Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica. [2 ed.] 9788891903327

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Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica. [2 ed.]
 9788891903327

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MANUALE DI LINGUISTICA ITALIANA Storia, attualità, grammatica

MANUALE Di LINGUÌSTICA ITALIANA Storia, attualità, grammatica Seconda edizione Luca Serianni, Giuseppe Antonelli

| H Pearson

© 2017 Pearson Italia, Milano - Torino

Sommario

Presentazione Premessa alla nuova edizione Gli autori Pearson Learning Solution Le informazioni contenute in questo libro sono state verificate e documentate con la massima cura possibile. Nessuna responsabilità derivante dal loro utilizzo potrà venire imputata agli Autori, a Pearson Italia S.p.A. o a ogni persona e società coinvolta nella creazione, produzione e distribuzione di questo libro. Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti.

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Capitolo 1 1.1 1.2

1.3 1.4

1.5 Realizzazione editoriale: Il Paragrafo

1.6 1.7

Realizzazione materiali digitali: Dalila Bachis Revisione tecnica: Dalila Bachis

1.8

Progetto grafico di copertina: Maurizio Garofalo Stampa: Tip. Le.Co. - San Bonico (PC)

1.9 1.10

Tutti i marchi citati nel testo sono di proprietà dei loro detentori. ISBN 978-88-9190-3327

LIBRI DI TESTO E SUPPORTI DIDATTICI Il sistema di gestione per la qualità della Casa Editrice è certificato In conform ità alla norma UNI EN ISO 9001 :?008 per l'a ttività di progettazione, realizzazione e com m eieia llzzazione di p rodotti e d ito r ia li s c o la s tic i, le s s ic o g ra fic i, u n iv e r s ita r i s d i va ria .

Printed in Italy 1“ edizione: gennaio 2017

Ristampa 00 01 02 03 04

Alle radici dell'italiano

XIII XV XVI XVII llliiilllll

Alle radici dell’italiano Il latino volgare \ / La variazione linguistica IH Un distico pompeiano i/ La classificazione dei suoni della lìngua italiana Dal latino all’italiano: i suoni */ Gli allòtropi Dal latino all’italiano: le forme %/ La produttività linguistica t / Da quale caso derivano le parole italiane? Dal latino all’italiano: le parole */ Metàfora e metonimia I latinismi Latino e italiano nella letteratura IH Un esempio di poesia macaronica IH Un passo in polifilesco Latino e italiano nell’uso giuridico e amministrativo IH II placito campano Latino e italiano nella scienza e nell’insegnamento Latino e italiano nella Chiesa t d Un passo dell’Itala

1 3 5 6 7 9 12 12 13 14 15 16 16 18 19 20 21 22 22 24 25

Verifica

26

Storia di parole

27

Member of CISQ Federatlon

Anno 16 17 18 19 20

/

RIN A

0

ISO 9001:2g08 ^ ^ Sistema Qualità Certificato

Capitolo 2

Form azione e diffusione dell'italiano

29 i ii il a li li iÉ l

2.1

Linguistica interna ed esterna

29

VI

Sommario

2.2 2.3

2.4

2.5

2.6 2.7 2.8 2.9 2.10

Capitolo 3

Sommarlo

II policentrismo medievale L’ascesa del ceto mercantile e le cancellerie CD Un testamento siciliano redatto a Venezia (1380-1381) [H Dalla lettera di un mercante toscano La formazione della lingua letteraria ED Un esempio di coinè letteraria settentrionale ED L’esemplificazione dei volgari nel De vulgari eloquentia La codificazione grammaticale ✓ Le edizioni aldine ✓ Le tre edizioni dell’Or/ando furioso di Ludovico Ariosto Fattori di unificazione CD Dal romanzo dì Carolina Invernizio II bacio d’urta morta L’unità d’Italia Scuola e alfabetizzazione CD La revisione linguistica dei Promessi sposi Le migrazioni ED itaiy di Giovanni Pascoli I mezzi di comunicazione di massa

30 32

3.9

Dal dialetto all’italiano regionale %/ L’ipercorrettismo s/ Il metaplasmo

74 75 76

Parole dialettali passate in italiano CD / forestierismi in dialetto: un esempio letterario

77 79

36 38

Verifica

79

39

Storia di parole

80

Scritto e parlato

83

33 35

3.10

36

41 42

42 44

Capitolo 4 4.1

45 47 48

49

4.2

50

51

Lingua scritta e lingua parlata

83

s/ Testo e discorso i / Le funzioni linguistiche secondo la teoria di Roman Jakobson

84

Due punti di vista diversi CD Un esempio di parlato spontaneo

86

td

L’influenza della scrittura sul parlato

Verifica

53

4.3

Storia di parole

54

4.4

57

4.5

La grammatica del parlato i / Tema e rema, dato e nuovo Gli atti linguistici ✓ Atti illocutivi (o illocutòri) / perlocutivi (o perlocutòri) La conversazione

57

4.6

I registri del parlato

4.7

Il parlato italiano contemporaneo: suoni e forme

Italiano e dialetti

*4 Le sequenze laterali incassate

3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6

3.7

3.8

La frammentazione linguisticadella penisola ✓ Il sostrato Dai volgari ai dialetti ✓ Le aree isolate L’affermazione del fiorentino ✓ Il fiorentino argenteo L’uso riflesso del dialetto ✓ La competenza linguistica Chi parla il dialetto oggi? ✓ Bilinguismo e diglossia I dialetti d’Italia: il Settentrione ✓ La metafonesi ED II milanese medievale di Bonvesin da la Riva I dialetti d’Italia: il Centro e la Toscana ✓ La gorgia toscana ED II fiorentino popolare nelle commedie

%/ L’architettura dell’italiano contemporaneo

58

58

\4

60

60

4.8

61

62

4.9 4.10

Gli usi dell’imperfetto

Il parlato italiano contemporaneo: la sintassi P Quando si pospone il soggetto? Il parlato italiano contemporaneo: le parole */

63

Il turpiloquio

85 87 89

90 91

91 92 93 95

96 97 98 99 100 101

101 102

103

64

Il parlato nello scritto ED La simulazione di parlato nella Locandiera di Carlo Goldoni

66

Verifica

105

Storia di parole

106

Le lingue sperimii

109

Cos’è una lingua speciale t / Monosemia e polisemia I tecnicismi Ut! La terminologia scientifica galileiana

109

63

68 69

103

69 70

Capitolo 5

di Gìovan Battista Zannoni

71

5.1

I dialetti d’Italia: il Mezzogiorno ED II napoletano nelle novelle

72

di Gipvan Battista Basile

VII

5.2 73

110

111 112

Vili

Sommario

Sommario

5.3 5.4 5.5 5.6 5.7

5.8 5.9

5.10

II linguaggio delle scienze “dure” Transfert e tecnificazione II linguaggio giuridico e burocratico ✓ Costrutti assoluti e modi nominali del verbo II linguaggio medico 03 Un esempio di testo medico: il foglietto illustrativo II linguaggio dell’informatica t/ Italiano e inglese nel linguaggio della posta elettronica II linguaggio dell’economia e della finanza CQ Un esempio di lingua aziendale II linguaggio sportivo EH Due testi di cronaca sportiva Tecnicismi e lingua comune i / Lessico psicanalitico e lingua di massa:

114 115

116

7.1

118 121

7.2

122 123

7.3

124 126

7.4

127 129

131 7.5 132

Tecnicismi e lingua letteraria COI L’uso dei tecnicismi in una poesia di Andrea Zanzotto

134

Capitolo 6 6.1

L’italiano della com unicazione L’italiano dei giornali s/

6.2 6.3 6.4 6.5

6.6 6.7 6.8 6.9 6.10

I testi misti

L’italiano della politica L’italiano della pubblicità ✓ Asindeto e polisindeto L’italiano alla radio L’italiano in televisione EQ Il parlato paleotelevisivo di Mike Bongiorno £Q II parlato simulato di Un posto al sole L’italiano al cinema L’italiano della canzone O La lingua della nuova canzone d’autore Italiano e nuovi media: l’italiano digitato ✓ Dall’epistola all’e-pistola Italiano e nuovi media:la neoepistolarità tecnologica ✓ La tachigrafia Italiano e nuovi media:esiste un italiano di Internet?

163

Nessuna lingua è pura

163

i/ Il prestito linguistico

168 169 171 173

Inglese 03 L'anglomania senza anglicismi: Giuseppe Baretti

173

139

7.8 7.9

Arabo ed ebraico Lingue esotiche

139

7.10

136

137

165

La lìrica trobadorica CO La satira della gallomania *4 1francesismi della moda

7.7

7.6

164 165

✓ Il costrutto anglicizzante chi suona che La trasmissione del prestito ✓ La recente fortuna dei prestiti non adattati Francese e provenzale

%/ Gli xenolatinismi e gli xenogrecismì Spagnolo e portoghese CO II diffondersi dello spagnolismo etichetta Lingue germaniche medievali e tedesco

135

: Storia di parole

L’italiano e le altre lingue

Le proposte di sostituzione fatte dall’Accademia d’Italia Prestiti di necessità e prestiti di lusso

119

il caso della canzone

Verifica

Capitolo 7

IX

s/

Germanico e tedesco

166

167 168

174 177

178 178

180 181

182 183

»/ Gli esotismi nei romanzi dì Salgàri

184

Italianismi all’estero

187

140

Verifica

190

141 144

Storia di parole

191

Parole vecchie e parole nuove

195

Il ciclo vitale delle parole

195

145

146 147

Capitolo 8

148 149

8.1

150 151

8.2

152

8.3

154 155

8.4

\ / Il lessico di base Parole invecchiate 03 L'espressionismo linguistico La lingua scritta CO Aulicismi d’inerzia in un epistolario ottocentesco Il sentimento neologico La prima attestazione di un vocabolo

156 158

159

Verifica

160

Storia di parole

161

8.5 8.6 8.7 8.8

196

197 198

199 200

201 202

La formazione delle parole L’affissazione La composizione Parole d’autore

203 205 210 211

t/

212

L’allitterazione

X

Sommario

8.9 8.10

C apitolo 9 9.1

Sommario

L’onomastica

212

t/

Dal nome proprio al nome comune

214 215

Verifica

2/7

Storia di parole

218

Cambi di nome

Giusto e sbagliato

221

La norma e l’errore

221 222 222

La legittimazione dell’errore

9.2 9.3

Le fonti della norma linguistica f / Egli e lui (ella e lei) Tipologia e gerarchia degli errori %/ L’uso degli accenti e dell’apostrofo \ / L’uso di poiché

9.4

Dubbi ortografici * / L’uso della scempia e della doppia in alcuni casi particolari

9.5

Questioni d’accento

9.6

Nomi e pronomi ✓ Il carattere sincronico della norma linguistica ✓ La posizione enclitica dei pronomi Questo, codesto e quello ✓ Spazio reale e spazio psicologico nei dimostrativi Indicativo e congiuntivo t / Il tipo credo che è vero nella prosa letteraria Ordine delle parole

*/

9.7 9.8 9.9

L’accento in greco e in latino

%/ Il discorso riportato

9.10

Punteggiatura t/ i/

Capitolo 10 10.1 10.2 10.3

La straordinaria fortuna del punto fermo Punto e a capo

223 225 226 227 228 229 230

232 232 234 235 235 235 236 237 237 239 240 242 243

Verifica

245

Storia di parole

244

Dizionari per ogni esigenza

247

Dizionari nel tempo I dizionari storici ✓ La fraseologìa nei dizionari I dizionari etimologici ✓ Lemmi e lemmario

247 249

249 251 252

XI

10.4

I dizionari di sinonimi

253

%/ Il Dizionario dei sinonimi di Niccolò Tommaseo

254

10.5 10.6 10.7

Le raccolte di neologismi I dizionari dell’uso: il lemmario I dizionari dell’uso: la definizione e le marched’uso i / / definitòri in lessicografia I dizionari dell’uso: le informazioni grammaticali I dizionari e Γ informatica Oltre il dizionario: le banche dati

256 257 259

10.8 10.9 10.10

261

263 265 266

Verifica

268

Storia di parole

269

Bibliografìa essenziale

271

Indice delle cose notevoli

287

Indice delle illustrazioni

297

Presentazione

Questo Manuale dì linguistica italiana si avvale dell’esperienza della Storia ipertestuale della lingua italiana (Stil.it) e cerca di metterla a frutto per dar vita a uno strumento didattico profondamente aggiornato nei contenuti e nell’impostazione. Quanto ai contenuti, rimpianto della Stil.it viene potenziato, integrando una serie di aspetti relativi alla storia remota e recente della lingua italiana. Il nuovo capitolo dedicato alla storia linguistica esterna, Formazione e diffusione dell’italiano, mira a rendere più completa la ricostruzione del contesto sociale e culturale in cui la nostra lingua si è forma­ ta e diffusa; quello dedicato all’Italiano della comunicazione estende la descrizione fino ai nostri giorni. Negli altri capitoli, maggiore attenzione viene dedicata a singoli aspetti emersi con particolare evidenza nella linguistica italiana degli ultimi anni: l’onomastica, per esempio, o il rapporto sempre più stretto tra linguaggi specialistici e lingua comune; e, nell’àmbito delle indicazioni grammaticali, quelle relative alla punteggiatura. Il risultato è un panorama sintetico delle principali questioni riguardanti la storia e l’attualità della nostra lingua: dalle origini agli ultimi sviluppi neologici, dai rapporti col latino a quelli con le principali lingue moderne, dai linguaggi specialistici al parlato di tutti i giorni, senza trascurare, appunto, la soluzione dei più comuni dubbi grammaticali e le indicazioni per un corretto uso dei dizionari. Quanto all’impostazione, in armonia con i nuovi programmi previsti dalla riforma univer­ sitaria, si è scelto di trattare i vari argomenti in modo più disteso e discorsivo. Non si è voluto rinunciare, tuttavia, all’originaria scansione tematica, anche a costo di qualche ripetizione o ridondanza. Questa scelta fa sì che ciascuno dei dieci capitoli mantenga una notevole indi­ pendenza (tale da poter essere letto o studiato anche separatamente dagli altri), ma al tempo stesso rafforza, attraverso i rinvìi disseminati nel testo, Γintertestualità interna al volume. Si tratta di una precisa scelta didattica, dettata non tanto dall’aureo principio che repetita invanì, quanto dall’idea che lo studio dovrebbe essere un’attività non passiva. Segnalando i numerosi punti di contatto e di attraversamento tra le varie ricostruzioni di uno stesso aspetto, si sono voluti suggerire percorsi di consultazione individuali, autonomi rispetto alla successione dei capitoli proposta dal testo. Le schede di approfondimento sono state ridotte a due sole tipologie essenziali: gli appro­ fondimenti (simbolo td), dedicati all’illustrazione di nozioni e termini fondamentali; i testi commentati (simbolo 03), in cui si offre l’analisi linguistica di brevi ma significativi brani relativi alle tipologie testuali trattate in quel paragrafo. A completare ogni capitolo ci sono poi alcune storie di parole, utili a mettere in luce, attraverso singoli esempi, i meccanismi che agiscono nell’evoluzione del nostro lessico (le parole di cui si fa la storia sono segnalate, nel corso della trattazione, tramite il neretto).

XIV

Manuale di linguistica italiana

In stretta relazione al volume, la piattaforma Mylab, a cui si accede con un codice univo­ co, mette a disposizione una serie ulteriore di ampi commenti linguistici a testi di varia epoca e tipologia, e una serie di esercizi di autoverifica relativi a ciascun capitolo. Pensando a un pubblico di studenti del triennio, o comunque di lettori non specialisti, ci si è preoccupati di spiegare sempre, alla loro prima occorrenza, i termini tecnici adottati e comunque di limitarne la presenza a un uso strettamente funzionale. In questa stessa ottica, si è evitato di ricorrere, nella resa delle pronunce, all’alfabeto fonetico internazionale. Anche la trascrizione delle parole greche ha lo scopo di suggerire l’esatta pronuncia a chi non cono­ sca il greco antico: quindi non si segna alcun accento sui bisillabi piani (logos), si indicano sempre gravi gli accenti nelle parole sdrucciole e tronche (ànghelos e baptismòs), si accenta il primo elemento dei dittonghi (òinos), si tralascia la rappresentazione delle vocali brevi e lunghe (epsilon, età, omicron e omega). Inoltre si è generalizzato l’uso di k: non solo Icore, ma anche tekhne. Pur precisando che la base di provenienza è normalmente l’accusativo, nelle trafile puntuali dal latino all’italiano si è preferito indicare il nominativo perché non si obliterasse la distinzione tra maschile e neutro (quindi: calidus > caldo e speculum > spec­ chio). Con un asterisco si contrassegnano le basi ricostruite del latino volgare, ossia prive di documentazione scritta (*passare). Luca Serianni, Giuseppe Antonelli

Premessa alla nuova edizione

La storia di questo libro è cominciata quindici anni fa. Dapprima sotto forma di un corso multimediale: la Stil.it. Storia ipertestuale della lingua italiana (Bruno Mondadori, 2002), pensata per essere studiata e consultata sia su carta sia su cd-rom. Da lì proviene l’imposta­ zione modulare che ancora adesso è una delle caratteristiche dell’opera. È da quel nucleo, infatti, che è nata la prima edizione del Manuale di linguìstica italiana (Bruno Mondadori, 2011). L’obiettivo era - e resta - quello di affrontare in maniera sintetica aspetti diversi della storia e dell’attualità della nostra lingua, con uno sguardo sempre attento alla dimensione sociolinguistica. , Rispetto alla precedente, questa nuova edizione presenta alcune novità. Sono stati aggior­ nati i rinvìi bibliografici e tutti i dati relativi all’attualità linguistica (come per esempio quelli sul rapporto tra italiano e dialetto); sono state inserite, nei margini, brevi didascalie utili a scandire meglio la successione degli argomenti; sono stati aggiunti alcuni esercizi di autove­ rifica alla fine di ogni capitolo; è stata potenziata la serie della attività in rete. La speranza è che, anche grazie a queste integrazioni, il nostro manuale continui a rappre­ sentare un utile avviamento agli studi di linguistica italiana. Luca Serianni, Giuseppe Antonelli

Gli autori

Pearson Learning Solution tt

Luca Serianni Luca Serianni insegna Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma. È acca­ demico dei Lincei e della Crusca e si è occupato di vari temi di linguistica italiana, dalle Origini all’età contemporanea; è autore di una grande Grammatica italiana (UTET-Garzanti). Negli ultimi anni ha concentrato la sua attenzione sulla didattica delle materie letterarie, con particolare ri­ guardo alla lingua italiana (L’ora d’italiana, Laterza, 4“ ed. 2010; Italiani scrìtti, il Mulino, 2012; Prima lezione di grammatica, Laterza, 12a ed. 2015; Scritti sui banchi, con Giuseppe Benedetti, Carocci, 2015).

Myl ab

v Manuale di linguistica Italiana________ __________________________ g P e a rs o n eText

L 'a tt iv ità d id a tt ic a e d i a p p r e n d im e n to d e l c o r s o è p r o p o s ta a ll'I n te r n o d i u n a m b ie n t e d ig ita le p e r lo s tu d io , c h e h a l'o b ie t tiv o d i c o m p le ta re II lib r o o f fr e n d o r is o r s e d id a tt ic h e fr u ib ili In m o d o a u to n o m o q p e r a s s e g n a z io n e d e l d o c e n te ,

M a te r ia le d id a t t ic o

La p ia tta fo r m a M y L a b - a c c e s s ib ile p e r d lc lo tto m e s i - In te g r a e m o n ito r e l'a t t i v i t à In d iv id u a le d i s tu d io c o n r is o r s e m u ltim e d ia li: s tr u m e n ti p e r l ’a u to v a lu ta z io n e e p e r il rip a s s o d e i c o n c e tti c h ia v e , e s e r c ita z io n i In te r a ttiv e , g r u p p i d i s tu d io e a u le v ir t u a li a n im a te d a s tr u m e n ti p e r l'a p p r e n d im e n to c o lla b o ra tiv o (C h a t, fo r u m , w lk l, b io g ) .

Risorse docente Elenco studenti

Giuseppe Antonelli insegna Storia della lingua italiana all’Università di Cassino, collabora con l’inserto “La lettura” del “Corriere della Sera” e conduce su Radio Tre la trasmissione settimanale La lingua batte. Tra i suoi ultimi lavori; Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. L’italia­ no come non ve l ’hanno mai raccontato (Mondadori, 2014), la curatela, con Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin, della Storia dell’italiano scritto (Carocci, 2014) e Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli, 2016).

r -·ΐκ-

Le r is o r s e m u ltim e d ia li s o n o c o s t r u ite p e r r is p o n d e r e a d u n p re c is o o b ie tt iv o fo r m a t iv o e s o n o o r g a n iz z a te a t to r n o a ll'in d ic e d e l m a n u a le .

Informazioni sulla classe impostazioni

A ll'in t e r n o d e lla p ia tta fo r m a è p o s s ib ile a c c e d e re a ll'e d iz io n e d ig ita le d e l lib r o (eText), a r r ic c h ita d a fu n z io n a lità c h e p e r m e tto n o d i p e r s o n a liz z a r n e la le tt u r a , In s e r ire s e g n a lib r o s tu d ia r e e c o n d iv id e r e n o te a n c h e s u ta b le t. ìh a i m a te r ia li In te g r a tiv i e m u ltim e d ia li s o n o d is p o n ib ili: •

un s e t di

dom ande di autovalutazione Interattive,

o r g a n iz z a te p e r c a p ito lo ;

• esercizi di logica; • testi com m entati

p e r l'a p p r o fo n d im e n to d e llo s tu d io .

N e lle ris o r s e p e r il d o c e n te è d is p o n ib ile u n a ra c c o lta d i slide delie lezioni r e la t iv e a l s in g o li c a p ito li: u n v a lid o s tr u m e n to c h e d e lin e a I c o n c e tti c h ia v e d e l c a p ito lo e o f fr e s p u n ti p e r la d is c u s s io n e In a u la .

L’attività didattica e di apprendimento del corso è proposta all’interno di un ambiente digitale per lo studio, che ha l’obiettivo di completare il libro offrendo risorse didattiche fruibili in modo autonomo o per assegnazione del docente. La piattaforma MyLab - accessibile per diciotto mesi - integra e monitora l’attività indi­ viduale di studio con risorse multimediali: strumenti per Γautovalutazione e per il ripas­ so dei concetti chiave, esercitazioni interattive, gruppi di studio e aule virtuali animate da strumenti per l’apprendimento collaborativo (chat, forum, wiki, blog), Le risorse multimediali sono costruite per rispondere a un preciso obiettivo formativo e sono organizzate attorno all’indice del manuale. All’interno della piattaforma è possibile accedere all’edizione digitale del libro, arric­ chita da funzionalità che permettono di personalizzarne la lettura, evidenziare il testo, inserire segnalibri e annotazioni, studiare e condividere note anche su tablet con l ’app Pearson eText. Tra i materiali integrativi e multimediali di questo manuale sono disponibili: ■ domande di auto valutazione interattive organizzate per capitolo; ■ esercizi di logica; ■ testi commentati.

Alle radici dell'italiano

l.l Alle radici dell’italiano La lingua parlata oggi in Italia è il risultato di profondi mutamenti avvenuti attraverso i secoli. Cominciamo col dire che Γ italiano è una lingua di origine indoeuropea. L’indoeuropeo non è una lingua storicamente accertata, ma una lingua virtuale, ricostruita dagli studiosi moderni in base alla comparazione tra più lingue note, vive o morte. Possiamo immaginare tra iv e m millennio diverse tribù parlanti un insieme di dialetti affini e stanziate in un’area non facilmente precisabile tra Europa e Asia. Attraverso successive migrazioni queste tribù si sono diffuse largamente, sopraffacendo quasi tutti gli idiomi dei popoli conquistati. Oggi parla una bngua indoeuropea quasi la metà dell’intera popolazione del­ la terra, diffusa su tutti i continenti (e marginale solo in Africa). In particolare, sono indoeuropee la seconda, la terza e la quarta lingua più diffuse nel mondo: ossia l ’inglese, l ’hindi - lingua ufficiale dell’Unione India­ na - e lo spagnolo; appartiene invece a un ceppo lingui­ stico diverso il cinese, la lingua parlata in assoluto dal maggior numero di persone. Verso la fine del π millennio, le popolazioni parlanti quel dialetto indoeuropeo che poi sarebbe diventato il la­ tino si stanziano in Italia. Nei primi secoli del i millennio, all’epoca della fondazione di Roma (che la tradizione col­ loca nel 753 a.C.), il latino è parlato solo in questa città, a stretto contatto con popolazioni di lingua etnisca a nord, e di lingua osco-umbra a est e a sud. Dell’etrusco - attestato quasi soltanto da epigrafi - ignoriamo ancora molte cose, ma sappiamo per certo che si trattava di una lingua non indoeuropea. L’osco-umbro era invece un insieme di fin-

2

Il la tin o v o lg a re

C a p ito lo 1 - A lle r a d ic i d e ll’ Ita lia n o

3

■ tramite nuove formazioni, come qualitas e medietas, sostantivi coniati da Cicerone per rendere i termini greci poiòtes e mesòtes.

Fig. 1. L ’a t tu a le d if f u s io n e d e l l e lin g u e in d o e u r o p e e nel m ondo.

Il greco, inoltre, essendo stata la prima lingua delle comunità cri­ stiane fuori di Palestina, ha permeato tutto il vocabolario religioso, fornendo parole necessarie ■ per esprimere nozioni estranee alla cultura pagana (come an ­ gelus ‘angelo’, monachus, episcopus ‘vescovo’, baptismum ‘battesimo’, chrisma ‘cresima’); ■ per sostituire termini latini troppo compromessi col paganesimo (propheta in luogo di vates, ecclesia e basilica in luogo di templum ).

1.2 II latino volgare

L’influsso del greco

gue e dialetti indoeuropei parlati prima dell’avvento del latino in gran parte dell’Italia centromeridionale e testimoniati da alcune centinaia di iscrizioni risalenti a un periodo compreso tra il v secolo a.C. e il i secolo d.C. Dopo la fine della guerra sociale (88 a.C.), che segnò la sconfitta definitiva delle popolazioni italiche, né l’osco né l’umbro furono più adoperati come lingue ufficiali. L’etrusco e Γosco-umbro hanno avuto notevole influenza sul latino, soprattutto in àmbito les­ sicale. Sono di origine etrusca, per esempio, parole come populus, catena e taberna; risalgono invece ad altre lingue italiche, in parti­ colare all’osco-umbro, molti nomi che designano animali, come bos ‘bue’, ursus ‘orso’, lupus, turdus ‘tordo’, scrofa e bufalus. Decisamente più importante è l’influsso esercitato dal greco. Persino l’alfabeto latino è chiaramente apparentato con gli alfabeti greci occidentali usati nelle colonie dell’Italia meridionale e in par­ ticolare a Cuma, antica città della Campania fondata dai Calcidesi. Vari e numerosi sono i grecismi di àmbito quotidiano: da oliva a macina ad amphora; spicca, in particolare, il contingente di parole marinaresche come prora, ballaena, delphinus e gubernare ‘reggere il timone di una nave’, poi applicato al mondo delle isti­ tuzioni politiche (governare e governo). Il greco ha fornito al lati­ no le parole e soprattutto l’impalcatura concettuale di molto lessico astratto. Ciò è accaduto: ■ attraverso l’assegnazione di nuovi significati a parole già esi­ stenti come ratio (che, accanto a quella di ‘calcolo’, assume la nuova accezione di ‘ragione’) e putare (‘contare’, poi anche ‘ritenere’);

L’italiano deriva, dunque, dal latino e appartiene alla famiglia delle lingue romanze (o, appunto, neolatine). All’epoca della sua mas­ sima diffusione, il latino raggiunse regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa centrosettentrionale in cui fu successivamente sopraf­ fatto da altre lingue e da altre culture. Ma comunque è assai consi­ stente l ’àrea in cui si parlano ancora lingue neolatine. Quest’area, che i linguisti designano riprendendo l’antico termine di Romània, si estende - sia pure con soluzioni di continuità - dal mar Nero (sul quale affaccia la Dacia, l’odierna Romania) all’oceano Atlantico (che bagna il Portogallo). Quando si dice che l ’italiano deriva dal latino, non bisogna dimenticare che solo una parte del vocabolario latino è arrivata fino a noi senza soluzioni di continuità (le parole dette di tra­ fila popolare o ereditarie). La maggioranza è stata recepita nei secoli per via scritta, libresca, e dunque non sempre presenta le trasformazioni di suono e di significato proprie dei vocaboli di uso ininterrotto: sono queste le parole di trafila dotta, dette anche latinismi o cultismi. Non solo: il latino da cui derivano l’italiano e le altre lingue ro­ manze non è quello che ancora oggi si studia a scuola. Il latino, come ogni altra lingua storica, era una realtà complessa e varia. Quello che si studia a scuola è solo una minima porzione di questa lingua: il latino classico, vale a dire quel latino codificato da alcuni grandi scrittori nell’età di Cesare e di Augusto (i secolo a.C. - 1 seco­ lo d.C.) e per secoli ammirato come modello letterario insuperabile. L’assegnazione dell’aggettivo classico al termine latino si deve al grammatico ed erudito latino Aulo Gelilo (n secolo d.C.), che appli­ cò alla letteratura la divisione della popolazione in diverse “classi”

L’italiano: una lingua neolatina

Trafila popolare e trafila dotta

il latino classico

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Il latino volgare

Capitolo 1 - Alle radici dell’Italiano

Fig. 2. La Romània, ovvero l ’area in cui sì parlano le lìngue romanze (o neolatine).

Il latino volgare

A t'l’l'lO t-O N ilIM LN TO

economiche. Come alla prima classe appartenevano i cittadini emer­ genti, per censo e potere, così furono detti “di prima classe”, “clas­ sici”, gli scrittori eccellenti, quelli a cui guardare come modello: in particolare Cicerone, Cesare, Livio per la prosa; Virgilio, Orazio, Ovidio per la poesia. Chi parlava latino, però, parlava una lingua alquanto diversa dal latino classico, almeno nel lessico e nella pronuncia. Proprio questo tipo di latino - il cosiddetto “latino volgare”, che varia­ va notevolmente a seconda dei luoghi - è all’origine delle lingue romanze o neolatine. Schematizzando, possiamo affermare che il latino volgare (una definizione e un concetto ancora discussi tra gli studiosi) è il latino parlato dell’uso familiare così com’era venuto atteggiandosi nell’età della decadenza. Un tipo di latino caratte­ rizzato da diverse innovazioni, ma anche da molti tratti arcaici. Per esempio, la caduta della -M finale (che ha condotto dal lati­ no fontem all’italiano fonte) è un fenomeno documentato già in iscrizioni arcaiche (in cui la -M non veniva rappresentata), poi te­ nuto a freno dalla scuola e riaffermatosi definitivamente nel tardo impeto. Lo testimonia anche la metrica classica, in cui la -M finale non veniva pronunciata se era seguita da una parola cominciarne per vocale. Quanto alle differenze geografiche, dobbiamo presupporre già all’interno della lingua latina un certo tasso di variazione diatopica, soprattutto a livello lessicale. Non è probabile, per esempio, che per denominare il ‘capo’ (latino classico caput ) il latino volgare abbia posseduto uniformemente i sostantivi caput (continuato da rumeno, catalano e da numerosi dialetti italiani tra cui il toscano; nell’Italia meridionale troviamo anche il femminile capa) e capitia (caput + il suffisso -ιτιά , continuato da castigliano e portoghese),

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LA V A R IA Z IO N E L IN G U IS T IC A

Una lingua viva non è un organismo immobile e definibile una volta per tutte, perché si modifica in rapporto a diversi fattori: il trascorrere del tempo, lo spazio geografico, il livello socioculturale di chi la parla (o la scrive), la situazione comuni­ cativa, il mezzo di comunicazione che veicola il messaggio. Studiare una lingua in diacronia (dal greco dia ‘attraverso’ e khrònos ‘tempo’) significa esaminare i mutamenti che nel corso del tempo hanno interessato quella lingua, non solo all’atto della sua nascita (nel nostro caso il passaggio dal latino volgare all'italiano) ma in tutta la sua evoluzione, fino al suo assetto attuale. Le trasformazioni di una lingua in diatopìa (dal greco dia ‘attraverso’ e topos ‘luogo’) sono quelle determinate dallo spazio geografico in cui quella lingua si parla. Il latino volgare ha dato vita, al variare dei luoghi, non solo alle varie lingue romanze, ma anche alla grande quantità di dialetti presenti nella nostra penisola, diversi da regione a regione, da città a città e, talvolta, da paese a paese. Una lingua può mutare anche in relazione alla diastratìa (dal greco dià ‘attra­ verso’ e dal latino stratus), ovvero allo strato sociale, al grado d’istruzione e quindi alla competenza linguistica dei parlanti (o degli scriventi). Una persona di livello socioculturale elevato parla (e scrive) in modo diverso da chi è meno istruito. Studiare una lingua in relazione alla diafasia (dal greco dià ‘attraverso’ e phasis ‘il parlare’) significa indagarne le trasformazioni legate alla situazione comunica­ tiva. In un colloquio di lavoro si usa un registro formale, mentre parlando con un amico si ricorre - a parità di contenuti - a un registro confidenziale. Ogni lingua varia anche in rapporto alla diamesìa (dal greco dià ‘attraverso’ e mesos ‘mezzo’), vale a dire a seconda del canale di comunicazione che viene usato per trasmettere un dato messaggio. La lingua scritta presenta caratteristi­ che diverse rispetto alla lingua che si parla avendo di fronte un interlocutore.

testa (propriamente ‘vaso di argilla’, presente nella Romània cen­ trale), conca (continuato dal sardo) e cochlea (da cui coccia, vivo nell’Italia centrale). Evidentemente, all’epoca del latino volgare esisteva già una differenziazione all’interno dei vari tipi di latino parlato nell’Impero romano, poi irrigiditasi nel passaggio alle lingue romanze. Se il latino volgare coincide in primo luogo con la lingua parlata, è evidente che la sua ricostruzione può essere solo parziale e indiret­ ta. Le fonti di cui possiamo disporre sono

■ le iscrizioni di carattere privato, in cui lo scalpellino è potuto fa­ cilmente incorrere in qualche volgarismo; in particolare i graffiti

Le fonti del latino volgare

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Capitolo 1 - Alle radici dell’Italiano

Il latino volgare

(come quelli pompeiani, che sono sicuramente databili: non si può infatti risalire a molto prima del 79 d.C., l’anno dell’eruzio­ ne del Vesuvio che seppellì Ercolano e Pompei); ■ le testimonianze di grammatici e maestri di scuola che, nel con­ dannare un certo abuso linguistico, ne attestano la vitalità: nella cosiddetta Appendix Probi, per esempio, un autore ignoto del ni se­ colo d.C. ha compilato a scopi didattici una lista di 227 coppie di parole - secondo lo schema speculum non speclum, columna non colomna, auris non oricla - in cui al primo posto si trova la forma corretta secondo i precetti grammaticali del tempo, al secondo quella “sbagliata”, ovvero influenzata dalle tendenze di pronuncia allora dominanti (decisamente più vicina a quella che si è poi affermata in italiano); tr v io

« V iiu

,

[ tJ a n t i PERIA QUISQUIS AMARE VOTA

Slamo di fronte a un inno alla vita e ai suoi piaceri trascritto in versi metri" cernente regolari, ma In una lingua fortemente volgareggiante. La versione in latino corretto sarebbe stata: «Quisquis amat valeat, pereat qui nescit amare; / bis tanti pereat quisquis amare vetat», ovvero ‘evviva chiunque ama, abbasso chi non sa amare; due volte abbasso chiunque si oppone all’amore’. La lingua del graffito presenta la caduta delle consonanti finali diverse da -S in tutte le forme verbali (per esempio ama per amat) e altri fenomeni fonetici che interessano le vocali, come la chiusura della e in iato nelle forme valia e peria (latino classico valeat e pereat) e l’alterazione della vocale in vota (latino classico vetat) e nosci (latino classico nescit), per effetto dello stesso vocalismo arcaico che ha portato la forma voster (continuata poi nell’italiano vostro) a sostituire il latino classico vester. Di questi e altri fenomeni si parlerà più diffusamente nei paragrafi 1.3 e 1.4. Testo cit. in

cil

✓ L A C L A S S IF IC A Z IO N E DEI SU O N I D ELLA L IN G U A I T A L IA N A

La classificazione dei suoni della lingua italiana viene fatta in base a diversi para­ metri. La distinzione tra vocali e consonanti, per esempio, si basa sul fatto che nell’articolare le prime l’emissione d’aria, sfruttando la cavità orale come cassa di risonanza, non incontra ostacoli; nella realizzazione delle seconde, invece, l’aria incontra un ostacolo. Ecco lo schema delle vocali toniche, cioè accentate:

U N D IS T IC O P O M P E IA N O

QUISQUIS AMA VAUA PERIA QUI MOSCI AMA[ReJ ris

Λ 1'Π ΙΟ Ι:Ο Ν Ο ΙΜ Ι N ΓΟ

(Corpus Imerìptionum Latinamm, Berlin 1862 ss.).

■ gli scritti di semianalfabeti (specie i testi privati come diari e let­ tere) o comunque di persone con una limitata competenza della norma grammaticale insegnata a quel tempo nelle scuole: uno dei più importanti è VItinerarium Egeriae (databile all’inizio del v secolo d.C.), resoconto di un pellegrinaggio compiuto nei luo­ ghi santi della cristianità da una monaca spagnola; ■ le opere di autori letterari che tendano alla riproduzione dell’uso popolare, sia pure filtrato dalla loro coscienza artistica: così è per

Le vocali si distinguono in base alia posizione che la lingua assume durante l’articolazione. Si chiama perciò centrale la a, che si realizza con la lingua ap­ piattita sul pavimento della bocca; si dicono anteriori o palatali la e aperta (è), la e chiusa (é) e la /, che si articolano con la lingua in posizione avanzata e sollevata verso il palato duro; sono posteriori o velari la o aperta (ò), la o chiusa (ó) e la u, che si articolano con la lingua in posizione arretrata e sollevata in corrispondenza del velo palatino (o palato molle). Le consonanti vengono definite in base a tre parametri: 1. il modo di articolazione, ovvero il tipo di ostacolo incontrato dall’aria durante l’emissione; in particolare, una consonante si dice occlusiva se c’è una chiusura che interrompe l’uscita dell’aria; costrittiva, fricativa o spirante se c’è un restrin­ gimento che non interrompe il flusso dell’aria; affricata se è costituita da un elemento occlusivo e un elemento costrittivo connessi tra loro; 2. il luogo di articolazione, che permette di classificare le consonanti in labiali (articolate con le labbra), labiodentali (con labbra e denti), dentali, alveolari (in cui la punta della lingua tocca gli alveoli degli incisivi superiori; la / prende il nome specifico di laterale), palatali e velari; 3. tratti accessori come il carattere orale o nasale del suono (a seconda che l’aria in uscita passi solo attraverso la bocca o anche attraverso il naso); la presenza o l’assenza di vibrazione delle corde vocali, che è alla base della distinzione delle consonanti in sonore e sorde (le vocali sono tutte sono­ re); la diversa energia articolatoria, che è responsabile del grado d’intensità delle consonanti tenui (ovvero scempie) o intense (doppie). A vocali e consonanti si aggiungono due semiconsonanti (o semivocali, o appros­ simanti): lo “iod”, palatale (ovvero il suono della i di ieri e notaio), e il “wau”, velare (la u di uomo e buono), che si impostano come le vocali corrispondenti ma hanno una durata più breve, perché l’articolazione passa subito alla vocale seguente. u*

7

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Dal latino all’italiano: i suoni

Capitolo 1 - Alle radici dell’italiano

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1.3 Dal latino all'italiano: i suoni LUO GO DI A R T IC O L A ZIO N E Labiali TRATTI Sorde DISTINTIVI ORALI

\P

Labiodentali

Sonore

Sorde

Sonore

b

1

Dentali Sorde

Sonore

t

d

Alveolari Sorde

Sonore

Palatali Sorde

Sonore

Velari Sorde

Sonore

k

s

OCCLUSIVE NASALI

m

n

AFFRICATE f COSTRITTIVE .ORALI

V

n

ts

dz

tf

àò

s

z

J

(3)

r I

R

Nello schema i suoni consonantici sono rappresentati attraverso i simboli dell’alfabeto fonetico internazionale (ufficialmente, ipa: International Phonetic Alphabet). Qualche esempio: /p/ pane; Ib i bocca; Im i mano; I t i tela; Id i dare; In i naso; / ji / bagno; Ik l cane; Igl gatto; liI fame; Ivi vedo; Isl sole; Izl sbirro; i j l sciame; I r l rosa; l\l lima; IKI figlio; /tj'/ cielo; Id ^l gelo; Its l canzone; Idzl zero. Il suono /j/ non viene impiegato da solo in italiano, ma concorre a formare la consonante affricata palatale sonora /dg/; corrisponde alla pronuncia to­ scana della parola pagina.

le commedie di Plauto (254-184 a.C.) e per il Satyricon di Petro­ nio (vissuto nel i secolo d.C.), in cui si mette in scena, tra l’altro, il rozzo arricchito Trimalcione, che si esprime in un linguaggio popolareggiante; ■ infine, ed è la fonte più importante, il confronto tra le varie lingue romanze, che consente di ricostruire una forma non do­ cumentata ma ragionevolmente attribuibile al latino parlato: allineando l’italiano passare, il francese passer, lo spagnolo pasar, possiamo facilmente ricostruire nel latino volgare un verbo "'passare (l’asterisco indica appunto una “forma rico­ struita”), non documentato storicamente e tratto dal sostantivo passus; questo verbo, di coniugazione regolare e di significato trasparente, doveva essere molto più vitale e diffuso del latino classico transire , che pure sopravvive ancora oggi nel tipo dialettale meridionale trasire.

In latino esistevano dieci vocali: ognuna delle cinque distinte dall’al­ fabeto (A, E, I, O, U) poteva infatti essere articolata come breve o come lunga (“quantità” vocalica). La quantità aveva valore distinti­ vo; in una coppia di parole, cioè, la differenza poteva fondarsi esclu­ sivamente su quest’aspetto: per esempio, venit con E breve signi­ ficava ‘viene’ / vénit con E lunga ‘venne’; solum ‘suolo’ / sólum ‘solo’. Nel latino tardo, questo sistema entrò in crisi e nel vocalismo divenne determinante non più la quantità delle vocali (lunghe-bre­ vi), ma la qualità o timbro (chiuse-aperte). Nella maggior parte della Romània si sviluppò per le vocali toniche un sistema di sette unità: i, é, è, a, ò, 6, u. In fiorentino, inoltre, la è e la ò toniche che si trovavano in sillaba libera o aperta (ovvero terminante per vocale) dittongarono rispet­ tivamente in iè e uò. Il dittongamento non si è prodotto se la stessa vocale si trovava in sillaba implicata (vale a dire chiusa da una con­ sonante): è il motivo per cui si ha, per esempio, fuoco da fó -cus ma corpo da cor-pus . latino classico italiano

j | 1

ϊ

E

V e

È 1 è iè

À

A

\/ a

Ó | ò

ο

ϋ

La perdita della quantità vocalica

li dittongamento

u u



Un fenomeno schiettamente toscano è poi quello dell’anafonesi, che consiste nella chiusura - in particolari condizioni - delle vocali toniche é (da E e Ϊ latine) e ó (da Ò e lJ latine) rispettivamente in i e u. In particolare, la é deve essere seguita da laterale palatale (il suono che si ha in figlia, gli) o nasale palatale (il suono che si ha in bagno, gnu) provenienti dai nessi latini -lj - e -n j - (come in familia > famiglia >famiglia e graminea > gramigna > gramigna), o an­ cora dai nessi latini -ng - e -nk - (come in lingua > lingua > lingua e vinco > vinco > vinco). L’anafonesi da 6 si ha, invece, solo se questa si trova davanti al gruppo consonantico ng (come in fungus >fin g o >fungo), non davanti a nk. Dei dittonghi del latino classico, ae confluisce in E pronunciata con timbro aperto (per cui da maestus si passa a mesto e da laetus a lieto, con dittongamento di e aperta in sillaba libera); il raro oe si confonde con E chiusa (come in pena da poena ) e au , monottongatosi in O lunga già in alcune parole classiche (come in cauda > coda), si riduce nell’alto Medioevo a o aperta (come in poco da paucus).

L’anafonesi

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Capitolo 1 - Alle radici dell'italiano

Dal latino all’italiano: i suoni

Tra le vocali atone, cioè non accentate, poste rispettivamente pri­ ma o dopo della sillaba accentata {protoniche le prime; postoniche le seconde), le dieci del latino classico si riducono a cinque, venendo meno la e e la o aperte. latino classico italiano

L’epentesi

La sincope

La sonorizzazione parziale delle consonanti sorde intervocaliche

L’alterazione dei nessi consonantici

j j ì

ϊ

E

\

1 / e

E

A

\ a/

A

ó

\

ó

1 / 0

ϋ

0 u

Nel passaggio dal latino all’italiano, si assiste talvolta alV epentesi, ovvero allo sviluppo di una vocale o di una consonante alTinterno della parola, soprattutto per evitare incontri fonici inusuali (come in baptismum > battesimo e in vidua > vedova)·, per l ’incremento all’inizio o alla fine di una parola si parla rispettivamente di prostesi (latino scriptus: lo scritto ma per iscritto-, ma il fenomeno è quasi del tutto scomparso) ed epìtesi (frequente nei monosillabi ossitoni, soprattutto nell’italiano antico e in alcuni dialetti moderni: piùe, sìe, nòe\ sine e none con epitesi sillabica). Assai più frequente è la sincope, ossia la caduta di una vocale all’interno di una parola, che interessa soprattutto le vocali intertoniche, cioè poste tra l’accento secondario (un accento più debole, di appoggio, che si sviluppa in parole di quattro o più sillabe: in prìncipalménte l’accento principale cade sulla penultima sillaba, quello secondario sulla prima) e quello tonico (vanìtare > vantare) e in misura minore quelle postoniche (come in calidus > caldo), in cui è però sistematica la sincope nel suffisso -ìjlus (spèculum > speclum > specchio). La caduta di una vocale, una consonante o una sillaba si dice aferesi se avviene a inizio di parola (A llei > lei ), apocope o troncamento se si verifica a fine parola (bonitatem, accusativo di bonitas > bontade > bontà). Nel consonantismo, oltre alla precoce caduta delle consonanti finali, è notevole la sonorizzazione parziale delle consonanti sorde intervocaliche, vale a dire la tendenza delle consonanti sorde po­ ste tra due vocali o tra vocale e r del latino a diventare in italiano sonore. Il fenomeno interessa le tre occlusive p, t, k, che si trasfor­ mano rispettivamente in b (successivamente diventata v per effetto di un altro fenomeno detto spirantizzazìone), d c g, e la sibilante s (quest’ultimo caso non è registrato dalla grafia: è sonora la s di rosa). Non si tratta, però, di un fenomeno sistematico in italiano: si hanno pertanto lacus > lago, episcopus > vescovo e scutum > scu­ do, ma anche amicus > amico, petra > pietra e apèrtus > aperto. Variamente alterati risultano i nessi consonantici.

■ In alcune sequenze di due consonanti, la seconda ha per così dire “reso simile” a sé la prima, producendo una assimilazione regres­ siva: da lactem, septem, advenire si è passati a latte, sette, av­ venire (l’assimilazione progressiva è invece un fenomeno sostan­ zialmente estraneo al toscano: per esempio, *andare > romanesco anno)· Esiste anche il fenomeno inverso, la dissimilazione, che si verifica quando in una sequenza fonica si avverte l’esigenza di evi­ tare la ripetizione di uno stesso suono, come in venenum > veleno. ■ I nessi di consonante + L evolvono in nessi di consonante + “iod”: per esempio plus > più, clamat > chiama·, la consonante si raddoppia se il nesso si trova tra due vocali: nebula > *nebla > nebbia, vetulus > *vetlus > *veclus > vecchio. ■ I nessi intervocalici di consonante + “iod”, nei quali confluisco­ no le sequenze latino-classiche di consonante + i e di consonante + e, offrono un ampio spettro di esiti. * Le consonanti diverse da R e S si raddoppiano (habeat > ab­ bia, simia > scimmia). ■ Se la consonante è un’affricata palatale sorda o sonora (esi­ to di una velare del latino classico), lo “iod” viene assorbito (faciat > faccia, regia > reggia). In questi casi la i è un segno diacritico·, cioè non ha valore fonetico, ma serve a di­ sambiguare il valore della lettera precedente (a non leggere cao invece di ciao). Una laterale e una nasale dentale, dopo essersi raddoppiate, evolvono ulteriormente dando luogo a suoni palatali (vinea > *vinnja > vigna, filius > *filu u s > figlio). Le dentali, sorda e sonora, passano ad affricate alveolari (pretium > *prettium > prezzo, medius > *meddius > mezzo). Accanto a questi esiti, se ne registrano altri due per il gruppo T + “iod”: 1) costrittiva palatale sonora (è la pronuncia toscana di ragione', l’ita­ liano ufficiale realizza un’affricata) in pregio, anch’esso derivato da pretium, ma attraverso un intermediario antico francese o pro­ venzale; 2) affricata palatale sorda in un gruppo di parole, tutte di formazione tarda e non attestate in testi latini, in cui il nesso è pre­ ceduto da consonante: *comin(i )tiare > cominciare, *guttiare > gocciare. Anche D + “iod” presenta un secondo esito: Γ affricata palatale sonora di raggio (radius). Quanto al nesso S + “iod”, in fiorentino si hanno originariamente due esiti distinti, imperfettamente rappresentati dalla grafia: si­ bilante palatale sorda e sonora (basium > bacio, nella pronuncia toscana); pensionem , accusativo di pensio > pigione. La pro­ nuncia italiana è poi passata ai corrispondenti suoni affricati. In R + “iod”, la consonante cade (area > *arja > aia, nota rius > notaio).

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Capitolo 1 - Alle radici dell’Italiano

A F 'l'R O IO N U IM L N r O

Dal latino all’italiano: le forme

» ' GLI A L L Ò T R O P I

AI'l'ltO FO N LH M FN 'l O

Come si ricava anche dagli esempi precedenti, dalla stessa base latina derivano a volte due o più parole italiane: spesso una per via popolare, l’altra per via dotta. Queste forme, dette allòtropi, si differenziano per ragioni fonetiche, ma anche semantiche. Di solito, la parola popolare sviluppa un significato con­ creto, quotidiano, marcato dall’affettività; la parola dotta, più vicina alla base latina anche sotto il profilo fonetico, tende a mantenere il significato origina­ rio del latino classico (area > aia ‘spazio davanti alla casa colonica’ rispetto ad area ‘superficie’, plebem, accusativo di plebs > pieve ‘comunità di fedeli di una circoscrizione ecclesiastica medievale’ e poi ‘chiesa’ rispetto a plebe, radius > razzo e raggio rispetto a radio).

Perdita delle declinazioni e del sistema dei casi

1. Delle cinque declinazioni del latino classico, le due più debo­ li - la quarta e la quinta - scompaiono quasi completamente. In particolare, i vocaboli della quinta e i femminili della quar­ ta confluiscono nella prima (facies > faccia, rabies > rabbia; nurus > *nora > nuora, socerus > socera > suocera', manus ha invece mantenuto genere femminile e uscita in -o: la mano)·, i maschili della quarta vengono assorbiti dalla seconda (anche perché molte desinenze erano già in origine comuni alle due de­ clinazioni). Prima e seconda declinazione sono di fatto le uniche rimaste produttive in italiano. Anche per effetto della caduta della -M e delle altre consonan­ ti finali, viene meno il sistema delle desinenze, con importanti conseguenze sull’ordine delle parole. In latino, grazie alle desi­ nenze, era sempre possibile capire se un nome fosse soggetto o oggetto: l’ordine delle parole nella frase, quindi, era sostanzial­ mente libero (alla sequenza più comune, soggetto + oggetto + predicato Petrus Paulam amai potevano affiancarsi tutte le altre combinazioni: Petrus amat Paulam, Amai Paulam Petrus). In ita­ liano e nelle altre lingue romanze, invece, la perdita dei casi ha bloccato l’ordine delle parole, che è diventato rigido (in Pietro

LA P R O D U T T IV IT À L IN G U IS T IC A

È la capacità di una classe morfologica di generare nuove parole. In italiano sono produttive le classi nominali dei maschili in -o (il lupo) e dei femminili in -a (la rosa), non le classi dei maschili e dei femminili in -e (il sole, la volpe), che mantengono le parole preesistenti senza aggiungerne di nuove, a meno che non si inseriscano in serie suffissali preesistenti (come per esempio -zione, nei neo­ logismi coibentazione o turnazione). Quanto alle coniugazioni, l’unica stabilmente produttiva è la i (amare); in misura minore anche la iv, soprattutto fino all’alto Medioevo, epoca in cui sono stati inquadrati in questa coniugazione alcuni verbi di origine germanica (guarire, schernire, smaltire).

1.4 Dal latino all’italiano: le forme Le trasformazioni morfologiche (cioè relative alle forme grammati­ cali: terminazioni nominali, desinenze verbali e così vìa) compiutesi nel latino volgare hanno radicalmente mutato la tipologia linguistica del latino. Possiamo riassumerle in tre punti: 1) perdita delle decli­ nazioni e del sistema dei casi; 2) perdita del neutro; 3) ristrutturazio­ ne del sistema verbale.



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2.

3. * *



ama Paola è solo la posizione, rispettivamente prima o dopo il predicato, che ci consente di stabilire qual è il soggetto e quale l’oggetto). L’accusativo si impone sugli altri casi, di cui riman­ gono solo pochi relitti. Scomparso il neutro, i generi si riducono a due: maschile e femminile. L’italiano mantiene una traccia dell’antico plurale neutro in una serie di plurali fem m inili in -a come le ossa (< ossa), le braccia (< brachia). In generale, accanto al plu­ rale in -a, esiste un plurale regolare in -i; in questi casi il primo ha valore collettivo, il secondo indica piuttosto una molteplicità di oggetti considerati nella loro individualità (le ossa del corpo umano, ma gli ossi di pollo nel piatto; le braccia di una persona ma i bracci della croce). In altri casi, un originario plurale neu­ tro in -a è stato percepito come un femminile singolare: vela (plurale di velum ) ha dato la vela, folia (plurale di folium ) la foglia. Profonda ristrutturazione del sistema verbale: delle quattro coniugazioni del latino classico, restano produtti­ ve la i e in parte la iv; molte forme verbali sintetiche scompaiono senza lasciare trac­ cia, sostituite da forme analitiche: il passivo amor ‘sono ama­ to’ è soppiantato da amatus sum o sum amatus (e i verbi de­ ponenti, già deboli nel latino classico, escono presto dall’uso); al futuro sintetico (amabo ‘amerò’) si sostituiscono varie peri­ frasi (per l’italiano si muove dall’infinito e da una forma ridotta di habeo ‘ho’: da cantare + *ao si ha canterò); nasce il condizionale (un modo verbale che in latino non esi­ steva) formato dalla combinazione deH’infinito con una for­ ma ridotta del perfetto latino volgare di habeo : da cantare

Perdita del genere neutro

Ristrutturazione del sistema verbale

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Capitolo 1 - Alle radici dell’Italiano

- „ „ „ .. .e . ™ A P I'M O IO N D IM C N T O

* D A Q UALE CASO D E R IV A N O L i PAROLE

IT A L IA N E :

In italiano, come nelle altre lingue romanze, i singolari derivano di norma dall’ac­ cusativo latino (rosam > rosa, lupum > lupo, oratorem > oratore) o dal nomina­ tivo-accusativo per i neutri della li e della m (collum > collo, corpus > corpo), I plurali della i declinazione, sia che procedano dalla desinenza - ae del nominativo sia che muovano da quella dell’accusativo -as, confluiscono nell’esito -e: rosae > rose (trafila prevalente nell’area centromeridionale) e rqsas > rose (prevalente in Toscana e nel settentrione); nel secondo caso il passaggio as > e si deve alla palatalizzazione della consonante finale: -as > *-oj con successiva riduzione del dittongo (fenomeni avvenuti anche nella morfologia verbale; lo confermano for­ me dell’italiano antico come ame ‘tu ami’, dal latino amas). Più complessa la ricostruzione dell’origine dei plurali maschili di il declina­ zione. Secondo uno studio recente, nel latino volgare si sarebbe avuto - per un certo periodo - un sistema a due casi, con la desinenza nominativale -i per i nomi di persone ed esseri animati (in grado di compiere azioni: lupi > lupi) e, invece, la desinenza accusativaie -os per i nomi astratti e di oggetti. Questo sistema sarebbe rimasto in uso fino all’epoca in cui, con la caduta delle conso­ nanti finali, l’esito della desinenza -o(s) > -o finì per confondersi con quello di - u ( m) > -o: fqcum > fòco, focos > *foco. Solo allora si sarebbe generalizzata la forma derivata dal nominativo. Tracce di questa duplice evoluzione rimangono nella differenza tra amici (< amici) e fuochi (< focos) e non *fuoci: nel primo caso si ha palatalizzazione della velare sorda davanti a -i; nel secondo, invece, la -c- è rimasta velare, inizialmente perché seguita da -os e successivamente anche da­ vanti alla desinenza -/ perché questa fu adottata quando ormai il fenomeno della palatalizzazione si era esaurito. Quanto ai plurali della ili declinazione, è difficile dire se derivino dalla desinenza nominativo-accusativale classica - es (> *-ej > -i) o se continuino quella arcaica e poi latino-volgare -is (> -/) perché l’esito è, in entrambi i casi, il plurale in -/: vulpes > volpi, oratores > oratori oppure vulpis > volpi, oratoris > oratori (lo stesso vale per forme verbali come legis > tu leggi). Poche, infine, le sopravvivenze del nominativo, come in homo > uomo, mulier ‘donna’ > moglie, rex > re. Nel sistema dei pronomi personali e relativi, si mantiene l’opposizione tra il nominativo e gli altri casi: ego > io / me > me, tu > tu/ te > te, ;ììlu > e g li/latino volgare illui > lui; quem > c h e /c u i > cui (un tempo adoperato anche per l’oggetto diretto: «Or che ’l piè saldo fermai su ’l termine / cui combattendo valsi raggiungere», Carducci).

+ * h e b u i t si ha canterebbe. L’italiano antico conosceva una forma alternativa di condizionale, ottenuta dalla combinazione dell’infinito e dell’imperfetto di h a b e o : c a n t a r e + h a b e b a t > cantaria, canterìa.

Dal latino all’italiano: le parole

15

1.5 Dal latino all'italiano: le parole Gran parte del vocabolario latino classico si ritrova, per via popo­ lare o dotta, in italiano e nelle altre lingue romanze. Diverse parole, proprie del lessico poetico o elevato, scompaiono però senza lasciar traccia ( a m n i s ‘fiume’, n e m u s ‘bosco’) se non in alcuni nomi di luogo (topònimi ) che continuano, in forma cristallizzata, alcune pa­ role del latino classico uscite dall’uso. Così Teramo e Temi derivano da i n t e r a m n a , propriamente ‘tra due fiumi’ ( i n t e r a m n e s ) e i to­ ponimi Nemì e Nembro rimandano a n e m u s . Anche u r b s , presso­ ché privo di continuatori popolari in tutta l’area neolatina (Γitaliano urbe è un latinismo), sopravvive in Orvieto ( u r b s v e t u s ) e Urbisagìia ( u r b s s a l v i a ). Per il resto, l’innovazione segue tre direttrici fondamentali. 1. Si preferiscono parole espressive, più trasparenti e immediate, e anche morfologicamente più regolari: f l e r e ‘piangere’ viene so­ stituito da p l a n g e r e ‘battersi’ il petto in segno di dolore, e d e r e ‘mangiare’ da m a n d u c a r e ‘dimenare le mascelle’. 2. Escono d’uso parole di scarso corpo fonico, ulteriormente de­ curtate dalla perdita delle consonanti finali: r e s ‘cosa’ cede a c a u s a , c r u s ‘gamba’ cede al grecismo g a m b a propriamente ‘zampa’ di animale, una parola oltretutto più espressiva, come tutti i vocaboli di origine scherzosa. La componente giocosa propria della lingua colloquiale è, del resto, il motore di un di­ screto numero di innovazioni lessicali avvenute nel latino par­ lato. È frequente, per esempio, la tendenza a degradare una parte del corpo umano equiparandola a una cosa o a un anima­ le, com’è avvenuto anche per t e s t a > testa (accanto a c a p u t > capo) ‘vaso di coccio’, f ì c a t u m >fegato (invece di i e c u r ) ‘fe­ gato d’oca ingrassato con fichi’, un piatto della cucina romana antica. 3. Per effetto di queste due tendenze, molte parole semplici sono sostituite dai rispettivi diminutivi, fonicamente più corposi e più carichi di affettività: così accade, per esempio, per g e n u e g e n u c u l u m (ginocchio), a g n u s e a g n e l l u s (agnello). Analogamen­ te, ai verbi semplici vengono preferiti i verbi frequentativi, che originariamente indicavano un’azione ripetuta. In latino si for­ mavano dal tema del supino ed erano inquadrati nella i coniuga­ zione: per esempio c a n t a r e ‘canticchiare’ da c a n t u s (rispetto a c a n e r e ‘cantare’), s a l t a r e ‘saltellare’ da s a l t u s (rispetto a s a l i r e ‘saltare’). Nei derivati romanzi non c’è più traccia dell’o­ riginaria sfumatura iterativa: il verbo frequentativo ha del tutto sostituito il verbo semplice.

L’innovazione lessicale

Espressività e trasparenza

Aumento del corpo fonico

Aumento di diminutivi e frequentativi

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I latinismi

Capitolo 1 - Alle radici dell’italiano

Cambiamenti di significato

S o n o a s s a i c o m u n i i c a m b i a m e n t i d i s i g n i f i c a t o , p e r v a r ie r a g io n i :



l ’i n f l u s s o d e l l a s e m a n t i c a c r i s t i a n a ( o r a r e p a s s a d a ‘c h i e d e r e ’ a ‘p r e g a r e ’);



la c o l l i s i o n e o m o f o n i c a , o v v e r o i l f e n o m e n o p e r i l q u a l e - n e l c o r s o d e l l ’e v o l u z i o n e l i n g u i s t i c a - d u e p a r o l e i n o r i g i n e d i v e r s e d iv e n ta n o f o n e t ic a m e n t e u g u a li ( l ’a g g e tt iv o to d a l g r e c o

omo-

‘u g u a l e ’ e d a l l a r a d i c e d i

omofonico è f o r m a ­ phonè ‘v o c e ’ ). S e si

tr a tta d i d u e p a r o le d i la r g o u s o , l a l i n g u a r e a g i s c e a l l a p o s s i b i l e c o n f u s i o n e e l i m i n a n d o l ’e l e m e n t o p iù d e b o l e d e l l a c o p p ia : lus



‘b e l l o ’ , p e r e s e m p i o , h a l a m e g l i o s u

le m e ta fo r e e s p r e s s iv e :

p a p il io

(a c c u s a tiv o :

bel

-

‘g u e r r a ’ ;

bellum

p a p il io n e m

), p er

e s e m p i o , p a s s a d a ‘f a r f a l l a ’ a ‘p a d i g l i o n e ’ , p e r c h é l e t e n d e c o l o ­ r a te d e g l i a c c a m p a m e n t i e v o c a n o l e a li s p i e g a t e d i u n a f a r f a lla ; ■

l e m e t o n i m i e d i v a r ia m o t i v a z i o n e : ‘m e t t e r e ’ , ‘b o c c a ’ ,

A P P R O F O N D IM E N T O

9

}

fo cus

cam era

m ettere

d a ‘f o c o l a r e ’ a ‘f u o c o ’ ,

da

bucca

‘m a n d a r e ’ a

d a ‘g u a n c i a ’ a

d a ‘s o f f i t t o f a t t o a v o l t a ’ a ‘s t a n z a ’ .

✓ M E T À F O R A E M E T O N IM IA

Sono due forme di traslato (ovvero di cambiamento di significato) comuni nella lin­ gua letteraria, ma anche nell’uso quotidiano. La metàfora consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che condi­ vida con la prima almeno un tratto semantico. Per esempio: essere un coniglio (tratto semantico condiviso: ‘la paura’); il fiorire delle arti (in comune: ‘il rigoglio’, ‘l’intensità e la varietà delle manifestazioni del fenomeno’). La condivisione può riguardare anche una caratteristica esteriore: il collo della bottiglia, i denti della sega. La metonimia consiste nel designare un concetto ricorrendo a un concetto diverso, legato al primo da una certa relazione. Per esempio: l’effetto per la causa (guadagnarsi da vivere col sudore della fronte); la materia per l’oggetto (un bronzo di Vincenzo Gemito); l’autore per l’opera (leggere Dante); il produttore per il prodotto (vestire Armoni).

1.6 I latinismi I latinismi (o cultismi) sono una componente essenziale dell’ita­ liano contemporaneo. In un’indagine dei primi anni novanta sull’i­ taliano parlato, tra le 200 parole più frequenti figuravano ben 10 la­ tinismi: pensare, proprio, problema (latinismo di origine greca), modo, grazie, numero, tipo, senso, storia e ultimo. Non è raro che, tra due allotropi sviluppatisi da una stessa base latina, quello oggi più comune sia proprio quello di trafila dotta. Per esempio, tra vi­

zio e vezzo (< v i t i u m ) , la parola etimologicamente “dotta” è la pri­ ma; ma è anche quella di uso più largo, perché - essendo di signi­ ficato più astratto e generale - si prestava a designare un numero ben maggiore di realtà, rispetto ai significati ristretti e particolari di vezzo. Lo stesso accade, per esempio, con disco e desco, circolo e cerchio, plebe e pieve (il primo elemento è un cultismo, ma dal punto di vista dell’uso odierno è il più comune). Sono in genere latinismi anche gli aggettivi di relazione (che indicano il semplice riferimento al nome), in quanto tipici di un discorso astratto e ge­ neralizzante: per esempio mensile, che conserva il gruppo - n s - di m e n s i s , a differenza del sostantivo mese. Ma anche oculare da oc­ chio (che continua o c u l u s ), floreale da fiore (< f l o r e m accusati­ vo di f l o s ) o equino ed equestre ‘che si riferisce a cavallo’, in cui non si parte da c a b a l l u s , ma da e q u u s . Per risalire all’origine dotta o popolare di una parola derivata dal latino, il criterio più sicuro è quello di affidarsi a requisiti non tanto semantici, quanto fonetici. I principali indizi formali che permetto­ no di riconoscere un latinismo sono: ■

il m a n c a to s v ilu p p o d i I e Ù r is p e ttiv a m e n te in

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Riconoscere un latinismo

é e ó (disco i n v e c e

d i desco : d i s c u s ); ■ la conservazione di a u , che popolarmente passa a o aperta (cau­ sa invece di cosa da c a u s a , augusto da a u g u s t u s ); ■ l a c o n s e r v a z i o n e d i B i n t e r v o c a l i c a , c h e p o p o l a r m e n t e s i s p ir a n t i z z a i n v ( h a b i t a r e > abitare, n o b i l e m a c c u s a t i v o d i n o b i l i s > nobile); ■ la conservazione del nesso NS intervocalico, che popolarmente si riduce a s (pensare invece di pesare < p e n s a r e ); ■ la conservazione dei nessi di consonante + L, che popolarmente si trasformano in consonante + “iod” (acclamare da a c c l a m a r e , rispetto a chiamare da c l a m a r e ; florido da f l o r i d u s , rispetto a fiore da f l o r e m ); ■ conservazione dello “iod” nelle sequenze -zia, -zio, -z.ione di giustizia, vizio, stazione, risalenti a basi latine con T + “iod” , che popolarmente avrebbero dato un’affricata dentale intensa ( v i t i u m > vezzo).

Non vanno inoltre dimenticati i latinismi morfologici: parole ita­ liane che presentano meccanismi di formazione tipici del latino (il più importante è senza dubbio il superlativo con il suffisso -issimo), e i fenomeni di rilatinizzazione, che hanno portato alla scom­ parsa di forme popolari usate nell’italiano antico, alle quali si è preferita la forma latineggiante (fedire, per esempio, ha ceduto il passo a ferire).

Latinismi morfologici

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Capitolo 1 - Alle radici dell'italiano

1.7 Latino e italiano nella letteratura Il latino nel Medioevo

Opere latine di Dante, Petrarca, Boccaccio

L’impronta latineggiante del volgare

Nel Medioevo la lingua abituale nella quale i letterati scrivevano le proprie opere era il latino, e anche i lettori mediamente istruiti poteva­ no trovarsi più a loro agio di fronte alla lingua classica che non al vol­ gare; nel tardo Trecento Cristofano Guidini, uno dei segretari di santa Caterina da Siena, tradusse in latino il Libro della divina dottrina di Caterina (composto tra il 1377 e il 1378) con la seguente motivazione: «chi sa gramatica» (cioè: ‘chi conosce la lingua latina’) «o ha scienzia non legge tanto volontieri le cose che sono per volgare quanto fa quel­ le per lettara» (cioè, appunto, ‘scritte in latino’). Anche i grandi scrittori trecenteschi, padri fondatori della lettera­ tura italiana, hanno scritto in latino una parte consistente delle loro opere (Dante e Boccaccio) o addirittura la quasi totalità, come nel caso di Petrarca, che si riprometteva la fama proprio attraverso le ope­ re latine (in particolare il poema in esametri Africa, immaginato come una nuova Eneide). La sua opera più famosa, il Canzoniere, è invece una raccolta di componimenti scritti in volgare, il cui titolo originale è però in latino (Rerum vulgariumfragmenta ‘Frammenti di cose volga­ ri’). Anche nelle note in margine agli autografi di questi componimen­ ti volgari, Petrarca adopera il latino per fissare la propria attenzione su qualche verso bisognoso di riscrittura, con formule come die aliter (‘ di’ diversamente ’) o hic non placet (‘qui non va’). Solo col xvt secolo si fa strada, specie in Toscana, una corrente avversa al latino e favorevole al volgare. Uno dei massimi esponenti di quest’orientamento è il fiorentino Leonardo Salviati (1540-1589), che dedicò le sue cure di filologo al Boccaccio, di cui studiò anali­ ticamente la lingua negli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone. Il volgare e poi l’italiano conservano però a lungo l’impronta latineggiante nella sintassi (specie nelle opere argomentative) e nel lessico, specie in quello poetico. Oltre ai latinismi filosofici e scien­ tifici del suo trattato in volgare (il Convivio), Dante ricorre ampia­ mente al latino nel Paradiso, spesso con prelievi audaci, sottolineati dalla posizione in rima: «Ma l’alta provedenza, che con Scipio / di­ fese a Roma la gloria del mondo, / soccorra tosto, sì com’io conci­ pio [‘immagino, concepisco’]; / e tu, fìgliuol, per lo mortai pondo [‘il peso mortale’, cioè ‘il corpo’]». Oltre due secoli più tardi, nella Gerusalemme liberata ( l a ed. 1581), Torquato Tasso si adegua al registro solenne del linguaggio poetico e accoglie tra l’altro diversi latinismi, scegliendoli in luogo di vocaboli più usuali: estolle è pre­ ferito a solleva, vestigio a tracce, propinquo a vicino. Anche Alessandro Manzoni —che rinnovò profondamente la pro­ sa letteraria, adeguandosi nei Promessi sposi (edizione definitiva:

Latino e italiano nella letteratura

1840-1842) all’uso fiorentino vivo - , quando scrive in versi, è an­ cora legato al linguaggio poetico tradizionale. Mancando nella sua produzione la lirica amorosa (il cui modello principe era Petrarca), la fonte di nobilitazione è il latino, specie quello di origine biblica tipico degli Inni sacri: inconsunta ‘inalterabile’ detto della fiaccola accesa dallo Spirito Santo, altor ‘che dà alimento’, procellosa ‘tem­ pestosa’. Ben oltre il livello tradizionale d’interazione tra lingue volgari e latino si spingevano, tra xv e xvt secolo, due diverse sperimentazio­ ni linguistiche letterarie: il macaronico e il polifilesco. La poesia macaronica, nata nell’ambiente universitario padovano, prende il nome dal macarone ‘gnocco di formaggio’, nel senso di cibo grossolano risultante da più ingredienti: la sua caratteristica principale è infatti la fusione di italiano e latino creata per parlare di argomenti bassi e triviali. Le parole hanno una base italiana o dialet­ tale (per esempio: amazat ‘ammazza’, dove il latino avrebbe detto interficit o necat), ma la struttura grammaticale e metrica è quella del latino. Il massimo esponente di questo particolare tipo di poesia fu il mantovano Teofilo Folengo (1491-1544) che, nonostante l’im­ portanza delle sue opere volgari e del trilingue Caos del Triperuno, è ricordato soprattutto per le opere macaroniche, e specialmente per il poema eroicomico Baldus.

