondiale significò per i ladini il chiudersi di un’epoca: essi furono annessi al Regno d’Italia insieme ai loro alleati storici, i sudtirolesi di lingua tedesca, con il trattato di pace di St. Germain del 10 settembre 1919, che stabiliva in maniera definitiva al Brennero il confine fra Austria e Italia. Già nell’ottobre 1918, pochi giorni prima dello sfaldarsi della Monarchia asburgica, i ladini rivendicavano il loro diritto all’autodecisione e contemporaneamente affermavano la loro appartenenza al popolo tirolese: «Tiroler sind wir und Tiroler wollen wir bleiben» [Tirolesi siamo e tirolesi vogliamo restare] (Fontana 1981, 152). Alla fine del 1918 appariva un opuscolo di 19 pagine – redatto da alcuni ladini fra cui Arcangelus Lardschneider – dal titolo: Selbstbestimmungsrecht für die Ladiner (Fontana 1981, 153). Nel corso del 1919 ci furono varie manifestazioni tirolesi e ladine di lealismo verso l’Austria e di richiesta di autodeterminazione in base ai 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson. Nel febbraio 1919 i ladini ebbero l’appoggio anche dei romanci dei Grigioni che inviarono alla conferenza di pace di Parigi un documento di solidarietà in cui si affermava che gli abitanti retoromanzi delle Dolomiti, la più antica popolazione del Tirolo, avevano il diritto di decidere da sé del proprio destino (Fontana 1981, 155–156). Ogni iniziativa fu inutile: nel trattato di pace non si fece cenno all’esistenza dei ladini, che «senza aver mai pensato di voler essere redenti si videro trasformati in un popolo fantasma a livello internazionale» (Mauri 1981, 157). I ladini, nonostante la vicinanza linguistica all’italiano, percepirono l’annessione al nuovo Stato come qualcosa che andava contro la loro storia, cultura, tradizione, come qualcosa di così «diverso da sé» da cui la comunità doveva tutelarsi per poter sopravvivere, e di conseguenza la coscienza ladina crebbe, si diffuse, si radicò tra la gente molto di più che nel secolo precedente. In molte occasioni nel primo dopoguerra essi dimostrarono che la «ladinità» non era solo un effetto della strumentalizzazione da parte dei partiti «tedeschi», come pensavano le autorità italiane abbracciando l’opinione di Ettore Tolomei (1865–1952), il quale ebbe un importante ruolo nell’italianizzazione dell’Alto Adige e nella negazione di un’etnia linguistica ladina: i ladini secondo lui erano solo italiani con un dialetto più arcaico rispetto alle altre regioni d’Italia, e la «questione ladina» non era che «una gonfiatura creata e sostenuta dai pangermanisti» (Palla 1986, 71). Idealmente importante, in quanto venne in seguito interpretata come affermazione dell’unità e della coscienza ladina, è la coniazione da parte della Union dei Ladins poco dopo la fine del conflitto di una propria carta-moneta: «Sui biglietti da 5, 10, 20,

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40, 60 Heller, in bei disegni del gardenese Gustl da Tlusöl, appaiono i simboli delle cinque vallate ladine» (Richebuono 1982b, 109). Impedendo la nuova frontiera del Brennero i contatti con Innsbruck, venne fondata nell’immediato dopoguerra una nuova Union dei Ladins in territorio italiano. Essa tenne la sua prima riunione al passo Gardena il 5 maggio 1920, cui parteciparono rappresentanti di tutte le cinque valli, chiedendo il riconoscimento dei ladini quale gruppo etnico distinto, né italiano né tedesco, il diritto all’autodeterminazione ed un referendum popolare per rimanere uniti in una sola provincia. Venne anche mandato un telegramma ai romanci svizzeri per averne l’appoggio. In quell’occasione comparve per la prima volta la bandiera azzurra, bianca e verde, da allora in poi simbolo del «popolo ladino». Una quasi plebiscitaria, concreta espressione di ladinità si ebbe nel censimento della popolazione del 1 dicembre 1921, allorché il governo Bonomi concesse ai ladini di dichiararsi ufficialmente. In molti comuni si proclamarono ladini dal 95 al 100 % degli abitanti. Si era ormai fatto un salto di qualità: dalla ricerca di un uso scritto del ladino ad opera di un’élite intellettuale si stava passando ad un progetto politico in cui la lingua era espressione di un’identità da tutelare e da coltivare (Palla 1986, 67–80). Ci si avviava però a passi veloci verso la dittatura fascista e quella dichiarazione pubblica di ladinità non ebbe seguito, né servirono le richieste di unità e di autonomia che erano state inoltrate ai governi in quel primo dopoguerra con il sostegno dei partiti politici sudtirolesi. Nel 1923 venne attuata la divisione politica della Ladinia con l’annessione dei tre comuni di Fodom, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo alla provincia di Belluno: aveva inizio così la spartizione fra due regioni e tre province che verrà confermata anche al ritorno della democrazia, dopo la Seconda Guerra mondiale. Sotto il fascismo non ci fu più spazio per una considerazione dei diritti delle minoranze, ma le teorie di Ettore Tolomei, di Carlo Salvioni, di Carlo Battisti, secondo i quali il ladino era un dialetto della lingua italiana, divennero il concetto ispiratore della politica ancor prima dell’avvento del regime: bisognava riportare le valli dolomitiche alla loro «naturale» italianità e si agì, di nuovo, soprattutto sull’ordinamento scolastico. Nell’estate 1921 fu promulgata la legge Corbino, che prevedeva l’obbligo per le famiglie italiane dell’Alto Adige, e anche per quelle ladine – perché per le nuove autorità i ladini erano di fatto linguisticamente italiani – di iscrivere i propri figli alla scuola italiana (↗12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine, cap. 2.1). Due anni dopo, la riforma Gentile eliminò completamente l’insegnamento in lingua tedesca, mirando ad una rapida e forzata italianizzazione della regione. I ladini, a differenza delle popolazioni di lingua tedesca dell’Alto Adige, non patirono molto per le conseguenze forzate dell’italianizzazione linguistica introdotta dal fascismo, avendo una buona conoscenza dell’italiano; essi reagirono piuttosto al mancato rispetto dei loro usi e costumi, delle loro abitudini consuetudinarie nel campo religioso, culturale, socio-economico, avendo elaborato in quegli anni una coscienza identitaria ad ampio spettro della loro comunità che li portava a valorizzarne la specificità.

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Un vero trauma fu il trasferimento d’ufficio di molti insegnanti ladini nelle vecchie province del Regno, l’allontanamento di alcuni sacerdoti locali considerati austriacanti, la sostituzione dei capicomune con i podestà di nomina regia che provenivano da fuori, non conoscevano e non rispettavano le realtà locali. Con queste misure coercitive si voleva far dimenticare ai ladini il loro passato, interrompere bruscamente ogni affermazione identitaria. Addirittura il termine «Ladinia» venne messo al bando perché ritenuto «un falso dell’Austria, una mistificazione che era necessario eliminare» (Fontana 2006, 47). Così nel 1938 il Comune unico che riuniva Colfosco e Corvara in Val Badia, denominato appunto «Ladinia» dagli stessi fascisti nel momento della sua creazione nel 1928, dovette cambiare nome; questo accadeva nello stesso anno in cui in Svizzera un referendum popolare dichiarava il romancio la quarta lingua ufficiale della confederazione, dando alla lingua ladina dignità politica.

8 Opzioni, Seconda Guerra mondiale, immediato dopoguerra I ladini hanno sempre cercato un sostegno soprattutto da parte dei «fratelli tirolesi» nelle loro richieste di autonomia politico-culturale rivolte allo Stato italiano nel primo dopoguerra, come si è detto, ma lo facevano con lo scopo di salvaguardare la propria specificità linguistica. Nel trattato sulle Opzioni firmato nel giugno 1939 tra Hitler e Mussolini, che imponeva a sudtirolesi e ladini – esclusa la Val di Fassa – di scegliere in maniera definitiva se emigrare nel Reich o rimanere a far parte del Regno d’Italia, le due popolazioni sono unite senza alcuna differenziazione etno-linguistica: nell’accordo si parla solo di allogeni tedeschi, non c’è alcun accenno all’esistenza di un gruppo linguistico ladino, non c’è affatto l’intenzione di proteggere la minoranza ladina ma solo di inglobarla nel Reich, concludendo quel processo di germanizzazione iniziato nella seconda metà dell’Ottocento. La delegazione italiana a Berlino aveva insistito affinché i ladini rientrassero nell’accordo, in quanto essi erano considerati dal governo «come i peggiori italiani e i più turbolenti pangermanisti» (Fontana 2006, 49). Da parte nazista, a favore della decisione di includere nel trattato anche i ladini giocò un ruolo essenziale la possibilità di disporre di un potenziale umano da impiegare nel lavoro e in guerra. Considerazioni economiche e politiche rendevano importante l’assimilazione dei ladini, la maggior parte dei quali non ebbe però sentore che l’Opzione per il Reich metteva in pericolo la stessa sopravvivenza del loro gruppo etnico (Wedekind 2012, 29–33). Ma perché tanti ladini optarono per il Reich? Perché in numero così massiccio – in Val Gardena fra il 70 e l’80 % – scelsero di rinnegare la propria identità per divenire tedeschi e trasferirsi nella Grande Germania di Hitler? L’argomento è molto complesso,

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e si rimanda agli studi citati nella bibliografia. Certo, l’autocoscienza ladina non aveva raggiunto ancora una maturità tale che le popolazioni dolomitiche riuscissero a sottrarsi alle lusinghe della propaganda nazista, alle minacce e all’incertezza delle scelte controcorrente. Inoltre pesava molto il legame storico con i sudtirolesi di lingua tedesca, che optarono in massa, e l’ostilità verso l’Italia dalla quale, sotto il fascismo, non era giunto alcun segno di rispetto. In un documento del 26 giugno 1940 venne espressa molto chiaramente l’adesione convinta al pangermanesimo del gruppo di optanti gardenesi che indirizzarono la politica locale in quegli anni: «Unser vorbehaltloses Bekenntnis zum Deutschtum und unser unerschütterliches Vertrauen auf seinen großen Führer haben wir Grödner in den schweren letzten Monaten des vergangenen letzten Jahres bekundet, als wir in überwältigender Mehrheit erklärten, unsere herrliche Dolomitenheimat, die schönste Perle deutscher Lande [,] zu verlassen, um uns und unseren Kindern das höchste menschliche Gut, unser Deutschtum [,] zu erhalten» [Negli ultimi, difficili mesi noi gardenesi abbiamo mostrato la nostra professione incondizionata al Deutschtum e la nostra fede incrollabile nel suo grande Führer, dichiarando a maggioranza schiacciante di voler abbandonare la nostra splendida patria dolomitica, la più bella perla dei paesi tedeschi, al fine di mantenere per noi e i nostri figli il più grande bene dell’umanità, ossia il nostro Deutschtum] (Wedekind 2012, 89). Le conseguenze dell’Opzione furono drammatiche. La comunità si scisse, circa 2200 ladini emigrarono effettivamente nel Reich (Wedekind 2012, 84–85), e quelli che restarono furono divisi da odi che fecero dimenticare di appartenere ad una popolazione che un paio di decenni prima aveva preteso per sé autodeterminazione, coesione politica e amministrativa, unità linguistica culturale. Con l’occupazione nazista nel 1943–1945 delle province di Bolzano, Trento e Belluno all’interno della regione chiamata Operationszone Alpenvorland (Zona di Operazioni Prealpi), l’opera di germanizzazione della Ladinia fu sistematica: l’italiano fu bandito da ogni campo con drastici cambiamenti anche nella toponomastica, per due anni venne introdotta nelle valli dolomitiche – sempre ad eccezione della Val di Fassa – la scuola tedesca, in cui per il ladino non c’era praticamente posto nonostante gli insegnanti fossero locali, per la maggior parte ausiliari (Vittur 2006, 75). D’altra parte, soprattutto per molti gardenesi il ladino possedeva un valore assai scarso, mentre era importante entrare in maniera definitiva nella comunità culturale tedesca (Fontana 2006, 50). Eppure, dopo questi anni bui di fanatismo e di perdita della ragione, la coscienza ladina riprese il suo cammino. Dall’estate 1945 al gennaio 1948 – quando fu approvato il Primo Statuto di Autonomia del Trentino Alto Adige – le valli ladine si mobilitarono in modo unitario per reclamare i diritti che ritenevano necessari per preservare in futuro la loro specificità. Con pubblici proclami e manifestazioni essi chiedevano allo Stato italiano il loro riconoscimento ufficiale di minoranza linguistica, il diritto ad amministrarsi da sé e la riunificazione della Ladinia che era stata smembrata sotto il fascismo in tre province e due regioni.

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Vari furono i movimenti che, con un seguito popolare più o meno ampio, sostennero tali richieste. Nel novembre 1945 Max Tosi (1913–1988) fondò a Merano la Union Generela d’i Ladins, che portava avanti solo l’aspetto culturale della questione ladina. Importante sul piano simbolico, anche se al momento non ebbe un grande impatto fra i ladini, fu la pubblicazione del giornale dell’associazione, L Popul Ladin: il numero unico, uscito nell’agosto 1946, conteneva articoli redatti negli idiomi di tutte le valli, come segno della loro ideale unità. Max Tosi fece la prima trasmissione in ladino dai microfoni della Rai di Bolzano il 4 aprile 1946, cui seguì quindici giorni dopo un radio-discorso del fassano don Massimiliano Mazzel. La voce dei rappresentanti ladini, anche se ancora in modo saltuario, si faceva sentire pubblicamente attraverso i mass media dell’epoca (↗13 Il ladino nei mass media, in internet e nei social network, cap. 2.2). Molto più incisivo sul piano politico, e con maggior partecipazione, fu il movimento di Zent Ladina Dolomites (ZLD) che aveva come primo scopo l’unione di tutti i ladini in provincia di Bolzano o la formazione di un cantone autonomo sul modello svizzero. È rimasto nella memoria collettiva, come simbolo della rinata coscienza ladina di quegli anni, il ritrovo del 14 luglio 1946 organizzato proprio da Zent Ladina, di oltre 3000 ladini provenienti da tutte le valli al Passo Sella. A seguito di quell’incontro, il giorno seguente il fassano Guido Iori (1912–1987), vicepresidente di ZLD, inviava un telegramma al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi in cui si chiedeva: il riconoscimento ufficiale del gruppo etnico ladino e della sua lingua, una propria circoscrizione elettorale, un’amministrazione ladina, una pretura circolante ladina, un proprio ente turistico, la gestione diretta, attraverso ZLD, di trasmissioni radiofoniche, e infine la rapida attuazione di un referendum che permettesse a Fassa, Fodom, Col e Ampezzo di esprimersi sul loro passaggio alla provincia di Bolzano (Palla 1986; Scroccaro 1994; Videsott 2008). In occasione dei 50 e dei 70 anni da quella data, nel luglio 1996 e 2016, i ladini si sono dati di nuovo appuntamento sul Passo Sella per riconfermare l’esigenza dell’unità ladina. Già nel 1945, a guerra appena finita, personalità romance della Svizzera si erano di nuovo mobilitate a favore dei ladini dolomitici, alcuni rappresentanti dei quali circa un anno dopo, nell’agosto 1946, scrissero alle associazioni dei Grigioni una lettera: vi si chiedeva che, come nel febbraio 1919, esse rivolgessero un appello alla Conferenza di pace di Parigi a favore delle richieste ladine (Fontana 1981, 191–194). Le speranze delle cinque valli dolomitiche, così vive nel 1945–1948, non trovarono attuazione sul piano politico: l’accordo De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 non nominava nemmeno le popolazioni di lingua ladina ed anche le conclusioni del Primo Statuto di Autonomia del gennaio 1948 furono deludenti, perché non prendevano in considerazione i tre comuni ladini del Bellunese e inoltre, nelle misure di tutela previste per il gruppo ladino, i fassani della provincia di Trento venivano discriminati rispetto a badiotti e gardenesi della provincia di Bolzano. Alla fine della guerra si ripropose un’altra volta il problema della lingua d’insegnamento da adottare nelle valli di Badia e Gardena, che divise per anni i sostenitori di

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una scuola completamente tedesca da coloro che ritenevano che avviare i ragazzi al plurilinguismo fosse una grande opportunità per le valli dolomitiche. Fu «particolarmente difficile convincere la popolazione che il ladino doveva entrare nella scuola» (Vittur 2006, 76), in quanto ad esso non era attribuita nessuna utilità pratica; nonostante le manifestazioni pubbliche di cui si è detto, molti ladini non consideravano importante coltivare la propria identità e il proprio idioma, erano convinti che il ladino fosse una lingua rozza, di valore assai scarso. Fu così che nel 1947 molti gardenesi e badiotti si dichiararono tedescofoni richiamandosi al diritto dei genitori di determinare l’appartenenza etnica dei figli: rinunciarono alla propria identità pur di poterli iscrivere alla scuola tedesca con i ragazzi sudtirolesi, considerata più vantaggiosa. Il nuovo ordinamento scolastico introdotto con legge dello Stato nel 1948 prescriveva per la scuola delle due valli di Badia e Gardena l’insegnamento paritetico dell’italiano e del tedesco, e il ladino ricompariva sia come materia che come lingua d’insegnamento. L’imposizione dall’alto di tale sistema scolastico innovativo incontrò inizialmente notevolissime ostilità da parte dei sostenitori della scuola monolingue tedesca, con azioni eclatanti che rasentavano il boicottaggio delle attività didattiche e la disobbedienza civile. Solo in seguito la situazione si stabilizzò progressivamente, giungendo al conseguimento di una buona competenza nelle tre lingue da parte degli alunni e ad una generale adesione delle famiglie al modello scolastico «ladino». La scuola paritetica fu definitivamente sancita dall’articolo 19 dello Statuto di Autonomia del 1972 (Vittur 2006, 81; ↗12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine, cap. 2.1); le valli di Badia e Gardena dispongono oggi di una propria Intendenza scolastica, e per la formazione degli insegnanti ladini è stata istituita nel 1998 una sezione apposita presso la facoltà di Scienze della formazione a Bressanone (↗12 L’insegnamento e l’uso del ladino nelle scuole delle valli ladine, cap. 3.7). La divisione politico-amministrativa delle valli ladine – che perdura dal 1923 – si riflette oggi in primo luogo proprio sul modello scolastico adottato. In Val di Fassa a partire dagli anni novanta del Novecento, quindi con grave ritardo rispetto alle valli ladine in provincia di Bolzano, venne introdotto uno spazio, seppur minimo – ma destinato a crescere rapidamente fino al giorno d’oggi, cf. Florian 2011 – riservato al ladino nelle scuole dell’obbligo. In provincia di Belluno, a Livinallongo solo negli ultimi anni è stata introdotta un’ora settimanale di ladino nelle scuole elementari, e dall’ottobre 2015 in forma sperimentale anche nelle classi prima e quinta d’Ampezzo. Sono questi dei passi importantissimi sul piano simbolico, perché dimostrano la volontà e l’impegno dei tre comuni ladini «bellunesi» di mantenere la propria identità linguistica, nonostante le difficoltà e gli ostacoli che derivano dal loro inserimento in provincia di Belluno. Con questa e altre iniziative è partito un valido tentativo di invertire la rotta nel mondo ladino, dalla spartizione politica ad un’unità almeno culturale al di sopra dei confini regionali e provinciali. Il futuro ci dirà se siamo ancora in tempo a fermare la perdita di identità ladina, che soprattutto in Ampezzo sembrava inevitabile fino a qualche decennio fa.

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9 Dalla seconda metà del Novecento ad oggi Nonostante le molte voci aspiranti a ricostruire l’unità politica ladina che si alzarono in vari momenti a partire dal 1945, nella seconda metà del Novecento andò via via aumentando il divario fra le cinque valli dolomitiche, divise sul piano amministrativo, economico e culturale: ciò contribuì ad indebolire la posizione della minoranza stessa, venendo a mancare una linea d’azione comune che operasse al fine di preservare l’intero gruppo linguistico ladino del Sella. Il Primo Statuto di Autonomia del Trentino-Alto Adige del 1948 diede qualche garanzia a tutela di lingua e cultura ladina agli abitanti di Badia e Gardena, ma fu una delusione per la valle di Fassa in provincia di Trento; Fodom e Ampezzo in provincia di Belluno ne rimasero, come già accennato, completamente esclusi. Nemmeno lo Statuto del 1972 pose rimedio a tale situazione di disparità. Ulteriori diritti venivano riconosciuti alle valli di Badia e Gardena, tra cui una rappresentanza nel consiglio provinciale e regionale, una riserva di posti nelle amministrazioni statali secondo la consistenza del loro gruppo (proporzionale) e le misure in ambito scolastico di cui già si è parlato. I tre comuni «bellunesi» manifestarono di nuovo più volte la loro volontà politica di unirsi agli altri ladini: a Fodom nel 1973 il consiglio comunale chiedeva di essere annesso alla provincia di Bolzano e nel 1977 la giunta rivolgeva direttamente al governo della Repubblica italiana domanda di distacco dalla Regione Veneto per ragioni storiche, economiche e linguistiche. Lo scontento di fodomi e ampezzani si era accentuato da quando, nel 1964, era stata interrotta anche l’unità religiosa delle valli ladine con il passaggio dei decanati di Livinallongo e di Cortina dalla diocesi di Bressanone a quella di Belluno. La Santa Sede aveva deciso infatti di far coincidere i confini delle diocesi con quelli amministrativi delle province di Trento, Bolzano e Belluno, su richiesta soprattutto delle autorità politiche sudtirolesi. Questo significò per i tre comuni «bellunesi» la fine di antiche tradizioni religiose e riti ecclesiastici profondamente vissuti dalla popolazione. Si scindeva così l’ultimo legame che ancora esisteva con le altre valli: Livinallongo aveva fatto parte della diocesi di Bressanone da un intero millennio e Cortina da quasi duecento anni. Nella seconda metà del Novecento nella Val di Fassa ci furono movimenti ladini molto combattivi. Contro la discriminazione fra i diversi gruppi linguistici ladini, mantenuta con il Secondo Statuto di Autonomia, i fassani insorsero: ancora nel 1972 i comuni della valle deliberarono la volontà di passare sotto la provincia di Bolzano, ma la richiesta fu respinta dal Consiglio regionale che demandò la questione al Parlamento di Roma (Scroccaro 1994, 181–182). La battaglia continuò accesa nella valle con la presentazione della lista «Ladins», capeggiata da Guido Iori (1912–1983), alle elezioni regionali del novembre 1973. Il movimento ladino non riuscì in quel momento a decollare, ma probabilmente concorse a far mutare l’orientamento politico della provincia di Trento verso la Val di

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Fassa, determinandone per legge nel luglio 1976 l’ambito territoriale ladino. Questo fu un provvedimento importante in quanto ebbe come conseguenza l’anno successivo il riconoscimento ufficiale del comprensorio ladino di Fassa e la definitiva archiviazione del contestato progetto del comprensorio unico con la Val di Fiemme. Sono questi passi importanti a favore della specificità ladina della Val di Fassa e di Moena, ma altri ne seguirono di lì a poco. Nel 1983 nacque in valle l’Unione Autonomistica Ladina (UAL) che nel novembre dello stesso anno ottenne l’elezione del proprio candidato Ezio Anesi al Consiglio provinciale di Trento. Alle elezioni politiche dell’aprile 1992 Anesi entrò nel Senato della Repubblica: in assoluto il primo parlamentare ladino eletto nelle valli dolomitiche. Dopo la sua prematura scomparsa l’UAL ha candidato Giuseppe Detomas, che è stato eletto deputato parlamentare nel 1996 e nel 2001. Le più rilevanti conquiste politiche che accorciarono il divario ancora oggi esistente tra i fassani e i ladini della provincia di Bolzano risalgono al 1993, quando la valle ottenne il diritto all’uso della lingua ladina negli uffici e nelle amministrazioni pubbliche, e al 2000, quando un seggio del Consiglio provinciale di Trento venne assegnato al territorio di insediamento del gruppo linguistico ladino di Fassa. La coscienza ladina stava ormai facendo passi importanti verso la sua maturità politica. Ne sono una prova i tentativi dei ladini negli anni Novanta di candidarsi da soli nelle istituzioni provinciali e regionali del Trentino-Alto Adige, con il proposito di sottrarsi alla subordinazione ai partiti politici dominati (Democrazia Cristiana (DC) e Südtiroler Volkspartei (SVP)) che li avevano rappresentati nel secondo dopoguerra. Nel 1992 si formava un nuovo movimento ladino in Badia e Gardena sotto la guida di Carlo Willeit, che diede origine alla Lista Ladins presentatasi alle elezioni provinciali del 1993. Si riprendeva in pratica, anche nel nome, l’idea di Guido Iori di dare un’autonomia politica indipendente ai ladini. La lista si ripresentò pure alle elezioni provinciali successive (1998, 2003), ma trovò ostacoli anche all’interno dell’ambiente ladino, in cui un gruppo consistente riteneva ancora prematura e controproducente agli effetti pratici un’azione politica senza l’appoggio tradizionale della SVP. Agli inizi degli anni ottanta del Novecento anche la Regione Veneto muoveva i suoi primi passi per valorizzare le culture minoritarie esistenti sul suo territorio, ma contemporaneamente nasceva in provincia di Belluno una nuova «questione ladina» (cf. Goebl 1997; Rührlinger 2005) che metteva in discussione lo status identitario dei tre comuni di Fodom, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo che si ritenevano gli unici ladini esistenti nel Veneto: mentre venivano emesse dalla Regione le prime misure legislative di tipo culturale a favore delle minoranze linguistiche del Veneto (ladini dei tre comuni di Fodom, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo, cimbri dei comuni vicentini, germanofoni di Sappada), veniva sollevata in alcune valli del Bellunese (Agordino, Cadore, Zoldano) la richiesta del riconoscimento ufficiale anche della loro ladinità, sulla base di un sostrato linguistico ladino venetizzatosi nel tempo, ma di cui esistono tuttora le tracce.

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Molti politici bellunesi sostennero ed incentivarono questo movimento che è stato chiamato «neoladino», vedendo in esso una credibile giustificazione della loro richiesta di ottenere anche per Belluno la qualifica di provincia autonoma. I ladini dei tre comuni di Fodom, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo hanno invece reagito cercando il sostegno delle valli di Badia, Gardena e Fassa, riallacciando con esse rapporti che nel corso degli anni si erano allentati. Per distinguersi dai «neoladini» bellunesi è stata rilanciata la richiesta di annessione alla provincia di Bolzano insieme agli altri ladini del Sella, che si è tradotta in un referendum tenutosi contemporaneamente nei tre comuni il 28 ottobre 2007. La partecipazione al voto è stata molto alta (il 71,44 % degli aventi diritto) e il risultato inequivocabile: si è detto favorevole al passaggio dal Veneto al Trentino-Alto Adige, con la riunificazione del territorio ladino, il 78,87 dei votanti, con una percentuale altissima a Fodom (86,43 %). Tutto ciò nonostante la disapprovazione delle autorità bellunesi e venete. Questa iniziativa non ha portato al momento a nessun risultato politico concreto, nonostante le iniziative susseguitesi negli anni presso il Parlamento italiano da parte dei sostenitori del referendum per sollecitare l’avanzamento del processo di cambiamento di provincia/regione avviato da quella votazione. Il fermento, le discussioni, gli approfondimenti della «questione ladina» (e di quella «neoladina») che sono nati in occasione della campagna referendaria nei tre comuni hanno comunque dato nuovo impulso ad approfondire le ragioni e la consistenza della propria identità linguistica, che ha coinvolto almeno in parte anche le nuove generazioni. La minaccia di omologazione con le realtà linguistiche del resto della provincia di Belluno ha quindi stimolato, in un certo senso, una ripresa di coscienza nei ladini dei tre comuni. A mantenere l’unione ideale culturale delle cinque vallate del Sella superando confini provinciali e regionali ha contribuito nel tempo l’Union Generela di Ladins dla Dolomites: nata dall’aggregazione delle varie Unions Ladine di valle formatesi via via nel secondo dopoguerra, attraverso alterne vicende ha operato nei decenni successivi con discreta incisività e vivacità (cf. De Grandi 2005). Il suo organo di stampa, il settimanale La Usc di Ladins, è a tutt’oggi uno dei pochi strumenti di comunicazione in lingua ladina che, insieme alle trasmissioni della RAI ladina di Bolzano, coinvolge l’intero territorio delle cinque valli. Inoltre gli istituti ladini di Badia, Gardena e Fassa, e da ultimo quello che rappresenta i tre comuni «bellunesi» nato a Colle Santa Lucia nel 2005 (Istitut cultural ladin «Cesa de Jan»), molto concorrono con le loro pubblicazioni ed iniziative a curare il ladino del proprio territorio ma anche a mantenere i contatti con le altre valli dolomitiche. A queste iniziative unitarie che si esplicano soprattutto in ambito culturale si contrappongono però molte tendenze centrifughe: la «Ladinia» è a tutt’oggi un mondo complesso, formato da tante microrealtà di valle che la maggior parte delle volte vanno avanti in maniera indipendente senza punti d’incontro e di comunicazione. Soprattutto in Val Gardena in diversi casi c’è stata una progressiva sostituzione del ladino con il tedesco nella vita associativa e nell’ambito economico. Altrove, in

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particolare a Cortina, è forte il potere d’attrazione della lingua italiana, in quanto il ruolo degli indigeni ampezzani è ormai minoritario, e non solo nelle questioni linguistiche. Attualmente i ladini di Badia, Gardena e Fassa esprimono la loro dichiarazione di appartenenza linguistica ogni 10 anni, in occasione del censimento della popolazione. Nel 2001 l’adesione al gruppo ladino è stata molto alta in Val Badia (dal 97,6 % nel Comune di La Valle al 91,6 % in quello di Corvara); in Val di Fassa si sono dichiarati ladini l’82,8 % dei residenti. Nel censimento del 2011, il risultato è stato un po’ più basso in Fassa (81,7 %) e leggermente più alto nelle valli di Badia e Gardena, che insieme hanno raggiunto il 90,85 % della popolazione che si è dichiarata ladina. Bisogna ricordare che in provincia di Bolzano la dichiarazione linguistica è condizionata dall’esistenza della proporzionale etnica: interessi di lavoro e opportunità economiche possono indurre le persone ad una scelta diversa da quella che farebbero seguendo liberamente il loro senso di appartenenza. Per i tre comuni del Bellunese non è prevista alcuna dichiarazione linguistica, per cui manca un importante indicatore di rilievo come quello statistico, che renderebbe visibile la consistenza numerica di quanti sentono di appartenere al gruppo ladino. Secondo l’attenta indagine di Lois Craffonara, profondo conoscitore della situazione linguistica del passato e del presente nelle valli dolomitiche, nel 1995 l’uso del ladino nella vita quotidiana era (ed è) al massimo in Val Badia: qui la lingua-madre gode di un buon grado di dignità sociale, viene volentieri imparata anche dagli immigrati, è usata nella liturgia, le opere letterarie di qualità in ladino sono sempre più frequenti. Alla stessa data lo studioso esprimeva anche l’opinione che, nonostante le differenze fra valle e valle e la presenza incombente dell’italiano in Fassa e Ampezzo, e del tedesco in Val Gardena, la regione linguistica ladina del Sella rappresentasse ancora una sua compattezza etnografica e linguistica sentita dai ladini e difesa da molti di essi (cf. Craffonara 1995, 298–299). In una ricerca condotta a cura dell’Intendenza scolastica delle località ladine della provincia di Bolzano durante l’anno scolastico 2011–2012 nelle scuole primarie delle valli di Badia e Gardena i risultati sulla lingua parlata dai bambini in casa confermano una buona tenuta del ladino soprattutto in Val Badia: «Il ladino, come lingua esclusiva di comunicazione in famiglia, è parlato nell’84 % delle famiglie degli alunni della scuola primaria di San Vigilio, nel 75 % delle famiglie di Badia, decresce bruscamente fino a raggiungere il 31 % delle famiglie di Selva e raggiunge la quota del 25 % delle famiglie di Ortisei. La percentuale più alta di famiglie che utilizzano come lingue familiari il ladino e l’italiano si presenta presso l’istituto comprensivo di Selva (16 %), così come il numero di coloro che utilizzano ladino e tedesco (37 %) e quello riferito alla combinazione ladino, italiano e tedesco (5 %). L’istituto di Selva rappresenta l’area ladina, stando ai dati dichiarati dai docenti, dove più si è diffuso il plurilinguismo a livello sociale. In Val Badia il plurilinguismo familiare è poco diffuso (in particolare l’uso delle tre lingue provinciali ha una media dell’1 %) mentre prevale l’uso esclusivo della lingua ladina» (Ricerca

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non pubblicata coordinata dall’Intendenza ladina, Competenze linguistiche, didattica, formazione e relazioni nelle scuole primarie delle valli ladine, Anno scolastico 2011–2012).

Un dato interessante dello studio è che il 31 % dei bambini delle scuole primarie di Ortisei parla in famiglia un monolinguismo diverso: solo tedesco, o solo italiano, oppure altre lingue (fra cui rumeno, spagnolo, arabo, russo, inglese, ungherese). Questo ha portato, oltre al plurilinguismo «classico» del contesto sociale ladino (italiano/tedesco/ladino), all’introduzione per ora poco diffusa ma significativa di un plurilinguismo diffuso derivante dalle lingue delle famiglie migranti che si stanno stabilendo nelle valli ladine. È un fenomeno nuovo ma del tutto degno di considerazione. La situazione attuale delle valli ladine dolomitiche è fluida, in movimento, con molti fermenti che non si sa ancora quanti e quali frutti riusciranno a dare. Ultimamente (inizio 2018) il Parlamento ha approvato su richiesta dell’allora deputato ladino alla Camera una modifica del Secondo Statuto di Autonomia, per la quale anche le associazioni ladine, in primo luogo l’Union Generela, hanno portato avanti le loro proposte per garantire una miglior tutela della comunità ladina. In particolare, erano stati richiesti alcuni diritti per i ladini della provincia di Bolzano: la garanzia di due eletti nel Consiglio provinciale, in modo che possano rivestire la carica rispettivamente di vicepresidente della Giunta e vicepresidente del Consiglio, e una rappresentanza all’interno del TAR. Proprio queste due proposte non hanno ottenuto un consenso sufficiente, a differenza di altre richieste (per es. l’accessibilità della vicepresidenza della Giunta provinciale di Bolzano anche per i membri del gruppo linguistico ladino oppure nuove competenze per il Comun General de Fascia) che invece sono diventate legge. Sempre caldeggiata è inoltre la richiesta che i tre comuni ladini di Fodom, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo siano inseriti in provincia di Bolzano, in modo da poter godere anch’essi delle misure previste dallo Statuto di Autonomia per la minoranza di lingua ladina in Trentino-Alto Adige. Nel 2007 è stata costituita la Lia di Comuns Ladins come attività di coordinamento delle attività amministrative dei comuni che fanno parte dell’area ladina dolomitica; uno dei suoi scopi è quello di rinforzare la coscienza di appartenere ad un’unica entità socio-culturale, coltivando i legami tra le comunità ladine sellane. È questa un’opportunità preziosa, anche se al momento i suoi passi sono ancora incerti e non molto incisivi sulla realtà delle cinque valli. Da tempo nell’ambito culturale ladino si discute su una delicata questione: quale idioma usare come lingua scritta, data la presenza di tante varianti di valle? Si è avviato così alla fine degli anni ottanta del Novecento un progetto di scrittura standardizzata (chiamata ladin dolomitan o ladino standard), cioè un codice di scrittura unificato per il ladino delle Dolomiti: esso non predilige uno degli idiomi di valle, ma sceglie dalle diverse varianti linguistiche del ladino quelle forme che hanno una maggioranza. Attualmente il ladino standard viene usato in via sperimentale per pubblicazioni di comune interesse per tutte le vallate ladine dolomitiche, che così ritrovano un elemento che le unisce, al di sopra della frammentazione politico-

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amministrativa. Ciononostante, la via per l’adozione della forma comune del ladino appare ancora assai in salita, viste le resistenze localistiche contro tale soluzione soprattutto da parte di circoli gardenesi. Le frange più conservatrici in termini di linguaggio sono state soddisfatte dalla decisione della Giunta provinciale di Bolzano, che nel 2003 ha sancito che le varianti del ladino riconosciute ufficialmente nella provincia sono il ladino della Val Badia e quello della Val Gardena: il ladino standard non può essere quindi al momento utilizzato dagli enti pubblici e negli atti normativi (Videsott 2014). Fra le giovani generazioni ci sono iniziative soprattutto sul piano artistico e musicale. Sono espressioni vive, originali, ma necessariamente di nicchia. E soprattutto, fra i giovani sembra prevalere lo spirito di valle, mentre cultori dell’unione ladina sono in primo luogo quelli che hanno ancora memoria storica. Sempre più spesso ormai però si sta diffondendo una coscienza pluri-identitaria: ci si sente contemporaneamente ladini, europei, internazionali. È del resto importante che la comunità ladina non rimanga chiusa in se stessa ma si apra al mondo, pur mantenendo la propria identità, la quale non contrasta con il multiculturalismo che, anzi, potrebbe essere una opportunità anche per la sua sopravvivenza nel futuro.

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7 Primi usi scritti del ladino Abstract: Il capitolo si prefigge di presentare i primi usi scritti del ladino brissinotirolese: da una parte, i primi testi veri e propri; dall’altra, gli usi scritti pretestuali. Dei testi (il più antico conservato risale al 1631) si fornisce una nuova edizione diplomatica, che corregge le edizioni precedenti in vari punti e prospetta una nuova interpretazione di alcuni passaggi rimasti finora oscuri. Gli usi scritti pretestuali vengono qui riuniti per la prima volta in maniera sistematica. Si segnalano anche i possibili elementi ladini presenti nelle poesie plurilingui di Oswald von Wolkenstein (†1445) nonché la presenza di testi di transizione, redatti in italiano ma contenenti numerosi ladinismi fonetici, morfologici e lessicali.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, primi usi scritti, testi antichi, testimonianze medievali, Oswald von Wolkenstein, Proclama del 1631, Proclama del 1632, Proclama del 1704–1740, Catalogus di Simone Pietro Bartolomei  

1 Introduzione Il presente capitolo si prefigge di presentare in maniera concisa i primi usi scritti del ladino brissino-tirolese. Si tratta, da una parte, della discussione dei primi veri e propri testi – i Proclami del 1631, 1632 e del 1704–1740, tra l’altro ben noti alla letteratura specialistica (cf. Plangg 1985; Ghetta/Plangg 1987; Belardi 1991, 156–170; Kattenbusch 1994, 305–307 e Bernardi/Videsott 2013, 64–69 – per la bibliografia completa in merito cf. BL n° 125–127) – e dall’altra parte di una rassegna degli usi scritti pretestuali, qui riuniti per la prima volta in maniera sistematica. Il limite cronologico superiore per i testi qui trattati (che funge da discrimine rispetto ai testi «moderni», argomento del seguente cap. ↗8 Panoramica della letteratura ladina) è fissato all’inizio dell’Ottocento, in concomitanza con il periodo napoleonico. Il periodo napoleonico rappresenta infatti una cesura favorevole all’impiego scritto del ladino, in quanto è in quest’epoca che si intrecciano l’interesse per la documentazione delle lingue, tipica della «statistica» napoleonica (cf. a riguardo – per i suoi risvolti concreti in ambito ladino – Goebl 2001; Ködel 2010 e Ghetta/Chiocchetti 2014), e l’interesse romantico per le lingue «popolari», non ancora «schiavizzate» dai vincoli di tradizioni letterarie plurisecolari. In effetti, il primo testo ladino con finalità estetiche sicuramente databile è del 1805 (Di’, e not al studiava [Ratschläge und Ermahnungen an den Knaben Thomes Tolpei], BL n° 697; cf. Bernardi/Videsott 2010), i primi esempi di ladino stampato sono del 1806–1807 (la lista di parole in Hormayr 1806–1808, 138–141, BL n° 507; la correzione di questa lista accompagnata da un https://doi.org/10.1515/9783110522150-008

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glossario più ampio, BL n° 896 nonché da sei Kleine Erzählungen in Steiner 1807, 45– 49, BL n° 780–787), e tutti questi testi sono contemporanei alla prima grammatica ladina attualmente nota (Versuch zu einer Grammatik der Grödner Mundart/Per na Gramatica döl Lading de Gerdöna, BL n° 509, cf. Videsott 2013). Queste, come le altre indicazioni di primato cronologico contenute nel presente articolo, vengono date con la esplicita riserva che si riferiscono allo stato attuale delle conoscenze; lo spoglio meticoloso degli archivi e delle biblioteche nella Ladinia avviato negli ultimi anni ha già riservato qualche sorpresa in merito (cf. infra; Videsott/Tolloi 2017).

2 Il periodo pretestuale Frank/Hartmann/Kürschner (1997) hanno classificato i primi testi delle lingue romanze nelle seguenti nove macro-categorie: 1. Énoncés métalinguistiques, explicatifs et commémoratifs; 2. Littérature de caractère religieux; 3. Littérature instructive et scientifique; 4. Poésie profane; 5. Historiographique; 6. Législation; 7. Chartes; 8. Lettres; 9. Documents administratifs. Alcune di queste categorie (in particolare le categorie 1 e 7) hanno fornito esempi di uso scritto precoce anche del ladino, sebbene posteriori di molto agli esempi paralleli non soltanto delle lingue romanze in generale, ma anche del friulano e del romancio grigionese. L’Inventaire di Frank/Hartmann/Kürschner (1997), che si arresta al 1250, non contiene infatti nessun testo ladino dolomitico, mentre il romancio grigionese è presente con la Würzburger Federprobe del X/XI secolo, n° 1092 e la Versione interlineare di Einsiedeln della fine dell’XI secolo, n° 2135 e il friulano con il Glossario di Vienna dell’XI secolo, n° 1081. Il citato Glossario però non figura nella lista canonica dei più antichi testi friulani, che assegnano invece questo primato ad un Elenco di iscritti ad una confraternita cividalese del 1290 circa (cf. Corgnali 1945), ed inoltre non viene riconosciuto come pienamente «rhéto-roman» neanche dall’Inventaire stesso: manca infatti nello specchietto introduttivo (cf. Frank/ Hartmann/Kürschner 1997, 42; Tagliavini 61972, 510). Resta da chiarire in dettaglio anche l’appartenenza linguistica (romancio o piuttosto trentino?) del Registro pastoreccio di Laces della 2a metà del XIV secolo, a volte nominato tra gli esempi precoci dell’uso scritto del ladino (cf. Tagliavini 61972, 513). Specialmente in ambito galloromanzo è ormai stato identificato e studiato con precisione (cf. Chambon 2003; 2004; Carles 2011; 2017) il fenomeno della presenza di forme romanze in testi latini, vero e proprio processo di elaborazione linguistica che prepara l’avvento dei primi testi veri e propri in volgare. L’identificazione delle forme romanze è possibile in base a criteri fonetici, morfologici, morfosintattici (in particolare la presenza dell’articolo determinativo), lessicali e semantici. Studi simili in ambito ladino finora sono stati condotti solo su una manciata di lessemi (cf. Kuen 1977); un’analisi sistematica della documentazione disponibile (in particolare Tarneller 1918–1926 e Richter-Santifaller 1937) promette di essere molto fruttuosa e sarebbe altamente auspicabile. Tra gli elementi ladini già individuati in testi latini e tedeschi

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molto precoci (per es. negli urbari del 1296–1325) ricordiamo vi[ch] ‘vico’ («Sumvige», Craffonara 1998, 80) < VICUS ; vile ‘villico’ («Willo/Wille», Craffonara 1998, 90) < VILLICUS , vi[l] ‘ovile’ («Obil», Richter-Santifaller 1937, 6) < OVILE ; feria ‘fucina’ («fabria», Richter-Santifaller 1937, 42) < FABRICA , iscla ‘isola fluviale’ («Iscla», Richter-Santifaller 1937, 14) < *ISC ( U ) LA oppure glira ‘ghiaia’ («Clera», Richter-Santifaller 1937, 41) < GLAREA , tutti usciti nel frattempo dal lessico ladino corrente. Per quel che riguarda le dichiarazioni di testimoni (cf. per il romancio grigionese l’esempio dall’urbario di Müstair del 1389), l’evidenza è in gran parte soltanto indiretta. È il caso per es. di un processo a Bolzano nel 1327, dove le deposizioni dei contadini della Val Badia (purtroppo non tramandate) dovettero essere tradotte in tedesco con l’aiuto di persone bilingui dell’alta Val Venosta (cf. Craffonara 1979, 27; ↗ 6 Coscienza linguistica e identità ladina, cap. 3). Lo stesso vale per gran parte dei processi documentati fino al Seicento nei quali furono coinvolti dei ladini («Bekenntnis … von welsch zu teutsch vertulmatscht», Richebuono 1999, 85). Eccezioni notevoli sono da un lato le poche testimonianze in «welsch» date agli atti durante il processo contro i Colz per l’assassinio del Gran Bracun avvenuto a Corvara il 7 dicembre 1582, dove le frasi protocollate – con leggere differenze a seconda dei testimoni («o polltrone, vosta perdanar / Poltrone, vos perdonar» e «Expediscalode longonia / Expediscalo de longotia») – vestono di un italiano venetizzante due delle battute che gli aggressori scambiarono con molta probabilità in ladino con la vittima prima del suo decesso (Belardi 1991, 150–151). In ladino fassano («in evasischem Dialekt», cf. LB n° 124a) furono registrate delle deposizioni fatte in occasione dei processi per stregoneria del 1573, 1627 e 1644 a Bressanone, ma purtroppo finora non sono state rinvenute materialmente (Belardi 1991, 152–153). Il primo esempio di questo tipo del quale siamo a conoscenza è il nome «Richella» (derivato di rich ‘ricco’), citato «in lingua sua Italica» nel resoconto di un interrogatorio fatto dall’allora vescovo di Bressanone, il cardinale Nicolò Cusano (†1464), a due anziane fassane deliranti che affermavano vedere apparire di notte una dea della ricchezza (Nicolai de Cusa … Opera, Basilea, Henricpetri 1565, 650).

3 Elementi ladini in Oswald von Wolkenstein Con Kuen (1979) riteniamo che due delle poesie plurilingui del Minnesänger Oswald von Wolkenstein (1377 circa–1445) contengano alcune parole e semifrasi in ladino gardenese. Si tratta di una questione controversa e a lungo dibattuta, ma per l’identificazione della lingua di questi versi come ladino (piuttosto che di un più generico «italiano settentrionale») non parla soltanto la biografia del poeta stesso, che frequentava la Val Gardena, ma soprattutto il fatto che Oswald distingua terminologicamente tra welsch (a quell’altezza cronologica e latitudine geografica sicuramente ‘ladino’, come testimoniano i toponimi del tipo Welschellen ‘Rina’, Welschnofen ‘Nova Levante’ oppure *Walchenstein > Wolkenstein ‘Selva di Val Garde-

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na’; per quest’ultimo cf. Dorsch 1990, 89 n. 14) e lampertisch ‘italiano settentrionale’ (cf. Kuen 1979, 111). Gli elementi che Kuen (1979) ha identificato come probabilmente ladini sono i seguenti: Canzone 69 (Lied «Do fraig amorß»): – Jw sglaff ee frankh (Ia 11), annunciato come «welsch» e tradotto nella poesia stessa con ‘ich eigen vnd frey’, cioè (traduzione nostra) ‘io schiavo e libero’: lad. iu vs. it. io, ven. mi (che si diffonde dal Trecento, cf. Videsott 2009, 401), lad. sclaf vs. it. schiavo (> ven. sćiavo); – Cenza befiu (IIa 5) ‘an allen spot’ – ‘senza beffa’: lad. zenza vs. it. e ven. senza; – Dutt seruiray (IIa 7) ‘Ich din dir gancz’ – ‘ti servirò in tutto’: lad. dut vs. it. tut(to), lad.ant. servirai > grd.mod. serviré vs. it. servirò. Meno evidenti sono le sequenze – sempre dichiarate «welsch» come le precedenti – purä ty (= pur a ti) (Ia 6) ‘newr zu dir’ ‘solo a te’ e Margrita well (IIIa 2) ‘mein schöne gret’ ‘Margherita bella’. Nella canzone 119 (Lied «Bog deprimi was dustu da») le singole lingue utilizzate non sono nominate espressamente, ma siccome si susseguono in maniera regolare, sono identificabili; dalla posizione delle frasi e dalla loro traduzione in tedesco, fornita da Oswald stesso, Kuen (1979) ritiene con molta probabilità ladine (gardenesi): – cū bonavnor (= cū bon amor) (Ia 4) ‘mit lieb gar’, cioè ‘con buon amore’ (nostra traduzione letterale); – neg[u]m maluat (IIa 4) ‘thu mir nit laid’ ‘nessun malfatto’; – qo po pēs[e]r (= co pos penser) (IIIa 4) ‘gedenck an dich’ ‘come posso pensare’; – Dut mi sperancz (Ia 5) ‘Mein geding gācz’ ‘tutta la mia speranza’; – kiti cū mand (IIa 5) ‘was du verpant’ ‘che è il tuo commando’; – flor wellenpiank (IIIa 5) ‘Plum schon vnd plank’ ‘fiore bello e bianco’ (piank però è lombardismo); – baß calt (= bas e alt) (Ia 8) ‘vil manigualt’ ‘basso e alto’; – cū bon wan̄ an (cum bon bon an) (IIa 8) ‘zu gutn̄ jar’ ‘con un anno molto buono’; – sit tutel rot (= jit iu tel rot) (IIIa 8) ‘var ich in not’ ‘sono finito nel burrone’. Dubbi (perché almeno in parte possono essere anche dei sintagmi francesi o lombardi) sono invece gramer sici ty (= gramersi a ty) (Ia 2) ‘v’name’ dank ich dir ja’ ‘gran mercé a te’ e sum preß (IIa 2) ‘gefangn̄ ’ ‘sono preso’. È degno di nota che le due poesie plurilingui di Oswald von Wolkenstein non rivestono soltanto un ruolo importante come testimonianza precoce dell’uso scritto del ladino, ma anche dello sloveno (cf. Mikhailov 1998, 64–67).

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4 Testi di transizione: un testo semiladino del 1532 Nell’archivio parrocchiale di La Valle in Badia è recentemente stato rinvenuto il più antico testo neolatino conservato nella Ladinia (edito e analizzato in Tolloi/ Mischì/Videsott 2014). La sua facies linguistica è quella di un testo sostanzialmente italiano (settentrionale) farcito di elementi ladini (per il sistema di trascrizione, che è quello dei Plus anciens documents linguistiques galloromans, cf. Videsott 2015, 106– 111): Noto et manÿfesto a-cha_dauna persona che llezerà questes sponncedlles over alldÿrà / llezer quomo noÿ, ju-Marchÿonn da Mÿllÿbon, ju Jacom de Terza, osÿ che doÿ govalltes / geravoÿ metuÿ da part de Sÿgnorÿa de doÿ orfennÿ che fo de Jacom de Vÿdesot dÿt / Jeperdon, per nom Nÿcolau, Tomeß. Esÿ sonn vÿngnuÿ a-un dÿ de usanza davante mÿ/ser lo vÿcare in-presenza de Domene da Molin, Anntone de Troÿ, pluÿ é de presennte / sté suua mere deÿ dÿte orfenÿ et Acacÿo de Fernnaza, Pÿllÿgrin da Puup. Inllò / àje de noncÿaÿ geravoÿ fat connte e usannza de chell che llo[r] amanazé de chÿ orfe/nnÿ de ungne cosa, nÿa tollenn fora dell tó jte et dé fora, per summa ell dÿ presente, / de chell llor non é restaÿ nÿa dubÿt pluÿ inavante dell reste che llor à jnn ballÿ/a. Per nom de chÿ noncÿaÿ orfenÿ aÿ denoncÿé pra Tomes da Molin VI raines / 1 lb. suom doÿ boÿ; pluÿ pra Jannes de Costa Maÿore XIII raines VI gr. suom / doÿ boÿ; pluÿ pra Stefenn de Vÿdesot XII lb VI gr.; pluÿ pra Achaziu de Fernna/za 1 raines III gr., che vengne a suma sumarÿa XI merchÿes IIII lb III gr. Questa / sopra scrÿta usannza àje de noncÿaÿ geravoÿ fat davante mÿserr llo vÿcare / in presennza de Domene da Molin, Anntone de Troÿ, de chell ja suua mere para quom, / Acaziu, Pÿlligrin, quom fese lla sopra scrÿta usannza chell sÿa ver. Pluÿ é in-chell dÿ / fat spes inllò a Mÿlÿbon che monta II lb II gr. In sapuda della vÿrÿté é fat duues / zedlles a un dÿte. Queste é deventé davò lla nasÿonn de Crÿste 1532 ann in sannt / Vÿce[n]cius. / Item de lles do zedlles monta XII gr. Sia noto e manifesto a ciascuna persona che leggerà o udirà leggere questo scritto come noi – io Melchiorre da Myllybon e io Giacomo de Terza – ossia che siamo stati nominati da parte della Signoria tutori plenipotenziari per i due orfani di nome Nicolò e Tomaso del fu Giacomo de Vydesot detto Jeperdon. Essi sono venuti davanti al signor Vicario in un giorno usuale di giudizio alla presenza di Domenico da Moling e Antonio de Troy, inoltre erano presenti anche la madre dei detti orfani e Acacio de Fernnaza e Pellegrino da Puup. Lì ho chiesto ai due tutori di rendere conto di tutto quello che avevano amministrato per i due orfani, non escludendo niente delle entrate e delle uscite, e sono giunto alla conclusione che, al giorno presente, non sono debitori verso nessuno di quello che rientrava ancora nelle loro competenze. In nome dei due orfani ho fissato quale debito presso Tomaso da Molin 6 fiorini e 1 lira – sono due buoi – e ancora presso Giovanni de Costa Mayore 13 fiorini e 6 grossi – sono due buoi – e ancora presso Stefano de Vydesott 12 fiorini e 6 grossi e ancora presso Acacio de Fernnaza 1 fiorino e 3 grossi, per un totale di 11 marchi, 4 lire e 3 grossi. Questo accertamento sui detti due tutori l’ho fatto davanti al signor Vicario in presenza di Domenico da Moling, Antonio de Troy, che aveva seco la loro madre, Acacio e Pellegrino, che hanno gestito l’udienza per certezza di diritto. Più ho messo in conto quel giorno, lì a Mylibon, un importo di 2 lire e 2 grossi. A garanzia di verità ho redatto due

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scritture dello stesso tenore. Questo è avvenuto nell’anno 1532 dalla nascita di Cristo nel giorno di san Vincenzo. E per le due scritture sono ancora 12 grossi (traduzione ripresa da Tolloi/Mischì/ Videsott 2014, 263).