II latino come fonte di nobilitazione

Il macaronico

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TESTO

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L ‘ U N ESEMPIO D I PO ESIA M A C A R O N IC A

Alter erat Baldi compagnus nomine Cingar: Cinger scampasoga, cimarostus, salsa diabli accortusque, ladro, semper truffare paratus. (Teofilo Folengo, Baldus, iv 8 1-83) (C’era un altro compagno di Baldo, di nome Cingar: Cingar lo scampaforca, l’imbroglione, una salsa per il diavolo, astuto, ladro, sempre pronto alle beffe).

Tra i volgarismi più spiccati si notano: compagnus, accortusque (tipico del maca­ ronico è l’uso di parole del volgare dotate di una desinenza latina), diabli e ladro (con variante fonetica volgare: diabli invece di diaboli, ladro invece di latro), salsa e truffare. Sul piano sintattico si nota inoltre la costruzione volgareggiante di paratus, che in latino classico non reggerebbe l’infinito, ma ad + gerundio. Testo daT. Folengo, Baldus, a c. di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1989, p. 38.

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Capitolo 1 - Alle radici dell’italiano

Il polifilesco

TESTO

II polifilesco è chiamato così in riferimento al l’Hypnemtoniachia Poliphili ‘Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia’, opera in prosa di un Francesco Colonna (forse un frate domenicano veneziano) pub­ blicata a Venezia nel 1499. A differenza del macaronico, il polifdesco rientra nel sistema del volgare, ma se ne colloca ai margini, in quanto il tasso di latinismi è accresciuto fino a raggiungere effetti stranianti: abbondano forme come sechilo ‘diligente’, decessio ‘morte’ e addirit­ tura se vide ‘si vede’, che arieggia s e v i d e i . Simile al polifilesco è il fìdenziano, che richiama il titolo di una raccolta di poesie (pubblicate prima del 1562) attribuite dal vicentino Camillo Scroffa a un maestro di grammatica, Pietro Fidenzio Giunteo da Montagnana, del quale viene messo in caricatura il linguaggio pedantesco, denso di latinismi come preteriti ‘passati’ e munusculo ‘regaluccio’.



i-i; U N PASSO IN POLIFILESCO

lo Poliphilo sopra el lectulo mio iacendo, opportuno amico del corpo lasso, nìuno nella conscia camera fam iliare essendo se non la mia chara lucubratrice Agrypnia, la quale poscia che meco hebbe facto vario colloquio consolanteme, palese havendoli facta la causa et l’origine degli mei profundi sospiri, pietosa­ mente suadevami al temperamento de tale perturbatione. (lo Polifìlo, giacendo nel mio lettino, sollecito amico del corpo stanco, non essen­ doci nessuno nella camera consapevole [dei miei travagli] se non la meditabonda Insonnia la quale, dopo avermi parlato consolandomi, avendo io confidato a lei la causa e l’origine dei miei profondi sospiri, pietosamente mi persuadeva a moderare questo turbamento).

La sintassi procede per accumulo di frasi, senza nessuna strategia espositiva (anche da qui deriva la difficoltà di interpretazione). Nel lessico spiccano i latinismi: alcuni comuni nella prosa dell’epoca, ma non in questa concentra­ zione (iacendo, suspiri, suadevami); altri rari (lectulo, lucubratrice, Agrypnia è un grecismo, composto dal verbo agrèuein ‘cacciare’, quindi ‘andare in cerca’, e hypnos ‘sonno’). Testo da F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, riproduzione dell’ed. aldina del 1499, introdu­ zione, traduzione e commento di M. Ariani, M. Gabriele, Adelphi, Milano 1998, voi. i, p. 12.

Latino e italiano nell’uso giuridico e amministrativo

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I.8 Latino e italiano nell’uso giuridico e amministrativo Anche se il più antico documento ufficiale in un volgare italiano la formula del placito campano del 960 - è un testo giuridico, per molti secoli la lingua dei testi normativi è stata il latino. La stessa formula del placito campano, del resto, è in volgare, ma all’interno di un documento in latino. Si tratta peraltro di un episodio pressoché isolato, dal momento che nel Medioevo la lingua del diritto e dell’amministrazione era il latino. In latino sono redatti abitualmente gli statuti dei comuni, e a questa lingua si richiamano i nomi di alcuni magistrati come il console ( c o n s u l ) o il podestà (dall’accusativo p o t e s t a t e m ; p o t e s t a s in latino valeva ‘potere’ e, per metonimia, ‘persona insignita di potere’). Fino al xv secolo, il latino è la lingua abituale delle cancellerie operanti nei vari stati della penisola: da quell’epoca in poi cederà, in misura via via più consistente, al volgare cosiddetto “di coinè” (vedi § 2.3). Anche nei secoli successivi, il modello latino continua ad agire non solo nel lessico, ma anche nella derivazione: per esempio nei relitti dei comparativi sintetici in -ore (citeriore, ulteriore e simili, che ricalcano gli accusativi latini c i t e r i o r e m e u l t e r i o r e m ), in contrasto con la tendenza dell’italiano a servirsi delle forme analitiche con più (più vi­ cino, più lontano; come forme popolari sopravvivono però in italiano quattro comparativi sintetici: maggiore, minore, migliore, peggiore, dagli accusativi m a i o r e m , m i n o r e m , m e l i o r e m e p e i o r e m ). Di sicura ascendenza latina sono anche gli aggettivi verbali del tipo laureando o educanda, modellati sul gerundivo: una forma aggettivale passiva del verbo latino, che esprimeva l’idea del dovere, della necessità: l a u d - o ‘lodo’ —» l a u d - a n d u s ‘che deve essere lodato’. Strettamente connessa col linguaggio giuridico è la lingua de­ gli uffici e dell’amministrazione, che dall’età napoleonica - con la riforma degli apparati statali - accoglie molti latinismi, spesso attraverso il tramite del francese. Sono latinismi di diffusione ot­ tocentesca, tra gli altri: attribuzione ‘potere spettante a chi svolge una certa attività’, esumare, quiescenza, solvibile e solvibilità, su­ bire. Accanto ai latinismi, il linguaggio giuridico-amministrativo dà spazio a espressioni prettamente latine, alcune delle quali circolano anche in altri àmbiti (politica, giornalismo ecc.): conditio sine qua non ‘condizione senza la quale non (si può procedere)’, excusatio non petita, accusatio manifesta ‘una scusa non richiesta equivale ad accusarsi apertamente’, notitia criminis ‘notizia del reato’ (è l’infor­ mazione, ricevuta dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, di un fatto che costituisce reato), nulla poena sine lege ‘nessuna

Il latino: lingua del diritto e dell’amministrazione

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Capitolo 1 - Alle radici dell’italiano

TESTO

IL P LA C IT O C A M P A N O

È una formula in volgare risalente al 960, che tradizionalmente viene consi­ derata l’“atto di nascita” dei volgari italoromanzi. Davanti al giudice capuano Arechisi si presentano tre testimoni, che recitano la seguente formula: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(an)c(t)i Benedicti», cioè: «So che quelle terre, entro quei confini che qui [in una carta che ciascun testimone tiene in mano] sono contenuti, trent’anni le ha avute in possesso il monastero di San Benedetto [il celebre monastero benedettino di Montecassino]». Il testo è giuridicamente impeccabile, e ogni parola ha un valore puntuale: sao indica un ‘sapere per certa cognizione’, col conseguente impegno a giurare; kelle tene sono precisi terreni, indicati con i loro confini; la durata di trent’anni era quella prevista perché scattasse il diritto all’usucapione, grazie al quale il prolungato possesso di un bene si trasformava in proprietà. Testo da A. Castellani, / più antichi testi italiani, Patron, Bologna I973, p. 59.

Necessità di semplificare la lingua della burocrazia

pena senza legge’ (è uno dei princìpi fondamentali del diritto pena­ le, per il quale non può essere inflitta una pena che non sia espres­ samente prevista dalla legge), res nullius ‘cose di nessuno’ (si dice di cose che non hanno mai avuto un proprietario o che sono state da lui abbandonate). Nel 1993, per semplificare e rendere più comprensibile ai citta­ dini la lingua della burocrazia (vedi § 5.4), la Presidenza del Con­ siglio dei Ministri ha emanato un Codice di stile delle comunica­ zioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. I suggerimenti mirano a favorire frasi brevi e sintatticamente lineari e, nel lessico, a eliminare parole auliche come testé, a ll’uopo, altresì, ma anche vocaboli stranieri come project manager o forme poco usate al di fuori del linguaggio burocratico come disdettare o referenziare. Uno degli interventi di questo indirizzo è appunto la sostituzione di la­ tinismi rari o libreschi con parole più comuni: abbandonare (e non evacuare), caso (e non fattispecie), rinviare (e non differire).

1.9 Latino e italiano nella scienza e nell’insegnamento Latino, lingua della scienza fino all’età moderna

La lingua scientifica si è espressa abitualmente in latino fino all’età moderna, con differenze a seconda dei vari àmbiti (più precoce la diffusione del volgare nelle scienze matematiche e tecnologiche, più

Latino e italiano nella scienza e nell’insegnamento

tarda nella medicina) e soprattutto della destinazione. Anche nella medicina sono in volgare, già dal tardo Medioevo, opuscoli sull’o­ stetricia e sui mezzi di prevenzione contro la peste, destinati a donne e uomini di bassa istruzione, non in grado di leggere il latino. Se fino alle soglie dell’età moderna sono rari i trattati scientifici scritti originariamente in volgare, già dal Medioevo sono frequenti i volgarizzamenti di opere redatte inizialmente in latino (e talvolta risalenti a originali arabi). Un esempio è la Chirurgia di Guglielmo da Saliceto, composta in latino nella seconda metà del xm secolo e tradotta quasi sùbito sia nella redazione intera sia in un compen­ dio; l’edizione a stampa del testo volgare (1474) precede addirittura quella del testo latino (1476). Tra Quattro e Cinquecento adopera­ no il volgare, senza preoccuparsi troppo degli aspetti formali della scrittura, due matematici: il toscano Luca Pacioli (1445-1510 ca.) e il bresciano Niccolò Tartaglia (1499-1557), che giustifica questa scelta dichiarandosi «un poco grossetto di loquella». Un deciso impulso all’uso del volgare nella fisica viene dal gran­ de scienziato Galileo Galilei, che a partire dal 1610 nei suoi scritti ricorre sistematicamente al volgare. Questa scelta è dettata anche dalla volontà di Galileo di marcare la propria distanza scientifica dai fautori dell’accademismo di stampo aristotelico (fedeli al metodo deduttivo e all’ipotesi tolemaica o geocentrica), che continuavano a usare il latino. Invece di ricorrere a latinismi o a grecismi, Galileo introduce nell’uso alcuni neologismi scientifici creati assegnando a nomi comuni un particolare significato tecnico (pendolo). E lo stes­ so fa con i nomi delle sue invenzioni, come per esempio il cannoc­ chiale. Per secoli, il latino è stato la base dell’insegnamento, dai primi rudimenti fino agli studi universitari. Nel Cinquecento, per insegna­ re la scrittura si poteva ancora adoperare la celebre grammatica lati­ na altomedievale di Elio Donato, senza preoccuparsi del fatto che gli scolari non capissero quello che c’era scritto. Fino al pieno Nove­ cento, la scuola ha trascurato l’insegnamento della grammatica ita­ liana in favore di quella latina, considerata come una struttura logica e consequenziale, e dotata quindi di valore pedagogico generale. Nelle lezioni universitarie, l’italiano fa la sua comparsa - suscitando notevole scalpore —solo nel 1754, nell’Università di Napoli, quando Antonio Genovesi nel suo corso di meccanica e di commercio ab­ bandona l’uso del latino. Oggi il latino è ancora insegnato nei licei, ma è sempre più ac­ ceso il dibattito tra chi lo ritiene indispensabile e chi invece lo vor­ rebbe bandire dalle scuole secondarie, con motivazioni più o meno valide. Mettendo da parte le ragioni e i torti dell’una e dell’altra fazione, sarà il caso di riflettere sull’efficacia e sul significato stes-

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I volgarizzamenti

La lezione di Galileo Galilei

Latino, lingua della scuola

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Capitolo 1 - Alle radici dell'italiano

so dell’insegnamento del latino nella scuola tradizionale. L’attua­ le, persistente centralità della versione scritta come testo “vergine” (senza riferimento al contesto e al clima culturale in cui si colloca) rischia di distogliere lo studente da altri aspetti rilevanti della latini­ tà, come il rapporto tra lingua e cultura.

Latino e italiano nella Chiesa

U N PASSO DELL’ fT A L A

Un passo dell’Itala (Le 19,2): Et quaerebat videre lesum qui ’sset et non potebat a turba quia de statu pusillus eroi.

1. 10 Latino e italiano nella Chiesa

La Vulgata

Il Concilio di Tours (813)

I sermoni mescidati

Fin dai primi secoli della nostra èra, il latino cristiano appare per­ meato di tratti linguistici volgari. Tratti particolarmente evidenti ne\V Itala, la versione delle Scritture che circolava prima della tradu­ zione di san Girolamo, detta invece “la Vulgata” (da editio vulgata ‘edizione divulgata, diffusa’). L’adozione di una lingua popolareg­ giante (il sermo humilis) non solo rispondeva all’esigenza di farsi comprendere facilmente dai fedeli, ma sembrava particolarmente appropriata per esprimere i contenuti di una religione che faceva del primato degli umili uno dei suoi punti di forza. Il colloquio tra sacerdote e fedele sarà sempre avvenuto nella lingua locale; la predicazione si svolgeva originariamente in latino, ma l’in­ vito a usare i vari volgari risale già al Concilio di Tours (813). Dalle deliberazioni pastorali emanate in quel concilio, ricaviamo chiara­ mente l’avvenuto distacco tra il latino e le lingue romanze. I predi­ catori, si dice, devono abbandonare il latino nelle omelie e adottare la «rusticana romanam linguam aut thiotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur» (‘la lingua romana rustica - cioè una lingua romanza - o la tedesca, perché tutti possano comprende­ re più facilmente quello che viene detto’). Il latino è comunque presente anche nella predica medievale, nella quale il religioso cita spesso le Scritture per trarne autorevo­ lezza e forza di verità. Anche un predicatore come san Bernardino da Siena, le cui prediche hanno uno spiccato carattere colloquiale e popolare, ricorre talvolta a citazioni in latino, offrendo sùbito dopo la traduzione. Per esempio: «E Gregorio [si tratta di san Gregorio Magno] anco sponendo questa parola: “Qui habet testimonium in excelsis, non debet curare quem detrahit in terris”. Chi ha el testi­ monio in cielo, non si debba curare di colui il quale il ditraie [‘lo calunnia’] qui in terra». Tra Quattro e Cinquecento, latino e volgare convivono nei cosid­ detti “sermoni mescidati”, che fioriscono soprattutto in area lombar­ da e veneta, cioè negli stessi luoghi in cui prende corpo il fenomeno parallelo - ma laico e letterario - della poesia macaronica (vedi § 1.7). Si tratta di prediche (giunteci grazie all’iniziativa di qualche ascoltatore che le ha trascritte, almeno in parte) in cui il predicato­ re passa dal latino a un volgare fortemente dialettizzato, adoperato

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Nella Vulgata di san Girolamo il passo suona così: Et quaerebat videre lesum quis esset et non poterai prae turba quia statura pu­ sillus erat.

Nell’attuale traduzione italiana (testo

cei

2008):

Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura.

Dal confronto, si evince che i volgarismi dell’Itala riguardano tutti i livelli di lingua: -

-

la fonetica, con la riduzione di esset per aferesi; la morfologia, con la forma regolarizzata potebat (alla base dell’italiano pote­ va) in luogo del classico poterai; la sintassi, con la perdita delle reggenze latino classiche nei complementi indiretti (complemento di causa introdotto da a: a turba ; complemento di limitazione introdotto da de: de statu); il lessico, con status che nell’accezione di ‘statura’ è estraneo all’uso degli scrittori della latinità aurea. Testi dell’Itala e della Vulgata da R.A. Haadsma, J. Nuchelmans, Précis de latin vulgaire, W olters, Groningen 1966, p. 103.

con funzione comica specie nella riproduzione dei dialoghi. Ecco un esempio di Valeriano da Soncino: «Comater venit ad hostium et aperiens et videns eam ait [‘la comare viene all’uscio e aprendolo e vedendola dice’]: “O ben venga la mia cara cornar. E corno stati voy madona Drosolina? El è cento anni che non ve ho veduta”». Col xvi secolo, il secolo della Riforma luterana, il cristianesimo si divide anche linguisticamente. Nei paesi riformati (o protestanti), i testi sacri sono tradotti e vengono letti anche dal singolo fedele; nei paesi cattolici, la liturgia mantiene il latino fino al 1965: la traduzio­ ne delle Scritture in volgare, con la conseguente fruizione diretta,

La Riforma luterana

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Capitolo 1 - Alle radici dell’italiano

Il catechismo

senza intermediari, non viene incoraggiata. Non mancano peraltro prese di posizione a favore dell’introduzione del volgare. Già nel 1513 due monaci veneziani indirizzano un Libellus ( ‘opuscolo’) al papa Leone x perché disponga la traduzione delle Scritture e arriva­ no addirittura a proporre l’uso del volgare nella liturgia, ma l’inizia­ tiva resta senza séguito. Lo scrittore fiorentino Giambattista Gelli, nei suoi Capricci di Giusto Bottaio (1546-1548), ammonisce che «il nostro leggere o cantare salmi, non intendendo quel che noi dicia­ mo, è simile a un gracchiare di putte [‘ragazze’] o a un cinguettare di papagalli». Anche la Chiesa cattolica, tuttavia, dà un contributo notevole alla diffusione dell’italiano. Dopo il Concilio di Trento (1545-1563), si diffonde capillarmente la pratica del catechismo, che si fonda su brevi compendi delle verità di fede e di morale scritti in una lingua piana per lo più in forma dialogica e spesso mandati a memoria. Oggi la Chiesa cattolica assegna di fatto una posizione di prestigio non solo al latino (usato soprattutto nei testi ufficiali), ma anche all’italiano. La conoscenza dell’italiano è un requisito preferenziale e spesso indispensabile per l’accesso alla carriera ecclesiastica (nel­ le università pontificie le lezioni si tengono prevalentemente nella nostra lingua). Inoltre, nei media vaticani (non solo giornali e libri, ma anche alla Radio Vaticana e nel sito Internet della Santa Sede) l’italiano conserva una posizione preminente rispetto alle altre lin­ gue (sono usate, in misura minore e con peso diverso nei singoli mezzi di trasmissione, anche l’inglese, il francese, lo spagnolo, il tedesco, il portoghese, il polacco e il latino).

V E R IF IC A

1. Che cosa si intende per “variazione linguistica”? 2. Che cos è il latino volgare? Quali sono le principali trasformazioni morfologiche che lo contraddistinguono? 3. Come si possono riassumere le principali trasformazioni morfologiche avvenute nel passaggio dal latino all’italiano? 4. Quali fondamentali direttrici segue l’innovazione lessicale nel passaggio dal latino all’italiano? 5. Fornisci alcuni esempi di convivenza tra il latino e l’italiano.

Storia di parole

Storia di parole A ngelo La parola angelo proviene dal greco ànghelos, che in origine signi­ ficava ‘messaggero’. Per influenza dell’ebraico, il termine è stato adoperato successivamente per designare il ‘messo di Dio, che manifesta agli uomini la sua volontà’, ed è questa l’accezione che ha assunto il vocabolo latino angelus. La prima attestazione dell’italiano angelo risale all’antichissimo Ritmo cassinese (fine xn - inizio xm secolo). L’espressione angelo custode, usata per indicare l’angelo che Dio ha assegnato a ciascun uomo come protettore, compare invece per la prima volta alla fine del Cinquecento, in un’opera di Torquato Tasso. Burocrazia La voce viene dal francese bureaucratie (bureau ‘ufficio pub­ blico’ + cratie, dal greco -kratìa ‘dominio, potere’) e riflette la preoccupa­ zione per l’estensione del potere degli uffici nella seconda metà del Sette­ cento: dunque presenta da subito una connotazione negativa. Dal punto di vista formale, la voce incontrò resistenze e ostilità per il suo carattere ibrido, frutto dell’incrocio di una parola francese e di una greca. Ma il modulo ha riscosso in italiano un notevole successo, come dimostrano formazioni più o meno recenti, quali partitocrazia, pentitocrazia, sondocrazia, telecrazia.

D esco Dal vocabolo latino discus, l’italiano ha derivato due allotropi (vedi § 1.3): desco (forma popolare) e disco (forma dotta). Desco indicava il piatto adoperato per il pasto; oggi, per metonimia (vedi § 1.5), parliamo ancora nel registro letterario o scherzoso di desco nell’accezione di ‘tavola imbandita’. La forma oggi ben più comune e vitale, disco, è stata assunta più tardi, quando è stato necessario designare in italiano la ‘piastra rotonda’ adoperata dagli atleti. Poi, con ulteriore passaggio di significato, la parola disco è stata usata anche con il significato di ‘piastra vinilica usata per la riproduzione fonografica del suono’ e infine nei più recenti termini dell’in­ formatica: disco magnetico, disco rigido, disco ottico. Si conoscono anche altri usi della parola disco, sempre con riferimento a oggetti di forma rotonda: disco orario, disco intervertebrale (da cui ernia del disco). Ragione Deriva, attraverso il francese antico, da ratio , rationis, parola con un’ampia gamma di significati sia in latino sia in italiano. La prima attestazione di rattione ‘appartenenza di diritto, competenza’ è in un documento notarile marchigiano: la cosiddetta Carta fabrianese (I 186). Al significato di ‘conto’ (121 I) si rifanno ancora oggi le parole ragioniere, ragioneria. Le accezioni di ‘motivo’ e ‘conto’ si sovrappongono in parte

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Capitolo 1 - Alle radici dell'italiano

nelle locuzioni domandare, rendere ragione di qualcosa (da reddere rationem ‘rendere conto, mostrare la contabilità’ e ‘giustificare’). Ragione acquista anche il significato di ‘argomentazione, prova’ e poi di ‘legittimo motivo e di ‘facoltà di pensare’. Il verbo ragionare aveva anticamente il significato di ‘discorrere, dire’, che si è perpetuato nel toscano e, fino a circa un secolo fa, nell’uso poetico. Ragione assume poi una valenza filosofica di grande vitalità tra Sette e Ottocento, per influsso dell’Illumi­ nismo e del positivismo. Testa Testa nel senso di ‘cranio’ risale al latino tardo. In origine valeva guscio di testuggine’, ‘conchiglia’ e ‘coccio’, quindi ‘vaso di terracotta’. Il passaggio al significato attuale si deve probabilmente a una metafora scherzosa, simile a quelle che si trovano nell’italiano zucca o nell’italiano centromeridionale coccio, coccia (‘testa vuota’, ‘testa dura’). Testa ha dato luogo, nel tempo, a varie locuzioni (mal di testa, avere la testa fra le nuvole) e a espressioni che alludono a peculiarità di carattere (testa calda, fuori di testa). Il senso traslato di ‘estremità anteriore di una fila’ spiega locuzioni come essere alla testa di un’azienda, in testa alla classifica, testa del treno, testa di serie. Al valore di testa come ‘individuo’ rimandano invece espres­ sioni come una porzione a testa.

Formazione e diffusione dell’italiano

2.1 Linguìstica interna ed esterna Quella tra linguistica interna ed esterna è una distin­ zione ormai tradizionale che, benché talvolta messa in discussione, mantiene una sua immediata evidenza di­ dattica. La linguistica interna studia l’evoluzione di una lingua dal punto di vista delle sue strutture, senza tener conto delle circostanze storiche e culturali che hanno condizionato il suo sviluppo. Molti fenomeni che inte­ ressano la fonetica, la morfologia e la sintassi di una lin­ gua possono essere descritti esclusivamente dal punto di vista della linguistica interna. Per esempio, per spiegare l’evoluzione dell’articolo determinativo maschile dal fiorentino antico all’italiano di oggi, basta ricordare che la scelta tra lo e il ο ’l era condizionata dalla posizione all’interno della frase e dal modo in cui terminava la parola precedente all’articolo: lo a inizio frase e dopo parola uscente in consonante (per lo regno), il o 7 dopo parola con terminazione vocalica (per tutto (i)l regno). Oggi, per contro, la scelta tra il, lo e T è determinata dal modo in cui comincia la parola seguente: il pane, /'albero, lo zaino (l’uso antico si continua solo in alcune formule cristallizzate come per lo più e per lo meno). In entrambi i casi, le motivazioni sono tutte interne alla lingua: non ha nessun interesse sapere quale fosse la struttura sociale della Firenze antica né quale sia il di­ namismo demografico dell’Italia di oggi.

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

La linguistica esterna

La linguistica esterna, invece, si occupa dei fattori “esterni” che agiscono sulla lingua condizionandone lo sviluppo. Per esempio, le trasformazioni che investono il lessico - il livello linguistico su cui pesano maggiormente fattori di ordine socioculturale - non possono essere studiate senza tener conto delle condizioni extralinguistiche. Se il toscano medievale accoglie vocaboli provenienti dal provenzale e dall’antico francese, è per il prestigio di cui godevano le letterature espresse da quelle lingue; allo stesso modo, l’alto tasso di parole di origine spagnola che entrano in italiano tra Cinque e Seicento è stret­ tamente connesso alla dominazione spagnola in molte zone d’Italia; e così via. I fattori esterni che incidono sullo sviluppo di una lingua posso­ no essere distinti in tre tipologie fondamentali: fattori extraculturali, fattori culturali in senso lato, fattori culturali in senso stretto. ■ I fattori extraculturali, come la configurazione geografica e le trasformazioni del territorio, influiscono in misura limitata sull’evoluzione linguistica. I condizionamenti più forti riguar­ dano i nomi di luogo, che possono conservare traccia della presenza di un’area forestale poi disboscata (Boscoreale, Sel­ vapiana) o anche di un’antica palude o di un lago non più esi­ stente (Paludi, Palù, Subiaco da sublaqueum ). B I fattori culturali in senso lato, come i fenomeni economici e demografici o gli eventi storico-politici e militari, influiscono sull’evoluzione linguistica in maniera più evidente. Il dialet­ to parlato nel Sud della Calabria, per esempio, è molto simile al siciliano, perché più della divisione geografica (lo stretto di Messina), ha contato la comune storia politica (come la domi­ nazione normanna). ■ I fattori culturali in senso stretto sono quelli che incidono più direttamente e più in profondità sulla lingua. Rientrano in que­ sta categoria fattori come l’alfabetismo e la scolarizzazione, l ’invenzione della stampa, la codificazione grammaticale, l ’in­ flusso dei modelli letterari e paraletterari. Basti pensare alla fis­ sazione e diffusione di un modello ortografico unico e condivi­ so per la lingua italiana, conquista impensabile senza l’apporto determinante della stampa.

2.2 II policentrismo medievale Dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) fino all’u­ nità d’Italia (1861), la nostra penisola è stata caratterizzata da una straordinaria frammentazione politica, particolarmente evidente in epoca medievale con la nascita della civiltà comunale. Per questo, e

Il policentrismo medievale

anche per la conformazione geografica del territorio italiano, nel Me­ dioevo l’evoluzione del latino non ha prodotto una sola lingua parlata ovunque allo stesso modo, bensì una straordinaria varietà di lingue che presentano alcuni tratti comuni ma anche moltissimi elementi di discontinuità. La lenta riunifìcazione di questo plurilinguismo in un’unica lingua non è il frutto di un’azione politica o amministrativa, ma di un lungo processo culturale: il prestigio delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio ha portato molto presto a riconoscere nel tosca­ no (o, più precisamente, fiorentino) trecentesco il modello linguistico da imitare nella scrittura. Eppure, il primo volgare parlato in Italia che era riuscito a rag­ giungere un grande prestigio letterario non era stato il toscano, ma il siciliano illustre adottato dalla cosiddetta “scuola poetica sicilia­ na” sorta nel xm secolo per impulso di Federico π di Svevia, re di Sicilia dal 1198 e imperatore del Sacro romano impero dal 1220. In realtà, la scuola siciliana comprendeva rimatori provenienti da varie regioni d’Italia (erano siciliani, per esempio, Giacomo da Lentini e Guido delle Colonne, ma era genovese Percivalle Doria, tosca­ no Compagnetto da Prato, campano Pier delle Vigne); quasi tutti, però, erano alti funzionari della corte di Federico, peraltro itinerante tra varie città della Sicilia e dell’Italia meridionale. Questi rimatori, pur imitando temi e modi della poesia dei trovatori d’oltralpe, non scelsero come strumento espressivo il provenzale (cioè la lingua dei loro modelli), ma appunto il siciliano illustre. Scelsero, cioè, la via dell’emulazione a quella della semplice imitazione. Quel siciliano è stato poi tramandato - a partire dai copisti toscani del Trecento - in una veste fonetica fortemente toscanizzata, e dun­ que meno lontana dal modello linguistico destinato ad affermarsi nei secoli successivi. Nondimeno, la lingua della scuola poetica siciliana ha lasciato molte tracce nell’italiano letterario: il condizionale in -la (.cantarla ‘canterei’); la mancanza dei dittonghi uo e ie in parole come core, novo ‘nuovo’, leto ‘lieto’; singoli relitti verbali (aggio ‘ho’) o pronominali {rad ‘noi’, che ritornerà ancora, in rima, nel Cinque Mag­ gio di Alessandro Manzoni: «Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sen­ tenza: nui / chiniam la fronte al Massimo / Fattor, che volle in lui / del creator suo spirito / più vasta orma stampar», vv. 31-36). Nell’area mediana, inoltre, la nascita di movimenti religiosi (come quelli dei benedettini e dei francescani) e di confraternite laicali (come quella dei Disciplinati), molto presenti soprattutto nei centri urbani umbri e marchigiani (Assisi, Perugia, Todi), diede grande impulso alla produzione di una letteratura religiosa composta in un volgare mediano (proprio, cioè, dell’Italia centrale) per molti aspetti diverso dal toscano. Nel Cantico di Frate Sole (1224-1226) composto da san Francesco d’Assisi, per esempio, saltano agli occhi forme come dignu

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Plurilinguismo medievale

Il siciliano illustre della scuola poetica siciliana

La letteratura religiosa in volgare dell’area mediana

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

La Cronica dell'Anonimo romano

e bellu (con mantenimento della -u finale latina, tratto tipico del vol­ gare umbro); molti elementi linguistici locali si riscontrano anche nel laudario di Jacopone da Todi e in altre raccolte anonime di laudi·, serie di componimenti poetici in lode di Dio, della Madonna o di alcuni santi. In volgare settentrionale sono invece scritte opere di tono didattico-moraleggiante come il De cruce del milanese Bonvesin da la Riva (seconda metà del xm secolo), in cui compaiono forme locali come ghe ‘ci, vi’ e mi ‘me’. Un caso particolare è rappresentato dalla Cronica (1357-1358) dell’Anonimo romano (da identificare forse con Bartolomeo di lacovo da Valmontone). Si tratta della testimonianza più importante che ci è rimasta del volgare romanesco, anteriore alla fase di av­ vicinamento al toscano (iniziata nel Quattrocento) e quindi anco­ ra permeato di tratti linguistici centromeridionali, tra i quali spicca l’assenza di anafonesi (vedi § 1.3) in parole come lengua e pento ‘dipinto’. Numerosissimi sono poi i testi non letterari - statuti co­ munali, epistole, trascrizioni di prediche e altri testi pratici come i libri contabili e i ricettari - che raccontano un’Italia in cui, proprio grazie al policentrismo, trova spazio e dignità una molteplicità di testi, autori, culture, lingue.

L’ascesa del ceto mercantile e le cancellerie

della sua azienda dislocate in varie parti d’Italia, in Europa e nel Mediterraneo. Dato che i mercanti e i banchieri più potenti e intra­ prendenti erano all’epoca quelli toscani, le loro lettere costituiscono anche - per i loro corrispondenti a Napoli, a Venezia, nelle Marche, in Puglia e in Sicilia - la prima occasione di contatto con la lin­ gua toscana e fiorentina. Un contatto che passa attraverso un canale diverso da quello della lingua letteraria. Dalle lettere dei mercanti toscani e dei loro corrispondenti emerge lo sforzo di depurare la propria lingua dei tratti più legati all’uso locale, nel tentativo di faci­ litare la reciproca comprensione, tutt’altro che scontata. La specificità dei diversi volgari usati dai mercanti emerge con chiarezza, invece, negli scritti non dettati da necessità professionali come i libri di famiglia: libri di ricordi in cui i capifamiglia, di generazione in generazione, annotano nascite, morti, matrimoni e altri avvenimenti (anche esterni al ristretto àmbito domestico) e alle cui pagine affidano talvolta l’espressione dei propri sentimenti, magari accompagnata da qualche reminiscenza letteraria. Tutto questo fa dire al grande umanista fiorentino Leon Battista Alberti (1404-1472) che il mercante deve «sempre avere le mani tinte d’inchiostro».

TESTO

2.3 L'ascesa del ceto mercantile e le cancellerìe

I mercanti e il volgare

Le lettere

Nel corso del Medioevo - un’epoca in cui la produzione scritta delle classi cólte (notai, clero, intellettuali e scrittori) è ancora quasi tutta in latino - comincia ad affermarsi una nuova classe sociale: quella dei mercanti, che per esigenze professionali (e a maggior ragione nelle scritture private) usa scrivere in volgare. Durante la sua formazione, il mercante impara l’aritmetica, la ragioneria (da ragione ‘conto’) e ac­ quisisce l’abilità grafica che gli permette di scrivere: in queste scuole di tipo pratico, la lingua d’insegnamento è il volgare; in tutte le altre scuole, invece, il perno della formazione rimane il latino. I mercanti devono saper tenere in ordine i registri contabili, ri­ lasciare le ricevute dei pagamenti, compilare assegni e lettere di cambio, tutte attività che richiedono il ricorso alla scrittura. Testi del genere, insieme alle pratiche di mercatura (una sorta di manuali del mestiere di mercante), costituiscono una preziosa testimonianza delle abilità linguistiche e delle abitudini scrittorie (e ortografiche in particolare) dei mercanti, oltre che dell’aspetto fonomorfologico dei volgari allora in uso nella nostra penisola. Nell’attività di scrittura del mercante, un posto importante è oc­ cupato dalle lettere, che gli permettono di comunicare con le filiali

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I libri di famiglia

ì : U N T E S T A M E N T O S IC IL IA N O R E D A TT O A V E N E Z IA (1 3 8 0 -1 3 8 1 )

Il testo originale, scritto o dettato in siciliano, recitava: Kistu lo testamentu de lu nobili Pinu Canpulu fìglu ki fu de miser Nicola Chanpolu, stanti in lectu, sanu de mentì et infìrmu di corpu, lu quali voli e cumanda ki lu presenti testamentu sia oservatu et factu comu lu ditu testamentu conterrà.

La trascrizione del notaio veneziano si presenta invece così: Chestu lo testamento de lo nobele Pino Campolo, fìlio che fo del misser Nicola Campolo, stanto in leto sano de mente e infermo del corpo, lo qual vuole e co­ manda che lo presente testamento sia oservado e fato chomo lo dito testamento conteni.

Nel passaggio dal testo in siciliano alla trascrizione notarile, sono evidenti le tra­ sformazioni intervenute non solo sul piano grafico (k passa a eh) ma soprattutto per quel che riguarda la fonetica: — la -u finale viene corretta in -o (kistu > chesto, lu > lo, sanu > sano); la -/ finale viene corretta in -e (menti > mente, voli > vuole); - le scrizioni latineggianti vengono sostituite dalle forme settentrionali con consonante scempia (lectu > leto, factu > fato); ιιιιφ

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

-

la forma oservatu viene modificata in oservado, con la sonorizzazione della sorda intervocalica, fenomeno tipico dei volgari settentrionali.

Compaiono, inoltre, le prime spie della diffusione del toscano come modello linguistico di prestigio, più precoce al Nord (per esempio vuole in luogo del veneziano vote o del siciliano voli). Testi da R. Casapullo, Il Medioevo, in F. Bruni (a c. di), Storia della lingua italiana, il Mulino, Bo­ logna 1999, pp. 379-384.

Latino e toscano

Se è vero che i mercanti attuano soluzioni linguistiche di compro­ messo tra il loro volgare e quelli dei loro corrispondenti di altre città, è però in àmbito cancelleresco che nasce la coinè quattrocentesca, il primo vero esperimento di lingua sovraregionale, prescindendo dal­ la poesia. Nel Trecento, con il passaggio dai comuni alle signorie, ogni stato regionale si dota di una cancelleria che gestisce la corri­ spondenza, scrive atti pubblici, leggi, statuti e patti di varia natura. Anche in questo caso, è la necessità di tenersi in contatto con le can­ cellerie delle altre corti italiane a stimolare la ricerca di una soluzio­ ne linguistica di conguaglio, in cui l’attenuazione dei tratti marcati in senso dialettale si risolve in una patina linguistica genericamente settentrionale o meridionale, a seconda dei casi. Ai cancellieri che vogliono scrivere messaggi comprensibili oltre i confini della corte di appartenenza, vengono in soccorso da un lato il latino (che agisce ancora da collante, nell’uso scritto); dall’altro il to­ scano, che va affermandosi progressivamente come lingua di prestigio. 11 latino fornisce non solo forme cristallizzate familiari a ogni pubbli­ co funzionario (item ‘allo stesso modo’, quondam ‘un tempo’, autem ‘inoltre’), ma anche il lessico giuridico e burocratico (in buona parte sopravvissuto fino a oggi, come è per beneplacito, querela, allegare). Inoltre, il ricorso al latino garantisce ai testi cancellereschi una certa omogeneità sul piano della grada. I latinismi grafici, con la conserva­ zione, per esempio, dei nessi et e pt (facto, sepie) o di ti + vocale (gra­ fia), occultano in parte i diversi esiti fonetici riscontrabili nei singoli volgari: l’uso della grafia latineggiante dicto, per esempio, evitava allo scrivente settentrionale di incorrere nell’oscillazione grafica tra dito, deto e simili. Spia dell’affermazione del volgare toscano come modello di prestigio è la comparsa - in testi prodotti fuori dalla Toscana - di forme dittongate o anafonetiche, che però convivono con gli esiti locali: in una lettera scritta da un funzionario meridionale pos­ sono così alternarsi uomo e omo (senza dittongamento toscano), lingua e lengua (in cui invece manca l’anafonesi, tipicamente fiorentina).

L’ascesa del ceto mercantile e le cancellerie

Nel corso del Quattrocento, non solo nella Firenze medicea, ma anche nelle più importanti signorie dell’Italia settentrionale e me­ ridionale - come quelle degli Este (Ferrara, poi anche Modena e Reggio), dei Gonzaga (Mantova), dei Montefeltro (Urbino), dei Vi­ sconti e degli Sforza (Milano) e degli Aragonesi (Napoli) - le corti sono anche centri di promozione culturale e artistica, in cui viene incoraggiata la produzione letteraria in volgare. Al Nord come al Sud, nasce così una letteratura di corte scritta in una lingua - detta appunto “cortigiana” - che si può considerare l’applicazione in campo letterario delle coinè regionali.

TESTO

Letteratura cortigiana

D A L L A LE T T E R A D I U N M E R C A N T E T O S C A N O

D’altra parte ti volemo fare asapere di chonvenentri di Toscana; che sapi, lachomo, che noi semo ogi in grande dispesa e in grande facendo a chagione dela guerra che noi avemo chon Fiorenga; e sapi che a noi chostarà asai a la borsa, ma Fiorenga chonciaremo noi sì che giamai no ce ne miraremo drieto, se Dio dì male guardia messer lo re Manfredi, a chui Idio dia vita, amen. (D’altra parte ti vogliamo far sapere le novità della Toscana; sappi, Giacomo, che noi oggi ci troviamo ad affrontare grandi spese e siamo in una situazione diffìcile a causa della guerra in corso con Firenze [è la guerra conclusasi con la sconfìtta dei guelfi fiorentini a Montaperti il 4 settembre 1260]; e sappi che ci costerà molto caro, ma distruggeremo Firenze così che non dovremo più guardarci indietro, se Dio protegge dal male il signor re Manfredi [re di Sicilia a cui facevano capo i ghibellini], al quale Dio conceda di vivere, amen).

Come si vede dall’esempio riprodotto, le lettere dei mercanti non contengono solo comunicazioni legate agli affari: vi trovano spazio anche notizie di cronaca che possono avere ricadute sul commercio. Sul piano linguistico, si notino le grafie eh + a, o, u, l’oscillazione tra consonanti scempie e doppie (sapi, facendo ma anche guerra e messer) e la presenza di spie linguistiche della provenienza non fiorentina dello scrivente, come la conservazione di -or- protonico nei futu­ ri chonciaremo e miraremo (in questi casi il fiorentino prevede il passaggio a -er-). Testi da R. Casapullo, Il Medioevo, in F. Bruni (a c. di), Storia della lingua italiana, il Mulino, Bo­ logna 1999, pp. 73-74.

Queste esperienze hanno però una vita relativamente breve, perché alle soglie del Cinquecento comincia a fissarsi un rigido canone lette­ rario - quello delle Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio) -, che consacra il toscano trecentesco come modello linguistico vincente.

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

2.4 La formazione della lingua letteraria In una situazione di plurilinguismo come quella che si osserva nell’I­ talia bassomedievale, il toscano conquista una posizione di presti­ gio soprattutto perché la produzione letteraria toscana può contare su autori e opere percepiti da subito come modelli. Il carattere di esemplarità riconosciuto già dai contemporanei alla Commedia di Dante e alle opere in volgare di Petrarca e Boccaccio è importante per comprendere come si sia arrivati alla codificazione della lingua italiana, e perché per molti secoli lingua scritta e lingua parlata sia­ no rimaste separate. Del resto è proprio Dante, nel De vulgari elo­ quentia (‘Sull’eloquenza in volgare’), a discutere per la prima volta dell’esistenza di una lingua comune, sia pure su base esclusivamente letteraria e fondata principalmente sul linguaggio poetico. Il De vulgari eloquentia (1304-1305), rimasto incompiuto a metà del n libro, è la prima trattazione organica riguardante il vol­ gare, ma è scritto in latino perché si rivolge alla comunità dei let­ terati. Il problema principale che Dante si pone in questo trattato è quello dell’esistenza di un volgare letterario comune che chiama

Il prestigio del toscano

Il De vulgari eloquentia

TESTO

U N ESEMPIO D I C O IN È L E T T E R A R IA S E T T E N T R IO N A L E

A voi, ligiadri amanti e damigiele, Che dentro a’ cor gentil aveti Amore, Son scòte queste istorie tanto bete Di cortesia fiorite e di valore; Ciò non ascolten quest’anime fele Che fan guera per sdegno e per furore. Adio, amanti e damme peregrine, A vostro honor di questo libro è il fine. (L’inamoramento de Orlando, libro n, canto xxxi, vv. 393-400)

In questi versi di Matteo Maria Boiardo (1440-1494), l’attenuazione dei tratti lo­ cali è evidente nella forma gentil preferita alla dialettale zentil. La patina linguistica settentrionale si ritrova invece nello scempiamento delle consonanti intervocali­ che in parole come sente, bete e guera e nel maldestro tentativo di evitarla che si osserva in damme ‘dame’. Tipica della coinè settentrionale è inoltre la desinenza -et/ per la 2apersona plurale (aveti ‘avete’). Di àmbito locale è anche il congiuntivo ascolten ‘ascoltino’. Testo da M.M. Boiardo, Opere, voi. i: L’inamoramento de Orlando, ed. critica a c. di A. Tissoni Benvenuto, C. Montagnani, Ricciardi, Milano-Napoli 1999, p. 1588.

La formazione della lingua letteraria

“illustre”. Dopo aver individuato nella penisola italiana quattordici varietà idiomatiche, Dante le passa in rassegna una per una: e arriva alla conclusione che il volgare illustre non coincide con nessuno dei volgari italiani, ma va rintracciato nella lingua della tradizione poetica che parte dai poeti siciliani e arriva agli stilnovisti (incluso lo stesso Alighieri). Il merito principale di Dante è quello di aver saputo cogliere le potenzialità del volgare, una lingua ancora giovane al tempo in cui scriveva il suo poema maggiore, e di averlo plasmato fino a farne uno strumento linguistico versatile, adatto alla trattazione degli ar­ gomenti più disparati, in versi come in prosa (il Convivio è un tratta­ to, scritto tutto in volgare, in cui alle poesie segue un autocommento in prosa). Questa ricchezza di stili (pluristilismo) si accompagna, nelle ter­ zine del capolavoro dantesco, a una grande varietà di soluzioni lin­ guistiche (plurilinguismo). Infatti, anche se la compagine linguistica della Commedia è saldamente fiorentina, Dante fa tesoro delle espe­ rienze letterarie precedenti e ricorre spesso a forme e parole estranee all’uso di Firenze. Nella Commedia si possono rintracciare prestiti provenienti dalla grande letteratura francese e provenzale (come fallanza ‘errore’, disianza ‘desiderio\ periglio ‘pericolo’, visaggio ‘viso’), latinismi (soprattutto nel Paradiso·, preclaro ‘famosissimo’, laboro ‘fatica’, libito ‘piacere’), forme della poesia siciliana (face ‘fa’) e voci toscane ma non fiorentine (come il lucchese issa ‘ora’). Dante si spinge fino all’introduzione di veri e propri inserti in altre lingue: il discorso di Cacciaguida in latino (Paradiso, xv), il canto del trovatore Arnaut Daniel in provenzale (Purgatorio, xxvi) e ad­ dirittura due frammenti di lingue inesistenti: il celebre «Pape Satàn Pape Satàn Aleppe» ( Inferno, v i i ) e il verso «Raphèl mai amècche zabì almi» messo in bocca al gigante Nembrot (Inferno, xxxi). Della Commedia possediamo trascrizioni molto antiche, che te­ stimoniano l’immediata fortuna dell’opera e il suo impatto - anche linguistico - fuori della Toscana. Particolarmente importanti sono le trascrizioni di versi danteschi contenute nei Memoriali bolognesi, do­ cumenti ufhciali in cui i notai, per evitare aggiunte e falsihcazioni, ri­ empivano gli spazi bianchi scrivendo poesie o proverbi. La diffusione del poema dantesco nell’Italia settentrionale e poi anche meridionale è così capillare che parole ed espressioni contenute nella Commedia cominciano a formare il tessuto di una lingua che si avvia a diventare comune. Per esempio, il dantesco sorella (favorito anche dal paralleli­ smo con fratello) s’impone sul toscano occidentale suora e sul horentino serocchia; allo stesso modo, entrano nell’uso parole come bolgia o espressioni come senza infamia e senza lode. Al plurilinguismo e al pluristilismo di Dante, che amava mesco­

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le potenzialità del volgare

Pluristilismo e plurilinguismo dantesco

La fortuna e l’impatto linguistico della Commedia

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

MflmtUlii

TESTO



1j

L’ K SFM PLIiTIC AZIO N E DEI V O L G A R I N E L D E V O L G A R I E L O Q U E N T ÌA

Nel De vulgari eloquentìa Dante passa in rassegna le quattordici varietà idiomati­ che da lui individuate: siciliano, pugliese (in realtà il campano dei regni angioini), romanesco, spoietino (cioè umbro), toscano, genovese, sardo, calabro (l’attuale pugliese), marchigiano, romagnolo, lombardo, trevigiano-veneziano, aquileiese (ovvero il ladino friulano), istriano. Le varietà vengono presentate attraverso esempi, in parte letterari, che mettono in evidenza i tratti distintivi dei singoli volgari (libro i, capp. xi-xv). Così, per esempio, il volgare dei romani è conden­ sato nella domanda «Messure, quinto dici?» (‘Messere, che cosa dici?’), quello di milanesi e bergamaschi nel verso di una canzone ricco di tratti settentrionali, come la perdita della vocale finale diversa da -a: «Enter l’ora del vesper, ciò fu del mes d’ochiover» (‘Verso l’ora del vespro, ciò accadde nel mese di ottobre’); dei genovesi si dice che se perdessero la lettera z, dovrebbero o ammutolire completamente o rifarsi una nuova lingua. Dante non risparmia i suoi corregio­ nali, anzi è particolarmente sprezzante con tutte e cinque le sottovarietà in cui è diviso il volgare toscano: fiorentino, pisano, lucchese, senese e aretino.

La codificazione grammaticale

lare basso e alto, tragico e comico, si è soliti contrapporre il monolinguismo di Petrarca. Nel Canzoniere, infatti, Petrarca si serve di una lingua selezionatissima, elegante e rarefatta e si mantiene quasi costantemente su un unico registro stilistico, elevato e antirealistico. Il lessico si compone di poche parole-chiave simboliche ed evoca­ tive (a partire dal nome Laura, che allude di volta in volta oSL!aura ‘aria, brezza’ e al lauro poetico), mentre vengono evitati vocaboli concreti o legati all’uso quotidiano. Ma Petrarca fa soprattutto da filtro del linguaggio poetico precedente, riducendo i tratti non to­ scani (viene evitato, per esempio, il sicilianismo poetico ca ‘che’) e limitando fortemente la quota di forme derivanti dal francese e dal provenzale (si salvano solo augello, rimembranza e poco altro). Il Canzoniere (il titolo originale, come s’è detto, era in latino: Re­ rum vulgarium fragmenta: vedi § 1.7) diventa subito il modello stili­ stico e linguistico di riferimento per i poeti non toscani e innesca in Italia e in Europa un vasto processo d’imitazione, che prende proprio il nome di “petrarchismo”. I versi di Petrarca diventano - oltre che un repertorio di forme, parole, temi e immagini - la prima grammatica dei poeti italiani che vogliono allontanarsi dal proprio volgare municipale. Diversamente da Dante e Petrarca, che possono rapportarsi a un linguaggio poetico in buona parte già formato, Boccaccio non ha alle spalle una .significativa tradizione di prosa narrativa in volgare. Per il Decameron, Boccaccio mette a punto un impasto linguistico che coincide essenzialmente con il fiorentino parlato dalle persone cólte, con qualche apertura a forme e parole di altri volgari quando lo ri­ chiede la caratterizzazione di singoli personaggi (come i veneziani monna Lisetta e Chichibìo). Questo parlato letterario in volgare ben si presta a rappresentare l’universo della borghesia mercantile, il ceto dal quale proviene lo stesso Boccaccio. Va però ricordato che nel De­ cameron le novelle in cui si avverte il gusto tipicamente toscano per il dialogo vivace e la battuta sapida convivono con parti più elaborate (il Proemio, l’Introduzione alle singole giornate) in cui lessico e sintassi denunciano forti ascendenze classiche. Il successo dell’opera presso i contemporanei si deve soprattutto alla lingua vivace e mossa delle novelle; ma a imporsi come modello linguistico sarà, come vedremo, la prosa latineggiante delle parti che alle novelle fanno da cornice.

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Il monolinguismo di Petrarca

Il petrarchismo

Il Decameron

2.5 La codificazione grammaticale I testi da Dante, De vulgari eloquentìa, introduzione, traduzione e note di V, Coletti, Garzanti, Milano 1991.

Il Cinquecento viene ricordato come il secolo della questione della lingua. L’Italia si presentava politicamente e linguisticamente fram­ mentata ma possedeva ormai una tradizione letteraria condivisa; le forme di coinè nate in àmbito cancelleresco e sfruttate anche dai poeti delle corti italiane offrivano un primo esempio di lingua sovra-

La questione della lingua

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La codificazione grammaticale

Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell'italiano

regionale; la nascita della stampa sollecitava la ricerca di una lingua comprensibile in tutta la penisola, per assicurare la massima diffu­ sione ai libri in volgare. Per tutte queste ragioni esplode, nel Cinque­ cento, il dibattito su quale debba essere la lingua (letteraria) comune in Italia, una nazione ancora virtuale sul piano politico, che tuttavia prova a riconoscere nella letteratura Punico spazio comune tra i vari stati regionali. Nasce ora la cosiddetta “questione della lingua”. La discussione vede fronteggiarsi diverse teorie. Latino Lingua cortigiana

La posizione italiana o italianista

La posizione fiorentinista

La posizione classicista

■ La tesi dell’uso del latino come unica lingua letteraria possibile ha ancora molto séguito, ma si avvia a un lento declino. ■ La teoria che vede nella lingua cortigiana lo strumento più adat­ to a superare la frammentazione linguistica dell’Italia comprende in realtà posizioni molto diverse: c ’è chi, come Mario Equicola, rivolge la sua attenzione alla lingua scritta molto latineggiante in uso nella corte di Roma; ma c’è anche la posizione di Baldassar­ re Castiglione, che nel Cortegiano propone come lingua «italiana e commune» quella non solo scritta ma anche parlata dai genti­ luomini delle corti italiane, basata sull’antico toscano ma aperta a tutte le forme e le parole regionali che si erano affermate nell’uso. ■ La posizione, definita italiana o italianista, del letterato vicen­ tino Gian Giorgio Trissino, che, sulla base di un’errata interpre­ tazione del concetto dantesco di volgare illustre esposto nel De vulgari eloquentia (opera da lui riscoperta e divulgata), sostiene che Dante e Petrarca avevano scritto non in fiorentino o in tosca­ no ma, appunto, in italiano. ■ La risposta dei fiorentinisti, che oppongono al ridimensionamen­ to del primato di Firenze implicito nelle altre tesi l’argomento della naturale superiorità del fiorentino vivo, l’unico adatto a farsi lingua letteraria dell’intera penisola. È questa la posizione che Niccolò Machiavelli affida alle pagine del Discorso intorno alla nostra lingua, ricordando che scrittori e poeti non toscani si formano tutti guardando, come esempio linguistico, ai fiorentini Dante, Petrarca e Boccaccio. ■ La tesi classicista e arcaizzante che Pietro Bembo espone, nel 1525, nel dialogo intitolato Prose della volgar lingua (il terzo libro contiene una vera e propria grammatica del volgare). Bem­ bo trasferisce dal latino al volgare il principio di autorità: come per il latino Cicerone era il modello della prosa e Virgilio della poesia, così per il volgare bisognava imitare Petrarca (e non Dan­ te) in poesia e Boccaccio in prosa. La proposta bembiana risulta quasi subito vincente, perché guarda a modelli certi e già affer­ mati e offre - anche nelle opere dello stesso Bembo - un modello grammaticale e stilistico molto preciso (oltre che prestigioso).

A P P R O F O N D IM E N T O



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✓ LE E D IZ IO N I A L D IN E

Si tratta dei libri pubblicati dalla stamperia veneziana dell’umanista Aldo Manuzio. Per i tipi di Manuzio uscirono, curate da Pietro Bembo, due opere fondamentali per la definitiva affermazione del volgare: Le cose volgari di Petrarca (ovvero il Canzoniere, stampato nel 15 0 1) e Le terze rime di Dante (la Commedia, uscita nel 1502). Ma più in generale, l’im­ portanza delle edizioni aldine è legata ad alcune novità tipografiche che fecero scuola. In particolare ricordiamo: -

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il formato piccolo e maneggevole (le edizioni aldine si possono con­ siderare i primi libri tascabili); il carattere corsivo, da allora in poi noto come italico (si pensi al france­ se italique e all’inglese italic: è questo il motivo per cui oggi il comando da tastiera per ottenere il corsivo nella videoscrittura è ctrl + I); l’introduzione o la stabilizzazione di molti segni interpuntivi: l’apo­ strofo, il punto e virgola, la virgola di forma moderna, gli accenti; l’abolizione, nelle opere volgari, delle grafie latineggianti tipiche del­ le scritture cancelleresche.

All’interno di un canone già ristretto, Bembo opera un’ulteriore se­ lezione. Petrarca viene preferito a Dante, troppo incline all’uso di un registro umile e di un lessico concreto: versi dal l’Inferno come «E si traevan giu l’unghie la scabbia, / come coltel di scardova [un pesce con grandi squame] le scaglie» sono condannati, nel secondo libro delle Prose, per la presenza di parole «rozze e disonorate». Quanto a Boccaccio, la scelta di Bembo cade sulla prosa complessa e latineggiante della cosiddetta “cornice” (Proemio e Introduzione alle giornate) e non su quella delle novelle, in cui l’andamento dia­ logico comporta spesso uno scarto verso la simulazione del parlato (e dunque, agli occhi del classicista Bembo, verso il basso). Nella seconda metà del Cinquecento, quando le linee fondamen­ tali della norma bembiana sono ormai ampiamente diffuse e accet­ tate (tanto che, alla luce di queste, molti scrittori rivedono le proprie opere, anche se già pubblicate), due letterati fiorentini introducono alcuni correttivi alle idee di Bembo, sanando di fatto la frattura con la linea fiorentinista che era stata di Machiavelli. Benedetto Varchi nel suo dialogo L ’Hercolano (pubblicato postumo nel 1570) ripro­ pone le idee di Bembo, rivalutando però il fiorentino parlato dal­ le persone cólte come necessario complemento ai modelli indicati dalla proposta bembiana. Leonardo Salviati (animatore dell’attività linguistica dell’Accademia della Crusca) nel suo Degli Avvertimenti

Accettazione e adattamento della norma bembiana

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

Il Trecento, secolo d’oro

della lingua sopra 7 Decamerone (1584-1586) estende il canone degli autori da imitare a tutti i testi fiorentini del Trecento, inclusi quelli pratici, non letterari. L’idea del Trecento come “secolo d’oro” della lingua promossa da Salviati troverà un’applicazione pratica nel Vocabolario degli Ac­ cademici della Crusca (la prima edizione risale al 1612). L’impianto selettivo e arcaizzante del vocabolario suscita da subito molte pole­ miche, ma l’opera s’impone comunque come strumento linguistico indispensabile per i letterati non toscani e contribuisce ad accrescere il divario tra lingua scritta (il toscano trecentesco appreso per via libresca) e lingua parlata (i volgari delle varie regioni d’Italia).

A P P R O F O N D IM E N T O

✓ LE TRE E D IZ IO N I D t-L L ’ O R L A N D O F U R I O S O D I LU D O V IC O A R IO S T O

Ludovico Ariosto sottopose il suo capolavoro a un’accurata revisione che portò alla pubblicazione dell’opera in tre edizioni, via via più aderenti alle norme linguistiche contenute nelle Prose della volger lingua di Bembo (rispetto alle quali il poeta conservò comunque una certa autonomia). 1. La prima edizione del Furioso risale al 1516 e presenta una lingua “corti­ giana”, ancora vicina a quella usata dal conterraneo Boiardo nell Orlando innamorato, opera della quale Ariosto intende scrivere la continuazione. 2. Già nella seconda edizione, datata 1521, il poeta ferrarese interviene sulla lingua, attenuando gli elementi dialettali e quelli più compromessi con la coinè settentrionale. 3. La svolta si ha però con la terza edizione, uscita nel 1532, quando le idee di Bembo si erano già affermate. La revisione di Ariosto sul testo del Furioso si pone ormai saldamente, pur con qualche soluzione autonoma, sulla via dell’adozione del toscano trecentesco indicata da Bembo. Significativi sono alcuni versi introdotti proprio in questa edizione ( xlvi, 15, I- 4 ) : «là veggo Pietro / Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro, / levato fuor del volgare uso tetro, / quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro [‘mostrato’]».

2.6 Fattori di unificazione Nel corso del Cinquecento, dunque, l’italiano letterario sta acqui­ stando una fisionomia unitaria grazie alla diffusione delle teorie bembiane e alla loro applicazione nella nascente industria libraria. Non si può dire lo stesso per la lingua parlata. Ancora tre secoli dopo, al momento della proclamazione del Regno d’Italia (1861), il 75% della popolazione italiana è analfabeta e il 90% parla unica­ mente in dialetto (anche se molti sono comunque in grado di com­

Fattori di unificazione

prendere Titaliano). Eppure, già tra il Cinquecento e l’Ottocento, si possono individuare alcuni fattori che contribuiscono alla formazio­ ne di un modello comune anche per l’italiano parlato. I principali sono la predicazione religiosa, la stampa e la diffusione di una lette­ ratura pensata per un pubblico popolare, il teatro e in particolare il successo del melodramma. La Chiesa, che pure per lungo tempo ha nel latino la sua lingua ufficiale, intuisce ben presto che la predicazione e il catechismo de­ vono avvenire in una lingua che i fedeli possano comprendere. La natura popolare e per lo più incolta del pubblico e, insieme, il carat­ tere itinerante della predicazione sollecitano un dibattito linguistico che porta all’adozione di un linguaggio chiaro e semplice (il parlar «chiarozzo chiarozzo» teorizzato da Bernardino da Siena nel xv se­ colo). Una lingua che si presenta inizialmente come una sorta di volgare sovraregionale e successivamente, dalla seconda metà del Cinquecento in poi (ovvero dopo il Concilio di Trento, 1545-1563), come un italiano di registro alto o medio-alto. La Chiesa ha avu­ to una parte importante nel processo di italianizzazione anche sul piano della lingua scritta, sia per l’azione delle scuole parrocchiali (frequentate anche dalle donne) e dei collegi religiosi, sia per la diffusione di una letteratura devota di largo consumo (come i libri di prediche per sacerdoti e le biografie - talvolta autobiografie - di santi e mistiche). Quello dei testi devozionali è solo uno dei filoni della letteratu­ ra di consumo: un tipo di produzione legato alla diffusione libraria di massa resa possibile dall’invenzione della stampa. L’etichetta di “letteratura di consumo” si applica a una molteplicità di testi di va­ rio argomento, accomunati dalle alte tirature e dal pubblico al quale si rivolgono: una vasta platea di lettori scarsamente alfabetizzati, ma comunque in grado di leggere. Già prima del Cinquecento, si segnalano opere narrative che ottengono grande successo presso un pubblico popolare come I reali di Francia di Andrea da Barberino (ca. 1370-post 1431), e in generale i poemi cavallereschi; o come i testi che appartengono al genere della letteratura di viaggio (un caso esemplare è II Milione di Marco Polo). Il fenomeno della letteratura di consumo esplode però tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ot­ tocento, con l’affermazione del romanzo. La necessità di soddisfare la domanda crescente di un pubblico così vasto è alTorigine di un tratto comune a tutti i romanzi che fanno registrare alte tirature: la serialità, che si manifesta non solo negli intrecci e nella caratterizzazione dei personaggi, ma anche sul piano linguistico. Si spiega così la ricorsività di metafore, locuzioni, espressioni formulari, spesso ereditate dalla lirica attraverso il me­ lodramma (anima mia, giorno fatale, indissolubile nodo, stravagan­

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za modello comune per l’Italiano parlato

Il linguaggio semplice della Chiesa

La letteratura di consumo

Il romanzo

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

ze del caso). Si ripetono con insistenza stereotipi come la rappre­ sentazione dell’amore come fuoco (con il suo corollario dì fiamme, scintille e incendi) o come una guerra in cui si assalta una fortezza (il cuore dell’amata) sperando in una resa. Tra gli autori più attivi di questo genere di romanzi si possono ricordare, per il Settecento, Pietro Chiari (1712-1785) e Antonio Piazza (1742-1825). Nel seco­ lo successivo, riscuotono grande successo le opere del padre gesu­ ita Antonio Bresciani, iniziatore in Italia del romanzo d’appendice; di Francesco Mastriani, imitatore del romanzo realistico europeo (i suoi Misteri di Napoli richiamano già nel titolo I misteri di Parigi di Eugène Sue); e di Carolina Invernizio, autrice di più di centotrenta romanzi di grande successo.

TESTO

D A L R O M A N Z O D I C A R O L IN A IN V E R N IZ IO

IL B A C IO D ’ U N A M O RTA

Era sì bella ancora quella morta!... Eravi ancora tanto fascino in quelle purissime forme,... nella delicata posa! Possibile che l’anima di lei, fosse svanita intieramente nello spazio,... non rimanesse ancora in quel corpo immobile un po’ di divina es­ senza,... un soffio... Le pupille di Clara non avevano il color vitreo, appannato, oscuro, che sogliono prendere gli occhi degli estinti... Alfonso la guardava e gli pareva che esse ricambiassero i suoi sguardi. Eppure quelle pupille erano immobili,., come la fronte di Clara era ghiacciata. Ma il giovane non sapeva staccarsene. —Ah! se Dio volesse... se Dio volesse —mormorava come in delirio - Clara... Clara... guardami ancora... dammi un bacio... un bacio solo... per mostrarmi che mi hai perdonato...

Le frasi esclamative, i puntini di sospensione che compaiono frequentemente nel testo e l’uso dell’interrogativa retorica (Possibile che...) contribuiscono a creare un facile effetto di tensione emotiva, mentre il gusto per la descrizione minuziosa ri­ vela un’attenzione alla sfera sensoriale che è costante in tutta la produzione della Invernizio. L’enfasi è ottenuta con il ricorso ad aggettivi (come purissime, delicata, immobile, divina) che non hanno funzione informativa ma solo esornativa, di abbel­ limento, e con l’uso insistito delle ripetizioni (se Dio volesse... se Dio volesse; Clara... Clara...; un bacio... un bacio solo...). La sintassi è invece semplice, caratterizzata da brevi frasi coordinate, soprattutto nei frequenti inserti di discorso diretto. Testo cit. in L. Pizzoli, Spinte all’unificazione linguistica: fattori linguistici ed extralinguistici, in L. Serianni (a c. di), La lingua nella storia d’Italia, Società Dante Alighieri - Libri Scheiwiller, Milano 2002, pp. 305-306.

L’unità d’Italia

Anche l’autore di teatro, come il predicatore, si rivolge a un pub­ blico sempre diverso e avverte ben presto l’esigenza di esprimersi in una lingua il più possibile comune e condivisa. Nel Seicento, la Commedia dell’Arte - basata su un soggetto prestabilito o canovac­ cio, che lascia ampio spazio all’improvvisazione - ricorre alla ca­ ratterizzazione idiomatica di personaggi convenzionali: le maschere (Pantalone parla veneziano, Pulcinella napoletano, Balanzone bo­ lognese e così via). Ma è Carlo Goldoni (1707-1793) a intuire che, «essendo la commedia un’imitazione delle persone che parlano più di quelle che scrivono», occorre servirsi «del linguaggio più comu­ ne, rispetto all’universale italiano». L’invenzione (o reinvenzione) del parlato teatrale attribuita a Goldoni consiste nella costruzione di una lingua composita, che accoglie, nelle sue opere in italiano, regionalismi, forme dialettali non plebee, modi colloquiali toscani, parole auliche e anche francesismi. Molto diversa, perché legata alla tradizione lirica petrarchesca e quindi di registro elevato, è la lingua del melodramma. Si tratta di un genere che nasce alla fine del Seicento, ma tocca il vertice della sua popolarità nell’Ottocento, soprattutto con il successo delle ope­ re verdiane, diffuse anche presso un pubblico medio-basso grazie alle esibizioni, fuori dai teatri lirici, di cori o complessi bandistici e di strumentisti come i suonatori di organetto e fisarmonica. Non stupisce, quindi, che formule ed espressioni codificate tipiche dei libretti d’opera siano entrate nell’uso comune (croce e delizia, bu­ gia pietosa, bollenti spiriti ). Questa tendenza a una lingua aulica e arcaizzante appartiene principalmente al melodramma serio, perché quello comico procede - già a partire dal Settecento - su un bina­ rio distinto e parallelo, anche per quanto riguarda le scelte lessicali (talamo e tempio dei libretti drammatici, per esempio, diventano in quelli comici letto e chiesa).

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La Commedia dell’Arte

Il melodramma

2.7 L’unità d’Italia Con la proclamazione del Regno d’Italia (il 17 marzo 1861) e le suc­ cessive annessioni di Veneto e Friuli (1866), Roma (1870), Trieste, Gorizia e Trentino-Alto Adige (1918), l’Italia raggiunge il traguar­ do dell’unificazione politica. Resta ancora lontana, invece, l’unifi­ cazione linguistica. L’italiano letterario che si è fissato e diffuso a partire dalla seconda metà del Cinquecento è un patrimonio condi­ viso da una ristretta cerchia di intellettuali: la gran parte della popo­ lazione parla unicamente il proprio dialetto ed è per lo più analfa­ beta. Il nuovo assetto politico centralistico, tuttavia, e l’emergere di nuove condizioni demografiche, economiche, sociali e linguistiche

Unificazione politica e unificazione linguistica

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Scuola e alfabetizzazione

Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

innescano un cambiamento che porta gradualmente alla formazione della lingua nazionale. I fattori principali che nel tempo hanno contribuito all’unificazio­ ne linguistica sono stati ■ la creazione di un apparato amministrativo e burocratico unitario; ■ l’istituzione della leva obbligatoria nazionale; ■ l’urbanizzazione, ovvero il flusso di persone che dai piccoli paesi e dalle aree agricole si trasferiscono nelle grandi città; ■ Γindustrializzazione, che riguarda prevalentemente l’Italia nordoc­ cidentale e attrae nuova forza lavoro da altre aree del paese; ■ l’azione della scuola, che porta progressivamente alla riduzione del tasso di analfabetismo e diffonde un modello linguistico di­ verso dal dialetto e dafl’italiano regionale; ■ Γ emigrazione interna (dalle aree depresse dell’Italia meridionale verso il Nord industrializzato e dalle campagne verso i centri urbani) ed esterna (principalmente verso gli Stati Uniti); ■ la nascita di nuovi mezzi di comunicazione capaci di raggiunge­ re un pubblico molto vasto (la radio, il cinema sonoro, la televi­ sione).

Linguaggio burocratico

La leva obbligatoria

L’urbanizzazione

N eiritalia unita, la costituzione di un apparato statale unitario deter­ mina la formazione di un ceto dirigente i cui membri provengono da regioni diverse e devono perciò usare una lingua comune. Il linguag­ gio burocratico ha un’impronta fortemente aulica e proprio per que­ sto viene percepito come una varietà linguistica di prestigio da parte dei cittadini, soprattutto dei meno istruiti, che tendono a servirsene quando vogliono (o devono) discostarsi dal dialetto. L’influsso della lingua degli uffici sulla popolazione italiana è più consistente nel primo cinquantennio di vita dell’Italia unita, ma si fa sentire ancora oggi, per esempio nell’abitudine di presentarsi con la sequenza co­ gnome + nome, tipica delle persone di basso livello socioculturale. All’unificazione linguistica contribuisce anche l’istituzione della leva obbligatoria. Le giovani reclute di estrazione popolare, abituate a parlare sempre e solo il proprio dialetto, prestano il loro servizio militare lontano dai luoghi di residenza e per comunicare tra di loro e con gli ufficiali devono necessariamente attenuare le forme dialet­ tali più marcate. Nel gergo delle caserme sono comunque presenti molti dialettismi, soprattutto settentrionali (come i piemontesismi cicchetto, grana e ramazza, poi entrati nell’uso comune), perché manca ancora un italiano parlato comune. L’urbanizzazione non è certo un fenomeno nuovo: la novità dell’epoca postunitaria è soprattutto nelle dimensioni che assu­ mono le maggiori città della penisola italiana e nella consistenza

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numerica dei cittadini che lasciano le aree agricole. La conviven­ za di persone abituate a parlare dialetti diversi in centri urbani in cui, proprio per le loro dimensioni, si concentrano uffici pubblici e scuole ha determinato un indebolimento delle parlate dialettali, anche del dialetto delle città in cui si è riversata l ’ondata migra­ toria. Le città in cui la popolazione rurale tende a trasferirsi sono so­ prattutto i grandi centri industriali del Nord, che offrono migliori prospettive di lavoro e, in generale, migliori condizioni di vita. Il fenomeno tocca il suo apice nel ventennio 1950-1970 e interessa in particolare il cosiddetto “triangolo industriale” Milano-Torino-Genova.

2.8 Scuola e alfabetizzazione Con l’unità d’Italia il problema dell’adozione e della diffusione di una lingua nazionale diventa per la prima volta una questione poli­ tica. Nel 1868, il ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio nomina una commissione, presieduta da Alessandro Manzoni, per­ ché elabori proposte utili in tal senso. Manzoni, che nel dibattito linguistico ottocentesco sostiene la necessità di guardare al fiorenti­ no parlato dalle persone cólte come modello per la lingua unitaria, presenta al ministro una relazione (D ell’Unità della lingua e dei mezzi per diffonderla) in cui espone gli aspetti principali della sua proposta. Uno dei punti fondamentali è proprio il ruolo della scuola, in cui, secondo Manzoni, i maestri elementari avrebbero dovuto es­ sere di preferenza toscani o, se non toscani, formati anche mediante soggiorni di studio in Toscana. Per comprendere la posizione di Manzoni, occorre ricordare che nel periodo iniziale del Regno d’Italia l’istruzione elementare è an­ cora gestita dai comuni e raggiunge una minima percentuale della popolazione italiana. Inoltre, i maestri non sono ancora in grado di proporre agli studenti un modello linguistico unico e alternativo al dialetto. Solo dopo l’estensione al territorio nazionale della legge Casati (emanata nel 1859 per il Piemonte e la Lombardia) e l’ema­ nazione della legge Coppino (1877) inizia a formarsi il sistema sco­ lastico nazionale e viene introdotto il principio dell’obbligatorietà dell’istruzione elementare. Da allora in poi, e con una notevole accelerazione nel secondo dopoguerra, si riduce progressivamente Γanalfabetismo: dal 75% di analfabeti censiti nel 1861 si passa al 40% nel 1911 e al 14% nel 1951. La scolarizzazione procede però con ritmi diversi: più rapida al Nord, al Centro e in generale nelle città, più lenta nelle regioni meridionali e nelle zone rurali. Nel 2001, il c e n s is rileva che il tasso di analfabeti-

La proposta di Alessandro Manzoni

Formazione del sistema scolastico nazionale

Riduzione dell’analfabetismo

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

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L A R E V IS IO N E L IN G U IS T IC A DEI P lìO M fS S I SPO SI

Nella stesura del primo abbozzo del romanzo, noto con il titolo di Fermo e Lucia (1821-1823), Manzoni usa una lingua eclettica, di cui si mostra subito in­ soddisfatto. Nella seconda Introduzione al testo scrive infatti: «la dicitura è un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine». Negli anni successivi, Manzoni riscrive completamente il romanzo. Il risultato è l’edizione cosiddetta “ventisettana” dei Promessi sposi (pubblicata appunto nel 1825-1827), in cui Manzoni si fonda in particolare sulla lettura di autori to­ scani e sullo studio dei vocabolari. Il 1827 è soprattutto l’anno del soggiorno fiorentino, che consente a Manzoni di restringere ulteriormente il suo ideale di lingua. L’opzione è a questo punto il fiorentino parlato dalle classi borghesi e il romanzo viene nuovamente riscritto fino all’edizione definitiva, nota come “quarantanno 840-1842). L’edizione dei Promessi sposi curata da Lanfranco Garetti (1971) permette di confrontare la quarantana con l’edizione precedente (le varianti della ventisettana sono tra parentesi): Essi s'avviarono zittì zitti (pian piano) alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello (quivi il battello) pronto, e data e barattata (ricambiata) la parola, c’entrarono (v’entrarono). Il barcaiolo (barcaiuolo), puntando (pontando) un remo alla proda, se ne staccò; afferrato (raccolto) poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia (piaggia) opposta. Non tirava un alito di vento; [...] I passeggieri silenziosi, con la testa voltata (colla faccia rivolta) indie­ tro, guardavano i monti (le montagne), e il paese rischiarato dalla luna, e variato (svariato) qua e là di grand’ombre (grandi ombre). Testo dall’ed. a cura di L. Caretti, Einaudi, Torino 1971, voi. ι, pp, 190-191.

smo è sceso fino all’1,5% della popolazione sopra i sei anni. Va detto però che le ultime indagini fanno registrare risultati, se pur in leggero miglioramento rispetto a quelli di ricerche analoghe svolte in passa­ to, complessivamente scadenti: il 21% dei quindicenni italiani mostra «scarsi risultati in lettura» e il 70% degli italiani fra i 16 e i 65 anni dimostra capacità alfabetiche giudicate insufficienti. Le proposte della relazione presentata al ministro Broglio non trovano applicazione pratica nell’organizzazione del sistema scola­ stico. Manzoni dà comunque un contributo decisivo all’apprendi­ mento della lingua italiana sui banchi di scuola grazie al successo dei Promessi sposi, che diventano un caposaldo nella formazione della coscienza nazionale, anche di quella linguistica. In questa pro­

L e m ig ra z io n i

spettiva si deve considerare la fortuna di libri per l’infanzia come Pinocchio di Carlo Collodi (1881-1883) e Cuore di Edmondo De Amicis (1886), che si affiancano ai testi scolastici veri e propri nell’orientare Γinsegnamento della lingua italiana. Le tre opere, in­ fatti, riflettono una lingua piuttosto colloquiale che si avvicina, sia pure in modi diversi, al toscano dell’uso vivo e può essere proposta come modello omogeneo nell’insegnamento scolastico postunitario. Per contrastare l’uso esclusivo del dialetto, i maestri delle scuole ele­ mentari e medie tendono a sanzionare non solo le forme effettivamente dialettali, ma anche molti elementi lessicali e sintattici tipici della lingua parlata. Nelle aule scolastiche s’insegna ancora a lungo (di fatto, fino a oggi) a preferire volto &faccia, inquietarsi ad arrabbiarsi, affinché a perché e così via. Inoltre, la pratica del tema, spingendo a diluire in due o tre pagine ciò che può essere detto efficacemente in poche righe, fa­ vorisce la prolissità e l’uso di formule stereotipate. Una tendenza che si è tentato di contrastare solo a partire dagli anni settanta del Novecento: determinanti, in questo senso, le Dieci tesi per un’educazione linguisti­ ca democratica presentate nel 1975 dal giscel (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica).

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Tre opere fondamentali per la coscienza nazionale e linguistica

Censura del dialetto e della lingua parlata

2.9 Le migrazioni Come si è detto, le migrazioni interne verso le aree più progredite del paese contribuiscono a un indebolimento dei dialetti e, soprattut­ to, innescano un meccanismo di promozione sociale. Questo accade perché chi abbandona le aree rurali per trasferirsi in una grande città viene in contatto con una realtà nuova, che offre maggiori possibilità in fatto di istruzione, di socialità, di cultura. Inoltre, tra il 1871 e il 1951, circa 7 milioni di italiani lasciano l’Italia per trasferirsi definitivamente all’estero e si calcola che altri 14 milioni vi abbiano trascorso un periodo più o meno lungo prima di rimpatriare. Le conseguenze linguistiche di questo consistente flusso migratorio vanno ben oltre la diffusione per via popolare di forestierismi nell’italiano e di italianismi come mafia, spaghetti e cappuccino nelle lingue dei paesi d’arrivo dei migranti. Gli emi­ granti non abbandonano il dialetto per l’italiano, neppure in terra straniera, e nell’arco di due o tre generazioni perdono il contatto linguistico (non quello culturale) con la terra d’origine. Ma l’emigrazione agisce sulle condizioni linguistiche dell’Italia in maniera più profonda. Una prima conseguenza dei flussi migrato­ ri è la riduzione del numero degli analfabeti presenti in Italia: a la­ sciare la madrepatria, infatti, sono soprattutto le fasce più povere dei ceti rurali del Sud. Inoltre, scontrandosi con le difficoltà nel tenersi in contatto con i familiari rimasti in Italia, gli emigranti analfabeti

Indebolimento dei dialetti

Riduzione dell’analfabetismo

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

TESTO

IT A L Y D I G IO V A N N I PASCOLI

Una rielaborazione letteraria dell’impasto di inglese e dialetto tipico degli emigranti è contenuta in questo poemetto di Giovanni Pascoli, in cui si immagina il provvisorio ritorno in Italia di una famiglia di emigrati in America. Eccone alcune strofe: Venne, sapendo della lor venuta, gente, e qualcosa rispondeva a tutti loe, grave: «Oh yes, è fiero... vi saluta... molti bisini, oh yes... No, tiene un fruttistendo... Oh yes, vende checche, candì, scrìma... Conta moneta: può campar coi frutti...»

Accanto alle interiezioni tipicamente americane (oh yes), nelle frasi attribuite a loe (Joe) compaiono molte parole inglesi italianizzate: bisini (business ‘affari’), frutti-stendo (fruitstand ‘negozio di frutta’), checche (cakes ‘dolci’), candì (candies ‘caramelle’), scrima (ice cream ‘gelato’), Testo da G, Pascoli, Poesie, scelta e introduzione di L, Baldacci, Garzanti, Milano 1974, pp. 375-376,

Coscienza dell'Importanza dell’istruzione

L’apprendimento dell’Italiano: condizione indispensabile per l’Integrazione

prendono coscienza dell’importanza dell’istruzione come elemento fondamentale di promozione sociale. Questa consapevolezza vie­ ne trasmessa anche alle popolazioni rurali del Mezzogiorno e della Sicilia, che cominciano a frequentare le scuole pubbliche. Spesso tornano sui banchi anche gli adulti che hanno dimenticato le nozioni apprese in modo superficiale da bambini. In particolare, nei dieci anni in cui remigrazione è più consistente (1901-1911), si registra in Italia una riduzione dell’analfabetismo pari al 22,2%. La relazio­ ne tra emigrazione e crescita dell’alfabetizzazione è tanto più evi­ dente se si considera che in quegli stessi anni la politica scolastica presentava ancora forti limiti e che le prime associazioni private per la lotta contro l’analfabetismo nascono solo intorno al 1910. Più recente è il fenomeno di segno contrario, ovvero l’immi­ grazione di lavoratori stranieri, soprattutto cittadini dell’Europa dell’Est, africani e asiatici. Le diverse lingue di partenza degli im­ migrati non sembrano per ora in grado di influire sull’“italiano d’Ita­ lia”, unitario e dotato di maggior prestigio sociolinguistico. L’arrivo di questi nuovi cittadini pone però problemi linguistici di tipo di­ verso, legati alla necessità di apprendere l ’italiano, condizione indi­ spensabile per una piena integrazione nella società.

I mezzi di comunicazione di massa

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2.IO I mezzi di comunicazione di massa Con la nascita della società industriale e urbanizzata, migliorano notevolmente in Italia le condizioni di vita: aumentano i redditi in­ dividuali e la disponibilità di tempo libero e cresce il livello di alfa­ betizzazione. Ne deriva una maggiore diffusione degli strumenti di informazione e degli spettacoli. Nascono così i mezzi di comunica­ zione di massa o mass media: stampa periodica e quotidiana, radio, cinema e televisione (sulla cui evoluzione linguistica, vedi il cap, 6). I primi giornali pubblicati in Italia, alla fine del Settecento, erano in realtà fogli volanti con poche pretese e con scarsa diffusione (se non locale). La nascita dei primi giornali a grande tiratura come “La Gazzetta del Popolo” e “Civiltà Cattolica” avviene qualche decen­ nio più tardi. Il giornalismo diventa però un fenomeno di massa sol­ tanto dopo l’unità d’Italia. Alla fine dell’Ottocento, le innovazioni in campo industriale e tipografico rendono possibili alte tirature e la distribuzione capillare nelle edicole, proprio mentre aumenta il nu­ mero delle persone in grado di leggere. Nascono in questo periodo grandi'quotidiani nazionali come “La Stampa” (1867) e il “Corriere della Sera” (1876). Il passaggio dai giornali locali ai quotidiani dif­ fusi a livello nazionale comporta importanti trasformazioni lingui­ stiche e stilistiche, contribuendo a diffondere un modello di italiano unitario, tendenzialmente semplificato nella sintassi e svecchiato nel lessico, aperto anche alle parole straniere e alle strategie linguistiche della comunicazione pubblicitaria. La radio, il cinema e la televisione agiscono sulla diffusione dell’italiano molto più dei giornali, perché sono in grado di rag­ giungere anche la popolazione analfabeta. Si può affermare che per molte persone questi mezzi di comunicazione siano stati di fatto la prima scuola di lingua. I tre mezzi hanno avuto tuttavia un impat­ to linguistico differente: piuttosto basso quello del cinema, medio quello della radio, massimo quello della televisione. Dalla sua nascita (1930) fino all’avvento del neorealismo, il ci­ nema sonoro si serve di una lingua lontana dall’uso reale e prossi­ ma invece al parlato teatrale: una lingua aulica, con rare aperture al dialetto urbano (soprattutto romanesco e napoletano). Nei suoi primi decenni di vita, il cinema fornisce comunque un importan­ te modello linguistico, anche grazie all’obbligo di doppiaggio per i film stranieri imposto dal fascismo nel 1932. Questa pratica, in uso ancora oggi, ha di fatto evitato la discriminazione tra alfabetizzati e non alfabetizzati che i sottotitoli avrebbero inevitabilmente prodot­ to. La lingua realmente parlata in Italia irrompe sul grande schermo solo con la stagione del cinema neorealista di Rossellini e De Sica.

I mezzi di comunicazione di massa I giornali

Il cinema

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I mezzi di comunicazione dì massa

Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

La radio

La televisione

La pubblicità

Esemplare il caso di Paisà (regia di Roberto Rossellini, 1946), che riflette, anche linguisticamente, la situazione italiana del dopoguerra in sei regioni italiane. Nelle commedie degli anni successivi trova invece spazio una dialettalità esasperata e stereotipata, che contri­ buisce a diffondere nel pubblico la consapevolezza della distanza tra Γ incomprensibilità delle parlate locali - ristrette entro i rispettivi confini regionali - e la dimensione nazionale dell’italiano. Interes­ sante è anche il processo di rimozione di parole e costrutti aulici (come quisquilie, è d ’uopo e simili) innescato dall’uso deformato e ironico che ne fa Totò nei suoi film. La radio, attiva come servizio pubblico dal 1924, nel secondo dopo­ guerra viene ascoltata quotidianamente da oltre T 80% della popolazio­ ne sopra i dodici anni (già qualche anno più tardi comincerà a cedere una fetta del suo pubblico alla televisione). Inizialmente, le trasmissioni radiofoniche realizzano una comunicazione unilaterale, senza possibili­ tà d’interazione con gli ascoltatori, e indirizzata a un pubblico indefini­ to. La lingua che la radio contribuisce a diffondere è molto standardiz­ zata, vicina all’italiano letterario e lontana dalla spontaneità del parlato, perché i testi sono scritti per essere letti. A partire dagli anni settanta, con il moltiplicarsi delle emittenti private, i testi trasmessi cominciano a presentare una notevole varietà tipologica e le trasmissioni si aprono al dialogo con il pubblico, che può telefonare in diretta o - come accade sempre più spesso negli ultimi anni - inviare e-mail e sms che vengono letti dallo speaker. Queste trasformazioni hanno determinato un pro­ gressivo avvicinamento del linguaggio radiofonico all’italiano parlato. La televisione, entrata nelle case degli italiani dal 1954, diventa ben presto più popolare non solo della radio (che non può abbinare alla parola la forza delle immagini), ma anche del cinema. Anche se negli anni cinquanta e sessanta il televisore è ancora un lusso per pochi, il numero degli ascoltatori è di molto superiore a quello dei possessori dell’apparecchio: molti italiani, infatti, seguono le pri­ me trasmissioni televisive riunendosi nei bar, negli stessi cinema, o nelle case dei pochi che potevano permettersi l’acquisto di un tele­ visore. Il contributo della televisione alla diffusione dell’italiano ri­ siede anche in queste inedite occasioni di incontro fuori del contesto strettamente familiare, nel quale ci si esprimeva di solito in dialetto. Anche la pubblicità si può considerare un mezzo di comunica­ zione di massa, forse per certi versi il più invasivo. La ricaduta lin­ guistica della comunicazione pubblicitaria è però circoscritta alla diffusione dei cosiddetti “tormentoni”, dato che la pubblicità si li­ mita a rispecchiare tendenze già in atto nell’italiano parlato. Altro discorso riguarda l ’influenza dei marchi (ovvero, come si usa dire oggi, dei loghi), che pure hanno decisamente mutato il paesaggio linguistico degli ultimi anni.

Infine, va menzionato il fenomeno - tutto novecentesco - della musica leggera. La canzonetta melodica nata dal melodramma all’i­ nizio del secolo scorso, dopo essere stata usata come strumento di propaganda durante il regime fascista (Faccetta nera, 1935), diventa un fenomeno di massa a partire dal 1951, con l’istituzione del Festival di Sanremo. La radio e poi la televisione fanno da cassa di risonanza a canzoni caratterizzate inizialmente da testi semplici e facilmente memorizzabili. Il riflesso linguistico più evidente della musica leggera sull’italiano è il travaso nella lingua comune di espressioni contenu­ te in canzoni di successo. Afferma in proposito Tiziano Scarpa, uno scrittore da sempre attento ai fenomeni di massa:

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La musica leggera

Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi. Poi d’improvviso venivo dal ven­ to rapito, e cominciavo a volare nel cielo infinito. Vorrei che fosse amore, amore quello vero, la cosa che io sento, e che mi fa pensare a te. Voglio una vita spericolata, voglio una vita come Steve McQueen. Io penso positivo perché son vivo perché son vivo. [...] Di che cosa è fatto un italiano? [...] Una nazione è fatta dai ritornelli che sceglie di canticchiare aU’infinito.

V E R IF IC A

1. Rispetto all’evoluzione della lingua italiana, come si può considerare la diffusione del modello bembesco a partire dal XVI secolo? 2. Che cosa sono le coinè quattrocentesche? 3. Quali sono le principali tesi affrontate nel De vulgari eloquential 4. Quale soluzione propone Alessandro Manzoni per la questione della lingua nazionale postunitaria? 5. In che modo il fenomeno dell’emigrazione ha influito tra Otto e Novecento sulla situazione linguistica italiana?

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C a p ito lo 2 - F o rm a z io n e e d iffu s io n e d e ll’ ita lia n o

Storia di parole Aura La voce deriva dal latino classico aura ‘brezza, aria’, proveniente a sua volta dal greco àura ‘soffio’. La fortuna letteraria della parola si deve all’uso molto frequente che ne fa Petrarca nel Canzoniere, sfruttandone tutte le potenzialità semantiche e formali in una serie di giochi di parole e di allusioni: Laura è la donna cantata; l'aura è l’aura poetica; di lauro era la corona che premiava i migliori poeti, di auro ‘oro’ sono i capelli di Laura. Recente e legato a pratiche esoteriche è il significato di ‘sorta di radiazio­ ne che emanerebbe dal corpo umano’; ma aura è anche un termine del linguaggio medico, in cui indica i sintomi premonitori di una crisi epilettica. Bolgia La voce bolgia proviene dal latino tardo bulga (di origine celtica) ed è penetrata nell'italiano attraverso il francese antico bolge o bouge, che veniva usato nell’accezione di ‘tasca, sacca, borsa’. Dante, nella Commedia, usa la parola bolgia per indicare ciascuna delle dieci fosse dell’ottavo cer­ chio dell’/nferno, immaginate come fossero delle tasche, delle pieghe del terreno nelle quali vengono puniti i peccatori. Il significato originario della parola si ritrova nell’accezione obsoleta di ‘tasca grande di un vestito’; oggi, in Toscana, con il termine bolgia si indica anche il ‘difetto di un vesti­ to troppo largo che fa dei rigonfi’. Il passaggio all’accezione più estesa di ‘luogo dove c’è una grande confusione’ è più recente e si deve a Gabriele D’Annunzio. Lauda È una voce semidotta (dal latino laus, accusativo laudem, con metaplasmo alla i declinazione), che nel Medioevo assume il significato di ‘lode in onore di Dio, della Madonna o dei santi’. La prima attestazione italiana è nel Cantico di Frate Sole di san Francesco d’Assisi ( 1182-1226). La parola acquistò poi il significato tecnico di ‘componimento poetico di lode’, nella forma della ballata, o in forma drammatica, cioè recitata durante il rito del Venerdì Santo (l’esempio più noto è Donna de Paradiso di Jacopone da Todi, morto nel 1306). Così fu detto laudese chi cantava le laudi e (ma solo nel Novecento) laudario una raccolta di laudi. Lauda (o laude) è stato per lungo tempo sinonimo di lode, loda, lodo nei significati di ‘elogio’ e di ‘preghiera’. Solo lode, però, è usato in accezione scolastica: dieci e lode. Logo Si tratta dell’abbreviazione di logotipo (1895), voce che proviene dall’inglese logotype (greco logos ‘parola’ + inglese type ‘lettera’, a sua volta dal greco typos ‘impronta’). Dal significato tecnico di ‘gruppo di due o più lettere o simboli grafici fusi in un unico pezzo tipografico’ si è poi sviluppato

S to ria di p a ro le

quello di ‘marchio di un’azienda o di un prodotto, nella sua simbolizzazione grafica’. La parola ha avuto risonanza internazionale grazie al best seller di Naomi Klein, No Ioga (il testo guida del movimento no global, pubblicato in Italia nel 2001), in cui viene condannato lo strapotere delle aziende multina­ zionali, identificato appunto nell’invadenza mediatica dei loghi. Mafia Proviene dal siciliano mafia ‘braveria, millanteria’, di etimologia molto discussa: forse dall’arabo mahjas ‘millanteria’ o dalla radice maff‘gonfio’. Alberto Nocentini propone per la parola mafia un etimo diverso, ovvero il nome proprio Maffio, variante popolare di Matteo. La sua ipotesi si basa su un passo del Vangelo di Luca (5,27-32) in cui si parla del sontuo­ so banchetto con cui l’apostolo festeggiò la sua conversione, che «dev’es­ sere stato recepito dalla mentalità popolare come una manifestazione di lusso spocchioso». L’aggettivo mafioso indicava in origine una cosa graziosa o bizzarra e mano­ sa si diceva di una bella ragazza. Subito dopo l’unità d’Italia, la parola mafia assume il senso tecnico —già proprio del dialetto siciliano -- di associa­ zione malavitosa retta da vincoli di omertà e di tipo familistico , Il passag­ gio dal siciliano all’italiano si deve forse al dramma di Giuseppe Rizzotto, I mafiusi della Vicarìa (1863). Risalgono all’Ottocento anche il significato estensivo di ‘gruppo di persone unite da legami clientelati che tentano di fare i propri interessi privati a danno di quelli pubblici’ e quello di ‘orga­ nizzazione criminale’ in generale (mafia russa, mafia cinese, le nuove mafie). Mass m edia Mass media ‘mezzi di comunicazione di massa’ è una parola composta da due vocaboli che l’italiano ha tratto dall’inglese, ma derivano dal latino: mass da massa in origine ‘pasta’ e media dal plurale di medium ‘mezzo’, neutro sostantivato dell’aggettivo medius. La diffusione di mass media è stata facilitata dalla base latina, sentita come familiare in molte lingue di cultura occidentale; molti in italiano i derivati: massmediatico, mas­ smediologo, massmediale.

Rom anzo Accanto a romanus, esisteva già in latino l’aggettivo romanipiù popolare e forse con una sfumatura spregiativa. Presto romanicus venne messo in rapporto non con Roma, ma con la Romània, ossia con l’insieme dei territori linguisticamente e culturalmente neolatini. Da romanicus si trasse l’avverbio romanice, che assunse un significato prettamente linguistico, in contrapposizione alle lingue germaniche: ‘(parlare) come gli abitanti della Romània’, a indicare la ‘novità’ di una lingua sempre più di­ versa dal latino scritto. cus,

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Capitolo 2 - Formazione e diffusione dell’italiano

Dato che la nuova letteratura cavalleresca era prevalentemente in volgare d’o'/'/, il francese antico romanz passò facilmente da ‘volgare parlato nella Francia del Nord’ a ‘racconto composto in quella lingua’, solitamente a carattere cavalleresco, sia in prosa sia in versi. Con questa accezione il vo­ cabolo romanzo giunse in italiano nel xm secolo; poi nel Seicento cominciò a indicare altre forme di narrazione, sempre distinte dalla verità storica. Molte le locuzioni affermatesi tra Otto e Novecento: romanzo storico, ro­

Italiano e dialetti

manzo epistolare, romanzo d’appendice, romanzo giallo, romanzo poliziesco, romanzo rosa. L’uso di tipo aggettivale in lingua romanza (cioè neolatina) è

invece attestato dai primi del Settecento.

3.1 La frammentazione linguistica della penisola Fin dall’antichità, in quella che sarebbe stata l’Italia, la discontinuità geografica ha favorito una frammentazio­ ne etnica e linguistica paragonabile, in tutto il dominio indoeuropeo, solo a quella dell’India (paese quattordici volte più grande). Le etnie assoggettate dai Romani tra il iv e il in secolo a.C. erano circa una ventina e ciascuna potè conservare a lungo la propria lingua. Il colonialismo romano, infatti, non si preoccupò di latinizzare i popoli soggetti, limitandosi a imporre il proprio apparato giuri­ dico e amministrativo. In alcuni casi (Etruschi e popola­ zioni insulari), la profonda difformità delle lingue locali dal latino fece sì che quest’ultimo potesse evolversi in quelle aree senza interferenze. In altri casi, i popoli as­ soggettati impressero alla lingua dei dominatori alcune caratteristiche della propria (sostrato). L’ordinamento augusteo, che valse agli abitanti della penisola il titolo di italici (gli altri erano provinciales), non superò le antiche suddivisioni etno-linguistiche, ri­ calcate dalla ripartizione in undici regiones. La decaden­ za dell’Impero, rendendo più difficili le comunicazioni, accentuò i particolarismi. L’insediamento dei Longobar­ di (vi secolo d.C.) produsse la frattura della penisola in quattro settori: due longobardi (uno settentrionale e uno centromeridionale, non comunicanti) e due bizantini (una parte del Mezzogiorno con le isole e l ’Esarcato, un terri­ torio soggetto a un governatorato militare bizantino che aveva come capitale Ravenna). Questa frattura ha perpe­ tuato - se non accentuato - Γ originaria frammentazione linguistica, tanto che ancora oggi gli studiosi individuano

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Capitolo 3 - Italiano e dialetti

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✓ II. SO STRATO

Dai volgari ai dialetti

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Fig. 3. L ’Italia dei dialetti.

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Con sostrato si indica la situazione linguistica di interferenza in cui si trova una popolazione alla quale viene imposta una nuova lingua. Quando il latino ini­ ziò a diffondersi di pari passo con le conquiste romane, migliaia di persone che parlavano lingue molto diverse tra loro dovettero apprendere l’idioma dei conquistatori. Il loro sostrato, ovvero la persistenza delle lingue originarie (o di alcune caratteristiche: abitudini fonetiche, singole parole ecc.), influenzò nel tempo il loro uso del latino. Fenomeni fonetici, lessicali e sintattici provenien­ ti dalla lingua madre di ciascuna popolazione riaffiorarono nella nuova lingua dominante, caratterizzandola e differenziandola dal latino parlato dagli altri popoli conquistati. Nell’area italiana si può quindi parlare di sostrato etrusco, osco-umbro, sannita, celtico e via dicendo. Le lingue prelatine, in particolare, sono responsabili di alcuni fenomeni penetrati nel latino, che hanno contribuito alla formazione delle lingue romanze (e dei dialetti). Un esempio di sostrato fonetico è la palatalizzazione della U lunga latina in molti dialetti settentrionali ( luna luna), attribuibile all'influsso celtico; è invece un caso di sostrato lessicale il latino catena, quasi certamente attinto all’etrusco.

Tre aree dialettali

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in Italia tre principali aree dialettali: l’area settentrionale, a nord di una linea ideale che collega La Spezia a Rimini; l’area toscana e mediana; l’area meridionale, a sud di una linea Roma-Ancona. SE = dialetti settentrouali

3.2 Dai volgari ai dialetti Il dialetto: una lingua meno diffusa e con minore importanza politica

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La distinzione tra dialetto e lìngua è del tutto convenzionale. Anche il dialetto è in realtà una lingua·, lo dimostra il fatto che alla base dell’italiano c’è un dialetto - il fiorentino - elevato poi a lingua nazio­ nale. La differenza consiste soltanto nella più limitata diffusione del dialetto rispetto alla lingua e nella sua minore importanza politica (per esempio, non si parla di dialetto a proposito della lingua ufficiale di una nazione), spesso collegata a un minore prestigio socio-linguistico. Sebbene le notizie sulla fase arcaica dei dialetti siano molto scarse, sappiamo che alcuni tratti caratteristici comparivano già in età antica. Nell’area settentrionale, un’innovazione molto precoce - causata dall’influsso del celtico o venefico - è l’intacco della ve­ lare nel nesso -kt~ (come nell’antico ligure m ite ‘notte’, dal latino n o c t e m accusativo di n o x , n o c t i s ). Antica, anche se di età non me­ glio precisabile, è la lenizione delle sorde intervocaliche, comunque anteriore allo scempiamento delle geminate (due fenomeni lingui­ stici che vedremo nei paragrafi seguenti).

·

CM = dialetti centro-meridionali SA = dialetti sardi LA = ladino ------- confini ......... linee che segnano alcune suddivisioni dei dialetti centromeridionali

linee che separano alcuni gruppi dialettali: 1) linea La Spezia-Rimini, che separa i dialetti settentrionali da quelli centro­ meridionali 2) limite settentrionale dei dialetti del Salento 3) limite settentrionale dei dialetti calabresi di tipo siciliano

Nel Medioevo, la nozione di dialetto non è distinguibile da quella di volgare. La mappa dei volgari abbozzata da Dante nel De vulgari eloquentia (vedi § 2.4) rappresenta il contrasto tra la molteplicità delle parlate italiane e la fissità del latino: da una parte la naturalità priva di regole, dall’altra l’artificialità della gramatica (che allora era sinonimo di latino). Al tempo di Dante, infatti, si riteneva che il latino fosse una lingua artificiale, creata dai dotti per disporre di uno strumento di comunicazione rispondente a regole grammaticali ben definite. Non - come invece è - una lingua naturale storicamente determinata, con una sua evoluzione che nel corso dei secoli aveva condotto alla nascita degli idiomi romanzi. Nel De vulgari eloquen­ tia, il latino è descritto come una lingua di secondo grado (locutio

I volgari medievali

60

Capitolo 3 - Italiano e dialetti

A P P IlO I O N D IM I Ν Τ Λ



L’a ffe rm a z io n e d e l fio r e n tin o

LE AREE ISOLATE

Si tratta di aree geograficamente e storicamente appartate, a causa di particolari condizioni geofisiche che ostacolavano o impedivano comunicazioni frequenti (si pensi a una comunità racchiusa tra le catene montuose) oppure, più spesso, in forza di motivazioni sociali e culturali. La nozione di area isolata è importante per gli studi linguistici: l’isolamento di alcune aree, facendo diminuire i fattori di evoluzione e di contaminazione propri di ogni lingua viva, ha garantito la con­ servazione di fenomeni linguistici arcaici di cui, a volte, non avremmo avuto al­ tra testimonianza. Così, in molte aree centromeridionali si conservano - anche per il forte isolamento - diversi tratti arcaici, come la distinzione tra il maschile in -u e i neutri in -o (da un lato pésciu ‘pesce’, inteso come animale, dall’altro péscio ‘pesce’, inteso come cibo, in senso collettivo).

rispetto alla quale i vari volgari sono lingue di primo grado, apprese naturalmente imitando la nutrice. È possibile parlare in senso proprio di dialetti solo con il sorgere di un altro polo di riferimento: l’italiano. Cioè a partire dal Cinquecento, quando Γ affermazione del fiorentino letterario trecentesco abbassa al rango di dialetti tutte le altre parlate, comprese le parlate toscane non fiorentine e il fiorentino non rispecchiato dagli autori di riferimento. In questo secolo, in effetti, appare per la prima volta il termine dialetto, sia pure in riferimento alle lingue dell’antica Grecia. Ma è solo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento che si prende coscienza del­ la differenza tra italiano e dialetto, anche grazie al fiorire di una vasta letteratura dialettale consapevolmente alternativa a quella in lingua. s e c u n d a r ia )

Dai volgari ai dialetti

3.3 L’affermazione del fiorentino La soluzione della questione della lingua

Una lingua antiquata e artefatta, pensata per la comunicazione scritta

La fortunata proposta, fatta dal Bembo nel 1525, di fondare la lingua scritta sul fiorentino letterario del Trecento e in particolare su quello usato da Petrarca e Boccaccio nei loro capolavori, segnò una svolta nella storia della nostra lingua. In assenza di uno stato unitario e di una capitale da cui potesse irradiarsi un modello linguistico cen­ tralizzato, la soluzione della questione della lingua non poteva che arrivare per via cólta e orientarsi verso un modello di riconosciuto prestigio: il fiorentino. Bembo, raffinato umanista veneziano, non propose come modello il fiorentino a lui contemporaneo, ma guardò a una lingua antiquata, artefatta, libresca, che - proprio per essere racchiusa in un passato ide­ alizzato - potesse, un po’ come il latino, offrire regole sicure perché tratte da modelli inalterabili. Una lingua pensata per le esigenze della

comunicazione scritta, e in effetti usata per secoli quasi soltanto nello scritto: dunque dai pochi che sapevano scrivere, i quali però, parlando, usavano più spesso - come tutti gli altri - la loro parlata locale. Se l’italiano di oggi ha mantenuto un’inconfondibile impronta fiorentina, ciò si deve in gran parte ai letterati del Cinquecento. È in forza della loro scelta che noi usiamo, esattamente come nel fio­ rentino trecentesco, le form e f a m ig li a e lin g u a (in cui agisce il fe­ nomeno dell’anafonesi) anziché f a m e g lia e le n g u a (proprie di altri dialetti della Toscana e d’Italia), b u o n o o p i e d e (col caratteristico dittongamento toscano) anziché b o n o o pecle; se diciamo zucchero e non zu cca ro ·, a m ia m o , v e d ia m o e c a p ia m o invece di a m a m o , v e ­ d ern e e c a p im o ; d u e invece di d a i o d o e; d i anziché de-, f a r e i anzi­ ché/aria. Certo: molte sono anche le differenze. Oggi diciamo, per esempio, p ic c io n e , p r e g o e d a rm e lo ', al tempo di Boccaccio si dice­ va p ip p io n e , p r ie g o e d a r lo m i. Alcuni di questi usi, affermatisi tra la fine del Trecento e l ’inizio del Quattrocento (quando il fiorenti­ no si aprì all’influenza linguistica del contado e della Toscana oc­ cidentale e meridionale) hanno superato solo di recente la secolare condanna dei grammatici. Si pensi alla l a persona dell’imperfetto in -o { i o a m a v o al posto dell’etimologica io a m a v a < amabam) o ai pronomi lu i, le i, lo ro usati in funzione di soggetto. A I'P Ito r O N U IM F H T U



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L’impronta del fiorentino trecentesco

IL F IO R E N T IN O A R G E N TE O

Usando una terminologia analoga a quella che si usa per il latino, il linguista Arrigo Castellani ha definito fiorentino argenteo il fiorentino successivo all’età “aurea” (ilTrecento dì Dante, Petrarca e Boccaccio) e argenteismi le forme del fiorentino quattro-cinquecentesco accolte in italiano. Tra queste ricordiamo: l’imperfetto in -o (io amavo, invece di io amava), dieci e domani (anziché d/ece e domane), prego e provo (anziché priego e pruovo), piccione anziché pippione, Molti sono, tuttavia, i tratti argentei che non sono riusciti a imporsi. Tra gli altri: la tendenza a passare dal nesso -schi- al nesso -sti- (stiena per schiena e simili); i femminili plurali del tipo le parte (anziché le parti); le forme di artico­ lo el ed e (invece di il, /); una serie di possessivi invariabili (per esempio mie, tuo, suo). Ma il settore nel quale il fiorentino quattro-cinquecentesco si era più distaccato da quello classico è quello dei verbi: per esempio il presente séte (anziché siete); il passato remoto missi (anziché misi), per analogia con il participio passato messo; il futuro arò e il condizionale arei (rispettivamente al posto di avrò e avrei); la 6“ persona del presente e dell’imperfetto indicativo di i coniugazione in -ono (i tipi lavono e lavavono anziché lavano e lavavano); la 6a persona del passato remoto di i coniugazione in -orono, -orno (lavorono, lavorno, anziché lavarono); i congiuntivi abbi, abbino anziché abbia, abbiano.

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Capitolo 3 - Italiano e dialetti

3.4 L’uso riflesso del dialetto L’uso non spontaneo del dialetto

Intento parodico

Intento polemico

La commedia cinquecentesca

Varie ragioni ideologiche dell’uso del dialetto

Il dialetto al cinema

Per uso riflesso s’intende qualsiasi uso non spontaneo del dialetto e in particolare la sua trasposizione a fini d’arte. Naturalmente gli autori della letteratura dialettale riflessa non sono dei dialettologi: il dialetto non è riprodotto scientificamente, ma viene di solito forzato o deformato per ragioni stilistiche. La definizione di questo tipo di produzione letteraria si deve a Benedetto Croce che, nel suo saggio La letteratura dialettale rifles­ sa (1926), colloca la nascita del fenomeno nel xvii secolo. In realtà, opere scritte consapevolmente in dialetto compaiono già nei primi secoli della nostra letteratura. I più antichi esempi che possono es­ sere ricondotti a un uso riflesso del dialetto sono i cosiddetti “testi in improperium”, caratterizzati dalla parodia della parlata altrui. Nella canzone del Castra fiorentino, per esempio, si prende di mira il marchigiano; in un sonetto attribuito a Cecco Angiolieri (1260 ca. -1313 ca.) si fa il verso al romanesco e ai dialetti toscani nel loro registro più popolare; nel Contrasto di Cielo d’Alcamo (nato nella prima metà del xm secolo) sono contrapposte due va­ rietà (una aulica e l’altra popolare) del siciliano. Sulla rappresenta­ zione della parlata contadina si fonda, invece, la tradizione rusticale inaugurata dalla Nencia da Barberino, in cui si oscilla tra la satira della rozzezza contadina e l’esaltazione della sua naturalità come ribaltamento della cultura dominante. In séguito, all’uso del dialetto si accompagnerà un intento più chiaramente polemico, di rivalsa da parte del mondo contadino emarginato nei confronti della città: ne è esempio il teatro in dia­ letto padovano rustico (pavano) di Angelo Beolco detto Ruzante (1494 ca. -1542). La commedia cinquecentesca si offre come il luogo privilegiato per dar voce alle parlate escluse dalla cittadella letteraria: si tratta di testi che esibiscono un plurilinguismo molto accentuato, in cui ogni dialetto si specializza nella caratterizzazione di certi personaggi (come il bergamasco, riservato ai facchini, poi specificamente alla maschera di Arlecchino). Nel tempo, le ragioni ideologiche dell’uso del dialetto possono divergere notevolmente: nel Settecento e nell’Ottocento, per esempio, il romanesco è stato il veicolo di protesta dei reazionari antigiacobini e antipiemontesi; alla metà del Novecento, è stato - per un non romano come Pier Paolo Pasolini - il mezzo di rappresentazione del sottoproletariato giovanile delle borgate. Nel cinema, l’uso del dialetto viene introdotto dapprima sotto l ’influsso delle sceneggiate napoletane, poi con la grande stagione del neo-realismo: anche se l’unico caso in cui i personaggi parlano davvero in un dialetto stretto è La terra trema di Luchino Visconti

Chi parla il dialetto oggi?

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(1948), ambientato ad Aci Trezza (il paesino del Catanese in cui Verga aveva ambientato I Malavoglia). Dagli anni sessanta, il dia­ letto viene usato soprattutto in funzione comica dalla cosiddetta “commedia alTitaliana”: il più usato è il romanesco, in cui si espri­ mono attori come Aldo Fabrizi e Alberto Sordi, L’affermazione ci­ nematografica di una parlata come il romanesco, assai vicina all’i­ taliano, fa riflettere: nell’àmbito del cinema, infatti, più che di uso dei dialetti si dovrebbe parlare di uso dell’italiano regionale (vedi § 3.9). La napoletanità di Totò o Peppino De Filippo è indubbia; eppure la lingua che essi mettono in scena è un italiano venato di tratti locali, comunque comprensibile al pubblico di tutt’Italia. Più di recente, in film come il pugliese La capagira (regia di Alessan­ dro Piva, 1999) o il bolognese L ’uomo che verrà (regia di Giorgio Diritti, 2010), si è tornati a usare il dialetto, ricorrendo ai sottoti­ toli in italiano.

A F P K O rO N O IM L N IO

#

✓ L A C O M P E T E N Z A L IN G U IS T IC A

È il grado di padronanza che un parlante potenzialmente possiede di una lingua. Si distinguono, in particolare, una competenza attiva (capacità del parlante di produrre atti linguistici appropriati in una data lingua) e una com­ petenza passiva (capacità del parlante di comprendere gli atti linguistici pro­ dotti da un interlocutore in una data lingua). La competenza linguistica di un parlante può essere valutata anche rispetto all’opposizione italiano-dialetto, con una gradazione che va da una competenza minima (dialettofonia o italofonia pura: esclusiva competenza attiva del proprio dialetto o dell’italiano) a una competenza massima (dialettofonia e italofonia: competenza attiva sia del proprio dialetto sia dell'italiano: bilinguismo o diglossia). Queste nozioni possono essere utilmente estese anche all’àmbito della scrittura: si avrà competenza attiva quando si è in grado di scrivere nella propria lingua (o in una lingua straniera); competenza passiva quando si è soltanto in grado di capire quel che si legge.

3.5 Chi parla il dialetto oggi? Al momento dell’unità d’Italia, la gran parte della popolazione parlava e capiva soltanto il dialetto; gli italofoni erano una spa­ ruta minoranza (circa il 9,5% della popolazione secondo Arrigo Castellani), anche se la quota di coloro che dell’italiano avevano una competenza passiva era molto più elevata. Le cose non mi­ gliorarono in modo decisivo dopo l’unificazione. Alla base della

1861:9,5% di italofoni

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Chi parla il dialetto oggi?

Capitolo 3 - Italiano e dialetti

L’analfabetismo

scarsa diffusione dell’italiano c’era l’analfabetismo, e funzionava male la principale arma che avrebbe potuto sconfìggerlo: la scuola. Il tasso di scolarità elementare rimase a lungo molto basso, anche perché i ragazzi erano spesso impiegati come manodopera nell’a­ gricoltura e nell’industria. Ancora nel 1911 era analfabeta il 40% degli italiani (comunque il 35% in meno rispetto al 1861). Dalla metà del Novecento la situazione è cambiata rapidamente, anche grazie all’avvento della televisione che (insieme con la radio) ha svolto un ruolo fondamentale nel diffondere un modello comune di italiano parlato. Oggi sono pochissimi (poco più del 5% secondo un’inchiesta istat del 2012) gli italiani esclusivamente dialettofoni, cioè che usano solo o prevalentemente il dialetto anche parlan­ do con estranei.

✓ B IL IN G U IS M O E DIG LO SSIA

Per bilinguismo s’intende la compresenza, nel repertorio di un parlante o di una comunità, di due codici linguistici diversi ma di pari dignità. Nel bilinguismo possono entrare in gioco una lingua nazionale e un dialetto dotato di elevato prestigio sociolinguistico, una lingua tradizionale illustre e una lingua naturale (come nel caso del bilinguismo latino-volgare testimoniato, per esempio, dal Petrarca), oppure due lingue nazionali (come nel bilinguismo italiano-tedesco dell’Alto Adige). Nel caso della diglossia, invece, ai due codici vengono assegnati ruoli e àmbiti d’uso differenziati a seconda delle situazioni comunicative e delle variabili diafasiche. La diglossia più tipica è quella dialetto-italiano, in cui il dia­ letto può essere usato in famiglia o con gli abitanti del proprio paese, mentre all’italiano si ricorre in contesti ufficiali o con parlanti di altra provenienza.

La competenza dialettale oggi

La competenza dialettale è tuttora largamente diffusa in Italia, al­ meno nei rapporti confidenziali (familiari, amici), seppure in alcune regioni più che in altre: al Nord, in Valle d’Aosta, in Veneto e in Friuli; al Sud, in Sicilia, Calabria e Lucania. In Toscana e a Roma è praticamente nulla, dato che - più che dialetti - si parlano varietà regionali d’italiano; l ’italofonia è molto diffusa inoltre nell’Italia nord-occidentale: Liguria e anche Lombardia e Piemonte. Recen­ temente si è registrata una certa ripresa del dialetto presso parlanti che sanno usare anche l’italiano, dovuta soprattutto alla nuova per­ cezione collettiva che si ha del dialetto: non più marca di inferiorità socioculturale, ma consapevole opzione in grado di soddisfare i più vivaci bisogni espressivi.

Prospetto 1. Persone di 18-74 anni secondo la lingua abitualmente usata in diversi contesti relazionali. Anni 1995, 2000, 2006 e 2012, dati in percentuale sul totale della popolazione di 18-74 anni.

1995

2000

2006

2012

43,2% 23,7% 29,5% 1,4%

43,3% 18,8% 34,0% 3,1%

44,8% 15,0% 34,0% 5,3%

53,1% 9,0% 32,2% 3,2%

46,1% 16,4% 33,5% 1,3%

47,3% 15,6% 33,8% 2,5%

48,2% 12,1% 34,3% 4,3%

56,4% 9,0% 30,1% 2,2%

71,4% 6,3% 19,1% 0,8%

73,6% 5,9% 18,7% 0,9%

73,9% 4,5% 19,0% 1,6%

84,8% 1,8% 10,7% 0,9%

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Tab. 1. Le ultime inchieste i s t a t sull’uso di italiano e dialetto.

In famiglia Solo o prev. italiano Solo o prev. dialetto Entrambi Altra lingua

Con amici Solo o prev. italiano Solo o prev. dialetto Entrambi Altra lingua

Con estranei Solo o prev. italiano Solo o prev. dialetto Entrambi Altra lingua

Anche la lingua della narrativa si concede, negli ultimi anni, apertu­ re sempre maggiori al dialetto, sia pure con diverse funzioni:

II dialetto nella narrativa

■ dialetto per dispetto·, uso del dialetto, spesso mescolato al linguag­ gio giovanile, come trasgressione nei confronti della norma sco­ lastica (per esempio, nei racconti del Disastro degli Antò di Silvia Ballestra); ■ dialetto per difetto·, inserti dialettali usati per connotare per­ sonaggi negativi o comunque per segnalare una condizione di inferiorità o inadeguatezza (come nel romanzo Nel corpo di Napoli di Giuseppe Montesano); ■ dialetto per idioletto', uso di un dialetto letterariamente ricreato come lingua d’autore e perciò in grado di raccontare un mondo a parte (è il caso di Croniche epafaniche e Vacca d ’un cane di Francesco Guccini); ■ dialetto per diletto: uso ludico di tratti dialettali o regionali come molla della comicità (come nei romanzi di Andrea Camilleri, a cominciare da quelli costruiti intorno al personaggio del commissario Montalbano). Diversa è, invece, la funzione che il dialetto assume nella poesia. Nel secondo Novecento, la poesia “neodialettale” trovava nel dialet-

Dialetto e poesia

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Capitolo 3 - Italiano e dialetti

Il dialetto nella canzone

I dialetti d’Italia: il Settentrione

Fig. 4. Le isoglosse che compongono le linee La Spezia Rimini e RomaAncona.

to una lingua incontaminata e capace di produrre un distacco dalla quotidianità. Dalla fine degli anni ottanta, però, i dialetti diventano - proprio perché tuttora vivi nell’uso dei parlanti - inadatti a soddi­ sfare quest’esigenza di alterità rispetto alla lingua comune. Proprio a partire dagli stessi anni si verifica nella canzone italiana un recupero del dialetto che va ben oltre l’intento nostalgico-folclo­ ristico. Vanno in questa direzione le sperimentazioni dialettali e mistilingui di alcuni testi di Fabrizio De André (l’album Creuza de ma del 1984 segna, si può dire, l’inizio dell’esperienza della canzone neo­ dialettale) e di Pino Daniele (che però nella produzione degli ultimi anni ha quasi abbandonato l’uso del dialetto). Dagli anni novanta, il dialetto comincia ad assumere una connotazione ideologica (contro la banalizzazione linguistica favorita dall’azione omologatrice dei mass media) e questo accade soprattutto nei generi musicali meno legati alla nostra tradizione melodica, come il rap e il reggae. Si possono citare, tra gli altri, i veneti Pitura Freska, gli emiliani Modena City Ramblers, i napoletani 99 Posse e Almamegretta, i pugliesi Sud Sound System.

3.6 I dialetti d’Italia: il Settentrione Le isoglosse

L’area gallo-italica: i suoni

Per delimitare un’area linguistica, specie di tipo dialettale, gli studiosi si servono del concetto di isoglossa, nozione basilare nel campo del­ la geografìa linguistica (o geolinguistica). L’isoglossa è l’insieme dei punti di un’area che presentano lo stesso fenomeno linguistico. L’area linguistica racchiude in genere diversi fasci di isoglosse, che non sono mai compatti. Per stabilire l’esistenza di una linea di demarcazione fra due aree linguistiche, bisogna tener conto di tutte le isoglosse relative ai principali fenomeni riguardo ai quali le aree si comportano in modo diverso. Di conseguenza, per quanto utile dal punto di vista esplicativo, la linea non può che essere un’astrazione: la linea La Spezia-Rimini, per esempio, non corre affatto diritta da una città all’altra, separando i dialetti settentrionali da quelli mediani: è piuttosto un groviglio di linee che si accavallano ininterrottamente. E lo stesso vale per la linea Roma-Ancona, che separa dialetti mediani e dialetti meridionali. I dialetti settentrionali, eccezion fatta per quelli veneti, apparten­ gono all’area gallo-italica. Avendo subito in vario modo l’influsso del sostrato celtico, presentano caratteri di fondo comuni, anche se i singoli esiti possono divergere da dialetto a dialetto (o anche all’in­ terno dello stesso dialetto). Per esempio, la tendenza a perdere la vocale finale diversa da a è generale, ma in ligure è limitata solo alle sillabe -no, -ne e -ni {san ‘sano’, can ‘cane’ e chen ‘cani’). Il pas­ saggio da a tonica a è è tutt’altro che uniforme: se lavare si dice in emiliano lavèr e in piemontese lavé, in ligure, in lombardo (e anche nel piemontese di Casale) si trova il tipo lavò. Tipiche sono anche le

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Legenda 1. Limite merid, di o rllga ‘ortica’ » » sai ‘sale’ 2. » . » » cavei ‘capelli’ 3. » » » spala ‘spalla’ 4. » » » sler o star ‘sellaio’ 5. » » » pà ‘pane’ 6. » » » incò, in d i ‘oggi’ 7, » 8. » sett, » fe rra rti ‘fabbro’ » » fra le ‘fratello’ 9. »

10. Limite sett. » 11. » » 12. » » 13. » » 14, » » 15. » » 16. » » 17. » » 18. »

di » » » » » » » »

fem m ina ‘donna’ fig lia m o ‘mio Aglio1 lène le spalle larghe cassa ‘coscia’ lu cim ice ‘la c,’ fagu ‘faggio’ mondane ‘nt > nd’ d ie n ti ‘denti’ acin i ‘aceto’

vocali turbate o e ma, per esempio, al lombardo o f ‘uovo’ e al mi­ lanese diir ‘duro’ (e a esiti simili del trentino, del piemontese e del ligure) il friulano risponde con uf e dur. Del resto, oggi il friulano è comunemente considerato non un dialetto ma una vera e propria lingua a sé: il ramo orientale del ladino, la lingua romanza parlata (in Italia) in alcune valli dolomitiche. La lenizione delle occlusive, comune a tutta l’area (incluso il Ve­ neto), può portare - anche all’interno dello stesso dialetto - sia alla sonorizzazione della sorda (piemontese seda < seta ‘seta’) sia al dileguo (piemontese m a < rota ‘ruota’). Dal nesso latino -ct- (per esempio in factum) si può arrivare in emiliano e veneto a fato, in lombardo a fa c ’ (con la c di cena), in piemontese e in ligure antico agli esiti fait (come in francese) e faitu (ligure moderno fata). È

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Capitolo 3 - Italiano e dialetti

A I'P IIO F O N D IM E N f O

✓ L A M ETAFO N ESI

La metafonesi consiste nel mutamento di timbro della vocale tonica di una pa­ rola per influsso della vocale della sillaba finale. Il fenomeno è largamente diffuso nei dialetti italiani, ma è estraneo al toscano. Pur essendo in origine un fenome­ no puramente fonetico, la metafonesi ha acquisito un valore morfologico, specie nelle parole terminanti con lo “schwa”, cioè con la vocale finale evanescente tipica dei dialetti meridionali (quella di Napulè ‘Napoli’). Nel dialetto napoleta­ no, per esempio, la metafonesi è l’unico modo —in assenza di una desinenza distintiva - per differenziare maschile (niré ‘nero’) e femminile (nere ‘nera’). Esistono vari tipi di metafonesi: settentrionale, sabina e napoletana. La metafonesi settentrionale consiste: -

nella chiusura di é e ó rispettivamente in / e u per lo più per influsso di -/' finale (milanese kwist ‘questi’ di contro a kwést ‘questo’; bolognese fjur ‘fiori’ di contro a fiawr ‘fiore’);

-

nel dittongamento di è in jè (che si è evoluto ulteriorm ente in é o /: piemontese martéj ‘m artelli’ di co ntro a martèl ‘m artello’; milanese bij ‘belli’ di co ntro a bèll ‘bello’) e di ò in wò (che si è evoluto ulteriorm ente in wè e in ò: per esempio ticinese fori ‘fo rti’ di co ntro a fòrt ‘fo rte ’) per influsso di -/ finale (o di -u finale del latino volgare, come nel caso del piemontese e dell’emiliano occidentale fòk ‘fuoco’ dall’accusativo latino focum).

Nei dialetti centromeridionali le vocali é e ó si chiudono rispettivamente in / e in u in presenza di -i e -u finali; per è e ò esistono invece due tipi diversi di me­ tafonesi: napoletana e sabina (o ciociaresca). La metafonesi napoletana consiste nel dittongamento (detto perciò metafone­ tico) di è in ié (napoletano Salierno) e in wó (calabrese settentrionale gruóssu) o wè (leccese cuèrpu ‘corpo’). La metafonesi sabina, presente nel Lazio a sudest del Tevere (Sabina e Ciociaria) e in altre zone dell’Italia centrale, è invece il fenomeno per il quale è e ò si chiu­ dono in é e ó (vècchio, bóno).

Il pronome soggetto

comune a molti dialetti settentrionali il diverso trattamento di clrispetto al toscano, per cui invece di chiama si dice dam a (< clamat ; in friulano troviamo, però, Γ esito conservativo clama). Solo del ligure è poi un particolare sviluppo dei nessi bl- e pl - (gianc ‘bianco’ < germanico *blank e ciati ‘piano’ < planum , mentre gli altri dialetti danno pian e bianc). Caratteristica generale è l’obbligatorietà dell’espressione del pronome soggetto (propria, per esempio, del francese, ma non dell’italiano tosco-letterario); in veneto, in particolare, il pronome viene raddoppiato (ti te parli).

I dialetti d’Italia: il Centro e la Toscana

jJlii

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■ IL M ILA N E S E M ED IEVALE D I B O N V E S IN D A L A R IV A

Vengono proposti qui di séguito alcuni versi del poemetto De quinquagirita curialitatibus ad mensam ‘Le cinquanta regole di galateo che vanno rispettate a tavola’ (1288), come esempio della lingua dialettale illustre perseguita da Bonvesin. Le vocali segnalate in grassetto non vanno pronunciate, come ci conferma il com­ puto sillabico. La cortesia segonda: adornamente la sporze, Assai ghe’n sporze, no tropo, d’inverno, per lo fregio,

se tu sporzi aqua a le man, guarda no sii vilan. quand è lo tempo dra stae; im picena quantitae.

(La seconda cortesia: / se versi acqua per le mani, Il versala elegantemente, / bada di non essere villano. // Versane quanto basta, non troppo, / quando è estate; // d’inverno, per il freddo / [versane] in piccola quantità). Tra le caratteristiche del milanese medievale riprodotte fedelmente da Bon­ vesin spiccano l’apocope e la sincope delle vocali diverse da a (l-man, adornament, vilan, temp, pìc-na); la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (segonda), che può spingersi fino al dileguo (stae ‘estate’ < aestatem, accusativo di aestas; quantitae)·, lo scempiamento delle consonanti intervocaliche doppie (tropo, vilan; in aqua si mantiene la scempia del latino aqua ) e l’esito palatale del nesso velare+dentale (fregio ‘freddo’ < * frigdus < frigidus). Testo cit. in F. Serafini, L’Italia settentrionale, in L. Serianni (a c. di), La lingua nella storia d’Italia, Società Dante Alighieri - Libri S.cheiwlller, Milano 2QQ2, pp. 360-375, p, 364.

3.7 I dialetti d’Italia: il Centro e la Toscana L’area mediana, delimitata a nord dalla linea La Spezia-Rimini e a sud dalla linea Roma-Ancona, comprende i territori laziali a sudest del Te­ vere, i territori umbri a est del Tevere, l’Aquilano e le Marche centrali. Vanno considerati a parte i dialetti toscani e il romanesco, toscanizzato già a partire dal Quattro-Cinquecento. I dialetti dell’area mediana con­ dividono alcuni tratti con i dialetti meridionali: per esempio, le assimila­ zioni -ND- > -nn- e -mb- > -mrn-, riconducibili al sostrato italico. I dialetti mediani sono caratterizzati soprattutto da tre fenomeni rilevanti:

L’area mediana

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I dialetti d’Italia: il Centro e la Toscana

Capitolo 3 - Italiano e dialetti

1. la metafonesi (quisto e signuri) e in parte la metafonesi sabina (vècchio e bòni)’, 2. la conservazione della distinzione latina tra -O e -U finali, per cui, accanto a forme come òmo ‘uomo’ da hom o , si hanno for­ me come munnu ‘mondo’ da m u n du m ; 3. il neoneutro in -o, che è alla base di opposizioni del tipo lo fèrro (neutro che indica il metallo in astratto) e lu férru (ma­ schile che indica un oggetto specifico). I dialetti toscani: 4 aree

I dialetti toscani sono distribuiti su quattro aree: l ’area fiorentina; l’area toscano-occidentale (Pisa, Lucca, Pistoia); l’area senese; l’a­ rea aretino-chianaiola (Arezzo, Cortona). Si possono tuttavia indivi­ duare alcuni fenomeni comuni tipici: ■ l ’assenza della metafonesi; ■ il dittongamento di É e Ò toniche in sillaba libera (lieve e buo­ no·. vedi § 1.3); ■ la riduzione di -rj - a -j- (fornaio; mentre a Roma, per esempio, si ha fornaro: vedi § 1.3); ■ il passaggio a costrittive delle affricate palatali sorde e sonore: la tipica pronuncia toscana di parole come ceci o pigione·, ■ la cosiddetta “gorgia”.

« m t O F O N D IM C N r O

✓ L A G O R G IA T O S C A N A

È II fenomeno consistente nell’alterazione delle occlusive sorde intervocaliche, che può portare alla spirantizzazione (amico pronunciato col suono che si sente nello spagnolo bajo), aN’aspirazione (amico pronunciato col suono che si sente nell’inglese behave) o alla scomparsa (amìo). Si tratta di un fenomeno che può coinvolgere anche le altre occlusive: t (dato pronunciato datho, daho) e p (papa pronunciato papha, paha). Alcuni studiosi ritengono che in questo fenomeno schiettamente toscano vada riconosciuto l’influsso del sostrato etrusco, data la presenza in quel dialetto ita­ lico di tre suoni che corrispondono perfettamente ai suoni aspirati della lingua greca antica rappresentati dalle lettere χ (khi), cp (phi) e 8 (theta). Dal momento che non esistono prove documentali sicure di questa presunta continuità tra etrusco e toscano (la prima attestazione esplicita della spirantizzazione fioren­ tina è del 1525), la maggioranza dei linguisti preferisce considerare la gorgia toscana come una delle possibili manifestazioni di un fenomeno più generale: quello dell’indebolimento delle consonanti sorde intervocaliche.

Notevoli sono, e soprattutto erano in passato, le differenze tra i vari dialetti. A titolo di esempio, si può citare il passaggio da a r atono a er, che è solo del fiorentino (ve cch ie rello ), mentre nella Toscana occiden­ tale è limitato al futuro e al condizionale (am erò, a m e re i ); nel senese e nell’aretino non solo a r viene conservato, ma e r postonico può passare addirittura a a r (senese p o v a r o , ma fe c e r o , fa cessero ·, aretino fe c ia ro , fa c e s s a r o ).

TESTO

IL F IO R E N T IN O PO PO LARE NELLE C O M M ED IE D I G IO V A N B A T T IS T A Ζ Λ Ν Ν Ο Ν Ι

Leggiamo un brano tra tto dall’a tto i della commedia La ragazza vana e civetta

( 18 19): Liberata: Sie, sie, spicciachevi, perché anch’io i’ ho fretta, £’ mi par mill’anni di

tornarmene a casa; che quella figliola aquimmò co ‘iccap a grilli, la unne sta ben sola. Lisabetta: Sicuro vo’ dich’ ivvero. L’aè figlioli, e massime le femmine, gli è un gran

peso. Quelle che pigliano marito oggigiorno, le un lo considerano, Unn’è più com’a tempi nostri, ero Liberata? Ch’e’ si facea le cose come l’andaan fatte. Ora le anno a marito proprio come le capre. Le un sanno e so doeri per sene, come voleche o’ che gli insegnino a figlioli? Sentiche, l’esempio gli è una gran cosa; gli è iccap’essemiale. E’ duran fatica figlioli a portassi bene co’ genitori a modo; considerache oi che festino gli ha da essere, candelora un sanno dagli ducazione! Zannoni accoglie elem enti presenti nel fio re n tin o parlato dalle persone cólte, ma s o p ra ttu tto tr a tti popolari della parlata fio re n tin a sanzionati anche dai gramm atici toscani. Tra i fenom eni schiettam ente fio re n tin i riconosciam o la gorgia toscana (in p articola re l'in de bo lim en to della t intervocalica in fo rm e com e spicciachevi ‘spicciatevi’ e sentiche ‘se n tite ’); la caduta della v in te rv o c a li­ ca aN’in te rn o di parola e di frase (andaan ‘andavano’, doeri ‘d o v e ri’, le anno ‘le vanno’, considerate oi ‘considerate v o i’); la riduzione del d itto n g o discendente in fo rm e com e vo’ ‘v o i’; l’epitesi vocalica e sillabica, rispettivam ente di -e e -ne, nei m onosillabi e nelle parole ossitone (sie ‘sì’, per sene ‘per sé’); l’assimila­ zione di m o lti nessi consonantici, anche a ll'in te rn o della frase (ivvero ‘il v e ro ’,

portassi ‘p o rta rs i’). Testo cit. in L. Pizzoli, L’Italia mediana e la Toscana, in L, Serianni (a c, di), La lingua nella storia d’Italia, Società Dante Alighieri - Libri Scheiwiller, Milano 2002, pp. 376-393, pp. 390-391.

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Capitolo 3 - Italiano e dialetti

I dialetti d’Italia: il Mezzogiorno

3.8 I dialetti d’Italia: il Mezzogiorno

Duetti

I dialetti meridionali si dividono in alto-meridionali e meridionali estremi. L’area alto-meridionale comprende le Marche meridionali, gran parte del Lazio meridionale, l’Abruzzo, con esclusione dell’A­ quilano, il Molise, la Campania, la Puglia tino alla linea Taranto-Brindisi, che esclude il Salento, la Lucania, parte della Calabria (province di Cosenza e, parzialmente, Catanzaro). Tra i fenomeni che caratterizzano i dialetti alto-meridionali, possiamo citare:

alto-meridionali

■ la metafonesi e il dittongamento metafonetico (napoletano Surrìento e leccese muèrtu); l i l’indebolimento delle vocali finali, che possono confluire in un’unica vocale evanescente detta “schwa” (abruzzese crapè ‘capra’; napoletano cane ‘cane’ e ‘cani’; lucano lupe ‘lupo’), oppure cadere del tutto (come nel napoletano a att ‘la gatta’ o nell’ischitano cuórp ‘corpo’); ■ la spirantizzazione di B anche in posizione iniziale (napoletano vocca ‘bocca’), che nei dialetti campani convive con la forma rafforzata rappresentata da bb- (varva ‘mento’ e bbarba ‘bar­ ba’); ■ le assimilazioni progressive -nd - > -nn- (napoletano quanne < quando ), -mb- e -NV- > -mm- (napoletano tammurro ‘tambu­ ro’); ■ l’evoluzione dj, j , ge , gj > j (napoletano òje < hodie ‘oggi’; calabresepraja < latino medievale plagia ‘spiaggia’); ■ il pronome soggetto di 3a persona derivato dal latino ipsum , accusativo di ipse (isse/ issu/ isso; è l ’italiano esso).

Fig. 5. Il vocalismo siciliano.

I

Ϊ

È /

i

É

A

|

\ /

è

a

À

Ó

0

ϋ

U

\

1

/

ò

u

Ϊ

É

i

É

À

À

Ó

O

a Il vocalismo siciliano atono

t

J

t

u

Dialetti meridionali estremi

■ per il sistema vocalico di tipo siciliano (a cinque vocali), in cui spiccano l’esito i da ϊ, Ϊ, È (salentino catina ‘catena’; calabre­ se fìmmina ‘donna’; siciliano nivi ‘neve’) e l’esito u da 0 , tJ, Ò (salentino sule ‘sole’; calabrese musca ‘mosca’; siciliano cuda ‘coda’); ■ per la conservazione delle vocali finali; ■ per la pronuncia cacuminale di -dd- (la tipica pronuncia di parole come bèddu ‘bello’, nella quale si osserva anche il passaggio di -II- a -dd-)', ■ per la pronuncia fricativa alveolare di -r-, -str- e -ir- (la tipica pronuncia di parole come Trapani, simile a quella dell’inglese try).

IL Ν Λ Ρ Ο ΙΕ Τ .Λ Ν Ο NELLE NOVELLE D I G IO V A N B A T T IS T A BASILE

Lo Cuntò de lì cunti ovvero lo trattenemiento de le peccerille (‘La fiaba delie fiabe ovvero l’intrattenimento dei fanciulli’) è una raccolta di racconti che appartiene alla produzione dialettale di Basile (1575-1632), concentrata nel primo decen­ nio del Seicento. Ecco un brano ricavato dalla Gatta cennerentola: Saperrite dorica che era ’na vota ’no prencepe vidolo, lo quale aveva ’ria figliola accossì cara che no vedeva ped autro uocchio; a la quale teneva ’na maiestra princepale, che la ’nmezzava le catenelle, lo punto ’n aiero, li sfìlatielle e l’afreco perciato, mostrannole tant’affezione che non s’abbasta a dicere. (C’era dunque una volta un principe vedovo, il quale aveva una figlia a lui tanto cara che non vedeva per altri occhi. Le aveva dato una maestra da cucire di prima riga, che le insegnava le catenelle, il punto in aria, le frange e le orlature, dimostrandole tanta affezione che non si potrebbe dire).

li vocalismo siciliano tonico

ϊ

Ai dialetti meridionali estremi appartengono le parlate del Salento, della Calabria meridionale e della Sicilia. Questi dialetti si distinguono

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)

Si noti la presenza di fenomeni schiettamente meridionali come la metafonesi (vidolo ‘vedovo’), il dittongamento metafonetico (uocchio ‘occhio’, sfìlatielle lette­ ralmente ‘sfilatelli’), l’assimilazione progressiva nd > nn (mostrannole ‘mostran­ dole’) e la vocale finale indistinta resa con -e in sfìlatielle. Testo c lt in G. Meacci, L’Italia meridionale e la Sardegna, in L. Serianni (a c, di), La lingua nella storia d’Italia, Società Dante Alighieri - Libri Scheiyviller, Milano 2002, pp, 393-416, pp. 405*406.

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Dal dialetto all’italiano regionale

Capitolo 3 - Italiano e dialetti

3.9 Dal dialetto all’italiano regionale Il continuum tra Italiano e dialetto

Dialetto locale, dialetto regionale, italiano regionale, italiano comune

Tra italiano e dialetto non ci sono confini netti, bensì un condizio­ namento reciproco: la loro coesistenza rappresenta un continuum all’interno del repertorio linguistico della nostra comunità. Si può pensare a una scala con quattro gradini smussati dal basso verso Talto: il dialetto locale, il dialetto regionale (o di coinè), l’i­ taliano regionale e l’italiano comune. Non è facile, in realtà, distin­ guere fra i primi tre. Ecco tre realizzazioni venete della frase «non so quando potremo andare a casa del nostro padrino»: 1. no sai bande ke podarón dzi ta cìòza del nóst santol (dialetto locale del Bellunese); 2. non so ìcwando ke podaremo andàr a kaza del nostro sàntolio) (coinè veneta); 3. non so lavando (ke) potremo andare a kaza del nòstro santolo (italiano regionale veneto).

Gli italiani regionali

Le principali varietà di italiano regionale sono: ■ l’italiano settentrionale (distinto nelle sottovarietà galloitalica, veneta e friulana); ■ l’italiano centrale (sottovarietà più importanti: toscana e romana); ■ l’italiano meridionale (sottovarietà rilevanti: campana e pugliese) e meridionale estremo (sottovarietà rilevanti: siciliana e calabrese); ■ l’italiano di Sardegna.

L’italiano regionale veneto

Spesso l’italiano regionale è il punto di arrivo di un processo at­ traverso il quale una parlata locale egemone si è via via avvicinata all’italiano, perdendo i contrassegni più particolari; nel caso dell’i­ taliano regionale romano, la parlata di Roma si è diffusa anche oltre i confini regionali, grazie al suo radicamento nella pubblica ammi­ nistrazione e nelle trasmissioni radiotelevisive. Le varietà regionali dell’italiano presentano tratti caratteristici che derivano soprattutto dal contatto con i dialetti locali, come ri­ sulta evidente prendendo in considerazione, per esempio, gli italiani regionali del Veneto, del Friuli, della Campania e della Sicilia. L’italiano regionale veneto si caratterizza, come tutti gli italiani regionali settentrionali, per la mancata pronuncia delle consonanti doppie, che spesso si riverbera nella grafia di testi dialettali o scritti in italiano da semianalfabeti (in questi ultimi è viva anche la tenden­ za alTipercorrettismo, cioè a raddoppiare a sproposito). Ci sono poi alcuni fenomeni tipici, Nella fonetica, spicca l’indebolimento della laterale palatale (famiglia pronunciato familia). Tra i pronomi, si

A I 'P llO F O N O I M im O

✓ L’ IP F R C O R R LT T IS M O

L’ipercorrettismo consiste in una correzione a sproposito spontaneamente messa in atto da parlanti con una insufficiente competenza linguistica. Alla base dell’ipercorrettismo c’è una censura linguistica nei riguardi di un costrutto o di una forma grammaticale considerati squalificanti o provinciali. Un parlante italiano centromeridionale, per esempio, è abituato a pronunciare tutte le b tra vocali - o tra vocale e r - come doppie (abbitare, abbuso, libbro ec.c.). È facile che, avvertendo questa come una pronuncia troppo compromessa col proprio dialetto, si persuada che in buon italiano bisogna scrivere non -bb-, ma -b-; giungendo così - qui sta l’ipercorrettism oa scrivere a sproposito abandonare, abondare, febraio e così via. A proposito di romanesco, un condensato di ipercorrettismi si trova nel sonet­ to Er parlò dovile de più (1831), in cui Gioacchino Belli prende in giro i romani che nell’Ottocento cercavano di ripulire il loro modo di parlare. Ecco la prima quartina: Quando el Signiore volse in nel desello albelgare l’Abbrei senza locanda, per darglìe un cibbo a godere più scelto mandò come una gomba: era la Manda.

Le forme deselto e albelgare sono il risultato del tentativo maldestro di occultare il fenomeno, tipico del romanesco, che consiste nel passaggio da / preconso­ nantica a r (come in scerto ‘scelto’ o scergo ‘scelgo’); i tipi gomba ‘gomma’ e Manda ‘Manna’, invece, rappresentano una reazione ipercorretta al fenomeno dell’assimilazione progressiva presente in voci dialettali come tomma ‘tomba’ e manna ‘manda’ (si noti nel quarto verso la forma corretta mandò in luogo di quella dialettale manna).

hanno alcuni casi di scambio: li per gli ‘a lui’ («lo lasciò dicendoli che sarebbe tornato»), gli per li («il sindaco gli invitò a sciogliersi»), si per ci riflessivo di 4a persona («vedrai come si divertiremo»), ce/ci al posto di le, gli, loro («se vedo tua madre, ce lo dico»). Per i verbi, segnaliamo la 4a persona dell’imperfetto in -àvimo, -èvimo o -àvino, -èvino (aspettàvimo, perdèvimo·, aspettàvino, perdèvìno: queste ul­ time due forme si trovano anche per la 6a persona). Nella sintassi, si può menzionare l’uso della preposizione a dopo i verba sentiendi («sentivo la campana a suonare»), l’omissione di a c di davanti a infinito retto da altro verbo («andò servire un altro avventore») e, in­ fine, l ’uso della locuzione essere dietro a nel senso di ‘star facendo’ («eravamo dietro a pranzare, quando Guido è entrato»).