Tra gli elementi lessicali che palesano il sostrato ladino (gad.) dell’estensore del documento, possono essere annoverati (in ordine alfabetico, cf. Tolloi/Mischì/Videsott 2014, 272–277): – alldyrà 3SG fut. di gad. aldì ‘sentire’ < AUDĪRE (EWD I, 78); – davò prep. ‘dopo’, oggi gad. do < DĒPOS ( T ) (EWD III, 114); – geravoy sm.pl., oggi gad. ghirau, ghirai ‘tutore’ < mat. gerhâbe (EWD III, 386); – govalltes sm.pl., oggi gad. gualt, gualc ‘procura’ < aat. giwalt (nel testo usato in forma aggettivale: doÿ govalltes geravoÿ ‘due tutori plenipotenziari’) (EWD III, 450; Videsott/Tolloi 2017, 156); – merchyes sm.pl ‘marco (unità monetaria)’ < it. marchi con a > e davanti a muta cum liquida (fenomeno presente anche in mere sf. SG ‘madre’); – nasyonn sf.sg. ‘nascita’, oggi (con significato metonimico) mar. nasciun ‘vagina’ da nasce ‘nascere’; – raines sm.pl, oggi gad. rainesc ‘(fiorino) renano’ < rheinisch (EWD V, 457); – sponncedlles sf.pl. < ttir. spånzedl ‘chirografo’ (Schatz 1956, 580); – vyryté sf.sg., oggi gad. verité ‘verità’ < it. verità con -ità > -ité (EWD I, 177); – zedlles sf.pl. < ttir. zêdl ‘foglietto’ (oggi sostituito da gad. zetl / zetola < ttir. zettl x venez. çedola) (EWD VII, 374). È evidente inoltre la presenza di alcuni criteri fonetici e morfologici costitutivi per il geotipo ladino, in particolare il plurale in -s (questes sponncedlles, merchyes, duues zedlles, lles do zedlles), la delabializzazione di QU (chell < ECCU ILLE vs. it. quello) o il passaggio á[ > e (mere < MATRE ). La mancanza delle vocali finali atone è altresì caratteristica, in quanto viene evitata nella scripta veneziana adiacente. Per quanto riguarda la sintassi, è notevole la presenza della forma tonica (ju) e atona (je/y) del pronome personale di prima persona, e il suo uso in posizione enclitica dove richiesto dalla sintassi ladina in base alla regola del verbo secondo. Testi simili, ma con influenze ladine decrescenti – segno di una crescente dimestichezza con l’italiano scritto – sono noti soprattutto dalla Val di Fassa (cf. Ghetta 1999), ma il fenomeno esiste naturalmente in tutte le vallate ladine (cf. Bernardi/ Videsott 2013, 63 per un esempio da Fodom; Zingerle 2007 per altri esempi dalla Val Badia). Edizioni sistematiche sarebbero auspicabili soprattutto al fine della documentazione lessicale.

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5 I primi testi ladini 5.1 Probabile testo ladino del 1579 Nel loro censimento dei documenti presenti negli archivi tirolesi, Ottenthal/Redlich (1903, 334) segnalano un documento scritto in ladino del 1579: «1579 Juni 15. Jacobo de Ruaz, Vicar von Livinallongo, stellt auf von den Parteien erhaltene Vollmacht hin die Bedingungen fest, unter welchen sich die Zechen oder Nachbarschaften Ornella, Corte und Contrugno über Waldnutzung und Einhaltung der Gemeindestrasse vergleichen. Or. Perg. S. fehlt (im Dialect des Thales geschrieben). Aehnlicher Ausgleich zwischen Ornella und Pieve von 1722, zwischen den Visinanze Kercz und Contrin von 1745» [1579 giugno 15. Jacobo de Ruaz, vicario di Livinallongo, stabilisce sulla base della procura ottenuta dalle parti le condizioni sulle quali si accordano le frazioni di Ornella, Corte e Contrugno riguardo allo sfruttamento boschivo e la manutenzione della strada comunale. Pergamena originale. Manca il sigillo (scritto nel dialetto della vallata). Un arbitrio simile tra Ornella e Pieve del 1722, tra le vicinie di Cherz e Contrin del 1745.] A nostro avviso, l’esplicita indicazione da parte dei due esperti studiosi che il documento fosse scritto nel «dialetto della vallata» non può essere interpretata diversamente che come la costatazione che il documento era scritto in fodom, eventualmente con interferenze italiane (settentrionali). Purtroppo l’archivio municipale di Livinallongo è andato distrutto durante la Prima Guerra mondiale e perciò l’informazione non può essere verificata – salvo il rinvenimento (fortuito) di eventuali copie del documento.

5.2 Proclama per la sagra di s. Zuanne d’anno 1631 Si tratta del più antico testo in ladino materialmente conservato (BL n° 125; nel frattempo depositato all’Archivio provinciale di Bolzano, Atti, n° 1257) di cui siamo a conoscenza. La sagra di San Giovanni nominata nel titolo del documento aveva luogo a San Martino in Badia, come ha ben intuito Lois Craffonara (Bernardi/Videsott 2013, 64; in Ghetta/Plangg 1987, 288 si suppone invece San Giovanni presso Vich/Vigo di Fassa). Proclama per la sagra di s. · Zuanne d’anno / 1631 / Da pert dell’illustrissi·mo et reverendissi·mo Signor Signor Wilhellmo · per la Iddio gracia / vescovo ˒ et prencipe di Bressenon, ˒ signor ˒ et patron nostro gra/ciosissimo, ˒ il molto nobile ˒ et illustrre Signor Antonio Söll / de Teisegg · à Stainburg, · pfleger di questa Bacchetta / della Torre, ˒ fes clamé la festa per terrier ˒ et forestier, ˒ / con quest de che nessun non s’anterstie de scomenze / remù, ˒ ne costiong, · sotto sia in paroles · ò fatti, · sotto / pena de 50 L. · Pù in_navant, ˒ che degung non die, ˒ ne mane fuora / della Bacchatta · cenza licenza della Signoria, · vidis, ˒ / garines, · capuns, · ponsins, · smalz, · us · et di tel / robba, ˒ et

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collor che né haverà da vanne, ˒ lo porte / et profiere prima alla Signoria, · che se iè farà / de bisògno, ˒ gli serà dato sò bon pagament, ˒ uolà / che nò, ˒ iè sarà de licenza de lla vanne sua robba / dove che gli piacerà, sott sotto pana de 5 L. · Pù in_navant che gli cechmaistri matte cura sie / che in ogni ceccha · sia d mantegnù de les strades / de bones strades, ˒ samenes · et pontg, ˒ à_ciò_che se / posse sÿ in_navant è in_navò senza impediment, · / sotto pana de 25 L. · Plù innavant, non solo che degung non s’anterstie de sÿ davò / sallveresin de deguna sort per la Bacchatta cenza / licenza della Signoria, nè manco tane lats, · ne / mossables per les cazzes, ˒ del c cenza licenza della / Signoria, ˒ mà entg collor che trovassa ò savassa / che altri de fuora (dal cazzador ordenato in fuora) / tenassa ˒ o zissa drio al salveresin, ˒ habbi da-l / manifestè alla Signoria · à_ciò che se possa matter / prevedament, ˒ essendo che le sotto pana grave / pana de esser chiastiei senza remission collor / che contrafarà. ˒ Così savarà ogni un dal se travarde da dani · et speses · Proclama per la sagra di S. Giovanni dell’anno 1631. Per incarico dell’ill.mo e rev.mo Signore Signore Wilhelm, per grazia di Dio vescovo e principe di Bressanone, signore e padrone nostro graziosissimo, il molto nobile e ill.re Signor Antonio Söll di Teisegg a Stainburg, curatore di questo Giudizio della Torre, proclama la festa per gli abitanti del luogo, locali e forestieri, alle seguenti condizioni: Che nessuno osi dare inizio a litigi o risse, sia a parole o a fatti, sotto pena di 50 Lire. Inoltre che nessuno dia o porti fuori dal Giudizio – senza licenza della Signoria – vitelli, galline, capponi, pulcini, burro, uova e altre cose di tal genere. Coloro che ne avessero da vendere, le portino e le presentino prima alla Signoria, la quale, se ne avrà bisogno darà loro il giusto pagamento, se non ne avrà, concederà loro il permesso di vendere la loro roba dove ad essi piacerà, sotto pena di 5 Lire. Inoltre che i capifrazione provvedano in ogni frazione a ben mantenere strade, sentieri e ponti, affinché si possa circolare senza impedimenti, sotto pena di 25 Lire. Inoltre, non soltanto che nessuno osi cacciare selvaggina di qualsiasi sorta nel Giudizio, e tanto meno tendere lacci e trappole da caccia senza il permesso della Signoria, ma anche che coloro che trovassero o venissero a sapere che altri (a parte il cacciatore autorizzato) tende trappole o caccia selvaggina, denuncino la cosa alla Signoria, affinché si possa provvedere in merito, sotto pena per i contravventori di essere puniti senza pietà. Così saprà ognuno guardarsi dall’incorrere nel proprio danno (traduzione italiana ripresa con modifiche da Belardi 1991, 157–158).

La facies linguistica del documento è in sostanza livinallese (Kattenbusch 1994, 51 lo ritiene invece senz’altro la prima testimonianza scritta del ladino della Val Badia), ma non mancano forme che sono caratteristiche per altri idiomi (per es. garines ‘galline’ con il rotacismo gaderano) oppure senza corrispondenza locale (vidis ‘vitelli’, tutte le forme ladine del lessema hanno il plurale in -i: gad. vidí, fod. vediei, fas. vedìe, grd. vadiei) – quasi a dimostrare l’intenzione di scrivere in un ladino sovralocale. Belardi (1991, 158–159) ha fornito la spiegazione delle forme notevoli, che riprendiamo con qualche integrazione/correzione: – à_ciò_che congiunzione finale (lad.mod. acioche), italianismo antico (EWD I, 40) come anche lad. (a)jache < giacché;

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anterstie 3 cong. pres. di *antersté < ted. unterstehen (per l’adattamento del ted. unter- con lad. anter- cf. il fenomeno in direzione inversa nel toponimo gad. Antermëia < TRIMODIA , ted. Untermoi); in_navant è in_navò ‘avanti e indietro’, cf. fod.mod. nnavant e nnavò, gad. inant y inaò, grd. inant y inò < IN Ā POS ( T ) (EWD III, 55); mossabla ‘tagliola da caccia’, fod.mod. mosciabia/mesciabia, fas. mosciabia ‘trappola per topi’ (cf. Tagliavini 1934, 217); profiere 3a cong. pres. di proferí ‘offrire’ < it. proferire (in EWD V, 375 non distinto da lad. preferí < it. preferire; Belardi lo ritiene invece un tedeschismo calcato su vorführen). Il verbo, oggi desueto, era ancora in uso a metà Ottocento (Videsott/ Tolloi 2017, 158); remù ‘rumore’, ma nel contesto sicuramente ‘litigio’ (così anche nel Proclama del 1704–1740, cf. infra, cap. 5.4 e Videsott 2019, 13), gad.mod. rumù, fod.mod. rumour (ma ancora nel 1843 fod. remou); sallveresin ‘selvaggina’, gad.mod. salverjin(a) < SALVATICĪNA (HWR 1994, 764 vs. EWD VI, 27, dove però è spiegato il passaggio -T - > d > r); se travarde ‘guardarsi’, lad.mod. se stravardé, ma in Micurá de Rü 1833 ancora travardè < EXTRA + protorom. *guardar; vidis ‘vitelli’: già Belardi (1991, 158) non lo ritiene un semplice errore di grafia, ma il risultato di una «ristrutturazione morfologica analogica, forse propria solo della lingua scritta».

Nell’ultima frase, gli editori precedenti (Ghetta/Plangg 1987, 285; Belardi 1991, 157; Kattenbusch 1994, 305) leggono sauaia. Belardi (1991, 159) interpreta la forma come 3 cong. pres. di savëi ‘sapere’, non trovando però corrispondenze nel sellano attuale. A nostro avviso va invece letto savarà (quello che è stato interpretato come il punto su una i sarà piuttosto l’accento sulla a), forma perfettamente regolare (tra l’altro, questa lettura è confortata dalla frase quasi identica nel documento del 1704–1740, cf. infra, cap. 5.4). A livello morfologico, il testo presenta il cong. pres. in -e e quello imperfetto della I coniugazione in -assa (fod. -ássa, grd. -ëssa, fas. -assa, bad. -ess, mar. -ass), il participio passato m.pl. della I coniugazione in -ei (fod.mod. -èi, grd. -ei/-ëi, fas. -é < *-ei, bad. -á < *-ai da -ATI vs. mar. -és, cf. Craffonara 1998, 145 e ↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 3.2) e l’infinito verbale senza -r finale anche nella III coniugazione. L’ortografia del testo è stata analizzata in dettaglio da Kattenbusch (1994, 52–53). I tratti più notevoli riguardano la resa insicura dei suoni palatali (per es. per /s/, /ʃ/ e /ʒ/: signoria ~ fes /feːʃ/ ~ sÿ /ʒi/) e affricati (per es. e per /ts/: cenza), nonché la resa dell’occlusiva postpalatale /c/ con e (chiastiei, pontg).

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5.3 Proclama per la riscossione di una tassa una tantum del 1632 Questo testo è conservato in una versione ladina (di base livinallese) ed una italiana (Hofarchiv Brixen, HA 10588). Entrambe sono delle minute di cancelleria (come si può evincere, tra l’altro, dall’indicazione «locus sigèlli» nella posizione dove la pergamena definitiva avrebbe dovuto essere sigillata), mentre non siamo a conoscenza del destino delle versioni effettivamente spedite. Belardi (1991, 165–166) adduce dei validi argomenti per ritenere che la versione ladina sia quella primaria, contrariamente a quanto era stato affermato precedentemente (Plangg 1985, 91). Infatti la versione italiana contiene una formulazione ([d]alle nostre Giustitie in specie li sarà scritto) che può essere interpretata soltanto come corruzione di una frase ladina (alles vostes ordenades Giustities in specia ìe sarà scritt) letta male, mentre è improbabile il processo inverso, cioè la correzione in ladino di una frase scritta male in italiano. Il documento sembra dunque essere stato preparato dapprima per i sudditi ladini del principe-vescovo (giurisdizioni della Torre, di Fassa e Fodom), ma poi ritenuto rilevante anche per i (molti?) italiani che probabilmente erano presenti nel territorio di confine al quale il documento più volte accenna. Nos Guilhelmo ˒ per l’Iddio gracia ˒ vescovo di Bressanon ˒ · & ·, offeriemo à tutti, ˒ et ogni un, ˒ nostri / sudditi ˒ delles nostres Bacchattes ˒ de Fassa, ˒ Vinaulonch ˒ et Torre del Gader, ˒ la nostra gracia, ˒ et apresso ves / don ad’intane, ˒ che per li agravamenti del nost Vescové ˒ son stei constrent ˒ de manè da vos ˒ li presenti / nostri · nobilli, ˒ fidelli, ˒ amadi ˒ Giacomo da Colz à Freÿeck ˒ et Palbit, ˒ nostro consiglier ˒ et vicare della / tierra, ˒ et Christofforo Andrea Linder da Garstain, ˒ nostro vice camermaistro, · con instution et ordenansa / bisognauola, ˒ come da ÿ plù innavant intendareis. ˒ Per tant ˒ é, ˒ da vos, ˒ la nostra graciosa domananza, ˒ / che nò solamenter iè ascoltareis ÿ nostri deputei, ˒ et ie dareis fede, ˒ et credareis tant ˒ et quant ˒ come / à nos instass, ˒ mà entg in cast’ evidentissim et estrem buseing é neccessité · per deffeinder il Paÿss, ˒ / les persones, ˒ moÿers, ˒ figlioi, ˒ li haver et beni, ˒ et in particolar per mańtegni la santa cattolica fede, ˒ áccon/sentireis, ˒ come prontamenter fesono ˒ li altri fidiei sudditi del Vescovè ˒ e del Paÿs, ˒ come entg altri con/finanti, ˒ per dé una colta tansa et contribution comportauola et aùnesta, ˒ per casta volta solla ˒ é non / plù oltra ˒ né plù voltes, ˒ sicome in t’un curt ˒ alles vostes ordenades Giustities in specia iè sarà scritt ˒ / et avisè, ˒ et cast’ solum à nos ˒ et à nost Vescovè per un aiut, ˒ cenza preiudice delles resons et anti/gites ˒ che penseis d’avei, ˒ é cast tant plù ˒ et facilmenter fé lo podeis ˒ é doveis, ˒ deperpo che, ˒ come con/finantg, ˒ fin ora perseint ˒ plù de dutg i auteri altri ˒ non solum con l’aiutt personel di vierra, ˒ mà / entg d’altri incarich, ˒ é zà fes puoch temp ˒ dell’imprast che se hà tolt’ de 200/m reines · se ve hà solevè / é respetté. ˒ Con cast’, ˒ et deperpo ch-el resonts in beneffice vost, ˒ de vostes moÿers, ˒ fioÿ ˒ et facultes, ˒ / farei à nos gratioso é bon conplasei, ˒ el qual volon recognasse invers de vos ˒ é de ÿ vúos ˒ con gracia, ˒ / come che da i predeti nostri Commissarÿ plù alla longia longia ˒ ve vignarà reffert, ˒ ve reston per tant ˒ / à vos, ˒ inseimbramenter et

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in solito, ˒ con gracia ben mienè. ˒ Dada in tella nosta citté di Bornech · / li 12 del meis de ottober · 1632. Wilhelmus locus sigèlli

Admandatus Illustrissimi et Reverendissmi Domini Episcopus Brixinensi proprius Jacom Reuperger secretare m.p.

Noi Guglielmo, per grazia di Dio Vescovo di Bressanone, offriamo a ognuno e a tutti i nostri sudditi dei nostri Mandamenti di Fassa, Livinallongo e della Torre della Gadera la nostra grazia, e insieme vi comunichiamo che a causa delle difficoltà del nostro Vescovato siamo costretti ad inviarvi i presenti nostri nobili, fedeli, amati Giacomo da Colz a Freieck e Palbit, nostro consigliere e Landrichter, e Cristoforo Andrea Linder da Garnstain, nostro vice camerlengo, latori di una istruzione ordinativa indispensabile, come da loro (stessi) ulteriormente saprete. Pertanto, la nostra graziosa domanda che vi rivolgiamo è che non solamente li stiate ad ascoltare i nostri deputati e crediate loro tanto quanto (credereste) a noi stessi, ma anche (che), in questo evidentissimo ed estremo bisogno impellente per difendere il Paese, le persone, le mogli, i figli, gli averi ed i beni, e in particolare per conservare la santa fede cattolica, acconsentiate – come prontamente fanno gli altri fedeli sudditi del Vescovato e del Paese e anche altri confinanti – a dare una tassa contributiva onestamente consistente, solo per questa volta e non oltre, né per più volte, così come entro breve tempo sarà data specifica informazione scritta ai vostri legittimi sovrintendenti. Questo contributo sarà soltanto per noi e per il nostro Vescovato a scopo di aiuto, senza pregiudizio dei diritti che presumete di avere da antico tempo. Potete e dovete fare ciò tanto più e facilmente, poi che, come abitanti di terre di confine, finora più di tutti gli altri siete stati rispettosamente esentati non solo dal fornire aiuto personale in guerra ma anche da altri oneri, e appena poco tempo fa dal prestito che abbiamo preso di mille e duecento fiorini. Tenuto poi conto che il contributo torna a vantaggio vostro, delle vostre mogli, figli e beni, con ciò ci farete un bel grazioso piacere; il che intendiamo riconoscere nei confronti di voi e dei vostri, con grazia, come vi verrà riferito più estesamente dai predetti nostri Commissari. Noi restiamo pertanto verso di voi, insieme come sempre, bendisposti con grazia. Data nella nostra città di Brunico il 12 del mese di ottobre dell’anno 1632. Guglielmo Inviato personale dell’ill.mo. e rev.mo Signor Vescovo Brissinense Giacomo Reuperger Segretario m.p. (traduzione italiana ripresa con modifiche da Belardi 1991, 162–163).

Per la spiegazione delle forme notevoli, rimandiamo nuovamente a Belardi (1991, 163–164), integrando e corregendo in alcuni punti: – i auteri ‘gli altri’ (cancellato) è forma ladina (fod. grd. fas. autri), la ripresa dal sg. auter; – colta ‘tassa’ (cancellato): prestito completamente integrato (cf. mar. culta, bad. cuta, grd. chëuta); – fesono ‘fanno’ presenta la desinenza italiano settentrionale -ono aggiunta alla forma verbale ladina fes 3 = 6 ‘fa/fanno’; – inseimbramenter ‘insieme’ è un prestito dal ven.ant. insenbramentre (vs. i tipi ladini *de brigata e *ad unu); da prestiti del genere il suffisso avverbiale ven.ant.

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-mentre ha potuto essere isolato e reso produttivo al punto da soppiantare completamente (nei primi decenni dell’Ottocento) il suffisso indigeno -ment (cf. Videsott 2017, 584); nostres: incrocio occasionale tra l’it. nostre e il lad. nostes. Per la 1 e 2PL dell’aggettivo e del pronome possessivo nel testo si alternano forme ladine (nost, nosta, nostes, vost, vuos, vostes) e italiane; in alcuni casi la regola ladina del non uso dell’articolo davanti all’aggettivo possessivo è rispettata: a nost Vescovè; offeriemo: il verbo presenta la desinenza italiano settentrionale -emo; perseint non è (vs. Belardi 1991, 164) un’ortografia per rappresentare una forma plurale ‘presenti’, ma parte del sintagma fin ora perseint ‘fino all’ora presente’, cioè ‘fino al giorno d’oggi’; resonts letteralmente ‘raggiunge’, quindi ‘ritorna (a beneficio)’, cf. fod.mod. arjonc mar. arjunc, gad. arjunj con la normale metatesi RE > ar; ve reston … ben mienè ‘restiamo verso di voi … bendisposti’: non c’è bisogno di postulare un minei plurale (Belardi 1991, 164), in quanto il testo usa il plurale maiestatis ma accorda i participi al singolare (cf. anche son stei constrent).

I lessemi deffeinder ‘difendere’, moÿers ‘mogli’, fioÿ ‘figli’, tansa ‘pagamento come tributo da parte di vassalli o sudditi, per ottenere protezione’ sono dei prestiti dall’italiano settentrionale, in parte adattati alla fonetica (deffeinder con -i- nella combinazione /E/+nasale+cons., cf. anche perseint ‘presente’, buseing ‘bisogno’ e inseimbramenter ‘insieme’, nonché bad.mod. cëinder, vëindres, lëinga ecc.) e/o alla morfologia (-s del pl.) del ladino. Il testo presenta ancora la -s del plurale e nella 2SG e PL , un tratto costitutivo del geotipo retoromanzo che invece già a inizio dell’Ottocento era scomparso nel livinallese (salvo nella 2SG dei monosillabi e del futuro, cf. Bernardi/Videsott 2011, 124–125): nostes, vostes, persones, moÿers (fod.mod. noste, voste, persone) e le desinenze verbali intendareis, ascoltareis, dareis, credareis, ácconsentireis, penseis, podeis, doveis (fod. mod. -arei/-irei). Farei ‘farete’, più che un primo esempio della caduta di -s, se non è una mera svista, sembra dovuto a un’interferenza dell’italiano. Per quanto riguarda l’ortografia (cf. Kattenbusch 1994, 239–241), si segnalano per il fonema fod. /ɑ/ (cast, casta ‘questo, questa’), e le note insicurezze grafiche nella resa delle palatali (per es. per /s/ e /ʃ/ e /ʒ/: vos /ˈvos/ ~ vúos /ˈvwoʃ/ ~ buseing /buˈʒeŋ/, ma anche vale /ʃ/: recognasse, Paÿss). L’occlusiva postpalatale /c/ in posizione finale viene resa con (entg, confinantg, dutg).