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76

Parole dialettali passate in italiano

Capitolo 3 - Italiano e dialetti

L’italiano regionale friulano

L’italiano regionale campano

L’italiano regionale friulano presenta molti fatti di pronuncia e di morfosintassi da riferire al tipo genericamente settentrionale. Speci­ fica dell'italiano dei friulani è, invece, la cancellazione dei pronomi atoni (o clitici), come ci e ne: «qui non è nessuno», «non è proble­ ma», «io compro cinque» ecc. Tipici sono anche alcuni usi preposi­ zionali, spesso riscontrabili solo nel registro più informale: «vado di mio padre»; «via per l’estate» ‘durante l’estate’ (corrispondente al friulano vie pa Vistai)·, fa r di ‘fìngere’. A livello lessicale, sono no­ tevoli i calchi sul dialetto; ne segnaliamo alcuni: venire vicino ‘rin­ casare’ (dal friulano vigni dongje), in battuta di sole ‘in pieno sole’ (in batude dì soreli), oggi mattina ‘questa mattina’ (vuè a buìnore). Vi sono poi parole italiane usate con un significato che ricalca quello del corrispondente dialettale, come in affetto ‘buona volontà’ (afiet), caloroso ‘collerico’ (caloros), taglietto ‘bicchiere di vino’ (fa/). L’italiano regionale campano si caratterizza per la confusione, dovuta in parte alla lenizione, tra i suoni p e b, t e d (specie dopo nasale), k e g , a cui corrispondono spesso pronunce o grafìe ipercorrette come rinchìuto per ‘rinchiudo’ o monto per ‘mondo’. Un feno­ meno assai rilevante, per quanto diffuso anche altrove, è costituito dai metaplasmi di genere, favoriti in qualche caso dal tentativo di sostituire la vocale finale indistinta (lo “schwa”) con una vocale di timbro definito: lo scatole, gli analisi ecc.

A t'P H O F O N D IM F N T O

✓ IL M E T A P LA S M O

Il metaplasmo consiste nel passaggio di una parola a una classe morfologica diver­ sa da quella originaria. Un fenomeno piuttosto frequente anche nel passaggio dal latino all’italiano. Si può avere metaplasmo di genere (dal latino fraxinus, femmini­ le come quasi tutti i nomi di albero, all’italiano frassino, maschile), di declinazione (dal latino luxuries di quarta declinazione a luxuria di prima, da cui è stato tratto l’italiano lussuria) o di coniugazione (dal latino ridère, di n coniugazione, all’italiano ridere, di m).

Frequente nell’italiano di Campania anche l’uso - comune ad altre aree del Mezzogiorno - dell’infinito passivo nelle completive («vo­ glio essere fatto un servizio») e, più tipicamente, di stare e tenere per ‘essere’ e ‘avere’. Se questi ultimi aspetti sono legati ai livelli più informali della lingua, ce ne sono altri presenti anche in quelli più sorvegliati, come le locuzioni con le preposizioni sopra e sotto, dentro e fuori: «passai per disotto ad una chiesa», «buttano molte buste da sopra i balconi» e simili.

L’italiano regionale siciliano è condizionato, sul piano della pro­ nuncia, dal tipico sistema a cinque vocali (vedi § 3.8). Nella sintassi, sono comuni a diverse zone del Sud i costrutti con l’infinito passivo in dipendenza da verbi volitivi o desiderativi: «Fabio vuol essere comprato il trenino» (anche in frasi ellittiche del tipo «vuole com­ prato»), Notevoli anche costrutti come senza + participio (libro sen­ za letto ‘libro non ancora letto’) e di + infinito con valore limitativo (di venire, viene ‘quanto a venire, verrà’). Possibili anche costrutti perifrastici ricalcati sul siciliano come, per esempio, essere privo di ‘essere impossibilitato a, non potere’ («Sono privo di uscire perché ho gli operai in casa»). Ancora più frequenti, sul piano puramente lessicale, i casi di significati presi in prestito dal dialetto: avvicinare ‘andare a visitare’, acchiapparsi ‘litigare’, tovaglia ‘asciugamano’, mollica ‘pangrattato’.

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L’italiano regionale siciliano

3.10 Parole dialettali passate in italiano Il patrimonio lessicale dell’italiano, come quello di qualsiasi lingua naturale, è in costante espansione. La gran parte dei nuovi vocabo­ li nasce attraverso meccanismi di formazione e composizione delle parole (vedi §§ 8.5 e 8.7); molte sono, specie negli ultimi decenni, le parole importate dalle lingue straniere. Ma da sempre un appor­ to notevole è venuto dai vari dialetti, che spesso hanno funzionato come il serbatoio lessicale a cui attingere per quelle nozioni della vita pratica che il vocabolario della tradizione letteraria non posse­ deva, oppure per ottenere una più colorita espressività. Un calco­ lo fatto recentemente da Pietro Trifone sulla base delle indicazioni del Grande dizionario italiano dell’uso (vedi § 10.7) ha mostrato che degli oltre diecimila lemmi di origine dialettale, più della metà è entrata in italiano dopo l’Unità. In particolare, esiste in italiano un folto gruppo di espressioni e di vivaci locuzioni idiomatiche o proverbiali la cui origine dialettale non è più riconoscibile. Oggi, per esempio, sono italianissime locuzioni originariamente lombarde com e fa r ridere i polli, essere una mezza calzetta, fare un quarantot­ to e lo stesso vale per l’interiezione cribbio!. Dal Veneto proviene, invece, essere nato con la camicia·, dalla Toscana, tra l’altro, andare in visibilio e mandare a quel paese·, da Roma lasciar perdere e spu­ tare l ’osso·, dal Mezzogiorno cose da pazzi e nel contempo. Il settore in cui l’italiano ha accolto il maggior numero di pa­ role provenienti dai dialetti è senza dubbio la gastronomia. In que­ sto campo spicca l’Emilia-Romagna, da cui vengono i tortellini, le tagliatelle, il cotechino, lo zampone ecc. Ma quasi ogni regione

Espressioni, locuzioni idiomatiche e proverbiali

La gastronomia

78

Parole dialettali passate in italiano

Capitolo 3 - Italiano e dialetti

Fig. 6. Le parole dialettali entrate in italiano.

TFSTO

Parole dialettali o regionali confluite nell’italiano

4000



3000 2386

2500

2000 1500 ---------

Giocando al pallone s’imparavano anche gli elementi dell’inglese, Au [aut], Ossei [out side], Cros [cross], Còme [corner],Tràine [trainer], Gol [goal]: s’impa­ rava inoltre a rispettare le regole e gli uomini in cui esse s’incarnano, Massimino per esempio, [...] N\a la squadra di Guido aveva, ancora in erba, due o tre dei più begli ingegni col­ cistici che il paese abbia mai prodotto: l’estroso Ennio, geniale nei gol di punta, e Nello-Fiore, maestro del dribbli [dribbling] e della manovra: perciò fin dalle prime ore i gol contro quelli di Massimino grandinavano,

1000 500 — ■—

-—

0 Dalle origini al 1860

Dal 1861 al 2000

Parole dialettali o regionali entrate in italiano nella seconda metà del Novecento

Totale 1951-2000 212

Anni ottanta

' 260

Anni settanta

, 191

Anni sessanta

310

Anni cinquanta

691 0

Burocrazia, esercito, natura, arti e mestieri

Testo da L. Meneghello, Libera nos a Malo, Mondadori, Milano 1996, pp. 81-82,

1664

Anni novanta

500

1000

1500

I FORESTIERISM I IN D IA L E T T O : U N ESEMPIO LE T T E R A R IO

In qualche caso il dialetto ha accolto nel proprio patrimonio lessicale anche un cer­ to numero di forestierismi. Nel suo romanzo autobiografico Libera nos a malo, Luigi Meneghello (1922-2007) inserisce alcune parole straniere adattate alla pronuncia locale nel quadro di una ricostruzione quasi filologica del dialetto d’origine (Malo, nel Vicentino), indagine di una realtà socio-antropologica - e insieme autobiografi­ ca - ormai scomparsa.

)48

3500

79

2000

ha dato un apporto: dal Nord in genere proviene la pastasciutta (il nome, non la cosa); dal Piemonte il barolo e \&fontina·, dalla Lom­ bardia la grappa', da Roma le fettuccine e il pane casareccio; da Napoli la mozzarella e le vongole·, dall’Abruzzo la caciotta·, dalla Sicilia la cassata. In àmbito burocratico-amministrativo, segnalia­ mo: questore e questura (Piemonte); scartoffia e secondino (Lom­ bardia); anagrafe, catasto e scontrino (Venezia); buonuscita (Stato pontifìcio); demanio (Italia meridionale). Al Piemonte si deve tutta una serie di vocaboli di matrice militare: pelandrone, cicchetto e battere la fiacca; dal Veneto è venuto naia ‘servizio militare’. Molte voci d’origine dialettale riguardano la natura: tra le altre, brughiera (Lombardia), slavina (Veneto), lava (Mezzogiorno). Per le arti e i

mestieri abbiamo, per esempio, il mezzadro (Emilia-Romagna) o lo spregiativo cinematografaro (Roma). Diverse parole si riferiscono al mondo dell’illegalità: bagarino e bustarella (Roma), malavita e camorra (Mezzogiorno), mafia, pizzo, omertà (Sicilia). Molto più forte è, però, il debito che i singoli dialetti hanno con­ tratto con l’italiano, specie per quanto riguarda il lessico astratto e intellettuale. Così, per esempio, nel dialetto di Sant’Alfìo (Cata­ nia) Γ italianizzazione ha agito negli àmbiti più esposti a rapporti con l’esterno, come la burocrazia (a pinziòni ‘la pensione’ invece dell’espressione dialettale tradizionale u sord’i rritìru), i rapporti di parentela (vidua ‘vedova’ invece di cattiva), il lessico astratto in genere (spurtunatu ‘sfortunato’ invece di malasurtatu, cunfruntari ‘confrontare’ invece di aggualari).

Parole italiane passate in dialetto

V E R IF IC A

1. 2. 3. 4. 5.

Quali sono le principali aree dialettali italiane? Illustrane le caratteristiche. Che cosa si verifica nelle aree linguistiche isolate o laterali? Che cosa si intende per “uso riflesso” del dialetto? Che differenza c’è tra “competenza attiva” e “passiva”? Che differenza c’è tra bilinguismo e diglossia?

80

Capitolo 3 - Italiano e dialetti

Storia di parole D ialetto Voce dotta, ripresa dal greco diàlektos (in origine ‘conversazio­ ne, colloquio’) attraverso il tramite latino dialectus (o , nella forma greciz­ zante, dialectos). L’accezione di ‘parlata locale’ con cui il termine passò in latino era legata alla situazione linguistica greca, frammentata in parecchie parlate, ciascuna delle quali specializzata in un genere letterario (il dialetto ionico era la lingua della poesia epica e didascalica, l’eolico della lirica mo­ nodica, il dorico della lirica corale ecc.). In questa accezione, e sempre in riferimento ai dialetti greci e alla coinè in cui essi erano confluiti a partire dal iv secolo a.C., la voce cominciò a essere usata nel Cinquecento in Europa e in Italia, paese la cui situazione politica e linguistica frammenta­ ria suggeriva un confronto con la Grecia. Non c’era ancora, tuttavia, una consapevolezza della separazione tra italiano e dialetti, Solo nella prima metà del Settecento - dopo un secolo in cui la letteratura dialettale rifles­ sa aveva contribuito notevolmente ad affinare la sensibilità collettiva - il vocabolo dialetto comincia a essere usato nell’accezione moderna. Gorgia La parola gorgia ‘gola’ risale al francese gorge che continua il lati­ no gurga. Di qui gorgiera, con cui si indicano diversi indumenti accomunati dalla funzione di fasciare il collo: l'imbottitura della maschera degli scher­ midori, la striscia di tela che avvolgeva il collo e il mento delle dame me­ dievali, il collaretto increspato a cannelli tipico dell’abbigliamento maschile e femminile dei secoli xvi e xvii (immortalato nell’iconografia dell’epoca: si pensi al ritratto di Shakespeare e alle raffigurazioni della regina Elisabetta i d’Inghilterra). Bisogna attendere proprio il Seicento per trovare la pri­ ma attestazione della parola gorgia in riferimento alla pronuncia aspirata, tipicamente toscana, delle occlusive sorde intervocaliche (1628, nella va­ riante gorga). Pizzo La parola pizzo ‘tangente’ può essere considerata un neologismo, dato che nei giornali dei primi anni novanta del secolo scorso veniva ripor­ tato ancora tra virgolette. Sull’origine del vocabolo esistono due ipotesi. La prima lo ricollega all’ambiente carcerario della seconda metà dell’Ot­ tocento, come versamento richiesto dalla mafia a chi volesse assicurarsi lu pizza ‘il posto letto’, da capìzzu ‘capezzale, capo del letto’. La seconda ipotesi fa risalire pizzo alla voce pizzu ‘becco degli uccelli’, richiamando in particolare l’espressione fari vagnari u pizzu ‘far bagnare il becco’. Secondino L’origine del sostantivo secondino ‘guardia carceraria’ è l’ag­ gettivo latino secundus ‘che viene dopo, che segue’. Il cambiamento di

Storia di parole

significato passa per il dialetto lombardo, in cui il vocabolo aveva il signifi­ cato di ‘aiutante del capo carceriere’: segondin è registrato nel dizionario milanese del Cherubini già nel 1814. Si tratta quindi di una delle tante parole dialettali che si sono affermate nell’italiano comune.

Zucchero La voce zucchero proviene dall’arabo sukkar, a sua volta pro­ veniente da un vocabolo indiano che è anche alla base del greco sàkkharon (latino saccharon), da cui l’italiano ha tratto saccarosio e saccarina. Lo zucchero a cui fa riferimento la voce originaria è quello di canna, dato che quello ricavato dalla barbabietola è stato importato solo in epoca moder­ na. L’espressione zucchero d’orzo ‘zucchero cotto e poi diviso in quadrati­ ni’ fa riferimento non alla provenienza dell’alimento ma al procedimento di cottura nell’acqua d’orzo. La tonalità di azzurro cupo detta carta da zucchero deve invece il suo nome alla carta usata in passato per incartare l’alimento. Espressioni come questa albicocca è uno zucchero testimonia­ no inoltre l’uso del termine come sinonimo di dolce che si ritrova anche nell’accezione figurata di ‘persona mite e affabile’ registrata per la prima volta nel dizionario Tommaseo-Bellini (1879).

Scritto e parlato

4 .1 Lingua scritta e lingua parlata Sarebbe erroneo credere che scritto e parlato siano l’uno lo specchio fedele dell’altro: obbediscono infatti a leggi, esigenze, modalità espressive e semiotiche (cioè relative alla natura, alla produzione, alla trasmissione e all’inter­ pretazione dei segni) diverse. Nello scritto - esposto più o meno durevolmente all’analisi e al giudizio di chi legge (e per questo soggetto a una maggiore elaborazione) - il destinatario può essere anche molto lontano nel tempo e nello spazio, e di solito conosce soltanto la redazione finale: il processo di com­ posizione - stesura, cancellature, ripensamenti - rimane di norma invisibile al lettore. Lo scritto è consultabile partendo da qualunque punto del testo. Il parlato invece è strettamente legato al qui e ora (all’hic et nunc) della situazione comunicativa; elaborato e recepito in tempo reale, si sviluppa nell’interazione con gli altri e ciò rende possibile il cosiddetto feedback: ov­ vero da parte dell’emittente, il controllo immediato sulla ricezione e sulla comprensione di quanto viene detto; da parte del destinatario, la possibilità di manifestare com­ prensione, accordo o disaccordo nei riguardi di chi sta parlando. Il parlato, poi, ha uno svolgimento lineare: non è possibile (se non attraverso la registrazione) riascoltare dei brani, tornare indietro o andare oltre come invece può avvenire per il testo scritto. Chi parla, in genere, mira soprattutto a far capire le proprie intenzioni comunicative e non è così attento (almeno nella conversazione quoti­ diana) alla precisione sintattica e alla “coesione testuale”. Nell’architettura di un testo, la coesione è la quali­ tà che fa riferimento alle sue connessioni sintattiche e

84

Lingua scritta e lingua parlata

Capitolo 4 - Scritto e parlato

morfologiche, comunque formali; la coerenza è invece la qualità che riguarda i legami logici e semantici, comunque sostanziali (o contenutistici). Un discorso come «Giacché la farfalla ha comprato un mare, la tua macchina è salita sulla lampadina (infatti i quadri sono aperti da tutti e tre i lati)», per esempio, è perfettamente coeso nelle sue articolazioni sintattiche e morfologiche (giacché, infatti, uso della punteggiatura, rispetto della concordanza e così via), ma niente affatto coerente (si tratterà verosimilmente del discorso di un pazzo, o di un brano di letteratura surrealista), dato che i legami logici che quelle connessioni promettono si rivelano inesistenti. Vi­ ceversa, una frase come: «Di bambini ce n’è molti che la mamma non riesce a fargli mangiare le verdure» si presenta coerente, anche se non perfettamente coesa sul piano grammaticale e sintattico: non c’è concordanza di numero tra copula e predicato nominale (ce n ’è molti invece di ce ne sono molti), c’è un uso improprio del relativo che (in luogo di ai quali), l’ordine delle parole non è quello cano­ nico e c’è ridondanza dei pronomi (nelgli). Lo stesso concetto, in una frase perfettamente coesa, sarebbe espresso così: «Ci sono molti bambini ai quali la mamma non riesce a far mangiare le verdure».

A P P R O F O N D IM I N T O

m

✓ TESTO t DISCORSO

La parola testo fin nell’etimo (dal latino textus ‘tessuto’, già in Quintiliano con riferimento alle parole di un testo) suggerisce l’idea di compattezza e nello stes­ so tempo di autosufficienza. Proprio per questo alcuni studiosi ritengono che testo, vocabolo nato in un mondo dominato dallo scritto per designare produ­ zioni scritte, non si presti altrettanto bene a indicare le produzioni linguistiche orali. Per queste ultime sembra preferibile il termine discorso, che meglio rende la flessibilità delle articolazioni sintattiche e logiche e, soprattutto, l’importanza dell’interazione con gli interlocutori. Il testo (scritto), insomma, vive soprat­ tutto nella dimensione chiusa del monologo; il discorso (orale) soprattutto in quella aperta del dialogo.

Le tipologie di parlato

tra parlato spontaneo (o in situazione: quello di una conversazione tra amici, per esempio) e parlato non spontaneo ma programmato in precedenza, come il parlato-letto o il parlato-recitato (si può dire che il dialogo teatrale rappresenti un paradosso della comunicazione proprio perché, a differenza del dialogo reale, non è imprevedibile: gli attori si attengono a un copione e si scambiano messaggi fittizi, rivolti solo apparentemente a chi è sul palco, ma indirizzati, in ulti­ ma istanza, al pubblico). U n’altra distinzione, parzialmente sovrapponibile alla prece­ dente, è quella tra parlato monologico (una lezione universitaria, una conferenza, un discorso pubblico; almeno fino a quando non intervenga qualcuno dall’uditorio a controbattere o a porre delle domande) e parlato dialogico (il parlato della conversazione, di un’interrogazione scolastica, di un interrogatorio giudiziario, di un’intervista, ma anche quello di una lezione in cui sia previsto l’intervento attivo degli allievi). Si può anche distinguere tra parla­ to in presenza e parlato in assenza degli interlocutori: del secondo tipo fa parte, per esempio, il parlato telefonico. Ci sono poi alcune forme ibride, come l ’annuncio letto da un annunciatore radiofoni­ co e la trascrizione fonetica di un discorso, che rappresentano il grado massimo di reversibilità dal codice grafico al codice fonico e viceversa.

Parlato e scritto non sono compartimenti stagni. Se ai due estremi di un ideale segmento volessimo collocare il parlato-parlato (il parlato più informale, spontaneo, “sporco”) e lo scritto-scritto (lo scritto al mas­ simo grado di formalità, quello di un testo scientifico, per esempio), troveremmo in mezzo una serie virtualmente infinita di forme ibride. Esistono diverse tipologie di parlato, che possono essere indi­ viduate sulla base di criteri diversi. Una prima distinzione è quella

Λ Ρ Ι< Μ Ο Η Ο Ν ΙίΙΜ (Ν Τ η

dv · ^

1/

LE f u n z i o n i LIN G U IS T IC H E s e c o n d o L A T E O R IA D I R O M A N JA K O B S O N

Secondo il linguista russo, ma naturalizzato americano, Roman Jakobson ( 1896­ 1982), nella comunicazione intervengono sei fattori: 1. 2. 3. 4.

l'emittente (colui che emette il messaggio); il ricevente o destinatario (colui che lo riceve); il messaggio (il testo trasmesso); il canale o mezzo (l’aria nel parlato, i segni grafici sulla carta o sul monitor di un computer); 5. il codice (il linguaggio attraverso il quale si svolge la comunicazione: lingua naturale, alfabeto Morse, bandierine, gesti, semafori e così via); 6. il contesto (l’insieme dei fatti e degli oggetti ai quali la comunicazione si ri­ ferisce).

In correlazione con questi sei fattori, Jakobson individuò sei funzioni della lingua, rispettivamente: Ili!*-

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Capitolo 4 - Scritto e parlato

1. emotiva (la lingua esprime emozioni e sentimenti deiremittente, per esem­ pio tramite le interiezioni); 2. conativa (la lingua si orienta sul destinatario, tipicamente attraverso l’im­ perativo e il vocativo; la funzione conativa è evidente per esempio in un discorso politico, che mira a convincere il destinatario della bontà di una certa tesi o di una certa azione o decisione; o nella pubblicità, che vuole spingerlo a comprare un determinato prodotto); 3. poetica (il messaggio è orientato su sé stesso, concentrandosi per esempio sui suoni delle parole, sulle loro sfumature di significato, sulla costruzione sintattica e così via; è la funzione che ricorre in modo tipico nei testi let­ terari, ma non solo in questi: si pensi a un certo tipo di pubblicità o alle battute di spirito); 4. fàtica (la lingua si concentra sul canale, cioè sulla connessione psicologica o materiale che lega emittente e destinatario; per esempio, in una telefona­ ta, espressioni come: «Pronto?», «Riesci a sentirmi?», «Parla più forte», o simili); 5. metalinguistica (la lingua parla di sé stessa, tipicamente nella grammatica: «il è articolo determinativo singolare maschile»; o nelle varie procedure messe in atto dai dizionari per definire un lemma); 6. referenziale o rappresentativa o denotativa (la lingua descrive la realtà in modo tendenzialmente oggettivo, in testi come l’articolo di un’enciclopedia o la trattatistica scientifica e scolastica).

4.2 Due punti dì vista diversi

Lo scritto: forte coesione testuale e sintattica

Il parlato: progettazione in tempo reale

Se mettiamo per iscritto un brano di parlato spontaneo, ricevere­ mo subito un’impressione di scompaginamento sintattico e testuale: quello che detto sembrava normalissimo, scritto ci appare intollera­ bilmente confuso. Ciò accade perché il testo scritto è abitualmente diviso in capitoli, paragrafi, capoversi (lo scritto si rivolge anche all’occhio, non solo all’orecchio) e perché al suo interno i confini tra le frasi sono ben delimitati dalla punteggiatura; la sintassi è serrata e precisa; il lessico tende a evitare ripetizioni inutili. Nel parlato (specialmente in quello spontaneo o conversazionalé) troviamo esitazioni, cambiamenti repentini del soggetto della frase, “false partenze”, ridondanze e - più in generale - una pianifi­ cazione della frase a breve gittata, che deriva dalla progettazione in tempo reale. Questo non significa che il “rumore” (ovvero il segnale privo di senso compiuto, ma anche la ridondanza, lo spreco) pre­ sente in genere nella conversazione spontanea sia privo di funzione comunicativa (come avverrebbe invece nello scritto). Per esempio,

Due punti di vista diversi

TESTO

P lto r O N t» IM i'N IO

✓ A T T I IL L O C U T IV I (O II.L O C U T Ò R I)/ P E R L O C U T IV I (O P E R L O C U T Ó R I)

Secondo il filosofo inglese John Langshaw Austin (1911-1960), nell’atto linguisti­ co si distinguono tre livelli: l’atto locutivo (l’atto del dire qualcosa), l’atto illocutivo (l’azione che si compie nel dire qualcosa), l’atto perlocutivo (l’effetto ottenuto col dire qualcosa). Gli atti illocutivi sono caratterizzati da forza illocutiva, espressa da indicatori linguistici (nella frase «Chiudi la porta!», per esempio, l’indicatore di forza illocutiva è l’uso del modo imperativo), mentre un qualsiasi enuncia­ to (per esempio «Lascialo!») potrà avere - in circostanze adeguate - l’effetto perlocutorio (non importa se intenzionale o no) di persuadere, costringere, spaventare, far rinsavire.

Atti perlocutivi

Gli atti linguistici detti perlocutìvì sono quelli che producono effet­ ti diretti. Il caso più evidente è quello delle espressioni contenenti verbi performativi: verbi che, coniugati alla l a persona, realizzano l’atto che descrivono (per esempio giuro, maledico, ordino). Allo

La conversazione

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stesso modo, gli enunciati performativi sono espressioni hsse che, in condizioni di buona riuscita, hanno il potere di ottenere l ’effetto che quelle parole descrivono. Il fatto stesso che il sacerdote pronun­ ci le parole «Io ti battezzo nel nome del Padre...» (o che il presidente di una commissione di laurea dichiari dottore qualcuno) fa sì che avvenga il battesimo (o che il candidato divenga dottore). Perché un enunciato performativo possa agire nella realtà, è ne­ cessario che siano rispettate alcune procedure convenzionali. Due esempi: se un prete battezza il bambino sbagliato o il bambino giu­ sto col nome sbagliato, la procedura non ha più valore; se in un set cinematograhco si mette in scena un matrimonio, questo non è ovviamente valido, perché manca negli attori l’intenzione che è richiesta dal rito. Il seguente esempio, invece, illustra il carattere formulare degli enunciati performativi: il futuro marito all’altare o in municipio, alla fatidica domanda del prete o del pubblico ufhciale «Vuoi tu prendere come tua legittima sposa...?» non può rispondere «D’accordo», «Perché no?», «Certo», «E che sono venuto a fare qui, allora?», ma soltanto «Sì» (o, in teoria, «No»),

4.5 La conversazione La conversazione rappresenta la situazione più tipica di parlato: due o più interlocutori che si alternano liberamente nel discorso. Presie­ dono alla conversazione regole non scritte ma continuamente attive, che - sembra - si apprendono hn da bambini, mentre si impara a parlare. Perché la conversazione abbia successo, infatti, gli interlo­ cutori debbono per prima cosa cooperare, osservando alcune regole di logica e di pertinenza che sono state individuate dal filosofo in­ glese Herbert Paul Grice (1913-1988). Secondo Grice, le massime conversazionali sono quattro: ■ di qualità (cercare di fornire un contributo vero); ■ di quantità (non essere reticenti né ridondanti nell’informazione fornita); ■ di relazione (essere pertinenti rispetto all’argomento della con­ versazione); ■ di modo (evitare oscurità e ambiguità). Nel parlato di tutti i giorni, le massime conversazionali di Grice ven­ gono frequentemente violate (o, come si dice, “oltraggiate”). Grice introduce allora la nozione di implicatura conversazionale: se le massime vengono violate, e abbiamo motivo di ritenere che l ’inter­ locutore voglia ugualmente collaborare alla conversazione, ipotiz­ ziamo che lo abbia fatto in maniera deliberata, per comunicarci in

Le massime conversazionali

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Capitolo 4 - Scritto e parlato

Punto di rilevanza transizionale

Sequenze complementari

quel modo qualcosa. Le massime, insomma, possono anche venire violate, ma rimangono immanenti alla comunicazione: se non ci fos­ se la regola, non potremmo neanche avvertirne la violazione. Que­ sta parte implicita nella comunicazione si dice appunto “implicatura conversazionale”. Se A chiede: «Dov’è Mario?» e B risponde: «Ho incrociato una Yaris verde che andava verso la statale» viene violata la massima di relazione (e probabilmente anche quella di quantità). Il parlante A, però, si sforzerà di interpretare l’enunciato di B come pertinente alla sua domanda: si chiederà, dunque, quale relazione ci sia tra Mario e la Yaris verde che B ha incrociato, arrivando alla conclusione - ed è questo che verosimilmente B vuol suggerire che Mario possiede una Yaris verde e si sta perciò dirigendo verso la statale. Esistono regole di tipo pragmatico anche per l’alternanza dei turni conversazionali: se così non fosse, le sovrapposizioni dei tur­ ni - quando due o più persone prendono la parola contemporane­ amente - sarebbero molto più frequenti di quanto non accada. I locutori, in effetti, riescono a capire quando l’altro sta per terminare il suo turno e in quale momento - detto p u n to d i r ile v a n z a tr a n s iz io ­ n a le (prt ) - possono inserirsi nella conversazione. Il prt è in genere contrassegnato da un abbassamento del tono di voce, dalla fine di un argomento di conversazione o da particolari indicatori lessicali. Se chi parlava ha selezionato il parlante successivo (con frasi del tipo: «Che ne dici, Gianluca?»), la parola passerà al selezionato; se invece nessun parlante era stato selezionato in precedenza, chiunque potrà autoselezionarsi e prendere la parola al sopraggiungere del primo prt (diversamente, chi parlava potrà continuare a farlo). La stessa situazione si verificherà a ogni successivo prt . Se poi chi parlava non ha selezionato il parlante successivo, o se qualcuno si inserisce mentre un turno di parola è in corso, si potrà verificare una breve “lotta” per la conquista o il mantenimento del “banco”, Si alzerà il volume della voce, si farà cenno con la mano di attendere, facendo eventualmente valere il proprio prestigio sociale, economi­ co, intellettuale, o anche solo la maggiore età (nel caso per esempio di un adulto che parla con un bambino). Può ben accadere che una persona intervenga nella conversazione senza aspettare il prt, ma l’intervento viene percepito come inopportuno ed è censurato dalle regole dell’educazione. È naturale che tutte queste strategie mira­ te al mantenimento del “banco” contribuiscano a condizionare la grammatica del parlato. I locutori, inoltre, per avviare, far procedere o chiudere la con­ versazione si servono spesso di strutture fisse. Queste strutture, dette se q u e n ze c o m p le m e n ta r i, sono realizzate dagli interlocutori in due turni (perciò si dicono anche c o p p ie a d ia c e n ti ): a una domanda se­

La conversazione

guirà una risposta; a un saluto, un altro saluto («Come stai?» «Bene grazie, e tu?»); a un’interpellazione, una risposta («Senta» «Mi dica»); alle scuse, una minimizzazione («Scusami per il ritardo» «Figurati, ho aspettato solo due minuti») e così via. Le sequenze complementari sono una sorta di cerimonia lin­ guistica - e per certi versi sociale - spesso priva di vero contenuto informativo. Esemplare il caso della chiusura di una conversazio­ ne telefonica, che richiede una procedura linguistica abbastanza complessa: dopo un argomento di chiusura (accordo conclusivo, per esempio un appuntamento o i saluti per un assente), ci sono al­ cuni turni di passaggio che portano verso la fine della telefonata (per esempio: «Bene, allora a presto»), poi alcuni eventuali scambi di pre-chiusura, poi una coppia di elementi finali (i saluti di con­ gedo: «Ciao», «Ciao»; «Arrivederci», «Arrivederci»; «A presto», «Ciao»). Ciò non significa, naturalmente, che non possiamo tron­ care la conversazione in maniera più sbrigativa; significa che, se lo facciamo, corriamo il rischio di apparire bruschi o scortesi.

Α Ι'Ρ Κ Ο Γ Ο Ν ΙΗ Μ Γ Ν Τ Ο

✓ LE SEQ UENZE L A T E R A L I IN C ASSA TE

A volte perché una coppia venga completata, occorre aprire e via via richiudere altre sequenze, dette incassate (o laterali), operazione alla quale è subordinato il completamento della sequenza principale; come nella conversazione che segue: A: Quanto costa un biglietto per Milano? B; Prima o seconda classe? A: Quanto costa la prima? B: 120 euro. A: No; allora prendo la seconda. B; 75.

[ apre sequenza I] [ apre sequenza laterale 2] [ apre sequenza laterale 3] [ chiude sequenza laterale 3] [ chiude sequenza laterale 2] [ chiude sequenza I]

Si noterà che in questo dialogo (come in altri consimili) la conversazione si tiene nell’aspettativa implicita della chiusura della sequenza principale.

Esistono, in base ad alcune convenzioni sociali, certe forme pre­ ferenziali per completare una sequenza complementare: accet­ tare un invito, per esempio, è semplicissimo; rifiutarlo presenta linguisticamente alcune complicazioni (ci vuole una breve pausa, o una spiegazione plausibile, per attenuare la portata del rifiuto). Analogamente, dopo il saluto «Ciao, come stai?», la risposta pre-

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I registri del parlato

Capitolo 4 - Scritto e parlato

ferenziale - quella che il sistema linguistico offre già pronta è un’espressione convenzionale di generico benessere («Bene», «Benone», «Non c’è male», «Non mi lamento»). Supponiamo che F interlocutore risponda con una forma non preferenziale, per esempio «Male»: si creerebbe immediatamente una situazione di disagio; dopo una pausa imbarazzante, ci sentiremmo obbligati a chiedere: «Ti è successo qualcosa?» (anche se conosciamo appena l’interlocutore e non intendiamo ricevere un suo sfogo o una sua confidenza). In definitiva la conversazione comincerebbe già in­ ceppata, perché il sistema linguistico si trova spiazzato di fronte a una risposta non preferenziale.

4.6 I registri del parlato

I modelli del parlato

Parametro della diafasìa: parlato formale/informale

Il parlato si articola in una gamma di registri dominata da tre pa­ rametri: diafasìa, diastratìa, diatopìa (vedi § 1.2). Più volte si è tentato di riunire in una rappresentazione organica la varietà di registri a disposizione di un parlante italiano. Il rischio di sem­ plificare in maniera inaccettabile una realtà sociolinguistica com­ plessa è costantemente in agguato. È certo però che oggi l’italiano della tradizione letteraria non è più l ’unica varietà normatrice, il modello linguistico al quale rifarsi, perché dotato di indiscusso prestigio. Nella situazione attuale possono godere di altrettanta o magari di maggiore autorevolezza l ’italiano burocratico o giudi­ ziario, l’italiano tecnico-scientifico, quello parlato dai manager, dai politici, dai giornalisti. Sta inoltre mutando l ’atteggiamento psicologico nei riguardi del dialetto (anche perché gli stessi dia­ letti sono sempre più influenzati dall’italiano): un tempo avvertito come socialmente e culturalmente squalificante, il dialetto viene oggi usato anche dalle persone cólte nel registro affettivo, scher­ zoso, informale. Rispetto alla situazione comunicativa (diafasìa) il parlato può quindi essere formale: una lezione, un discorso tenuto in un’oc­ casione pubblica, la conversazione con persone di riguardo o sco­ nosciute; o informale: la conversazione in famiglia oppure con amici, colleghi, conoscenti. L’italiano informale o colloquiale può nutrirsi di apporti lessicali ed espressivi del soggiacente dialetto e quindi riuscire, di fatto, simile all’italiano regionale, specialmente nella pronuncia. Ma a livello teorico le due varietà vanno tenute distinte. Contribuiscono infatti a caratterizzare l’italiano informale tratti panitaliani (presenti cioè nell’italiano colloquiale di tutte le regioni) come gli in luogo di le, l’uso di averci (c[i] ho male ai denti ), tipi sintattici come a me mi piace, la scarsa ricorrenza di congiunzioni tipiche del parlato formale o dello scritto (sebbene,

tuttavia, giacché) e alcune scelte lessicali (dai diminutivi fino al turpiloquio). Il parametro della diastratìa (cioè la differenza legata ai diversi strati sociali), che fino a non molti anni fa influiva in maniera drastica sui comportamenti linguistici, oggi - grazie alla maggiore diffusione e democratizzazione della cultura e dell’istruzione - sembra operare in maniera trasversale. Se è ancora decisivo il livello di cultura del parlante (chi è più cólto sa dominare anche i registri alti, chi è meno cólto si trova a suo agio solo nel registro informale), l’unica apparte­ nenza sociale determinante si rivela quella a gruppi dalla fisionomia particolarmente compatta (come certi grappi professionali). La peculiare situazione dialettale italiana, infine, fa sì che il pa­ rametro della diatopìa (tratti linguistici locali o regionali o dialetto tout court) emerga con forza non appena si verifica un abbassamen­ to - anche leggero - degli altri due livelli. Chi parla in una situazio­ ne informale o proviene da uno strato socioculturale basso adopera un italiano più vicino al dialetto, o un italiano imperfettamente do­ minato, nel quale fa capolino il dialetto (il cosiddetto “italiano po­ polare”). Insomma, nella concreta prassi comunicativa, non è facile trovare un italiano informale scevro da elementi (almeno da pronun­ ce) regionali o dialettali.

A P P R O F O N D IM E N T O

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Parametro della diastratìa

Parametro della diatopìa

✓ L’ A R C H IT E T T U R A DELL’ IT A L IA N O CO NTEM PORANEO

Poco più di vent’anni fa, Gaetano Berruto aveva sintetizzato sinotticamente l’architettura dell'italiano contemporaneo disponendo le diverse varietà lingui­ stiche scritte e parlate lungo gli assi complanari della diastratìa, della diamesìa e della diafasìa (la diatopìa era resa in sottofondo, come soggiacente a tutto il set­ tore dell'italiano parlato). Sulla base dei cambiamenti intercorsi in questi anni, si è recentemente proposto di apportare qualche aggiornamento (il maiuscolo segnala le varietà assenti nello schema di Berruto).

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Capitolo 4 - Scritto e parlato

Tra t principali elementi di novità: -

-

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-

la maggiore incidenza della diatopìa, che entra nel quadrante dei registri più alti in senso diastratico e diafasico e si affaccia anche nel settore della lingua scritta; la risalita dell’italiano standard, che ormai coincide quasi con lìtalìano aulico formale; per contro, l’identificazione del nuovo standard con la buona scrit­ tura giornalistica; l’individuazione dell’italiano tecnico-scientifico come varietà di massimo prestigio e la sostituzione dell’italiano burocratico con l’italiano aziendale, in cui i residui burocratici si mescolano ai tecnicismi deH’economia e della finanza; il forte avvicinamento tra italiano parlato colloquiale, italiano informale tra­ scurato e italiano regionale; l'apparire di una varietà scritta di registro inform ale, usata da quasi tu tti gli strati della società; l’italiano digitato delle e-rnail e degli sms.

4.7 II parlato italiano contemporaneo: suoni e forme

L’ortoepìa

Quello dei suoni è il settore nel quale le abitudini linguistiche di tipo regionale mostrano una tenuta maggiore, anche in parlanti di elevato livello socioculturale. È facile verificare come proprio dalla pronun­ cia - oltre che dalla prosodia (la calata caratteristica di ogni regio­ ne) - sia possibile indovinare l’area di provenienza di un parlante. U ortoepìa, cioè il modo corretto di pronunciare l’italiano (peral­ tro suscettibile di mutamenti e oscillazioni), va considerata norma tassativa solo da chi fa della lingua parlata un uso professionale (at­ tori, doppiatori, speaker radiotelevisivi, in linea teorica anche espo­ nenti politici). Per “pronuncia corretta” dell’italiano s’intende qui quella che corrisponde al modello tradizionale del fiorentino cólto emendato dei tratti vernacolari, come la pronuncia “scivolata” (cioè senza l ’elemento occlusivo) di c e g palatali (pigione, cacio) o la gorgia. In questo modello si prevede, tra l’altro, la generalizzazione della s sonora (quella di slitta e asma) tra due vocali, come avviene nell’italiano settentrionale (rosa, ma anche casa con la s di slitta), a differenza dell’ortoepia tradizionale fondata sul modello toscano (rosa con la .vdi slitta ma casa con la s di sole) e dell’uso spontaneo romano e meridionale (rosa e casa con la s di sole). Nella percezione collettiva dei parlanti, ormai da qualche decen­ nio, gode infatti di un certo prestigio la pronuncia settentrionaleg-

II parlato italiano contemporaneo: suoni e forme

giante dell’italiano. Declinante appare invece il modello romano, sempre più accostato a uno stereotipo cinematografico e televisivo di matrice comica - e quindi di scarso prestigio sociolinguistico incarnato dalla metà del Novecento da attori e personaggi di spetta­ colo (come Alberto Sordi, Carlo Verdone, Claudio Amendola). Nel campo delle forme grammaticali è in atto, nell’italiano con­ temporaneo, una forte tendenza alla semplificazione. Alcuni settori della grammatica italiana sono regolati da norme molto complesse, spesso operanti - oltretutto - in sovrapposizione. Comprensibile, perciò, che almeno nel parlato (lo scritto recepisce più tardi le inno­ vazioni del parlato, o non le recepisce affatto) si profilino alcune ten­ denze alla semplificazione e alla razionalizzazione del sistema, per esempio nel campo dei pronomi atoni o in quello dei tempi verbali. Tra i tempi verbali è in espansione l’imperfetto; il passato remo­ to (vitale solo in Toscana e nell’Italia meridionale) cede terreno al passato prossimo, praticamente scomparso è invece il trapassato re­ moto; il futuro tende a essere sostituito dal presente (parto domani', quando ci rivediamo?), mentre il futuro anteriore è usato soprattutto per indicare supposizione (cosa sarà successo?)', tutt’altro che mor­ to è ipvece il congiuntivo, realmente indebolito solo nelle subordi­ nate dichiarative (credo che hai invece di credo che tu abbia).

A P P R O F O N D IM E N T O

Semplificazione delle forme grammaticali

✓ OLI USI DELL’ IM PERFETTO

L’imperfetto ha molto esteso i suoi usi: nella creazione di mondi immaginari (per esempio nella narrazione di sogni: ho sognato che ero un aquilone); nelle proposi­ zioni ipotetiche al posto dì condizionale passato e congiuntivo trapassato (se lo sapevo venivo; il tipo se l’avessi saputo sarei venuto è ormai percepito come proprio del linguaggio sorvegliato); nel discorso indiretto in luogo del condizionale a in­ dicare futuro nel passato (mi ha detto che arrivava); con valore attenuativo (volevo dirti che non posso venire a cena).

Nel campo dei pronomi atoni la distinzione tra gli ‘a lui’ e le ‘a lei’ e soprattutto tra gli (singolare maschile) e (a) loro (plurale) tende ad annullarsi - almeno nel parlato informale - nella forma tuttofare gli. Ci estende il suo àmbito d’uso, entrando in composizione con avere (che c ’hai?) o con altri verbi (contarci ‘fare affidamento’, pensarci, entrarci ‘essere pertinente’, volerci ‘essere necessario’ ecc.). I clitici vengono poi usati, specie in area centromeridionale, per dare valo­ re intensivo ad alcuni verbi (mi fumo una sigaretta, mi faccio una nuotata).

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Capitolo 4 - Scritto e parlato

4.8 II parlato italiano contemporaneo: la sintassi Il che relativo indeclinato

Enfasi e dislocazione

Nell’uso dei pronomi relativi ha ormai perso molto terreno il q u a le 0d e l q u a le , a l q u a le e simili) a vantaggio di c h e , nel parlato molto informale anche sotto forma di c h e relativo indeclinato con ripresa pronominale (G ia n n i, ch e g li ‘al quale, del quale’ d ic o s e m p r e p e s te e corna·, la riv o lu zio n e , ch e n e ‘di cui’ a b b ia m o s e m p r e p a u r a ). Di questo ch e relativo indeclinato sono state date diverse spiegazioni. Una delle più attendibili è la seguente: il ch e fungerebbe da subor­ dinante generico, indicherebbe cioè la presenza di una subordinata quale che sia, mentre l’esatta esplicitazione del rapporto sintattico tra le proposizioni sarebbe affidata al pronome atono di ripresa {g li e n e, negb esempi riportati sopra). Il ch e in funzione di subordinante generico è usato come una sor­ ta di passepartout linguistico, per introdurre una subordinata. Alcuni usi del ch e subordinante generico sono accettati dalla norma - per esempio quello temporale (l ’a n n o ch e c i sia m o c o n o s c iu ti) e quello causale (che nello scritto si distingue tramite l ’accento grafico: ch é); altri no. Spesso, comunque, non è possibile un’esatta catalogazio­ ne grammatico-funzionale del ch e subordinante generico: si pensi a frasi come a s p e tta c h e a r r iv o o v ie n i ch e s ’è f a t t o ta rd i. Nel pailato l’ordine non-marcato (Soggetto Verbo Oggetto) della frase risulta spesso alterato per evidenziare un elemento a vario tito­ lo saliente. Tra i vari costrutti di messa in rilievo, ci sono: ■ la to p ic a liz z a z io n e c o n tra stiva ·, l’elemento dislocato, in gene­ re l’oggetto, viene sottolineato con forza nell’intonazione; per esempio: le m ele ricordati!·, ■ il te m a lib e r o o cambio di progetto sintattico (quello che nel­ la grammatica tradizionale veniva definito a n a c o lu to ): il centro semantico-emozionale della frase viene collocato in apertura di frase, anche senza collegamento sintattico col resto della frase stessa (per esempio: io s p e r ia m o ch e m e la cavo', n o i la c a r n e c i p ia c e ta n tissim o )·,

■ la d is lo c a z io n e a s in is tr a dell’oggetto o dei complementi indiret­ ti, ripresi - a differenza di quanto accade nel primo costrutto - da un pronome atono {il s a n g u e n o n lo p o s s o vedere-, d i le i n o n m e n e a v e v i m a i p a rla to )',

■ la d is lo c a z io n e a d e s tr a del centro di interesse della frase, anti­ cipato in questo caso da un pronome atono { l ’h a i c o m p r a to tu il latte?)·,

M la f r a s e s c is s a , in cui un elemento viene messo in evidenza tra­ mite una struttura formata da una voce del verbo e s s e r e + ch e

Il parlato italiano contemporaneo: le parole

(per esempio:

e r a lu i ch e gu idava·,

101

frasi scisse sono anche i tipi

q u a n d ’è ch e te n e v a i? , è ch e n on c ’è p iù n ie n te d a d ire , n on è ch e s ta i d iv e n ta n d o p a zzo ? )·,

■ il tipo

c ’è

+

ch e { c ’è u na c o s a ch e ti v o le v o d ire ).

Frequente, nel parlato, anche il mancato accordo tra soggetto e verbo, dovuta in genere a cambiamenti di progetto sintattico o a concordanze a senso (specie in dipendenza di locuzioni come la m a g g io r p a r te d i o di nomi collettivi come la g e n te : la m a g g io r p a r te d e lle

Mancato accordo

tra s°9 9 ett0 e verbo

p e r s o n e n on sa n n o c o s ’è V e d u c a zio n e ).

A P P R O I O N U IM C N T O

✓ Q U A N D O SI POSPONE IL SOGGETTO!

La posposizione del soggetto è usata -

per marcare un’opposizione con altri possibili attori: lo faccio io questo lavoro (sottinteso: ‘non tu’); con alcune classi di verbi che indicano eventi improvvisi: è morta sua nonna, è arrivato mio marito;

-

quando il soggetto rappresenta l’elemento nuovo della frase: ha chiamato la segretaria, sono le otto (si noti che *le otto sono è una frase agrammatieale, impossibile in italiano).

4.9 II parlato italiano contemporaneo: le parole Fondamentali nel parlato sono i segnali discorsivi ( p e r d ire , d ic ia ­ m o , v o g lio d ire , c io è ecc.) che hanno anche la funzione di connettivi. Frequenti sono anche le locuzioni colloquiali, familiari, gergali o di diffusione regionale: tanto più numerose quanto più informale è la situazione comunicativa. Si registra inoltre una significativa presen­ za di ■ vocaboli generici (tiz io , f a tto , a ffa re, c o s a o rob a ); ■ espressioni di quantità (un s a c c o d i, un c a s in o di; ta n to d i q u e l + sostantivo, per esempio «ho tanta di quella stanchezza»; sostan­ tivo + d e lla m a d o n n a , d e l c a v o lo o simili, per esempio: c ’e r a un v e n to d e lla m a d o n n a );

■ alcuni aggettivi (come p a z z e s c o , mostruoso, a llu c in a n te , b e s tia ­ le) utilizzabili in accezione sia positiva sia negativa (p a z z e s c o ,

102

Il parlato nello scritto

Capitolo 4 - Scritto e parlato

per esempio, può significare a seconda del contesto ‘ecceziona­ le’ o ‘orribile, pessimo’); ■ diminutivi affettivi, semanticamente vuoti, come momentino, pensierino ‘regalo’ o attìmino (usato anche come avverbio, con valore genericamente attenuativo: è un attimo / attìmino difficile ‘è abbastanza diffìcile’); ■ espressioni colorite di esclamazione o di imprecazione, tino al turpiloquio (porca miseria e simili; cavolo e simili; che palle!, due marroni! e così via). L’apporto del linguaggio giovanile

Consistente è, negli ultimi decenni, anche l’apporto del linguag­ gio giovanile, magari tramite il mondo della canzone, dei fumetti, e comunque delle culture e sottoculture vicine al mondo giovanile: gasato ‘vanitoso, euforico, esaltato’, imbranato, pomiciare, sbal­ lo. Notevole, poi, la diffusione di termini della psicanalisi classi­ ca (come complessato, isterico, nevrotico, paranoia, rimosso), con significato spesso distante, però, da quello originario; di metafore automobilistiche (ho ingranato col lavoro, sta infoile e simili) o l’ampio ricorso a suffissi e prefìssi (come mega-, ultra-, super-, iper) tipici un tempo dei linguaggi scientifici e settoriali. Il linguaggio tecnologico, in particolare, viene usato anche in chiave scherzosa: sei tutto da riformattare\ cambia file ‘cambia discorso’.

Λ Ρ Ρ Κ Ο Ι O N D IM I'N T O

✓ IL T U R P IL O Q U IO Il

Il turpiloquio non è - come si pensa comunemente - un’esclusiva dei nostri tempi: basta sfogliare gli epistolari ottocenteschi per leggere frasi come «non costa un cazzo» (Carlo Porta), «noi resteremo tutti coglionati» (Vincenzo Mon­ ti), «coglione chi si affatica a pensare e a scrivere» (Giacomo Leopardi). A esten­ dersi è stata, semmai, la sua sfera d’uso: un tempo relegato alla conversazione più informale, oggi il turpiloquio è possibile anche in situazioni mediamente formali (un’assemblea politica, una trasmissione radiofonica e televisiva e simili). Se ancora tra il I968 e il I977 le parolacce potevano avere una carica contestataria, oggi non sono altro che un’esibizione di conformismo: che ci piaccia o no, infatti, fanno ormai parte del modo di esprimersi quotidiano di quasi tutti gli italiani. Secondo uno studio del 2000, in televisione si sentivano 70-100 parolacce al giorno; secondo un altro del 2003, una ogni 2 1 minuti (negli Stati Uniti studi analoghi hanno raggiunto conclusioni non molto diverse). Nel 1993, cazzo risultava al 722° posto tra i vocaboli più ricorrenti nel parlato degli italia­ ni (dopo notare e prima di verde) e più di recente campeggiava nell’/nc/pit di un romanzo vincitore del premio Strega, Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, 2007: «Svegliati! Svegliati, cazzo!»,

103

4 .IO II parlato nello scritto Solo in anni recenti Γ attenzione degli studiosi si è rivolta allo studio dell’italiano parlato del passato; uno studio che, paradossalmente, è costretto a ricorrere allo scritto come unica testimonianza superstite. Sono state individuate particolari categorie di testi considerati, per ragioni diverse, meno lontani dalla lingua parlata:

Le fonti per lo studio

del parlato antico

■ testi di scriventi che avevano scarsa dimestichezza con la cultura scritta; ■ testi poco sorvegliati dal punto di vista stilistico o destinati all’u­ so privato (diari, memoriali, lettere); ■ testi nati come registrazione diretta di un discorso orale (trascrizio­ ni di testimonianze, prediche, opere nate sotto dettatura, e simili). È stato così possibile appurare che alcuni costrutti tipici anche oggi del parlato affondano le loro radici nelle fasi più antiche della lingua italiana. Studiando i testi che hanno maggiore probabilità di conser­ vare le caratteristiche del parlato è emersa, infatti, la presenza più o meno costante di alcuni costrutti (le dislocazioni, la concordanza a senso, (1 che indeclinato e altri). Le particolarissime vicende dell’i­ taliano - soprattutto la codificazione grammaticale cinquecentesca, basata su un canone molto ristretto di autori letterari - hanno sem­ pre relegato questi costrutti ai margini della grammatica; ma nelle scritture informali, basse o popolari, possiamo trovare a distanza di secoli varie attestazioni della loro vitalità. Parzialmente diverso - perché pienamente consapevole - è l’uso artistico che gli scrittori fanno del parlato nelle battute di dialogo inserite in un racconto, un romanzo, un testo teatrale. In questo caso abbiamo non una riproduzione fedele dell’oralità, ma una simulazio­ ne fittizia e stilizzata: gli aspetti più irriducibili del parlato (brasche interruzioni, false partenze, esitazioni, ridondanze) vengono omessi o regolarizzati o riprodotti in modo convenzionale. E il caso dei novel­ lieri quattro-cinquecenteschi, debitori - anche nella “messa in scena” del parlato - del Boccaccio, il capostipite della novellistica italiana.

TFSTO

Uso artistico

tlel parlat0

L A S IM U L A Z IO N E D I P A R L A T O N E L LA L O C A N U IE R A D I C A R LO G O LD O N I

Il brano riportato è tratto dalla scena xxn dell’atto i di questa commedia messa in scena per la prima volta nel 1753, Il Conte d’Albafiorita e il Marchese di Forlipopoli sono due spasimanti della locandiere Mirandolina. Sulla scena sono presenti anche Ortensia e Dejanira, due attrici che si fingono nobildonne. ' ιιιφ

104

Capitolo 4 - Scritto e parlato

M/r.

Osservi, signor Conte, il bel regalo che mi ha fatto il signor Marchese.

(mostra il fazzoletto al Conte) Con ,

Mar, M/R. Con . O r i.

Oh, me ne rallegro! Bravo, signor Marchese. Eh niente, niente. Bagattelle. Riponetelo via; non voglio che lo diciate. Quel che fo non s’ha da sapere. (da sé) Non s’ha da sapere, e me lo fa mostrare. La superbia contrasta con la povertà.

(a Mirandolina)

Con licenza di queste dame, vorrei dirvi una parola.

S’accomodi con libertà.

Mar.

(a Mirandolina) Quel fazzoletto in tasca lo manderete a male.

M

Eh, lo riporrò nella bambagia, perché non si ammacchiI

ir.

Con . M

ir.

Con .

(a Mirandolina)

Osservate questo piccolo gioiello di diamanti.

Bello assai.

Il parlato nello scritto

105

Dalla seconda edizione dei Promessi sposi (1840-1842) e in maniera ancor più accentuata con il Verismo e in particolare con I Malavo­ glia (1881) di Giovanni Verga, la prosa narrativa italiana è andata incontro a un progressivo avvicinamento al parlato, a una lingua vo­ lutamente dimessa, media, colloquiale; non soltanto - per esigenze di verosimiglianza - nelle battute di dialogo, ma anche nella diegèsi. Uno «stile semplice», come lo ha definito il linguista Enrico Testa, in cui la “semplicità” è ottenuta con tecniche e mezzi artistici: non si tratta di vera naturalità o spontaneità, ma di un effetto ottenuto gra­ zie all’elaborazione e all’artificio espressivo. Esempi di questo “stile semplice” nella nostra narrativa novecentesca possono considerarsi Paesi tuoi di Cesare Pavese (1941), La ciociara di Alberto Moravia (1957), La ragazza di Bube di Carlo Cassola (1960), Lessico fam i­ gliare di Natalia Ginzburg (1963).

È compagno degli orecchini che vi ho donato.

(Ortensia e Dejanira osservano, e parlano piano fra loro) M ir. Certo è compagno, ma è ancora più bello. Mar, (da sé) Sia maledetto il Conte, i suoi diamanti, i suoi denari, e il suo diavolo che se lo porti. Con ,

(a Mirandolina)

Ora, perché abbiate il fornimento compagno, ecco

ch’io vi dono il gioiello. M

ir.

Con , M ir.

Non lo prendo assolutamente. Non mi farete questa mala creanza. Oh! delle male creanze non ne faccio mal. Per non disgustarla, lo prenderò.

Per rendere efficacemente la spontaneità del parlato reale, Goldoni costruisce una sequenza di battute veloci, costituite in molti casi da una sola frase, che si alternano in un ritmo serrato. Spesso si ha la ripresa di una parola (o di un’espressione) contenuta nella battuta precedente, secondo una tecnica molto usata nella scrittura di testi teatrali (Quel che fo non s’ha da sapere / Non s’ha da sapere, e me lo fa mostrare; È compagno degli orecchini che vi ho donato / Certo è compagno, ma è ancora più bello). Ma a produrre l’effetto di simulazione della conversazione spontanea è soprattutto l’uso dei costrutti sintattici tipici del parlato, come la dislocazione a sinistra (delle male creanze non ne faccio mai), e il ricorso alle interiezioni, anche come segnale demarcativo dell’inizio del discor­ so (Eh, lo riporrò nella bambagia, perché non si ammacchi). V E R IF IC A Testo cit, in L, Rossi, Scritto e parlato, in L. Serianni (a c. di), La lingua nella storia d’Italia, Società Danto Alighieri - Libri Schelwiller, Milano 2002, pp. 473-S04, pp. 490-491.

1. 2. 3. 4. 5.

Esemplifica le differenze principali tra lo scritto e il parlato. Cosa significa che un testo è “coeso”? E che è “coerente”? Che cosa si intende per “atti linguistici”? Quali tendenze si notano nell’italiano parlato contemporaneo? A che cosa dobbiamo fare riferimento per lo studio dell’italiano parlato dei secoli scorsi?

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Capitolo 4 - Scritto e parlato

Storia di parole A ttim ino E il diminutivo di attimo, che discende dal latino tardo in ato ­ mo , a sua volta dall’espressione greca en atòmo ‘in un istante’ (attimo rap­ presenta l’allotropo popolare; atomo quello dotto), ed è utilizzato sia con significato proprio, sia nell’accezione di un po’. Parola simbolo degli anni ottanta e novanta, attimino è stata per molto tempo oggetto di una forte censura da parte di molti parlanti. Una classifica pubblicata nel 2003 dal quotidiano “Il Sole 24 Ore” la poneva al terzo posto fra le “parole da buttare”. L’espressione, in sé non scorretta, ha precedenti ottocenteschi nell’analogo momentino, attestato con significato generico, non temporale, persino nelle lettere del filologo Francesco D’Ovidio ( 1849-1925): «non essendo più tediato dalle domestiche cose - benché, a dir vero ci siano ora le scolastiche, che sono un momentino peggio -». Calata II sostantivo calata deriva dal verbo calare del latino tardo (a sua volta dal greco) e il suo significato prevalente è quello di ‘atto di calare, abbassamento, invasione’ (la calata delle reti, la calata dei barbari). Il termi­ ne ha acquistato solo nel Novecento l’accezione di ‘cadenza, modulazione della voce tipica di una parlata, specialmente dialettale’. Il termine usato dai linguisti per descrivere i caratteri accessori nella realizzazione dei suoni (intonazione, quantità ecc.) è prosodia, dal composto greco di pros ‘a, verso’ e odè ‘canto’, di cui il latino accentus costituisce un calco; calata e cadenza sembrano invece riferirsi unicamente all’Intonazione, alla curva melodica della frase, ovvero al modo in cui la voce “cala” o “cade” prima della pausa. Ciao II saluto confidenziale ciao, diffuso in tutta Italia e ormai anche all’e­ stero (nell’inglese americano e australiano di registro medio-alto, nel fran­ cese informale, nel linguaggio giovanile tedesco), proviene dal veneziano schiao ‘schiavo’ (da leggersi s-ciao), derivato a sua volta dal latino medievale sclavus ‘slavo’. L’aggettivo etnico slavo cominciò a indicare per antonoma­ sia lo schiavo (forse anche il latino servus era in origine un etnico etrusco), perché tra il x e il xm secolo in Germania e in Italia vennero importati molti schiavi di origine slava. Schiao, e poi ciao, era originariamente una formula di saluto simile a locuzioni come servo suo; oggi è invece un modo di salutare riservato a situazioni di carattere informale: è usato in famiglia, tra giovani coetanei, tra persone che sono in rapporti di confidenza. Alla fine degli anni settanta, la Piaggio lanciò sul mercato un motociclo chia­ mato Ciao, forse proprio per la capacità della parola di evocare qualcosa di non impegnativo e disinvolto, e Ciao si chiamò anche la mascotte dei

Storia di parole

Campionati del mondo di calcio svoltisi in Italia nel 1990: una scelta su cui avrà certo influito la popolarità internazionale della parola. C ioè In origine (xm secolo), era usato per riprodurre la formula latina id est e prevedeva spesso la flessione della forma verbale; come nella duecen­ tesca raccolta anonima di racconti nota come II Novellino: «li figliuoli, ciò siamo noi, ciascuno si crede avere la buona». Nel tempo, la parola si è an­ data affermando come segnale discorsivo per indicare l’inizio di un enun­ ciato soprattutto in situazioni d’incertezza. Celebre è l’esordio di don Abbondio alle prese con i “bravi” nei Promessi sposi di Manzoni: «“Cioè,...” rispose, con voce tremante, don Abbondio; “cioè, lor signori son uomini di mondo...”». Negli ultimi decenni la ripetizione ossessiva dell’intercalare cioè è stata evidenziata in chiave ironica per mettere alla berlina il linguag­ gio giovanile. Così è, per esempio, nel film di Carlo Verdone Un sacco bello ( 1980), in cui a usarla ossessivamente è un giovane hippy romano. Dialogo La parola dialogo risale, con la mediazione del latino dialogus, al greco diàlogos, sostantivo ricavato dal verbo dialègomai ‘converso, discorro’. L’accezione primaria di ‘discorso, colloquio tra due o più persone’ ha tro­ vato un’applicazione in àmbito letterario e musicale; con il termine dialogo si fa riferimento alla parte di uno scritto narrativo o teatrale (o di un film) in cui viene riprodotto uno scambio di battute tra due o più personaggi e ai componimenti musicali per due o più voci o per due o più strumenti. Dialogo si usa anche per indicare un trattato o un componimento che si svolge In forma non espositiva o narrativa ma, appunto, dialogica. Questo genere letterario ha avuto grande diffusione non solo nelle letterature clas­ siche, ma anche ìn quella italiana, soprattutto nel Cinquecento: le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo ( 1525) sono un esempio di trattato gramma­ ticale in forma di dialogo. In politica e in diplomazia, infine, la parola dialogo è usata per indicare una trattativa che mira al raggiungimento di un’intesa. Manager II sostantivo inglese m anager deriva dal verbo to m anage che ha la sua origine remota nell’italiano maneggiare e quindi appartiene alla categoria lessicale dei cosiddetti “cavalli di ritorno” (vedi § 7.2). Dal signi­ ficato originario di ‘maneggiare i cavalli’, sopravvissuto nel termine italiano maneggio, il campo semantico della parola si è esteso fino a indicare il ‘di­ rigente d’azienda che assume direttamente le funzioni dell’imprenditore’. Il termine m anager viene usato anche in locuzioni anglicizzanti come area m anager ‘direttore delle zone di vendita’, produci m anager ‘responsabile di un prodotto o di una linea di prodotti’, Project m anager ‘responsabile di

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Capitolo 4 - Scritto e parlato

un progetto’. Viene detto manager anche il procuratore sportivo di singoli atleti o squadre e l’agente che cura gli interessi di cantanti e attori, occu­ pandosi in particolare delle pubbliche relazioni e degli accordi contrattuali. Tra i derivati spiccano l’aggettivo di relazione manageriale e il sostantivo managerialità. Il vocabolo è inoltre usato come secondo elemento di pa­ role composte con un primo sostantivo italiano, come preside-manager, primario-manager e simili, legate ai recenti processi di privatizzazione di enti e istituti pubblici. M ostruoso L’aggettivo mostruoso ‘di aspetto deforme e dimensioni anormali’ continua il latino monstruosus, derivato di monstrum ‘prodigio, portento’, da intendersi sia in senso positivo sia in senso negativo. Ancora oggi l’aggettivo mostruoso vale ‘di aspetto fisico sgradevole’ e ‘malvagio, crudele’, ma anche ‘straordinario, grandissimo’ spesso in formule ammira­ tive iperboliche come è di una bravura mostruosa. Nel 19 7 1 la casa editrice Rizzoli pubblica un libro dell’attore Paolo Villaggio in cui vengono ripropo­ ste le disavventure di un impiegato di nome Ugo Fantozzi, già uscite in for­ ma di racconti nella rivista “L’Europeo”. Il libro diventa un caso editoriale e segna il rilancio del termine mostruoso. La comicità di Villaggio e del suo Fantozzi ha come punto di forza la sproporzione fra la grigia normalità del mondo del protagonista e le situazioni esagerate che si trova a vivere: la voce sconclusionata del narratore non riesce a dare un senso compiuto alla realtà che lo circonda, e non può che descriverla con aggettivi che ne richiamino l’ingovernabilità: mostruosa, pazzesca, bestiale. Del povero ra­ gioniere soverchiato da questo mondo incomprensibile sorridono milioni di persone fra lettori e spettatori, decretando fra l’altro il successo del termine nell’accezione di ‘esagerato’, ‘incredibile’. Verismo II sostantivo verismo, derivato dell’aggettivo vero, è uno dei neologi­ smi in -ismo che furono coniati in gran numero nella seconda metà dell’Ot­ tocento. Verismo fu usato per designare la corrente letteraria e artistica ispirata alla poetica del vero, cioè alla rappresentazione obiettiva della re­ altà, che si affermò in Italia alla fine dell’Ottocento (in concomitanza con il naturalismo francese) ed ebbe tra i suoi maggiori esponenti Giovanni Ver­ ga ( 1840-1922) e Luigi Capuana ( 1839-19 15). Il fastidio per l’uso insistito del suffisso -ismo, spesso di provenienza anglo-francese (come assenteismo: inglese absenteeism e francese absentéisme) - ma soprattutto delle mode culturali che esso simbolicamente rappresentava - è testimoniato proprio da un’opera di Capuana, Gli ismi contemporanei ( 1898): «non possiamo tener conto di tutti gli ismi dell’arte moderna!» (e il suffisso qui si fa sostantivo).

Le lingue speciali

5.I Cos’è una lingua speciale Una lingua speciale è una varietà di lingua caratterizzata da alcune particolarità: ■ riflette generalmente un sapere specialistico, condiviso da una minoranza di esperti, e risponde allo scopo di favorire la comunicazione all’interno di quel gruppo; ■ utilizza tratti linguistici propri della lingua di riferi­ mento (nel nostro caso, l’italiano), integrandoli per quanto riguarda il lessico e la formazione delle parole (in particolare con l’impiego di prefissi e suffissi su una base lessicale); ■ tende, a differenza della lingua comune, polisemica per natura, a essere univoca, cioè a stabilire un rap­ porto preciso e costante tra parole e cose. Va sottoli­ neato che il livello di monosemia delle parole e del­ le espressioni di una lingua speciale rappresenta un buon indicatore della sua tecnicità. Il tasso di mono­ semia spesso va aumentando nel tempo, di pari passo con la stabilizzazione del significato di un tecnicismo. Fino alla metà dell’Ottocento, per esempio, la parola cilindro poteva indicare in fisica sia il solido geome­ trico sia l’asse di rotazione di un oggetto; in séguito ha perso del tutto il secondo significato. L’aspetto individuante di una lingua speciale risiede nel lessico, ma un’importanza notevole hanno anche al­ cune caratteristiche sintattiche e testuali. Tra le caratteri­ stiche delle lingue speciali che esulano dall’àmbito lessi­ cale, si possono menzionare:

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I tecnicismi

Capitolo 5 - Le lingue speciali

Λ Γ Ι*Κ Ο Γ Ο Ν η ΐΜ Ε -Ν IO



M O N O S E M IA E PO LISEM IA

Un linguaggio si dice univoco quando è improntato alla monosemia: a ogni se­ gno che lo compone è possibile attribuire un solo significato. Per esempio, usa un linguaggio univoco il semaforo: il colore rosso indica che bisogna fermarsi, senza possibilità di diversa interpretazione. La monosemia, però, non è una ca­ ratteristica naturale delle lingue: può essere raggiunta solo con un’esposizione particolarmente attenta e rigorosa, come quella di un trattato scientifico (che non a caso dedica grande attenzione alla definizione della terminologia) o di un testo giuridico, La condizione naturale di una lingua comune è infatti la polisemia: un elemento linguistico può avere più significati distinti o più sfumature di significato.

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La formula greggia B a02 + H2S 0 4 -> B aS04 + H20 2 corrisponde, nel codice verbale, alla seguente esecuzione: «Il perossido di bario, combinato con l’acido solforico, dà solfato di bario e acqua ossige­ nata».

P1RIMIDINE

FURINE

Fig. 7. Le basi azotate della molecola del d n a .

N- Il 'N - v

tim ina'° DNA

■ il potenziamento del nome rispetto al verbo (invece di dire: «Al­ cuni autori hanno rilevato che i prodotti che contengono cortiso­ ne possono avere effetti tossici», si dirà: «Alcuni autori hanno rilevato la possibile tossicità di prodotti cortisonici»); ■ la deagentivizzazìone, cioè la preferenza per le frasi senza sog­ getto esplicito o, al passivo, senza complemento d’agente (per esempio: «In questi pazienti sono state segnalate aritmie ventri­ colari»); ■ l’alto grado di coesione testuale, ottenuto tramite un continuo riferimento anaforico (ovvero a ciò che precede: detta ipotesi, in base a quanto dimostrato, cfr. supra ecc.) o cataforico (a ciò che segue: come si vedrà più avanti, vedi infra ecc.).

Il linguaggio settoriale

Il numero delle lingue speciali è potenzialmente aperto: alcune han­ no un grado di tecnifìcazione molto alto (la lingua della matematica, della medicina, di certe branche della linguistica); altre, un grado minore (la lingua del diritto, della burocrazia, dell’economia). In al­ cuni casi non si ha una varietà omogenea, ma la somma di elementi tratti da diversi campi del sapere (come accade nel linguaggio pub­ blicitario o in quello giornalistico, nei quali convivono componenti burocratiche, economiche, sportive ecc.). Accanto a lingua speciale, si parla anche di linguaggio settoria­ le. Il termine linguaggio risulta appropriato, in particolare, quando si fa riferimento non solo al codice verbale, ma anche ad altri tipi di comunicazione. In chimica, per esempio, è possibile trasmettere lo stesso tipo di informazione attraverso il codice verbale o attraverso una formula - greggia o di struttura - che traduce in modo schema­ tico, ma pienamente esauriente, fenomeni anche molto complessi.

η

I- H N

< T \N V O

atesina

Nel linguaggio della chimica sono compresenti l’elemento verbale, quello logico-simbolico e quello grafico. Nella rap­ presentazione degli amminoacidi che compongono la mole­ cola del d n a vengono impiegati così i nomi scientifici delle molecole (adenina, timina, citosina, guanina), i simboli degli elementi chimici (H ‘idrogeno’, N ‘azoto’, O ‘ossigeno’) e la struttura grafica “a bastoncelli”, che indica i rapporti tra gli elementi della molecola (un solo trattino = legame atomico singolo, due trattini = legame doppio e così via).