5.4 Proclama per una sagra del 1704–1740 Diversamente dai documenti precedenti, questo testo gaderano è noto da tempo (prima edizione in Vittur 1912, LVIII–LIX); ciò nonostante le edizioni precedenti non erano riuscite ad interpretarlo nella sua interezza. La versione seguente è perciò

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ripresa da Videsott (2019), che propone una edizione critica collazionata sulla copia conservata del testo (Archivio provinciale della Provincia di Bolzano, Hausarchiv Dasser [St. Martin in Thurn], n° 6), e avanza un’interpretazione nuova per i passaggi rimasti finora oscuri. Il testo stesso non riporta alcuna data, quella indicata comunemente (1703) è una congettura basata sull’inizio dell’episcopato del principe-vescovo Gaspare Ignazio conte Künigl; in base alle persone menzionate la sua redazione può invece essere avvenuta tra il 1704 e il 1740 (cf. Videsott 2019, 16). Proclama Per parte di sua Alltezza re·ma, Signior, Signor Casper Ignatio / per gratia di Dio Vescovo ˒ e Prencipe di Bressenone ˒ / e Conte Khinigle, ˒ il nostro clementisimo Prencipe, ˒ / ill molto illustre Signore Joann Baptista Winchler de / Colz à Rubatsch ˒ im Stern, ˒ fleger della Tore ˒ al / Gader, ˒ fes chlame la festa ˒ é fiera franca ˒ per / terieri ˒ é forestieri, ˒ ma che digung ˒ non scomenze / rommu, ˒ ò costion, ˒ sia col dit ˒ ò col fat, ˒ sotto penna / di 50 Lire / Deplu che degung ˒ non si anterstie de shi da (sic! recte: do), ˒ ò ama/ze salversing ˒ di deguna sort ˒ in questa Bacetta / ó senza licenza della Signoria, · sotto penna / di 25 Lire / Inche ˒ che in questa Bachetta ˒ degung non se an/terstia ˒ de taie legnam ò di bosche ˒ contra la / ordinanza dei bosch, ˒ e senza licenza della Si/gnoria, ˒ sotto penna di 25 Lire / Plu in_avant, ˒ che per tutta la Bachetta venge / mantegnu ˒ e conze les strades, ˒ semenes é / punt, ˒ che posse si ˒ é torne, ˒ sotto penna di / 25 Lire / Anchora veng metu penna alta, ˒ che deguing ˒ di / questa Bachetta ˒ tolle ite ˒ o mene sol pasco, ˒ ò / solla fiera, ˒ bestiam malfresch ˒ di deguna / sort, ˒ e chi contra_fara, ˒ per il castigo ˒ è / perdita ˒ dell bestiam, ˒ sia oblie di refar / il dan ˒ che travengnara. · / Pro quest, ˒ che degung ne vene forra della Bac/chetta ˒ vidi, ˒ castrons, ˒ caureth, ˒ capungs, ˒ / giarines, ˒ punsings, ˒ scmalz ˒ é us, ˒ ma / soperfieri alla Signoria dell lueg, ˒ che havara / so bon pagament, ˒ sotto pena di / 25 Lire / Deplu che deging in questa Bachetta / si anterstie ˒ di alose ˒ o alberge ˒ cigaei/neri, ˒ 25 Lire / soldas, ˒ ò altri saminadus fu/restieris, ˒ sotto penna / di Ancora che degung ˒ ne porte ermes pro/ibides, ˒ sia pistolles, stilleith, ˒ bal/les de fer o altres ermes ˒ discama/nadess (sic! recte: discomanadess) etc., sotto penna di / 25 Lire / Per la ultima, ˒ se qual_chedung / savesse qual_che tai de legnam / fat contra la ordinanza dei bosch, ˒ / chi, over à dan dei confings, ˒ / la (sic! recte: lo) voie de à denuntia alla / Signoria, ˒ sotto pena / di 25 Lire / Cossi ogni una (sic! recte: uno) ˒ si sapera da vardarsi / da dann.· Per incarico di Sua Altezza reverendissima, Signor Signor Gaspare Ignazio, per grazia di Dio Vescovo e Principe di Bressanone e conte Künigl, nostro clementissimo Principe, il molto illustre Signor Giovanni Battista Winkler de Colz a Rubatsch im Stern, Curatore (del Giudizio) della Torre

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alla Gadera, fa proclamare la festa e la fiera franca per conterranei e forestieri, a condizione che nessuno promuova litigi o risse, sia a parole sia a fatti, sotto pena di 50 Lire. Inoltre, che nessuno osi cacciare o uccidere selvaggina di alcuna sorta in questo Giudizio, senza il permesso della Signoria, sotto pena di 25 Lire. Ancora, che in questo Giudizio nessuno osi tagliare alberi o fare legna contro l’ordinanza forestale e senza il permesso della Signoria, sotto pena di 25 Lire. Inoltre che in tutto il Giudizio le strade, i sentieri e i ponti siano curati e riparati, affinché si possa circolare, sotto pena di 25 Lire. Ancora viene stabilita una pena alta se qualcuno di questo Giudizio introduce o porta al pascolo o alla fiera bestiame malato di qualunque sorta; chi contravverrà – con conseguente punizione e perdita del bestiame – sia obbligato a riparare il danno sopravveniente. Oltre a ciò, che nessuno venda fuori del Giudizio vitelli, montoni, capretti, capponi, galline, pulcini, burro e uova, ma li presenti alla Signoria del posto, e avrà un giusto pagamento, sotto pena di 25 Lire. Inoltre, che nessuno in questo Giudizio osi dare alloggio o albergo a zingari, soldati e vagabondi stranieri, sotto pena di 25 Lire. Ancora, che nessuno porti armi proibite, come pistole, pugnali, palle di ferro o altre armi interdette ecc., sotto pena di 25 Lire. Da ultimo, se qualcuno venisse a sapere di qualche taglio di legna eseguito contro l’ordinanza forestale, anche, ovvero in proprietà altrui, voglia farne denunzia alla Signoria, sotto pena di 25 Lire. Così ognuno saprà guardarsi dal(l’incorrere nel proprio) danno (traduzione italiana ripresa con modifiche da Belardi 1991, 168–169).

Per le forme notevoli, facciamo riferimento a Videsott (2019), che corregge e integra Belardi (1991, 169–170): – bosche ‘fare legna nel bosco’, cf. bad.mod. bosché, grd. busché; – furestieris ‘forestieri’, la r è visibilmente espunta; sembra che l’estensore del documento abbia voluto scrivere , ma poi correggere con la forma locale *furestis (cf. tuttora mar. frostí, frostis ‘forestiero’); – soperfieri ‘presenti, porti’, 3 cong. pres. (-i desinenza italiana soprascritta su di una precedente -e) di *soperferí in relazione con il *proferí nel testo del 1631); – travengnarà ‘intraverrà’ (i.e.: ‘ne conseguirà’); – venge (leggi /ˈveɲe/) in questo testo non è forma livinallese, ma l’antico congiuntivo asigmatico badiotto della 1 e 3SG pres. (cf. Videsott/Tolloi 2017, 154); – veng metu penna alta ‘viene messa [i.e. stabilita] una pena alta’, la lettura di G. Plangg (Ghetta/Plangg 1987, 292) metù è sicuramente da preferire a quella di Belardi (1991, 169) maiù, anche perché la sua lezione veng maiu penna alta ‘viene maggiore pena alta’ è sintatticamente impossibile. Di nuova interpretazione (cf. Videsott 2019, 14) sono le due sequenze: – balles de fer o altres ermes disc[o]ma/nadess ‘altre armi vietate’ – sequenza edita finora altres ermes discamans (Ghetta/Plangg 1987, 292), ø (Belardi 1991, 167) e ermes discamamedessa (Kattenbusch 1994, 307) senza significato chiaro. La lettura discomanadess agg.f.pl. ‘vietate’ ha invece dalla sua il contesto, il fatto che

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le lettere espunte sono (come se lo scrittore avesse voluto correggere la sillaba precedente che riteneva scritta erroneamente due volte) e gli altri esempi di per /o/ nel testo; qual_che tai de legnam fat contra la ordinanza dei bosch, chi, over à dan dei confings – sequenza finora edita chi òuerà dan dei Confings (Ghetta/Plangg 1987, 292; Belardi 1991, 167), chi o uerà dan dei confings (Kattenbusch 1994, 307) e rimasta oscura. non va però interpretato come it. /kj/, ma come lad. /ci/ ‘anche’, e la segmentazione della parola seguente è . Il significato dell’intero sintagma è perciò ‘qualche taglio di legna eseguito contro l’ordinanza forestale, e/o a danno dei confini’, cioè ‘non rispettando i confini’.

A livello grafico (cf. Kattebusch 1994, 54–55) si possono rimarcare soprattutto e per /c/ (per es. inche /ˈince/ ‘anche’, stilleith /ʃtiˈlec/ ‘pugnali’, quindi anche punt, in quanto plurale, sarà da integrare in punth ‘ponti’ come proposto da Belardi 1991, 169), nonché le varie forme per la parola degun ‘nessuno’ (degung ~ deguing ~ deging), che sembrano rendere /y/ (bad.mod. degügn). I parallelismi tra questo testo e il Proclama del 1631 sono evidenti e lasciano intuire che il ladino scritto in questi contesti venisse usato molto più spesso di quanto lasciano supporre i pochi testi conservati.

6 Il «Catalogus multorum verborum quinque dialectuum, quibus Montani Perginenses, Roncegnenses, Lavaronenses, Septem-Pagenses et Abbatienses utuntur» del 1760–1763 di Simone Pietro Bartolomei Anche questo glossario esalingue (circa 1800 entrate in latino, nei dialetti tedeschi del Perginese (mòcheno), di Roncegno, di Lavarone e dei Sette Comuni (Altopiano di Asiago) e nel dialetto ladino dell’alta Val Badia) redatto dall’avvocato perginese Simone Pietro Bartolomei (1709–1760) è noto da tempo (cf. Schneller 1869, 19–20; Böhmer 1885, 211; ↗17 Lessicografia e grammaticografia, cap. 2.1), ciononostante fino al giorno d’oggi non ne esiste una edizione completa affidabile (l’edizione di Filzi 1910–1912 è inutilizzabile, cf. Kramer 1976b, 170 n. 3). Anche l’edizione della sola parte latino-ladina allestita da Kramer (1976a) è perfezionabile (il lemma gni plurié ‘exacerbo’ per es. viene intertreptato come gnü plurè ‘denunciato’ recte gnì plu rie ‘diventare più cattivo’; slonsè ‘tuber, tumidus’ recte slonfè, selù in adum ‘sepio’ viene spiegato come forma erronea di sié, recte sclù in adum ‘chiudere’, daèrt ‘recta’ non corrisponde a davert ‘aperto’, ma a dërt ‘giusto’ ecc.). Il Catalogus stesso è conservato in una copia allestita nel 1763 dal figlio dell’autore, Francesco Stefano Bartolomei

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(Biblioteca del Ferdinandeum di Innsbruck, Dipauliana 958) e in due ulteriori copie (Biblioteca del Ferdinandeum di Innsbruck, FB 5875; Biblioteca comunale di Trento, BCT1-59 [da c. 93v a c. 134r]), che si distaccano però notevolmente dalla lingua del testo originale (in FB 5875 per es. con allineamento delle forme tedesche al tedesco standard e delle forme ladine all’italiano, cf. Kramer 1976b, 170 n. 6). A

Montani Perginenses

Roncegnenses Lavaronenses

Septem Pagi

Abbatienses

aestimo

schäzen

schäzen

schezen

schezen

stimè

altus

höa, hoüa

haä

haäch

hoägch

alt

acclivis

roäni

läiti

roäni

stikol

art

ardeo

prinnen

prunnen

prinnen

broͤ oͣ nnen

verde

ausculto

lischnen

lischnen

lusen

luschen

scoltè

audio

lischnen

lischnen

liusen

luschen

scoltè, aldì

audi

lische

lisch

lius

lusch

scolta

absorbeo, deglutio

schlincken

schlincken

nider schlincken

schlinten nider

glotì

ad

ze

ze

zo

zoͤ

da in prò

apud

chä, am

gläimb

namb

chä, nächne, hoss

da in prò

Finora il Catalogus (l’estratto supra è ripreso da Kramer 1976b, 148 e collazionato sull’originale) è stato sfruttato soltanto parzialmente come fonte lessicale (viene citato dall’EWD come prima testimonianza dei lessemi presenti in Pizzinini/Plangg 1966, che è la base del lemmario dell’EWD, ma non nei casi dove il Catalogus è l’unica fonte); per il resto la sua analisi si è concentrata su aspetti ortografici (cf. Kramer 1976b). Sarebbe invece auspicabile un’analisi linguistica più esaustiva del Catalogus come testimonianza sincronica del ladino della seconda metà del Settecento. Infatti il Catalogus documenta anche la presenza nel ladino di alcuni fenomeni ereditati che nel frattempo sono stati sostituiti da prestiti oppure sono usciti dall’uso, come per es. la formazione degli avverbi mediante il suffisso ereditario -ment (oggi mediante -menter, particolarità già notata da Kramer 1976b, 166) oppure i numerali ordinali (per es. chint ‘quinto’ < QUINTUM vs. lad.mod. cuint(o) < it. quinto, le nogn ‘nono’ vs. lad. mod. nono, cf. Videsott 2017, 584).

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Primi usi scritti del ladino

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8 Panoramica della letteratura ladina Abstract: Il capitolo si apre con una definizione di letteratura composta in lingue meno diffuse, preliminare a panoramica dei più importanti testi ladini scritti con intento estetico dall’inizio del XIX secolo. Agli albori della letteratura ladina troviamo tanto la tradizione orale delle leggende delle Dolomiti quanto testi d’occasione. Gli esponenti più importanti di questa fase precoce sono Jan Francësch Pezzei (1765– 1819) e Matie Ploner (1770–1845) con rime di intenzione morale-educativa e umoristica. La fine del XIX secolo è segnata dal poeta Angelo Trebo (1862–1888), con poesie ispirate all’ideale tardo-romantico, e da Jan Batista Alton (1845–1900), linguista e scrittore di poemi epici. Con la presa di coscienza identitaria ladina si diffonde la letteratura di difesa che verrà soffocata dagli avvenimenti bellici. Solo dopo la Seconda Guerra mondiale la letteratura ladina si riavvierà con lo scrittore Max Tosi (1913–1988) che supererà con i suoi testi letterari l’orizzonte popolare e folcloristico, aprendo la strada ad autori e autrici come Frida Piazza (1922–2011), Luciano Jellici (1928–2006) o Felix Dapoz (*1938). Oggigiorno la letteratura ladina può essere comparata alle letterature limitrofe, e si auspica che trovi forme originali ed una lingua propria che si rinnovi nel suo stile e nella sua forma espressiva.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, letteratura ladina, letteratura scritta in lingue meno diffuse, tradizione orale, leggende delle Dolomiti, primi testi ladini scritti con ambizione estetica, letteratura di difesa, scrittori ladini «classici», letteratura ladina contemporanea  

1 Agli albori della letteratura ladina 1.1 Letterature di minoranza: una definizione «Man darf sich die Entwicklung von Kleinkulturen nicht nach dem Muster der Großkulturen denken, wenn man seine Enttäuschungen nicht bereits vorprogrammieren will» [Non si deve pensare che le culture minori si sviluppino con le stesse modalità delle culture maggioritarie, altrimenti la delusione sarà inevitabile], scrive Camartin (21987, 164) nella sua opera di riferimento sulle letterature cosiddette di minoranza. È dunque chiaro che non si può semplicemente misurare e confrontare lo sviluppo di una letteratura scritta in una lingua meno diffusa come quella ladina con il canone poetico di una grande letteratura nazionale. Ciò non significa che la produzione letteraria – anche quella ladina – non vada misurata con il meglio della letteratura mondiale. https://doi.org/10.1515/9783110522150-009

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Studiando le origini della letteratura in una lingua meno diffusa è necessario tenere presente che per le fasi iniziali si possono includere anche opere che non sarebbero considerate tali se scritte in un contesto «maturo». Il «concetto di letteratura» in lingue meno diffuse va dunque inteso in senso più ampio, sia in relazione ai generi letterari che alla qualità dei testi. Partendo da questo presupposto è comprensibile che nella letteratura ladina delle origini (secolo XIX) rientrino anche testi di canzoni, cronache storiche, diari e altre annotazioni private o traduzioni di testi da altre lingue, sebbene non siano state scritte con intento letterario, e inoltre la cosiddetta «letteratura d’occasione». Un ulteriore aspetto da considerare è il diverso approccio all’ortografia. Uno scrittore di una letteratura maggioritaria non deve cimentarsi con lo studio dell’ortografia della sua lingua madre – semmai solo in casi eccezionali –, mentre scrittori di letterature meno diffuse devono innanzitutto imparare a scrivere la loro lingua materna. Per gli scrittori ladini contemporanei ciò significa imparare uno degli idiomi ladini ufficiali. Il canone linguistico, l’ortografia e la sintassi possono dunque reprimere l’ispirazione poetica paralizzando il fluire delle parole ed in parte limitare la produzione letteraria. Si osserva comunque che il «blocco» nello scrivere letteratura in ladino, causato dal numero ridotto di opere della tradizione ladina, appartiene al passato, in quanto tra gli autori ladini contemporanei vengono ora valorizzati anche i lati positivi che una letteratura scritta in una lingua meno diffusa può avere. In queste letterature, che Camartin (21987, 280) definisce «della povera gente» (in senso culturale), si trovano anche dei punti di eccellenza, grazie alla libertà lasciata dallo scarso peso di un canone consistente. Una poesia dadaista in ladino può ancora costituire un’assoluta novità, mentre in tedesco apparirebbe ormai superata. Chi scrive un’opera letteraria in ladino non deve tener conto dell’inerzia della tradizione secolare né deve costringere i suoi scritti in una struttura ingombrante o pesante. In un ambiente limitato l’autore può agire con più flessibilità anche in termini contenutistici. Inoltre può essere creativo e sperimentare con la lingua, sia nel lessico, sia nella sintassi, mentre le lingue letterarie ufficiali sono pressoché immutabili. Un grande sistema linguistico esprime una certa rigidità – pensiamo al francese – ed è pure difficile da influenzare, come già ebbe l’occasione di formulare Pier Paolo Pasolini quando fondò l’Academiuta di lenga furlana nel 1945: «Infine, la tradizione che naturalmente dovremo proseguire si trova nell’odierna letteratura francese ed italiana, che pare giunta ad un punto di estrema consunzione di quelle lingue; mentre la nostra può ancora contare su tutta la sua rustica e cristiana purezza» (cit. in. Ellero 2004, 30). Anche nella letteratura ladina ci sono autrici che fungono da modello linguistico e letterario, come mostrano le seguenti parole della scrittrice Frida Piazza: «[...] Ie che per mi ne zeder cun l gherdeina son for me unida cuineda, minciuneda, jdaudeda ora, teuta per l cul, despriejeda ... ma śen, merë bele a liejer la rimes de chisc Gherdeines, éi udù che uni un à sentà ite de plu o manco paroles mies, teles che dan 60–50–40 ani ovi trat a lum! Na mi pitla arliegreda!» (cartolina postale privata del

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26.2.2007). [[...] Io che per la mia irremovibile scelta del gardenese [come lingua letteraria] sono sempre stata derisa, insultata, umiliata, presa in giro, disprezzata … ma adesso, leggendo anche solo le rime di questi gardenesi, vedo che ognuno fa più o meno uso di parole mie, quelle che 60–50–40 anni fa avevo portato alla luce! Una mia piccola gioia!]

1.2 La tradizione orale: le leggende delle Dolomiti Gli albori della letteratura ladina si possono individuare nella «Stimme des Volkes» (voce del popolo), nel significato che vi attribuiva Herder. Già prima della messa per iscritto dei primi testi letterari, nelle valli ladine è presente una tradizione orale: le leggende, tramandate di generazione in generazione. Queste leggende ladine (lijendes), annotate in gran parte in tedesco, nel loro contenuto costituiscono infatti i monumenti letterari ladini più antichi. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, Karl Felix Wolff (cf. Kindl 1983, 176–178) ha svolto ricerche su queste leggende seguendo la tradizione dei fratelli Grimm, pubblicandole in prima edizione nel 1913 con un’interpretazione alquanto libera. In alcuni casi, addirittura, è possibile ricostruire il contenuto originale delle leggende wolffiane solo grazie alle versioni documentate da Jan Batista Alton e Hugo de Rossi. Spesso però non si riesce più a risalire al nucleo originale, specialmente nei cicli di leggende, dei quali anche Wolff aveva solo ritrovato dei frammenti (cf. Kindl 1983, 23–24, 30). L’esatta ricostruzione filologica non è tuttavia la ragione primaria dell’importanza del recupero del patrimonio leggendario tramandato. La vera importanza delle leggende delle Dolomiti è data dal fatto che offrono ai ladini un modello di spiegazione «della nascita del mondo, del formarsi della creazione divina e dell’ordine umano», in fondo «del passato per il presente» (Kindl 1997, 175, trad. nostra). Un esempio prezioso in questo senso è quello fornito dalla scrittrice altoatesina Anita Pichler (1948–1997) nel suo libro «Die Frauen aus Fanis» (Pichler/Vallazza 1992), in cui propone una sua interpretazione delle figure femminili nel ciclo delle leggende di Fanes. Se nel mondo immaginario delle leggende ci sia un’essenza storica documentata oppure no, non importa. Essenziale per un popolo è solamente l’idea di un’esistenza originaria.

2 Letteratura d’occasione Vittur (1970, 7) afferma che già prima della stampa delle prime poesie, i ladini componessero sicuramente versi e rime per certe occasioni, come espressione spontanea dei loro sentimenti. Ninnenanne e fiabe, rime d’amore, filastrocche per occasioni di gioia o tristezza e naturalmente poesie sarcastiche sono certamente molto più antiche dell’uso di fissarle per mezzo della stampa.

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Di conseguenza, queste prime composizioni in ladino possono anche essere considerate come «letteratura di consumo», nel senso indicato da Alewyn (61988, 307): testi che costituiscono una parte essenziale della vita quotidiana del popolo non letterato. All’inizio del XIX secolo troviamo senz’altro opere di questo genere anche nella Ladinia, ma è importante sottolineare che in questo periodo disponiamo già di testi che sono «letterari» in senso stretto, ossia scritti con intento estetico. La maggior parte dei testi d’occasione fa riferimento ad eventi legati alla vita religiosa: poesie per messe novelle ed anniversari di sacerdoti, feste religiose durante l’anno o matrimoni. Altri testi si rivolgono a feste familiari come compleanni ecc. Troviamo anche componimenti divertenti, di accusa oppure di satira ironica. Durante i primi cento anni dell’uso letterario del ladino la finalità primaria è comunque quella morale-educativa. La figura del cosiddetto «poeta del paese», ossia una persona che compone rime per occasioni di festa, è sopravvissuta fino ad oggi in tutte le vallate ladine. L’importanza fondamentale di queste poesie non è la qualità letteraria, ma il contenuto e la capacità di interpretare bene le persone e le situazioni, in modo scherzoso oppure ammonitorio, usando versi e rime ritmiche e semplici. Queste vengono recitate o cantate in pubblico e contribuiscono notevolmente al rafforzamento e mantenimento della lingua ladina.

2.1 Jan Francësch Pezzei Jan Francësch Pezzei nasce il 5 aprile 1765 a Liviné di Pieve di Livinallongo. Nel 1788 viene ordinato sacerdote. Dal 1789 al 1790 è sacerdote soprannumerario a La Valle in Badia, dal 1793 al 1801 cooperatore a Livinallongo e dal 1801 al 1803 a Badia. Nel 1803 viene nominato curato di La Valle, dove opera fino alla sua morta precoce, il 16 dicembre 1819 (Bernardi/Videsott 2013, 237). Di lui sono tramandate le poesie intitolate Thom: Camploj Tolpei in Rù del 1805 (in Bernardi/Videsott 2010, 189–192) e Urs[ula] da Potz del 1816 (entrambe nell’idioma fodom) nonché sei poesie in idioma badiotto per la fine dell’anno scolastico 1819 («festa di religione»): Per Giov. Matt. Pitschaider, Per Gius. Terza de Toffe (Schöpl de Toffe), Per Mariańa Camploj, Per Maria Hitthaler (Moidl), Per Giuseppe Miribung (Sepl) e Per Alois Spessa (tutte in: Bernardi/Videsott 2010, 194–201). Tutti i testi sono anonimi. Il primo testo in ladino con intenzione estetica noto è dunque del 1805, ed è scritto nell’idioma fodom. Tipico testo di occasione, è redatto in rime baciate, con un’introduzione di quattro versi in italiano e 11 strofe in ladino (testo ripreso da Bernardi/ Videsott 2010, 189–192):

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Thom: Tolpei in Rù [0] Un fanciullo così ansioso ń ho giammai veduto che con tuta forza abbia voluto la Dotrina recitar: [1] Di’, e not al studiava la Maria e i autri lo tentava il Vegle della Lum se baudiava la Vegla di chis matg sella ridava [2] intant Thomes fe impedi ń se lasava ma fra se stes se pensava o per forza o per amour la voi fè cha, e con onour [3] ma intant gie fes Thomes se la ri, e li lasa con tant de Nes e per forza e amour Alla Ciera se podas pense che fosse ste di not pro fuoc: o in fassine ma no me ingane tes te ste enten auter luog: davo taula a studie: [4] Chiala pur da cha ináo d’ester bon d’ ń esser ruo o poltrong te farè menè a persenon te studiaras coi autri a studie te vigniras a dir massa e a perdiche e podei scoute le confession. [5] Deportete pur beng chiala pur de ń ester ruo, o fe l’ poltrong te fare mene a persenong coi autri a studie. [6] O in laota si te saras bon de di Massa, e perdiche come pur enchie de scoute delle Vegle le confession: [7] Va beng va beng cosi Valent Thomes Valent con ti son dart content tes moro, e slochie, ma tas talent te sas velch, e tas virtu.

Giorno e notte egli studiava, Maria e gli altri lo tentavano, il padre della luce si lamentava, la madre di questi matti se la rideva; intanto Tommaso non si lasciava distogliere, ma fra sé e sé pensava: o per forza o per amore voglio farcela, e con onore; ma intanto che cosa fa Tommaso, se la ride e li lascia con tanto di naso e per forza e amore. Al colorito si potrebbe pensare che fosse rimasto tutta la notte presso il fuoco: ma non mi sbaglio sei stato in un altro posto: dietro al tavolo a studiare: Cerca d’ora in poi di essere bravo, di non essere cattivo o prigro, ti farò condurre e Bressanone con gli altri a studiare, dirai la messa e predicherai e potrai ascoltare le confessioni. Comportati bene, cerca di non essere cattivo o di fare il prigro, ti farò condurre e Bressanone con gli altri a studiare. Allora vedrai che riuscirai a celebrare la messa ed a predicare come pure ad ascoltare le confessioni delle vecchie: Così va bene, va bene Tommaso, sei bravo, con te sono molto contento, sei scuro e ti manca un dente, ma hai talento, sei intelligente ed hai virtù.

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[8] Tes furbo, tes fauzong tes pleng de bufonerie tas enchie da tuo pere le furberie ma dagnara con onor. [9] chialamo chal puoro vegle cola su al sela ri e chiala su al trema e dis de no ma chas te dige pur ampo. fi de pere tes enchie ti [10] Va pur da l’esempio che ti da chal tuo buon pere i tuoi fradiei e tua mere che ń siras daandao: [11] Mo chas te dige ben mio picco bon Thomes chal che i preves fes per ades no fe enchie ti ti lassa impes

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Sei furbo e sei scaltro, sei pieno di buffonerie, hai anche da tuo padre la furbizia, ma sempre con onore. Guarda quel povero vecchio lassù, se la ride e guarda giù, trema e dice di no, ma questo te lo dico comunque, figlio di padre lo sei anche tu. Vai pure e dà un buon esempio, come il tuo buon padre, i tuoi fratelli e tua madre lo danno a te, che non imbocchi la strada sbagliata: Ma questo devo ancora dirti mio piccolo caro Tommaso, quello che i preti fanno, per adesso lascialo stare.