5.2 I tecnicismi L’esigenza di denominare in modo preciso e inequivocabile oggetti, concetti, eventi estranei all’attività quotidiana (e dunque alla lingua comune) ha fatto sì che le scienze - ma anche alcune attività pro­ fessionali, e alcuni specifici settori dell’attività umana - abbiano sviluppato un lessico peculiare, costituito da vocaboli che ricorrono solo in quel determinato àmbito. Accanto a questi vocaboli (che definiremo tecnicismi specifici), ciascuna lingua speciale impiega - in misura più o meno larga - un certo numero di tecnicismi collaterali. Rientrano in questa seconda categoria espressioni stereotipiche che, a rigore, non sono necessarie all’esigenza di univocità e denotatività, ma vengono adoperate per-

I tecnicismi specifici

I tecnicismi collaterali

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I tecnicismi

Capitolo 5 - Le lingue speciali

Le fonti dei linguaggi scientifici

TF1TO

ché conferiscono al testo un tono di maggiore adeguatezza stilistica: una connotazione tecnica che rende immediatamente riconoscibile l’àmbito di provenienza di un testo e l’appartenenza di chi scrive a una comunità di specialisti. Non stupirà - dato che per molti secoli la lingua delle scienze è stata esclusivamente il latino - che ancora oggi la principale fonte dei linguaggi scientifici siano le lingue classiche: molto alta è, anche nelle nuove formazioni, la quota di latinismi e di grecismi. Altre volte (così accade spesso nella fìsica, in cui resta forte l’eredità di Galileo), si utilizzano come tecnicismi parole della lingua comune, alle quali viene attribuito un nuovo significato specifico (si parla allora di tecnificazione di una parola). Dalla chimica si può trarre l’esempio del termine base che, tecnificato, acquista il preciso valo­ re di ‘sostanza chimica capace, a seconda delle circostanze e delle caratteristiche di soluzione, di acquisire protoni da un’altra specie chimica o di cedere a questa doppietti elettronici (coppie di elettroni di spin opposto situati nello stesso orbitale di un atomo)’.

L A T E R M IN G L O filA S C lt N T in C f t G A L IL E IA N A

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cono essere eguale a quella circolar superfìcie che è base della parte della scodel­ la, che è come se dicessimo un nastro di larghezza quanta è la linea gì (notate intanto che cosa sono le definizioni de i matematici, che sono una imposizion di nomi, o vogliam dire abbreviazioni di parlare, ordinate ed introdotte per levar lo stento tedioso che voi ed io sentiamo di presente per non aver convenuto insieme di chiamar, v.g. [verbi gratia ‘per esempio’] questa superfìcie, nastro circolare e quel solido acutissimo della scodella rasoio rotondo).

Accanto a parole di origine dotta, che pure non disdegna (emisferio, cono, superfì­ cie), Galileo ricorre a parole tratte direttamente dalla lingua quotidiana (scodella, nastro, rasoio rotondo), impiegandole, in alcuni casi grazie all’analogia con la loro forma, per identificare precise realtà geometriche (le sezioni di cono, per esem­ pio). Come sottolinea lo stesso Galileo, ci sarebbero state parole di forma più cólta per riferirsi alle stesse realtà, ma il loro uso avrebbe aumentato «lo stento tedioso» (la noiosa difficoltà) di comprendere i passaggi della dimostrazione, che risultano invece più chiari se affidati a una terminologia più familiare, intuitiva e comprensibile. Testo da Edizione nazionale delle opere di Galileo Galilei, diretta da A. Favaro, voi. vili, Barbera, Firenze 1898, p. 74.

Dobbiamo a Galileo Galilei ( 1564-1642) non solo la nascita del moderno me­ todo sperimentale, ma anche un contributo essenziale all’attuale terminologia delle scienze matematiche e della fìsica in particolare. La produzione di parole scientifiche si ispirava, in Galileo, a un principio di chiarezza espositiva: le verità naturali dovevano essere comprese dal maggior numero di persone possibile e, per raggiungere questo scopo, la lingua impiegata non doveva essere troppo lon­ tana da quella comune. Le parole scientifiche venivano spesso scelte da Galileo tra forme che possedevano già una circolazione nella lingua di tutti i giorni, cari­ cate appositamente (e spesso per analogia con realtà usuali e familiari) di precisi significati scientifici. Tra le parole della fìsica e dell’astronomia coniate da Galileo o da lui rivestite di una nuova accuratezza scientifica abbiamo per esempio forza, velocità, momento, impeto, molla (non solo il noto strumento meccanico, ma anche ‘forza elastica’), strofinamento (sopravvissuto nella locuzione elettricità per strofina­ mento), fulcro, terminatore (‘linea che separa la luce dalle tenebre sulla superficie di un astro'). Un esempio evidente dell’atteggiamento di Galileo nei confronti della terminologia scientifica si ritrova per esempio in questo brano dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze ( 1638), contenente una dimostrazione geometrica: Voglio che ci immaginiamo esser levato via l’emisferio, lasciando però il cono e quello che rimarrà del cilindro, il quale, dalla figura che riterrà simile a una scodel­ la, chiameremo pure scodella. [...] E di più si proverà, la base ancora del medesimo

Negli ultimi decenni, anche nei linguaggi scientifici si è fatta senti­ re l’influenza della nuova lingua di comunicazione internazionale: l’inglese. Sempre più numerose sono le riviste scientifiche di tutto il mondo che pubblicano solo contributi scritti in inglese e anche le riviste scientifiche italiane, quando non hanno direttamente i propri articoli scritti in inglese, presentano sempre il riassunto (abstract) nella lingua più diffusa a livello internazionale. Tutto ciò ha determinato un considerevole aumento della presen­ za di anglicismi nell’italiano scientifico e tecnico. Si va dalle forme non adattate, direttamente prelevate dall’àmbito di riferimento (in fisica: range ‘intervallo di valori di una misura’; in medicina: cutter ‘strumento chirurgico di taglio’), a prestiti parzialmente adattati se­ condo le regole di formazione dell’italiano (in statistica: randomizzare ‘rendere casuale l ’acquisizione di un insieme di valori’), oppu­ re all’attribuzione di significati tecnici a parole italiane sull’esempio di un modello inglese (in medicina: morbidìtà ‘stato di malattia di un paziente’, dal valore dell’inglese tecnico morbidity). Nella continua creazione di parole nuove che le caratterizza (legata al rapido e incessante sviluppo delle conoscenze scientifiche), queste

Gli anglicismi

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Capitolo 5 - Le lingue speciali

Procedimenti di affissazione e composizione

lingue speciali ricorrono soprattutto ai procedimenti di affissazione e di composizione, che hanno il triplice vantaggio di 1) utilizzare relativa­ mente pochi elementi formativi, 2) essere molto trasparenti e 3) crea­ re classi di vocaboli aperte. A differenza di quanto accade nella lingua comune, infatti, in cui uno stesso prefisso o suffisso può avere diverse funzioni e corrispondere a differenti sfumature di significato, nel lessico scientifico Γ impiego di questi elementi risponde a regole rigide. Queste regole da un lato creano un rapporto biunivoco tra vo­ cabolo e significato, dall’altro consentono di utilizzare l’elemento in unione con qualsiasi base, generando una parola dal significato immediatamente comprensibile. Così, per esempio, in chimica il suffisso -ato designa i nomi dei sali derivati da acidi (zolfo -> sol­ fato), -ico indica composti organici quasi sempre acidi (benzoico) o, in chimica inorganica, composti di un elemento a valenza mag­ giore rispetto a quelli a valenza minore, identificati dal suffisso -oso (ferrico/ferroso). Non è raro, inoltre, che alcuni vocaboli composti vengano ridotti a sigle, molto più maneggevoli nell’uso (così per esempio d d t per dìcloro-difenil-tricloroetano).

5.3 II linguaggio delle scienze “dure”

Scienze dure/molli

Caratteristiche delle lingue scientifiche dure

Con l ’espressione scienze dure ci si riferisce comunemente alle di­ scipline che si servono del metodo sperimentale per l’indagine della realtà e sottopongono i risultati dei propri studi a una rigida e siste­ matica matematizzazione (conversione in termini logico-numerici degli elementi della realtà e dei rapporti che li legano). Tradizional­ mente, vengono considerate dure (dall’inglese hard) scienze come la matematica, la fisica e la chimica, mentre si ritengono molli (inglese soft) discipline come la psicologia, l’antropologia, l’economia; in qualche misura anche la biologia e la medicina, che - pur basando le proprie conclusioni sulla conduzione di esperimenti regolati - non possono ricorrere sempre allo strumento matematico per descriver­ ne e spiegarne ogni implicazione. Tra le lingue speciali, la lingua delle scienze a base matematica è di certo quella che possiede il più alto tasso di tecnicità: tutti i suoi termini, infatti, sono legati ai rispettivi significati da un rapporto molto rigido, che ne garantisce spesso l’assoluta univocità. Questo ne fa un modello per tutte le altre lingue speciali e fa sì che le ca­ ratteristiche tipiche delle lingue scientifiche dure si ritrovino anche in molte altre lingue speciali, sebbene in grado minore. In queste caratteristiche distintive, segnaliamo almeno le principali. ■ Il ricorso molto più frequente alla lingua comune per creare tecni­ cismi specifici (tecnificazione o risemantizzazione). Il fenomeno

Il linguaggio delle scienze “dure’

è frequentissimo per esempio nella lingua della fisica, che indica con termini di questo genere alcuni dei propri concetti fondamen­ tali (forza, lavoro, massa - originariamente riferito all’ammasso della pasta per fare il pane -, quiete e riposo, campo, zona, parti­ cella). Il materiale lessicale proviene in misura consistente anche dalle lingue classiche, come il latino (per la matematica: Unzione, operazione; per la chimica: soluzione·, per la geometria: genera­ trice, direttrice, frattale', per la fisica: quanto) e il greco (ellisse, iperbole, fluido, gas, plasma o menisco, che, secondo il fenomeno del transfert, ha attraversato nel tempo tre lingue speciali: la ge­ ometria - nel quale è nato - la chimica e la medicina). Più di re­ cente, un apporto importante viene dall’inglese, che ha aumentato enormemente la sua presenza (run ‘esperimento’, quark, pulsar). ■ Sono molto più abbondanti i derivati, spesso creati a partire da suffissi organizzati in sistemi molto rigorosi (come quello, già citato, della nomenclatura chimica), o creati appositamente per descrivere gli elementi di un nuovo campo di ricerca. Si pensi per esempio, per la fisica, al suffiso -one, introdotto nel corso del Novecento per nominare le particelle elementari (neutrone, pro­ tone, elettrone, fotone e - più recentemente - bosone efermione, dai nomi dei fisici Bose e Fermi). ■ Si registra una maggiore produzione di sigle e formazioni abbre­ viate, che sono spesso totalmente sconosciute al grande pubbli­ co, in quanto pensate soprattutto per le esigenze di servizio degli addetti ai lavori. Questa circolazione ristretta, inoltre, sembra favorire formazioni evocative, che rimandano a figure e concetti extrascientifici, anche a costo di violare le consuete regole di formazione di una sigla. Si pensi ad atlas e alice , nomi di due delle ricerche condotte presso il l h c (Large Hadron Collider) del c e r n (Consiglio europeo per la ricerca nucleare) di Ginevra, corrispondenti rispettivamente a A Toroidal Lue ApparatuS (‘un dispositivo toroidale dell’LHc’) e A Large Ion Collider Experiment (‘un grande esperimento di collisione di ioni’). A P P IlO r O N U IrfL H T O

✓ T R A N S F E R T F T E C N IF IC A Z IO N F

In linguistica va sotto il nome di transfert il processo semantico per il quale un termine o una locuzione appartenente a una lingua speciale “migra” in un altro linguaggio settoriale, cambiando in parte o in tutto il significato originario. Si tratta di un fenomeno che interessa la cosiddetta “dimensione orizzontale” delle lingue speciali, vale a dire l’insieme dei rapporti tra i campi di conoscenza descritti e tra i codici linguistici attraverso i quali si esprime questa descrizione.

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Capitolo 5 - Le lingue speciali

I transfert sono molto frequenti tra le lingue delle scienze dure: orbita ‘percorso di un corpo celeste intorno a un altro’ (astrofìsica) -» orbitale ‘spazio occupato dagli elettroni con la medesima energia intorno al nucleo di un atomo’ (chimica); vettore ‘rappresentazione geometrica di enti non scalari’ (matematica) —> vettore ‘dispositivo per la messa in orbita di strumenti e veicoli’ (ingegneria aerospaziale); costellazione ‘insieme convenzionale di stelle sulla volta celeste’ (astronomia) -> costellazione ‘sistema di satelliti dedicati allo stesso servizio’ (telecomunicazioni). Avvengono inoltre più facilmente da lingue speciali ad alta tecnicità verso lingue a tecnicità più bassa: il calcio ha preso dalla matematica il termine diagonale ‘tiro diretto verso il palo di porta più lontano dal calciatore’, ma un testo di geometria non chiamerebbe certo traversone la retta che unisce gli angoli opposti di un poli­ gono. Quando il travaso lessicale avviene dalla lingua comune a una lingua speciale non si parla di transfert, ma di tecnificazione. È il processo, appartenente alla dimen­ sione verticale delle lingue settoriali (cioè ai rapporti tra i registri comunicativi propri di ogni lingua speciale e tra questa e la lingua non specializzata), per il quale parole comuni assumono un significato tecnico preciso e univoco: come nel caso già visto di forza, momento, campo per la fisica; o di altezza, profondità per la geometria; potenza, resto per la matematica.

Il testo scientifico duro si caratterizza, infine, per una costante pre­ senza dello strumento matematico sotto forma di formule, tabel­ le, diagrammi e grafici, che spesso rappresentano la vera ossatura concettuale del discorso. Anche per questo motivo la lingua sembra svolgere spesso una funzione quasi subalterna - di collegamento e introduzione - rispetto all’elemento formalizzato rappresentato dalla matematica. La sintassi, dunque, viene estremamente semplificata: le frasi sono brevi e rigidamente coordinate, ed è frequente l’uso di formule di raccordo e di snodo tra le varie parti del discorso (è noto, ammesso che, ne segue, dato che, dipende da, si ottiene, abbiamo), ripetute con grande frequenza e anche a breve distanza. Si fanno prevalere, insomma, Γefficienza dell’argomentazione e la chiarezza del processo comunicativo sulla gradevolezza della lettura.

5.4 II linguaggio giuridico e burocratico Impronta tradizionale del linguaggio

II linguaggio giuridico si presenta innanzitutto con una forte impronta tradizionale, testimoniata a livello sintattico dall’utilizzo di frasi complesse, ricche di subordinate, che riflettono uno stile di tono sostenuto. A livello lessicale, quest’impronta è confermata

Il linguaggio giuridico e burocratico

dalla presenza - tra i tecnicismi specifici - di numerosi latinismi non adattati, che si spiegano ricordando la diretta provenienza del diritto italiano dalla tradizione giuridica romana (un tipico esempio di derivazione diretta dal latino è la locuzione de cuìus, usata per indicare la persona defunta che lascia in eredità un patrimonio, dalla locuzione più estesa de cuius hereditate agitur ‘della cui eredità si tratta’). Non mancano, tuttavia, esempi più recenti di forestierismi tratti dall’inglese, che identificano, per esempio, alcune forme di contratto commerciale come il leasing, il franchising e il factoring. Ma questo allontanarsi dalla lingua comune - di solito avver­ tito con fastidio dai parlanti, specie quando il suo uso si trasmette alla lingua burocratica - non può essere quasi mai considerato un semplice vezzo (come nel caso di sinonimi quali effettuare e rea­ lizzare per fare, o portarsi per andare). In molti casi, il ricorso al tecnicismo è l’unico modo per evitare quell’ambiguità che - senza conseguenze nella lingua comune - avrebbe effetti disastrosi in un testo che ha valore di legge: così, per esempio, nella distinzione tra multa e ammenda, o tra amnistia e indulto. L’esigenza di generalizzazione e di astrazione tipica del linguag­ gio giuridico, inoltre, si rispecchia nella presenza di numerosi so­ stantivi deverbali e deaggettivali. Fra le altre caratteristiche peculiari di questo tipo di linguaggi, andranno ricordate:

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II tecnicismo evita l’ambiguità

Peculiarità del linguaggio giuridico

■ la predilezione per i costrutti assoluti (ferme restando le norme di attuazione, salvi i diritti dei terzi ecc.) e in genere per i modi nominali del verbo (tipico l’uso del participio presente con valo­ re verbale: un’azione avente come obiettivo·, alcuni participi par­ ticolarmente diffusi sono usati ormai come sostantivi: attenuante da circostanza attenuante-, o anche delegante, proponente); ■ l ’uso di forme impersonali con il si (sì ritiene che..., si dispone che...)\ ■ la frequenza di formule brachilogiche (dal greco brakhùs ‘cor­ to’ e logos ‘frase’: frasi particolarmente concise, risultanti da un’ellissi o dalla mancanza di qualche parte del discorso data per sottintesa: la concessione di cui all’art. 13 &simili) e di formule anaforiche (conformemente a quanto è prescritto nel precedente articolo, le disposizioni di cui sopra o anche predetto, summen­ zionato) e cataforiche (le ritenute d ’acconto di cui appresso). Queste caratteristiche, inoltre, sono generalmente condivise dalla lin­ gua della burocrazia, che con quella giuridica intrattiene uno stretto rap­ porto. La gran parte dei testi amministrativi e burocratici nasce infatti in ambiente giuridico, anche se lo stile e il lessico legati alla produzione ufficiale di documenti travalicano spesso questo àmbito ristretto, ab-

Rapporto tra linguaggio giuridico e burocratico

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Capitolo 5 - Le lingue speciali

Peculiarità del linguaggio burocratico

Il linguaggio medico

bracciando situazioni comunicative molto diverse e rivolte a un vasto pubblico: dal sollecito di pagamento dell’Agenzia delle Entrate fino alle norme di sicurezza esposte nei vagoni di una metropolitana. Ad acco­ munare testi di natura tanto diversa sono alcune caratteristiche specifiche, che si sommano a quelle tipiche del linguaggio giuridico: m innalzamento generale e spesso artificioso (in quanto privo di una vera utilità comunicativa) dello stile rispetto al tono usuale, condotto attraverso l’impiego di materiale letterario (a lc u n o per nessuno-, e s o d o per fuga-, c o d e s to con valore anaforico), perifrasi descrittive di sapore latamente tecnico (m o n e ta d iv is io n a le per s p ic c io li) o sinonimi di lunghezza maggiore, ritenuti più adatti a soddisfare la necessità di astrazione (m e to d o lo g ie per m etodi-, d o c u m e n ta z io n e per docu m enti-, n o m in a tiv o per n o m e); ■ scarsa presenza di tecnicismi specifici (tra i pochi: fin c a tu r a ‘di­ visione in colonne o righe delle pagine di un registro’, v e lin a r io ‘contenitore delle copie degli atti prodotti’) a fronte di un altis­ simo numero di tecnicismi collaterali, spesso con valore eufe­ mistico: n o n v e d e n te per c ie c o , r is tr e tto per c a r c e r a to , m a n c a to a c c o g lim e n to per rifiu to , m e s s a in m o b ilità per lic e n zia m e n to ; ■ tendenza alla ridondanza del significato, soprattutto con l’uso di aggettivi e avverbi in contesti altamente prevedibili: a p p o s ito c a r te llo , p r e n d e r e b u o n a n o ta , d ir itto a c q u is ito , e le n c o d e b i ta ­ m e n te tim b r a to

A P I 'ltU h O N lliM r N T O

e simili.

✓ C O S T R U T T I ASSO LU TI E M O D I N O M IN A L I DELVERBO

Si dicono costrutti sintattici assoluti (sul modello del cosiddetto “ablativo assolu­ to” latino), le proposizioni subordinate implicite che hanno un soggetto diverso da quello della proposizione reggente (e ne sono dunque assolute ‘sciolte’). I due costrutti assoluti possibili in italiano s’imperniano sul gerundio e sul partici­ pio. Il gerundio assoluto può avere valore causale (arrivando in continuazione nuovi clienti, il negozio non riuscì più a far fronte alle richieste), o temporale (passando i minu­ ti, cominciava a spazientirsi); quasi analoghe sono le funzioni del participio assoluto (sempre il participio passato): perse tutte le speranze, sono tornati indietro; finita la pioggia, uscirono di casa.

Gerundio, participio e infinito (tradizionalmente designati come “modi indefini­ ti”) costituiscono i cosiddetti “modi nominali” del verbo. Si tratta di forme che assumono di volta in volta il valore di modo del corrispondente verbo finito: per esempio presa dal lato giusto, non sarebbe una cattiva persona (‘se venisse presa’: modo congiuntivo richiesto dalla supposizione), ma presa dal lato giusto, non ha fatto nessuna difficoltà (‘una volta presa’: modo indicativo, in quanto dato reale).

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5.5 II linguaggio medico Nell’insieme delle lingue scientifiche, quella della medicina si di­ stingue per una grande ricchezza terminologica (al punto che, in un comune dizionario dell’uso, quasi un lemma su venti proviene dall’àmbito medico) e per una fortissima presenza anche nella lin­ gua comune, dovuta alle molte occasioni di contatto del grande pub­ blico con il sapere medico. Per rendersi conto della frequenza con la quale è possibile imbattersi in una parola della medicina, basti pensare a termini come o c c h io e f e g a to , appartenenti anche al lessi­ co fondamentale dell’italiano. Rispetto ad altre lingue speciali d’àmbito scientifico, quella della medicina appare ancora oggi legata a caratteristiche tradizionali. A confronto di ciò che accade nella fisica o nella chimica, per esempio, hanno una parte minore le formalizzazioni estreme rappresentate dalle formule. Le fonti privilegiate del lessico medico rimangono, in particolare, le due lingue classiche. Il greco, diffuso soprattutto nella patologia: la descrizione delle malattie e dei loro sintomi (molti i grecismi usati in combinazioni moderne di due o più elementi: per esempio a n a to m o p a to lo g ic o , p o lic r o m a to filìa , lin fo m o n o c ito si); e il latino, più frequente per ragioni storiche nell 'a n a to m ia : la descri­ zione del corpo umano, dei suoi organi e degli eventi che lo riguar­ dano (si registrano sia latinismi crudi, come ex itu s ‘morte’ o ictu s, sia adattati, come in d ù ito ‘copertura, rivestimento’ o v e r te b r a ). Più rare le parole provenienti dall’arabo, lingua che - dopo esse­ re stata determinante nel Medioevo - comincia a perdere influenza sul lessico medico a partire dal Cinquecento (tra gli arabismi ricor­ diamo almeno n u ca , p i a m a d re e d u ra m a d re - nome delle meningi del cervello - e p o m o d ’A d a m o ). Analogamente a quanto accade per altre lingue scientifiche, in anni recenti si è verificato anche in questo campo un continuo aumento della presenza degli anglicismi: tra i molti, è possibile citare sc re e n in g ‘esame’, b y -p a s s , c le a r a n c e ‘indice di depurazione da una sostanza’, p a tc h ‘innesto’). Nella formazione del lessico medico hanno grande importanza i processi di composizione, basati molto spesso - come abbiamo visto - su materiale tratto dalle lingue classiche (s a c r o -lo m b a r e , m eg a lo s p le n ìa , c h iro m e g a lia ), ma anche su elementi moderni (d o s e -d ìp e n d e n te , a ld o s te r o n e -s e n s ib ile ) e addirittura sulle sigle (ACE-inibito re , Ig E -m e d ia te ). Molto importante è anche l’impiego di suffissi specializzati, seppure in modo meno rigoroso e complesso rispetto alla chimica. Si possono citare, per esempio, tra i suffissi propri della patologia: -ite , che indica un processo infiammatorio riguar­ dante l’organo espresso dalla base (n e frite ‘infammazione dei reni’, b ro n c h ite ‘infiammazione dei bronchi’); -o si, riferito a patologie di

Ricchezza terminologica, forte presenza nella lingua comune

Le due lingue classiche, fonti privilegiate

Arabismi e anglicismi

Processi di composizione

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Capitolo 5 - Le lingue speciali

Caratteristiche principali

Il linguaggio medico

carattere degenerativo (artrosi ‘malattia che pregiudica progressiva­ mente il funzionamento delle articolazioni’); -orna, suffisso legato ai tumori (carcinoma, linfoma). In molti casi i composti in -osi si op­ pongono a quelli in -ite per esprimere diverse patologie dello stesso organo: nefrite /nefrosi, epatite /epatosi, artrite Iartrosi. Per quanto riguarda lo stile dei testi medici, si riconosceranno alcune caratteristiche principali, in parte condivise con altre lingue scientifiche, ovvero: ■ la grande diffusione dei tecnicismi collaterali: per esempio spic­ cato per ‘elevato, notevole’ («spiccata affinità antigenica»), in­ teressare /interessamento per riferirsi a fenomeni patologici che riguardano un determinato distretto anatomico; apprezzare ‘rile­ vare’, modesto ‘scarso’ («si apprezza un modesto interessamento delle prime vie aeree»); forme tratte dalla lingua comune, ma usate con un valore molto diverso (sofferenza, che nell’uso co­ mune si riferisce a esseri animati, impiegata qui con il senso di ‘scarsa funzionalità o alterazione di un organo’ e quindi rivolta a elementi inanimati); in alcuni casi, come per la lingua giuridica e burocratica, l’uso di un tecnicismo collaterale è stimolato da spinte eufemistiche (esito infausto per morte, lesioni ripetitive per metastasi tumorali); ■ l a p r o l i f e r a z i o n e d e g l i aggettivi di relazione ( g l i a g g e t t i v i c h e i n ­ d i c a n o i l s e m p l i c e r i f e r i m e n t o a l n o m e ) : p e r e s e m p i o tifo esante­ matico, d a l g r e c i s m o esantema ‘e r u z i o n e c u t a n e a ’ , o tifo murino ‘d e i t o p i ’ r if a t t o s u l l a t i n o

m u s , m u r is

‘t o p o ’ .

■ l’alta frequenza dell’uso del passivo, con lo scopo di rendere il più possibile impersonale l’esposizione dei contenuti scientifici; ■ la concentrazione dell’attenzione comunicativa sul nome, spesso a scapito del verbo, con il largo impiego di frasi completamente nominali (in un referto ospedaliero: «azione cardiaca ritmica ta­ chicardica, non edemi declivi»); ■ il frequente ricorso agli eponimi, cioè a nomi di strutture anato­ miche, malattie ecc. derivati dai nomi di uno scienziato: tube di Falloppio, (morbo di) Basedow e simili; ■ l’abbondanza di sigle che, a differenza di quanto accade per altre discipline scientifiche come la chimica o la fìsica, sono spesso comprese e adoperate comunememente anche dai non speciali­ sti: tac ‘Tomografìa Assiale Computerizzata’, aid s ‘Acquired Tm muno-Defìciency Syndrome’, che in italiano (come in francese e in spagnolo) dovrebbe essere sida ‘Sindrome da immunodefi­ cienza acquisita’.

TESTO

U N ESEMPIO D I TESTO M E D IC O : IL FOG LIETTO IL L U S T R A T IV O

Il foglietto illustrativo associato a un medicinale, che ne descrive modalità d’uso e finalità cliniche, è forse il genere di testo medico più diffuso presso il grande pubblico; eppure il suo livello di tecnicità è generalmente molto alto e prevede la presenza di quasi tutte le caratteristiche proprie del linguaggio medico nel suo complesso. Prendiamo in esame, per esempio, il paragrafo dedicato agli effetti collaterali di un comune antibiotico in commercio: Dopo somministrazione orale di dqritromidna, in studi clinici condotti su pazienti adulti, sono stati riportati alcuni disturbi gastro-intestinali (es.: nausea, pirosi, dolore addominale, vomito e diarrea), cefalea e alterazioni del gusto. Come con gli altri macrolidi, anche con l’uso di claritromicina, sono possibili disfunzioni epatiche con aumento delle transaminasi, sofferenza epato-cellulare elo epatite colostatica con o senza Utero. Dette manifestazioni possono essere anche severe ma reversibili con la sospensione del trattamento. Sono stati segnalati rarissimi casi di insufficienza epatica con esito fatale; quando ciò si è verificato era associato a gravi patologie preesistenti elo trattamenti concomitanti. Sono state segnalate, con l’uso di claritro­ micina, reazioni allergiche che vanno dall’orticaria al rash cutaneo, alla sindrome di Steven-Johnson. Sono riportati anche effetti transitori a carico del sistema nervoso, quali vertigini, acufeni, perdita dell’orientamento, spersonalizzazione, ansia, insonnia, confusione, allucinazioni e psicosi, anche se non è mai stata stabilita una correlazio­ ne certa causa-effetto. In séguito all’assunzione del prodotto sono stati segnalati al­ cuni casi di comparsa di granulocitopenia e perdita dell’udito, manifestazioni peraltro scomparse alla sospensione del trattamento. Altri effetti collaterali segnalati, con l’uso della forma in compresse, includono glossiti, stomatiti, candidosi orale ed aumen­ to dei livelli serici dei seguenti farmaci quando somministrati contemporaneamente quali: astemizolo, alcaloidi della segale, triazolam, midazolam, cidosporina, warfarin, lovastatina, disopiramide, fenitoina e rifabutìna. Come per altri macrolidi, raramente sono stati riportati con claritromicina prolungamento dell’intervallo qt, tachicardia ventricolare e torsade de pointes. Come con altri antibiotici durante la terapìa con claritromicina possono insorgere, raramente, superinfezioni da batteri resistenti o da miceli che richiedono l’interruzione del trattamento e l’adozione di idonee terapie.

Dal punto di vista del lessico, il testo presenta tutti i caratteri più riconoscibili del linguaggio medico: dall’uso dei tecnicismi specifici propri del settore (clarìtromicina, acufene, tachicardìa, batterio ; anche pirosi, che in realtà è un mero si­ nonimo di febbre), alla forte presenza di tecnicismi collaterali (sofferenza ‘disfun­ zione’, severo ‘grave’, somministrare ‘dare’, insorgere ‘apparire’, trattamento ‘cura, terapia’, fino all’eufemismo esito fatale per ‘morte’); dall’alto tasso di aggettivi di relazione (gastro-intestinale, orale, ventricolare, colostatico) all’uso di formazioni

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Il linguaggio dell’informatica

Capitolo 5 - Le lingue speciali

eponime (sindrome di Steven-Johnson), anglicismi (rash) e sigle (intervallo qt). La sintassi è quella tipica dei testi medici di àmbito professionale, basata sul­ la spersonalizzazione dell’espressione e sul distacco dalla materia trattata: nei verbi prevale nettamente l’uso del passivo (sono stati riportati alcuni disturbi; sono stati segnalati gravissimi casi di insufficienza epatica) e soprattutto delle frasi no­ minali, nelle quali un sostantivo (più neutro e privo di connotazioni espressive) si sostituisce completamente al verbo, concentrando su di sé tutta l’attenzione comunicativa (dopo somministrazione orale per dopo aver somministrato per bocca; con la sospensione del trattamento per se il trattamento viene sospeso; in seguito all’assunzione del prodotto invece di dopo aver assunto il prodotto). Testo dai foglietto illustrativo del Macladin 500 - Clarltromicina compresse, 2000,

5.6 II linguaggio dell’informatica Inglese degli USA, fonte diretta e indiretta

Continua immissione di anglicismi

Linguaggio globale quasi per eccellenza, quella dell’informatica è una lingua speciale nella quale quasi ogni termine ed espressione rimanda direttamente o indirettamente all’inglese (in particolare all’inglese degli Stati Uniti, dove la disciplina è nata e si è svilup­ pata). Molto scarsi sono gli apporti da altre lingue. Tra queste il francese, al quale dobbiamo parole molto diffuse come c o n s o lle o su b r o u tin e , oltre allo stesso termine in fo r m a tic a : dal francese inf o r m a tiq u e , a sua volta da in fo r m a (tio n ) + (a u to )m a tiq u e , parola coniata nel 1962 dal direttore generale del Centre d’analyse et de programmation francese, Philippe Dreyfus. Da quando, alla fine degli anni settanta, il p c ( p e r s o n a l c o m p u te r) ha reso accessibile anche ai singoli utenti l’acquisto di un computer, l ’informatica è via via diventata - anche in Italia - un fenomeno di massa. Ma la nostra lingua non è riuscita a reagire alla conti­ nua immissione di anglicismi, Certo, in molti casi la traduzione del linguaggio f r ie n d ly (amichevole) dell’informatica americana, in cui gergo e tecnicismo non sono del tutto distinguibili, sarebbe risultata quasi ridicola in italiano. Basti pensare che alcune parti della memo­ ria si chiamano b u c k e t ‘secchio’, c a c h e ‘nascondiglio’, s ta c k ‘muc­ chio’; una scheda di circuiti inserita su un’altra è detta p ig g y b a c k ‘a cavalluccio’; il blocco del c o m p u te r è il d e a d - lo c k ‘arresto mortale’. Così, solo in qualche caso si è ricorsi al calco (tra i più fortu­ nati: f in e s tr a /w in d o w , c a r te lla /d ir e c to r y , d is c o r ig id o /h a r d d isk , le tto r e o ttic o /s c a n n e r ), preferendo quasi sempre accettare l’angli­ cismo crudo (h a rd w a re , s o ftw a r e , b a c k u p , d e fa u lt ecc.) e ricorrendo di rado all’adattamento fonetico (come in c o m p a tib ile , in te r a ttiv o ), più spesso a un adattamento morfologico dei derivati ( fo r m a tta r e ,

scannerizzazione, computerizzato; addirittura accatiemmellista, da linguaggio di programmazione delle pagine web di Internet), il che peraltro conferma il radicamento di questi prestiti nella nostra lingua. In un numero ristretto di casi, infine, la strada scelta è sta­ ta quella dell’attribuzione di un nuovo significato tecnico a parole della lingua comune, seppure spesso dietro Tinflusso di parole in­ glesi con la medesima forma (installazione, linguaggio, procedura, supporto). Dell’inglese informatico si è accolta anche la tendenza all’impiego di numerose sigle che, ormai cristallizzate, non hanno per i parlanti italiani alcuna trasparenza: quanti utenti, anche ben informati, sanno che a scii sta per American Standard Code fa r In­ formation Interchange, bios per Basic Input Output System e m i d i per Musical Instruments Digital Interface? Negli ultimi anni, tuttavia, anche sull’onda della sempre maggio­ re diffusione delle conoscenze informatiche e delle versioni tradotte dei programmi più in uso, si registra la crescente tendenza a sosti­ tuire gli anglicismi non adattati con alternative italiane che in più di un caso sembrano prevalere nell’uso sulla forma straniera: pensiamo per esempio a carattere per font, invio per enter, salva schermo per screen-saver, scaricare per download; ancora in competizione sono ink-jet e (a) getto d ’inchiostro, desktop e scrivania, hard disc (o hard disk) e disco rigido, scheda madre e motherboard.

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A P I'ltO I O N D IM l N IO

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Aumento delle alternative italiane

✓ IT A L IA N O E INGLESE N EL LIN G U A G G IO D ELLA PO STA E LE T T R O N IC A

La terminologia della posta elettronica è uno dei pochi àmbiti della lingua dell’in­ formatica nel quale II numero dei vocaboli italiani prevale nettamente su quello degli anglicismi non adattati, Il fenomeno si deve probabilmente all’antichità e alla diffusione della scrittura epistolare (alla quale la posta elettronica implicitamen­ te si riferisce) e alla conseguente familiarità di molti dei suoi termini, che sono passati con facilità nell’àmbito dell’e-mail. Accade così che inoltro venga preferito comunemente all’inglese forward; allegato ad attachment; destinatario, mittente e oggetto a recipient, sender e subject; risposta a reply e così via. Non sarà un caso se gli anglicismi sopravvivono solo in corrispondenza di elementi totalmente nuo­ vi, che riguardano specificamente le caratteristiche del mezzo di comunicazione e non trovano corrispondenze con la vecchia epistolarità (account ‘servizio di posta’, client ‘programma di gestione della e-mail’), Si tratta nel complesso di un caso di transfert terminologico da un àmbito settoriale più antico a uno affine, ma più moderno; simile a quello che interessò l’aeronautica all’inizio del Novecento, quando la tecnica del volo prese a prestito numerose parole dalla terminologia nautica (navigazione, strumenti di bordo, equipaggio, aeroporto, velocità di crociera).

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Capitolo 5 - Le lingue speciali

Il caso di altre lingue europee

Altre lingue europee - come il francese, lo spagnolo e in misura minore il tedesco - hanno opposto invece una precoce e coscien­ te resistenza alla penetrazione delle forme straniere. In Francia, la reazione all’invasione di anglicismi informatici ha avuto - com’è nella tradizione di quel paese - una veste ufficiale, coinvolgendo anche l’Académie franqaise. Si è così giunti alla traduzione di gran parte della terminologia (anche se in alcuni casi la concorrenza del termine inglese è particolarmente forte: per esempio bit continua a essere usato accanto a eb ‘élément binaire’). Fra le varie traduzioni: computer —ì ordinateur,file —>fichier, mouse —> souris letteralmen­ te ‘topo’, hardware —> matériel, software —> logiciel. Anche le sigle sono tradotte, come d’abitudine, in francese: ram —> m ev ( ‘Mémoire Vive’). Anche in tedesco si ha, per esempio, file —> Datei, directory -> Inhaltsverzeichnis o disk -» Piatte·, e in spagnolo file —>fichero, software —» programeria.

5.7 II linguaggio dell’economia e della finanza

Lingua dell’economia

Per loro stessa natura, le discipline economico-finanziarie coinvol­ gono diversi àmbiti, da quello delle scienze economiche descrittive e storiche (economia politica, economia tributaria, socioeconomia) a quello delle transazioni commerciali e finanziarie, rappresentato dall’attività della borsa, delle banche e delle imprese. Questo fa sì che la lingua dell’economia e della finanza assuma caratteristiche differenti a seconda che la sua produzione risalga alla comunità scientifica internazionale oppure al mondo professionale, agli ad­ detti ai lavori del settore. Nel primo caso, si può parlare di lingua dell’economia in sen­ so proprio: un linguaggio scientifico a tutti gli effetti, caratteristico di alcuni documenti molto rigorosi quanto alla forma, come i testi legislativi di materia economica, i manuali universitari e la stampa giornalistica specializzata. Dal punto di vista dello stile, la lingua dell’economia non presenta caratteristiche diverse da quelle di altre lingue speciali: uso di tabelle, grafici e formule; tendenza a privile­ giare il nome sul verbo e a impiegare frasi nominali; largo uso del passivo e delle forme impersonali dei verbi; per quanto riguarda la composizione dei testi, predilezione per paragrafi brevi e frasi con­ cise, scandite da un frequente impiego del punto fermo. Il lessico, come spesso accade per discipline di respiro intema­ zionale, si caratterizza per una fortissima presenza di anglicismi, che si alternano in diversa misura a equivalenti forme italiane, spes­ so rappresentate da perifrasi descrittive. Da questo punto di vista,

Il linguaggio dell’economia e della finanza

dunque, il linguaggio economico-finanziario si distingue dalle altre lingue speciali, che di norma evitano il ricorso ai sinonimi per ra­ gioni di chiarezza e precisione. Il rapporto tra anglicismo e forma italiana può presentarsi, generalmente, in tre modi diversi:

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Rapporto tra anglicismi e forma italiana

1. l’equivalente italiano ha la stessa frequenza del prestito ingle­ se (fuori borsa / over thè counter, mercato azionario / Stock Exchange, obbligazione / bond, impresa in partecipazione / joint venture)·, in molti casi a un anglicismo non adattato corrisponde una forma ibrida, composta da materiale linguistico sia italiano sia anglosassone (cali option / opzione cali, put option / opzione put)·, 2. il prestito inglese è più frequente della forma italiana, pure di­ sponibile: per esempio cash flow è preferito a flusso di cassa, spread a differenziale di rendimento, share ad azione (almeno nell’uso specializzato: nella lingua comune la forma italiana è ancora nettamente maggioritaria); in molti casi l’anglicismo vie­ ne privilegiato per la sua concisione, in quanto l’unico equiva­ lente possibile è rappresentato da una lunga perifrasi: è il caso di underlying security per attività finanziaria sottostante o del notissimo rating per classificazione per valutare il merito cre­ ditizio·,,, 3. l’anglicismo rappresenta l’unica forma disponibile, non esisten­ do un reale equivalente italiano (per esempio futures ‘contratto a termine con clausole estremamente vincolanti’, swap ‘flusso di denaro tra due soggetti che hanno sottoscritto un’obbligazione’, market maker ‘operatore finanziario che propone acquisti e ven­ dite di titoli in tempo reale’). Il secondo livello del linguaggio economico-finanziario è rappre­ sentato dalla lingua di impiegati, dirigenti e operatori economici all’interno delle imprese: quello che a volte viene chiamato spre­ giativamente aziendalese o corporatese (dall’inglese corporation ‘azienda di grandi dimensioni’). La lingua dell’impresa condivide molte caratteristiche con quella della burocrazia, a partire dal fatto che non risponde a veri criteri di tecnicità. Le sue scelte linguisti­ che non dipendono dall’esigenza di denominare in modo univoco gli elementi propri di un settore, ma dal bisogno di un codice stilistico, che contraddistingua gli addetti ai lavori. Questa caratteristica è particolarmente evidente nel lessico, intes­ suto di elementi dal suono e dalla forma ricercata, ma perfettamente sostituibili da elementi più semplici e vicini all’uso comune. Si ricorre largamente, per esempio, a nomi astratti di tono elevato (problemati­ ca e criticità per problema, sinergia per collaborazione, paradigma

L’aziendalese o corporatese

Il lessico

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Capitolo 5 - Le lingue speciali

Il linguaggio sportivo

per modello, usabilità, performante). E soprattutto - ispirandosi alla lingua dell’economia scientifica - a un altissimo numero di angli­ cismi non necessari, sia integrali (policy ‘regole, condizioni’, draft ‘bozza’, feedback ‘risposta’, ldckoff ‘avvio’) sia adattati (inizializzare per cominciare, ottimizzare per rendere efficiente, upgradare per ag­ giornare, implementare ‘sviluppare’, proattivo lavoratore —> lavorazione —> lavorativo —> lavorabile —>lavorio

■ Nel paradigma a cumulo, invece, la derivazione avviene con una serie di trasformazioni successive a partire dalla medesima base lessicale. Per esempio: idea —>ideale —> idealizzare —>idealiz­ zazione', oppure: forma -sform ale —>formalizzare —»formaliz­ zazione. ■ Spesso, infine, i due paradigmi si combinano tra loro, generando strutture derivative simili alla seguente: formalizzazione formalizzare —» formalizzabile. forma -sform ale —> formalista ->

formalìstico

La derivazione è oggi un processo molto produttivo, soprattutto per la sua capacità di creare parole analizzabili, e dunque semantica­ mente trasparenti (delle quali, cioè, è possibile ricavare il significato senza conoscerlo in precedenza). Si nota così la tendenza a creare numerosi verbi denominali o deaggettivali (aventi cioè come base un nome o un aggettivo): per esempio amore -A amoreggiare, rotta­ me —>rottamare, criminale —>criminalizzare, falso —>falsificare; e al tempo stesso una grande espansione degli astratti deaggettivali o denominali (governabile —>governabilità, dossier —>dossieraggio), con conseguenze sull’uso linguistico che toccano anche gli aspetti sintattici. Così accade per esempio nel linguaggio giornalistico e burocratico, in cui sarà più facile trovare una frase come «l’imputato ha dichiarato la propria estraneità ai fatti», piuttosto che «l’imputato ha dichiarato di essere estraneo (o che era estraneo) ai fatti».

8.6 L’affìssazione L’affissazione è un processo di formazione delle parole che si di­ stingue in prefissazione e suffissazione. Nel caso dei suffissati (i più frequenti in italiano), la derivazione è ottenuta aggiungendo un ele­ mento che si pone dopo la base (il suffisso). A seconda della base a cui si appongono, si distinguono: suffissi denominali, deaggettivali

I suffissati

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Capitolo 8 - Parole vecchie e parole nuove

Classificazione dei suffissi

e deverbali. A seconda del processo di trasformazione lessicale a partire dalla base, i suffissi possono essere inoltre classificati in: ■ suffissi verbali denominali e deaggettivali (nome o aggettivo -» verbo): -are e -ire (le desinenze degli infiniti di i e iv coniuga­ zione latina) come in bacio —> baciare, fiore -sfiorire·, secco —> seccare, scuro —> scurire·, -eggìare (amore —> amoreggiare, folle —>folleggiare); -ificare (sapone saponificare, falso —>falsifi­ care', a volte la base si riduce, come in elettrico —>elettrificare)·, -izzare (alfabeto —>alfabetizzare, acuto —» acutizzare)·, ■ suffissi nominali deverbali (verbo -> nome): -aggio (suffisso d’origine francese; se parole medievali come coraggio e retag­ gio non sono ormai analizzabili, diverso è il caso di formazioni moderne come abbordare —» abbordaggio, tatuare —> tatuag­ gio)·, -andò, -anda (come nel gerundivo latino esprimono l’idea del dovere: esecrare —>esecrando, o anche solo deH’imminenza: laureare —> laureando); -ante, -ente (corrispondenti al partici­ pio presente latino, danno luogo a un sostantivo riferito a una persona che compie una certa azione: parlare —> parlante), ma anche a un prodotto che ha un dato uso (sbiancare —> sbian­ cante, recentemente affermatosi come sostantivo nel commercio di detergenti) o a una nozione astratta (muovere —> movente); -anza, -enza (molto frequenti nella poesia antica per influsso del modello d’oltralpe, danno luogo a sostantivi astratti: mancare mancanza); -ato, -ata, -ito, -ita ecc. (suffissi propri del participio passato adottati in forme sostantivali: lavare —>lavata, tenere —> tenuta); -io (luccicare —> luccichio, pigolare —>pigolìo); -ino, -ina (spazzare —> spazzino); -mento (il suffisso fondamentale, insieme a -zione e a -sione·, affondare —>affondamento, abbelli­ re —> abbellimento); -one, -ona (mangiare —> mangione); -toio, -torio, -foia, -toria (mangiare —> mangiatoia, parlare —» parla­ torio); -ura (aggiunto alla base del participio passato: bruciare [bruciato] —>bruciatura); -zione, -sione (demolire —>demolizio­ ne, riprendere —> riprensione); inoltre -tare, -trice (con valore di agente: bandire —» banditore, truccare —> truccatrice). Ci sono poi alcuni casi di sostantivi denominali senza suffisso o, come si dice, a “suffisso zero”: per esempio deliberare —» delibera (per deliberazione) o il più recente utilizzare —> utilizzo (per utilizza­ zione); ■ suffissi aggettivali deverbali (verbo —» aggettivo): -abile, -ibile (indicano possibilità o opportunità: datare —» databile, vendere —» vendibile); -evole (meno produttivo dei precedenti, coi quali a volte coesiste: mutare —» mutabile, mutevole; incantare —> in­ cantevole);

L’affissazione

■ suffissi nominali deaggettivali (aggettivo —> nome): -eria (tìrchio —> tirchieria); -ezza, -izia (allotropi risalenti allo stesso suffisso latino, -ϊτ ια : giusto —> giustezza, giustizia con significati e àmbiti d’uso differenti); -ìa, -ia (folle —>follìa, perfido -» per­ fidia); -ismo, -esimo (ancora una coppia di allotropi dalla base latina, a sua volta modellata sul greco, -ismus: dal primo per esempio pessimo —>pessimismo, dal secondo pagano —>paga­ nesimo); -ità, -età, -tà (attivo —> attività, il secondo solo nelle basi in -io: empio —» empietà, il terzo in pochi relitti come umile —> umiltà); -itudine (indica nozioni astratte: grato —> gratitudine); ■ suffissi aggettivali denominali (nome —> aggettivo): -ale (nave —->navale); -ano (paese —» paesano, oggi scarsamente produtti­ vo tranne che negli aggettivi etnici: Italia —> italiano, o in rife­ rimento a gruppi d’appartenenza, a partire da un nome proprio: Berlusconi —> berlusconiano); -are (laguna —» lagunare); -ato, -ata, -uto, -uta (in origine suffissi participiali: ala —> alato, il se­ condo indica di solito una caratteristica molto marcata: boccolo —> boccoluto); -esco (di solito in accezione negativa: popolare -> popolaresco); -ico (tra i più produttivi nell’italiano moderno: economia —» economico, film —> filmico); -izio (piuttosto raro: impiegato H> impiegatizio); -oso (indica la presenza di una certa qualità: fumo -» fumoso; negli ultimi decenni in notevole espan­ sione: si pensi a forme come comodoso, risparmioso, scattoso e simili, adottate anche dal linguaggio della pubblicità); e ancora -ario (ferrovìa —> ferroviario), -evole (amico —» amichevole), -ile (giovane —>giovanile), -iero (salotto —> salottiero), -ino (ca­ pra —ì caprino), -istico (riforma —> riformistico). Ci sono poi suffissi etnici come -ese (Giappone —>giapponese), -ino (Mestre —» mestrino) e -loco (Bosnia —> bosniaco), oltre ad -ano, già menzionato. La trasformazione mediante suffisso, in molti casi, può svolgersi aH’interno della medesima categoria grammaticale. M Nome -> nome. Possiamo assistere alla trasformazione di un nome in un altro nome attraverso l ’uso dei suffissi nominali denominali -aglia (con valore collettivo-dispregiativo: sterpo —> sterpaglia, ragazzo —» ragazzaglia); -aio, -aro, -ario, -aiolo (il primo, in declino nella formazione dei nomi di lavoratore in cui è più produttivo -ista, può avere anche valore dispregiativo: parola parolaio; il secondo è la variante non toscana di -aio, in forte espansione anche nell’italiano comune: si pensi a for­ mazioni recenti come metallo ‘rock duro’ —>metallaro o pani­ no -> paninaro; l’ultimo è usato, tranne che in qualche nome di

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Capitolo 8 - Parole vecchie e parole nuove

mestiere come boscaiolo, in accezione negativa: forca —>fo r­ caiolo, così come la variante di irradiazione romanesca -arolo: bomba —> bombarolo e simili); -ata (occhio —> occhiata, ran­ dello —> randellata, mascalzone —> mascalzonata); -ato (duca —>ducato, padrone —> padronato; diverso lo specifico uso che ne fa la chimica); -ema (produttivo solo nella linguistica: per esempio fono —>fonem a); -erta (è il suffisso più comune per indicare negozi e attività commerciali: pizza —> pizzeria, vetro —>vetreria); -eto, -età (con valore collettivo in riferimento alla vegetazione: oliva —» oliveto, pino -» pineta); -ìere, -iero (suf­ fisso d’origine francese, indicante mestieri: camera —» came­ riere, ma anche oggetti: candela -» candeliere; la variante -iero si ritrova oggi in pochi vocaboli, come neH’ispanismo guerri­ gliero); -iera (femminile di Aere, -iero, si riferisce più spesso a oggetti inanimati: sale —>saliera); -ile (in pochi nomi collettivi come porco —> porcile, cane —> canile e il recente gatto —> gattile); Asta (è il suffisso più produttivo per indicare chi svol­ ge un’attività: gomma —> gommista; chi segue una determinata ideologia: Calvino —» calvinista; chi ha un determinato atteg­ giamento: disfatta —» disfattista). ■ Verbo —>verbo. Tra i suffissi verbali deverbali si possono citare -ellare (o -erellare o -arellare): saltare —>saltellare, giocare —> giocherellare, e -icchiare, -acchiare (giocare —> giochicchiare, vivere -P vivacchiare). ■ Aggettivo —> aggettivo. Tra i suffissi aggettivali deaggettivali: Accio (malato —» malaticcio), Agno (aspro —>asprigno), -ognolo (amaro —> amarognolo), -occio (bello —> belloccio). In questo caso, ci troviamo in una zona al limite tra la derivazione pro­ priamente detta e V alterazione, cioè la modifica tramite suffis­ so di una base lessicale per caricarla di particolari connotazioni di significato (accrescimento, diminuzione, affetto, disprezzo, ironia). Gli alterati rappresentano una particolare categoria di suffìssati: suffissi diminutivi sono per esempio Ano, -etto, -elio, -uccio; accrescitivi: -one e, con connotazione ironica o negativa, -occhione; dispregiativi: -accio, -astro. I prefissati

Nei prefissati, invece, l’elemento (il prefisso) viene aggiunto prima della base. A differenza di quanto accade normalmente con i suf­ fissi non alterativi, la prefissazione non implica il cambiamento di categoria (elenco nome —> avantielenco nome; agire verbo —> in­ teragire verbo; atomico aggettivo —>postatomico aggettivo). Tra i prefissati nominali e aggettivali, si distinguono parole formate con: 1) prefissi provenienti da preposizioni e avverbi (per esempio ante- e pre-,post- e retro-, extra- e fuori-, trans-, vice-); 2) prefissi intensivi

L’affissazione

(super-, ultra-, stra-, iper-, sotto-, multi-); 3) prefissi negativi (in-, s-, dis~). Tra i prefissati verbali la distinzione è tra prefissi intensivi (s-, stra-) e prefissi con valore di aspetto e di modo: dunque r(i)- e rie)- ‘di nuovo’, contro- e contra- ‘in opposizione’, inter- e (in)fra‘in mezzo’ ecc. Alcuni derivati possono inoltre risultare dall’aggiunta contem­ poranea di un prefisso e di uno o più suffissi a una base, prevalente­ mente nominale. Sono questi i verbi parasintetici, formati di solito a partire dai prefissi a- (dente —>addentare), de- e dis- (caffeina —> decaffeinare, colpa —> discolpare), in- (orgoglio —> inorgoglire), s(macchia —>smacchiare). Un particolare tipo di affissi è costituito infine dagli ajfissoidi, o confissi: si tratta di elementi aggiunti sia all’inizio (prefissoidi) sia alla fine (sujfissoidi) di una parola, che si comportano rispettiva­ mente come prefissi e suffissi, pur essendo originariamente parole autonome o accorciamenti di parola. Si tratta di un processo di for­ mazione delle parole che si può considerare a metà tra derivazione e composizione. I prefissoidi e i suffissoidi sono infatti elementi che - adoperati con particolare frequenza in parole composte - hanno acquisito un’autonomia tale da poter essere paragonati a prefissi e suffissi1, e possono essere combinati potenzialmente con ogni parola del lessico italiano (anche con forestierismi, se si pensa a parole come cineclub, telemarketing, videobanlc, videoshop, molte delle quali prive di un modello straniero). Originàriamente questi elementi - diffusi solo all’interno dei lin­ guaggi scientifici - erano attinti dalle due lingue classiche: il latino e soprattutto il greco. Proprio dal greco deriva la sequenza deter­ minante + determinato, sequenza estranea alle lingue romanze, ma favorita negli ultimi anni dal modello dell’inglese (molti tra i prefis­ soidi di maggiore diffusione sono anglogrecismi o anglolatinismi: foto-, tele-, video- ecc.). Oggi, però, la grande espansione di questo processo ha fatto sì che nella lingua comune si possano trovare usate in funzione di prefissoidi ■ parole italiane intere come calcio (calcioscommesse, calciomercato); ■ accorciamenti nati dalla combinazione con un suffissoide, che si trasformano a loro volta in prefissoidi (così per esempio buro-: da burocrazia a burolingua); ■ accorciamenti creati appositamente per creare prefissoidi (mini­ che l’inglese ha derivato da miniature ‘miniatura’; o catto-: cattocomunista, cattosocialista; o ancora normo-: normodotato, normolineo, normopeso, normotipo).

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Gli affissoidi

Elementi attinti dalle lingue classiche

Prefissoidi della lingua comune

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Capitolo 8 - Parole vecchie e parole nuove

I composti

Le unità polirematiche

Parole d’autore

8.7 La composizione

8.8 Parole d’autore

Per composizione s’intende il processo per cui, unendo due o più parole, si ottiene una parola nuova. Numerosi sono in italiano i com­ posti che abbinano un verbo e unnom e (come attaccapanni, lava­ stoviglie, portacenere). In questi composti la frase sottostante - s’in­ tende da un punto di vista logico - ha un predicato verbale (qualcosa lancia le fiamme —>lanciafiamme). Ci sono poi composti in cui la frase sottostante ha un predicato nominale: questi possono nascere dalla combinazione di un nome e di un aggettivo (per esempio la cassa è forte —> cassaforte) o viceversa di un aggettivo e di un nome (altopiano, malafede)·, oppure dalla combinazione di due nomi (in cui il secondo “determina” il primo come se fosse un aggettivo: per esempio cartamoneta, calzamaglia). Diversamente vanno considerati i tipi cassapanca (nome + nome) e agrodolce (aggettivo + aggettivo), in cui i due elementi sono due predicati coordinati (ovvero sono entrambi sullo stesso piano, non ce n’è uno che determina l’altro: qualcosa è una cassa ed è una panca, qualcosa è agro ed è dolce). Particolarità specifiche presenta anche il tipo pellerossa o piedipiatti, perché, a differenza di quanto accade nei normali composti nome + aggettivo, si tratta di parole che presuppongono un riferimento esterno: se cassaforte indica al­ meno in origine una cassa che &forte e camposanto un campo che è santo, pellerossa non indica una pelle che è rossa, ma uno che ha la pelle rossa. Ulteriori tipi di composto sono i conglomerati (com­ posti da verbi, di solito alla seconda persona: saliscendi, fuggifuggi, dormiveglia) e le cosiddette “parole macedonia” (in cui si tagliano e fondono tra loro due vocaboli: conf(ederazione) + industria = Confindustria, cannante) + autore = cantautore). La definizione si deve al linguista Bruno Migliorini, primo titolare di una cattedra di Storia della lingua italiana (Università di Firenze, 1938), e autore di una fondamentale Storia della lingua italiana (1960). Un caso ancora diverso è quello delle unità polirematiche, se­ quenze non modificabili di più parole che in genere mantengono la propria autonomia grafica, e in cui le singole componenti non possono essere definite isolatamente e dunque costituiscono di fatto un’unica parola composta: anno luce, avviso di garanzia, ferro da stiro, busta paga. La caratteristica delle unità polirematiche è che gli elementi da cui sono composte non possono essere separati da altri elementi: si dice un buon ferro da stiro o un ferro da stiro buono (anteponendo o posponendo l’aggettivo all’intera unità), ma non si può dire *un ferro buono da stiro o *un ferro da buono stiro.

Tutte le parole nascono dall’uso di un individuo, che le immette nel circuito della società; ma nella grande maggioranza dei casi questo uso iniziale si perde nella notte dei tempi. Non avrebbe senso chie­ derci chi ha coniato parole italiane come oste o chiamare, parole che continuano basi latine (rispettivamente h o s p i t e m , accusativo di h o Sp e s , - i t i s ‘che dà ospitalità’ - attraverso il francese antico oste - e c l a m a r e ), a loro volta risalenti a radici indoeuropee. Solo raramente possiamo risalire al creatore, cioè &IYonomalurgo di un determinato vocabolo. Non solo: ovviamente non basta inventare una parola nuo­ va. Occorre che le innovazioni proposte riescano (perché si accompa­ gnano a nuovi oggetti o concetti, perché corrispondono alle esigenze dei parlanti, perché sono particolarmente brillanti o divertenti) ad af­ fermarsi nell’uso comune. Le parole che possono vantare un autore abbondano, in realtà, nei linguaggi settoriali, in cui sono formate di solito a partire da componenti greche e latine. In medicina abbiamo, tra le altre, al­ lergia (tedesco Allergie, dal greco allos ‘altro’ + enèrgheia ‘ener­ gia’; Clemens von Pirquet, 1906), cirrosi (francese chirrose, dal greco khirrhòs ‘di colore arancio scuro’; René Laennec, 1805), difterite (francese diphtérite, dal greco diphtera ‘pelle’; Pierre-Fidèle Bretonneau, 1821), omeopatia (tedesco Homoopathie; Sa­ muel Hahnemann, 1810), vitamina (inglese vitamine poi vitamin, coniato eixoneamente sul nome degli amminoacidi da Casimir Funk, 1913); in chimica bromo (francese brome, dal greco bromos ‘puzzo’; Antoine Jéròme Balard, 1826), e poi ancora gas, idrogeno, ossigeno. In alcuni casi la parola, per ragioni storiche o di fortuna lettera­ ria, si lega indissolubilmente alla figura del proprio autore. È facile, per esempio, ricondurre al filosofo e politico rinascimentale Tom­ maso Moro (1478-1535) la parola utopia, a Sigmund Freud (1856­ 1939) psicoanalisi, a Karl Marx (1818-1883) plusvalore, a Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) futurismo, a Guillaume Apollinaire (1880-1918) calligramma ‘poesia stampata in modo da formare un disegno’. Meno ovvia è l’attribuzione di allitterazione all’uma­ nista quattrocentesco Giovanni Pontano (1429-1503) o di stanza dei bottoni al politico socialista Pietro Nenni (1891-1980). Spesso l’inventore della parola è l’inventore (o lo scopritore) della cosa. Così accade per esempio per il cellofane (francese cel­ lophane, dello svizzero Jacques Brandenberger, 1908), per la pila (Alessandro Volta, 1799), per il cinematografo (francese cinématographe, brevettato nel 1893 da Léon Bouly), per la dinamo (tedesco Dynamo[Maschine], Werner Siemens, 1867), per Ιάfisarmonica (te-

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L’onomaturgo

Linguaggi settoriali

Lingua letteraria

Inventori di cose e di parole

212

Capitolo 8 - Parole vecchie e parole nuove

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L’onomastica

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I VA YLVVVV yrirH V VÙ

È una figura retorica che consiste nella ripetizione più o meno ravvicinata dello stesso suono (vocale, consonante o sillaba) all’inizio o anche all’interno di due o più parole successive. In poesia, si parla di versi allitteranti per casi come «Non più sul pioppo picchia il pennato / più, né l’eco più gli risponde» (G. Pascoli, Il ritorno delle bestie). Spesso l’allitterazione viene impiegata per richiamare un suono, una cadenza o il verso di un animale, con il fine di rendere più evocativo il testo; «ci fermeremo tra il pulverulento / scalpitamento de’ cavalli ansanti» (G. Pascoli, Le canzoni di Re Enzio / La canzone del Paradiso). In questo caso la successione ravvicinata dei suoni p, c e t ricorda direttamente i colpi alternati degli zoccoli dei cavalli sul terreno.

desco Physharmonika, brevettata nel 1821 dall’austriaco Alexander Hàcke), per il televisore (inglese televisor, così denominato nel 1926 da John Logie Baird). Altre parole di questo tipo entrate da tempo nel lessico quotidia­ no sono: eucalipto (dal greco kalypto ‘copro’: il botanico francese Charles-Louis L’Héritier battezzò la pianta in questo modo per il fatto che anche dopo la fioritura il calice dei suoi fiori resta chiuso), folklore (William John Thomps, 1846), ideologia (francese idéologie; Antoine-Louis Destutt de Tracy, 1796), panorama (dal greco pan ‘tutto’ + brama ‘visione’; indicò dapprima un dipinto che riprodu­ ceva su una superficie circolare una città o un avvenimento storico: il primo è del pittore irlandese Robert Parker, 1797), siluro (riprende il nome di un pesce; fu il nome che Γammiraglio italiano Simone de Saint-Bon attribuì a un battello esplosivo varato nel 1866).

8.9 L’onomastica

I nomi propri

Abbiamo parlato finora di nomi comuni, vale a dire di parole che dal punto di vista del significato - si riferiscono indifferentemente a tutti i membri di una categoria o di una specie (tavolo, formica, bosco, vitamina, atomo e così via). In una lingua, tuttavia, esistono anche parole che - come Andrea, Giulia, Pescara, Arno - sono prive di un vero e proprio significato, perché identificano, all’interno di una categoria generale, un solo specifico individuo: si tratta dei nomi propri. Il ramo della linguistica che si occupa della classifi­ cazione e dello studio dei processi di formazione dei nomi propri è V onomastica, le cui specializzazioni principali sono V antropo-

nimìa (lo studio dei nomi propri di persona) e la toponomastica o toponomia (lo studio dei nomi propri di luoghi ed elementi geo­ grafici). I nomi di persona (o antropònimi), come i nomi comuni, sono sottoposti al ciclo vitale di ogni parola; la vita di un antroponimo si esaurisce di solito al cambiare delle mode onomastiche tipiche di ogni periodo storico. Tra xi e xm secolo, per esempio, nel pano­ rama antroponimico italiano erano diffusissimi nomi trasparenti, attribuiti in virtù della loro piena interpretabilità o per la corri­ spondenza con un vocabolo di chiaro significato. In massima parte si tratta di nomi di tipo augurativo o apprezzativo, molti dei quali successivamente scomparsi, come Bencivenni ( ‘bene sei venuto a noi’), Bonagiunta, Bonaventura, Dietaiuti, Buono, Bene, Bella', ma anche di formazioni di segno negativo, che lamentavano per esempio una nascita non desiderata, a volte con funzione di scon­ giuro sulla sorte del bambino (Amara, Soperchia, Perquezevenisti ‘perché ci venisti?’). Nei secoli successivi, la scelta sembra orientarsi maggiormente verso nomi di tipo allusivo, scelti perché riconducibili a un perso­ naggio illustre come un santo (Matteo, Giovanni, Paolo, Domenico e soprattutto Francesco, che grazie alla fama del santo di Assisi è stato per secoli il nome italiano più diffuso) o un personaggio lette­ rario (Angelica, Orlando, Tancredi, Armida, dalle opere di Ariosto e Tasso; Alfredo, Carmen, Aida, Gilda, riconducibili a famose opere liriche; gli shakespeariani Otello, Ofelia, Amleto). Tra Ottocento e Novecento, specialmente in Emilia-Romagna e in Toscana, ebbero una notevole diffusione antroponimi di natura evocativa, selezionati per ribadire la propria appartenenza a un gruppo sociale o politico. Si tratta soprattutto di nomi ispirati alle imprese risorgimentali (Ani­ ta, o cognomi di personaggi illustri impiegati come nomi propri: Garibaldil-o, Menotti, Oberdan) o alle ideologie socialiste e anar­ chiche (Lenin, Stalin, Libero, Oliano, Bakunin). Attualmente, il criterio di scelta onomastica più diffuso sembra essere il simbolismo fonetico', i nomi vengono scelti soprattutto perché piacciono per il suono, in virtù della loro brevità (Giu­ lia, Silvia, Sofia, Marco, anche se non mancano gli Alessandro e i Massimiliano) o per la loro origine esotica (Katìa e Tania dal russo, ormai invecchiati, o Samuel, di forma anglicizzante). Va sot­ tolineato, però, che sono tuttora vitali anche le modalità più fortu­ nate nel passato, come la trasparenza, specie per i nomi femminili (Perla, Stella o anche Gaia, Diletta, Serena, di natura augurativa) e l ’allusione (sono ancora frequentissimi per esempio i nomi di santi, affiancati ai nomi di grandi artisti e intellettuali come Leo­ nardo o Raffaello).

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Gli antropònimi

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Capitolo 8 - Parole vecchie e parole nuove

A P I'R O I O N U IM E M ΓΟ

✓ C A M B I EH N O M E

In molti casi un nome proprio di persona può essere sostituito (e a volte defi­ nitivamente soppiantato) da un’altra forma nominale, legata al nome originario da rapporti formali o di significato. I cambi di nome più frequenti nell’italiano di ogni epoca sono dovuti principalmente all’uso di -

-

-

ipocorìstici (dal greco hypokoristikòs ‘diminutivo’): forme colloquiali e vezzeg­

giative che vengono preferite nell’uso informale a molti nomi propri, in virtù della loro brevità (perché risultanti da una abbreviazione del nome originario: Nello < Lionello, Antonello ecc., Pina < Giuseppina) o per il fatto di essere più fa­ cili da pronunciare (in quanto costruiti sulla ripetizione di alcuni dei suoni del nome proprio, tipica anche del modo di parlare dei bambini piccoli: Pippo < Giuseppe, Ciccio < Francesco, Lalla < Laura), Durante il Medioevo, alcuni ipocoristici erano così diffusi da trasformarsi a loro volta, con il tempo, in autonomi nomi di persona, come nel caso di Sandro < Alessandro o di Enzo < Vincenzo; pseudònimi e nomi d’arte: si tratta di nomi scelti come sostitutivi per celare la propria identità in determinati contesti (famosi alcuni pseudonimi giornalistici come Ghino di Tacco, scelto dal politico socialista Bettino Craxi per firmare i suoi interventi sul quotidiano “Avanti!”) o per attirare l’attenzione in àmbito letterario e artistico, spesso mantenendo una parte del nome originario, con­ siderato troppo lungo e quindi poco efficace (Sophia Loren < Sofìa Scicolom, Walter Chiari < Walter Annicchiarico, Giorgio Gaber < Giorgio Gaberscik); allònimi (letteralmente ‘altri nomi’): sono antroponimi del tutto indipendenti

dai nomi originari che si sostituiscono deliberatamente a questi per ragioni di estetica e, in generale, per rendere il proprio nome più aderente alla norma onomastica imperante (si pensi a casi come Giacinto detto Marco Pannella). In Italia la pratica dell’allonimia è frequente tra gli immigrati di pri­ ma generazione, che spesso scelgono al posto del proprio nome originale un nome italiano da usare nelle relazioni con la popolazione ospitante. Per esempio, il personaggio egiziano di un recente romanzo in lingua italiana dello scrittore algerino Amara Lakhous (Divorzio all’islamica a viale Marconi, 2 0 10) cambia il proprio nome arabo (Said ) con l’italianissimo (e ormai raro) Felice per facilitare la propria assunzione in una pizzeria romana.I

I topònimi

Se gli antroponimi sono soggetti, seppure in maniera molto particola­ re, allo scorrere del tempo, molto più conservativi dal punto di vista della forma risultano i topònimi, ovvero i nomi di luoghi ed elementi geografici: siano essi nomi di città o località, nomi di fiumi e laghi (,idronimì, dal greco hydor ‘acqua’) o nomi di rilievi (oronimi, dal gre­ co oros ‘montagna’). Molti toponimi italiani sono derivati dal latino: per esempio, Fano < fanum ‘te m p io Forlì < for(um) li (vii); Foppa

Dal nome proprio al nome comune

e Foggia < fovea ‘fossa’; Macerata < maceries ‘mucchio di pietre’; Gusela, cima del Bellunese < *acucella ‘guglia’. Altri conservano le tracce di dominazioni straniere, con elementi di superstrato pro­ venienti dalle lingue germaniche {Fara, elemento presente in molti nomi di località di diverse regioni < fara ‘insediamento nomade’; Brera e Braida < braida ‘campo spianato’) o dall’arabo (Calatafimi < qal ‘at ‘castello’ + il nome romanzo Eufemio: quindi ‘castello di Eufemio’; Alcantara, fiume a sud di Taormina < qantara ‘ponte’; Marsala < marsà ‘alò ‘il porto di Ali’). In altri casi, a essere conser­ vato è il sostrato etrusco (Populonia, Chiusi, Fiesole, Capua) o italico {Alpi < indoeuropeo *alb/*alp ‘pascolo d’altura’; Appennini < osco *ap- ‘cima, punta’ + -enna , suffisso molto diffuso anche in etrusco e in altre lingue italiche antiche). A volte, i nomi di città e località derivano o sono formati da un antroponimo, che può di volta in volta indicare l’antico signore di un territorio o alla sua famiglia (Acciano rimanda ad accianus; Migliano a (ae)milianus ; Oriago ad *aureliacus e aurelius), oppure al santo o all’antico dio pagano che protegge la località (San­ ta Lucia, Sant’Angelo, Portovenere, Montegiovi), a un eroe o a un antico fondatore (Eraclea). In altri casi, il toponimo contiene l’indi­ cazione del tipo di insediamento che originariamente caratterizzava la località: Casale Monferrato, Villa San Giovanni, Pieve di Cadore (< plebem , accusativo di plebs, originariamente ‘popolo’, ma in séguito anche ‘parrocchia’). Certe volte, infine, le denominazioni sono direttamente collegate alle circostanze che hanno accompagnato la fondazione dell’inse­ diamento: così il nome di Alessandria in Piemonte ripete il nome di papa Alessandro m (1100 ca. -1181), che ne volle la costruzione; un po’ come accade per Pienza, in Toscana, voluta da papa Pio π (il let­ terato toscano Enea Silvio Piccolomini, 1405-1464). Procedimenti formativi di questo tipo (molto vicini a quelli della neologia per i nomi comuni) sono riscontrabili massicciamente nei nuovi nomi delle città di fondazione fascista: Guidonia (dal nome dell’aviatore Alessandro Guidoni), Mussolinia (nome della città sarda poi ribat­ tezzata Arborea) e, su basi differenti, Pontinia (dal nome del boni­ ficato Agro Pontino) e Littoria (primo nome della città di Latina).