Poiché si tratta della prima poesia ladina, è interessante vedere da un lato le scelte grafiche operate dall’autore, dall’altro le peculiarità linguistiche della sua varietà di fodom: a livello grafico, osserviamo che gran parte delle scelte sono in continuità con i testi precedenti, il che dimostra che già all’epoca una pur minima tradizione ortografica doveva essersi instaurata per la resa di nomi e parole ladine. Nel dettaglio, possiamo elencare tra l’altro la scelta di per /k/ (per es. cha per ca ‘qua’, 8), ma in fine di parola si usa : fuoc (13). L’occlusiva palatale viene sempre segnata con , sia quand’è prepalatale, sia medio/postpalatale: chiala (oggi cëla ‘guarda’, 17) e enchie (oggi ence ‘anche’, 29). In fine di parola invece compare il digramma : matg (oggi mac ‘matti’ (4). La rappresentazione della -n velare oscilla tra e (persenon(g) ‘Bressanone’, 19, 25). La resa delle sibilanti è molto semplificata: il grafema (talvolta ) viene usato per /s/ (nes ‘naso’, 10), /ʃ/ (chis ‘questi’, 4), e /ʒ/ (siras per odierno jiras ‘andrai’, 48); non sono presenti casi chiari del fonema /z/. Infine, la vocale bassa arretrata /ɑ/, tipica del fodom (↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 4.4), è segnata sempre con : dart (oggi dërt ‘abbastanza’, 33), Massa (oggi mëssa ‘messa’, 21). La lingua dell’autore non presenta variazioni di rilievo rispetto al fodom attuale (↗ 4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 4.4). Tra i tratti caratteristici fonologici presenti nel testo possiamo elencare il mantenimento della -s finale nelle forme verbali monosillabiche (sas ‘sai’, 35) e al futuro (vigniras ‘verrai’, 21, cf. Bauer/Casalicchio 2017); il mantenimento del nesso /gl/ derivato da lat. - CL - (vegle ‘vecchio, 3); e il mantenimento del dittongo /ou/ da lat. - ULT - in scoute (‘ascoltare’, 22 e 29). A livello morfologico, la lingua dell’autore ha già perso il plurale sigmatico con i femminili (vegle ‘vecchie’,

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30) e con alcune classi di maschili come confession (‘confessioni’, 22, 30). La forma preves (da leggere probabilmente prevesc ‘preti’, 51) ha invece il plurale sigmatico, che il Fodom conserva ancora oggi. Sempre a livello morfologico, la forma del pronome soggetto di terza persona è al (probabilmente da leggere ël), mentre il fassano attuale ha dël (↗4 Il ladino e i suoi idiomi, cap. 4.4). Infine, a livello lessicale notiamo che a quell’epoca il fodom aveva già taula per tavola (16; anziché una forma come mëisa o dësch, usate nelle altre varietà ladine). Infine, si può notare che il testo contiene vari italianismi, per es. la preposizione di per de (4), not per nuot (1, 13), e l’uso dell’articolo davanti al possessivo (i tuoi fradiei, 47). Le poesie dell’anno 1819 sono invece scritte in badiotto e ne costituiscono la prima testimonianza poetica. Si tratta di sei poesie scritte dal Pezzei in qualità di curato-maestro di La Valle nel contesto dei cosiddetti «esami di religione». All’epoca era usanza che il maestro scrivesse per ogni alunno una piccola poesia che ne riassumesse le principali caratteristiche morali ed intellettuali. Altre poesie del Pezzei per la stessa occasione (anni 1804, 1812, 1813 e 1818) sono invece scritte in italiano (testo ripreso da Bernardi/Videsott 2010, 195–201). Per Giov. Matt. Pitschaider

Per Giovanni Mat. Pitschaider

O mie bung pitsche Pitschaider Schë tö vas’ coll’Isodoro. Vängnäste pa un püre Laider, Portgicché plom nö n’é oro.

Oh mio bravo piccolo Pitschaider Se tu vai con Isodoro. Diventi un povero diavolo, Perché il piombo non è oro.

Tö t’és tang pross, é valänt Con té më tlami där contänt Tö te ās porté al Germann una fortaja Mo all’ha dit, al sarà Iddio, che tla paja.

Tu sei così ubbidiente e buono Con te mi ritengo molto contento Tu hai portato al Germano una frittella Ma lui ha detto, sarà Dio che te la pagherà.

Tö t’orōs confessé pro la Cresenza Portgicché t’aas ma dodesch pitgià. Tö saas, ch’arra ha na gran pazienza, E per käscht minaaste inpo dla fa cà. Mo confessë të mässäraaste pa inpò pro un sacerdot. Se t’oos gni un müt devot.

Tu volevi confessarti alla Crescenzia Perché avevi solo dodici peccati. Tu sapevi che lei ha una grande pazienza, E perciò pensavi di cavartela comunque. Ma confessarti dovrai comunque da un sacerdote, Se vuoi diventare un ragazzo devoto.

Pezzei utilizza per le sue sei poesie dedicate agli scolari il termine «Suonetti», allora usuale per poesie rimate che in alcuni casi potevano anche venire cantate, come testimonia qualche poesia di Matie Ploner (cf. infra, cap. 2.2). La prima delle sei poesie è come tutte di questo genere di contenuto leggero, scritta in una lingua semplice per un buon intendimento degli scolari. L’autore mostra di dominare il badiotto. È interessante notare che a livello grafico rivede alcune scelte, rispetto alle sue poesie fodome (cf. supra), che diminuiscono i

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casi di ambiguità. Il fonema /š/ non viene più reso con , ma con il trigramma , assente nelle sue poesie fodome (dodesch ‘dodici’, 10). Anche le affricate palatali sorde ora vengono distinte: Pezzei usa per /ć/ (pitsche ‘piccolo, 1) e per /tχ/ (portgicché ‘perché’, 4 e 10). Nelle poesie fodome usava per entrambi i fonemi. La velare /k/ viene invece resa con , mentre nei testi fodomi usava (käscht ‘questo’, 12). Per rendere fonemi che non esistono in fodom Pezzei si ispira al modello tedesco: utilizza per /ö/ (tö ‘tu’, passim), per /ë/ (valänt per odierno valënt ‘bravo’, 5; käscht per odierno chëst, ‘questo’, 12), e per la vocale lunga /i:/ (mie è probabilmente da leggere come /mi:/ e non come un /mie/, che sarebbe un influsso del fodom). Le altre vocali lunghe vengono invece rappresentate ora con una vocale doppia (t’aas ‘hai’, 10; minaaste ‘credevi, 12), ora con un trattino sopra la vocale (tö te ās ‘tu hai’, 7; tö t’orōs ‘tu volevi’, 9). A livello linguistico, invece, possiamo notare in fonologia che la palatalizzazione della sibilante che precede una consonante è già attestata a quest’altezza cronologica (käscht < ECCUM ISTUM , 12). La stessa forma käscht ci mostra che il pronome dimostrativo prossimale aveva ancora la -t finale (oggi la forma è chësc). Infine, a livello sintattico osserviamo la presenza di una frase scissa (al sarà Iddio, che tla paja ‘sarà Dio a pagartela’, 8), e il raddoppiamento clitico del pronome di seconda persona, ma solo se il verbo inizia per vocale (tö te ās ‘tu hai’, 7; tö t’orōs ‘tu volevi’, 9; vs. tö vas’ ‘tu vai’, 2; tö saas ‘tu sai’, 11). Quest’ultimo dato è un’attestazione importante, perché ci permette di ricostruire la possibile origine del raddoppiamento clitico in badiotto, che (almeno stando alle prove fornite da questo testo) sembra essere nata per motivi fonologici, per evitare uno iato.

2.2 Matie Ploner Matie (Matthäus) Ploner nasce il 13 aprile 1770 a Ortisei. Frequenta la scuola di musica per ragazzi a Novacella. Alla morte del padre nel 1785, gli sussegue appena quindicenne come maestro e organista del suo paese natale, rivestendo anche una funzione di prim’ordine per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale. Non sentendosi sufficientemente apprezzato, nel 1800 si trasferisce a Castelrotto, dove svolge funzioni di prestigio (maestro, organista, procuratore giudiziario). Nel 1830 è nominato organista parrocchiale e maestro di canto a Bressanone, dove muore il 27 aprile 1845 (Bernardi/Videsott 2013, 136–137). Le sue opere più importanti sono Sechs «kleine Erzählungen» (sei aneddoti popolari in gardenese con traduzione in italiano e tedesco) pubblicati in Steiner 1807, 45–49 (primi testi ladini a stampa), La vedla Muta (La zitella) (22/01/1828), L vedl mut (Lo scapolone) (21/10/1828). Del Ploner conosciamo ancora alcune poesie d’occasione di valore letterario minore. «Moz Ploner può dirsi un caso del tutto isolato nella cultura gardenese dell’Ottocento» (Belardi 1995, 76). Ploner non era un uomo del clero e nei suoi testi è forte la nota personale. Nei versi in ladino parla con il lettore, oppure lascia parlare i suoi personaggi come parla (ancora oggi) la gente della valle.

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Sei piccoli aneddoti Le kleine Erzählungen di Ploner rappresentano l’inizio della letteratura narrativa in ladino. Non è possibile chiarire definitivamente se la versione originale di questi aneddoti fosse in ladino, e Ploner li abbia solamente trascritti (come però appare verosimile), oppure se li abbia tradotti in gardenese dal tedesco o dall’italiano. Aneddoto 5 (testo ripreso da Steiner 1807, 45). Ung vuem, tgiarià dœ debitg, kœ fova sterk ammalà, a dit a si cunfessœur, kœ la sœul grazia, k’œl avœssa da damandè a Dìœ, fossa d’y schlungiè la vita fin a tant, k’œl pudæssa pajè i debitg. L’cunfessœur kerdòva, kœ l’ammalà avæssa bona intention de sodeschfè ai debitœurs, y respuend, kœ kæsta fossa una bona gauscha pœr sperè, kœ Idìœ eschaude si preghiœra. Sche Diœ me faschæssa kæsta grazia, disch l’ammalà, se autang viers ung amic, fossi segùr dœ ne murì mèi. Un uomo, caricato di debiti, ch’era gravemente ammalato, ha detto al suo confessore, che la sola grazia, ch’egli avesse da domandare a Dio, sarebbe quella di prolungargli la vita fin’a tanto ch’egli potesse pagare i debiti. Il confessore credeva che l’ammalato avesse la buona intenzione di soddisfare ai creditori, e risponde che questo era un buon motivo per sperare ch’ Iddio esaudisca la sua preghiera. Se Iddio mi facesse questa grazia, dice l’ammalato, voltandosi verso un amico, io sarei sicuro di non morire giammai. (Steiner 1807, 47–48).

Nonostante l’ortografia adottata da Ploner si distingua abbastanza nettamente dall’uso odierno, la fonologia del suo ladino-gardenese appare già molto simile al gardenese parlato oggi. La grafia di questo testo ha molti punti in comune con quella di Pezzei (in particolare con i suoi componimenti badiotti): per -n velare (ung ‘un’; autang ‘voltando’), per l’affricata palatale /ć/ (tgiarià ‘caric(at)o’), per l’occlusiva velare (ma in fine di parola è : amic), per rendere sia /š/, sia /ž/ (disch ‘dice’ vs. gauscha ‘causa’). Inoltre, Ploner usa il grafema per rendere sia le /e/ dei monosillabi (dœ ‘di’, pœr ‘per’), sia le /ë/ (kœsta ‘questa’, sœul ‘solo’). È anche degno di nota che l’autore usi il grafema per la congiunzione ‘e’ (y respuend ‘e risponde’) e per il pronome clitico di terza persona dativo (d’y schlungiè ‘di allungargli’); la scelta è probabilmente dovuta alla necessità di distinguere queste forme dall’omofono articolo plurale, scritto i (i debitg ‘i debiti’). A livello linguistico, possiamo notare in fonologia la presenza del dittongo trascritto come œu (oggi : cunfessœur), la cui resa oscilla, fino alla Prima Guerra mondiale, tra e . Inoltre, troviamo casi di /é̜ / accentata in contesti in cui in seguito vi è stata una chiusura, come nell’infinito schlungiè (oggi šlungë ‘allungare’) o in mèi (oggi mẹ́ i ‘mai’). In morfologia, l’articolo indeterminativo mantiene ancora la uiniziale (ung, una), e non appare il clitico dativo ti, un’innovazione posteriore (cf. Gsell 1987). Nel lessico si segnala la locuzione sodeschfè ai debitœurs (‘soddisfare i creditori’; meraviglia il sostantivo ladino coniato sulla base debit-, come se stesse a significare ‘persona verso la quale si ha contratto un debito’). Infine, per la sintassi osserviamo

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che un complemento al dativo non richiedeva il raddoppiamento clitico, che oggi è obbligatorio (sodeschfè ai debitœurs ‘ripagare i debitori’), l’uso del gerundio, che è raro invece nei dialetti trentini e veneti (se autang ‘voltandosi’), e infine il mancato accordo dell’aggettivo in la sœul grazia (‘la sola grazia’), che compare nella forma non marcata del maschile. La vedla Muta e L vedl Mut Le due poesie cantate La vedla Muta e L vedl Mut rappresentano un unicum per la letteratura ladina, perché sono state scritte senza farsi limitare dai costumi benpensanti del periodo. Nelle valli ladine, come in molte altre aree, la tematica della zitella e dello scapolone era uno dei soggetti preferiti per canzoni ironiche (cf. Demetz 1982, 64). Le diverse redazioni de La vedla Muta comprendono da 6 a 12 strofe, mentre l’unica versione della poesia L vedl Mut è di 12 strofe. Altre poesie dello stesso genere sono invece andate perse: «De si cianties n’onse me plu n valgunes. […] I na gran pert ie danz unides desdrudes da tei, ke udova massa fosk, davia ke les ti savova m pue massa mondanes i da massa n bon umor» (Kalënder ladin 1915, 55). (Delle sue canzoni ne sono rimaste solo poche. […] In gran parte sono state distrutte da gente che vedeva tutto troppo nero, perché le poesie apparivano loro troppo mondane e di umore troppo allegro). Riportiamo qui la versione della Vödla Muta ripresa da Chiocchetti (1994, 182) [A] presa da Moroder-Lusenberg (1908 1908, 13) (cf. anche Gabrielli 1994, 165–168) e con la traduzione italiana in Chiocchetti (2007, 414–415). Forni (1996, 183) ritiene questa versione di 6 strofe la più anziana, perché sembra non essere stata censurata. La Vödla Muta 1.

La zitella

Ne giapà, song vödla Muta! die schana! chië cosa burta? ne giapè a maridè? je ne giape plu el sè ! Je song vödla y smarida, n’iancung Vödl me marida. Chie ei mei de seng da fè? Per un vuem ne muei picche vödla Muta uei restè. 2.

Non ne ho trovato, sono zitella per dio! che brutta cosa non trovar marito io non ne trovo più, lo so. Io sono vecchia e scolorita, neppure un vecchio mi sposa. Cosa mai devo fare adesso? Per un marito non mi voglio impiccare zitella voglio restare.

Se ben je, y ch’el böl Diè ch’è ben fat il fati miè; ma na Merda al schua, je ne n’e impò giapà! E’ prova pra 100 per diesa! y son corsa tant A dliesa: Sant Antone n’a schudà, dutg i Santg ma tralascha! dutg i Santg ma tralascha.

Lo so io, e quel buon Dio che ho pur fatto i fatti miei ma a nulla è servito non ne ho trovati lo stesso! Ci ho provato con cento, accidenti! Sono corsa tanto in chiesa Sant’Antonio non m’ha aiutato tutti i santi m’hanno abbandonata. tutti i santi m’hanno abbandonata.

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3. Vo Mutons, auteis la Völes do Dinei y do la Bölles. Ma de cuer je vè Wünsches, che la bölles ve crepes!!! Je ne fóve drè tan burta, un puec goba, stramba curta: ma da pò che n’è giapà, el Desdeng m’ha ruinà 4.

Voi ragazzi orientate le scelte verso i denari e le donne belle. Ma di cuore vi augurerei che le belle vi possano crepare!!! Io non ero poi così brutta, Un po’ gobba, stramba, corta ma poiché non ho trovato marito il disonore m’ha rovinato.

T’ortisei, ei fat la prova; ma de gung ne me tgialòva!! Dlaite ènche nò chëi da Sacun via dò! Chei Mutons la su da Bulla, marides in’and n’a Mulla. O Mutons dal cuer tan dur, la vendeta ven’g segur! 5.

A Ortisei ci ho provato ma nessuno mi guardava!! In alta valle nemmeno quelli di San Giacomo lo stesso! Quei ragazzi lassù di Bulla sposerebbero piuttosto un’asina. O ragazzi dal cuore così duro la vendetta vien di certo!

Je ne se, da de ai Uemes, che blestemes seurainuemes! giache vo mè eis tradì, muessi enche vè la dì: Ne ve fese plu Menines: ve sautesse gieng tla tlines!! Sibe vödl oder scheun, ve mazzes pa pu el Toun!! 6.

Io non so dire agli uomini che bestemmie e soprannomi siccome voi mi avete tradito devo pur dirvelo. Non vi farò più moine volentieri vi strapperei i capelli! Sia vecchio o giovane v’ammazzasse pure il fulmine!!

Gia per me, ne n’iel plu vella! me faré tost santarella, chest sarà per me Uneur, plu che fé cun vo l’amor. Se l’Wünschè ne schóva nia, me farè de dò mo Stria, y farè de vo un Mull, con la Coda soural Cull.

Già, per me non c’è più scelta mi farò presto santarellina questo per me sarà un onore più che far con voi all’amore. Se augurarvi non basta mi tramuterò poi in una strega e vi trasformerò in un mulo con la coda sopra il culo.

A titolo di paragone riportiamo qui la prima strofa del Vödl Mut ripresa da Chiocchetti (2007, 416–418) (con traduzione italiana), siccome riflette un quadro molto curioso e umoristico delle differenti prospettive di matrimonio di quel tempo. ‘L vödl Mut 1.

Lo scapolone

Öês giapà, bên 100 per una; ma scusà – ne m’à deguna me’ na bona ei cercà;

Ne avrei trovato ben cento per una, ma piaciuta non mi è nessuna. Solo una buona ho cercato:

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ma na tela n’ei giapà. Ie lassês inant la testa, chê mê to ‘na tel rie pesta, chê me da un tel guviern, sche c’un fossa te l infiêrn.

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ma una così non ho trovato. Ci rimetterei piuttosto la testa che prendermi una tal cattiva pasta, che mi dà un tal governo, come se uno fosse all’inferno.

Degno di nota è l’arrangiamento musicale ad opera di Johann Baptist Gänsbacher (1778–1844), uguale per entrambe le poesie (cf. Chiocchetti 1994, 169 e 2007, 413– 414), allora direttore d’orchestra del duomo di Vienna. La realizzazione ortografica usata dal Ploner nelle sue poesie più note è per un parlante di madrelingua gardenese a primo impatto inconsueta. Alla prima lettura si rivela però un gardenese molto familiare e poco differente dall’uso di oggigiorno. Il grafema viene utilizzato per i fonemi [š] e [ž], fenomeno usuale nelle ortografie ladine (e romance) di impronta tedesca (cf. Kattenbusch 1994, 176). [ž] può essere rappresentato anche dal semplice grafema . Le palatali occlusive-esplosive venivano al tempo del Ploner ancora differenziate in una [ć] sonora in Chie e in una [č] sorda in tgialòva. Se la realizzazione grafica del fonema [k] nei «Sei piccoli aneddoti» era ancora (kæsta), nelle due poesie trattate troviamo (crepes; puec), (che) o (picche). La distinzione della [n] dentale (scheun) e la [ŋ] velare (song; de gung) viene realizzata con una -g finale. Nel lessico spiccano due tedeschismi: oder invece di o e Wünschè che si adatterà in mbincë. Di italianismi troviamo cercà invece di cris e testa invece di cë. Per Belardi (1995, 74), la personalità eccezionale di Matie Ploner segna nei primi anni del XIX secolo l’inizio della letteratura ladina: «… la Vedla Muta può dirsi un fatto letterario: il primo, piccolo, fatto letterario della letteratura ladina».

3 Il romanticismo tardo-ottocentesco Dalla metà del XIX secolo abbiamo una rapida crescita di testi scritti in ladino e in alcuni casi spiccano già singole poesie di notevole livello poetico. Tra gli autori vanno menzionati anzitutto Janmatî Declara (1815–1884) di San Cassiano in Val Badia, parroco e decano a Pieve di Marebbe, autore della traduzione in ladino della vita di Santa Genoveffa (1878), pubblicata come Prum liber lading (cf. Bernardi/Videsott 2013, 270; ↗6 Coscienza linguistica e identità ladina, cap. 5), Firmiliano Degasper Meneguto (1828–1877) di Coiana di Cortina d’Ampezzo, autore verso il 1860 della prima poesia d’amore nota in ladino, Ara mé noviza ‘Alla mia sposa’ (cf. Bernardi/ Videsott 2013, 469–479); Giosef Brunel (1826–1892), primo rappresentante di spicco della letteratura fassana con ‘Na tgiantzong per la xent bona del 1856 (cf. Bernardi/ Videsott 2013, 351–369); nonché il badiotto Cyprian Pescosta (1815–1889) (cf. Bernardi/Videsott 2013, 250–256). Il primo autore a staccarsi dalla semplice letteratura d’occasione è però il marebbano Angelo Trebo.

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3.1 Angelo Trebo Angelo Trebo nasce il 24 gennaio 1862 a Pieve di Marebbe. Ebbe una giovinezza sofferta a causa della morte precoce dei genitori, e morì per malattia a soli 26 anni, il 23 agosto 1888, a San Martin de Tor/San Martino in Badia (Bernardi/Videsott 2013, 279). Trebo è ritenuto comunemente il primo «vero» poeta ladino: scrisse 27 poesie (edite da Dorsch-Craffonara 1988) e tre pezzi di teatro, in forma di operetta: Le Ćiastel dles Stries ‘Il castello delle streghe’ nel 1884 (Comploi 2010 2010), Le Scioz de San Jenn ‘Il tesoro di San Giovanni’ nel 1885 (Trebo 1968; riedito in versione diplomatica in Comploi/Videsott 2015, 102–201) e Trëi dis regina ‘Tre giorni regina’, opera rimasta incompiuta. Lui stesso era consapevole di scrivere letteratura: «Nach und nach werden auch unsere hartköpfigen Landsleute zur nützlichen Einsicht kommen, was wirklich schön und edel ist. Meine großartige Idee war von jeher, die Ladiner auch für Poesie, d. h. für edlere Gedanken im täglichen Leben ein bisschen empfänglich zu machen. Darum benütze ich noch fortwährend jede Mußestunde, um einstens vielleicht einen winzigen Anfang zu machen» (Trebo 1968[1887], 122–123) [Un po’ alla volta anche i nostri compaesani testardi capiranno cosa è veramente bello e nobile. Da sempre, la mia idea straordinaria è stata di rendere i ladini un po’ sensibili anche per la poesia, cioè per pensieri più nobili nella vita quotidiana. Perciò approfitto di ogni momento del mio tempo libero per riuscire forse un giorno a dare un piccolo contributo iniziale]. Le poesie di Trebo, che nel loro tono tardoromantico ricordano autori del romanticismo tedesco come Mörike, Eichendorff e Novalis, sono impregnate di temi tipici come l’amore, natura, nostalgia, solitudine, separazione, delusione amorosa, colpi del destino, speranza e morte. Contengono un forte individualismo psicologico che la letteratura ladina non conosceva ancora (cf. Dorsch-Craffonara 1988, 7–8). La poesia Ala net è con il suo desiderio di morte esemplare per il romanticismo (tratta da Dorsch-Craffonara 1988, 55; traduzione italiana da Belardi 1985a, 27): Ala net

Alla notte

Net tan dejidrada, vi! Vi, o regno scür dai semi! Vi con töa pêsc dal ci! Tèmo sö te tü bi gremi!

Notte tanto agognata, vieni! Vieni, o nero regno dei sogni! Vieni con la tua pace dal cielo; prendimi nel tuo bel grembo!

Stopa con to velo grisc düć chisc gragn tormonć dla vita! Pôrtemo t’en bel paîsc, co ligrëzes inće pîta!

Copri con il tuo velo grigio i grandi tormenti della vita! Portami in un paese stupendo che gioie anche sa offrire!

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Döt le bel spo ôi somié; da zacan spo les ligrëzes dötes ôi alerch cherdé, desmonćé m’ôi les tristëzes.

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La bellezza poi voglio sognare, le gioie poi di un tempo qui tutte voglio chiamare; e dimenticare voglio la tristezza.

Per Trebo sono sufficienti poche parole per esprimere concetti complessi, non solo grazie a combinazioni lessicali abili, ma soprattutto con immagini indimenticabili (cf. Plangg 1994, 256). Trebo racchiude nelle immagini il piccolo mondo della sua valle e della natura, con i fiori e i monti, in cui il mondo sentimentale rimane in primo piano. «Süs rimes plö beles é chëles che contëgn tristëza y dolur […]» (Le sue poesie più belle sono quelle piene di tristezza e di dolore), afferma Vittur (1970, 14).

3.2 Jan Batista Alton Jan Batista (Giovanni) Alton nasce il 21 novembre 1845 a Colfosco in Val Badia. Assolto il ginnasio a Bressanone e a Trento, studia filologia classica e francese all’Università di Innsbruck. Dopo alcuni anni di insegnamento secondario a Trento, Praga e Vienna, si iscrive a filologia romanza presso l’Università di Vienna, dove è allievo di Adolfo Mussafia, e ottiene la libera docenza nel 1885. Completata la sua formazione a Parigi, aspira alla neofondata cattedra di filologia romanza dell’Università di Innsbruck, ma non riesce ad imporsi contro Theodor Gartner. Nel 1899 è nominato direttore dell’i.-r. ginnasio di Rovereto, ma già pochi mesi più tardi, il 4 aprile 1900, viene assassinato dal compaesano Florian Großrubatscher di La Ila/La Villa (cf. Bernardi/Videsott 2013, 295–296). La bibliografia letteraria di Alton consiste di tre pubblicazioni miscellanee: Proverbi, tradizioni ed anneddoti [sic!] delle valli ladine orientali con versione italiana (1881), Rimes ladines in pèrt con traduzion taliana (1885, 21 rime ladine e 7 traduzioni libere in parte con traduzione italiana), nonché Stóries e chiánties ladines con vocabolario ladin-talian (1895, 22 poesie e canzoni ladine con un vocabolario ladino-italiano).. Alton è il primo ladino a studiare la sua lingua madre a livello scientifico, secondo i parametri della romanistica. Con i suoi scritti letterari voleva elevare il ladino a lingua scritta. Per Pizzinini (1962, 13) Alton è stato il «gigant dla leteratüra ladina» ‘il gigante della letteratura ladina’; in ogni caso si può condividere l’opinione di Castlunger/Pizzinini/Zingerle (1970, 32): «L’Alton é ste l prüm linguist, ch’à arè l ćiamp dl’idiom ladin denant che l trasformè te n’urt florì» [Alton fu il primo linguista ad arare il campo dell’idioma ladino prima di trasformarlo in un orto fiorito]. Importanti per la letteratura ladina sono specialmente i canzonieri Rimes ladines e Stories e chiánties ladines, che Alton pubblicò con l’intenzione «di abbellire quanto è intimamente collegato colla propria esistenza, quello, che mosse in ogni tempo e presso tutte le popolazioni una schiera di eletti ingegni a studiare a fondo la favella [...], ad

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abbellirla di bei modi ed a conservare e diffondere i resultati dei loro studî mediante scritti ed opere stampate» (Alton 1885, 3). In questo contesto, Alton non solo ha tradotto alcune Rimes ladines anche in italiano («Ad alcuni dei medesimi [componimenti poetici, RB] ci aggiunsi una versione italiana nella speranza di rendermi utile in tal maniera ai miei cari compatriotti», Alton 1885, 5), ma ha anche tradotto opere della letteratura mondiale, come per es. l’Erlkönig o Mignon di Goethe in ladino (cf. Bernardi/Videsott 2013, 301). L’opera letteraria di Alton è caratterizzata da un’epica lunga ed elaborata, scandita dalla metrica classica. Manifesta anche una coscienza identitaria ladina ben sviluppata, che si rispecchia in particolare nella poesia Ai Ladins (in Alton 1895, 27– 28): Ai Ladins: [1.] Oh, pròš Ladins, d’óš bèl lingaz tignidě cont! Tignidě cont plů kě podès del tešór, K’è plů preziůs dě troep kě důt l lůc da Sompont, Chi plů kě kël kě rëgna l mon, argënt e ór!