8.10 Dal nome proprio al nome comune Antroponimi e toponimi rappresentano un importante serbatoio per la creazione di parole nuove: numerose parole dell’italiano, infatti, derivano da nomi propri. Basti pensare a Dongiovanni ‘seduttore’, dal nome del protagonista dell’omonima opera di Mozart o ad anfi­ trione ‘ospite generoso’, dal nome di un personaggio del commedio-

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Capitolo 8 - Parole vecchie e parole nuove

La deonomastica

Categorie di deonìmici

grafo francese Molière, che lo trasse da Plauto. I nomi comuni che derivano da nomi propri vengono chiamati deonìmici e il ramo della linguistica che ne studia la classificazione e le modalità di formazio­ ne è la deonomastica. I deonìmici sono frequentissimi hel lessico italiano, al punto che in molti casi risultano difficili da individuare a prima vista, perché il legame con il nome proprio che li ha generati non viene più avver­ tito con chiarezza. Pochi riconoscerebbero un deonimico in parole come algoritmo (dal nome del matematico arabo Al-Khuwarizmi), biro (dal nome dell’ungherese Laszlo Biro, che inventò la penna a sfera), paparazzo (vedi cap. 6) o fortunello ‘persona particolarmente fortunata’ (dal nome di un personaggio a fumetti del “Corriere dei Piccoli”). Analizzando i processi mediante i quali è possibile ottenere un nome comune da un nome proprio, possiamo individuare diverse categorie. ■ Deonìmici ottenuti per antonomasia: sono nomi propri (molto spesso antroponimi) che si sono trasformati in nomi comuni at­ traverso la generalizzazione delle caratteristiche peculiari di un personaggio, assunto come tipo o modello di un dato comporta­ mento o carattere. Molti deonìmici di questo genere provengono dalla cultura classica: tra gli altri, cicerone ‘guida turistica’ (dal nome del grande oratore romano), adone ‘uomo di grande bel­ lezza’ (dal nome del mitico giovane che fece innamorare Afrodi­ te per il suo aspetto) o narciso ‘persona vanitosa’ (dal nome del personaggio mitologico che si innamorò della propria immagine riflessa nell’acqua). Ma non mancano esempi tratti dalla lettera­ tura, come gradasso (da un personaggio dell’Orlando furioso) o perpetua ‘donna che assiste un sacerdote’ (dall’omonima figura dei Promessi sposi ), e soprattutto dal cinema (007 ‘agente segre­ to’, lolita ‘giovanissima ragazza sessualmente disinibita’, arma­ ta brancaleone ‘gruppo di pasticcioni, confusionari e incapaci’). ■ Deonìmici ottenuti per metonimia: si ottengono quando un con­ cetto o un oggetto assume il nome del suo inventore, scopritore o iniziatore. Questo processo deonomastico è molto sfruttato dalle lingue scientifiche e tecniche, per esempio per ottenere i nomi di molte unità di misura {watt, ampère, volt, kelvin, e i meno conosciuti angstrom ‘misura lineare pari a un milionesimo di millimetro’ e erlang ‘unità di misura del volume di traffico te­ lefonico’), di numerosi elementi chimici (curio < Marie Curie; einstenio < Albert Einstein; fermio < Enrico Fermi) e di alcuni concetti chiave {legge di Boltzmann, paradosso di Schroedinger, ponte di Einstein-Rosen). Deonìmici di questo tipo, però, sono

Dal nome proprio al nome comune

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molto diffusi anche nella lingua di tutti i giorni: basti pensare a parole come diesel, boeing, dolby, ma anche montgomery (‘cap­ potto corto di lana con cappuccio’ reso famoso dal generale in­ glese Bernard Montgomery, eroe della seconda guerra mondiale, che lo indossava abitualmente) o bignami ‘manualetto riassunti­ vo degli argomenti di una materia’, dal nome di Ernesto Bignàmi, ideatore di questo genere di testi. ■ Deonìmici ottenuti per derivazione suffissale: si ricavano a par­ tire da un nome proprio, secondo le consuete regole di forma­ zione delle parole dell’italiano, con l’impiego di vari suffissi. Tra i molti esempi possibili ricordiamo almeno rodomontata ‘spacconata’ (da Rodomonte, un altro personaggio dell’Orlando furioso e anche dellOrlando innamorato di Boiardo), rocam­ bolesco ‘avventuroso e spericolato’ (da Rocambole, protagoni­ sta dei romanzi dello scrittore francese Pierre Alexis Ponson du Terrail, 1829-1871), lapalissiano ‘ovvio, scontato’ (dal nome del generale Jacques de la Palisse), pastorizzare (dal nome del medico francese Louis Pasteur, che inventò il procedimento di sterilizzazione del latte e della birra). Oltre1ai nomi di persona, anche molti nomi di luogo possono dare vita a deonìmici di grande diffusione. Basti pensare ai nomi di molti vini {chianti, borgogna, frascati) o formaggi {gorgonzola, asiago, parmigiano), ad alcuni indumenti {bermuda, bikini, dal nome di un atollo del Pacifico teatro di esperimenti nucleari negli anni sessanta del secolo scorso), fino a parole di larghissimo uso, come mascara (dal nome di una città della costa algerina), cipria (dall’isola di Ci­ pro, nell’Egeo orientale), canarino (dalle isole Canarie, nell’oceano Atlantico, delle quali l’uccellino è originario), berlina (dalla città di Berlino) e lavagna (dal nome del comune ligure noto per l’estrazio­ ne dell’ardesia, con la quale vengono o venivano costruite le lavagne scolastiche).

V E R IF IC A

1. Che cosa sono gli arcaismi? Fai qualche esempio. 2. Fai qualche esempio di neologismi. 3. La nostra lingua è stata a lungo usata esclusivamente nello scritto: quali sono le prin­ cipali conseguenze di questa tradizione? 4. Che cosa si intende per “derivazione”? Fornisci alcuni esempi. 5. Che cos’è l’onomastica?

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Capitolo 8 - Parole vecchie e parole nuove

Storia di parole Alfredo II nome, testimoniato in Italia già in età longobarda (vn-viii se­ colo) nella forma latinizzata Alfredus e in quella parzialmente adattata Alfrid(i), proviene dalla base germanica *a/da- ‘anziano’ (o *athala- ‘nobiltà’) + *frithu- ‘pace’. La sua fortuna nel sistema onomastico italiano, tuttavia, è molto più recente: ritornato pienamente disponibile in Italia alla fine del xviii secolo per influenza dell’inglese e del francese (Alfred), si impone definitivamente soltanto grazie alla popolarità della Traviata, melodramma di Giuseppe Verdi rappresentato per la prima volta nel I853. Nell’opera è il nome del protagonista maschile, reso ancora più celebre dall’accorata invocazione rivoltagli dalla protagonista femminile (Violetta) al principio del secondo atto e divenuta quasi proverbiale (Amami Alfredo!), Gas, idrogeno e ossigeno Le parole d’autore gas, idrogeno e ossigeno, appartenenti al lessico della chimica e della fisica, sono termini specialistici molto diffusi anche nella lingua comune. Ossigeno e idrogeno si devono en­ trambi all’iniziatore della chimica moderna, Antoìne-Laurent de Lavoisier, Questi nel I779 coniò oxygène (italiano ossigeno) col valore di ‘principio ossidificante’; dunque usando -gènel-geno nel significato di ‘che crea’, anche se in greco ghèinomai ‘ho origine’ era un verbo intransitivo; un uso impro­ prio che si è oggi largamente affermato (si pensi a allucinogeno, spinterogeno ecc.). Otto anni dopo riprese lo stesso elemento per coniare hydrogène (italiano idrogeno) ‘che crea l’acqua’ (il primo elemento deriva dal greco hydor ‘acqua’). Gas fu invece creato dal dotto belga Jean Baptiste van Helmont nel 1652, per somiglianza con la parola chaos, della quale rappresenta una deformazione. Macchina La parola macchina rappresenta un ottimo esemplo di neo­ logismo semantico realizzatosi come tale nel corso di una lunga storia. Il significato originario attestato a partire dal xv secolo (dal latino machina ) è quello di ‘strumento o congegno atto a compiere lavori meccanici’. Già nel Quattrocento si era però aggiunto a quello etimologico il valore figu­ rato di ‘organismo vivente’, poi ‘corpo umano’. Nei secoli successivi, si è indicata con il semplice nome di macchina una serie di strumenti utili all’uomo per produrre lavoro, e a partire dal Novecento c’è stata una spe­ cializzazione nell’àmbito dei mezzi di locomozione. Se nella prima edizione del Dizionario moderno ( i 905) Alfredo Panzini poteva scrivere sub voce: «Antonomasticarnente, la bicicletta, ‘Montare in macchina’ cioè inforcare la bicicletta», già nell’edizione del 19 3 1 doveva aggiungere: «Oggi ( 1930)

Storia di parole

quasi esclusivamente, si dice macchina per automobile, ma è antonomasia abusiva», N eologism o Creata sulla base del greco (dall’aggettivo neos ‘nuovo’ e dal sostantivo logos ‘parola’, ma anche ‘discorso’), la parola appare per la prima volta in francese, nella forma néologisme, nel 1734 (anche se già dal 1726 sono attestati i corradicali néologique ‘neologico’ e néologue ‘neologo, creatore di parole nuove’). In origine il significato è ben diverso dall’at­ tuale: néologisme indica non una tipologia di parola, ma un atteggiamento, un’abitudine: quella di creare parole nuove, anche senza riflettere troppo sulla loro effettiva utilità. La connotazione originaria della parola è quindi decisamente negativa e rispecchia la filosofia linguistica illuminista, per la quale la creazione di parole nuove può essere utile soltanto se contribui­ sce al progresso delle idee, ma deve rifuggire la tentazione della creazione lessicale dettata dalla moda. Con questo significato, la parola penetra in italiano nel 17 7 1, attraverso il Nouveau dictionnaire frangais-italien del let­ terato nizzardo Francesco Alberti di Villanova ( 1737-18 0 1), tra le prime testimonianze di adattamento del termine fuori dalla Francia. Poco dopo neologismo assumerà il suo significato attuale di ‘parola o espressione nuo­ va coniata attraverso le regole di formazione di una lingua’. Piedipiatti La parola è un calco strutturale sull’inglese d’America flatfool (fiat ‘piatto’ + foot ‘piede’), voce gergale attestata fin dal 1959 nelle tradu­ zioni dei romanzi polizieschi americani, ma diffusasi soprattutto qualche anno più tardi a partire dai doppiaggi cinematografici, col significato di ‘poliziotto’, Negli anni sessanta e settanta piedipiatti prevale - nell’uso ci­ nematografico - su sbirro, antica parola italiana derivante forse dal latino birrum, nome del mantello rosso indossato generalmente dalle guardie nel Medioevo. I rapporti di forza sembrano tuttavia invertirsi a partire dagli anni ottanta e fino a tempi recenti: Due sbirri a piede libero è il titolo scelto per rendere l’inglese Cop Out, pellicola statunitense del 2 0 IO.

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1

Giusto e sbagliato

9.1 La norm a e l’errore Il concetto di norma linguistica ha qualche affinità con quello di norma giuridica. Nel diritto, Γinfrazione alla norma penale fa scattare una sanzione. Nella lingua la sanzione, pur non essendo codificata puntualmente, può colpire o attraverso un giudizio scolastico (con la conse­ guenza di ripetere un anno di scuola o di non superare la prova scritta di un concorso) o attraverso la squalifica sociale: se un medico scrivesse raggione o esperiensa, probabilmente dubiteremmo della sua professionalità. Nel diritto Γ applicazione della norma non è immutabile nel tempo, ma - almeno per un certo numero di reati muta a seconda del tempo e dei luoghi. Per esempio, la legge che stabilisce la sanzione dei comportamenti «che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore» (art. 529 del Codice penale) consente una certa discre­ zionalità al giudice, proprio perché il comune sentimento del pudore nella Milano del Duemila non è certo lo stesso che in un paese siciliano degli anni trenta. Nella lingua questo indice di variabilità è ovviamente molto maggio­ re e si manifesta come variabilità diacronica, diafasica, diamesica (ovvero attraverso il tempo, i diversi registri linguistici, le differenze tra lingua parlata e lingua scritta; vedi §§ 4.1 e 4.2). Per definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in una lingua, occorre tener conto di una variabile fonda­ mentale: il grado di accettabilità, ossia la reazione dei parlanti di fronte alla violazione di un certo istituto lin­ guistico. Possiamo distinguere quattro gradazioni di “errore”, in ordine crescente di accettabilità:

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Le fonti della norma linguistica

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

■ il vero e proprio lapsus, consìstente nel dire una cosa per l’al­ tra (Buona botte! per ‘Buona notte’): l’accettabilità è zero, dal momento che viene compromessa la stessa comunicazione, e il parlante si corregge da sé, istintivamente; ■ la violazione di fondamentali regole strutturali (per esempio io andare per ‘io vado’): non impedisce la comunicazione, ma è accettabile solo a livelli elementari (bambini piccoli o parlanti stranieri); ■ la violazione grammaticale largamente rappresentata a livelli diastratici bassi (per esempio venghino per vengano)·, ■ la violazione di norme largamente disattese anche da parlanti cólti, accettabile, quindi, anche in registri formali (per esempio l’accentazione sartia in luogo del corretto sàrtia). In quest’ulti­ mo gruppo è frequente che le forme considerate “corrette” diven­ gano appannaggio di cerehie sempre più ristrette, fino al punto di uscire dall’uso.

Α Ρ Η ΙΙΟ Γ Ο Ν ΙΗ Μ Ε Ν Τ Ο

;

✓ L A L E G IT T IM A Z IO N I: D E LL'EKR O KE

In alcune parole relativamente rare e di trafila dotta, l’accento originario si è perso o è in concorrenza con pronunce spurie che tuttavia, per essere di uso quasi generale, sono destinate a costituire la norma. Così il latino ha mantenuto la pronuncia originaria nella poesia (per esempio nel Tasso: «Non altramente *1tauro, ove l’irriti»), ma nell’uso comune è diventata da tempo una parola sdrucciola (io irrito ); simile il caso di , diventato se p a ro , anche se ta­ lora si sente ancora la pronuncia ricercata, alla latina. Altre volte l’accento origi­ nario ha resistito, rendendo minoritaria la pronuncia alterata: è il caso di ru b rìca (latino ) in luogo di rù b rìc a o di infido (latino ) in luogo di infido. ir r it o

s èp a r o

r u b r ìc a

in f ìd u s

9.2 Le fonti delia norm a linguistica Ruolo del parlante nel riconoscere l’errore

A differenza delle fonti del diritto, chiaramente definite, le fonti della norma linguistica sono più incerte, e soprattutto meno delimitabili. Si può dire che ogni parlante, in quanto capace di padroneggiare una lingua con le sue regole e le sue sfumature, proceda a una continua verifica della correttezza e dell’efficacia delle esecuzioni linguisti­ che dei suoi interlocutori. Naturalmente, il prestigio linguistico del singolo parlante varia a seconda del suo ruolo professionale (sarà massimo in un insegnante di lettere, minimo in una persona di bassa istruzione), della sua età (maggiore in un adulto che in un ragazzo), della riconoscibilità regionale (maggiore in chi parli un italiano sor­ vegliato che non in chi parli con un marcato accento regionale).

Più delle parole dette contano però quelle scritte, e ancora più quelle pubblicate, in forza della maggiore autorità e durata nel tem­ po di ciò che viene affidato alla stampa. Tra le principali fonti della norma linguistica ci sono dunque: i dizionari; le grammatiche; i re­ pertori del buon uso linguistico. I dizionari - pur occupandosi principalmente di lessico e non di grammatica - hanno varie occasioni per illustrare una norma: pos­ sono prevedere appositi inserti dedicati agli errori; omettere una for­ ma scorretta; suggerire preferenze. Un dizionario può, per esempio, riunire i principali dubbi linguistici in una tabella, con l’intento non solo di risolvere un quesito specifico del lettore, ma anche di sug­ gerirgli come comportarsi in altre circostanze analoghe. È quel che fa il Vocabolario della lingua italiana Zingarelli dal 1998 in poi, distinguendo, con equilibrato senso linguistico, tra errori veri e pro­ pri e forme preferibili; o, a partire dal 2008, il Dizionario italiano Garzanti con le schede del suo Grammabolario (vedi § 10.8). II dizionario, però, può darci un’informazione anche tacendo. Poniamo che un lettore sia in dubbio tra accellerare e accelerare o tra blù e blu: consultando il vocabolario troverà solo accelerare e blu-, ne dedurrà facilmente che le alternative sono scorrette, anche se manca un’esplicita indicazione in questo senso. In molti casi l’al­ ternativa giusto/sbagliato non si risolve con una risposta netta: una delle due forme può essere meno comune (perché antiquata o regio­ nale, per esempio), senza per questo essere scorretta. Il dizionario può espressamente indicare il diverso grado di frequenza nell’uso - e quindi implicitamente raccomandare la forma più diffusa - o ricorrendo a indicazioni come “letterario” o “regionale”, oppure po­ nendo al primo posto la forma considerata prevalente. Le buone grammatiche sono più esplicite e diffuse, e motivano una norma in base a considerazioni storiche o pragmatiche. Per illu­ strare la differenza tra egli e lui, per esempio, ci si può rifare al lungo processo di indebolimento di egli come soggetto e/o sottolineare la diversa funzione (quella di egli è esclusivamente anaforica). A P P R O F O N D IM E N T O

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Le fonti scritte

I dizionari

Le grammatiche

✓ E G L I E L U I ( E L L A E L E I)

In luogo del nominativo del latino classico I lle ‘quello’, il latino volgare ha imposto un u ri rifatto sul pronome relativo q u i . Da illì , e dal femminile illa , derivano ri­ spettivamente i pronomi italiani egli ed ella ; per i casi obliqui il latino volgare si ser­ viva invece delle forme illOi, modellata su crii, e * illei, che portarono in volgare a lui e lei. L’opposizione etimologica tra egli (ella) soggetto e lui (lei) complemento iniziò però ben presto a indebolirsi, tanto che abbiamo esempi di lui usato come

224

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

Fig. 9. Una pagina dello "Zingarelli 2001. Vocabolario della lingua italiana”.

Tipologia e gerarchia degli errori

A C CEN T O _______________

nota d'uso

_______________

L’accento cade su quella sillaba di una parola dove l’in­ tonazione della voce è più marcata, più intensa. In p a ro ­ la, ad es„ l’accento cade sulla sillaba -rò-\ in sillaba, cade sul sii-. La sillaba su cui cade l'accento si dice tonica (dal greco tónos, che significa ‘tensione, pressione, for­ za), le altre si dicono atone (cioè ‘senza tono'). A seconda di dove cade l’accento, le parole si dicono: tronche, se l’accento cade sulla vocale dell'ultima silla­ ba, come in Perù, perché, caffè, andò·, piane, se cade sulla vocale della penultima, come in pregare , a và n ti, acchitto, misura·, sdrucciole, se cade sulla terzultima, come in cìr­ colo, G ènova, fa n tà stico , època·, bisdrucciole, se cade sul­ la quartultima, come in liberaci, dhtem elo, scivolano·, tri­ sdrucciole, nei rari casi in cui cade sulla quintultima, come in èvitam elo, recàpitatnelo, rècitamelo. Ad eccezione di alcuni monosillabi (articoli, pronomi, particelle pron, o aw. come m i, ti, ci, si, vi, né) che si ap­ poggiano nella pronuncia alla parola che segue o che precede (tali particelle sono chiamate ‘proclitiche’ o ‘en­ clitiche’), tutte le parole hanno un accento, che si chia­ ma accento tonico. Quando l'accento è indicato con un segno, prende il nome di accento grafico. In questo ca­ so l’accento può essere acuto (sulla é e sulla ó chiuse: a f­ fin ch é, p erché, còppa, vólgo) oppure grave (sulla è e sulla ò aperte c sulle altre tre vocali: cioè, caffè, p erciò, àncora, così, virtù).

L’accento grafico deve eseere usato:

■ sulle parole tronche con due o più sillabe: lunedì, andò, città·,

sui seguenti monosillabi: ciò, p u ò , g ià, p iù , g iù , piè·, su alcuni altri monosillabi per non confonderli con altre parole uguali nella pronuncia (i cosiddetti ‘omofoni’) ma che hanno diversa qualifica grammati­ cale e diverso significato. Sono: • dà (verbo dare): ti d à la m atita·, da (prep.): vie n i da

m m

me·,

• dì (nome): n o tte e dì·, di (prep.): città d i M ila n o . AT­ TENZIONE: di' (imperativo del verbo dire) è un troncamento c vuole l’apostrofo, non l’accento: d i' q u e l che t i pare!·,

• è (verbo): ch i èl·, e (cong.): m a rito e moglie·, • ché (= perché, cong.): taci, ché n on conosci i fatti!·, che (pron. rei. o cong,): can che a b b a ia n on morde·, t i ripe­ to che n on lo so·, •

là (aw.): r im a n i là!·, la (art. e pron,): a p ri la finestra·, n on la conosco·,

• lì (aw.): la chiave è lì s u l tavolo·, Il (pron.): n on li ho m a i visti·,

• né (cong.): n é caldo n é freddo·, ne (pron. o aw.): m e n e d a i urial·, m e n e vado·, • sé (pron.): f a tu tto d a sé·, d a sé stesso (in questo secon­ do caso, quando sé è seguito da stesso, si può anche

scrivere senza l’accento; è tuttavia consueta anche la forma accentata, per evitare equivoci che, nel caso di se stessi o se stesse, potrebbero verificarsi); se (cong.): se soltanto lo volesse...·,

• sì (aw.): sì, lo conosco·, si (pron.): si a lza sem pre tardi·, • tè (nome): gradisci u n tèl·, te (pron.): vengo con te·, a sulle voci verbali do, d a i, d a n n o si può segnare l'ac­ cento: dò, d à i, da n n o per non confonderle con do (nota musicale), d a i (prep. art.) e da n n o (nome). Non è sbagliato ma non è necessario, in quanto la differen­ za di significato rende pressoché impossibile ogni confusione. L'accento grafico non si usa:

■ sulle note musicali: do, re, m i, f a , sol, la , si·, m sui monosillabi (con l'eccezione di quelli indicati in precedenza). In particolare non si mette l'accento su q u i, q u a , so, sa, sto, sta, va, tra, fr a , f ù , f a , tre, b lu , no, re. ATTENZIONE: i composti vanno sempre accen­ tati. Perciò: re, ma viceré·, tre, ma ven titré, trentatré, ecc.; b lu , ma rossoblù, gialloblù·, su , ma lassù, quassù·, sto e sta, ma ristò, ristà\ fa, ma rifa, strafa.

■ ATTENZIONE: come «//'(imperativo di dire, di cui abbiamo parlato sopra), anche da', sta , va 'a ^ '(im p e ­ rativi di dare, stare, a ndare e fa re) vogliono non l’ac­ cento ma l’apostrofo, così come p o ' (= poco) e m o'(= modo: a m a 'd i) , in quanto si tratta di particolari for­ me di troncamento (V. nota d’uso ELISIONE e TRONCAMENTO). Normalmente l’accento grafico non si segna all’interno di parola. Esiste però il caso di alcuni vocaboli, formati da due o più sillabe, che si scrivono nello stesso modo ma si distinguono per come vengono pronunciati, in quanto l’accento cade su sillabe differenti (tali parole sono dette ‘omografì’). In questi casi si possono verificare degli equi­ voci. Un titolo di giornale che dica, ad cs., perdono g li a t­ tentatori, può ingenerare qualche perplessità, sino a quando i sottotitoli e il contenuto stesso dell’articolo, ol­ tre che il buon senso, fanno scartare l'ipotesi di un pro­ getto di attentato sventato oppure di un eventuale perdó­ n o agli attentatori da parte di qc, Generalmente il conte­ sto in cui il vocabolo è inserito è sufficiente a chiarire i dubbi (forse proprio un titolo è, per sua natura, più ‘ri­ schioso’). Il consiglio è perciò di segnare l’accento solo in quei casi che ragionevolmente si presentano ambigui. Tra questi ‘omografì’, ricordiamo i più comuni: àncora (nome) e ancóra (aw.); cóm pito (nome) e com pito (agget­ tivo); p rìn c ip i (nome, da p rìncipe) e p r in c ìp i (nome, da princìpio)·, con d ò m in i (nome, da condòm ino) e co n d o m ì­ n i (nome, da condom ìnio)·, desideri (verbo) e desidèri (nome); f i r m a ti (verbo, imperativo) e f i r m à ti (verbo, participio); ìndice (nome) e indice (verbo); òccupati (ver­ bo, imperativo) e occupàti (verbo, participio); p rèsid i (nome m. pi. da prèside) e presìdi (nome m. pi. da presì­ dio)·, regìa (nome) e règia (aggettivo); sùbito (awerbio) e subito (verbo, participio); tèn d in e (nome m.) e ten d in e (nome f.); viola (verbo) e viòla (nome). È bene ricordare che in caso di dubbio si preferisce segnare l’accento sulla parola sdrucciola piuttosto che su quella piana. L’accento si può indicare graficamente anche quando si usano parole difficili o rare che si ritiene non siano co­ nosciute da chi legge, oppure di cui si vuol ribadire l’ac­ cento esatto. Si può quindi scrivere: àfono, nèm esi, glico­ sùria·, leccornìa, caltìfìigo, svalùto, zaffiro.

Rimane ancora da aire di quelle parole che si scrivono nello stesso modo ma differiscono nella pronuncia, non perché l’accento cada su una sillaba diversa, ma per la resenza di una c o di una o chiuse o aperte: accètta (ver­ o) e accétta (nome); collèga (nome) e collèga (verbo); lègge (verbo) e légge (nome); m é n te (verbo) e m é n te (no­ me); pésca (nome, dal verbo pescare) e pèsca (nome di frutto); vènti (nome) e vé n ti (aggettivo numerale); op­ pure con la o, còlto (aggettivo o participio, da cogliere) e cólto (aggettivo = istruito); fòsse (nome) e fis s e (verbo); vólto (verbo) c vólto (nome). Va detto che nella maggior parte dei casi l’accento non è necessario in quanto è ben difficile in un normale contesto linguistico confondere tali omografì. L’accento si segna soltanto se c’è poca chiarezza oppure se si vuol intenzionalmente precisare il suono aperto o chiuso della e o della o. L'accento circonflesso O , infine, indica, nel plurale di alcuni nomi o aggettivi in -io, la contrazione di due / in una sola (ad esempio nel plurale p rin c ip i di principio ) spe­ cialmente allo scopo di evitare possibili confusioni con al­ tri plurali di egual grafia (in questo caso con p r ìn cip i, plu­ rale di prìncipe). L’accento circonflesso è oggi poco usato. Si tende a trovare altre soluzioni, in particolare a segnare l’accento sulla sillaba tonica dell’uno o dell’altro termine (quindi p rin cìp i e p rìncipi), oppure a mantenere la doppia / finale (quindi principi!). Altri casi simili sono ad es. ar­ bitrio e arbitro, assassinio e assassino, om icidio e om icida, osservatorio e osservatore, condom inio e condom ino. Quin­ di: g li assassinii (o assassini) costano caro agli assassini·, a n ­ che g li à rbitri (o arbitri) com m ettono degli a rb ìtri (o arb i­ tr a o arb itri). È bene ricordare che sulla i, quando vi è se­ gnato l’accento circonflesso (e l’accento in genere), non si deve segnare il puntino, che va invece regolarmente se­ gnato in presenza di un apostrofo. Quindi m a trim o n i, così, ma «//"(imperativo di aire).

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soggetto già alla fine del Trecento. La grammatica di Leon Battista Alberti (scritta tra il 1435 e il 1441) registra le forme lui e lei soggetto come caratteristiche del fiorentino quattrocentesco; già dal Cinquecento i grammatici, a cominciare dal Bembo, condannano il ricorso ai pronomi lui e lei in funzione dì soggetto. Quest'uso si fece spazio nella lingua letteraria solo col Manzoni, che adeguò la lingua dei Promessi sposi al fiorentino vivo del suo tempo. Uno degli aspetti più importanti della revisione linguistica dei Promessi sposi consiste proprio nella drastica riduzione dei pronomi egli ed ella soggetto, che vengono eliminati op­ pure sostituiti da lui e lei (così, nel capitolo xxm la frase «Egli ricco, egli giovane, egli rispettato, egli corteggiato: ha male di troppo bene [...]» della prima edizio­ ne (1825-1827) diventa, in quella definitiva (1840-1842), «Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare [...]»), Oggi l’uso di lui e lei come pronomi soggetto è pressoché generale nel parlato, largamente diffuso nello scritto di ogni tipo e accettato da molte grammatiche, anche se alcune continuano a prescrivere le forme egli ed ella.

I repertori grammaticali hanno una tradizione risalente almeno alla tarda antichità. Un secolo di grande fortuna per questo tipo di testo è stato l’Ottocento, quando i puristi compilarono numerosi dizionari di “barbarismi” (peraltro più lessicali che grammaticali), reagendo alle forti spinte neologiche della lingua del tempo. Dagli anni ot­ tanta del Novecento, la tradizione ha ripreso vigore, con testi che si soffermano - in un tono brioso e accattivante - sui principali dubbi e curiosità linguistiche del lettore medio. Tra i più fortunati, quelli scritti a quattro mani da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota: dal Salvalingua ( l a ed. 1995) fino al recente Viva la grammatica (2011).

I repertori del buon

uso iinaulstico

9.3 Tipologia e gerarchia degli errori La diversità tra scritto e parlato (vedi § 4.2) si riflette sul diverso peso che assume nei due tipi di lingua la stessa deviazione dalla norma. Un parlante romano, anche cólto, pronuncia abitualmen­ te sùbbito senza incorrere in squalifiche sociali, mentre una gra­ fìa subbito sarebbe repressa già nella scuola elementare. Un erro­ re d’ortografìa continua ad avere grande impatto sociale, anche se l’ortografìa non appartiene a uno dei livelli linguistici fondamentali (grammatica, sintassi, lessico e testualità) e si riferisce esclusiva­ mente alla lingua scritta (per giunta, ad aspetti spesso marginali come l’uso dell’apostrofo o dell’accento). Le infrazioni ortografiche sono sanzionate duramente nella scuola, nell’ambiente di lavoro e persino nei rapporti privati soprattutto per due ragioni: 1) il prestigio

Sanzione delle infrazioni ortografiche

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Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

Tipologie di errore

Tipologia e gerarchia degli errori

dello scritto, legato anche alle occasioni della scrittura, spesso più formali e impegnative di quel che non avvenga nel discorso orale; 2) la fissazione del sistema grafico (Γ insieme delle lettere disponibili nell’alfabeto di una certa lingua e delle combinazioni possibili per rappresentare un certo suono) e paragrafematico (il complesso dei simboli grafici che si usano nella scrittura oltre ai grafemi: quindi segni d’interpunzione, di accento, di apostrofo, ma anche uso di ma­ iuscole o minuscole, di tondo o corsivo) rispetto alla compresenza di più varietà di pronuncia, tutte sostanzialmente tollerate. Certo, con il diffondersi dei nuovi mezzi di comunicazione telematici e della cosiddetta “neoepistolarità tecnologica” (vedi § 6.9), si è ormai af­ fermato un tipo di scrittura spiccatamente informale e decisamente privato, molto meno attento al rispetto dell’ortografia (considerata tutto sommato secondaria rispetto alla rapidità e all’efficacia com­ plessiva del messaggio). Può essere utile distinguere le deviazioni dalla norma a seconda dell’àmbito interessato (nella lista che segue, il punto 1 riguarda soltanto lo scritto, il punto 2 solo il parlato). Si parlerà dunque di errori 1. ortografici: uso scorretto di singole lettere o di segni paragrafematici (accenti, apostrofi, punteggiatura);

A I ’P n O r-O N n iM F N IO

|l j É h |l |g i f e ; É ì 5 g ; r g f l l ^



✓ L’ USO DEGLI A C C E N T I

e

DELL’ APO STR O FO

CSH-'-Srfe..·?

L’accento è obbligatorio nelle parole tronche (o ossìtone) di due o più sillabe (come portò, Belzebù, nontiscordardimé) e in pochi monosillabi, nei quali svolge funzione distintiva (serve cioè a evitare la confusione con altrettanti omònimi, parole che si scrivono e si pronunciano allo stesso modo, ma hanno significato e spesso etimologia diversi come canto, ‘angolo’ e ‘canzone’): dà verbo (distin­ to dalla preposizione da), è verbo (distinto dalla congiunzione e), là avverbio (distinto dall’articolo la), lì avverbio (distinto dal pronome li), né congiunzione (distinto dall’avverbio o pronome ne), sé pronome (distinto dalla congiunzione o dal pronome atono: tra sé e sé ma se vuoi, se ne va), sì avverbio (distinto dal pronome: si vede), tè sostantivo (distinto dal pronome personale te). Non c’è alcun motivo di privare dell’accento il pronome sé quando sia seguito da stesso: è preferibile scrivere sé stesso senza creare fastidiose eccezioni. Allo stesso modo, non c’è alcuna necessità di distinguere con l’accento la forma verbale dò dalla nota musicale: la grafia corretta resta do (se dovessimo pensare alle note musicali, dovremmo scrivere anche ré ‘monarca’ e sòl ‘sole’, il che sarebbe an­ tieconomico; dunque sbagliato). L’apostrofo è il segno grafico dell’elisione e compare obbligatoriamente nei se­ guenti casi:

- con gli articoli lo, la e con le relative preposizioni articolate (l’uomo, dell’aria); - con bello e santo (un bell’esempio, sant’Ugo); - con ci davanti al verbo essere (c’è, c’era); - in alcune frasi idiomatiche (d’accordo, d’altra parte, mezz’ora, senz’altro e slmili), In altri contesti, l’elisione è facoltativa (t’amo o ti amo, ma la prima forma suona or­ mai antiquata). L’apostrofo indica inoltre l’apòcope vocalica - cioè la caduta dell’ulti­ ma vocale - negli imperativi di dare (da’ < dal), fare (fa’< fai), stare (sta’ < stai), andare (va’< vai) e l’apòcope sillabica in po’ (poco) e mo’ (modo; solo in a mo’ di).

2. ortoèpici, fatti di pronuncia rilevanti soprattutto per particolari cate­ gorie professionali (attori, doppiatori, annunciatori): esecuzione di­ fettosa di singob suoni (alcuni parlanti hanno difficoltà nell’articola­ re correttamente suoni come .vc r) o pronunce regionali (ì ggiovani, la gabina); affini agli errori ortoepici sono anche alcune arbitrarie alterazioni fonetiche come areoporto e metereologìa per aeroporto e meteorologìa, propio e appropiato per proprio e appropriato; o errori d’accento come baule (corretto: baùle) o mollica (mollica); 3. morfosintattici: errata selezione di una forma grammaticale non ammessa dalla norma (dasse ‘desse’, redarre ‘redigere’) o non ammessa in quel particolare contesto sintattico (con egli ‘con lui’, «fece un cenno poiché tutti lo seguissero» ‘fece un cenno perché tutti lo seguissero’);

A l* l‘ H O F O N D IM L N T O

■■■ . 1 ✓ LHJSO D i P O IC H É

La congiunzione poiché ha soltanto valore causale, a differenza di perché che può essere sia causale («Vado a dormire perché ho sonno») sia finale («Fece un cen­ no perché tutti lo seguissero»), sia avverbio interrogativo («Perché non parli?»). Inoltre, mentre la proposizione causale introdotta da poiché può precedere o seguire la proposizione principale («Poiché sono malato, non vado al lavoro» o «Non vado al lavoro, poiché sono malato»), quella introdotta da perché può solo seguirla.

4. lessicali: l’uso di una parola per l’altra (malapropismi: «non si è sposato: è restato celebre» ‘celibe’, «non mi viene la parola: ho un’amnistia» ‘un’amnesia’) o la violazione di qualche limitazio-

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Dubbi ortografici

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

ne di significato («ha inquinato il marito» ‘ha avvelenato’: in­ quinare vale ‘avvelenare’ solo quando l’oggetto non è un essere vivente, ma l ’ambiente naturale, contaminato da sostanze nocive o da rifiuti); 5. gli errori testuali, cioè la violazione di coerenza o coesione (vedi §4.1). '

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consonanti intervocaliche (in particolare la b e la g di pagina) si pronunciano sempre rafforzate (abbile, paggina). Tutti gli ita­ liani possono esitare, poi, in alcuni casi particolari (si indica per prima la forma corretta o più raccomandabile): sennonché/senonché; es te rrefatto/e s te refa tto ; collutorio/colluttorio', inflativo/ inflattivo. Per obiettivo/obbiettivo la scelta è equivalente: la pri­ ma ha assetto latineggiante (obiectivus), la seconda presenta il trattamento proprio delle parole popolari.

9.4 Dubbi ortografici Sebbene l ’ortografia sia un settore abbastanza stabilizzato, non mancano casi dubbi anche per uno scrivente cólto. Riuniremo i prin­ cipali in quattro gruppi. Segni paragrafematici

Scempie e doppie

1. Segni paragrafematici (accento grave e acuto; apostrofo). Fino al secolo scorso l ’accento finale di parola era sempre grave f ). La stampa moderna ha introdotto opportunamente, per le due vocali e e o - suscettibili di essere pronunciate chiuse o aperte ­ la distinzione tra accento acuto per le chiuse {perché) e accento grave per le aperte (caffè). La o finale ha sempre l’accento gra­ ve, perché nelle parole derivate per via ereditaria dal latino che presentano una o tonica finale (ovvero la l a persona del futuro indicativo: amare > *ao > amerò', e la 3a persona del passato re­ moto di i coniugazione: amò, dal latino volgare ì|!amaut in luogo del classico amavit) questa aveva timbro aperto. Ciò ha fatto sì che tutte le parole con o tonica finale successivamente entrate in italiano, per esempio comò e oblò (dal francese), si adeguassero ai modelli preesistenti. Le altre vocali (a, i, u) mantengono l’accento grave tradizionale. Una tradizione tipografica minoritaria preferisce adoperare l’ac­ cento acuto per la i e la u toniche finali (aprì, Cefalu), in quan­ to si tratta di suoni chiusi. In realtà, la distinzione dell’accento in grave e acuto ha senso soltanto quando serve a rappresentare graficamente un’opposizione di suono; dal momento che foneti­ camente esistono una sola i e una sola u, non c’è nessuna ragione per discostarsi dalla tradizione dell’accento grave. 2. Consonanti scempie e doppie. L’incertezza sul corretto uso di consonanti scempie e doppie è più forte per i settentrionali, per­ ché nella pronuncia settentrionale - che risente dei dialetti sog­ giacenti - le consonanti doppie del latino (bellus) o del latino tardo (factum, passato a ;|!fattum per assimilazione) diventano scempie: belo, fato. Scrivendo l’italiano, un settentrionale non troppo cólto può quindi avere qualche incertezza. Ma anche i centromeridionali hanno qualche problema, dal mo­ mento che - nei rispettivi dialetti e nell’italiano regionale - certe

A M 'K O r O N D IM L N lO

✓ L’ USO D F LLA S C EM PIA Γ D E LLA D O P P IA IN A L C U N I CASI P A R T IC O L A R I

Nel passaggio dal latino all’italiano, in un certo numero di casi la consonante finale della parola precedente si è assimilata alla consonante iniziale della parola successiva, producendo una consonante doppia che si percepisce solo nella pronuncia dei parlanti toscani e centromeridionali. Il fenomeno avviene con notevole regolarità dopo un monosillabo: a d c a s a m a casa (pronunciato accasa), e t v i d i t e vide (evvide), e s t v e r u m è vero (èwero) e così via. Quando un monosillabo si unisce a un’altra parola, creando una parola nuova, è necessario esprimere graficamente il rafforzamento della consonante, come avviene per esempio in se + pure, mai, bene (seppure, semmai, sebbene), e + come, viva (eccome, evviva), o + vero, pure (ovvero, oppure). Per esterrefatto/esterefatto, la forma corretta è la prima: basti pensare alla base latina ( e x t e r r è r e ‘atterrire’), ma soprattutto ai numerosi vocaboli italiani appartenenti a questa famiglia (terrore, terrorismo, terrorizzare). Anche per collutorio/colluttorio, la forma corretta è quella conforme all’etimo latino (quindi collutorio, da c o l l u t u s , participio passato di c o l l ù e r e ‘sciacquare’). Fino a qualche anno fa era assai diffusa la forma con raddoppiamento; la corre­ zione a cui hanno provveduto le case farmaceutiche nei messaggi pubblicitari ha determinato un’inversione di tendenza. Inflativo - forma corretta - è un anglicismo recente (da inflative, a sua volta deri­ vato dal latino i n f l a t u s ‘gonfiato’): il diffuso inflattivo è stato attratto dalla sequenza fonica di parole molto comuni come attivo e cattivo.

3. Uso della ì superflua. La i con valore di vocale (cibo), semiconsonante (fiasco ) o segno diacritico (aglio) non dà adito a incer­ tezze. Può invece creare qualche imbarazzo la i superflua, ovvero quella che compare in parole come scienza o grigie e non corri­ sponde a nessuna realtà fonetica né ha funzione diacritica (anche senza la i la pronuncia delle due parole resterebbe invariata). Il dubbio linguistico può sorgere in due casi: nella 4a persona del presente indicativo e nella 4a e 5a del congiuntivo dei verbi con

La /superflua

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Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

Forme latineggiatiti

tema in nasale palatale (bagniamo/bagnamo; bagniate congiun­ tivo e bagnate indicativo e participio) e nel plurale dei nomi in -eia, -già (ciliegie/ciliege). Nel primo caso, può essere opportuno mantenere graficamente la i e scrivere quindi bagniamo per ribadire il legame con gli altri indicativi e congiuntivi in cui la i corrisponde a una pre­ cisa realtà fonetica (amiamo, amiate)·, ma le forme senza ì non possono essere considerate erronee. Nel plurale dei sostantivi e aggettivi in -eia, -già (con accento sulla penultima: camicia, valigia, bigia ecc.), la i non ha valore fonetico né diacritico. In alcuni casi può servire a distinguere tra due omògrafi (le camicie che si indossano sotto la giacca e il camice del medico), in altri può venire adoperata per il prestigio della grafia latina (provincie come provinciae). Per mettere un po’ d’ordine, alcuni hanno proposto una norma artificiale ma ragionevole, che consente di evitare forme universalmente considerate non accettabili (come facete). La i va mantenuta quando c o g sono precedute da vocale (acacia - acacie, valigia - valigie)·, va eliminata quando sono pre­ cedute da consonante (goccia - gocce, pancia-pance, e quindi anche provincia - province). 4. Oscillazioni in forme latineggianti. Per alcune parole di origine dotta, sono in uso la serie latineggiante e quella popolare. In ag­ gettivi comtfamilìare/famigliare, consiliare/consigliare e simili, entrambe le serie sono accettabili, ma quella più diffusa nell’uso (e anche preferibile per evitare ambiguità, come per consigliare, aggettivo o verbo) è la prima. In reboante/roboante e ossequente/ ossequiente le forme corrette sono le prime, conformi all’etimo latino: rispettivamente il participio presente rèboans, -antis del verbo reboare ‘rimbombare’ (roboante si spiega con l’assimi­ lazione della prima alla seconda vocale) e il participio presente obsequens, -entis del verbo òbsequi (la variante ossequiente si deve all’interferenza con una parola più nota: ossequio). Trat­ tandosi di parole ricercate, chi le adopera è tenuto all’uso più sorvegliato.

9.5 Questioni d’accento In alcune lingue la posizione dell’accento è fissa: così in francese, in cui tutte le parole sono accentate sull’ultima sillaba, o nel ceco e nell’ungherese, in cui la sillaba tonica è la prima. In altre lingue, come lo spagnolo, l’ortografia consente sempre di risalire alla pro­ nuncia: le parole terminanti in vocale o in η o ,v (come tiempo, estaban e colores) sono piane; quelle che finiscono per consonante di­ versa da η o s (comefeliz, pagar e nivel) sono tronche; le parole che

Questioni d’accento

fanno eccezione a questa regola, comprese quelle sdrucciole, si scri­ vono con l’accento acuto sulla vocale tonica (habló,fàcil, pùblico). In italiano, invece, l’unica certezza riguarda parole come virtù, prenderò (polisillabi accentati sull’ultima vocale, per cui c’è l’ob­ bligo di segnare l’accento grafico) e come pane (bisillabo senza in­ dicazione d’accento, quindi piano). Per le parole di tre o più sillabe possono sorgere dubbi, specie se si tratta di parole poco comuni. Per molte parole di uso relativamente raro, la forma corretta è quella che continua l’accentazione delle basi latine: edile (aedìlis), persuadére (persuadere), rubrìca (rubrìca, formato con lo stesso suffisso che si ha in formica > formica e urtica > ortica), salubre (salùber, -bris). Le forme scorrette, con ritrazione d’accento sulla terzultima sillaba, dipendono spesso dall’attrazione di un tipo più co­ mune: edile risente dell’influsso dei numerosi aggettivi in -ile come àgile, fàcile, sìmile, vìgile; persuàdere di quello dei verbi coniugati come leggere e ridere; rubrica si sarà forse allineata ad altri trisillabi in -ica (lògica, pràtica, mùsica); sàlubre si è affermato per analogia con altri latinismi in -bre (come lùgubre, cèlebre, muliebre): Fuori dall’area di appartenenza, può causare qualche problema anche l’accentazione di nomi di luogo scarsamente familiari come Friùli (l’accento sulla u è etimologico: dal latino forum iulii ‘Foro di Giulio’, in origine denominazione di Cividale, passata poi a in­ dicare l’intero territorio) e Nùoro (di probabile origine prelatina), che viene pronunciato Nuòro per l’attrazione esercitata dalle parole italiane con dittongo uo (buono e simili). L’incertezza è ancora mag­ giore nel caso di alcuni nomi di piccoli comuni: dal veneto Agordo al laziale Àgosta, dal ligure Lèvanto al pugliese Galàtone, dal lom­ bardo Bòvegno al calabrese Rizzìconi. Fonte di incertezza è l ’accento dei grecismi, specie quelli d’àmbito medico: èdèma o èdèma? Termini come questi sono sì di ori­ gine greca, ma sono giunti fino a noi attraverso un intermediario latino (in genere il latino scientifico moderno): l’accento oscilla per effetto del diverso sistema accentuativo vigente nelle due lingue classiche. Accenta alla greca chi pronuncia alopecìa, arteriosclèrosi, èdèma, flògosi; alla latina chi pronuncia alopècia, arteriosclerosi, èdèma, flogòsi. L’uso propende ora per uno ora per l’altro tipo di accentazione; nei casi in cui la norma oscilla, si può preferire l’accentazione alla latina, riflettendo che storicamente è stato proprio il latino scientifi­ co - la lingua comune agli scienziati europei fino al xvm secolo (vedi § 1.9) - a diffondere quei vocaboli nel lessico medico e, di lì, nel lessico comune. Un altro caso di grecismo passato attraverso il latino è zaffiro (pronuncia preferibile, che riflette il latino sapphìrus) o zàjfiro, pronuncia oggi prevalente, modellata sul greco sàppheiros e avallata anche dall’uso poetico, per esempio di Montale.

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La posizione dell’accento in italiano

Parole di uso raro

Topònimi

Grecismi

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Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

A i 'f i t a i - o N U i M f c N ì a

✓ L’ A C C E N T O IN GRECO E IN L A T IN O

In greco e in latino l’accento non poteva risalire oltre la terzultima sillaba. In greco, cadeva sulla terzultima solo se l’ultima sillaba era breve; in latino, cadeva sulla penultima sillaba se questa era lunga, mentre risaliva sulla terzultima in caso di penultima breve. Queste differenze tra le due lingue classiche danno conto del diverso accento di grecismi passati in latino: il greco ekklesìa, per esempio, è stato pronunciato in latino come e c c l è s i a (da cui il nostro chiesa), perché la penultima breve ha rigettato l’accento sulla terzultima.

9.6 Nomi e pronomi Questioni di genere

Nelle lingue che distinguono due o anche tre generi grammaticali (come latino, greco o tedesco: maschile, femminile e neutro) non è sempre facile orientarsi. La semantica non soccorre, perché il gene­ re grammaticale non è prevedibile. Per gli esseri animati, e in parti­ colare per l’essere umano, c’è una certa corrispondenza tra genere naturale e genere grammaticale: l ’uomo e il fratello sono maschili, la donna e la sorella sono femminili (ma ci sono anche la guardia o la sentinella, che normalmente sono uomini). Ma per le cose inani­ mate e per i concetti astratti, ogni lingua fa storia a sé. Sarebbe vano cercare motivazioni semantiche, e non puramente storico-linguisti­ che, per giustificare il fatto che ‘il sole’ sia femminile in tedesco (die Sonne) e maschile in latino e nelle lingue romanze; o che ‘parentesi’ sia femminile in italiano e maschile in spagnolo (el paréntesis); o che ‘affare’ sia maschile in italiano e femminile in francese (une affaire). Anche le desinenze possono non bastare per risalire al genere: in italiano i nomi in -a sono solitamente femminili, ma diciamo il col­ lega, il pianista·, i nomi in -o sono solitamente maschili, ma diciamo una auto, la radio. I nomi maschili in -a rappresentano una mino­ ranza, sia pure cospicua, rispetto ai nomi in cui il genere maschile è marcato dalla desinenza -o. Derivano dal latino (come collega)·, dal greco, per lo più attraverso il latino (poeta); da altre lingue (il ne­ palese: panda·, il persiano attraverso l ’inglese: pigiama', una lingua indigena dell’America latina: barracuda); oppure sono formate mo­ dernamente mediante un suffisso di origine latina (come -cida: omi­ cida, insetticida) o greca (come -ìsta\ dentista, seminarista). I nomi femminili in -o, invece, rappresentano quasi tutti il primo elemento di parole composte, e mantengono il genere originario: automobile diventa auto, radiofonia diventa radio. Diverso il caso di biro (dal nome dell’inventore, l’ungherese Biro), in cui si sottintende penna.

Nomi e pronomi

Le occasioni di incertezza, però, non sono queste. Possiamo ri­ cordare le più ricorrenti.

233

Casi dubbi

■ I nomi di città, quale che sia la terminazione, sono normalmente femminili: la nuova Foggia, l ’operosa Milano, la vivace Chemnitz. L’eccezione più importante è II Cairo, sempre maschile (per effetto dell’articolo che fa stabilmente parte del nome). Qualche volta sono adoperati come maschili i nomi in -o: tutto Milano (De Marchi, anche per influenza del genere dialettale: el nasi Milàn), Urbino ventoso (Pascoli). ■ Per i nomi femminili di professione, il gruppo che può causare più problemi è quello costituito da nomi come avvocato o inge­ gnere, il cui femminile è oscillante: l ’avvocatessa, l ’avvocata o l ’avvocato Maria Rossi? Rispettando le strutture grammaticali dell’italiano, è preferibile ricorrere al tipo avvocata (ingegnerà, sindaca, ministra), che può suonare insolito solo perché fino a pochi anni fa erano scarse le donne che ricoprivano questi ruoli. Ma quel che conta, in un caso del genere, è soprattutto la sen­ sibilità prevalente nel mondo femminile; e, a quanto sembra, la maggior parte delle professioniste preferisce essere chiamata col maschile, a volte preceduto dall’articolo femminile: il ministro Stefania,Prestigiacomo, la sindaco Marta Vincenzi. ■ Singoli casi di oscillazione si spiegano variamente. In il/la carce­ re (carcer in latino era maschile), il genere etimologico - oggi prevalente - è stato affiancato dal femminile, generalizzatosi al plurale (le carceri), probabilmente per influsso del sinonimo pri­ gione. Nei grecismi acme e asma, il genere originario era rispet­ tivamente femminile e neutro (ai neutri greci in -ma corrispon­ dono in italiano maschili: il tema, il poema). Ma asma ha sentito l’influenza dei nomi femminili in -a (anche nell’uso dei medici è ormai abituale asma allergica) mentre per acme, l’uso più sorve­ gliato continua a essere quello femminile. Passando alla morfologia pronominale, notiamo che tra prescrizione delle grammatiche e uso parlato c’è un certo contrasto per quanto riguarda i pronomi personali atoni: «ho visto tua madre e le ho det­ to» (uso scritto e parlato sorvegliato) o «ho visto tua madre e gli ho detto» (parlato informale)? E ancora: «ho visto i bambini e ho detto loro» (uso elevato) oppure «ho visto i bambini e gli ho detto»? Si tratta di alternative che hanno alle spalle una lunga storia. Quanto a gli, potremmo osservare che l’uso di un’unica forma singolare per maschile e femminile discende addirittura dall’etimo latino (l’unica forma dativale illi, comune ai tre generi) ed è largamente attestato nel corso della nostra storia linguistica. Ciò non vuol dire, però, che

Pronomi personali atoni

234

Q uesto, c o d e s to

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

la norma contemporanea - che non si lascia condizionare dal blaso­ ne di antichità di questa o quella forma - l’abbia accolto: g li riferito a un femminile è ancora oggi percepito come una forma di livello popolare che è opportuno evitare anche nell’uso parlato.

\P P K O I O N IilM E N T O

m

✓ IL C A R A T T E R E S IN C R O N IC O D E LLA N O R M A L IN G U IS T IC A

A P P IIO I O N D IM I N IO

e q u e llo

235

< / L A P O S IZ IO N E E N C L IT IC A DEI P R O N O M I

Nell’italiano di oggi, un pronome atono si affigge obbligatoriamente al verbo come enclitico in quattro casi: 1.

dopo un in fin ito (dirgli);

2.

dopo un im p erativo afferm ativo (digli; si oscilla invece con l’im p erativo negativo: non

3.

dopo un g e run dio (dicendogli);

4.

dopo un p a rticip io (dettogli, spettantele).

dirle o non le dire);

L’uso dei classici non può essere invocato a sostegno dell’uso attuale, se non nei casi nei quali un certo istituto linguistico sia restato in vigore fino a oggi, magari in posizione minoritaria. Se la norma attuale ha sanzionato una forma o un costrutto come popolare o scorretto, l’eventuale appoggio di uno scrittore del passato è vano. Così, l’uso dell’ausiliare avere con i verbi pronominali, oggi diffuso nell’italiano regionale del Mezzogiorno, non potrebbe giovarsi dell’esem­ pio del Boccaccio («s’aveva messe alcune pietruzze in bocca»); i congiuntivi ana­ logici sulla i coniugazione come vadi, possi, sappi non diventano accettabili per il fatto che li adoperava Leopardi; la sequenza e né per collegare due proposizioni coordinate non cessa di essere una forma popolaresca perché a suo tempo era stata usata da Bembo («né freno il corso e né la sete spengo»).

Più accettato l’uso di g li per ‘a loro’, che appare anzi raccomandabile nel registro colloquiale, in cui lo ro risulterebbe affettato. L’espansione di g li ai danni di lo ro , oltre che sul largo uso letterario (lo usano abi­ tualmente i professionisti della penna: scrittori, saggisti e giornalisti), può far leva su una ragione strutturale. Tutti i pronomi personali atoni si presentano come monosillabi anteposti al verbo (m i p a r la , c i p a r la , v i p a r la e così via) oppure, in casi ben definiti, posposti al verbo col quale formano un’unica parola (p a r la r m i,p a r la n d o v i, p a r la c i! ). In al­ tri casi, la collocazione del pronome atono è oscillante; in particolare con molti verbi che reggono un infinito: «non vogtio vederlo » oppure «non lo voglio vedere» (in qualche caso la medesima alternativa si pone anche se l’infinito è retto da una preposizione: «comincio a stan­ carmi» o « m i comincio a stancare»). L’atono g li entra a pieno titolo in questa serie, mentre lo ro - bisillabico e dotato di un accento proprio - sta a sé, e ciò contribuisce a indebolirne l’uso. Il pronome lo ro , invece, è normalmente posposto, conservando sem­ pre la sua autonomia (p a r lo lo ro , p a r la r e loro)·, può essere anteposto nella lingua di registro sostenuto, in particolare davanti a un participio («i diritti lo ro sp etta n ti» )·, può anche essere interposto tra un elemento reggente e un elemento retto (per esempio, tra ausiliare e participio: «la consegna che e r a s ta ta lo ro affidata»', o tra un verbo di modo finito e un gerundio: «ciò che il destino a n d a v a lo ro p r e p a r a n d o » ).

9.7

Q u e s t o , c o d e s t o e q u e llo

Il sistema dei pronomi e aggettivi dimostrativi nell’uso toscano e nell’italiano letterario presenta tre forme disponibili: q u e s to (dal la­ tino volgare Éccinvi istum), che indica vicinanza materiale o psico­ logica rispetto a chi parla; c o d e s to (éccìjm τϊβι istum), che indica vicinanza a chi ascolta; q u e llo (éccum illum ), che indica distanza sia da chi parla sia da chi ascolta. Quindi: «Che sarebbe la Chiesa se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratel­ li?» (Manzoni); ma una frase del genere sarebbe oggi possibile solo in Toscana: altrove si direbbe q u e s to v o s tr o lin g u a g g io o il v o s tr o lin g u a g g io . Appartiene invece all’uso nazionale, limitatamente allo scritto formale specie burocratico, l ’impiego di c o d e s to nella corrispondenza: «Questo ufficio ha più volte sollecitato codesta dire­ zione affinché...». In tal caso c o d e s to non sarebbe sostituibile senza creare confusione tra emittente e destinatario del messaggio.

Λ Ρ Ρ Κ Ο Γ Ο Ν Π ΙΜ Ε Ν Τ Ο

\

1

Codesto: forma regionale e settoriale

✓ S P A Z IO REALE E SP A Z IO PSICOLOGICO N E I D IM O S T R A T IV I

La scelta tra questo (vicinanza a chi parla) e codesto (vicinanza a chi ascolta) può essere suggerita, nell’uso toscano e letterario, da fattori emotivi. Il letterato e grammatico Raffaello Fornaciari (1837-1917), per esempio, giustificava l’uso di questo, invece del codesto che ci si sarebbe potuti aspettare in un passo dello scrittore cinquecentesco Battista Guarini («Lascia a me queste lacrime, Carino») con la partecipazione del parlante agli affanni del suo interlocutore: sono lacrime «che io vedo e di cui mi duole».

236

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

Questi e quegli

Oltre che per indicare qualcosa nello spazio, i dimostrativi si usa­ no per richiamare qualcosa detto in precedenza (funzione anafori­ ca: «lo stipendio era scarso per chi aveva solo q u e ll’entrata.») o per anticipare quello che si dirà in séguito (funzione cataforica: «sono venuto per dirti solo q u e s to : sei uh mascalzone»). Anche c o d e s to può adoperarsi in funzione anaforica, ma è un uso ormai raro e for­ temente letterario: «Per tutti codesti motivi, la Rivoluzione scoppiò nel luglio del 1789». Adoperati come pronomi, q u e s to e q u e llo conoscono anche una variante letteraria, q u e s ti e q u e g li. Storicamente, sono forme che hanno assunto nel latino volgare la -I nominativale del pronome illi (in luogo del classico ille ), a sua volta promossa dal pronome rela­ tivo q u i ‘il quale’. Questa origine si riflette in una restrizione d’uso ancora oggi operante nell’uso sorvegliato: q u e s ti e q u e g li s’impie­ gano solo con funzione di soggetto; come oggetto o complemento indiretto è indispensabile ricorrere a q u e s to e a q u e llo .

9.8 Indicativo e congiuntivo Il congiuntivo è davvero morto?

Fenomeno antico

Si parla molto, negli ultimi tempi, di una presunta “morte del con­ giuntivo” nella lingua italiana. In realtà le cose sono più complesse. In moltissimi casi l’alternativa tra indicativo e congiuntivo è esistita fin dai primi secoli del volgare, in funzione di diverse sfumature espressive o - più spesso - di un diverso registro stilistico (più o meno formale, più o meno colloquiale). È il caso della pròtasi del periodo ipotetico dell’irrealtà («Se l’avessi saputo, non sarei parti­ to»), in cui - accanto al congiuntivo - è sempre esistita la possibilità di ricorrere all’indicativo imperfetto (imperfetto irreale o controfat­ tuale). La tendenza a sostituire in tutto o in parte il congiuntivo e il condizionale con l’imperfetto indicativo affiora già in autori antichi di forte impronta letteraria, come Petrarca («Ma s’io v’era con saldi chiovi fisso, / non devea specchio farvi [...] aspra e superba» ‘se io fossi stato saldamente fissato nel vostro cuore, lo specchio non avrebbe dovuto rendervi aspra e superba’). Altre volte la scelta del modo verbale è condizionata dal verbo reggente, come nel caso delle proposizioni completive, cioè quel­ le proposizioni che svolgono la funzione di complemento oggetto (proposizioni oggettive: «penso ch e tu s ia sin c e r o » , affine a «penso q u a lc o s a ») o di soggetto (proposizioni soggettive: «è bello v iv e r e qui», affine a «la v ita qui è bella»). Una proposizione oggettiva retta da un verbo di giudizio o di percezione richiede normalmente l’in­ dicativo («Mi ricordo che h a i v is s u to a lungo a Napoli»); retta da un verbo volitivo, richiede il congiuntivo («Mi auguro che tutto v a d a per il meglio»), È innegabile, in ogni modo, che specie in dipen-

Ordine delle parole

237

denza di verbi d’opinione si registra sempre più spesso nel parlato e nello scritto informale la tendenza a usare l ’indicativo. Anche la letteratura, che dall’Ottocento in poi si è fatta assai sensibile afi’imitazione dell’oralità, registra questa espansione.

A P P R O F O N D IM E N T O

C H E È V i R O NC LI A l>HOSA

Già dal secondo Ottocento l’uso dell’indicativo in una proposizione completiva non è raro in scrittori che intendano accostarsi al parlato, specie quando si trovino a riprodurre le battute di un personaggio. Per esempio: «lo credo che i Giulente sono nobili» (De Roberto), «mi pare che deve essere così» (Nievo), «io credo che lei è un gran buon uomo» (De Marchi).

Per valutare adeguatamente la situazione del congiuntivo neH’italiano contemporaneo, bisogna tener conto di un’altra serie di, fattori, a partire dal quadro delle lingue romanze:

Contestualizzazione

tlel fenomeno

■ nel francese, il processo è molto avanzato e si può dire che il congiuntivo non esista più nella lingua parlata: ciò potrebbe pre­ figurare una sorte simile per l’italiano; ■ alcune forme del congiuntivo sono indistinguibili da quelle dell’indicativo ( p o r ti, p o r tia m o , p o r ta s te ) e ciò favorisce l’e­ spansione del modo verbale più forte; ■ una completiva al futuro non può che costruirsi con l’indicativo («Vi pare ch e v i la s c e r a n n o menar sempre pel naso quel buon uomo [...]», Verga); ■ c’è la tendenza a percepire alcuni verbi reggenti di completive come incidentali («mi sembra che hai ragione» può diventare accettabile se viene avvertito come equivalente a «hai ragione, mi sembra»).

9.9 Ordine delle parole Si dice comunemente che in italiano, come nelle altre lingue roman­ ze, l’ordine delle parole è diventato rigido, rispetto alla libertà del la­ tino (vedi § 1.4). Eppure, se guardiamo più da vicino, ci accorgiamo che molte volte le cose non stanno così. La rigidità delle sequenze vale solo nefi’àmbito del sintagma, ovvero nell’unità sintattica di livello inferiore rispetto alla frase, composta da due o più elementi grammaticali o lessicali (articolo + sostantivo: «la casa», non c a s a la-, preposizione + gruppo nominale: «della vecchia casa», non v e c -

L’ordine è rigido nei sintagmi

238

Ordine delle parole

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

Enunciati reali: violazione dell’ordine abituale

Tema + rema, dato + nuovo

Norma sintattica/ concreta realtà comunicativa

chìa casa della e così via) e per alcune proposizioni ben definite, come le relative e le interrogative. Infatti, in una proposizione relativa, il pronome che, cui occupa obbligatoriamente il primo posto: «la casa che abito, in cui abito». Il pronome il quale, se dipende come complemento di specificazio­ ne da un nome appartenente alla stessa proposizione relativa, può essere posposto: «il contribuente i redditi del quale rientrano nella quota esente»; posposto obbligatoriamente è invece il quale come complemento oggetto di un infinito o di un gerundio dipendente dalla subordinata relativa: «amo molto sant’Agostino, leggendo il quale mi sono riavvicinato a Dio»; «il violoncello è uno strumento per suonare il quale occorrono anni di studio». Nelle interrogative parziali, cioè quelle in cui la domanda non riguarda l’insieme della frase (interrogative totali: «Ti piace la birra?», oppure «La birra ti piace?»; risposta sì, no) ma un singolo elemento, l’enunciato contie­ ne un pronome o avverbio interrogativo che si colloca abitualmente al primo posto («Dove vai?», «Chi ha telefonato?»), a meno che non si voglia sottolineare proprio quell’elemento: o con intento fatico (vedi § 4.1), non avendo capito ciò che ha detto il nostro interlo­ cutore, o con intento di riformulazione polemica, per prendere le distanze («Vai dove?», «Ha telefonato chi?»). Negli enunciati reali, l’ordine abituale (o come anche si dice: non marcato) soggetto - verbo - predicato viene violato in molti casi; se qualcuno ci domandasse: «Chi vuol venire?», dovremmo risponde­ re «Vengo io» (predicato + soggetto), non Io vengo. Questo perché l’ordine delle parole è determinato da una serie di fattori che riguar­ dano la pragmatica, la stilistica, la distribuzione dell’informazione nella frase. Le frasi reali tendono a rispettare la sequenza tema + rema e dato + nuovo (vedi § 4.3). Non c’è dubbio che nella risposta «Vengo io» il predicato rappresenti sia l’elemento intorno al quale è costruita la predicazione {tema) sia l’informazione condivisa tra parlante e interlocutore {dato), mentre il soggetto reca l’informazio­ ne relativa al tema {rema) e contiene la parte nuova dell’enunciato, che non è possibile omettere {nuovo·, tant’è che si potrebbe rispon­ dere soltanto: «Io»). Lo stesso vale per le didascalie di un discorso riportato, in cui il verbo dire o simili rappresenta l’elemento tematico e il rema è il personaggio che di volta in volta pronuncia la battuta. La sequenza «disse il dottore» è dunque più spontanea che non «il dottore disse», e diventerebbe addirittura obbligatoria nel caso in cui il rema avesse una struttura più complessa («disse il dottor Mariotti con un sorri­ so beffardo»; sarebbe impossibile il dottor Mariotti con un sorriso beffardo disse)·, ciò per la regola strutturale del costituente pesante. Secondo questa regola, il costituente più complesso (più “pesante”)

tende ad assumere il secondo posto, indipendentemente da altre va­ riabili. Nella frase «Basta essere prudenti» (e non Essere prudenti basta) si ha il consueto ordine tema-rema; ma se il tema diventa “pesante” - sia sintatticamente sia come carico informativo - passa al secondo posto: «Essere prudenti basta a evitare molti incidenti». In sostanza: una norma sintattica generale va calata nella concre­ ta realtà comunicativa e verificata alla luce dei vari condizionamenti che in essa agiscono. ✓ IL DISCORSO R IP O R T A T O

Nella scrittura, per riferire il pensiero altrui possiamo ricorrere a tre fonda­ mentali strutture linguistiche: I. Discorso diretto: riproduzione fedele - o presentata come tale - di un di­ scorso; è segnalata di solito da precisi indicatori grafici (virgolette o trattini): «Allora vuoi, o non vuoi?», incalzò Micòl. «Ma... non so...», cominciai a dire, accennando al muro. «Mi sembra molto alto». «Perché non hai visto bene», ribattè impaziente. «Guarda là..., e là..., e là», e pun­ tava il dito per farmi osservare. «C’è una quantità di tacche, e perfino un chiodo, quassù in cima. L’ho piantato io». «Sì, gli appigli ci sarebbero, per esserci», mormorai incerto, «ma.,.». 2.

Discorso indiretto: parafrasi di un discorso diretto trasposto in terza persona, senza particolare attenzione nel riprodurre lo stile e la forma deiroriginale: Ciò detto, passò a domandarmi che cosa stessi facendo, che cosa avevo intenzione di fare nell’immediato futuro. E come stavano i miei genitori.

3. Discorso indiretto libero: tipico della prosa letteraria otto-novecentesca, consiste in un resoconto indiretto, privo però di servitù sintattiche e con­ tenente una serie di modalità proprie del discorso diretto (per esempio frasi interrogative ed esclamative, interiezioni, frasi sospese che tradiscono l’emotività dei personaggi). Perché mai non riconoscevo che dopo il comunicato del 9 settembre, e perfino dopo la circolare aggiuntiva del 22, le cose almeno a Ferrara erano andate avanti quasi come prima? Verissimo - ammise, sorridendo con malinconia durante quel mese, fra i settecentocinquanta membri della Comunità non c’erano stati decessi di tale im­ portanza che fosse valsa la pena di darne notizia sul Padano [...]. Però siamo giusti: il

239

240

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

libro dei tele foni non era stato ritirato per essere sostituito da una ristampa purgata; non c’era ancora stata «havertà», cameriera, cuoca, balia, o vecchia governante, a servizio presso qualcuna delle nostre famiglie, la quale, scoprendosi improvvisamente una «coscienza razziale», avesse davvero pensato a far fagotto; il Circolo dei Nego­ zianti, dove, da oltre dieci anni, la carica di vice-presidente era coperta dall’avvocato Lattes - e che lui stesso, come pur dovevo sapere, continuava a frequentare indistur­ bato quasi ogni giorno - , non aveva a tu tt’oggi preteso dimissioni di sorta. (T u tti i brani da G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, 1962)

9.10 Punteggiatura

Funzione della punteggiatura: marcare i rapporti sintattici

Regole della punteggiatura

I segni di punteggiatura sono una prerogativa dello scritto. Se si escludono i casi del punto interrogativo (?) e del punto esclamativo (!), in cui si ha una corrispondenza tra oralità e scrittura, general­ mente non hanno la funzione di rappresentare graficamente le pause del parlato, ma piuttosto di marcare i rapporti sintattici che intercor­ rono tra le parti di una frase o di un periodo. Inoltre, se per Γ orto­ grafìa e la morfologia si può contare su un insieme di norme rigide e codificate, per la punteggiatura la scelta tra i vari segni interpuntivi dipende molto spesso dalle abitudini scrittorie individuali. Questo non vuol dire che non esistano regole a cui attenersi. Un segno di interpunzione non va usato in presenza di un blocco unitario ■ tra soggetto e predicato («Marco è partito»); ■ tra aggettivo e sostantivo («Una bella giornata», «Un caldo tor­ rido»); ■ tra predicato e complemento oggetto («Questa macchina ha mol­ ti optional»); ■ tra elemento reggente e complemento di specificazione («La luce del sole»).

La virgola

La virgola è ammessa soltanto nella riproduzione del parlato o nel registro colloquiale, se serve a mettere in evidenza il soggetto o il complemento oggetto, specie quando questo si trova in una posi­ zione diversa da quella che occupa abitualmente nella frase: «Lei, è stata zitta tutto il tempo» (mentre gli altri parlavano), «Parla bene, lui!» (detto in senso ironico-enfatico), «Vorrei proprio vederlo, l ’ul­ timo film di Moretti». Esistono anche alcuni casi in cui l’uso della virgola è obbligatorio:

Punteggiatura

241

■ prima dell’apposizione («Dionisio, tiranno di Siracusa»); ■ prima del vocativo non preceduto dall’interiezione («Studiate, ragazzi»); ■ in caso di ellissi («Ho visto Sara due volte: la prima, a casa di amici; la seconda, in biblioteca»). La virgola si usa di norma nelle enumerazioni e nelle coordinazioni asindetiche (cioè senza congiunzioni), ma non in quelle sindetiche, soprattutto se sono formate da due soli membri e sono all’interno della stessa frase («cani e gatti», «al mare o in montagna»). Quan­ do la coordinazione riguarda le frasi, la virgola è ammessa solo se queste sono distanti grammaticalmente o tematicamente: «Chiama­ va, chiamava, e nessuno rispondeva» (a rimarcare il cambio di sog­ getto), «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gra­ tuite agli indigenti» (art. 32 della Costituzione italiana; la virgola qui mette in risalto il rapporto di coordinazione tra tutela la salute e garantisce cure gratuite). Nel delimitare un inciso di qualsiasi tipo, la virgola può essere sostituita dalle lineette o trattini lunghi (-) e dalle parentesi tonde, soprattutto in caso di frasi molto lunghe. In presenza di frasi subor­ dinate, infine, la virgola non può inserirsi tra reggente e completiva (oggettiva: «Credo che tu abbia ragione»; soggettiva: «Mi sembra che tu abbia ragione») e tra reggente e relativa limitativa o restritti­ va, ovvero una relativa che ha la funzione di precisare il significato della frase precedente («Le piante sempreverdi sono quelle che non perdono le foglie in autunno»); è invece ammessa se la relativa è esplicativa («In vacanza andremo all’isola di San Nicola, che si tro­ va nell’arcipelago delle Tremiti»). Il punto e virgola si usa nelle coordinazioni asindetiche, al posto della virgola, quando le enumerazioni sono complesse (come accade spesso in questo volume), ma anche in altri due casi: 1. in una frase coordinata o giustapposta, per segnalare una diver­ sa tematizzazione: cioè un cambio di soggetto («La Commedia di Dante è un’opera complessa; l’autore possedeva una cultura enciclopedica») o la presenza del soggetto della frase precedente con un diverso regime sintattico («Gianna arriva stasera; vado a prenderla alla stazione alle sette»: Gianna è il soggetto della prima frase e il complemento oggetto della seconda, espresso dal pronome -Za); 2. posto prima di un connettivo “forte”, ne sottolinea il valore con­ clusivo (dunque, quindi, perciò, insomma) o esplicativo (ovvero, ossia e simili), in concorrenza con i due punti.