Ai Ladini Oh, bravi Ladini, onorate la vostra bella lingua! Onorate più che potete il tesoro Che è più prezioso che l’intero maso di Sompunt, Anche di più di quello che regna il mondo, argento e oro!

[2.] Oh, bonʼ Ladins, dʼ óš bèl lingaz chiarèdĕ bëgn, Oh, buoni Ladini, badate alla vostra bella lingua! Kʼ ès da óstes bones, pròses òmes arpé! Che avete ereditato dalle vostre care e buone madri! Dʼ èster n lotron e zënza cụr mĕ da bůr sëgn D’essere vili e senza cuore dimostrano in maniera negativa Ki dĕ si òma l lingaz nĕ sá respeté. Quelli che non sanno rispettare della madre la lingua. [3.] Půri Ladins, dʼ óš bèl lingaz festidĕ aèdĕ! Poveri Ladini, abbiate cura della vostra lingua! Con lei vi hanno le povere madri insegnato Con kël ves á les půres òmes a priè A kël bel Dī insignè; mai nel desmentièdĕ, A pregare Iddio; non dimenticatela mai, Šĕ nó podès chi Dī dʼ òs sĕ desmentiè! Se no anche Iddio potrebbe dimenticarsi di voi! [4.] Bravi Ladins, stimèdĕ l lingaz granmënter, Bravi Ladini, stimate la lingua alla grande, Arpé da ki Latins, pópol tan stodiè, Ereditata dai Latini, popolo talmente erudito, Bëgn arlevé, potënt trés da vèdlamënter, Molto educato, potente da sempre, Tĕ vigni véra aoşè dlonc a davagnè! In ogni guerra ovunque abituato a vincere! [5.] Paziënt’ Ladins, l lingaz ladin, d’onòr gran Pazienti Ladini, la lingua ladina, degna di dëgn, grande onore, Dan dal důt insignèdě a ůš pici mitons! Insegnatela soprattutto ai vostri piccoli bambini! Dě tegni cont dě nóš lingaz tòkela şëgn Perché dobbiamo adesso tener’ conto del nostro linguaggio E dě sě stravardé dai gran’ chiacolons. E salvaguardarci dai grandi chiacchieroni.

Panoramica della letteratura ladina

[6.] Rajonèdĕ, šĕ sès dĕ plů in adụm, ladin! Vigni ater lingaz lascen a can kʼ an mës; Tan kʼ i sá, rajonava i Latins tra ëi latin, Kʼ an daiĕ chi spó ai Ladins důt kël kʼ an dé i dës! [7.] Ed òs, dĕ l’arpejonga dĕ Cristo guardian’, Òs, kʼ arès n dí da dé dĕ kësta gran cont, Chiarèdĕ chi dĕ lʼ arpejonga dʼ i Roman’, Šĕ nó mĕ tëmi, k’ óš dovèr nĕ sī arjont!

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Parlate, se siete in gruppo, ladino! Ogni altra lingua si parla quando si deve; A quanto sappia, i Latini parlavano latino tra di loro, Che si dia allora anche ai Ladini tutto quello che è loro dovuto! E voi, dell’eredità di Cristo guardiano, Voi, che avrete un giorno di essa da dare conto, Badate anche all’eredità dei Romani, Se no ho paura che non abbiate fatto il vostro dovere!

4 La letteratura «di difesa» A cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio della Grande Guerra si può osservare una continua crescita della presa di coscienza identitaria ladina; essa sfocerà nella pubblicazione di alcune riviste, anzitutto da parte degli studenti ladini ad Innsbruck, come L’amik di Ladiŋs – Der Ladinerfreund (1905), ’l Ladin – Der Ladiner (1908), Kokodek! (1905 e 1910), nonché gli annuari Kalënder de G(h)erdëina (1911–1912), poi Kalënder Ladin (1913–1915) (cf. Bernardi/Videsott 2013, 104–117; ↗6 Coscienza linguistica e identità ladina, cap. 6 e ↗13, Il ladino nei mass media, in internet e nei social network). Caratteristica principale dei testi letterari di quest’epoca è il tentativo di dare ai ladini una dignità nazionale e di emanciparli dalle brame nazionalistiche da parte dei tedeschi e degli italiani, di modo che è stata chiamata «letteratura di difesa» (Chiocchetti 2000, 24). Franz Moroder (1847–1920), sindaco di Ortisei, e durante il tempo delle tensioni nazionali impegnato per il mantenimento della cultura e lingua ladina, ha scritto una poesia per introdurre il calendario ladino annuale Ladinischer Kalender/Calënder ladín della Val Gardena del 1914 con il motto: Messón tenì adum, La fòrza vën dal grum (Dobbiamo essere uniti, La forza viene dal mucchio) (Calënder ladín 1914, 28): ‘N salut al calënder

Un saluto al calendario

Te salude, blòt pitl calënder di Ladins, Scrit per chëi de Gherdëina y si uḡins!

Ti saluto, piccolo e carino calendario dei Ladini, Scritto per la gente della Val Gardena e i suoi vicini! Anche se sei ancora giovane, hai appena quattro anni, Molti ti aspettano e ti leggono veramente volentieri.

Še bënche mò ḡëun, de cater aňi permò žën, ’Mpò truepes t’aspieta y te lieč vöre giën.

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Še bënche de scritura no mò drë franc, Ai Ladins i ies-te drët enteressant, Y ëi se gòt a pudëi lieḡer si rusnèda, La rusnèda del’oma, dad ëi tan stimèda.

Anche se di scrittura non sei ancora perfetto, Sei per i Ladini molto interessante, E se la godono a poter leggere la loro lingua, La lingua madre, da loro talmente stimata.

Ši, te salude mò n’ jëde de cuer, tan plu,

Sì, ti saluto ancora una volta vivamente, tanto più Che soltanto tu ci hai svegliati come si deve. Adesso le abbiamo dato un vestito alla nostra lingua, Sebbene alcuni pensavano che fossa presto morta.

Percie tu nes ès permò drët dešedà su. Źën i onse dat ‘n guant a nòsta rusnèda, Še bënche vèle minòva che la fos tòš finèda.

O no desprezëde nòsta rusnèda, stimë-la De cuer, teni-la al aut y bën cultivë-la! La ie y nes sarà for de gran benedešion, Percie mè cun chësta ma[n]tegneronse nòsta nazión.

Non disprezzate la nostra lingua, stimatela Di cuore, tenetela in alto e coltivatela bene! Lei è e ci sarà sempre di grande benedizione, Perché solo con lei manterremo la nostra nazione.

5 Gli autori classici del XX secolo Il promettente movimento letterario ladino, che aveva preso l’avvio in tutte le vallate nell’800, è stato annientato dalla Prima Guerra mondiale e dal susseguirsi di fascismo, Opzioni, Seconda Guerra mondiale e occupazione nazista. Solo dopo la fine della Seconda Guerra mondiale la letteratura ladina riprende lentamente, in particolare mediante la lirica, che è più ricettiva degli altri generi verso quanto avviene nelle letterature limitrofe. Con l’ingresso nella modernità, anche la letteratura ladina adotta tematiche nuove, di valore generale ed universale. La patria ristretta perde la sua importanza primaria, perché spesso non costituisce più la residenza materiale degli scrittori ladini. Intimità, stato d’animo, soggettività, vulnerabilità, ingiustizia, critica linguistica e sociale, insomma anche i lati negativi della vita, penetrano nella letteratura ladina. Precursore e rappresentante d’eccellenza di questa corrente di autori «classici» è Max Tosi.

5.1 Max Tosi Max (Massimo) Tosi nasce il 1° marzo 1913 a Villanova Marchesana (Rovigo) da madre friulana e padre veneto. Fin da bambino trascorre le estati in Val Gardena, dove impara il gardenese e scrive a 15 anni la sua prima poesia Ansciuda inviërnela (Primavera invernale). Terminati gli studi universitari in Lettere e Filosofia all’Università Sacro Cuore di Milano, insegna in diverse scuole superiori dell’Alto Adige. Nel secondo dopoguerra si profila come uno dei primi sostenitori della lingua e cultura ladina. Il 4 novembre 1945 fonda a Merano, dove abitava, la Union Culturela di Ladins

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a Maran e il 4 aprile 1946 legge la prima trasmissione radio in ladino alla RAI di Bolzano (↗13 Il ladino nei mass media, in internet e nei social network, cap. 2.2). Nonostante il suo fervore per il ladino, Tosi non viene riconosciuto dai ladini come uno di loro, anzi, la sua opera è rifiutata e rimane incompresa. Accuse di omosessualità e pedofilia isolano ulteriormente l’autore, che muore amareggiato il 10 novembre 1988 a Merano (cf. Bernardi/Videsott 2013, 534–559). Tosi è uno dei primi autori ladini del dopoguerra ad oltrepassare l’orizzonte popolare e folcloristico, dando alla letteratura ladina un valore nuovo. Con i suoi testi trovano ingresso nella lirica ladina la forma del verso libero e una profonda individualizzazione. Tuttavia l’unica raccolta di poesie di Tosi, Ciofes da Mont. Poijies y pròses ladines (Fiori di montagna. Poesie e storie ladine) con 85 poesie e 19 testi in prosa, suddivisa nelle tre sezioni Ciofes da mont (Fiori di montagna: liriche di testimonianze d’amore per il ladino), Ciofes dë val (Fiori di valle: prosa d’intento didattico-moraleggiante) e Ciofes dë paluch (Fiori di palude: rime di descrizioni di situazioni quotidiane in maniera mordente e sarcastica), verrà pubblicata solo nel 1975 a cura della Union di Ladins de Gherdëina. Dalla raccolta Ciofes da Mont riportiamo qui una poesia che Tosi ha scritto nel 1939 (ripresa da Tosi 1975, 31, traduzione italiana ripresa da Belardi 1985a, 41): Nchersciadum de surëdl

Nostalgia di sole

L ië sta t’n di timplnënt ciarià dë plueia canch’ la cajerma pëigra së descëida ch’ të chëurt, japé dë n lën, bel zënza fueia, é cialà ju, sul paltan dla tiëra frëida.

Fu in un giorno umido, carico di pioggia, nell’ora che la caserma pigra si svegliava, che nel cortile, presso un albero spoglio, volsi lo sguardo sulla terra fredda

Y sui tëc moi dla zità ajnibleda y scura ch’ së deseniova d’la dal mur aut, dë beton, tl ciel, chë zënza triëva no mesura semiova ch’ bradlëssa tl grijëur dl auton.

e sui tetti lustri della scura città rannuvolata, che appariva dietro il muro alto di cemento, nel cielo, che, senza tregua né misura, sembrava piangere nel grigiore dell’autunno.

Tòsc n sucrët ncrëscer dë surëdl m’ ië frì ite tl cuër, cun si turmënt; flinch l pensiër à tëut l jòl te mi vedl Tirol, tlassù pra l’ oma y pra mi jënt.

D’un sùbito una nascosta nostalgia di sole mi entrò nel cuore, con il suo tormento. Rapido il pensiero volò via al mio vecchio Tirolo, lassù vicino a mia madre e alla mia gente.

Y schë për l sòlit ntravën tla fantasia é udù Maran, ai piësc dë si Ciastel, cunfort d’ na vita strabaceda y ria, benedida vision dë n tëmp passà - tan bel!

E, come solitamente avviene nella fantasia, vidi Merano, ai piedi del Castello, conforto di una vita faticosa e dura, beata visione di un passato bello!

L’opera di Tosi spicca principalmente per le sue poesie. «L’ ‘altro’ [la prosa, RB] sarebbe rimasto un episodio di paese» (Belardi 1985a, 14). Tosi, di madrelingua friulana, ha scelto il gardenese come lingua letteraria. È il primo poeta che innalza il ladino a un livello letterario moderno, e per la prima volta la lingua poetica non

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corrisponde più completamente alla lingua parlata. La sintassi e il lessico sono piegate a tutte le libertà artistiche. Con Tosi la lingua ladina ottiene un valore proprio, atto a sperimentare ed elaborare l’arte letteraria. Il suo ruolo di pioniere per la letteratura ladina oggi è incontestato.

5.2 Frida Piazza Frida Piazza nasce il 31 gennaio 1922 a Urtijëi/Ortisei. Durante la Seconda Guerra mondiale lavora per cinque anni in un ospedale a Karlsruhe, dove riceve una formazione da infermiera. Ritornata in Val Gardena, frequenta la scuola d’arte ed impara a scolpire in legno. Il fulcro della sua attività artistica si sposta però gradualmente verso la scrittura in ladino. Di spirito acceso e combattivo, ottenne vari riconoscimenti per le sue pubblicazioni. Muore il 3 novembre 2011 a Urtijëi/Ortisei (cf. Bernardi/Videsott 2013, 599–621). Piazza è generalmente considerata l’autrice di maggiore importanza per la letteratura ladina contemporanea. La sua opera letteraria (non ancora pubblicata integralmente e affidata – prima opera omnia di uno scrittore ladino – al Brenner-Archiv di Innsbruck) comprende numerose traduzioni di letteratura mondiale in ladino (per es. le Stories de Anton Cechov del 1968 o Menizles, traduzioni di poesie di 149 autori della letteratura mondiale del 1999), saggistica e libri per bambini, ma soprattutto una produzione di prosa e lirica di alto livello. Traspare chiaramente l’intento primario di mantenere e avere cura del ladino. A questo fine Piazza rielabora la sua lingua madre, ricercando e rianimando il lessico antico e creando neologismi, arrivando alla formazione di un ladino colto. Alcune delle sue poesia nascono come mero esperimento linguistico. Nel 1988 Piazza pubblica il primo romanzo in ladino L Nost. Ustoria de na vita (Il Nostro. Storia di una vita). Attraverso la storia della vita del pastore Nost, il romanzo racconta la storia di più generazioni in una valle di montagna, dalla metà del XIX alla metà del XX secolo. La morte del protagonista principale segna anche la fine irrevocabile dei tempi arcaici. El fova n cherdl de n mut, n zapa ghert i sciablù, da braces curc y na gropa stania, da mans sciche ciaspes cun deic che parova n fregul agaiei. El fova n bót da rion, de giames ben sentedes seura, de cë y mus l dando de un fin y lonch, ncaunià sun n col curt: n veir ciuch de n mut. La gran ueia de viver y de fé ti lunova dai uedli ora, deguna fadia ne l sprigulova. L ova dut l moto de deventé n gardon, y el l fova eder deventà ncie sce... ruvà ai undesc ani fova suzeduda chla desgrazia. (Piazza 1988, 38) Era un ragazzetto di costituzione sana, tarchiato e robusto, con braccia corte e schiena solida, mani a scodella, e dita tutte uguali per lunghezza da sembrare tarpate; un marmocchio pieno di vigore, le gambe ben piantate, testa e faccia inzeppate su un collo tozzo, il contrario esatto di ciò che è sottile e lungo: un vero pezzo di figliolo. Dal suo sguardo traspariva una gran voglia di vivere e di darsi da fare. Le fatiche non lo preoccupavano. C’erano tutte le premesse perché

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diventasse gagliardo; e di fatto lo diventò, malgrado la disgrazia accaduta all’età di undici anni. (traduzione di Belardi 1988, 39)

Come per miracolo il Nost sopravvive a 11 anni a una rovinosa caduta, che però blocca la sua crescita e gli causa una gobba: L palancin se mpleniva y l Nost mussova se meter a ventrons per sburdlé la manes plu y plu aut seuraite, sot al fonz dl segondo palancin. Te n bòt fovla stata. L peis de cë y sciables l ova trat danter la venteuses ora y ju. L puere corp fova tumà cun n smerdl dan stala sun la tiera batuda. Pere y oma y l majer fova dre jnudlei te ciamp; l fova venerdi y l sunova la trei n lecurdanza dla mort dl Senieur, y ei, se tulan ju l ciapel per reverenzia a d’El, maneisc dla abundanza y dla ciarestia, tla fidanza de abiné tan de steies de blava da fé puenta nchin al an do, se periova ca chla bendescion da Die. Ueder, che ova dre purtà ite manes, sautova adalerch svaian dut ora de fla. (Piazza 1988, 60) Il ballatoio si andava riempiendo, e il Nostro era costretto a mettersi a pancia sotto per collocare i covoni sempre più in alto, fin quasi al soffitto formato dal ballatoio superiore. Successe all’ improvviso. Il peso della testa e delle spalle lo tirò giù tra i pali prospicienti. Quel povero corpo cadde davanti alla stalla, con un tonfo, sulla terra battuta. Giusto allora il babbo, la mamma e il maggiore dei figlioli stavano inginocchiati nel campo. Era venerdì. Suonavano le tre, a ricordo della morte del Signore, e loro, toltisi il cappello per rispetto verso di Lui, arbitro dell’abbondanza e della carestia, fiduciosi di mettere insieme tante staia di grano da arrivare fino all’anno successivo, invocavano la benedizione di Dio. Ulrico, addetto a portare i covoni al fienile, sopraggiunse correndo e gridando aiuto, tutto ansimante. (traduzione di Belardi 1988, 61)

Così vengono descritti gli anni di terrore della Seconda Guerra mondiale (Piazza 1988, 216): Chisc, canche la fova rumpida ora, se la teman de mussei jì, se ova metù a una cun si cumpanies, i fredesc de Sotanives, de se fé nzaul n scundadoi. Da nuetes de luna ovi laurà sche mac, cun sfadiament y stracedes tribles a se fé na tambra de stanges tla luegia plu salvera, do na tel costa su, te chla boscura seura n cherzuel, ulache ben mei dant ne arà metù pe persona. Ei l’ova spartida te doi pertes: te una la prices te l’autra l fudlé. Ajache, do che i l’ova desmeneda y pustejeda, fovi ruvei a sentenzië: «No, tla viera ne jons! Jì a mpunté l stlop sun zachei? Meiauter!». La viera udova ei per na mplanteda de i veir demons, per la majra daudanza dla «curona dl crià». Ma pona fova jites ncanteur ujes che i batova a fonz, ujes de cie che ti fossa suzedù ai siei de familia a chi che se essa nfidà a no ulghé a la tlameda. Al momento dello scoppio della guerra, i figli, temendola, si erano accordati con i loro amici di Sotanives di allestirsi da qualche parte un nascondiglio. Durante notti di luna avevano lavorato da forsennati, con strapazzi e fatiche tremende, per costruirsi un rifugio di tronchi e di assi nel posto più selvaggio, dietro a un costone, dentro una boscaglia situata sopra una rupe, dove forse mai prima di allora qualcuno aveva posto il piede. L’avevano suddiviso in due vani: in uno le brande, nell’altro il focolare. Infatti, dopo avere discusso e dibattuto a lungo, erano giunti a una decisione: «No! in guerra non ci andiamo! puntare il fucile contro il prossimo? giammai!».

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Giudicavano la guerra una delle opere del demonio, la vergogna massima della «corona del creato». Poi cominciarono a circolare voci che li demoralizzarono, voci di cosa sarebbe successo ai familiari di coloro che avessero osato eludere la chiamata (traduzione di Belardi 1988, 217).

«Con la Piazza – e parimenti con Tosi – la prosa d’arte gardenese raggiunge i livelli più alti di complessità formale, sintattica e lessicale» (Belardi 1984, 313 n. 47).

5.3 Luciano Jellici Luciano Jellici nasce il 26 giugno 1928 a Moena. Frequenta le scuole superiori a Trento e a Bolzano, dove si iscrive anche al conservatorio. Intraprende gli studi universitari di chimica all’Università di Padova, dove in seguito rimane come docente, senza però mai allentare i contatti stretti con la valle natia. Muore a Padova il 30 gennaio 2006 (cf. Bernardi/Videsott 2013, 1139). Con il rinnovamento della letteratura ladina nel secondo dopoguerra si allarga anche la gamma delle tematiche trattate. Un soggetto predominante degli anni 1960–70, specialmente in Val di Fassa durante l’aishuda fashana (primavera fassana), è il mal de ciasa, la nostalgia di casa. Le immagini idilliache del paese natio, con le montagne arrossate al tramonto, finora cantati in maniera idealizzata e patetica, si trasformano ora in sofferenza e rimpianto. Anche nei componimenti di Jellici troviamo il desiderio e la nostalgia di casa, però questi sentimenti vengono intensificati e ridotti all’essenziale dell’esistenza umana. Belardi (1985b, 96) parla di una «poesia distillata e concentrata». Trattando tematiche tradizionali, ma in maniera provocatoria, Jellici accusa la società di aver causato la rovina irrimediabile del mondo passato. Nel 1981 esce la raccolta raìsh desmenteada (Radice dimenticata). In essa viene superato l’attaccamento al mondo ladino e trattata in maniera universale l’esistenza umana. Tipico per le poesie corte e concise di Jellici è il suo utilizzo di parole chiave, ripetizioni e pause precise (cf. Heilmann Grandi 1983, 119–121; Belardi 1985b, 87–89), come ci viene dimostrato nella seguente poesia che fa rabbrividire (testo ladino in Jellici 1981, 19; traduzione italiana di Belardi 1985a, 175): I più i s-ciava la tera

I più scavano la terra

I più i s-ciava la tera zenza ‘ntraveder en grop de fior dò na salea. I più i s-ciava la tera.

I più scavano la terra, senza poter scorgere un cespo di fiori, sotto a una grondaia. I più scavano la terra.

I più i s-ciava la tera demò, co la furia de na raìsh desmenteada. E i autres, i li sotera.

I più scavano la terra soltanto, con la furia di una radice dimenticata. E gli altri... li sotterrano.

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5.4 Felix Dapoz Felix Dapoz nasce il 17 maggio 1938 a La Valle in Val Badia. Fin da bambino mostra una spiccata predilezione per il canto. Dopo le scuole superiori a Bolzano e a Merano studia per alcuni mesi musica sacra all’Università di Vienna. Nel 1966 si trasferisce a Dobbiaco, dove insegna per 25 anni materie letterarie alla scuola media, ed è attualmente direttore del coro e organista (cf. Bernardi/Videsott 2013, 884–885). Dapoz è il maggiore rappresentante «classico» della lirica ladina moderna. Le sue tematiche si accavallano in gran parte con le tematiche di altri scrittori ladini – la natura, la persona, l’arte, l’amicizia, l’amore, la religione, la morte –, senza però essere caratterizzate dallo stesso forte legame con la valle natia che si percepisce negli altri scrittori coevi. Dapoz si stacca sempre più dalla strettezza e limitazione della sua patria locale e le sue tematiche diventano sempre più universali; per questa ragione Belardi (1985b, 107) lo definiva «il poeta [ladino] più internazionale». Nel 1982 esce la raccolta di poesie In banun ‘Solitudine’ (letteralmente: ‘girovagare’). Il titolo richiama una delle sue poesie più conosciute, che dà l’impressione di quadri musicali. Dapoz è anzitutto compositore e direttore di coro, cosa che si rispecchia anche nel ritmo e nella metrica delle sue poesie: «Pro Felix Dapoz ne pon dessigü nia despartí la musiga dala poesía: la furtüna de avëi talënt pur un y pur l’ater, arichësc vigni composiziun, sides de notes che de parores» (Di Felix Dapoz non si può assolutamente separare la musica dalla poesia: la fortuna di avere talento per ambedue le arti arricchisce ogni composizione, sia quella di note sia quella di parole) (E. Frenes in Dapoz 1982, 8). Riportiamo qui la poesia omonima della raccolta In banun (Dapoz 1982, 29, traduzione italiana ripresa da Belardi 1985a, 223): In banun Spantadl ingrafagné pur strümia largüra baudia in banun, asmata imbaní la ćiantia scarzada co sbürla ersura lumbel de melodìa três erpa stlainada sfruziada pro incomper slunfè di talpinas. Palajè tla sciampada al crista te pëgnes pur snagazada craugnënta sbuacian salmöra d’aussënt. La rëna in flama sprìgura vidures

Solitudine Spaventacchio stazzonato su una muta distesa si lamenta solitario; scimmiotta scoperto il canto spezzato che spinge con difficoltà brandelli di melodia attraverso un’arpa arruffata, frantumata, tra goffi rigonfi di talpai. Nella fuga, nascosto, geme in acquitrini per lo sbattimento insistente, ubriacandosi d’infuso d’assenzio. La nebbia in fiamme sgomenta violini

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dî sfenüdes. Gramura pióra incrusc la sëćia.

da tempo spaccati. Gramola sfilaccia all’intorno l’aridità.

Particolarità inconfondibile dell’autore è senza dubbio il suo linguaggio poetico. Dapoz scrive nel ladino della Val Badia con caratteristiche idiomatiche di La Val/La Valle. Le poesie sono però molto differenti dalla lingua colloquiale usata da gran parte degli autori ladini. Non si è più di fronte a un ladino parlato quotidiano, si tratta bensì di un ladino d’arte, come già nella lirica di Frida Piazza. Alla prima lettura si ha persino l’impressione di una lirica ermetica e quasi incomprensibile. Una marea di parole e di quadri ci inonda. Ma una lettura ed immersione ripetuta nelle sue poesie apre un mondo stratiforme e ricco di fantasia, che colpisce il lettore in maniera accattivante. Nel 1982 i lettori ladini non erano però ancora maturi per poesie di questo tipo e Dapoz venne a malapena percepito dal mondo letterario – anche per mancanza di traduzioni e recensioni. Oggi invece l’alto livello delle sue poesie viene generalmente riconosciuto, come testimonia anche l’edizione L’opera poetica di Felix Dapoz edita nel 2009 a cura di Carlo Suani.

6 Sguardo al XXI secolo Nella letteratura ladina contemporanea si possono osservare delle correnti parallele. Fino ad oggi esiste in molti paesi delle valli ladine una produzione letteraria di lirica d’occasione e di teatro che è molto presente con opere tradizionali da parte di poeti più legati al territorio. Dall’altra parte ci sono gli autori con formazione universitaria e che normalmente padroneggiano, oltre alla lingua madre, più lingue straniere. Il benessere crescente, le possibilità di istruzione, le opportunità di viaggio, l’influenza delle letterature limitrofe hanno creato un terreno fertile per un aumento della qualità della letteratura ladina. Tematiche universali come la vita, la morte, l’amore ecc. permangono tuttora nelle opere letterarie ladine, però in veste nuova. Un rinnovamento radicale si osserva invece nell’immaginario morale e religioso. Nelle creazioni letterarie delle generazioni più giovani gli argomenti tradizionali legati alla religione cattolica si trasformano in spiritualità universale. Molte tematiche che in passato erano censurate vengono oggi trattate liberamente: la sessualità, il femminismo, l’omosessualità, il suicidio, lo stupro, la pedofilia, la prostituzione, ecc. Anche se singole opere della letteratura ladina reggono il confronto con le opere delle cosiddette grandi letterature, la letteratura ladina in quanto tale non potrà mai concorrere pienamente con esse. Per la letteratura ladina è perciò auspicabile che cerchi una sua propria strada, con forme originali ed una lingua propria: una lingua ladina che si rinnovi nel suo stile e nella sua forma espressiva. Con ciò non intendia-

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mo il rifiuto della tradizione tramandata, ma piuttosto la ricerca di soluzioni innovative per problemi attuali, prendendo le mosse dalle solide basi della tradizione. L’attività degli scultori ed artisti ladini, ampiamente apprezzati e riconosciuti, potrebbe fungere da esempio per gli autori ladini contemporanei: attraverso il loro rinnovo dell’originalità tradizionale hanno saputo farsi conoscere e crearsi una strada. Riteniamo che la ristrettezza spaziale della letteratura ladina non sia d’impedimento per un rinnovamento ed una modernizzazione in questo senso. Per una letteratura di valore non occorre assolutamente l’ambiente di una grande città. Anche nei posti più isolati, come in una stalla, oppure nei luoghi più affollati durante l’alta stagione turistica può nascere letteratura contemporanea. Gli scrittori ladini devono «solo» reinventare la letteratura ladina (cf. Riatsch 2008, 30–34), perché secondo Belardi (1985b, 123): «La ‘voce’ della Ladinia, [...] appartiene al regno della poesia, non al regno pragmatico, economico e diacronico della storia. [...] La letteratura ladina, pur giovanissima e assai poco letta, è la voce più alta della coscienza ladina, perché ne esalta il linguaggio e con esso l’universo del suo sentire poetico. È una voce libera, non inquinata da pretesti politici e non umiliata da imposte condizioni di ‘tutela’».

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Sabrina Rasom

9 Storia della normazione ortografica del ladino Abstract: Questo articolo si propone di studiare il percorso di normalizzazione della grafia delle varietà ladine brissino-tirolesi. Viene descritto l’approccio alla normazione degli autori e normatori del ladino a partire dai primi pochi testi scritti del XVII secolo fino ai giorni nostri. Partendo dallo studio Die Verschriftung des Sellaladinischen (Kattenbusch 1994), è offerta una panoramica diacronica dei diversi approcci alla scrittura di queste varietà, individuando le peculiarità fonetiche e le soluzioni proposte nella direzione di una grafia unificata interladina, e completando i dati sul percorso normativo con le riforme ortografiche degli ultimi anni, all’insegna della semplificazione e della fruibilità. La descrizione linguistica è accompagnata da una riflessione sociolinguistica, ritenuta indispensabile per poter offrire un quadro dettagliato della normazione di questa lingua di minoranza, anche col fine di dimostrare come fattori extralinguistici possano influenzare la normazione.  

Keywords: ladino brissino-tirolese, normalizzazione linguistica, grafia, lingue di minoranza, sociolinguistica  

1 Introduzione al tema e contenuti Descrivere in poche pagine la storia della normalizzazione grafica del ladino brissino-tirolese significa dare una visione d’insieme del percorso avvenuto a partire dal secolo XVII, ovvero dalle prime rarissime testimonianze scritte di questa varietà, poiché la normazione di una lingua e i primi passi verso la sua normalizzazione nascono proprio nel momento in cui qualcuno prova a dare un’immagine visibile, scritta, di un idioma fino a quel momento solamente parlato. Verranno presi in esame gli approcci normativi attuati per il ladino nelle singole varietà, studiando i punti di vista dei protagonisti di questo percorso; saranno descritti sommariamente i fonemi, le peculiarità e le variazioni fonetiche, mostrando le soluzioni proposte in diacronia e in sincronia dai diversi scrittori e normatori e i risultati raggiunti sia a livello locale che sovravallivo; in conclusione verrà proposto un approccio critico al tema trattato.

https://doi.org/10.1515/9783110522150-010

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2 Normare e normalizzare graficamente una lingua Normare una lingua significa darle uno status ufficiale, dotarla di tutti gli strumenti per essere parlata, usata e scritta a livello grafico, lessicale-terminologico e grammaticale. Normalizzare una lingua significa invece attuare una serie di interventi mirati e di strategie, al fine di diffonderne l’uso in tutti gli ambiti della vita sociale e familiare e di innalzarne il prestigio, creando uno standard, ossia una varietà che per ragioni storiche, sociali, politiche e anche linguistiche detiene uno status ufficiale. La normazione grafica è uno dei primi passi verso la normazione linguistica. Chi parla e scrive una lingua di maggioranza ormai normata e standardizzata da tempo, dispone di un complesso insieme di regole stabilizzate e certe. Diversamente accade con le lingue di minoranza e con tutti quegli idiomi, varietà o dialetti (in qualsiasi modo si vogliano chiamare) che non hanno avuto una lunga tradizione scritta e che, per ragioni diverse, non sono mai stati normalizzati. In alcuni casi anche piccole lingue sono state usate in forma scritta, tuttavia senza alcun obiettivo degli autori di proporre un sistema grafico prescrittivo e generale, e dunque spesso con esiti molto diversi nella resa dei suoni. È solamente nel momento in cui si decide di usare una varietà anche in forma scritta ai fini della sua normalizzazione che si avvia il percorso di normazione e standardizzazione linguistica. Servono dunque delle regole, innanzitutto grafiche, che valgano per tutti e che vengano accettate da tutti. Si parla di uso normale della lingua quando questa viene appunto normalmente usata in ogni ambito della società e ad ogni livello e registro, sia in forma parlata che anche scritta. In questo paragrafo saranno presentati i vari tipi di normazione grafica in riferimento al percorso normativo del ladino brissino-tirolese, approfondendo anche come fattori esterni alla lingua possano influenzare la normazione grafica.

2.1 Tipi di normazione grafica Nel percorso verso la normazione linguistica di una lingua di minoranza, la scelta della scrittura risulta relativamente facile, poiché solitamente viene usata quella della lingua maggioritaria attraverso la quale è stata ricevuta dal parlante l’educazione primaria e che è riferimento per tutto ciò che si è potuto fruire in scrittura fino a quel momento. Più difficile invece risulta la scelta del tipo di normazione grafica. Come osservano Iannàccaro/Dell’Aquila (2002, 36), «le scelte che si pongono davanti ai pianificatori linguistici sono sostanzialmente tre: un’ortografia fonetica (ossia che rispecchi il più possibile il rapporto biunivoco fra suoni della varietà da standardizzare e sistema grafico), un’ortografia di tipo etimologico, che cioè renda evidenti le derivazioni e gli apparentamenti diacronici delle forme linguistiche, al di là della loro forma attuale, e un’ortografia che possiamo chiamare mista, ossia in parte fonetica e in parte etimologica, tradizionale per la lingua». Le modalità di normazione della

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grafia proposte presentano pro e contro evidenti: se infatti il sistema basato sulla fonetica porta spesso a rendere graficamente tutti i tratti distintivi, che lo rendono pesante e difficilmente praticabile, il sistema basato sull’etimologia potrebbe aiutare a ricondurre i suoni ad un unico fonema storicamente valido, ma non più legato alla sincronia: ciò rende l’apprendimento della scrittura difficile e poco intuitivo. Spesso dunque, come sottolineano Kattenbusch (1994, 29) e Iannàccaro/Dell’Aquila (2002, 37), i sistemi normativi della grafia di una lingua sono misti, ovvero si avvalgono di entrambe le possibilità, al fine di bilanciare le scelte grafiche e di proporre un sistema il più possibile facile da adottare. Studiando la storia della normazione grafica delle lingue, emerge spesso la necessità, sentita sia dai parlanti che decidono di mettere per iscritto la propria varietà anche solo per ragioni letterarie (e dunque non con specifiche finalità normative) che dagli stessi normatori, di usare una grafia il più possibile trasparente dal punto di vista fonetico, al fine di permettere al lettore di comprendere la lingua e percepirne i suoni. Si tratta dunque della necessità di far riconoscere la lingua attraverso la sua rappresentazione grafica, in modo che il parlante non si senta lontano o estraneo ad essa. D’altro canto tuttavia emerge anche la necessità di rendere la grafia semplice e accessibile a tutti. È dunque necessario che il sistema grafico registri le peculiarità fonetiche, senza tuttavia eccedere nell’uso di segni che la appesantiscono e la rendono difficile alla lettura e alla scrittura. In questo contesto, spesso si afferma che una grafia il più possibile fedele al suono della lingua è apprezzata dal parlante e permette a chi si avvicina come nuovo locutore di impararla e evincerne i suoni (la pronuncia) attraverso la sola lettura. Questa posizione tuttavia è vera solo in parte, poiché spesso i segni diacritici e la resa grafica di una lingua attraverso simboli fonetici la rendono pesante e poco intuitiva: il parlante medio, non linguista, non conosce comunque le corrispondenze fra simboli fonetici e suoni e e viene a trovarsi di fronte a un sistema grafico a lui completamente sconosciuto. Ben scriveva lo svizzero Robert von Planta nella sua lettera al gardenese Franz Moroder del 9 giugno 1913, citata in Kattenbusch (1994, 159), in piena discussione sulla questione della grafia ladina, in cui sottolineava la necessità di creare una grafia semplice: «Wissenschaft und Leben sind zwei ganz verschiedene Dinge mit ganz verschiedenen Ansprüchen. Ihre Grödner Orthographie soll dem Leben dienen und nicht der Wissenschaft. Also weg mit allem, was für den lebendigen Gebrauch, im praktischen Leben, überflüssiger Ballast ist. Solcher Ballast ist nicht nur überflüssig, sondern auch schädlich, weil er die Leute glauben macht, es seien besondere Schwierigkeiten vorhanden bei der schriftlichen Wiedergabe des Grödnerischen… Das erste Prinzip soll also Einfachheit sein! […]. Der Fremden wegen, die eine Sprache lernen wollen, kann sich kein Volk eine komplizierte Orthographie aufbürden» [La scienza e la vita sono due cose completamente diverse con obiettivi completamente diversi. La Vostra ortografia gardenese deve servire la vita e non la scienza. Quindi facciamo a meno di tutto ciò che per l’uso vivo, nella vita pratica, è una zavorra superflua. Questa zavorra non è solamente superflua, ma anche dannosa, poiché fa pensare alla gente che sussistano difficoltà particolari nella resa grafica del gardenese… Il principio primo deve dunque essere la semplicità!

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[…]. A causa degli stranieri che vogliono imparare una lingua un popolo non può accollarsi il peso di un’ortografia complicata].

Analogamente, in riferimento al bisogno di semplicità nella normazione linguistica, nel Kalënder ladin per l’an 1915 (pp. 41–42), si legge: «Die Schreibweise soll für das ladinische Volk, nicht für Gelehrte oder Fremde berechnet sein; deshalb sollen die peinlichen Unterscheidungen früherer Schreibweisen, wodurch das ladinische Schrifttum dem Volke schwerer zugänglich gemacht wird, vermieden werden» [Il metodo di scrittura deve essere pensato per il popolo ladino, non per eruditi o stranieri; per questo devono essere evitate le differenziazioni pignole delle grafie precedenti, che rendono la letteratura ladina più difficilmente accessibile al popolo]. L’opinione di von Planta è categorica: non è detto che un’ortografia pesantemente fonetica sia quella ideale nemmeno per i nuovi parlanti. Della stessa opinione fu Alton (1879) (cf. Kattenbusch 1994, 90), che evitò i diacritici sulle consonanti, ma non trovò alternative per le vocali. A tal riguardo, Iannàccaro/Dell’Aquila (2002, 37) approfondiscono il tema della scelta grafica di una lingua standard solo scritta, quale quella del rumantsch grischun e del ladin dolomitan, entrambe proposte da Heinrich Schmid (1982; 1998); in questo caso, trattandosi di lingue standard scritte e non parlate, si può optare per scelte grafiche più distanti, semplici e astratte rispetto alle varietà parlate a cui il sistema grafico dovrebbe fare riferimento. Nella normazione grafica intervengono tuttavia ulteriori fattori, che si discostano dal campo prettamente fonetico e etimologico e fanno invece riferimento al sistema morfosintattico di una lingua: i morfemi e la loro distribuzione all’interno della parola possono influenzare, non solo per ragioni fonotattiche, la grafia e l’ortografia di una lingua.

2.2 Fattori esterni nella scelta della norma grafica La normazione ortografica, come abbiamo già avuto modo di osservare, si può considerare il passaggio primo e più visibile del processo di normazione/standardizzazione di una lingua, poiché da esso scaturiscono tutti gli altri processi di normazione (lessicale, grammaticale, ecc.); si può riassumere con la seguente immagine: la comunità che intende normare la propria lingua parlata la consegna al normatore in una valigia, il linguista si allontana con questo bagaglio fatto di suoni e parole che racchiudono in sé e raccontano la storia di quel popolo; la lingua non scritta è una lingua in qualche modo silenziosa, nuda e incontaminata, mai raccontata. Come sottolineano Iannàccaro/Dell’Aquila (2002, 38), «La scrittura, come è noto, altera in modo fondamentale i rapporti fra la lingua e il suo utente: da un lato la presenza di una forma scritta conferisce un alto valore al linguaggio, che viene appunto percepito come una lingua e non come un insieme di dialetti dispersi; dall’altro […], una volta

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che una lingua ha acquisito la forma scritta, questa sembra vivere di vita propria: appare cioè subito più astratta, oggettiva, e permette la riflessione metalinguistica». Dopo averla studiata, rielaborata e vestita della forma scritta, il linguista ripone nuovamente la lingua nella valigia e la riconsegna ai parlanti, i quali ora la possono vedere, percepire non solo più in maniera astratta, udendola e pronunciandola, ma anche osservandola dall’esterno. A questo punto si innesca nel parlante un meccanismo di estraneità nei confronti della sua stessa lingua madre. «Dunque i valori simbolici legati all’ortografia sono molto forti», continuano Iannàccaro/Dell’Aquila (2002, 38). Solitamente infatti una lingua normata e standardizzata spazza via inflessioni dialettali e variazioni linguistiche che, anche se minime, la rendono non più completamente riconoscibile al parlante stesso, che si rende conto che «la varietà che gli viene proposta come lingua comune non è mai perfettamente la sua varietà, la lingua cui egli lega la propria identificazione primaria». Entrano qui in gioco reazioni contrastanti: poiché appunto la grafia non rende tutti i tratti fonetici peculiari e variabili, nascono sentimenti di purismo dialettale e di bisogno del locutore di rendere quei tratti particolari che lui sentiva propri. Può succedere anche che il parlante trovi nella lingua scritta tratti che non sente appartenere alla sua sottovarietà, bensì a quella vicina: per questo il normatore potrebbe preferire o proporre una normazione molto vaga e generale, che, lontana da ogni inflessione e tratto tipico, lascia spazio a interpretazioni fonetiche diverse e dunque accontenta diversi parlanti di diverse sottovarietà. Anche quest’ultima tuttavia può non rivelarsi la soluzione migliore, poiché spesso, nei casi di lingue minoritarie, interviene la necessità di differenziarsi linguisticamente, e quindi a maggior ragione graficamente, dalle lingue maggioritarie. Si tratta di un’esigenza di mantenere la distanza, l’Abstand, attraverso caratteri bandiera tipici di quella lingua. Questo bisogno di differenziarsi da realtà linguistiche limitrofe spesso si manifesta non solo fra le varietà minorizzate nei confronti di quelle di maggioranza, bensì anche, e più pericolosamente, all’interno della stessa lingua, fra sottovarianti. È necessario preparare il parlante al processo di normazione linguistica, che non può essere imposto e in cui una comunità deve essere coinvolta fin dall’inizio. La normazione grafica è un processo difficile e estremamente delicato, fondamentale per la sopravvivenza della lingua, a patto che sia percorso nella maniera giusta, cioè tenendo in considerazione non solo fattori prettamente linguistici, bensì anche identitari, sociali e addirittura politici.

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3 La formazione di un’ortografia nel ladino brissino-tirolese 3.1 La normazione grafica del ladino brissino-tirolese: diacronia e sincronia Il percorso di normazione del ladino brissino-tirolese può essere osservato da due diverse angolature: da un lato internamente ad ogni singola variante che già in se stessa può racchiudere più o meno sottovarietà, e dall’altro lato esternamente, come evoluzione verso un sistema grafico unificato per tutti i ladini brissino-tirolesi, traguardo che potremmo dire raggiunto nel 1987 con le regole per una grafia unificata. I primi parlanti che decisero di mettere per iscritto la loro lingua lo fecero inizialmente per scrivere nomi e toponimi ladini in documenti latini e tedeschi, più tardi a scopo letterario o anche con fini descrittivi. Si trovarono di fronte alla questione di come scrivere il ladino e in modo più o meno intuitivo furono condotti ad occuparsi non solo della loro varietà ma anche di quelle limitrofe per diverse ragioni: per favorire la comprensione dei possibili fruitori ladini dei loro testi, o perché si trovavano a prendere esempio e spunto da testi ladini già scritti in altre varianti, o perché credevano che potesse essere sviluppata una grafia comune a tutti i ladini, da usare pubblicamente, nella scuola e anche nei testi storici e letterari. In generale, tutti gli autori ladini del passato guardarono ben al di là del dialetto di valle e alcuni si posero come obiettivo nel processo di normazione grafica il raggiungimento di questi due principi: semplicità e eliminazione di segni diacritici/ grafemi non ordinari. Al par. 2.1 è stato osservato come, solitamente, la scelta della scrittura/grafia per la normazione grafica di una lingua di minoranza sia facile, poiché si fa riferimento a quella della lingua di prima istruzione. Nel caso del ladino brissino-tirolese tuttavia emergono scelte differenti a riguardo, a seconda della formazione e della lingua maggioritaria a cui lo scrittore o normatore è più avvezzo: alcuni propendono per l’italiano, che oltre che lingua di formazione è anche lingua neolatina, proprio come il ladino; altri invece propendono per il tedesco, lingua culturale parlata nei circoli letterari e identitari del tempo e presumibilmente anche modo per mantenere un certo Abstand dall’italiano. Il connubio fra le due grafie sarebbe forse risultato il migliore e in realtà molti scrittori oscillano nella resa grafica fra le due. La discussione sulla grafia si fa vivace e curiosa in occasione della pubblicazione del primo giornale in lingua, L’Amik di Ladins (1905), e poi soprattutto nei Kalëndri ladins gardenesi: la prima uscita del 1911 viene infatti pesantemente criticata dai lettori del tempo, perché si avvicina troppo al tedesco nella resa dei suoni; così nella seconda uscita, del 1912 (p. 2), si legge: «Die im ladinischen Kalender für 1911 versuchte Schreibweise, welche sich im Grunde an die deutsche anschloß, hat gerade deshalb vielfachen Widerspruch gefunden. Der romanische Charakter der grödnerischen Sprache soll auch in der Schrift mehr als es dort geschehen

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war, zum Ausdruck kommen» [Il modo di scrivere proposto nel Calendario ladino per il 1911, che ha fatto riferimento principalmente a quello tedesco, è stato criticato proprio per questo. Il carattere romanzo della lingua gardenese deve emergere anche nella scrittura più di quanto lo sia stato là]. L’edizione del 1912 riporta dunque una grafia sensibilmente più italianizzata, ma nell’edizione del 1915 (pp. 40–41) viene introdotta una discussione sulla resa di /k/, per cui si sceglie di mantenere la soluzione tedesca , perché vista come più funzionale per il ladino. In questo contesto gli autori comunicano che la scelta del grafema si basa sulla convinzione che si debbano prendere dai diversi sistemi grafici i lati positivi: nonostante il fatto che si tratti di grafia tedesca, risulta funzionale e dunque può e deve essere adottata. Abbiamo inserito questa digressione anche al fine di sottolineare la capacità critica degli autori/normatori del tempo, che dimostravano capacità metalinguistiche e descrittive di notevole rilievo. Lo studio delle diverse proposte normative del ladino dal punto di vista diatopico e diacronico fa emergere chiaramente una propensione dei normatori/scrittori per una resa grafica di tipo fonologico, a volte addirittura fonetico. Si tratta di un atteggiamento tipico di chi interpreta la grafia come mezzo per veicolare anche tratti distintivi molto peculiari, quasi fosse una trascrizione fonetica, un modo per far parlare la scrittura. Da qui l’uso massiccio di diacritici e nessi consonantici o vocalici e la ricerca spasmodica di realizzare anche per iscritto quei suoni ritenuti identitari, di bandiera, come si diceva poc’anzi. L’atteggiamento che si nota in diacronia non è mancato neppure nella proposta ortografica ladina del 1987 (cf. infra, cap. 3.5) e emerge spesso anche oggi nella critica popolare alla resa grafica del ladino. Nel processo di normazione infatti, soprattutto in una lingua di minoranza quale è il ladino, prevale spesso una concezione di grafema estremamente legata al suono, come se solamente quel simbolo grafico potesse essere ciò che salva una lingua dall’estinzione.

3.2 Cenni storici introduttivi Kattenbusch (1994) presenta in maniera dettagliata i tentativi di resa grafica del sistema linguistico fonetico dei primi scrittori e linguisti ladini, alcuni dei quali si proposero di normare la loro lingua madre, inizialmente al solo fine di rendere accessibili alla lettura le loro opere letterarie. Qualcuno tentò fin dai primi approcci di descrivere la varietà mettendola a confronto con quelle dei territori ladini confinanti, ma anche col romancio e con altre lingue neolatine: è il caso di Haller (1832), Mitterrutzner (1856) e Alton (1879). Storicamente, per la Val Badia con Marebbe, il precursore di un’ortografia organica fu Micurá de Rü/Nikolaus Bacher, con la sua grammatica del 1833, Versuch einer Deütsch-Ladinischen Sprachlehre (Bacher 1995[1833]; ↗17 Lessicografia e grammaticografia, cap. 3.1), che tuttavia non venne diffusa e dunque adottata generalmente (cf. i tentativi di applicare questa ortografia documentati per il XIX secolo in Videsott/

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Tolloi 2017). Dopo le discussioni di inizio Novecento il dibattito sulla grafia rinasce nel secondo dopoguerra soprattutto per finalità didattiche, sfociando solo negli anni ’70 in una normazione da cui l’unificazione grafica del ladino brissino-tirolese della metà degli anni ’80 si discosterà poco. Protagonisti della normazione degli anni ’70 furono Franz Vittur e Lois Craffonara, che si cimentarono con la redazione di regole grafiche prescrittive specifiche del badiotto. In riferimento alla Val Gardena, primeggia un capolavoro della lingua gardenese ad opera del fassano Josef Anton Vian, ossia l’opera del 1864 Gröden, der Grödner und seine Sprache, comprendente anche una parte lessicografica completa che descrive sistema grafico, lettere, interpunzione e pronuncia di questa varietà (↗17 Lessicografia e grammaticografia, cap. 3.1). Per la grafia gardenese ricoprono importanza particolare all’inizio del ’900 le riviste edite da Wilhelm Moroder, L’Amik di Ladins (1905) e Der Ladiner (1908), e la rivista satirica edita dal fassano Hugo De Rossi Kokodek (1905), in cui non vengono pubblicati solamente articoli in gardenese, bensì anche in altre varietà ladine brissino-tirolesi. Seguono i Kalëndri de Gherdëina/Calëndri ladins del 1911, 1912 e 1915, il cui redattore è Archangelus Lardschneider, editore Josef Runggaldier, e che contribuiscono all’acceso dibattito sulla grafia. Le soluzioni adottate da Lardschneider nel Calënder del 1915 sono mantenute nella sua opera fondamentale per la lessicografia gardenese del XX secolo, il Wörterbuch der Grödner Mundart del 1933 (ristampato nel 1971). Nel dopoguerra, in Val Gardena, l’introduzione del modello scolastico paritetico portò ad una normazione grafico-ortografica necessaria e piuttosto stabile, a cui si fa riferimento sia per il gardenese che (più tardi) per il badiotto con la denominazione «ortografia Gruber-Minach» del 1948, dagli organizzatori dei tavoli di lavoro Teresa Gruber e Ferruccio Minach. L’inizio della storia della grafia del ladino fassano nell’800 risale all’autore Giuseppe Brunel, i cui scritti presentano un tentativo esplicito di sistemazione ortografica, che tra l’altro emerge in maniera davvero originale anche in un passaggio della sua opera Grottol (citato in Chiocchetti 1983, 155–156). Il primo fondamentale e più importante tentativo di normazione è tuttavia da ricondurre ai primi del ’900, a Hugo De Rossi e soprattutto al suo vocabolario Ladinisches Wörterbuch. Idiom von Unterfassa gennant «Brak» (De Rossi 1905, 1914, 1923). Nell’edizione del 1923 De Rossi aggiunge anche alcune regole di pronuncia dei grafemi da lui usati. Questi tentativi normativi rimangono tuttavia isolati e solo nella seconda metà del ’900, con i vocabolari di Don Massimiliano Mazzel, Liber de paròles, ladin fascian-talian (Cazet – Brach – Moenat), nelle edizioni del 1967 e del 1968/1969, e Dizionario ladino fassano (cazet) – italiano del 1976 (rispettivamente Mazzel 1967, Mazzel et al. 1968/1969, Mazzel 1976), sono sancite norme grafiche specifiche. Nel dibattito sulla grafia spicca il nome del linguista Luigi Heilmann, il cui contributo riguarda soprattutto la varietà moenese. Anche per il fassano gli anni ’70 segnano il momento della normazione ortografica con finalità didattiche. Nel Livinallongo il nome che riconduce al solo e unico tentativo di normazione grafica è quello di Adalberto Pellegrini, che nel 1973 propose per queste varietà un

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vocabolario e nel 1974 una grammatica con relativa normazione grafica, solo leggermente adattata da Sergio Masarei in una riedizione dello stesso vocabolario nel 1985. L’interesse normativo per l’idioma ampezzano emerge nel periodo fra le due Guerre mondiali in Angelo Majoni (1929), Cortina d’Ampezzo nella sua parlata. Vocabolario ampezzano, con una raccolta di proverbi e detti dialettali usati nella valle, e in Bruno Apollonio (1930), Grammatica del dialetto ampezzano. Queste opere tuttavia non contribuiscono al percorso normativo ladino, poiché si discostano poco o quasi per niente dalla grafia italiana. Solo Monica Quartu, in Fonetica della lingua ampezzana del 1974, si cimenta in un tentativo di normazione grafica che verrà adottato anche nel Vocabolario anpezan (Quartu/Kramer/Finke 1982–1988), il quale sarà poi rielaborato da Enzo Croatto nell’edizione del 1986 (Croatto 1986) sulla base di una versione rivista dagli autori del 1975–1978 (Quartu 1975–1978). La normazione grafica fu prerogativa principale, negli anni 1970, degli istituti culturali ladini. Solo nel 2004 fu fondato a Colle Santa Lucia, nel Livinallongo, l’Istitut cultural ladin «Cesa de Jan», che ha lavorato alla normazione grafica locale e di Ampezzo. Questi tentativi normativi sfociarono negli anni 1980, in un momento di forte sviluppo della coscienza linguistica in tutta la Ladinia, nella creazione di una grafia unificata per i ladini brissino-tirolesi. Si può ben affermare che, già nella seconda metà degli anni ’70, ogni valle avesse adottato una grafia interna comune, che rispondeva anche alla necessità di proporre nell’insegnamento scolastico del ladino un modello certo (eccetto i ladini brissino-tirolesi dei territori bellunesi). La Scuola fu ed è sicuramente uno dei motori portanti per la diffusione della grafia e dell’ortografia ladine; per Badia e Gardena questo bisogno cominciò a manifestarsi già subito dopo la Seconda Guerra mondiale, con lo Statuto di Autonomia della Regione Trentino-Alto Adige che sanciva per i ladini della provincia di Bolzano il diritto di imparare a scuola la lingua madre (art. 87 dello statuto del 1948 e art. 19 dello statuto del 1972). Solo nelle modifiche allo statuto del 1972 (art. 102) questo diritto si estese anche ai ladini fassani. Nel 1984 si riunì per volontà di tutte le valli ladine e con la supervisione dell’Union Generela di Ladins dla Dolomites, associazione che dall’immediato dopoguerra unisce tutti i ladini dolomitici, la Commissione per la grafia unificata, che aveva come obiettivo quello di uniformare e unificare quanto possibile i sistemi grafici ladini e che presentò, nel 1987, un protocollo finale contenente le regole di unificazione ortografica del ladino brissino-tirolese. I risultati vennero pubblicati nella rivista settimanale La Usc di Ladins del 15 aprile 1987, pagine 15–16, col titolo N vare inant tl’unificaziun dla grafìa ladina, di Giovanni Pescollderungg. Un contributo notevole per la diffusione dell’uso di questa nuova grafia fu e viene dato ancora attualmente dalla stessa rivista La Usc di Ladins.