Il punto e virgola

242

Capitolo 9 - Giusto e sbagliato

A t ’ P K U lO N U IM I'N r O

Punteggiatura

ancora sfruttato, soprattutto nel linguaggio burocratico») o un’e­ numerazione dei singoli componenti di un insieme (come accade nel periodo che avete appena letto: «due funzioni: quella argo­ mentativa...»).

✓ L A S T R A O R D IN A R IA F O R T U N A DEL P U N T O FERMO

Le prime segnalazioni del fenomeno risalgono addirittura all’Ottocento. Raf­ faello Fornaciari, nella sua Sintassi (1881) dice che sono «degni di biasimo, e contraffanno all’indole della lingua italiana coloro che seminano i punti fermi ad ogni momento». E qualche tempo dopo, Giuseppe Malagoli nella sua Ortografia italiana (1905) ribadisce che «Non è raro, nello scrivere moderno, l’uso del punto fermo dove una volta si sarebbero messi i due punti 0 anche il punto e virgola». In letteratura, quest’artificio stilistico è portato fino alle estreme con­ seguenze nel Notturno di D’Annunzio (1916): «È la sera di santo Stefano. Il suo fuoco è acceso. Sono seduto là dov’egli soleva sedere. Di tratto in tratto egli mi annienta. Mi perdo in lui». Negli anni sessanta del Novecento, usi simili risultano frequentissimi nella resa scritta del parlato, come nel Buio e il miele di Giovanni Arpino ( 1969): «Ti senti diverso da quelli là?» «Un po’. Non meglio. Solo diverso»; «Già. Mangiare. Avrai fame, tu»; «Due commedianti. Perdipiù antichi. Fuori moda». Nel frattempo, però, l’uso si è esteso anche alla prosa giornalistica: «Un morto è stato scoper­ to ieri in un fossato. Lo cercavano da giorni. Aveva 62 anni. Un buttero, figlio di butteri maremmani» (“Corriere della Sera” del 15 novembre 1966). E sarà proprio nei giornali che l’abuso del punto fermo riscuoterà maggiore fortuna. Consacrato negli anni ottanta da una firma prestigiosa come quella di Beniamino Placido («Ma lunedì sera aveva dimenticato completamente il suo mestiere. Dimenticato. Completamente») ed esasperato negli anni novanta da Ilvo Diamanti («Gli investimenti in ricerca, sull’Università, sulla formazione. Sempre ridotti. In misura desolante»), questo stilema rappresenta ormai uno dei più diffusi stereotipi della scrittura giornalistica: «Fammi volare. Perlomeno con la fantasia. Erotica. Che sarà sempre più sfrenata» («La Repubblica delle Donne», 30 luglio 1996). Tanto che per ottenere un effetto stilistico diverso, la scrittura letteraria deve ricorrere a effetti più clamorosi: come in Amore mio infinito di Aldo Nove (2000), in cui il punto si trova spesso dopo e così, io non, e; a volte spezzando la subordinata annunciata da una congiunzione: «la sua voce non l’avrei più sentita almeno fino a quando.»; «Mi faceva tenerezza come.».

Se però Γenumerazione fa corpo con la frase precedente, costituen­ done il complemento oggetto o un complemento indiretto, i due punti vanno evitati (perché separerebbero un blocco unitario) oppu­ re devono essere preceduti da un complemento generico: «Il pazien­ te lamenta i seguenti sintomi: dolori addominali, nausea, cefalea», non «Il paziente lamenta: dolori addominali». Esistono due tipi di virgolette: quelle basse (« ») e quelle alte (“ ”)· Le prime si usano per introdurre una citazione o un discorso diretto. Le seconde si usano principalmente in due casi: -

-

A I ’ l ’ lfO F O N D IM l N T O

✓ P U N T O E A C APO

Il capoverso, ovvero l’uso di andare a capo dopo un punto fermo fecondo rientrare il testo di qualche battuta rispetto alla gabbia della pagina scritta, può essere consi­ derato un connettivo implicito, Infetti, come i connettivi espliciti (perché, a seconda che, quanto a e simili) e come i segni d’interpunzione, avverte il lettore della presen­ za di uno scarto rispetto a quello che si è detto fino a quel momento: un cambio di argomento o l’esame di un aspetto particolare del tema che si sta trattando. L’uso dei capoversi è in molti casi soggettivo, dipendendo dalle abitudini e dal gusto personale di chi scrive, Esistono però alcune funzioni codificate:

I due punti servono principalmente a introdurre il discorso diretto o una citazione, ma hanno almeno altre due funzioni: ■ quella argomentativa, quando indicano l’effetto prodotto da una causa o la conseguenza logica di un fatto («Questo libro mi è piaciuto molto: l’ho letto tre volte» = infatti l ’ho letto tre volte)·, ■ quella descrittiva, quando introducono un commento critico («Un sinonimo di lettera è missiva·, termine meno comune ma

Le virgolette

per riportare un discorso diretto o una citazione all’interno di un altro discorso diretto o di un’altra citazione (in concorrenza con la lineetta, collocata abitualmente solo all’inizio della battuta); per segnalare l’uso particolare (ironico, traslato, allusivo e così via) di una determinata parola o locuzione (quando cioè parlia­ mo “tra virgolette”).

~ I due punti

243

-

nella prosa saggistica e argomentativa, il capoverso introduce un blocco informativo omogeneo (come, in questo paragrafo, Il punto e virgola si usa... / / 1 due punti servono.,.) o sottolinea la scansione e il collegamento tra i vari membri (come accade nell’elenco puntato presente in questa scheda); nella prosa letteraria, il capoverso viene usato soprattutto per riportare le battute di un dialogo, ma può comparire anche in caso di un cambio di am­ bientazione (interno/esterno) o di un salto cronologico (Il giorno seguente, Poche ore dopo).

S to ria d i p a ro le

245

C a p ito lo 9 - G iu s to e s b a g lia to

a indicare, più in generale, le scritte in rosso con cui nelle opere mano­ scritte venivano evidenziati i titoli dei capitoli. È con questo significato che compare, per la prima volta in volgare, nell’incipit della Vita nuova di Dante (1292-1293 ca.): «In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit

Storia di parole Chiesa Come gran parte della terminologia cristiana, la parola chiesa pro­ viene dal greco: in questo caso da ekklesìa ‘assemblea, adunanza’ (derivato del verbo ekkalèin ‘chiamare’), per il tramite del latino e c c l e s i a . Risalgono alla fine del xm secolo le prime attestazioni di chiesa con il significato di ‘co­ munità di persone che professano la stessa fede’ e con quello metonimico di ‘edificio consacrato al culto religioso’. È avvenuto nel Trecento, invece, lo slittamento semantico che ha portato la parola chiesa ad assumere an­ che il significato di ‘clero, gerarchia ecclesiastica’. La singolare espressione chiamarsi chiesa ‘non volersi impegnare’ (che ha un corrispettivo anche nello spagnolo llamarse ìglesia) contiene un riferimento al diritto d’asilo.

vita nova».

Quando fra Otto e Novecento la parola, sopravvissuta fino a quel mo­ mento soltanto per via libresca, fu ripresa per definire uno spazio dedicato a un determinato argomento nei giornali e successivamente il quaderno con i margini a scaletta su cui appuntare le informazioni in ordine alfabe­ tico, molti furono incerti sull’accento: i manuali di pronuncia dell'Italiano registrano oscillazioni nell’accentazione della parola già nel 1939. La pro­ nuncia corretta è comunque quella corrispondente all’etimo: rubrìca.

Fiasco II termine risale al gotico flasko, che appartiene alla stessa famiglia del verbo tedesco fiechten ‘intrecciare’. La parola entrò come prestito di necessità nel latino, perché la bottiglia rivestita di vimini era sconosciuta ai Romani. È quindi arrivata in italiano attraverso il latino f l a s c o , - o n i s , attestato già in Ennodio (473-521). Dall’accusativo f l a s c o n e m del latino tardo avremmo dovuto avere l’italiano fìascone; a fiasco si è arrivati per il meccanismo della retroformazione: fìascone è stato erroneamente sentito come un accrescitivo, proprio come è avvenuto per drago (latino d r a c o n e m ) e per ladro (latino l a t r o n e m ) . Per il significato traslato di ‘insuccesso’ si racconta una storiella che forse non ha fondamento: nel 1681 un attore bolognese non riuscì a divertire la platea e diede la colpa al fiasco che teneva in mano sulla scena e costituiva l’oggetto del suo monologo. Con questa nuova accezione, il termine fiasco si è affermato soprattutto in àmbito teatrale, diventando - grazie al successo (o all’occasionale insuc­ cesso) dell’opera lirica italiana - un italianismo tra i più diffusi in Europa nella prima metà dell’Ottocento. Pigiam a Pigiama ha la sua origine nel persiano pay jamè ‘vestito da gamba’ (composto di pay ‘piede, gamba’ e jamè ‘vestito’), ma è arrivato in italiano con la mediazione dell’inglese pyjamas, usato per indicare un ‘indumento da letto o da casa, maschile e femminile, composto di giacca e pantaloni’ (come viene definito già nel dizionario del Panzini nel 1905). Sempre per influsso dell’inglese, si è affermata anche l’espressione pigiama party. Rubrica Nell’antica Roma, l’aggettivo r u b r ì c a ‘rossa’ indicava nell’uso sostantivato anche un tipo particolare di terra usato dai legislatori per marcare in rosso i titoli delle leggi. Successivamente, il vocabolo passò

V E R IF IC A

1. 2. 3. 4. 5.

Come si può articolare il concetto di “errore” rispetto alla norma linguistica? Quali sono le fonti della norma linguistica? Fornisci alcuni esempi di incertezza riguardo l’ortografia e la posizione dell’accento. Gli al posto di loro e gli al posto di le sono forme accettabili? Motiva la risposta. Possiamo dire che in italiano l’ordine delle parole è rigido? Motiva la risposta.

Dizionari per ogni esigenza

IO.I Dizionari nel tem po Nella preistoria di ogni tradizione lessicografica s’incon­ trano generalmente glossari bilingui: liste di parole di due lingue diverse compilate allo scopo di favorire una elementare comunicazione interpersonale. Per l’italiano, un esempio è il Glossario di Monza (inizi del x secolo), una lista di poco più di 60 lemmi che affiancano una for­ ma romanza (italiana settentrionale, probabilmente loca­ lizzabile nell’area del medio corso del Po) e una greca bizantina (per esempio: de capo - cefali, costa -plevra, vestito - imati), con l’evidente funzione di fornire alcune parole o frasi elementari a chi doveva viaggiare nell’O­ riente di lingua greca. Un altro precursore dei dizionari è la lista di parole trascritte per uso privato, come il Vocabulista di Luigi Pulci (1432-1484), nel quale lo scrittore raccolse - senza un preciso criterio - circa 700 parole, tratte soprattutto da precedenti repertori latino-volgari e in parte utilizza­ te poi nel suo capolavoro, il Morgante (in qualche caso, si citano parole assenti dai repertori, che evidentemente dovevano incuriosire il Pulci: per esempio «boia, il ma­ nigoldo»). Solo nel Cinquecento si cominciano a redigere liste di parole che si avvicinano di più alla moderna idea del di­ zionario, Si tratta soprattutto di elenchi di vocaboli attesta­ ti in Dante, Petrarca e Boccaccio, i tre principali modelli dell’uso letterario. Alcuni tesaurizzano le parole di tutti e tre, come nelle Tre fontane [...] sopra l ’eloquenza dì Dan-

I dizionari storici 248

249

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

Il Vocabolario della Crusca

te, Petmrcha, et Boccaccio del letterato friulano Niccolò Libumio, prima raccolta lessicale monolingue non compilata per uso personale (1526), altri del solo Boccaccio (il Vocabulario realizzato da Lucilio Minerbi, comprendente vocaboli tratti in prevalenza dal Decameron, 1535); altri ancora solo di Petrarca (Le osservazioni sopra il Petrarca, del ferrarese Francesco Alunno, 1539). Raramente affiora una vera attenzione per la lingua parlata, come avviene col Dìttionario (1568) di Francesco Sansovino nel quale, più che alle citazioni degli scrit­ tori, l’interesse sembra rivolgersi all’uso moderno tosco-fiorentino, contrapposto ogni tanto a quello di altre regioni («lumaca, chiocciola dicono i Fiorentini, buovolo i Vinitiani, limaccia i Lombardi»). Il primo vero dizionario dell’italiano si deve all’iniziativa dell’Accademia della Crusca, nata a Firenze nel secondo Cinque­ cento su iniziativa di un gruppo di letterati fiorentini che - secondo un costume molto diffuso all’epoca - aveva preso l ’abitudine di pro­ muovere riunioni giocose. Nel 1582 entrò nel gruppo un letterato illustre, Leonardo Salviati, che in poco tempo trasformò quell’occa­ sionale brigata in una seria accademia letteraria e ne indirizzò l’im­ pegno in una direzione precisa: separare il buono dal cattivo in fatto di lingua (cioè, reinterpretando gli antichi termini, separare la crusca dalla farina). Gli accademici avevano stemmi personali detti pale e il motto doveva fare riferimento al pane, alla crusca, al forno; lo scaffale in cui si raccoglievano le leggi dell’Accademia ebbe forma e nome di sacco', lo stemma dell’Accademia era frullone, lo stru­ mento che appunto serviva a separare il grano dalla crusca; il motto era stato tratto da un verso del Petrarca: «il più bel fior ne coglie». Guidati da questi princìpi, gli accademici cruscanti si dedicaro­ no alla creazione di una monumentale raccolta lessicografica che, dopo una ventina d’anni di lavoro, fu pubblicata a Venezia nel 1612. Nessun’altra lingua europea poteva vantare, all’epoca, un’opera così impegnativa e così coerente. Il Vocabolario della Crusca compren­ deva, come si legge nella premessa, in primo luogo le voci usate dagli scrittori «che si potrebbon dire di prima classe» (cioè dai gran­ di trecentisti); ma, dal momento che questi autori esemplari «non ebbero opportunità di dire ogni cosa», il lemmario era integrato at­ tingendo scalarmente agli autori minori del Trecento, a scrittori non fiorentini e infine, con prudenza, all’uso moderno. L’importanza del Vocabolario della Crusca, del quale apparvero quattro edizioni ufficiali complete (1612 e 1623, stampate a Vene­ zia; 1691 e 1729-1738, a Firenze) e una quinta (1863-1923) inter­ rotta alla lettera O, è legata all’autorevolezza dell’opera come fonte normativa per gli autori non toscani, almeno fino al Manzoni. Prima di arrivare a identificare nel fiorentino vivo il modello di lingua per Ipromessi sposi, infatti, Manzoni passò attraverso lo studio libresco

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degli autori toscani, per il quale - oltre alle letture dirette dei testi ebbe grande importanza la consultazione minuziosa del Vocabolario della Crusca (nell’edizione approntata, nei primi anni del xix seco­ lo, dal purista veronese Antonio Cesari).

10.2 I dizionari storici Lo scopo del dizionario storico è quello di registrare il patrimonio di una tradizione scritta (letteraria, ma anche filosofica, scientifica, giuridica ecc.), fornendo una documentazione che illustri le varie

A I 'I ’ R G Ì O N D IM L N TO

Registrare la tradizione scritta

✓ L A FR A S E O LO G IA N E I D IZ IO N A R I

Oltre che per imparare il significato di una parola che non conosciamo, il dizio­ nario si consulta per familiarizzare con la fraseologia, ossia con le espressioni idiomatiche caratteristiche di quella lingua. In questa nozione non rientrano solo le cosiddette “frasi fatte” (prendere lucciole per lanterne, essere stanco mor­ to), ma anche le varie aggettivazioni che si addicono a un vocabolo. Della pioggia potremmo dire, per esempio, che è fine, sottile, lenta, fitta, insistente, abbondan­ te, battente, penetrante ma non che è “piccola”, “grande”, “gracile” o “massic­ cia” (tranne nel linguaggio poetico, che persegue intenzionalmente uno scarto dall’usualità linguistica).

250

Il Tommaseo-Bellini

Il BOLI

Il GAVI

I dizionari etimologici

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

accezioni via via registrate. La fraseologia, di grande importanza anche per i dizionari dell’uso, è addirittura essenziale per la com­ prensione della lingua del passato, dal momento che - per ricono­ scere il valore di un’espressione o di un vocabolo non più in uso - non possiamo riferirci alla nostra competenza di parlanti. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca, primo dizionario organico dell’ita­ liano, è appunto un vocabolario storico. Nell’Ottocento videro la luce la quinta edizione del Vocabola­ rio della Crusca, notevolmente rinnovata nell’organizzazione del materiale ma selettiva nel lemmario, e il vocabolario promosso da Niccolò Tommaseo (redatto tra il 1865 e il 1879 e noto come Tom­ maseo-Bellini, per la menzione di Bernardo Bellini, suo principale collaboratore). Quest’ultimo è un vero vocabolario d’autore: alla larghezza degli spogli (non solo per il lessico letterario ma anche per quello tecnico), si accompagna un’acuta sensibilità per le sfumature semantiche e anche una marcata coloritura ideologica. I dizionari non sono mai un riflesso ideologicamente neutro della realtà: ciò vale, in particolare, per una forte personalità come quella di Tom­ maseo, che non dissimulava certo le sue antipatie personali (celebre quella nei confronti di Giacomo Leopardi) né le sue idee politiche o religiose. Alla voce ateo si legge, per esempio, con un significativo distinguo: «Chi nega, o dice di negare Dio». Spostandoci in epoche più recenti, nel 2002 si è finalmente con­ clusa, con il completamento del ventunesimo volume, la quarantenna­ le pubblicazione (iniziata nel 1961) del Grande dizionario della lin­ gua italiana (g d l i ), fondato da Salvatore Battaglia e diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti. L’impianto spiccatamente letterario dei primi volu­ mi è stato ampiamente corretto in séguito, accordando notevole spazio ad altre fonti di lingua - dalla manualistica tecnico-scientifica ai gior­ nali - e trasformando progressivamente il carattere iniziale dell’opera: da dizionario storico della lingua letteraria a dizionario storico dei vari aspetti e delle varie realizzazioni della lingua scritta. Le due caratteri­ stiche essenziali del g d l i sono la straordinaria ricchezza degli esempi, che tendono a documentare la vitalità di un’accezione nel corso dei secoli (non la semplice attestazione), e l’accuratezza e analiticità delle definizioni, ricavate dall’insieme dei passi compresi in quella sezione. Importante lo scavo effettuato in settori tradizionalmente trascurati dalla lessicografia precedente (d’impronta toscanista e classicistica): dal milanese Bonvesin da la Riva al veneziano Marin Sanudo. Rivolto a un pubblico di specialisti e centrato sull’italiano più antico è invece il Glossario degli antichi volgari italiani (g a v i ): pub­ blicato a cura di Giorgio Colussi dal 1983, comprende una vastissi­ ma raccolta di voci tratte da opere scritte prima del 1321, anno della morte di Dante. Questo particolare dizionario storico, attualmente

251

interrotto dopo la scomparsa dell’autore (2006), si segnala, oltre che per le sue ingenti dimensioni (risultano pubblicati 32 volumi, che coprono le lettere A, B, C, D, S, U, V e Z, senza contare che a par­ tire dal 2002 la lettera A è stata rielaborata e ripubblicata in ben 13 volumi), per la rinuncia a selezionare le attestazioni dei vocaboli sulla sola base del loro valore letterario e per l’ampio apparato di commenti e di informazioni etimologiche e bibliografiche che ac­ compagna ciascuna voce.

10.3 I dizionari etimologici La curiosità etimologica si ritrova in diverse culture antiche, da quella ebraica a quella greca. L’idea di ricostruire Γ etimo (dal greco ètymos ‘vero, autentico’) di una parola nasceva dall’aspirazione di afferrare la realtà concettuale preesistente al linguaggio e spesso Γetimo vero o presunto di una parola ha condizionato determinati comportamen­ ti. Sant’Agostino, il grande scrittore cristiano (iv-v secolo), racconta per esempio di aver fatto un bagno per lenire il dolore causatogli dalla morte della madre; la bizzarria del comportamento si spiega pensando che il greco balanèion ‘bagno’ veniva spiegato (fantasiosamente) come un bàllein anìan ‘scacciare il dolore’. Dal secolo scorso l’etimologia ha basi scientifiche e non si limita a individuare la provenienza di un vocabolo (un’informazione del genere è offerta anche dai vocabolari dell’uso): i moderni dizionari etimologici mirano a ripercorrere la storia di una parola o di un’espressione, dalla più antica attestazione in poi. I dizionari etimologici italiani compilati con criteri scientifici sono stati pubblicati tutti negli ultimi cinquant’anni. Risulta ormai invecchiato il Dizionario etimologico italiano ( d e i ) dei due glottolo­ gi Carlo Battisti e Giovanni Alessio (1950-1957), che ha comunque il merito di raccogliere una mole considerevole di voci, documen­ tando largamente il lessico tecnico-scientifico. Il ridotto lemmario (che coincide quasi per intero col patrimonio linguistico oggi in uso) consente invece al Dizionario etimologico della lingua italiana ( d e l i ) di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli di organizzare con chiarez­ za e sistematicità il materiale. L’opera, pubblicata per la prima volta tra il 1979 e il 1988 in cinque volumi, è disponibile dal 1999 in una nuova edizione in volume unico, a cura di Manlio Cortelazzo e Mi­ chele Cortelazzo (accompagnata a una versione in cd-rom). I suoi punti di forza, che lo rendono a tufi’oggi il più affidabile strumento del genere compiutamente realizzato, sono i seguenti: ■ assegnazione di una data di prima attestazione a tutte le forme lemmatizzate, con indicazione della fonte, riferimento agli àmbiti semantici di sviluppo e alla fortuna di ogni parola;

Ricostruire retimo

Il 00

Il DELI

252

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

■ ampiezza della documentazione, spesso risultante da spogli di prima mano; ■ indicazioni bibliografiche e, più in generale, controllabilità di tutti i dati che vengono offerti. l’Etimologico

Nel 2010 è apparso a opera di Alberto Nocentini con la collabora­ zione di Alessandro Parenti un Etimologico che fa tesoro di alcune innovazioni del deli (data di prima attestazione, bibliografia) e si segnala per la ricchezza dei riscontri con altre lingue e per la presen­ za di diverse proposte etimologiche originali.

Λ Ρ Ρ Κ Ο Γ O N D IM E N T O

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i / LE M M I Γ L E M M A R IO

Tra le varie forme che una parola può assumere in virtù della flessione (mangiai, mangiavo, mangiassero, mangiano; intenzione, intenzioni; educato, educata, educate; da, dalla, dagli), i lessicografi - cioè coloro che redigono i dizionari - ne scelgono una che costituisca l’intestazione della voce corrispondente al vocabolo consi­ derato. In lessicografia questa specifica forma grafica, scelta tra quelle possibili di un paradigma flessionale, viene chiamata lemma (dal greco lemma ‘titolo, ar­ gomento’). Il lemma si trova all’inizio di ogni voce e viene di solito evidenziato tramite particolari caratteristiche tipografiche (neretto, maiuscolo ecc.). Il lem­ mario è l’insieme di tutti i lemmi presenti in un dizionario, In italiano, per i verbi si sceglie l’infinito presente (mangiare), per i sostantivi il singolare (intenzione), per gli aggettivi il maschile singolare (educato), per le pre­ posizioni la forma semplice (da). I criteri di scelta della forma da porre a lemma non sono universali e possono cambiare a seconda della lingua, della tradizione linguistica e della natura dell’opera lessicografica. Nelle lingue classiche come il greco e il latino, per esempio, per i verbi si pone a lemma la la persona singo­ lare dell’indicativo presente (habeo, ekho); in alcuni dizionari storici viene scelta come lemma la forma tipizzata più vicina all’uso odierno, anche se non fa parte dell’insieme di forme grafiche e anche fonetiche effettivamente riscontrabili nel­ le fonti (per esempio, si pone a lemma la parola intendanza anche se nelle fonti sono presenti solo le forme entendansa e intendanςa).

Il LEI

Dal 1979, infine, esce in fascicoli il Lessico etimologico italiano ( l e i ) diretto dal linguista svizzero Max Pfister (affiancato dal 2002 da Wolfgang Schweickard), arrivato nel 2011 a coprire parte della lettera C (fase. 107) e una prima sezione della D (fase. D3), con sei ulteriori fascicoli specificamente dedicati ai germaniSmi. Si tratta di un’opera monumentale, che segue il modello di altre imprese della linguistica romanza, come il Romanisches Etymologisches Worter-

I dizionari di sinonimi

253

buch (“Dizionario etimologico romanzo”, 1911-1920), del linguista tedesco Wilhelm Meyer-Lublce, limitato alle parole di origine popo­ lare derivate dal latino e a quelle non latine che siano attestate in più di una lingua romanza. O anche del Franzosisches Etymologisches Wòrterbuch (“Dizionario etimologico francese”, pubblicato dal 1922 e ancora in corso d’opera), che abbraccia l’intero patrimonio galloromanzo (cioè francese e provenzale), letterario e popolare, an­ tico e moderno. Corrispondente di tali opere per la lingua italiana, il l e i è ordinato per etimi (etimi latini, o da una lingua di sostrato, o di superstrato ecc.); è esteso - a differenza del d e l i - anche ai dialetti e mette insieme una quantità straordinaria di dati antichi e moderni.

10.4 I dizionari di sinonimi Nel lessico possono sussistere vari rapporti tra le singole unità. Un vocabolo può essere dotato di un significato più generale rispetto ad altri, essere cioè V iperonimo rispetto a uno o più ipònimi (animale è iperonimo ài felino e felino è iperonimo di gatto); oppure può stabi­ lire un rapporto di corrispondenza o di contrasto. Si, parla di sinònimi quando due o più vocaboli condividono i tratti semantici essenziali (vecchio - anziano; toppa - serratura); op­ pure di atialoghi quando la sovrapponibilità è solo parziale: due o più vocaboli analoghi possono divergere per esempio per l’aspetto dell’azione verbale (dormire indica un’azione durativa, addormen­ tarsi un’azione ingressiva ‘cominciare a dormire’), oppure per parti­ colari aspetti semantici (gorgheggiare indica un’azione più specifica di cantare; si riferisce propriamente agli uccelli oppure ai cantan­ ti che modulino una nota con diverse variazioni vocali). Si parla inoltre di contrari (o antònimi) quando i significati si oppongono (bello-brutto); di inversi quando si ha un rapporto di reciprocità, nel senso che un vocabolo è necessariamente definito rispetto al suo inverso (padre-figlio, vendere - comprare). La sinonimia perfetta è poco meno di un’astrazione. Perfino in coppie come tra e fra la scelta non è del tutto indifferente, ma è influenzata dal contesto fonetico (fra tre ore, tra Francia e Spagna). Di norma, anche nei casi in cui due vocaboli hanno un’ampia area di significato in comune, a renderli non sovrapponibili intervengono restrizioni semantiche, diafasiche, diatopiche. ■ Si parla di restrizioni semantiche, per esempio, nel caso di anzia­ no e vecchio, che possono riferirsi entrambi a un essere umano, ma non a un animale (un gatto anziano suona scherzoso o affet­ tato e un’anziana casa è impossibile); così vivace può dirsi di un bambino o di un vecchio, ma arzillo solo del secondo.

I sinonimi

Restrizioni semantiche

254

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

Restrizioni diafasiche

Restrizioni diatopiche

Il Dizionario dei sinonimi

Le opere di Rosselli, Pittano, Stoppelli

Due o più sinonimi sono sottoposti a restrizioni diafasiche quan­ do si distribuiscono nell’uso a seconda del registro: non marca­ to - formale (saluti - ossequi), non marcato - colloquiale (scioc­ co -fesso), comune - tecnico (globuli rossi - emazie, il proiettile ha colpito - ha attinto la vittima). Le restrizioni sono di tipo diatopico quando la distribuzione di due sinonimi avviene in base alla diversa area regionale in cui vengono adoperati abitualmente (si parla in tal caso di geo­ sinònimi). Per esempio: boiler (settentrionale) - scaldabagno (al­ tre regioni), tabacchino (meridionale) - tabaccaio (altre regioni), popone (toscano) - melone (altre regioni). La tradizione lessicografica italiana ha da tempo privilegiato la rac­ colta di sinonimi, anche in ossequio al diffuso precetto scolastico di “evitare le ripetizioni”: meritamente famoso è il Dizionario dei sinonimi del Tommaseo (1830). In anni recenti, questo tipo di les­ sicografia si è rinnovata, con diverse opere originali che valorizza­ no le relazioni semantiche e fraseologiche all’interno di una certa area lessicale. Ricordiamo le opere di Renato Rosselli (Dizionario. Guida alla scelta dei sinonimi e dei contrari nella lingua italiana, 1989), di Giuseppe Pittano (Sinonimi e contrari, 2006, 3“ ed.), di Pasquale Stoppelli (Dizionario Garzanti dei sinonimi e dei contrari, l a ed. 1991, riveduto e considerevolmente ampliato nella 2a ed. del 2009). In tutte e tre è ben presente la consapevolezza che il diziona­ rio dei sinonimi non è in alcun caso un repertorio di equivalenze, ma può solo suggerire affinità semantiche che assumono valore all’intemo di una frase reale,

A P P IiO I O N D IM L N T O

✓ IL D I Z I O N A R I O D E I S I N O N I M I D I N IC C O LÒ T O M M A S E O

Pur diventando da subito il più autorevole, quello di Niccolò Tommaseo (1802­ 1874) non è stato il primo dizionario dei sinonimi dell’Ottocento: tra il 1825 e il 1826, l’abate Giovanni Romani realizzò un Dizionario generale de’ sinonimi italianiQuello che distingue nettamente l’opera di Tommaseo dalle precedenti (e per molti anni anche dalle successive) è il fatto di non possedere un’impostazione esclusivamente arcaizzante o filoletteraria: le gradazioni sinonìmiche si differen­ ziano ricorrendo non soltanto ad autori antichi, ma anche a scrittori moderni, addirittura (cosa tutt’altro che ovvia all’epoca) viventi. C’è inoltre grande at­ tenzione all’uso concreto delle variazioni sinonimiche nella lingua (Tommaseo segnala per ciascuna, di volta in volta, l’appartenenza al linguaggio familiare, alla lingua parlata o all’espressione letteraria) e una grande sensibilità alla documen-

I dizionari di sinonimi

255

tazione di tutte le varietà, compresa quella popolare. Come scrive lo stesso autore nella “Prefazione” al suo dizionario: Or la porzione di lingua ch’è men popolare nella maggior parte d’Italia sì è quella appunto senza la quale non si giungerà mai a scrivere opere popolari: io dico le voci esprimenti oggetti corporei, le voci appartenenti allo stil familiare, ch’è tutt’altra cosa dal villanesco e plebeo, E però nel mio dizionario io do luogo a parole e modi che lo stesso dizionario della lingua comune non ha, ma che sono dell’uso vivente e mostrano per la proprietà loro essere da tutta Italia conosciute.

A queste opere vanno infine aggiunti alcuni strumenti di creazione molto recente e decisamente innovativi rispetto alla tradizione lessico­ grafica precedente. Ci riferiamo in particolare al Dizionario dei sinoni­ mi e dei contrari e delle relazioni tra parole di Raffaele Simone (2003), ricco anche di riferimenti ai risultati teorici della linguistica moderna, e al Grande dizionario italiano dei sinonimi e contrari diretto da Tullio De Mauro (2010), che con i suoi 260000 lemmi rappresenta il più vasto dizionario di questo genere oggi disponibile, attento, oltre che all’àmbito d’uso di sinonimi e contrari, al comportamento delle unità polirematiche e al rapporto tra parole italiane e straniere. Sempre nel 2010 è stato pubblicato il Grande dizionario analogico della lingua italiana, diretto ancora da Raffaele Simone, la più vasta raccolta lessicografica di questo tipo per l’italiano; l’opera raggruppa più di 130000 parole intorno a 3500 lemmi appartenenti al lessico di base e legate a queste da rapporti di analogia: procedendo quindi per aree semantiche è possibile seguire la stratificazione del significato di una parola o di un’espressione o trovare una parola che non si co­ nosce a partire da un’altra parola nota. Scorrendo il lemma gigante, per esempio, è possibile seguire l’evoluzione semantica della parola dall’accezione originaria («ciascuno degli esseri mitologici di statura e forza straordinaria [.,.]») a quelle figurate di «persona che ha statura e robustezza superiori al normale» e di «persona di straordinarie doti intellettuali e morali o di grandissimo ingegno». Per ogni significato della parola si dà in primo luogo il rinvio a lemmi correlati (per la prima accezione: forza, mitologìa, statura)', vengono poi registrate le «paro­ le primarie», ovvero parole affini, sinonimi e contrari (per la seconda accezione sinonimi come colosso, ercole e watusso e contrai! come lil­ lipuziano, nanerottolo e pigmeo; si dà conto, tra parentesi, anche del contesto d’uso: scherz. ‘scherzoso’, spreg. ‘spregiativo’ e simili), ma anche «nomi più specifici» e «nomi più generali» (rispettivamente gi­ gante buono e persona, uomo, ancora per la seconda accezione).

Le opere di Simone e De Mauro

Il Grande dizionario analogico della lingua italiana

256

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

Per ognuno dei significati del termine vengono proposti anche nomi, verbi e aggettivi variamente connessi con la parola posta a lemma e ordinati in sottocategorie come «atti di - o connessi a -», «proprietà tipiche di -», «azioni di -», «comportarsi come un -», «aggettivi che si combinano con -», «simile a -». Il lemma è gene­ ralmente una parola di uso comune, ma scorrendo i nomi, i verbi, le locuzioni e gli aggettivi a esso correlati ci si imbatte spesso in termini meno noti o meno usati come, nel caso della voce gigante, mìtografo, gigantomachia, sacripante, torreggiare.

10.5 Le raccolte di neologismi

Gli occasionalismi

Le opere di Panzini e Migliorini

Dizionari neologici degli anni ’80 e ’90

Un dizionario generale deve essere cauto nell’accogliere i neologi­ smi, che potrebbero uscire dall’uso nel giro di pochi anni o addirit­ tura esaurirsi in un’effìmera invenzione giornalistica: basti pensare ai cosiddetti “occasionalismi”, dalla vita brevissima; per citare qual­ che esempio: clanista (1959) ‘appartenente a un clan\faxerendum ‘referendum fatto attraverso messaggi via fax’ (1994) o molti deonimici legati alla politica, come veltronizzare o mastelliano. Ciò non significa che le parole nuove continuamente proliferanti nell’italiano contemporaneo - e imposte all’attenzione generale dai grandi mezzi di comunicazione di massa - non suscitino l’interesse del linguista e dello storico della cultura. Alla registrazione dei neologismi sono consacrati alcuni diziona­ ri speciali. Il primo esempio del genere si deve allo scrittore Alfredo Panzini, il quale nel suo fortunato Dizionario moderno ( l a ed. 1905, 8a ed. postuma 1942) intendeva raccogliere le «parole che non si trovano nei dizionari comuni». L’iniziativa del Panzini fu ripresa nel 1963 dal linguista Bruno Migliorini con le sue Parole nuove, raccol­ ta fondata sul criterio dell’“uso incipiente” : non vengono registrate le parole legate a un’occasione particolare, ma solo quelle che mo­ strano qualche possibilità di attecchire. Mentre Panzini e Migliorini non fornivano i contesti dei lemmi - particolarmente importanti per collocare il neologismo nel proprio ambiente d’uso (un giornale, un trattato scientifico, un romanzo) - le raccolte uscite dagli anni ottanta in poi sono ricche di contesti e di datazione puntuale della prima attestazione. Nel 1986 appare un agile Dizionario delle parole nuove di Manlio Cortelazzo e Ugo Cardinale (2a ed. 1989). Nel 1987 una cospicua raccolta di 8000 neologismi dal secondo dopoguerra in poi redatta dal giornalista Claudio Quarantotto, che fa spazio anche a formazioni effimere (Dizionario del nuovo italiano', tendenza man­ tenuta nel Dizionario delle parole nuovissime, dello stesso autore, del 2001). Rispettivamente al 1995 (Dizionario italiano. Parole

I dizionari dell’uso: il lemmario

nuove della seconda e terza Repubblica) e al 1997 (Dizionario della seconda Repubblica) risalgono due regesti di neologismi di àmbito politico, stimolati dall’apparire sulla scena di Silvio Berlusconi (fine del 1993): gli autori sono anche in questo caso due giornalisti, Silverio Novelli e Gabriella Urbani. Dal 1995 al 1997 sono apparsi con cadenza annuale, per iniziativa del linguista Michele Cortelazzo, tre volumetti che raccolgono neologismi con almeno due attestazioni in contesti diversi: gli Annali del lessico contemporaneo italiano. Sono basate sullo spoglio approfondito della stampa quotidia­ na tre raccolte curate dai linguisti Giovanni Adamo e Valeria Della Valle: Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio (2003), 2006 parole nuove (2005) e Neologismi. Parole nuove dai giornali (2008). I vasti lemmari di queste opere, tratti dalla banca dati dell’“Osservatorio neologico della lingua italiana” (onli) del cnr - comprendente più di 11000 neoformazioni - dimostrano l’importante ruolo che la lingua dei giornali ha avuto nel rinnova­ mento del lessico italiano. Per concludere, è necessario ricordare alcune opere neologiche tra le più aggiornate del panorama degli ultimi anni, nate significati­ vamente come appendici di importanti dizionari: i due Supplementi (2004 e 2009) ai 21 volumi del g d l i , curati dal poeta Edoardo Sanguineti, e le due raccolte di Nuove parole italiane dell’uso (2003 e 2007), volumi vii e vili del vastissimo Grande dizionario italiano dell’uso (g r a d it ) diretto da Tullio De Mauro, il più vasto vocabola­ rio della lingua d’uso oggi disponibile per Titaliano. I due regesti mantengono, nel trattamento e nella selezione delle neoformazioni, lo spirito delle opere delle quali rappresentano il completamento. Più fedele al criterio di analisi storica dell’affermazione dei neologi­ smi il primo, più orientato verso la comprensione delle caratteristi­ che e dei cambiamenti della lingua d’uso il secondo.

257

Neologismi dalla stampa

Le opere neologiclie più aggiornate

10.6 I dizionari dell’uso: il lemmario Il dizionario per antonomasia è certamente quello dell’uso, possedu­ to da quasi tutte le famiglie italiane - almeno come libro scola­ stico - e dunque oggetto di intense campagne pubblicitarie da parte degli editori. Non è facile, per un lessicografo, ritagliare la porzione di realtà che abbia i titoli per figurare in un dizionario di proporzioni medie (da 50000 a 100000 lemmi). Raccogliere molte parole sa­ rebbe fin troppo facile: basterebbe saccheggiare certe terminologie scientifiche (solo i termini della chimica ammonterebbero a svariate decine di migliaia). Ma la documentazione di un determinato lessico specialistico (per esempio medico, giuridico, agricolo, informatico) è riservata ad appositi dizionari settoriali. Il lessicografo generale

La difficoltà di documentare l’uso

Lessico specialistico

258

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

I regionalismi

Gli arcaismi

I neologismi

I forestierismi non adattati

deve ospitare solo quel tanto di lessico scientifico che può filtrare nel linguaggio corrente o ha comunque una ricaduta sull’esperien­ za linguistica degli utenti. Tornando all’esempio della chimica, sarà opportuno accogliere acetilsalicilico (l’acido acetilsalicilico non è altro che la familiare aspirina), ma non trimebutina, pentaeritritolo o tridiidrossipropilteofillìna. Allo stesso modo il dizionario dell’uso deve comportarsi con regionalismi, arcaismi o neologismi. In particolare, un dizionario italiano accoglierà un regionalismo solo quando la sua diffusione supera i confini originari (almeno come competenza passiva). Re­ stano fuori, almeno per ora, parole come il bolognese patacchino ‘autoadesivo’ o il genovese tanardo ‘tardo, ottuso’; mentre hanno conquistato diritto di cittadinanza il milanese imbesuito ‘rimbecilli­ to’, il romanesco pennichella ‘siesta’, il napoletano arronzare ‘tirar via nel fare un lavoro’. Per quanto riguarda gli arcaismi, la natura conservatrice della lingua italiana e la forte solidarietà esistente tuttora con la lettera­ tura antica fanno sì che nessun dizionario dell’uso possa escluderli del tutto. Molti sono abituali nei classici che si studiano a scuola e costituiscono il bagaglio di cultura di una persona mediamente istru­ ita; altri possono essere rinnovati da qualche scrittore del Novecento (come il malinconioso riesumato da Maria Bellonci); altri ancora, prescindendo da attestazioni letterarie antiche e moderne, ricorrono nella lingua quotidiana con intenzione scherzosa: «lungi da me, fe l­ lone!», «avevo perso la speme di rivederti». Altrettanto complessa, come abbiamo visto, la scelta dei neo­ logismi: decisamente più numerosi e invadenti degli arcaismi, ma soprattutto non valutabili da parte del lessicografo col necessario distacco. È facile prevedere, per esempio, che dello sciupismo (‘at­ teggiamento di spreco delle risorse pubbliche’) di cui parlavano le cronache politiche del 2005 non ci si ricordi già più un anno dopo: il dizionario dell’uso che si fosse affrettato a registrarlo rischierebbe dunque di apparire invecchiato anzitempo (anche se nessuno può valutare con certezza la fortuna di un neologismo apparentemente effimero: basti pensare a cerchiobottismo). Simile il problema dei forestierismi non adattati, in particolare degli anglicismi, così frequenti nell’italiano contemporaneo. Nessu­ no si sentirebbe di respingere in blocco le parole non italiane larga­ mente usate nel linguaggio comune (box, coffee break, turn over o anche jackpot) o frequenti in qualche linguaggio specialistico vicino alla lingua di tutti i giorni, come quelli dell’informatica e dell’eco­ nomia. Tuttavia, bisogna resistere alla tentazione di inseguire fore­ stierismi effimeri, spesso adoperati soltanto nei giornali o in circoli ristretti; per esempio, rockumentary ‘documentario su personaggi

I dizionari dell’uso: la definizione e le marche d’uso

e vicende della musica rock’, mobility management ‘pianificazione degli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti di un’azienda’, wristband ‘braccialetto distintivo o di propaganda di un’associazione umanitaria’. È dunque più delicato scegliere cosa escludere piuttosto che cosa includere e la selezione dei lemmi deve essere improntata a un atteggiamento equilibrato, che tenga conto delle diverse componenti del lessico contemporaneo. Un’opera molto attenta all’equilibrio del lemmario è il Vocabolario della lingua italiana (v o l it ) dell’Istitu­ to Treccani, vastissima impresa lessicografica ispirata dal linguista Aldo Duro e giunta a compimento una prima volta nel 1994, con una seconda edizione nel 1997 e una terza, coordinata da Valeria Della Valle, apparsa nel 2008. Figlio di un’impostazione tipicamente en­ ciclopedica, il v o l i t si distingue appunto per affiancare ai frequenti riferimenti alla lingua letteraria l’apertura verso gli elementi della lingua moderna, le terminologie scientifiche (molto ben rappresen­ tate anche nel o r a d it ) e le formazioni neologiche. Queste ultime, come abbiamo detto, vengono spesso considera­ te un indice del livello di aggiornamento di una raccolta lessicale. All’uscita di un nuovo dizionario, la pubblicità insiste sulla presen­ za di parole di diffusione recente. Ma la ricchezza del lemmario non consiste solo nella quantità e nella qualità dei singoli lemmi, bensì anche nell’attenzione con cui si segnalano le nuove accezioni o le diverse connotazioni che parole di uso tradizionale hanno as­ sunto negli ultimi anni, in séguito al modificarsi del costume, del­ le ideologie, del comune sentire. È il caso di ambiente nella sua accezione specificamente ecologica, di concubina, ormai adoperata solo nell’uso letterario o giuridico (mentre comunemente si parla di compagna), di diverso in riferimento a omosessuali, di immagine nella recente e dilagante accezione promozional-pubblicitaria. Tra i dizionari in un solo volume, si segnalano almeno, per i continui ag­ giornamenti e per l ’accoglienza di numerose parole nuove, i famo­ si dizionari Zingarellì e Devoto-Oli, dei quali viene costantemente pubblicata una nuova edizione ogni anno.

259

Il VOLIT

10.7 I dizionari dell’uso: la definizione e le marche d’uso La definizione di una parola e delle sue accezioni è certo uno degli aspetti più delicati che il lessicografo deve affrontare. Non si tratta solo di indicare una perifrasi che riassuma il significato dì un voca­ bolo, per lo più mediante il ricorso a sinonimi e a definitòri (come lodevole ‘degno di essere lodato, che merita lode’). Si tratta anche

La definizione: un aspetto delicato

260

Fig. 11.

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

U na

I dizionari dell’uso: la definizione e le marche d’uso

s e s s u o te ra p e u ta

p a g in a d i G. A d a m o , V. D e l l a V a lle , " N e o lo g is m i. P a r o le n u o v e d a i g i o r n a l i ”.

se m io s fe ra s.f. Rete dì segni usati come codici comunica*- ' S erv ice tax he . s.lef. inv. Tassa sui servizi, imposta indi­ retta sui servizi erogati dalle amministrazioni locali, ai cit­ tivi, ♦ è sempre più difficile trovare confini chiari e di­ stinti fra quelle che sono state chiamate le «forme brevi» tadini. ♦ [tit.] Casa, tre imposte nella Service tax [testo] L ’Icì sulla prima casa non verrà reintrodotta. Ai Comuni " della produzione audiovisiva attuale, quelle «icone dense» verrà destinato il gettito della nuova «Service tnx», secon­ della semiosfera contemporanea - spot, prem o, trailer, vi­ do la terminologia tremontiana, o lassa per i servizi, come deoclip - che si imprestano reciprocamente moduli e m o­ preferisce chiamarla Roberto Calderoli, (Eugenio Bruno, delli, ibridando anche video d’artista, corti cinematogra­ So l e 2 4 Ore, 9 settembre 2008, p. 17, Politica c società). fici o, in altro ambito, comunicati elettorali (Gianfranco Espressione ingt. composta dai s, Service ('servizio') e ta x ('tassa’). Marrone, S t a m p a , 21 maggio 2005, Tuttolibri, p, 6) * I Già attestato nel Corriere della sera del 31 gennaio 1996, p. 41, forsennati dello shopping compulsivo si daranno lustro da questa lettura: non alienati sono costoro, ma uomini Cronaca di Roma. immersi nel flusso dei segni dell’ìpcrmondo consumisti­ V, anche tassa sui servisi. co o, per dirla in semiotichese, protagonisti di quella ses e rv ig io -c o rte s ia (servizio cortesia, servizio di cortesìa), mioafera del consumo che et avvolge: (G uido Caserza, loc. s.le tu. Servizio gratuito offerto alla clientela per ri­ Sicilia, 18 giugno 2006, p. 33, Cultura & Spettacoli). durre gli effetti provocati da eventuali disservizi o si­ Composto dal confisso semìo- aggiunto al s. f. sfera (in senso fig. tuazioni di disagio. ♦ Ad accogliere e assistere la fiuma­ 'settore, campo’). na di passeggeri ci saranno anche gli studenti delle scuo­ le superiori arruolati dalla Sea per il «servizio cortesia». Giù attestato nella Repubblica del 24 agosto 1985, p. 16, Cultura (Maria Corti). (Claudio D el Frate, Carriere della sera, 1° agosto 2003, p. s e m io tic h e s e s. ni. (iron,) 11 linguaggio, talvolta incom­ 44, Cronaca di Milano) * Traslocando nella nuova sede il Pra cambierà anche num ero di telefono. [...J Sulle vec­ prensibile, di citi studia i sistemi di segni nei processi chie linee, utilizzabili per informazioni fino a oggi, sarà comunicativi. * I forsennati dello shopping compulsivo comunque attivo un servizio di cortesia che fornirà agli si daranno lustro da questa lettura: non alienati sono co­ utenti il nuovo numero telefonico. (Giornale, di Brescia, storo, ma uomini immersi nel flusso dei segni dclPipcrmondo consumistico o, per dirla in semiotichese, prota­ 24 giugno 2004, p. 13, Cronaca) * Infine, [Donato] Di Ponziano ha annunciato l’avvio (entro pochi giorni) di un gonisti di quella semiosfera del consumo che ci avvolge: ("Guido Caserza, Sicilia, 18 giugno 2006, p. 33, Cultura servizio-cortesia per i migliori clienti: una lussuosa Ca­ « Spettacoli). dillac con autista stazionerà davanti all’ingresso princi­ Derivato dal s. f. semiotica con l’aggiunta del suffisso -ere. pale del casinò per gli spostamenti in città di giocatori da s e m itr e g u a s, f. T regua precaria e incerta. ♦ L ’Arabiu trattare con i guanti bianchi. (Gianni Micalctto, S t a m p a , Saudita, dopo aver a lungo fatto il doppio gioco, ha rico­ 20 gennaio 2008, Imperia, p. 64). Composto dal s. m. servìzio e dal s, f. cortesia, ricalcando l’espres­ nosciuto nel terrorism o e nella possibile «infezione» ira­ chena pericoli che la riguardano e che vanno combattuti sione ingl* cowtesy service. senza quartiere. Ciò m entre gli Usa, frustrati sul terreno Già attestato nella Repubblica del 22 giugno 1989, p. 18, Crona­ e in piena campagna elettorale, paiono propensi a una ca (Umberto Rosso). maggior cautela nelle loro iniziative m ilitari (non sem ­ s e s s u a le s e $. in. (iron.) Il gergo tipico della libertà ses­ pre, però: era proprio necessario avanzare verso l’abita­ suale vissuta come segno del cambiamento dei costumi, zione di M oqtnda al Sadr a Najaf, favorendo la rottura * Ma un’ondata di ritorno della presa di parola sessatidi una semitregua che durava da due mesi?). (Franco tottarda tocca la sensibilità e il lessico (sinistrese, fumese, V enturini, Corriere della sera , 7 agosto 2004, p, 1, Prim a psicanalese, sessualese) di Rocco e A ntonia, protagonisti pagina). adolescenti di «Porci con le ali», autori M arco Lom bardo Derivato dal s. F. tregua con l’aggiunta del prefìsso semi-. Radice e Lidia Ravera. caso editoriale del 1976. (Enzo Golino, Repubblica, 31 luglio 2007, p. 42, Cultura). Già attestato nella S t a m p a dcli’8 luglio 1996, p. 9, Estero (Anna Zafesova). Derivato dnll’tigg. sessuale con l’aggiunta del suffisso -cse. s e n tlm e n tifìc io s. m . (iron . scherzi) Fabbrica di senti­ s e s s u a lm e n te c o rre tto loc. s.le m . (iron.) Che corrispon­ menti. ♦ le scuole d ’Italia sono diventate succursali del de in modo equilibrato alla rappresentazione sociale del­ senttmentifìcio globalizzato c non ci sarà altra festa che la la sessualità, ♦ come hanno asserito in un dibattito que­ cerimonia ideologica dei post-grtippettari, [...] Il sentist’estate Alina Reyes e Stéphane Zagclnnski, due rom an­ mentificio, che è il vero grande fratello della mobilitazio­ zieri francesi senza censure, si fa strada il «sessualmente ne delle coscienze e dei tempi che corrono, h a sostituito corretto». [...] i sensi cambiano ancora gusti. Così, dopo l’epoca in cui il femminismo ha fatto sentire le sue ragio­ quello che un tempo veniva identificato nel bigottismo, (Pietrangelo Buttafuoco, Giornale, 9 giugno 2002, p. 1, ni, si può cadere nella fase opposta. (Armando Torno, Prima pagina). Corriere della sera, 17 settem bre 2002, p. 33, C ultura) Derivato dal s. tri. sentimento con l’aggiunta del suffisso -ificio. • «Come ha appena detto la compagna transgender...». I s e ra ta -e v e n to lac. s.lef. «Serata che, per le caratteristiche e delegati di fabbrica dovranno farci l’abitudine. Studiare, il luogo nel quale si svolge, rappresenta u n evento spetta­ stare attenti a non sbagliare. Per fortuna, il glossario del­ colare. ♦ Napoli come palcoscenico ideale delPincontro le «parole sessualmente corrette» da ieri in vigore nella fra razze e culture diverse: sarà questa l’nmbientazione Cgil emiliana conta solo una ventina di voci, perché ri­ delie due serate-evento che M assimo Ranieri sta prepa­ cordare il suono e il senso di sigle m isteriose come «Glbt» rando per Raiuno. (Messaggero, 2 settembre 2001, p. 21, o definizioni scientifiche come «disforia di genere» non Spettacoli) · aH’Auditorium della M usica di Roma, in è uno scherzo. Ma s ’ha da fare. Il «politicamente co rret­ to» lo esige. (Michele Smargiassi, Repubblica, 31 ottobre collaborazione con l’associazione Pontecorvo, si svolge­ 2003, Bologna, p. I). rà una serata-evento con la proiezione de! docum enta­ rio, (D. D ’I., T e m p o , 17 novembre 2007, p. 45, C ultura Composto dall’uvv, sessualmente e dail’tigg. corretto, .sul modello & Spettacoli) * Crédit Suisse, Goldman Sachs, Lehman, di politicamente corretto. M errill Lynch e Ubs hanno sponsorizzato insieme a Già Attestato nella Repubblica del 16 aprile 1994, p. 20, Cromica Hong Kong una serata-evento con la proiezione di «The (Elvira Naselli). Bubblc», il film de! 2006 che racconta l’amore tra Noam, s e ss u o te ra p e u ta s. m . e f. Specialista nella diagnosi e nel­ soldato israeliano, e Ashraf, immigrato palestinese, in una la cura dei disturbi della sessualità. ♦ Su una cosa gli in­ difficile e tesissima situazione politica e ambientale con­ g le s i- i medici e sessuoterapeutì inglesi che denunciano dita di omofobia, amicizia fra etero e gay, islam. (Antonia come anche le donne comincino a soffrire di ansia da Jacchia, Corriere del Veneto, 16 gennaio 2008, p. 21). performance - hanno ragiono: oggi come oggi - ma pure Composto dal s. f. serata e dal s. m. evento. l’altro ieri - una femmina che non fn sesso, tanto e bene, Già attestato nella Repubblica del 29 settembre 1991, p. 11 si sente una perdente. (M aria Laura Rodotà, Corriere (Concita De Gregorio). delta sera, 5 dicembre 2005, p. 25). 561

esempio, è connotato in modo parzialmente sfavorevole rispetto al sinonimo sacerdote, per un’eco ormai lontana dell’anticlericalismo ottocentesco (scherzo da prete, boccone del prete, da prete)·, d’altra parte, questo termine - in quanto più diretto e più radicato nell’uso popolare - è stato assunto dagli stessi interessati (prete operaio e simili).

A P P K Q F O N D IM L N T O

di indicare l’àmbito o il registro d’uso, in genere con abbreviazioni dette “marche d’uso” (lett[erario], scherzioso], geologia] ecc.); di collocare una parola nei suoi contesti più tipici attraverso un’oppor­ tuna fraseologia; più in generale, di restituire a una parola, anche molto comune, la sua stratificazione d’uso. Il sostantivo prete, per

✓ I D E F IN IT Ò R I IN LESSIC O G RAFIA

Con questo termine si indicano quegli elementi che, nella definizione lessicogra­ fica, introducono abitualmente determinate classi di derivati. Così, per gli agget­ tivi in -ivo (sbalorditivo) i definitòri più comuni sono atto a + verbo di base, che + verbo di base («atto a sbalordire, che sbalordisce»), per i sostantivi in -mento (siluramento) art. determinativo + verbo di base, l’atto e l'effetto di + verbo di base («il silurare, l’atto e l’effetto di silurare»).

Alcuni dizionari prestano un’attenzione particolare all’individua­ zione del registro d’uso delle parole, sviluppando ampi sistemi di marche d’uso. Ci riferiamo specificamente al d is c (Dizionario italiano Sabatini-Coletti, poi solo II Sabatini-Coletti giunto all’ed. 2008) e soprattutto al g r a d it , che consente di individuare immedia­ tamente, attraverso l’impiego di una coerente marcatura, se una pa­ rola o una sua accezione è di àmbito regionale (re), dialettale (di) o letterario (le ), se si tratta di un esotismo (es) oppure di un termine tecnico-scientifico (ts). I due dizionari sottolineano anche il livello di disponibilità e di frequenza di un lemma (vedi § 8.1). Il Sabatini-Coletti evidenzia con efficacia - tramite un fondino di colore scuro - le parole ad alta disponibilità (così come accade nelle ultime edizioni del Devoto-Oli, che stampano in colore nero le parole ad alta frequenza). Il g r a d it ricorre a un sistema di marche che indicano la frequenza d’uso di una parola e delle sue accezioni, la sua, per così dire, condizione generale d’uso: ■

Le marche d’uso

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(lessico fondamentale): circa 2000 vocaboli frequentissimi che da soli rappresentano il 90% delle parole ricorrenti in tutti i testi scritti o parlati (casa, albero, mamma)·, ■ au (lessico di alto uso): più di 2500 vocaboli che ricorrono con alta frequenza in tutti i testi scritti e parlati, dei quali rappresenta­ no circa il 6% del lessico totale (abbandono, lamento, sfogliare)·, ■ ad (lessico ad alta disponibilità): circa 1900 parole dall’uso piutfo

Il DISCe il GRADIT

262

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

Fìg. 12. A lc u n i le m m i tr a t t i d a l l ’ “A p p e n d i c e del "

g r a d it "



d e d ic a ta

a l l e “N u o v e p a r o l e ita lia n e d e l l ’u s o ”.

quatriduano /kwattridu'ano/ (quaMi-i-du-a-no) agg., var. qua­ triduano. Cfliaftrocentometrista /kwattrotjentome'trista/ (quaMrocen-to· me-tri-sta) s.m. e £. 01] sport [2004-05; det della loc. q u a ttr o c e n to m e tr i con - i r t a ] fa atletica leggera, adeta specialista nella gara di corsa dei quattrocento metri piani □ (35). quattrozampe /.kwattrot'tsampe/ (quantro-zam-pe) s.m.tov. O [1992 in “Corriere della Sera”; comp. di q u a ttr o e del pi. di z a m p a ] scherz., fam., animale domestico, spec. cane o gatto, queer /kwir/ agg,fav., s.m. e f.inv. [Μ] ingl. [1998 in “La Repub­ blica delle Donne”; ingl. q u e e r /kwre(r)/ propr. “strano, bizzarro” e, spreg., “gay”] 1 agg.inv., s.m. e f.inv., che, chi ha un orientamento sessuale o di genere che non coincide con i modelli imposti dalla cultura dominante 2 agg.inv., relativo a tale orientamento, queneaulana s.f. ->- queneauiano. queneaulano /keno'jano/ (que-neaii-ia-no) agg., s.m. [!§) lett. [av. 1985; der. di Q u e n e a u , nome dello scrittore francese Raymond Queneau (1903-76), con - t a t t o ] a g g ., relativo a Queneau, ai suoi perso­ naggi, alla sua opera, al suo stile | agg., s.m., seguace, imitatore di Queneau □ (1).

tosto raro sia nello scritto sia nel parlato, ma ben noti a tutti per la loro importanza nella vita quotidiana (alluce, batuffolo, car­ rozzeria)·, ■ co (lessico comune): più di 55 000 parole che generalmente pos­ sono essere comprese da chiunque possegga un livello medio superiore di istmzione, a prescindere dalla propria occupazione (lavandino, attrattiva, pessimista)', ■ bu (lessico di basso uso): più di 32000 vocaboli rari, impiegati poco frequentemente sia nello scritto sia nel parlato (lavacro, pluriverso, settetto).

Inevitabili scelte ideologiche

A queste si aggiungono inoltre alcune marche che individuano la provenienza o l’area di impiego di un termine, per esempio segna­ lando la sua appartenenza a una lingua speciale (ts ‘tecnico-scien­ tifico’, più di 120 000 lemmi), la sua natura di parola italiana, ma di àmbito prevalentemente regionale (re , circa 7000 lemmi; per esem­ pio sleppa ‘schiaffo’, di uso settentrionale), o la sua origine dialet­ tale (di, appena 600 lemmi, come musceppia ‘donna smorfiosa’, dal pistoiese) o esotica (e s , quasi 10000 lemmi, come abat-jour, dal francese). Nella definizione, inoltre, intervengono inevitabilmente scelte ideologiche. Oggi i dizionari sono molto attenti a non ferire determi­ nate sensibilità: quella omosessuale, per esempio (si vedano le voci omosessuale, pederasta, invertito, gay), quella di minoranze etniche

I dizionari dell’uso: le informazioni grammaticali

e culturali (connotando negativamente o apertamente sconsigliando termini come negro, giudeo, marocchino nell’accezione di ‘immi­ grato arabo’, terrone) e in particolare quella femminile, evitando definizioni come donna ‘femmina dell’uomo’ a favore di ‘femmi­ na della specie umana’ e tralasciando frasi idiomatiche tradiziona­ li di contenuto misogino. Nei secoli scorsi, infatti, si è accumulata nell’uso una serie di detti proverbiali che presentano la donna in modo decisamente sfavorevole (donna e luna, oggi serena domani bruna', chi disse donna disse danno', la donna è come la castagna, bella di fuori dentro è magagna', donna al volante pericolo costan­ te). Molti di questi sono caduti in disuso, e dunque un dizionario generale non è tenuto a registrarli; in altri casi la registrazione può essere opportuna - in omaggio al ruolo neutrale, quasi notarile, del dizionario rispetto alla civiltà che vi si rispecchia - purché si sottoli­ nei la mancata rispondenza di quei detti proverbiali con i valori oggi diffusi nelle società occidentali. Insidioso, infine, il problema della definizione dei termini tecnici e scientifici, che è esposto a due rischi speculari: quello di allestire una definizione impeccabile, che però risulti ostica ai profani (dun­ que proprio a coloro che cercherebbero una parola del genere sul dizionario), e quello di optare per una definizione di taglio divulga­ tivo, che però sarebbe giudicata imprecisa da un esperto del ramo.

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La definizione di termini tecnici e scientifici

10.8 I dizionari dell’uso: le informazioni grammaticali Il dizionario non si consulta soltanto per sapere il significato delle parole che conosciamo poco o non conosciamo affatto, ma anche per risolvere dubbi grammaticali, e svolge così di fatto anche una fun­ zione normativa rispetto all’uso della lingua. Un dizionario (come il diffusissimo Zingarelli), può riunire i principali dubbi linguistici in una tabella di “Approfondimento” o di “Note d’uso”, con l’intento non solo di risolvere un dubbio del lettore, ma di indirizzarne in futuro il comportamento linguistico, distinguendo anche tra errori veri e propri e forme più o meno preferibili a seconda del contesto e del registro d’uso. In alcuni settori la risposta è sistematica e definitiva: per esem­ pio per la pronuncia delle lettere a cui corrispondono diverse realtà fonetiche, per la corretta ortografìa (efficienza o ejficenzal), per la posizione dell’accento (anòdino o anodino!)·, per la selezione delle forme verbali irregolari (qual è il perfetto di cuocere? e il passato re­ moto di esigerei). Ma, a saperlo consultare, un buon dizionario può dare informazioni anche su altri e più complessi settori linguistici;

Funzione normativa del dizionario

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Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

Il Sabatlni-Coletti

Il Dizionario Italiano Garzanti

per esempio su un punto particolarmente controverso della norma linguistica italiana: le reggenze sintattiche. Dobbiamo dire: insieme a te o con tei Difficile a dire o da direi Accennava a parlare o di pariarei Ti ammonisco a studiare o dì studiarci Spero rivederti o di rivedertil Attraverso la fraseologia; ricaveremo indicazioni precise sulla legittimità di entrambi i costrutti, se verranno esemplificati en­ trambi, oppure saremo orientati verso uno dei due (con indicazioni esplicite o attraverso l’omissione del costrutto concorrente). Un cospicuo arricchimento e rinnovamento delle informazioni grammaticali è stato segnato dal Sabatini-Coletti. A parte informa­ zioni già presenti in dizionari precedenti (per esempio la sillaba­ zione sistematica di tutti i lemmi), il Sabatini-Coletti ha introdotto diverse novità. I verbi, per esempio, vengono classificati a secon­ da degli argomenti, ossia degli elementi indispensabili che devono combinarsi col verbo per esprimere un concetto minimo di senso compiuto. Classificando i verbi in base agli argomenti, troviamo al livello più basso verbi come quelli atmosferici (piovere), che espri­ mono da soli un concetto compiuto; poi i verbi come sbadigliare, per i quali il nucleo della frase è compiuto una volta che si conosca il soggetto; i verbi come mangiare (Paola mangia un gelato: un ar­ gomento, oltre al soggetto); fino ad arrivare a un verbo come trasfe­ rire, che ha tre argomenti oltre al soggetto (la banca ha trasferito la filiale da Bra a Saluzzo). Il Sabatini-Coletti dà inoltre grande importanza alla linguistica testuale, definendo con chiarezza la classe delle congiunzioni testua­ li. Si tratta di congiunzioni che non collegano due strutture frasali («Piove, ma non fa freddo») bensì due sequenze testuali, restando autonome sia prosodicamente - perché precedute da pausa - sia gra­ ficamente, perché precedute generalmente da un segno d’interpun­ zione più marcato della virgola, come il punto e virgola o il punto fermo. Nel seguente esempio di Manzoni, per esempio, il ma ha la funzione di congiunzione testuale: «Era il più bel chiaro di luna [...] ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo non appariva indizio di persona vivente». Una grande attenzione al dato grammaticale si ha anche nel Di­ zionario Italiano Garzanti (diretto dal 2003 da Giuseppe Patota), che fornisce numerose e specifiche indicazioni su tutti quei lemmi per i quali il contrasto tra norma e uso può favorire l’insorgere di dubbi. A partire dall’edizione 2008, il dizionario è corredato dal co­ siddetto Grammabolario: una raccolta di schede di teoria gramma­ ticale inserite nel dizionario in corrispondenza delle voci lessicali. Così, per esempio, alla voce consecutivo è affiancata una scheda sintattica che descrive la frase consecutiva e la voce nome si accom­ pagna a una scheda che illustra la morfologia nominale in italiano.

I dizionari e l’informatica

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10.9 I dizionari e l’informatica Dagli anni novanta la larga diffusione del personal computer ha aperto nuove possibilità di ricerca e di studio anche in àmbito linguistico-letterario. È ormai generale, infatti, la presenza di cd-rom o dvd come supporto ai dizionari stampati, o ristampati, negli ultimi anni. Il primo dizionario concepito per essere consultato, oltre che nel tradizionale volume cartaceo, anche in disco ottico è stato il d is c (ori­ ginaria, evocativa denominazione del Sabatini-Coletti ), che nella ver­ sione digitale presentava non il semplice travaso del testo cartaceo dell’opera, ma un vero autonomo dizionario elettronico, uno strumen­ to indipendente, associabile a specifici atteggiamenti di ricerca. A questa prima opera di lessicografia digitale per il grande pub­ blico ne sono seguite numerose altre, a partire dalla versione elet­ tronica del g r a d it (che aggiunse ulteriori potenzialità di ricerca poi riprese da altri progetti, come la ricerca per polirematiche), fino ad arrivare alla situazione attuale, nella quale ogni dizionario venduto reperibile in libreria è accompagnato da supporti cd-rom di ricerca e ampliamento. Tuttavia ormai lo strumento del disco ottico è da considerarsi su­ perato, a causa innanzitutto di alcuni notevoli difetti congeniti, come la possibilità di deterioramento del supporto e soprattutto il rapido invecchiamento delle informazioni in esso contenute: non è possibi­ le per esempio ampliare e modificare a piacimento il lemmario del dizionario e aggiornarne le definizioni. Per questo motivo sembrano preferibili altre soluzioni tecniche, diffusesi negli ultimi anni, come l’impiego del supporto usb (scelto per esempio dall’ultima versio­ ne del g r a d it elettronico, 2007) e l’integrazione del cd-rom con la possibilità di aggiornare lemmario e definizioni su Internet, strada scelta per esempio dall’edizione 2001 del Devoto-Oli e soprattutto dal Garzanti 2.0, la cui versione elettronica è aggiornabile e comple­ tamente consultabile in rete. Lo strumento più efficace tra quelli affermatisi negli ultimi anni resta però quello del dizionario consultabile direttamente on line, che attraverso una maschera di ricerca consente all’utente di accede­ re a un lemmario continuamente aggiornato e ampliabile alTinfinito, frutto di un costante lavoro di ricerca e catalogazione lessicale. Le risorse appartenenti a questa categoria hanno ormai raggiunto una buona diffusione, sia in versione gratuita, sia nella forma del servizio offerto dietro pagamento di un abbonamento che consente l’accesso totale a tutte le funzioni. Alla prima categoria appartiene per esempio la Lessicografia della Crusca in rete (www.accademiadellacrusca.it), che rende di-

CD-R0M, DVD

Supporto USB

Dizionari on line

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Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

sponibile il testo integrale delle cinque edizioni del Vocabolario del­ la Crusca per ricerche lessicali semplici (singole parole) e comples­ se (sequenze e insiemi di parole sia nel lemmario sia nel testo delle voci, ricerca negli apparati originali del vocabolario, nelle aggiunte e nelle integrazioni dell’epoca). Completamente gratuita è anche la consultazione del testo del Sabatinì-Coletti, disponibile sulle pagine della versione on line del “Corriere della Sera” (dizionari.corriere.it/dizionario_italiano), ol­ tre che del Vocabolario Treccani (www.treccani.it/vocabolario), che consente inoltre di passare con agilità anche alla ricerca sulle altre due opere maggiori dell’Istituto, la classica Enciclopedia e il Di­ zionario biografico degli italiani, contenente allo stato attuale più di 30000 biografìe di letterati, poeti, scienziati, politici e uomini di cultura. Per le altre lingue di cultura citiamo almeno le versioni consul­ tabili on line dell’Oxford English Dictionary (www.oed.com), del Trésor de la langue frangaise informatisé (atilf.atilf.fr/tlf.htm) e del vocabolario della Reai Academia Espahola (www.rae.es). Tra gli strumenti a pagamento segnaliamo almeno la banca dati dei Dizionari Zanichelli online (dizionari.zanichelli.it), una delle raccolte lessicali più ampie oggi presenti in rete, che permette la ricerca integrata e simultanea su più di venti opere diverse, tra dizio­ nari, sia di lingua (le ultime versioni dello Zingarelli, naturalmente, ma anche dizionari dell’uso monovolume di altre lingue, come il tedesco, il francese, lo spagnolo, il russo, il latino e il greco) sia tematici (per esempio il Grande dizionario dei proverbi italiani, il Dizionario di mitologia, il Dizionario di medicina e biologia) e ban­ che dati, come la mz (Biblioteca italiana Zanichelli, 2010).

10.10 Oltre il dizionario: le banche dati I corpora

Negli ultimi anni, accanto ai dizionari, sempre maggiore importanza hanno assunto gli archivi di testi e di informazioni lessicali, sia per lo scritto, sia per il parlato, in formato digitalizzato. Si tratta, come intuì già all’inizio degli anni ottanta il linguista Giovanni Nencioni, di strumenti fondamentali per gli studi linguistici. Non solo per svolgere ricerche puramente lessicali (la frequenza o la distribuzio­ ne di una parola in un insieme di testi, o corpus, scelto secondo specifici criteri), ma soprattutto per la possibilità di analizzare pro­ blemi di sintassi (evoluzione della costruzione di alcune subordi­ nate, reggenze verbali ecc.), di morfologìa (forme di derivazione e composizione, influenze regionali nella forma delle parole) e, per il parlato, di pronuncia e fonetica, che sarebbe onerosissimo svolgere sulla base di spogli manuali.