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3.3 Il sistema fonetico delle varietà ladine brissino-tirolesi In questo paragrafo si descrive il sistema fonetico delle varietà ladine brissino-tirolesi, con particolare attenzione ai suoni più tipici, soprattutto quelli che si renderanno distintivi nella resa grafica. Non sono riportate variazioni minime che non rientrano nelle finalità di questo lavoro e che sono descritte in Kattenbusch (1994); saranno prese in considerazione invece le peculiarità fonetiche rilevanti al fine della resa grafica. Le varietà ladine brissino-tirolesi presentano un sistema fonetico di base in generale molto simile, si discostano tuttavia l’una dall’altra in alcune particolarità, più notevolmente nel vocalismo, meno nel consonantismo. Accanto ad ogni fono è riportato un esempio preso dal gaderano in trascrizione fonetica e in ortografia scolastica, o da altri idiomi nel caso di tipicità locali segnalate nella seconda colonna. Tabella 1: Il vocalismo delle varietà ladine brissino-tirolesi  

fono

note

trascrizione fonetica

ortografia scolastica

[i]

[ži]

jí ‘andare’

[é]

[ré]

re ‘rapa’

[è]

[tèra]

tera ‘terra’

[ë]

solo in bbad. e grd.

[štëra]

stëra ‘stella’

[ə]

solo in bad. e grd.

[kəmùŋ]

grd. chemun ‘comune’

[gras]

gras ‘grasso’

[a] [ă]

solo in fod.

[săk] [kăl]

fod. sach ‘sacco’ fod. chël ‘quello’

[å]

solo in fas.

[tšàzå]

fas. ciasa ‘casa’

[ò]

[sòrt]

sort ‘specie’

[ó]

[só]

so ‘sorella’

[u]

[žu]

ju ‘passo, valico’

[ü]

solo in gad.

[žü]

jü ‘andato’

[ö]

solo in gad. e moe.

[köć]

cöc ‘cotti’

L’idioma più complesso nel vocalismo e che si differenzia sia internamente che nel confronto con gli altri idiomi brissino-tirolesi dal punto di vista fonetico è quello della Val Badia con Marebbe (↗2 Il ladino e le sue caratteristiche, cap. 2.1). Innanzitutto è importante ricordare che solamente in questa valle, oltre alla qualità vocalica, è foneticamente rilevante anche la quantità di tutte le vocali, ad eccezione della [ë].

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Differenze minime nelle sottovarianti sono anche in questo caso ben descritte da Kattenbusch (1994). I foni [ü] e [ö] sono presenti nelle varietà ladine brissino-tirolesi in gaderano, [ë] in basso badiotto e in gardenese. Nella parlata di Moena, in Val di Fassa, è presente la vocale palatale arrotondata [ö], anche se si rileva una graduale scomparsa del fenomeno soprattutto fra le giovani generazioni e la conseguente assimilazione del suono ad [é]. Non viene trattata in questa breve e sommaria descrizione della fonetica ladina l’opposizione fra vocalismo tonico e atono, in quanto non rilevante nella resa grafica dei suoni, se non in riferimento all’uso dell’accento distintivo della sillaba tonica non penultima, e dunque su parole proparossitone o ossitone. Per il vocalismo atono accenniamo alla realizzazione di [a] con [å] in posizione finale e con accento in penultima nel fassano cazet e brach, ma non a Soraga e Moena, e alla realizzazione come schwa delle e atone in gardenese. I foni consonantici qui di seguito riportati sono quelli in gran parte tipici del sistema fonetico ladino dolomitico che hanno comportato difficoltà nella resa grafica. Tabella 2: Il consonantismo delle varietà ladine brissino-tirolesi (limitato ai foni per la cui resa ortografica sono state fatte più proposte)  

fono

note

trascrizione fonetica

ortografia scolastica

[k]

[kàtẹr]

cater ‘quattro’

[g]

[graŋ]

gran ‘grande’

[s]

[sòrt]

sort ‘specie’

[š]

[šàbla]

sciabla ‘spalla’

[z]

[zeñ]

sëgn ‘adesso’

[ž]

[ži]

jí ‘andare’

[-n]

[dan]

dann ‘danno’

[ñ]

assente in grd.

[davàñ]

davagn ‘guadagno’

[-ŋ]

assente nell’amp.

[ćaŋ]

cian ‘cane’

[tsëntsa]

zënza ‘senza’

[dzaré]

grd. zaré ‘strappare’

[tšëna]

cëna ‘cena’

[ts] [dz]

solo in grd.

[tš] [ć]

assente in grd. e amp.

[ćèr]

cer ‘costoso’

[ǵ]

assente nell’amp.

[ǵigànt]

gigant ‘gigante’

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In generale il sistema consonantico ladino mostra peculiarità rilevanti e linguisticamente distintive con i suoni palatali/affricati, con le sibilanti e con le nasali, ma in modo meno marcato. L’occlusiva velare sorda [k], pur non essendo un fono tipico ladino, è interessante dal punto di vista della resa grafica. L’affricata sorda prepalatale [tš] caratterizza tutte le varietà ladine, mentre l’occlusiva postpalatale [ć], realizzata anche con articolazione mediopalatale [c̋ ], tende a fondersi con [tš]; questo processo è già concluso da un secolo in gardenese. L’affricata sonora palatale [ǵ] non è presente nell’ampezzano; anche in questo caso il suono varia fra diverse rese fonetiche, da [g̋ ] postpalatale alla semivocale [j]. Nel ladino sellano meritano attenzione e descrizione particolare le sibilanti. Si tratta dei fonemi fricativi sordi e sonori [s], [š], [z] e [ž], con sottocategorie e variazioni minime interessanti, ma non funzionali a questo lavoro. Un accenno tuttavia va fatto alle sibilanti sorde fassane che hanno creato difficoltà nella loro resa grafica, sia in diacronia che nell’unificazione della grafia del ladino. L’ulteriore differenziazione nell’uso delle sibilanti nella varietà di Moena (cf. Heilmann 1955, 194–199) rende la situazione ancora più interessante e complessa (non mi soffermerò tuttavia su questo fenomeno, ormai superato dal punto di vista della normazione grafica). Per il fine di questo lavoro è inoltre interessante ribadire quanto già rilevavano Kattenbusch/Goebl (1986), secondo i quali, a causa dell’influenza del dialetto trentino, in particolare in Val di Fassa, è diventata quasi impercepibile la differenza fra la realizzazione fonetica dei fonemi /s/ e /š/, quest’ultimo realizzato oggigiorno come alveolare anziché dentale [ṣ], ovvero come [s] leggermente arretrata. La /s/ a sua volta registra un passaggio ad un’articolazione con una tendenza apicoalveolare. Il fenomeno della neutralizzazione e assimilazione notato dai due linguisti sta diventando in questi ultimi anni particolarmente forte, benché la grafia, come vedremo, distingua nettamente tali suoni, anche e soprattutto al fine di conservarne i tratti distintivi nelle coppie minime (fas. [pisèr]~[pišèr] ‘pensare’~’pisciare’ – [méza]~[mésa] ‘mezza’~‘messa’. La variazione fra le fricative sonore dentale e prepalatale [z] e [ž] (fas. [méža] ‘disordine’ ~ [méza] ‘mezza’) a volte non è sentita come distintiva dai parlanti: la prepalatale tende ad assimilarsi alla dentale. La normazione grafica di questi suoni si basa, come vedremo, su una normazione fonologica, al fine, anche, di scongiurare il fenomeno di assimilazione. L’opposizione fra i fonemi nasali dentale /-n/ e velare /-ŋ/ è produttiva solamente a fine parola. La nasale velare non è presente nell’ampezzano, mentre nel fassano la differenza fonetica si percepisce ancora, ma molto poco (fas. [intórn] ‘attorno’~[maŋ] ‘mano’); l’opposizione è in fase di neutralizzazione.

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3.4 Un approfondimento diacronico Nel descrivere il percorso verso la grafia unificata del ladino brissino-tirolese è interessante soffermarsi sulle soluzioni grafiche adottate per i suoni più tipici; ciò permette di proporre delle considerazioni in riferimento alla loro scelta sia in diacronia che in sincronia. Queste soluzioni sono eloquenti anche se guardate dal punto di vista dell’autocoscienza identitaria e della cultura e formazione germanica o latina degli autori e linguisti ladini che le hanno proposte; danno inoltre evidenza dell’incertezza nell’interpretare e rendere per iscritto i suoni in questione. Emerge inoltre un’oscillazione fra grafia etimologica e fonetica. La scelta delle diverse soluzioni e le sue ragioni ne hanno determinato il successo. – [k]: la resa di questo suono è stata sempre pressoché regolare, con una maggiore influenza del sistema grafico italiano rispetto a quello tedesco, dunque vs. , che rivela, tra l’altro, una scelta degli autori di mantenere l’Abstand dalle varietà tedesche e una tendenza a conservare la vicinanza alle varietà romanze, anche dal punto di vista grafico, per es. fas. canche ‘quando’ (Brunel 1887) vs. kan ke (De Rossi 1905); – [š]: questo suono oscilla fra svariate soluzioni grafiche davanti a vocale o in fine parola, fra le quali ne emergono tre (oltre a quella fonetica ): una riconducibile alla grafia tedesca (Haller 1832: grd. krousch ‘croce’), un’altra invece riconducibile alla tipica dell’italiano (Sposs e maridoc 1965: fas. karnascer ‘carnevale’) e un’altra (Lardschneider-Ciampac 1933: grd. shimia ‘scimmia’). Quest’ultimo grafema è presente anticamente in una delle prime testimonianze scritte badiotte, che è lo Statuto della prima metà del sec. XVIII (cf. Kattenbusch 1994, 54; ↗7 Primi usi scritti del ladino, cap. 5.4), in Parores Ladines (Pizzinini/Plangg 1966, cf. Kattenbusch 1994, 111) e poi nel fassano, dove compare nella rivista Zent Ladina Dolomites 1946 (cf. Kattenbusch 1994, 209); è anche introdotto più tardi dall’Istituto culturale ladino «Majon di Fascegn» come norma grafica nella rivista scientifica Mondo ladino al posto del grafema con diacritico prescritto dalla Commissione per la grafia per Fassa e Moena del 1977 (fas. Fasha ‘Fassa’). Quest’ultima scelta deriva dalla necessità di adottare soluzioni grafiche semplici per la stampa, come presumibilmente accadde nella rivista Zent Ladina Dolomites 1946 qui citata, edita da Guido Iori Rocia. Sia l’Istituto ladino che Iori infatti sono innovatori rispetto all’uso dei diacritici anche nella resa grafica di altri fonemi. – [ž]: per rendere la fricativa sonora prepalatale sono state proposte, in diacronia, diverse soluzioni grafiche più o meno fedeli a rendere il suono corrispondente: dai semplici grafemi , , , a , a combinazioni grafematiche fuorvianti perché usate anche per il corrispondente fonema sordo o o per il fassano (Haller 1832), al grafema , all’uso dei diacritici ^ e – sui grafemi , cioè (per es. Bacher 1995[1833] ripreso da Mitterrutzner 1856). Lardschneider-Ciampac (1933) propone invece per il gardenese una soluzione poco praticabile, , mentre per l’ampezzano Mitterrutzner (1856) propone un inspie-

Storia della normazione ortografica del ladino









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gabile . Dagli inizi del ’900 comincia ad essere usato da alcuni autori il grafema , che sarà ritenuto come soluzione adeguata nella grafia unificata del 1987 davanti a vocale (fas. jir ‘andare’), mentre in contesto di inizio parola davanti a consonante viene adottato il grafema (fas. sgolèr ‘volare’). [-ŋ]: in posizione finale la velare nasale trova principalmente tre soluzioni a seconda del tratto velare più o meno marcato o distintivo: dalla combinazione di grafemi (presa presumibilmente dal tedesco) anche nel fassano Brunel (domang ‘domani’) e negli autori badiotti fra cui Haller (1832) (pang ‘pane’), al semplice grafema . L’opposizione di /n/ ad /-ŋ/ è ancora distintiva in gaderano, gardenese e fodom (per es. gad. an ‘si’ pron. pers. vs. ann ‘anno’). [ts]: in diacronia, questo fono trova la sua realizzazione grafica più diffusa in (bad. zacan ‘un tempo’), è presente anche la resa combinatoria in fra le testimonianze più vecchie (Catalogus 1760 – in Kramer 1976 – tzede ‘cedere’). [tš]: nella resa grafica di questo suono i vari autori oscillano fra il modello tedesco (Haller 1832 bad. tschana ‘cena’) e quello italiano , poi conservato nella grafia attuale (cëna). La soluzione unitaria in ben renderà la palatalizzazione in opposizione alla velare /k/ in ; [ć]: viene realizzata da alcuni autori con i grafemi o , o , dunque anche con l’ausilio di grafemi portatori di tratti sonori, come nel caso di Haller (1832) per il fassano, mentre per badiotto, gardenese e fodom Haller propone la sola soluzione grafica in (Kattenbusch 1994 – tabelle riepilogative, bad. intge ‘anche’), usata anche da Bacher (1995[1833]) per il badiotto (burtg ‘brutti’) e da Vian (1864) per il gardenese. Per rendere questo fonema la grafia unificata proporrà il grafema .

Nella graduale ricerca di una standardizzazione e normazione della grafia ladina brissino-tirolese risulta evidente lo sforzo degli autori nel proporre dei modelli che rispettassero l’originalità della lingua e la sua variazione fonetica nelle varianti locali, a volte minime. D’altro canto si evince anche la volontà di proporre soluzioni immediate e praticabili. Si nota la dicotomia fra la necessità di esprimere al meglio i suoni dal punto di vista fonetico da una parte e di proporre un modello facilmente interpretabile al parlante nativo e anche ai parlanti ladini confinanti dall’altra. L’uso dei diacritici è molto discusso dai protagonisti di questo percorso di normazione: i diacritici infatti rendono la grafia complicata da apprendere e da scrivere. D’altro canto, il ricorso a queste convenzioni grafiche permette di rendere in modo preciso la variazione fonetica, come ben dimostra ad esempio De Rossi (1914) nel suo dizionario. Un aspetto importante nella scelta della soluzione grafica deriva anche, come abbiamo visto, dalla necessità di stampare o scrivere con supporti tecnici (per De Rossi si trattava della macchina da scrivere, con la quale non riusciva a rendere i diacritici da lui a volte aggiunti a mano nei manoscritti a noi pervenuti). Non da ultimo, nella scelta della resa grafica c’è anche l’inclinazione e la familiarità degli autori alle diverse grafie, italiana o tedesca: in De Rossi emerge chiaramente una libertà nell’uso

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di alcune soluzioni grafiche di stampo tedesco, quali la resa di [k] con , funzionale per evitare la combinazione di grafemi , tipica del sistema grafico italiano.

3.5 Il sistema ortografico della grafia unitaria ladina 1987 I sistemi ortografici prescritti nelle singole valli dalle commissioni per la grafia negli anni 1970 si basano a loro volta sui tentativi normativi avvenuti in diacronia e sono sostanzialmente stati mantenuti dalla Commissione del 1984. I risultati qui proposti dunque sono il punto d’arrivo di decenni di lavoro di linguisti e scrittori ladini e non.

3.5.1 La Commissione per la grafia unificata del 1984: obiettivi, premesse e problemi aperti La Commissione per la grafia unificata ladina si riunì per la prima volta a Ortisei nel maggio del 1984 in una seduta straordinaria dell’Union Generela di Ladins dla Dolomites (per quanto segue cf. Kattenbusch 1994, 280–295). Alla riunione parteciparono rappresentanti di tutte le cinque valli ladine, consapevoli del fatto che l’obiettivo perseguito non avrebbe avuto solo ricadute in ambito linguistico-letterario, bensì anche nel rapporto politico fra le valli ladine del Sella e verso l’esterno, come sottolineò l’allora presidente della Generela, Carlo Willeit. L’unificazione grafica sarebbe stata un passo importante nel percorso di riconoscimento dei ladini come minoranza linguistica, per mostrarsi uniti e per permettere alla lingua di essere usata e diffusa in tutti i campi della società e della vita quotidiana. Si trattò di un intervento di pianificazione del corpus fondamentale in quegli anni, che rispondeva alla necessità di avviare anche nella Ladinia dolomitica un percorso di politica linguistica comune, non solo a livello grafico, ma anche terminologico e neologico. L’obiettivo principale fu quello di creare un sistema grafico che corrispondesse a un sistema fonologico preciso e in rapporto 1:1, evitando altresì varianti combinatorie di suoni e approfondimenti fonetici interessanti solo per il linguista, non per il parlante. L’approccio etimologico fu auspicabilmente evitato, se non in contesti isolati. Secondo la Commissione, una grafia ottimale doveva rispondere a due principi fondamentali: la già accennata corrispondenza di ogni fonema a un grafema e la resa grafica sempre identica di un fonema, a prescindere dalla sua posizione nella parola (iniziale, interna o finale). Come vedremo, non sempre questo principio sarà rispettato (es.: [š] realizzato con davanti a consonante e con davanti a vocale o in posizione intervocalica, oppure [k] realizzato con davanti a consonante o vocale e o i). La Commissione stabilì inoltre cinque criteri ai quali attenersi per l’elaborazione della nuova grafia, il cui ordine corrisponde all’importanza loro accordata: 1. unità 2. praticabilità

Storia della normazione ortografica del ladino

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3. tradizione scritta 4. autoidentificazione 5. storia della lingua (etimologia). In riferimento al secondo criterio, quello della praticabilità, Kattenbusch (1994, 281) inserisce in nota (121) un’osservazione che richiama al bisogno di semplicità nella resa grafica, che corrisponde, come appena sottolineato, all’uso di grafemi semplici e uguali in tutte le posizioni all’interno della parola. Riprende inoltre la posizione di Lardschneider che nel Kalënder Ladin 1912 si schiera per la semplicità e per l’abbandono di diacritici e grafemi che non risultano facili all’uso per i ladini.

3.5.2 I risultati Vengono proposte qui di seguito le soluzioni grafiche sovravallive a cui la Commissione giunse nel 1987, precedute da quelle locali degli anni 1970–1980. Tabella 3: Confronto tra le soluzioni grafiche prima e dopo il 1987: Vocalismo  

Fono

Grafia anni ’70–80*

Grafia 1987

[a]

a

a

[ë]

ë

ë

[ă]

â**

ë, â

[å]

a

a

[è]

e, è

e

[é]

e, é

e***

[i]

i

i, ì

[ò]

o, ò

o***

[ó]

o, ó

o

[u]

u

u

[ü]

ü

ü

[ö]

ö

ö

* l’ampezzano pone l’accento su tutte le vocali toniche in Quartu/Kramer/Finke (1982–1988) e nel Vocabolario Ampezzano del 1986 (Croatto 1986), precedentemente veniva posto solamente sulle toniche medie. ** Pellegrini (1973; 1974). *** l’opzione accentata viene usata quando l’accento non cade sulla penultima; in tal caso alcune varianti usano l’accento sistematicamente solo su uno dei due grafemi, non marcando l’apertura o la chiusura vocalica, ma solamente la vocale tonica.

334

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Tabella 4: Confronto tra le soluzioni grafiche prima e dopo il 1987: Consonantismo  

Fono

Grafia anni ’70-’80

Grafia 1987

Posizione (per la coniugazione verbale cf. infra)

[p]

p

p

paèr ‘pagare’ ciapel ‘cappello’ ciamp ‘campo’

[t]

t

t

tor ‘prendere’ content ‘contento’ aiut ‘aiuto’

[k]

c(h)

c ch -ch

[kw]

cu

cu

[b]

b

b

iniziale interna finale (solo in parole straniere)

badil ‘badile’ cabina ‘cabina’ bob ‘bob’

[d]

d

d

iniziale interna finale (solo in parole straniere)

dut ‘tutto’ badil ‘badile’ langobard ‘longobardo’

[g]

g(h)

g gh -gh

-a, -o, -u, -ü, -o -ë, -e, -i (finale)

grop ‘gruppo’ ghest ‘ospite’ geologh ‘geologo’

[f]

f

f

fontana ‘fonte’ café ‘caffè’ nef ‘nuovo’

[s]

s-, -ss-, -ss

s(iniziale) -ss(interna) -s (-ss in fas.) (finale)

sot ‘sotto’ cassa ‘cassa’ prozes, fas. prozess ‘processo’

[š]

sc(i), scons

sci sc sc s

sciampèr ‘scappare’ scechèr ‘dare fastidio’ grasc ‘grassi’ stuf ‘stufo’

[h]

h

h

gad. rehl ‘capriolo’

[v]

v

v

vacia ‘vacca’ ciavei ‘capelli’

[z]

s

ś-s-

-a, -o, -u, -ü, -o -ë, -e, -i (finale)

Esempi (salvo indicato diversamente) dal fassano

corp ‘corpo’ chel ‘quello’ pech ‘poco cuadrat ‘quadrato’

-a, -o, -u, -ü, -o -ë, -e, -i (finale) -C

(iniziale) (interna)

śol ‘capretto’ mesa ‘mezza’

Storia della normazione ortografica del ladino

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Tabella 4 (continua)  

Fono

Grafia anni ’70-’80

Grafia 1987

Posizione (per la coniugazione verbale cf. infra)

Esempi (salvo indicato diversamente) dal fassano

[ž]

j, scons

j s

davanti a vocale e finale davanti a consonante

joen ‘giovane’ desgropèr ‘snodare’

[m]

m

m

[n]

nn, n

n -nn

[ñ]

gn

gn

gnoch ‘gnocco’ magnèr ‘mangiare’ aregn ‘ragno’

[ŋ]

n

n

banch ‘banco’ talian ‘italiano’

[l]

l

l

luna ‘luna’ cola ‘colla’ col ‘collo’

[r]

r

r

reina ‘regina’ grop ‘nodo’ fer ‘ferro’

[ts]

z

z

zenza ‘senza’ fazolet ‘fazzoletto’ lengaz ‘lingua’

[tš]

c(i), -c

ci c -c

-a, -o, -u, -ü, -o -ë, -e, -i (finale)

ciacolèr chiacchierare’ cèr ‘carro’ pec ‘abete’

[ć]

ć(i), -ć

ći ć -ć

-a, -o, -u, -ü, -o -ë, -e, -i (finale)

gad. sćiarpa ‘sciarpa’ gad. ćioch ‘ubriaco’ gad. duć ‘tutti’

ź-

(solo in gardenese)

grd. źaré ‘strappare’

gi g -g

-a, -o, -u, -ü, -o -ë, -e, -i -g (solo in parole straniere)

giat ‘gatto’ Gere ‘Giorgio’ langobarg ‘longobardi’

[dz] [ǵ]

g(i)

maester ‘maestro’ ciamena ‘camera’ fam ‘fame’ (iniziale, interna e dopo [r]) (finale, in bad., grd., liv.)

postern ‘all’ombra’ bad. ann ‘anno’

Nelle combinazioni di foni o fonemi la Commissione propone le seguenti soluzioni grafiche:

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Tabella 5: Proposta della Commissione del 1987 per le combinazioni di foni  

[k]+[s]

x

xilofon ‘xilofono’

[-š] +[ć]



posć ‘posti’

[š] +cons sorda

s+cons

strach ‘posti’

[ž] +cons son.

s+cons

sdravèr ‘versare’

[N]+[b]

m+b

strambèr ‘strambare’

[N]+[p]

m+p

stramp ‘strambo’

Le decisioni della Commissione in merito al sistema grafico furono le seguenti (Kattenbusch 1994, 284–287): a) Tutti i segni tecnicamente difficili da realizzare non sono più usati: š, ž, ć, ğ, ş, ṣ, t̩ , ṇ, ñ, å. I segni diacritici sono accettati solamente sulle lettere ś, ć, á, â, ë, è, é, ò, ó, ô, ö, ü, inoltre nel caso di per [ts] (