Oltre il dizionario: le banche dati

Tra le raccolte su disco, ricordiamo soprattutto diversi corpora di testi letterari: la citata b i z , il più completo archivio elettronico di testi letterari finora realizzato in Italia, comprendente il testo integrale di più di 1000 opere della letteratura italiana scritte da 247 autori, da Francesco d’Assisi a Grazia Deledda; V atl (Archivio della tradizio­ ne lirica, 1997), concentrato sui testi poetici da Petrarca a Marino; il Primo tesoro della lingua letteraria italiana (2007), a cura di Tullio De Mauro, contenente il testo di cento romanzi selezionati per il Premio Strega dal 1947 al 2006. Tra le banche dati lessicali orientate in senso storico ricordiamo almeno l’edizione elettronica, compietamente consultabile e ricercabile, del Tommaseo-Bellini (contenuta nel d v d della b i z e delle ultime edizioni del dizionario Zingarelli ) e il Lessico della letteratura musicale italiana 1490-1950 (lesm u , 2007), forte di più di 22 500 schede lessicografiche. Tra le risorse disponibili in rete, di fondamentale importanza per la lessicografia storica dell’italiano è la banca dati dell’Opera del vocabolario italiano (ovi), in costante aggiornamento e ampliamen­ to, che aspira a raccogliere tutti i testi italiani antichi fino al 1375 (anno della morte di Boccaccio); la raccolta testuale costituisce inol­ tre la base di spoglio per le voci del Tesoro della lingua italiana del­ le origini ( t u o ) , un vastissimo dizionario storico dell’italiano antico, completamente consultabile on line. La banca dati dell’ow (www. ovi.cnr.it), che a settembre del 2016 comprendeva 2318 testi per un totale di più di venti milioni di occorrenze lessicali completamente ricercabili (sia per lemma, sia per singola forma grafica), si segnala in particolare per la coerenza del corpus, per l’ampiezza della docu­ mentazione (che copre tutte le varietà regionali dell’italiano antico e comprende testi letterari e non letterari) e per la duttilità del software di consultazione. Da segnalare, tra gli archivi di testi on line, anche altri progetti ad accesso totalmente gratuito. La Biblioteca Italiana Telematica ( b i t , www.bibliotecaitaliana.it), gestita dal centro c i b i t dell’Univer­ sità di Pisa, che raccoglie le edizioni integrali di centinaia di opere dal Medioevo al Novecento (non solo in italiano, ma anche in latino e nelle principali lingue di cultura europee) appartenenti ad àmbiti diversi (letterario, filosofico, storico) e completamente interrogabili a livello lessicale, tramite un versatile motore di ricerca. Il sito del Progetto Manuzio, promosso dall’associazione Liber Liber (www.liberliber.it) non offre la possibilità della ricerca testua­ le, ma mette a disposizione dell’utente un vastissimo patrimonio di testi in formato elettronico (testuale e p d f ) , di argomento anche qui molto diverso: si va dall’opera letteraria al testo scientifico, alle tesi di laurea e ad alcune riviste (come “Spolia”, per gli studi medievali, o “Studi storici”). Il numero degli autori disponibili è molto alto (da

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La BIZ, VATL, il LESMU

L’OVI

La Biblioteca Italiana Telematica

li Progetto Manuzio

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Google Books

li CLIPS

Internet, un immenso contenitore di testi

Dante al matematico novecentesco Vito Volterra) e il database viene continuamente aggiornato da chiunque voglia aderire all’iniziativa. Infine, tra le recenti risorse testuali disponibili in rete, non si può non citare il servizio Google Books, messo a disposizione dall’o­ monimo motore di ricerca (books.google.com), che raccoglie ormai centinaia di migliaia di riproduzioni dall’originale di opere antiche e contemporanee, spesso di prime edizioni e di volumi rari, difficili da reperire. Il servizio è solo parzialmente gratuito (l’accesso totale ad al­ cune opere protette da diritto d’autore è infatti subordinato all’acquisto della versione elettronica), ma questo sconfinato patrimonio è consul­ tabile anche attraverso le funzionalità del motore di ricerca di Google, che consente ricerche lessicali che vanno anche oltre la singola parola. Per quanto riguarda l’italiano parlato, sono numerosi ormai i cor­ porei disponibili, sia in formato cartaceo, sia su c d - r o m e d v d , sia come banca dati on line (una lista aggiornata è disponibile presso il sito della b a d i p , Banca dati dell’italiano parlato: badip.uni-graz.at). Tra le iniziative appartenenti a quest’ultima categoria citiamo almeno il progetto c l i p s (“Corpora e lessici di italiano scritto e parlato”, in rete dal 2007 all’indirizzo www.clips.unina.it), diretto da Federico Albano Leoni, una raccolta di più di cento ore di testi parlati, esegui­ ti da parlanti spontanei e professionali (attori, doppiatori) in cinque contesti diversi (radiotelevisivo, dialogico, letto, telefonico, ortofoni­ co) e reperiti in quindici città italiane capoluogo di provincia. Per concludere, ricordiamo inoltre che Internet stesso rappresenta un immenso contenitore di testi di ogni genere, la cui consulta­ zione (seppure con prudenza), può risultare molto utile alla ricerca linguistica, specialmente per quanto riguarda lo studio dell’italiano contemporaneo. Qualche anno fa, per esempio, si discusse molto su quale fosse il plurale italiano del nome della moneta unica europea (euro o euri)·, alla fine, com’è noto, si affermò la forma invariabile, anche sul modello, confermato da quasi tutti i dizionari, di parole come gazebo. Il linguista Yorick Gomez Gane, tuttavia, attraverso la consultazione dei motori di ricerca disponibili in rete, ha verificato che il plurale gazebi risulta essere di gran lunga la forma prevalente nell’uso reale, mettendo in luce le difficoltà a volte incontrate dai dizionari nel fotografare fedelmente l’uso quotidiano della lingua.

V E R IF IC A

1. 2. 3. 4. 5.

Storia di parole

Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

Che cos’è un dizionario storico? Da che cosa era caratterizzato il Vocabolario della Cruscai Fai qualche esempio di “iperònimi” e “ipònimi”. Che cosa deve registrare un buon dizionario? Per che cosa si consulta un dizionario dell’uso?

Storia dì parole A lluce La parola indica il dito più grosso del piede e curiosamente si afferma nell’uso molto tardi. La prima attestazione risale infatti al 1892, ma è solo nel corso del xx secolo che il termine si diffonde, riproponen­ do un antico termine della medicina tardo-antica e medievale, allucem, accusativo di allux , dall’etimologia sconosciuta (forse araba). Prima di allora il termine anatomico corrispondente era lo stesso del dito mag­ giore della mano, pollice, che ebbe tra i suoi accaniti difensori addirittura Gabriele D’Annunzio, che intorno al 1913 condannava alluce come neolo­ gismo tecnico effimero e sgradevole, come sciocca parola alla moda («la­ sciamo alluce ai ferrucci malcerti dei callisti presuntuosetti», scriveva), caldeggiando il ritorno all’impiego di pollice anche per il corrispondente dito del piede. C erchiobottism o Tratta scherzosamente dalla locuzione dare un colpo al cerchio e uno alla botte, indica nel linguaggio politico e giornalistico l’at­ teggiamento opportunistico di chi evita una scelta netta, lasciandosi aperte più possibilità. La sua nascita va collocata attorno al 1996 e, forse per le sue presunte origini illustri (c'è chi la ritiene una parola d’autore coniata da Indro Montanelli, una delle firme più autorevoli del giornalismo italia­ no), la parola è sopravvissuta vari mesi nella scrittura giornalistica (almeno fino al 1999), riemergendo sporadicamente anche dopo il 2000. Pur non essendo molto usato, cerchiobottismo è uno dei pochi neologismi occasio­ nali che ha presentato una certa produttività, non solo attraverso il corra­ dicale cerchiobottista (1999), ma anche facendo da modello per neologismi più recenti (e ancora più effimeri) come eurobottismo (‘atteggiamento am­ biguo e contraddittorio rispetto alle politiche dell’Unione Europea’), nel quale la seconda parte della parola (-bottismo) sembra essere diventata un suffissoide con significato proprio (‘ambiguità, ipocrisia’). Sciocco La parola, attestata fin dai primi anni del Trecento con il signi­ ficato che ha ancora oggi nella lingua comune (‘poco intelligente, goffo’), ha suscitato diverse discussioni etimologiche. Ma probabilmente continua il latino tardo exsucus, letteralmente ‘senza sugo’ e quindi ‘senza sale’, se­ condo l’antica metafora che paragona la stupidità alla mancanza di sapore, alla base, per esempio, di espressioni come non avere il sale in zucca e del doppio valore del verbo sapere (‘conoscere’ e ‘avere sapore’); ancora oggi, inoltre, nell’italiano parlato in Toscana, sciocco vale anche ‘insipido, senza sale’.

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Capitolo 10 - Dizionari per ogni esigenza

Bibliografìa essenziale Tesoro Derivante dal latino thesaurus (calco dal greco thesauròs, di eti­ mologia sconosciuta), si tratta di una parola che ha cambiato - o meglio, arricchito - più volte il proprio significato nella storia dell'italiano. Da sempre collegata all’idea della ricchezza, in origine viene attestata col va­ lore di ‘grande quantità di denaro’ ( 1294), per poi passare a ‘oggetto di valore nascosto o sotterrato’ ( 1304-1308, nel Convivio di Dante) e, verso la metà del Trecento, a ‘erario pubblico, finanze dello stato’: ancora oggi si parla (con un’espressione importata però dalla Francia nel corso del Settecento) di Ministero del Tesoro o semplicemente di Tesoro per riferirsi al dicastero che si occupa della finanza pubblica. L’uso di tesoro come ‘rac­ colta lessicale o testuale’, in particolare di taglio storico, risale alla pratica medievale di chiamare tesori (associando il sapere all’idea della ricchezza) le opere di tipo enciclopedico, almeno a partire dal Tresor, enciclopedia scritta dal letterato fiorentino Brunetto Latini nella seconda metà del Duecento.

I. Alle radici dell'italiano Sull’origine delle lingue indoeuropee e per un’introduzione alla lingua latina (§ 1.1), vedi A. Giacalone Ramat, R Ramat (a c. di), Le lingue indoeuropee, il Mulino, Bologna 1993; M. Alinei, Origini delle lìngue d ’Europa, voi. i: La teoria della continuità, il Mulino, Bologna 1996 e A. Traina, G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Pàtron, Bologna 1998 (6a ed.). Il problema del latino volgare (§ 1.2) è affrontato nel contributo di G. Calboli (Latino vol­ gare e latino classico) all’opera Lo spazio letterario del Medioevo. Il Medioevo latino, voi. n: La circolazione del testo, diretta da G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, Salerno Editrice, Roma 1994, pp. 11-62, nel cap. iv di C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1998 ( la ed. 1972) e inoltre nell’introduzione al libro di A. Castellani, Grammatica storica italiana, voi. i: Introduzione, il Mulino, Bologna 2000, pp. 1-28. Le principali grammatiche storiche dell’italiano (§§ 1.3-1.5) sono le seguenti: W. Meyer Ltìbke, Grammatica storica della lingua italiana e dei dialetti toscani, ed. ridotta a c. di G. Bartoli, G. Braun, Loescher, Torino 1927 (e successive ristampe); G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Einaudi, Torino 1966-1969; L. Serianni, Le­ zioni dì grammatica storica italiana, Bulzoni, Roma 1999; A. Castellani, Grammatica stori­ ca italiana, cit.; G. Patota, Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, il Mulino, Bologna 2007; P. D’Achille, Breve grammatica storica dell’italiano, Carocci, Roma 2007; si è tenuto conto, inoltre, della tesi di dottorato di V. Faraoni, L ’origine dei plurali italiani in -e ed -i. Sul concetto di cultismo e sui latinismi nell’italiano (§ 1.6), vedi almeno B. Migliorini, Le parole semidotte in italiano (1959) e I latinismi nel lessico italiano (1962), in Id., Lingua d’oggi e di ieri, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1973 (rispettivamente alle pp. 227-237; 215­ 226); C. Scavuzzo, I latinismi nel lessico italiano, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. u: Scritto e parlato, Einaudi, Torino 1994, pp. 469-494; L. Rossi, Dal latino all’italiano, in L. Serianni (a c. di), La lingua nella storia d ’Italia, Società Dante Alighieri-Libri Scheiwiller, Roma-Milano 2002, pp. 29-43. Per un approccio alla diglossia latino-volgare nel Medioevo e al rapporto tra italiano e latino nella letteratura e sulle ibridazioni latino-italiane (§ 1.7), vedi almeno C. Giovanardi, Il bilinguismo italiano-latino del medioevo e del Rinascimento, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. n, pp. 435-468; B. Migliorini, / latinismi di Dante (1967) , in Id., Lingua d ’oggi e di ieri, cit., pp. 239-249; L. Rossi, Latino e italiano, in L. Serianni (a c. di), La lingua nella storia d ’Italia, cit., pp. 44-69; U.E. Paoli, Il latino macche­ ronico, Le Monnier, Firenze 1959; B. Migliorini, Sul linguaggio maccheronico del Folengo (1968) , in Id., Lingua d ’oggi e di ieri, cit., pp. 75-100; G. Folena, Il linguaggio del “Caos”

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Bibliografia essenziale

Bibliografia essenziale

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(1979), in Id., Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Bollati-Boringhierì, Torino 1991, pp. 147-168; L. Lazzerini, “Baldus” di Teofilo Folengo (Merlin Cocai), in Letteratura italiana. Le Opere, voi. i: Dalle Origini al Cinquecento, Einaudi, Torino 2007, pp. 1033-1064; M. Mancini, Intorno alla lingua del “Polifilo”, in “Roma nel Rinascimento”, V, 1989, pp. 29-48; M. Calvesi, M. Tavoni, Il Quattrocento, in F. Bruni (a c. di), Storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna 1992, pp. 169-172; R Trifone, Introduzione all’edizione da lui curata di C. Scroffa, I cantici di Fidenzio con appendice di poeti fidenziani, Salerno Editrice, Roma 1981, pp. i x - x l v i . Sul rapporto tra italiano e latino nell’uso giuridico e amministrativo (§ 1.8), vedi P. Fiorelli, La lingua del diritto e dell’amministrazione, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. n, pp. 553-598, e L. Rossi, Latino e italiano, cit. Sulle questioni legate all’uso di latino e italiano nella scienza e nell’insegnamento (§ 1.9), vedi gli studi di M.L. Altieri Biagi, Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, Leo S. 01schki, Firenze 1965, e Forme della comunicazione scientifica, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, voi. in: Le forme del testo, t. n: La prosa, Einaudi, Torino 1984, pp. 891­ 947; inoltre, N. De Blasi, L ’italiano nella scuola, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. ι: I luoghi della codificazione, Einaudi, Torino 1993, pp. 383-424; L. Rossi, Latino e italiano, cit., e L. Serianni, L ’ora d ’italiano. Scuola e materie umanistiche, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 25-36. Su latino e italiano nella Chiesa (§ 1.10) vedi V. Coletti, Parole dal pulpito, Marietti, Casale Monferrato 1983; R. Librandi, L ’italiano nella comunicazione della Chiesa e nella diffusione della cultura religiosa, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. i, pp. 335-381, e L. Rossi, R. Wank, La diffusione dell’italiano nel mondo attraverso la religione e la Chiesa cattolica: ricerche e nuove prospettive, in M. Arcangeli (a c. di), L ’italiano nella Chiesa tra passato e presente, Umberto Allemandi & C., Torino-Londra-Venezia-New York 2010, pp. 113-171.

Sulla formazione della lingua letteraria (§ 2.4), vedi almeno P. Manni, Il Trecento tosca­ no, in F. Bruni (a c. di), Storia della lìngua italiana, il Mulino, Bologna 2003; R. Tesi, Storia dell’italiano, cit. Sul dibattito linguistico cinquecentesco, su Bembo e sulla codificazione grammaticale (§ 2.5), vedi M. Vitale, La questione della lingua, nuova ed., Palumbo, Palermo 1984; P. Trova­ to, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), il Mulino, Bologna 1991; C. Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, in F. Bruni (a c. di), Storia della lìngua italiana, il Mulino, Bologna 1993; P. Trovato, Il primo Cinquecento, in F. Bruni (a c. di), Storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna 1994; C. Marazzini, Il perfetto parlare. La retorica in Italia da Dante a Internet, Carocci, Roma 2001. Sui fattori di unificazione linguistica (§§ 2.6-2.10), vedi almeno T. De Mauro, Storia lin­ guistica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1986 ( la ed. 1963); L. Serianni, Dalla lingua del melodramma alla lingua corrente, in Id., Saggi di storia linguistica italiana, Morano, Napoli 1989, pp. 369-379; L. Formigari, D. Di Cesare (a c. di), Lingua tradizione rivelazione. Le Chiese e la comunicazione sociale, Marietti, Genova 1989, in particolare C. Marazzini, Il predicatore sciacqua ì panni in Arno. Questione della lingua ed eloquenza sacra nel Cin­ quecento, pp. 12-20; B. Migliorini, La lingua italiana del Novecento, Le Lettere, Firenze 1990; R. Librandi, L ’italiano nella comunicazione della Chiesa e nella diffusione della cul­ tura religiosa, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. ι: I luoghi della codificazione, Einaudi, Torino 1993, pp. 335-382; G. Nencioni, La lìngua di Manzoni, in F. Bruni (a c. di), Storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna 1993; P. Trovato, Il primo Cinquecento, cit.; L. Pizzoli, Spinte all’unificazione linguìstica: fattori linguistici ed extralinguistici, in L. Serianni (a c. di), La lìngua nella storia d ’Italia, Società Dante Ali­ ghieri-Libri Scheiwiller, Roma-Milano 2002, pp. 293-346; R. Tesi, Storia dell’italiano. La lingua moderna e contemporanea, Zanichelli, Bologna 2005. Per la lingua della televisione, del cinema, della canzone e dei giornali si rinvia alla bibliografia del capitolo 6.

2. Formazione e diffusione dell'italiano

3. Italiano e dialetti

Sulla nozione di linguistica esterna (§ 2.1), vedi L. Serianni, Le forze in gioco nella storia linguistica, in P. Trifone (a c. di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Carocci, Roma 2010, pp. 47-77. Sul policentrismo medievale (§ 2.2), vedi la sezione Profilo linguistico dei volgari me­ dievali, che ospita contributi di A. Stella, P. Tomasoni, R. Pellegrini, P. Manni, U. Vignuzzi, R. Coluccia, E. Mattesini, A. Dettori, in L. Serianni e P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. ili: Le altre lingue, Einaudi, Torino 1994, pp. 75-489; R. Casapullo, Il Medioe­ vo, in F. Bruni (a c. di), Storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna 1999; R. Tesi, Storia dell’italiano. La formazione della lingua comune, Zanichelli, Bologna 2007. Sulla lingua dei mercanti e sulla coinè cancelleresca (§ 2.3), vedi A. Stussi, Il mercante medievale e la storia della lingua italiana, in Id., Studi e documenti di storia della lingua ita­ liana e dei dialetti italiani, il Mulino, Bologna 1982, pp. 69-72; M. Tavoni, Il Quattrocento, in F. Bruni (a c. di), Storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna 1992, in particolare i capp. v {La lingua delle cancellerie) e vn {La poesia lirica), rispettivamente alle pp. 47-56 e 85-104.

Tra i manuali di dialettologia, vedi almeno M. Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della Dialettologia italiana, voi. i: Problemi e metodi, Pacini, Pisa 1969; G. Devoto, G. Gia­ comelli, I dialetti delle regioni d ’Italia, Sansoni, Firenze 1971; F. Coco, Introduzione allo studio della dialettologia italiana, Pàtron, Bologna 1977; C. Grassi, A.A. Sobrero, T. Telmon, Fondamenti di dialettologia italiana, Laterza, Roma-Bari 1997; M. Maiden, M. Parry (a c. di), The Dialects ofltaly, Routledge, London-New York 1997; M. Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Laterza, Roma-Bari 2009; F. Fanciullo, Prima lezione di dia­ lettologia, Laterza, Roma-Bari 2015. Riviste di dialettologia: “L’Italia dialettale” (fondata nel 1930 da C. Merlo e attualmente diretta da F. Fanciullo); “Rivista italiana di dialettologia” (fondata nel 1977 e coordinata da F. Foresti). Il principale atlante linguistico è I ’ a is (= K. Jaberg, J. Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Siidschweiz, Ringier, Zofingen 1928­ 1940, 8 voli.). Sui dialetti italiani nel quadro delle lingue romanze, sulla geografia dialettale della pe­ nisola e sulle nozioni di sostrato, isoglossa e area isolata (§§ 3.1-3.3), vedi, oltre ai manuali

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Bibliografia essenziale

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4. Scrìtto e parlato Per un’introduzione generale al problema del parlato e dello scritto (§§ 4.1 e 4.2), vedi G. Nencioni, Parlato-parlato, parlato-scrìtto, parlato-recitato (1976), in Id., Dì scrìtto e di par­ lato. Discorsi linguistici, Zanichelli, Bologna 1983, pp. 126-179; R. Sornicola, Sul parlato, il Mulino, Bologna 1981; M.A.K. Halliday, Lingua parlata e lingua scritta, La Nuova Italia, Firenze 1992 ( la ed, 1985); C. Bazzanella, Le facce del parlare, La Nuova Italia, Firenze 1994; E. Milano, Sul parlato: alcuni itinerari tra testualità e sintassi, in M. Dardano et al. (a c. di), Scritto e parlato, Bulzoni, Roma 2001, pp. 43-63. Sulla grammatica del parlato (§ 4.3), vedi almeno L. Rossi, Scrìtto e parlato, in L. Se­ rianni (a c. di), La lingua nella storia d ’Italia, Società Dante Alighieri-Libri Scheiwiller, Roma-Milano 2002; e L. Serianni, Italiani scrìtti, il Mulino, Bologna 2007 (la ed. 2003). Sulla pragmatica e la teoria degli atti linguistici (§§ 4.4 e 4.5), vedi H.P. Grice, Logica e conversazione (1967), in M. Sbisà (a c. di), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filoso­ fia del linguaggio, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 199-219; S.C. Levinson, La pragmatica, il Mulino, Bologna 1985; A.A. Sobrero, Pragmatica, in Id. (a c. di), Introduzione all’italiano contemporaneo, voi. i: Le strutture, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 403-450. Sul parlato nel quadro delle varietà dell’italiano e sull’italiano contemporaneo (§§ 4.6­ 4.9), vedi il volume di G. Holtus, E. Radtke (a c. di), Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Narr, Tubingen 1985, in particolare i saggi di G. Berruto, Per una caratte­

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rizzazione del parlato: Vitaliano parlato ha un’"altra” grammatica?, pp. 120-153, e di F. Sabatini, L’“italiano dell’uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, pp. 154­ 184 (ma si tengano presenti le obiezioni di A. Castellani, Italiano dell’uso medio o italiano senz’aggettivi?, in “Studi linguistici italiani”, xvn, 1991,,pp. 233-256, e Id., Ancora su... V ita lia n o dell’uso medio” e l’“italiano normale”, ivi, xx, 1994, pp. 123-126); G. Berruto, Sociolinguìstica dell’italiano contemporaneo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1987; G. Nencioni, L ’italiano scrìtto e parlato (1986), in Id., Saggi di lingua antica e moderna, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 235-263; F. Sabatini, Una lingua ritrovata: l ’italiano parlato, in “Studi latini e italiani”, iv, 1990, pp. 215-234; M. Berretta, Il parlato contempora­ neo, in L. Serianni, R Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. n: Scritto e parlato, Einaudi, Torino 1994, pp. 239-270; M. Dardano, Profilo dell’italiano contemporaneo, ivi, pp. 343-430; T. Telmon, Gli italiani regionali contemporanei, in L. Serianni, R Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. in: Le altre lingue, Einaudi, Torino 1994, pp. 597-626; T. De Mauro (a c. di), Come parlano gli italiani, La Nuova Italia, Firenze 1994; P. D’Achille, L’italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna 2003; G. Antonelli, L ’italiano nella società della comunicazione, il Mulino, Bologna 2007; Enciclopedia dell’Italiano (Enclt), diretta da R. Simone, con la collaborazione di G. Berruto, P. D’Achille, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2010. Sulla documentazione nei testi del passato di usi sintattici propri dell’oralità e sui rapporti tra parlato e prosa narrativa otto-novecentesca (§ 4.10), vedi G. Nencioni, Costanza dell’an­ tico nel parlato moderno (1987), in Id., Saggi di lingua antica e moderna, cit., pp. 281-299; P. D’Achille, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lìngua italiana. Analisi di testi dalle Origini al secolo xvm, Bonacci, Roma 1990; E. Testa, Simulazione di parlato. Feno­ meni dell’oralità nelle novelle del Quattro-Cinquecento, Accademia della Crusca, Firenze 1991; R. Simone, Stabilità e instabilità nei caratteri originali dell’italiano, in A.A. Sobrero (a c. di), Introduzione all’italiano contemporaneo, voi. n: La variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 41-100; E. Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Einaudi, To­ rino 1997.

5. Le lingue speciali Sul concetto di lingue speciali e sui problemi connessi allo studio dei tecnicismi (§ 5.1), vedi A.A. Sobrero, Lingue speciali, in Id. (a c. di), Introduzione all’italiano contemporaneo, voi. n: La variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 237-278; M. Cortelazzo, Lingue speciali. La dimensione verticale, Unipress, Padova 1994 ( la ed. 1990); e il recentissimo R. Gualdo, S. Telve, Linguaggi specialistici dell’italiano, Carocci, Roma 2011. Sulla definizione di tecnicismo specifico e di tecnicismo collaterale (§ 5.2), vedi L. Serianni, Italiani scritti, il Mulino, Bologna 2007 ( la ed. 2003). Sulle lingue scientifiche a base matematica (§ 5.3), vedi M. Dardano, 1 linguaggi scientì­ fici, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. n: Scritto e parlato, Einaudi, Torino 1994, pp. 497-557; e F. Casadei, Il lessico nelle strategie di presentazione dell’informazione scientifica: il caso della fisica, in T. De Mauro (a c. di), Studi sul tratta­ mento linguistico dell’informazione scientifica, Bulzoni, Roma 1994, pp. 47-69.

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Sul linguaggio giuridico e burocratico (§ 5.4), vedi B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Einaudi, Torino 2001; e M. Trifone, Il linguaggio burocratico, in P. Trifone (a c. di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Carocci, Roma 2009 (la ed. 2007), pp. 213-240. Sul linguaggio medico (§ 5.5), vedi L. Serianni, Un treno di sintomi, Garzanti, Milano 2005. Sulla lingua dell’informatica (§ 5.6), vedi almeno F. Marri, La lingua dell’informatica, in L. Serianni, P. Trifone (a e. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. n, pp. 617-633. Sulla lingua dell’economia e della finanza (§ 5.7), si può partire da M.T. Zanola, Termi­ nologìa dell’economia e della finanza: prospettive di studio, in Ead. (a c. di), Terminologìe specialistiche e tipologie testuali. Prospettive interlinguistiche, Università Cattolica del Sa­ cro Cuore, Milano 2007, pp. 109-132; e G. Antonelli, L ’italiano nella società della comuni­ cazione, il Mulino, Bologna 2007, pp. 59-68. Sul linguaggio dello sport (§ 5.8), si può vedere C. Giovanardi, Il linguaggio sportivo, in P. Trifone (a c. di), Lingua e identità, cit., pp. 241-268. Sul rapporto tra lingue speciali e lingua comune (§ 5.9), vedi A.A. Sobrero, Lingue spe­ ciali, cit., pp. 237-278. Su tecnicismi e lingua letteraria (§ 5.10), una buona panoramica si trova in M. Dardano, Geschichte der Literatursprache in der Romania: Italienisch, in H. Steger, H.E. Wiegand (a c. di), HandbUcher zur Sprach- und Kommunikationswissenschaft, voi xxm: Romanische Sprachgeschichte, t. n, a c. di G. Ernst et al., Walter de Gruyter, Berlin-New York 2006, pp. 1958-1980; utilissimo anche P. Zublena, L ’inquietante simmetria della lingua. Il linguaggio tecnico-scientifico nella narrativa italiana del Novecento, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009.

6. L’italiano della comunicazione Per una trattazione generale di tutti gli argomenti trattati nel capitolo, si rimanda a G. Anto­ nelli, L ’italiano nella società della comunicazione, il Mulino, Bologna 2007, e a I. Bonomi, A. Masini, S. Morgana (a c. di), La lingua italiana e i mass media, Carocci, Roma 2003. Per il linguaggio giornalistico (§ 6.1), si vedano almeno M. Dardano, Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Roma-Bari 1986; M. Dardano et al., Testi misti, in B. Moretti et al. (a c. di), Linee di tendenza dell’italiano contemporaneo, Bulzoni, Roma 1992; e R. Gualdo, L ’italiano dei giornali, Carocci, Roma 2007. Sull’italiano della politica (§ 6.2), R. Gualdo, Il linguaggio politico, in P. Trifone (a c. di), Lingua e identità, Carocci, Roma 2009, pp. 187-212; M.V. Dell’Anna, R. Gualdo, La faconda Repubblica. La lingua della politica in Italia (1992-2004), Manni, Lecce 2004; M.V. Dell’Anna, Lingua italiana e politica, Carocci, Roma 2010; S. Spina, Openpolitica. Il di­ scorso dei politici italiani nell’era di Twìtter, Franco Angeli, Milano 2012; G. Giansante, Le parole sono importanti. I politici alla prova della comunicazione, Carocci, Roma 2011. Per l’italiano pubblicitario (§ 6.3), si segnalano M. Perugini, La lingua della pubblicità, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. ir: Scritto e parlato, Ei­ naudi, Torino 1994, pp. 599-615; M. Arcangeli, Il linguaggio pubblicitario, Carocci, Roma

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2008; e F. Rossi, Emozioni e retorica in vendita: il linguaggio pubblicitario, in T. Gregory (dir. da), Treccani x x i secolo, voi. n: Comunicare e rappresentare, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2009, pp. 407-416. In generale si veda M. Aprile (a c. di), Lingua e linguaggio dei media, Aracne, Roma 2010. Sull’italiano radiofonico (§ 6.4), vedi Gli italiani trasmessi. La radio, Accademia della Crusca, Firenze 1997; e E. Atzori, La parola alla radio. Il linguaggio dell’informazione ra­ diofonica, Cesati, Firenze 2002. Sul linguaggio della televisione (§ 6.5), vedi almeno E. Mauroni, M. Piotti (a c. di), L’italiano televisivo 1976-2006, Accademia della Crusca, Firenze 2010; M. Aprile, D. de Fazio, La serialità televisiva. Lingua e linguaggio nella fiction italiana e straniera, Congedo, Lecce 2010; G. Alfieri, I. Bonomi (a c. di), Gli italiani del pìccolo schermo. Lingua e stili comunicativi nei generi televisivi, Franco Cesati, Firenze 2008; G. Alfieri, I. Bonomi, Lingua italiana e televisione, Carocci, Roma 2012. Per l’italiano del cinema (§ 6.6.), si può partire da S. Raffaelli, La lingua filmata, Le Let­ tere, Firenze 1992; e da F. Rossi, Il linguaggio cinematografico, Aracne, Roma 2006. Sull’italiano della canzone (§ 6.7), vedi almeno G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, il Mulino, Bologna 2010; Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano 1996; e G. Borgna, L. Serianni (a c. di), La lingua cantata, Garamond, Roma 1994; S. Nobile, Mezzo secolo di canzoni italiane. Una prospettiva so­ ciologica (1960-2010), Carocci, Roma 2012; R. Sottile, Il dialetto nella canzone italiana degli ultimi venti anni, Aracne, Roma 2013; S. Telve, That’s amore! La lingua italiana nella musica leggera straniera, il Mulino, Bologna 2012; C. Cosi, F. Ivaldi, Fabrizio De André. Cantastorie fra parole e musica, Carocci, Roma 2011; M. Bico, M. Guido, Paolo Conte. Un rebus di musica e parole, Carocci, Roma 2011; I. Bonomi, V. Coletti (a c. di), L ’italiano della musica nel mondo, goWare-Accademia della Crusca, 2015. Sull’italiano di Internet e sulla neoepistolarità tecnologica (§§ 6.8-6.10), vedi E. Pistoiesi, Il parlar spedito. L ’italiano di chat, e-mail e sms, Esedra, Padova 2004; e M. Tavosanis, L ’i­ taliano del web, Carocci, Roma 2011; inoltre G. Antonelli, Scrivere e digitare e II linguaggio degli s m s , in T. Gregory (dir. da), Treccani x x i secolo, cit., voi. n, pp. 243-252 e 417-425; G. Fiorentino, Frontiere della scrittura. Lineamenti di web writing, Carocci, Roma 2011; M. Arcangeli, Biografia di una chiocciola. Storia confidenziale di @, Castelvecchi, Roma 2015; Id., Breve storia dì Twitter, Castelvecchi, Roma 2016; R. Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano 2012; M. Prada, L ’italiano in rete. Usi e generi della co­ municazione mediata tecnicamente, Franco Angeli, Milano 2015; S. Spina, Fiumi dì parole. Discorso e grammatica delle conversazioni scritte in Twitter (https://fiumiparole.wordpress. com/2016/06/01/fiumi-di-parole-e-in-libreria/).

7. L’italiano e le altre lingue Sulla nozione di prestito si veda l’agile profilo di M. Aprile, Dalle parole ai dizionari, il Mulino, Bologna 2005, pp. 83-111. Sulla stratigrafia del lessico italiano e sull’evoluzione del concetto di purismo attraverso i secoli (§ 7.1), vedi almeno T. De Mauro, Postfazione al suo Grande dizionario italiano dell’uso, u t e t , Torino 1999, 6 voli., voi. vi, pp. 1163-1183; M.

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lizzazione, politica linguistica, Laterza, Roma-Bari 2012; M.L. Villa, L ’inglese non basta. Una lingua per la società, Bruno Mondadori, Milano 2013; C. Marazzini, A. Petralli (a c. di), La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, ebook pubblicato da goWare-Accademia della Crusca, 2015; G.L. Beccaria, A. Graziosi, Lìngua madre. Italiano e inglese nel mondo globale, il Mulino, Bologna 2015; da vedere anche T. De Mauro, In Euro­ pa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?, Laterza, Roma-Bari 2014. Sull’influsso dello spagnolo (§ 7.6), vedi G.L. Beccaria, Spagnolo e spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Giappichelli, Torino 1968 (rist. anast. 1985); A. D’Agostino, L ’apporto spagnolo, portoghese e catalano, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. in, pp. 791-824; M.G. Adamo, C. Chevalier-Chambet, R. De Felice, Langues-cultures méditerranées en contact, cit. Sull’influenza delle lingue germaniche medievali e sui rapporti tra italiano e tedesco (§ 7.7), vedi M.G. Arcamone, L’elemento germanico antico medievale e moderno (con esclusio­ ne dell’inglese), in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. ni, PP· 751-79°; A. Castellani, Grammatica storica italiana, cit., pp. 29-94; E. Morlicchio, Con­ tatti linguistici: tedesco e Italorània/Alpì orientali, in H. Steger, H.E. Wiegand (a c. di), Handbiicherzur Sprach- und Kommunikationswissenschaft, cit., voi. xxm, 1.11, pp. 1677-1685. .· Sull’influsso di arabo ed ebraico (§ 7.8), vedi M. Mancini, Voci orientali ed esotiche nella lingua italiana, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. m, pp. 825-879; in particolare, sugli arabismi dell’italiano, G.B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, Paideia, Brescia 1972; M. Mancini, L ’esoti­ smo nel lessico italiano, Università degli Studi della Tuscia, Istituto di studi romanzi, Viterbo 1992; L. Pizzoli, Italiano e arabo, in L. Serianni (a c. di), La lingua nella storia d ’Italia, cit., pp. 635-642; M. Mancini, Contatti linguistici: Arabo e Italoromania, in H. Steger, H.E. Wiegand (a c. di), Handbiicher zur Sprach- und Kommunikationswissenschaft, cit., voi. xxm, 1.11, pp. 1639-1648. Sui rapporti tra italiano e lingue esotiche (§ 7.9), vedi almeno E. Banfi, G. Iannàccaro (a c. di), Lo spazio linguistico italiano e le lingue esotiche, Bulzoni, Roma 2006, in particolare i contributi di F. Masini, Rapporti fra spazio linguistico italiano e ambiente cinese, pp. 7-25, S. Nagami, A. Nannini, Italianismi in giapponese, nipponismi in italiano, pp. 117-156, e M. Russo, Gli esotismi di trafila francese e il l e i , pp. 582-603; M. Mancini, Retrodatazioni di nipponismi in italiano, in S. Ferreri (a c. di), Plurilinguismo, multiculturalismo, apprendi­ mento delle lingue. Confronto tra Giappone e Italia, Sette Città, Viterbo 2009, pp. 63-86. Sugli italianismi all’estero (§ 7.10), vedi B. Migliorini, Storia, cit., ad indicem; V. Lo Cascio (a c. di), Lingua e cultura italiana in Europa, Le Monnier, Firenze 1990; I. Baldelli, B.M. Da Rif (a c. di), Lingua e letteratura italiana nel mondo oggi, Leo S. Olschki, Firenze 1991 ; L. Cóveri (a c. di), L ’italiano allo specchio. Aspetti dell’italianismo recente, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; H.W. Haller, Una lingua perduta e ritrovata. L ’italiano degli italo-americani, La Nuova Italia, Firenze 1993; C. Bertoni, Italiano fuori d ’Italia, in A.A. Sobrero (a c. di), Introduzione all’italiano contemporaneo, voi. 11: La variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 411-460; P. Bertini Malgarini, L ’italiano fuori d ’Italia, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. ni, pp. 883-922; L. Serianni (a c. di), La lingua nella storia d ’Italia, cit., cap. “L’italiano all’estero”, pp. 439-470; inoltre, su

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un aspetto specifico di particolare rilievo, G. Folena, L ’italiano come lingua per musica nel Settecento europeo, in Id., L ’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Ei­ naudi, Torino 1983, pp. 219-234; L ’Italia fuori d ’Italia. Tradizione e presenza della lingua e della cultura italiana nel mondo, Atti del convegno (Roma, 7-10 ottobre 2002), Salerno Edi­ trice, Roma 2003; M. Arcangeli, Il lessico sportivo e ricreativo italiano nelle quattro grandi lingue europee (con qualche incursione anche altrove), in “Studi di lessicografia italiana”, xxiv, 2007, pp. 195-248; Dizionario di italianismi in francese, inglese, tedesco, a c. di H. Stammerjohann et al., Accademia della Crusca, Firenze 2008 (con H. Stammerjohann, G. Seymer, L’italiano in Europa: italianismi infrancese, inglese e tedesco, in Firenze e la lingua italiana fra nazione ed Europa, Atti del convegno di studi, Firenze, 27-28 maggio 2004, a c. di N. Maraschio, Firenze University Press, Firenze 2007, pp. 41-55); Italianismi e percorsi dell’italiano nelle lingue latine, Atti del convegno (Treviso, 28 settembre 2007), Fondazione Cassamarca, Treviso 2008; C. Marcato, “Parole e cose migranti” tra Italia e Americhe nella terminologia dell’alimentazione, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010; M. Vedovelli, Storia linguistica dell’emigrazione italiana nel mondo, Carocci, Roma 2011.

8. Parole vecchie e parole nuove Sulle caratteristiche del lessico italiano e sul lessico di base (§ 8.1), vedi almeno M. Dardano, Lessico e semantica, in A.A. Sobrero (a c. di), Introduzione all’italiano contemporaneo, voi. 1: Le strutture, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 291-370; A.M. Thornton, C. Iacobini, Fonti e stratificazione diacronica del lessico di base italiano, in Italica Matritensia, Atti del iv congresso della Società internazionale di linguistica e filologia (Madrid, 27-29 giugno 1997), Cesati, Firenze 1998, pp. 499-515; P. D’Achille, L ’italiano contemporaneo, il Mulino, Bolo­ gna 2010; e M. Aprile, Dalle parole ai dizionari, il Mulino, Bologna 2005. Sulla conservatività dell’italiano (§ 8.2) sempre utile è G. Nencioni, Costanza dell’antico nel parlato moderno, in Id., Saggi di lingua antica e moderna, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 281-299. Sulle caratteristiche lessicali della lingua letteraria e della poesia in particolare e sulla preminenza storica dello scritto sul parlato italiano (§ 8.3), vedi M. Vitale, La questione della lingua, Palumbo, Palermo 1978; e L. Serianni, La lingua poetica italiana, Carocci, Roma 2009; in particolare, sugli aulicismi nella prosa epistolare di Ippolito Nievo cfr. P.V. Mengaldo, L ’epistolario di Nievo. Un’analisi linguistica, il Mulino, Bologna 1987, pp. 223-250. Sul concetto di neologismo e sulle caratteristiche della formazione neologica (§ 8.4), vedi almeno P. D’Achille, Sui neologismi. Memoria del parlante e diacronia del presente, in “Studi di lessicografia italiana”, xi, 1991, pp. 269-322; oltre a G. Adamo, V. Della Valle, voce Neologismo, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, vii Appendice, voi. 11, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2007. Sulla formazione delle parole (§§ 8.5-8.7), vedi G. Antonelli, Suiprefissoidi dell’italiano contemporaneo, in “Studi di lessicografia italiana”, x i i i , 1996, pp. 253-293; M. Grossmann, K. Rainer, La formazione delle parole in italiano, Niemeyer, Tiibingen 2004; M. Dardano, Costruire parole. La morfologia derivativa dell’italiano, il Mulino, Bologna 2009; e P. D’A­ chille, L ’italiano contemporaneo, cit. Sui neologismi d’autore (§ 8.8) ancora fondamentale è

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B. Migliorini, Parole d ’autore. Onomaturgia, Sansoni, Firenze 1975; mentre su onomastica e formazioni deonimiche (§ 8.9 e 8.10), vedi almeno B. Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Leo S. Olschki, Firenze 1968 ( la ed. 1927); G. D’Acunti, I nomi di persona, e A. Zamboni, I nomi di luogo, in L. Serianni e P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. i: Scritto e parlato, Einaudi, Torino 1994, rispettivamente alle pp. 795-857 e 859-878; e P. D’Achille, L ’italiano contemporaneo, cit. Repertori fondamentali in ambito onomastico sono i seguenti: G. Gasca Queirazza et al, Dizionario di toponomastici, u t e t , Torino 1990; A. Rossebastiano, E. Papa, I nomi di persona in Italia, u t e t , Torino 2005, 2 voli.; E. Caffarelli, C. Marcato, I cognomi d ’Italia, u t e t , Torino 2008.

T.F. Borri, rai-eri, Roma 2010; L. Canepari, Manuale di pronuncia italiana, Zanichelli, Bo­ logna 1999 (2a ed.); Id., Il Dipi. Dizionario di pronuncia italiana, Zanichelli, Bologna 1999. Sulla punteggiatura (§ 9.10), vedi F. Serafini, F. Taricco, Punteggiatura, Rizzoli, Milano 2001; L. Serianni, Italiani scritti, il Mulino, Bologna 2007, in particolare cap. 3, “L’allesti­ mento della pagina scritta”, pp. 43-60; B. Mortara Garavelli, Storia della punteggiatura in Europa, Laterza, Roma-Bari 2008; Ead. Prontuario dì punteggiatura, Laterza, Roma-Bari 2010 ( la ed. 2003).

9. Giusto e sbagliato

Sulla lessicografia in generale, sulla storia della lessicografia italiana e sulle strutture del dizionario dell’uso (§§ 10.1, 10.6-10.8), vedi G. Massariello Merzagora, La lessicografia, Zanichelli, Bologna 1983; V. Della Valle, La lessicografia, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, voi. ι: I luoghi della codificazione, Einaudi, Torino 1993, pp. 29-91; C. Marello, Le parole dell’italiano. Lessico e dizionari, Zanichelli, Bologna 1996; M. Aprile, Dalle parole ai dizionari, il Mulino, Bologna 2005; T. De Mauro, La fabbrica delle parole. Il lessico e problemi di lessicologia, utet, Torino 2005; e C. Marazzini, L ’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, il Mulino, Bologna 2009. Sui dizionari storici (§ 10.2), vedi almeno R. Coluccia (a c. di), Riflessioni sulla lessico­ grafia, Congedo, Galatina 1992. Sui dizionari etimologici e in particolare per una descrizione dei metodi e delle forme del l e i (§ 10.3), vedi M. Aprile, Le strutture del lessico etimologico italiano, Congedo, Galatina 2004. Sui dizionari di sinonimi (§ 10.4), vedi L. Serianni, Dizionari di sinonimi vecchi e nuovi, in “Cultura e scuola”, cxxiv, 1992, pp. 47-57; e, più recentemente, C. Marazzini, I diziona­ ri dei sinonimi e il loro uso nella tradizione italiana, in “International Journal of Lexicography”, xvn, 2004, pp. 385-412. Sulla lessicografia neologica (§ 10.5), si può partire da G. Adamo, V. Della Valle, voce Neologismo, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, v i i Appendice, voi. n, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2007. Sui dizionari elettronici, le banche dati in rete e in generale sui nuovi mezzi tecnici a disposizione della lessicografia (§§ 10.9 e 10.10), vedi G. Nencioni, Verso una nuova lessi­ cografia, in “Studi di lessicografia italiana”, v i i , 1985, pp. 5-28; T. De Mauro, I vocabolari ieri e oggi e I vocabolari oggi e domani, in Vocabolario elettronico della lingua italiana, i b m Italia, Milano 1989; e soprattutto W. Schweiclcard (a c. di), Nuovi media e lessicografia storica, Niemeyer, Tiibingen 2006, in particolare F. Marri, Edizioni “virtuali”: tante offerte con molti limiti, pp. 145-163.

Sul concetto di norma linguistica e sulla sua evoluzione diacronica (§ 9.1), vedi B. Migliorini, La norma linguìstica e il gusto (1943), in Id., La lingua italiana nel Novecento, Le Lettere, Firenze 1990, pp. 279-293; E. Coseriu, Sistema norma e parole, in Id., Teoria del linguaggio e linguistica generale, Laterza, Bari 1971, pp. 19-103; L. Serianni, Il problema della norma linguistica dell’italiano, in “Annali della Università per Stranieri di Perugia”, v i i , 1986, pp. 47-69; L. Serianni, La lingua italiana tra norma e uso, in C. Marcilo, G. Mondelli (a c. di), Riflettere sulla lingua, La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 37-52; G. Patota, Ipercorsi gram­ maticali, e N. Maraschio, Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lìngua italiana, voi. ι: I luoghi della codificazione, Einaudi, Torino 1993, rispettivamente alle pp. 93-138 e 139-228; G. Nencioni, Il destino della lingua italiana, Accademia della Crusca, Firenze 1995. Posizioni di dichiarato liberismo normativo ispirano gli interventi del linguista Salvatore Claudio Sgroi, tra i quali ricordiamo Per una grammatica “laica”, u t e t , Torino 2010. Tra le principali grammatiche dell’italiano moderno (§§ 9.2-9.3, 9.6-9.9) segnaliamo A.L. Lepschy, G. Lepschy, La lingua italiana, Bompiani, Milano 1981; L. Serianni, Grammatica italiana, u t e t , Torino 1989; L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza, Roma-Bari 2006; tra i numerosi repertori di dubbi linguistici, vedi almeno G. Nencioni (a c. di), La Crusca risponde, Le Lettere, Firenze 1995, e V. Della Valle, G. Patota, Viva la grammatica!, Sperling & Kupfer, Milano 2015; inoltre, sulla “questione della lingua”, sulla posizione di Manzoni e sulla lingua dei Promessi sposi, vedi M. Vitale, La questione della lingua, Palumbo, Palermo 1978; M. Vitale, La lingua di Alessandro Manzoni, Cisalpino, Milano 1992 (2a ed.); C. Marazzini, Le teorie, in L. Serianni, P. Trifone (a c. di), Storia della lingua italiana, cit., voi. i, pp. 231-329; C. Marazzini, Da Dante alla lingua selvaggia, Carocci, Roma 1999. Per l’ortografia e per il suo peso nell’insegnamento scolastico (§ 9.4), vedi T. De Mauro, Scripta sequentur (a proposito degli “sbagli” di ortografia), in Id., Scuola e linguaggio, Edi­ tori Riuniti, Roma 1977, pp. 55-65; L. Serianni, Il problema della norma linguistica dell’i­ taliano, cit., p. 55, e Id., La lingua italiana tra norma e uso, cit., p. 40; R. Coluccia, Scripta mane(n)t. Studi sulla grafia dell’italiano, Congedo, Galatina 2002. Sulla corretta pronuncia dell’italiano (§ 9.5), vedi A. Camilli, Pronuncia e grafia dell’i­ taliano, 3a ed. riveduta a c. di P. Fiorelli, Sansoni, Firenze 1965; d o p . Dizionario italiano multimediale e multilingue d ’ortografia e di pronunzia, riveduto e aggiornato da P. Fiorelli e

10. Dizionari per ogni esigenza

Indice delle cose notevoli

L’indice non comprende i nomi se non in quanto oggetto di una trattazione specifica, per quanto sommaria, e in ogni caso esclude i nomi degli studiosi contemporanei; delle parole si registrano solo quelle trattate nella rubrica “Storia di parole”. Sono tralasciati i temi espressamente recupe­ rabili dal titolo dei paragrafi. Accademia d’Italia 164 accentazione, accento 222, 226, 227, 230, 231 accordo soggetto-predicato 100 accusativo, sviluppo delle parole italiane dall’a. latino 14 adattati, prestiti (forestierismi) 166, 167; non adattati 168, 258 adiacenti, coppie 94 adstrato 167 aferesi 10 affissazione nei linguaggi scientifici 194 affissoidi vedi prefissoidi; suffissoidi aggettivi verbali in -andò (laureando) 21, 206 aggettivo, uso avverbiale dell’ 129; vedi anche relazione, aggettivi di Alberti, L.B. 33, 225 aldine, edizioni 41 alfabeto fonetico intemazionale 8 Alfredo 218 Alighieri vedi Dante Alighieri allitterazione 211 allonimi 214 allotropi 12 alluce 269 alta disponibilità, vocabolario (lessico) di 196, 261 alterazione 206 alto uso, vocabolario (lessico) di 196, 261 ammenda 138 amnistia 138 amoroso, vocabolario 169 anafonesi 9, 32, 34, 61 anafora (retorica) 143; a. (testuale), anaforico 89, 110, 118 analfabetismo 46, 47, 49, 50, 64 analoghi 253 Andrea da Barberino 43 angelo 27 anglicismi 113, 119, 122, 123, 132, 133, 149, 166, 167, 172, 174, 175, 111, 258; nel lin­

guaggio giuridico 117; medico 119-121; informatico 122-124; economico 124-126; aziendale 126, 127; sportivo 126, 128, 176; pubblicitario 144, 176; radiofonico 146; nel doppiaggio 163; nei dizionari 258, 259 anglolatinismi e anglogrecismi 176 antonimi 253 antonomasia 218, 219 antroponimia 212, 213 aperta, sillaba vedi libera apocope 10, 69 apostrofo 226, 227 Appendix Probi 6 approssimanti vedi semiconsonanti arabismi 119, 178 arcaismi in Michele Mari 198, 199; nei dizio­ nari 258 argenteo, fiorentino 61 argomenti di un verbo 264 Ariosto, L. 42, 213 articolo determinativo 29 asindeto, asindetico 145 assassino 191 assimilazione 11, 71, 73, 75 assoluti, costrutti 117, 118 astrazione, ricerca di a. nel linguaggio giuridi­ co 117 atone, vocali 10; atoni, pronomi 76, 99, 156, 233, 234; vedi anche gli/le atti linguistici vedi illocutivi; locutivi; perlocutivi attimino 102, 106 auliche, forme a. nell’epistolario del Nievo 200 , 201

aura 39, 54 ausiliari, uso degli 234 autarchìa 182, 191 automobile, italianismi nel lessico dell’ 190; automobilistiche, metafore 102 aziendale, linguaggio 96, 125,126, 177

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Indice delle cose notevoli

azione 137 banche dati 266-268 Baretti, G. 174, 196 base, lessico di 196, 255 Basile, G.B. 73 batterio 121,137 Belli, G.G. 75 belliche, immagini b. nel linguaggio sportivo 130 Bembo, P. 40-42, 60, 107, 134, 197, 199, 225, 234 Berchet, G. 200 Berlusconi, S. 142, 143, 257 Bernardino da Siena 24, 43 bilinguismo e diglossia 63, 64 blog 160 Boccaccio, G. 18, 31,35, 36, 39-41,60,61,103, 184,196, 234,247,249, 267 bolgia 37, 54 Bonvesin da la Riva 32, 69, 250 Botta, C. 197 brachilogiche, formule 117 Bresciani, A. 44 burocratico, linguaggio 22, 46, 117, 118, 126, 127, 131, 139, 141 burocrazia 27; grado di tecnificazione nella 110 calata 89, 98, 106 calchi 76, 151, 165, 167, 169, 173, 175, 176, 182, 183; vedi anche semantici, calchi Calvino, I. 136 campano, italiano regionale 76 cancellerie, usi linguistici delle c. nel Quattro­ cento 21, 32 canzone, hngua della 132,151-154 capoverso, uso del 243 Castiglione, B. 40, 198 Castra, canzone del 62 Castro, F. 180 catafora, cataforico 89, 110, 117, 236 catechismo, effetti linguistici della pratica del 43 cerchiobottismo 258, 269 Cesarotti, M. 163 che, usi di 100, 101 Chiari, P. 171 chiesa 244 chimica, codici verbali e logico-simbolici nella 111 chiusa, sillaba vedi implicata

Indice delle cose notevoli

ci, uso di (c[i] ho male ai denti) 96 ciao 106, 107 cifra 206 cinema 150, 151 cinesismi 185 cioè 91, 107 clitici vedi atoni, pronomi coerenza testuale 84, 228 coesione testuale 83, 86, 89, 110, 228 coesivi 89 coinè quattrocentesca 34, 39 collaterali vedi tecnicismi Collodi, C. 49 colloquiale vedi informale commedia dell’arte 45 comparativi sintetici, relitti dei 21 competenza linguistica 63 complementari, sequenze 95 completive, uso dei modi nelle 236, 237 composizione, composti 210; nei linguaggi scientifici 111, 112; nel linguaggio medico 119; in quello sportivo 127, 129; nella hngua comune, per influsso delle lingue speciah 119 computer 122, 137, 138 comunicazione di massa vedi mass media conativa, funzione 86,146 concordanza a senso 103; vedi anche accordo soggetto-predicato condizionale, formazione del 13; siciliano 31 confìssi vedi prefìssoidi; sufflssoidi congiuntivo 99, 149, 155, 229, 236, 237 coniugazioni, ristrutturazione delle c. latine 13 consonanti, classificazione delle 7 consonantici, nessi c. con L 10, 11, 17; con iod 11, 17 consonanza 153 consumo, letteratura di 42-44, 170, 171 contrari vedi antonimi Contrasto di Cielo d’Alcamo 62 controfattuale vedi imperfetto conversazionali, massime 93 corsivo, introduzione del carattere 41 corte, letteratura di 35 cravatta 70, 191, 192 cristiana, semantica vedi religioso, vocabolario Cronica di Anonimo romano 32 Crusca, Accademia della 41, 248; Vocabolario della 42, 200, 248-250, 266 cultismi vedi dotte, parole cumulo, paradigma a 204, 205

D’Annunzio, G. 54, 182, 186, 202, 242, 269 Dante Alighieri 16, 18, 31, 35-41, 54, 59, 61, 134, 169, 241, 245, 247, 250, 268, 270 dato/nuovo 91 De Amicis, E. 49 deagentivizzazione 110 deaggettivali 117, 205-208 declinazioni, perdita delle d. latine 12 definitòri in lessicografia 261 deitticità, deittico 89, 90, 157 denominali 128, 205-209 deonimici, deonomastica 216, 217 derivati, derivazione 106, 115, 122, 128, 203­ 205, 208, 209; vedi anche prefissi; prefissoidi; suffissi desco 17, 27 destra vedi dislocazione a determinante/determinato 134 deverbali 117, 206, 208 diacronia 5 diafasia, diafasico 5, 96, 97 dialetto 80; atteggiamenti attuali nei confronti del 96; distinzione tra d. e hngua 58; dialetti itahani secondo Dante 59; uso del d. nell’I­ talia contemporanea 63, 64; nel cinema 62, 63; nella narrativa 65; nella canzone 72; tra i giovani 65 dialettofonia 63; vedi anche italofonia dialogico, parlato 93; dialogo 107 diamesia, diamesico 5, 97, 221 diastratia, diastratico 5, 96-98 diatopia, diatopico 5, 96-98 diegesi 105 digitato, italiano 154-156 diglossia vedi bilinguismo e diglossia diminutivi, frequenza dei d. nel latino volgare 15; nel parlato 97 dimostrativi vedi pronomi diretto vedi discorso, tipi di diritto, tecnificazione nel 110; paralleli tra hn­ gua e 221 discorsivi, segnali 90, 101, 141, 157 discorso, tipi di 239, 240 dislocazione 100; a sinistra 100, 104, 149; a destra 100 dissimilazione 11 distintivo, valore 9 dittongamento 9, 34, 61, 68, 70, 72; mancanza di d. in siciliano 31; d. metafonetico 73 dizionari 247-266; bilingui 174; come fonte del buon uso linguistico 223

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doppiaggio, italiano del 51,151, 176 dotte, parole vedi latinismi due punti, uso dei 242 ebraismi 182 economia, grado di tecnificazione nell’ 110; linguaggio dell’ 124-126; ricaduta nel lin­ guaggio comune 131; influenza deh’e. nel linguaggio politico 141 editoriale, caratteristiche linguistiche dell’ 139 educazione linguistica 49 egli, ella 223-225; vedi anche lui, lei, loro sog­ getti elisione 226 e-mail 155-159 emotiva, funzione 146 enclitico, uso e. dei pronomi atoni 235 epentesi 10 epitesi 10 eponimi 120 Equicola, M. 40 errore, nozione di 221, 222 esotiche, voci e. mediate dalle lingue iberiche 178, 179; esotismi 183, 184; vedi anche ci­ nesismi; giapponesismi; russismi espressionismo linguistico 104, 105; espressi­ vità lessicale 15; metaforica 16; nel linguag­ gio sportivo 128, 129; nell’italiano di Inter­ net 157,160 etichetta 178, 179 etrusco, influssi dell’e. sul latino 1; toponimi di etimo 214, 215 eufemismo nel linguaggio burocratico 118; nel linguaggio medico 120 fàtica, funzione 86, 146, 157 feedback 83 femminili professionali, nomi 233 fiasco 244 fidenziano 20 finanza vedi economia fiorentino popolare ottocentesco 71 fisica, uso del volgare nei testi di 23 Fiorio, J. 174 Folengo, T. 19 fondamentale, vocabolario (lessico) 196, 261 fonetici, prestiti 166 forestierismi nei dialetti 79 Francesco d’Assisi 31, 54, 213, 267 francesismi 168-173; medievali 30, 37, 39 franchi, prestiti 181

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frase scissa 100, 170 frequentativi, verbi 15 friulano, italiano regionale 76 funzioni linguistiche 85 futuro anteriore 99; futuro sintetico latino, per­ dita del 13 Gadda, C.E. 136,198 Galilei, G. 23, 112, 113 gallomania, satira della 170 Garcia Màrquez, G. 180 gas 218 gastronomico, lessico 77, 170, 173, 186, 188, 189 Gelli, G. 26 genere grammaticale 232-234 geometria, immagini tratte dalla g. nel linguag­ gio politico 141 gergo, nell’inglese informatico 122, 123; nella “neoepistolarità tecnologica” 156-519 germaniSmi medievali 180-182; germanica, to­ ponimi di origine 215 gestualità 88 giapponesismi 185-187 giornali 51; giornalistico, linguaggio 100, 202, 203 giovanile, linguaggio 66, 102, 160 giuridico, lessico (linguaggio) 21, 34, 116-118 gli/le 96, 99, 233; gli/loro 235 Goldoni, C. 45, 103, 104 gorgia toscana 70, 71, 80, 98 goti, prestiti 181 grafie usate nell’italiano di Internet 157, 158 grammaticali, repertori 225 grammatiche d’italiano in inglese 174; come fonte del buon uso linguistico 225 grecismi nei linguaggi scientifici 112, 115; nel linguaggio medico 119, 231 greco, influssi del g. sul latino 2, 3 Grice, H.P. 93 valori della vocale 229, 230 idrogeno 211, 218 idronimi 214 illocutivi, atti 92 imperativo tragico 201 imperfetto indicativo, espansione attuale dell’ 99; 1“ persona dell’i. (amava/amavo) 61; i. irreale 236 implicata, sillaba 9 indessicalità vedi deitticità

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indiretto, indiretto libero vedi discorso, tipi di indoeuropee, lingue 1, 2 indulto 117, 138 industrializzazione 46 informale, italiano 96, 98, 99 informatica,, linguaggio dell’ 122-124; ricaduta nel linguaggio comune 131; anglicismi nel linguaggio dell’ 176; risorse dell’i. in lessi­ cografia 265, 266 inglese, uso dell’i. nei linguaggi scientifici 113, 114 inglesorum 143 integrali, prestiti 166 intensivo, pronome (mi fumo una sigaretta) 99 interpuntivi, segni 41 interrogativa retorica 144, 145; interrogative totali e parziali 238 intonazione 88; vedi anche calata Invernizio, C. 44 inversi 253 , iod 7, 11, 17 ipa vedi alfabeto fonetico internazionale ipercorrettismo 75 ipocoristici 214 isolate, aree 60 Itala 24, 25 , italianismi in altre lingue 50, 187-190 italianizzazione dei dialetti 78, 79; delle parole straniere 163, 164 italiano, circolazione dell’i. nella Chiesa catto­ lica 26 italofonia 64, 199 Itinerarium Egeriae 6 Jacopone da Todi 32, 54 Jakobson, R. 85 lanzichenecco 182, 192 laterali incassate, sequenze 95 latine, espressioni 1. nel linguaggio giuridico 22, 23; in quello cancelleresco 34 latinismi 3, 16-18, 20-23, 34, 37, 112, 117, 119, 140, 231; nei linguaggi scientifici 112, 114, 115; nel linguaggio giuridico 116, 117; in quello medico 119-121 latino classico 3, 4; uso del 1. nell’insegnamen­ to 24 lauda 54 le/gli vedi gli/le lemmario 252 lenizione 58, 67, 76

Leopardi, G. 102, 234, 250 lessicali, prestiti 166 letteratura dialettale riflessa 62 letteratura, presenza delle lingue speciali nella 134-136 leva militare, conseguenze linguistiche della 46 libera, sillaba 9, 70 locutivi, atti 92 logo 54, 55 longobarda, effetti linguistici della dominazio­ ne 57; longobardi, prestiti 181 loro vedi gli/loro ludica, funzione 154 lui, lei, loro soggetti 61,225; vedi anche egli, ella luogo, nomi di vedi toponomastica lusso, prestiti di 165 macaronica, poesia 19, 24 macchina 203, 218, 219 macedonia, parole 210 Machiavelli, N. 40, 41, 163, 174 mafia 49, 55 Magalotti, L. 137, 174, 178 magone 181, 192 malapropismi 227 manager 107, 108 manovra 141, 161 Manuzio, A. 41 Manzoni, A. 18, 31, 47,48, 107, 202, 225, 235, 248, 264 Marco Polo vedi Polo, M. Mari, M. 198 marinaresco, lessico 161, 187 mass media 51, 55 Mastriani, F. 44 metaplasmo 76 matematica, uso del volgare nei testi di 23; alto grado di tecnificazione nella 110, 114, 116 medicina, linguaggio della 119-121; uso del volgare nei testi di 23; alto grado di tecni­ ficazione nella 110; ricaduta nel linguaggio comune 131; termini della m. nel linguaggio politico 141; francesismi nel linguaggio del­ la 172 melodramma, lingua del 45 Memoriali bolognesi 37 Meneghello, L. 79 mercanti medievali, pratica della scrittura dei 32, 33 mescidati, sermoni 24 metafonesi 68, 70, 72

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metafora 16, 43, 128, 134, 139, 152 metalinguistica, funzione 86 metonimia 21, 27 Migliorini, B. 163, 165, 192, 210, 256 militare, linguaggio (lessico) 169, 178 misti, testi 139, 140 moda, francesismi nel lessico della 173; italia­ nismi della 189 monologico, parlato 85 monosemia/polisemia 110 monottongamento di au 9 morfologici, latinismi 17; prestiti 166 morfosintattici, errori 227 mostruoso 108 multa 138 musica leggera vedi canzone, lingua della musica, anglicismi nel linguaggio della 176; musicale, lessico 188 napoletano, dialetto n. nel Basile 73; napoleta­ nismi in fina soap opera 149 necessità, prestiti di 165 Nencia da Barberino 62 Nencioni, G. 197, 266 neoislamismi 183 neologismo 201-203, 256, 257 neoneutro 70 neopurismo 164 neutro, scomparsa del 13 Nievo, I. 200, 237 nome, potenziamento del n. rispetto al verbo 110, 120

nominali, frasi vedi nome nominativo, relitti del n. latino 14 nuovo vedi dato/nuovo occasionalismi 203, 256 omofonica, collisione 16 on line, quotidiani 143 oronimi 214 ortoepici, errori 227 ortografici, errori 226; dubbi 228 osco-umbro, influssi sul latino dell’ 1; toponi­ mi di etimo 215 ossigeno 218 Panzini, A. 192, 218, 256 paparazzo 151, 161-162 parasintetici, verbi 209 parlato, simulazione letteraria del 103, 104; ricerca del p. nei giornali 141; riproduzione

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del p. spontaneo nella radio 146, 147; e nella televisione 147-149; parlato serio semplice 148; nel cinema 150, 151 Pascoli, G. 50, 136, 212, 233 Pasolini, P.P. 62, 150 passato remoto/passato prossimo 99 passivo, perdita del p. latino 13; uso del p. nel linguaggio medico 120, 121; in quello eco­ nomico 124-126 pause, funzione linguistica delle 88 performativi, verbi (enunciati) 92 perlocutivi, atti 92 personali vedi pronomi Petrarca, F. 18, 19, 31, 35, 36, 39, 40, 41, 54, 50, 64, 236, 247, 248, 267 Piazza, A. 44, 171 piedipiatti 210, 219 pigiama 232, 244 Pirandello, L. 136 pizza 189, 192 pizzo 79, 80 placito campano 21, 22 poetica, funzione 86 poetismi tradizionali nella poesia del Novecen­ to 200 poiché, uso di 227 policentrismo 30 polifìlesco 19, 20 poliptoto temporale 143 polirematiche, unità 210, 255 polisemia vedi monosemia/polisemia polisindeto vedi asindeto politica, linguaggio della 141-143 Polo, M. 43, 184 pompeiani, graffiti 6 portoghesismi 178-180 posta elettronica, calchi e anglicismi nella 123 postoniche, vocali vedi atone, vocali pragmatica 92, 94 predicazione, lingua della 24, 43, 236 prefìssi 205-209 prefissoidi 209 prestiti 163-168; vedi anche anglicismi; ara­ bismi; cinesismi; francesismi; germaniSmi medievali; giapponesismi; portoghesismi; provenzalismi; russismi; spagnolismi; tedeschismi presupposizione 90 produttività linguistica 13 pronomi 233-235

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prossemica 87, 88 prostesi 10 protoniche, vocali vedi atone, vocali provenzalismi 169 p r t 94 , pseudoitalianismi 189, 190 pseudonimi 214 psicanalisi, linguaggio della 102, 132 pubblicità 52; pubblicitario, linguaggio 144­ 146; anglicismi nella 176 Pulci, L. 247 punto di rilevanza transizionale vedi p r t punto e virgola, uso del 241 punto fermo, fortuna del 242 purismo, puristi 163 quantità vocalica 9 questione della lingua 40-42 quiz 149, 162 r uvulare 168 radio 51 radio, italiano della 146, 147 ragione 27, 28 referenziale, funzione 86 reggenze sintattiche 25, 264 regionale, italiano 63, 74-77, 96, 98, 150, 228, 234 regionalismi nei dizionari 257, 258 regista 165,192 relativi vedi pronomi relazione, aggettivi di 17, 120, 121 religioso, vocabolario 3, 16 rema vedi tema/rema rete 138 ricostruzione linguistica 8 rilatinizzazione 17 rima 152, 154 riportato vedi discorso, tipi di risemantizzazione vedi tecnifìcazione romanesco, nel cinema 63; ipercorrettismi nel r. belliano 75 romanzo 55, 56 rubrica 244, 245 russismi 186 Ruzante (A. Beolco detto il) 62 s sonora intervocalica, generalizzazione nella pronuncia attuale della 98 Salgàri, E. 184 Salviati, L. 18, 41, 42, 248

Sansovino, F. 248 Sanudo, M. 250 Satyricon 8 scacco matto 183, 193 scempiamento delle geminate 58; scempie e doppie, consonanti 228 sceriffo 193 schwa vedi vocali indistinte scientifici, uso del volgare nei testi vedi fisica; matematica; medicina sciocco 269 scissa vedi frase scissa scrittura, influenza sul parlato della 89, 90 Scroffa, C. vedi fidenziano scuola elementare 197, 225 scuola poetica siciliana 31 secondino 80, 81 semantici, calchi 169, 183 semiconsonanti (semivocali) 7 settentrionaleggiante, prestigio dell’italiano 98 settoriale, linguaggio 110, 115, 141 sicilianismi in rima (nui) 31 ; poetici 37 ; sicilia­ no, italiano regionale 77 sigle nei linguaggi scientifici 115; nel linguag­ gio medico 119, 120; in quello informatico 122, 123 sincope 10 sinistra vedi dislocazione a sinonimi 253-256 sintattici, prestiti 165, 170 sm s 98, 140, 154-158 soggetto, obbligo di posposizione del 101 sonorizzazione 10; vedi anche lenizione soprannomi altisonanti nel linguaggio sportivo 129 soprasegmentali, tratti 88 sostrato 57, 167, 253 spagnolismi 178-180 spirantizzazione 10, 17,70,72 spontaneo, parlato 85-87, 146 sport 193 sportivo, linguaggio 127-130; usato nel lin­ guaggio politico 142; ricaduta nel linguaggio comune 131; anglicismi nel 175, 176 standard, italiano 98 stile semplice 105 subordinante generico vedi che

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suffissi 205-209 suffissoidi 209 superstrato 167, 168, 181, 215, 253 tachigrafia 158 Tasso, T. 18,27, 145,213,222 tecnicismi specifici 111, 114, 117, 118, 121, 149; collaterali 111, 118,120, 121, 130 tecnico-scientifico, linguaggio 96, 251, 261, 262 tecnifìcazione 110, 112, 114-116, 127 tedeschismi 182 televisione 46, 51-53, 64, 131, 140, 141, 147, 148, 199 tema/rema 91, 236, 239; tema libero 100 tesoro 270 testa 28 Tommaseo, N. 250, 254 topicalizzazione contrastiva 100 toponomastica, toponimi 184, 213-215 transfert (in linguistica) 115, 116 Trissino, G.G. 40 trobadorica, lirica 169 turpiloquio 97, 102, 141, 146, 160 urbanizzazione 46, 150 Varchi, B. 41, 192 variazione linguistica 5 veneto, italiano regionale 74 ventaglio, paradigma a 204 verismo 108 Verri, A. 174 Verri, P. 174 virgola, uso della 240, 241 virgolette alte e basse 243 vocali, classificazione delle 7; v. indistinte 72 Vulgata di san Girolamo 24 wau 7 xenolatinismi e xenogrecismi 177 Zannoni, G.B. 71 Zanzotto, A. 135, 136 zero 191 zucchero 61,81

Indice delle illustrazioni

ILLUSTRAZIONI

Fig. 1. L’attuale diffusione delle lingue indoeuropee nel mondo 2 Fig. 2. La Romania, ovvero l’area in cui si parlano le lingue romanze (o neolatine) 4 Fig. 3. L’Italia dei dialetti 59 Fig. 4. Le isoglosse che compongono le linee La Spezia-Rimini e Roma-Ancona 65 Fig. 5. Il vocalismo siciliano 72 Fig. 6. Le parole dialettali entrate in italiano 78 Fig. 7. Le basi azotate della molecola del d n a 111 Fig. 8. La visualizzazione a schermo della homepage del Corriere.it 143 Fig. 9. Una pagina dello Zingarelli 2001. Vocabolario della lingua italiana 224 Fig. 10. Π frontespizio della prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca 249 Fig. 11. Una pagina di G. Adamo, V. Della Valle, Neologismi: Parole nuove dai giornali 260 Fig. 12. Alcuni lemmi tratti àrà\VAppendice del g r a d it dedicata alle Nuove parole italiane dell'uso 262 Tab. 1. Le ultime inchieste i s t a t sull’uso di italiano e dialetto 65